La democrazia dei beni comuni 8858105230, 9788858105238

Il volume analizza la dimensione dell'effettività del diritto pubblico, intesa non soltanto come complesso di princ

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La democrazia dei beni comuni
 8858105230, 9788858105238

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Libri del Tempo Laterza 470

Alberto Lucarelli

La democrazia dei beni comuni Nuove frontiere del diritto pubblico

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione febbraio 2013 1

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Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0523-8

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

alla generazione futura Francesco, Pietro e Kolia

Introduzione

Al lettore subito una precisazione: non rientra nel piano e nell’economia del testo l’analisi storico-diacronica della genesi e dell’evoluzione del diritto pubblico, né una puntuale ricostruzione dell’analisi delle idee che hanno contrassegnato e tracciato le grandi linee del diritto pubblico tra il XIX e il XX secolo. Tuttavia, al fine di comprendere l’attuale crisi, o quanto meno le trasformazioni del diritto pubblico, nella sua funzione ordinatrice dei rapporti tra Stato e cittadino, sembra necessario oggi individuare i punti e i passaggi che si ritengono più significativi. L’analisi delle modifiche strutturali e funzionali del diritto pubblico e il suo atteggiarsi rispetto alle dinamiche economicosociali e ai flussi e alle energie di gruppi, movimenti, associazioni, reti, porterà l’indagine in corso ad una costante interrelazione con la nascita, l’evoluzione e l’involuzione dello Stato sociale, come forma avanzata e democratica dello Stato di diritto (S. Romano, 1969, ed. or. 1910). Tuttavia, l’intento del lavoro è ben lontano da una ricostruzione e/o un’analisi dello Stato sociale o dal tracciare i percorsi del diritto pubblico nello Stato moderno o post-moderno. Non c’è nel lavoro un obiettivo così ambizioso e impegnativo. È evidente, in ogni caso, che la dimensione sociale del diritto pubblico, soprattutto quella che prende forma da Weimar in poi, costituisce e costituirà una delle basi portanti dello Stato sociale (C. Schmitt, 1984) e pertanto della nostra indagine. La lettura dei processi evolutivi sarà tesa a ricercare lo spirito più «profondo» del diritto pubblico, la sua funzione, il suo co­VII

stante movimento, come un pendolo, tra autorità, libertà, eguaglianza e partecipazione, attraverso il suo compito primario, ovvero l’interpretazione delle dinamiche sociali e la promozione di un «ordine» fondato sulla giustizia sociale e la democrazia sostanziale (N. Bobbio, 1995). L’intento sarà quello di osservare e analizzare la dimensione dell’effettività del diritto pubblico, intesa non soltanto come complesso di principi e regole, entrambi di natura prescrittiva, ma anche quale contenitore ed espressione di eventi e decisioni meta-giuridiche e di fenomeni socio-economici capaci di incidere direttamente sui diritti dei cittadini, espressione della forza e dell’arroganza delle classi dominanti. Un diritto pubblico capace anche di confrontarsi e fronteggiare decisioni provenienti da organismi privi di investitura popolare – espressione di potere e forze economico-finanziarie – in grado di creare diritto, la cui forza giuridica eversiva non deriva dalla forza giuridica di regole precedenti. Come è noto, la decisione può scaturire da esigenze poste ed espresse dalle classi dominanti, dal «disordine concreto», rappresentando comunque una dimensione dell’effettività del diritto pubblico con la quale confrontarsi (C. Schmitt, 1996). Ciò non significa attribuire dimensione politica al principio di effettività (U. Scarpelli, 1997), quanto piuttosto immaginare che esistano modelli differenziati di effettività e quindi modelli differenziati di diritto che occorre comprendere per poterli fronteggiare con razionalità (A. Catania, 2005). L’indagine si sviluppa attraverso i contributi teorici più significativi del XIX e XX secolo, e attraverso l’analisi delle idee e dell’evoluzione dei processi normativi – si pensi alla straordinaria stagione delle Costituzioni europee successive alla prima guerra mondiale –, tentando di evidenziare le varie dimensioni del diritto pubblico: politica, amministrativa, sociale. Si cercherà di delineare quali possano essere gli strumenti e le categorie giuridiche per uscire dalla crisi della dimensione sociale del diritto, e dalla sua impotenza, così come declinata, e raggiungere gli obiettivi della democrazia sostanziale. In particolare, ci si soffermerà su una re-interpretazione del rapporto pubblico-privato e delle variegate istanze (dimensioni) parteci­VIII

pative, attraverso un ri-posizionamento (rectius, destrutturazione) democratico del rapporto autorità (sovranità)-beni-diritti. L’insorgere spontaneo e disordinato di nuove categorie, quali i beni comuni e la democrazia partecipativa, ci impongono di uscire dalle strettoie dell’ideologia sovranità-proprietà e soprattutto richiedono una diversa lettura dei rapporti intercorrenti tra soggetti e beni, e tra beni e diritti. Per dirla in maniera più diretta, tali categorie spostano l’asse della democrazia sostanziale dal rapporto dominus-bene al rapporto bene (materiale e immateriale)-fasce d’utilità. La forma tridimensionale del diritto pubblico, funzionale, seppur nella sua complessità, all’attuazione dello Stato sociale, risulta soggetta a trasformazione attraverso la determinazione di nuovi principi, regole, decisioni, esigenze e pratiche sociali, soprattutto in quanto finanziariamente condizionata. Da qui, l’esigenza di una nuova forma del diritto pubblico per raggiungere effettivamente gli obiettivi della democrazia sostanziale, senza essere costretti a parlare, in modo ambizioso, di nuovi modelli democratici. In questo stato permanente di mutabilità si è pensato tuttavia d’individuare un centro di riferimento, un universo con un centro e non una galassia espressione dell’infinito. Si è pensato di valutare i mutamenti in corso rispetto ai principi costituzionali, non considerandoli feticci immutabili bensì punti di riferimento e di approdo (mai definitivi) del processo democratico dello Stato di diritto e sociale. Ciò, anche nella considerazione che molti dei principi costituzionali, pur rappresentando la positivizzazione di diversi contenuti morali, affermati dal diritto naturale, hanno di fatto ceduto il posto a decisioni, regole e comportamenti contingenti dai contenuti regressivi e anti-democratici. L’indagine intende evidenziare il passaggio da un diritto pubblico verticistico, organicistico, pan-privatistico, fondato sulla rappresentanza, teso ad affrontare e risolvere tutte le questioni all’interno del rapporto Stato-individuo, in una dimensione unicamente politico-costituzionale (successivamente gestionale-amministrativa), ad un diritto pubblico che si articola nella comunità e che cerca, pur nel rispetto del diritto privato ­IX

che regola i corpi sociali (W. Cesarini Sforza, 1963), la sua ragione più profonda proprio nelle dinamiche sociali, nelle finalità di carattere generale, quali elementi informatori permanenti delle politiche pubbliche. La chiave di lettura delle tre dimensioni, dei loro successi, delle loro sconfitte, delle loro patologie, è ovviamente condotta con metodo giuridico, con tutti i limiti che un’analisi del genere porta con sé. Nel primo capitolo ci si pone l’obiettivo di enucleare e circoscrivere le tre dimensioni del diritto pubblico (politica, amministrativa e sociale) e di evidenziare il loro grado di interrelazione con l’evoluzione della forma di Stato e con il differente e mutevole atteggiarsi dei rapporti tra Stato-apparato e Statocomunità. Il conflitto sociale e la lotta per i diritti, l’eguaglianza sostanziale e il principio di effettività rappresentano le categorie giuridiche che maggiormente hanno contribuito all’insorgere della dimensione tridimensionale del diritto pubblico, trasformando la pubblica amministrazione, prima del suo attuale disarmo, da mera esecutrice della volontà legislativa a soggetto attivo nei processi sociali di trasformazione e di erogazione di servizi. Categorie che hanno contribuito all’affermazione di un diritto pubblico tridimensionale fondato sui diritti civili e politici, i diritti di partecipazione, i diritti sociali, sull’escludente e chiusa nozione di cittadinanza e soprattutto sui principi della rappresentanza e della sovranità popolare. La tridimensionalità entra in crisi nel momento in cui, oltre alla componente sociale, irrompe la componente comune (M. Hardt, A. Negri, 2010) che delinea un nuovo collegamento tra beni comuni e partecipazione; in particolare, quando dalle pratiche sociali si sviluppa progressivamente un’insoddisfazione verso la democrazia della delega, della rappresentanza e dei partiti, allorquando ha inizio il processo di demistificazione e destrutturazione della nozione di sovranità popolare. Nei capitoli secondo e terzo si tenterà di dimostrare la trasformazione (rectius, crisi) del diritto pubblico sociale, e come la tridimensionalità del diritto pubblico (politica, amministrativa e sociale), armonica rispetto al dettato costituzionale, non ­X

sia riuscita a impedire l’introduzione di un coacervo di norme che ne hanno reciso le radici, riproponendo talvolta una visione autoritaria della dimensione politico-costituzionale, incentrata sulla sicurezza e sulla tutela della proprietà, da una parte, e sull’anarchica libertà d’impresa, dall’altra. Un diritto pubblico sociale che non è riuscito ad impedire che determinate politiche pubbliche, incentrate sul valore assoluto della sicurezza e dei mercati, trasformassero lo Stato di diritto in Stato di polizia e in un modello tendenzialmente libertario. Nel quarto capitolo, quale reazione ad un diritto pubblico sociale sempre più distante dalla società e dalla cittadinanza attiva e sempre più assorbito dallo Stato, quale permanente contaminazione pubblico-privato, si evidenzierà l’emersione di nuove categorie quali i beni comuni e la democrazia partecipativa, categorie fondative di una quarta dimensione del diritto pubblico, nella quale si rivoluzionano i rapporti tra pubblico e privato, i modelli di gestione dei beni e servizi pubblici e i processi decisionali. Si delinea infatti, in contrapposizione alla Repubblica della proprietà, la democrazia del comune, oltre la delega e il binomio sovranità-proprietà. Il quinto capitolo riguarda, invece, i modelli primordiali del nascente diritto pubblico europeo che, attraverso le sempre maggiori spinte di erosione della sovranità statuale, esercitano una forte e, a volte, indebita incidenza sul diritto pubblico interno. Il diritto europeo, attraverso procedure normalmente asettiche, estranee alle dimensioni classiche della democrazia (rappresentativa, diretta, partecipativa, di prossimità), ai conflitti sociali, agli antagonismi e alle istanze partecipative, in real­ tà modella e plasma dall’alto le politiche pubbliche interne. Ridotto o pressoché inesistente, infatti, è il tasso di partecipazione politico-sociale all’interno dell’Unione europea: un diritto pubblico europeo che ha subito l’invasività di organismi internazionali non rappresentativi, quali il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione mondiale del commercio, e di gruppi di interesse gravitanti intorno alle multinazionali. Una forma che potremmo definire del diritto pubblico europeo dell’economia, caratterizzata da un neo-contrattualismo o da un ­XI

liberal contractualism, svincolato dai principi, che si snoda in un groviglio di regole semi-pubbliche. Una concezione di regole che ruoterebbe around the law in una realtà che precede la legge e a volte la ignora. Una concezione che contribuisce al disarmo delle istituzioni pubbliche, o meglio dell’atto pubblico, tesa ad osteggiare la formazione e l’insorgere di una forma diversa del diritto pubblico europeo dell’economia più vicina ai costituzionalismi dello Stato contemporaneo. Un modello che si esprime attraverso atti di soft law, che si concretizzano in agreements siglati all’avvio della politica, che costituiscono il riferimento per ulteriori iniziative di soft law. Un modello, dunque, leggero, insofferente a principi e regole, che si snoda su parametri distinti dal principio di rappresentanza e della responsabilità politica, nel quale il corpus tecnocratico e lobbistico acquista nel corso del processo decisionale un primato assoluto. Si tratta di una forma del diritto pubblico che – come vedremo – è stata negli ultimi anni ben recepita dal diritto interno, anzi potremmo dire che il più delle volte tale forma sia stata utilizzata in chiave strumentale, per determinare e attuare politiche pubbliche volte allo smantellamento delle istituzioni pubbliche e alle relative responsabilità nel governo e nella gestione dei servizi pubblici; per agevolare falsi processi di liberalizzazione, che hanno mal celato la volontà di realizzare oligopoli e/o monopoli privati ed oscuri processi di privatizzazione (si pensi alla recente normativa sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali, abrogata con referendum del 12 e 13 giugno 2011). Un utilizzo ipocrita e strumentale del diritto europeo, volto a nascondere il processo di svendita del patrimonio pubblico (F. Merusi, 2002). A tale forma del diritto pubblico europeo dell’economia se ne contrappone un’altra, un modello che si può definire pubblicistico, il quale si snoda attraverso un quadro di principi nel cui ambito si determinano le politiche pubbliche che esprimono le regole. Tale modello si contrappone a modelli collaborativi di agreement e di soft law proponendo, all’interno di principi e regole, uno spazio pubblico europeo ordinato. Il modello pubblicistico si contrappone a quel modello nel quale gli atti di soft law non poggiano, ­XII

come si è detto, né sul carattere vincolante né sulla giustiziabilità, ma sulla circostanza che creano un’aspettativa di conformità ad essi delle prestazioni dei singoli Stati membri. Tuttavia, il modello pubblicistico, per accelerare e valorizzare il processo di integrazione europeo, senza sacrificare i diritti sociali a vantaggio delle libertà individuali, va ripensato. O, meglio, rafforzato. Non appare sufficiente il riconoscimento – peraltro debole – nella Carta europea, dei diritti sociali, né il richiamo alle tradizioni comuni delle Costituzioni europee; occorre fondare le politiche pubbliche intorno a nuovi principi in grado di fronteggiare e reagire a modelli privatistici e neo-contrattualistici di gestione della cosa pubblica. È necessario porre le basi per uno Statuto europeo dei beni comuni, che parta da iniziative partecipate e poste dalla cittadinanza attiva. Parallelamente alla costruzione di una nuova forma del diritto pubblico, che vada oltre quella sociale, che ha ben costituito il supporto alla costruzione dello Stato sociale, ma che adesso sembra inadatta al nuovo scenario, occorre ripensare il modello pubblicistico europeo. Non appare sufficiente difendere le conquiste dello Stato sociale, occorre immaginare una forma del diritto pubblico europeo dell’economia, incidente sugli ordinamenti interni, che ponga al centro della propria azione il governo e la gestione dei beni comuni e dei beni ad alta valenza sociale, ovvero di tutti quei beni strettamente connessi alla tutela dei diritti fondamentali e all’erogazione dei servizi pubblici essenziali. Tale azione, corroborata dalla necessaria e indispensabile linfa della partecipazione, dovrà ruotare intorno al principio della coesione economico-sociale e territoriale; occorrerà ridare dignità a tale principio, farlo uscire dalle pastoie burocratiche organizzative, che lo vincolano agli «assalti alla diligenza» dei fondi strutturali, e porlo come principio ispiratore di politiche pubbliche. Un principio che nello spazio pubblico europeo dovrà rappresentare l’equivalente del principio di eguaglianza sostanziale, e che potrà essere ottenuto soltanto attraverso un serio ripensamento della forma partito, e, in senso più ampio, della partecipazione politica dei cittadini e dei territori. ­XIII

La democrazia dei beni comuni Nuove frontiere del diritto pubblico

I

Le tre dimensioni del diritto pubblico

1. Il diritto pubblico nei processi evolutivi del liberalismo autoritario: organizzazione del potere e tutela delle libertà individuali Nell’ambito della natura tipica del liberalismo, che caratterizza la seconda parte del XIX secolo, la funzione del diritto pubblico, secondo un’ipocrita logica di democrazia formale, era sostanzialmente finalizzata a regolare l’organizzazione dello Stato e a tutelare le libertà individuali della borghesia, in particolare quelle riconducibili alla sicurezza, alle libertà economiche, all’esercizio e alla tutela del diritto di proprietà. Si tratta dell’applicazione di una costruzione del diritto pubblico autoritaria ed elitaria, tesa a difendere le libertà individuali e a dare protezione e giustificazione a forme di saccheggio e sfruttamento perpetrate dalla borghesia economica industriale, commerciale e terriera. Il diritto pubblico si poneva quale quadro di stabilizzazione e di sicurezza interna ed esterna, strumento del quale la Rivoluzione francese si era servita per sconvolgere gli equilibri della società civile e la sua interiore armonia (M. Fioravanti, 1979), attribuendo ad esso un ruolo essenzialmente politico all’interno dello Stato apparato per agevolare i traffici tra i privati. Questa visione pan-privatistica, che ruotava intorno agli scambi mercantili tra cittadini, tende progressivamente a inclinarsi quando per motivi politici ed economico-sociali ci si rende conto che la questione del pubblico non è facilmente superabile, attraverso ­3

l’autoritarismo politico, burocratico-amministrativo, e attraverso un ricorso liberticida al diritto penale; quando ci si rende conto, inoltre, che non vi è neppure convenienza economica a gestire privatisticamente beni e servizi pubblici, rappresentando settori eccessivamente onerosi per i privati, e si percepisce l’esigenza di trasferire al pubblico responsabilità gestionali e finanziarie. Con l’ascesa della potenza prussiana, ma in particolare con le trasformazioni sociali nel mondo del lavoro, si avverte l’esigenza di una prima codificazione del diritto pubblico, nell’ambito della quale, comunque, lo Stato si pone quale vessillo dell’individualismo a tutela dei più forti (C.F. von Gerber, 1971). Si consolida, dunque, una teoria pubblicistica funzionale e servente al diritto privato o, comunque, posta a tutela delle posizioni economicamente forti. Nel rapporto autorità-libertà il diritto pubblico è principalmente volto alla salvaguardia della proprietà privata e l’approccio del diritto pubblico allo Stato-comunità è un approccio privatistico. È evidente che tale modello si innesta sulla forma ideale di società libera, sul prototipo della comunità giuridica universale di Kant. In merito, osserva Bobbio, «per società libera [si intende] una società in cui sia garantita a ciascuno (individuo o Stato) la libertà esterna, cioè la libertà di fare tutto ciò che è compatibile con l’eguale libertà di tutti gli altri, una società insomma in cui vi sia il massimo possibile di libertà negativa, cioè di libertà da...» (N. Bobbio, 1978, p. 999). Si configura un diritto pubblico che, attraverso lo Stato, deve garantire le libertà individuali, anche attraverso norme illegali e violente. La dicotomia pubblico-privato è apparentemente anestetizzata attraverso la rappresentazione di una nuova dicotomia tra nozione politica e nozione giuridica. In sostanza, l’intento è d’ingabbiare e normalizzare tutte quelle spinte del diritto pubblico rivoluzionarie, o comunque tese ad ascoltare le esigenze di persone non titolari di libertà politiche e sociali, di persone soffocate dal bisogno e prive di qualsivoglia diritto di proprietà, se non quello individuato ipocritamente nella proprietà pubblica. La costruzione giuridica del diritto pubblico – in particolare con Gerber – che segna questo fondamentale passaggio, è tesa ­4

a emarginare la sua propensione rivoluzionaria, sensibile ai perdenti e a tutti i soggetti esclusi e sfruttati dai processi economici (M. Fioravanti, 1979). La società inglobata nello Stato è quella dominante, essa non esprime conflitti, ma soltanto ambizione a identificarsi con l’apparato statale. Tali costruzioni organicistiche e non conflittuali del diritto pubblico, fondate sulla storia e sulla tradizione dei popoli e delle nazioni, non sono in grado di comprendere la tensione sociale che sta faticosamente montando; non sono in grado e non vogliono vedere la quantità degli sfruttati nei processi industriali ai quali sono negati anche i più elementari diritti, già presenti, quanto meno sotto l’aspetto formale, nelle Costituzioni liberali dell’Ottocento. Il diritto pubblico, progressivamente, nelle monarchie costituzionali tipiche dello Stato di diritto, riveste una duplice funzione: l’una riconducibile allo Stato di polizia – teso a reprimere l’insorgere delle nuove e diversificate esigenze sociali e la richiesta di riconoscimento di diritti elementari – e l’altra tesa a governare, gestire e valorizzare i processi economici liberisti – laddove favorevoli ad un gruppo dominante –, e a proteggere il patrimonio, che non è più soltanto un’appendice significante di ricchezza e benessere, ma rappresenta qualcosa che s’incunea nell’individuo, confondendosi con la sua libertà. Lo Stato di diritto, teorizzato da Gerber, fondato sulla produzione normativa dello Stato, realizza nel rapporto autoritàlibertà un pendolo del tutto sbilanciato, in chiave funzionale, in favore dell’autorità, quale supremo tutore dell’ordinamento giuridico, di garante dei diritti pubblici soggettivi, primo soprattutto quello di proprietà. L’idea è di uno Stato di diritto che tuteli le posizioni forti, che riveli il suo vero volto autoritario, secondo una dimensione privatistica del diritto pubblico, nella quale si effettua il trapianto della nozione di persona dal singolo allo Stato (P. Grossi, 2009). Le libertà economiche, che si concretizzano negli assetti proprietari, azionari e fondiari, attraverso le variegate declinazioni di dominus, divengono il nerbo della dimensione poliziesca del ­5

diritto pubblico. Un diritto pubblico che, progressivamente – si pensi a Laband – si trasforma in strumento di ampliamento e difesa del potere costituito, liberandosi anche delle costruzioni giuridiche e formali gerberiane. Il pensiero di Laband (P. Laband, 1907) è teso ad esaltare la centralità dello Staatsgewalt, della potenza dello Stato, che continua a fondarsi sulla teoria organicistica e sulla sovrapposizione tra Stato e società, che trova le sue radici nella nozione savignana di Volk. Un positivismo giuridico a tutela e conservazione delle posizioni dei più forti, incapace a comprendere i mutamenti sociali e soprattutto i nuovi processi decisionali influenzati dall’insorgere dei nuovi gruppi sociali. Ma nell’ambito del rapporto organicistico Stato-persona s’incunea progressivamente la comunità, più o meno organizzata. In questo nuovo scenario, il diritto pubblico autoritario, al servizio di interessi forti e consolidati, prescrittivo e non aperto al dialogo espressivo del conflitto, non sarà assolutamente più in grado di decifrare le nuove istanze e le nuove esigenze (M. Fioravanti, 1979). 2. Il lento e graduale passaggio dal modello di Costituzione materiale dell’Ottocento al modello realistico democratico sociale: verso un nuovo diritto pubblico Il passaggio dallo Stato di diritto autoritario e dal formalismo del metodo giuridico al modello realistico democratico-sociale inizia il suo percorso nel Novecento, allorquando si comprende la necessità di regolare i conflitti sociali e la necessaria separazione Stato-società. I soggetti deboli non si accontentano più di riconoscimenti formali di diritti, ma ne iniziano a pretendere l’affermazione e la garanzia effettiva (E. Forsthoff, 1973). Il metodo giuridico e il formalismo giuridico, sia nella dimensione privatistica sia pubblicistica, iniziano la loro parabola discendente. La percezione di tale crisi verrà ben recepita successivamente da Georg Jellinek, che comprende la necessità di andare ben oltre le tesi organicistiche e del metodo giuridico, in considerazione della mutata situazione di fine secolo. È ben chiaro in ­6

Jellinek la necessità di avere un diritto pubblico che vada oltre il rapporto autorità-libertà, un diritto pubblico in grado di fornire risposte all’altezza dei bisogni espressi dal particolare momento storico, un diritto pubblico che non si limiti a garantire le posizioni dominanti, ma che piuttosto sia espressione di una pluralità di soggetti pubblici che contribuiscano a scardinare il rapporto Stato-individuo, con l’attribuzione dei diritti pubblici soggettivi ai singoli cittadini e alle comunità locali. È proprio dalle comunità e dalla società nel suo complesso che nasce la dottrina sociale dello Stato, il diritto pubblico sociale. La dottrina giuridica dello Stato viene intesa come dipendente dal gioco delle forze storiche, senza evidentemente tener conto delle differenti componenti sociali. La dimensione giuridica nel processo evolutivo del diritto pubblico resta forte, ma con presupposti differenti; non è chiaro se con obiettivi veramente diversi rispetto al metodo giuridico gerberiano-labandiano. In questo periodo, lo Stato di diritto comincia ad entrare in crisi con il tendenziale affiorare dello Stato sociale. Da questo momento è ben chiaro come il diritto pubblico nello Stato di diritto si limitasse alle procedure e a fissare le regole del gioco, mentre invece nell’acerbo Stato sociale cominci ad avere la chiara ambizione di assolvere a funzioni di giustizia, di regolamentazione dei conflitti sociali e di analisi e soluzioni di esigenze reali e concrete. Il diritto pubblico tende a trasformarsi da mero strumento di riconoscimento di diritti per alcuni e di negazione per altri a strumento di garanzia dei diritti, soprattutto dei soggetti più deboli, liberandosi dalla legalità formale e dall’etica dell’individualismo. La dimensione primordiale dello Stato sociale vede, dunque, un diritto pubblico che tende ad assumere finalità diverse non codificate, ma espressione di dati fattuali, con fondamento a volte nella legislazione speciale. La trasformazione del potere da un’organizzazione di natura politico-amministrativa – interessata prevalentemente alla migliore ed efficiente gestione pubblica, funzionale all’interesse privato e ai processi economici ad esso riconducibili – ad un’organizzazione pubblica, che intenda assumersi responsabilità in ordine ­7

alla gestione diretta di attività economiche e di servizi pubblici e sociali e che ritenga di produrre norme per garantire l’effettivo accesso ai diritti, caratterizza progressivamente il processo di democratizzazione del diritto pubblico. Si tratta di un processo teso ad andare oltre il classico e formale rapporto autorità-libertà, basato sul ruolo attivo delle istituzioni pubbliche, un modello che esprimerà in tutta la sua virulenza la tensione pubblico-privato e lo scontro proprietà-gestione. Dicotomie che, come vedremo, saranno enucleate e affrontate nelle nuove forme del diritto pubblico, il quale intende assumersi il compito e la responsabilità di dimostrare come le libertà civili e politiche, se non associate all’eguaglianza sostanziale, siano soltanto una mistificazione, soltanto libertà formali destinate a servire da alibi a coloro che, detenendo il potere economico, sono i soli in grado di utilizzarlo per consolidare il proprio dominio. Al diritto pubblico trasformato, post-borghese, dunque il compito di garantire libertà effettive e di contribuire alla configurazione dei diritti sociali. Nel passaggio dal liberalismo autoritario non democratico ad un liberalismo che ambisce a forme più democratiche – un passaggio che avviene evidentemente più sul piano politico che amministrativo – il diritto pubblico, pur riconoscendo e garantendo le libertà di partecipazione, e quindi le libertà positive, ancora nella sua espressione codificata, continua a svolgere un ruolo di difesa di posizioni dominanti. Il processo di trasformazione inizia allorquando ci si trova dinanzi a realtà differenti in contrasto tra loro; si tratta, dunque, di delineare e far decollare la democrazia sociale, cioè quella democrazia che non può non ruotare intorno al conflitto tra capitale e lavoro. Un modello, tuttavia, oggetto della critica marxista, in quanto comunque espressione dello Stato di diritto borghese, finalizzato al rafforzamento del potere della classe borghese (H. Kelsen, 1966). Una critica che ritiene autoritaria anche quella dimensione sociale dello Stato, la quale, in uno Stato veramente democratico, dovrebbe essere sostituita dalla società socialista. Come ben evidenzia Burdeau, il passaggio dalla democrazia politica alla democrazia sociale, più volte invocato nello Stato sociale, è ancora incompiuto (G. Burdeau, 1977). ­8

Oltre lo Stato sociale significa, attraverso categorie e forme differenti, volerne la sua affermazione effettiva; significa, accanto allo Stato, dare il giusto ed effettivo riconoscimento ai diritti di partecipazione, che è qualcosa di alquanto differente dalla mera partecipazione dei cittadini ai processi decisionali; oltre lo spazio del pubblico e dei suoi relativi poteri occorre lo spazio del comune (M. Hardt, A. Negri, 2010), ovvero destrutturare la Repubblica della proprietà, in particolare innanzi all’insorgere della categoria dei beni comuni. È, dunque, questo il percorso che si cercherà di seguire, verificandone l’evoluzione e le involuzioni, fino ad arrivare al ruolo attuale del diritto pubblico che, in Italia, sembra stia riacquistando il suo volto autoritario e ordinatorio, teso principalmente a garantire proprietà privata e libertà individuali (law and order), a garantire sicurezza e tutela delle rendite, provocando un vulnus all’impianto costituzionale, soprattutto nella parte di garanzia dei diritti dei lavoratori. 3. Il diritto pubblico tra politica e amministrazione nel processo di trasformazione: l’apparente neutralità del diritto pubblico francese È evidente, dunque, come durante il processo di trasformazione, il diritto pubblico fosse teso alla ricerca continua di una sintesi tra dimensione politica e dimensione amministrativa, tra definizione di politiche pubbliche e gestione dell’ordinario, in una tensione continua tra studio e analisi dell’organizzazione, da una parte, e tutela dei diritti, dall’altra, con venature di autoritarismo in entrambi i modelli. Nell’«Archivio di Diritto Pubblico» del 1896, Luigi Rossi sottolineava come la scienza francese, a differenza di quella germanica, ignorasse il tipo dello Staatsrecht, ovvero il livello costituzionale del diritto pubblico, il livello politico del diritto pubblico (L. Rossi, 1896). Alla base di ciò vi era una scelta non soltanto tecnico-giuridica, ma soprattutto politica: scelta che in Francia, a differenza che nell’Impero prussiano, aveva quale obiettivo l’indipendenza dell’amministrazione dalla politica e ­9

la sua subordinazione soltanto alla legge, quale osservanza del principio di legalità formale. Tale codificazione del diritto pubblico, di chiara derivazione napoleonica, influenzata da correnti giusnaturalistiche, liberali e individualistiche, reggerà fino all’insorgere della scuola di Bordeaux e del suo mentore Léon Duguit, che inserì la componente sociale, quale intermediazione tra politica e amministrazione. Un obiettivo, quello del diritto pubblico francese, teso al raggiungimento di un altro obiettivo, ancora più importante, ovvero realizzare una buona amministrazione efficiente e non sviata da interessi particolari, delineando una separazione netta tra diritto costituzionale e diritto amministrativo, nell’ambito della quale la politica non avrebbe potuto influenzare l’amministrazione. Anzi, come diceva Rossi, occorreva evitare l’influenza illecita e corruttrice della politica, cioè quell’influenza non diretta ad un’azione amministrativa equa, ma piuttosto subordinata agli interessi del partito e intesa a scopo di utilità privata; un’influenza dominata da un ultimo movente, ossia il desiderio di accattivarsi l’animo degli elettori. Una visione evidentemente algida ed asettica del diritto pubblico, protetto da anticorpi, sia sul versante sociale che politico. Occorreva, allora, introdurre speciali guarentigie per difendere l’amministrazione dalla politica, e l’obiettivo – diceva Rossi – in Francia era stato proprio quello di realizzare un’amministrazione forte, sicura, intelligente, competente. Un’amministrazione apparentemente immune dagli interessi politici, in realtà servente i soggetti economici e politici espressione della borghesia dominante, che selezionava gli interessi pubblici da proteggere. Un’amministrazione efficiente e funzionale alle libertà economiche dei proprietari dei mezzi di produzione e dei proprietari terrieri, nell’ambito di uno Stato in cui, tendenzialmente, cominciava ad affermarsi il conflitto quale paradigma di uno Stato pluriclasse. Si configura progressivamente l’affermazione degli interessi individuali attraverso l’interdipendenza, l’integrazione sociale e la solidarietà. I due modelli del diritto pubblico dello Stato liberale borghese, separazione netta tra politica-amministrazione (tedesco) ­10

e subordinazione – seppur formale – della politica all’amministrazione (francese) stentavano a trovare una sintesi in quello che, successivamente, potremmo definire l’equilibrio espresso dal diritto pubblico con funzione sociale. Un diritto pubblico interventista, con fondamenta nel sistema liberale, che ne comprende la sua vitale funzione di intermediazione e di ammortizzatore sociale in una società in transito dallo Stato monoclasse allo Stato pluriclasse, in una società nella quale s’impone il conflitto come paradigma di selezione e realizzazione degli interessi. Il diritto pubblico inizia a giocare un ruolo attivo, sebbene sempre governato e ispirato dalla proprietà, dai detentori dei mezzi di produzione, dai possidenti terrieri; un intervento pubblico teso a governare in ogni caso un processo mercantile e a gestirne le trasformazioni. Tra un diritto pubblico paladino dell’organizzazione del potere, che assicuri le libertà fondamentali, e un diritto pubblico finalizzato all’erogazione di servizi pubblici efficienti e di qualità, inizia – in particolare con Duguit – ad emergere un diritto pubblico con funzioni sociali, con funzioni di giustizia, fondato sulla solidarietà, quale strumento per comprendere e anestetizzare il conflitto. Con Duguit si tende, dunque, ad andare oltre la saldatura tra imperium e dominium (sovranità-proprietà), ben consolidata dalla legislazione rivoluzionaria, dalle leggi amministrative del Consolato e dell’Impero, e soprattutto dal codice civile e ben ricalcata sul modello romano. Si cerca di andare oltre la visione dualistica del diritto pubblico: da una parte il potere politico, dall’altra il potere gestionale-amministrativo, ovvero la visione tipica dello Stato borghese monoclasse, racchiuso nel binomio autoritario sovranità-proprietà. L’amministrazione inizia ad acquisire una sua dimensione politico-sociale, che non significa servente ai partiti politici o ai poteri forti, ma tesa a meglio comprendere e interpretare le esigenze e i bisogni sociali. Un’amministrazione attiva, funzionale all’attuazione degli obiettivi propri dello Stato sociale. Duguit auspica che la società francese si liberi definitivamente di questi concetti metafisici di imperium e di dominium ed elabori, da un lato, un regime politico dal quale sia comple­11

tamente eliminata la nozione di potere pubblico e, dall’altro, un regime economico e sociale dal quale sia completamente eliminata la nozione di dominium, cioè la proprietà quale diritto soggettivo dell’individuo. Si guarda alla società e alle sue esigenze quale mezzo per andare al di là del binomio sovranitàproprietà. Così scriveva Duguit: «Io non dico che la proprietà individuale sparirà; dico soltanto che essa cesserà di essere un diritto individuale per divenire una funzione sociale. Io insisterò, d’altronde, esclusivamente sulla trasformazione del regime politico» (L. Duguit, 1950, p. 52). Due forme, entrambe autoritarie, sintesi di imperium e dominium, due forme derivate dal diritto romano e perfezionate dalla rivoluzione, due forme entrambe espressione di un formalismo monarchico-borghese, durante il quale la Dichiarazione dei diritti non ha impedito né la tirannia sanguinaria della convenzione, né il dispotismo di Napoleone, né il colpo di Stato del 1851, né le leggi di sicurezza generale del secondo Impero, né le leggi di espropriazione e di spoliazione della III Repubblica. Il diritto pubblico inizia quel suo percorso di costruzione dello Stato sociale, concependo la proprietà non più soltanto come libertà assoluta e individuale, ma quale funzione sociale. Con Duguit, «la disparition du système impérialiste, la notion du service public vient remplacer celle de souveraineté» (L. Duguit, 1913). A questa trasformazione-evoluzione del diritto pubblico contribuisce sicuramente l’accennata trasformazione del diritto amministrativo; infatti, accanto all’amministrazione tradizionale, che poneva limiti ai cittadini, viene introdotta l’amministrazione attiva della moderna assistenza sociale, della cura dei bisogni essenziali dei cittadini (E. Forsthoff, 1973). Un’amministrazione separata dai partiti politici, ma non dalla politica, quale entità astratta e ideale che determina l’indirizzo politico del Paese. Ha inizio, dunque, quel processo di sintesi tra dimensione politica e dimensione amministrativa del diritto pubblico. Il binomio sovranità-proprietà è sostituito dal binomio interesse pubblico-proprietà pubblica. ­12

4. Dal liberalismo autoritario alla forma di Stato democratico-sociale: la funzione sociale del diritto pubblico attraverso la sintesi tra politica e amministrazione Con Duguit risulta evidente come entrambi i modelli su delineati, fondati sulla separazione politica-amministrazione, risultassero più facilmente realizzabili in uno Stato autoritario, non democratico, privo di dimensione e conflitto sociale, guidato da élites, sollevato da oneri relativi a prestazioni sociali, piuttosto che in una società progressivamente più complessa. Con Duguit inizia ad essere mediato il rapporto tra autoritàlibertà, tra Stato-individuo, non soltanto dai partiti e dai sindacati, ma soprattutto dalla società, che si pone nella sua funzione permanente d’intermediazione sociale, che porta con sé i suoi interessi particolari, i quali, attraverso il ruolo della politica e dell’amministrazione, vanno filtrati e indirizzati verso finalità di carattere generale. La puissance publique francese (Stato amministrativo autoritario) e l’Herrschaft tedesco (Stato costituzionale autoritario), entrambi fondati sul binomio sovranità-proprietà, sono superati dalla nuova funzione del diritto pubblico. A questo proposito, Cassese osserva che c’è in Duguit un evidente obiettivo antiautoritario e fondamentalmente pluralista (S. Cassese, 2003). Il rapporto organicistico Stato-individuo s’interrompe e lo Stato può limitare i diritti individuali, laddove tale limitazione troverebbe la sua fonte nell’assicurare la protezione dei diritti a tutti. Si va oltre le categorie della sovranità dello Stato e del diritto naturale dell’individuo, in un sistema giuridico di società tutto penetrato dal positivismo, non solo delle regole ma anche dei principi; si va oltre un diritto pubblico che non si fonda più sulla nozione di sovranità, ma sulla nozione di servizio pubblico, ovvero su un’organizzazione interdipendente tesa a soddisfare interessi di carattere generale (L. Duguit, 1913). Nel processo di trasformazione del diritto pubblico si ha ben chiaro che i precedenti assetti, caratterizzati, seppur con tonalità differenti, da contenuti propri del liberalismo autoritario, sono ­13

ben lontani dalla dimensione pubblicistico-democratica, il cui insorgere si lega a un modello che deve sempre più occuparsi di conflitti, prestazioni sociali e soddisfacimento dei diritti fondamentali. La questione sociale non consentirà più al diritto pubblico di separare il livello politico da quello amministrativo in un’ottica autoritaria e/o tecnocratica né di far prevalere aspetti strutturali-formali su quelli funzionali (N. Bobbio, 2007). In contrasto con la teoria pura del diritto si comprende la rilevanza della funzione, piuttosto che la perfezione strutturale e astratta dell’organizzazione. Occorre, dunque, immaginare una sintesi pubblicistica del rapporto politica-amministrazione, una sintesi che è possibile cominciare a intravedere nella teoria dei diritti fondamentali dello Stato sociale. In tal senso si pensi, a titolo esemplificativo, all’esperienza weimariana, ad un’organizzazione statuale nella quale la pubblica amministrazione, oltre che della buona gestione della cosa pubblica, ha la responsabilità politico-sociale di erogare prestazioni di natura socio-economica, che non possono prescindere da un indirizzo politico. Tale modello, ampiamente ripreso e sviluppato dalla nostra Costituzione, pone tra i suoi obiettivi primari di regolare i rapporti capitale-lavoro, uscendo definitivamente dalla teoria organicistica e dello Stato-individuo. È evidente che in questo quadro di forte sintesi politica-amministrazione aumenti il grado di professionalità, responsabilità e indipendenza della pubblica amministrazione, non quale apparato auto-referenziale, in grado di esercitare un’azione anche alternativa rispetto agli organi di rappresentanza, ma quale struttura funzionale e servente rispetto all’interesse pubblico. Quanto più i conflitti sociali ed economico-finanziari sono gestiti da una pubblica amministrazione indipendente e di qualità, in grado di comporli e regolarli, tanto più si limitano i contenziosi e i ricorsi alla magistratura. Quanto più si innalza, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, il livello politico delle scelte da attuare e gestire, tanto più deve aumentare il livello di indipendenza, imparzialità e professionalità della pubblica amministrazione, senza tuttavia riproporre modelli autoritari autarchici. Si attri­14

buisce, quindi, proprio al diritto pubblico la funzione di porre in equilibrio due momenti, di armonizzarli e comporli affinché i partiti politici e le loro oligarchie non ambiscano ad avere sulla pubblica amministrazione un effetto devastante. Si comprende come la visione formalistica del diritto pubblico, tesa unicamente all’astratto funzionamento dell’organizzazione del potere, non sia idonea a fornire risposte ad un crescente numero di persone, per le quali mancano i presupposti sociali per la realizzazione delle garanzie di libertà giuridica. Lo Stato apparato (politica-amministrazione) è al servizio dei bisogni sociali dei cittadini, visti non più come soggetti, bensì come corpi intermedi (soggettività collettive), ossia soggetti destinatari di servizi. 5. La crisi del modello pubblico sociale-funzionale: la disintegrazione dei principi Lo Stato sociale, dunque, formalmente previsto in Costituzione, ma progressivamente lasciato a se stesso, non governato e gestito attraverso un ruolo funzionale del diritto pubblico, schiacciato da logiche «ragionieristiche», costituisce sempre più una formula vuota, che richiede appunto una formula nuova. Occorre una nuova e rinvigorita stagione del positivismo dei principi; principi che sappiano in primis garantire gli esclusi, i deboli e i perdenti, che sappiano ridare dignità ai lavoratori esclusi dai processi produttivi e, soprattutto, che pongano il governo dei beni comuni e l’autodeterminazione della partecipazione tra le priorità assolute dell’azione di governo. Ma ciò richiede l’insorgere di una nuova forma di governo, nonché di destrutturare le nozioni di sovranità e di proprietà (pubblica e privata). Il passaggio dalla democrazia formale alla democrazia sostanziale, ossia dal mero riconoscimento del diritto all’effettiva affermazione del diritto (il c.d. accesso al diritto), non si è mai concluso ed è ancora in corso. Esso richiede, al di là delle forme, un diritto pubblico militante, in grado non solo di riconoscere diritti di prestazione, ma anche di porre questi ultimi in essere attraverso l’azione di una buona amministrazione e, se neces­15

sario, attraverso il ricorso alla resistenza, alla disobbedienza, all’insorgenza. Questo segna il passaggio da un diritto pubblico, che deve regolare la mera titolarità della res publica, ad un diritto pubblico che si pone tra i suoi compiti quello di gestire la res publica, in funzione del perseguimento di interessi generali e di soddisfacimento delle nuove e drammatiche esigenze sociali, e soprattutto di riconoscere l’esistenza delle res communis omnium. È evidente che: «queste considerazioni introducono immediatamente la problematica dello Stato sociale di diritto. Le garanzie dei diritti sociali non mirano tanto a creare delimitazioni, quanto prestazioni positive, non mirano alla libertà, ma alla partecipazione» (E. Forsthoff, 1973, p. 45). Lo Stato assume progressivamente lo scopo di organizzare la cooperazione sociale al fine di raggiungere il massimo rendimento sociale possibile (R. Treves, 1957). Un diritto pubblico che deve esprimersi attraverso principi e regole, in grado di determinare grandi politiche, anche sul piano delle condotte e dell’etica e specifiche regole attuative, non appiattito dunque su un mero decisionismo giuspositivista. È evidente il necessario intreccio tra principi e regole che, sul piano dell’effettività, trovi la propria sintesi nel positivismo, anche se oggi è assolutamente illogico, oltre che ipocrita, parlare di un diritto pubblico nazionale. Il diritto pubblico è tale in quanto sconfinato, così come sconfinate sono le esigenze, i principi e le regole. È, dunque, necessario attuare quei principi già determinati, mai completamente attuati, e combattere per l’affermazione di nuovi principi, per l’appunto sempre più sconfinati. È importante ricordare che proprio nel ventennio a cavallo tra le due guerre mondiali, in particolare sotto la spinta dei processi teorici alla base delle Costituzioni sorte dopo la disgregazione degli imperi dell’Europa centrale, il diritto pubblico inizia ad assumere, quanto meno sul piano dell’elaborazione teorica, una configurazione tridimensionale: politica-amministrativasociale. Tutto ciò è imprescindibile da un potere politico real­ mente partecipato, che deve svolgere un ruolo fondamentale nell’evoluzione delle vicende umane (M. La Torre, 2000). ­16

Si avverte allora l’esigenza e la prospettiva di un potere politico arricchito (nonché meno discrezionale) e controllato (S. Lieto, D. Mone, 2010) da una partecipazione militante che non vuole più concedere nulla a forme di negoziazione al ribasso, che spesso hanno portato alla svendita dei diritti fondamentali per il conseguimento di piccini interessi particolari. 6. Il profilo tridimensionale del diritto pubblico: politico-amministrativo-sociale Al diritto pubblico è assegnato il compito di adattare i fini economici alla situazione politica, ponendosi dunque in una posizione sovraordinata rispetto all’economia, o quanto meno di avere come obiettivo quello di governare i processi economicofinanziari, anche attraverso la determinazione di principi. In questo senso, il diritto pubblico, quale sintesi tra politica, amministrazione e società, intende affermare la propria indipendenza di fronte alle minacce e allo strapotere dei privati, regolando i conflitti sociali con logiche perequative. Lo Stato, per assolvere a tale funzione, anche e soprattutto attraverso la strumentazione del diritto pubblico, deve avere la volontà e la capacità di emanciparsi politicamente dall’influenza economica dei privati, acquisendo una base di potere economico tale da consentirgli non soltanto di programmare e regolare, ma altresì di gestire. Si percepisce l’obiettiva necessità – riprendendo l’insegnamento hegeliano – di una superiorità dello Stato sulla società, che non significa subordinazione della società allo Stato, ma, al contrario, significa volere, con processi perequativi, tutelare gli interessi pubblici, al di là di una mera sommatoria di interessi individuali (D. Mone, 2010). L’insorgere dello Stato sociale attribuisce al diritto pubblico un ruolo molto speciale e peculiare, ovvero il tentativo di trasformare l’azione dello Stato in strumento di compensazione, governo e gestione dei conflitti sociali, in strumento teso all’effettiva tutela e accesso ai diritti fondamentali. Ciò pone in essere una progressiva edificazione dello Stato sociale-amministrativo, ­17

attraverso una crescita di apparati burocratici e l’assunzione di nuovi servizi e compiti da parte dello Stato (M. Fioravanti, 1984), nella consapevolezza che dove non c’è sfera pubblica non c’è sviluppo, che le spese sociali non vanno concepite quale costoso passivo nei bilanci pubblici, ma quale forma di investimento pubblico sicuramente più produttiva (L. Ferrajoli, 2005), che la miglior politica economica, quella più efficace ad incrementare lo sviluppo, è una politica sociale volta a garantire i diritti vitali a tutti. Un ruolo delle istituzioni pubbliche, che implica una separazione pubblico-privato e amministrazione-società, non da intendere – come lo era stato da Gerber a Jellinek – autonomia dai conflitti sociali, ma piuttosto governo e gestione esterni dei conflitti sociali. Ciò presuppone un forte continuum politicaamministrazione, una forte assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni rappresentative e quindi la configurazione di un ruolo che non ha nulla in comune con l’ipotesi steiniana, cioè di svincolare l’attività amministrativa dagli scopi perseguiti dallo Stato, in altre parole l’assetto politico dall’assetto amministrativo. Per la costruzione pubblicistica del rapporto politica-amministrazione, funzionale alla risoluzione di esigenze concrete e alla determinazione di politiche perequative, Fioravanti evidenzia come il contributo di Otto Mayer, all’inizio del Novecento, rimanga fondamentale per comprendere come il diritto pubblico debba aprirsi proprio alla nascente realtà dello Stato sociale (M. Fioravanti, 1983); dunque, da disciplina tesa solo al buon governo della cosa pubblica, a disciplina in grado di risolvere i conflitti sociali e garantire l’accesso ai diritti fondamentali. Tutto ciò si basa su un forte ruolo attribuito alla proprietà pubblica e alla sua capacità di soddisfare, secondo i parametri dell’eguaglianza e della solidarietà, i diritti sociali dei cittadini, mai destinatari di provvedimenti calati dall’alto, ma conseguenze di battaglie, conflitti, dissensi.

II

I processi di trasformazione del diritto pubblico

1. Premessa In Italia una strana forma di democrazia post-moderna e neofeudale sta provocando un rapido e progressivo ridimensionamento degli spazi pubblici e dei diritti ad essi riconducibili. Sta prendendo forma un modello medioevale che incrocia forme di assolutismo politico, con largo spazio neo-feudale alla società civile, a forme di assolutismo giuridico, caratterizzate da una continua produzione di diritto, inteso quale mero strumento egemonico di affermazione intollerante dell’azione politica. L’impressione, sempre più evidente, è che si sia in presenza di regole senza Stato, o comunque di regole che si muovono nella precarietà degli spazi pubblici (P. Grossi, 1998), dove chi ha alimentato la contaminazione pubblico-privato tra rappresentanza degli interessi e rappresentanza politica ha ben compreso come lo strumento normativo, nelle sue molteplici espressioni e applicazioni, sia il miglior strumento per detenere il potere politico. Le riforme degli ultimi vent’anni in Italia (privatizzazioni dei servizi pubblici essenziali, svendita dei beni comuni e del patrimonio pubblico, semplificazione e privatizzazione dell’apparato amministrativo, indebolimento dello Stato sociale e dei diritti ad esso riconducibili [C. Crouch, 2004], potenziamento del ruolo politico-amministrativo delle regioni e degli enti locali), alcune di esse palesemente in contrasto con i principi costituzionali, hanno ridimensionato e/o trasformato il ruolo del diritto pubblico, almeno così come venutosi a consacrare e ­19

consolidare dopo la Costituzione italiana del 1948. Un diritto pubblico al quale superficialmente e riduttivamente è stata data negli anni un’accezione di disciplina comprensiva del diritto costituzionale e del diritto amministrativo, non riconoscendogli, o sottovalutandone, la sua peculiarità e unicità, la sua matrice originaria che, toccando materie economiche e sociali, andava ben oltre le suddette discipline. Un insieme di interventi normativi ha bruscamente interrotto quel processo di evoluzione e trasformazione del diritto pubblico liberale o post-liberale che, a partire dal 1948, seppur a fasi alterne, stava proseguendo attraverso l’effettiva attuazione dei principi costituzionali, liberandosi di quell’insieme di assolutismo politico e assolutismo giuridico che nelle varie fasi del Medioevo avevano caratterizzato origine e sviluppo del diritto pubblico. Le esigenze concrete sprigionate dalla società e rapportate ai principi costituzionali stavano disincagliando il diritto pubblico dall’imperium di Stato e legge. Si è assistito, dunque, ad una interruzione di quel processo di trasformazione del diritto pubblico che, faticosamente, seppur in veste ancora non perfettamente democratica (P. Grossi, 2009), aveva avuto inizio in Italia, ancora prima della nostra Costituzione – in coda al fenomeno sette-ottocentesco dell’assolutismo giuridico – tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento per impulso di Vittorio Emanuele Orlando e della sua Scuola, con l’obiettivo di selezionare gli interessi generali e regolare i rapporti autorità-libertà, in particolare quelli direttamente riconducibili alla sicurezza, alle libertà personali e alla tutela della proprietà (F. Lanchester, 2004). Si arresta quel processo di democratizzazione del diritto pubblico, che nei suoi elementi fondativi, fortemente influenzato dalla Scuola tedesca del XIX secolo (M. Fioravanti, 1979), aveva utilizzato le categorie del diritto privato non come forma affaristica di mera contaminazione pubblico-privato, ma piuttosto in chiave funzionale, ovvero come ricorso a istituti e strumenti che più facilmente affrancassero il diritto pubblico dalle altre scienze sociali, offrendogli la possibilità, con tecniche più raffinate, di perseguire finalità e interessi pubblici, e porsi quale fondamento ­20

sia dell’azione della pubblica amministrazione che della politica, nelle sue variegate declinazioni socio-economiche. Si interrompe, peraltro, anche quel processo evolutivo del diritto pubblico che nelle sue origini aveva risentito delle Carte formali del XIX secolo, di matrice giusnaturalistica, e dell’idealizzazione dello Stato-persona, monolitico e reattivo all’assolutismo giuridico, in particolare nella volontà dichiarata di separare la politica dal diritto (V.E. Orlando, 1940). Un diritto pubblico che avverte la necessità di andare oltre il giusnaturalismo, fondendo storicismo, concettualismo e formalismo (S. Cassese, 1987), e passando dal liberalismo integrale della prima metà dell’Ottocento ad una concezione formalistica del liberalismo. Assistiamo oggi all’interruzione e al regresso di quel processo evolutivo del diritto pubblico, venutosi a realizzare attraverso lo scontro e il conflitto di classe, che aveva visto, subito prima e subito dopo la prima guerra mondiale, l’insorgere di un nuovo spazio pubblico dei diritti; ovvero quel diritto pubblico che, grazie alle riflessioni di Santi Romano, era riuscito a liberarsi dell’ipocrisia delle carte dei diritti dell’Ottocento, denunciandone la loro astrattezza, ma anche a liberarsi del binomio storicismo-formalismo labandiano e poi orlandiano, osservando i mutamenti sociali, il crescere delle formazioni sociali e la crisi della compattezza della struttura statuale (S. Romano, 1969b). Ma, soprattutto, si interrompe oggi quel processo delicato del diritto pubblico che, nella dimensione dell’effettività, aveva avuto la percezione di doversi porre come insieme di regole a servizio dell’umana convivenza, al servizio di una società complessa, al di là di un mero catalogo statico di situazioni soggettive astratte, di doversi porre quale fondamento dell’intervento dello Stato nei rapporti sociali (A. Massera, 1989). Si interrompe oggi un percorso che dopo la Costituzione di Weimar del 1919 era stato ben colto nella Costituzione italiana del 1948, in particolare nella sua fase applicativa del ventennio 1960-1980 (Costituzione vivente), periodo nel quale, dal punto di vista sociale, il diritto pubblico ha svolto un ruolo particolarmente significativo. In particolare, il binomio solidarietàeguaglianza sostanziale ha assegnato al diritto pubblico ruolo e ­21

responsabilità che hanno implementato la sua natura di guardiano dell’ordine pubblico, da una dimensione civile ad una socioeconomica, fondata sulla garanzia dei diritti. Dagli anni Novanta è in corso un processo di crisi e trasformazione del diritto pubblico che ne ha messo progressivamente in sofferenza le categorie e i soggetti classici e che, soprattutto, ha colpito la sfera dell’organizzazione e quella del potere, oltre alla dimensione dell’eguaglianza sostanziale e della solidarietà. Non c’è dubbio che a trasformare il diritto pubblico abbia, in maniera decisiva, contribuito il processo affaristico di privatizzazione, che ha coinvolto i servizi pubblici essenziali a livello statale, i servizi pubblici locali, i rapporti di pubblico impiego, i controlli esterni, i beni pubblici. Un processo che, dietro la facciata di ridurre la spesa pubblica e rimettere in ordine i bilanci, ha soprattutto avuto l’obiettivo di ridurre gli spazi pubblici, sostituendoli a volte – in assenza di interessi mercantili – con il nulla (nichilismo), a volte con interessi privati, fisiologicamente orientati al profitto, piuttosto che al soddisfacimento di diritti fondamentali. Un processo di contaminazione innaturale pubblico-privato, che ha messo in crisi sia la dimensione costituzionale che socioeconomica del diritto pubblico, ma che ha soprattutto colpito al cuore quel diritto pubblico che – come vedremo nei capitoli successivi – si era evoluto faticosamente nel solco del processo di democratizzazione, affermando la sua unicità. In pochi anni si è assistito ad una deformazione di quel diritto pubblico che, attraversando il XX secolo, era passato da una originaria dimensione politico-autoritaria ad una amministrativa – tesa alla percezione e alla gestione di esigenze e bisogni dei cittadini – per approdare, dopo la Costituzione del 1948, ad una dimensione sociale, caratterizzata dal principio di effettività e dalla concreta garanzia dei diritti proclamati. Una dimensione che, faticosamente e con non poche contraddizioni, aveva individuato, a partire dagli anni Sessanta, quale suo faro il principio di eguaglianza sostanziale e quindi le politiche perequative e di redistribuzione del reddito. Una dimensione nella quale anche la visione pan-proprietaria e individualistica, propria del Sette­22

Ottocento, ovvero dell’assolutismo giuridico, che aveva praticamente annientato la nozione di proprietà collettiva, si veniva ad attenuare in presenza dei principi costituzionali, in particolare degli artt. 41-46 Cost. (dimensione sociale della proprietà e dell’impresa, dimensione partecipativa). Articoli nei quali, a differenza del codice del Quarantadue, è possibile intravedere una visione meno individualistica anche della proprietà pubblica. Articoli che, per sfuggire alla dicotomia tipicamente proprietaria e individualistica pubblico-privato, sembrano orientati a porre le basi della dimensione del comune e dei beni comuni. Un testo, la Costituzione del 1948, che – come vedremo più avanti – ha nelle sue corde la potenzialità di rappresentare il passaggio du public au commun, attraverso una reale dimensione partecipativa e attraverso una rilettura della nozione di dominium. Questi sono gli istituti che, se associati, possono rappresentare nello stesso momento continuità e discontinuità rispetto alle categorie classiche dello Stato sociale. Nuove categorie che possono, pur all’interno della dimensione sociale, consentire al diritto pubblico di superare o comunque andare oltre le dicotomie pubblico-privato e individuo-società. Le trasformazioni intervenute negli ultimi vent’anni, ispirate in parte dalle teorie della Public Choice (J.M. Buchanan, 1985) e del pareggio di bilancio, elevato a rango di principio costituzionale, e dalle teorie della New Political Economy e del New Public Management (G. Napolitano, 2009) hanno inciso (o reciso) sulla funzione perequativa del diritto pubblico – questo sì principio di rango costituzionale –, sulla sua attitudine a soddisfare le esigenze e le istanze sociali; una funzione che con difficoltà aveva tentato di affermarsi durante i processi evolutivi dello Stato democratico, attraverso i conflitti sociali e la lotta per il diritto (R. von Jhering, 1935), attraverso l’insorgere dei primi modelli partecipativi (partiti, sindacati) (J. Habermas, 1980), tesi a mettere in discussione lo stabile e gerarchico ordinamento sociale, garantito da privilegi feudali, dalla proprietà, da una cultura elitaria ed escludente. Si potrebbe affermare che le riforme degli ultimi vent’anni hanno avuto l’obiettivo di anestetizzare il diritto pubblico in ­23

merito al rapporto capitale-lavoro, riportandolo nell’ambito del diritto privato, del contratto, della proprietà privata, in un’interpretazione della nozione di sicurezza escludente vagamente ottocentesca e liberticida, in senso più ampio, ridimensionando lo spazio giuridico-economico pubblico e i diritti socio-economici dei cittadini. Un regresso, dunque, che non soltanto ha frustrato la spinta attuativa dei principi costituzionali, ma ha altresì mortificato la natura più intima della Costituzione, ovvero quella dimensione sociale da perseguire non soltanto attraverso un ampliamento del ruolo e delle funzioni del pubblico, dello Stato, dei poteri pubblici, ma anche attraverso la dimensione partecipativa del comune, inteso non quale ente pubblico, ma quale nuova percezione del pubblico anti-proprietaria, anti-individualistica e antiutilitarista, estranea alle logiche imperanti dell’imperium e del dominus (ancorché pubblico) sul bene. Questo processo di frantumazione del diritto pubblico risente e ha risentito di una matrice dominante liberista (A. Lucarelli, 2009b), che ha caratterizzato e strumentalizzato il dibattito di integrazione europeo, e, soprattutto, della latitanza di un diritto pubblico europeo che dovrebbe realizzarsi attraverso politiche di coesione, che non abbiano il loro prius, nel mercato, nella concorrenza, ma in politiche pubbliche mirate, quali la politica della casa, del territorio, dei servizi pubblici, dell’istruzione, della sanità, beni comuni nei quali la concorrenza non può essere intesa quale strumento adeguato ad elevare il tenore di vita dei popoli (A. Lucarelli, 2006). Insomma, il quadro di erosione del diritto pubblico, al quale si accompagna un’erosione della sovranità statuale dall’alto (Unione europea) e dal basso (regioni), per non parlare degli effetti devastanti ed extra-giuridici di erosione della sovranità provenienti dall’azione delle lobbies, delle multinazionali, del Fondo monetario internazionale, dell’Organizzazione mondiale del commercio, sembra riportare la sua natura e la sua funzione alla dimensione ottocentesca di ordine politico e di regole amministrative; dimensione nella quale le regole tendono a muoversi indifferenti ai principi democratici, in forza di un principio di sovranità popolare ­24

sempre più spesso strumentalizzato e utilizzato in chiave populistica, nell’ambito del quale i principi del governo rappresentativo formano un meccanismo complesso che assembla parti democratiche e parti non democratiche (B. Manin, 2010), nell’ambito del quale i partiti mostrano tutta la loro inadeguatezza. 2. Le nuove categorie del diritto pubblico e le contaminazioni pubblico-privato Credo sia importante osservare che tra le questioni più incisive nel processo di riconfigurazione del diritto pubblico e di ridimensionamento del principio di sovranità, e dunque di unità dell’organizzazione politica, vada ascritta, in generale, la formazione e l’emersione di nuove categorie soggettive, la cui collocazione all’interno delle dinamiche di esercizio del potere pubblico, anche relativo a servizi pubblici essenziali, sfugge completamente ai parametri tradizionali di configurazione dell’assetto istituzionale. Si tratta di soggetti che operano tendenzialmente in virtù di uno statuto giuridico soggettivo di matrice privatistica (spa pubbliche, società miste, partenariati pubblico-privato), che sfuggono di per sé ai vincoli e ai controlli di stampo pubblicistico, che non hanno una collocazione territoriale ben definita – in questo senso sono soggetti pienamente coerenti con la dimensione globalizzata della nostra epoca – e assorbono, al loro interno, campi di intervento particolarmente vasti e decisivi negli equilibri socio-economici internazionali. Rispetto, dunque, ad un quadro complessivo in cui lo Stato nazione sembra essere sempre più relegato ad una condizione di subalternità rispetto ai nuovi assetti di potere, che trovano in una dimensione spazio-territoriale rarefatta e sfuggente il loro punto di forza, ritengo che lo sforzo da compiere sul piano giuridico, al fine di salvaguardare le prerogative di autonomia e indipendenza delle organizzazioni statali, non debba limitarsi alla denuncia dei fenomeni tendenzialmente erosivi della sovranità, quanto piuttosto tentare di realizzare un processo di rilettura, riconfigurazione e destrutturazione, laddove necessario, dell’apparato strumentale pubblicistico. ­25

Sembrerebbe che l’unica strada percorribile, allo stato attuale, sia quella di rafforzare la sfera pubblica, nella sua reale dimensione partecipativa e comune, in grado di esprimere nuove soggettività politiche, anche oltre la forma partitica di cui all’art. 49 Cost., in contrapposizione alle spinte lobbistiche e corporative. È ovvio che per evitare confusionismo sociale, frammentazione di finalità e obiettivi, nonché fenomeni lobbistici occorre la configurazione di soggettività politiche nuove in grado di alimentarsi attraverso un processo continuo di formazione e informazione intorno a programmi e obiettivi comuni e condivisi. Un soggetto politico che, partendo da una rilettura della nozione di metodo democratico di cui all’art. 49 Cost., sia in grado di mettere l’accento sull’inclusione. Infatti, l’immagine dei partiti arroccati sui propri privilegi e separati dal resto della società, dediti all’hollowing out, allo svuotamento della democrazia – sempre più potere nelle mani della leadership, sempre meno democrazia interna, sempre meno iscritti – dovrebbe cedere il passo ad un’altra, totalmente diversa, basata sull’allargamento dello spazio pubblico della politica e non sulla sua restrizione. Dentro questo spazio, non più separato dalle istanze della società, potrebbe muoversi una pluralità di attori politici nuovi. In questo modo si passerebbe dall’esclusione verticistica (il tesserato come spettatore passivo degli show dei suoi leader) all’inclusione orizzontale: il cittadino come agente in una struttura basata su regole democratiche. Al disarmo del pubblico e dei principi reggenti lo spazio pubblico, derogati con sempre maggior vigore da una legislazione aggressiva, occorre immaginare delle forme di auto-salvaguardia, prospettando nuovi ambiti di sperimentazione del sistema pubblicistico su versanti fino ad ora poco esplorati. C’è una base costituzionale di questa forma evolutiva del pubblico che tende al comune cercando di porne anche le radici democratiche: la democratizzazione del comune, ovvero una nuova dimensione del pubblico nella quale siano messi in grado di convivere, ma eventualmente anche di contrapporsi (attraverso dibattiti, istruttorie, controlli), elementi della democrazia della rappresentanza con elementi della democrazia della partecipa­26

zione e della democrazia di prossimità, dove, in particolare per i beni tesi al diretto soddisfacimento dei diritti fondamentali, si esca dal rapporto egoistico e individualistico tra dominus e bene, ovvero da alcuni limiti e abusi (rectius, inadeguatezza) della stessa proprietà pubblica. Infine, sembra opportuno distinguere, quando si parla generalmente dei processi di erosione della sovranità statale, tra quei fenomeni, quali appunto l’integrazione europea e il regionalismo, che avvengono all’interno di garanzie, quanto meno formali e procedurali di salvaguardia del principio di sovranità – e che pertanto sono di per sé tendenzialmente controllabili o comunque di percezione collettiva – e quei fenomeni di concentrazione del potere, ai quali si è fatto prima riferimento, che sfuggono completamente alle più elementari forme di osservazione e controllo. Queste nuove concentrazioni del potere sono caratterizzate da soggettività ambigue, nel senso che pur essendo il loro regime giuridico improntato sostanzialmente a principi e regole di diritto privato, esse sono, nella sostanza, espressione di processi di contaminazione tra sfera pubblica e sfera privata, di frequenti fenomeni di corruzione che rendono molto più complessa la prospettazione di nuovi piani di confronto. Sono, comunque, soggettività politico-economiche che si pongono agli antipodi del concetto di comune, poiché caratterizzate da un forte istinto proprietario escludente, da una forte spinta individualistica, dal perseguimento egemonico di interessi particolari, dalla ricerca spasmodica del profitto (M. Hardt, A. Negri, 2010). Soggettività politico-economiche che sono la risultante ibrida della concentrazione di interessi pubblici e privati all’interno di una rete globale di condensazione dei poteri, che percorre trasversalmente i centri nevralgici dei sistemi socio-economici globali. I territori fisici e virtuali sono intesi nella logica escludente, mercantile, proprietaria e gli istituti classici del demanio e della concessione non impediscono di fare affari su beni di appartenenza collettiva (si pensi all’abuso mercantile della concessione e ai processi di sdemanializzazione in tema di circola­27

zione dei beni). Soggettività aggressive, protette e orientate ora verso forme di assolutismo politico (soft law) ora verso forme di assolutismo giuridico (hard law), con l’obiettivo di trasformare, plasmare e orientare i soggetti e gli spazi pubblici. Una soggettività che non può essere arginata soltanto attraverso i principi costituzionali o la legalità costituzionale, ma ha altresì bisogno di strumenti che tendano a fondere il pubblico al comune o, meglio, che tendano, da una parte, a epurare il pubblico dalle sue contaminazioni e sovrastrutture, dall’altra, a conferire dimensione politica a questo nuovo fenomeno meta-giuridico che tende a nascere e ad espandersi soprattutto intorno ai beni comuni e che proviene direttamente dalle pratiche sociali e dal conflitto nei territori. Questa contrapposizione e conflittualità si concretizza nella chiara percezione di assistere ad un regresso di quella funzione del diritto pubblico ostacolata, prima e dopo la Costituzione di Weimar (J. Habermas, 1980), nei suoi obiettivi, da una logica permanente e contrastante di neutralizzazione dell’azione politica, che esprimeva formalismi giuridici e processi di positivizzazione di un diritto naturale, riflesso della parte dominante della civiltà europea (D. Zolo, 2002). 3. Dal pubblico al comune: segue La nuova idea di pubblico nasce dalla percezione di un fallimento o di un’ipocrita manipolazione della funzione sociale del diritto pubblico che, comunque, negli assetti proprietari e azionari, continuava ad essere ingabbiata da una visione proprietaria e capitalistica della società e frenata da ondate formalistiche proprie dell’assolutismo giuridico e da un’interpretazione forzatamente legalitaria del diritto. Si sente, dunque, l’esigenza di una nuova dimensione del diritto pubblico, che non vuole essere riassunta nell’espressione oltre lo Stato, ma piuttosto dentro e oltre un diverso Stato sociale, caratterizzato da soggettività diffuse, articolate, non burocratizzate e soprattutto capaci di meglio vedere e percepire, vivendo i conflitti, nuove esigenze e nuovi diritti. ­28

L’azione politico-legislativa in corso, ancor più nel simulacro della tecnocrazia dei c.d. governi dei tecnici, non è in grado di percepire le nuove dimensioni del pubblico, degli spazi in cui è necessario passare dal pubblico al comune (si pensi ai beni comuni materiali e immateriali); essa si concentra, invece, su un’attività di erosione e stravolgimento del diritto pubblico così come concepito in Costituzione, in particolare, ma non solo, nella parte relativa ai rapporti sociali e segnatamente di diritto del lavoro. Un diritto pubblico che sta, dunque, da una parte, perdendo progressivamente la sua spinta sociale – mai completamente realizzata secondo i dettami della Costituzione – e, dall’altra, si dimostra incapace a comprendere, dal di dentro, le istanze e le esigenze di cambiamento. Negli ultimi vent’anni si sono susseguite politiche legislative sempre più reattive ed estranee alla dimensione socio-economica, in quanto caratterizzate da forme regressive e reazionarie sul piano dei diritti civili: si pensi, in particolare, alla libertà d’informazione o al diritto dei migranti. Tuttavia, ciò che rappresenta un chiaro sintomo di arretramento sul versante socio-economico dell’azione dei pubblici poteri, sembra riconfigurarsi in termini di rivendicazione, ma anche di proposte e di controllo sul versante delle istanze sociali, di maggiore effettività di alcuni diritti fondamentali. Il richiamo, in particolare, al diritto di informazione e al diritto dei migranti rimanda ad una dimensione sociale in fase di significativa trasformazione, non solo per l’allargamento globale dei confini della dimensione collettiva – che di per sé richiede una nuova prospettiva di approfondimento delle dinamiche sociali – ma anche per i nuovi spazi di comunicazione che il progresso tecnologico attualmente consente. Si tratta, in entrambi i casi, di fenomeni che si collocano al di là dei tradizionali ambiti di intervento dei pubblici poteri e che esprimono istanze nuove di riconoscimento e salvaguardia. L’informazione, per esempio, rappresenta il focus di una molteplicità di questioni che investono, da un lato, i suoi nuovi spazi di accesso potenziati dal progresso tecnologico e dalla rete, dall’altro, gli ostacoli che ad esso, in alcune realtà politiche, po­29

teri ostativi determinano compromettendo, in una certa misura, la catena della legittimazione democratica di cui l’informazione rappresenta un tassello fondamentale. Non a caso, i frequenti fenomeni di partecipazione, con i quali molte realtà politiche si confrontano, maturano in contesti sociali da cui le istituzioni sembrano essere sempre più distanti. Non si può negare, infatti, che le istanze partecipative emergono soprattutto dalla crisi dei modelli politici rappresentativi e impegnano i cittadini in un processo complesso e faticoso, che molto spesso non approda a un significativo risultato in termini di incisività sulla decisione pubblica. In questo articolato percorso, l’informazione costitui­ sce l’elemento fondamentale di formazione di una coscienza civile attiva, la condizione indispensabile per qualsiasi forma di partecipazione consapevole, il requisito essenziale per determinare la maturazione di decisioni su questioni di carattere generale adottate attraverso criteri di razionalità. L’esigenza di una nuova dimensione del pubblico, che intende partire dai principi costituzionali, ma non rimanere ad essi ancorata, si confronta, dunque, con l’attuale processo d’imbarbarimento e di regresso dell’approccio democratico allo Stato di diritto, ben ancorato nella soggettivizzazione della posizione giuridica, nel suo dominio, nella sua spinta individualistica. Lo spazio pubblico, nel quale trovavano protezione e garanzia i diritti di cittadinanza, civili, politici e sociali, si è velocemente ridotto, riacquistando, da una parte, venature autoritarie, dall’altra, libertarie, che sembravano oramai definitivamente superate. Il modello e le categorie del comune non nascono come completamento del progetto costituzionale – espressione comunque del brocardo l’ésprit de lois c’est la proprieté – quanto piuttosto per contrapporsi a quello strano intreccio dai tratti inquietanti, di difficile lettura e interpretazione, che configura appunto un nuovo modello di diritto pubblico, un nuovo modello di spazio pubblico, che sembra avere una sola matrice unitaria, ovvero la difesa di posizioni dominanti, ora reattive verso lo Stato e ai suoi limiti imposti alle libertà economiche, ora reattive verso i processi di integrazione dei soggetti più deboli, e soprattutto dei migranti, visti come possibili competitors o, peggio, disturbatori ­30

della quiete pubblica. Regressi, dunque, sia rispetto ai diritti economico-sociali che civili. In questo senso, tende a riproporsi quella concezione del diritto pubblico precedente alla formazione dello Stato democratico (assolutismo giuridico), in cui la legge corrisponde al diritto, in cui l’azione della maggioranza parlamentare s’impone, refrattaria a qualsivoglia limite esterno, anche se espresso dalla Corte costituzionale (J. Habermas, 2002). Svanisce, o comunque si ridimensiona progressivamente, quella dimensione sociale dello Stato di diritto, quella grande conquista costituzionale, che aveva rappresentato nel tempo la base culturale per l’affermazione dei diritti soggettivi pubblici nella loro prescrittività, nella loro effettività. La naturale diffidenza dell’approccio liberale dello Stato di diritto nei confronti dell’approccio sociale, tesa ad affermare la propria ideologia soggettivistica dei diritti e la sua propensione per una società fondata sul valore della sicurezza delle libertà individuali e del diritto di proprietà escludente, ha cavalcato due slogan, quello della privatizzazione delle responsabilità pubbliche e della proprietà, per reagire alle spese pubbliche, agli abusi e alle disfunzioni del pubblico, divenuto sempre più intreccio di interessi pubblico-privati, e quello dell’insicurezza e solitudine dei cittadini, sintetizzata da Beck nell’espressione «la società del rischio» (U. Beck, 1986). 4. Ancora sui processi di privatizzazione del diritto pubblico: il pubblico impiego La volgare ideologia del privato è bello e della paura del diverso ha sicuramente influenzato i processi normativi di riforma che, talvolta, anche con superficialità e leggerezza, hanno mutuato categorie giuridiche da modelli stranieri in maniera del tutto a-critica e a-sistematica. Si pensi, ad esempio, all’infatuazione per il modello britannico di Blair, alla c.d. terza via ispirata da Giddens (A. Giddens, 2000), al modello nord-americano del new public management (D. Mone, 2011), che, in parte, ispirava le riforme di Bassanini della metà degli anni Novanta, con l’o­31

biettivo di una profonda rivisitazione concettuale della pubblica amministrazione e del rapporto di pubblico impiego. In particolare, il pubblico impiego è stato progressivamente allontanato dagli schemi classici della dimensione pubblicistica, per essere condotto progressivamente nell’orbita privatistica della contrattazione, con forti dubbi di legittimità in merito al rispetto degli artt. 97 e 98 Cost., che continuano a fissare i principi del rapporto di pubblico impiego nel rispetto del buon andamento e dell’imparzialità. Infatti, con il d.lgs. n. 29 del 1993 viene sancita la privatizzazione, o meglio la contrattualizzazione del pubblico impiego e, dunque, parificata la disciplina giuridica dell’impiego pubblico con quella dell’impiego privato. Oggi tale atto è confluito nel testo unico contenente norme generali sull’ordinamento del pubblico impiego. Tra gli effetti della privatizzazione, appunto, si annota la contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, l’assoggettamento alla normativa di diritto privato, la natura privatistica di tutti gli atti di gestione del rapporto di lavoro. 5. Il disarmo della pubblica amministrazione Uno dei punti critici del diritto pubblico, così come ha svolto il suo ruolo e la sua funzione durante l’affermazione dello Stato sociale, è stato il lento declino della pubblica amministrazione e soprattutto la sua progressiva soggezione al potere politico, o meglio ai più o meno grandi potentati politici. Un disarmo della pubblica amministrazione, alleggerita negli assetti proprietari e ridimensionata nelle sue attività di gestione e di controllo, tale da mettere in crisi due pilastri della nostra Costituzione: il principio dell’imparzialità e il principio del buon andamento. La trasposizione del linguaggio aziendalistico e delle categorie privatistiche all’interno della pubblica amministrazione, attraverso un processo riformatore cominciato all’inizio degli anni Novanta, si fondava sull’idea che si dovesse modernizzare l’intera struttura. Si è ritenuto, erroneamente, che il miglioramento della pubblica amministrazione, in termini di efficienza ed efficacia, dovesse passare attraverso il ricorso al diritto pri­32

vato, ai suoi modelli contrattuali di negoziazione, subordinando l’attività amministrativa al principio dell’efficienza, ignorando che il principio di distinzione politica-amministrazione, presupposto in Costituzione, sia altro dal principio di separazione fra politica e gestione, presupposto nelle teorie del new public management (D. Mone, 2011). Si è ritenuto che lo snellimento delle procedure dovesse passare attraverso la riduzione o addirittura l’abolizione dei controlli esterni e che il corpus amministrativo-dirigenziale fosse più affidabile ed efficiente se scelto dal politico di turno, secondo il modello dello spoil system nord-americano, successivamente dichiarato incostituzionale (sentenza Corte costituzionale n. 103, 2007). Il tutto con un sindacato sempre più vicino al potere politico, e sempre più spesso espressione di azione politica, piuttosto che portatore degli interessi della funzione pubblica. L’effetto è stato devastante, il governo pubblico dell’amministrazione si è notevolmente ridotto, ed essa, piuttosto che restare servente al perseguimento degli interessi pubblici, è diventata ancella del potere politico, dei partiti politici, degli interessi forti, declinando dalla sua funzione costituzionale di paladina degli interessi pubblici. Ovviamente sono aumentati i fenomeni di illegalità e di corruzione, l’intelaiatura sempre più debole della pubblica amministrazione non è stata più messa in grado di fronteggiare l’invasività della politica, e questo lo si è visto segnatamente nel settore delle concessioni, degli appalti pubblici di servizi e forniture, nel governo del territorio e nella tutela dell’ambiente, soltanto per fare alcuni esempi. Sono stati nominati ai posti più alti e delicati della pubblica amministrazione personaggi selezionati in base alla lealtà al partito, o peggio ancora alle relazioni lobbistiche, piuttosto che alla competenza specifica posseduta, pur vigendo leggi che affermavano chiaramente il principio di distinzione fra politica e amministrazione. Si sono concretizzati fenomeni di feudalizzazione della pubblica amministrazione – ben descritti all’inizio del Novecento da Weber e successivamente da Michels (R. Michels, 1966) – che dimostrano come tale processo abbia nel suo complesso offuscato il concetto di interesse pubblico (F. Ferrarotti, 1993). ­33

Strumenti privatistici e organi straordinari o speciali hanno preso il posto dell’atto pubblico e della struttura amministrativa, consentendo al privato di imporre, in maniera illegale e non, i propri interessi. In conclusione, si è persa la naturale separazione politicaamministrazione che aveva caratterizzato, seppur a fasi alterne, l’evoluzione dello Stato liberale e allo stesso tempo si è persa la capacità attiva della pubblica amministrazione, tipica dello Stato sociale, di affermare e garantire concretamente l’effettiva tutela dei diritti. La nuova forma del diritto pubblico dovrebbe puntare decisamente ad un riarmo della pubblica amministrazione e ad affermare e garantire i principi costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità, ripristinando la funzione dei controlli esterni, ancora più essenziali all’interno di modelli con sovrapposizioni sempre più frequenti pubblico-privato. Un’amministrazione separata, dunque, dalla politica, eppure non separata dalle istanze partecipative, anzi servente nell’ambito della gestione dei beni comuni ad un ruolo attivo, anche gestionale, dei cittadini, quale garante dell’imparzialità e dell’inclusività ai processi. Un’amministrazione che sappia dialogare, con discrezione, con le associazioni, i comitati, i movimenti, non con l’intento della cooptazione o, peggio ancora, della dismissione di responsabilità, ma con il chiaro obiettivo di arricchire di contenuti e di istanze il percorso procedimentale, conferendo ai cittadini anche un ruolo gestionale, oltre che di iniziativa e controllo. All’amministrazione ovviamente spetterà la responsabilità di mantenere sempre vivi i processi dialettici con le molteplici soggettività politiche e sociali. Ma a questo modello si arriva solo in presenza di un diritto pubblico capace di relazionarsi con i vari soggetti e di vivere vari stadi procedimentali, anche conflittuali, sulla base di ben determinati principi. Il processo decisionale è pubblico e la partecipazione autodeterminata, informata e formata s’innesta in uno spazio pubblico, nel quale deve permanere, in ogni momento, il primato degli interessi generali, nell’ambito del quale la parte­34

cipazione deve rappresentare un plus-valore. In sostanza, spetterà all’amministrazione pubblica la continua dialettica con le istanze partecipative, nel rispetto dei principi dell’imparzialità e dell’inclusività. Questa funzione delicata, esercitata nella consapevolezza di dover cedere sovranità e discrezionalità, è l’unica che può rappresentare garanzia di equilibrio nella determinazione e attuazione delle politiche pubbliche tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa. 6. Lo strumento della regolazione: cenni L’alleggerimento delle strutture amministrative pubbliche e il ridimensionamento delle sue funzioni attive e di controllo sono stati accompagnati dalla costruzione di una nuova categoria del diritto pubblico, quanto meno estranea alla nostra tradizione, quella della regolazione (G. Marcou, 2006), la quale, tuttavia, almeno in Italia, nella sua dimensione tecno-burocratica, non è riuscita, fino adesso, ad impedire quel processo di feudalizzazione della società, nel quale il potere politico non esiste di per sé, ma è soltanto una funzione del potere economico, che coincide con la proprietà privata e con il potere e la volontà dei più forti (F. Neumann, 1973). Si tratta di un fenomeno complesso che determina un nuovo assetto di identificazione del potere, non più rintracciabile nelle sole tradizionali forme istituzionali, ma rinvenibile in una veste inedita di tendenziale asservimento alle logiche economiche e – aspetto questo particolarmente rilevante – la cui mappatura è caratterizzata da una serie di coordinate che rivelano percorsi piuttosto ramificati di diffusione, magari più visibili da lontano ma che a una distanza ravvicinata, paradossalmente, si rischia di perdere di vista. In altre parole, non sempre le traiettorie del potere sono così facilmente identificabili, e non sempre quelli che le suggestioni di un certo tipo di informazione ci suggeriscono essere i centri di catalizzazione dei poteri forti, poi lo sono davvero e in quella data misura. Ciò che questa riflessione vuole suggerire è che non sempre il potere è caratterizzato da ­35

un sufficiente grado di visibilità, anzi il più delle volte gli oggetti che noi tradizionalmente identifichiamo come simboli di forza e verso i quali rivolgiamo l’attenzione rappresentano, in un certo senso, il simulacro di una visione un po’ risalente delle dinamiche di conflitto. Viviamo, infatti, un’epoca in cui le forme di condizionamento sono più capillari, in cui probabilmente gli apparati pubblici deputati allo svolgimento di funzioni sociali apparentemente innocue nascondono, per come sono gestite, forme molto più insidiose di sopraffazione a danno dei diritti fondamentali. Si pensi, per fare un esempio, alle vicende ultime che hanno investito in Italia il settore della protezione civile, apparato pubblico tradizionalmente deputato alla gestione di eventi calamitosi, sia naturali che antropici, e dunque a servizio dell’incolumità pubblica, che invece si è rivelato un settore di catalizzazione di interessi economici forti, che nulla hanno a che vedere con lo spirito di servizio nel pubblico interesse. Nuove categorie giuridiche, neo-feudali, neo-patrimoniali, neo-contrattuali, spesso frutto dell’emergere della rozza sintesi pubblico-privato e di un coinvolgimento confuso e strumentale della società civile, lontano dai reali modelli partecipativi e assecondate da un complessivo disarmo della pubblica amministrazione, hanno dunque determinato la configurazione di inedite forme del diritto pubblico, estranee alla nostra Costituzione, ma anche ai processi originari evolutivi, al punto da imporre una rilettura dei suoi principi fondanti. 7. Trasformazione del diritto pubblico sociale e affermazione della nuova e ibrida categoria giuridica della regolazione Le dismissioni di beni e servizi, il ridimensionamento dell’apparato amministrativo in merito alle attività di gestione e controllo inerenti beni e servizi pubblici, a partire dagli anni Novanta, da una parte contribuiscono ad una netta trasformazione del diritto pubblico sociale engagé, dall’altra introducono la nuova categoria giuridica della regolazione (G. Marcou, F. Moderne, 2006). ­36

Non rientra nell’economia del lavoro analizzare la funzione svolta in Italia dalle autorità di regolazione, né l’ampio dibattito sviluppatosi in dottrina; tuttavia, il fenomeno è preso in considerazione per il suo grado d’incidenza sulla trasformazione del diritto pubblico e dello Stato sociale nel suo complesso. Infatti, con l’introduzione della funzione di regolazione nell’ordinamento giuridico italiano si passa da un modello di amministrazione, con radici ben salde nella Costituzione (buon andamento e imparzialità), ad altro mutuato da esperienze straniere di matrice anglosassone. Inoltre, questa trasposizione di modelli stranieri è avvenuta anche con finalità opposte rispetto a quelle che hanno rappresentato la ragione principale della loro introduzione nelle politiche pubbliche europee e italiane relative ai servizi pubblici nel corso degli ultimi due decenni. Come evidenziato in dottrina: «essa, infatti, è servita oltreoceano per legittimare un intervento pubblico in settori prima dominati dalla libera iniziativa economica e, inoltre, è stato proprio attraverso la regolazione che si è reso possibile costruire un assetto monopolistico nel settore delle telecomunicazioni» (C. Iannello, 2006, p. 82). Pertanto, in Italia, la nozione di regolazione ha assunto la qualifica di strumento al servizio dei processi di privatizzazione, piuttosto che di liberalizzazione, ovvero più che favorire l’apertura dei mercati essa ha agevolato processi economico-finanziari di dismissioni pubbliche (servizi e beni) a vantaggio di gruppi privati. Ai regimi di monopolio sono, in realtà, subentrate poche realtà societarie private o miste, configurando l’insorgere di evidenti strutture oligopolistiche. La funzione originaria della regulation – questa sì in armonia con l’impianto costituzionale – nel suo obiettivo di temperare le libertà economiche, riconducendole in un alveo di coesione economico-sociale e territoriale – soprattutto temperando i profitti – è stata completamente disattesa dal diritto pubblico attuale. Le autorità di regolazione, che hanno duramente inciso sul modello di Stato sociale e sulle responsabilità dirette delle istituzioni pubbliche, in contrasto con i principi di neutralità e imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., ­37

non hanno avuto quale obiettivo il perseguimento dell’interesse generale, ma piuttosto hanno svolto un’azione di supporto al contingente indirizzo politico-economico, fortificando di fatto oligopoli privati. È evidente, al di là di meri formalismi e ipocrite argomentazioni, che la nuova categoria giuridica della regolazione, che tenta di superare la divisione tradizionale tra diritto pubblico e diritto privato riproponendo schemi che ormai si ritenevano definitivamente superati, s’introduce in Italia, ma in parte anche in Francia, con l’obiettivo di determinare una profonda trasformazione delle relazioni tra Stato ed economia, con un ritiro delle forme tradizionali dell’interventismo economico e lo sviluppo di forme nuove a sostegno del dinamismo del mercato. È innegabile che il modello astratto di amministrazione previsto dalla Costituzione, e mal realizzato nella realtà, garantiva un grado di distacco e autonomia rispetto al potere politico molto più significativo rispetto a quello che possono garantire le autorità di regolazione. Da una parte, il principio dominante dovrebbe restare il concorso, dall’altra, la nomina, e già questa differenza incide innegabilmente sul loro differente grado d’imparzialità. Questa considerazione è valida, inoltre, con riferimento alla pubblica amministrazione nel suo complesso, ove il principio costituzionale del pubblico concorso, strettamente funzionale alla garanzia dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione, è sostituito costantemente da quello di nomina di fatto per tutti i livelli dirigenziali. In conclusione, gli obiettivi della concorrenza in settori strategici dell’economia sono stati sostanzialmente disattesi a vantaggio della formazione di oligopoli e d’intrecci pubblico-privato. Non è stato raggiunto neppure l’obiettivo di un alleggerimento della regolamentazione; è ben chiaro che la regolazione non può rappresentare un’alternativa alla regolamentazione. La regolazione, come funzione del potere pubblico, ha di fatto determinato un irrigidimento normativo in luogo dell’aspettata flessibilità collegata allo sviluppo del mercato (G. Marcou, F. Moderne, 2006). Pertanto, l’insorgere delle autorità di regolazione, a parte i dubbi di costituzionalità (M. Manetti, 1997), ha contribuito al disar­38

mo della pubblica amministrazione, riducendo le sue funzioni e agevolando, se non incentivando, le dismissioni del patrimonio pubblico, provocando il depauperamento strutturale del nostro Paese. Si pensi, da ultimo, al potere attribuito all’Antitrust in materia di privatizzazione dei servizi pubblici locali dall’art. 23 bis legge n. 133 del 2008, così come modificato dall’art. 15 del decreto legge n. 135, convertito in legge n. 166 del 2009 (oggi integralmente abrogato dagli esiti referendari del 12 e 13 giugno 2011), potere in grado di governare e gestire il processo di dismissione delle ex municipalizzate, che potranno ambire ad erogare ancora i servizi di loro spettanza, salvo istruttoria e parere dell’Authority. Questa norma abrogata e illegittimamente riproposta con l’art. 4 della legge n. 148 del 2011 (anch’esso abrogato con sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 2012), fatta eccezione per l’acqua, assegna sostanzialmente all’Antitrust il potere di decidere sulla sopravvivenza o meno degli affidamenti in house, che hanno continuato a garantire, seppur non sempre in maniera trasparente, il servizio universale in ambiti delicati e strettamente connessi alla tutela dei diritti fondamentali (A. Lucarelli, 2011e). 8. Ancora sulle nuove forme del diritto pubblico e loro impatto sui diritti civili e socio-economici: un quadro disarmonico rispetto alla Costituzione Le politiche pubbliche degli ultimi anni impongono una rilettura del principio di solidarietà, del principio di eguaglianza, del diritto al lavoro (con tutti i suoi corollari), del principio di unità ed indivisibilità della Repubblica, delle politiche militari, della libertà di informazione, della funzione sociale della proprietà, del ruolo dello Stato nell’economia – in particolare negli ambiti relativi ai servizi pubblici essenziali la cui gestione coinvolge direttamente i diritti fondamentali sacralizzati in Costituzione, ma la cui effettiva garanzia dipendeva e dipende dal diritto pubblico, e in particolare dalla sua dimensione sociale. Si sono progressivamente configurate forme di snaturamento e semplificazione del diritto pubblico che lo hanno ricondotto, ­39

da una parte, ai suoi modelli primordiali autoritari politico-amministrativi, mutandone anche il grado di responsabilità (diritto pubblico autoritario); dall’altra, lo hanno spinto verso forme di assolutismo politico che oggi potremmo definire fondate su un rozzo ricorso alla sussidiarietà orizzontale e alla soft law. Circolano nel mondo giuridico, sociale ed economico nuove forme del diritto pubblico, espressione di contingenti e a-sistematici interventi legislativi che, come monadi impazzite, producono effetti devastanti (si pensi da ultimo alla c.d. spending review introdotta con il decreto legge n. 95 del 2012, che sostanzialmente, riducendo ulteriormente le risorse ai comuni, impedisce di svolgere le funzioni loro attribuite dalla Costituzione). Attraversiamo un’epoca nella quale è in corso un processo di trasformazione del diritto pubblico, o perlomeno della sua democratica dimensione sociale e garantista – così come prevista nella nostra Costituzione – e parallelamente e minacciosamente si configurano e si alternano, secondo uno schema libero e flessibile, che rende il quadro ancora più incerto e fosco, variegate forme del diritto pubblico disarmoniche al quadro costituzionale. Si tratta di forme, apparentemente pragmatiche e funzionalistiche, tese a dare risposte immediate alle esigenze, ai bisogni e alle insicurezze dei cittadini, che in realtà esprimono determinati principi, da una parte tesi a comprimere la fascia delle libertà individuali, secondo una visione autoritaria, poliziesca e a volte razzista e xenofoba; dall’altra, tesi a ridimensionare la funzione attiva, di gestione e di controllo delle pubbliche amministrazioni, con l’obiettivo mercantile di sottrarre i beni comuni alla piena disponibilità dei cittadini, trasformandoli in merci per ottenere profitti e agevolare il funzionamento di una società liberista, fondata sui flussi finanziari e sulla proprietà azionaria e immobiliare. Ci si trova, dunque, dinanzi a modelli e forme del diritto pubblico del tutto nuovi, ibridi, assolutamente da studiare nelle loro peculiarità e nei processi di formazione. Un nuovo corpus del diritto pubblico, invadente sul versante penale e timido sul versante economico-sociale; nuove rappresentazioni del diritto pubblico che non sembrano possedere gli strumenti adeguati ­40

per affrontare le nuove sfide globali, e soprattutto inidonee a trovare soluzioni all’attuale crisi economica, sociale, occupazionale, ambientale, energetica. Si tratta di un nuovo corpus del diritto pubblico ancor più, rispetto a quello previsto nella Costituzione del Quarantotto, radicato in società capitalistiche. Un modello alternativo del diritto pubblico non può fondarsi unicamente su una rilettura aggiornata dei principi costituzionali, ma deve avere la forza di configurare un diverso sistema sociale, basato nettamente sull’opposizione al capitalismo, «cioè come critica radicale di quelle forme di società nelle quali il rapporto tra le forze sociali, i processi decisionali e la tecnica, il lavoro, la vita quotidiana, i modelli di consumo e di sviluppo portano il segno di una pretesa di rendimento più grande possibile» (A. Gorz, 1992, p. 9). Questa forma rivoluzionaria viene espressa in tutti gli ambiti nei quali i diritti sociali e i diritti di partecipazione siano collegati alle questioni dei beni comuni e dove il pubblico non è in grado di soddisfarli al di fuori di logiche che coinvolgano la moltitudine, senza bloccare comportamenti che possano essere autenticamente collettivi. 9. Le nuove forme privatistiche del diritto pubblico e le nette divergenze con il modello liberale Nel processo di formazione delle nuove categorie del diritto pubblico sono state spesso richiamate le radici della tradizione liberale, anche come giustificazioni a politiche pubbliche dissonanti con le fondamenta costituzionali, o comunque dissonanti con quella dimensione sociale che caratterizza la Costituzione del Quarantotto. In realtà, come vedremo, tali categorie emergenti non hanno nulla in comune con la più profonda cultura liberale, che ha sempre – spesso anche per motivi egoistici e speculativi – valorizzato il ruolo dello Stato nell’economia (M.S. Giannini, 1993), ma sono il più delle volte espressione di poteri extra-giuridici che, in quanto tali, perpetuano rapporti di disuguaglianza, cui viene dato il nome suggestivo di poteri selvaggi (N. Bobbio, 2002, p. 14). C’è, dunque, un richiamo improprio alla tradizione liberale, ­41

il cui sviluppo, a cavallo dei due secoli, si caratterizzava, al contrario, per una decisa responsabilizzazione dello Stato e per un diritto pubblico che, conscio delle sue responsabilità, si spostava gradualmente dalla sua dimensione politico-costituzionale, tesa per sua vocazione naturale alla difesa della proprietà e delle libertà individuali, ad una dimensione amministrativa, tesa a regolare e gestire l’insorgere dei problemi economico-sociali tipici di una società in trasformazione e, nella sua struttura e nei suoi attori, progressivamente più complessa. Una forma del diritto pubblico che non significava affatto esuberanza e prevalenza dell’istituzione pubblica sul privato e sul cittadino, ma rigorosa separazione tra interessi pubblici e privati, la cui confusione avrebbe prodotto il disprezzo per i diritti e i doveri civili e il malgoverno nella vita degli Stati (G.M. Chiodi, 1992). Un diritto pubblico immaginato per fronteggiare le perniciose contaminazioni del pubblico con il privato, intrecci che, il più delle volte, nulla hanno in comune con il perseguimento degli interessi generali. Ed è proprio in questo periodo, in particolare nel periodo giolittiano, che ben si comprende, anche tra le fasce più avvertite dell’alta borghesia imprenditoriale, come soltanto un saldo ruolo dello Stato, fondato su un saldo diritto pubblico, avrebbe consentito di fronteggiare l’insorgere di oligopoli privati a danno della concorrenza e della reale tutela delle libertà economiche (L. Einaudi, 1962). Un diritto pubblico, già concepito nell’Ottocento dagli hegeliani napoletani, che presupponeva una vera e propria linea di continuità tra Spaventa e Croce sul versante delle responsabilità dello Stato e nella sua dimensione etica e nel suo grado d’incidenza sui diritti soggettivi (N. Bobbio, 1977). Tracce di questo dibattito si ritroveranno successivamente nella c.d. Costituzione economica. È evidente che si trattava ancora di una forma del diritto pubblico fondata su una netta separazione politica-amministrazione-cittadini, alla quale sfuggivano le categorie del Welfare State, della partecipazione e del conflitto, quest’ultimo sempre risolto egemonicamente da una classe dirigente, dall’élite culturale (G. Mosca, 1982). Nel modello liberale di diritto pubblico il cittadino rimaneva ­42

destinatario delle decisioni frutto di politiche pubbliche determinate dall’alto. Si rappresentava un processo riduzionistico – in Italia ben evidenziato da Santi Romano – che seppe cogliere tra Stato e individuo la presenza di una terza dimensione, quella di natura collettiva, diversa dallo Stato, che scompaginava l’ordine borghese (S. Romano, 1969b). Con Santi Romano il diritto pubblico si approcciava a quella dimensione sociale, poi affermata con Weimar e fortemente voluta nella nostra Costituzione. Un modello liberale, dunque, che, seppur a fasi alterne e non sempre tra loro sincroniche, esprimeva la volontà di affermare l’aspetto tridimensionale del diritto pubblico (politico, amministrativo e sociale) delineando, seppur in maniera rudimentale, gli strumenti per comprendere e dirimere i conflitti sociali. 10. Nuove forme del diritto pubblico e processi riduzionistici Le nuove forme del diritto pubblico accentuano il suo profilo politico, nella determinazione di precisi obiettivi e nella manifesta volontà di tutelare certe fasce sociali, a discapito di altre. Cercare oggi, dunque, radici in modelli precedenti, quale il modello liberale, rappresenta unicamente il tentativo di strumentalizzare e trovare ragioni e giustificazioni culturali per legittimare i processi in corso. Oggi più che parlare di modelli, è più facile parlare di processi di natura politica, poco strutturati dal punto di vista giuridico, economico, sociale, ma ben determinati sul piano delle scelte e degli obiettivi da raggiungere. Si è in presenza sul versante economico-sociale di uno Stato che si ritrae, ma che è pronto a risorgere per tutelare specifiche situazioni, ad esempio di natura finanziaria e/o sicuritaria, creando confusione tra interessi generali e particolari, tra interessi pubblici e interessi privati e soprattutto pronto a utilizzare strumenti del diritto privato. Sul versante penale e delle garanzie ricompaiono gli aspetti minacciosi del diritto pubblico autoritario che sembravano ormai appartenere al passato, che nulla hanno in comune con la cultura del garantismo e dell’eguaglianza sostanziale; basti pensare alla repressiva disciplina xenofoba e razzista sui migranti, ma anche ai provvedimenti legislativi che, sulla base ­43

dell’emergenza, interpretano lo stato di necessità come fonte del diritto, ledendo i diritti di partecipazione, con un alto grado di irresponsabilità nei confronti dei conflitti sociali. Ed è noto che uno degli elementi che ha caratterizzato il passaggio dallo Stato autoritario allo Stato democratico sia stato proprio la negazione che una situazione potesse di fatto tramutarsi in fonte del diritto, in fonte di diritti e obblighi. Si colpiscono proprio le istanze partecipative, più o meno organizzate, che avevano rappresentato il carburante dei processi democratici, e che comunque avevano contribuito allo sviluppo della dimensione sociale del diritto pubblico, oltre al profilo gestionale-amministrativo. Esse risentono in negativo di un quadro generale, nel quale fenomeni di concentrazione hanno progressivamente compresso la libertà di informazione e il senso pubblico radiotelevisivo, creando di conseguenza un forte vulnus al diritto di partecipazione. Ed è noto che, intanto, i modelli partecipativi possono essere efficaci, e non oggetto di processi cooptativi, se posti in grado di alimentarsi attraverso una permanente informazione e formazione. In conclusione, dinanzi all’attuale e confuso quadro normativo, non è facile individuare specifiche e determinate radici della cultura giuridica alla base dell’attuale processo involutivo del diritto pubblico; ciò che è possibile rimarcare è il regresso in corso rispetto a determinati traguardi raggiunti nel tempo dal diritto pubblico, nella sua sintesi dinamica di principi e regole tese a governare i processi economico-sociali.

III

Effettività e ineffettività del diritto pubblico sociale

1. Diritto pubblico sociale: ancora sulle contaminazioni privatistiche In una società che diviene progressivamente sempre più complessa, nella quale la separazione individuo-Stato tende a ridursi, attraverso strutture intermedie formalmente privatistiche, ma a vocazione pubblicistica (sindacati, partiti, comitati, movimenti, associazioni, fondazioni), la struttura del diritto pubblico liberale-borghese, propria dello Stato di diritto, inizia quel processo di trasformazione che lo porta ad acquisire progressivamente la sua vocazione, che chiameremo funzionale e/o sociale. Il discrimine che contraddistingue il passaggio dal diritto pubblico liberale-borghese al diritto pubblico funzionale-sociale, in estrema sintesi, non è da individuarsi nel maggiore o minore ruolo dello Stato, quanto piuttosto nelle dinamiche che hanno portato al passaggio dallo Stato di diritto allo Stato democratico, caratterizzato quest’ultimo dall’eguaglianza sostanziale, dall’affermazione dei diritti fondamentali (garantismo), anche attraverso la previsione di modelli di temperamento dell’onnipotenza legislativa che hanno posto limiti al potere legislativo attraverso organi di garanzia quali la Corte costituzionale (la legalità costituzionale). Un diritto pubblico, dunque, che contribuisce a modellare il nascente Stato sociale, che dà impulso e forma alla legislazione sociale, che si oppone alla separazione individuo-Stato e che tende ad attuare quelle parti della Costituzione non auto-applicabili, non immediatamente prescrittive. ­45

Ed è proprio questa forma del diritto pubblico, funzionale o sociale, che ha subito negli ultimi vent’anni le maggiori modifiche e trasformazioni, alcune fisiologiche – legate ad una società sempre più aperta – altre indotte dalla trasformazione della forma di Stato, dalla mutata nozione di sovranità statuale e di rappresentanza popolare, entrambe erose dall’insorgere di centri di potere economico-finanziari, antagonisti rispetto ai processi decisionali tipici della democrazia. Una parcellizzazione degli interessi dovuta a fenomeni interni ed esterni all’ordinamento giuridico. Quella forma del diritto pubblico, tesa decisamente all’affermazione delle categorie giuridiche dello Stato sociale – in alcuni casi sua ancella –, ha progressivamente perso la spinta ideale verso l’eguaglianza dei cittadini, verso l’eguaglianza democratica o sostanziale, venendo meno anche alla sua funzione di trasformare i principi in prestazioni a vantaggio dei diritti dei cittadini. Quel diritto pubblico, che aveva costituito il faro per le politiche pubbliche e sociali degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, è stato ridimensionato a vantaggio delle discipline civilistiche. Un’inversione di rotta rispetto alle tendenze degli anni Settanta, che invitavano a leggere e ad interpretare il diritto civile fra il codice e la Costituzione (F. Lordon, 2010), in particolare per quanto atteneva agli istituti del contratto e della proprietà (F. Lucarelli, 1970). Un’inversione di rotta che sembrerebbe ricondurre, quanto meno per quanto attiene a metodo e strumenti, il diritto pubblico alla fase precedente alla svolta gerberiana (M. Fioravanti, 1979), attraverso una contaminazione di categorie proprie del diritto privato, sulla quale pesa, e ha pesato, anche l’influenza del diritto comunitario – in particolare nella componente anglosassone – che non riconosce il diritto pubblico come un corpus avente una valenza autonoma. Una contaminazione che ha risentito anche della fusione delle due dimensioni di civil law e di common law, attraverso l’azione dell’Unione europea, diventata nelle sue istituzioni soggetto di produzione normativa. Su questo piano, come vedremo successivamente, si sta avendo la reazione attraverso un processo innovativo e fondativo del diritto pubblico europeo dell’economia. ­46

Queste commistioni e fusioni, che, ipocritamente, troverebbero base nell’elemento unificante dei diritti fondamentali e nelle nuove esigenze economico-sociali, in realtà esprimono l’esigenza di anteporre interessi di parte, individuali e corporativi, in posizione di prevalenza rispetto agli interessi generali (F.P. Casavola, 2006). Al di là della forma si nasconde in questo processo un ritorno alla dimensione feudale e medioevale dello jus commune e primordiale della lex mercatoria (P. Grossi, 2009), precedente alla costruzione degli Stati-nazione, con l’innesto di categorie non giuridiche, proprie delle discipline economicoaziendali. Tali contaminazioni hanno trovato volgari e semplicistiche giustificazioni nell’esigenza di modernizzare, alleggerire, semplificare il diritto pubblico, ponendo in secondo piano l’aspetto più peculiare del diritto pubblico funzionale o sociale, ovvero la difficile sintesi tra esigenze di carattere generale ed esigenze individuali, sacrificando, come vedremo, la dimensione sociale, ma anche quella gestionale-amministrativa. Si è verificata, quindi, una vera e propria inversione di rotta, in quanto non solo il diritto civile e il diritto commerciale si sono scrollati di dosso il pesante fardello della dimensione pubblicistica della Costituzione che, in particolare, con le nozioni di funzione sociale della proprietà e di fini sociali dell’attività di impresa, aveva condizionato l’iniziativa economica dei privati, ma anche il diritto pubblico è stato progressivamente colonizzato dal diritto privato e dalle sue categorie. È evidente che da tale processo ne è uscita fortemente penalizzata proprio la dimensione sociale del diritto pubblico, ovvero quella più invasiva nei rapporti tra privati, che sposta la tutela dai diritti alle effettive garanzie. 2. Le riforme e il regresso del diritto pubblico funzionale: un «vulnus» per l’effettività dei principi costituzionali Le riforme degli ultimi anni, che hanno coinvolto il quadro istituzionale e i rapporti tra economia e diritto, indebolendo l’effettiva tutela dei diritti sociali, sono anche, e soprattutto, il ­47

risultato di un coacervo di eventi economico-finanziari e geopolitici, esogeni ed endogeni al nostro ordinamento giuridico. Contingenti indirizzi politici di maggioranza, espressione di regole formalmente valide, ma illegittime, indotti anche da ordinamenti sovranazionali, da evoluzioni (o involuzioni) della forma di Stato e da mutevoli scenari economici, hanno inciso – reciso – anche su quei principi che contribuiscono alla definizione della forma di Stato sociale e del modello di Costituzione economica (A. Lucarelli, 2004). Una produzione normativa, espressione di indirizzi politici contingenti, che si discosta dall’ordinamento giuridico formale, che depotenzia o neutralizza principi fondativi, rendendoli di fatto inefficaci e quindi non effettivamente validi (R. Alexi, 1997). Eventi spesso disarticolati e disomogenei tra loro, indotti da crisi economico-finanziarie, da crisi energetiche, ambientali, alimentari, caratterizzati, con logiche neo-colonialiste, dallo sfruttamento sempre più violento dei soggetti deboli e di tutti i diritti ad essi riconducibili (G.A. Ritter, 1996). Un processo involutivo che ha reciso le radici dello Stato sociale, creando insicurezze e conflittualità sempre più drammatiche (B. de Jouvenel, 1971). Un processo politico-economico e istituzionale che ha cercato, nel mito dello Stato minimo del liberal contractualism, di neutralizzare il diritto pubblico, innescando un processo regressivo dell’effettiva garanzia dei diritti sociali, in contrasto con le tesi più aderenti al concetto di democrazia sostanziale finalizzate ad assorbire i diritti di cittadinanza nella più ampia categoria dei diritti universali (A. Føllesdal, 2000). 3. Ancora sulla crisi del diritto pubblico sociale La sostituzione progressiva dei processi decisionali pubblici e dell’atto pubblico a vantaggio di scelte economico-finanziarie, espressione di modelli neo-contrattuali (A. Burgio, 2006), lobbistici e neo-feudali, rappresentate attraverso il ricorso alla soft law o all’insorgere dei legal standards e della spending review spinge ­48

a interrogarsi sul senso e sulla funzione più profonda del diritto pubblico oggi. A interrogarsi su quale possa essere, in questo momento storico, la sua funzione: una funzione democratica di regolamentazione e gestione dei processi economico-sociali, raggiunta attraverso lotte e sacrifici che hanno contrassegnato il passaggio dalla formula astratta e formale dello Stato di diritto, fisiologicamente anti-democratica, caratterizzante i modelli del liberalismo autoritario dell’Europa continentale a cavallo tra il XIX e il XX secolo, allo Stato sociale. Un ruolo che aveva trovato in Italia il proprio approdo e fondamento positivo, oltre che ideale-culturale, e la propria consacrazione, nella Costituzione del 1948. Un diritto pubblico che, sempre più spesso, è piegato da logiche nelle quali chiusi e protetti centri di potere, di derivazione mista pubblico-privato (si pensi a tutto l’universo di società di capitali di proprietà pubblica o alle società miste pubblicoprivato), sono utilizzati come propaggine della società civile, rappresentativi di interessi particolari che, solo marginalmente, possono incrociarsi con gli interessi pubblici. L’istituto del contratto, in generale gli strumenti privatistici, ovviamente, si addicono, in una logica flessibile di permanente negoziazione, a soddisfare un coacervo confuso ed assemblato di istanze. Gli istituti della concessione e dell’appalto di beni e servizi pubblici, il ricorso a gare sempre meno trasparenti, divengono costante tentazione di mutuo scambio di favori. In assenza di vere liberalizzazioni, ma di temporanei trasferimenti di servizi e beni al privato o a soggetti misti pubblico-privato (processi di dismissione), sorgono relazioni pericolose tra autorità pubblica e gestorefornitore. Forme di corruzione e depauperamento delle risorse pubbliche che si sviluppano prevalentemente intorno al business dei servizi pubblici locali e allo sfruttamento privatistico dei beni comuni, soprattutto a causa di un atteggiamento irresponsabile del soggetto pubblico. Tali processi, come vedremo nei paragrafi successivi, sono stati ben rimarcati nei lavori della Commissione Rodotà incaricata dal governo Prodi di modificare quella parte del codice civile del 1942 relativa alla proprietà pubblica. ­49

4. I processi di democratizzazione del diritto pubblico: idee e percorsi verso il diritto pubblico-sociale Il diritto pubblico nelle monarchie costituzionali della seconda metà dell’Ottocento ha assunto, come è noto, un ruolo politico di mantenimento dello status quo e successivamente ha contrassegnato, e a volte accelerato, il processo di democratizzazione del liberalismo autoritario e il passaggio dallo Stato di diritto allo Stato sociale, dallo Stato monoclasse allo Stato pluriclasse. Esso ha contribuito a trasformare quella radice autoritaria, e metodologicamente privatistica, della funzione amministrativogestionale del diritto pubblico, in Italia fortemente influenzata da Orlando, in una dimensione più democratica nel rapporto tra istituzioni e cittadino. Dal formalismo pan-dettistico e dal metodo giuridico, in cui al diritto pubblico veniva assegnata una funzione normalizzatrice degli assetti economici e dei rapporti di forza, utilizzando categorie del diritto privato, si passa al realismo del diritto pubblico, ad un diritto pubblico che vuole gestire e non semplicemente essere stampella e appoggio del decisionismo politico o mero complesso di norme dal carattere burocratico-amministrativo. Un diritto pubblico che, attraverso la dimensione sociale, vuole stimolare l’amministrazione attiva a intervenire nelle dinamiche sociali, non soltanto per gestirle e modellarle, ma per comprenderle e risolverle, partendo da una prospettiva che è quella dei soggetti più deboli. Un ruolo indispensabile dunque che, pur nascendo con l’obiettivo dichiarato di salvaguardare lo status quo, e in particolare gli interessi della nobiltà delle rendite e della borghesia emergente degli affari, ha saputo progressivamente tracciare le piste dei processi economici e regolare i conflitti sociali, spostando il baricentro della democrazia dal piano formale a quello sostanziale, realizzando il passaggio dallo Stato liberale allo Stato democratico, favorendo quella dimensione nella quale l’individuo viene preso in considerazione nella molteplicità dei suoi status e dei suoi possibili conflitti (N. Bobbio, 1995); una dimensione nella quale non è più sufficiente una democrazia politica, ma occorre una democrazia sociale ed economica. ­50

Un diritto pubblico che, in ogni caso, ha origine da organi parzialmente rappresentativi, ancora all’interno di sistemi elitari. Dunque, un diritto pubblico che inizia a percepire le priorità racchiuse nell’interesse generale, nell’utilità sociale, ma che tuttavia svolge la sua azione ancora all’interno di modelli istituzionali non democratici, caratterizzati dal suffragio ristretto. Come vedremo, il percorso di democratizzazione del diritto pubblico è stato possibile in Italia sulla base di una Costituzione che, nel trentennio 1960-1990, è stata messa in condizione di vivere attraverso politiche legislative sempre più orientate al sociale. Si è passati da una dimensione programmatica della Costituzione ad altra di natura prescrittiva. Un periodo in cui i giusprivatisti diedero un contributo più incisivo dei giuspubblicisti, soprattutto attraverso una lettura orientata di istituti quali il diritto soggettivo, la proprietà, il contratto, il negozio giuridico. Si ravvisa la trama razionale dell’economia politica e una formula meno vaga del modo di produzione capitalistico. La Costituzione inizia a fungere da base di una società e di un mondo nuovo, che dall’art. 3, comma 2 Cost., ossia dal principio di eguaglianza sostanziale, ricavano la loro legittimazione. Tale principio tende ad essere una sorta di Grundnorm al quadrato, una sorta di super-principio al quale ricollegare e ricondurre gli altri principi, oltre che ovviamente i diritti civili, i diritti di partecipazione e i diritti socio-economici. Questa costruzione teorica trovava poi una sua strategia operativa attraverso l’azione del legislatore e un uso trasformativo del medesimo argomento affidato, in via preferenziale, al giudice (L. Nivarra, 2008). 5. Costituzione e funzione sociale del diritto pubblico Il modello di diritto pubblico, delineato dalla nostra Costituzione, si allontanava, dunque, sia dal metodo dello Staatswissenschaftliche di von Stein, sia dal metodo giuridico di Gerber, Laband, Jellinek, poi recepito in Italia da Orlando, rivolto a regolamentare e organizzare lo Stato di polizia, il rapporto autorità-libertà, la tutela delle libertà individuali. ­51

Il diritto pubblico, delineato dalla nostra Costituzione, in particolare nella parte relativa ai rapporti economico-sociali, avrebbe dunque le potenzialità di collegarsi ai poteri sovrani, ma con il senso politico dell’agire amministrativo; senso politico dell’agire amministrativo che non significa asservimento al potere politico, ma piuttosto assunzioni di responsabilità nella gestione diretta di servizi pubblici e beni comuni. Un diritto pubblico funzionale, dunque, ad una società sempre più carica di aspettative, bisogni, conflitti. Un diritto pubblico che è allo stesso tempo norma fondamentale di garanzia, da opporre ai poteri che intendano violarla, e indirizzo fondamentale per l’azione futura di quei medesimi poteri (M. Fioravanti, 2006). Tralasciando la parentesi del diritto pubblico nel ventennio fascista, che meriterebbe una specifica riflessione, la Costituzione italiana rappresenta la chiusura definitiva del diritto pubblico con la Scuola del metodo giuridico orlandiano, cioè con quel metodo che portava in sé i modelli privatistici di un’amministrazione servente ad un indirizzo politico tendenzialmente autoritario e comunque orientato, secondo le logiche del liberalismo autoritario, in via primaria alla tutela delle libertà individuali e alla difesa dei valori e degli interessi dello Stato borghese. Come rilevava Mayer, anche innovando la tradizione dell’Etat administratif chiuso in se stesso e separato dalla politica, il diritto pubblico andava posto al servizio della nuova realtà dello Stato sociale, superando il continuo ricorso al diritto privato, comunque ispirato ai due cardini dello Stato borghese-autoritario: proprietà privata e contratto. Questo sembra essere il senso più profondo della nostra Costituzione, nella quale la funzione del diritto pubblico non intende confondere il quadro politico-costituzionale con quello amministrativo-gestionale, né confondere la dimensione pubblicistica con quella privatistica; non c’è confusione tra Stato e società, né si intende creare confusione tra il modello sociocentrico e il modello Stato-centrico, ben rappresentati e distinti negli artt. 2 e 3 della Costituzione. Nel nuovo diritto pubblico costituzionale, secondo la già delineata visione tridimensionale, vi è invece una percezione ­52

politica e non solamente giuridica, di necessaria estensione progressiva delle forme pubblicistiche al contesto dei rapporti economico-patrimoniali. La configurazione di un modello che si contrappone all’azione amministrativa, intesa secondo schemi formalistici e del diritto privato, orientandola prevalentemente al c.d. buon governo della cosa pubblica. È evidente che dall’entrata in vigore della Costituzione il vero compito del diritto pubblico, o meglio quello più profondo, non sarà in prevalenza quello di difendere le libertà individuali, restando all’interno della griglia autorità-libertà, ma di divenire diritto di prestazioni, con una percezione politica forte, in grado di comprendere i problemi sociali. La frattura con la pan-pubblicistica autoritaria di ispirazione labandiana e, quindi, anche con il metodo orlandiano è evidente; in tali costruzioni, infatti, non si configurava un vero spazio giuridico pubblicistico, il diritto pubblico aveva quale priorità «l’organizzazione del potere del sovrano», si affrontava il tema dei diritti soggettivi pubblici dei cittadini, unicamente quale scienza che studia il diritto dello Stato. Inoltre, in questa visione privatistica del diritto pubblico si insisteva anche sulla gestione patrimoniale e privatistica di servizi e beni pubblici, anche di quelli c.d. essenziali. Per Orlando, anche nel campo di fini eminentemente pubblici, si poteva restare nel campo del diritto comune. Attraverso un diritto pubblico, dunque, al servizio dello Stato e delle posizioni dominanti ma non in grado di percepire e regolare fenomeni dall’alto impatto sociale, né di proporsi quale intersezione tra politica e amministrazione, allorquando nel dibattito fa ingresso il grande tema della giustizia sociale e dell’eguaglianza sostanziale. Un diritto pubblico, invece, in Costituzione, che va anche oltre la lungimirante intuizione di Santi Romano che, pur percependo una società in evoluzione e la conseguente incapacità del modello pubblicistico orlandiano a dare risposte efficaci alle nuove esigenze, non delinea in toto le nuove responsabilità cui esso deve far fronte. Santi Romano, pur realizzando il pericolo di una rivolta della società contro lo Stato, affida alla teoria del pluralismo e dei gruppi di interesse, piuttosto che alla funzione sociale del diritto pubblico, la soluzione dei nuovi conflitti (N. Bobbio, 1975). ­53

La vera dimensione del diritto pubblico si avverte, invece, in tutta la sua pienezza, quando esso mostra un radicato interesse per la politica sociale; quindi, piuttosto che composizione di interessi diffusi e orizzontali, il diritto pubblico percepisce e si propone di risolvere le ingiustizie, i conflitti, le contraddizioni, disseminate nel rapporto istituzioni-società e all’interno della società stessa. Quanto più è grave e profondo il conflitto sociale, tanto più si percepisce l’esigenza del diritto pubblico, tanto più se ne esalta il ruolo. Si passerebbe, dunque, da un approccio strutturale ad un approccio funzionale del diritto pubblico, con la consapevolezza che il primo, piuttosto che il secondo, agevola contaminazioni ideologiche, apparentemente asettiche rispetto alla dimensione politica. Il diritto verrebbe inteso come mezzo per raggiungere fini, anche se il fine non va inteso come un problema storico, ma piuttosto di assoluta rilevanza giuridica, in quanto rientrante nella sfera dell’effettività e dell’accesso reale al diritto. La Costituzione italiana del 1948 si caratterizza proprio per la sua dimensione pubblicistica, per la vocazione funzionale di alcuni istituti, quali l’iniziativa economica, la proprietà, i servizi pubblici, volti all’utilità e alla funzione sociale. Siamo però sempre all’interno dello Stato sociale, ovvero di un capitalismo più o meno umanizzato, cioè all’interno di un modello nel quale sono state imposte legislazioni sociali. Il diritto pubblico sociale comunque ha svolto il suo ruolo all’interno del modello capitalistico fondato su proprietà e contratto, al cui interno sono state poste delle restrizioni che non hanno radici in una società realmente solidale. Pertanto, il diritto pubblico sociale, lo Stato sociale, le legislazioni sociali hanno compensato la decomposizione delle comunità di base e della coesione sociale fondata su sentimenti di comune appartenenza e sul diritto degli individui all’autodeterminazione. 6. Il «vulnus» dell’effettività: la non applicazione dei principi costituzionali e la proliferazione di regole eversive Sarebbe, dunque, possibile affermare che la dimensione della sovranità statuale, unitamente alla dimensione sociale – dalle quali potremmo far discendere definizioni quali beni comuni ­54

e beni sociali piuttosto che demanio e patrimonio indisponibile – troverebbero una perfetta sintesi nella Costituzione del 1948. Ma questo quadro che, come è noto, esprimeva o, meglio, avrebbe dovuto esprimere un indirizzo politico dai contenuti normativo-prescrittivi, perde progressivamente forza sul piano della effettività. È come se la dominante matrice giuridico-culturale del diritto pubblico in Costituzione non riuscisse sul piano legislativo-giudiziario ad esprimere tutta la sua potenzialità. La sintesi contenuta nella triade buon governo, qualità della pubblica amministrazione e dimensione sociale, espressa proprio dal diritto pubblico, non riesce sul piano dell’effettività ad affermarsi. All’inattuazione del progetto giuridico e politicocostituzionale si associa un progetto giuridicamente eversivo, ovvero l’adozione di un complesso di regole, alcune anche di rango costituzionale, o di provenienza comunitaria, obiettivamente in contrasto con i principi fondativi della Repubblica (R.M. Dworkin, 1977). Penso, ad esempio, alla riforma del titolo V della Costituzione con la configurazione, tra l’altro, di un c.d. diritto pubblico regionale, non del tutto in armonia con la prima parte della Costituzione o ad una serie di atti e sentenze di provenienza comunitaria che hanno mitizzato la concorrenza, innalzandola a principio orientatore delle politiche pubbliche, in contrasto con le parti economico-sociali della nostra Costituzione. Regole, dunque, che, ponendo in primo piano, dal punto di vista economico-sociale, la persona sia individualmente (atomismoliberale), sia attraverso formazioni sociali (sussidiarietà orizzontale), hanno di fatto posto in discussione l’impianto pubblicistico della Costituzione. 7. Processi di riforma: dal disarmo del diritto pubblico al diritto pubblico autoritario In Europa, il modello dello Stato leggero, fortemente caldeggiato e sostenuto dal new labour di Blair, fondava le proprie strategie su un progressivo disarmo delle istituzioni pubbliche, ritenute «inefficienti e costose» e quindi non in linea con i para­55

metri finanziari di Maastricht (S. Holmes, C.R. Sunstein, 2000). Il Welfare andava sostituito con variegate applicazioni del principio di sussidiarietà orizzontale (Workfare, Welfare ­Society, Welfare Mix), modelli che si caratterizzano per un coinvolgimento della società civile nell’erogazione dei servizi pubblici, anche essenziali; dove anche il policentrismo della sussidiarietà verticale gioca un ruolo negativo attraverso la frammentazione delle responsabilità politiche (A. Lucarelli, 2006). Questo modello configura un quadro istituzionale che si reggerebbe su non ben definiti processi di governance che si sviluppano in assenza di un fondamento giuridico prescrittivo (regolamenti, direttive), proponendo un c.d. neo-contrattualismo (A. Burgio, 2006), svincolato da principi, che si muove in un groviglio di regole semi-pubbliche. Un modello che contribuisce al disarmo delle istituzioni pubbliche, dell’atto pubblico e obiettivamente in opposizione alla formazione e all’insorgere di un diritto pubblico europeo dell’economia. Un disarmo delle istituzioni classiche del diritto pubblico determinato anche dall’incalzare del potere politico delle regioni che, proponendo, appunto, un discutibile diritto pubblico regionale, non soltanto ha indebolito le autorità centrali, ma ha altresì innescato un progressivo indebolimento dei comuni. Ciò sta determinando una erosione dell’attività dei comuni, amplificata da una fortissima restrizione dei trasferimenti di risorse finanziarie. Un disarmo, dunque, che sta colpendo proprio quelle istituzioni che storicamente si erano assunte il compito di erogare i servizi pubblici e di soddisfare i bisogni primari dei cittadini; un disarmo al quale stanno contribuendo dissennati processi di liberalizzazione e privatizzazione, incapaci di influire sugli aspetti economici e della produzione, in grado soltanto di incidere, nel breve periodo, nel settore della finanza e della borsa. Un processo che ha colpito le istituzioni pubbliche, non soltanto nelle loro funzioni redistributive o di regolazione, ma anche nella capacità di soddisfare direttamente i diritti; un processo che, in particolare dagli anni Sessanta – anche grazie ad un ruolo prezioso svolto dalla magistratura – ha contribuito alla formazione e all’evoluzione dello Stato sociale. Ci si è trovati ­56

di fronte a processi di riforma utilizzati in modo eversivo per supportare progetti politici, interpretando la Costituzione come una legge qualsiasi. Dalla grande riforma Craxi-Amato della fine degli anni Settanta, alle riforme Bassanini, alla c.d. Costituzione invariata degli anni Novanta, alla Bicamerale D’Alema, alla riforma del titolo V, alla legge costituzionale del 2006 – avente ad oggetto tutta la seconda parte della Costituzione – voluta dal governo Berlusconi e poi bocciata dal referendum confermativo, è in corso un processo di strumentalizzazione politica del concetto di riforma fino alla recente riforma dell’art. 81 Cost.; un processo che sembrerebbe voler riprendere con un non ben definito metodo bipartisan (A. Lucarelli, 2000). Ancora più preoccupante sembrerebbe il risorgere di un diritto pubblico autoritario, minaccioso e violento, che intende attribuire allo Stato la funzione di paladino della sicurezza e della proprietà privata, assolutamente irresponsabile, o peggio aggressivo, nei confronti dei conflitti sociali e delle nuove istanze. Ciò azzera i successi dello Stato democratico, facendolo regredire allo Stato di polizia della fine dell’Ottocento, con un diritto pubblico che a sua volta regredisce dalle sue responsabilità politiche e amministrative, sempre più contaminate dalle categorie del diritto privato. I provvedimenti del governo Berlusconi, in tema di sicurezza e rifiuti, da una parte, hanno espresso intolleranza verso tutte le differenze, fissando nuovi reati (si pensi al reato di clandestinità), dall’altra, militarizzano parti del territorio – per la realizzazione di discariche – limitando le istanze partecipative e la libertà di riunione, costituzionalmente garantite. Pertanto il rischio è quello di annullare quel processo di democratizzazione che, attraverso un ruolo attivo del diritto pubblico, aveva contrassegnato il passaggio dallo Stato di polizia allo Stato democratico-sociale. Il timore è che il disarmo del diritto pubblico possa essere il preludio di un percorso autoritario e incostituzionale, una vandalizzazione dei principi costituzionali – penso in particolare ai principi di eguaglianza e solidarietà – attraverso un’azione dei poteri pubblici che mette in pericolo i diritti umani. ­57

Credo fermamente che il vero processo di riforma, l’unico che possa fronteggiare disarmi e involuzioni autoritarie, sia quello di ripartire dalla Costituzione, anche andando oltre, con l’inclusione di fatto della categoria dei beni comuni e con un maggiore spazio per la democrazia partecipativa. Occorre ripartire da tutti quei principi di equità e giustizia sociale non ancora attuati e quotidianamente disattesi. Sono convinto che tutta la dimensione pubblicistica della nostra Costituzione sia stata abbandonata e messa in soffitta. Si è interrotto quel processo di responsabilizzazione funzionale del diritto pubblico, quale naturale luogo di incontro tra politica, amministrazione e società che trovava il proprio fondamento in Costituzione; si è interrotto quel processo di consolidamento dello Stato sociale, sostituito da un’irresponsabile e frammentata mucillagine istituzionale, che troverebbe le sue basi nella convergenza del principio di sussidiarietà orizzontale con la sussidiarietà verticale. Ripartire dalla Costituzione, per andare oltre la Costituzione – senza necessariamente modificarla – con la consapevolezza che occorre andare oltre il binomio capitalistico sovranità-proprietà, per creare un reale orizzonte di emancipazione e autonomia, e soprattutto di diritto degli individui all’autodeterminazione, non negando ma limitando i criteri della democrazia rappresentativa, laddove espressione mistificatoria della realtà.

IV

Forme e categorie per un nuovo modello di democrazia. Beni comuni e democrazia partecipativa

1. Crisi del diritto pubblico-sociale e ricerca di forme e categorie alternative Il processo di democratizzazione del diritto pubblico e il suo diretto engagement nelle dinamiche economico-sociali, si interrompono bruscamente dall’inizio degli anni Novanta. Vengono studiati e prospettati modelli alternativi del diritto pubblico, portatori di una contaminazione sempre più frequente pubblico-privato. Tale processo determina una trasformazione del diritto pubblico e un suo allontanamento dai principi ispiratori della Costituzione. Prendono piede processi di trasformazione del diritto pubblico e, in senso più ampio, responsabilità statuali che, in presenza dell’attuale crisi economica, hanno mostrato tutta la loro fragilità e iniquità. Occorre, dunque, un forte sforzo di ripensamento, di analisi e di proposta; uno sforzo che sia ben consapevole dei mutamenti, dello sconfinamento e del ridimensionamento del diritto pubblico e di tutte le sue nuove categorie (M.R. Ferrarese, 2006). Va subito detto, per evitare pretestuose e strumentali critiche, che non si ha come obiettivo quello di utilizzare la crisi per riproporre sic et simpliciter quella forma di Stato sociale inveratasi in Europa nel secondo dopoguerra. Infatti, non è immaginabile la ricostruzione e il riemergere di un diritto pubblico identificabile unicamente con più Stato e proprietà pubblica o semplicemente intendendolo come ancella dello Stato sociale; ­59

occorre piuttosto una ricostruzione intelligente della sua funzione attuale, in un quadro in cui l’erosione della sovranità statuale e la crisi dei modelli classici della rappresentanza costituiscono un dato imprescindibile, che consente a maggior ragione di poter parlare di diritto pubblico europeo dell’economia (A. Lucarelli, 2006) e di diritto pubblico regionale o addirittura locale (democrazia locale). Occorre sforzarsi di immaginare politiche pubbliche locali in un quadro in cui la democrazia della partecipazione, nelle sue variegate espressioni e manifestazioni, tenda a infrangere le deboli intelaiature della democrazia della rappresentanza nelle quali le categorie pubblico-privato tendano a confondersi. Occorre sforzarsi di immaginare, e quindi contribuire a costruire, un diritto pubblico che svolga la sua funzione in presenza di istanze che tendono e intendono abbattere l’ipocrita applicazione del principio della sovranità popolare, perno della democrazia della rappresentanza che, anche nella forma del diritto pubblico sociale, aveva ben nascosto sostanziali diseguaglianze. Un diritto pubblico sociale comunque calato nel capitalismo, nel quale la valorizzazione del capitale domina la vita, le attività, la scala dei valori e i fini individuali e sociali. Il principio della sovranità popolare contiene un elemento di finzione ideologica, giacché il popolo è differenziato in classi e gruppi minori, portatori di diversi e contrastanti interessi, il tutto secondo una ferrea logica escludente e gerarchica. In sostanza, dietro lo schermo della volontà popolare, si affermano volontà particolaristiche di gruppi privilegiati, capaci di imporre orientamenti e indirizzi unicamente conformi ai loro interessi egoistici (V. Crisafulli, 1985). Occorre, dunque, la volontà di andare oltre le finzioni ideologiche, oltre il mito della sovranità popolare e della rappresentanza, al fine di porre tutti i cittadini concretamente in grado di concorrere su di un piano di effettiva parità reciproca, e, quindi, con piena e consapevole autodeterminazione alla formazione della volontà popolare governante. Dunque, per parlare di reale partecipazione, al di là delle finzioni ideologiche, è necessario che l’autodeterminazione dei cittadini diventi un fatto reale, soltanto in questo caso ­60

la partecipazione potrà innalzarsi a diritto politico e a diritto sociale (J. Habermas, 1980). Occorre immaginare politiche pubbliche locali in grado d’interpretare, a tutela dei soggetti più deboli e indifesi, la trasformazione dello Stato sociale, in un quadro di depauperamento e deterioramento delle risorse comuni, nel quale il pubblico non gestisce più i beni di sua proprietà e i beni comuni sono sistematicamente posti sul mercato, a vantaggio di pochi. In un quadro in cui si generano rigurgiti razzisti e xenofobi, stigmatizzati da un’interpretazione e da un ricorso sicuritario e poliziesco del diritto pubblico, occorre immaginare politiche pubbliche locali realmente partecipate, tali da arricchire e rendere effettivo il principio della rappresentanza. Politiche pubbliche partecipate, espressione e garanzia dei beni di appartenenza collettiva, tali da fronteggiare la degenerazione di un sistema istituzionale nel quale i luoghi della rappresentanza contano sempre meno e le decisioni sono divise tra esecutivi e gruppi di pressioni solitamente legati agli interessi delle grandi multinazionali. Si dovrà parlare di governo pubblico della partecipazione, nell’ambito del quale affidare alle politiche locali la dimensione del sociale, ovvero l’intreccio dinamico tra diritti di partecipazione e necessità di affermazione dei diritti fondamentali. S’immaginano politiche pubbliche locali (democrazie locali) che sappiano effettivamente far vivere la formula contenuta nell’art. 1 della Costituzione, che ancora oggi sembra una semplice formula decorativa, priva di coerenti sviluppi e perciò astratta, che sappiano fronteggiare e porsi come alternativa «allo stabile e gerarchico ordinamento sociale, garantito se non da privilegi feudali certo dalla proprietà e dalla cultura» (J. Habermas, 1980, p. 11). È necessaria, in questo quadro di frammentazione dell’interesse pubblico e di privatizzazione dei beni di appartenenza collettiva (beni comuni), dei beni pubblici, dei beni sociali, venutosi a realizzare il più delle volte per irresponsabilità del soggetto pubblico, la costruzione di una nuova forma del diritto pubblico, capace di leggere le nuove categorie giuridiche, economiche, ­61

sociali, al punto da andare oltre il rapporto dominicale dominus-bene, o comunque in grado di rappresentarlo a condizioni diverse. È necessario immaginare una nuova forma del diritto pubblico che tuteli e valorizzi quei beni funzionali all’effettiva tutela dei diritti fondamentali, come beni di appartenenza collettiva e sociale, andando oltre le dicotomie pubblico-privato e proprietà (titolarità)-gestione. Ma per raggiungere tali obiettivi è necessario un diritto pubblico che sappia rivolgere le sue funzioni oltre il pubblico e risulti, per l’appunto, capace di governare e gestire le categorie dei beni comuni e della democrazia partecipativa. 2. I beni comuni e gli aspetti fondativi per una teoria giuridica La trasformazione dello Stato sociale (rectius, crisi), il progressivo deterioramento e depauperamento delle risorse comuni, la privatizzazione dei beni pubblici (dismissione e gestione privatistica) e il conseguente indebolimento dei diritti fondamentali ad essi riconducibili, rende necessaria una riflessione giuridica sui beni comuni o risorse comuni, da svolgere all’interno di un quadro politico-istituzionale, in grado di fissare principi e regole. Fin tanto che lo Stato ha gestito i beni pubblici di sua proprietà, limitando il ricorso all’istituto della concessione per i beni demaniali (gestione) e impedendo facili processi di sdemanializzazione (circolazione) non risultava di immediata necessità distinguere i beni comuni dai beni pubblici. Il problema si acuisce allorquando la gestione passa (attraverso concessioni, gare, affidamenti, processi di sdemanializzazione) progressivamente a soggetti privati o misti e alle istituzioni pubbliche resta unicamente la mera titolarità del bene. Un passaggio relativamente semplice dal pubblico al privato che evidenzia tutti i limiti della logica proprietaria a difendere i diritti di appartenenza collettiva sui beni comuni. La percezione e la consapevolezza della debolezza della proprietà pubblica – anche nella sua dimensione costituzionale – a garantire, secondo parametri di solidarietà ed eguaglianza, la tutela dei diritti fondamentali, spinge alla costruzione di una ­62

nuova categoria giuridica, quella dei beni comuni, che nella sua applicazione e gestione sottende ad un nuovo modello di democrazia alternativa alle logiche della rappresentanza e della dicotomia pubblico-privato. Occorrono atti forti di discontinuità, il tempo delle riforme è finito, anzi è naufragato in un sistema costituzionale comunque fondato sulle logiche del capitale. Occorre immaginare la configurazione di una teoria giuridica relativa ai beni comuni, strettamente correlata al soddisfacimento dei diritti fondamentali e ai nuovi modelli di democrazia: oltre la sovranità e la rappresentanza autoritarie. La riflessione parte da una considerazione, ovvero che, al momento, i beni comuni, come categoria giuridica, non sono presenti nel nostro ordinamento giuridico, ad eccezione di alcuni riferimenti in ambito locale e altri di carattere giurisprudenziale (Corte di Cassazione, sentenza n. 3665 del 14 febbraio 2011). Si tratta, piuttosto, di una nozione filosofica, meta-giuridica, che deriva dall’economia, anche se, come vedremo successivamente, da un punto di vista storico è possibile individuarne tracce nel sistema giuridico romano (P. Maddalena, 2011). È una nozione da alcuni anni dibattuta a livello politico, di forte impatto anche populistico e demagogico; una nozione coinvolta sempre più dalla tensione dicotomica Stato-società; beni pubblici-beni privati; servizi pubblici-concorrenza; interessi pubblici-interessi privati; utili-profitti. Si tratta, dunque, di una questione che ha riacquistato tutta la sua vitalità nell’era della globalizzazione e della privatizzazione dei servizi pubblici, alla quale si aggancia il principio della tutela effettiva dei diritti fondamentali e la rilettura del binomio sovranità-rappresentanza. Inoltre, l’insorgere di processi sospinti dal principio di sussidiarietà verticale e le nuove competenze di comuni e regioni hanno accentuato gli aspetti critici, contribuendo a frammentare il governo e la gestione di questi beni, che per loro natura richiedono – pur nel rispetto delle identità locali – omogeneità (per evitare facili processi di comunitarismo), proprio in quanto tesi alla tutela di diritti fondamentali e, in senso più ampio, ad un nuovo modello di democrazia. L’ambizione è di porre la centralità dei diritti fondamentali ­63

nell’ambito del governo dei beni comuni, ricondurre il bene, piuttosto che al dominio, al diritto, nel rispetto di principi quali la coesione economico-sociale, la sostenibilità ambientale, il servizio universale, la giustizia sociale, con la consapevolezza di ragionare su terreni mobili e sdrucciolevoli, su istituti e categorie in costruzione, su beni oggetto, sempre più, dato il loro depauperamento e contestuale aumento della domanda, della bramosia dei mercati finanziari e delle grandi multinazionali (A. Lucarelli, 2003a). Insomma, ciò che affermava negli anni Sessanta uno dei maggiori giuristi del XX secolo, Salvatore Pugliatti, cioè che: «la distinzione tra res in commercio e res extra commercium ha perduto di importanza», va rimeditato e ripensato (S. Pugliatti, 1962, p. 28). Occorre, invece, proprio ripartire dalla distinzione tra res in commercio e res extra commercium, al fine di rimarcare la distinzione tra beni pubblici e beni comuni, considerando i primi – ancorché pubblici – ormai inclusi, alla pari dei beni privati, a tutti gli effetti nelle logiche del mercato. Si pone con tutta la sua forza il problema della dimensione mercantile del demanio. Le res extra commercium, non potendo più essere considerate beni illimitati e inesauribili, diventano sempre più beni in senso giuridico e quindi desiderio di appropriazione e di gestione mercantile, ancor più se espressione di monopoli naturali. Ciò aumenta la responsabilità delle istituzioni pubbliche, non in quanto proprietari del bene, ma in quanto tutori degli interessi generali e dei valori etico-sociali, riconducibili alla protezione del bene stesso e quindi in quanto soggetti responsabili verso le generazioni future (R. Bifulco, 2008). Per costruire una nozione giuridica dei beni comuni occorre partire da una visione universalista dei diritti (oltre popolo, territorio e governo) per approdare e ancorarsi, sul piano della effettività, a regole certe. È necessario fissare (ma nel senso di trovare e non provare) valori-principi-regole, per oggettivizzare, sul piano della effettività, determinati principi, che mirano – ponendo in collegamento funzionale bene e funzioni – alla sopravvivenza e alla convivenza. Un unico ordinamento giuridico altermondialista che nasce ­64

dal basso, frutto di conflitti e di differenti istanze sociali e di diverse soggettività, che contribuisce alla configurazione della quarta dimensione del diritto pubblico svincolata dal binomio autoritario sovranità-proprietà, oltre la dimensione sociale. Si propone, dunque, di partire dall’individuazione di una cornice di principi e dalla natura del diritto, piuttosto che dall’individuazione del bene – processo tra l’altro estremamente complesso (E. Ostrom, 1990) – per identificare il bene comune. Partiremo da principi generali, quali la coesione economicosociale e territoriale, da diritti fondamentali, ovvero dall’universalizzazione dei diritti per passare poi, attraverso decisioni politiche – processi tipici del diritto positivo – e conflitti sociali, alla tutela della persona sia come individuo morale che sociale, andando oltre la dimensione egemonica della soggettività. Tuttavia, si propone questa tesi con la consapevolezza che dal riconoscimento occorre spostarsi alle garanzie, all’oggettività, all’effettiva tutela dei diritti; coscienti del fatto che la tutela effettiva rischia di essere compromessa dal trasferimento di diritti esclusivi sul bene (si pensi alla concessione) o dal riconoscimento di situazioni di fatto, possessorie e gestionali (si pensi alla gestione delle risorse idriche o, in senso più ampio, dei servizi pubblici essenziali, attraverso istituti privatistici quali le holding e le società commerciali), o peggio ancora da «veloci» processi di sdemanializzazione. La dimensione sociale, anche nei suoi profili fisiologici, in quanto comunque sviluppatasi all’interno di un modello di democrazia delineata soltanto nella rappresentanza e nel regime proprietario, non ha avuto la forza di impedire l’insorgenza di processi egemonici ed individualistici, fondati sul saccheggio dei beni di appartenenza collettiva. I beni comuni sono beni che, al di là della proprietà, che è tendenzialmente dello Stato, o comunque delle istituzioni pubbliche, assolvono, per vocazione naturale ed economica, all’interesse sociale, servendo, quali beni di appartenenza collettiva, immediatamente non l’amministrazione pubblica, ma gli stessi cittadini (A.M. Sandulli, 1959). Si è in presenza di beni destinati ad un uso comune, cui sono ­65

ammessi tutti indistintamente, senza bisogno di un particolare atto amministrativo; anzi, sono beni che non sarebbero, fisiologicamente, oggetto né di concessioni né di gare per la gestione. I beni comuni sono normalmente definiti dalla scienza del diritto amministrativo di proprietà collettiva (M. Arsì, 2003), anche se è preferibile accogliere la definizione gianniniana di beni collettivi (M.S. Giannini, 1993), proprio perché per loro natura estranei alla logica mercantile del regime proprietario. Più che il titolo di proprietà (pubblico o privato), dunque, rilevano la funzione e l’individuazione dei diritti; rileva la situazione di fatto piuttosto che il titolo formale, risultano più importanti, appunto, per la tutela effettiva del diritto, il momento possessorio (accessibilità e fruibilità) e la fase gestionale, che il titolo di proprietà del bene (L. Capogrossi Colognesi, 1988). Si arriva all’identificazione dei beni comuni dal basso, ovvero attraverso le pratiche, i conflitti sociali e soprattutto attraverso la percezione diffusa che quel bene debba soddisfare esigenze collettive. Non potrà mai trattarsi di una categoria merceologica definibile astrattamente dall’alto. Non si è in presenza, di fatto, di un bene demaniale o patrimoniale dello Stato, o comunque di un bene riconducibile all’istituzione pubblica, ma, si è in presenza, invece, di una res communis omnium, che, al di là del titolo di proprietà, è caratterizzata da una destinazione a fini di utilità generale; si è in presenza di un bene orientato al raggiungimento della coesione economico-sociale e territoriale e al soddisfacimento di diritti fondamentali. Quindi si tratta di beni che il pubblico può disporre e orientare soltanto per soddisfare esigenze collettive e diritti fondamentali (limiti all’istituto concessorio e ai processi di sdemanializzazione). Ci muoviamo, dunque, in una dimensione che oscilla come un pendolo tra diritti e beni, in cui l’esistenza di un contenuto minimo del diritto naturale non è una condizione inerente alla definizione del sistema giuridico, ma una condizione inerente al suo buon funzionamento (H.L.A. Hart, 1958). L’esistenza di un contenuto minimo di diritto naturale (diritto della collettività all’accessibilità e fruibilità dei beni comuni), oltre ad essere indi­66

ce della buona qualità del sistema giuridico, denota la spontanea ed ampia adesione dei cittadini al sistema giuridico, garantendo, a sua volta, la stabilità del sistema medesimo. L’adesione ad un contenuto minimo di diritto naturale declina altresì il principio della responsabilità giuridica verso le generazioni future e non implica alcuna violazione del principio della separazione tra diritto e morale (R. Bifulco, 2002). Questo modo di ragionare non violerebbe il principio di Hume della fallacia naturalistica, cioè l’errore logico consistente nella deduzione di una conseguenza normativa da una premessa fattuale; infatti, l’idea del contenuto minimo del diritto naturale si ispira solamente all’idea di sopravvivenza e convivenza e non ad un’idea egemonica e autoritaria di istituti e categorie calate dall’alto. L’idea non è quella giusnaturalista classica di stabilire valori, anzi, nel nostro caso non si intendono stabilire valori, bensì dedurre conclusioni, ovvero trovare e non provare le regole della morale. In sostanza, il giudizio di valore consisterebbe nell’affermare e accettare che la sopravvivenza e la convivenza (anche collegati all’accessibilità e fruibilità dei beni comuni) sono beni assoluti. Valori dai quali si declinano diritti fondamentali che per essere effettivamente tutelati, secondo i principi della giustizia sociale, vanno governati con adeguate politiche pubbliche – nazionali e locali – e ricondotti alla categoria giuridica dei beni comuni, ad un modello alternativo di democrazia che destrutturi la dimensione autoritaria della sovranità, desoggettivizzandola e spostandola verso la moltitudine. In questo senso, l’obiettivo più ambizioso, di certo non esauribile nella sede in cui si scrive, è quello di configurare una c.d. teoria mista, e di definire una categoria che destrutturi (o, meglio, inizi il processo di destrutturazione) i temi classici delle scienze giuridiche, quali la sovranità, la proprietà, la nozione di interesse generale, gli istituti partecipativi; una nozione che eserciti diretta influenza sulla fruibilità e sulla gestione del bene comune, ovvero che presenti una diretta ricaduta sulla tutela effettiva dei diritti fondamentali. Si tratta di beni né escludibili, né sottraibili (V. e E. Ostrom, ­67

1977), in quanto, in una logica di coesione economico-sociale, sono orientati al soddisfacimento di diritti fondamentali. Le ricerche empiriche condotte da Ostrom, fondate sul principio della collaborazione e partecipazione della comunità di riferimento, hanno dimostrato che in molti casi i diretti utilizzatori delle risorse sono autonomamente in grado di elaborare istituzioni di gestione efficiente capaci di garantire la sostenibilità d’uso nel tempo (G. Bravo, 2002). Le istituzioni pubbliche devono solo garantire di evitare fenomeni corporativi di lobbismo o di confusionismo sociale, devono garantire l’imparzialità e l’inclusività dei processi e dei soggetti. Il soggetto pubblico deve esercitare quel minimo essenziale di potere al fine di garantire che le comunità di riferimento, le quali accedono al bene per soddisfare loro fasce d’utilità, non assumano di fatto nel tempo atteggiamenti escludenti tipici del regime proprietario. In questo senso, i principi della sussidiarietà orizzontale e verticale, l’azione di soggetti privati per il perseguimento di interessi generali e il ruolo sempre più attivo delle amministrazioni locali non devono indurre ad un disarmo funzionale e di responsabilità da parte dello Stato. Occorre evitare, pur nel rispetto e nella valorizzazione delle esperienze locali, la nascita di microsistemi di governance dei beni comuni, anche felici ed efficienti, che tuttavia rischiano di mettere in crisi il principio di eguaglianza, attraverso una accelerata frammentazione della tutela dei diritti. Le virtuose esperienze locali di fruibilità dei beni comuni devono progressivamente assumere una portata «universale», proprio perché si parla di diritti fondamentali. Il rischio è che possano porsi in essere, sempre più, politiche centrate su reti plurali di gruppi di interesse (M. Calise, 2000) che sembrano favorire lo sviluppo di veri e propri ordini intorno ai quali si ri-organizzano le società politiche (V.E. Parsi, 1998); politiche pubbliche dall’alto contenuto politico che determinano la c.d. disseminazione degli interessi corporati (L. Ornaghi, 1984). Dalla responsabilità politica si passerebbe alla responsabilità di risultato, cioè a processi che si fondano su una legittimità orientata all’esito (output legitimacy), un modello di tipo fun­68

zionale legato ai momenti della formulazione e attuazione delle policies, che legano il loro successo principalmente alla capacità degli attori coinvolti, a procedure autoregolative e alla libera negoziazione tra gli interessi (Minimal State). Qui, dunque, la necessità di un ruolo del soggetto pubblico che deve vigilare affinché gli egoismi e i protagonismi dei più forti non si impongano sui diritti diffusi della collettività, attraverso comportamenti violenti ed escludenti. La governance mista pubblico-privato (laddove al pubblico è riservato unicamente un ruolo di garante dell’inclusività e dell’imparzialità, soprattutto a tutela dei diritti delle generazioni future) rappresenta il tentativo di gestire i mutamenti e i conflitti in atto, attraverso percorsi di mediazione tra interessi che, nei fatti, depotenziano la sfera della politica a favore di una policy articolata prevalentemente come problem-solving, regolazione e negoziazione. Essa, tuttavia, non può assumere carattere sostitutivo rispetto ai soggetti legittimati democraticamente alla determinazione di politiche pubbliche. La democrazia della partecipazione si pone quale strumento di arricchimento della rappresentanza, soprattutto quale strumento di demistificazione del concetto di sovranità, ma non la si immagina quale forma assoluta e alternativa. L’azione della governance, da parte della collettività, dunque, in particolare per quanto attiene al governo e alla gestione dei beni comuni, può essere di stimolo, di controllo, può contribuire, attraverso la partecipazione, a migliorare la qualità delle politiche pubbliche, ma non potrà sostituirsi ai processi decisionali. Non è possibile aprire le porte ad un processo di neofeudalizzazione, nell’ambito del quale la governance, con il suo carico di ambiguità, tenderebbe a miscelare idee e concetti quali sussidiarietà, costituzionalismo multilivello, partecipazione politica e legittimità democratica (A. Arienzo, 2005). Il governo dei beni comuni, anche attraverso il coinvolgimento della cittadinanza attiva, deve svolgersi attraverso l’adozione di responsabili politiche pubbliche, che le istituzioni dovrebbero porre in essere, non sull’ancestrale titolo proprietario, ma in quanto tutori del più ampio concetto di interesse generale. Il ­69

godimento dei beni comuni, secondo una logica fondata sull’inclusività, dovrà esprimersi attraverso le categorie della fruibilità e accessibilità (funzione del bene in relazione al godimento dei diritti collettivi), piuttosto che sulle pratiche proprietarie delle assegnazioni. Governo pubblico dei beni comuni non va identificato con proprietà pubblica: la natura del diritto deve prevalere sulla natura giuridica del bene e i cittadini dovrebbero integrarsi nei processi di governo, attraverso un rapporto politico e sociale, piuttosto che economico-mercantile (U. Cerroni, 1960). In sostanza, andrebbe data rilevanza al soggetto titolare di diritti nella sua dimensione di homo civicus, piuttosto che al bene, alla cosa, espressione di una mera valenza economica. In questa dimensione giuridico-istituzionale viene esercitata l’azione dello Stato, ora di gestore, ora di regolatore, ora di controllore, ma sempre orientata all’utilità pubblica, sempre tesa ad evitare la degenerazione dell’homo civicus in homo economicus (C. Laval, 2007). Non è possibile racchiudere la teoria dei beni comuni nello stringente rapporto tra titolo di proprietà e bene: occorre andare oltre! L’analisi sui beni comuni, dunque, andrebbe sradicata dal classico rapporto che lega il dominus al bene e sviluppata secondo un’ottica universalistica e funzionale, in quanto mediata dall’adozione di specifiche politiche pubbliche. Governare i beni comuni, in particolare le risorse naturali, impone una prospettiva universalistica, in base alla quale il soggetto titolare del diritto di fruire dei beni comuni è l’umanità nel suo intero, concepita come un insieme di individui eguali. Il dominus si trasforma da soggetto individuale a soggetto universale, collettivo. Tuttavia, la prospettiva universalista va mitigata da un processo di positivizzazione del diritto naturale, di oggettivizzazione di alcuni valori che si radicano in principi: nel diritto pubblico internazionale e nelle singole Costituzioni. Occorre, in sostanza, definire un processo di integrazione costituzionalista di determinati valori; un processo politico di oggettivizzazione di valori che attenui l’assolutismo escludente ­70

e antipluralista del pensiero giusnaturalista ortodosso o anche dello stesso storicismo. Il modello, intorno al quale si riflette, intende configurare un continuum tra valori, principi, decisione politica, regola giuridica, effettività e partecipazione (U. Scarpelli, 1997). Rispetto al mondo conosciuto, rispetto all’universale, occorre impegnarsi al fine di realizzare una struttura di norme e valori generali (R.M. Hare, 1987); l’impegno e lo sforzo intellettuale deve essere quello di procedere con metodo democratico verso la prescrittività dell’universale, che evidentemente nel suo percorso di oggettivizzazione assume i connotati di quello che potremmo definire diritto naturale laico. Le istituzioni pubbliche, nei binari tracciati dai principi universali, gestiscono – laddove di proprietà pubblica – con metodo partecipato, i beni comuni, in quanto tutori di interessi generali, non in quanto proprietari. Le istituzioni pubbliche sono titolari di un potere dispositivo limitato sul bene che, salvo eccezioni, non consente di orientarlo al mercato, attraverso gestioni di natura privatistica. Lo sradicamento dall’istituto della proprietà rafforzerebbe, dal punto di vista funzionale, la dimensione pubblicistica nel governo dei beni comuni, escludendo processi di sdemanializzazione e limitando il ricorso all’istituto della concessione. Occorre, dunque, avere il coraggio di disincagliarsi dalla nozione di proprietà, dal dominio solitario del rapporto giuridico puro (P. Grossi, 1977). Occorre disincagliarsi dalla proprietà come facultas moralis, che conferisce, secondo logiche non inclusive, e attraverso la sua natura individuale, la supremazia morale e politica sul bene. Alla base del bene comune vi è, dunque, il primato della funzione sociale sul titolo, il primato della posizione giuridica soggettiva sul bene, il primato dell’ordine fenomenico e sociale sull’individuo. Una pluralità di soggetti sono consapevoli di non poter esercitare diritti individuali esclusivi e non si rapportano ad un bene in comunione in chiave concorrenziale con gli altri, dove l’interesse generale cede dinanzi al diritto di proprietà (concezione individualistica del diritto romano). Le istituzioni devono rapportarsi al bene con la consapevo­71

lezza che esso va governato nell’interesse generale; il principio della coesione si pone in una posizione prevalente rispetto ai diritti individuali. In questo senso, i beni comuni possono essere utilizzati, ma non posseduti in via esclusiva da un soggetto, ancorché pubblico. Le istituzioni pubbliche sono tenute a servire i beni comuni, in quanto beni propri dei cittadini; sono responsabili del governo dei beni comuni, in proporzione del loro potere, che rappresenta la fondazione perpetua dello Stato sociale (B. de Jouvenel, 1971), di uno Stato sempre da costruire e sempre in via di dissolvimento. La scissione dell’appartenenza del bene (appartenenza universale) dal titolo di proprietà (proprietà pubblica) eviterebbe quel fenomeno che in dottrina è stato definito dell’abuso del diritto; la conversione del diritto soggettivo (diritto di proprietà) in funzione (socio-economica) del bene apre la strada del controllo sull’esercizio del diritto e sull’eventuale abuso (P. Rescigno, 1965). L’abuso del diritto di proprietà costituirebbe un’aggressione a quella tavola di valori universali, oggettivizzati attraverso il diritto pubblico internazionale, le Costituzioni, ed eventualmente attraverso la legislazione di rango primario; rappresenterebbe un vulnus per quei valori supremi trovati e per i diritti fondamentali ad essi riconducibili. In questa visione, la proprietà, ancorché pubblica, dovrebbe cedere dinanzi a diritti diffusi della comunità, il bene (comune) è tale, al di là dell’esistenza di un soggetto titolare del diritto di proprietà (A. Pino, 1948). Quello che si propone dunque è un modello misto, che si basa su di un quadro universalista-laico (rectius, diritto naturale laico), che sul piano dell’effettività ha bisogno dell’apporto giuspositivista, ovvero di precise scelte di politica pubblica, a discrezionalità e sovranità limitata. Le politiche pubbliche devono garantire le caratteristiche dei beni comuni e la loro integrità nell’interesse delle generazioni future, nell’interesse della sopravvivenza e della convivenza. Si ragioni, allora, intorno ad un’ipotesi di modifica della Costituzione, tale da riconoscere e garantire i beni comuni, al ­72

di là del vincolo posto dalla disciplina sottostante al rapporto proprietario. Si ragioni, allora, intorno all’ipotesi di modifica degli artt. 822 ss. del c.c., relativi alla proprietà pubblica, ormai anacronistici, e si rifletta intorno all’idea di inserire nel codice civile la nozione di bene comune. Sulla base di un riconoscimento costituzionale, attraverso la modifica dell’art. 42 Cost., e di una modifica del codice civile, che oggettivizzerebbero la dimensione universalista, occorre immaginare una legge generale statale, e poi eventualmente di settore, che disciplini i beni comuni, i diritti fondamentali e i servizi pubblici essenziali ad essi riconducibili. Ancor più dopo la vittoria referendaria del 12-13 giugno 2011 contro la privatizzazione forzata dei servizi pubblici locali e la recente sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 2012 che ha riconosciuto il vincolo referendario, annullando la norma che aveva tentato di negare l’esito del referendum, occorre che il Parlamento sotto la spinta della democrazia partecipativa approvi una legge sui beni comuni e sui servizi pubblici locali, che abbia quale suo prius la tutela dei diritti fondamentali. Occorre evitare, nel rispetto delle differenze, eccessi di localismi e regionalismi; occorre evitare la realizzazione di tanti governi dei beni comuni, che contribuirebbero a frammentare ulteriormente la tutela dei diritti fondamentali (D. Mone, 2012). Questo sarebbe un errore imperdonabile e irreparabile, per il quale saremmo tutti chiamati a rispondere verso le generazioni future. Ricordiamoci che efficienza e qualità nel governo dei beni comuni significano tutela della salute, dell’ambiente, dell’occupazione, nel rispetto dei principi della dignità, della giustizia sociale e della solidarietà. Ricordiamoci che il governo dei beni comuni non ha tra le sue finalità quella di generare profitti, ma soltanto di garantire la tutela dei diritti fondamentali attraverso la qualità delle politiche pubbliche.

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3. Pratiche sociali e istanze partecipative In questa direzione, ovvero di trasformazione del diritto pubblico sociale, sembrano porsi i fenomeni partecipativi attraverso i quali si tenta di direzionare le scelte pubbliche verso forme conservative di beni ritenuti essenziali al soddisfacimento dei bisogni fondamentali dell’esistenza, sottraendoli al processo di tendenziale dirottamento verso forme di gestione avulse dalla loro destinazione originaria. Se questi sono alcuni dei segnali che si registrano sul fronte sociale e che esprimono le istanze di una cittadinanza allertata dai ripetuti tentativi di sottrarre al settore pubblico e, dunque, ai cittadini beni la cui disponibilità è funzionale all’effettività dei diritti fondamentali, la questione è stata in più occasioni affrontata, su altro versante, nell’ottica di un intervento di consolidamento, da un punto di vista giuridico, del regime che dovrebbe governare tali beni. Si tratta di un tentativo particolarmente interessante che nasce da una visione critica del tradizionale regime dei beni pubblici, evidentemente superato per certi aspetti e in ogni caso insufficiente ad arginare le operazioni di svendita e di trasferimento dei beni pubblici a totale soddisfacimento di esigenze di profitto. In realtà, la Commissione Rodotà è andata ben oltre la sottolineatura delle falle che il regime civilistico dei beni pubblici presenta, attraverso la configurazione di una categoria altra rispetto a quella dei beni pubblici, la categoria dei beni comuni, la cui titolarità va ricondotta in capo alla collettività e la cui disciplina dovrebbe fondarsi su alcuni principi fondamentali che rimandano sostanzialmente all’idea di una loro indisponibilità di fondo, proprio in quanto costituenti il bagaglio fondamentale inamovibile per il soddisfacimento dei bisogni primari di qualsiasi individuo. 4. Oltre il diritto pubblico sociale: l’attuale vitalità degli artt. 43 e 46 Cost. Andare oltre il diritto pubblico sociale, ancorato alle superate dicotomie democrazia della rappresentanza-democrazia della partecipazione e proprietà pubblica-proprietà privata e alla ­74

mistificazione della sovranità popolare, significa, innanzitutto, avere la forza e la volontà di completare e ampliare, laddove necessario, quel percorso di democratizzazione della Costituzione sul piano dell’effettività. Come scriveva Calamandrei, la vera grande riforma è far vivere quelle parti della nostra Costituzione ancora inapplicate, disapplicate, violate; ma la vera rivoluzione è guardare i beni comuni, non soltanto quale soddisfacimento degli interessi del dominus, ma soprattutto quale loro capacità di estendere fasce di utilità collettive, di garantire diritti fondamentali, di salvaguardare i diritti delle generazioni future. Nella nostra Costituzione il rapporto funzionale bene-diritti fondamentali è stato disatteso, o comunque è stato superficialmente affrontato; bisogna invece ripartire da tale rapporto con la consapevolezza che la protezione dei diritti fondamentali sia strettamente connessa al governo dei beni comuni, dei beni sovrani, dei beni sociali, al di là della natura giuridica della proprietà, sia essa collettiva, pubblica o privata (A. Lucarelli, 2010). Occorre avere la consapevolezza della necessità di andare oltre il regime proprietario così come delineato in Costituzione, con una visione rivolta al diritto delle generazioni future e giammai antropocentrica. Occorre avere la chiara consapevolezza di voler costruire un diritto pubblico effettivo (rectius, effettivamente democratico), che sappia arginare gli abusi del soggetto pubblico (c.d. abuso del diritto) e le sue tendenze affaristiche sui beni di appartenenza collettiva o pubblica; un diritto pubblico che in merito alla gestione dei beni comuni e dei beni sociali, strettamente funzionali al soddisfacimento dei diritti sociali e non orientati al mercato e al profitto, sappia attribuire al soggetto pubblico le opportune responsabilità gestionali e di controllo, in una prospettiva di autolimitazione della sovranità e della discrezionalità (A. Lucarelli, 2007b). La discesa del soggetto pubblico nell’arena mercantile, attraverso società per azioni pubbliche o miste, attraverso atti sempre più contaminati dal diritto privato e societario e attraverso scelte che hanno orientato servizi e beni pubblici verso il profitto, ha ­75

disatteso quella parte della Costituzione che vedeva nello Stato veramente l’espressione e lo strumento della collettività e non di gruppi particolari. Si è generato un diabolico intreccio pubblico-privato, rendendo difficile l’individuazione delle reciproche responsabilità, spostando in zone grigie il perseguimento degli interessi pubblici e generali e favorendo fenomeni di illegalità nella pubblica amministrazione. In sostanza, occorre ragionare per la costruzione di un diritto pubblico che sappia rapportarsi alla nuova categoria dei beni comuni, alle nuove categorie della partecipazione, a nuovi modelli di democrazia, a nuove soggettività politiche e che riconduca beni e servizi pubblici essenziali alla tutela effettiva dei diritti fondamentali. Un diritto pubblico che sappia svincolarsi definitivamente da quanti sostengono che la democrazia della rappresentanza sia l’unica forma di democrazia fedele al dettato costituzionale, non riconoscendo dignità autonoma agli strumenti della democrazia diretta e partecipativa. Una visione che ha determinato la degenerazione della forma di governo parlamentare in un parlamentarismo di «cooptati». Un diritto pubblico che, anche in linea con gli artt. 43 e 46 Cost., possa costituire la Grundnorm del governo pubblico partecipato (S. Lieto, 2011c), sappia riproporre il grande discorso dei beni sociali e la sua ricaduta sui diritti, nonché sugli aspetti occupazionali (A. Lucarelli, 2006), che riacquisti un ruolo centrale di indirizzo e di gestione in settori di primario interesse sociale, quali il lavoro, la scuola, l’abitazione, la sanità, l’ambiente, la sicurezza sociale, la formazione professionale, i trasporti, l’assetto urbanistico, la difesa del suolo. 5. Il diritto pubblico partecipato oltre le tradizionali categorie partecipative Si avverte l’esigenza di un diritto pubblico che sappia governare e gestire le nuove categorie partecipative, le nuove istanze della società a partecipare, che vanno ben al di là delle vecchie categorie partecipative, racchiuse sostanzialmente in partiti, sindacati o associazioni rappresentative, segnate da un neo-corporativi­76

smo o da un solidarismo comunitarista tendenzialmente egoista ed escludente. Un diritto pubblico ben consapevole, dunque, del nuovo ed ampio arcipelago dei comitati, dei movimenti, delle associazioni rappresentative di interessi generali e antagonisti che, ben al di là delle categorie degli stakeholders, cercano spazio nella determinazione dei processi decisionali. Immaginare un diritto pubblico partecipato significa innanzitutto rivedere le dinamiche dei processi decisionali ed evitare che fenomeni partecipativi si trasformino in processi di cooptazione, o in applicazioni ambigue del principio di sussidiarietà, inteso come strumento per scaricare sui cittadini le responsabilità pubbliche della gestione dei servizi pubblici. Principio che, al di là della sbandierata vocazione solidaristica, tenderebbe nel suo intimo a generare forme di disuguaglianza, anche in relazione ai territori interessati (E. Ostrom, 1990). In questo senso andare oltre il diritto pubblico sociale significa, innanzitutto, evitare che la partecipazione nei processi istruttori, decisionali e di controllo, sia dominio e monopolio di piccoli gruppi legati a partiti e sindacati, o che, peggio ancora, sia unicamente utilizzata per nascondere altri interessi. Ma questa nuova forma del diritto pubblico sociale-partecipato non può non tener conto della nuova e deflagrante categoria della cyberdemocrazia, ovvero l’insorgere di nuovi spazi pubblici nei quali tutti possono esprimere on-line la loro opinione, con la realizzazione permanente e continua di forum e gruppi di discussione che sfuggono alle tradizionali barriere politiche e geografiche (P. Levy, 2008). Nuovi modelli solidaristici quali il Welfare Mix o il Welfare Society che, dopo la riforma costituzionale del 2001, trovano fondamento nel principio di sussidiarietà, mettono progressivamente in discussione l’effettività dell’obbligo del servizio universale, generando discriminazioni, disuguaglianze e parcellizzazioni sociali (L. Antonini, 2000). Modelli in cui il principio di eguaglianza sostanziale cederebbe al cospetto del principio di sussidiarietà orizzontale, fondato sulla spontaneità dell’azione del singolo individuo, configurando quello che Bauman ha definito «agire solidale nel proprio ­77

interesse» (K. Bayertz, 2002, p. 8) o solidarietà di comunità (P. Portinaro, 2002), cioè solidarietà di gruppo a favore di qualcuno, che spesso è anche solidarietà contro qualcun altro. Il valore effettivo della dimensione sociale verrebbe posto in condizione di concorrere con il mercato, mettendo in discussione la stessa esistenza dei diritti sociali. Va quindi fronteggiata l’idea che lo Stato sociale possa esaurire la propria legittimazione nel principio di sussidiarietà, quale principio tendenzialmente alternativo e antinomico al principio di eguaglianza, al punto da metterne in discussione la sua effettività (A. Lucarelli, 2004). Immaginare, dunque, un nuovo diritto pubblico, con basi mobili e meno certe del passato, anzi a volte in contrasto con le basi espresse e consolidate dal diritto positivo vigente, ma con principi ben individuati e determinati, principi che difficilmente potranno essere limitati e confinati all’interno di un determinato ordinamento giuridico, tale da comprendere le due nuove grandi categorie giuridiche del XXI secolo: i beni comuni e la partecipazione diffusa e libera, contro forme di partecipazione strutturate e lobbistiche. Principi che rimettono in discussione il ruolo dello Stato, o in senso più ampio del soggetto pubblico, anche attraverso processi di destrutturazione, che legano ai beni di appartenenza collettiva o sociale la tutela effettiva dei diritti fondamentali; che rimettono in discussione le finzioni ideologiche della rappresentanza e della sovranità, aprendosi alla grande frontiera dei nuovi modelli di partecipazione. In questo senso, la configurazione di tali modelli significa voler negare la nozione di partecipazione così come generata e governata dallo Stato borghese, ma significa anche andare oltre la partecipazione che ha caratterizzato l’evoluzione dello Stato sociale, che ha tentato per propri fini di cooptarla e incanalarla in sistemi corporativi, senza mai tentare un vero e proprio processo di autodeterminazione della partecipazione. Una nuova forma del diritto pubblico dovrebbe avere ben chiaro che il diritto di partecipazione, come diritto comprensivo delle plurali istanze partecipative, non può non passare attraver­78

so una vera e libera informazione e attraverso un conseguente processo di formazione permanente. L’affermazione e l’estensione della nozione di bene comune dovrebbe facilitare questo processo di democratizzazione funzionale del diritto di partecipazione, nella consapevolezza che il cittadino si senta sempre più coinvolto dalla gestione di beni di appartenenza collettiva (beni comuni). 6. Nuove forme del diritto pubblico Ci si interroga dunque sulle nuove istanze partecipative, sul nuovo rapporto partecipazione-rappresentanza, sulle dimensioni dell’effettività, sulle nuove categorie giuridiche, quali beni comuni e beni sociali-partecipati, che mettono in discussione la vetusta dicotomia pubblico-privato, sulla nuova nozione di cittadinanza, legata ai diritti dei migranti. Una rielaborazione del concetto di spazio pubblico, che non deleghi tutto al soggetto pubblico, ma che al contrario, proprio per evitarne suoi abusi, coinvolga il cittadino come attore e non come mero spettatore, attraverso quello che abbiamo definito processo di autodeterminazione della partecipazione, o anche diritto alla partecipazione, ovvero di diritto-strumento per affermare diritti fondamentali (S. Lieto, 2011b). In sostanza, un diritto pubblico con radici nella dimensione sociale della nostra Costituzione, che tuttavia sappia anche dare risposte al mutato assetto economico, sociale, politico; che sappia dare risposte ai nuovi bisogni, all’incalzare delle nuove povertà, all’ondata xenofoba e razzista, alla prepotenza di multinazionali e gruppi di pressione. Un diritto pubblico che sappia guardare e rispettare l’universalismo dei diritti umani, non dalla prospettiva unilaterale dell’Occidente e non con un’idea dell’integrazione uniformante, o, peggio ancora, con l’effettiva garanzia dei diritti legata e subordinata alla nozione burocratico-amministrativa di cittadinanza. Un diritto pubblico sensibile alle grandi tematiche dell’universalismo dei diritti umani, ma nello stesso tempo ben ancorato alla dimensione positivista dell’effettività, quale espressione di ­79

regole e principi. Dunque, da una parte la capacità del diritto pubblico di percepire lo sconfinamento dei diritti umani, ben al di là degli ordinamenti giuridici nazionali o sopranazionali, dall’altra la sua capacità di creare i presupposti per reali ed effettive garanzie, anche su base locale. Occorre una percezione dei diritti umani tale da avere l’umiltà di mettere in discussione, o quanto meno discostarsi, dalla matrice occidentale, ammantata ipocritamente da un presunto universalismo, in realtà espressione di un modello imposto dai più forti a danno dei più deboli, dagli sfruttatori a danno degli sfruttati (M.R. Ferrarese, 2006). Un diritto pubblico che, dunque, al di fuori del giusnaturalismo, e in posizione critica rispetto al diritto positivo vigente, contribuisca all’affermazione di uno spazio pubblico diverso, ad una nuova forma, attraverso la quale la sovranità popolare, pur nel rispetto delle sue forme della rappresentanza, possa acquisire una maggiore visibilità ed incidenza nell’ambito dei processi decisionali. Ciò è possibile soltanto se si creerà quella forte interconnessione di cui si è parlato tra bene e diritto fondamentale, tra funzione sociale e diritto di partecipazione. 7. Le nuove dimensioni del diritto pubblico dentro e oltre la Costituzione Si avverte sempre con maggior insistenza, nell’attuale quadro di frammentazione dell’interesse pubblico e di privatizzazione dei beni di appartenenza collettiva, dei beni pubblici, dei beni sociali, venutosi a realizzare anche per irresponsabilità del soggetto pubblico, la costruzione di una nuova forma del diritto pubblico, capace di leggere le nuove categorie giuridiche, economiche, sociali, tali da andare oltre il rapporto dominicale dominus-bene, o comunque in grado di rappresentarlo a condizioni diverse. Per sintetizzare, in questa sede, anche come reazione a tale processo degenerativo, si propone un percorso che ci conduca du public au commun. È necessario immaginare una nuova forma (rectius, dimensione) del diritto pubblico che tuteli e valorizzi quei beni fun­80

zionali all’effettiva tutela dei diritti fondamentali, come beni di appartenenza collettiva e sociale, andando oltre le dicotomie pubblico-privato e proprietà-gestione. Attuare parti della Costituzione per andare oltre la Costituzione significa avere la volontà di attuare il diritto pubblico sociale, ma significa anche immaginare altre strade e nuovi spazi del pubblico, ampliare le sfere della responsabilità (responsabilità diffuse) rispetto al dominio del soggetto istituzionale pubblico; significa immaginare per alcuni beni il passaggio du public au commun. Il passaggio du public au commun non significa ridimensionare gli spazi pubblici, ma piuttosto sottrarre al soggetto pubblico il dominio autoritario e discrezionale di tali spazi (beni, servizi), al fine di garantire con modalità e finalità più democratiche, egalitarie ed inclusive, i diritti fondamentali dei cittadini. Il primo esperimento di questa trasformazione, come si è visto, non potrà che realizzarsi attraverso forme sperimentali dal basso di governo pubblico partecipato dei beni comuni.

V

Il diritto pubblico europeo dell’economia

1. Ruolo e funzioni del diritto pubblico nel processo di integrazione europeo: la legislazione per principi e la legittimità comunitaria La quarta dimensione del diritto pubblico deve confrontarsi con la dimensione europea, cercando di comprenderne le relazioni; in questa prospettiva, nel tentativo scientifico-culturale di contribuire a tracciare le linee fondative del diritto pubblico europeo è opportuno inquadrare tale disciplina nella sua fase di formazione, che si snoda tra il diritto costituzionale, il diritto pubblico interno, il diritto comunitario, il diritto dell’economia, con l’intento di attribuirle una sua specificità e peculiarità. In quest’ottica, è interessante affrontare, in una dimensione europea, temi classici del diritto pubblico quali la forma di governo, la contrapposizione tra democrazia di indirizzo e democrazia di investitura, l’organizzazione e la distribuzione di funzioni e competenze, la gestione dei servizi e dei beni pubblici, la protezione dei diritti fondamentali (R. Bifulco, M. Cartabia, A. Celotto, 2001). In particolare, si avverte l’esigenza di riflettere in merito alla costruzione di un diritto pubblico europeo, percependone la necessità, al fine di un auspicato passaggio dell’Unione europea da una dimensione mercantile ad altra di carattere politico-sociale, caratterizzata dalla presenza più attiva di organizzazioni politiche e sociali, e soprattutto di strumenti di democrazia diretta e partecipativa. ­82

In particolare, si avverte l’esigenza, non soltanto teorica, di ragionare intorno ad un principio di legalità europeo (A. Celotto, 2002), un principio intorno al quale è modellata l’intera struttura normativa e istituzionale dello Stato di diritto, secondo il quale ogni atto amministrativo esecutivo o giudiziario deve essere conforme ad una precedente norma generale (A. Tizzano, 1995). Da ciò emerge l’idea che un processo normativo europeo per principi, dal carattere prescrittivo-normativo, possa costituire il fondamento giuridico anche per gli atti di normazione secondaria e terziaria dei singoli Stati membri. In sostanza, si pone sul piano del diritto europeo un problema ampiamente dibattuto dalla dottrina italiana, ovvero la distinzione tra principio di legalità in senso formale e principio di legalità in senso sostanziale, all’interno del processo fondativo della legittimità comunitaria. Proprio alla legittimità comunitaria (F. Sorrentino, 2007), complesso di principi, regole e giurisprudenza, sarebbe riconducibile l’azione normativa e amministrativa dell’esecutivo, degli enti pubblici, degli enti infra-statuali. Il principio di legalità europeo, fondamento giuridico dell’azione normativa secondaria e terziaria, supererebbe anche il limite della tipicità degli atti amministrativi. Infatti, la sentenza Fratelli Costanzo ha notoriamente indebolito il principio di legalità nel diritto interno, inteso come prevalenza della fonte normativa di rango primario sugli atti amministrativi nazionali (intesi sia come atti statali che atti provenienti da enti infra-statuali), obbligando l’amministrazione nazionale a disapplicare la normativa interna incompatibile con quella europea, sebbene compatibile con quella nazionale. In sostanza, la normativa europea per principi, anche in assenza di legislazioni settoriali, costituirebbe il legittimo fondamento giuridico (principio di legalità formale europeo). A tale principio si potrebbe far ricorso sia in assenza di fondamento giuridico interno sia in presenza di antinomie sempre di diritto interno con il diritto comunitario. Ovviamente il principio di legalità europeo cederebbe in presenza di antinomie con il principio di legalità costituzionale (in particolare se espressione dei principi fondativi) e con tutte le garanzie da essa irradiate. ­83

Detta cornice di principi, regole e decisioni giurisprudenziali, che mette in contatto l’organizzazione del potere con il sistema delle fonti, diventa oggetto progressivamente di maggiore interesse, in particolare nel momento in cui si iniziano a elaborare le linee guida di quello che poi verrà definito il diritto pubblico europeo dell’economia, in contrapposizione e/o bilanciamento al diritto europeo inteso esclusivamente o prevalentemente come diritto dei mercati e della concorrenza. In particolare, si ritiene opportuno ripartire dal principio della coesione economico-sociale (quale paradigma dei diritti sociali), attribuendogli il significato e la valenza di principioobiettivo, dal carattere normativo e prescrittivo. Il principio della coesione economico-sociale dovrebbe essere considerato progressivamente un vero e proprio principio costituzionale europeo, dal valore prescrittivo e non meramente programmatico, tale da costituire il percorso originale in vista di una dimensione dell’eguaglianza che non si limiti a riconoscere la pari dignità agli uomini, ma aspiri a promuovere i presupposti di un ampio concetto di partecipazione alla convivenza sociale, politica ed economica. In sostanza, l’obiettivo è quello di creare una cornice di principi, regole e dati giurisprudenziali in grado di costituire un fondamento giuridico europeo alternativo e contrastante quello espresso dal mercato della concorrenza e delle privatizzazioni. Un fondamento in grado, laddove completo nei suoi criteri e obiettivi, di essere azionato direttamente, o in alternativa, di essere utilizzato a legittimare politiche pubbliche dei singoli Stati membri, anche quelle espresse da enti pubblici non territoriali e/o da enti infra-statuali. In merito al principio della coesione economico-sociale, esso va inteso come: «un principio che sia in grado di attivare politiche pubbliche tese a realizzare un “governo europeo dei beni comuni”». E ancora: «la società europea, il patrimonio comune della società europea, può realizzarsi attraverso politiche di coesione che non abbiano il loro prius nella concorrenza, ma in politiche pubbliche mirate, quali la politica della casa, del territorio, dei servizi pubblici, dell’istruzione, della sanità, beni comuni nei ­84

quali la concorrenza non è adeguata ad elevare il tenore di vita dei popoli» (A. Lucarelli, 2006a, p. 9). In questo scenario, i temi che sollecitano le maggiori riflessioni sono le politiche pubbliche e i diritti sociali, i servizi pubblici e i beni comuni, tutti da affrontare in chiave europea, con l’obiettivo di mettere in discussione un modello mercantile e concorrenziale, che sempre più spesso viene utilizzato come paravento a scelte di politiche pubbliche sia del centro-destra che del centro-sinistra, intendendo e lasciando intendere che tale modello liberista sia costituito da norme imperative alle quali il nostro legislatore si dovrebbe sempre, e in ogni caso, adeguare. In sostanza, tutte le norme relative alle privatizzazioni nel nostro Paese sono state intese, con estrema ipocrisia, come norme comunitariamente necessarie, ovvero norme alle quali il nostro legislatore, per non violare il diritto comunitario, non si sarebbe potuto sottrarre. Sul piano pratico questa battaglia teorica e fondativa del diritto pubblico europeo dell’economia, tesa a dimostrare l’esistenza in ambito europeo di un quadro di principi e regole non a senso unico, ovvero non tutte orientate al mercato e alla concorrenza, e quindi teso a smascherare l’inganno delle norme comunitariamente necessarie, comincia a raccogliere i primi frutti. Il diritto pubblico europeo dell’economia, anche laddove non esprime normative puntuali e tipiche di settore, inizia a svolgere un ruolo di fondamento giuridico per le politiche pubbliche dei singoli Paesi (principio di legalità comunitario), anche per quelle politiche intese e dichiarate di rilevanza economica. In questo senso mi sembra utile e pertinente evidenziare che le motivazioni della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 12 gennaio 2011, con la quale è stato dichiarato ammissibile il referendum abrogativo sul decreto Ronchi (art. 23 bis l. n. 166 del 2009), restituendo ai cittadini la sovranità di decidere sui beni comuni, possono inserirsi, pur con le dovute cautele e i necessari approfondimenti, in una visione più pluralista del diritto europeo, in grado di smarcarsi dal giogo dominante del liberismo economico-finanziario. In particolare, sembra interessante il punto nel quale la Corte, come già espresso nella ­85

sentenza n. 325 del 2010, ha dichiarato che lo Stato membro non è obbligato dal diritto comunitario a privatizzare i servizi pubblici locali; si tratterebbe di scelte che attengono a decisioni normative interne. Il diritto europeo, proprio attraverso una sua interpretazione pluridimensionale, pluralista e a maglie larghe, consente processi di privatizzazione ma anche opzioni pubblicistiche per la gestione dei servizi pubblici locali. In sostanza, tre i punti decisamente innovativi della sentenza n. 24 del 2011 che potranno avere effetti più estesi sulle politiche pubbliche del nostro Paese: 1) si smentisce che il diritto europeo imponga agli Stati membri di privatizzare i servizi pubblici locali; 2) si riconosce, seppur implicitamente, l’esistenza di un diritto pubblico europeo dell’economia, contraddicendo chi sostiene da anni la sola esistenza in ambito comunitario del diritto dei mercati e della concorrenza; 3) si riconosce ai comuni la possibilità, a seguito del referendum, di rifarsi direttamente al diritto comunitario che prevede, tra l’altro, seppur in maniera non esplicita, la gestione pubblica e diretta dei servizi di interesse generale. Si tratta di un’applicazione di quello che abbiamo definito principio di legalità europeo o comunitario, un principio che trova un suo naturale rafforzamento nel principio della preemption, in base al quale l’effetto preclusivo nei confronti della legislazione nazionale difforme alla normativa comunitaria è quello di vietare norme statuali sia più rigide che più permissive (R. Mastroianni, A. Arena, 2010). Finalmente risulta evidente che il diritto europeo non impone obblighi di privatizzazione per le imprese pubbliche o incaricate della gestione di servizi pubblici, caratterizzandosi, al contrario, per il principio di neutralità rispetto al regime (art. 345 Tfue, Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), pubblico o privato, della proprietà, che insieme ai principi di libertà di definizione e proporzionalità, costituisce uno dei cardini della disciplina comunitaria dei servizi di interesse generale. In particolare il principio comunitario della libera definizione, al quale fa riferimento una recente sentenza del Tribunale di primo grado dell’Unione europea, che nel confermare la posizione della Commissione europea ha riconosciuto al livello ­86

locale di governo la responsabilità, non soltanto di qualificare il servizio (economico o non economico) ma altresì di decidere e scegliere le modalità di gestione. Tale libertà di apprezzamento, definizione e scelta è stata ben colta, da ultimo, dalla V sezione del Consiglio di Stato che, con sentenza del 10 settembre 2010, ha affermato che la distinzione tra attività economiche e non economiche ha carattere dinamico ed evolutivo e che pertanto non sarebbe possibile affermare a priori un elenco definitivo dei servizi di interesse generale di natura non economica. Implicito è, dunque, il richiamo al principio comunitario della libera definizione. La Corte costituzionale rende nudo il decreto Ronchi dinanzi alle sue mistificazioni, in particolare laddove quest’ultimo aveva rappresentato un quadro normativo europeo parziale e discrezionale che non sembra recepire né i principi fondanti del diritto europeo, né i suoi nuovi e più evoluti orientamenti. Infatti, all’art. 23 bis sfuggiva che, a partire dall’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, è intervenuto un cambiamento politico ed economico in favore del ruolo strategico del settore pubblico, al punto che con l’entrata in vigore dell’art. 14 Tfue è possibile scorgere un riequilibrio del modello socio-economico europeo. Lo scenario europeo di riferimento nel quale, in relazione ai servizi pubblici locali, si dischiude il quadro dei rapporti complessivi che mette in relazione istituzioni, imprese pubbliche e private, cittadini, è, come ben evidenziato dalla Corte nella sentenza n. 24 del 2011, notevolmente differente e distante da quello rappresentato e imposto dal decreto Ronchi. In particolare, mercato, concorrenza, regolazione non sono più principi dominanti, ma istituti e categorie che si collocano all’interno di quello che potremmo definire, in chiave fondativa, il diritto pubblico europeo dell’economia, ovvero quel complesso di principi, regole, decisioni giurisprudenziali comunitarie ed interne, che delineano uno spazio pubblico nel quale alle istituzioni sono assegnate funzioni rilevanti, anche gestionali, e dove la sfera sociale, intesa quale eguale soddisfacimento di diritti sociali, non soccombe dinanzi al mercato. ­87

Il diritto pubblico europeo dell’economia, di fatto riconosciuto dalla suddetta sentenza della Corte, prevede che la gestione e l’erogazione dei servizi pubblici essenziali debbano avere un intenso collegamento con i diritti fondamentali, quale fattore irrinunciabile di coesione sociale e territoriale, elemento imprescindibile della cittadinanza europea. La regola della concorrenza risulterebbe così limitata dal raggiungimento dei fini sociali e dal rispetto dei valori fondanti dell’Unione, quali lo sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, la solidarietà, l’elevato livello dell’occupazione e la protezione dell’ambiente, della salute, dei consumatori. C’è dunque un’inversione di rotta rispetto a quella dottrina dominante che continua a recitare, con interpretazioni più di natura politica che giuridica, la liturgia dell’assoluta prevalenza del diritto europeo della concorrenza, non soltanto nei confronti del diritto pubblico europeo, ma altresì rispetto ai principi fondativi della nostra Costituzione. Da ultimo, in questo senso va letta la sentenza n. 199 del 2012 della Corte costituzionale, che annullando il decreto legge n. 138 del 2011, con il quale si era tentato di sottrarre effettività alla vittoria referendaria contro le privatizzazioni dei servizi pubblici locali, oltre ad affermare il vincolo referendario, ha confermato l’esistenza di una cornice di principi e regole che costituiscono di fatto il diritto pubblico europeo dell’economia. 2. Il modello sociale ed economico europeo: riflessioni introduttive Come è noto, il Trattato di Lisbona non ha ad oggetto, nello specifico, il riconoscimento e l’effettiva garanzia dei diritti; si continua a seguire il metodo dell’assemblaggio dei testi che si sono susseguiti nel tempo, più semplice dal punto di vista politico, ma poco ortodosso e sistematico dal punto di vista giuridico. Il testo, ancora frutto di continue mediazioni e negoziazioni, risulta pertanto privo di un’univoca chiave di lettura, anche e soprattutto nelle sue scelte di fondo di politica economica; non esprime, come vedremo, né un modello economico, né tanto ­88

meno un modello sociale. È chiaro che tale scelta, indorata dal presunto ricorso al pluralismo, in realtà decide di tagliare con la tradizione weimeriana dello Stato sociale e di rifarsi, con una certa dose d’ipocrisia, al binomio libertà-solidarietà, in larga misura già presente nella tradizione tardo-ottocentesca dei Paesi dell’Europa occidentale. Il Trattato di Lisbona, dunque, assembla e tenta di dare omogeneità al Progetto di trattato costituzionale, ai Trattati di Maastricht ed Amsterdam, rinviando, in prevalenza, alla Carta europea di Nizza per la tutela dei diritti fondamentali (F. Balaguer Callejón, 2009). In merito ai diritti sociali, la Carta sociale del Consiglio d’Europa del 1961 e la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989 sono espressamente richiamate dall’art. 151 Tfue (ex art. 136 Tue – Trattato dell’Unione europea) quali fonti dei diritti sociali fondamentali (M. Luciani, 2000). Inoltre, va evidenziato che il titolo del Trattato della Comunità europea dedicato a Politica sociale, istruzione, formazione professionale e gioventù nel Trattato di Lisbona è dedicato esclusivamente alla politica sociale. È aggiunto ex novo l’art. 152 Tfue: «L’Unione riconosce il ruolo delle parti sociali al suo livello, tenendo conto della diversità dei sistemi nazionali. Essa facilita il dialogo tra tali parti, nel rispetto della loro autonomia. Il vertice sociale trilaterale per la crescita e l’occupazione contribuisce al dialogo sociale». Si tratta di una norma che costituzionalizza a livello europeo le relazioni industriali e il ruolo dei poteri pubblici nei processi di mediazione e di sintesi delle procedure decisionali. È evidente che presupposto per il funzionamento degli strumenti di dialogo e negoziazione sui diritti sociali è l’esistenza di parti sociali europee, in grado di avere una propria identità autonoma e distinta rispetto a quelle operanti all’interno dei singoli Stati membri. Mi riferisco ovviamente all’esigenza di una Confindustria europea e a sindacati europei, in grado di rappresentare e difendere diritti e interessi che si muovano in una dimensione sovranazionale. Tutto ciò presupporrebbe uno spazio giuridico pubblico, ancora del tutto assente a livello europeo. ­89

Pur tralasciando gli aspetti relativi al processo costituente europeo in corso, che non costituiscono oggetto diretto della ricerca, ma che collegano inevitabilmente il deficit democratico di partecipazione al deficit sociale, e dunque al modello socioeconomico, nel passaggio dall’Europa monetaria all’Europa che aspira ad avere una sua dimensione politica, il cittadino e in generale le forme associative, più o meno strutturate, non hanno avuto un giusto grado di coinvolgimento. Si riscontra un netto distacco tra Stato-apparato e Stato-comunità, causato non soltanto dall’inesistenza di un popolo europeo, ma soprattutto dall’inesistenza di una cittadinanza europea articolata intorno ad uno spazio di decisione proprio. Un processo tecnocratico d’integrazione che, ben lontano dal recepire le reali esigenze ed istanze delle popolazioni coinvolte, configura un modello di post-democrazia, nel quale il progetto di unità politica, nella sua articolazione e nel suo sviluppo, pur in presenza di una formale valorizzazione del ruolo del Parlamento, continua a ruotare, in prevalenza, intorno agli esecutivi e agli apparati burocratici, ignorando i modelli della democrazia partecipata, diretta e di prossimità. La peculiarità di tale processo, lontano o comunque eterodosso rispetto alle nozioni classiche di partecipazione popolare e di rappresentanza democratica, sembrerebbe caratterizzare un assetto politico-normativo distante dagli archetipi della tradizione giuridica. Una prospettiva che, secondo parte della dottrina, tende a ridurre il diritto costituzionale, le Costituzioni, la storia del costituzionalismo, allo studio delle istituzioni, al loro funzionamento ordinato, assegnando ai giuristi il compito di razionalizzare ex post il dato reale (M. Dogliani, 1994). È evidente che tale processo normativo europeo segni una rottura rispetto all’evoluzione del costituzionalismo moderno (G. Azzariti, 2002) che, secondo alcuni, potrebbe essere sanato sottoponendo un complesso materiale normativo, frutto di processi tecnici frammentati e stratificati nel tempo, ad un successivo referendum. In realtà, siamo distanti dai processi costituenti, continuando a prevalere modelli tipici autoritari del diritto internazionale pubblico con netta prevalenza degli accordi inter­90

statuali sulle istanze partecipative dei cittadini e sul ruolo delle sue camere di rappresentanza. Si nutrono, tuttavia, forti perplessità in merito al ricorso a strumenti, quali il referendum confermativo, che potrebbero facilmente scivolare su declini plebiscitari ed assembleari, che poco hanno a che vedere con la partecipazione politica. Tuttavia, pur in un quadro fortemente caratterizzato dagli assetti autoritari burocratici, qualche segnale di valorizzazione delle istanze partecipative si è avvertito negli ultimi anni. Il Trattato di Lisbona introduce nel Tfue il titolo II (Disposizioni relative ai principi democratici) che contiene gli artt. 9-12 e che riprende gli ex artt. I-45, I-46 e I-47 del Progetto di trattato costituzionale. L’art. 9 Tfue (ex art I-45 del Progetto di trattato costituzionale) fissa il principio dell’uguaglianza dei cittadini dell’Unione e riprende la definizione di cittadinanza europea, l’art. 10 Tfue (ex I-46) ha ad oggetto la democrazia rappresentativa e l’art. 11 Tfue (ex I-47) attiene alla democrazia partecipativa. È evidente che si tratta di norme che, al di là della loro enunciazione, dovranno essere poste su un piano di effettività, ovvero essere messe in grado di passare da un piano formale ad altro sostanziale; ma ciò, al di là di più o meno esplicite volontà istituzionali, necessita di una netta volontà politica che intenda realmente spostare il baricentro della sovranità dal livello degli esecutivi e dal livello burocratico-amministrativo a quello popolare delle società intermedie, ai partiti, ai sindacati, alle associazioni, ai comitati, ai movimenti, più o meno strutturati. Viceversa, si costruirebbe un modello formale di democrazia della rappresentanza privo della sua linfa naturale e comunque del tutto estraneo al modello di democrazia della partecipazione (P. Rosanvallon, 2008). Il deficit democratico, al quale poi non può non essere collegato il deficit sociale, potrebbe essere superato soltanto se si arrivasse alla configurazione di una sfera pubblica europea, nella quale si radichi un processo che valorizzi gli istituti della democrazia della partecipazione e della rappresentanza. In sostanza, l’effettiva affermazione di diritti sociali in ambito europeo sarebbe raggiungibile soltanto attraverso una social ­91

policy che esprima conflitto, dialettica, antagonismo tra interessi contrapposti e realmente rappresentati. Stento a concepire uno Stato sociale europeo calato dall’alto, asettico e burocratico, che odora di norme formali, privo delle tensioni tipiche e necessarie per la conquista di certi traguardi e obiettivi. Come è possibile parlare di un modello sociale europeo in presenza di una così debole cornice della rappresentanza, della partecipazione e quindi del conflitto? Se questo passaggio non dovesse avvenire si continuerà a rimanere su un piano tecnico di organizzazione del potere e di distribuzione delle funzioni, e, per parlare realmente di diritti e di loro tutela, occorrerà ancora spostarsi nell’alveo rassicurante delle Costituzioni dei singoli Stati membri, la cui tenuta però è messa costantemente in pericolo dallo stesso diritto comunitario. Si pensi in particolare alle c.d. Costituzioni sociali post-weimeriane, qual è la nostra, continuamente sotto pressione proprio nella parte più innovativa – la c.d. Costituzione economica – con la quale si era avuto il coraggio di rompere il binomio libertà-solidarietà su di un piano orizzontale di equilibrio, e di porre l’eguaglianza sostanziale e il diritto dei lavoratori in una posizione di assoluta rilevanza. È necessario, dunque, un quadro più articolato e sofisticato dei rapporti tra poteri, rappresentanza politica e istanze partecipative, al fine di agevolare la configurazione di un modello giuridico europeo in grado di spostarsi, o, meglio, di porre in relazione, con un profilo più nobile e maturo, il piano dell’organizzazione e della distribuzione delle funzioni con il piano dei diritti civili, sociali e di partecipazione. Per agevolare tale processo, oltre a porre il Parlamento al centro della funzione di determinazione e attuazione dell’indirizzo politico, rafforzando la costruzione di un così detto principio di legalità europeo, nel quale possa trovare fondamento giuridico l’azione del Consiglio dei ministri e della Commissione (A. Tizzano, 1995), occorre rendere effettivi gli artt. 9-12 Tfue, laddove attribuiscono ad ogni cittadino il diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione, assegnando ai partiti politici di livello europeo il ruolo di contribuire a formare una coscienza politica europea, tale da esprimere la volontà dei cittadini. ­92

Non credo che la partecipazione politica possa esaurirsi in dichiarazioni di principio quali quelle contenute nell’art. 11, par. 2 del nuovo Tue (Le istituzioni mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile) o nel successivo paragrafo, che prevede: «Al fine di assicurare la coerenza e la trasparenza delle azioni dell’Unione, la Commissione procede ad ampie consultazioni delle parti interessate». Tali disposizioni sembrano configurare modelli di rappresentanza di interessi individuali e confusi, tipici del comunitarismo o del lobbismo, piuttosto che una rappresentanza sociale strutturata, o comunque non sembrano affermare chiaramente il diritto di partecipazione, quale strumento veramente in grado di interloquire, influenzare e controllare il processo decisionale. 3. La concorrenza: da principio a funzione Nella seconda parte del Progetto di trattato costituzionale europeo, la Carta europea dei diritti fondamentali era stata costituzionalizzata, trasformandosi da atto politico ad atto giuridico. Infatti, l’art. I-7, par. 1 del Progetto aveva previsto che l’Unione riconoscesse i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali. Con il Trattato di Lisbona, invece, la Carta viene decostituzionalizzata, in quanto non formalmente inserita nel testo. Tuttavia, le viene comunque assicurato valore giuridicamente vincolante, grazie alla nuova formulazione dell’art. 6 Tfue, che recita: «L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea [...] che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». Inoltre, la Carta è stata di nuovo proclamata e sottoscritta dai rappresentanti di Commissione, Consiglio e Parlamento il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, dal momento che sono state apportate alcune modifiche. Tali diritti si muoverebbero sulla base dei valori già introdotti dal Progetto di trattato costituzionale. In particolare, il nuovo art. 2 Tfue, così come modificato dal Trattato di Lisbona, ­93

riprende quanto già disposto dall’art. I-2 del Progetto di trattato costituzionale, secondo cui «l’Unione si fonda sui valori di rispetto della dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, Stato di diritto e rispetto dei diritti dell’uomo. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società fondata sul pluralismo, sulla tolleranza, sulla giustizia, sulla solidarietà e sulla non discriminazione», aggiungendo, inoltre, un significativo ed esplicito riferimento, sia ai diritti delle persone appartenenti a minoranze che al principio della parità tra uomini e donne. Scompare invece il Preambolo del Trattato costituzionale. Di esso viene comunque salvato, e inserito nel Preambolo del nuovo Tue, il seguente paragrafo: «Ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’eguaglianza, e dello Stato sociale». È evidente che i suddetti valori continuino a configurare, secondo gli schemi tipici della democrazia formale, una scala gerarchica che ruota intorno alla nozione ottocentesca di libertà e ai principi fondativi dello Stato di diritto. L’eguaglianza sembra intesa nella sua accezione formale, il che tradisce lo spazio limitato ai poteri pubblici, dal punto di vista delle politiche redistributive; e il richiamo esplicito allo Stato sociale, piuttosto che ai diritti sociali, sembrerebbe volersi riferire più alla competenza comunitaria concorrente della social policy (G. Bronzini, 2008), piuttosto che ad un governo pubblico europeo dell’economia. Inoltre, il richiamo ai valori universali, collegati e diretta emanazione dell’eredità culturale, religiosa e umanistica dell’Europa, è un atto di arroganza e prepotenza politico-culturale in quanto, con atto di presunzione, la disposizione declina il presunto ruolo dominante dell’Europa e la sua capacità a porsi quale fonte di valori universali, assolutistici e, quindi, riconducibili e applicabili a tutti. Gli unici riferimenti, seppur indiretti, ai diritti sociali, è possibile desumerli nell’art. 3, par. 3 Tue che conferma l’art. 3, par. 3 del Progetto di trattato costituzionale, laddove si afferma che «l’Unione si adopera per un’Europa dello sviluppo sostenibile basata su una crescita economica equilibrata, un’economia so­94

ciale di mercato [...] che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente [...] Essa combatte l’esclusione sociale [...] e promuove la giustizia e la protezione sociale [...] Essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale». Nel Progetto di trattato costituzionale, la dimensione sociale della Carta, dai contorni nebulosi e sfumati, andava a coniugarsi ad un quadro di riferimento nel quale la concorrenza assurgeva a principio assoluto, libera e non distorta (art. I-3, par. 2), nell’ambito di un’economia di mercato fortemente competitiva (art. I-3, par. 3). Nell’art. 3, par. 2 del Trattato di Lisbona (Tue), scompare il riferimento ad un «mercato interno nel quale la concorrenza è libera e non falsata». È possibile, dunque, affermare – quanto meno da un punto di vista formale – che la concorrenza non comparirebbe più tra i principi-obiettivi dell’Unione europea (J. Ziller, 2007), o, meglio, l’obiettivo della concorrenza si sarebbe trasformato in una competenza dell’Unione. In sostanza, da un primo esame, risulta evidente che alla regola della concorrenza si contrappongano delle linee-guida tese alla definizione di politiche per il riequilibrio socio-economico e territoriale. Pertanto, si configurerebbe un criterio di riferimento per progettare politiche di sistema che, in ogni caso, non coinciderebbero necessariamente con un’azione attiva dei pubblici poteri (L. Campiglio, F. Timpano, 2001), finalizzata ad un processo di convergenza delle politiche di Welfare. Anche se l’aver posto tra i nuovi obiettivi del Trattato di Lisbona la lotta all’esclusione sociale e la tutela dell’ambiente lascerebbe intendere una responsabilità diretta e attiva delle istituzioni pubbliche. L’abolizione della menzione alla concorrenza nel Trattato di Lisbona è stata caldeggiata dai francesi, gli stessi che hanno voluto aggiungere nell’art. 3, par. 5 Tue che l’Unione, oltre ad affermare e a promuovere i suoi valori e interessi, contribuisse «alla protezione dei suoi cittadini». In dottrina, si è osservato che tali novità, «insieme all’art. 14 Tfue (ex art. 16 Tce) e al nuovo Protocollo sui servizi (economici e non) d’interesse generale, potrebbero indurre i governi ad un maggiore attivi­95

smo nella protezione d’imprese strategiche, se del caso, anche tramite aiuti di Stato. La risposta dipenderà, in ultima analisi, dagli orientamenti della Commissione e, soprattutto, dei giudici comunitari» (R. Baratta, 2008). Si tratta di un processo in corso che trova la propria spinta nell’attuale crisi del sistema finanziario e delle aree tipiche dell’economia capitalistica quale il comparto automobilistico. Tuttavia, tali interventi di sostegno finanziario ai privati, da parte degli Stati, non vanno erroneamente intesi come il ricorso a strumenti configurabili in un c.d. diritto pubblico europeo dell’economia. La rinazionalizzazione parziale delle banche non annuncia l’insorgere di un governo pubblico dell’economia, ma risponde, per il momento, semplicemente a calcoli economici razionali di diversi tipi di investitori che modellano la loro azione su un nuovo equilibrio di proprietà; si assiste ad un nuovo imponente saccheggio del tesoro pubblico a favore di interessi privati, per ripianare libri contabili, al prelevamento di risorse comuni a vantaggio di alcuni privati; funzioni che restano pubbliche nei costi, ma che divengono private nei benefici (U. Mattei, 2009). Tuttavia, anche in presenza di un certo scetticismo, va detto che, alla luce di tali novità, il principio della coesione socio-economica e territoriale posto, tra l’altro, dall’art. 14 Tfue tra i principi fondativi del diritto europeo, potrebbe finalmente acquisire una valenza di pre-requisito alle politiche pubbliche, e non un mero obiettivo da raggiungere per mezzo delle politiche stesse. Ciò si porrebbe in armonia con la risoluzione n. 97/357 del Parlamento europeo, in tema di servizi di interesse generale, nella quale si afferma che il principio della coesione debba assurgere a valore dell’Unione e quindi delle azioni di politica economica dei singoli Stati membri. Il tutto rafforzato, ancor più, dall’ultimo cpv. dell’art. 14 Tfue che, addirittura, riconoscerebbe la competenza degli Stati membri, nel rispetto dei Trattati, di fornire, fare eseguire e finanziare tali servizi. In sostanza, alla luce della nuova disposizione, i servizi di interesse economicogenerale potrebbero, oltre che essere oggetto di regolazione, essere gestiti e/o finanziati attraverso l’intervento diretto della mano pubblica. Un singolo Stato potrebbe decidere di gestire ta­96

li servizi con efficienza, ma in una dimensione pubblicistica che, alla logica del profitto, preferisca la giustizia sociale, la tutela del lavoro, della salute, dell’ambiente, in una logica di democrazia della prossimità che sia in grado di garantire e distribuire risorse alle popolazioni locali. Si ricostruirebbe il nesso consequenziale tra erogazione dei servizi, responsabilità pubblica, beni comuni e tutela dei diritti fondamentali. Cioè quel circuito virtuoso, bruscamente interrotto dal riformismo bipartisan, potrebbe legittimamente risorgere, laddove ci fosse la volontà politica dei singoli Stati membri. Tale orientamento è decisamente confermato dal Protocollo n. 26 sui servizi d’interesse generale che sottolinea il ruolo essenziale e l’ampio potere discrezionale delle autorità nazionali, regionali e locali di fornire, commissionare e organizzare servizi di interesse economico generale il più vicino possibile alle esigenze degli utenti. La disposizione lascerebbe intendere la configurazione di un modello nell’ambito del quale, ad esempio, il comune potrebbe svolgere un ruolo decisivo – anche di gestione diretta – nella governance dei servizi pubblici locali, nella consapevolezza di erogare tali servizi in situazioni geografiche, sociali e culturali diverse e con l’obbligo di erogare un servizio di alto livello di qualità, sicurezza e accessibilità economica, in condizioni di parità di trattamento, promuovendo l’accesso universale e i diritti degli utenti (A. Lucarelli, 2010). Non va poi sottovalutato che sempre nel Protocollo n. 26 del Trattato di Lisbona, all’art. 2, vi è una norma specifica, dedicata ai servizi di interesse generale che, in applicazione del principio di sussidiarietà verticale, riserva ai singoli Stati membri il potere di fornire, commissionare e organizzare servizi di interesse generale, ovvero quei servizi non orientati al mercato e del tutto estranei alla regola della concorrenza. Con questa norma, gli Stati o, meglio, i livelli di governo competenti, presumibilmente i comuni, in quanto più vicini ai cittadini, saranno titolari del potere d’identificare e organizzare i servizi di interesse generale, scegliendone presumibilmente anche il modello di gestione. Dunque, le modifiche all’ex art. 16 Tce e il nuovo Protocollo sui servizi di interesse generale ridarebbero assoluta dignità e ­97

effettività al principio della coesione economico-sociale, la cui applicazione consentirebbe, in taluni casi, di derogare alla regola della concorrenza, in particolare allorquando il mercato non sia in grado di raggiungere gli obiettivi sociali. Rispetto alla debole e generica dimensione sociale contenuta nel Progetto di trattato costituzionale, nel Trattato di Lisbona si avvertirebbe l’esigenza di un riarmo della pubblica amministrazione; l’esigenza di avviare un processo di responsabilizzazione delle istituzioni pubbliche, anche nel valorizzare i livelli di governo più vicini ai cittadini. Certo, siamo ben lontani dalle aspettative di una così detta Costituzione sociale (F. Baron, 1988), che non trovano soddisfazione neppure nella Carta europea dei diritti fondamentali, in quanto assente un esplicito capo dedicato ai diritti sociali. Tuttavia, va anche detto che il capo IV della Carta, relativo alla solidarietà, contiene un elenco di diritti, molti dei quali, almeno secondo la tradizione dell’Europa continentale, potrebbero essere ascritti tra i diritti sociali (O. De Schutter, 2003). Occorre, tuttavia, dare forza ed effettività a tali enunciazioni per poterci spostare da un piano formale ad altro sostanziale; occorre una forte volontà politica, un governo pubblico europeo dell’economia, che, tuttavia, per poter funzionare, necessita di quel substrato politico-sociale ancora assente. Importante ma non sufficiente è il richiamo ideale allo spazio giuridico e politico dell’Europa continentale che ha rappresentato la nascita e la tradizione dello Stato sociale. Si pensi, in particolare, quando alla fine del XIX secolo, democrazia, Stato di diritto e Stato sociale vennero collegati idealmente dal giurista Julius Ofner, e allo Stato sociale venne attribuito il compito di una più equa distribuzione di benefici e oneri, fondata sull’eguaglianza di tutti (G.A. Ritter, 1996). Ma oggi questo non è sufficiente. Occorre lavorare alla costruzione di uno spazio giuridico sociale, ma attraverso altri metodi, strumenti e obiettivi; uno spazio giuridico che faccia posto alla partecipazione, ponendo con forza la centralità della categoria dei beni comuni, negando la tirannia delle logiche proprietarie. ­98

4. Dimensione sociale e dimensione liberista nello spazio giuridico-politico europeo: il riformismo «bipartisan» e l’abbandono della «spinta» weimariana È evidente che negli ultimi trent’anni abbiano convissuto, in ambito europeo, due anime: una sociale, legata al ruolo e alla presenza dello Stato, o più in generale della proprietà pubblica nella sfera economico-produttiva, tesa a bilanciare e regolare il mercato comune aperto e concorrenziale con il primato politico assegnato ai principi dell’economia mista e del Welfare State (S. Giubboni, 2003); e un’altra definibile individual-liberista, che ha guardato, da Reagan in poi, con ammirazione al modello statunitense e al ruolo attivo dei privati (sussidiarietà orizzontale) anche nell’ambito dei servizi di interesse generale e dei beni comuni (istruzione, sanità) e che meno profondamente rispecchia il senso dell’identità europea (M. Rodríguez Molinero, 1995). La presenza di queste due matrici, entrambe ascrivibili genericamente alla nozione di Stato democratico (S. Fois, 1999), ma caratterizzate da differenti interpretazioni del modello sociale e delle relative garanzie, non ha facilitato la costruzione di una dimensione giuridica comune a livello europeo, di un idem sentire sociale. In estrema sintesi, si potrebbe dire che in Europa si è assistito alla contrapposizione, che nel tempo tuttavia ha smussato i toni conflittuali per assumere toni bipartisan, tra modello neoamericano, orientato al mercato puro, e modello renano, geloso delle conquiste dello Stato sociale. Un modello renano, tuttavia, sempre più disposto a mettere sul mercato servizi pubblici e beni comuni, e progressivamente disposto a trasformare il cittadino in utente, in una logica tipica del diritto privato e dell’affermazione dei diritti attraverso gli schemi propri dell’azione del risarcimento danni. Un modello, dunque, che, presentato da Neumann a Weimar, è stato successivamente trasformato, influenzato e deformato, ad esempio, attraverso il contributo della Scuola degli Ordo-liberali e, più in generale, dai principi caratterizzanti l’economia sociale di mercato (D.J. Gerber, 1998). Un modello ­99

sociale riformato e ben calato nella cultura del capitalismo che ha dimostrato i suoi limiti fisiologici. Un modello che, nel nostro sistema costituzionale, ha trovato la sintesi nello Stato sociale di diritto (L. Paladin, 1965), rivelando come i meccanismi del mercato non fossero idonei ad assicurare la regolarità della riproduzione sociale, definendo l’ulteriore passaggio dalla democrazia politica a quella economica (H.F. Zacher, 1987). Nel modello di economia sociale di mercato la regola comunitaria della concorrenza, pur infiltrata anche nei sistemi nazionali di droit social (S. Giubboni, 2003), non avrebbe dovuto rappresentare, dunque, un valore assoluto, ma piuttosto un principio derogabile in presenza di fallimenti del mercato e di servizi che hanno l’obbligo di garantire diritti fondamentali (sempre più oggi, ed inopinatamente, all’espressione «garanzia dei diritti fondamentali» si sostituisce «garanzia del diritto universale»). Un modello che avrebbe dovuto configurare uno Stato non soltanto regolatore ma anche gestore; si pensi, in particolare, a quei servizi relativi ad attività economiche, la cui rilevanza sociale avrebbe dovuto legittimare interventi dei poteri pubblici, specialmente nei casi in cui la spontaneità del mercato non fosse stata in grado di soddisfarli. Le regole della concorrenza e dell’economia di mercato avrebbero dovuto cedere dinanzi al principio dell’eguale soddisfacimento dei diritti sociali, quali diritti universali e fondamentali dell’uomo. In realtà, tale modello, che, pur con le sue responsabilità belliche, trovava le proprie radici nella visione keinesiana di Welfare State, venne travolto, a seguito della crisi petrolifera di fine anni Settanta, dalla rivoluzione reagan-tatcheriana, generando l’attuale ideologia del riformismo, «una teorica non più sorretta da un disegno primario di giustizia sociale ma al contrario volta principalmente alla ricostruzione di un sistema capitalistico il più possibile efficiente» (U. Mattei, 2009). Viene meno, dunque, definitivamente in Europa la spinta del riformismo welfarista che, a partire dalla Costituzione di Weimar, e poi nella Costituzione italiana del 1948, aveva prodotto e costituzionalizzato i diritti sociali, attribuendogli il valore della ­100

prescrittività e dell’effettività con un’assegnazione diretta di responsabilità in capo alle istituzioni pubbliche. Con il ricorso ai principi di Maastricht si abbandona, dunque, anche il modello di economia sociale di mercato, per planare su un liberismo formalmente temperato. Il Trattato di Lisbona, pur con le sue ambigue formule, sembrerebbe voler frenare l’onda bipartisan del riformismo, temperando l’idolatria della concorrenza e del mercato. Tuttavia, non si può assolutamente parlare di un’inversione di rotta, infatti sul campo non appaiono politiche pubbliche ed economiche alternative; né una maggiore attenzione verso servizi pubblici essenziali può rappresentare un’inversione di rotta. È in corso una reazione scomposta ed emotiva alla crisi dei mercati finanziari e alla contrazione della domanda, che si manifesta con un ricorso allo Stato e agli istituti tipici del diritto pubblico, ai quali tipicamente fa ricorso il capitalismo nei momenti di crisi. Anche in questo caso siamo ben lontani da politiche strutturali e di reale redistribuzione del reddito e degli assetti proprietari; siamo ben lontani dal riformismo weimariano, ricco di contenuti culturali e di proposte politiche. 5. Il paradigma europeo dei diritti sociali: il principio di solidarietà Anche dopo Lisbona, da un punto di vista sistematico e contenutistico, appare quanto meno singolare che i diritti sociali nello spazio giuridico europeo, e in riferimento alla Carta europea dei diritti fondamentali, continuino a trovare il proprio paradigma, o meglio, il proprio fondamento giuridico, nel principio di solidarietà, piuttosto che nel principio di eguaglianza. Una solidarietà che appare servente alle libertà economiche, piuttosto che al principio di eguaglianza. È noto infatti che i diritti sociali, oltre ad essere rivolti ad assicurare il godimento delle tradizionali libertà, siano soprattutto strumenti tesi a garantire la realizzazione del principio di eguaglianza sostanziale, mediante un’azione sistematica dei pubblici poteri (M. Mazziotti, 1966). ­101

È vero che nel principio solidaristico si individua il paradigma dei diritti sociali in ambito europeo; sin dall’inizio del XX secolo, in particolare, nella classica costruzione di Duguit, si sosteneva che i diritti sociali fossero soprattutto una manifestazione dell’interdipendenza sociale (L. Duguit, 1913), ma è soltanto con la svolta weimariana che è possibile parlare di Stato sociale costituzionalizzato. Con il passaggio dallo Stato democratico allo Stato democratico-sociale, il concetto della solidarietà sociale diventa riduttivo per elaborare la base teorico-applicativa dei diritti sociali (A. Lucarelli, 2009). Un concetto, quello della solidarietà, che ruota intorno alla persona, o a gruppi di persone, secondo una mera visione socio-centrica, prescindendo dall’azione dei pubblici poteri. Nel principio di solidarietà si ravvisano, dunque, una spinta e una matrice individualista che si attenuano a mano a mano che essa assume la dimensione sociale (M. Hauriou, 1967), e che aumenta la responsabilità pubblica nei confronti dei poveri, non più tutelati dalle originarie comunità solidali. Tuttavia, va anche sottolineato che nel processo evolutivo della forma di Stato la solidarietà sociale rappresenta una prima traccia del dovere posto in capo ai pubblici poteri, configurando modelli di solidarietà istituzionale e regolamentata; modelli che non rimangano ostaggio di processi orizzontali di natura privatistica, ma che al contrario valorizzino la dimensione sociale, individuando le responsabilità dello Stato nei casi di mancata ottemperanza ai doveri di solidarietà. 6. Solidarietà, sussidiarietà e partecipazione: espressioni di variegati modelli socio-centrici La tesi, secondo la quale la crisi dello Stato sociale sarebbe irreversibile, ha visto la proposizione di nuovi modelli di solidarietà, in particolare si fa riferimento al Welfare Mix (Stato, mercato e non profit), e al c.d. Welfare Society. In essi si configura una tipologia di società trasversale agli schieramenti, nella quale un virtuale pluralismo o comunitarismo sarebbero in grado di accogliere in sé tutte le differenze, neutralizzando gli ­102

aspetti sovversivi e riconoscendo la legittimità delle aspettative di ciascuno. In questo senso, la Carta europea dei diritti fondamentali, nella parte relativa ai diritti sociali, sembrerebbe esprimere un compromesso tra individualismo e modello socio-centrico, che presuppone forme di sussidiarietà orizzontale, come principio di regolazione tra sfera pubblica e sfera privata, e di Welfare Society, secondo logiche di cooperazione spontanea e non necessariamente regolamentata, in ogni caso tese ad avvantaggiare chi vi partecipa (R. Nozick, 2000). Logiche che, nella teoria dei giochi, hanno dimostrato, laddove prive di regolamentazione, di non tendere naturalmente verso il bene collettivo, verso il bene comune (R.D. Luce, H. Raiffa, 1957). Si verrebbe a realizzare un’interpretazione del modello di sussidiarietà a metà tra il personalismo cattolico, espresso chiaramente nell’Enciclica Rerum Novarum (1891) e sviluppato nell’Enciclica Quadrigesimo Anno, ed il liberal contractualism (A. Føllesdal, 2000). I diritti sociali nella Carta europea dei diritti fondamentali si riconoscono, quindi, in una forma di Stato in cui la tipica divisione weberiana (M. Weber, 1992) Stato-società risulta superata da modelli partecipativi e di confusione pubblico-privato, dove l’interesse pubblico rischia di disperdersi o frammentarsi, o, peggio ancora, di essere sostituito da un interesse collettivo espressione di una sommatoria di interessi individuali e di contingenti mediazioni. Partecipazione di tipo neo-corporativo che tende all’esaltazione delle istanze individualistiche o al confusionismo sociale e che esprime disagio verso la centralizzazione e burocratizzazione delle prestazioni sociali. In sostanza, il principio di solidarietà, all’interno di un modello di Welfare Mix o Welfare Society configura la così detta teoria dei gruppi elaborata da Bentley e Truman, nella quale, partendo dagli individui, i diversi gruppi della società civile cercano di aggregare i loro interessi e competere gli uni con gli altri nella società politica, non per il perseguimento del pubblico interesse, ma per influenzare le politiche statali. Solidarietà ­103

espressione di un modello partecipativo che nulla ha in comune con la partecipazione politica strutturata, che invece ha nel suo dna il conflitto sociale, l’intolleranza e l’anti-pluralismo, non nella loro espressione anti-democratica, ma quali reazioni alla tolleranza, intesa quale mistificatorio diritto mite e universale finto e ideologico. La solidarietà tende ad essere utilizzata quale strumento per costruire la pace sociale, attraverso il conformismo esteriore delle azioni e la costruzione di una sfera privata, all’interno della quale tutte le opinioni possono essere tollerate, proprio perché private di rilevanza politica, secondo un processo di neutralizzazione della ragione politica. Ma la questione sociale, o, meglio, la garanzia dei diritti sociali, non sembrerebbe potersi realizzare attraverso la neutralità della legge e la mitezza del diritto, senza porsi quali obiettivi regolamentati principi di giustizia distributiva, che imputino allo Stato precise responsabilità, sia nella fase di determinazione dell’indirizzo politico (programma politico-economico), che nella fase di attuazione (legge finanziaria, normativa di attuazione). 7. La nebulosa natura della forma di Stato europea e la debole cornice dei diritti sociali L’assimilazione dei diritti sociali nella Carta europea dei diritti fondamentali, nell’ambito dei valori della solidarietà, sembrerebbe voler calare i diritti sociali in una forma di Stato (europea) che non coincide con lo Stato sociale, o che quanto meno sottende a differenti tipologie di intervento delle istituzioni pubbliche. Si configura, dunque, in ambito europeo, un pluralismo delle forme istituzionali (rectius, dell’organizzazione del concetto di autorità) che secondo la lezione di Gurvitch (G. Gurvitch, 1949) risponde alle esigenze di ridurre il potere statuale (percepito come repressivo) e a creare molteplici spazi di autogoverno sociale. È evidente che, mentre nelle Costituzioni dell’Europa continentale il riconoscimento e la garanzia dei diritti sociali, secondo ­104

una concezione normativa di Costituzione, hanno rappresentato, nell’ambito dei processi costituenti, un punto di arrivo e di mediazione, caratterizzato da una complessità di contenuti e radici storico-teoriche, nell’ordinamento comunitario ciò non è avvenuto. Gli obiettivi comunitari, tesi all’integrazione economica e perseguiti attraverso un debole quadro politico d’insieme, hanno prevalso rispetto al processo di integrazione sociale, determinando il c.d. deficit della social policy. Per questi motivi la teorica dei diritti sociali europei, in assenza di un vero processo costituente e di una comunità autenticamente politica e sociale di riferimento, e in presenza di uno Stato-comunità disomogeneo e disarticolato, ha realizzato una cornice più elementare, nella quale si configurano livelli più essenziali rispetto all’ordinamento giuridico degli Stati membri (R. Bellamy, D. Castiglione, 2000). Vi è, dunque, un deficit genetico alla base dei diritti sociali e del diritto sociale europeo che risente dell’incertezza del modello organizzativo e funzionale del potere (A. von Bogdandy, 1999). L’idea politica originaria era che l’integrazione del settore economico avrebbe automaticamente provocato l’integrazione di alcuni settori, quale il settore sociale. Il mercato avrebbe determinato la coesione sociale, sopperendo a tre deficit che Scharpf individuava nella mancanza di un senso di identità collettiva preesistente; di un dibattito politico su scala europea; di una struttura istituzionale in grado di assicurare che gli attori politici rispondano ad un elettorato europeo (F.W. Scharpf, 1999). Quest’idea è fallita e il Trattato di Lisbona sembra non essersene reso conto, in quanto frutto di un processo tecnico-burocratico attento agli equilibri tra gli Stati e agli interessi delle multinazionali, ma meno attento alle dinamiche socio-economiche. 8. Diritti sociali e forma di Stato europea In considerazione dei principi generali del costituzionalismo, che pongono in relazione diritti sociali e forma di Stato, è evidente che un primo nodo problematico attiene proprio all’a­105

nalisi di diritti sociali in assenza di un quadro di riferimento istituzionale e di un omogeneo modello economico-sociale europeo. Ciò, nella piena consapevolezza che l’effettiva garanzia dei diritti sociali, quale principio fondativo dello Stato democratico, non può essere affidata, secondo l’espressione di Stiglitz, a leggi commerciali inique (J.E. Stiglitz, 2000). Come è noto, la categoria forma di Stato, per contribuire a definire il rapporto autorità-libertà, dovrebbe basarsi su una non equivoca affermazione dei suoi fini. Altro nodo problematico per l’inquadramento dei diritti sociali all’interno della forma di Stato europeo è l’evidente contrapposizione tra concetti che sottendono al primato della politica, all’idea della sovranità statuale, quale strumento di trasformazione sociale, e modelli di produzione normativa, oriented market, tipici dei sistemi anglosassoni. Occorre, inoltre, considerare la frequente dicotomia tra il rango costituzionale europeo (i Trattati), dai quali è possibile individuare concetti quali l’uguaglianza, la solidarietà, la giustizia sociale, la piena occupazione, lo sviluppo sostenibile, e la normativa comunitaria di settore, sovente ispirata da modelli economici liberisti. Una dicotomia che sembrerebbe riproporre la vexata quaestio dei due livelli di norme: quelle di natura programmatica e quelle espressione dell’indirizzo politico di maggioranza. Indirizzo politico anche contingente e non necessariamente univoco, che nega la costruzione kelseniana della Costituzione quale limite al potere della maggioranza. In altri termini, risulta difficile individuare e classificare i diritti sociali senza conoscere il grado e la qualità degli interventi statali, ma ancor più all’interno di un modello di società nel quale non sembrano avere grandi spazi i corpi intermedi; all’interno di una società improntata ad un concetto atomistico-individuale di partecipazione, che mal si concilia con il riconoscimento e, ancor più, con la garanzia dei diritti sociali. Quel concetto di diritto sociale che, secondo Gurvitch, si fonderebbe sulla partecipazione (individuale e non organizzata) e non sulla legislazione dello Stato che contempla la questione sociale, cioè su quelle leggi che proteggono i deboli e i non possidenti e regola­106

no l’intervento dello Stato nella sfera economica. Come è noto, i diritti di partecipazione costituirono, dalla fine dell’Ottocento, il veicolo delle libertà mediante lo Stato, volte ad assicurare prestazioni dei poteri pubblici tese al riequilibrio delle posizioni dei singoli all’interno della società civile. In conclusione, diritti sociali fondati sulla solidarietà, all’interno della Carta europea e quindi del Trattato di Lisbona, si rapportano ad uno Stato sociale minimo, nonostante l’istituto della concorrenza nell’ambito dei servizi pubblici sia stato ricondotto da principio a regola-funzione, da valore a mezzo. Pertanto, preliminarmente all’identificazione della natura dei diritti sociali nella Carta europea e alla loro effettività, occorrerà, all’interno di differenti modelli culturali ed economici e all’interno di una pluralità di esperienze ricche di elementi differenziali, mettere a fuoco i compiti dello Stato e i rapporti tra autorità e libertà. 9. Regola della concorrenza, principio di coesione economico-sociale e diritti sociali L’art. 36 della Carta europea di Nizza, relativo ai servizi di interesse economico generale, conferma la regola comunitaria della concorrenza in settori strategici dell’economia, quali le telecomunicazioni, i trasporti aerei e ferroviari, l’elettricità, il gas, l’acqua, cioè nei c.d. settori protetti e per anni gestiti ed esercitati in regime di monopolio (A. Lucarelli, 2001). Tale principio era stato di fatto confermato nel Progetto di trattato costituzionale, imponendo un ripensamento del rapporto tra erogazione dei servizi pubblici ed eguale soddisfacimento dei diritti sociali. La dimensione sociale veniva posta in condizione di concorrere con il mercato, nel quale la prevalenza comportamentale dei free-riders avrebbe messo in discussione la stessa esistenza dei diritti sociali. Tuttavia, si ritiene che la più volte richiamata nozione di coesione economico-sociale in ambito europeo, prevista nello stesso art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e già presente nell’art. 16 (ex 7 D) Tce, nell’art. 158 ­107

Tce e nel Progetto di trattato costituzionale (art. I-3, par. 3) e da ultimo con toni più espliciti e incisivi nell’art. 14 Tfce e nel Protocollo n. 26 del Trattato di Lisbona possa costituire, purché ci sia la volontà politica, un freno all’onda riformista-liberista (G. Marcou, 2009). La coesione economica, sociale e territoriale, oltre la dimensione sociale e capace di leggere e promuovere le nuove categorie della partecipazione e dei beni comuni, andrebbe interpretata dal legislatore europeo e dai singoli Stati membri quale pre-requisito alle politiche pubbliche e non come uno strumento o un mero obiettivo da raggiungere per mezzo delle politiche stesse. In questo senso, la coesione economica e sociale andrebbe letta in termini di omogeneità e di osservanza del principio di eguaglianza, divenendo un vero e proprio principio costituzionale europeo, dal valore prescrittivo e non meramente programmatico (J. Rawls, 1999). In sostanza, il paradigma della coesione economico-sociale non può essere costituito unicamente dal binomio libertà-solidarietà, ma va implementato con i valori contenuti nel principio di eguaglianza sostanziale e nelle categorie dei beni comuni e della partecipazione. Secondo tale interpretazione, i principi contenuti nell’art. 14 Tfce si porrebbero l’obiettivo di attribuire alla dimensione sociale comunitaria, intesa nella sua più ampia accezione di eguale soddisfacimento dei diritti sociali, gli strumenti per fronteggiare la regola della concorrenza e del mercato, ben al di là del riformismo bipartisan degli anni Novanta. Alla luce dell’art. 3 Tue, così come modificato dal Trattato di Lisbona, che dispone: «L’Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente», lo stesso art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea potrebbe essere oggetto di una differente chiave interpretativa. Si richiama, in particolare, l’attenzione sulla locuzione piena occupazione, contenuta nel Trattato di Lisbona, che sembra sot­108

tendere ad un ruolo attivo dello Stato nell’individuazione degli obiettivi sociali nell’ambito della determinazione delle politiche pubbliche. In sostanza, la regola della concorrenza non avrebbe valore assoluto poiché limitata dal raggiungimento di fini sociali e dal rispetto di valori fondanti dell’Unione, quali lo sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, la solidarietà, la piena occupazione, la protezione dell’ambiente, la protezione della salute. I servizi di interesse economico generale non sarebbero sottoposti alla regola della concorrenza e del libero mercato tutte le volte in cui essi non siano in grado di perseguire i valori fondanti dell’Unione e di perseguire la coesione economico-sociale e territoriale. Si è in presenza di misure non commensurabili: da una parte, la regola della concorrenza, fondata su logiche proprietarie; dall’altra, principi fondamentali legati alla dimensione sociale dello Stato. In quest’ottica sembra difficile poter accettare l’equilibrio ordo-liberale tra ordine politico e ordine economico. La coesione sociale andrebbe vista più come un principiolimite al mercato e alla regola della concorrenza, che come un contrappeso; più come un principio ispiratore delle politiche pubbliche, che come uno strumento di natura finanziaria. Una categoria che deve rapportarsi alla dimensione del comune per non essere riproposizione del modello sociale renano. Lo Stato limiterebbe la regola della concorrenza ogni qualvolta la sua assenza sia fonte di ingiustizie sociali, quali ad esempio una forte riduzione del livello di occupazione, che potrebbe danneggiare lo stesso meccanismo di funzionamento del mercato di riferimento o addirittura la sua esistenza. In questo senso verrebbe meno la così detta neutralità statuale rappresentata dagli Ordo-liberali (D.J. Gerber, 1998), tra i responsabili del riformismo, che ha avuto quale principale vittima proprio la fantasia concreta di Weimar. Il processo di integrazione europeo, fino ad oggi, si è svolto su di un piano tecnocratico-politico che ha svilito gli istituti classici del diritto pubblico a vantaggio di un ricorso sempre più frequente alla strumentazione del diritto privato. Al contrario, ­109

ritengo che tale processo non possa prescindere dagli istituti classici del diritto pubblico, seppur evidentemente in una prospettiva europea, tali da rivalutare e valorizzare i principi ispiratori del modello sociale europeo in una visione comune e partecipata. Occorre determinare gli interessi generali europei, tali da porre, ad esempio, i presupposti per una regolamentazione speciale dei servizi pubblici essenziali, in deroga alla regola della concorrenza, o laddove possibile, al di fuori della regola della concorrenza. Non è immaginabile un processo di integrazione europeo nel quale lo spazio giuridico sia dominato da modelli lobbistici e neo-feudali, e nel quale gli strumenti contrattualistici assurgano a prevalente fonte giuridica. Ricostruire il diritto pubblico, anche in prospettiva europea, significa attribuire al Parlamento europeo l’effettivo compito di determinare principi e un indirizzo politico teso al raggiungimento di interessi pubblici europei. La riconquista dello spazio pubblico di sfere giuridiche, inopinatamente occupate dal mercato, dovrà rappresentare il presupposto per la costruzione di un modello europeo capace di garantire le libertà a tutti e ad eguali condizioni. L’insorgere dello Stato di diritto in Europa, attraverso il lento ma graduale processo di democratizzazione delle istituzioni, si accompagna all’esigenza di affermare nello spazio giuridico europeo i principi politici dello Stato sociale. Il modello pubblicistico in una dimensione europea va, dunque, rafforzato e valorizzato; non appare sufficiente il riconoscimento, tra l’altro debole, nella Carta europea dei diritti fondamentali, dei diritti sociali, né il richiamo alle tradizioni comuni delle Costituzioni europee. Non appare sufficiente difendere le conquiste dello Stato sociale, raggiunte dai singoli Paesi, dinanzi ad un panorama sempre più crescente di soggetti deboli e sfruttati, ai quali sono negati anche i più elementari diritti fondamentali. Il principio di eguaglianza sostanziale va affermato e garantito nello spazio giuridico europeo, ed in questo senso occorre fondare politiche pubbliche intorno a principi di giustizia sociale in grado di fronteggiare e reagire a modelli privatistici e neo-contrattualistici di gestione della cosa pubblica e dei beni comuni. ­110

10. Il pareggio di bilancio: la c.d. regola del «fiscal compact» Mai come con la rapidissima e silenziosa approvazione della legge costituzionale di modifica dell’art. 81 Cost. la rappresentanza politica mostra la sua lontananza dai rappresentati. Costituzionalizzare il pareggio di bilancio, infatti, equivale a limitare le decisioni di spesa del Parlamento e del governo, ma anche delle autonomie locali, soprattutto dei comuni. I diritti sociali e i diritti civili dei cittadini non potranno essere garantiti: il funzionamento della scuola, degli ospedali, della giustizia, della sicurezza è subordinato al vincolo del pareggio. Nella nostra Costituzione, prima della modifica dell’art. 81 Cost. il fine ultimo dell’ordinamento giuridico era la persona, quindi lo Stato sociale strumentale a tale fine e distintivo di una società in cui all’uguaglianza formale si affiancava quella sostanziale. Tale principio è stato il vero elemento caratterizzante la democrazia del nostro Paese nel dopoguerra, principio da considerare tra quelli supremi che la Corte costituzionale ha sottratto alla stessa funzione di revisione costituzionale nonché alla prevalenza del diritto comunitario sull’ordinamento interno. Se si modifica tale principio, si modifica il sistema costituzionale: si esercita potere costituente che però è del popolo non del Parlamento. Ciò è quanto si è verificato con la modifica costituzionale e prima ancora con la subordinazione delle politiche economiche ai principi comunitari attraverso la legislazione ordinaria. L’introduzione del pareggio di bilancio introduce un principio contrastante con la nostra Costituzione, e non è vero che il diritto comunitario lo impone agli Stati membri. Ancora una volta appare, dunque, chiara la necessità di ricorrere a modelli di democrazia alternativa, rispetto ad una democrazia della rappresentanza che si esprime, con sempre maggiore frequenza, attraverso atti violenti e autoritari, in attuazione di un indirizzo politico espresso dai mercati finanziari, dalla Bce e dal Fondo monetario internazionale. Da subito va chiarito che ancora una volta, dopo la truffa del decreto Ronchi sulla privatizzazione dell’acqua, si utilizza il diritto comunitario per approvare atti dal contenuto eversivo. ­111

Infatti, è assolutamente falso che il diritto comunitario imponga agli Stati di modificare le proprie Costituzioni con l’introduzione del pareggio di bilancio. Il preambolo del Trattato del 2 marzo 2012, firmato da tutti gli Stati membri, ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica ceca, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria, non impone modifiche costituzionali, ma un anomalo controllo sul rispetto del pareggio di bilancio affidato alla Corte di giustizia, ovvero l’organo che rappresenta la massima espressione della tecnocrazia e il massimo distacco da qualsivoglia circuito democratico decisionale. Ma al di là della gravità di aver utilizzato in maniera impropria e strumentale l’istituto della revisione costituzionale, occorre ricordare che la garanzia dei diritti fondamentali, tra i quali ovviamente sono inclusi i diritti sociali, rappresenta un principio fondamentale della Costituzione italiana e configura un’ipotesi classica di limite alla prevalenza e/o ingerenza del diritto comunitario sul diritto interno. Quindi, in caso di contrasto tra diritto comunitario e diritto interno prevalgono i principi costituzionali e il governo italiano avrebbe potuto e dovuto da subito anteporre la difesa della Costituzione a regole eversive poste dai mercati finanziari. Il rispetto delle identità nazionali, e quindi dello Stato sociale, così come declinato nella nostra Costituzione, è ampiamente ribadito da ultimo dall’art. 4, par. 2, del Trattato sull’Unione europea. Pertanto, la difesa dello Stato sociale rappresenta un’ipotesi di limite all’esercizio del potere di revisione costituzionale. Il pareggio di bilancio introduce un principio contrastante con la prima parte della Costituzione, in particolare con l’art. 2, nella misura in cui l’obbligo del pareggio può determinare una violazione di diritti definiti inviolabili; ma anche con l’art. 3, in quanto per la stessa ragione si viola il principio di uguaglianza sostanziale sancito nel secondo comma, che caratterizza la nostra forma di Stato sociale e soprattutto costituisce l’elemento fondativo delle politiche sociali e l’effettività della democrazia sostanziale. Come è noto, vincoli comunitari, prima dell’attuale riforma costituzionale, avevano indotto lo Stato italiano ad approvare un patto di stabilità interno: ciò sta determinando una forte compressione della capacità delle auto­112

nomie locali di far fronte alle funzioni che la Costituzione assegna loro (art. 118 Cost.), e che prevede che siano integralmente finanziate con le risorse indicate nello stesso testo dell’art. 119 Cost. Ciò, in particolare, ha determinato una violazione del principio autonomistico degli enti locali, di cui all’art. 5 Cost., ripreso anche dall’art. 114 Cost. Quest’ultimo ha rafforzato tale principio, in particolare con riferimento agli enti locali, prevedendone direttamente in Costituzione il fondamento dei loro statuti, poteri e funzioni. La legge costituzionale che modifica l’art. 81, accogliendo con le tipiche ambiguità italiane i vincoli comunitari per gli Stati, parallelamente modifica anche l’art. 119 Cost., ove il comma 1 è così sostituito: «I comuni, le province, le città metropolitane e le regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea». In sostanza, si costituzionalizza il patto di stabilità interno, ma tale operazione non risolve i problemi di costituzionalità in quanto alla stessa legge costituzionale è vietato di violare principi costituzionali, nella fattispecie il principio autonomistico.

Conclusioni

In conclusione, dunque, anche in relazione al processo europeo di integrazione, ricostruire il diritto pubblico, ripartendo proprio dall’attuazione dei principi costituzionali, significa: 1. configurare un modello di organizzazione pubblica non soltanto con funzione di regolazione esterna ai processi economici, ma altresì in grado di gestire l’attività produttiva, di assolvere a funzioni dall’alto impatto sociale e di coinvolgere la cittadinanza attiva; 2. prevedere interventi pubblici diretti, in deroga alla regola della concorrenza, considerando il principio della coesione economico-sociale quale obiettivo e non mero strumento di attuazione di politiche pubbliche, interpretandolo come vero e proprio principio costituzionale, dal valore cogente e non meramente programmatico; 3. imporre che il paradigma della coesione economicosociale non sia più costituito unicamente dal binomio libertàsolidarietà, ma sia implementato attraverso i valori contenuti nel principio di eguaglianza sostanziale e della giustizia sociale, con l’adozione di specifiche politiche di perequazione in settori dall’alto impatto economico-sociale; 4. prevedere, sulla base di una attenta, equa (in particolare per quanto attiene alla distribuzione delle risorse finanziarie nel territorio) e organica legislazione statale di riferimento, un ruolo efficiente dei comuni e dei consorzi tra comuni, nella gestione dei servizi pubblici locali essenziali, e di tutti quei servizi non orientati fisiologicamente al mercato; ­114

5. riaffermare i principi costituzionali dell’autonomia dell’amministrazione rispetto ai partiti e alle correnti di partito, e la volontà che essa sia servente al perseguimento degli interessi generali e non a singoli esponenti politici, attraverso il ricorso ad istituti quali lo spoil system, dichiarati illegittimi dalla Corte costituzionale (il meccanismo di tradizione anglosassone dello spoil system è in contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione che stabiliscono i principi-guida della pubblica amministrazione, imparzialità e buon andamento, come ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n. 103 del 23 marzo 2007 e nella sentenza n. 161 del 2008); 6. guardare con prudenza i modelli di Welfare Mix, Welfare Society o di c.d. sussidiarietà orizzontale, che hanno ispirato le riforme degli enti locali negli ultimi anni, indebolendo le istituzioni pubbliche a vantaggio di disarticolati ed egoistici interessi diffusi presenti nella società; 7. rafforzare i modelli di Welfare municipale, nella considerazione che la tutela effettiva dei diritti fondamentali della persona, e in senso più ampio dei c.d. diritti condizionati all’erogazione delle risorse finanziarie, non possa essere garantito unicamente all’interno di un sistema locale che avrebbe come conseguenza la frammentazione della tutela dei diritti; 8. lottare per una legge che stabilisca i principi di coordinamento della finanza pubblica, assicurando, in ogni caso, ai sensi dell’art. 119, comma 4 Cost., il finanziamento integrale delle funzioni attribuite ai comuni, oltre alla tutela dei livelli essenziali inerenti ai diritti sociali. Tutto ciò però impone una decisa inversione di rotta, un forte senso dello Stato, che trovi il proprio fondamento naturale nei principi costituzionali, in quei principi che devono continuare a conservare il loro carattere prescrittivo-normativo. Tutto ciò richiede una cultura delle riforme che significa innanzitutto attuare e rendere effettivi tutti quei principi costituzionali che sono a tutt’oggi non applicati, o che, peggio ancora, sono compressi e relativizzati dall’adozione di regole o modelli neo-contrattuali. Tutto ciò però impone un grido di orgoglio e un senso di ­115

riscatto da parte di quei giuristi che ancora si ritrovano nei principi fondanti il Patto costituente; in quel processo culturale che attribuiva al diritto pubblico il ruolo più alto e nobile per la convivenza civile e sociale e per la sopravvivenza delle generazioni future. Un diritto pubblico che, come si è cercato di dimostrare, deve andare oltre la mistificazione della sovranità popolare e della democrazia della rappresentanza, aprendosi senza false ipocrisie alla democrazia partecipativa e diretta; che abbia il coraggio e la forza di uscire dal monopolio della categoria proprietaria, accogliendo l’insorgere della nuova e dirompente categoria dei beni comuni, dalla quale sarà possibile declinare nuovi modelli di democrazia.

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Indice

Introduzione

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I. Le tre dimensioni del diritto pubblico

3

1. Il diritto pubblico nei processi evolutivi del liberalismo autoritario: organizzazione del potere e tutela delle libertà individuali, p. 3 - 2. Il lento e graduale passaggio dal modello di Costituzione materiale dell’Ottocento al modello realistico democratico sociale: verso un nuovo diritto pubblico, p. 6 - 3. Il diritto pubblico tra politica e amministrazione nel processo di trasformazione: l’apparente neutralità del diritto pubblico francese, p. 9 - 4. Dal liberalismo autoritario alla forma di Stato democraticosociale: la funzione sociale del diritto pubblico attraverso la sintesi tra politica e amministrazione, p. 13 - 5. La crisi del modello pubblico sociale-funzionale: la disintegrazione dei principi, p. 15 - 6. Il profilo tridimensionale del diritto pubblico: politico-amministrativo-sociale, p. 17

II. I processi di trasformazione del diritto pubblico 19 1. Premessa, p. 19 - 2. Le nuove categorie del diritto pubblico e le contaminazioni pubblico-privato, p. 25 - 3. Dal pubblico al comune: segue, p. 28 - 4. Ancora sui processi di privatizzazione del diritto pubblico: il pubblico impiego, p. 31 - 5. Il disarmo della pubblica amministrazione, p. 32 - 6. Lo strumento della regolazione: cenni, p. 35 - 7. Trasformazione del diritto pubblico sociale e affermazione della nuova e ibrida categoria giuridica della regolazione, p. 36 - 8. Ancora sulle nuove forme del diritto pubblico e loro impatto sui diritti civili e socio-economici: un quadro disarmonico rispetto alla Costituzione, p. 39 9. Le nuove forme privatistiche del diritto pubblico e le nette divergenze con il modello liberale, p. 41 - 10. Nuove forme del diritto pubblico e processi riduzionistici, p. 43

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III. Effettività e ineffettività del diritto pubblico sociale 45 1. Diritto pubblico sociale: ancora sulle contaminazioni privatistiche, p. 45 - 2. Le riforme e il regresso del diritto pubblico funzionale: un vulnus per l’effettività dei principi costituzionali, p. 47 - 3. Ancora sulla crisi del diritto pubblico sociale, p. 48 - 4. I processi di democratizzazione del diritto pubblico: idee e percorsi verso il diritto pubblicosociale, p. 50 - 5. Costituzione e funzione sociale del diritto pubblico, p. 51 - 6. Il vulnus dell’effettività: la non applicazione dei principi costituzionali e la proliferazione di regole eversive, p. 54 - 7. Processi di riforma: dal disarmo del diritto pubblico al diritto pubblico autoritario, p. 55

IV. Forme e categorie per un nuovo modello di democrazia. Beni comuni e democrazia partecipativa 59 1. Crisi del diritto pubblico-sociale e ricerca di forme e categorie alternative, p. 59 - 2. I beni comuni e gli aspetti fondativi per una teoria giuridica, p. 62 - 3. Pratiche sociali e istanze partecipative, p. 74 - 4. Oltre il diritto pubblico sociale: l’attuale vitalità degli artt. 43 e 46 Cost., p. 74 - 5. Il diritto pubblico partecipato oltre le tradizionali categorie partecipative, p. 76 - 6. Nuove forme del diritto pubblico, p. 79 - 7. Le nuove dimensioni del diritto pubblico dentro e oltre la Costituzione, p. 80

V. Il diritto pubblico europeo dell’economia

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1. Ruolo e funzioni del diritto pubblico nel processo di integrazione europeo: la legislazione per principi e la legittimità comunitaria, p. 82 - 2. Il modello sociale ed economico europeo: riflessioni introduttive, p. 88 - 3. La concorrenza: da principio a funzione, p. 93 - 4. Dimensione sociale e dimensione liberista nello spazio giuridico-politico europeo: il riformismo bipartisan e l’abbandono della «spinta» weimariana, p. 99 - 5. Il paradigma europeo dei diritti sociali: il principio di solidarietà, p. 101 - 6. Solidarietà, sussidiarietà e partecipazione: espressioni di variegati modelli socio-centrici, p. 102 - 7. La nebulosa natura della forma di Stato europea e la debole cornice dei diritti sociali, p. 104 8. Diritti sociali e forma di Stato europea, p. 105 - 9. Regola della concorrenza, principio di coesione economico-sociale e diritti sociali, p. 107 - 10. Il pareggio di bilancio: la c.d. regola del fiscal compact, p. 111

Conclusioni

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Riferimenti bibliografici ­130