Esegesi dei luoghi comuni

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Esegesi dei luoghi comuni

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Léon Bloy

Esegesi dei luoghi o comuni

il melangolo

lectnrae / 5

Léon Bloy è per natura e per vocazione uno scrit­ tore « disperato » e tuttavia fermo nella speran­ za, sfiduciato e però illuminato dalla Fede, che odia il prossimo suo come se stesso, pur mante­ nendo intatta la sua fondamentale carità. Alla let­ teratura affida il suo urlo di rivolta, le sue ingiu­

rie, il suo spasimo famelico di diseredato e di pec­ catore. La sua scrittura eminentemente lettera­ ria — e non meramente predicatoria o apologe­ tica —, mira alla rottura, alla demolizione,

all’oltraggio, al riscatto; è perciò tanto santa nel fondo, quanto spesso sacrilega o dissacrante nel­ l’attacco, nel morso, nell’aggressione. Ed è con­ tro il Borghese, che incarna tutti i difetti, tutto l’orrore possibile, contro la sua meschinità, con­ tro le sue formule di presunta saggezza che Bloy si scatena con il suo odio di arcangelo, la sua ferocia di templare, sempre con la bava alla

bocca, il veleno nella penna e Dio nel cuore.

ISBN 88-7018-194-4

L. 35.000

9 788870 181944

Léon Bloy nasce nel 1846 a Fenestrau, se­ condo di sette figli si trova fin dalla prima infanzia nel nodo di contrasti che contrap­ pongono gli atteggiamenti religiosi della madre all’ateismo radicato e venato di for­ te anticlericalismo del padre. Recatosi a Pa­ rigi, conosce lo scrittore Barbey d’Aurevil­ ly, di cui diventa segretario. Partecipa alla guerra franco-prussiana del 1870; torna a Pa­ rigi dove conduce una vita da perfetto bo­ hémien. Entra come giornalista all’“Univers” ma il tenore violento e provocatorio dei suoi articoli lo costringe a sospendere la collaborazione. Nel 1887 pubblica La Dé­ sespéré e, nel 1897, La Femme pauvre. Nel 1890 sposa Jeanne Molbech, una giovane maestra danese da lui convertita al cattoli­ cesimo. Dal matrimonio nasceranno quat­ tro figli. Seguono anni d’intensa attività; nel 1892 pubblica Salut par le Juifs, in cui pren­ de posizione contro i violenti attacchi an­ tisemiti, e due raccolte di novelle, Sueur de sang (1893) e Histoires désobligeantes (1894). Alterna alle opere di finzione testi polemi­ ci e di tono profetico: Léon Bloy devant les cochons (1894), Je m'accuse (1900), Belluaires et Porchers (1905) dove compaiono nu­ merosi ritratti di scrittori contemporanei esaltati o demoliti senza pietà. Verso la fi­ ne della sua vita riprende il filone storico. Ai saggi su Cristoforo Colombo Le Révé­ lateur du Globe (1884) e Christophe Colomb devant les taureaux (1890) e su le Fils de Louis XVI (1900) si aggiungono le riflessioni su L’Ame de Napoléon (1912) e su Jeanne d’Arc et l’Allemagne (1915). Muore, dopo breve malattia, a Bourg-la-Reine, nei pressi di Pa­ rigi, il 3 novembre 1917.

In copertina: Josef Sudek, negativo 1950-54

Progetto grafico: Christoph Radi

lecturae:

1. Jules Michelet Il mare 2. Macedonio Fernandez Museo del romanzo della Eterna (Primo romanzo bello) 3. Guido Ceronetti Viaggia viaggia, Rimbaud!

4. Karl Jaspers Volontà e destino. Scritti autobiografici



LECTURAE

Léon Bloy

Esegesi dei luoghi comuni

A cura di VALERIA GIANOLIO

il melangolo

rs Titolo originale Exégèse des Lieux communs Traduzione di Gennaro Auletta

Revisione di Valeria Gianolio

L’Editore si dichiara disposto a ottemperare ai suoi obblighi contrattuali con gli aventi diritto della traduzione. Copyright © 1993, il melangolo s.r.l. 16123 Genova - Via di Porta Soprana, 3-1

ISBN 88-7018-194-4

INTRODUZIONE

Un dopo Bouvard e Pécuchet? « Fine de\VExégèse des Lieux communs. Quest’opera che mi è costata più di quanto non saprei dire, si è conclusa con una tribolazione straordinaria. Mai mi sono visto così abban­ donato dagli uomini. Mai, eppure...». Con queste afferma­ zioni, Léon Bloy congeda nel suo Journal, in data 5 marzo 1902, la prima serie dedicata all’inventario critico dei luoghi comuni. La fatica che la stesura di questo testo gli ha procu­ rato e ancora gli procura non viene mai taciuta ed era già trapelata in annotazioni precedenti. Il 14 gennaio dello stes­ so anno, sempre nel Journal, leggiamo: «Sono ormai otto mesi che mi applico a questo libro, ed è ormai venuto il tem­ po di terminarlo. Era il più difficile di tutti e quello che mi è più costato». Un’uguale sensazione di doloroso disagio sarà evidente, quasi undici anni dopo, anche nella seconda serie dedicata al medesimo argomento, palesandosi addirittura nella parte conclusiva dove, con arabeschi stilistici e virulenti sarcasmi, lo scrittore menziona ventidue altri luoghi comuni dei quali avrebbe l’intenzione di occuparsi ma che il tempo e la stan­ chezza gli impediscono di chiosare. La reiterata parabola ossessiva che percorre questi testi, ideati per distruggere la figura dell’awersato borghese ma at­ traversati anche da numerose filigrane autobiografiche, ci in­ duce a ripercorrere le linee essenziali dell’esistenza di uno scrit7

tore, per molti aspetti difficile da incasellare negli scompartì di comodo definiti dalla storia letteraria. Léon Bloy nasce I’ll luglio 1846 a Fenestrau, vicino a Périgueux, secondo di sette figli e si trova fin dalla prima in­ fanzia nel nodo di contrasti che contrappongono gli atteg­ giamenti religiosi della madre all’ateismo radicato e venato di forte anticlericalismo del padre, modesto impiegato senza speranza di carriera. Aggiunge a questo dissidio familiare una personale propensione alla malinconia e una tragica lettura dell’esistenza. Divenuto allievo mediocre e indisciplinato vie­ ne espulso adolescente dal collegio, per un episodio non chia­ rito ma che testimonia del suo carattere violento e rissoso, e lavora con il padre fino ai diciotto anni. In questo periodo inizia la sua formazione culturale, vasta ed estremamente ori­ ginale, ma anche disorganica e rapsodica. Si specializza nel disegno, privilegiando l’ornato e il miniato e il gusto acquisi­ to per l’abbellimento della pagina ritornerà, come caratteri­ stica non solo estetica, nell’accurata stesura dei manoscritti. Sempre in quegli anni, lascia la famiglia per stabilirsi a Parigi, dove, per mantenersi, è costretto a svolgere i mestieri più umili. È il primo contatto quasi epidermico con la mise­ ria e la mancanza endimica di danaro persisterà per tutta la sua vita, determinando però anche la squallida magnificenza di questo eterno questuante. Nel 1867, un fortuito incontro con lo scrittore cattolico Jules Barbey d’Aurevilly, a cui se­ gue una lunga e fervida seppure ineguale amicizia, pone fine al dissidio delle sue scelte spirituali spingendolo a una misti­ ca conversione senza riserve. Partecipa alla guerra franco-prussiana del 1870 e, arruo­ latosi nei « Mobiles de la Dordogne », parte per il fronte co­ me se andasse a una Crociata e la sconfitta lo riporta, deluso e scoraggiato, nel natio Périgueux. La vita di provincia non lo appaga e questa inazione lo spinge nuovamente nella capi­ tale dove conduce una vita da perfetto «bohémien». Incon­ tra e frequenta i principali scrittori di quell’epoca come Fran­ çois Coppée, Villiers de l’Isle-Adam, Huysmans, Ernest Hel8

Io, Bourget e l’abbé Tardif de Moidrey che lo introduce al­ l’esegesi delle Scritture e che eserciterà una grande influenza su di lui, votandolo al culto della Madonna di La Salette. Le apparizioni della Vergine, accompagnate da oscure e catastro­ fiche previsioni, erano avvenute in un periodo quasi coevo alla nascita dello scrittore e vengono da lui interpretate come un segno di predestinazione, una sorta di vincolo sodale. Entra come giornalista all’“Univers” di Louis Veuillot, ma il tenore violento e provocatorio dei suoi articoli induce il direttore a intimargli di sospendere la sua collaborazione. Nel febbraio del 1877, incontra nel Quartiere Latino una gio­ vane prostituta, Anne-Marie Roulé, la redime e ne diventa l’amante. L’unione con questa donna, segnata da un’estre­ ma miseria ed esasperata dalla sua mistica follia, ritorna nel­ le vicende fortemente autobiografiche del romanzo Le Dése­ spéré (1887), dove Anne-Marie assume le tragiche fattezze di Véronique. Un nuovo legame con Berthe Dumont, una specie di bar­ bona dedita alla droga, ha termine con la subitanea morte della donna, avvenuta nel 1885; anch’essa ricomparirà, tra­ sposta nella figura di Clotilde, nella prima parte di La Fem­ me pauvre (1897). I ripetuti e sfortunati tentativi di dare una stabilità, seppure precaria, alla sua vita sentimentale vengo­ no registrati con prostrazioni fisiche o con ossessive esaspe­ razioni religiose che lo spingono a ipotizzare perfino il suo ritiro nella Trappa. L’incontro con Jeanne Molbech, una giovane maestra danese da lui convertita al cattolicesimo, determina e instau­ ra quel benefico equilibrio così tanto ricercato. Dal loro ma­ trimonio, avvenuto nel 1890, nascono Véronique, Madelei­ ne, André e Pierre e tanto la partecipe e affettuosa presenza delle figlie quanto la dolorosa prematura scomparsa dei fi­ glioletti segneranno molte pagine degli scritti paterni. Seguono anni d’intensa attività. Léon Bloy pubblica nel 1892, Salut par les Juifs, dove si schiera contro i violenti at­ tacchi antisemiti che preludono in qualche sorta l’Affaire Dreyfus e due raccolte di novelle, Sueur de sang (1893) e Hi9

stoires désobligeantes (1894), esemplificazioni significative di una prosa cupa e orrifica. Alterna alle opere di finzione testi polemici e di tono profetico come Léon Bloy devant les co­ chons (1894), Je m’accuse (1900), Belluaires et Porchers (1905), dove compaiono numerosi ritratti di scrittori contem­ poranei che gli sono stati vicini e da lui trattati come amici o distrutti come temibili avversari. I suoi libri, troppo particolari e originali per raggiunge­ re il grande pubblico, continuano a riscuotere un mediocre successo ma il loro autore viene sostenuto da una nuova ge­ nerazione di estimatori che lo eleggono tardo epigono di Barbey d’Aurevilly e suo seguace nella strenua militanza condotta dagli scrittori cattolici. Accanto agli studiosi René Martineau e Pierre Termier, si possono citare ancora i nomi dello scul­ tore Frédéric Brou, dei pittori Georges Rouault e Henry de Groux, del compositore Georges Auric, del sacerdote Cornuau e quelli di Jacques e Rai'ssa Maritain. Verso la fine della sua esistenza, Léon Bloy riprende il filone degli studi storici seguendo una lettura del tutto parti­ colare che riunisce alla ricerca aggressiva della trasparenza la disperata propensione per l’assoluto. Ai saggi su Cristoforo Colombo, Le Révélateur du Globe (1884) e Christophe Co­ lomb devant les taureaux (1890) e su le Fils de Louis XVI (1900), si aggiungono le riflessioni su L’Ame de Napoléon (1912) e su Jeanne d’Arc et l’Allemagne (1915). Lo scrittore muore, dopo una breve malattia, a Bourgla-Reine, nei pressi di Parigi, il 3 novembre 1917. Le stesure delle serie destinate alle Esegesi dei Luoghi co­ muni si collocano in segmenti biografici determinanti per il pensiero di Léon Bloy. La prima, dopo un nucleo iniziale da­ tato settembre 1897, viene ripresa e ultimata tra il 1901 e l’an­ no seguente, dopo il ritorno dal secondo soggiorno danese che si era rivelato un totale fallimento e durante la perma­ nenza forzosa a Lagny, permanenza che determina uno dei picchi più desolati della sua pur sempre tragica esistenza. Il posto, dove lo costringe una miseria assoluta, è trasfigurato, 10

in nome di una toponomastica feroce, in Cochons-sur-Marne e diventa il terreno di elezione per far allignare e prosperare la mala pianta dei più vieti luoghi comuni. La redazione della seconda serie si consuma tutta nel­ l’arco dell’anno 1913 ed è dovuta a Pierre Termier, evocato palesemente nella conclusione del libro, il benefattore che riu­ scirà a rendere più accettabile le sue condizioni di vita negli ultimi anni. Entrambi i testi possono essere considerati riuni­ ti in un discorso generale che prevede una loro vicinanza for­ male e una certa continuità di argomenti che tendono poi a diversificarsi, come vedremo, nella graduale quantificazione del potere sovversivo di denuncia sociale. Il loro elemento di­ stintivo più evidente, ed è anche quello che è stato esaspera­ to dalla critica specialistica, risiede nel voler deprivare la classe borghese di ogni tipo di identità. L’impresa di demolizione — ricordiamo che Bloy firmava con l’appellativo «Entrepre­ neur de démolitions» gli articoli pubblicati dallo “Chat Noir” — prende le mosse dallo smantellamento metodico delle ma­ trici e degli stereotipi linguistici che più sono adoperati da quella razza spuria e che, quindi, meglio riescono a definirla. A partire dallo splendore e le miserie del borghese resti­ tuito alla sua fisiologia da Honoré de Balzac, tutta una gene­ razione di scrittori del pieno Ottocento francese ha continua­ to a inseguire e stigmatizzare le sue reazioni. Sfogliando il Journal intime di Baudelaire — dove lo si incolpa, con un’im­ magine essenziale, di essere «uccisore di cigni» e quindi di distruggere con essi ogni germe di fantasia poetica —, leg­ gendo le lettere di Flaubert e quelle di Rimbaud o ripercor­ rendo le testimonianze fornite nei vari salotti letterari da Barbey d’Aurevilly o Stéphane Mallarmé possiamo delineare un’opaca costellazione di sagome, inegualmente sbozzate, ri­ calcate da un modello univoco. Tra tutti, Gustave Flaubert si spinge più avanti e disegna una parodistica enciclopedia cri­ tica dello scibile umano auspicata da Bouvard e Pécuchet, i personaggi che diventano, a loro volta nella finzione, diligenti e infaticabili copisti delle varie voci di un poderoso e mono­ litico Sciocchezzaio. Queste opere restano incompiute come 11

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pure allo stato di ricerca non attuata ma solo ideata sono gli Aphorismes du Docteur prospettati da Villiers de l’Isle-Adam. In un filone analogo, pur con i debiti aggiustamenti in­ terpretativi, dovuti alla natura del tutto originale dello scrit­ tore, si possono inserire le Esegesi di Léon Bloy il quale insi­ ste in più di un’occasione sul potere dell’interpretazione del­ la parola e sulla validità esemplificativa dei luoghi comuni. Nel suo Journal, datata 9 maggio 1892, leggiamo un’ulterio­ re chiarificazione: «A proposito dei luoghi comuni di cui vo­ glio, un giorno, elaborare ΓEsegesi dico a de Groux che una parola banalissima, rimasticata di continuo dagli imbecilli, è un’affermazione prodigiosa della loro nullità e che, di conse­ guenza, diventa divina». Il già corposo inventario della borghese inanità campio­ nato dall’autore nella capitale si potenzia con il periodo di Lagny, periodo in cui Bloy si sente sommerso e quasi sover­ chiato da una coesa comunità costituita da avidi commercian­ ti, parroci farisaici, meschini e gretti padroni di casa, concit­ tadini ignoranti e viciniori invidiosi e ficcanaso. Tutte queste persone, tranne qualche rara eccezione non significativa pe­ rò, conoscono come solo determinatore comune quello di non pensare. O, per dire meglio, pensano alla sola cosa che, at­ tuandosi e ripetendosi all’infinito, li distrugge ossia all’accu­ mulazione proliferante del danaro a scapito degli indifesi, dei derelitti che, in quanto tali, diventano eletti del Signore, pre­ destinati alla vita eterna. La loro lingua non conosce la forza e la crudezza realistica del gergo popolare e questi borghesi si esprimono in generale, con maggior enfasi ridondante nel­ le solenni occasioni della loro esistenza, filtrando il discorso attraverso aforismi e motti sentenziosi. La prima parte delle Esegesi comprende ben CLXXXIII proverbi o massime e viene posta dal suo autore sotto la tu­ tela illuminata di san Geremia. Fin dall’introduzione dunque possiamo individuare i due registri principali del testo che pre­ vedono la progressiva messa a tacere della borghesia per mez­ zo e con l’ascesa splendida e sublime della parola di Dio. Ed essendo la scrittura per Bloy soltanto un supporto strumen­ 12

tale essa doveva farlo assurgere al ruolo di fustigatore di una razza abietta come anche a vette di mistico profeta di re­ denzione. In questo continuo passaggio di referenti che scorrono tra la voragine del nulla dove è destinata a sprofondare la borghesia e l’Assoluto a cui aspira ogni vero credente viene a insediarsi con sempre più prepotenza il danaro che, aiutato dalla sua veste originale e plurisemica di «argent», è chiosa­ to biblicamente dallo scrittore fino a divenire un simbolo ico­ nografico del Verbo divino. Ancora una volta assistiamo dun­ que al ripetersi di una situazione sorprendente dove la figura del Borghese si oppone specularmente a quella di Dio e l’i­ nutile circolazione del vile danaro al flusso benefico dell’au­ reo riscatto, immagine di eterna salvazione. L’instaurarsi di queste linee di forza nel testo ci suggerisce anche la motiva­ zione delle reiterate proposte nominali del Borghese e di Dio, evocate e invocate in proporzione numerica quasi uguali. Il raccordo che si articola senza tregua tra ipocrita men­ zogna e verità divina procede per paradossi che hanno una loro logica interna ma che, a volte, sembrano fagocitati da una prosa che spesso si brucia e si insterilisce in un insistito autocompiacimento per la sua ossessiva virulenza. La siste­ mazione dei luoghi comuni conosce quindi un itinerario lin­ guistico alquanto difficoltoso, esasperato dalla ricerca delle parole rare e dei neologismi, legato da antifrasi, reso scabro e misterioso da ossimori e altre figure retoriche e dove ser­ peggia di continuo la vena satirica del nonsenso come lucida aberrazione. Il volerne fare l’inventario risulta perlomeno pro­ blematico ma vi si possono comunque delineare alcune situa­ zioni seriali ricollegabili nel sistema del discorso. L’entrata nel testo può essere individuata neH’«umbilico dei luoghi comuni » ossia in quella formula da sempre vin­ cente per cui G/t affari sono affari (1, XII). A questa peren­ toria asserzione si potrebbero ricollegare le sequenze tra loro solo apparentemente avversative del tipo Non è possibile avere tutto (1, XIV), Non tutti possono essere ricchi (1, XV) e La povertà non è vizio (1, V) contrapposte a Non si può vivere 13

senza danaro (1, X), Il danaro non fa la felicità, ma... (1, XLV) e Bisogna morir ricco (1, XVI). Altre catalogazioni sono identificabili nella comparsa di blocchi retti da azioni verbali come «essere», «avere», la più frequentata, «potere» e «mo­ rire » — l’intero arco di una esistenza insomma — o nella for­ ma propositiva con cui è formulata la massima tenendo ben presente che laddove esiste negazione molto probabilmente essa funziona invece come una risposta affermativa e cate­ gorica. Le pause più narrative imposte al lettore circoscrivono una testimonianza diretta di momenti autobiografici come l’e­ strema miseria, la malattia della moglie e la morte del figlio­ letto (Più si fa i matti, più ci si diverte, 1, CXIX), la presen­ za in casa imposta da un falso amico (Non sono un servo 10 ovvero Quando si allatta, 1, LXVII) o la parentesi danese (Non si è oro di coppella ovvero Quello che si addice alle gio­ vinette, 1, CLXIX) o anche un suo precedente tentativo di racconto (Nessuno al mondo è perfetto, 1, VI). Léon Bloy riporta anche citazioni da lui ritenute illuminanti di Ernest Hello (L’abitudine è una seconda natura, 1, LIV) e di Anne Catherine Emmerich (È morta come una santa, 1, LXIV) in alternativa agli autori prediletti dai suoi nemici. In questa lun­ ga lista compaiono i nomi di coloro che rispondono al con­ cetto di borghesi in letteratura e che riempiono le librerie e 11 mercato con le loro edizioni, guadagnando sempre più fa­ ma e danaro. Ed ecco, disseminati in modo palese e provo­ catorio o affibiati come appellativi a personaggi di finzione, comparire Gabriel Hanotaux, Alphonse Allais, Emile Zola, Paul Bourget e Jules Vallès. Anche la nozione di belle arti si inscrive nelle desolanti scelte operate da una fascia sociale incapace di produrle come di fruirle. Vedasi a questo propo­ sito Essere poeta in determinate ore (1, XXVIII), Incorag­ giare le belle arti (1, CII) e La critica è facile ma l’arte è più difficile (1, CLXX). Una operazione analoga si compie per le serie consacra­ te agli aforismi storici impregnati del particolare atteggiamento assunto da Léon Bloy nei confronti di questi problemi. Per 14

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10 scrittore infatti l’epopea dell’era moderna si conchiude con 11 1815 e dopo questa data fatidica regnano incontrastati quei luoghi comuni la cui cronaca alimenta la sua opera di reda­ zione. Marchi linguistici di totale bassezza di una classe inca­ pace di ammettere l’assoluto storico, anche nella sua più ne­ fasta accezione, essi scuotono dalle fondamenta ogni giorno l’universo, preparandone la catastrofe finale e inevitabile. L’e­ sempio, la prova provata di ogni tipo di abiezione storica è dato dalla guerra franco-prussiana del 1870 che compare nel testo, sotto forma episodica in La più bella fanciulla del mon­ do non può dare che quello che ha (1, LXXI), e in modo più esplicito ne suggella la conclusione in veste di interroga­ tiva retorica, Che cosa facevate nel 1870? (1, CLXXXVIII). Tutto nell’ottica della borghesia e a cavallo tra equivoci di lettura di civiltà e arte si situa l’originale trasposizione di uno dei più vieti luoghi comuni, quello che vede un certo tipo di autori passare la loro vita a Mantenere delle ballerine (1, CXLV). In realtà si tratta di una sola e consunta danzatrice che ripropone da secoli il macabro rituale di una danza del ventre davanti ai sepolcri imbiancati di pudibondi quanto ipo­ criti benpensanti. I suggerimenti forniti dal testo possono determinare nelle sue sinusoidi narrative una specie di visualizzazione che po­ trebbe essere configurata nelle caselle di un enorme cartone predisposto per il gioco dell’oca. Si susseguono dunque, su un percorso obbligato, serie di valenze a punteggio uguale, penalizzazioni e zone di sosta obbligata, ritorni all’indietro verso un punto già oltrepassato. La difficoltà nel condivide­ re appieno l’essenza del gioco sta anche nella diseguale serie dei simboli che contraddistinguono i due dadi lanciati sulla pagina poiché l’una è vivificata dal denso linguaggio delle pro­ fezie e dal messaggio metaforico delle Sacre Scritture mentre l’altra oscilla tra la materialità e l’ignavia di una lingua bor­ ghese, i cui risvolti risultano sempre meramente scatologici. Un lancio perfetto di dadi, un ugual punteggio su en­ trambe le loro facce, si può ritrovare in una casella metalin­ guistica, citata come interessante esempio antologico. Si tratta 15

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di Ognuno per sé e il buon Dio per tutti (1, LXXVIII) dove la signora Plutarque, stimata esercente e a suo dire timorata cristiana, fa la sua meditazione quotidiana davanti al Santis­ simo Sacramento. L’esame di coscienza, a metà tra rendiconto di cassa e bieco pettegolezzo, culmina con l’esclamazione «Ah, dolce Gesù, non mettetevi mai in commercio...». La frase sottende che la vendita degli articoli di pietà — in qual­ che sorta la signora Plutarque è una propagandatrice borghese del Signore — non rende e neanche il Buon Dio potrebbe ope­ rare il miracolo della moltiplicazione del danaro se non ci si aiutasse con lo smercio sottobanco di carte da gioco un poco speciali o di riproduzioni che suggeriscono un’estasi alquan­ to carnale. La casella d’arrivo, di un percorso aleatorio perché trac­ ciato su linee del tutto intercambiabili, potrebbe essere iden­ tificata in quel Tempo è danaro (1, CXVII) dove si rivelano, condensate in un efficace coagulo linguistico, molte delle de­ terminanti del libro. La seconda parte delle Esegesi comprende CXXVII mas­ sime che, a prima lettura, sembrano venire a colmare le la­ cune lasciate evidenti dalla serie precedente mantenendo in­ variata la formula espositiva già collaudata. Il ritmo esegeti­ co è racchiuso da tre cornici che hanno il compito di scandi­ re il flusso argomentativo sui luoghi comuni e di qualificarne la portata. Il preludio, intitolato Bisogna mettersi alla portata di tut­ ti, invoca la chiarezza che viene richiesta all’autore e la cui mancanza ha segnato la poca fortuna dei suoi scritti e si chiu­ de con la sua risposta che non può non essere che provoca­ toria «Eccomi dunque incapace di fare quello che mi si chie­ de. Però cercherò di farlo, perché sono abituato alle cose im­ possibili». Nell’implicito paradosso vale la legge grammati­ cale che fa scaturire da una perfetta affermazione anche il suo contrario. Segue un primo, sostanzioso gruppo di luoghi comuni dove si può individuare una serie sottesa dal verbo «fare» e tutte le varie quanto vane azioni rivolte a fittizie co­ struzioni ci suggeriscono l’atteggiamento assunto, con sem16

pre più vigile insistenza, da Léon Bloy nei confronti dei tem­ pi in cui vive ma anche del tempo che gli rimane da vivere. Il mondo, entrando di prepotenza in un secolo nuovo, ha su­ bito una forte spinta accelerata e sembrano ormai distanti e quasi scontati gli inventari fatti per chiudere un’epoca. An­ che gli episodi ignominiosi della Guerra del 1870 si stanno offuscando, sopraffatti dalle prime avvisaglie di un conflitto che divamperà su fronti internazionali. L’intermezzo Far bene e lasciar dire attacca e stigmatiz­ za il sapere accademico, le ipocrisie e le false scoperte della scienza moderna, i tentativi artificiosi di Durkheim che vuo­ le imporre una nuova morale prefabbricata. L’immancabile lista dei nemici in letteratura, a cui si aggiungono France e Barrés, che ne consegue presenta una stanchezza di fondo. E il tono si dispiega, diventa più pacato, lavorando sui jna^. simi sistemi come nelle rubriche dedicate al latino (2, Li-HiV) e non riconquista la sua partecipe aggressività anche quando si occupa del danaro, uno dei capisaldi del sistema espositivo (2, CV-CXI). Nelle pagine traspare invece un ripiegarsi ancora più evi­ dente del mistico vaticinatore sulla sua umana condizione. Do­ ve avete preso le belle cose che dite? (2, LXVI), Siete un ori­ ginale (2, LXVII) ma soprattutto Per tutto c’è un inizio (2, LXXV) determinano il trittico dove Léon Bloy più si rappre­ senta come uomo e come letterato. La risposta al vano quanto sterile fantasticare delle scien­ ze e ai disperati interrogativi personali è contenuta nella Con­ clusione suggerita dalla cronaca di una conferenza del geolo­ go Pierre Termier sulla possibile realtà storica del mito di Atlantide. Il parallelo scorre quasi obbligato tra l’identifica­ zione di questo antico continente, già indicato da Platone in alcuni suoi dialoghi, con il giardino di delizie del Paradiso terrestre. In questa mistica geografia, l’Atlantide diventa quin­ di il luogo più lontano dal limitato universo del borghese il quale non riesce neanche ad immaginarsi l’esistenza dell’ar­ chetipo di un Eden. Le ultime battute profetiche racchiudo­ no il senso di un impossibile ricongiungimento a contrario 17

tra due modi di esistere. Sono rivolte all’eterna vittima desi­ gnata e la incitano ad esercitare finalmente il suo raziocinio e la sua umanità. «Pensaci dunque... tu sarai l’abisso che in­ voca l’abisso... Ci devi pensare, povero imbecille, e pensan­ doci smetterla un po’ di continuare ad essere stupido e a far soffrire gli infelici. Perché tu ed io, siamo degli abissi, nient’altro che abissi!» Il concetto è finalmente espresso ed ha iscritto il suo teorizzatore nella serie dei luoghi comuni, ha delineato la sua presenza nella faccia nascosta della stessa bor­ ghesia. Le seduzioni dell’infinito e le cadute in una definita nul­ lità hanno raggiunto una situazione di stallo. Troppo coin­ volto nello stilare le regole per neutralizzare l’imperante scioc­ chezzaio e impegnato a sconfessare una comune radice con la classe che più lo adopera, l’autore non riesce a rendere del tutto autonoma la sua denuncia. Non ci sarà quindi un se­ guito ai tentativi destabilizzanti, ma più universali poiché le­ gati al termine di fatto letterario come finalità, di Bouvard e Pécuchet ma rimarrà, resa più valida e coesa — forse più attuale con il passare degli anni — l’esegesi del mistero, della passione e della gloria di Léon Bloy condotta attraverso i suoi luoghi comuni. Valeria Gianolio

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NOTA ALLA TRADUZIONE

Per questa edizione delle due serie delle Esegesi dei Luoghi comuni ci siamo serviti della traduzione di Gennaro Auletta (Edizioni Paoline, Mila­ no, 1961). Il nostro lavoro di revisione si è rivolto essenzialmente, rispettan­ do l’impalcatura generale, a unificare in eguali soluzioni delle scelte lingui­ stiche che ritornano nel testo e a ripristinare le indicazioni in francese per nomi propri e luoghi. L’intervento più importante è stato quello di riportare le Esegesi alla loro forma originale, reintegrando i luoghi comuni non tra­ dotti o solo parzialmente tradotti dall’Auletta. Nella prima serie le integra­ zioni parziali interessano le massime LXXII e CLV e nella seconda serie le massime XLI, XLIV, LXXXIV e CIV. Nella prima serie i luoghi comuni interamente tradotti sono contraddistinti dai numeri XIII, XXXVII, XLVI, XCIII, XCIV, CXLV, CLVI, CLXIX, CLXXVII e CLXXX; nella seconda dai numeri VII, XXXIV, XXXVI, XLIX, LIV, LVI, LIX XC e CXVIII. Le note sono state completamente rifatte e Vindice dei Nomi contiene ulte­ riori chiarimenti per i personaggi che, infratesto, sono messi in evidenza da un asterisco. V.G.

ESEGESI DEI LUOGHI COMUNI

Non tutti morivano, ma tutti ne erano colpiti. Gli Animali malati di peste, la fontaine

A RENÉ MARTINEAU*

Ricordate, caro amico, la nostra cappellina dedicata a Sainte-Anne e a Saint-René, così umile e così povera, laggiù, vicino all’Oceano? In ricordo di quella cappella e dell’ospi­ talità di Ker Saint-Roch, vi prego di accettare la dedica di questo libro, che è più serio e doloroso di quanto sembra, e nel quale ho fatto vedere, nel modo che più mi è piaciuto, il male di cui moriamo. Il vostro nome posto accanto al mio, fin da questa pri­ ma pagina, vi condanna a condividere le mie disgrazie. Ami­ co di uno scrittore malfamato, che osate chiamare un viven­ te, come potrete sfuggire al vostro destino? Il nostro incontro fu un miracolo invocato dal dolore; e qualcuno aggiungerà che la costanza della nostra amicizia ne è un altro. Non è forse il più sorprendente prodigio che un uomo si sia liberato entusiasticamente dai Luoghi Comu­ ni, dove si banchetta, per venire eroicamente a rosicare con me nella solitudine alcuni crani d’imbecilli? Lagny, 31 dicembre 1901 Léon Bloy

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Comincio a scrivere oggi, 30 settembre, sotto il patroci­ nio di san Girolamo*, autore della Vulgata, servitore di tutti i Profeti, classificatore glorioso dei Luoghi Comuni. Così facendo, manco forse di rispetto a un meraviglioso dottore che la Chiesa onora col titolo di Maximus e che il Concilio di Trento ha implicitamente dichiarato Notaio del­ lo Spirito Santo? Non credo. Infatti, di che cosa si tratta qui se non di strappare la lingua agli imbecilli, ai terribili e definitivi idioti di questo se­ colo, come san Girolamo ridusse al silenzio i Pelagiani o i Luciferiani1 del suo tempo? Che sogno, ottenere finalmente il mutismo del Borghese! So bene che l’impresa parrà forse abbastanza insensata. Tuttavia non dispero di poterla portare a termine in modo facile e anche piacevole.

1. I Pelagiani o seguaci di Pelagio, monaco britannico del V secolo, negavano il peccato originale e la necessità della grazia e sostenevano la na­ turale capacità dell’uomo, fondata sulla forza morale del libero arbitrio, nell’evitare il peccato e meritare la vita eterna. I Luciferiani, più scismatici che eretici, erano mossi da soverchio rigore e ritenevano di dover ribattezzare gli ariani già convertiti. Dovevano il loro nome a Lucifero, un vescovo di Cagliari del IV secolo, mentre il loro capo riconosciuto era Ilario, diacono romano.

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Il vero Borghese, vale a dire, in un senso moderno e il più generico possibile, l’uomo che non fa assolutamente uso della facoltà di pensare e che vive o sembra vivere senza es­ sere stato sollecitato almeno per un giorno dal bisogno di ca­ pire un accidente, l’autentico e indiscutibile Borghese è ne­ cessariamente limitato, nel suo linguaggio, a un piccolissimo numero di formule. Il repertorio delle locuzioni patrimoniali che gli bastano è enormemente esiguo e si limita ad alcune centinaia. Se fos­ simo abbastanza fortunati da rubargli questo povero tesoro, immediatamente sul nostro globo racconsolato cadrebbe un paradisiaco silenzio! Quando un impiegato di una amministrazione o un fab­ bricante di tessuti fa osservare, per esempio: «Che non ci si rifà; che non si può aver tutto; che gli affari sono affari; che la medicina è un sacerdozio; che Parigi non fu costruita in un giorno; che i bambini non chiedono di nascere, ecc., ecc.», che cosa accadrebbe se immediatamente gli si dimostrasse che l’uno o l’altro di questi annosi stereotipi corrispondono a qual­ che Realtà divina e hanno il potere di far traballare i mondi e di scatenare catastrofi senza scampo? Quale non sarebbe il terrore di un caffettiere o di un ri­ vendugliolo, da quali spaventi non sarebbero presi il farma­ cista e il sorvegliante dei lavori stradali,2 se, d’un tratto, si rendessero conto che, senza volerlo, dicono cose assolutamen­ te eccessive? che quella tale parola, che poco fa hanno pro­ nunziata, alla maniera di altri milioni d’acefali, è realmente rubata alla Onnipotenza creatrice e che, se fosse scoccata una certa ora, quella parola potrebbe benissimo far sorgere un mondo nuovo? Purtuttavia sembra che un istinto profondo li avverta di

2. Ingegneri, impiegati e subalterni dei «Ponts et Chaussées» — nel testo reso anche con «genio civile» — ritornano più volte nell’&egesz. JeanBaptiste Bloy (1814-1877), padre dello scrittore, era stato impiegato, per un certo periodo e con un salario molto basso, in questa impresa.

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questo. Chi infatti non ha notato la prudenziale cautela, la solenne discrezione, il morituri sumus di questa brava gente, quando pronuncia frasi fatte stantie che hanno ereditato da secoli e che trasmettono ai loro figli? Quando la levatrice afferma che «il danaro non fa la fe­ licità» e il venditore di frattaglie le risponde con una certa astuzia che «però vi contribuisce», questi due àuguri hanno il presentimento infallibile di comunicarsi in questo modo se­ greti preziosi, di svelarsi a vicenda arcani di vita eterna, e il loro atteggiamento corrisponde all’importanza inesprimibile di quel mutuo scambio. Sarebbe facilissimo dire che cosa sembra essere un luo­ go comune. Ma chi potrà mai dire che cos’è in realtà? Diversamente, perché mi sarei raccomandato a san Girolamo*? Questo grande personaggio non fu soltanto l’e­ terno consegnatario della Parola che non muta, dei Luoghi Comuni pieni di folgori della santissima Trinità, ma ne fu soprattutto l’interprete e il commentatore ispirato. Con un’autorità molto più che umana, insegnò che Dio ha sempre parlato di Se stesso, esclusivamente, sotto le for­ me simboliche, paraboliche o similitudinari della Rivelazione mediante le Scritture, e che ha sempre detto la stessa cosa in diverse maniere. Spero che questo sublime Dottore si degnerà favorire del­ la sua assistenza un libellista di buona volontà, che una volta tanto sarebbe felicissimo di scontentare la plebaglia di Ninive, eternamente « incapace di distinguere la destra dalla sinistra »3 — e di scontentarla a tal punto da far scatenare collere mai viste. Indubbiamente, questo risultato sarebbe ottenuto, se non mi fosse stata rifiutata la celeste dolcezza di stabilire, nell’ir­ refutabile argomentazione di una dialettica di bronzo, che i più inani borghesi sono, a loro insaputa, dei terribili profeti; che essi non possono aprire la bocca senza far tremare le stelle; e che gli abissi della Luce sono immediatamente invocati dai baratri della loro Stupidità. 3. Giona, IV, 11.

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I Dio non chiede mai troppo

Che epigrafe per un commento al Codice civile! Mistifi­ cazione troppo facile, che bisogna lasciare caritatevolmente ai giornalisti o aspiranti uscieri. Il caso è grave. Non è stupefacente pensare che questa frase è rivolta, milioni e milioni di volte al giorno, alla faccia irrisa d’un Dio che «chiede» soprattutto di essere mangiato! L’eterno mer­ canteggiamento, implicito in questo luogo comune, ha come elemento inquietante di rendere evidente la mancanza di ap­ petito in un mondo che è tuttavia afflitto dalle carestie e ri­ dotto a nutrirsi delle sue lordure. Sarebbe puerile fare osservare che in questa formula, as­ sai più misteriosa di quanto appaia, l’accento vien posto sulla parola troppo, il cui valore astratto è sempre alla mercé di un’unità di misura facoltativa che non è mai resa nota. Tutto questo dipende naturalmente dalla condizione delle anime. Ma, poiché ogni negazione tende al nulla, non è teme­ rario concludere che l’imprecisa richiesta di Dio equivalga a niente, e che, in fin dei conti, non avendo questo Dio più nulla da chiedere a degli adoratori che possono indefinitivamente far sminuire il loro zelo, non sa più che farne del suo 29

Essere o della sua Sostanza e deve necessariamente finire con 10 scomparire. Infatti, importa tanto poco che si abbia que­ sta o quella nozione di Dio. Lui stesso non chiede troppo·. questo è il punto essenziale. Quando esorto la mia lavandaia, la signora Alaric, a non prostituire l’ultima sua figliuola com’ha fatto per le altre quat­ tro, oppure propongo timidamente al mio padrone di casa, 11 signor Dubaiser, l’esempio di qualche santo che non cre­ dette indispensabile all’equilibrio sociale condannare a mor­ te dei bambini, e quando queste degne persone mi rispondo­ no: — Noi siamo religiosi quanto voi, ma Dio non chiede troppo... — devo riconoscere che sono troppo amabili se non aggiungono: al contrario! benché questo sia evidentemente, necessariamente, la sostanza del loro pensiero. Certo, hanno ragione, perché la logica dei luoghi comu­ ni non perdona. Se Dio non chiede troppo, è costretto, per inevitabile conseguenza, a chiedere sempre meno, infine a ri­ fiutare tutto. Che dico? Presupponendo che gli rimanga un briciolo d’esistenza, egli si troverà ben presto nell’urgente ne­ cessità di volere che la gente viva come maiali, e di scagliare i resti delle sue folgori sugli innocenti e sui martiri. Del resto, i borghesi sono troppo adorabili per non di­ ventare Dei essi stessi. A loro, e a loro soltanto, bisogna chie­ dere. Tutti gli imperativi appartengono a loro, e possiamo essere certi che il giorno in cui chiederanno troppo sarà pro­ prio il giorno in cui cominceranno ad accorgersi di non chie­ dere mai abbastanza... — Io però chiedo la vostra pelle, sporche canaglie! — dirà loro Qualcuno?

II Niente è assoluto, tutto è relativo Corollario del precedente. La maggior parte degli uomi­ ni della mia generazione hanno sentito questa frase fin dal30

l’infanzia. Ogni volta che ubriachi di disgusto cercammo una maniera d’evadere fremendo e vomitando, ci appare il Bor­ ghese, armato di questa folgore. Allora, necessariamente, ci convenne rimettere in piedi il vantaggioso Relativo e la quieta lordura. È vero; quasi tutti, per fortuna, vi si abituarono dive­ nendo, a loro volta, divinità olimpiche. Ma questi bevitori d’uno sporco nettare sanno che non c’è nulla di tanto audace quanto il revocare l’Irrevocabile, e che tutto questo comporta per ognuno l’obbligo di essere qual­ cosa come il Creatore di una nuova terra e di nuovi cieli? Indubbiamente, se si afferma in modo categorico che «niente è assoluto», l’aritmetica diventa immediatamente una bagattella e l’incertezza grava sugli assiomi più incontestati della geometria piana. Immediatamente, si pone il problema di sapere se è meglio o no assassinare il proprio padre, pos­ sedere venticinque centesimi oppure settantaquattro milioni, ricevere delle pedate oppure fondare una dinastia. Infine, tutte le identità soccombono. Non è «assoluto» che quel tal orologiaio, nato nel 1859, per l’orgoglio della sua famiglia, abbia oggi soltanto quarantatre anni e non sia in­ vece il nonno di quel decano dei nostri mellifui persuasori che fu partorito durante i Cento Giorni, così come sarebbe te­ merario sostenere che una cimice è esclusivamente una cimi­ ce e non debba pretendere un blasone. In simili circostanze, ne converrete, s’impone la necessi­ tà di creare il mondo. Ili

Il meglio è nemico del bene Confesso che questa frase posta come titolo mi schiac­ cia, e sono furiosamente tentato di scendere dalla mia catte­ dra. Esegesi significa, ahimè!, spiegazione, ed ecco un mo­ stro di luogo comune che mi si pianta davanti sulla strada 31

di Tebe. Certo, a Edipo non fu mai proposto un enigma più difficile. Però cerchiamo di capire. Se il meglio è nemico del bene, necessariamente il bene deve essere nemico del meglio, perché gli astratti filosofici non conoscono il perdono più dell’umiltà. Un uomo può rispon­ dere all’odio con l’amore, ma un’idea non lo può mai; e più questa idea è eccellente, più recalcitra. Dunque, si afferma implicitamente che il bene ha orro­ re del meglio e che un odio feroce li divide. Si tratta di chi mangerà l’altro, eternamente. Ma allora, che cos’è il bene e che cos’è il meglio? E quale fu l’origine del loro conflitto? Che cosa pretende da noi questo manicheismo grammaticale? Per esempio, è forse bene essere un idiota ed è meglio essere un genio? Quando si dice che Dio ha creato tutto per il meglio, devo intendere che non ha fatto nulla per il bene? In quale caverna metafisica si son dichiarati guerra questo comparativo e questo qualificativo? C’è da diventar pazzi. Mi prendo la testa tra le mani e rivolgo a me stesso no­ mi dolcissimi: — Vediamo! caro amico, tesoro mio, conigliet­ to adorato, forse con un po’ di calma riusciremo a trovare il bandolo. Abbiamo detto o sentito dire che il meglio è ne­ mico del bene, non è vero? Orbene, chi è il nemico del bene se non il male? Dunque il meglio e il male sono la stessa co­ sa. Mi pare che abbiamo già un po’ di luce... Sì, ma se il meglio è veramente il male siamo costretti a riconoscere che a sua volta il bene è anche il male, e questo in maniera incontestabile giacché tutti gli uomini riconosco­ no che il bene è per se stesso migliore del male che è il me­ glio, e che quindi, è migliore del meglio, che cosa sarebbe allora il Peggio!!!??? Perbacco! Arianna mi abbandona ed io sento muggire il Minotauro.

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IV L’ospedale non è fatto per i cani

C’è bisogno di dire che si tratta di un’antifrasi? Il sem­ pre soave e algido Borghese usa volentieri questa forma gre­ ca della glossa confabulatoria. Più d’una volta avremo occa­ sione di farlo notare. Bisogna dunque leggere senz’altro: L’ospedale è fatto per i cani. In questo senso, che è poi il vero, il Borghese parla come un Dio. Gli uomini semplici non potrebbero parlare così bene. Apro la Sylva allegoriarum di fra Hieronymus Lauretus*, un magnifico libro in folio, stampato a Lione, nel 1622, a spese di Barthélémy Vincent, all’insegna della Victoire e alla parola Canis leggo: «Il cane è un animale a servizio dell’uo­ mo per rallegrarlo con la sua compagnia e le sue carezze. Ab­ baia contro gli estranei. È immondo, rabbioso ed estremamente lubrico. È il custode del gregge e il cacciatore dei lupi, lì vorace e carnivoro, e si avvoltola nel suo vomito». La scienza moderna, a cui il genere umano è debitore di tante utili scoperte, pretende inoltre che il cane sia qua­ drupede e che gli manchi la parola. Ma lasciamo stare queste ipotesi; d’altronde, ci son cani e cani, come si sa. Il cane, per il quale è fatto l’ospedale, è il carnivoro, l’im­ mondo carnivoro, diventato vecchio o malato, la cui compa­ gnia non piace più, incapace ormai d’ogni specie di furore, senza forza per abbaiare, ridotto a essere custodito dal greg­ ge e minacciato dalle zanne dei lupi. A chi altri, mi chiedo, sarebbero aperti quei meraviglio­ si manicomi, dove si crepa, con tanta consolazione, tra le braccia dell’Assistenza pubblica? Il vero, il solo, l’autentico cane è colui che, a parte il numero delle sue zampe e la capa­ cità di abbaiare, non può più essere utile. Esclusivamente per costui funziona l’Amministrazione delle mammelle flaccide, che succhia il sangue degli agonizzanti. Il Borghese, nella sua giustizia, l’ha voluta così. 33

Non è forse il Padrone? Non è lui il Dio dei vivi e dei morti? Da quando il Codice napoleonico l’ha promosso a so­ stituire Ieova, nessuno lo giudica e lui fa quello che gli ag­ grada. Orbene, si compiace di essere in questo modo, il buon Dio dei cani.

V La povertà non è vizio

Altra antifrasi. Per favore, mi spiegate, amabile mio pa­ drone di casa, che cosa può essere vizio o delitto, se la po­ vertà non lo è? Credo di averlo già detto abbastanza in altra sede, la po­ vertà è l’unico vizio, il solo peccato, l’unica cattiveria, l’im­ perdonabile e singolarissima prevaricazione. Non l’intendete così, o preziosi crapuloni che giudicate il mondo? Proclamiamo dunque juna buona volta che la povertà è così infame da essere l’ultimo eccesso del cinismo o il grido supremo d’una coscienza costretta a riconoscerlo, e che non c’è castigo che possa espiarla. L’uomo ha talmente il dovere di essere ricco che la pre­ senza di un sol povero grida vendetta contro il cielo, come l’abominio di Sodoma, e spoglia Dio stesso costringendolo a incarnarsi e a camminare scandalosamente sulla terra rive­ stito soltanto degli stracci delle sue Profezie. L’indigenza è un’empietà, un’atroce bestemmia, il cui er­ rore è inesprimibile e fa orripilare a un tempo le stelle e il dizionario. Ah! com’è mal capito il Vangelo! Quando si legge che « è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che a un ricco entrare nel regno dei cieli», bisogna essere cie­ chi per non accorgersi che, in realtà, questa affermazione esclude soltanto il cammello, giacché tutti i ricchi, senza ec­ cezione, sono seduti certamente sugli aurei scanni del Para­ diso ed è quindi impossibile per loro entrare in un luogo do­ 34

ve sono già insediati, da sempre! Passare per la cruna dell’a go è un affare che riguarda esclusivamente i cammelli; deb bono sbrogliarsela da soli. Nessun altro deve preoccuparsene. Questo luogo comune dimostra, meglio d’ogni altro, il sublime pudore del Borghese. È un velo che lui bonariamen­ te, col sorriso divino degli inservienti d’anfiteatro, getta sul più orribile cancro dell’umanità.

VI Nessuno al mondo è perfetto Esculape Nuptial, assicuratosi che il vecchio avesse rice­ vuto un sufficiente numero di coltellate ed esalato certamen­ te il cosiddetto ultimo respiro, pensò subito di procurarsi qual­ che divertimento. Quell’uomo giudizioso ritenne che non bisogna tenere la corda sempre tesa, che è opportuno respirare qualche volta e che ogni fatica merita una giusta ricompensa. Aveva avuto la fortuna di impossessarsi di una forte som­ ma. Felice di vivere e con la coscienza bianca e odorosa di bucato, andò vagando, sotto i castagni e sotto i platani, a respirare con voluttà l’aria balsamica della sera. S’era a primavera: non l’equivoca e reumatizzante pri­ mavera dell’equinozio, ma l’inebriante rinnovamento dei primi di giugno, quando i Gemelli insieme allacciati indietreggiano davanti al Cancro. Esculape, pervaso di soavi impressioni e con gli occhi molli di pianto, si sentì apostolo. Desiderò la felicità del genere umano, la fraternità delle bestie feroci, la tutela degli oppressi, la consolazione di colo­ ro che soffrono. Il suo cuore, pieno di perdono, si chinò verso gli indi­ genti. Distribuì nelle mani tese degli elemosinanti l’abbondante danaro che ingombrava le sue tasche. Entrò anche in una chiesa e partecipò alla preghiera in 35

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comune recitata da un gregge di fedeli. Adorò Dio, dicendo­ gli che amava il prossimo suo come se stesso. Rese grazie per i beni ricevuti, riconoscendo di essere stato tratto dal niente. Chiese che gli fossero dissipate le tenebre che gli nascon­ devano la bruttezza e la malizia del peccato; fece un esame scrupoloso di coscienza; scoprì di avere tenaci imperfezioni, persistenti futilità, desideri di vanità, impazienze, distrazio­ ni, omissioni, giudizi temerari e poco caritatevoli, ecc., ma soprattutto la pigrizia e la negligenza nel compimento dei do­ veri del proprio stato. Concluse con un buon proposito d’essere meno fragile; chiese l’aiuto di Dio per gli agonizzanti e i viandanti, implo­ rò acconciamente di essere protetto durante la notte, e, per­ vaso da questi sentimenti, corse al più vicino lupanare. Perché ci teneva alle gioie oneste. Non era di quegli uo­ mini che si abbandonano facilmente alle frivole dissipazioni. Lui tendeva più verso il rigore e stava attento a non avere una ridicola serietà. Ammazzava per vivere — come la maggior parte dei ga­ lantuomini — perché nessun mestiere è disonorevole. Sull’e­ sempio di tanti altri, avrebbe potuto insuperbirsi dei pericoli d’una professione così allettante; ma preferiva il silenzio. Si­ mile ai convolvoli, i fiori della sua anima s’aprivano soltanto nella penombra. Ammazzava a domicilio, educatamente, discretamente e con la maggiore accortezza. Potremmo dire che eseguiva la bisogna con grazia. Non prometteva quello che era incapace di mantenere, anzi non prometteva affatto. Ma i suoi clienti non si lamen­ tarono mai. Quanto alle lingue velenose, non se ne preoccupava. Fate bene e lasciate dire: era questo il suo motto. Gli bastava la voce della coscienza. Uomo di casa innanzitutto, non lo si vedeva che rara­ mente nei caffè; e gli stessi maligni erano costretti a dargli atto che, fuori del bordello, non vedeva mai nessuno. In quella casa ospitale, aveva posto gli occhi su una ra36

gazza in abiti succinti che faceva prosperare l’azienda ed era destinata al successo con la sua precoce virtuosità. Non era neppure uscita d’infanzia, che già molti salottini particolari l’avevano ammirata. Il fortunato Esculape aveva avuto l’arte di farsi voler be­ ne da lei, e il tempo pareva “fermare la sua corsa alata”, quando quei due esseri stavano chini, l’uno verso l’altro, so­ pra il mistico lago.4 L’affascinante Lulù, appena compariva il suo piccolo Cocò, non voleva saper altro, e questi spesso fu costretto a ri­ chiamarla severamente al senso professionale del suo mestie­ re, allorquando i vecchi signori si impazientivano. Lei allo­ ra, in cambio, gli forniva preziose indicazioni... Insomma, essi mettevano da parte con discrezione som­ me di danaro abbastanza ingenti. Lulù non ne usava quasi, perché l’aria e la luce bastavano alla sua toletta quotidiana che era sempre semplicissima e di un gusto perfetto. Intravedevano già la ricompensa, il felice avvenire che li attendeva in campagna, in qualche piccola proprietà sepol­ ta tra i lillà e le rose, che avrebbero comprata un giorno per godersi una tranquilla vecchiaia con cui la Provvidenza ri­ compensa coloro che hanno combattuto da coraggiosi. Sì, certo; ma, ahimè! chi può dire quanto sono vani i pensieri degli uomini? Quello che racconteremo è estremamente doloroso. Escu­ lape non comparve quella notte. La casa ne soffrì da non po­ tersi dire. La povera Lulù, dapprima febbrile, poi agitata e infine minacciosa, smise di accondiscendere. Un notaio belga, che aveva portato i capitali dei suoi clienti, ricevette un paio di sonori ceffoni che fecero stupire i passanti. Lo scandalo fu enorme e il discredito parve imminente. 4. Luogo comune letterario che stigmatizza i gusti deprecabili dei tan­ to vituperati borghesi. L’impasto linguistico che ci descrive le effusioni dei due squallidi amanti riprende anche un celebre verso del poema Le Lac (1817) dì Alphonse de Lamartine.

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Ma lei non voleva sentir niente e nessuno. Nel delirio della sua inquietudine, spinse il disprezzo delle leggi fino ad aprire una finestra restata chiusa dall’ultimo 14 luglio, e chiamò il suo Cocò con una terribile voce, nel grande silenzio notturno. Alcuni pastori protestanti se la svignarono alla chetichel­ la, non senza avere espresso la loro indignazione, e il giorno dopo i giornali seri pronosticarono tristemente la fine del mondo. Devo dirlo? Esculape se la spassava; Esculape aveva in­ contrato un serpente. Infatti mentre ritornava saggiamente al suo nido d’amo­ re, era stato accostato da un compagno d’infanzia che non aveva visto da dieci anni e che riuscì a incantarlo per la pri­ ma volta in vita sua. Non conosco i sofismi che usò questo funesto amico per allontanarlo dalla retta e stretta via che conduce al cielo; essi però si ubriacarono a tal punto che, verso l’aurora, lo stor­ dito amante della gemente Lulù prese una vettura per andare a cercare un Combat spirituel che ricordava d’aver dimenti­ cato, la vigilia, in casa di un suo assassinato, e che riteneva indispensabile per il suo progresso interiore. Il fedele compagno di quella notte lo condusse, quasi per mano, fin nella camera del morto, dove gentilmente lo at­ tendeva il commissario di polizia. E fu così che una sola debolezza spezzò due carriere. Nessuno al mondo è perfetto (n.a.).

Il toccante racconto che avete appena letto non è disgra­ ziatamente del tutto inedito. Fu inserito nelle mie Histoires désobligeantes, pubblicate nel 1894 da Dentu. Ma l’insucces­ so di quel libro, rimasto quasi del tutto sconosciuto, è stato così grande che, ad eccezione di qualche ammiratore sfega­ tato che raccoglieva perfino i miei scarti, si può essere sicuri che queste pagine non sono mai state lette da nessuno. Per­ ché ricominciare, quindi, una cosa che fu fatta già così bene e quale altra parafrasi più illuminante avrei potuto scrivere? 38

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VII I disonesti temono la luce del sole

E gli onesti? Chi pensa che la luce li rassicuri? Se la luce dovesse ancora essere creata, non so che cosa farebbero i ma­ nigoldi, ma so benissimo ciò che non farebbero i galan­ tuomini. Non si vede già abbastanza chiaro su questo nostro pia­ neta dove i più chiaroveggenti vanno a tastoni? Sembra però già troppo, poiché tutti si nascondono. Che cosa accadrebbe se la Scienza, tanto ammirata da Zola*, e così degna dell’am­ mirazione di un simile cervello, lanciasse un nuovo raggio per illuminare gli antri dei cuori? Non è evidente che ogni affare diventerebbe immediata­ mente intrattabile, impossibile? Niente più commercio, nien­ te più industria, niente più alleanze politiche, niente più me­ dicina, niente più farmacia, niente più cucina, processi, ma­ trimoni, sepolture, testamenti; niente più «opere buone» di nessuna specie. E infine niente più amore. I galantuomini non nascerebbero più... E allora il brulichio umano sarebbe for­ mato soltanto da coloro che « temono la luce » e che vengo­ no chiamati disonesti. Che strano disordine! Però costoro soccomberebbero ben presto a loro volta, giacché per forza di cose diventerebbero essi stessi galantuo­ mini, per succedere agli scomparsi, e così le due specie che costituiscono la totalità del genere umano scomparirebbero, successivamente sterminate dalla luce, come quei colori fre­ schi e luminosi che vengono mangiati, come si dice, dalla trop­ pa luce del giorno. Speriamo che non ci accada una simile disgrazia e che i disonesti come i galantuomini, quelli che «temono» la luce non meno di coloro che si limitano a trovarla indiscreta, a prevalere gli uni su gli altri nel quadro poetico degli uscieri, dei gendarmi e delle verzure. Lo esige l’universale armonia.

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VIII. I bambini non chiedono di nascere Paul Bourget*, eunuco per vocazione e uno dei più illu­ stri seguaci del luogo comune, s’è preso la briga di raccoman­ darlo. Non farò ai miei lettori l’oltraggio di ricordare il tito­ lo del possente libro imperniato su questa formula. Infatti sembra certissimo che i bambini non chiedono tan­ to. È il loro modo di essere vicino allo stato divino, ed è per questo, senza dubbio, che talvolta essi possono piacere all’a­ nima religiosa del Borghese, il quale ama soprattutto che non gli venga chiesto nulla. Confesso che il solo pensiero d’un bambino che chiedesse di nascere ha qualcosa d’inquietante e comprendo meglio il profeta Geremia che avrebbe voluto che sua madre fosse re­ stata eternamente incinta di lui, senza poterlo mai partori­ re.5 Però, se si tratta di nascere Borghese... o Psicologo, a rigore, si può concepire la loro impazienza. Non mi pare dunque che questo luogo comune sia accet­ tabile come assioma, e temo che Paul Bourget si sia lasciato trascinare oltre il necessario sulle piste d’un ricevitore di im­ poste o d’un ufficiale di Stato civile troppo temerario. Sono anche lungi dal credere, con l’immondo Schopenhauer*, che tutti i bambini, senza eccezione, chiedono di nascere e che in questo modo si possono spiegare i pazzi trasporti dell’amore. È senz’altro evidente che mi guardo bene dallo sfiorare, in questo caso, l’idea religiosa, la quale comporta degli ele­ menti come la Prescienza divina o la Predestinazione, che il perspicace Borghese disdegna. Si dice che san Colombano udisse le grida dei bambini che lo chiamavano dal seno delle loro madri. Il mio barbiere non ha mai sentito una cosa si­ mile, e tutto questo soprannaturale è abbondantemente smen­ tito dalla bicicletta.

5. Geremia, XX, 14 e 17.

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Per restare all’ipotetica testimonianza del già citato ga­ glioffo, ritengo conveniente congetturare che i bambini, an­ che dei borghesi, se non chiedono positivamente di nascere, suggeriscono almeno ai loro genitori l’orrore istintivo d’una verginità o d’una continenza che si opporrebbe al loro ingresso nella vita... Non so se riesco a farmi capire. In ogni caso, questo basta per invalidare la formula. Ma quando un notaio, accompagnandosi col gesto delle due mani, afferma che «i bambini non chiedono di nasce­ re», questo può significare praticamente due cose: o che bi­ sogna rinunziare a farne oppure che bisogna ucciderli prima che nascano, nell’interesse delle famiglie e nell’interesse, si ca­ pisce, degli eredi diretti. Mai e poi mai, dovessero pur crolla­ re i cieli, sarà permesso, per esempio, a un piccolo bastardo partorito da una poveraccia, di avere dei diritti alla pietà del suo procreatore, che gli sarà sempre proibito di ricercare. E questo è tutto, esattamente tutto. Dopo di che, cercate di capire che questo bel mondo è stato riscattato, diciannove secoli fa, da un Bambino che ave­ va chiesto di nascere fin dall’eternità!

IX. Bisogna mangiare per vivere — Non chiedo di meglio che di mangiare, — dice un po­ vero diavolo, — benché la mia vita non sia tanto dolce; però è necessario che io abbia qualcosa da mettere sotto i denti. Tutti i cani mangiano e vivono, e quelli che non hanno la fortuna di essere serviti da un padrone si nutrono ugualmen­ te di eccellenti immondizie che bastano alla loro vita da cani, lo invece, non posso. Ho la disgrazia di appartenere alla raz­ za umana e di avere il vantaggio d’una fronte sublime che deve fissare continuamente le stelle. A me manca il fiuto, e la carogna mi resta sullo stomaco... Ho sentito dire che un tempo c’era una Carne per i po41

4 veri e che i morti di fame avevano la possibilità di mangiare Dio per vivere eternamente. Nei tempi antichissimi, la gente si trascinava, piangendo lacrime di paradiso, da una cappel­ la di confessore a una cripta di martire e da un santuario mi­ racoloso a una basilica piena di gloria, su strade ingombre di pellegrini che mendicavano il Corpo del Salvatore. Questo solo alimento bastava ad alcuni che erano dei Beati, il cui estatico languore aveva il potere di guarire tutti i languori e, talvolta, di far risorgere i morti. Tutto questo appartiene a un tempo lontano, terribilmente lontano... Oggi, il Borghese ha soppiantato Gesù, e anche le troie indietreggerebbero davanti al suo corpo! X Non si può vivere senza danaro

In-con-te-sta-bil-men-te. Ed è tanto vero che, quando ci manca, siamo costretti a prendere quello degli altri. Cosa, del resto, che si può fare con molta franchezza. — Io non costringo nessuno, — fa notare affabilmente un usuraio che presta al centocinquanta per cento; — però corro dei rischi ed è necessario che il danaro produca —.Vi­ vere senza danaro è tanto inconcepibile per quest’uomo giu­ sto quanto il vivere senza Dio per un solitario della Tebaide. E tutti e due hanno ragione, perché il loro oggetto è identi­ co, inesprimibilmente IDENTICO. Dimostrato che è impossibile vivere senza mangiare, sa­ rebbe ozioso mettersi a dimostrare la vitale necessità del da­ naro. Mangiare del danaro! urlano in coro i padri di fami­ glia. Che sprazzo di luce questa locuzione metonimica! Ditemi, che cosa potremmo mangiare se non mangiassi­ mo il danaro? C’è al mondo qualche altra cosa che sia man­ giabile? Non è forse più chiaro del sole che l’Argento è precisamente quello stesso Dio che vuole essere mangiato e che è 42

l’unico a far vivere, il Pane vivente, il Pane che salva, il Fru­ mento degli eletti, il Cibo degli angeli, e nello stesso tempo la Manna nascosta cercata invano dai poveri?6 7 È vero che il Borghese, il quale sa quasi tutto, non arri­ va a capire questo mistero. È vero anche che il senso della parola «vivere» non gli è chiaro, perché il danaro senza cui non è possibile vivere, come generosamente sostiene, è per lui un problema di vita o di morte... Non importa; l’essenziale è possederlo. Se non sarà lui a mangiare il danaro, ci saranno altri a mangiarlo dopo di lui; questo è certo. Ma quando pronunzia queste terribili parole, oso sfidarlo a non rassomigliare a un vero profeta e a non affermare Dio con una forza infinita. Trahitur sapientia de occultisi XI

Far produrre il danaro L’abbiamo già visto. Questo luogo comune proviene dal precedente come l’ape vien fuori dal fiore. Il vieto precetto di far produrre il danaro è, in fondo, teologico, assai più che economico, per una necessaria conseguenza dell’identità di cui abbiamo già parlato. Produrre è affine a lavorare che, nel senso latino di laborare, significa soffrire. Dunque si fa soffrire il danaro che è Dio. Lo si fa soffrire, naturalmente, con la più abbondan­ te ignominia. Fatta eccezione per gli sputi — perché il Bor6. Ritorna qui, come nello studio di altri luoghi comuni, la personale esegesi di Bloy di un versetto del Salmo XII, 6: “Le parole del Signore sono parole pure, argento affinato nel fornello di terra, purgato per sette volte”. In questo passo, secondo l’autore, si ha una identificazione tra il Verbo (le parole del Signore) e l’Argento. Sfruttando la natura polisemica del vocabo­ lo Argent — che in francese corrisponde ad argento ma anche a danaro — si avrebbe dunque una corrispondenza tra Verbo e Danaro. 7. «La sapienza è tratta da fonti nascoste», Giobbe, XXVIII, 21.

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ghese « non sputa sul danaro » — non gli è risparmiato nes­ sun obbrobrio. Lo si fa anche sudare·, gli si fa sudare il san­ gue dei poveri nell’agonia delle fatiche mortali. Ci sono popoli che crepano nelle officine o nelle buie catacombe delle miniere per rendere più gradevole la faccia delle vergini generate dai capitalisti sopraffini, e anche per­ ché «il misterioso sorriso della Gioconda» non sia loro rifiu­ tato. Questo è quello che si chiama far produrre il danaro! ... E la Faccia Pallida del Cristo è più pallida in fondo alle miniere e in mezzo alle fornaci. XII

Gli affari sono affari Tra tutti i luoghi comuni, di solito tanto rispettabili e tanto seri, credo che questo sia il più serio e il più augusto. È l’umbilico dei luoghi comuni, la frase corrente del secolo. Però bisogna capirlo, e questo non è indistintamente di tutti. I poeti, per esempio, o gli artisti lo comprendono male. Quelli che arcaicamente vengono chiamati eroi o santi non lo capi­ scono affatto. L’affare della salvezza, gli affari spirituali, gli affari d’o­ nore, gli affari di Stato, anche gli affari civili, sono affari che potrebbero essere chissà che altra cosa, ma non sono gli affari senza aggettivi e senza apposizioni. Stare negli affari significa stare nell’Assoluto. Un vero uomo di affari è uno stilita che non discende mai dalla sua colonna. Non deve avere pensieri, sentimenti, occhi, orecchie, naso, gusto, tatto, stomaco se non per gli affari. L’uomo d’af­ fari non conosce né padre né madre, né zio né zia, né moglie né figli, né bellezza né bruttezza, né convenienza né indecen­ za, né caldo né freddo, né Dio né diavolo. Ignora compietamente le lettere, le arti, le scienze, la storia, le leggi. Non de­ ve sapere e non deve conoscere altro che gli affari. — A Parigi avete la Sainte-Chapelle e il Museo del Lou-

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vre. Va bene; però noi, a Chicago, uccidiamo ottantanni.i maiali al giorno!8 Chi parla così è veramente un uomo d’ai fari. Tuttavia è ancora più uomo d’affari colui che vende quel la carne di maiale; e questo venditore, a sua volta, è supera to dall’intelligente compratore che con essa avvelena tutti i mercati europei. Sarebbe impossibile dire che cosa siano propriamente gli affari. Sono la divinità misteriosa, qualcosa come l’Iside dei furfanti che sorpassa tutte le altre divinità. Parlando qui o altrove, di danaro, di gioco, d’ambizione, ecc., non riuscire­ mo a strapparne il Velo. Gli affari sono affari, come Dio è Dio, vale a dire al di fuori di tutto. Gli affari sono l’Inespli­ cabile, l’Indimostrabile, l’Incircoscritto, a tal punto che ba­ sta pronunziare questo luogo comune per troncare tutto, per mettere immediatamente la museruola alla disapprovazione, alla collera, al lamento, alle suppliche, alle indignazioni e al­ le recriminazioni. Quando si sono pronunziate queste poche sillabe si è detto tutto, si è risposto a tutto e non c’è da spe­ rare altra Rivelazione. Infine coloro che cercano di penetrare in quest’arcano sono invitati a una specie di disinteresse mistico; e non è molto lontano il tempo in cui gli uomini fuggiranno tutte le vanità del mondo e tutti i suoi piaceri e si nasconderanno nelle soli­ tudini per consacrarsi interamente, esclusivamente agli affari. XIII

Ho la legge dalla mia parte

Era una famiglia cristiana come se ne trovava una vol­ ta. Il padre, ottimo operaio e uomo molto buono, portava l’intero salario a casa. La madre, piena di energie, andava 8. Léon Bloy era stato colpito dalle descrizioni dei mattatoi di Chica­ go e non perde l’occasione di scagliarsi contro la moderna diabolicità dei ricchi borghesi del muovo mondo. Cfr. Léon Bloy, Journal, Paris, Mercure de France, MCMLXII, t. I, p. 97.

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a servizio. Il primogenito, un bel ragazzo di quattordici anni, aveva appena iniziato a lavorare come apprendista e le due fi­ gliolette, di cui la maggiore in età si preparava alla prima co­ munione, andavano a scuola dalle suore. Erano persone sem­ plici, di un candore estremo, che aspiravano a divenire dei san­ ti. Una capocchia di spillo lanciata sulle loro buone intenzioni non sarebbe caduta a terra. Ogni mattina e ogni sera, pregavano tutti insieme. Anda­ vano insieme alle funzioni, le domeniche come i giorni di festa e, il più sovente possibile, assistevano a una prima messa du­ rante la settimana. Leggevano di frequente la storia dei Martiri o qualche altro di quei pochi libri che vivificano la vita. Qual­ che raffigurazione religiosa, brutta e insieme commovente, era appesa ai muri: una Madonna della sedia schiacciata sotto mil­ le e cinquecento pietre litografiche, un Ecce homo del Guido Reni messo in risalto da barbari vetrai, un Golgotha stempera­ to e una Santa Famiglia privata di compostezza, acquistati nel­ le fiere. La riproduzione cavallina e tutelare di Leone XIII* era quella più onorata, quasi venerata. Questa caricatura atroce rap­ presentava per i nostri derelitti, l’emanazione stessa, non pro­ prio del Figlio di Dio, ma del suo Vicario. L’avevano appesa accanto a un lumino rosa sempre acceso e valeva la regola di dire una preghiera quando le si passava davanti. Non si erano mai visti cristiani più religiosi. La loro devo­ zione verso il Papa — da loro considerato come il Padre dei padri — era una cosa unica, del tutto naturale, quasi sublime. Avrebbero dato la loro vita in questo mondo e parecchi secoli di riposo eterno, tutto quello che si può dare, per risparmiare al Sovrano Pontefice anche la più piccola preoccupazione, lo sgarbo più innocente. Le disgrazie si abbatterono su di loro e furono abbando­ nati come derelitti. Il padre fu pressato da una macchina sotto l’occhio di un padrone che non chiese né diede una rivalsa. L’am­ ministrazione del padrone di casa sconosciuto fece eseguire lo sfratto, non senza aver prima pignorato la mobilia financo quella famosa riproduzione del successore di san Pietro. La madre, 46

a sua volta, morì per il dispiacere e le fatiche. E per finire, quattro anni dopo, trovarono il giovanotto diventato buon conoscitore del suo secolo e protettore delle due sorelle. Era venuto a sapere allora che il padrone di casa che ave­ va determinato la loro totale rovina, sfrattandoli a termini di legge, era uno straniero di nome Pecci e che era insediato nella Cattedra di Roma, per non parlare di quella di Antio­ chia, ormai in mano agli infedeli, e dove i discepoli di Cristo furono chiamati, per la prima volta, cristiani. Ebbene sì, Santissimo Padre, voi avete la LEGGE dalla vo­ stra parte. Post-scriptum. — Nessuna legge, anche la più teofoba, non obbligandomi, almeno fino ad ora, a scandalizzare i de­ boli, rendo noto, una volta per tutte, che è una mia debolezza quella di esprimermi attraverso parabole e che, qui, è un caso palese di questo mio procedere. È ben chiaro che io non sarei in grado di fornire l’indirizzo di nessuna casa da affittare ap­ partenente a Leone XIII*, ma potrei elencare tutte le chiese parrocchiali di Francia che un Innocenzo III* o un Gregorio IX* avrebbero, da tempo, colpito con la grande scomunica, per quel solo fatto mostruoso e che compromette in modo or­ ribile il Vicario del Dio dei poveri, il fatto per cui gli ignudi Mendicanti ne sono scacciati invariabilmente e con ignominia. XIV Non è possibile avere tutto Certo, soprattutto quando si ha la legge dalla propria par­ te, come abbiamo appena affermato. Chiedere il resto in so­ vrappiù, significherebbe voler inghiottire il mondo. Orbene, il Borghese è come Dio, non chiede troppo. Dispregiatore del­ l’Infinito e dell’Assoluto, sa limitarsi. Chi saprebbe farlo me­ glio di lui? l’unica sua preoccupazione, l’unico suo lavoro di ogni momento, fin dall’infanzia, non è forse di piantare dei confini dappertutto? E notate la moderazione di questo luogo comune. Non di-

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ce: non si deve, ma non si può. Il Borghese dovrebbe aver tut­ to, perché tutto gli appartiene, ma lui non può acchiappare tut­ to, abbracciare tutto, perché le sue braccia sono troppo corte. « Miseria di gran signore, ha detto Pascal, miseria d’un re spo­ destato »9. Quando a una richiesta imprevista il mio droghiere mi ri­ sponde, con un bel sorriso, che non si può avere tutto, il brav’uomo crede forse di aver emesso soltanto un modesto rutto. Io però ho creduto di sentire il lamento enorme di Prometeo !... Non aver tutto! Che disgrazia! E mi chiedo come mai que­ sta parola, che somiglia a una recriminazione soprannaturale e che viene pronunziata senza tregua da musi sublimi rivolti verso gli astri, non distrugga qualcosa nel cielo! XV Non tutti possono essere ricchi

Apparentemente meno assoluto del precedente, questo luogo comune ha il vantaggio di essere più preciso. C’è però identità perfetta quanto alla sostanza. Conveniva dunque ac­ costarli, metterli in contatto, facendo osservare che tutti e due suscitano gli stessi sentimenti e gli stessi pensieri. Infatti devo finalmente dichiarare che la lingua dei luo­ ghi comuni, la più sorprendente tra tutte le lingue, ha questa meravigliosa caratteristica di dire sempre la stessa cosa, co­ me quella dei Profeti. Il Borghese, che possiede il privilegio di questa lingua, poiché ha a propria disposizione soltanto un numero ristretto di idee, come accade ai saggi che hanno ridotto al minimo il funzionamento dell’intelletto, incontra necessariamente qualcuna di esse a tutti gli incroci della sua quinconce, ad ogni svolta della sua testa. Compiango coloro che non sentono la bellezza di tutto questo. Quando, per 9. “Tutte quelle stesse miserie provano la sua grandezza. Sono miserie di gran signore, miserie di un re spodestato”, Blaise Pascal, Pensées, 398.

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esempio, un borghese afferma: «Non vivo nelle nuvole», state pur certi che con questo significa tutto, dice tutto e ha detto tutto, assolutamente e per sempre. La frase: «Non tutti possono esseri ricchi» pare che non sappia di niente — e, in realtà, è un bel niente — ma cercate di sostituirla! Volete esprimere in una maniera nuova questa idea vigorosa: che tutti non possono avere nella propria ta­ sca un gran numero di monete da cento soldi, vale a dire ap­ partenere alla classe borghese, se non può avere tutto, benin­ teso, ha però il danaro? Ma questo significherebbe voler la rovina di questo luogo comune con la scoperta d’una formu­ la nuova di zecca. Ebbene, cercate, rovistate, scavate, mette­ te tutto sottosopra; forse incontrerete ΓIliade ma non trove­ rete quello che cercate. C’è da singhiozzare d’ammirazione!

XVI Bisogna morir ricco

Questo è un detto piuttosto belga; però è tanto bello! È destinato a diventar francese nel giorno benedetto in cui la Francia sarà stata annessa finalmente a questo popolo co­ sì spiritoso. Morir ricco! Che eroica aspirazione! Che prodigioso de­ siderio! Che cosa sono, a paragone, i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa, le Sofferenze del Redentore e la Com­ passione di Maria, il sangue di diciotto milioni di martiri e le estasi dei santi? Il paradiso consiste nel crepare nella co­ tenna di porco; e san Paolo stesso avrebbe dovuto convenir­ ne se avesse conosciuto i Belgi. Dopo questo grandioso luogo comune, che esprime così bene l’anima di un popolo, ho quasi vergogna e paura di con­ tinuare la mia Esegesi. Povero come un vecchio topo e forse destinato a morir tale, che cosa so io per affrontare così ter­ ribili arcani? Dove posso attingere l’audacia di interessarmi ancora di queste banalità piene di minacce che hanno l’aria 49

di star sempre per lanciare una folgore? Mi pare di muovere i più spaventevoli congegni d’esplosione. Chi sono dunque questi terribili borghesi che possono pronunziare abitualmente, esclusivamente, dal mattino alla sera, simili frasi, senza mo­ rire di terrore? Post-scriptum. — Il Borghese è invincibilmente convinto che i trappisti, che hanno per regola di non parlare mai, non si incontrano tra loro senza dirsi: «Fratello, dobbiamo mori­ re ». È una delle idee a cui tiene di più. È come la famosa fossa che ogni monaco è tenuto a scavare tutti i giorni, destinata al suo uso personale, per otto ore al giorno, per tutta la durata della sua vita religiosa che talvolta è di cinquanta anni. Il Bor­ ghese è il Cinegiro10 di queste due panzane. Non desiste. Per tornare alla prima panzana, volevo dire soltanto che in Belgio c’è indubbiamente un’aggiunta al testo francese. I trappisti belgi debbono mormorare: «Fratello, dobbiamo mo­ rire ricchi». XVII

Quando si è in commercio... Ero impaziente di arrivarci. Questa frase d’uso comune è raccomandabile soprattutto per la sua estrema nobiltà. Es­ sere in commercio vuol dire, per i borghesi, stare seduto su un comodo trono d’oro e giudicare il mondo. Aristocrazia questa, al cui paragone tutte le altre aristocrazie sono un po’ meno che fango. I pari di Francia e i grandi dovrebbero sen­ tirsi onorati di servirla umilissimamente, se le cose stessero tutte al loro posto. Per quanto riguarda poi gli artisti e gli ultimi miserabili che fanno ancora uso della facoltà di pen­ sare, chi potrebbe dire i bassi servizi a cui essi dovrebbero essere destinati? Ma pazienza.

10. Cinegiro, guerriero greco. V. Indice dei Nomi.

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Essere in commercio! Ecco quello che risponde a tutto, abbraccia tutti i privilegi, tutti i favori disponibili, tutte le di­ spense immaginabili, tutte le amnistie. Ciò che non è permesso a nessuno e in nessun caso, diventa invece lecito, anzi pro­ fessionale, quando si è in commercio. La famosa parola del gran re di Ester è « La legge che è fatta per tutti non è fatta per te»,11 pare detta per le persone che sono in commercio, indistintamente. Importa poco quello che si vende. Si tratti di formag­ gio, di vino, di cavalli, di gioielli, di vasellame, coroncine da sposa, di carogne oppure di scarti di ogni genere, basta che si venda o anche che si tratti di cose da vendere senza alcuna possibilità d’essere vendute, e che ci siano dei libri-mastro, con una cassa messa ben in risalto da una piccola transenna eseguita a regola d’arte. La menzogna, il ladrocinio, l’avvelenamento, il ruffianesimo, la prostituzione, il tradimento, il sacrilegio e l’apo­ stasia sono cose onorevoli quando si è in commercio. — Ven­ tre a terra davanti al cliente! — diceva un giorno in mia pre­ senza, la proprietaria di un caffè a uno dei suoi dipendenti. — Sempre ventre a terra, quando si è in commercio. — Que­ sta raccomandazione, che dico? questo precetto che in altre circostanze sarebbe stato il colmo dell’ignominia, aveva lì qualcosa di augurale e somigliava a un vaticinio. Ho visto pochi gesti tanto maestosi quanto il gesto di quella cassiera gonfia d’entusiasmo e con la proboscide in aria, che indica­ va imperiosamente il suolo con l’indice teso, nell’atteggiamen­ to quasi pittorico di una Elisabetta Tudor che mostra la man­ naia destinata a Maria Stuart. Quel giorno intravidi, come in un lampo, la bellezza misteriosa e insvelabile del Com­ mercio. Seguitemi bene. Una cosa si vende o si può vendere a seconda che ci sia un compratore o non ci sia immediatamente un compratore. Questa cosa può essere un’insalata, un me­

li. Il libro di Ester, IV, 13.

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dicamento, un coltello, una prostituta da pochi soldi; poco importa. Il venditore è sempre un uomo prodigioso, un tau­ maturgo che ha il potere di dare a Dio Padre quel che appar­ tiene allo Spirito Santo, vale a dire di far passare l’Amore nella Fede e il Fuoco nell’Acqua: cosa che può essere appena capita. Tuttavia è abbastanza semplice. L’argento, con cui s’o­ pera questa traslazione, è il Redentore o, se volete, l’imma­ gine del Redentore.12 Però i commercianti, ermetici per na­ tura, se ne fregano ugualmente del Redentore, della Reden­ zione, delle Tre Virtù Teologali e delle Tre Persone divine e, in genere, di tutto ciò che può essere concepito dall’intelletto umano. Quante volte non mi è stato consigliato di « fare del com­ mercio», vale a dire di scrivere come un porco per diventare ricco? XVIII Non ci si rifa

Ecco una frase da fenice scoraggiata. Anche i giocatori talvolta la ripetono ma senza convinzione. Qui confesso il mio imbarazzo. Il Borghese pensa per davvero di non rifarsi, e che si ri­ fanno soltanto gli altri, oppure c’è da credere a un’ironia? L’ironia è poco probabile, perché non s’addice alla gravità di questo bonzo. Egli deve pensare realmente che non ci si rifà; cosa che sembra dura. Ma come lo intende? ecco il pro­ blema. Da lui c’è da aspettarsi sempre una sorpresa, una ri­ velazione imprevista che atterra, abbatte e difficilmente of­ fre la possibilità di rialzarsi. Scartiamo subito l’ipotesi dell’impossibilità di rifare le vecchie carcasse di notai o di sarti su misura. Il Borghese è 12. Cfr n. 6, p. 43.

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troppo illuminato per misconoscere il progresso della scien­ za, di cui è il Mecenate più qualificato. Egli sa che la scienza non s’arresta, non s’arresterà mai e che forse domani rimet­ terà sul fuoco la marmitta finalmente ritrovata del vecchio Esone*. Certo, non avrebbe l’audacia di negar tutto questo. Che cosa resta allora? e dell’impossibilità di quale rin­ giovanimento intende parlare? Com’è impenetrabile il Bor­ ghese! Ho speso una parte della mia vita, indubbiamente la migliore, a cercare il significato di questo luogo comune e non ho scoperto nulla. E confesso che preferisco dichiararvi fran­ camente di rinunziarci.

XIX La medicina è un sacerdozio

Quanti sacerdozi! Chi potrebbe enumerarli! Il sacerdo­ zio dell’agricoltura, della magistratura, della farmacia, delle drogherie, della burocrazia, della politica, dell’insegnamen­ to; il sacerdozio della spada, il sacerdozio del giornalismo, ecc.; e infine l’antico sacerdozio della prostituzione rimesso in auge in questi ultimi tempi. Soltanto il sacerdozio religio­ so non è più un sacerdozio, essendo stato formalmente e giu­ diziosamente cancellato dalla lista dal Borghese che se ne è fatto giudice poiché è stato lui a istituire tutti i sacerdozi con­ temporanei. Ho nominato a caso la medicina, perché questo sacer­ dozio m’è venuto per primo alla mente, e voi converrete che esso è troppo bello. Un dottore che fiuta trenta o quaranta pitali di Borghe­ si e che palpa le loro viscere, tutte le mattine, prima di pran­ zo, bisogna convenire che è del tutto diverso da un missiona­ rio che annunzia la parola di Dio ad idolatri incivili che for­ se lo mangeranno dopo il suo discorso. E una ricetta è ben altro di una lettera pastorale! Di fronte ai gesti dei medici quando toccano, palpano, 53

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auscultano, oppure davanti alle loro formule isocrone e ste­ reotipate, che arrivano come oracoli e che siamo sempre si­ curi di capire, mi chiedo che cosa diventano i canoni e le li­ turgie. Quando sentite dire che la medicina è un sacerdozio, con­ vincetevi con pio timore che dietro questo sacerdozio c’è ne­ cessariamente un Dio ineffabile e onnipotente, che vi impe­ gna a discernerlo, come meglio potete, da tutti gli altri Dei non meno ineffabili e non meno potenti che stanno dietro ad altri innumerevoli sacerdozi. Ah, i sacerdozi? XX Tutte le opinioni sono rispettabili

— Purché siano sincere, — aggiunse con una certa fi­ nezza il pescivendolo. — Si capisce, — riprese bonariamente la padrona della locanda Corne d’Or, la quale aveva appena comprato un po’ di frutti di mare già andati a male per i suoi pensionanti. — Io, sappiate, sono per la libertà. Ognuno per sé e il buon Dio per tutti. — Perbacco, questo significa parlare. Allora, non vole­ te le mie ostriche? Ve le do per niente, si tratta di disfarmene. — No, no, grazie; vado a vedere la minestra lasciata sul fuoco. E la brava locandiera, che appariva infatti impaziente di rientrare, si rimise a camminare con quella rapidità che le permettevano la sua grassezza e il peso d’una enorme borsa piena di provviste. La signora Zola, da venti anni sfruttava una locanda con camere ammobiliate di diciassettesimo ordine, a cui era an­ nesso un ristorante poco raccomandabile. La Corne d’Or, nei pressi di Val-de-Gràce, aveva in apparenza una clientela di giovani poveri. Ma l’affitto a ore, e anche su appuntamento, di quasi tutte le camere, fruttificava moltissimo alla padro54

na, che sarebbe stata indignata e stupefatta se le avessero detto che la sua casa era un bordello. Al tempo della giovinezza del fu Vallès*, lei era stata una specie di graziosa e facile ragazza sfuggita, a quanto si dice­ va, alla fucilazione alzando prodigiosamente le gonne davanti ai soldati affascinati. Si diceva che aveva giocato, non senza abilità, con i bidoni di petrolio e la stoppa accesa sotto qual­ che balcone, nelle dolci notti di maggio. Indubbiamente, per questa ragione pretendeva che tutte le opinioni fossero rispet­ tate. E ci teneva assolutamente. — Dov’è il mio porcellino? — chiese arrivando. — L’ho visto andare come al solito verso la chiesa, più di un’ora fa e non è ancora rientrato, — rispose Ferdinand, il cameriere. — Ne ero sicura. Sempre la chiesa, sempre la messa, sem­ pre il suo buon Dio! Ah, basta adesso. Mi viene la voglia di metterlo alla porta, quando ritorna. Il porcellino era uno spilungone di trentacinque anni. Ro­ vinato da abili speculatori, viveva d’un modesto impiego e, tentato dal prezzo modico, aveva creduto di far bene a sce­ gliere la pensione della Corne d’Or. Era bene educato, una specie di mostro quasi sconosciuto dalle nuove generazioni, e che tra poco si potrà forse incontrare soltanto tra gli ultimi bestiari anglosassoni. Era anche devoto: cosa che sorpassava le capacità della signora Zola e la sconvolgeva profondamente. Direte che avrebbe potuto starsene tranquilla, trincerar­ si nell’indifferenza. Ebbene, no, non lo poteva. Aveva il cuore innamorato, il cuore stregato. A cinquant’anni aveva sogna­ to di finire fra le braccia del suo pensionante. L’eroina del ’71 aveva agognato il barile di quest’ultimo amore per met­ tervi in salamoia la sua flaccida carne. Vedendo che l’individuo era povero, silenzioso e triste, e riconoscendo di avere le doti di una consolatrice di prima classe s’era convinta che le sarebbe stato facile conquistare un disgraziato. Però c’era la difficoltà della dannata religio­ ne; e qui non c’era da farsi illusioni. Non avrebbero mai po­ tuto andar d’accordo col buon Dio né lei né il suo comme55

cio; e quel gesuita avrebbe disertato il campo appena si fosse accorto d’esser amato da una donna di facili costumi! Proprio quella mattina, s’era proposta di tentare un passo decisivo, analogo forse a quello che altre volte aveva disar­ mato i rossi pantaloni dei soldati di Mac-Mahon*. E invece il miserabile era andato a fare le sue devozioni, con l’aria di chi è completamente estraneo alla situazione. Dunque non aveva visto nulla, non aveva capito nulla! Perbacco! è vero che non gli s’era gettata al collo, che non s’era messa in gi­ nocchio — cosa che sarebbe stata decisiva almeno per le vec­ chie seggiole della Corne d’Or, giacché la signora Zola pesa­ va circa trecento chili; — ma non avrebbero dovuto fargli aprire gli occhi, le sue piccole attenzioni, le moine, le carez­ ze, i tentativi appena dissimulati di ogni minuto e sempre rin­ novati, e poi tanti sguardi, tanti sorrisi? Ahimè! Con tutti questi dolorosi pensieri per il capo, aprì macchinalmente una lettera consegnatagli da un fattorino. La lettera diceva: «Carissima signora, vogliate consegna­ re al latore la valigia che troverete nella mia camera. Vi la­ scio con un dolore indicibile, fortunatamente mitigato dalla speranza di restituire la pace alla vostra anima, sottraendo ai vostri occhi purissimi l’eccitante bellezza del mio volto. O troppo tenera e infiammabile signora Zola, vi rispetto come un’opinione, come una di quelle innumerevoli opinioni, sem­ pre vecchie e sempre così attuali, che voi tanto spesso racco­ mandaste di rispettare. Addio dunque, o Emilie, la cui im­ magine è indelebilmente incisa nel mio cuore. Alphonse Al­ lais, ex-farmacista di prima classe».13 — Che sporco bigotto! — vociferò la dolce locandiera che non credeva di parlare così bene. — È inaudito che una borghese si sia sbagliata.

13. I cognomi dei protagonisti della vicenda ricordano due esacerbati odi letterari di Léon Bloy. V. Indice dei Nomi, alle voci Allais e Zola.

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Sono come san Tommaso... Avete tutti conosciuto questo Sicambro in pantofole, che afferma così la sua indipendenza. È come san Tommaso. Per credere, ha bisogno di vedere e di toccare. Perché, bisogna convenirne, l’apostolo san Tommaso, soprannominato Dop­ pio Abisso'4 dallo Spirito Santo, deve essere valutato secon­ do il buon senso contemporaneo e misurato con estrema esat­ tezza, seguendo gli ineccepibili metodi di valutazione psico­ logica instaurati dai Paul Bourget* per l’indefettibile stabili­ tà del Borghese. Nessuno che abbia una certa intelligenza esiterà a rico­ noscere che san Tommaso è il patriarca dei positivisti, vale a dire degli uomini senza fede e anche, bisogna aggiungere, di un grandissimo numero di crapuloni i quali, disgraziata­ mente, si intromettono in questo gruppo illuminato, nono­ stante tutte le precauzioni. Ma c’è una cosa bellissima che non viene mai detta: il discepolo ha superato il maestro e il Borghese è molto più grande di san Tommaso. La sua meravigliosa superiorità con­ siste, infatti, nel non credere anche dopo aver visto e tocca­ to; che dico? nel diventare incapace di vedere e di toccare a furia di non credere. Qui siamo alle soglie dell’infinito. Una famosa visionaria ha detto che il dito di san Tom­ maso, che entrò nelle Stigmati delle mani, fa girare il mon­ do. È spaventoso pensare a ciò che può far girare un indivi­ duo più grande di san Tommaso e che crede di essere soltan­ to un suo uguale!

14. Questo apostolo di Cristo ha come soprannome Didimo, spiega­ zione dell’ebraico theom e del siriaco theoma. Tomaso e Didimo significano dunque entrambi “doppio, gemello” (Giovanni, XI, 16).

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XXII Me ne lavo le mani come Pilato

Altra reminiscenza evangelica. Ne incontreremo ancora. Il Borghese non è propriamente religioso; no, però è pieno di tracce accumulatesi, più o meno distinte, come un pulisciscarpe resistente o uno stoino consumato. Niente gli sembra tanto facile quanto essere come san Tommaso e, nello stesso tempo, lavarsi le mani come Pilato. Tradizionalmente e istintivamente, Pilato è il suo eroe di elezione. Tra tutti i personaggi evangelici è quello che par­ la di più al suo cuore. Sente che è il suo prototipo. Ma forse non conosce troppo bene quella storia, e probabilmente an­ che la causa di quella celebre lavanda delle mani. Ha tutt’al­ tro da fare, però... I vecchi borghesi, che furono suoi antenati e che da tempo giacciono nella polvere, hanno potuto sapere che questo gesto esprimeva metaforicamente l’innocenza. Lui invece, modernis­ simo e quindi più armato contro ogni specie di nozioni, ne ha giudiziosamente allargato il significato. « Me ne lavo le mani », detto a proposito di non so che, significa semplicemente: « Non m’interessa», e l’aggiunta: «Come Pilato» è soltanto un’abi­ tudine secolare della lingua, una specie di sordo rumore analo­ go a quello d’un corpo pesante che cade in una voragine. Per dire qualcosa di più, il luogo comune che io cerco di spiegare, ma senza sperarci, equivarrebbe, rigorosamente e nell’Assoluto, alla risposta di Caino: «Sono forse il custo­ de di mio fratello? », tanto è vero che il Borghese non può dire una parola, anche se fosse calvo, senza scuotere tutte le colonne come Sansone! M’accorgo però che ho perduto la testa. Non ho adesso nominato l’Assoluto, dimenticando che niente è assoluto e che mi sono fatto in quattro per dimostrarlo? A dir vero, tal­ volta ho paura di non arrivare alla fine di questo immenso lavoro di esegesi, tanto sono schiacciato dalla materia e ab­ bruttito dall’argomento. 58

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Post-scriptum. — Ho notato che questo luogo comune è, di solito e inspiegabilmente, invocato da coloro che hanno le mani sporche, proprio come il misterioso omnibus che tra il Panthéon e Courcelles si ferma sempre davanti all’immon­ do bordello della rue des Quatre-Vents, senza che vi salga o ne discenda qualcuno e senza che si sia mai potuto sapere il perché.

XXIII

Predicare nel deserto come san Giovanni Ancora il Vangelo! Che bella monografia si potrebbe scrivere con i residui evangelici scoperti nelle viscere del Bor­ ghese! Qui la difficoltà non è piccola, ed io mi lamento di nuovo. Dio mio! so benissimo ciò che vogliono dire quel pro­ fessore di matematica, quel castagnaro, quell’accademico François Coppée* oppure quell’Hanotaux*, quando afferma­ no che un tale predica nel deserto... come san Giovanni. Sì, certo, so quel che vogliono dire; lo saprebbe anche un bam­ bino di tre anni. Però ignoro che cosa dicono in realtà. Lo ignoro quasi quanto loro. Che strana situazione! Che cosa significa per questi giu­ dici la parola «predicare» e che cosa intendono per «deser­ to»? Quanto a san Giovanni, è meglio non parlarne. Quan­ do leggo nel Vangelo che «Giovanni Battista predicava nel deserto di Giudea» mi basta continuare il capitolo per sape­ re immediatamente che una folla enorme di ascoltatori venu­ ti d’ogni parte lo ascoltava in quel deserto e che moltissimi si facevano battezzare e diventavano suoi discepoli, e che, per conseguenza, non predicava inutilmente. Ora, pare che Fran­ çois Coppée o quel tale altro accademico intendano dire il contrario. E allora? Quest’apparente confusione del dativo e del­ l’ablativo — dal momento che non possiamo supporre, nep59

pure per un istante, un’asineria pura e semplice — non na­ sconde forse qualche prodigioso segreto? Avranno forse ri­ cevuto questi uomini una qualche inaudita rivelazione che in­ valida il Testo sacro?... Confesso che un simile pensiero mi terrorizza, e, dal fondo della mia bassezza di scrittore, dal fondo della mia ignominia di povero artista, benedico Dio di non avermi fatto nascere Borghese per la gloria di un così pesante fardello. XXIV

Essere nelle nuvole Amare ciò che non è ignobile, ributtante e bestiale; de­ siderare ardentemente la Bellezza, lo Splendore, la Beatitudi­ ne; preferire un’opera d’arte a una porcheria e il Giudizio uni­ versale di Michelangelo a un inventario di fine d’anno; aver più bisogno di saziarsi l’anima che di rimpinzare l’intestino; credere infine alla Poesia, all’Eroismo, alla Santità, ecco quel­ lo che il Borghese chiama «essere nelle nuvole». Donde ne consegue che le nuvole sono una specie di patria carrozzone per chiunque non è collocato esattamente nei più infimi gra­ dini della scala sociale, il che, beninteso, non è il caso di nes­ suno. Perché c’è una gerarchia di nuvole senza fine, e questa è accuratamente nascosta dal Nemico degli uomini. La dimostrazione è tanto facile quanto importante. Un povero vuotacessi che raschia i depositi del liquame d’un poz­ zo nero e pensa ai meleti o alle acace in fiore, è senz’altro nelle nuvole, un malinconico contabile che interrompe i suoi conti per divorare un romanzo d’appendice di Richebourg* da cui gli viene la sensazione di una letteratura ancora palpi­ tante, è ancor più nelle nuvole, se questo fosse possibile, e nessuno si preoccupa di dirglielo. Un notaio che, pazzo d’a­ more, fa fare un quarto figlio alla sua signora, dimenticando di aver già messo al mondo un idrocefalo e due aborti, è cer­ to che è assai più nelle nuvole di quanto ci si possa essere, 60

e ci vorrebbe qualcosa come la mostruosità di un farmacista che compone versi per essere in maniera più preoccupante. Non la finirei, se dovessi dir tutto. Insomma, per esserci immediatamente nelle nuvole, ba­ sta fare, pensare, volere o sognare, sia pure per mezzo se­ condo, qualcosa di decente o di quasi decente. Dunque quelle famose nuvole così energicamente male­ dette dal Borghese possono, ahimè! essere incontrate da lui a ogni svolta. Checché faccia non è mai sicuro di evitarle; ed ecco perché la sua sorte, bestialmente invidiata, è tanto dolorosa. Spesso ci si è chiesto perché il Borghese è così por­ co, così volgarmente basso, così sprofondato nella melma. Semplicemente a causa delle nuvole. Era da poco crepato un usuraio. La famiglia pregò sant’An­ tonio di Padova di tenere il discorso funebre. Questi accettò, e il suo discorso, completamente nelle nuvole, si svolse su que­ sto tema: «Dov’è il tuo tesoro, là sta il tuo cuore». Poi, finito il discorso, rivolto ai parenti, disse: — Andate e rovistate nelle casseforti di questo morto. Vi dico troverete il suo cuore in mezzo a monete d’oro e d’argento. Quelli andarono, rovistarono e, in mezzo agli scudi, tro­ varono un cuore umano, un cuore caldo e palpitante... Era forse sfuggito dalle nuvole. L’Ascensione come deve apparire insopportabile per il Borghese, e come deve rivoltarlo Gesù che sale al cielo! Un Dio nelle nuvole!... Però, chi potrebbe essere miglior cristia­ no del Borghese? Lo troviamo a capo di tutte le opere nelle nostre parrocchie, e fa buon viso anche alla Trasfigurazione, tanto è furbacchione! XXV

Essere come si deve È una regola senza eccezioni. Gli uomini di cui non si ha bisogno non possono essere mai come si deve. Quindi, 61

esclusione, eliminazione immediata e senza privilegio di tutte le persone superiori. Un uomo come si deve, deve essere in­ nanzitutto un uomo come tutti gli altri. Più siamo simili a tutti, e più siamo come si conviene. È la consacrazione della moltitudine. Essere vestito come si deve, parlare come si deve, man­ giare come si deve, camminare come si deve, vivere come si deve: son cose che ho sempre sentito in tutta la mia vita. Vi chiedo il favore di ricordare quanto ho detto all’ini­ zio di questa esegesi, che cioè il Borghese pronunzia a sua insaputa, continuamente e sotto forma di luoghi comuni, af­ fermazioni assai terribili, la cui portata gii è sconosciuta e che lo farebbero crepare di paura se potesse sentire se stesso. Perciò, il luogo comune che in questo momento ci inte­ ressa esprime, con particolare energia, il comando evangeli­ co dell’Unità assoluta: Sint unum sicut et nosiS. Poiché la Parola sostanziale è vera in tutti i sensi, è certo che il Bor­ ghese compie a modo suo la Volontà da lui ignorata, esigen­ do che il bestiame umano sia un immenso e uniforme gregge d’imbecilli, per l’immolazione espiatoria... in un certo giorno.

XXVI Essere pratici

Stando soltanto al vocabolario, si potrebbe credere che qui si tratti semplicemente d’una cosa in opposizione a un’al­ tra che bisognerebbe chiamare teorica e che d’altronde non sarebbe meno stimabile. Sotto questo punto di vista, un uomo pratico sarebbe lo strumento per la realizzazione di un’idea o per l’applica­ zione di una legge. L’uomo pratico per eccellenza sarebbe il carnefice. Ma non si tratta di questo. 15. «Acciocché siano una stessa cosa, siccome noi siamo una stessa cosa», Giovanni, XVII, 22.

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Nella lingua del Borghese, lingua specialissima che biso­ gna temere di non rispettare abbastanza, essere pratici signi­ fica un insieme di qualità morali, uno stato d’animo. D’un uomo si dice che è pratico come si direbbe che è virtuoso, sebbene con una sfumatura di disprezzo per la virtù. In fondo l’uomo pratico è il vero semidio borghese, il moderno sostituto del Santo delle leggende. La maggior par­ te delle statue contemporanee sono state erette a uomini pra­ tici da altri uomini pratici, sempre bene informati e sempre mattinieri. Un padrone di casa che fa gettare in strada, nel cuore dell’inverno, degli ammalati e degli affamati, è soltanto un uomo pratico, soprattutto se è milionario; e quanto più è mi­ lionario tanto più è pratico. Ciò che pone quest’uomo così in alto è il fatto che ha un cuore, spesso anche un cuore mol­ to tenero e che sa far tacere generosamente. Ci sono fornito­ ri di carne avariata per ospedali e lattai che avvelenano, an­ no dopo anno, millecinquecento bambini, e guadagnano co­ sì molto danaro. Ebbene, costoro traboccano d’amore. Però il principio li incatena: bisogna essere pratici. Altra regola senza eccezione: un santo non è mai un uo­ mo pratico. XXVII

«Stare a cavallo» sui princìpi Genere di equitazione a uso esclusivo del Borghese. È il più sicuro che si conosca. Ed è anche inaudito che il cava­ liere sia stato qualche volta disarcionato. E per di più, che princìpi magnificamente addestrati! Cavalcatura tanto più amabile in quanto non costa niente e va da sola a cercare il suo cosacco! La bicicletta e l’automobile sono sorpassate, perché questi princìpi vanno ancora più celeri e schiacciano meglio, in ma­ niera più soddisfacente, più irrimediabile. Essi non massacra63

no soltanto i corpi dei deboli e degli innocenti senza avvoca­ ti; ma massacrano anche e soprattutto le loro anime. I princìpi su cui monta il Borghese sono ineguagliabili, imbattibili corsieri della morte che lui alloggia nella scuderia del suo cuore.

XXVIII Essere poeta in determinate ore

Vi sfido a trovarmi un Borghese che non sia poeta in determinate ore. Lo sono tutti senza eccezione. Il Borghese che non fosse poeta in determinate ore sarebbe indegno della compagnia e dovrebbe essere rimandato ignominiosamente in mezzo agli artisti, tra quella specie di schiavi che fanno i poeti a tutte le ore. Per esempio, è un po’ difficile capire e spiegare che co­ sa può essere questa poesia in determinate ore del Borghese. Supporre per un sol momento che quel tale usciere si riposi dalle fatiche del suo ministero rincorrendo la musa, che si con­ soli del piccolissimo numero delle sue imprese eseguendo can­ tate o elegie, sarebbe evidentemente mettere in burla ciò che merita rispetto. Sarebbe avere un basso concetto. Il Boghese non è un imbecille né un vagabondo, e si sa che i poeti veri, quelli che sono soltanto poeti e lo sono a tutte le ore, devono essere qualificati così. Il borghese è poe­ ta alla maniera che conviene a una persona seria, vale a dire quando gli piace, come gli piace e senza tenerci affatto. Non ha neppure bisogno di interessarsene. Ci sono dei domestici per questo. Inutile leggere, inutile aver letto, inutile finanche l’informarsi di chicchessia. A quest’uomo basta respirare. L’immensità della sua anima fa scricchiolare il cielo azzurro. Ma ci sono delle ore per queste cose, delle ore che sono sue, quella della digestione, per esempio. Quando suona l’o­ ra degli affari, che è l’ora seria, le stupidaggini vengono im­ mediatamente congedate. 64

— Essere poeta in determinate ore, e nient’altro che in de­ terminate ore, questo è il segreto della grandezza delle nazioni, — mi diceva, nella mia infanzia, un Borghese della grande epoca. XXIX

Essere in stato interessante Questo vale per le signore, esclusivamente. Un signore, anche se borghese, non sarà mai in stato interessante. Come bisogna intendere questa frase? Se vedo una don­ na borghese incinta, mi è impossibile non pensare alla pros­ sima nascita d’un piccolo borghese, e confesso che questo mi sembra piuttosto inquietante. Non vedo neppure troppo be­ ne di che cosa la famiglia possa esser interessata, dal momento che si tratta di una cosa importuna. Perché in fondo il Bor­ ghese non è un patriarca, e non deve esserlo. Le virtù pa­ triarcali sono il contrario delle virtù di cui lui s’onora. Non sa che farne d’una posterità innumerevole e non si concepi­ sce come adoratore di Ieova nelle solitudini, in testa a una carovana. Anche quando genera, il Borghese sta negli affari. Dunque non potrebbe trattarsi se non d’un interesse al tanto per cento, tutt’al più. Ma queste riflessioni non rischiarano nulla. La formula di convenienza: «Essere in stato interessante» sembra uno di quei luoghi comuni che non si spiegano e che basta indicare di sfuggita, come qualcosa di terribile che non bisogna trop­ po approfondire.

XXX Bisogna essere del proprio secolo Il signor Culot aveva inventato qualcosa; non si sapeva cosa fosse, né lui lo confidò mai a nessuno. Voleva solfato 65

che si sapesse che non era un idiota e che, fuori delle sue fun­ zioni, del resto brillantemente assolte, di primo cassiere del­ l’amministrazione degli Zolfi, era, come si dice, qualcuno. Nessuno meglio di lui era informato di tutte le tappe della scienza. Abbonato e divoratore o presunto divoratore di tut­ te le riviste e bollettini scientifici, veniva consultato come un catalogo. — Bisogna essere del proprio secolo, — diceva ogni momento, considerando che quel secolo, che era allora il se­ colo decimonono, aveva in sommo grado tutto quello che po­ teva far desiderare di appartenerci, fino al punto da far veni­ re la voglia alle ossa ormai calcinate di poter rivivere. Non ammetteva la più lontana supposizione di una tara o di un discredito; gli altri secoli, a paragone, gli sembravano irre­ spirabili. Era diventato inventore per appartenere più compietamente a un secolo di invenzioni. Ma, ripeto, non si sapeva che pensare delle sue scoperte. Aveva in casa una porta mi­ steriosa sempre chiusa a triplice mandata, su cui si leggeva questa semplice iscrizione: LABORATORIO. Le congetture correvano a briglia sciolta. Certi sottintesi accompagnati da vaghi sorrisi davano a credere che avesse domato lo spazio dei cieli e avesse risolto il problema della navigazione aerea. Qualcuno presumeva con molta serietà che egli aveva forse riscoperto il fuoco greco o la polvere per i cannoni. Un maligno che andava a letto con la signora Culot tutti i sabati, insinuava che era invento­ re d’una macchina abbaiatrice destinata a sostituire i cani da guardia in città e in campagna. Insomma, non si sapeva e non si doveva mai saper nulla. Ma il signor Culo.t godeva di una grande notorietà, e si parlò anche di ficcarlo nell’Istitu­ to, il che sarebbe accaduto se non ci fossero stati i soliti in­ trighi. E ora, ecco la conclusione bizzarra del suo destino, se pur è possibile chiamar tutto questo un destino. Aveva una figlia senza Dio e senza bellezza, ma irrimediabilmente sporcacciona, la quale, benché non tenesse in alcun conto le stu­ diose manipolazioni di suo padre, voleva non meno energi­ 66

camente essere del suo secolo. Incoraggiata d’altronde dal­ l’esempio di sua madre, che avrebbe fatto parlare di sé in tutte le epoche del mondo, aveva ben presto ottenuto dei risultati notevolissimi. Molto diversa in questo punto dal signor Culot, fin dal­ l’età di diciotto anni, la signorina Barbe Culot non ebbe se­ greti per nessuno. A venticinque anni, s’era già scientificamente sbarazzata di parecchi bambini: circostanza questa che, divulgata, le valse, essendo allora diventata una levatrice di prima classe, le congratulazioni del Presidente della Repub­ blica e la croce d’onore nel giorno dell’inaugurazione della statua di Ricord*. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio, dice un altro luo­ go comune che studierò, per quanto sarà possibile, da numi­ smatico, al momento opportuno16. Un giorno, due uomini del secolo si incontrarono quasi per caso nella stanza da letto dell’amabile figliuola, che era per il momento senza alcun velo e completamente ubriaca. Ci furono, non so perché, tali vociferazioni che il signor Cu­ lot non potè fare a meno d’accorrere, invitando quei signori alla moderazione. — Si vede bene che non siete del vostro secolo — gli ri­ sposero. L’enormità dell’osservazione pietrificò per qualche istante il vecchio che balbettò delle scuse. Arrivò finanche a offrire dei rinfreschi, e la calma tornò in quella casa. Ma il colpo era stato assestato. Il signor Culot, credendo di non apparte­ nere al suo secolo, perdette a poco a poco il suo buon umo­ re, cadde nell’estrema desolazione e finì per mettersi a letto. Sentendosi perduto, chiese di essere cremato a spese dello Sta­ to e si spense dolcemente, dopo d’aver invitato coloro che l’assistevano a testimoniare che moriva da uomo del suo se­ colo. L’ambiente intellettuale rimpianse la scomparsa di que­ sto Archimede. 16. Léon Bloy non si occuperà di questo luogo comune.

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Nolite conformari huic saeculo^. Non vogliate confor­ marvi a questo secolo, esclama san Paolo, il cui trionfo è trop­ po facile e che non avrebbe certamente capito nulla dell’im­ penetrabile saggezza del Borghese.

XXXI Non si deve essere più cattolici del Papa A prima vista sembrerebbe che il Papa dovrebbe essere felice che ci siano delle persone più cattoliche di lui, dei sug­ geritori che gli dicessero: — Fermatevi, — quando va troppo lontano, vale a dire, sempre. Perché il Papa è l’unico uomo che sbaglia infallibilmente, ed è in questo senso che bisogna intendere la dottrina della infallibilità pontificia, almeno è così che l’intende il Borghese. E allora, perché il Borghese asserisce che non bisogna essere più cattolici del Papa? Indubbiamente perché il Papa lo è troppo. Io vi ascolto, però quello che dite non è abba­ stanza chiaro. Se il Papa sbaglia sempre e, nella sua qualità di infalli­ bile, è il solo a sbagliare sempre, ne consegue che è impossi­ bile non essere più cattolici di lui. Però, nel medesimo tem­ po, voi, o Borghesi, mi dite che tutto questo non vale, che non bisogna essere più cattolico di lui: il che implica necessa­ riamente che bisogna esserlo meno, e noi già abbiamo dimo­ strato che è impossibile. In questa assurda ipotesi, il Papa riprende il suo livello, come il mare dalle «tumescenze meravigliose», ed eccoci sul piano di un cattolicesimo inferiore a quello di questo Sovra­ no Pontefice che non può non sbagliare e che, per questo fat­ to, ricade immediatamente, invincibilmente, nel gradino più basso. Ancora una volta, chiedo un po’ di luce.

17. Epistola ai Romani, XIII, 2.

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XXXII Tutti i gusti esistono nella natura

Nella natura del Borghese, si capisce. Cercate di imma­ ginare una simile universalità di gusti in un poeta! E notate, vi prego, che non si tratta di gusti svariatissimi, di gusti mol­ teplici, ma di tutti i gusti: dal gusto dell’ambrosia fino a quello dell’escremento incluso. Questo è il Borghese; ama tutto e ingoia tutto. Almeno il furbo così vorrebbe dare a credere. Ma io conosco i suoi gusti e non lo vedo troppo simpatizzante delle cose decenti. E sta qui la sua indiscutibile e sempiterna superiorità, che lui nasconde inutilmente. XXXIII Non sempre conviene dire tutte le verità

Ce ne sono altre, in più gran numero, che non è bene sentire. Dunque, bisogna fare una scelta tra le une e le altre, il che suppone un discernimento da angeli, e di che angeli! Una verità che esponesse il suo divulgatore o il suo te­ stimone a qualche disgrazia, evidentemente non converrebbe dirla. La pelle innanzitutto — a ognuno il suo mestiere — e il Borghese non è un martire. Ma non è neanche un confes­ sore, un penitente affamato di umiliazioni, e ritiene preferi­ bile ignorare le verità che gli dispiacciono. Va benissimo; però c’è un caso strano. Se si sopprimo­ no insieme le verità pericolose a proclamarsi e le verità che dispiace sentire, non ne vedo un terzo gruppo. Diciamolo francamente. Nessuna verità è buona a dirsi·. questo è il significato della frase precedente. Forse non c’è neppure la Verità. Pilato, che LA vedeva faccia a faccia, non ne era sicuro.

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XXXIV

Complicarsi inutilmente la vita ovvero Cercare di far suonare mezzogiorno alle due

Ecco quello che non mancheranno di rimproverarmi. Si dirà che cerco il Borghese dove non c’è, che gli attribuisco intenzioni, sentimenti, idee che non ha. Ebbene, disilludete­ vi. Io non cerco e non suppongo. Il Borghese lo si può in­ contrare a qualsiasi ora, e gli orologiai lo sanno bene; è ca­ pace di tutto, e i poveri l’hanno imparato a proprie spese. Ho detto soltanto, e questo mio lavoro non ha altro intento, che il Borghese è una eco stupida ma fedele che rimanda la Parola di Dio quando essa risuona nei luoghi bassi; uno spec­ chio oscuro pieno di riflessi della Faccia capovolta di quello stesso Dio, quando si china sulle acque dove giace la morte. Ho aggiunto che questo mi sembra terribile. Ecco tutto. Per quanto riguarda questo modo di dire, miserabile, questo nauseante ritornello che ha colmato con la sua malin­ conica banalità la mia infanzia votata ai tormenti e che non ha neppure la scusa demoniaca di contraffare un Testo sa­ cro, so che pensarne. È come il Niente è assoluto e tutto è relativo delle prime pagine di questo libro. Quando un povero scolaro ha trova­ to o ha creduto di trovare qualcosa e ne palpita di gioia, gli viene invariabilmente assestata la mazzata « cercare di far suo­ nare mezzogiorno alle due». Ho già detto, e sono costretto a ripeterlo: preferire ciò che è nobile all’ignobile e il bello al brutto; cercare di capire, tentare la conquista di qualche cosa, valicando limiti e stec­ cati; voler insomma vivere: ecco ciò che cade sotto la male­ dizione... Cerco di immaginare un avvocato del tribunale di pri­ ma istanza, che crepa giusto a mezzogiorno, al termine di una vita poco edificante, e vedo la sua sporchissima anima legge­ ra, trascinata dai pianti dei poveri, che lui schiacciò, fino al70

la stazione della Quattordicesima ora che è l’ultima della Via Crucis, e il Tribunale sanguinante di Gesù Cristo! XXXV

Ci sono dei limiti che non bisogna sorpassare Questo è più preciso. Siamo informati che a una certa distanza non enorme, c’è una frontiera che non perdona. Di­ sgraziatamente ci vogliono buoni occhi per discernerla, per­ ché essa è poco appariscente. Inoltre, ha l’inconveniente d’es­ sere instabile. È una funicella molle che non delimita esatta­ mente. Talvolta è il Borghese stesso a sorpassare i limiti, senza saperlo; e allora cade ignominiosamente nella trappola che lui stesso ha teso ai Poeti, supponendo maliziosamente che fossero talpe. Tanto peggio per lui. Io appartengo a coloro che vor­ rebbero lo scoppio di una rivoluzione e che alla tirannia in­ sopportabile dell’antico Borghese, nemico delle avventure, ve­ nissero opposte le moderne effervescenze di un Borghese rom­ picollo che non vuole più sentir parlare di barriere. Questo cataclisma spargerebbe un po’ di gioia sul nostro pianeta.

XXXVI

Ogni eccesso è difetto Può anche accadere di essere troppo borghese, il che mi sembra paradossale. E per dimostrarlo ecco una storia estre­ mamente semplice, nella quale ebbi una parte poco onorevo­ le e che accadde al tempo della mia giovinezza. Il signor Robert, il quale viveva di una piccola rendita dopo essersi ritirato dal commercio dell’olio, non era felice. Però avrebbe dovuto esserlo. Lo sforzo di tutta una carriera 71

di slealtà commerciale'gli era stato ricompensato, da una giu­ sta sorte, con una equa opulenza. Una casa sprovvista, grazie al cielo, d’ogni profilo ar­ chitettonico, testimoniava, sulla strada principale, l’importan­ za finanziaria di quest’uomo fortunato. L’inesorabile bian­ chezza dell’intonaco rendeva oftalmici e faceva morire ogni tipo di vegetazione. Dal portone si vedeva un giardino riarso, calcinato, si­ nistro, da cui il gusto del padrone aveva estromesso la natu­ ra. Dappertutto ciottolame e piombarne di ornamento. Un amorino maliziosetto in simil bronzo reggeva un getto d’ac­ qua, poco abbondante, al centro d’una vasca, opera dello stes­ so artista ciclope, con dentro alcuni disgraziati pesci rossi che sembravano sudare. Qualche geranio idrofobo spuntava qua e là ai piedi di al­ cuni tigli che avevano rinunziato a ogni verzura. Si vedevano pure degli specchi sferici di diversi colori, un giuoco da campo con i bersagli numerati d’un verde asparago gialliccio, un ber­ sò di vite infeconda e di glicini completamente bruciati a cui soltanto l’immaginazione d’un arso vivo avrebbe potuto chie­ dere ombra. Infine, c’era il casotto d’un colore azzurro, d’un cane giunto all’ultimo grado dell’alopecia rognosa, e a cui era affidata la sorveglianza di quel paesaggio. Un muro da prigio­ ne, dentellato con fondi di bottiglia, sbarrava l’orizzonte. Quel soggiorno incantevole formava la gloria del signor Robert. Motivi più nobili lo avviavano alla gioia perfetta. Era membro del Consiglio municipale, assai stimato per l’abbon­ danza e la fluidità delle sue opinioni, e destinato, come di­ ceva la voce pubblica, a più augusti impieghi. Ad accresce­ re la sua felicità, la moglie gli era morta e ora l’attendeva nel cielo dopo averlo per trenta anni cornificato sulla terra. Come avvenne che un verme imperdonabile rose inter­ namente questo bel frutto? Il signor Robert aveva un vicino che gli avvelenava la vita e lo faceva disperare. Era un inci­ sore, disordinato e concupiscente, che il signor Robert non poteva incontrare senza fremere e la cui sola presenza lo mandava in bestia. 72

Quest’incisore, sempre male in arnese, con un cappello a paniere per fichi venuto dall’Asia Minore, con sempre in bocca una pipa di canna alla cui estremità c’era un brucia­ tolo di un peso eccessivo, si dava, oltre al bulino, a esercita­ zioni fotografiche della specie meno innocente, a giudicarne dai suoi accoliti ordinari. Si trattava di un aiutante tozzo e forte che nessun proprietario avrebbe voluto incontrare in un angolo del bosco, alla scadenza dell’affitto, e uno zoticone d’operatore, fosco, dagli occhi di nitrato, nodoso come un ceppo, che somigliava, sotto il velo nero del suo apparecchio, a un carnefice mascherato. — Tutto questo, — diceva il signor Robert, — non era molto cattolico. Alcune donne, probabilmente impudiche, venivano quasi tutti i giorni. Lo sa Dio per quali funzioni! E non c’era mez­ zo di non vederle, perché il signor Robert non era compietamente chiuso da muraglie e il suo giardino era appena sepa­ rato da quello dell’incisore con una semplice rete che lascia­ va veder tutto. Quante volte la sua figliuola, una giovane capra suscetti­ bile e sentimentale, pura come la violetta, non aveva intravi­ sto, passando, scene orgiastiche il cui ricordo la turbava? Ave­ va visto, oso dirlo, quegli odiosi vicini, maschi e femmine, star nudi, senza vergogna e col pretesto dell’arte, a bere all’aperto aperitivi e a lanciare urli selvaggi. Tutto questo diventava tanto più insopportabile in quanto avevano l’aria di insolentire, scop­ piando a ridere appena appariva il padre o la figlia. L’abominevole fotografo, un giorno, aveva avuto l’au­ dacia di puntare su di loro il suo obiettivo, inviando poi l’in­ domani i due ritratti accompagnati dall’eccessiva richiesta di mandare la signorina Armandine per degli studi d’insieme. Questo messaggio inqualificabile, disgraziatamente letto da Armandine, conteneva delle ipotesi d’una indecenza inaudi­ ta... e il peggio si fu che l’avvocato dell’ex-oliandolo, sebbe­ ne uomo serio, consultato immediatamente, aveva alzato le spalle ridendo forte e consigliandolo a non procedere e a non dare importanza a uno stupido scherzo. 73

Inoltre, per colpo di disgrazia, l’incisore dal paniere di fichi era giunto a dare insolentemente del tu al signor Ro­ bert, che aveva sempre fatto onore alla sua firma e aveva sem­ pre pagato puntualmente; lo fermava in mezzo alla strada dandogli un colpetto sul ventre e chiamandolo: «mio vecchio Macaire*». Il degno uomo non dormiva più, perdeva terre­ no nel torrente delle tribolazioni. L’incisore era dunque il suo incubo, e lui avrebbe fatto di tutto per liberarsene. Basta dire che lo spiava attentamen­ te, sperando che, un giorno o l’altro, avrebbe scoperto qual­ che sua criminale macchinazione. Supposto che eseguisse real­ mente delle incisioni nella sua topaia, come si vantava, que­ sta arte poteva servire benissimo per nascondere orribili ma­ novre. Perché era impossibile credere che un onest’uomo aves­ se bisogno di tante compagne e compagni, di tanto andare e venire e di tanti intrallazzi per grattare un pezzo di rame. Ci doveva essere sotto qualche cosa. Un bel mattino, il signor Robert non ebbe più dubbi. Mentre scivolava verso la porta, a passi felpati, come faceva da quando s’era messo all’erta, sentì la voce troppo nota del­ l’enigmatico vicino attraverso il muro contro il quale fu co­ stretto ad appoggiarsi nella sua angoscia, e gli giunsero di­ stintamente queste parole cariche di terrore: — Il cadavere comincia a diventar bianco. Furono pronunziate altre parole che non potè afferrare, ma quelle bastavano, e lui sapeva che cosa doveva fare. Pe­ rò le sue gambe non lo reggevano; si sentiva gelido come se fosse stato lui stesso il cadavere e, per alcuni minuti, dovette asciugarsi e farsi coraggio. Alla buon’ora! non s’era ingan­ nato. Il vicino era realmente una fosca canaglia, uno dei più pericolosi malfattori, che la giustizia degli uomini avrebbe adesso tolto di mezzo. Benedicendo, per la prima volta in vi­ ta sua, la Provvidenza, corse alla caserma dei gendarmi. Il brigadiere di servizio, reso partecipe di un possibile massacro, accorse subito con tre uomini. Entrarono senza ce­ rimonie nella casa dell’incisore, nonostante la meraviglia del suo aiuto operatore su cui subito posero le mani... 74

— Dov’è il tuo padrone? — gli chiese in tono secco il rappresentante della legge. — Ebbene? Sta nella camera oscura. Lo vedrete tra due minuti. Che cosa volete da lui? Non ci avete forse preso per briganti! — Hai parlato troppo! — disse il brigadiere. — Ti spie­ gherai davanti al giudice. Apri quella porta. — Piano! — rispose l’altro — non voglio bisticciarmi col mio padrone, per farvi piacere. Rivolgetevi direttamente a lui, se avete fretta. Vedrete che cosa vi dirà. Il gendarme, sguainando la spada, avanzò verso il luo­ go terribile. — Ah! è così. Parlate dunque, — gridò il personaggio invisibile; — non vorrete farmi arrabbiare. Che cos’è tutto questo putiferio? Vi dico che il cadavere sarà splendido. Era troppo. L’integerrimo gendarme minacciò di sfon­ dare la porta. L’altro allora dovette decidersi, e il signor Ro­ bert confuso vide uscire dall’ombra il suo torturatore, col pa­ niere di fichi in testa e la pipa in bocca, tenendo con l’estre­ mità delle dita il cliché fotografico d’un famoso quadro raf­ figurante la morte di Cesare o di un qualsiasi altro tiranno. XXXVII Bisogna stare nel branco ovvero Ululare con i lupi Massima preziosa che forse ci è stata lasciata in eredità da un vecchio cane. Ululare, ma devo proprio dirlo? è una litote, un eufemismo. Si tratta di fare quello che fanno i lu­ pi, ossia mangiare le pecore, iniziando, beninteso, da quelle che si ha il dovere di sorvegliare. Il clero borghese è concorde nel riconoscere che è una pratica alquanto gradevole, essendo la carne di pecora squi­ sita e confacente allo stomaco di ogni specie di cane. In Eze75

chiele, troviamo un capitolo che ha l’aria di predire loro qual­ che indigestione. Ma Ezechiele non viene quasi letto dal cle­ ro borghese e, in particolare, nella diocesi di Meaux, dove credo lo si deve giudicare un po’ troppo rococo. Menziono la diocesi di Meaux poiché io vi vivo — assai male, per altro, non essendo pastore, né cane di pastore — e anche perché ho l’occasione di osservarvi alcuni parroci che Bossuet non aveva previsto e che non assomigliano a degli aquilotti™. Parlerò più avanti di questi servi di Dio con una certa qual abbondanza di dettagli. Nell’attesa, propongo loro l’a­ pologo di sapore ecclesiastico del cane da guardia divenuto un «cane muto», a forza di ululare con i lupi e che trangu­ giò in silenzio, ogni mattina, la Carne e il Sangue dell’Agnello.

XXXVIII Soltanto la verità offende Post-scriptum al paragrafo XXXIII. Stavo per dimenti­ carlo. Non avevo ragione io? Non solo ci sono verità che non è bene udire, ma il profondo Borghese ci dice pure che sol­ tanto la Verità offende. La menzogna non lo offende e non lo offenderà mai. È una specie di zio da cui si spera sempre un’eredità e per il quale non sono mai bastanti le carezze. Quando la menzo­ gna s’incarnerà — cosa che un giorno dovrà pur accadere — non avrà che da dire: «Lasciate tutto e seguitemi» per tirarsi dietro immediatamente, non una dozzina di poveri, ma mi­ lioni di uomini e donne borghesi, che la seguiranno dovun­ que le piacerà andare. Finora, soltanto la Verità s’è incarnata, Ego Veritas qui

18. Quei parroci moderni non meritano, nemmeno nella sua accezione riduttiva, l’appellativo di «aquilotti», derivato da quello più insigne di «Ai­ gle de Meaux» conferito a Bossuet.

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loquor tecum19, e sapete com’è stata accolta. Gli uomini non si sono sbagliati neppure per un attimo: Crucifigatur! Sol­ tanto la VERITÀ offende. È senz’altro inquietante sentir dire dal Borghese tutte que­ ste cose, tranquillamente, dal mattino alla sera. XXXIX Per ambizione si perdono i grandi uomini

Sapere che cosa il Borghese intende per grand’uomo non è troppo facile. Tutti crederanno che, per lui, il più grande uomo è chi possiede più danaro. Ebbene, questa è soltanto un’opinione plausibile. Non è tutto. Al di sopra di chi possiede molto danaro, c’è chi fa pau­ ra, chi ha il potere di prendersi il danaro degli altri e dare in cambio delle pedate. Costui è sicuramente un uomo più grande. C’è infine un terzo che è ancora più grande, anzi è cer­ tissimamente il più grande uomo. Ed è colui che vendica il Borghese da quella Verità offensiva di cui abbiamo parlato. Si capisce che un simile trionfatore non ha bisogno d’essere ricco né di spargere il terrore. Ed è anche inutile che si chia­ mi Renan* o Voltaire*. Fosse pure un pedante bastardo, un miserabile e vagabondo apostata, un pidocchioso straccione, è sempre lo Scipione di quella Cartagine di luce che deve es­ sere distrutta. Questo basta. Se avesse un’ambizione, sareb­ be quella di condividere la gloria di quel soldato immortale e guantato di ferro che, in casa del Sommo Sacerdote, schiaf­ feggiò il Cristo incatenato la vigilia del Venerdì santo. Ma allora, mi chiedo, che cosa pretende questo luogo comune con la sua «ambizione» disastrosa? Me lo chiedo. 19. Il testo non è citato correttamente ma ricalca, in qualche modo, la risposta data da Gesù a Pilato: «Chiunque è della verità ascolta la mia voce”, Giovanni, XVIII, 37.

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Se manca qualcosa di essenziale al Borghese, questa è la gran­ dezza che lui aborre. Dunque non può perdersi per questo, e il luogo comune che ci mette in imbarazzo ha dovuto esse­ re messo in giro da piccolissimi uomini che volevano darsi delle arie.

XL

Non siamo sulla terra per divertirci Scusate, vorreste dirmi perché ci siamo, se non ci siamo per divertirci? Sarà forse per soffrire? Sì e no; bisogna intendersi. La parola del Borghese ha un doppio taglio come la spada di Aod, figlio di Gera, terzo giudice di Israele. La sofferenza è riservata agli altri, e sol­ tanto lui sta sulla terra per divertirsi. Appena dimentichiamo questa legge, tutto diventa oscuro. Nel Vangelo sta scritto che ci saranno sempre dei pove­ ri. Naturalmente. Vorreste che il Borghese si prendesse la pe­ na di soffrire anche lui? Non gli basta avere dei domestici; ha bisogno anche di schiavi, di disgraziati ai quali possa in­ fiacchire i corpi e avvilire le anime. Ecco il suo divertimento! Degradare le anime, insozzarle, farle disperare... Quando il povero grida di dolore, gli viene offerta questa consolazione: «Non siamo sulla terra per divertirci», ed egli crede di tro­ varsi in mezzo ai demoni.

XLI

Non sono un santo Il Borghese non oserebbe dire: «Non sono un genio». Come osa dire: « Non sono un santo? » Le due cose devono essergli ugualmente odiose, poiché appartengono a un ordi­ ne assoluto. Però è certo che il sospetto di santità ha qualco­ sa di lancinante per l’amor proprio, qualcosa più difficile a 78

sopportarsi. Sappiamo infatti che il genio ha la probabilità di non essere indiscutibilmente e irreparabilmente un idiota; ma il santo non l’ha mai. È risaputo. Inoltre, dobbiamo ricordare che la lingua del Borghese, poiché esclude l’Assoluto, deve formicolare di sorprese, di contraddizioni in termini, di non sensi, di incoerenze e di qui­ proquo, in cui, a quanto pare, egli si muove liberamente, ma che devono stordire un estraneo. Io stesso che mi sforzo di fare un po’ di luce su questo pasticcio, confesso che sovente mi ci perdo e piombo in una specie di coma che mette in al­ larme i miei amici. Per esempio, come conciliare il desiderio così evidente, così borghese, così ragionevole di non essere un santo, con l’esigenza abituale della santità negli altri, particolarmente ne­ gli inferiori, perché tale è il caso di questo luogo comune, molto analogo al precedente? La santità è per gli altri, come la sofferenza. Ma tutto s’aggiusta. Poiché il Borghese non vuole e non deve essere un santo, ne consegue necessariamente che altri devono esserlo in vece sua, affinché egli possa aver pace, di­ gerire e ruttare in santa pace. È questa la religione a uso dei domestici, preconizzata da Voltaire*, e che consiste nell’addossare agli altri il proprio fardello. Noterete che qui parlo del Borghese rudimentale, del Bor­ ghese monopetalo, per dir così, di colui che «non ha niente contro Dio » e pensa solo al proprio ventre. II Borghese De­ risorio, che suppone gratuitamente ipocrita ogni uomo che compie un gesto religioso e cerca di pugnalarlo con questa supposizione, sarà l’oggetto di una trattazione a parte. Nel suo celebre Voyage en Chine, Hue* spiega l’enorme percentuale di suicidi tra i cinesi. «Negli altri paesi, scrive, quando si vuole prendere ven­ detta di un nemico, si cerca di ucciderlo; in Cina invece si uccidono. Sono sicuri di suscitare, in questo modo, uno scan­ dalo terribile. Il nemico cade immediatamente nelle mani della giustizia, la quale, se non gli toglie la vita, lo tortura e lo ro­ vina completamente. Di solito la famiglia del suicida ottiene, 79

in questo caso, il risarcimento dei danni e un indennizzo con­ siderevole; per questo, non è raro vedere degli sventurati, tra­ scinati da un atroce attaccamento alla loro famiglia, andare a suicidarsi stoicamente in mezzo a gente ricca». Mi son ricordato di questa pagina curiosa pensando al mio Borghese. Dal punto di vista strettamente religioso, il ri­ fiuto o l’assenza del desiderio della santità non differisce dal suicidio, perché al di fuori dello stato dei santi non c’è, a ri­ gore, che lo stato dei morti, dei veri morti che hanno dete­ stato le loro anime, dei morti eterni. Costoro si sono uccisi con l’intento di mandare in rovina i loro fratelli. L’uomo che dice volentieri·. «Io non sono un santo», compie spiritualmente lo spaventevole gesto del Cinese disperato. Ma poiché è nelle tenebre, crede di inciampare in uno scalino e inciam­ pa invece nell’abisso.

XLII Non mi reputo migliore di quel che sono Basta con le panzane, Borghese! Se non sei un santo, come è certo, non ti s’addice neppure l’umiltà. Non si tratta di farti migliore o peggiore, ma di essere quello che sei, sem­ plicemente. Orbene, tu sei bravissimo, senza merito e senza sforzo, per la sola eccellenza della tua natura. Un altro pas­ so, e sarai troppo bravo. Chi sa che non dispenserai il tuo danaro ai poeti! Ma lasciamo da parte queste cose. In genere, quando il Borghese dichiara di non reputarsi migliore di quello che è, po­ tete essere sicuri che non potrebbe rendersi peggiore, anche se lo volesse, e che medita, seduta stante, qualche cattiveria. — Sei spietato! — urlava un condannato a morte rivol­ to al carnefice che si preparava a tagliargli i capelli. — Non mi reputo migliore di quel che sono, — rispose con dolcissima voce il giustiziere. 80

XLIII

La parola è d’argento e il silenzio è d’oro Ecco un luogo comune che non potrà mai essere capito. Il colmo del ridicolo sarebbe sperare in un solo ascoltatore, dicendo, per esempio, che nella profondità del Testo sacro, la Parola e l’Argento sono sinonimi e che il silenzio tutto in oro è un’immagine della Vita eterna20. Sarebbe come chiedere la camicia di forza se si cercasse di far notare che è pericoloso volersi immischiare con Forme irritabili e forse inesorabili, come lo gnomo della favola te­ desca che accorre, col suo terribile potere, al comando di un temerario evocatore che non sa più sbarazzarsene21. Dunque non andrò oltre e mi limiterò a dire, senza spe­ ranza di essere ascoltato, che quel danaro adorato dal Bor­ ghese e per il quale questi vive esclusivamente, significa — come dire? — una Volontà misteriosa la cui energia di espan­ sione è incalcolabile e che però è soltanto la moneta dell’In­ dicibile designato da quel Silenzio d’oro, eternamente desi­ derabile e al quale sono inutilmente convitati tutti i borghesi. Quando il Signore dormiente del Profeta-Re si rigirerà sul suo letto di secoli, ci sarà un mutamento soprannaturale analogo a quello dell’inizio dell’Era cristiana. Quasi non si riuscirà più a vedere Gesù, la Parola sembrerà spenta, la Pre­ dicazione, un tempo apostolica, cesserà; mentre all’altra estre­ mità dei cieli apparirà la prodigiosa Faccia d’oro di Colui che s’è dato, in modo imperscrutabile, il nome di Silenzio... Ecco quello che dice, senza saperlo, l’esattore del mio domicilio quando allinea, nei suoi inespugnabili cassetti, le sonanti monete che ha arraffato.

20. Cfr n. 6, p. 43. 21. Si fa riferimento ^Apprendista stregone, personaggio di una ballata di Goethe. Il compositore francese Paul Dukas ideò un poema sinfonico (1897) sullo stesso argomento e che porta il medesimo titolo.

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XLIV

Mi son ben meritato il riposo Il signor Répandu è un padrone di casa e lo sa. Sa pure che ha la legge dalla sua parte. Ma lui ci tiene a ignorare i suoi inquilini, giacché il medico gli ha proibito le emozioni che sono ordinariamente effetto di arrabbiature. Pare che sof­ fra del gran simpatico. Per sfuggire ai lamenti e alle recriminazioni, ha un am­ ministratore dal cuore duro, un ex-usciere o praticante di no­ taio che sa il fatto suo e che viene ricompensato con un tan­ to per cento affinché tutto vada liscio. D’altronde, questa amministrazione non è una sinecu­ ra, perché il signor Répandu possiede molti immobili quasi tutti abitati da operai, ai quali ogni sabato bisogna, per così dire, strappare a volo il danaro. In quelle caserme c’è anche un buon numero di amabili ragazze il cui rientro in casa è approssimativo e le cui amicizie sono instabili. L’esazione dei fitti da quei personaggi è meno consolante che pericolosa. — Io sono il padrone e non voglio saper niente, — dice­ va il signor Répandu, dopo aver verificato le somme, un gior­ no che il suo amministratore gli si era presentato davanti con quattro denti in meno e una faccia che somigliava a un pae­ saggio di foresta di fine ottobre. Io mi son ben meritato il riposo. Che stupenda parola! Da circa trent’anni, da quando alla morte dei genitori era entrato in possesso della loro fortuna accumulata, a quanto si diceva, rubando, lo si era sempre visto a riposo. Un tentativo di darsi alla bella vita, al tempo della giovinezza, aveva disgustato questo giovanotto che ben presto amò il danaro d’un casto amore. Diventato uomo pratico, vede nelle passioni giovanili o senili soltanto ciò che di vantaggioso sa trarne un filosofo. Ha anche rimesso su, dalle rovine si può dire, e restaurato bellamente uno storico e centenario lupanare del tempo degli ultimi Capetingi, la cui rendita basterebbe a un Pari di Fran82

cia. Questo affare però non lo ha affaticato, e poiché egli parla continuamente del suo riposo ben guadagnato, la gen­ te si è ridotta a congetturare chissà quali fatiche anteriori che si perdono nella memoria degli uomini. — Il vostro Répandu — m’ha detto l’altro giorno uno che è sempre sintetico — è semplicemente un fantasma. Quel che lui chiama riposo è la morte. Voi sapete che ci sono persone che sembrano vivere mentre in realtà sono morte. E questo è il caso di tutti i vampiri che voi chiamate Borghesi. Credete che siano in piedi e gesticolanti; e invece sono sdraiati e immo­ bili. Siete convinto che parlino oppure profferiscano dei suoni e la pura verità è invece che sono al di sotto dello stesso silen­ zio, immersi nel più spesso strato melmoso del cattivo silen­ zio. Perché si manifestasse la loro sicura putrefazione, il loro spaventevole puzzo, basterebbe una semplice parola detta da un vivente. Quando un individuo vi parla di « riposo guada­ gnato», credetemi, fiutatelo con la più grande attenzione. Il mio interlocutore aveva ragione. Pochi giorni fa, ebbi a che fare con uno di questi morti, il quale non parlava nep­ pure di riposarsi, tanta era la paura di risvegliarsi. Fin dalla prima parola ebbi davanti a me e contro di me un vulcano di putridume, un Orenoco di sporcizia purulenta nel quale credetti quasi di affogare.

XLV Il danaro non fa la felicità, ma... Luogo comune di prim’ordine, che ha bisogno del per­ sonaggio che nella tragedia greca riceve le confidenze. Ci vuole qualcuno che aggiunga immediatamente: «Però vi contribui­ sce». E allora stiamo a posto. Quest’umile contributo, che contempera così bene la ma­ linconica rudezza d’una confessione che si potrebbe scambiare per una bestemmia, deve avere una efficacia singolare. È co­ me lo zucchero sulla coscienza o la pomata sul cuore. 83

— Sì, è vero, — ragiona profondamente il Borghese, — il danaro non fa la felicità, specialmente se manca. Certo, la fa quasi, ma non completamente. Bisogna convenire che ci manca qualcosa; ed è motivo d’una tristezza infinita assi­ stere a questa impotenza del danaro, che pur dovrebbe assi­ curare la felicità di coloro che l’adorano, perché esso è un vero Dio. Più d’una volta ho fatto notare che questo metallo, si­ gnificativamente deprezzato nella nostra epoca è, nel Sacro libro, una figura bene identificata del Verbo sofferente che è la Seconda Persona della Trinità divina: il Redentore22. Dunque dire che non fa la felicità è, per ogni cristiano, un’af­ fermazione audace fino all’empietà e, proprio per questo, è un luogo comune di provenienza cristiana. Ne trovo la con­ ferma in quella attenuazione d’un così bello stile che fa di Dio un contribuente dell’allegrezza degli imbecilli. Un pagano direbbe senz’altro: «Il danaro fa la felicità» e avrebbe spaventosamente ragione. Ma tu, sordido Borghe­ se, cosiddetto cristiano, su cui muoiono tutti i simboli della Vita divina, come le perle su un lebbroso, tu pensi certissi­ mamente che la moneta da cento soldi è beatifica, e allora perché mentisci? Che cosa potresti temere? La tua intelligen­ za delle Assimilazioni profetiche è insondabile, e non sarai tu ad aver paura di vedere apparire la Faccia sanguinante, a furia di invocare il danaro!

XL VI

Rientrare nel denaro speso

Da quello che si è appena detto, quest’ultimo luogo co­ mune ha qualcosa di eccessivo. Che cosa significa, in effetti, rientrare, se non entrare nuovamente in qualcosa o in qual-

22. Cfr. n. 6, p. 43.

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cuno da dove si era usciti? Si rientra in casa propria o in un guscio; si rientra in caserma dopo un giro nelle bettole del quartiere, fatto piuttosto spiacevole; si rientra perfino nei ga­ binetti, il giorno della purga, quasi subito dopo esserne usci­ ti, se il bisogno si fa di nuovo sentire impellente. Per finire si rientra in tutto quello che volete, a condizione, tuttavia, che i reciproci e necessari riguardi dovuti tra contenuto e con­ tenitore siano osservati. In modo metaforico, concepisco ancora che si rientri nel­ l’ordine, nel proprio soggetto, nella propria natura, ecc. E poiché supponiamo sempre una cosa che ne avviluppa un’al­ tra, potrei ammettere, spingendomi all’estremo, il fatto di rientrare nel nulla, cosa che appare dura. Ma rientrare nel denaro speso è al di sopra dei miei mez­ zi, si dovrebbe immaginare, spinti da follia, un qualcosa co­ me un fiume o un oceano di danaro dove si potrebbe fare il bagno a una data epoca dell’anno. La si chiamerebbe la stagione del danaro, come si dice la stagione di Trouville o di Evian. In questo caso, si potrebbe rientrare ugualmente nel danaro degli altri come nel nostro. Orbene, sembra che questo non si fa e non si dice. Per qual motivo? XLVII

Tutti devono vivere

Sarebbe puerile chiedersi che cosa intenda il Borghese per vivere. I romanzieri, che onora della sua fiducia, naturalisti o psicologi, hanno sufficientemente dimostrato che vivere con­ siste nel compiere tutte le funzioni digestive, dormitive o ge­ nerative attribuite alle differenti specie di animali, ma soprat­ tutto, nel guadagnare molto danaro, il che circoscrive essen­ zialmente la natura umana separandola da quella delle be­ stie. Anche prima di questi dottori, era ammesso che un uo­ mo che fa abitualmente abbondanti pranzi è un buon vivente. 85

Però, tutti è troppo. Non basta che viva il Borghese, e soltanto il Borghese? Nel linguaggio religioso molto differente dal suo, la pa­ rola vivere ha un altro significato; e lui lo sa bene. Ma che importa questa anomalia? Che dei pazzi o degli isterici si stu­ dino per dare la gioia a ciò che essi chiamano la loro anima, scegliendo di morir di fame, questo riguarda solo loro; ma che considerino noi altri BORGHESI, come carogne all’ulti­ mo stadio di putrefazione, è troppo comico. Sappiatelo una volta per sempre, pinzocheri e sacrestani, noi siamo più reli­ giosi di voi; e la prova è data dal fatto che ce ne infischiamo del Regno dei cieli e della Vita eterna!

XL Vili Tutte le strade portano a Roma Argomento invincibile a favore della rotondità della ter­ ra. Se esistesse una strada che non portasse a Roma, credo che avrebbe la preferenza, perché, in fondo, Roma è il Pa­ pa. Però questa strada non esiste. Tutte le strade immagina­ bili sono dirette a Roma. Impossibile sfuggire a questo ca­ polinea. Per fortuna, non si è costretti ad andare fino alla fine. C’è la possibilità di fermarsi a un crocevia e imboccare un’al­ tra strada che condurrà anch’essa a Roma, infallibilmente, ma passando per le Isole della Società o il Capo Nord, il che allontanerà il pericolo. Si potrà anche viaggiare così per tut­ ta la vita e percorrere a passo di quadriglia tutto l’orbe, at­ torno al Papa immobile, senza alcun inconveniente. Offro questo consiglio ai turisti sedentari, che durante la stagione morta, vorranno prendersi un po’ di divertimen­ to con le loro spose.

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XLIX

Parigi non è stata costruita in un giorno È possibile. Non so quanti giorni ci sono voluti per co­ struire una città così grande, però ritengo molto probabile che ce ne sono voluti assai. E per buona misura, la cosa non in­ teressa tutti gli altri. Ciò che importa per lo studio morale e filosofico del Bor­ ghese è il suo desiderio, continuamente espresso, sotto que­ sta forma, che Parigi non sia stata costruita in un giorno. C’è qualcosa che lo tormenta. Si potrebbe credere che niente gli è tanto indifferente. E invece no. Se Parigi fosse stata co­ struita in un sol giorno, quest’uomo sarebbe disperato. Ci ve­ drebbe un attentato, quasi indicibile al terra terra, al poco a poco, alla pacchianeria, insomma, una specie di miracolo. Però dobbiamo dire la verità. Parigi, com’è oggi, con il suo milione di case, evidentemente non ha potuto essere costruita in ventiquattro ore soprattutto se si tien conto della statua di Gambetta* e del Ponte Alexandre III che sono ca­ polavori che non richiedono fretta. Ma questa immensa Parigi ha avuto un inizio. C’è stato un momento in cui non esisteva nulla sulle due rive della Sen­ na, e c’è stato un altro momento consecutivo al primo in cui qualcosa esistette: un tetto di giunchi, una capanna qualun­ que fatta per resistere. In questo preciso momento, si può e si deve dire che Parigi era virtualmente, potenzialmente e quin­ di completamente costruita. Aggiungo che doveva essere as­ sai più bella, incomparabilmente, incommensurabilmente, fan­ tasticamente più bella. Ma come farmi capire? L La pioggia e il bel tempo

La meteorologia ha dovuto nascere in una drogheria. Si sa l’esattezza scrupolosa con cui questi stimabili negozianti, 87

ogni giorno e senza eccezione di persone ci fanno conoscere tutti i loro studi sullo stato certo o solamente probabile del­ l’atmosfera. A loro non sfugge nulla, né una nuvola, né un raggio di sole, né una tramontana, né uno zefiro; e tutti ne approfittano immediatamente. Mi stupisce la diligenza e l’infaticabilità di questi bene­ voli informatori. Essi informano mille clienti, e informereb­ bero anche il diavolo! — E dopo? — chiedete sorridento. E avete voglia di ri­ spondere impazientiti che non avete più bisogno di nulla. Ave­ te voglia di sbraitare tutto questo, accompagnandovi con ge­ sti furiosi. — Ebbene! sarà per la prossima volta — sospira­ no loro ugualmente affettuosi, e vi accompagnano fin sulla soglia dandovi gratuitamente un ultimo e, per quanto possi­ bile, favorevole pronostico. La pioggia e il bel tempo sono la risorsa universale che mai si esaurisce. «La nostra conversazione è nei cieli» ha detto san Paolo23. Parola meravigliosamente profetica che si può verificare, dopo diciannove secoli, trenta milioni di volte al giorno, non solo nella drogheria ma in casa di ogni Borghese. Ci sono alcuni che giungono fino a tarda età e muoiono circondati di rispetto, nel più avanzato rimbambimento, sen­ za aver mai parlato d’altro che di ciò che accade nel cielo.

LI Il fior fiore della gente perbene

Edouard aveva settantacinque anni e Rosalie sessantacinque. Ma le loro coscienze erano così pure da sembrar gio­ vanili. «Non dovevano dare nulla a nessuno»; «non aveva­ no mai fatto torto a qualcuno», e quindi, «non avevano nien­ te da rimproverarsi». La gente diceva di loro: Sono il fior 23. Epistola ai Filippesi, III, 20. Il vocabolo conversano viene, in que­ sto caso, generalmente interpretato e tradotto con «vita», «esistenza».

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fiore della gente per bene, e con questo si esauriva senz’altro la lode degli uomini. Edouard nascondeva le sue origini, come il Nilo. Dice­ va soltanto di essere stato domestico, poi tenutario d’una ca­ sa con camere ammobiliate in epoche e quartieri sconosciuti. Di questo passato gli restava una bonomia stanca, una cor­ dialità asmatica e quella specie di lamento pitocco dell’uomo caritatevole che si tocca la schiena gemendo, quasi stremato dal rendere servizio e immolarsi per tutti. L’abituale strizzatina d’occhio con cui sottolineava certe considerazioni facete, di cui voleva che si apprezzasse la fi­ nezza, era accompagnata da un inspiegabile movimento da ranocchio, dal basso in alto, sotto la parte laterale dell’epi­ dermide della sua vecchia faccia; e il brontolìo catarroso che si mischiava a tutto questo completava la fisionomia di que­ sto galantuomo che amava sentirsi chiamare signor Edouard. Rosalie o la signora Edouard era stata, per lo spazio di una generazione, cameriera di una marchesa; sì, mia cara, una vera marchesa, morta, ahimè! come tutte le cose buone, lasciandole delle vesti all’ultima moda nel secondo impero e, credo, anche qualche scudo: il che, aggiunto alle creste co­ scienziose di un quarto di secolo, l’aveva resa un partito con­ veniente, anche a quarantacinque anni. Perché fu questa l’e­ tà in cui il fortunato Edouard la sposò, avendo saputo toc­ carle il cuore con la sua figura di astuto ruminante. Estremamente oracolare e trasudante la saggezza delle na­ zioni, Rosalie somigliava a una vecchia bagascia di Enrico IV sopravvissuta alla monarchia. Dalla marchesa aveva preso an­ che quella meravigliosa aria di superiorità che non la lasciava mai confondere con la gente volgare; e i quattro scalini che bi­ sognava salire per entrare in casa degli sposi erano stati evi­ dentemente concertati per ostentare le sue magnifiche maniere. Non ho potuto sapere se quell’ex-crapulone del signor Edouard fosse stato un mantenuto di quella gran dama o se si fosse trattato di un episodio antecedente al loro matri­ monio. Ma, in caso affermativo, è certo che la sua presenza funzionò come un prodigioso incentivo sugli affari e confe89

ri il tono d’un lirismo aristocratico al monotono va e vieni dei bacili e delle insalatiere. Amanti tutti e due della natura, s’erano alla fine ritira­ ti un po’ oltre i bastioni, sulla via desolante e poco ampia d’uno dei nostri cimiteri suburbani. Dopo d’aver diviso in quattro una casa già piccola ed essersi ristretti appiattendo­ si come cimici, avevano potuto accogliere degli inquilini e realizzare così il loro più bel sogno. Ma, ahimè! nessuno può salire più in alto della sommi­ tà della piramide. Giunti là, non resta che discendere. Edouard e Rosalie s’erano imbattuti in un cattivo inquilino... Tutti sanno che un cattivo inquilino è colui che non paga esattamente una delle sue scadenze, anche se in precedenza ne ha pagate più di un centinaio, anche se ha salvato la pa­ tria trenta o quaranta volte. La stessa grammatica latina non insinua che Aristide fu un cattivo inquilino, dal momento che morì povero? In breve, il signor Edouard, da parecchi anni, aveva fittato la parte più importante della sua casa a un poeta. Avete letto bene: un poeta. Però era stato ingannato in modo odio­ so. Questo poeta s’era dichiarato scrittore e, naturalmente, papà Edouard commosso e trasudante di rispetto aveva cre­ duto di trovarsi davanti a un signore che faceva da segretario oppure da spedizioniere in qualche ditta. Lo aveva talmente creduto che anche la vista di parecchi libri che portavano il nome di questo preteso calligrafo e la lettura di parecchi arti­ coli di giornali dove veniva trattato come un’oscura canaglia e come un abietto imbecille — il che però è un marchio del genio — non avevano potuto fargli aprire gli occhi. Ci volle soltanto la miseria bruscamente visibile e la pro­ babile impossibilità di pagare una prossima scadenza per far­ gli cadere le bende dagli occhi. Fu un grave colpo. Il degno uomo si mise a sbraitare tanto più forte in quanto la moglie dell’inquilino era gravemente malata e aveva bisogno di un’immensa pace. Indubbiamente, l’inquilino non gli dove­ va ancora nulla; non ci mancava che questo. Però sebbene si sforzasse di essere l’uomo più compiacente del mondo, 90

non era di quelli che si fanno buttare fuori a pedate, ecc. Non si potè fare a meno di cacciar fuori quel fior di Borghese che la sola paura di non essere pagato rendeva simile a un inde­ moniato e che urlava come un porco sgozzato. Orbene, ecco esattamente quello che accadde sotto i miei occhi. La malata, impressionata da quella scena, cadde in un delirio spaventoso da cui parve non potersi riavere. Per mol­ ti giorni e per molte notti, vide quel vecchio e la moglie mas­ sacrare degli esseri umani e vendere la loro carne ai ristoran­ ti e alle salumerie. Fu questa una sua ossessione continua, esacerbata, ossessione d’una precisione, d’una intensità, d’una insistenza inaudite. Fu inondata, fino alla nausea e fino all’orrore corporale, dal sangue che facevano spiritualmente versare quei proprietari24. Più tardi ho capito che quella malata, più lucida dei chia­ roveggenti, aveva visto realmente il passato di quei servitori del Demonio nell’incommensurabile cliché fotografico che ab­ braccia tutto l’universo. Soltanto che, per effetto d’una tra­ sposizione che sono incapace di spiegare o di qualificare, ma la cui certezza è fulminea, lei aveva visto realizzarsi obietti­ vamente, nella loro vera forma, certi pensieri e sentimenti spa­ ventevoli. AVEVA VISTO L’ACQUA DELLE LACRIME MUTATA IN SANGUE!

Edouard e Rosalie sono stati fortunatamente sbarazzati del loro poeta. Non hanno perduto un centesimo, e hanno avuto anche l’abilità di graffignare, durante il trasloco, qual­ che oggetto. Come non dovrebbero essere amati dal cielo? Essi vanno d’accordo col loro parroco che li propone come esempio, e non devono nulla a nessuno, neppure alle Tre Per­ sone che sono in Dio!

24. Allusione a una delle tante disavventure avute dai coniugi Bloy con i loro numerosi padroni di casa. Nel 1895, la moglie dello scrittore era effet­ tivamente molto malata. Cfr. su questo argomento il luogo comune CXIX della prima serie.

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LU

L’onore delle famiglie

Un tempo, quando l’abolizione del significato delle pa­ role non era stata ancora promulgata, l’onore d’una fami­ glia consisteva nel fornire santi o eroi, o almeno utili servito­ ri alle società. E questo, sia che si fosse ricchi sia che si fosse poveri, con o senza antenati illustri. In quest’ultimo caso, si saliva naturalmente e semplicemente nell’aristocrazia, per la sola natura delle cose. Oggi l’onore delle famiglie consiste unicamente, esclusi­ vamente, nello sfuggire ai gendarmi. I borghesi illuminati concedono talvolta, dopo aver chie­ sto di riflettere, che la povertà, in un piccolissimo numero di casi che si guardano bene dallo specificare, possa non es­ sere disonorante, ma niente toglierebbe la vergogna d’una con­ danna giudiziaria, specialmente in provincia. Hanno voglia le ossa dei mariti di stare da secoli sugli altari, ha voglia la Chiesa di scampanare per le loro feste ed inondarli di gloria, il Borghese pieno di diffidenza vede in essi dei minchioni che si sono fatti acchiappare e stanno scritti nel casellario giudiziario. Una nipote di San Lorenzo non tro­ verebbe marito e un pronipote del Buon Ladrone non otterebbe mai un posto da duecento franchi in una ammini­ strazione. La ripugnanza del Borghese per il cristianesimo si fonda in gran parte sui suoi sentimenti d’onore, l’abbiamo detto ab­ bastanza. Non arriva ad andar d’accordo con una religione il cui «fondatore», dopo aver subito una condanna infaman­ te, è risorto il terzo giorno, per aggravare eternamente il di­ sonore della sua famiglia.

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LUI

I doveri del mondo «Ego non sum de hoc mundo»: Io non sono di questo mondo.25 Gesù Cristo non era UOMO DEL MONDO. L’ha dichiarato lui stesso. Dunque ci sono dei doveri al di fuori dei suoi e, per conseguenza, opposti a lui, e che si chiamano i doveri del mondo. Bisogna saperlo per comprendere la misericordia longa­ nimità che c’è nel sorriso del Borghese quando, per esempio, ascolta un sermone sulle ricchezze o sulla purezza cristiana. — Preferisco sentire questo piuttosto che essere sordo, — sembra dire con bonomia, pensando ai suoi veri doveri che sono quelli di sputare sulla Faccia del Salvatore e di cro­ cifiggerlo, ogni giorno, dopo un’indicibile flagellazione. LIV

L’abitudine è una seconda natura «Io ho la peste! Non è possibile che la peste sia la con­ seguenza dell’errore e del male; lo dite voi, non lo nego. È certo che sono sulla strada dell’inferno, e che tutto questo proviene dall’errore. È vero che m’annoio, che i sensi si fan­ no più deboli con l’età, e che arriverà la morte. Questo è un pensiero importuno. Tuttavia se Dio mi proponesse di lasciare per un istante queste cose noiose, monotone, bugiarde, moribonde e mor­ tali, che mi portano alla disperazione presente e a quella eter­ na, per cambiarle con la vita, con la gioia, con la beatitudi­ ne, mi rifiuterei; non lo ascolterei neppure! Me n’andrei a giocare un gioco noioso, dicendogli: — Vattene! Vattene, pa­ drone dell’estasi e detentore della gioia; vattene, sole che ti 25. Giovanni, Vili, 23.

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levi nella tua raggiera di porpora e d’oro! Vattene, maestà. Vattene, splendore! Vattene, tu che hai sudato sangue nel Giardino degli Olivi! Vattene, tu che ti sei trasfigurato sul Tabor! Vattene, io vado al caffè dove mi annoio. — E perché ci andate? — Perché ho preso l’abitudine». (Ernest Hello*, L’Homme, pag. 33).

LV Non c’è piacere dove c’è disagio Una notte, Forain* ricevette una bellissima gragnula di bastonate somministrata, con rinnovato vigore, da due guar­ die del corpo al servizio d’una principessa offesa di Rue Pigalle. Il caricaturista accarezzato dai mascalzoni confessò di non averci preso piacere, e per tutta la sua vita ne dovette restare contrariato se la vista d’un bastone, anche su un al­ bero, come m’è stato detto, gli conferisce un vivo senso di disagio. Mi sarebbe stato difficile, pensando a questo luogo co­ mune, non ricordarmi del personaggio e della sua avventura, la quale ha potuto ripetersi ancora molte volte, perché risale a più di dieci anni fa. Ma l’esempio non dice niente. I borghesi non sono re­ golarmente, invariabilmente bastonati, e ci sono dei commessi viaggiatori e degli uscieri che ritengono Forain un grande ar­ tista. Per la mia esegesi, è sufficiente far notare che la parola disagio, nei due sensi di malessere doloroso o di penuria fi­ nanziaria, è ugualmente esclusiva di ogni piacere. Per esempio, la santa legge del divorzio ottenuta da un marito tradito e che ha il privilegio di una gobba di cammel­ lo della Tartaria, è venuta a proposito a liberare la gaia na­ zione francese dal disagio degli indissolubili legami. Però il suo effetto si limita a questo, e i divorziati non ricevono da­ 94

naro per spassarsela: lacuna fastidiosa questa che sarà certa­ mente colmata, un giorno, da qualche legislatore gozzuto. — Inutile, non è vero? parlare delle scarpe troppo stret­ te o dei corsetti con le stecche di balena che si ficcano nello stomaco oppure dei foruncoli nel sedere oppure di qualsiasi altra peripezia che non lascia divertire la gente. In tutti i casi immaginabili, ci vuole il piacere, a qualunque prezzo, e non ci vuole mai il disagio — dice il Principe di questo mondo, padre del Borghese, nemico della Redenzione mediante il Sa­ crificio.

LVI Non c’è gioia senza dolore Senza dolore per gli altri, si capisce. Sarebbe troppo ob­ bligare il Borghese a comprare con un dispiacere personale un qualunque piacere. Esaminate bene le cose, questo luogo comune è identico al precedente. «Non ci sono rose senza spine», dicono anche i giovani, ambiziosi di esprimersi in ma­ niera poetica e originale: il che non significa proprio che essi si rassegnino alle punture che si possono ricevere cogliendo innocentemente la regina dei fiori. Il Borghese, maschio e femmina, non può essere capito se non ci convinciamo che oggi, essendo lui il padrone del mondo, qualunque cosa s’ha da soffrire la debbono soffrire soltanto i suoi schiavi, vale a dire tutti coloro che non sono borghesi come lui. Ora, tra gli schiavi, quasi innumerevoli, ce ne sono alcuni volontari. Ci sono, per esempio, le Carme­ litane e le Benedettine, spintesi talvolta sui monti della più alta aristocrazia, le quali hanno scelto liberamente la vita più dura affinché il Borghese non avesse a soffrire su questa ter­ ra, affinché questo spaventoso aborto del Prezioso Sangue, che non ha niente da sperare e non vuole niente sperare dal­ l’altra vita, potesse godere, almeno in questa, della pace dei bruti. 95

Egli ignora tutto questo; c’è bisogno di dirlo? e non lo capirebbe, anche se per un secolo un angelo glielo spiegasse. Tuttavia, lo presagisce in un certo modo e fino a un certo punto. Una specie di fiuto, che possiamo equiparare all’istinto degli animali, lo avverte che si lavora per lui, che si soffre per lui e che, in questo modo, si compie una certa giustizia sopra la terra, la quale un giorno lo farà urlare di terrore... Quando afferma che non c’è gioia senza dolore, questa sua frase rassomiglia all’ironia stupida e leggermente pazze­ sca del cattivo soldato che avverte benissimo che i suoi com­ pagni non si faranno uccidere eternamente per lui. LVII

Non si fa la frittata senza rompere le uova In questi termini il colossale Borghese Abdul-Hamid* do­ vette spiegare al suo buono amico e leale servitore Hanotaux* il massacro di due o trecentomila cristiani armeni. Però non l’invitò a mangiare la frittata. Gabriel, congedato con una magra mancia, si consolò alla meglio, poiché aveva grattato abbastanza, oso sperarlo, nella cassa del ministero, dove i suoi intrallazzi — dopo quelli di Richelieu — fecero tanto onore alla Francia. Ho conosciuto molto bene questo statista, e ritengo in­ finitamente probabile che la sua ammirazione per il Sultano non abbia fatto che aumentare. Le sue viscere di figlio di pic­ coli borghesi di Saint-Quentin hanno dovuto più che mai com­ muoversi per quel sultano che a quanto si dice possedeva pa­ recchie decine di milioni di rendita e immolava la popolazio­ ne di cinquanta città al suo miserrimo ed escrementizio tor­ naconto personale. Quando un Borghese parla di rompere delle uova per far­ ne una frittata, state certi che c’è qualcuno o ci sono alcuni che fanno subire inaudite vessazioni, e ci sono sempre degli Hanotaux* per applaudire. 96

LVIII

Non ho spiccioli Così risponde un grosso individuo tutto lustro a uno sventurato che implora cento soldi dopo aver chiesto inutil­ mente venti franchi. Non si tratta di un’elemosina. Il richie­ dente è conosciuto e promette il suo lavoro; che dico? ha già il suo lavoro, ma non può aspettare il giorno fissato per la riscossione del salario. Disgraziatamente, il sollecitato è un uomo «dai saldi principi» che non dà anticipi in danaro. Su questo è inesora­ bile. Si può fare un miracolo, ma non si domina un Borghe­ se di quella specie. La rigidità di un cadavere resiste alla Pre­ ghiera assai meno della rigidità dei suoi principi. Intanto, poiché l’insistenza è seccante, e l’uomo ha l’a­ ria di un disperato, e si trovano tutti e due in un luogo piut­ tosto deserto, ha rinunziato a parlare dei suoi principi e si limita a rispondere di non aver spiccioli. — Volete che ve li procuri? — chiede l’altro. Offerta spaventosa. Il Borghese crede di sentire la voce di un brigante che lo minaccia di morte. Intanto gli viene un’i­ dea. Dichiara di procurarseli lui stesso all’incrocio illumina­ tissimo che si profila alla fine della strada. Giunto là col suo compagno, indica costui a due guardie che lo afferrano im­ mediatamente. Il disgraziato dormirà in guardina, e i figliuoli piccolini che attendono il loro desinare ne faranno a meno, battendo i denti; perché questa tremenda cosa esiste. Chi non ha visto o non ha sentito i bambini battere i denti non conosce il fon­ do del dolore umano. L’uomo giusto, liberatosi e contento di sé, prende una vettura e se ne va a buttare il suo denaro in un ristorante not­ turno. Tutto procede benissimo. Ma ecco un altro pasticcio. Questa stessa notte, mentre lui si diverte, i suoi immensi can­ tieri prendono fuoco e, domani, i giornali stimeranno la per­ dita a seicentomila franchi. 97

Che pensare? Ci saran forse parole che incendiano sole, senza che intervenga una mano umana? L’uomo disperato è sottochiave e i suoi figliuoli si torcono dalla fame piangen­ do e battendo i denti nelle tenebre. Non sempre si potranno, accusare costoro di aver fatto il colpo. L’uomo dai saldi prin­ cipi farà bene in avvenire ad avere degli spiccioli. Non si sa mai. Dio conosce dei travestimenti, e il Fuoco prende molte forme. È un vagabondo che fa ciò che vuole, senza che si sappia donde venga e dove vada. Talvolta, cade dal cielo, co­ me s’è visto per Sodoma, perpendicolarmente. LIX Potrei essere vostro padre

Non sarà questo il più bizzarro di tutti i luoghi comuni? Per intravvedere la sua enormità, cercate di immaginare un vecchio ebreo prevaricatore e puzzolente che dica a Gesù: «Potrei essere vostro padre». Io ero prima di Abramo..., risponde Colui per mezzo del quale tutto fu fatto. Questa parola del Vangelo in bocca a un Uomo di tren­ ta anni che risuscitava i morti, nell’attesa di risorgere lui stes­ so, fa poca impressione alle anime cicliste del secolo ventesi­ mo. Ma la gente d’allora che si alzava sulla punta dei piedi per vedere il Maestro e camminava con le proprie gambe, do­ vette trovarla inaudita. In quel momento l’idea di paternità trasferita dall’uo­ mo a Dio e dal tempo all’eternità, appariva quasi inaccessi­ bile. Nonostante Abramo conservasse il suo nome, non si sa­ peva più chi era il padre, colui che aveva generato o colui che era stato generato. E questa sola incertezza trasformò tal­ mente l’umanità che il Cristianesimo divenne possibile. Pa­ ter noster Oggi che siamo cristiani dopo tante generazioni — e che orribili cristiani! — è sorprendente sentire una creatura che 98

pretende d’essere ragionevole e battezzata nel nome delle Tre Persone, dire, sia pure a un bambino e fosse lui stesso carico di secoli: «Potrei essere vostro padre» per esprimere stupi­ damente una differenza d’età, quasi che non si potesse mai sapere a chi si parla, e chi siamo noi, e come se quel condi­ zionale potesse avere un significato al di fuori di questo: — Sono io il Padre vostro, io il Buon Dio che vi parla; non abbiate dubbi su questo! LX

Si muore una volta sola Come se si dicesse: si vive una volta sola. Il che è trop­ po per un imbecille o un malfattore, ma questo non potrà mai essere il caso del Borghese. Sarebbe senz’altro interessante sapere che cosa questi in­ tenda per morire una o più volte. Ho già chiesto che cosa intendesse con la parola vivere, e la risposta è stata così poco soddisfacente che ne sono restato mortificato. Il Borghese è un furbacchione che dice solo quello che vuole. Non bisogna lamentarsi se è così, perché questa è la sua natura. Una cosa sola — oh, una cosa da nulla! — mi sembra chiara. Egli non vuole assolutamente andar d’accordo con l’A­ pocalisse, la quale parla di una «seconda morte». Ma tutti sanno che cosa bisogna pensare dell’Apocalisse. N’abbiamo abbastanza di quelle storie di laghi di fuoco, di pioggia di zolfo, di cavallette e di scorpioni, di baratri dell’abisso e del­ la bestia dalle dieci corna. Voltaire*, che oggi non si legge abbastanza, ha risposto trionfalmente a tutto questo e a molte altre cose nel suo im­ mortale, Dictionnaire philosophique. Con una inconcepibile nobilità di linguaggio, egli spiega il genio e, in genere, tutte le manifestazioni dell’anima umana, che prima si credevano effetti d’un soffio ispiratore, con l’estrema difficoltà di fare la cacca. Un efficace purgante, e Napoleone* diventa imme99

diatamente un imbecille. Immergetevi nelle evacuazioni di Voltaire* che non era uno stitico — ne rispondo io, — ve­ drete se questo non sia un morire due volte. Post-scriptum. — È inutile ricordare che Voltaire non era uno scatologico.

LXI

Beato lui, non soffre più! La Sacra Congregazione dei Riti, una delle ulcere più nere nel corpo del Papato, esige di solito immense somme. Un pro­ cesso di beatificazione costa circa duecentomila franchi. Il Borghese è beatificato per niente. Appena comincia a puzzare, i parenti e gli amici dichiarano senz’altro che è beato. È vero che non viene collocato sugli altari, ma lui non ci tiene. Per lui l’essenziale è essere beato, vale a dire non soffrire più nelle carne, perché per quanto riguarda l’anima non l’ha mai sentita. Ecco tutto; il processo è finito. Nessuna inchiesta sulle virtù del defunto e neanche sui suoi miracoli. Nessun bisogno di of­ ferte e di doni costosi o di bolle papali. Il primo vicino sosti­ tuisce benissimo il promotore, i giudici, i cardinali e il Sommo Pontefice. Quando ha pronunziato la formula, è chiaro che tutto è a posto e che il defunto non ha più nulla da temere. Il «progresso della scienza» è venuto in aiuto dei morti, liberandoli dagli orrori dell’inumazione prematura. Il forno cre­ matorio, più sicuro del Requiem, è spicciativo. Un tempo la gente temeva di svegliarsi al cospetto del Giudice terribile. Og­ gi invece si trema al pensiero di potersi risvegliare nella fossa, tra le quattro assi della bara. Nell’antica paura, non si finiva di pregare; nella strizza moderna, si è immediatamente al sicuro. Gli addetti ammucchiano le vostre ceneri, credo mescola­ te a carbonella e scorie, in un’urna inconsolabilmente etichet­ tata, su cui talvolta si legge arrivederci. E così, « non si ha più bisogno di niente», non si soffre più, si è «beati». 100

LXII È morto senza accorgersene

Ebbene, al Borghese non basta non soffrire dopo la mor­ te; ci tiene a non soffrire neppure durante la morte. Se gli fosse permesso avere uno stile, farebbe volentieri come quel­ la dama del diciottesimo secolo che per morire si ubriacò. Non so fino a che punto fosse consolante quella ubriacatura e co­ me potè accordarsi con gli spaventosi richiami del Sotterra­ neo. Ma l’espediente può sempre essere proposto. Insomma, a che cosa mira tutto ciò che fa o vuole il Bor­ ghese, se non a smentire la Parola di Dio o della sua Chiesa? «Dalla morte subitanea e improvvisa, liberaci, o Signore», dice la Chiesa nelle Litanie maggiori. Dunque, il contrario è desiderabile e deve sempre essere sperato, se non chiesto. Perché questo è il grande arcano del Borghese, il segreto del­ la sua forza, quella specie di reazione organica che determi­ na la sua essenza. Egli ci tiene assolutamente a non soffrire crepando. Per­ ché uscire con dolore da una vita che in fondo è fatta per esse­ re goduta fino all’ultimo respiro incluso e che dovrebbe essere una «incantevole passeggiata» come diceva Renan*, il filoso­ fo ventruto che fece una così bella fine, essendo morto, un bel giorno mentre se la spassava, sgravandosi della sua anima? LXIII

Si direbbe che dorma Difficilmente un povero cadavere esposto, d’un borghe­ se o d’un eroe, sfugge a questo luogo comune. Non basta morire, bisogna anche sentir questo. Quante volte e con che cipiglio l’ho sentito ripetere! Ma, o Dio, che sonno! Ne ho visti di cadaveri grassi, terrosi e foschi, già quasi corrotti, che erano terribili e miserabili come il cadavere della Stupidità. 101

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Ne ho visto altri, probabilmente di «beati» secondo il concetto borghese, ai quali le sofferenze dell’agonia avevano restituito il loro carattere di bestie, più o meno nascosto per tutta la vita dagli inutili moti delle loro anime. Ce n’erano alcuni che somigliavano a cavalli, a lupi, a maiali, a cocco­ drilli, a scimmie, a non so quali animali da incubo notturno. Uno di essi, e oso appena scriverlo, somigliava mostruosa­ mente a una cimice. Ho visto il corpo d’un grande poeta morto piangendo, e sul suo volto le lacrime avevano lasciato una doppia traccia. Ho visto quello d’un bambino simile a un capitano de­ gli angeli a cui fosse stato permesso di morire, il quale, con i pugni serrati e la bocca chiusa, pareva attendere con ferma risolutezza di essere chiamato. Infine, ho nella memoria il ricordo terribile di quel sol­ dato tedesco morto in un angolo del campo di battaglia, nel 1870. Non era caduto, perché era stato inchiodato da un ter­ ribile colpo di baionetta a una porta di stalla. L’arma, che s’era affondata profondamente nel legno, dopo aver trapas­ sato il petto dell’uomo, non aveva potuto essere estratta, e l’uccisore s’era limitato a disinnestare la canna del suo fuci­ le, lasciando agonizzare la vittima come un barbagianni. Non dimenticherò mai l’espressione d’orrore, di spavento e di di­ sperazione di quella faccia. Un giorno, un giovane Borghese mi mostrò suo suocero morto da parecchie ore, nella camera ardente. Le partecipa­ zioni erano state inviate, tutte le misure erano state prese, la sepoltura doveva aver luogo il giorno dopo. Era un vecchio ufficiale a riposo della buona epoca, un rispettabile e candido buon’uomo al quale volevo bene non tanto per la sua stupidità quanto per la sua dirittura morale. — Non ti pare che dorma? — mi chiese il genero. Mi venne voglia di prendere a schiaffi queirimbecille: ma, aven­ dolo guardato attentamente mi accorsi di trovarmi al cospet­ to d’una specie di demone. La sua gioia di erede di pochi soldi era evidente, nonostante i suoi sforzi. «Quando s’è morti, non se ne parla più», pensava certamente. 102

Dopo aver recitato internamente un De profundis, sta­ vo battendomela per sfuggire a quel vivente, quando il mor­ to portò la mano alla fronte e aprì gli occhi... Con un sangue freddo, che mi meraviglia ogni volta che ci penso, mi precipitai, spensi i ceri e feci scomparire tutto in un batter d’occhio. Poi, volgendomi al genero che aveva lanciato un grido e il cui grugno immobile mi sembrò simile a quello d’un cittadino degli inferi. — Andate a chiamare vostra moglie, — gli dissi — non vedete che ha finito di dormire?

LXIV È morta come una santa « La mattina del 25 ottobre, il Pellegrino la trovò atter­ rita e sconvolta. — Questa notte, — disse — ho avuto una orrenda visione che ancora adesso non riesco a cancellare dalla mia mente. Mentre ieri sera pregavo per i moribondi, fui con­ dotta presso una donna molto ricca, ed ebbi il dolore di ve­ dere che stava per dannarsi. Lottai con Satana davanti al suo letto, ma senza successo; ne fui respinta; era troppo tardi. Non posso dire la mia disperazione allorché il diavolo si pre­ se quell’anima e lasciò quel corpo curvo su se stesso e ripu­ gnante quanto una carogna. Non potei accostarmi; lo vidi dal­ l’alto e di lontano. C’erano lì anche alcuni angeli che guar­ davano. Quella donna aveva un marito e dei figli. Passava per un’ottima persona e viveva secondo la moda del mondo. Ave­ va un commercio carnale illecito con un prete, e questo era un vecchio peccato d’abitudine che lei non aveva mai con­ fessato. Aveva ricevuto tutti i sacramenti; si parlava della sua buona condotta e si diceva che era ben preparata. Lei però era in angoscia a causa del peccato tenuto segreto. Allora il diavolo le inviò una miserabile megera, sua ami­ ca, alla quale confidò le sue inquietudini. Ma costei la esortò 103

a tener lontano quei pensieri e a non suscitare uno scandalo; le disse pure di stare in pace per quanto riguardava le cose passate, di non tormentarsi adesso che aveva ricevuto i sa­ cramenti e aveva edificato tutti, di non fare delle supposizio­ ni e di andarsene in pace con Dio. Poi la megera ordinò di lasciarla sola e farla riposare. Ma la sventurata, così prossima a morire, aveva ancora Γ immaginazione piena di desideri che la portavano verso il prete complice del suo peccato. Quando io l’avvicinai, trovai Satana sotto la figura di quel prete che pregava davanti a lei. Lei però non pregava, perché agonizzava, piena di cattivi pen­ sieri. Il Maledetto le leggeva i salmi; e tra l’altro, leggeva que­ ste parole: Israele speri nel Signore, perché in lui è la miseri­ cordia e la redenzione copiosa, ecc. Egli divenne furioso con­ tro di me. Io gli dissi di tracciare una croce sulla bocca della moribonda, ma lui non potè farlo. Furono inutili tutti i miei sforzi; era troppo tardi; non si poteva arrivare fino a lei; e così morì. Fu una cosa orribile quando Satana portò via la sua ani­ ma. Io piangevo e gridavo. La miserabile megera tornò, con­ solò i parenti che erano presenti, e parlò della bella morte della sua amica. Quando me ne andai, passando sopra un ponte della città, incontrai alcune persone che andavano dal­ la morta. Mi dissi: Ah, se aveste visto quello che ho visto io, scapperete lontano da lei! Io sono ancora impressionata e tremo in tutto il corpo». Questa pagina è tratta dal terzo volume dell’incompara­ bile Vie d’Anne Catherine Emmerich, la veggente stimatiz­ zata di Dülmen, scritta dal padre Schmoeger, redentorista. LXV Bisogna rispettare i morti

È inutile rispettare i vivi, a meno che non siano i più forti. In questo caso, l’esperienza consiglia piuttosto di leccare le 104

loro scarpe, anche se lorde di escrementi. Però i morti devo­ no essere sempre rispettati. A eccezione degli artisti e dei poeti, per i quali la morte non potrebbe essere una scusa, i più atroci criminali hanno diritto a dei riguardi e anche a una certa venerazione, appe­ na hanno cessato di vivere. Perché? Forse perché sono di­ ventati «beati». È una risposta troppo facile. Cerchiamo un po’ più in profondità. Iniziando questa Esegesi, ho detto che il Borghese prefe­ risce continuamente e a sua insaputa certe parole assolutamente eccessive, capaci di scuotere il mondo. Dio però conosce che questa non è la sua intenzione. Però è così, ed io ho iniziato questo lavoro con la speranza di dimostrarlo. Dunque, ripeto, perché mai il Borghese afferma, con tanta ostinazione, che bisogna rispettare i morti, se non, forse, per­ ché, non riuscendo a discernere bene la morte dalla vita, come ho già detto avanti, ha un oscuro presentimento di rivendicare quel rispetto per se stesso e per i suo simili, che sono, con la loro grand’aria di vivere, i veri morti e i morti tra i morti?

LXVI I morti non possono difendersi Che stupidità oppure che ipocrisia! Come! ma essi di­ fendono proprio il rispetto che è loro dovuto e che non per­ mette di toccarli. Si può pensare una migliore difesa? Anzi questa è tanto più sicura in quanto una continua incertezza grava sopra di loro. Costoro hanno spessissimo, e non mi stanco di ripeterlo l’aria di vivere, e vengono sepolti in ma­ niera così buffa!... Cercate, per esempio, di andare a orinare contro la statua di Gambetta*, e vedrete immediatamente ad­ densarsi, coagularsi, condensarsi e finalmente apparire, sot­ to forma di una pazzesca repressione, tutte le sudice ombre interessate al prestigio di quella abominevole carogna. Per me, questo è difendersi. 105

I morti si difendono così bene che non c’è più modo di vivere. Col pretesto di ricevere il rispetto a cui pretendono aver diritto, riempiono le città e finanche i villaggi con la lo­ ro effige. Ben presto invaderanno anche le case dei cittadini ed io, sotto grave pena, io che vi parlo, mi vedrò costretto ad appendere alle pareti i nefasti grugni di Edouard Drumont* del dottor Maurice Peignecul26 e di Emile Zola*, detto lì Cretino dei Pirenei. LXVII

Non sono un servo io ovvero Quando si allatta Ero impaziente di arrivarci. Questo è il luogo comune a cui metton capo tutti i filamenti e tutte le ragnatele di pen­ sieri o di sentimenti che formano l’anima del Borghese pove­ ro. Il mostro si può riconoscere a questo segno. Perché an­ che lui esiste, ed è uscito dalla melma per divorare il Borghe­ se ricco, appena termina il settimo anno delle vacche grasse. Egli è brutto come Barrés*, a cui somiglia ma con un sentore di bassa estrazione. Buona educazione belga e zoticume accentuato. Inoltre, pretesa di pensatore e di una spe­ cie di onniscienza. Sappiamo che conosce abbastanza il gre­ co per tradurre all’occorrenza il codice civile o la tavola dei logaritmi in versi asclepiadei o coliambici. Conosce anche l’e­ braico, il siriaco poi non ha più segreti per lui. Quanto al san­ scrito, è la sua lingua. Però, non fa alcun uso di queste pre­ ziose conoscenze, e la gente se ne meraviglia. Lui non vuole sbalordire; basta che si sappia che le possiede. Le unghie, straordinariamente lunghe e tagliate come gli artigli dell’albatros, creano uno strano contrasto col labbro 26. Maurice Peignecul è il nome fittizio dato a Maurice de Fleury, me­ dico interno a Sainte-Périne. V. Indice dei Nomi.

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sempre pendente, con la faccia livida e gli occhi smorti. Un amico m’aveva consigliato di diffidare degli individui che han­ no l’alito puzzolente e i piedi sporchi; e questo è anche il ca­ so nostro. Io ebbi il torto di non star a sentire quell’avverti­ mento profetico. Il solo nome di Edgar non avrebbe dovuto farmi diffidare? Che volete? Credevo di dovergli qualcosa e spinsi la mia imprudenza fino a offrirgli ospitalità nella mia casa, sapen­ do che stava troppo in cattive acque. Quando mi volle far ben comprendere che non era un servo — il che accadde ben presto, — capii l’enormità della mia stupidaggine27. Ma era troppo tardi. Inoltre, che dire? aveva una patina religiosa... Quell’uo­ mo libero, imitatore e trascrittore infaticabile d’uno scrittore molto noto, era pieno di testi e di slanci. Infine, poiché non l’avevo mai visto, ignoravo gli effetti scoraggianti della sua facciata. E questo, soprattutto, mi sia di scusa. Aveva, ahimè! una compagna che rispondeva al nome di Raphaële e anche un bambino, una creatura disgraziata, votata, forse, a un’educazione omicida. Questa madre, una biondastra fiamminga dalla carne molle e bianca sotto una pelle sporca, dagli occhi color polvere, dallo sguardo sfug­ gente, dalla bocca ermetica d’una avara che ricordava le lab­ bra strette della Gioconda, era secondo me più odiosa del marito. Lui almeno non allattava·, si contentava di essere nutri­ to e d’avere una penna, perché si vanta continuamente di pos­ sedere una penna, una vecchia penna raccolta nel mio astuc­ cio e che lui spera di utilizzare contro di me. Ma lei, giusto cielo! lei era una di quelle donne a cui il fatto di dare il latte conferisce un grado superiore nella sti­ ma degli uomini. Col petto discinto, languida, con l’anima in pantofole, si trascinava soavemente, dal mattino alla sera,

27. L’episodio è autentico. Cfr. Léon Bloy, Journal, Paris, Mercure de France, MCMLXIII, t. II, p. 47.

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e aveva appena la forza di reclamare con una voce estenuata dal prodigio della sua insuperabile dignità le attenzioni e le riverenze che le erano dovute. Sarebbe stato il colmo dell’ingiuria proporle qualcosa da fare. — Non sapete che allatto? Mi prendete per una serva? — avrebbe risposto quella immobile stanga attaccata a uno sposo dotto. La sola idea sarebbe sembrata mostruosa e sa­ rebbe equivalsa alla folle azione di portare a cuocere dei pi­ selli secchi davanti al Santo Sacramento. Non cercherò di descrivere le estasi di Edgar. Era sem­ pre incantato d’avere una moglie che allattava e stava a guar­ darla, per tutto il giorno, col suo labbro pendulo, indignan­ dosi liricamente di non vedere affluire per lei e soprattutto per lui i piatti prelibati e i bocconi succolenti che aveva spe­ rato di trovare sulla mia tavola. Perché questo ellenista divo­ rava come si legge in Omero. Per tre mesi, accolsi e nutrii questa graziosa coppia. Pe­ rò fin dalla prima settimana, ne ero stufo. Ma si era d’inver­ no. Mia moglie, che ci avrebbe poi guadagnato le orribili ca­ lunnie con cui dopo la schiacciarono, mi supplicò di avere un po’ di pazienza, e noi avemmo pietà del bambino. Alla fine, Dio si ricordò di noi, e si compì un doppio miracolo. Quei pidocchi credendo di trovare di meglio ci tolsero l’inco­ modo, e dal cielo mi venne un sussidio per pagare le enormi spese fatte. Il mese scorso, Edgar, che io credevo nelle profondità del nadir, ricomparve per chiedermi, nel nome di Maria', una forte somma. Lo sanno tutti che sono un mendicante e che la gente ne abusa. L’espressione della mia sorpresa e la di­ chiarazione della mia impossibilità mi valsero immediatamente una lettera volgare, che conservo come un documento pre­ zioso per la storia del Borghese povero all’inizio del ventesi­ mo secolo. Disprezzare il pane ingozzato alla tavola dei poveri e ri­ cambiarlo con un fiotto di lordure in cui viene piamente in­ vocato il nome di Dio a ogni momento; essere appaiato a un’i­ diota che compie nient’altro che l’atto sublime del nutrire e, 108

con tutto questo, spingere l’eroismo fino a non essere un ser­ vo quando si è così santamente attrezzati per vuotare pitali e nettarli accuratamente: ecco le grandi linee di questo divo­ ratore della tua specie che ti minaccia, o ricco Borghese, e che viene dal Brabante per inghiottirti.!*)

LXVIII

Non ho bisogno di nessuno Dunque, sono Dio. È da sottolineare che questa è la con­ clusione necessaria di quasi tutte le parole del Borghese. L’ho fatto notare più d’una volta. I luoghi comuni entrano gli uni negli altri come i tubi d’un cannocchiale o come i vagoni d’un rapido tamponato da un treno merci. È divertente per lo spet­ tatore, ma fastidioso se ripetuto. La ripetizione è lo scoglio quasi inevitabile d’un libro di questo genere. Però spero di avere la forza di arrivare fino in fondo. Poiché non ho l’onore di essere Borghese, non mi costa nulla confessare che ho bisogno di tutti, a cominciare proprio dal Borghese che mi fornisce la materia e che, ap­ partenendo alla mia variabile specie, ricompensa con qual­ che diversivo l’osservatore attento.

LXIX I grandi dolori sono muti Il che vuol dire che il silenzio del signor Ignibus, celebre cappellaio che da poco ha sepolto sua moglie in un cimitero suburbano, dopo averla intossicata con gli scarti mal concia-

(*) Si veda il mio Fils de Louis XVI, al capitolo X, dove ho trattato a fondo il grave problema della Domesticità [n.d.a.]. Si veda il capitolo Les domestiques, tomo V, p. 137 [n.rf.c.].

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ti dei sombreri, esprime un dolore più grande delle Lamenta­ zioni di Geremia, che non contano meno di centocinquanta versetti, alti come le vette di quei monti biblici su ognuno dei quali ruggisce un leone. Su questo non c’è ombra di dubbio. Il Borghese che è un buon giudice del dolore, e ne siamo certi, perché nessuno meglio di lui sa infliggerlo agli altri, non ama le grandi lacri­ me che fanno paura, e i lamenti delle Ecube non gli piaccio­ no. È un uomo semplice. Anche a lui, come a chiunque, può accadere di essere un imbecille o una canaglia. È fragilità umana. Ma il suo do­ lore non può essere che grande e muto. Non può essere di­ versamente. Cercate di immaginare un fabbricante di tubi di caucciù, un costruttore di molle a spirale per materassi ela­ stici, un ingommatore di carta per lettera, un impiegato stra­ dale di prima classe oppure un architetto collaudatore che lan­ ciano orrende grida e sprofondano nel lirismo di Sofocle per piangere il trapasso d’una persona di famiglia! LXX «Quo vadis?»

Inseriamo qui questo luogo comune letterario che domani non esisterà più, ma che da alcuni mesi furoreggia con tanto accanimento. Oh! non è mia intenzione parlare di quello stu­ pido libro28, così duramente condannato dal suo stesso suc­ cesso e che viene unanimemente ammirato da cattolici e pro­ testanti: il che è, intellettualmente, la vergogna delle vergo­ gne. Abbiamo visto alcuni grandi citarlo dal pulpito!... Voglio solo raccontare un aneddoto. L’altro giorno, al­ la stazione di Lagny, due ecclesiastici appartenenti, credo, al­ 28. Il celebre romanzo di Sienkiewicz fu tradotto in francese nel 1900 e conobbe un successo enorme. Léon Bloy lo legge nel 1901 e annota pesan­ ti riserve sul testo nel Journal (cit., t. II, p. 67).

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l’intelligente diocesi di Meaux, si affrettavano davanti a me. Uno di essi, che aveva più fretta, si precipitò d’un tratto ver­ so un orinatoio. — Quo vadis? — gli gridò il confratello. Non sentii la risposta che del resto niera indifferente. LXXI

La più bella fanciulla del mondo non può dare che quello che ha Eravamo nei pressi di Sully-sur-Loire, braccati dai Te­ deschi. L’esercito francese, vittorioso fino a pochi giorni pri­ ma, si sfaldava su tutte le strade. Immensa sconfitta. Il fred­ do era terribile, esasperante. Quattro giovani appartenenti a non so quale reggimen­ to di linea, giunsero come lupi, una triste sera, in una casa isolata, vicinissima al bosco. Non sapevano più dove era an­ data a finire la loro colonna e non ci tenevano a saperlo, es­ sendo caduti in un disperato scoraggiamento a causa della fa­ tica, del freddo e della fame. Mangiare qualcosa e dormire in un luogo caldo: questa era la loro unica ambizione, il loro scopo supremo. Disgraziatamente, la casa nella quale erano entrati da po­ co spingendo soltanto la porta, non apparve come il luogo sognato. Sembrò loro che vi facesse più freddo che fuori, e l’esame piu minuzioso non fece scoprire né una crosta di pa­ ne né un pezzo di lardo né una patata né una bottiglia di vi­ no, nulla insomma di potabile o di commestibile. Il luogo era evidentemente abbandonato da parecchie settimane. Quella perlustrazione, è vero, fu fatta miseramente con qualche fiammifero e con un moccolo. Non c’era nessuna spe­ ranza di avere il fuoco, perché la legna e il carbone erano introvabili quanto le provviste, ed essi erano senza uno stru­ mento per spaccare gli infissi. Per un istante, pensarono di bruciare la casa, ma si accorsero subito che niente riscalda tanto male quanto un incendio e che dopo tutto il riparo di 111

quella bicocca valeva meglio dello spettacolo delle costella­ zioni. Inoltre, era prudente non farsi notar troppo. Non si sapeva chi c’era nelle vicinanze. Stanchi morti e più affamati che mai, si distesero su vecchi materassi duri come pietre da mulino, e cercarono di addormentarsi. Quel cattivo riposo non durò a lungo. La porta, che non avevano avuto la precauzione di chiudere a chiave, si aprì con violenza, ed entrarono tre grossi diavoli di franchi tiratori in­ seguiti a qualche distanza da una pattuglia bavarese coman­ data da un ufficiale dall’aspetto abominevole che faceva ba­ luginare sopra di loro la luce gialla della sua lanterna. Una scarica di fucili salutò la loro ritirata in quella misera fortez­ za. Mentre i dormienti in un batter d’occhio s’erano alzati, la porta fu chiusa, sprangata e barricata immediatamente. Fino all’alba, lunga a venire, furono lasciati tranquilli quei sette uomini che ebbero il tempo di conoscersi e che mo­ rivano di fame gli uni non meno degli altri. L’alba intirizzita s’annunziava appena, quando cominciò l’assedio. I poveri ragazzi cercarono di difendersi, ma che cosa po­ tevano contro una moltitudine? Il loro asilo fu ben presto for­ zato. Uno dei franchi tiratori, abbastanza protetto dagli an­ geli, fu sventrato con le armi in pugno. Gli altri, assediati in uno spazio troppo stretto e, d’altronde, estenuati dalle mise­ rie, si arresero. Il loro conto fu subito saldato. I Prussiani avevano pochi riguardi per i franchi tiratori o i combattenti isolati, e la fucilazione, allora, era l’ultima parola. Ecco dunque, semplicemente, quello che accadde. All’ul­ timo momento, il più giovane di quei disgraziati chiese come grazia il favore di mangiare un pezzo di pane prima di mori­ re. Il capo prussiano, personaggio d’una laidezza atroce, vo­ lendo provare di avere dello spirito, e anche spirito francese, mostrò con la mano i fucili del plotone di esecuzione e disse queste parole, seguite immediatamente dal segnale di messa a morte: — La più bella fanciulla del mondo non può dare che quello che ha... Quando un borghese mi parla della più bella fanciulla 112

del mondo, penso che non si sa che cos’è la morte e che quel povero giovane ha forse ancora fame dopo trent’anni.

LXXII Nessuno è tenuto all’impossibile

Napoleone*, il più grande spacciatore di luoghi comuni che sia esistito, ha dichiarato che la parola impossibile non esiste in francese. L’attuale generazione, assai meno epica, possiede un dizionario piu esteso. Al contrario di quanto ac­ cadeva nel 1805 o nel 1809, molte cose oggi sono diventate impossibili. Ma ce n’è forse una che possa essere tanto im­ possibile quanto il dare del danaro a chiunque e per qualun­ que motivo? Anche gli scatenati concupiscenti indietreggia­ no all’idea di far passare in altre mani il prezzo della vendita del loro Salvatore. 10 spero che mi sarete grati per l’aneddoto del tutto sco­ nosciuto che vi riporto qui di seguito: Circa venti o venticinque anni orsono, la Sacra Congre­ gazione dei Riti di cui si fa vanto la Chiesa romana e che non è affatto simoniaca, come si vedrà, richiese l’insignificante somma di 175.000 franchi, per occuparsi con profitto della causa di beatificazione di Cristoforo Colombo*. Ogni altro ostacolo era stato abbattuto. Seicento vesco­ vi avevano firmato il postulatum e il mondo ecclesiastico sa­ peva che questo atto di immensa giustizia, un tempo così ar­ dentemente voluto da Pio IX, che ne fu, due generazioni or­ sono il vero promotore, aveva rischiato di essere votato al­ l’unanimità dal Concilio del Vaticano. 11 richiedente, ormai morto anch’esso, avrebbe potuto pagare29. Era un uomo estremamente vecchio, quasi moren29. Il personaggio è il conte Roselly de Lorgues, studioso di Cristofo­ ro Colombo. Su Colombo e il suo progetto di beatificazione come Rivelato­ re del Mondo e sul conte Roselly, Cfr. Léon Bloy, Journal, cit., 1.1, p. 179; t. II, pp. 74-75.

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te giorno dopo giorno, ma immerso nello Stige borghese e reso invulnerabile a ogni spirito di rinuncia. — Perché non dovreste pagare? — gli domandavo nel 1892, epoca di festeggiamenti riconosciuti per il quarto cen­ tenario della scoperta dell’America. Sono ormai quarant’anni che vi adoperate per questa causa che è il vostro unico sco­ po. Adesso siete vecchio e senza figli, state per morire. Ne avreste abbastanza per sopravvivere onorabilmente fino alla fine dei vostri giorni, anche quando abbiate assolto le condi­ zioni di quei giudici infami. Non private di questa consola­ zione i vostri ultimi giorni. — Amico mio, — mi rispose con la sua voce flebile d’in­ setto prigioniero, nessuno è tenuto all’impossibile. È proprio perché sono vecchio che non posso farlo. Quando ero giova­ ne, non dico, ma adesso, ci pensate!... Poco dopo questo rifiuto che senza dubbio qualcuno aspettava, una serie di speculazioni sbagliate gli spazzava via, uno sull’altro, la somma complessiva di ben centosettantacinquemila franchi.

LXXIII Un uomo avvisato ne vale due

Dunque vi prevengo, caro signore: riceverete, in tale gior­ no, dodici dozzine di schiaffi e un uguale numero di calci, senza parlare dei piccoli ammenicoli che vi faranno danzare più piacevolmente. Non basteranno la rassegnazione e il co­ raggio di due uomini per sopportare tutto questo. Ora siete perfettamente in regola, perché siete stato avvisato in tempo. In realtà, sarebbe forse questo un bel modo di aumen­ tare gli effettivi in tempo di guerra o almeno di raddoppiare la costanza dei nostri soldati, e quindi anche la loro agilità, in caso di disgrazia. È un problema che va studiato.

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LXXIV Che volete! l’uomo è uomo

Quant’è grazioso e amabile Pilato quando viene messo di fronte alla considerevole moltitudine di coloro che si lavano le mani! Questa frase straripetuta da due decine di secoli mi fu servita l’altro giorno da un mite Borghese, che sembrava aver le mani pulite, come giustifica d’un Borghese feroce di cui avevo avuto la dabbenaggine di parlare con estrema indi­ gnazione. Egli non osava aggiungere come san Giovanni: Ecce rex vester, ecco il vostro re, perché il Borghese non rivela mai quello che ha dentro; ma come avrebbe potuto non pensarci nel segreto della sua coscienza? L’uomo che lui mi mostrava nell’indefinito era vestito della porpora del sangue dei deboli, e dalla sua orrenda co­ rona scorrevano lacrime di sangue. Orbene, non c’è che un solo uomo che sia veramente l’Uomo, ed è terribile evocarlo in quello stato, perché può accadere che non si distingua be­ nissimo Colui che assume da colui che è assunto e Colui che salva da colui che uccide. Che spaventevole situazione quella di un desolatore di anime disceso così in basso da non aver più l’aspetto d’un uomo se non mettendo su di sé con una mascherata senza nome, la spoglia lacerata, inesprimibile e venerabile di Gabbatila!30

LXXV

Col cielo ci s’aggiusta sempre Col cielo, può darsi; ma non col Borghese quando si trat­ ta di Molière*. Non permette che lo si tocchi. Tutto quello che volete, ma non questo.

30. Luogo situato fuori dal Pretorio dove Pilato si sedette per emette­ re la sua condanna contro il Redentore (Giovanni, XIX, 13).

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Profanate i santuari, le sante reliquie, il temibile Sacra­ mento dell’altare, però non mettete le mani su Molière. Questa legge è tanto più importante in quanto il Bor­ ghese non conosce affatto Molière. Egli sa in modo appros­ simativo che questo celebre uomo ha parlato moltissimo dei mariti cornuti — cosa che lo diverte, — e che è autore d’una commedia intitolata Tartuffe, nella quale è proclamata l’in­ famia della devozione. Egli è straconvinto che Luigi XIV, soggiogato da tanto genio, un giorno lo fece mangiare alla sua tavola, e tutta la corte ne restò ammirata. Credo che questo sia l’unico fatto del regno di Luigi XIV che sia capace di citare, ed è immor­ tale la sua gratitudine per quel pranzo che apprezza profon­ damente, come se fosse stato invitato lui nella persona di Molière! Al tempo della mia prima giovinezza, non più di trentacinque anni fa, Jules Vallès* fece una specie di plebiscito con­ tro Molière. Nella sede del settimanale, La Rue, diretto dal futuro agitatore, ci fu un registro dove ognuno era invitato a protestare energicamente contro il Misanthrope. Ricordo che fu suscitato un po’ di chiasso da parte dei giornali seri, ma ci furono pochissime firme. Il Borghese allora non domina­ va meno di oggi — cosa impossibile, — però era un po’ me­ no incolto e qualche volta leggeva. Non so se l’iniziativa di Vallès* adesso avrebbe maggiore successo. Però credo che la nostra epoca è assai più bella, perché è un tempo di fede. Vi si adora Molière* come gli ateniesi adoravano il Dio ignoto. LXXVI

Ci si conosce nell’altro mondo Poiché ci siamo, sbrighiamocela con quest’altro luogo comune sul cielo. C’è bisogno di dire che è un luogo comune di sacrestia? Ci si conosce in cielo, vale a dire che quando saremo in­ 116

sediati nel Luogo della Beatitudine — il che deve necessaria­ mente accadere per i borghesi e le loro mogli, — non saremo più esposti alla noia di provare la nostra identità a tanta gen­ te. Ci conosceranno, e noi conosceremo gli altri immediata­ mente. Questo farà parte della felicità sempiterna. Così si evi­ teranno i contatti con i nuovi ricchi e con i ficcanasi d’ogni specie i quali, non essendo stati borghesi sulla terra; avreb­ bero la pretesa e l’insolenza di esserlo eternamente nel cielo. Ma tutto questo sarà così ben regolato che non ci sarà modo di fermarvisi su un solo istante. LXXVII

I preti sono uomini come tutti gli altri «Come tutti gli altri» è certamente una cortesia. È certo che un uomo il quale pratica la continenza e ogni giorno dice messa è molto inferiore agli altri. Se il Borghese non fosse tan­ to buono, direbbe, con più esattezza e con maggior fermezza, che i preti non sono uomini come gli altri. Proprio il contrario. Ma conviene essere generosi e non schiacciare nessuno, poiché, del resto, il pensiero del Borghese non è un’automobile. E poi, non tutti i preti si somigliano. Grazie a Dio, ce n’è un gran numero che non hanno la testa tra le nuvole, che stanno per le cose serie, per il solido, per le comodità. Co­ storo fanno chiudere un occhio sugli altri. Possono essere ri­ cevuti, possono essere invitati a pranzo, possono sbrigare delle commissioni, recapitare pacchetti, insomma possono essere utilizzati; il che è alquanto diverso da quei guastafeste i quali parlano sempre di dignità sacerdotale. Ce ne sono altri che hanno una bella posizione e guada­ gnano molto. Prostrati davanti ai borghesi, naturalmente. Ma, per principio, lasciamo stare i preti. La vita è breve. E non dimentichiamo neppure che il luogo comune che qui ci inte­ ressa è una contro-verità, un’antifrasi carica di mistero, che può nascondere la morte. 117

LXXVIII Ognuno per sé e il buon Dio per tutti

La signora Plutarque, proprietaria dell’antica casa «Plu­ tarque e zio, cartoleria e oggetti di pietà», fa la sua medita­ zione quotidiana nella chiesa parrocchiale, alla presenza del Santissimo Sacramento. È una donna piissima. — Amabile Figlio dell’Onnipotente — dice, aiutandosi con uno di quei libri della Editrice Marne o Poussielgue di cui non c’è da fare elogi — o dolcissimo Maestro venuto in questo mondo per cacciarne il peccato, abbiate pietà di colo­ ro che vivono in questa sozzura e gemono nell’ombra della morte... Vi chiederei anche di mandarci un po’ più di gente in occasione del Giubileo. Questo sarebbe il momento, o mai più, di sbarazzarci dei vecchi scapolari che cominciano a tar­ larsi, e voi sapete che ne abbiamo parecchi... Agnello senza macchia che vi immolate per i peccatori con tanto amore, abbiate pietà del loro stato e liberateli dal­ la schiavitù del demonio per merito della vostra offerta... Te­ mo d’aver fatto una richiesta eccessiva di acquasantiere di bi­ scuit. Ci sono clienti che si lamentano che costano troppo; ma è un articolo conveniente, che non posso però vendere a minor prezzo; ci sarebbe da andare in fallimento. Per for­ tuna che sono cose che si rompono subito e sono sempre ne­ cessarie. Ci si guadagna sulla quantità... I nostri peccati, o divino Salvatore, hanno armato i vo­ stri carnefici degli strumenti del vostro supplizio... È vero, gli affari sono affari e non si sbarcherebbe il lunario se si re­ galasse la merce. Inoltre c’è la stagione morta in cui non si vende neppure un catechismo o una bottiglia d’inchiostro o una risma di carta. Se si vende, di tanto in tanto, un roman­ zetto un po’ libero, una porcheriola, un innocente giuoco di carte più o meno trasparenti, o Dio! questo riguarda i com­ pratori. D’altronde, non vendo queste cose, voi lo sapete, se non a uomini seri e d’una certa età. Che c’è di male? Ah, dolce Gesù, non mettetevi mai in commercio. 118

Questo mistero ci insegna la mortificazione corporale. I santi si sono disciplinati sanguinosamente per imitare il Sal­ vatore flagellato. Oh! non rende più il commercio delle di­ scipline! Se vendiamo qualche vecchio cordone di san Fran­ cesco, è tutto. Per i cilici, non ce n’è più bisogno; lo capisco. Avevamo qualche vecchio cilicio che dicevamo appartenuto al Curato d’Ars*, come generalmente si fa nel nostro mestie­ re. Abbiamo penato tanto per disfarcene che abbiamo rinun­ ziato a chiederne altri... Lo riconosco, o Gesù, la vostra morte ha distrutto in me il peccato. La vostra resurrezione mi ha liberata dal sepolcro dei vizi, dove dormivo da tanto tempo nel sonno della mor­ te... In effetti, la nostra casa si allarga, nonostante tutto. Il fabbricante di supposte di glicerina non fa più affari e se non ci cede a metà prezzo il suo contratto d’affitto vuol dire che ci s’è messo di mezzo il diavolo. D’altronde è un partigiano di Dreyfus* e noi l’aiutiamo, per quanto possiamo, a dichia­ rare fallimento. Sarà un pane benedetto. Quanto a sua figlia, tisica, fate bene a prendervela. Abbiamo cercato di farle del bene e siamo stati malamente ricompensati. Il padre ci ha ac­ cusato di uccidere la figlia costringendola in piedi per tutta la giornata nella nostra bottega, quasi che fossimo responsa­ bili delle malattie del prossimo. Ognuno per sé e il buon Dio per tutti. E quando lei non è stata più capace di lavorare, noi l’abbiamo sbattuta via, com’è giusto. Non avreste fatto altrettanto, o mio Redentore? Adesso, mi calunnino pure fin­ ché vorranno, io saprò portare la mia croce fino alla fine, con l’aiuto della vostra grazia. L’amore del mio Dio deve ba­ starmi in questa valle di lacrime e nella beata eternità. Così sia!

LXXIX

Andarsene tranquilli per la propria strada «Alessandro il Grande, dopo sette anni d’un assedio ser­ rato, conquistò l’imprendibile città di Tiro. Per punirla di que­ 119

sta resistenza, fece crocifiggere duemila abitanti sfuggiti al fu­ rore dei soldati. Dopo di che, continuò tranquillo per la sua strada verso l’Egitto.» Così parlava, circa quarant’anni fa, al liceo di Périgueux, un degno professore di storia, al quale facevamo, quasi ogni giorno, certe terribili burle di cui appena s’accorgeva. Quel «continuò tranquillo per la sua strada» mi è resta­ to nella memoria col nome di Alessandro, e il volto di quel sapientone è come una specie di mastice. Non è stato più pos­ sibile separarli e, per il fenomeno dell’associazione e della fi­ liazione delle idee, non posso sentire questo luogo comune senza vedere i più eroici personaggi svignarsela con passo leg­ gero, dopo aver compiuto qualche grandiosa furfanteria. Napoleone*, per esempio, dopo la Beresina; o, se prefe­ rite, l’amabile Nerone che era soltanto un imbecille, padrone del mondo e che se n’andava anche lui tranquillo per la sua strada fiancheggiata di cristiani ridotti a torce di fuoco, co­ me è stato raccontato da Tacito, ut cum defecisset dies, in usum nocturni luminis urerentur.ìx Il Borghese, a sua volta erede e successore di questi or­ rendi personaggi, se ne va tranquillo per la sua strada che porta alla morte ed è illuminata dagli stronzi.

LXXX

Non valere quanto il diavolo Quale persona onesta pretenderebbe di valere quanto il diavolo? Pensate che il diavolo, per quanto diavolo, è un an­ gelo e capo di un gran numero di angeli. Se un ingegnere del Genio Civile31 32 o un brigadiere dei gendarmi intendesse dire con queste parole che non si vale gran che o niente, si sba­ 31. «... e quando il giorno venne meno, essi rischiararono le tenebre con le torce», Annali, XV, XLIV. 32. Cfr. n. 2, p. 26.

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glia enormemente. Affermare che un individuo è meno ricco d’un miliardario, non implica che si trovi in necessità. Si può non valere precisamente quanto il diavolo e tuttavia capita­ lizzare senza fatica il valore morale e intellettuale d’una infi­ nità di borghesi. Che dire poi di uno che valesse quanto il diavolo?... Bisognerebbe stare attenti a quel che si dice. Il diavolo non ama che si facciano paragoni con lui, anche se per di­ chiarare che non si vale quanto lui; e ci sono parole che lo fanno accorrere. «Quando non parliamo a Dio o per Dio, ha detto uno scrittore poco noto, parliamo col diavolo e questi ci ascolta in un formidabile silenzio...»33

LXXXI

Lamentarsi che la moglie è troppo bella ovvero Non essere mai contento Cercate di far capire ai borghesi che in realtà ci può es­ sere motivo di lamentarsi e che l’eccessiva bellezza d’una mo­ glie può avere degli inconvenienti! Ma, quanto sono lontani da questo timore e da questo rammarico! Essi hanno biso­ gno di mogli di una bellezza perfetta. Basta guardare d’attorno. È incredibile, inquietante, sconvolgente! Non so dove questi porci siano andati a cercare le loro mogli. Ordunque, essendo naturalmente insediati all’interno del­ la bellezza, essi vedono soltanto la bellezza, non pensano che a lei. Un qualunque affare diventa per loro una moglie che de­ ve essere bella, che non può mai esserlo troppo, e sembre­ rebbe mostruoso che altri si lamentassero di lei, soprattutto quando questi altri sono sul punto di essere completamente depredati. 33. Lo scrittore sconosciuto e misconosciuto è senza dubbio Léon Bloy.

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Ci sarà un giorno una Sposa, il cui avvicinarsi farà scric­ chiolare le porte del cielo e sarà così bella che non la si potrà distinguere dalla folgore. È Colei di cui sta scritto che «ride­ rà nell’ultimo giorno». Essa sarà presentata come il Giudi­ zio di Dio e nessuno avrà il tempo di lamentarsi. Ma come immaginare un Borghese capace di prevederla?

LXXXII Ammazzare il tempo C’è bisogno di dire che nella retorica del Borghese am­ mazzare il tempo significa semplicemente divertirsi? Quando il Borghese se la spassa, il tempo vive o risorge. Lo capiate o no, è così. Quando il Borghese si diverte, si entra nell’eter­ nità. I divertimenti del Borghese sono come la morte.

LXXXIII Avere sempre la battuta pronta

Tra le persone che di solito hanno sempre pronta la bat­ tuta, si citano volentieri gli addetti delle pompe funebri, i guardiaciurme, gli uscieri, i chirurghi, i carnefici. Pare che lo esi­ gano i loro mestieri onorevoli. Villiers de l’Isle-Adam*, che aveva la fregola di frequen­ tare le esecuzioni capitali e che i signori della ghigliottina con­ sideravano come un intelligente amatore, affermava d’aver udito un giustiziere dire a una delle sue vittime, battendogli allegramente la spalla, dieci minuti prima dell’esecuzione: «Ho tali riguardi per voi, amico mio, che ben presto finirò per mancarvi di riguardo». Gli offriva così una di quelle piccole cortesie di cui i boia hanno il segreto. Villiers aveva ancora nell’orecchio la raga­ nella di quella voce di tagliateste e affermava che era irresisti­ bile, comunque voglia intendersi questo aggettivo qualificativo. 122

LXXXIV Assicurare l’avvenire ai figli

Dopo tanto tempo che i padri s’interessano all’avvenire dei loro figli, non è strano che i figli non pensino all’avveni­ re dei loro padri! Chi dunque faceva notare questo, e di quale avvenire questo anonimo intendeva parlare? Il Borghese si me­ raviglia degli interrogativi posti a questo modo; ma che c’è di più semplice? Bisognerebbe prevedere il caso in cui un pa­ dre fosse stato generato da suo figlio. Invano da essi il sangue m’ha fatto discendere; se scrivo la loro storia, essi discendono da me'4 Questi versi di sapore corneliano, oggi quasi dimentica­ ti, consolavano col loro splendore il poeta-gentiluomo, Al­ fred de Vigny, della disgrazia di non essere nato bottegaio per lasciare, a sua volta, una clientela a dei figli ricchi e cretini. Il Borghese, più fortunato, si felicita in altro modo. Per quanto riguarda i suoi antenati, non saprebbe né discender­ ne né superarli. Tutto il suo casato, da secoli, conserva un’o­ rizzontalità assoluta nella piattezza geometrica del luogo più basso, e questa situazione è assicurata in avvenire, salvo un miracolo, a tutti quelli che potranno discendere da lui. Salvo un miracolo, s’è visto. Un essere d’eccezione può sempre spuntare fuori da una tale alluvione di immondizie. Ma questo discendente quale avvenire può dare ai padri suoi? Lascio la fenomenale ridicolaggine del problema a quei miei lettori che furono generati sulle gioiose colline.

34. Alfred de Vigny, “L’Esprit pur”, in Les Destinées (1826), fine della seconda strofa.

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LXXXV

Fare onore alla firma o agli affari La parola « affari » mi turba sempre. Fin dal principio di questa Esegesi, ho cercato di dirne qualcosa, ma sono riu­ scito soltanto a manifestare la mia impotenza. In questa pa­ rola schifosa ciò che mi pare particolarmente odioso è il suo mistero. Impossibile penetrarvi. «Fare onore alla propria fir­ ma» è una di quelle frasi che sono più ripetute e certamente meno comprese. Che c’entra qui l’onore? Lo chiedo ai dotti. Fare onore a qualcuno è una locuzione intelligibile. Per esempio: Ci si fa in quattro per dimostrare a un pirata che si ha per lui una stima e una considerazione profonda. Onorare le canaglie che possiedono danaro o autorità, è la legge della coscienza bor­ ghese. Ma fare onore alla propria firma o agli affari è un’af­ fermazione difficile. So quanto voi che, in una lingua inintelligibile ai puri spiriti, significa pagare una cambiale, un assegno o simili por­ cherie. So anche che un tenutario di bordelli, un avvelenatore dei poveri, un usuraio al centocinquanta o al duecento per cento fanno onore ai loro affari quando pagano esattamente le loro scadenze. Ebbene, che dire! questo modo di mettere in risalto una desolazione di tal fatta mi sconvolge. LXXXVI

Fare un buco nella luna ovvero Squagliarsela senza pagare Farsi un proprio buco ovvero Farsi una posizione

Identici nell’Assoluto, identici nell’Infinito. Non si dirà mai: Fare un buco nel sole, nella terra, su Marte, su Venere. 124

Soltanto nella luna si fanno i buchi, soltanto nella luna si fa il proprio buco; e la luna, a dir la verità, non è che un vasto sistema di buchi e di caverne profonde. Questa almeno è la testimonianza di un romanziere in­ glese contemporaneo che è stato assai fortunato, in questi ul­ timi tempi, per aver avuto l’occasione assolutamente unica di visitare la luna. Egli ne ha riportato anche enormi lingotti d’oro puro che tutta Londra ha potuto ammirare. Si sa che su quel satellite l’oro è a fior di luna e ha un valore irrisorio come quello delle pietre (*). Così si trova sperimentalmente convalidata, dopo tante generazioni di cassieri, la metafora borghese d’un passaggio fortunato attraverso la luna, quando uno se la svigna por­ tandosi via il danaro degli altri. Così, con una precisione che oserei dire astronomica, si dimostra l’inerenza dell’idea di bu­ co all’idea generale di prosperità umana. Il Borghese ha vi­ sto giusto, come sempre; però questa volta ci precipita nei cieli.

LXXXVII

Tenere il piede in due staffe^ Il signor Besoin capì; tanto più che uno schiaffone sba­ lorditivo sottolineò la perorazione. Mai l’altro luogo comu­ ne «delle trentasei candele» o di «veder le stelle» era stato

(*) H.-G. Wells, Les Premiers Hommes dans la Lune, tradotto dal­ l’inglese da Henry-D. Davray, Paris, Mercure de France. 35. Nella traduzione del titolo di questo luogo comune, abbiamo pri­ vilegiato l’argomento trattato e non il suo significato. In realtà, Brûler la chandelle par les deux bouts, corrisponde invece a «vivere troppo intensa­ mente», ossia «logorarsi con una vita disordinata».

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così tanto giustificato, perché i muscoli di chi aveva allunga­ to il ceffone valevano quanto la sua dialettica. Il signor Besoin è uno di quei pensatori la cui libertà me­ raviglia gli animali domestici. La sua impresa più originale è stata quella d’aver abbandonato Dio, come fan tutti, all’e­ poca illuminativa della sua pubertà. A quel punto, poche co­ se gli furono nascoste. Vissuto lontano dal mondo sacerdo­ tale, egli conosce i preti, si capisce, e sa esattamente che pen­ sare delle loro macchinazioni. Il signor Besoin si nutre golo­ samente del diciottesimo secolo e passa, nel capoluogo di pro­ vincia, per un’intelligenza di primo piano. Parla volentieri dell’Inquisizione, della notte di San Bartolomeo, della Revo­ ca dell’Editto di Nantes, ecc., con frasi che nel 1820 sembra­ vano scoperte, e si scaglia con violenza contro il fanatismo di due o tre poveracce di vecchie devote che frequentano as­ siduamente la parrocchia. Si aspetta l’occasione per fare di quest’oratore un depu­ tato. Soltanto lui potrebbe farla finita con la religione, se an­ dasse al parlamento! Certo, è già qualcosa che si siano espulsi moltissimi religiosi e religiose. Lo stomaco di quest’uomo di Stato si dilata al pensiero che le penitenti del Carmelo e le suore ospedaliere dei poveri sono ormai sulla strada e senza pane. Però che debolezza nell’esecuzione del decreto! che ti­ mida cautela! che mancanza di decisione! che impotenza! quando si trattava di spazzare via tutto in un batter d’occhi... Il signor Besoin era a questo punto del suo discorso, al centro del Café du Commercé^, quando il sacrestano, uo­ mo focoso venuto per bere qualcosa di fresco, gli chiese bru­ scamente se voleva «chiudere quella boccaccia». L’oratore interdetto e soffocato, non rispose. — Parlo io per voi, — riprese il sacrestano, adesso è il 36. Molti episodi del testo sono ambientati in caffè e mescite di liquo­ ri. Sono la spia di una scelta e di un costume letterario del tempo, poiché Léon Bloy appartiene a quella generazione di scrittori che privilegiano que­ sti luoghi di ritrovo.

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mio turno. — Devo dirvi innanzitutto che siete un imbecille e che tenete il piede in due staffe. Qui sbraitate dalla mattina alla sera, e spesso fino a mezzanotte, contro i preti, contro la Chiesa, contro le cerimonie, contro le campane il cui suo­ no vi esaspera come se foste un demonio, e inoltre contro i religiosi e le religiose. E intanto, avete due figlie a Parigi nel collegio delle Visitandine. Là suppongo che usiate un al­ tro linguaggio. Notate bene, me ne infischio. Però, ritengo indecente contraddirsi a pochi* minuti d’intervallo, giusto il tempo d’andare a Parigi e di tornare. È rivoltante mentire continuamente agli uni e agli altri come fate voi, con l’inten­ zione di infinocchiare tutti. Meno male che mettete insieme il piede nelle due staffe, ve lo ripeto, perché siete un perfetto idiota; e non temo di rinfacciarvelo io, Charlemagne Dasconaguerre, ex-maresciallo dei corazzieri di Reischoffen e di­ ventato sacrestano, servo vostro... Poiché il posto dove stavo in quel caffè non m’offriva un buon colpo d’occhio, non potei vedere come lo schiaffo aveva seguito l’arringa, e che schiaffo! Il signor Besoin ave­ va mostrato disprezzo oppure aveva accennato un gesto? Sta il fatto che ne restò smandibolato.

LXXXVIII Vendere la pelle dell’orso... Sì, lo so, non bisogna venderla. È un consiglio. Vendete qualunque pelle, se trovate un compratore, s’intende; ma non vendete mai quella dell’orso, e soprattutto quella dell’Orsa Maggiore. Pare che questa operazione commerciale sia peri­ colosa. Del resto, è l’unica volta che il Borghese consiglia di non vendere; ed è una eccezione importante. Tuttavia c’è qualcosa di poco chiaro. Se questa pelle non si deve vendere, secondo me non deve neppure essere dona­ ta, perché l’azione del donare è la cosa più contraria alla men­ talità borghese. Dunque bisognerà conservarla; il che è un bel­ 127

l’affare. Però questo luogo comune imbarazzante è ipoteti­ co. Le autorità assicurano che sarebbe lecito a chiunque ven­ dere la pelle d’un orso se è stato lui a ucciderlo; ma questa è una cattiva facezia. Il Borghese vuol ridere.

LXXXIX

Perdere le proprie illusioni È il primo articolo del programma. Dovrebbe essere l’u­ nico, talmente abbraccia tutti gli altri. Un Borghese che non avesse perduto le sue illusioni somiglierebbe ad un ippopota­ mo con le ali. In fondo, le illusioni sono l’unica cosa che non può essere digerita. Gli allevatori di animali non si sbaglia­ no. Un’illusione non varrà mai un sacco di patate per ingras­ sare i porci. Certo, ma anche qui c’è una difficoltà. Che cosa bisogna intendere per illusione? Ci sono delle illusioni particolari per i borghesi e altre che riguardano sol­ tanto gli eroi e i poeti? Un grande artista che, per esempio, credesse che bisogna «scegliere una carriera», come dice l’in­ tramontabile Hanotaux*, oppure che lo zucchero di barbabietola non vale meno, a peso uguale, del Mosè di Michelan­ gelo, avrebbe sì o no le troppo generose illusioni che biso­ gnerebbe perdere? Un commesso del monte di pietà al quale ho rivolto que­ sta domanda mi ha chiesto se intendevo burlarmi di lui. Aveva ragione. La risposta non è senza pericolo.

XC Soffrire le pene del martirio Soffre le pene del martirio, soffre come un martire. Tutte le volte che un Borghese, prima di crepare, espia le porcherie della sua vita, è un martire. Questo è certo. E così ogni volta 128

si disonora una parola e un’idea che sono degne di ammira­ zione. Un tempo, martire significava testimone, e i martiri sopportavano volontariamente e di buon grado, orribili tor­ menti per rendere testimonianza alla Verità crocifissa. Oggi tutto è cambiato. Il martirio dell’Appaltatore, molto differente da quello delle Vergini, consiste nel soffrire, suo malgrado, urlando e bestemmiando fino a una morte puzzolente, che sarà una bella liberazione per la sua famiglia e dopo la quale non manche­ rà di essere proclamato «beato». Mi sembra difficile poter applicare alla sua persona il Semen christianorum del terribi­ le Padre Africano37. Le secrezioni e il pus di questo valetu­ dinario sarebbero piuttosto capaci di produrre una peste. Tuttavia ci sono frasi che non conoscono più il riposo che il perdono, frasi più che umane le quali vagano come lu­ pi attorno a coloro che ne fecero abuso. Queste frasi si tro­ vano nella necessità invincibile di esprimere, in qualunque mo­ do e a qualunque prezzo, una realtà indiscutibile. Se quest’uo­ mo non è il testimone volontario di Colui che è, deve essere inevitabilmente l’involontario e fantomatico assistente di Colui che non è, il quale vuole anche lui i suoi martiri.

XCI

Seppellirsi nel chiostro Questo luogo comune fa parte del piccolo numero di tro­ pi ricevuti dall’educazione più o meno cristiana che si impar­ tiva, fino a una quarantina d’anni fa. In genere, ci « si sep­ pellisce nel chiostro » dopo aver « bevuto il calice fino alla feccia », « portato una pesante croce », « salito il proprio cal­ vario ». Ho conosciuto uomini brillanti che erano « croci­

37. Si tratta di Tertulliano, apologista cristiano nativo di Cartagine. V. Indice dei nomi.

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fissi » in modo abbastanza regolare. Ma il seppellimento nel chiostro è l’ultimo colpo. È una decisione che si prende spe­ cialmente quando si hanno da espiare dei delitti. Il fatto è proverbiale. Il pensiero che uno possa precipitarsi nella vita religiosa come in un abisso di gioia, è tanto estraneo allo sposo della borghese quanto un calcolo nella vescica a una mummia di tremila anni. Gli orrendi delitti delle Benedettine, e gli stra­ zianti rimorsi dei Cappuccini costituiscono, d’altronde, un fe­ lice contrasto con l’integrità di coscienza di questo o quel de­ putato o magistrato, il che — lo diciamo di sfuggita — ren­ de inspiegabile la rabbia idiota di oggi che vuole abolire quei religiosi. Ma adesso che ci penso: analogicamente al precedente luogo comune, non ci sarebbe una specie di chiostro ignoto dove si seppelliscono quei galantuomini che non hanno nulla a rimproverarsi? e lo Sconosciuto che esige dei martiri non esigerebbe anche dei monaci? Ci sono molti segni che lo fan­ no credere, e il Borghese dovrebbe tremare. Sono convinto che bisognerà scegliere necessariamente tra i due monasteri: quello delle canaglie, che naturalmente è fatto per i Trappisti e per i Certosini, e quello dei galantuomini la cui chiave, nel­ l’Ultimo giorno, sarà buttata nell’abisso dal Demonio. XCII

Cercare il pelo nell’uovo Si potrebbe credere che si tratti d’un celebre quadro del Murillo38. Ma col Borghese non si fa mai allusione a un ca­ polavoro, a meno che non si parli d’un ponte metallico, di un tunnel o di simili cose odiose, che gli eminenti borghesi,

38. Il quadro del Murillo è II Piccolo Mendicante che si trova al Mu­ seo del Louvre.

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vale a dire gli Ingegneri del genio civile, ardiscono chiamare opera d’arte. Si tratta di ben altro. Il pelo nell’uovo è una metafora, un diavolo di metafora borghese come ce ne sono ancora nella marina mercantile, tra impiegati dei mercati generali o tra gli ultimi nostri commessi viaggiatori. Il negoziante che cerca un errore nei conti a sfavore di un suo cliente è uno che cerca il pelo nell’uovo, un uomo perduto. È come se desse la cac­ cia alla tigre con la tavola pitagorica e un ombrello.

xeni Stendere la mano Questo modo di dire mi riporta al clero della diocesi di Meaux. Un giorno, decisi di fare un’esperienza e andai a chie­ dere l’elemosina al parroco di una sede parrocchiale alle di­ rette dipendenze del decanato di Lagny39. Me la rifiutò, ma è il caso di dirlo? con parole ipocrite e melense, zuccherose e fredde come la faccia della luna. Quell’ecclesiastico, ancora giovane ma con i tratti di un vecchio sorcio sembrava averne anche le abitudini. Grassoc­ cio come un impiegato di concetto e lucido come una salsic­ cia, trincerato dietro ad un naso sempre questuante e sormon­ tato da due occhi piccoli come capocchie di spillo e altrettan­ to rilucenti, il curato Pucelle era proprio il tipo del prete borghese. Ostenta nozioni di archeologia, dicendo a chi vuole in­ tenderlo che, anche lui, ha fatto «gemere i torchi»; scandi-

39. Tutta l’avventura è veridica ed è annotata nel Journal (cit., t. II, p. 49). Lagny è una località della Seine-et-Marne e si trova a ventotto chilo­ metri da Parigi. Ritornato dalla Danimarca, Léon Bloy vi fissa la residenza dal giugno 1900 all’aprile 1904. Questa località e le zone limitrofe di Pom­ ponne e Thorigny furono ribattezzate, per disprezzo e odio verso i loro abi­ tanti, con l’appellativo comune e generico di Cochons-sur-Marne.

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see con enorme lentezza i nomi dei «santi Pietro e... Paolo» fino a far dubitare del loro sesso; tiene per sé il danaro che gli viene affidato per i poveri e sfrutta come domestici i vec­ chi genitori. Aggiungo ancora un aspetto prodigioso e quasi inverosimile della sua condotta che lo induce, sempre per com­ piacere i bottegai della sua parrocchia, a richiedere i conti sal­ dati prima di dare l’assoluzione agli indigenti. Non mancai certo l’occasione, avendo per le mani un tale soggetto, di fargli qualche rivelazione. Gli confessai di essere l’autore di una autobiografia intitolata Le Mendiant ingrat, di vivere esclusivamente di elemosine e di giungere perfino a pensare che fosse l’unico modo di vivere, per un vero cri­ stiano. Lasciandolo, ebbi la soddisfazione di vederlo como­ damente insediato in quella enorme panzana. Trascorso qualche giorno, si presentò l’occasione di par­ lare con più foga e precisione. Quel caro parroco, di cui ero quasi il parrocchiano, aveva creduto bene di stravolgere al­ cune mie frasi in modo lesivo e nell’esercizio del suo ministe­ ro. Gli scrissi che, sentendomi offeso, volevo ricevere le sue scuse a casa mia, e che, in caso contrario, mi sarei rivolto per prima cosa ai suoi superiori e poi ai giornali. Indimidazione di un certo effetto. Lo strano tipo si fece subito vede­ re, non per porgermi le sue scuse, ma con il solo scopo di convincermi che non me ne doveva. Trincerato dietro i ben noti luoghi comuni del seminario, con un disprezzo invinci­ bile per la Santità, la Perfezione evangelica, la Parola del Si­ gnore, la Preghiera, per tutto ciò che non è il gaudioso Da­ naro esborso, mi parve inattaccabile e mi scoraggiai subito. Era impossibile fargli capire qualsiasi cosa. Non mi ri­ cordo di aver mai visto un uomo tanto sciocco. Ah! avevo buon gioco per poter completare le mie osservazioni sulla me­ diocrità sacerdotale! Interrogato sul valore impetrante della preghiera: — Dio non fa miracoli, se non all’indirizzo dei san­ ti, — rispose quell’asino. Controbattei subito con i dieci leb­ brosi del Vangelo e con le guarigioni di Lourdes, fatti che lo lasciarono in silenzio e con la bocca aperta come un pesce lesso. 132

Se io non fossi stato già edificato da tempo, il sorriso professionale di quella sottana, ogni volta che presentavo un Testo, mi avrebbe illuminato sull’orrido svilimento del clero contemporaneo. Spaventoso e racconsolante, sotto certi punti di vista, che questi siano i padroni di uno Scompiglio generale. Durante quel colloquio decisamente strampalato, mi con­ sigliò con quieta benevolenza di esercitare un altro mestiere, diverso da quello dello scrittore, un mestiere che potesse so­ stenere chi lo esercitava. Sarebbe stato divertente ricambiar­ gli il favore, dandogli lo stesso consiglio. Me ne astenni. Ma ciò che mi parve altamente significativo, fu la continua ri­ presa, quasi automatica, delTesclamazione orripilata: Sten­ dere la mano! Poiché mi voleva a tutti i costi mendicante di professio­ ne, per il fatto che io gli avevo confidato la mia immensa fiducia in Dio, mi ripetè a più riprese quelle tre parole con una specie di annichilimento interiore e profondo, precisan­ do così — per stupirsene maggiormente — l’atteggiamento abituale in cui mi vedeva! Evidentemente un tale atto, che ci rende possibile la rappresentazione visiva di un Amico del Salvatore dei poveri, era, ai suoi occhi, il colmo dell’ignomi­ nia e dell’infamia. Consegnai idealmente a quel miserabile l’at­ testazione di cattivo prete, certificato che sembrava essere ve­ nuto a richiedere, e le nostre relazioni si fermarono là. Quel ricordo osceno si stava cancellando. Soltanto la mia ricerca forsennata di luoghi comuni è valsa a risvegliarlo. Ma non trovate che questo orrore della mano tesa, questa onta rinnegata e sacrilega di un gesto che fu quello di diecimila santi, erano le caratteristiche mirabili e spaventose di quel ca­ strone da altare che riassume nella sua persona tutto un mondo?

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XCIV Rispettare le convenienze

Questo luogo comune scaturisce da quello che lo prece­ de. Che cosa è più irrispettoso delle convenienze di una ma­ no tesa? Un perfetto zoticone può permettersi le più disdice­ voli sconvenienze e lasciarsi andare — o ricordarsi bene della pochezza della sua persona — fino ad abbandonarsi a tali sconcezze corporali davanti a delle signore che il mio ben noto riserbo mi impedisce di precisare. Se ha del danaro, lo si in­ viterà a rimanere a suo agio. Anche se lo volesse, un ricco non arrecherà mai offesa alle convenienze. Ciò gli è impossi­ bile tanto quanto l’ingresso nel Regno dei Cieli. XCV

Essere in buona fede — Sono in buona fede. Ho ucciso mio padre in buona fede. Ho creduto di fargli un bene, e lo credo ancora. Da tempo s’annoiava di vivere, da molto tempo ormai, e tutti i vicini potranno dirvi che era un vecchio difficilissimo. Mettetevi al posto mio, signori giurati; che cosa potevo fare? C’era altro modo di dimostrargli il mio affetto? Ap­ parteneva a un altro secolo e mi rimproverava perché me la spassavo, senza capire che non siamo di legno e che la gio­ ventù deve divertirsi. Era impossibile andare d’accordo. Per questo, avevo bisogno di danaro. A ogni modo, per lui e per me, era preferibile finirla. Oh, non ha sofferto, no; l’ho steso a terra con un colpo solo, con la massima umani­ tà, perché a me non piace fare soffrire. Se tutti si compor­ tassero come me, saremmo meno stupidi e le cose andrebbe­ ro meglio.

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XCVI

Non essere il primo venuto Costui non è il primo venuto. Quando un padre di fa­ miglia, vale a dire il capo d’una importante ditta commer­ ciale, ha detto questo d’un signor Trouillot, per esempio, non c’è più da discutere. Sarà Trouillot ad avere la figlia. Agli occhi del Borghese il titolo più nobile è di non esse­ re il primo venuto. Se gli diceste che Napoleone* era il pri­ mo venuto, vi colmerebbe di disprezzo. Il settantanovesimo della vita, ma il primo mai; e neppure Tultimo. Il Vangelo dice che gli ultimi saranno i primi, e il Borghese se ne ricorda. Sopra ogni cosa detesta d’essere il primo o l’ultimo, non importa dove né come né quando. Per lui bisogna essere nel­ la massa, decisamente e per sempre.

XCVII Fare le prime scappatelle ovvero La gioventù deve divertirsi ovvero Non siamo di legno

Un figliuol prodigo che non ha custodito i porci, ma che avrebbe avuto un urgente bisogno di essere custodito lui stes­ so, è tornato a casa dopo aver studiato per tre anni a Parigi. C’è da credere che i suoi studi si siano spinti molto lontano, perché porta una bella corona di alopecia attorno alla fron­ te, un labbro mancante, due occhi abbottati come crisantemi e quattro bitorzoli lividi sulla faccia. Non so se sia stato ucciso il vitello grasso, ma si dice da tutti che questo giovanotto ha fatto le sue scappatelle, che non era di legno, ecc. Il giornale locale ieri annunziava il ric­ co matrimonio di questo erede con la primogenita del veteri­ 135

nario. È facile immaginare l’invidia che la timida e pura fi­ danzata deve suscitare tra le vergini compagne.

XCVIII Fare un buon matrimonio

In genere, fare un buon matrimonio significa sposare uno qualunque. È facile da dimostrarsi. Sposare una persona conosciuta, uno o una piuttosto che un altro, suppone necessariamente una scelta fondata su una stima particolare. Orbene, nella giurisprudenza del Borghe­ se, c’è bisogno di dirlo? questo è un disordine che non può essere tollerato. La sola e indispensabile condizione per fare un buon ma­ trimonio è di mettere in prima linea il danaro, avendo cura di considerare come oziosa e quindi pericolosa ogni altra cosiderazione. L’aritmetica è il sicuro preliminare, l’unico preludio, la sempiterna solfa per la gente che ha deciso di dormire insie­ me. La benedizione del prete — se la famiglia esige questa formalità senza importanza, — e la mano levata ben più de­ terminante dell’ufficiale municipale debbono rivolgersi ad in­ dividui che s’ignorano quanto e anche più delle bestie in ca­ lore. È così, e non diversamente, che si combinano i buoni matrimoni e che nascono i figli del danaro. XCIX

Prefiggersi il matrimonio come finalità Vale a dire, fare un matrimonio buono o cattivo. Ma qui il pensiero del Borghese è un po’ involuto, perché mi sem­ bra che il matrimonio, in qualunque modo lo si voglia inten­ dere, è più un inizio che una fine. 136

L’accezione puramente filosofica del matrimonio consi­ derato come la fine del Borghese non è accettabile. La fine del Borghese è lui stesso, e assai più che non lo pensi, infini­ tamente più della maggior parte dei cristiani che non pensa­ no a Dio come loro fine. Un idolo messicano o della Papuasia non fu mai tanto adorato come il Borghese adora se stes­ so, e non richiese mai sacrifici umani così spaventosi. La mostruosa guerra del Transvaal40 è un olocausto al Borghese inglese, il cui tipo attualmente sembra essere l’orri­ bile manifatturiere di Birmingham. Direte che l’Inghilterra sta per fare una fine? Ci sottoscriverei più che volentieri, però in questo caso non si tratta d’alcun matrimonio, e il luogo comune resta oscuro. Se ne vada dunque al diavolo!

C

Farsi una ragione Il verbo « fare » è uno dei più difficili della lingua fran­ cese, soprattutto quando è pronominale o riflessivo, come di­ cono i buoni grammatici. Se volete farvi un’idea dell’abisso che esiste tra le sue innumerevoli accezioni, provatevi a dire che un uomo intento a farsi la barba può nel medesimo tem­ po, «farsi una ragione». Vi faccio notare che ogni uomo può farsi la barba, ma che soltanto al Borghese si addice farsi una ragione. Ecco dunque ancora un altro luogo comune non facile. So bene che in genere non c’è da sperare troppa luce da un confronto dei luoghi comuni con la loro ordinaria accezio­ ne. Questa accezione, sempre sorpassata, resta raso terra, a

40. La guerra che gli inglesi combatterono per circa due anni e mezzo contro i Boeri (1899-1902) e che ebbe come giustificazione ed avvio la con­ quista dei ricchi giacimenti auriferi e diamantiferi del Transvaal. Cfr. le du­ re prese di posizione di Bloy a questo proposito in Journal, cit., t. I, p. 324 e p. 347.

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distanza incalcolabile dal senso vero che si crede stia nelle nu­ vole. Tuttavia tentiamo. Ernest Mijoton, quarto amanuense nello studio d’un av­ vocato, attendeva da cinque quarti d’ora la sua ganza. Face­ va un tempo da lupi, come dicono i soliti ripetitori di luoghi comuni. Attendere una creatura, sia pur deliziosa, con i pie­ di nel fango e il naso gelato, pare sia una cosa superiore a ogni azione coraggiosa. Aveva voglia di pensare ai placet e alle comparse la cui stesura gli aveva addolcito le ore del gior­ no; la procedura non colmava il suo cuore e quell’attesa da piantone nella fanghiglia lo deprimeva. I suoi affari amorosi andavano male. Eléonore si infi­ schiava di lui con ostentata disinvoltura. L’altro giorno l’a­ veva fatto attendere per due ore e mezzo per venire a strin­ gergli furtivamente la mano e scapparsene subito con un’a­ ria misteriosa. Una settimana prima, avendo avuto occasio­ ne di rinfacciarle una imprudente menzogna, questa gli ave­ va rotto l’ombrello in testa, nel caffè dei bastioni, dopo averlo coperto d’ingiurie. Erano stati messi alla porta, tra vituperi ignominiosi. In breve, egli avrebbe dovuto rompere quella relazione venti volte, ma non poteva, nonostante la sua rabbia, anda­ re al di là di qualche timida protesta d’indipendenza. Basta­ va allora che l’affascinante fanciulla lo trattasse da «gran scioccone » per ritrovarsi immediatamente e inestricabilmen­ te legato. Decisamente aveva buon carattere! Quella sera, attese inutilmente per circa quattro ore e se ne andò, pieno di reumatismi, all’ultimo rintocco di mezza­ notte, mormorando, secondo un’abitudine d’una ventina d’anni, che bisogna farsi una ragione. Poiché questa storia sta per diventare noiosa, la conclu­ do in poche parole. Dopo ancora alcuni mesi di questa vita, fu necessario rinchiudere il fedelissimo Mijoton in un mani­ comio. Era finalmente arrivato a farsi una ragione? Chi po­ trà dirlo? Ma si trattava di un imbecille di belle speranze e fu compianto. 138

CI Metter su un affare Come dire ingannare qualcuno. Il miglior affare del mon­ do sarebbe la lottizzazione oppure la vendita in contanti del Paradiso terrestre. Ci sarebbe da guadagnar danaro, se lo sta­ to embrionale delle nostre cognizioni geografiche non ce l’im­ pedisse inesorabilmente. Per fortuna, quel luogo di delizie è nascosto, ben nascosto e ben custodito. Tutto fa presumere che nemmeno tra diecimila anni nascerà il primo Borghese cui sarà permesso di penetrarvi dentro. Cercate di mettervi davanti agli occhi questo orrore: lo sfruttamento e il frazionamento del Paradiso terrestre; l’ir­ ruzione del notaio, del geometra, dell’appaltatore e dei tram sotto quelle ombre di seimila anni che hanno visto l’Inno­ cenza umana!... Il Borghese è, per sua natura, avversatore e distruttore di paradisi. Quando scopre una bella tenuta, il suo sogno è di tagliare gli alberi secolari, di inaridire le sorgenti, di trac­ ciare strade, costruire botteghe e orinatoi. Secondo lui que­ sto è mettere su un affare. Mi assicurano che sul Golgota esiste una proficua impresa di luoghi di decenza.

CII Incoraggiare le belle arti

Il Borghese, quando s’è ritirato dagli affari e ha sposato l’ultima figliuola, incoraggia le belle arti. Quest’ultime o i francobolli valgono sempre. Il suo prezioso incoraggiamento consiste nel pagare carissima la paccottiglia degli artisti di gri­ do. Tra Memling* ancora sconosciuto e un imbianchino del Lussemburgo, non esiterà un secondo. Se gli proponete l’ac­ quisto di una tela d’un giovane di genio non ancora iscritto nei dittici delle committenze, vi risponderà che non incorag­ gia «sudiciografia» di reietti avvinazzati. 139

È inconcepibile il suo fiuto nel discernere gli imbrattate­ le, i cretini della tavolozza, coloro che avviliscono l’arte. So­ prattutto questi ultimi gli sono cari. La sua intima sete, il suo profondo desiderio, la sua crociata è di sbattere a terra il Bel­ lo, al di sotto della peggiore immondizia; e per questa impre­ sa valgono moltissimo gli artisti maiali. Se l’Estro non lanciasse urla da rinoceronte scorticato quando lo si costringe a entrare nel bordello, ci vorrebbe que­ sta frase per esprimere la specie di movimento soprannatura­ le di cui si è parlato qui. CHI Dalla discussione viene la luce

Tra il popolino nasce soprattutto dagli schiaffi e la luce, in questo caso, non potrebbe essere che un’allusione, un po’ grossolana, al «veder le stelle» ricordata più su. Per il Bor­ ghese è diverso. Entrate in un caffè frequentato dai soliti av­ ventori, uno di quei buoni antichi caffè d’impiegati o di bot­ tegai dove tutti si conoscono, dove il proprietario sempre af­ fidabile stringe la mano a tutti i clienti, dove l’apparizione di un forestiero dà luogo a riflessioni piuttosto stantie sul­ l’alleanza franco-russa. Non passeranno certamente venti mi­ nuti prima che assistiate a una discussione provocata da di­ verse interpretazioni del gioco della maniglia, da un punto contestato al bigliardo o da un altro argomento di palpitante interesse. Vedrete allora farsi Luce a poco a poco, lumen rectis, come dice il Profeta Re. Probabilmente la luce non riguar­ derà l’argomento in discussione, ma sarà almeno una luce o quasi luce sui contendenti stessi. Saprete così che il proprietario dell’albergo ha fatto fal­ limento quand’era presidente Mac-Mahon*, che il mercante all’ingrosso di foraggi, grano e crusca, è il fornitore ufficiale del paniere di crusca della ghigliottina, che il panettiere ha 140

trascorso in galera i migliori anni della sua vita e poi che il controllore del registro, uomo profondamente corrotto e che sa dove parare sulla condotta della suocera, passa per essere, a un tempo, qualcosa come lo zio o il nipote d’acquisto, di sua moglie, ecc., ecc. Tutto vi sarà svelato, eccettuato una cosa sola. Non ca­ pirete come mai quella gente onesta invece di rompersi la fac­ cia riprende tranquillamente le carte o la tavola reale, appe­ na finita la discussione. È allora che si ottiene l’irrompente luce, e sarebbe irragionevole continuare a sbraitare senza senso.

CIV Chi sente soltanto una campana sente soltanto un suono Sarebbe puerile concludere che lo stesso individuo il quale sentisse una dozzina di campane, per esempio, sentirebbe una dozzina di suoni differenti e contrari gli uni agli altri. E tut­ tavia proprio questo vuol dire il Borghese. In fondo, egli ha bisogno di campane contraddittorie, di campane che stridono suonando insieme, di campane sor­ de che non sentono nemmeno i loro rintocchi. L’armonia so­ prannaturale dei concerti di campane delle nostre chiese lo esaspera e rimminchionisce. Osservatelo, in un giorno di gran festa, nel momento in cui le campane suonano a distesa. Sen­ tirete, vedrete in lui la presenza di una bestia che si agita e freme. Le campane benedette vanno a toccare, fin nelle vi­ scere di quest’uomo, chissà quali misteriosi desideri d’anar­ chia. Perché questo è il segreto del Borghese. Egli è anarchi­ co, misteriosamente, nel suo intimo. Così si spiega il suo odio per le campane, che possono essere consacrate soltanto da un vescovo, il quale annunzia e precisa l’unità divina. Una campana sola, un suono solo sembrerebbero venire dal cielo, ed è per questo che fanno paura. 141

cv

Il sole splende per tutti Più o meno, si capisce. È certo che non splende per i groenlandesi quanto per gli abitanti delle Isole della Sonda. Ed è ugualmente incontestabile che la luce di quest’astro è più splendida per vedenti che per i ciechi. Mi dispiace dire che questo luogo comune non è abba­ stanza preciso. Non ha la bella consistenza né il nobile por­ tamento di tanti altri esaminati fin qui. Mi sembra — e mi si perdoni l’irriverenza — di provenienza popolaresca, come quei famosi Diritti dell’uomo che ha la pretesa di allegoriz­ zare. Quando lo sentite, state pur certi che vi trovate di fron­ te a un onorato cittadino che pensa di soppiantarvi per met­ tersi al vostro posto. È l’equivalente della celebre formula d’e­ spropriazione: Togliti, che mi metto io. Però non so che c’en­ tra il sole qui. Ma guardate un po’ il mistero dei luoghi comuni. Da circa dieci anni non posso sentire questo detto senza una specie di terrore, e vedo venirmi davanti uno spaventevole figuro che praticava l’usura ed era cieco come Omero: ma le sue ma­ ni sporche valevano una dozzina d’occhi, e vi spogliava a ta­ stoni con una prestezza, con un’abilità, una sicurezza, una competenza ineguagliabile. Amava, non so perché, questo luogo comune che ripete­ va a proposito e a sproposito, supponendo forse che avesse un potere magico; e vi assicuro che era uno spavento la faccia di quel compagno delle tenebre, che parlava del glorioso Sole, con l’aria di fissarvi con quei suoi due occhi biancastri.

CVI Tutti hanno più spirito di Voltaire Quando si decideranno a stabilire un premio di duecen­ tomila franchi per il briccone che ci dirà che cosa significa «tutti»? Io non lo guadagnerò, certo, perché appartengo a 142

quelli che pensano che Voltaire*, visto non molto dall’alto, sia stato uno stupido come lo sono tutti, il che fa poca luce sulla locuzione enigmatica. Il Borghese, nella sua qualità di sostenitore del suffra­ gio universale, deve credere che Voltaire tragga vantaggio da questo luogo comune, perché suppone che ci sia voluta non meno della massa intera della totalità degli uomini e delle don­ ne per mettere insieme più spirito di quello che ebbe questo patriarca degli imbecilli malefici. Ma il sofisma è troppo evidente. Il Borghese chiede sol­ tanto un livello, nient’altro che un livello. Quel «tutti», equi­ vale soltanto a lui stesso, indefinitivamente, raso terra, e lui ha ragione di pensare che Voltaire stia più in basso. Voltaire è il suo sfintere. CVII Chi vuol provare troppo, prova niente

Attenzione. Voglio dimostrare con mezzi leciti un teore­ ma di geometria, un fatto storico, un principio di teologia morale, o che so io. Quando, a che punto deve fermarsi la mia dimostrazione? Fino ad oggi avevo creduto che o si dimostra o non si dimostra. Ed ecco d’un tratto vengo a sapere che si può pro­ vare troppo, e le mie idee ne sono sconvolte. Si può mangia­ re troppo, si può bere troppo, si capisce; si può essere trop­ po sciocco o troppo immorale, e l’abbiamo visto. Sembra pure che si possa essere troppo onesto, e questo è raramente il ca­ so del Borghese, uomo d’equilibrio e di giusto temperamen­ to. Ma provare troppo e per ciò stesso provare niente, que­ sto è un prodigio che supera le mie capacità. Giriamo le spalle alla lavagna e mettiamo la testa tra le gambe per vedere il problema all’inverso. Fatto. Questa vol­ ta voglio cercare di non provare troppo, di fermarmi a un capello dal punto dove la prova sarebbe completa. Vittoria! Non provando troppo, ho finalmente provato qualche cosa. 143

Ahimè! in quello stesso istante, quella prova mi condanna. Per il solo fatto che essa esiste, esiste integralmente. Dunque ho spaccato in due il capello! Nonostante le mie precauzioni, ho provato troppo e, quindi, non ho provato nulla. Impossi­ bile sfuggire a questo cerchio nel quale periranno i matema­ tici, i filosofi e tutte le scienze. CVIII Non è mai troppo tardi per fare bene

Ostilità dell’avverbio «troppo»: eccoci di nuovo contra­ riati dalla sua presenza. Potrebbe veramente darsi che non sia stato troppo tardi? Dobbiamo credere che c’è un’ora in cui è abbastanza tardi, senza essere troppo tardi, e un’altra ora in cui è troppo presto e che sarebbe la buona per fare male? Quest’ultima ora così importante, dove comincia e dove finisce? Devo strapparmi dalle braccia del vizio, alle cinque e mezzo del mattino, per precipitarmi alle sei meno un quar­ to tra le braccia della virtù? È abbastanza presto, o un po’ tardi, oppure tardissimo, senza essere troppo tardi? Farei me­ glio ad attendere le sette oppure mezzanotte? ecc. Ma lasciamo stare. In sostanza di che si tratta, e che co­ sa sono i luoghi comuni, se non la lingua del Borghese? Pen­ sate! la lingua del Borghese. E allora, che c’è di più sempli­ ce? E che cosa significa fare bene se non fare ciò che vuole il Borghese, ciò che gli piace, ciò che gli riesce utile, ciò che egli ordina nei suoi comandamenti, e niente più? È certissimo, per esempio, che se vi volete far spaccare la faccia per lui e dargli tutto quello che avete, egli penserà che fate il vostro dovere, forse un po’ tardi ma non troppo tardi. Al contrario, se trova il mezzo di prendersi il vostro danaro, la vostra casa, la vostra donna o anche la vostra pel­ le e questo gli sembra utile o piacevole, voi non avete da fare la benché minima obiezione. Egli fa benissimo, assolutamente bene e proprio quando dev’essere fatto, perché questa è l’o­ ra che più gli aggrada, l’ora che non suona mai troppo tardi. 144

CIX A poco a poco l’uccello si costruisce il nido — Razza di stupido pederasta! — esclamò la contessa de Sainte-Périne. E aveva ragione. È certissimo che non si potrebbe mai incontrare un tipaccio più odioso di questo re­ dattore capo. È lo stupido puro e semplice, lo stupido in as­ soluto. Fu lui e non un altro che, ricevendo la visita di un grande poeta, oggi morto, venuto per offrirgli una raccolta di versi che avrebbero onorato incredibilmente il suo tene­ broso giornale, non si diede neanche la pena di voltarsi e pro­ ferì questa risposta diventata celebre: — Sia buono, caro si­ gnore, metta lei stesso il suo manoscritto nel cestino della carta straccia! Che bella idea aveva avuto suo marito a mandarla da lui! Il ruffiano l’aveva accolta con un’insolenza tale che ne era restata soffocata, sebbene preparata dalla sua anteriore professione di levatrice a tutte le manifestazioni della mala­ creanza. Lungi dal vincere la resistenza di quel maleducato, come aveva bellamente sognato, non le era riuscito di dir neanche una parola. Era davvero il caso di compromettersi. Arrabbiata, tornò a casa. Il dottor Maurice de Sainte-Périne41, suo marito e con­ te per effetto di una selezione misteriosa, era l’arrivista sor­ prendente, oggi conosciuto e anche consultato, che in meno di dieci anni inghiottì, per riuscire nella vita, un fiume di fan­ go. Al tempo di questo racconto, era appena un principiante e da poco s’era audacemente unito a una levatrice di provin­ cia, di cui una città di trecentomila abitanti era andata fiera. E come il sole porta un po’ di gioia luminosa nella casa del­ l’indigente, così questa donna crespa e bruna aveva messo in casa di quello studentello un po’ d’ostetricia. Essi si capiro­

41. Nome fittizio di Maurice de Fleury. Cfr. n. 26, p. 106 e v. Indice dei Nomi.

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no e si sostennero a vicenda, giacché la sposa aveva ancora un rimasuglio di attrattive e lo sposo un inizio di fiuto. Quest’ultimo aveva concepito il disegno, che l’idiozia contemporanea gli ha permesso di realizzare in parte, d’una specie di clinica letteraria per sale da pranzo o treni rapidi, mediante un giornalismo d’Epidauro periodico o saltuario. Più precisamente, si trattava di introdurre furtivamente nei giornali certi piccoli articoli emollienti, testi che, beninteso, non offendevano nessuno. Cronache mediche, incolori, flui­ de e neutre, molto simili a certe lavature inefficaci che si po­ trebbero utilizzare come brodo di minestra; eran cose noiose e innocue, ma non senza effetto per lo stomaco di qualche illustre galantuomo, contento senz’altro della gratuità di quel laudano. A furia di umiliazioni e di vigliaccherie, Maurice, senza mai scoraggiarsi, era giunto a farsi credere una mezza auto­ rità, un osservatore sagace, come la più eccellente cimice del­ l’informazione specializzata e a introdursi così nelle fessure sociali, nelle crepe della vecchia bottega del mondo. M’è sta­ to detto che ha trovato anche una clientela; e sua moglie, il cui impasto grossolano ha avuto il tempo di lievitare nella madia della loro miseria mentale, gode finalmente di un salotto... ! Ma, lo ripeto, al tempo di cui parliamo, tutte queste grandezze dovevano ancora arrivare. Il dottor Maurice, non ancora emancipato dagli espedienti quotidiani del più basso servilismo, utilizzava la sua compagna per il collocamento dei suoi scritti. Contava su questa Lucina per far venire alla luce benevolenze difficili da concepire e per rendere più spedite certe buone volontà a lenta gestazione. Non crediate però che insinui delle turpitudini. La leva­ trice non ricompensava nessuno, limitandosi a essere insinuan­ te e testarda. Libero ognuno di disperarsi o sognare; ma non si sentì mai parlare di alcun suicidio. — Sai che m’ha detto? — gridò la moglie rincasando, al conte Maurice Flagornant de la Lecherie du Val des Amé­ nités de Sainte-Périne. — Ebbene! ecco le sue parole precise: 146

« Il genere d’imbecillità di vostro marito non potrebbe con­ venirci. Sarebbe il doppione di quell’altro essere schifoso già noto e stimato dal nostro pubblico. D’altronde, la sua faccia tosta non mi sta bene, e neppure la vostra, e allora, per fila sinistra! e sgombrate». Il dottor conte ha un naso abbastanza grosso, che gli per­ mette di respirare vigorosamente. Raccolte dunque e rinvi­ gorite le idee con una generosa boccata d’aria, s’accostò, con occhio languido, alla sua levatrice che s’era lasciata cadere su una sedia e, baciandola piamente sulla fronte, le disse pia­ no, con un tono ispirato da bardo antico: — Povera amica! Non abbiamo dunque la testimonian­ za della nostra coscienza? Bisogna farsi una ragione; niente è assoluto, e non si può aver tutto. Non dimenticare che bi­ sogna essere pratici e camminare col proprio secolo. Inoltre, dopo tutto, non siamo sulla terra per divertirci. Pazienza! Pa­ rigi non è stata costruita in un giorno, è vero, ma il sole splen­ de per tutti, e a poco a poco l’uccello fa il suo nido... E per quel giorno, dice il poeta, più non lessero avanti.

CX I piccoli ruscelli formano i grandi fiumi Così parla il mio droghiere intascando i soldi della po­ vera gente. Così parla quel finanziere che arraffa i risparmi dei miserabili. Così parla Chamberlain* vedendo scorrere il sangue dei bambini dei Boeri. E tutti e tre dicono esattamen­ te la stessa cosa.

CXI Non si può essere ed essere stato Vi sbagliate, caro addetto alle pompe funebri; e la pro­ va è data dal fatto che si può essere stato un imbecille ed es­ serlo ancora. Dunque, potete, essere ed essere stato qualun147

que cosa, anche la vostra signora moglie, siatene certo, con rispetto parlando. Dio ci preservi dai giudizi temerari! Ma in fondo la vostra massima non vorrebbe forse dire semplicemente che non si può essere sempre giovani, almeno nel senso della riproduzione della specie? O François Coppée*, dolce amico, che raggio di luce! CXII Se la gioventù sapesse, se la vecchiaia potesse...

Che cosa accadrebbe? Il prudente Borghese si guarda be­ ne dal dirlo. Sappiate dunque una buona volta. Se la gioven­ tù sapesse, farebbe delle porcherie di cui la vecchiaia non ha idea, e se la vecchiaia potesse — la vecchiaia del Borghese, si capisce — ancora una volta, che cosa accadrebbe? Vi sfi­ do a indovinarlo! Praticherebbe la virtù! e la faccia del mondo sarebbe cambiata. Ecco il formidabile segreto che ho esitato per molto tempo a divulgare. CXIII Se si sapesse tutto!

Saremmo Dio: situazione infinitamente sgradevole, per­ ché allora saremmo costretti a negare la nostra personale esi­ stenza sotto pena di passare per imbecilli, e inimicarci il Ve­ nerabile della nostra Loggia ed essere additato in tutto il quar­ tiere. Non troveremmo più credito, nessuno ci saluterebbe. Faremmo dei miracoli, e nella nostra famiglia ci sarebbe un crocifisso. Infine una vile plebaglia, che ignora la filosofia e confonde la sostanza con l’accidente, chiamerebbe clericale l’onniscente Borghese incolpato di divinità. Ah, credetemi, la cosa più sicura è non sapere niente e soprattutto non cavar nulla dal niente, a cominciare da noi stessi. Per di più, non è questa la tradizione? Per favore, in 148

quale epoca gli antenati dei nostri borghesi hanno creduto van­ taggioso creare la luna e le stelle? Ci sono tante cose che è bene ignorare, e tante altre che è utile non fare! Lo scopo della vita non è forse unicamente guadagnare molto danaro e ottenere così la morte eterna?

CXIV Non si può pensare a tutto Ragioniamo. Innanzitutto, sono costretto a pensare ai miei affari; poi agli affari degli altri per cercare di avere tut­ to il mio tornaconto, se possibile; e infine ai miei piaceri. Dove diavolo volete che trovi il tempo di pensare ad altro? Voi mi parlate di Dio; siete troppo gentile; ma, sul se­ rio, che cosa volete che me ne faccia del vostro buon Dio? Non ci penso mai, non ci ho mai pensato, e vi prego di cre­ dere che anche quando starò per crepare non ci penserò. An­ che i preti lo dicono: siamo polvere e polvere ritorneremo. E allora perché preoccuparsi di tante chiacchiere? Siete veramente troppo gentile a interessarvi della mia anima, come se io mi interessassi della vostra! Via! si vede che non siete in commercio. Se ci foste, sapreste che non so­ lo si può pensare a tutto, ma talvolta è già abbastanza, e for­ se troppo, pensare al proprio libro di cassa. Cari signori, vo­ lete che lo dica? Chiedo un buon Dio che si metta negli affa­ ri. Allora ci potremmo intendere. E neppure lui avrebbe il tempo di pensare a tutto. Terrebbe aperto anche alla dome­ nica, siatene pur certi, e ci lascerebbe finalmente tranquilli, ne rispondo in prima persona. Tali sono le parole di colui che ha sostituito quel genio minaccioso che una volta apostrofava i navigatori temerari, al Capo di Buona Speranza.42 42. Gigante delle tempeste, evocato nel V Canto dei Lusiadi (1572) di Camoëns, che minacciava Magellano per impedirgli di doppiare il Capo di Buona Speranza.

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cxv

Non si possono fare due cose insieme

Traduzione in linguaggio borghese del Nemo potest duobus dominis servire43: Nessuno può servire due padroni. C’è una specie di pudore che impedisce di citare il Testo onesta­ mente, come è dimostrato dalla parola cosa. È come se si di­ cesse: Egli è ogni cosa, ha male alla sua cosa, oppure ha paura di mostrare la sua cosa. Infatti il Borghese ha il pudore di ciò che è bello o nobile, come altri hanno il pudore di ciò che è indecente o odioso. È una sfumatura in cui si manife­ sta il suo genio. Tuttavia il Testo sacro, anche tradotto così, non lo inca­ tena, perché questo invasato da Colui che si chiama Legione44, questo inquilino, senza saperlo, dei sepolcri del deserto, che duemila porci potranno a stento far sloggiare quando sarà giun­ to il momento, sfugge di continuo ai suoi domatori. Il Borghese non sarebbe più lui se camminasse con lo Spirito del Signore. È d’accordo che non si possono fare in­ sieme due cose contraddittorie, però soltanto nel caso in cui le si volesse fare simultaneamente. In qualsiasi altra manie­ ra, va benissimo. Per esempio: onorare il proprio padre e co­ prirlo di fango sono due azioni conciliabili, purché non si fac­ ciano nello stesso quarto d’ora. Il problema è qui: non fare due cose insieme. Meravigliosa mitigazione d’una dottrina troppo rigorosa! Basta guardarne le conseguenze, le innume­ revoli applicazioni... Quando verrà quell’ignoto ciabattino che deve stabilire definitivamente il Vangelo?

43. Luca, XVI, 13. 44. Bloy si riferisce al racconto evangelico dell’indemoniato di Gerasa, riportato da Marco, V, 1-20 e Luca, Vili, 26-39. Alla domanda di Gesù il demonio risponde: « Mi chiamo Legione perché siamo in molti » ed ottie­ ne il permesso, uscendo dall’invasato, di entrare in un branco di duemila porci che pascolavano nei pressi, i quali si precipitano in una folle corsa e vanno a perire nell’acqua.

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CXVI Ogni cosa a suo tempo «Tutto a suo tempo, dice l’Ecclesiaste, e ogni cosa sot­ to il cielo si compie nel suo tempo45». C’è il tempo per nascere a Bethleem e il tempo di mori­ re sul Golgota; il tempo di piantare la Croce e il tempo di svellerla; il tempo di uccidere le anime e il tempo di guarirle; il tempo di distruggere la Casa d’oro e il tempo di co­ struire la casa d’argento; il tempo di piangere al passaggio del Cristo sanguinan­ te, come piangevano le figlie di Gerusalemme, e il tempo di ridere come riderà la terribile Donna nell’Ultimo Giorno; il tempo di essere desolato con la Vergine Addolorata e il tempo di danzare con la figlia prostituta dell’incestuosa per ottenere il Capo di san Giovanni; il tempo di disperdere le pietre animate e il tempo di raccoglierle; il tempo di stringere il Diletto che viene danzando dalle colline e il tempo di fuggire gli abbracci spaventevoli da cui nessuno ci libera; il tempo di acquistare tutto e il tempo di perdere tutto; il tempo di osservare la Legge del Signore e il tempo di gettarla via come una veste inutile; il tempo di strappare in due il Velo del tempio e il tem­ po di cucire il Sudario del Redentore; il tempo di tacere sotto gli oltraggi e il tempo di parlare tra i lampi e i tuoni; il tempo dell’Amore forte come la morte e il tempo del­ l’Odio delizioso come l’Eucaristia; il tempo della guerra contro i santi e il tempo della pace irrivelabile dei beati morti. Che altro, chiede Salomone, può sperare l’uomo dal suo lavoro? 45. Ecclesiaste, cap. III. In questo luogo comune, Bloy riprende le mo­ venze linguistiche ed allegoriche del testo sacro.

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— Dal mio lavoro spero la rassomiglianza con i Demo­ ni e il mio alloggio preparato nei loro abitacoli di disperazio­ ne — risponderà il Borghese, quando verrà per lui il tempo di rispondere con perfetto discernimento.

CXVII Il tempo è danaro Fino a che non darà la risposta assolutamente sicura, in­ fallibile e luminosa che abbiamo letto poco fa, il Borghese non mancherà di osservare che tutti quei diversi tempi di cui parla l’Ecclesiaste e che sono la somma dei tempi, non rap­ presentano altro che il DANARO camuffato da vocaboli inu­ tilmente proliferati. Anche il tempo di morire — soprattutto quest’ultimo — è danaro agli occhi del Borghese. Dunque ci deve essere qui una verità profonda, la stessa Verità! perché non ci si inganna così. Simili a due pesi ugua­ li, il tempo e il danaro si bilanciano e si equilibrano nell’infi­ nito. Quando il Signore dei mondi s’è fatto vendere per tren­ ta danari d’argento, si trovava proprio al centro dei Tempi e li accentrava in sé, nella maniera più espressiva, più folgo­ rante, più inimmaginabile... Ed è a questo che tendono continuamente, senza voler­ lo e senza saperlo, le parole del povero Borghese, più terribi­ li degli uragani.

CXVIII Il danaro non ha odore

È senz’altro divertente poter affermare che i Flavi co­ perti di gloria non erano meno insaziabili né più schizzinosi dei nostri borghesi. Vespasiano, che poteva mangiare duemi­ la sesterzi a ogni pasto, come Vitellio, non disdegnava di far fruttare anche le urine dei romani e trarre danaro da tutto quello che poteva uscire dai dominatori del mondo. 152

L’esempio non è restato senza effetto, e gli speculatori del ventesimo secolo ne vanno orgogliosi. Con la differenza che quella famiglia di imperatori aveva distrutto Gerusalem­ me e ucciso un milione e centomila ebrei, mentre i borghesi si associano con Israele per lo sfruttamento di quei luoghi. Il che fa una certa differenza. — Attraimi, — dice la Diletta del Cantico·, — noi corre­ remo dietro di te, nell’odore dei tuoi profumi46. CXIX Più si fa i matti, più ci si diverte — Datemi da bere! — chiese la povera donna con una voce che era appena un soffio47. Nessuna risposta. Credette di essere nell’ora dell’agonia e cercò di infervorarsi alla con­ trizione delle sue colpe. Più tardi, mentre passava un’altra inserviente, riuscì, raccogliendo tutte le sue forze, a pronun­ ziare distintamente queste parole che credette irresistibili: — Signora, per amore di Dio, un bicchiere d’acqua! Ma l’amor di Dio ha poco credito presso l’Assistenza pubblica. L’ad­ detta, guardandola appena, alzò le spalle e continuò per la sua strada. Allora la sfortunata Geneviève si sentì presa dal­ la disperazione. Era stata trasportata lì perché il suo male, molto perico­ loso, aveva bisogno di cure che suo marito, anche lui malato e senza risorse, non poteva procurarle in casa. Nella vettura, aveva visto accanto a sé, come un’immagine dell’impotenza, quel grande artista desolato. E quanto desolato! Lei non avrebbe potuto esprimerlo. Sapeva soltanto che c’era là un

46. Cantico dei Cantici, I, 4. 47. L’episodio è veridico e racconta la grave malattia, di origine ner­ vosa, della moglie di Bloy. Durante la sua permanenza in ospedale, il suo ultimo figlio, il piccolo Pierre di pochi mesi, morì in casa della balia alla quale era stato affidato. Cfr. anche n. 24 p. 91.

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abisso e, nella sua personale desolazione che era spaventevo­ le, non osava pensare a quell’altra desolazione. C’erano anche i figli, visti da una finestra all’ultimo mo­ mento, ma visti solamente, perché sapeva benissimo che la sua partenza sarebbe stata impossibile se avesse cominciato ad abbracciarli. Poveri bambini! il loro ricordo era come un artiglio attorno al suo cuore. Appena giunta, era stata lasciata su quella sedia in mez­ zo al vestibolo, senza alcun soccorso, senza poter riposare in qualche modo la testa dolorante. Aveva creduto che ci sa­ rebbe stato qualcuno ad accoglierla, che ci sarebbe stato un letto per distendersi, e invece nessuno faceva caso a lei. Avreb­ be dato la metà dei giorni che potevano restarle di vita, per un bicchiere d’acqua fresca, e avrebbe dato l’altra metà per appoggiare la testa contro il muro. Dopo circa un’ora, la responsabile del reparto che pro­ babilmente aveva finito di torturare delle impotenti o delle agitate in un’altra sala, si degnò interessarsi a lei. Nell’attesa di metterla a letto, la fece sedere a una lunga tavola dove c’e­ rano alcune dementi installate davanti a delle ciotole. Men­ tre cercava di bere qualche sorso di brodo fatto di lacrime di coccodrillo dell’Assistenza si fermò d’un tratto, colpita da un odore penetrante e caldo. E con spavento, s’accorse allo­ ra che le sue compagne erano incastrate in seggiole a forma di piccoli bauli, che avevano a un tempo la funzione di sup­ porto e di scolatoio degli escrementi. Ma quello non era che il principio. Fino a quel momento aveva creduto di appartenere alla triste folla degli sventurati che almeno sono padroni del loro corpo. Adesso invece doveva veder scomparire le sue vesti di sposa e di madre, che le sarebbero state restituite all’uscita, se mai le fosse toccata la fortuna di andarsene. Ormai non c’era per lei che l’uniforme delle condannate al dolore senza misura e senza consolazione: veste azzurra, e che orribile az­ zurro!, grembiule da cucina, e di che cucina! scialletto bian­ co, lavato da immaginazioni piene di fango e cuffia bianca che nessuna innocenza stirò mai. 154

La moglie del grande artista credeva di sapere che cosa significa soffrire. Anima giovane, supponeva che tutto fosse giovane, anche il demonio e la sua potenza. Come avrebbe potuto prevedere i terrori notturni, in quel manicomio, e la spaventosa circostanza delle porte chiuse a chiave su trenta o quaranta malate, tra cui venti alienate? Infatti questa me­ scolanza omicida è mostruosamente tollerata dai medici, co­ me se ci fosse un ordine di alleggerire l’Amministrazione del­ le sue ricoverate, sterminandole con la paura. Scendere nei particolari è orrendo e farebbe rassomigliare l’inferno dei poeti a una caverna di speranza. A un grido d’agonia lanciato da una disgraziata, che vede accostarsi un fantasma, vagolante da un giaciglio all’altro, nella penombra, non c’è forse altra risposta che dei gemiti più dolorosi ancora, saliti dal fondo dei pozzi dell’Angoscia. Le inservienti sono troppo ubriache per svegliarsi o troppo occupate nelle loro porcherie per muoversi. Se ci sono co­ strette da un rumore impossibile, accorrono arrabbiate, con la bestemmia, l’ingiuria, la minaccia, e spesso picchiano. Fin dalla prima notte, Geneviève, al colmo del terrore per aver visto una pazza che si chinava sopra di lei guardandola con occhi terribili, si sentì promettere la diabolica cella nella quale si spengono infallibilmente tutte le resistenze e talvolta le vi­ te. L’indomani se ne lamentò col medico primario all’ora di visita. — Tutto questo è accaduto nella vostra testa, cara si­ gnora, — rispose sorridendo quel vecchio cretino e codardo, che non voleva mettersi in contrasto con l’Amministrazione e che s’allontanò facendo dei gesti di pietà. La derelitta capì che per lei non c’era giustizia, non c’era soccorso da sperare dagli uomini. Quello stesso giorno venne a sapere che suo ma­ rito era stato colpito da paralisi e che i due figli erano stati affidati a un mostro. Non sappiamo quello che Dio chiede a certe anime. Visse, come molte altre, senza saper come né perché. Col vigore soprannaturale dei naufraghi, s’aggrappò all’idea cri­ stiana di pagare generosamente quel che c’era da pagare per 155

lei stessa e di aiutare con i suoi tormenti gli esseri cari in pe­ ricolo per la sua assenza. Da quel momento ricevette una forza immensa. La sua povera anima, innalzata dai dolori, guardò senza disperazione le prospettive e le scorciatoie dell’inferno. Potè udire le maledizioni, le esecrazioni, le parole atroci che fanno piangere gli Invisibili, gli sghignazzamenti, le subsannazioni che fanno apparire i demoni, le porcherie spavente­ voli, i lunghi singhiozzi. Potè affrontare l’ossessionante, il ter­ ribile lamento delle disgraziate che chiamavano i loro padri, i loro mariti, i loro figli, i loro morti. Conobbe il drago dei pianti senza lacrime della Follia, che rassomigliano agli urli prolungati dei cani ululanti. Ma quel che le costò di più fu la Stupidità borghese, im­ pennacchiata, gracidante e oracolare dei medici, a comincia­ re dal vecchio idiota già menzionato, che ogni mattina sbo­ binava, presso i letti, la sua bavosa tiritera. Abituata alle ve­ dute superiori di suo marito, col quale aveva in comune il disprezzo senza limiti per la medicina e per gli omicidi sal­ timbanchi che ne avvantaggiavano, si sentiva più ferita dalle solenni asinerie che venivano declamate sul suo corpo pieno di sofferenze che da tutto il resto. Il giorno in cui quell’ona­ gro senza bellezza, dopo aver scoperto il suo rosario, disse il luogo comune da ospedale: «È una mistica, e non c’è niente da fare», lei ebbe vergogna di appartenere al genere sedicen­ te umano d’un tale idiota, e si ritenne più profanata da quell’olimpico cretinismo che da tutti gli sguardi infami e dalla concomitante brutalità dei giovani interni. Nel Messico, e più propriamente a Vera Cruz, c’è una specie di avvoltoio di cui mi sfugge il nome, il quale ha il compito di pulire la città divorando tutte le carogne. Stanno appollaiati a migliaia sui tetti e sui muri più alti, osservando con occhio infallibile tutto quello che cade. A stento un’im­ mondizia arriva a toccare terra. Questo uccello è oggetto d’una considerazione rispettosa. Non si fa, per così dire, una fe­ sta senza di lui; è severamente proibito ucciderlo. Tale è an­ che la prerogativa dei malati assistiti negli ospedali o nei ma­ nicomi di Parigi, che sono costretti a mangiare la carne puz156

zolente e gli altri mangimi putrefatti, che i porci non voglio­ no più e che sarebbe indelicato offrire a cani onesti. Questo espediente offre il molteplice vantaggio di dimi­ nuire le possibilità d’una peste bubbonica nei diversi quartie­ ri di Parigi, di rimediare allo sperpero delle vettovaglie, di mitigare nei valetudinari l’orrore della morte, e infine di fare affluire nelle tasche laiche e filantropiche degli interessati il buon danaro senza odore. C’è soltanto questa differenza con gli uccelli rapaci: che i malati godono una assai minore con­ siderazione e che è facile mandarli all’altro mondo, alla svelta. Ricordandosi di Dio, Geneviève potè inghiottire tutte queste atrocità, benedette ogni giorno dai medici della casa. Quante cose non dovette inghiottire! Benché fosse d’una debolezza estrema e quasi morta al suo arrivo, le fu concesso di conti­ nuare ancora a vivere in quel luogo per parecchie settimane e sopravvivere a un trattamento che avrebbe ucciso una gigantessa. Più tardi ha affermato di non aver capito come mai una vecchia inserviente per tre quarti demente, la quale l’a­ veva presa in odio fin dal primo giorno, non l’avesse uccisa. Infatti l’assistenza dei malati è affidata assolutamente alla discrezione di queste cagne: ciò che altrove è oggetto del ri­ gore delle leggi penali, là invece è del tutto normale, tollera­ to, incoraggiato dagli stessi buoni dottori che non vogliono sapere mai nulla. Ci vorrebbe un decreto speciale, analogo a quello della creazione degli angeli, perché una creatura uma­ na potesse sfuggire a quegli assassini. Una suora — di quale ordine? — marciva a pochi passi: campione raro e panico di degradazione. Geneviève si chiese che cosa poteva essere mai una comunità capace di mandar là una sposa di Gesù Cristo. La suora si gettava talvolta sulle vi­ cine o sulle inservienti lanciando urli che avrebbero fatto risu­ scitare gli Innocenti, massacrati, venti secoli fa, da Erode. In quei momenti, usciva dalla sua bocca il nome di Dio, come l’ac­ qua compressa a viva forza in un pozzo profondo, e bisogna udire allora le sconcezze fangose delle internate, che furono un tempo giovani bagasce succhiate su pagliericci di vomito, nell’allegrezza dell’abiezione, da bottegai senza aspirazioni. 157

Un’altra con i capelli corti, non era una suora ma più temibile ancora, si credeva un uomo, vestiva alla meglio abi­ ti mascolini, affettava modi molto rudi e faceva la corte alla responsabile del reparto, una vecchia carcassa che forse era stata una giovanetta all’epoca della presa di Sebastopoli. Queste due miserabili — la suora ululante e l’androgina — erano perfettamente al loro posto. In mezzo alle brutture di quell’angolo dell’abisso dove tutto è mediocre, anche la morte, che c’è di più tragico? L’ultima cosa che Geneviève vide e che non dimenticò mai, fu un gruppo di pazze che si cucivano delle vesti bianche per la vicina festa di santa Caterina48. Una di esse, una specie di ragazzina dall’aspetto di vecchia, correva in punta di piedi, di sala in sala, in cerca di nastri che non trovava mai. Venuto il giorno di santa Caterina, le sinistre vesti furono indossate da quelle morte senza riposo, che andavano e venivano, dignito­ samente, senza poter trovare il loro sepolcro. Geneviève ricorderà per tutta la vita — ricordo bizzarro e crudele che vaga ostinatamente al di sopra d’un cratere di dolori — una specie di canzone o di melopea, triste come il mandolino del Purgatorio, le cui parole erano ispirate dalla de­ menza, ma il cui ritornello significava qualcosa di preciso: che cioè si è felici d’aver perduto la ragione che fa tanto soffrirei Più si fa i matti, più ci si diverte.

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Non è oro tutto quel che brilla

La nozione di brillante per i Borghesi non differisce dal­ la nozione collaterale di rilucente. Estetica da lustrascarpe. In letteratura, per esempio, Paul Bourget* è un brillante scrit-

48. La situazione diventa ancora più tragicamente ridicola e alienante se si pensa che Santa Caterina viene festeggiata in Francia dalle ragazze an­ cora nubili in cerca di un buon marito.

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tore, sempre giovane, e l’autore del Quo vadis?49 ne è un al­ tro, molto vicino a risplendere. Tuttavia simili opinioni sup­ pongono che siamo sulla cima dell’intellettualità borghese. A minori altezze, una qualsiasi porcheria può sembrare splen­ dente quanto ΓIliade. Ma non si tratta di questo. Si tratta dell’oro, non dell’oro dei cuori, né di quello con cui è co­ struita la Gerusalemme celeste, ma dell’oro con cui si fanno le monete da venti franchi, e che non è prezioso se non per­ ché vale molto danaro. In fondo questo luogo comune è co­ me tanti altri, un modo qualunque di esprimere l’incomuni­ cabile divinità del danaro. Perché infine l’oro può essere opaco e allora lo splendore o il brillio che gli si suppone non ha nulla a che fare con un paio di stivali in un giorno di rivista. Il danaro stesso, il sacro danaro, non ha bisogno di brillare, e la prova è data dal fatto che ci sono dei giornalacci d’un azzurro pallido che non valgono meno di mille franchi.

CXXI Non bisogna scherzare col fuoco Nel Libro dei Giudici si racconta che un giorno Sansone prese trecento volpi, legò alla coda d’ognuno di questi animali una treccia di paglia accesa e li lasciò andare tra le messi dei Fi­ listei. Così scherzava col fuoco il terribile nazzareno. Sogno tal­ volta un moderno Sansone che appicciasse il fuoco al di dietro di trecento borghesi e poi li lasciasse andare in mezzo agli altri. Però mi chiedo se questo giochetto sarebbe così diver­ tente come sembrerebbe. Chissà se il Borghese, acceso a quel modo, non diventi una figura profetica? Infatti il fuoco è in­ sieme una parola banale e una realtà tra le più misteriose; e quando esso è annunziato, a bassa voce oppure dal clamo­ re disperato delle campane a martello, si direbbe che è lui che gioca con l’uomo, tanto è il terrore della presenza divina che esso infonde nei più deplorabili imbecilli. 49. Cfr. n. 28, p. 110.

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CXXII Il buon Dio Bisogna avere la coscienza in cattivo stato per dire il buon Diol Per quanto sforzi faccia, non riesco a immaginare un martire che fa uso di questo esempio della regola degli agget­ tivi. Lo steso Zola*, quando pasce le sue vacche, esclama tal­ volta: «Gran Dio!» se una di esse zoppica oppure s’è gon­ fiata. Ma, da parte di questo giusto, si tratta d’una esclama­ zione pia, di uno slancio del cuore, mentre il buon Dio della gente comune non comporta un atomo di devozione. Il buon Dio del Borghese è una specie di impiegato di cui lui non è sicuro e al quale non concederebbe mai l’ono­ re della sua fiducia. Lo paga male, e abitualmente si mostra disposto a licenziarlo, pronto a riprenderlo il giorno dopo, se ne ha bisogno. Perché, diciamolo pure, il buon Dio, è enormemente decorativo nelle botteghe. Lo si sa benissimo quando si sta in commercio o anche in un qualunque intral­ lazzo che senza essere propriamente commercio richiede tut­ tavia le attitudini filibustiere che fanno onore alla Borghe­ sia. Non mi meraviglierei se un giorno un usciere mi presen­ tasse un’ordinanza da parte del buon Dio che parla alla mia persona. Infine, e per concludere, il buon Dio, così raramente, così difficilmente inghiottito dal Borghese è ugualmente ab­ bastanza richiesto dalla clientela, ed è per questo che vale la pena di vincere molte ripugnanze. Entrate in un luogo qua­ lunque e non sentirete parlare che di lui: «Il buon Dio vi verrà in aiuto... il buon Dio s’occupa di voi... il buon Dio per tut­ ti... il buon Dio senza confessione... la coccinella, una be­ stiola del buon Dio, ecc. ». La cosa non costa molto in veri­ tà. Il buon Dio è talmente in miseria che si contenta volen­ tieri d’una crosta di pane e di un bicchiere d’acqua, e si ras­ segna ai compiti più bassi, senza aver neppure il riposo del settimo giorno. E con tutto questo, quante volte non si sente rinfacciare da quelli che sono intimi del Demonio, di non va­ lere quanto il Diavolo! 160

E se questo buon Dio dovrà giudicare tutta la terra, il Borghese ha ragione, secondo me, di disprezzarlo e di oltrag­ giarlo. Il furbacchione si prepara così delle belle sorprese e una emozione eterna!

CXXIII La Natura

Ne parlo perché mi ricorda la giovinezza. Oggi sono co­ se tramontate e fuori uso. Siamo diventati troppo sapienti. Ai tempi miei, la natura significava ancora un sacco di cose. — Lasciate fare alla natura, — si diceva a ogni pie so­ spinto, — lasciate agire la natura. — Adesso si parla solo di microbi, e la natura è sostituita da una siringa. Idolo per ido­ lo, preferisco l’antico. La natura era piacevole a vedersi, molto meno noiosa e molto meno pericolosa. Fu adorata, soprat­ tutto nel diciottesimo secolo, epoca in cui sussisteva in Fran­ cia un vivo senso del ridicolo. È certo che il nostro Borghese ha perduto questo senso. Indubbiamente egli non dice più, come al tempo di Jean-Jacques Rousseau, che il ritorno allo stato di natura sarebbe l’ideale. Un non so che l’avverte che sarebbe imprudente comparire in natufalibus al caffè, com­ parire nudi quando sono vicine le guardie; però sopporta e sollecita anche, tra molte altre cose, le avventure indecenti e favolose della medicina contemporanea. La natura come la concepisce il Borghese moderno, quando questa bestia puzzolente ha ricevuto una vernice di educazione, è un prodigio di asineria e di pedantismo che la brevità della vita non permette di spiegare. L’unica cosa che si può fare è di meditare sull’altro prodigio che le è consu­ stanziale e che si chiama la natura stessa del Borghese. Qui c’è del grandioso. Basterebbe ricordare lo specchio alla rove­ scia, di cui abbiamo già parlato, e nel quale la faccia di que­ 161

st’ultimo dominatore del mondo è riflessa dalla spaventevole Faccia di Dio50. 51 Voi sapete che i filosofi puri, quelli che non raccolgono il concio, hanno detto, dopo il Calvario, che la natura del­ l’uomo era in uno stato d’innocenza e di perfezione da cui è decaduta, cosicché la Virtù e la Bellezza sarebbero un ri­ torno al Paradiso, proprio al contrario di quello che viene insegnato nelle stalle. Che pensare della «natura» d’una legione5' odiosa, con milioni di voci cattive e confuse, che chiedono insolentemente di rientrare tra i porci? CXXIV La Scienza

Ecco il labaro degli imbecilli. La Scienza! Prima del ven­ tesimo secolo, la medicina, per parlare soltanto di questa baldracca, non aveva alcun bisogno della scienza e si degnava appena di chiedere il suo appoggio. Da moltissimo tempo, essa imputridiva nelle deiezioni dei suoi malati. Adesso inve­ ce guazza nella sua propria lordura. La putrefazione si lamentava di non avere il suo profe­ ta. Allora è arrivato Pasteur*, Pasteur dal nome dolce e ar­ cadico, e il Microbo, in ritardo di sessanta secoli sulla crea­ zione, è finalmente uscito dal nulla. Che rivoluzione! A par­ tire da lui, tutto cambia. La ricerca del pelo nell’uovo del vi­ rus sostituisce l’antico spirito delle Crociate. Si conosce sol­ tanto la scienza. Non si vuol conoscere altro che la scienza e ogni sbruffone rivendica la sua ameba. Tutte le sensazioni, tutte le pesti liquide, tutti gli scoli dei morti, tutto quello che si trova in fondo ai sepolcri viene oggi portato alla luce, pro­ clamato, mobilizzato, iniettato, inghiottito. La rabbia, la tu­ bercolosi, il colera sono diventati degli aperitivi o dei bicchie­ 50. Cfr. XXXIV, p. 70. 51. Cfr. n. 44, p. 150.

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rini di liquore dopo il caffè. Un mugicco della confraternita ha scoperto recentemente un siero contro la vecchiaia52. Ai genitori spetta il compito di somministrare in tempo ai loro figli, fin dalla culla, quaranta fermenti d’infezione, e di tra­ sformare i loro corpi in vasi di putredine. All’Istituto Pasteur c’è tutta una schiera di cittadini utili, dediti esclusivamente alla ricerca dei mezzi per imputridire53. — Sì, signore, — mi diceva quindici giorni fa un allievo interno di Place de la Concorde, — vengono alloggiati qui per questo, e l’illustre avvelenatore Jenner*, al quale l’Euro­ pa contemporanea è debitrice per la sua vaccheria, non tro­ verebbe neppure una lettiera per se stesso in questa casa... Quella che un tempo fu la quinta tra le Sette punte fiammeggianti54 della corona imperiale del Vagabondo, la di­ vina Scienza, è diventata qualcosa di così volgare che il Bor­ ghese pensa di ottenerla. Questo Valore doveva proprio esse­ re deprezzato perché un imbecille come Zola*, per esempio, avesse l’audacia di sfruttarlo sotto gli occhi d’un popolo tan­ to decaduto che nessuno pensa di sputare in faccia allo sfrontato. Ah, costui rappresenta benissimo quella risciacquatina della specie umana, quella caccola dei secoli che si chiama il Borghese contemporaneo; e deve sentirsi commosso quan­ do, a ogni pié sospinto, invoca quella che lui osa chiamare Scienza, nelle sozze e indecifrabili pagine dei suoi stomache­ voli romanzi! La scienza per progredire, la scienza per gode­ re, la scienza per uccidere! La scienza svilita fino a pascere i proprietari, fino a nettare il canile delle bestie feroci che spa­ ventano il Povero! 52. Si tratta di Metchnikov, fisiologo di origine russa. V. Indice dei Nomi. 53. Léon Bloy era decisamente contrario ad ogni tipo di vaccinazione. Cfr. Journal, cit., t. I, p. 185. 54. La scienza occupa, in effetti, il quinto posto nell’enumerazione dei doni dello Spirito Santo che adorneranno il Messia, il « Virgulto che sorgerà dal trono di Jesse », Isaia, I, 1-3.

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cxxv La Ragione

«La ragione, ha detto Malebranche*; è la saggezza di Dio stesso»; ma questa definizione pare che non convenga a quella che i commercianti chiamano ragione sociale. Però, chissà?.... È stato detto tutto quello che si è voluto sulla Ragione, però l’opinione più accreditata è che essa si oppone alla Fe­ de. E la prova di ciò è data dall’orrore universale delle per­ sone ragionevoli per il numero tredici e dalla loro unanime ripugnanza a cominciare le loro porcherie nei giorni di ve­ nerdì. Ho conosciuto un focoso avversario del cristianesimo che nella notte della Befana metteva sornionamente le sue cal­ ze nel camino. Il Venerabile della sua Loggia, venuto a co­ noscenza di questa mania, lo convinse a metterle semplicemente e ragionevolmente dietro la porta del gabinetto, il che è senz’altro molto più conforme alle tradizioni del Libero Pensiero. CXXVI Il Caso

Un caso fortunato, un caso provvidenziale, il caso ha voluto, il caso ha permesso, bisogna lasciare una parte al ca­ so, ecc. Dunque il caso è Dio, tutto lo prova, e — si faccia bene attenzione! — è il solo e l’ultimo Dio che ottiene, anco­ ra oggi l’adorazione degli imbecilli, il che suppone uno stra­ no Dio. Ma bisogna pur confessare che si tratta di un Dio abbastanza divertente, che ha soltanto una valenza positiva, senza un atomo di valenza negativa. Oh, so benissimo che ciò che sto dicendo non è troppo chiaro. Per fortuna ho in mano la lettera d’un alienato, di cui trascrivo un lucido estratto: «Caro signore, lo sapete, ho affidato tutta la mia vita 164

al caso, come conviene quando si sa di essere stato creato e messo al mondo dal caso e si sussiste per volontà del caso... “L’elefante lo saluta al levar del sole...” ha detto Chateau­ briand. Fin dalla mia più tenera giovinezza, ho votato la mia verginità al caso, il che, dovete convenire, era una maniera abbastanza edificante e molto ingegnosa di perderla. Ho sem­ pre vissuto, pensato, agito, amato a caso. Poiché la mia ricchezza era un ostacolo, mi sono affret­ tato a gettarla nei giochi d’azzardo. Allora, diventato libero, ho conosciuto il piacere di mangiare e di dormire a caso. Al contrario di tanta gente che manca di senso religioso e dice che non bisogna abbandonarsi al caso, non ho conservato niente per me. Inutile aggiungere che ho preso una moglie a casaccio e ne ho avuto dei figli che sono veramente i figli del caso. Ebbene, lo confesso, nonostante questo, non sono con­ tento. Il Dio che io adoro non ha Decalogo o Sinai. Il Caso non ha comandamenti. Può tutto, vuole tutto e fa tutto, ma non si oppone a niente, non proibisce niente. Cercate di di­ re: il Caso non ha voluto, il caso non ha permesso, il caso è offeso, il caso punisce; non lo potrete mai. Con lui non esistono trasgressioni, non esiste peccato. Quando ci abban­ doniamo ai bagordi, è una cosa abbastanza divertente, non dico di no, però, col tempo è esasperante». Interrompo qui questa lettera perché diventa d’un tratto d’una impudicizia sorprendente, senza che si possa dire il per­ ché. Cito soltanto questa prosopopea finale che mi pare si possa applicare ai borghesi, sebbene sia difficile identificar­ ne la destinazione: «Oh, i porci! i porci! i porci!». CXXVII La notte dei Medioevo

Appena cinquanta anni fa, la notte e le tenebre del Me­ dioevo erano rigorosamente richieste per gli esami. Un gio­ 165

vane borghese che avesse dubitato della densità di quelle te­ nebre non avrebbe trovato una donna da sposare. Oggi, grazie all’arte industriale diffusa dagli spettacoli dei ritrovi pubblici, la società borghese, già così stimolante, è diventata medioevale. Ha vetrate a fondo di bottiglia, stal­ li, madie, arazzi, credenze, porcellane, ferro battuto. Tutto questo senza rovina né dolore. Un proprietario di bazar che non sia una bestia deve potere improvvisare una collezione Du Sommerard* in ventiquattro ore. Ormai le botteghe arti­ gianali che eseguono lampadari e confezionano tessuti han­ no una loro arte da contrapporre agli artisti; e non l’affida­ no più a costoro; esse la conoscono perfettamente. Però, nonostante quest’unico becco a gas, la famosa not­ te continua. Concediamo l’arte, questa nuova arte, beninte­ so, dal momento che la privilegiamo e che è un mezzo per far fiorire il commercio. Ma, a parte questo, come rifiutare le tenebre a un’epoca in cui tutti credevano in Dio?

CXXVIII L’Inquisizione

Questo luogo comune non ha subito cambiamenti. È re­ stato esattamente allo stesso punto in cui si trovava cento anni fa. Gli auto da fè, i roghi, i san-benito, gli stivaletti di ferro, i cavalletti, le strappate di fune, le tenaglie, i pali, le seghe, le lime, i flagelli, i chiodi, le graticole e gli uncini, sono sem­ pre di moda. Lo strumento di tortura è un articolo di uso corrente e di prima necessità. L’anima del gassista e quella del piallatore hanno bisogno di essere persuasi che la storia della Chiesa è una lunga rifrittura. Il Borghese, qualunque sia il suo mestiere, può dubitare dell’esattezza di un conto, ma sa che ci sono stati uno o più ordini religiosi istituiti ap­ positamente per bruciare a fuoco lento i pensatori oppure per scorticarli da capo a piedi. Ah, questi pensatori hanno farcito, riempito, inondato, 166

ostruito, saturato, ubriacato la mia infanzia fino al punto che ogni prete mi appariva tra le fiamme e i patiboli, circondato da vittime pensanti. E la cosa più atroce era che quanto più si era virtuosi e più si pensava, tanto meno si sfuggiva a quelle tigri. Quante lacrime! quante grida! quanti urli di dispera­ zione! e, da parte mia, che giovanili epifonemi, che impreca­ zioni! A mano a mano che tutto questo si mescolava ai nitri­ ti eufonici della mia pubertà, cominciavo a diventare anch’io un pensatore... L’apparato e la messa in scena dei supplizi hanno qual­ cosa di così attraente che certi uomini, che potevate credere a una certa distanza dalle botteghe e che non erano necessa­ riamente barricati in un’ignoranza inespugnabile, certi poeti come Victor Hugo* e Villiers de l’Isle-Adam*, hanno navi­ gato felicemente nei vecchi battelli a vela dell’Inquisizione di Spagna. Ognuno di essi ha creato un suo Torquemada. Soltanto Villiers*, che si credeva cattolico, s’è accorto di un Pietro d’Arbuès*, primo inquisitore della fede in Ara­ gona, assassinato dagli ebrei nel 1485 ai piedi dell’altare e ca­ nonizzato da Pio IX. Questo santo martire è descritto dal­ l’autore delle Histoires insolites nell’atteggiamento di un te­ stardo e sanguinolente ipocrita che esorta all’amore divino mentre fa rompere le ossa delle vittime... E allora che volete! Viene la voglia di abbracciare, pian­ gendo, i borghesi e i loro borghesi subalterni che crescono all’ombra di queste montagne e che forse s’incretiniscono sen­ za colpa. CXXIX La notte di san Bartolomeo

Ah, mi sono stufato. Ho accettato eroicamente di sof­ fermarmi su certe asinerie che ritenevo singolari e prototipe, ma qui mi fermo. Forse qualcuno vorrebbe che m’attardassi sulla revoca dell’Editto di Nantes, il più onorevole atto di Lui­ 167

gi XIV che fa ragliare mezza Europa ancora dopo duecento anni; ma non bisognerebbe, immediatemente dopo, dire qual­ cosa della Bastiglia, della Libertà di coscienza, dei Diritti del­ l’uomo, del Suffragio universale, delle arti belle, e forse an­ che del misterioso sorriso della Gioconda? E allora, silenzio! Fermiamoci dunque alla notte di san Bartolomeo, che avrebbe potuto essere uno dei più piacevoli momenti della sto­ ria di Francia. Confesso che tutte le volte che me ne è stato parlato in Danimarca, nella Svezia o in qualsiasi altro paese protestante, ho provato una penosa confusione 55. Infatti si dice comunemente che questa festa fece scorrere il sangue di parecchie centinaia di migliaia di calvinisti dal cuore puro, e soltanto a Parigi... — Volesse il cielo! — ho esclamato ogni volta, doloro­ samente. Immaginatevi l’umiliazione di rettificare con pove­ re cifre troppo reali queste cifre grandiose! Mi trovavo nella situazione di un disgraziato creduto ricco e costretto invece a confessare la propria miseria. Questa umiliazione dura sem­ pre, mitigata però dalla consolante certezza che oggi i calvi­ nisti si scannano tra loro, nella maniera più gentile. Tuttavia è duro per un cattolico non vedere mai la fine di questa ironia, dover subire sempre, qui e là, in Francia o all’estero, da circa trecento trent’anni, la derisione vitupero­ sa degli imbecilli per l’atrocità, disgraziatamente immagina­ ria, di un fatto della Parigi d’un tempo che avrebbe potuto essere un grande atto, ma che, per un concorso inaudito di scempiaggini, non è stato, ahimè, che una specie di effusione sentimentale!

55. Léon Bloy aveva sposato nel 1890 Jeanne Molbech, una danese figlia di uno scrittore abbastanza conosciuto. Nel 1891 e nel 1899 aveva visi­ tato il paese natale della moglie e il secondo viaggio si era trasformato in un soggiorno nella cittadina di Kolding più prolungato ed estremamente do­ loroso per tutta la famiglia (gennaio 1899-giugno 1900).

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cxxx In tutte le religioni c’è del buono «Caro amico, stasera devo vederti. Forse sarete costret­ to a passare la notte. Potrebbe anche darsi che occorra am­ mazzare qualcuno. È una cosa seria e molto originale. Pen­ sate che si tratta di catturare un signore che è nientemeno il mio padrone di casa, fortemente sospetto di derubare me, suo inquilino. Capirete che, per trarre da questa occasione tutto il vantaggio possibile, ho bisogno di un testimone. Dunque venite, ma non troppo tardi. Lui non deve accorgersi che ho ricevuto dei rinforzi». Quando scrissi questa lettera, circa un anno fa, abitavo una casetta isolata nei pressi dei bastioni e avevo la certezza che il mio vicino e padrone di casa s’introduceva di notte nel mio scantinato per spillare il vino e traslocare il carbone. Que­ sto proprietario era lo stesso papà Edouard, che ho cercato di descrivere nelle massime precedenti quando mi sono occu­ pato del «fior fiore della gente perbene»56. Il fatto è che lui portava in fronte tutti i segni delle atrocità e della frode. Il mio piano era estremamente semplice. Avevo fatto ve­ nire in pieno giorno alcune provviste capaci di tentarlo e, poi­ ché la porta del mio scantinato dava sul giardino, avevo la­ sciato la chiave nella serratura quasi per invitarlo. Tutto era congegnato in modo che gli sarebbe stato impossibile non ca­ dere con gran fracasso, appena varcata la soglia. Io allora sarei accorso, sperando di arrivare in tempo ad acciuffarlo. Da quel momento, sarebbe stato in mia balia, e, con la mi­ naccia del commissario di polizia e del tribunale, avrei otte­ nuto da lui con grande facilità non solo una seria indennità ma l’abbuono regolare di parecchi fitti. Il concorso del mio amico, un giovanotto robusto e astutissimo, avrebbe senz’al­ tro assicurato la riuscita del tranello. 56. Un altro accenno alla sfortunata permanenza della famiglia Bloy al Grand-Montrouge 2, nel luglio 1895. Cfr. n. 24, p. 91, LI, pp. 88-91 e Journal, cit., t. I, p. 187.

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Dico subito che il complotto non ebbe successo. Il vec­ chio mascalzone venne troppo tardi, quando noi ci eravamo già assopiti e scoraggiati. Risvegliati dalla sua caduta ma de­ lusi dalla sua incredibile agilità, avemmo la mortificazione di vederlo fuggire senza che potessimo aver l’ombra di una pro­ va, essendo stato colpito appena da una bastonata nella schie­ na somministratagli da uno di noi all’ultimo momento. — Come vanno i furterelli, signore Edouard? — gli chie­ se il mio amico, alcune ore dopo. Edouard, che sapeva fare il sordo al momento opportuno, ne approfittò per dare que­ sta risposta straordinaria: — Oh, caro signore, in tutte le religioni c’è del buono'. Qualche tempo prima, il grande rabbino Zadoch Kahn*, a proposito di un mio libro, mi aveva anche lui risposto con questo mirabile luogo comune che sembra l’inizio del Van­ gelo secondo san Giovanni per gli imbecilli e i malfattori.

CXXXI Avere una falsa coscienza Esagerare

Che cos’è una coscienza falsa? È una coscienza che esa­ gera. Che cos’è una coscienza che esagera? è una coscienza che dice: Sì o no (Vangelo di san Matteo, V, 37). Quante volte ho avuto occasione di far notare che non c’è una parola della Sapienza che non riceva ogni giorno la più completa smentita dalla saggezza borghese?

CXXXII

Non bisogna vedere troppo nero Troppo nero, no; ma un poco, convenientemente, an­ che molto, ma non troppo; insomma, nella giusta misura, mi capite. Una saggezza mitigatrice consiglierebbe di vedere le 170

cose piuttosto in rosa o in bianco. Questo è almeno il parere del Primo Uomo57 che non vuole che i moribondi siano av­ vertiti della morte imminente «anche se lo desiderano». Non lo vuole assolutamente. Il coma gli sembra preferibile alla pre­ parazione alla morte e «l’uso atroce» dell’estrema unzione lo urta particolarmente. Leggo queste notizie in una cronaca del Journal dove stanno senz’altro benissimo, perché il foglio del fu Fernand58 si rivolge a un pubblico fortunatamente libero « dalle crudeli esigenze della fede». Il Primo Uomo parla molto della pietà, in quell’articolo. Ecco l’ultimo periodo, degno d’essere cita­ to, perché mi ha ricordato profeticamente l’assistenza da coc­ codrilli e scimmie feroci che la coscienza definitivamente li­ bera del ventesimo secolo prepara agli agonizzanti. « Istruiamoci nella pietà, nella dolcezza e nella compas­ sione, anche quando si tratta di nascondere i sintomi della morte accorsa al capezzale del malato. Abituiamoci non tan­ to allo zelo quanto alla gentilezza benefica, la quale allonta­ na da ognuno le pene inutili e le preoccupazioni superflue». È evidente che, « poiché la salvezza dell’anima non è più la cosa essenziale», il colmo di questa gentilezza consistereb­ be nel mandar alla svelta all’altro mondo il malato, perché così gli si risparmiano sicuramente le angosce e i dolori. Già molti secoli prima dell’era cristiana, gli antichi l’avevano scoperto. Per limitarci soltanto a quel grado di gentilezza che con­ siste nel far credere al moribondo di poter guarire, sa il Pri­ mo Uomo che questo grado di gentilezza è praticato abba­ stanza assiduamente? e indovina perché? Se conoscesse il par­ roco di una qualunque parrocchia, questo ministro da niente saprebbe che la maggior parte dei borghesi muoiono senza 57. Il «Primo Uomo» è Paul Adam, di cui Bloy aveva appena letto un articolo su questo argomento nel “Journal”. Cfr. Journal, cit., t. Il, p. 77 e V. Indice dei Nomi. 58. Fernand Xau, giornalista e collaboratore al “Journal”, era morto nel 1899.

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confessione, perché altrimenti dovrebbero restituire. La fa­ miglia, che teme una servile conclusione d’una vita fatta di mascalzonate e di brigantaggio, fa la guardia più rigorosa at­ torno al moribondo affinché «non veda le cose troppo ne­ re». Il prete, se è stato chiamato, viene introdotto soltanto quando il suo ministero è diventato inutile, e, per questo, le più sacrileghe menzogne sembrano lecite. Sarei curioso di sapere chi dovrebbe essere, in simili ca­ si, il beneficiario della compassione del Primo Uomo; per­ ché in fondo abbiamo di fronte tre persone morali, ugual­ mente degne d’interesse: il moribondo, gli eredi del moribondo e gli estranei derubati dal moribondo. È indispensabile sce­ gliere. Se si nasconde al ladro che egli sta per crepare, non penserà neanche a restituire. Se lo si avverte, è probabile che non ci penserà neppure dopo le esortazioni del prete, ma ci sono sempre delle probabilità. È il caso di dire che si tratta di un affare indiavolato. E allora, su chi cadrà la misericor­ diosa pietà del Primo Uomo? Poco fa parlavo della smentita continua che il Borghese infligge al Testo sacro. Ora, il Borghese sul letto di morte mi fa pensare — tanto è suggestivo — all’adolescente del Van­ gelo che, avendo chiesto a Gesù che cosa dovesse fare per avere la vita eterna, ricevette la risposta di dare tutto ai po­ veri; e se ne andò pieno di tristezza. Abiit tristis59. Post-scriptum. — Il Vangelo non dice troppo triste, «nimis tristis», ma soltanto triste, senza eccesso. Il Borghese può infischiarsi della vita eterna: in questo si distingue dalle bestie. CXXXIII

Le disgrazie tornano sempre utili

Le disgrazie degli altri, si capisce. Di buono non c’è che questo. È assai difficile, per esempio, immaginare di appro59. Matteo, XIX, 22.

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fittare di una fortuna capitata a un vicino di campagna e di cui non si può trarre alcun vantaggio. La prova è data dal fatto che, come dice un altro luogo comune identico a que­ sto, la felicita di uno non fa la felicità d’un altro. Un vostro carissimo amico ha ereditato inopinatamente parecchie centinaia di milioni. Ebbene, è probabile che voi non ne riceverete neppure un centesimo; anzi può darsi che lui comincerà a spogliarvi, perché vi rassomiglia come un fratello. È però incontestabilmente un bene vedere soffrire il pros­ simo, sapere che soffre. È bene in sé ed è bene per le conse­ guenze, perché un uomo finito è un uomo che si può divora­ re. Ora, sanno tutti che nessuna carne, neanche quella di por­ co, è tanto saporita. CXXXIV

Saper attendere Una famiglia cristiana. Il boccone migliore è offerto al padre. Senza toccarlo, il padre l’offre alla madre. La madre lo dona ai figli, che lo danno a un povero il quale lo getta ai cani. I cani sanno attendere il Corpo di Nostro Signore Gesù Cristo.

cxxxv La salute innanzitutto

— Come! Anche prima del danaro? — Sì, ragazzo mio, innanzitutto, assolutamente. Tratta bene il tuo corpo, che è la cosa più preziosa e insostituibile. Fallo vivere il più possi­ bile, godendo quanto più puoi. Quel che ci vuole, ci vuole, e la vita è breve. I preti hanno ben voglia di parlare di vita eterna; credi alla mia esperienza, è meglio avere che deside173

rare, è più piacevole pagare la cuoca che il farmacista. Per quanto riguarda il danaro, non è perduto quando ci curiamo la salute; anzi. Ci sono momenti in cui bisogna sapere tener­ lo a riposo; dopo, ci si rifà meglio sulla clientela. Napoleone* diceva che la salute è indispensabile a un ge­ nerale. Ebbene, mi sai dire se il commercio non è una guer­ ra? Ogni persona che mette piede nella nostra bottega è un nemico. «Il cliente, ecco il nemico!» ha detto Gambetta*, non dimenticarlo, figlio mio. Il vero commercio, il commer­ cio ben compreso, quello che porta fortuna e onori, consiste nel vendere a venti franchi ciò che costa cinquanta centesi­ mi, come fanno quotidianamente tutti i bottegai più stimati. È pur vero che sono molto facilitati in questa operazione, per­ ché la loro merce sfugge al controllo della popolazione; però è sempre l’ideale. Sai benissimo che nella vendita degli alimentari, per esem­ pio, la prima cosa che bisogna imparare, l’a b c del mestiere, è di servire soltanto porcherie, facendo attenzione, c’è forse bisogno di dirlo? di pesare sempre nell’angolo più oscuro della bottega e con una grande rapidità nei movimenti, in modo che il cliente non abbia assolutamente quello che compra, né come qualità né come quantità. Un tempo lavorai presso il celebre Gibier, della ditta Ca­ verne e Gibier, che è ritenuto di solito come il Massena o il Cambronne dei bottegai. Ricorderò per tutta la mia vita la fisionomia veramente eroica e l’austera semplicità di quel gran vegliardo, quando ci diceva: — Imparate, amici, che ho venduto sempre soltanto della merda, e sempre con pesi falsi, soprattutto ai poveri che non hanno bilance in casa. Per quanto riguarda il danaro, posso attestare che ho saputo sempre far passare le monete false. Sono riuscito finanche, in un battibaleno, a spacciare dei bot­ toni di calzoni. Ma ci vuole la salute per far questo, una sa­ lute di ferro, perché bisogna stare continuamente sulla brec­ cia e non prendersi mai un giorno di riposo, né disprezzare i più piccoli guadagni, anche se si fossero guadagnati cinquan­ ta milioni. 174

Medita queste sublimi parole, caro figliuolo, e ancora una volta ti dico: cura la tua carcassa. La salute innanzitutto.

CXXXVI Dio non fa più miracoli

È un modo conciliante, benigno, quasi pio di dire che non ne hai mai fatti. È il luogo comune preferito dal curato Pucelle e da molti altri tra ecclesiastici e laici devoti60. Un giorno, saran circa dieci anni, fui presentato a un signore il quale, sentendo il mio nome, cominciò subito a me­ ravigliarmi col dichiarare che lui riteneva puerile attendere o sperare grandi cose, o semplicemente delle cose straordinarie. — Per quanto mi riguarda, — aggiunse — posso dirvi che a me non è mai accaduto niente. L’enormità di quella castroneria mi paralizzò per un mo­ mento; poi gli feci delicatamente questa obiezione: — Signore, voi forse siete assai distratto o ingrato, per­ ché, per dirmi questo, avete scelto il momento in cui vi è ac­ caduto precisamente una cosa inaudita che voi non avreste mai previsto o sperato. — E quale? — chiese quell’uomo sorpreso. — Avete avuto l’onore di incontrare me, — risposi con grande semplicità e voltando le spalle a quell’imbecille. CXXXVII Non sono più stupido degli altri Dunque, possiedo un’intelligenza almeno uguale a quel­ la di chiunque altro. Questa conseguenza non sembra rigo­ rosa, però appartiene alla logica del Borghese come certe re60. Cfr. xeni, pp. 131-133.

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gole grammaticali vengono determinate soltanto dall’uso. Se il vecchio ombrellaio dicesse al giovane telegrafista: « Non so­ no più stupido degli altri, e la prova è data dal fatto che vi ho visto nascere», è certo che il cartolaio e il fabbricante di galosce non mancherebbero di gridare all’evidenza. La forza di un uomo, il quale in coscienza può afferma­ re di non essere più stupido degli altri, è incalcolabile. C’è un tale mistero in questo diavolo di luogo comune che siamo quasi tentati di credere che forse avrebbe potuto servire a qual­ che cosa nella creazione del mondo. Fate leggere al vostro medico, al vostro dentista, al vo­ stro impresario di pompe funebri, al vostro impagliatore, al vostro notaio, una magnifica frase di Barbey d’Aurevilly*, di Villiers de l’Isle-Adam*, un pensiero originale di Ernest Hello*, una vivida e naturale strofa di Paul Verlaine*. Che cosa vi risponderanno costoro? Semplicemente questo: «Non capisco; eppure non sono più stupido degli altri». E, imme­ diatamente, senza che nemmeno un angelo possa dire perché, Verlaine, Hello, Villiers, Barbey e anche, se volete, Napoleone* e tutti i grandi personaggi saranno posti sotto i loro piedi... L’universale superiorità dell’uomo il quale non è più stu­ pido degli altri! Non conosco niente di più schiacciante.

CXXXVIII Il fine giustifica i mezzi e Con i centesimi si fanno i milioni Non ricordo più per quali motivi i coniugi Chien aveva­ no interesse che il figlioletto morisse. Forse non l’ho mai sa­ puto. È passato tanto tempo! Avevo al massimo venti anni, e non ho mai capito nulla degli intrighi dei notai. So soltan­ to che dopo la sepoltura del piccolo Chien i suoi genitori do­ vevano «godere» di una forte somma. Per giustizia però, devo anche dire che, fin dal momento in cui questo interesse entrò nella loro vita, essi non pensarono ad altro se non a come 176

sbarazzarsi del povero bambino. Però sarebbe temerario con­ cludere che i Chien fossero delle canaglie. Erano dei borghe­ si, nient’altro che borghesi e, giustamente, erano reputati gente onesta. Si trovavano a loro agio, avevano orrore delle nuvo­ le: ecco tutto. Il marito aveva un buon posto al Municipio, e la moglie gestiva un gabinetto di lettura o dei gabinetti pubblici, non ricordo esattamente. Tutti e due, però, appartenevano alla categoria dei ben pensanti. Si sarebbero fatto scrupolo di non andare a messa la domenica e patrocinavano le opere della parrocchia. Di loro si diceva con rispetto: «Hanno questo e quello, senza contare le speranze»', con «speranze» si inten­ deva la morte del piccolo Chien. E venivano invidiati e insie­ me compatiti. — Poveri Chien! è proprio una disdetta avere quel ra­ gazzino che starebbe così bene col buon Dio! — Questa era la voce generale. Avevano un loro partigiano ben determinato nella per­ sona del grosso rigattiere Minet, che era l’oracolo del quar­ tiere. — Ah, se fossi al loro posto!... — borbottava di tanto in tanto. E non finiva la frase, ma il gesto della mano piega­ ta a squadra in direzione del suolo e mossa da sinistra a de­ stra davanti al petto, sottolineava abbastanza chiaramente una strizzatina d’occhio che diceva tutto. Anche il parroco, autore melenso d’un libro sulla Pure­ té d’intention, li consolava amorosamente, esortandoli a por­ tare la loro croce fino a che piacesse a Dio di liberarli. In breve, essi godevano la simpatia di tutti e quando si seppe della morte del piccolo Chien, il quartiere si sentì alleggerito di un peso. Oh! i suoi genitori, non l’avevano ucciso. L’avevano fat­ to vivere velocemente, ecco tutto. E poi, non era colpa loro se i bambini non hanno la resistenza dei cammelli di Tartaria. Aveva appena cinque anni ed era costretto a camminare fino a dieci ore al giorno per «diventare forte e sano». Il pa­ sto, sempre succulento, era proporzionato a questo salutare esercizio. Non ci fu un bambino così ben nutrito. Quanto al 177

sonno, stavano attenti che non ne abusasse, e, poiché lo de­ stinavano alla carriera militare, ve lo preparavano già molti­ plicando le sveglie notturne, ecc. Il futuro soldato fu spacciato in pochi mesi. Qualcuno che spia attraverso le pareti mi ha detto che, quando quei due mostri stavano soli con la vittima, si toglievano la maschera; ed era una cosa spaventosa. Povero esserino, senza alcuna difesa! Non si possono descrivere i particolari... Si sa che le lacrime dei deboli sono, per il borghese, come il vino della Vigna di Dio. Assassinato dalle fatiche, dalle indigestioni, dalle inson­ nie, muto di terrore e immobile, il povero figlio dei Chien piombò nella morte senza far rumore, come un soldatino di piombo che cade a capofitto in fondo al lago. Ricordo questa storia orrenda, perché è esatta, univer­ sale e profondamente tipica. Alla sepoltura si verificò un in­ cidente di una ristrettezza borghese troppo infernale per rac­ contarlo ma che meravigliò i presenti. — Con i centesimi si fanno i milioni, — rispose mode­ stamente la madre felice a un vecchio, ipocritamente melli­ fluo, che cercava di esprimerle la sua ammirazione.

CXXXIX Mostrare cuore saldo ad avversa fortuna Se volete il mio parere, è semplice. Quello che chiamia­ mo avversa fortuna in commercio consiste nel trovarsi in con­ dizioni di non poter soddisfare i propri impegni, e quello che chiamiamo «cuore saldo» consiste nel darsela a gambe leva­ te se non c’è altro espediente. Ci si esprime così perché si ha ancora un rimasuglio di poesia. Ma se è la moglie del commerciante a salvare il paga­ mento delle cambiali con la sua persona, cosa che bisogna 178

sempre prevedere negli affari, è certo allora che il cuore non ha nulla a che vedere. Mi capite bene. CXL

Aver cuore, buon cuore

Una ragazza che si vende per aiutare i suoi vecchi geni­ tori ha certamente cuore. Un’altra che si vende per mantene­ re un nobile giovane di belle speranze ha indiscutibilmente buon cuore. Una terza che non si vende affatto ma vuole spo­ sare un povero è radicalmente senza cuore. Vedasi Les de­ moiselles de Bienfilâtre.6X CXLI

Avere amor proprio

La moglie del capo ufficio ha amor proprio e la porti­ naia ha il suo amor proprio. Ma è sempre lo stesso tipo di orpello. «Esco da me per non rientrarvi mai più», disse un giorno santa Caterina da Genova; e questa è una delle più grandi frasi che si siano mai intese. L’amor proprio consiste nell’essere sempre dentro di sé. I galantuomini escono da casa più raramente che gli assassi­ ni. È l’unica differenza considerevole tra queste due specie d’uomini.

61. Titolo del primo dei Contes Cruels (1883) di Villiers de l’Isle-Adam. V. Indice dei Nomi.

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CXLII Avere facilità nel lavoro

Questo è il grado più alto, lo scalino supremo nella ge­ rarchia intellettuale dei borghesi. I notai e i materassai cre­ dono che un grand’uomo debba avere il lavoro facile. Uno scrittore di genio che fatica a morte per parecchi anni, su tre o quattrocento pagine, è, a detta loro, l’incarnazione della più vergognosa impotenza. Tra i quindici e i venti anni, ho sentito strombazzare il nome di Alessandro Dumas padre, che a quell’epoca era an­ cora quell’interminabile pioggia di muco tiepido simile a due generazioni di silografi alla rottura o allo scoppio delle cate­ ratte della luce. — Eccone uno che ha facilità nel lavorare! — si diceva, computando e soppesando i due o trecento vo­ lumi di questo negro. Oggi ce ne sono altri, creduti prolifici, che provano un male inaudito a tirar fuori le loro secrezioni e i loro catarri. È avvilente pensare che un poligrafo come Bourget*, i cui scritti somigliano a una diarrea di colla di pesce, è tuttavia uno dei nostri scribacchini più ostinatamente stitici. Ma non moltiplichiamo questi esempi. Ammazzarsi fa­ cendo un lavoro facile: ecco il caso più che bizzarro d’una moltitudine di letterati. Se ne deve concludere che accada lo stesso anche negli altri gruppi contemporanei; e devo forse credere che il mio droghiere, per esempio, un grosso imbecil­ le portato per il naso da una megera da nulla, abbia bisogno di farsi in quattro e di sudare sangue e acqua per infinoc­ chiarmi? CXLIII Avere fortuna Si dice comunemente che un cittadino francese ha for­ tuna quando ha un padre che è nato prima di lui. C’è biso­ 180

gno di osservare che si suppone che questo padre possieda danaro? Diversamente, sarebbe una sfortuna nera. Ma que­ sto è il colmo della fortuna. In genere, avere fortuna significa buscarne il meno pos­ sibile, vale a dire appartenere al gruppetto di coloro che sfug­ gono alle bastonate e alle pedate che tutti sembrano meritar­ si. In quest’ordine di idee, è certo che agli occhi del Borghe­ se che esplora, dalle cime che sappiamo, la storia del mon­ do, il Patriarca Noè ha avuto fortuna. Qui la lingua è all’al­ tezza del pensiero. D’altronde, è indifferente che la parola «fortuna» sia inintelligibile, assolutamente e per sempre. È sufficiente che rimandi o scarti la nozione di giustizia. Non le si chiede di più. CXLIV

Avere pane in tavola

Questo s’intende ordinariamente degli individui che «stanno bene al caldo» e godono di quella che si chiama «onesta agiatezza», dai quindici franchi di rendita annua del vostro servo fino ai milioni di interessi, posseduti da altri e raccolti un tempo da un santo avo, calvinista o luterano, nel sangue dei cattolici sventrati. Perché questa è l’origine delle grandi fortune protestanti. Ma, per la maggior parte dei tempo, questo pane non frutta, soprattutto ai poveri. Quando ci sono soltanto le bri­ ciole, il pane si mangia ancora. Quando c’è troppo pane, non se ne mangia più affatto e i pezzi di pane diventano pietre; e fu proprio col pane della tavola dei borghesi di Gerusalem­ me che fu lapidato santo Stefano, il protomartire.

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CXLV Mantenere delle ballerine Come ho fatto a non ricordarlo fino ad ora? L’ho tal­ mente sentito, questo luogo comune, che quasi non lo consi­ dero più. Equivale a quel sempiterno «Buongiorno, signo­ re » del primo venuto che, alla lunga, diventa quasi inintelli­ gibile. Pensate dunque che, da almeno più di cento anni, non c’è stato un poeta, un artista degno di rilievo il quale non abbia mantenuto delle ballerine durante la sua adolescenza e anche nel proseguimento dei suoi troppo facili studi. Tutti sanno, trincerati dietro alla cassa, specialmente nelle cittadine di provincia, che gli studi di un pittore, per esem­ pio, sono soltanto uno spasso continuo. Per quanto concer­ ne gli inizi letterari di un poeta, è ben altra cosa, e non biso­ gna parlarne davanti alle giovinette. O i divertimenti sfrenati della mia giovinezza! O le bal­ lerine da me mantenute nell’ardore dei miei vent’anni! Ma cosa c’è ancora? Ciascuno di loro non sa forse, nelle botte­ ghe al dettaglio o seduti comodamente sui cuscinetti a ciam­ bella gonfiati con metodo delle amministrazioni statali, che io continuo! Come sempre, il Borghese ci vede chiaro. Eppure, c’è un punto oscuro. Dove diavolo quegli arti­ sti così depravati vanno a cercare le ballerine? Un’orgia così ripetuta e smisurata ne prevede un numero infinito. La fin troppo semplice spiegazione, ahimè! riesce solo ad aggravare la triste situazione dei poeti. Tutte queste ballerine si riducono ad una sola, sempre la stessa da generazioni e generazioni. Ha due occhi che as­ somigliano a lampade appese nelle caverne, l’incarnato plum­ beo, il volto scheletrico come quello di un teschio, le dita rattrapite su un seno sfiorito e, se proprio volete sapere tutto, fa la danza del ventre davanti alle cripte panciute dei ci­ miteri....

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CXLVI Gli assenti hanno sempre torto Questo significa — e lo sanno tutti, credo — che gli as­ senti devono essere invariabilmente fregati, truffati, raggira­ ti, ingannati, depredati, svaligiati, derubati, rovinati, saccheg­ giati, spogliati, defraudati, venduti, traditi e calunniati in tutte le maniere possibili. Su questo tutti sono d’accordo. Possia­ mo anche aggiungere che si tratta di una delle disposizioni essenziali della Legge borghese. Questo luogo comune deve avere un significato profon­ do, come tutto quello che proviene dagli imbecilli o dalle ca­ naglie. Se siete curiosi di sapere a chi vanno tutti gli oltraggi, tutte le iniquità, tutti gli orrori della Crocifissione, chiedetevi Chi è il più assente in questo mondo abominevole.

CXLVII Il danaro scompare — Vi rivelerò il più grande segreto che io conosca, — diceva un illustre filosofo che s’è ucciso a furia di pensare. E aggiunse, non senza aver prima preso qualche precauzione contro un improvviso cataclisma: — Ebbene, amici, il danaro scompare'.

CXLVIII

Voglio dormire tranquilla

Questa fu l’ultima frase pronunciata dalla padrona di ca­ sa. Per lei era passato il tempo delle lotte amorose. Alla sua età, aveva bisogno di dormire tranquilla. Aveva bisogno di inquilini sicuri, di buone garanzie. — Avete perfettamente ragione, signora — rispose il vi­ 183

sitatore che aveva avuto il tempo di esaminare chi aveva da­ vanti. — Per quanto mi riguarda, dormirete. — E se n’andò. La signora Mouton era un’orribile vecchia che quando faceva freddo si scaldava col suo danaro. Si diceva che era ricchissima e la sua avarizia era prodigiosa, anche in quell’atroce sobborgo di piccoli borghesi. Il fu signor Mouton aveva guadagnato quello che aveva voluto con lo sfruttamento del latte artificiale di cui era l’in­ ventore, un prodotto senza rivali nella distruzione dei bam­ bini. Rapito ben presto alla tenerezza della sua sposa, era an­ dato ad attenderla in un mausoleo di una straordinaria brut­ tezza. È là che ho letto, non senza orrore, al di sopra d’un ingresso bizzarro, queste parole incredibilmente tratte dal Van­ gelo: Bussate e vi sarà aperto... Questa iscrizione non sarebbe stata al suo posto sulla por­ ta della casa della vedova. Dopo l’aver suonato parecchie vol­ te, si vedeva aprire lentamente uno sportello, e in quel riqua­ dro appariva una cosa fantastica: il volto orrendo della vec­ chia accanto al muso feroce d’un enorme alano appoggiato con le zampe anteriori alle spalle della padrona. Quest’ultima parlava al visitatore con una voce di gendarme in cui c’e­ ra paura e odio insieme. Se era un povero, lo sportello si chiu­ deva violentemente con una bestemmia. Chi riusciva a var­ care la soglia doveva essere un futuro inquilino, munito di certe referenze. In questo caso, si attraversava un cortile e un pezzo di giardino per arrivare a una casetta sinistra, sem­ pre in compagnia della signora Mouton e del suo molosso. Quella casetta era un tormento per la proprietaria. Non poteva in nessun modo utilizzarla, e quell’improduttività la faceva disperare. D’altro canto, non poteva neppure decidersi a prendere un inquilino, anche se avesse avuto garanzie. Era questa una cosa assai più grave della scelta di un amante per una donna onesta. Non aveva mai potuto decidersi. La verità è che aveva un’orribile paura di mettere così vicino alla sua residenza un estraneo. Era l’avara classica, la vera, quella che adora il metallo, che lo bacia con trasporto, che soffre di non poterlo mangiare come un cristiano man184

già il suo Dio nel sacramento dell’Eucaristia. La sera la si sentiva tirare il catenaccio e sprangare tutte le porte, per un quarto d’ora, e si diceva che non andava a letto se prima non avesse esplorato tutta la casa col suo cane. Queste precauzioni chiamano talmente le catastrofi che nessuno si meravigliò quando si seppe che la signora Mou­ ton era stata trovata in casa pugnalata e quasi decapitata. Poi­ ché lei aveva abituato i suoi vicini ai più strani capricci, e nes­ suno mai era stato autorizzato a metter piede in casa sua, si accorsero del delitto molto tardi e quando già si faceva senti­ re il puzzo di carogna. La si trovò in una camera buia diste­ sa per terra vicino al molosso: tutti e due già imputriditi per tre quarti. Il danaro era stato interamente rubato, e l’assassino, che era certamente un artista, aveva lasciato sul tavolo un bel fo­ glio di carta protocollo su cui si leggevano, scritte con mano ferma, queste parole d’un famoso ritornello:

Dormite, dormite mia bella, dormite, dormite per sempre. CXLIX

Non voglio morire come un cane È lecito chiedersi, e anche chiedere agli altri, perché un uomo che ha vissuto come un porco abbia il desiderio di non morire come un cane. Innanzitutto, che cosa significa morire come un cane? Secondo persone autorevoli, significa lasciare questo piace­ vole mondo senza sacramenti e andarsene al cimitero senza alcuna cerimonia religiosa. Il Borghese che non vuole morire come un cane deve dunque far venire un prete, possibilmen­ te il parroco, e parlargli dell’imposte sulle rendite, dei van­ taggi della cultura intensiva del topinamboùr, degli inconve­ nienti del mastice nei molari dell’ippopotamo o dell’urgenza di una riforma drastica dell’insegnamento obbligatorio della 185

lingua del Camciatca. Questa manifestazione di fede cristia­ na dà il diritto, dopo la morte, di far portare la propria car­ cassa in chiesa e d’essere accompagnato da un prete fino al cimitero, se la famiglia non bada a spese. C’è bisogno di dire che tutto questo serve per la gente? Si crepa facendo bella figura a non morire come un cane. Po­ tete capirlo o no, ma il nocciolo è tutto qui. — Io me ne infischio della religione, — dice il venditore di granaglie, — però non voglio morire come un cane. Ne va di mezzo la clientela della ditta, se questa cliente­ la è benpensante. E se non lo è, l’interesse della ditta esige, invece, che il padrone crepi come un cane: ma questo è un caso raro nei sobborghi dove si fa baldoria. CL

Gli amici dei miei amici sono i miei amici Il cavalier Bran d’Enhaut* aveva salvato la vita a un avvocatucolo del parlamento di Normandia. Quando venne il Terrore, quest’avvocato pieno di gratitudine lo raccomandò a un falegname, che lo raccomandò a un ciabattino, che lo raccomandò a un vuotacessi, che lo raccomandò a un bene­ dettino spretato, che lo raccomandò a Chaterine Théot la pro­ fetessa, che lo raccomandò a Robespierre il quale gli fece ta­ gliare la testa. Una buona azione non va mai sprecata.

CLI Vi parlo da amico Quando un impiegato del Demanio o del Registro ha de­ ciso di non aiutarli, così parla ai suoi più intimi, se sono in pericolo. L’uomo a cui il suo padrone di casa parla « da amico » 186

è il più guardato a vista, il più giudicato e il più condannato tra gli uomini.

CLII La lettura preferita

Qui si tratta della minoranza elitaria. La maggior parte dei borghesi non legge affatto e quindi è inutile parlare di libro preferito, da tenere sempre sul comodino. L’unico li­ bro capace di interessare un mercante di articoli di moda o un venditore di vini all’ingrosso è il libro di cassa, enorme in folio, con gli angoli di cuoio, che non si può immaginare vicino ad un letto. Gli operai leggono di più. Leggono, si capisce, quel che possono, ma leggono. Non appartengono alla Camera di Commercio. Non sono immediatamente sotto gli occhi del­ l’Idolo. Hanno il permesso di interessarsi, una mezz’ora al giorno, della loro anima, della loro povera anima; e qualcu­ no ne approfitta. Dobbiamo però anche dire che c’è una minoranza elita­ ria tra i borghesi, una benedetta minoranza elitaria che fa pre­ supporre che ci sia almeno una lettura preferita ogni 32 mez­ ze brigate di ignorantoni. Qual è questo libro? Mi è impossi­ bile saperlo. Ho sentito dire di alcuni matematici che dormono con la tavola dei logaritmi; ma si tratta certamente di una burla, perché questo sarebbe già troppo letterario. Crederei piuttosto che esistono parecchie signore anzia­ ne che si addormentano ancora un po’ nelle braccia di Paul Bourget* o di Maupassant* e zitellone che divorano La phi­ losophie dans le boudoir del marchese De Sade o qualche al­ tro libro simile. Ma non ho indicazioni precise e non so che cosa pensare di questo famoso libro da mettere sul comodi­ no, che però ci deve essere certamente dal momento che se ne parla continuamente. Un tempo era infinitamente letta l’Imitation de Jésus187

Christ. Molto più tardi, alla fine del secolo scorso, ci fu ΓImi­ tation de Notre-Dame la Lune?2 il cui autore è quasi morto di fame e che, a cominciare da me, nessuno legge più. Ho pensa­ to talvolta a una Imitation d’Hanotaux, un libro da tenere sul comodino ancora da scrivere, ma ci vorrebbe una tale man­ canza di stile, una così metodica povertà di pensiero che Γim­ pressione non può essere proposta neppure a un accademico. CLIII

Il cuore in mano e Le lacrime di coccodrillo Pare che si possa avere nello stesso tempo il cuore in ma­ no e il cuore sulle labbra: il che è già un mistero. Si può an­ che avere la cena sullo stomaco e spandere lacrime di cocco­ drillo. Questa fisiologia sconcertante è caratteristica del Bor­ ghese che non potrebbe vivere se gli venisse tolta. Ricordo che da bambino questo cuore in mano mi me­ ravigliava assai, e istintivamente ero portato a guardare le ma­ ni della gente. Avendo saputo che era indice d’una sincerità ineccepibile, d’un candore e di una trasparenza eroiche, dal­ l’assenza di questo organo nelle mani io deducevo l’univer­ sale simulazione dei miei vicini. La stessa cosa avveniva per il cuore sulle labbra. Più tardi, ho avuto nozioni più esatte. Ho saputo con precisione che cosa pensare del cuore del Borghese e l’uso che ne poteva fare. Per dirla proprio tutta, mi lusingo di aver trat­ to conseguenze migliori anche di quelle dello stesso Gargan­ tua, quando s’ingegnò a trovare un metodo per pulirsi il bu­ co del culo62 63. In questo caso non si tratta più di avere il cuo­ 62. Titolo di una raccolta di poesie di Jules Laforgue, pubblicata nel 1886. 63. Il nuovo ritrovato di Gargantua per questa salutare opera di igiene era una grassa e bianca anatra.

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re in mano nel senso figurato, ma di soppesare ben bene il cuore del Borghese con le mani, e non mi resta altro da dire. Per le lacrime di coccodrillo, ecco quanto m’è stato ri­ ferito da un illustre viaggiatore, un celebre avvocato di Bru­ xelles, uno dei conquistatori del Congo belga, l’ultimo paese nel quale si discute: — Il coccodrillo è una mistificazione; potremmo dire che non esiste in quanto tale, e quindi non può versare lacrime. È una raffigurazione mitologica del Povero dal quale è assi­ duamente divorato lo sfortunato Ricco, vittima delle sue ese­ crabili lacrime... «Fatelo conoscere a tutto il mio popolo» diceva, cin­ quanta anni fa, Nostra Signora degli Afflitti, sulla terribile Montagna.64 CLIV

Essere figlio delle proprie azioni

È il peggior consiglio che possa dare il Borghese da sem­ pre umorista impassibile. Che pensare di un vuotacessi che fosse nato dalla sua botte piena di escrementi, oppure d’un romanziere d’appendice che fosse stato generato dalle pun­ tate del suo racconto? È almeno possibile congetturare l’im­ mensità di questa buffonata? E ora supponete Zola* figliato da Nana o da una qua­ lunque troia dei suoi romanzi, e chiedetevi che cosa s’ha da credere di un popolo in cui si trovassero levatrici e ostetrici per simili bambini!

64. Bloy evoca il luogo delle apparizioni della Vergine a due bambini avvenute nel 1846 a La Salette-Fallavaux, comune dell’Isère.

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CLV Cherchez la femme!

È l’esclamazione dell’impiegato, mentre legge un delitto sul giornale preferito. Parlo dell’impiegato addetto alla cor­ rispondenza, dell’impiegato intellettuale, di colui che fa gesti da spaccalegna per dire che, data la mitezza dell’aria, ha de­ ciso questa mattina di non indossare il suo gilet di flanella. Costui, abituato a giudicare dall’alto, a guardare più lonta­ no del volgo, non viene mai meno a questo consiglio. Egli possiede questa profonda e nuova idea, di cui pochi pensa­ tori si sono accorti: che in ogni tragica avventura la prima cosa da fare è cercare la donna. Ne ho conosciuto uno con molta prosopopea e sposato con molta convinzione la cui moglie cercava con tanta avida foga un uomo come la donnola si avvicina alla conigliera, e che lo trovava sempre con una prontezza e una frequenza insospettabili.

CLVI La donna onesta

Balzac ha voluto, un giorno, innalzare il muro di Adriano tra la donna virtuosa e la donna onesta65. Distinzione ro­ mantica, priva oggigiorno di qualsiasi veridicità. I due aspet­ ti si sono uniti insieme. È l’eterna Borghese di Bethleem che rifiuta l’ospitalità al Bambino Salvatore e che fa sfogliare la Rosa mistica al vento del nord. La donna onesta è colei che ha ricevuto il primo premio in aritmetica a quattordici anni e che incute terrore ai dieci­ mila angeli che la visionaria Maria d’Agreda* vedeva volteg­ giare attorno all’Immacolata Concezione. 65. Bloy fa riferimento alla Physiologie du mariage (1841) dove Bal­ zac instaura una distinzione tra «donna onesta» e «donna virtuosa».

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La donna onesta è l’ingrugnita e insieme ardente sposa del grande Cornuto senza limiti... O Prostitute senza infingimenti per le quali Gesù ha sof­ ferto: Compassionevoli e sante Puttane che non avete vergo­ gna dei poveri e che darete rendiconto nell’Ultimo Giorno, che cosa pensate di quella povera donnaccia da quattro soldi? CLVII Il coraggio civile Se il Poeta avesse avuto a che fare soltanto con imbecil­ li senza bontà, probabilmente sarebbe stato prosciolto. Ma la giuria era stata scelta, quasi da un demonio, nella massa dei commercianti più stimati. La Speranza, uccisa dall’esal­ tazione del Mercimonio, riposava in un cimitero lontano. Certo, l’accusa non aveva neppure l’ombra di una pro­ va; però per un concorso quasi soprannaturale di coinciden­ ze, d’incidenti e di peripezie omicide durante il dibattito, s’erano formate tali presunzioni che l’innocente non poteva più difendersi. C’era soprattutto l’odio feroce, evidente, quasi di­ chiarato della giuria, fin dal primo giorno. Erano dei bottegai e dovevano giudicare un poeta! Fi­ nalmente, ne avevano uno tra le mani! Questo bastava; e Dio stesso avrebbe testimoniato invano a suo favore. L’istituzione democratica della giuria, con la quale un uomo superiore può essere dato in balia a dodici villani, creati per servirlo, è così saldamente strutturata che l’imputato non può ricusare i suoi giudici. Ha ben voglia di sentire e di sape­ re che ognuno di essi l’ha condannato a priori; se non può dimostrare che la sua condanna è un loro evidente profitto personale, è costretto, per difendere la sua vita, a fingere di prenderli sul serio e anche a supplicarli, senza speranza, pur esecrandoli. Il Poeta fece lui stesso la sua difesa. L’avvocato era un idiota senza convinzione e senza slancio, già tentennante. Il 191

delitto era così enorme che n’andava di mezzo la vita. Se lui non poteva salvare la sua testa, voleva almeno che venissero dette delle parole generose e che, qualunque potesse essere l’obiezione degli immondi borghesi che l’avrebbero mandato alla ghigliottina, costoro conservassero un ricordo inquietan­ te della loro spregevole giustizia. Parlò quasi per un’ora, con una foga inaudita. Raccon­ tò la sua vita dolorosa e fiera, la sua solitudine, la sua po­ vertà, la regolarità quasi monastica della sua esistenza quoti­ diana. Adesso moriva vittima del più inesplicabile errore sol­ tanto perché gli era stato impossibile ricordarsi e dimostrare che cosa avesse fatto una certa sera, tre anni fa. Con gesti da leone in gabbia, cercò di scuotersi dalle spal­ le quella orrenda fatalità. Allora i cuori scoppiarono per la compassione come cristalli infranti da una vibrazione troppo potente. Qua e là si sentirono dei singhiozzi lamentosi, che chiedevano grazia. Il verdetto di colpevolezza divenne allora più sicuro. Il personaggio più influente della giuria, un piccolo mandarino delle Imposte Indirette, una vecchia volpe d’ufficio partico­ larmente implacabile, non trovò difficoltà a far capire ai suoi colleghi di star attenti a non lasciarsi prendere da una ridico­ la tenerezza, incompatibile col loro dovere. Per lui, era quel­ la un’occasione di dar prova di coraggio civile, cosi superio­ re, come si sa, al sedicente eroismo dei campi di battaglia e che consiste nell’infierire sui poveri e sui deboli con indomi­ ta fermezza. Una farmacista dai denti di cavallo aggiunse che era fi­ nalmente tempo di finirla con quel superuomo che aveva l’a­ ria di guardarli come merda fresca, e che non bisognava far­ si sfuggire l’occasione d’inculcare un po’ di rispetto ai bohé­ miens e ai vagabondi. Infine, un fabbricante di acqua di seltz, un uomo d’a­ zione che era ritenuto un vero campione del bigliardo, affer­ mò categoricamente che se ne infischiava delle prove; che per lui, quando si aveva una faccia simile, si era capace di tutti i delitti; che se l’accusato era innocente del delitto che ora 192

gli si imputava era certamente colpevole di molti altri delitti ignoti; e che, anche supposto che non avesse mai ucciso, l’in­ teresse generale esigeva che venisse messo in condizioni di non nuocere finché si era ancora in tempo. L’energia di questo cittadino eliminò tutte le difficoltà. Il Poeta dichiarato colpevole, senza circostanze attenuan­ ti, aH’unanimità e su tutti i capi d’accusa, venne condannato a morte. Si alzò pallidissimo e, con voce calma, rivolse ai giu­ rati, più pallidi di lui, queste semplici parole: — Signori, non dimenticate che avete mandato un inno­ cente al patibolo. Proprio in quel momento, il mio droghiere, voglio sot­ tolinearlo, il mio droghiere, che faceva parte dei dodici, ob­ bedendo a un impulso misterioso o credendo di stare alla cassa — il che forse è la stessa cosa, in un’infinita estensione — rispose con questa formula commerciale, prodigiosa in quel­ la circostanza: —Signore, nessuno ci ha mai fatto un rimprovero!

CLVIII Non tutto è roseo nella vita

Il Borghese vorrebbe che tutto fosse roseo in quella che lui chiama vita? oppure questo luogo comune non è che l’of­ fensiva e piatta constatazione d’un fabbricante di colori? Preferisco la prima ipotesi, che è certamente la vera. Il Borghese ha bisogno del rosa: è il suo colore. Le sue figlie si vestono di rosa, e anche sua moglie, nonostante i suoi ses­ santanni. Anche lui è roseo e giocherellone come un porcel­ lino, quando fa buoni affari. Ci tiene a vedere tutto roseo e vuole che tutto sia color rosa. Aspira continuamente a dor­ mire su un letto di rose. Lui solo, dopo tanti poeti, parla an­ cora di «aurora dalle rosee dita», e, a essere giusti, bisogna riconoscere che se non ci fosse lui, nessuno da tempo avreb193

be fatto quest’osservazione sempre fresca e incantevole: che «non ci son rose senza spine». Un Borghese che esigesse un colore cobalto o del giallo si rivelerebbe subito per un « villan rifatto». Il vero, l’autenti­ co, l’inappuntabile al pari di un gentiluomo, il Borghese am­ modo, tollera gemendo soltanto il nero della morte. Quanti affamatori di vecchi e avvelenatori di bambini non vorrebbero essere deposti, dopo la morte, in una bara color rosa, in mez­ zo a una chiesa parata in seta rosa e piena di vestiti di cerimo­ nia rosa, mentre un ilare organo suona il valzer delle rose? In uno dei grandi cimiteri di Parigi, c’è la tomba di un ricco grossista dei mercati generali il quale con i contratti con l’Assistenza pubblica per la fornitura di tutta la carne fradi­ cia che si consuma negli ospedali, non guadagnava meno del trecento per cento. Era un uomo d’una fantasia deliziosa. Sul­ la sua tomba putrescente c’è un cesto, sempre rinnovato, di rose magnifiche e sul marmo si leggono queste parole: «Le amava tanto! ».

CLIX Gli anni belli dell’infanzia O François Coppée*!...

CLX Il buon tempo antico Alcuni dicono che un tempo chiamato invariabilmente «i secoli dell’ignoranza», in opposizione al «secolo illumi­ nato dalle luci», che è il nostro tempo, non può essere buo­ no e che, quanto più è antico, tanto meno deve essere buo­ no. Altri invece sostengono, senza prove sufficienti, secondo me, che la bontà d’un tempo non è affatto incompatibile con le tenebre e con le antichità. 194

Un terzo gruppo, al quale appartengo anch’io, afferma audacemente che il luogo comune deve essere messo a dor­ mire, perché quello che si è convenuto chiamare il buon tem­ po antico, vaia a dire il Tredicesimo secolo, fu al contrario il giovane tempo per eccellenza: il tempo della forza, dell’a­ more, della luce e della bellezza, mentre il Ventesimo secolo è sempre più un secolo di decrepitezza, un’odiosa e odiabile immagine della più deteriore e rimbecillita vecchiaia.'Ma pro­ vatevi a dire a un avvocato di prima istanza di ricominciare la Quarta Crociata!66 CLXI C’è un Dio per gli ubriachi

Il Borghese ci tiene molto a questo luogo comune, che è di quelli in cui è consolidata la sua brama sempre nuova di sputare sulla Santa Faccia e di insozzare il più possibile la Parola divina. «Dio ha comandato agli angeli, dice il Tentatore, di por­ tarti sulle loro mani, affinché il tuo piede non urti contro qual­ che pietra». Ah, sì; mi direte che il Borghese non sa tutto questo; che ha altro da fare che leggere san Luca o san Matteo. In­ fatti che cosa potrebbe insegnargli il Vangelo? Egli ha la be­ stemmia infusa. Il sudiciume proveniente dai suoi antenati ar­ riva fino a lui, come le immondizie di una fogna passano in un’altra fogna. Alcuni lo ricevono con un’abbondanza tale che se ne ubriacano e hanno bisogno anche loro di essere so­ stenuti dagli angeli, ma da quali angeli! Lo scopo di questo libro non comporta lo svolgimento 66. Nella IV Crociata i Veneziani guidarono le spedizioni verso Zara e Costantinopoli, trascurando la lotta contro gli infedeli e la riconquista di Gerusalemme. La marcia dei Crociati si concluse a Costantinopoli con la fondazione e l’insediamento dell’effimero Impero Latino di Oriente, durato poco più di cinquant’anni (1204-1261).

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di una simile idea; però spero che questa consolazione non mi sarà sempre rifiutata. « Si vedrà allora, scrivevo a uno sco­ nosciuto, che non c’è una parola del Salvatore o dei suoi Ami­ ci che sia sfuggita alle smentite e agli oltraggi continui degli stessi cristiani, e voglio credere che le nostre devote saranno liete di apprendere che esse parlano sempre come demoni». CLXII

L’appetito viene mangiando Ecco una buona risposta a un uomo che muore di fame: — Disgraziato, non sai che cosa chiedi. Se mangiassi, vorresti mangiare ancora e saresti sempre più a carico dei ga­ lantuomini i quali si rovinerebbero senza saziarti mai. Quan­ do non si è capaci di provvedere al proprio appetito, si sop­ porta la fame e non si chiede l’elemosina alle dieci di sera. Mi riterrei un criminale se ti dessi un centesimo. Dignità immacolata! Chi parla così è un bel pancione alterato dalla digestione di una cena deliziosa. È uscito per ora da un ristorante e attende la sua carrozza che traccia una curva finanziaria per arrivare fino a lui. L’affamato rappresenta una sofferenza qualunque, una sofferenza di tutti i secoli. L’affamatore non rappresenta che la Disperazione, la disperazione rubiconda, tumefatta e cre­ pitante. CLXIII Si presta soltanto ai ricchi

Perché? Perché l’acqua va sempre al fiume, vi rispon­ derà il giudice conciliatore. Dal tempo del Pattolo67 c’è sta67. Fiume dell’Asia Minore dove, secondo la mitologia, gli Dei impo­ sero a Mida di lavarsi le mani per liberarsi finalmente dal suo secondo privi­ legio di mutare ogni cosa in oro. Da quel giorno le sue acque diventarono, sempre secondo la leggenda, ricche di sabbie aurifere.

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to sempre un qualche collegamento tra i ricchi e i fiumi. Tal­ volta, quest’acqua proviene direttamente dalle sorgenti pure delle montagne; più spesso è servita a lavare il vasellame o a pulire i pitali. I ricchi ricevono tutto, come i fiumi; ma la parola pre­ stare è una burla perché non s’è mai sentito che questi o quelli restituiscano qualcosa. Ognuno a suo modo, essi diventano vaste fiumane, che portano i liquami delle latrine oppure le lacrime dei poveri, indistintamente, nell’Abisso. CLXIV Nessun mestiere è inutile

Scusate, ce n’è uno. Quello di essere sarto e pretendere di vestire un monaco. Tutti sanno che l’abito non fa il mo­ naco e che quindi non è possibile immaginare qualcosa di più stupidamente inutile del mestiere di fare un abito per un cliente che ha lui stesso bisogno di essere fatto, dal momento che non esiste. Confesso che la cosa non sembra molto intelli­ gibile. Tuttavia, che cos’è un monaco, se non un uomo che pra­ tica l’altro mestiere di essere ubbidiente, casto e povero, pro­ prio il contrario di ciò che il Borghese chiama vita? Non sarebbe questo un mestiere più inutile di quello che abbiamo ricordato prima, dal momento che chi l’esercita non ha alcuna parte nell’esistenza borghese e non può in nessun modo approfittare d’un abito che non riesce a conferirgli la più piccola parvenza? L’incontro d’un monaco e di un sarto è probabilmente la cosa più straordinaria, più folle, più ba­ lorda e più fantastica che si possa immaginare.

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CLXV La notte è fatta per dormire

Vivo sulla riva sinistra della Marna, in un paese che, nel 1870 e nel 1871, fu in modo particolare saccheggiato, deru­ bato, taglieggiato, spogliato, maltrattato dai tedeschi, e dove è impossibile trovare una persona che se ne ricordi. È un po’ scoraggiante per un francese che avrebbe delle storie di guer­ ra da raccontare; e io ne avrei una che non sarebbe senza in­ teresse; però bisognerebbe contare su delle anime che non esi­ stono più. Con questa specie di sentimentalismo universale che vor­ rebbe che ci si dimenticasse dell’orribile Oltraggio e che tutti si abbracciassero in un perdono cosmopolita e in una fan­ ghiglia universale, dove trovare un ascoltatore capace di sen­ tire l’aneddoto dei tre Prussiani spediti ai padri, in una notte fatta certamente per dormire, da un franco tiratore vandea­ no, loro prigioniero, che stavano portando al principe di Sas­ sonia e doveva essere fucilato il giorno dopo? Quel prigioniero dalla mano lesta e dal piede leggero, che conosceva quanto me i luoghi comuni, sapeva bene che non soltanto la notte è fatta per dormire ma che «porta consi­ glio» alla brava gente e che in essa «tutti i franchi tiratori sono grigi». Con quale sveltezza e con quanta audacia seppe appro­ fittarne non starò a raccontarlo. Farebbe troppo male ai nervi delicati di quei bastardi di donne violate i quali ora commer­ ciano lungo le mura dove i Prussiani fucilarono coloro che avrebbero potuto essere i loro padri. Sono stato troppo ac­ cusato di esagerare e di vantare in modo esagerato le sensa­ zioni date dall’onore. Il mio uomo era un incomparabile macellaio che avreb­ be scorticato un leone vivo prima che avesse avuto il tempo di far vedere gli artigli. E questa informazione, caro lettore, ti è sufficiente. 198

CLXVI L’occasione fa l’uomo ladro Sol cognovit occasum suum.6S — Siete voi, Signore? Fi­ nalmente, siete voi? — chiede il ladrone sulla croce. — In verità ti dico, oggi sarai con me in Paradiso, — risponde la Luce del mondo crocifissa. Questo accadde nelle Tenebre della Santa Ora, e il Bor­ ghese si è impiccato quando appena faceva giorno68 69. Post-scriptum. — Avrei voluto trovare l’occasione di fare uno sproloquio senza fine per dire che il Borghese possiede il danaro soltanto per restituirlo e che, se non lo restituisce, è un ladrone senza croce e senza paradiso. Giuda, meno ca­ naglia, ha restituito il suo, prima di crepare. Ma cercate di far capire queste cose! CLXVII

Non c’è fuoco senza fumo No, Borghese, neppure nell’Apocalisse, che è un libro dove si parla molto di te. «E il fumo dei loro tormenti salirà ai secoli dei secoli, e non ci sarà riposo né di giorno né di notte per coloro che avranno adorato la Bestia e la sua immagine, né per chiun­ que avrà ricevuto il marchio del suo nome»70. Ti raccomando questo passo.

68. «Il sole conosce il suo occaso», Salmo CIV, 19. 69. Si tratta di Giuda, evocato poi direttamente più sotto. 70. Apocalisse, XIV, 11.

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CLXVIII

Tra due mali bisogna scegliere il minore Su questo, nessuna incertezza. Le persone più caritate­ voli riconoscono che il male del prossimo è sempre z'Z minore e che è proprio quello che bisogna scegliere. I moralisti han­ no da tempo notato che si ha sempre abbastanza forza per sopportare le pene degli altri.

CLXIX Non si è oro di coppella ovvero Quello che si addice alle giovinette

Non sono oro puro dei luigi ma neanche una moneta da cento soldi. Ho fatto questa dolorosa esperienza in Danimarca dove non avevo corso. Anche in Francia, riesco difficilmen­ te a smerciarmi, ma laggiù, se sapeste che fatica!71 Abitavo, per decreto straordinario dell’inumana sfortu­ na, una cittadina dello Jutland dove ho creduto lasciare la mia carcassa calcinata. Vi impartivo lezioni di francese e ho avuto fino a tre allievi. Parlerò soltanto del numero 2, alme­ no oggi. Il numero 1 prenderebbe troppo spazio e il numero 3 era insignificante72. Il signor Kanaris-Petersen era professore di lingua fran­ cese in una scuola della città e godeva della più grande sti­ ma. Venni subito a sapere, e lui stesso me ne informò, che il cognome di Kanaris, così poco danese malgrado la sostitu­ zione artificiosa del K iniziale, gli era pervenuto, per linea 71. Per questo secondo soggiorno della famiglia Bloy in Danimarca cfr. n. 55, p. 168. 72. L’intero episodio è veridico. Kanaris-Petersen si chiamava Kanaris Klein ed era professore di francese. Il primo allievo era il curato Storp mentre il terzo e ultimo un professore sempre ubriaco. Cfr. Journalcit., 1.1, pp. 258-362.

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diretta o indiretta, dal celebre eroe greco della guerra d’indi­ pendenza!... Non intrapresi nessuna verifica sull’attendibilità di que­ sta parentela ma, avendolo interrogato senza malizia, fui stu­ pito di sapere che ignorava del tutto i famosi versi ispirati a Victor Hugo* da questo famoso corsaro. Non spero più di incontrare altrove una vanagloria così pregiata, una stupidità così succosa, così totale. Il Canaris delle Orientales « ostenta l’incendio » mentre il Kanaris dello Jutland ostenta la pioggia e il ridicolo. E che ridicolo! Biso­ gna conoscere la Danimarca, aver vissuto in quel paese di su­ blime mediocrità, per poter apprezzare come si deve la strug­ gente idiozia di un sorvegliante di collegio che vaneggia di mettersi nei panni di un intrepido che ha solcato la schiuma dei sette mari. Una stirpe così rara esigeva, beninteso, maniere tra le più aristocratiche. Il signor Kanaris-Petersen è qualcosa co­ me il Lord Brummel del buco dove vive. I giovani Danesi, che fanno ala al suo passaggio, spiano con attenzione i gesti e le parole di questo Arbiter elegantiarum. «Non sta bene che l’uomo rimanga da solo, disse il si­ gnore Dio. Facciamogli un aiuto simile a lui». Non stupirò quindi nessuno aggiungendo a quel che si è detto prima che esiste una signora Kanaris-Petersen e che è in tutto degna del suo consorte. Non si conoscono vincitori pallicari o moldovalacchi nella progenie di questa signora, dove hanno il pre­ dominio soltanto i grossisti di articoli casalinghi e di ferra­ menta. Ma portò con sé, a quanto si dice, del danaro e ha la fama di essere stata una persona affascinante. È sempre bene saperlo. Mi è sembrata sostenuta e acidula, fatto che senz’altro aiuta a mantenere la prosopopea in quello schifo di provincia. Esiste un fatto incontestabile, ed è che a casa dei Kana­ ris ci si diverte moltissimo. Commedia e ballo in costume ot­ to o dieci mesi all’anno, poiché la signora Kanaris aveva gua­ dagnato la fama di essere una deliziosa attrice mancata e che l’ignobile gusto della mascherata era considerato, in genera201

le, in un simile faubourg Saint-Germain della Beozia danese, come la più alta espressione della raffinatezza e della elegan­ za di modi. In mezzo a questo fango crescevano due bambinette che la frivolezza infanticida della madre spinge a vestire e spo­ gliare almeno dieci volte al giorno. Che cosa sarà di loro! È fin troppo facile prevederlo. Il mondo luterano è l’impero del Satana bastardo. Perfino il crimine e il sudiciume sono me­ diocri. Per liberare una di quelle anime derelitte, bisognereb­ be che Domine Iddio spostasse tutte le macerie della sua crea­ zione messa sottosopra. — Le nostre piccoline ameranno il ballo come il loro pa­ pà e la loro mamma! — mi ha detto una volta, quel triste cretino che non smette mai di aspirare alla gaiezza e al diver­ timento. Quale baratro vorticoso riuscii allora a intravedere! Ecco dunque, dissi tra me, quello che conviene in questo po­ sto alle giovinette! Ballare come il loro papà e come la loro mamma, con tutte le conseguenze presumibili di quella co­ reografia, e ciò che non si confarrebbe loro nel modo più as­ soluto, sarebbe, per esempio, andare alla messa o fare qual­ cosa d’altro di buono e generoso. Un anno dopo aver lasciato quel paese ignobile, venni a sapere che il mio buon Kanaris di cui avevo subito le strette di mano con molta perseveranza, credendolo un animale in­ nocuo, si era adoperato a nuocermi, fino a diventare gobbo in quella bisogna. Mi hanno riportato testualmente una sua frase straordinaria e che io cito per incenerire con un ultimo fuoco quei forsennati che avrebbero potuto invece vedermi nascere: — La casa di Léon Bloy non è una casa raccomandabi­ le per le giovinette.

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CLXX La critica è facile ma l’arte è più difficile

Non sono sicuro che il Borghese si farebbe tagliare a pezzi per sostenere che l’arte sia difficile, ma so che vuole che la critica sia facile, anzi la cosa più facile. Ci tiene. Però, biso­ gna intendersi. Il Borghese non è un asino. La critica può benissimo essere malagevole se si tratta della grande arte, del­ l’arte vera che è quella di Bouguereau* in pittura e di Paul Bourget* in letteratura. Dove arriveremmo, se fosse lecito a chiunque toccare questi farabutti? Al contrario, com’è facile giudicare Verlaine*, Villiers de l’Isle-Adam*, Barbey d’Aurevilly*, Ernest Hello*! E se mai un critico si trovasse a suo agio, lo sarebbe soltanto dopo che la Provvidenza gli avesse accordato di mettere il suo stivale infangato sull’autore di queste umili pagine. CLXXI

Sono filosofo o l’Anno quaranta

Per favore, non chiedete a quel conciapelle se appartie­ ne alla Scuola Ionica, fondata da Talete e rinnovata da Anas­ sagora; non cercate di sapere se è pitagorico, metafisico, pla­ tonico o peripatetico; se è discepolo di Euclide o d’Antistene, di Pirrone o di Epicuro, di Zenone o di Cameade; non commettete la sciocchezza di supporlo eclettico, mistico, stoi­ co, scettico, sincretista o empirico. Infine, e soprattutto, non pensate a un cristianesimo qualunque. Quando vi dice che è un filosofo, significa semplicemente che ha il ventre pieno, la digestione facile, il portafogli o il portamonete convenien­ temente zeppo e che quindi se ne infischia del resto «come dell’anno quaranta»73. 73. Espressione di scherno usata all’inizio dai realisti e che stava a si-

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Spesso mi sono chiesto che cosa potesse essere questo Anno quaranta tanto famoso e tanto disprezzato dai filoso­ fi. Non mi è mai riuscito di appurare qualcosa. Però, è do­ vuto accadere qualcosa di poco ordinario in quell’anno. Co­ me saperlo? Le effemeridi e i quadri sinottici non dicono nien­ te. Notiamo soltanto che l’anno quaranta è un punto estre­ mo di paragone, un modello di disprezzo. Forse bisognereb­ be sapere innanzitutto che cosa il Borghese disprezza di più. Ma chi oserebbe discendere in questo abisso? Cum in profundum venerit, contemnit.™

CLXXII Una volta sola non costituisce abitudine

Formula d’assoluzione usata dal Borghese. Tutto va be­ ne se l’abitudine non ha preso piede. L’essenziale è uccidere il proprio padre una volta sola. — Ho tremila bottiglie di vino nella mia cantina e la sa­ lute non mi permette di diventare un santo — mi diceva un parroco del luogo. Voi non vedete il legame che c’è tra que­ ste cose, e neppure io; però certamente esiste. CLXXIII

Non ci voleva proprio! Così dice il Borghese, quando un accidente imprevisto si abbatte su di lui oppure lo sconcerta. È un modo di pren-

gnificare il loro oltraggioso distacco verso un qualsiasi avvenimento che non sarebbe durato. Infatti essi affermavano che la Repubblica non avrebbe po­ tuto resistere per più di quarant’anni. 74. Testo leggermente adattato: Impius, cum in profundum peccatorum, venerit, contemnit, «Quando è caduto nell’abisso dei peccati, l’empio si fa beffe».

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dere posizione di fronte a Dio e di interpellare altezzosamen­ te la Provvidenza. Sono pochi gli adolescenti che tra i sedici e i diciotto anni non siano stati impressionati, e talvolta fino alla meraviglia, da quella specie di scienza infusa che il Bor­ ghese sembra possedere riguardo a ciò che gli è conveniente o che gli è necessario. Nessun animale, a quanto sappia, nep­ pure tra i solipedi, è provvisto di un istinto così sicuro. Ma il suo fiuto si manifesta prodigiosamente quando si tratta di cose di cui non ha bisogno e che quindi potrebbero essere fa­ stidiose. Eccone un esempio notevole. Venti o venticinque anni fa, mi trovavo, alle dieci di se­ ra, in un caffè nelle vicinanze della vecchia stazione di SaintLazare, in compagnia di due simpatici amici, di cui uno oggi sta all’Accademia e l’altro in galera. Se ricordo bene, aveva­ mo bevuto un po’ e pensavamo di bere ancora in un altro caffè, quando, apertasi rumorosamente la porta, vedemmo entrare furioso e sbraitante il marmista nazionale del PetitMontrouge, il celebre Joséphin Dodécaton, inventore delle tombe inutilizzabili... Questo grande uomo aveva perduto ogni controllo e ci parve al colmo dell’ira. — Non ci voleva proprio! — diceva continuamente, grugnendo come un pachiderma. — Non ci voleva! queste cose accadono soltanto a me. Si direbbe che non ci sia un buon Dio, ecc. Intanto si fece servire un bicchiere di birra e finì con lo spiegarsi. Aveva perduto il treno delle nove e cinquantacinque, e si vedeva costretto a rinunziare a un affare d’oro. Già sufficientemente emozionati dal troppo bere prima dell’arri­ vo di quello sfortunato, lo lasciammo gemere. Appena uscimmo nella strada, un clamore stranamente lugubre e reiterato ci recò la notizia della spaventosa cata­ strofe del rapido perduto con così tanto rimpianto dal Dodé­ caton. Il treno s’era fracassato a millecinquecento metri dal­ la stazione, e la maggior parte dei viaggiatori erano restati schiacciati o mutilati. Allo stupore della gente della strada che noi credemmo impazzita, scoppiammo a ridere pensando al nostro appalta205

tore di sepolture, che indubbiamente continuava le sue lamen­ tazioni nel caffè; e quello che tra noi non è poi diventato nean­ che accademico fece osservare, ancora una volta, il discerni­ mento infallibile di coloro che dicono: «Non ci voleva proprio ». — Se quel tale fosse stato schiacciato dal treno e potes­ se parlare ancora, disse a mo’ di conclusione, il suo lamento sarebbe identico, assolutamente. I borghesi hanno sempre ragione. CLXXIV

I figli sono come noi li facciamo Massima consolante. E che avvenire ci prospetta! Cer­ to, è nell’intenzione della natura che i piccoli dei borghesi sia­ no borghesi. Però talvolta questo non accade, e allora il di­ sgraziato bottegaio inghiotte la vergogna di avere un figlio poeta. Per fortuna, il caso è troppo raro per essere preso in considerazione. In genere, la natura viene obbedita, perciò ci saranno sempre dei borghesi. Ma i figli dei borghesi vengono educati come trent’anni fa? Tutto dipende dalla risposta a questa domanda. Ebbene, lo dico, mi pare che il Borghese si guasti. Certo, non dimen­ tica i grandi principi. Possiamo anche affermare che egli adora più di prima il danaro e allontana Dio con mano più ferma. Sotto questo aspetto, merita la lode e anche l’apoteosi. Però la Borghesia, come tutto ciò che è grande, deve succhiare il latte della tradizione, e invece da qualche tempo mi pare che devia verso le novità. La bicicletta e l’automobile sono eccessivamente creati­ ve lo sapete? e non sappiamo dove si fermeranno. La cor­ rente è così impetuosa che tra una o due generazioni c’è da temere che i figli dei borghesi siano tutti dei Dürer, dei Sha­ kespeare o dei Beethoven, e che la Borghesia perisca affoga­ ta dall’Arte. Segnalo patriotticamente questo pericolo. 206

CLXXV

Bisogna farsi un nome

È meno facile e meno chiaro che educare i figli; ma ci son tante maniere. C’è il nome di Napoleone* e quello di Fé­ lix Potin*. Questi due esempi mi dispensano dal citarne altri. Sarebbe puerile spiegare la differenza che c’è tra questi due nomi e l’enorme superiorità d’un uomo che è vissuto soltan­ to per guadagnare danaro, su un miserabile imperatore mor­ to in esilio. È grande soltanto ciò che non cambia: la Stupi­ dità, la Cupidigia, l’Abiezione. Quando Victor Hugo* parla di quei simboli muliebri del­ la Fama «che volavano, con il petto al vento, a piedi nudi e con le trombe in mano, davanti al signore degli eserciti», queste belle immagini fanno pietà appena viene a mente ciò che la radiosa e non sanguinaria Pubblicità ha saputo fare dei nomi di Menier* e di Géraudel*. I muri per le affissioni, gli stecconati dei cantieri o dei prati, le volte degli omnibus o le pareti interne dei vespasiani, in tutti i paesi del mondo: ecco il Libro di Vita dei mascalzoni che hanno saputo farsi un nome!

CLXXVI Si fa quel che si può Quando si sono fatti dei figli e si è arrivati a farsi un nome, si è fatto quello che si poteva, ed io non vedo che co­ sa Dio stesso dovrebbe chiedere di più. I famosi comandamenti del Sinai non sono che una messa in scena facoltativa. L’unica cosa solida e certa è ciò che è stato precisato poc’anzi. «Una volta, scrive la beata Angela da Foligno, ero spro­ fondata nella meditazione sulla morte del Figlio di Dio... Al­ lora sentii ripetermi nell’anima questa parola: Non ti ho amato per scherzo! Credetti ricevere un colpo mortale e non so co­ 207

me non morii... Altre parole vennero ad accrescere la mia sofferenza; «Non ti ho amato per scherzo, non mi sono fat­ to tuo servo per simulazione, non ti ho toccata da lontano»75. A quest’ultima frase, il Borghese, il vero, l’eterno Bor­ ghese, colui che fu omicida fin dal principio, trasalisce gridando: Tu mi hai toccato? tu! Osi dire che mi hai toccato con le tue Mani e con i tuoi Piedi trafitti e con la tua Faccia san­ guinante e col tuo Sudore di sangue e gli urli della plebaglia giudaica e il soprannaturale fluire della tua lunga Flagella­ zione! Tu mi hai toccato! ah, per davvero, povero UomoDio, povero Buon Dio dei tempi antichi! Sei tu almeno una moneta da cento soldi per agire su di me! Tu non volevi scher­ zare con la tua beata, e la tua beata neppure voleva scherza­ re. Ma io sono tutto il contrario. Sono un uomo allegro, un bonaccione e non ho più bisogno delle tue lacrime e del tuo sangue. Io sono nato per gli affari e per il divertimento, e non capisco niente della penitenza o dell’estasi. Si fa quel che si può e non siamo delle bestie. Post-scriptum — « Ebbi fame, dirà il Giudice, e non mi deste da mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere...» — Tutto questo è bello, risponderanno mille beccai; però la qua­ resima ci ha recato abbastanza danno.

CLXXVII Si...

In fondo, che cosa rappresenta questo Si per il Borghe­ se? Questo soggetto astratto e impersonale da lui invocato ogni pié sospinto non potrebbe essere forse il Dio sconosciu75. Pensieri di Angela da Foligno tratti dalla traduzione di E. Hello (Cap. XXXIII, L’amour vrai et l’amour menteur). Per i nomi propri, v. In­ dice dei Nomi.

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to? Non Si conosce quest’uomo, non lo Si ama, non lo Si è mai visto, lo Si è visto abbastanza. Conoscete altre formu­ le di disprezzo più sicure, più efficaci? Quel Si è il detentore della folgore e quel Si comunica la vita. Vi Si conosce bene, Si sa chi siete, vi Si fa credito. Ogni volta che il Borghese parla, quel misterioso Si ri­ suona come una borsa di danaro posata pesantemente a ter­ ra, vicino ad una camera dove è stato assassinato un tizio.

CLXXVIII Tutti gli uomini sono fratelli Rimando al luogo comune: Gli amici dei nostri amici so­ no nostri amici, dove credo di avere esaurito la materia.

CLXXIX Tutto o niente

Tutto, se si tratta di rifiutare. Niente, se si tratta di do­ nare. Ecco la grande legge primordiale, la quale però viene mitigata nei casi particolari, secondo le circostanze che sono infinite. Talvolta bisogna dare tutto, come s’è visto nel 1870, quando il Borghese aveva la baionetta prussiana alle reni. Ma il principio resta. CLXXX Quel che donna vuole, Dio lo vuole Se tua moglie vuole che tu sia cornuto, o mio misero im­ piegato! Dio lo vuole. E lo vuole spesso, è molto probabile. Tocca a te prendere le risoluzioni del caso. Tuttavia, mi sem­ bra che la si investa di un pesante fardello. Giacché, se lei, 209

alla fin fine, non vuole né questo né quello, bisognerà che anche Dio non lo voglia e la si faccia così diventare il polo del mondo? Questa specie di patto tra la sua volontà e quella di Dio, in caso di un comportamento amorfo, potrà essere infranto? E quante altre difficoltà: ma non sono incaricato di appianarle, non è vero? La vita è già abbastanza enigma­ tica per sé, senza che si voglia iniziare a sbrogliare quel caos metafisico che risiede nel cervello degli impiegati addetti alla corrispondenza. La cosa che mi stupisce, malgrado la mia esperienza della fluttuazione del temperamento dei contabili, è quella specie di rispetto per la Volontà divina, manifesta ai loro cuori im­ puri dalla volontà della donna. Che tutto avvenga secondo i tuoi desideri — disse Gesù alla Cananea. La mia volontà è la tua volontà. E tuttavia se sapesse, il povero Borghese, che il suo luo­ go comune annuncia un mistero di cui tutti i cieli risuonano, che esprime, in una maniera neppure velata, la realtà più ar­ dente, quella più esplosiva, e che risulta impossibile proferir­ la senza sollecitare la folgore di Dio! CLXXXI

Chi paga i debiti si arricchisce Confesso la mia assoluta inesperienza. Molto spesso ho pagato i miei debiti e talvolta anche i debiti degli altri, e ve­ do che la mia ricchezza non è stata considerevolmente au­ mentata. Sarà perché pagavo senza gioia? Avevo un padro­ ne di casa il quale voleva ad ogni costo che condividessi la sua allegria. Essendo infarinato di letteratura e vedendomi un po’ mesto, un giorno che andai a pagargli il fitto, ebbe l’inconcepibile ghiribizzo di ripetermi il datorem hilarem di san Paolo ai Corinti: testo riservato, fino a quel giorno, dal­ la Madre Chiesa, alla festa di san Lorenzo arrostito sulla sua graticola, ma che adesso serviva a far conoscere a tutti gli 210

inquilini senza eccezione il dovere che hanno di versare il lo­ ro danaro allegramente76. Più di una volta, e con quella moderazione che soltanto gli angeli conoscono, ho scritto che il danaro dei padroni di casa è, nove volte su dieci, proveniente dalla morte dei mala­ ti e dei bambini; e vi prego di credermi, perché sono un dot­ tore in materia77. Eravamo soli, nessuno mi aveva visto entrare, e il luogo era isolato. Spaccai la testa di quel buontempone e la sezio­ nai in tante parti che mandai per pacco postale agli altri miei creditori, tra cui un prete. Questo ricordo è come un raggio di luna nella mia vita. Certo quel giorno fu pagato un gran­ de debito; però io non sono diventato più ricco... Dietro la casa del Borghese c’è un balcone che dà su un abisso. Bisognerebbe forse guardare da quella parte.

CLXXXII

Quando il diavolo diventa vecchio si fa eremita

La vecchiaia del diavolo è una bella invenzione del Bor­ ghese. Alfred de Vigny* che di tanto in tanto accarezzava idee borghesi, nella sua qualità di gentiluomo-poeta e di romanti­ co immaginò invece il Nemico degli uomini adolescente e bel­ lo. Questo ringiovanimento di venti secoli di paganesimo si compiva nel 1830. Le vergini e le matrone, tubando Eloa, so­ spirarono di voluttà: T’amo e scendo agli inferi giù, ma che diranno i cieli?

76. “Perciocché Iddio ama l’ilare donatore”. Il Epistola ai Corinzi, IX, 7. 77. Ritorna l’idea ossessiva della complice partecipazione dei padroni di casa alla morte precoce dei bambini dei loro fittavoli. Ossessione esaspe­ rata dal sempre vivido ricordo della morte dei figlioletti André e Pierre e dei patimenti subiti dalle piccole Véronique e Madeleine.

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Diranno quello che vorranno. Ma era una fantasia che non poteva durare. Oggi, come prima, preferiamo immagi­ nare il diavolo vecchio in un eremitaggio. Capirete, si tratta di far dispetto alla Chiesa il più possibile, vale a dire disono­ rare a un tempo il diavolo, la vecchiaia e gli eremiti. Avete notato la gioia dei borghesi quando possono, con questa frase, avvilire una conversione religiosa? Si capisce che qui parlo d’una conversione verso la fine della vita; suppon­ go cioè un povero diavolo stanco, fino all’inappetenza asso­ luta e alla nausea, di tutte le asinerie e le porcherie dell’em­ pietà, il quale si accorge finalmente dei sacramenti, sia pure all’ultimo minuto dell’undicesima ora. Nei concili ecumenici o provinciali della Novità costui viene subito tacciato di rimbambimento, e diventa per le si­ gnorine una specie di vecchio caprone finalmente a riposo dal­ le sue smanie amorose. Ma perché eremita, ossia anacoreta? Perché non piutto­ sto la vita cenobitica, la vita in comune? Dal momento che si vuole proprio che questo povero diavolo sia il Diavolo, per­ ché non permettergli almeno di essere legione™, se così gli piace? Avremmo in tal modo dei monasteri, delle certose di vecchi demoni dove i malvagi ronzinanti dell’Amministrazio­ ne, del Commercio o della Proprietà immobiliare potrebbe­ ro venire per farsi abbattere, e che i potenti delle Logge non penserebbero ormai più a perseguitare.

CLXXXIII Che cosa facevate nel 1870?

Questa domanda, oggi ancora così frequente, non avrà più senso per la prossima generazione. Deciso a finirla con i luoghi comuni che cominciano a puzzarmi sotto il naso e

78. Cfr n. 44, p. 150.

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costretto a ometterne un gran numero, m’è parso che questo li inglobasse tutti assai chiaramente. In fondo, il luogo co­ mune è una scappatoia nel momento del pericolo e mai i bor­ ghesi, sono scappati come nel 1870. Era quella una fuga tumultuosa, urlante, pazza, era l’im­ menso panico che vuota le case e le città, come i vuotacessi di notte vuotano i luoghi di decenza. Era l’infame, la schiet­ ta e classica paura del benestante che schiaccia i deboli nella sua fuga sfrenata. Oggi invece è la sfilata sulla grande strada del silenzio. Che facevate nel 1870? Era quello l’anno in cui ognuno avrebbe dovuto fare qualche cosa, in cui tu, miserabile, avresti dovuto fare qualche cosa, non fosse altro che un po’ di li­ quido in un ospedale, come Huysmans*. Quando eravamo un centinaio di migliaia nei campi, privi di fuoco sotto un cielo di ghiaccio, privi di pane nel cuore della Francia diven­ tata la figlia primogenita di Gambetta*, privi finanche del ne­ mico davanti al quale non venivamo mai allineati, avevamo forse sempre il diritto di informarci e di chiedere ai ben ve­ stiti e ai ben pasciuti che cosa facevano nelle loro braghe. La risposta talvolta era divertente e si perdeva in un borbottio intestinale, come il giorno che mandammo nella Mayenne l’u­ nico figlio d’un notaio di Château-Gontier. Oggi, ripeto, c’è la grande strada del silenzio. Andate a chiedere a quei nostri grandi uomini che hanno sorpassato la cinquantina che cosa facevano nel 1870... Questa data è diventata una specie di schema per tutte le situazioni dell’ignominia contemporanea. Essa significa tutte le vigliaccherie, tutte le vergogne passate e future. La più per­ fetta è il silenzio, l’universale fuga silenziosa che si realizza o si prepara. Biciclette e automobili sono precauzioni nel ca­ so di una sconfitta finale e di cui il disastro di trenta anni fa non fu che una modesta prefigurazione, un pronostico ti­ mido, dagli occhi bassi. Sconfitta di corpi o di anime? Nes­ suno lo sa. Probabilmente tutti e due. Ma come immaginare questo mondo in fuga, questo diluvio di disertori e di terro­ rizzati? 213

Mentre scrivo, a due passi da me muore un uomo pove­ rissimo. Ho cercato di salvarlo, di convincerlo a chiamare un prete. Poiché non può più farsi capire, la famiglia mi ha par­ lato delle sue opinioni che sono insormontabili, a quanto pa­ re; ed ecco d’un tratto venirmi in mente un luogo comune dimenticato non so come fino a questo momento. Le opinio­ ni di questo moribondo! o pietoso Salvatore crocifisso!... Non molto tempo fa, si celebrava il centenario di Victor Hugo*. Fu bello, ci fu un discorso di Hanotaux*, una musa del popolo e non un soldo di ipocrisia. Ecco un grande uo­ mo magnificamente consolato nella sua tomba! Ah, anche lui aveva delle opinioni ed è sorprendente il giovamento che gliene è dovuto venire dallo sproloquio di Hanotaux! Ci sa­ rebbe veramente da credere che tutti quegli imbecilli addolo­ rati, tutti quegli idioti eternamente lamentevoli sappiano do­ ve vogliono parare. E torniamo al nostro moribondo. Egli è un’unità nella moltitudine, e niente altro; ed io ignoro del tutto dove si tro­ vasse e che cosa facesse nel 1870. Non so neppure se era un uomo in quel tempo o in qualsiasi altro tempo. Mi basta sa­ pere che nel momento attuale — probabilmente l’ultimo mo­ mento per lui — egli appartiene ai trenta milioni di rinnegati censiti dalla Repubblica sedicente francese e il cui cantico è di oltraggiare la Faccia di Dio. Iniziando questa Esegesi, ho desiderato, con tutta l’ani­ ma — e Dio lo sa! — il silenzio del Borghese, considerando che questi luoghi comuni erano una sporca e odiosa maniera di dare la morte. Sul punto di concludere, penso, a proposi­ to del 1870 e dell’eterno interrogativo senza risposta, che il suo silenzio non è meno omicida e che egli ha tanti modi di fare il silenzio! Un amico in pericolo gli chiede soccorso, silenzio; il Re­ dentore in agonia gli chiede da bere, silezio; la Madonna Ad­ dolorata lo supplica di aver pietà di se stesso, ancora silen­ zio. Ed ecco ora che la Francia intera, la Francia che un tempo ha vinto il mondo, la Francia in sangue e la Francia in lacri­ me grida al Borghese: 214

— Che facevi nel 1870? — A vevo una gran voglia di evacuare, — risponde alla fine Emile Zola*, ne La Terre, sotto lo pseudonimo spaven­ tevole di Gesù Cristo.

Epilogo — Che cosa farete quando vi metteremo in croce? — domanda Qualcuno. — Io? farò bei sogni, — risponde la mia piccola Made­ leine di cinque anni.

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ESEGESI DEI LUOGHI COMUNI

Nuova serie

Omnia arbitror ut stercora, ut Christum lucifaciam. Philip., Ili, 8 «Reputo ogni cosa come tanti sterchi, acciocché io guadagni Dio» Epistola ai Filippesi, III, 8

Ill

ALLA MIA CARA PICCOLA AMICA ELISABETH JOLY*

Un poeta vagando nel cimitero si trovò a bussare alla porta d’una tomba. La porta subito s’aprì e gli apparve la sua anima, la sua anima che non aveva mai guardato in fac­ cia ma che riconobbe da certe orrende lordure. Si ricordò al­ lora di averla abbandonata lì, un giorno, per esplorare inu­ tilmente alcuni sepolcri vuoti. Vedendola così triste, così pro­ fondamente triste e bella, la prese per mano con molta tene­ rezza e la ricondusse piangendo alla Casa del Padre dei vi­ venti, di cui lei gli mostrò il cammino. Léon Bloy

PRELUDIO

Bisogna mettersi alla portata di tutti Ecco quello che mi si chiede. Sono ritenuto troppo straor­ dinario, troppo inaccessibile. Sono ugualmente incompreso ilal notaio, dalla devota e dal fabbricante di supposte di gli­ cerina. Le affermazioni elementari, gli assiomi incontestabili e finanche le verità lapalissiane più accertate assumono con me un aspetto di mistero da cui il senso comune è oltraggia­ lo. Per questo, ho deciso di mettermi alla portata di tutti. Ma non so come. Devo anche confessare di ignorare il significato di queste parole. Si è forse alla portata di tutti quando si è in condizione di ricevere da ogni parte schiaffi c calci, condizione che, a dire il vero, è troppo poco confor­ me alle mie abitudini e ai miei istinti? Al contrario, quante volte e con che ardore ho desiderato, nello stesso senso, che il mondo fosse alla mia portata! È vero; questo desiderio era assurdo, perché tutti o tut­ to il mondo è un’espressione inintelligibile per indicare una cosa che non si distingue bene. Quando mi si parla della gente del mondo, degli uomini e delle donne del mondo, il mio pen­ siero corre immediatamente a quella marmaglia elegante, stu­ pida, segnata col sigillo del Principe dei demoni, per la quale Gesù ha detto di non pregare. Capisco immediatamente, e sono pure tentato di correre al più vicino cimitero per con221

templare, ancora una volta, la spaventevole miseria di quelle pietre tombali orgogliose che la santa di Dülmen79 vedeva co­ perte di tenebre e che talvolta affondano — l’ho notato — al di sotto del livello del terreno, poco dopo la sepoltura. C’è poi l’infinita moltitudine dell’altra gente, di tutti co­ loro che non possono essere detti del mondo e che, tuttavia, sono implicitamente designati ogni volta che si dice: tutti. In questa moltitudine ci sono soprattutto i poveri. Qui la mia ragione vien meno, e io non vedo assolutamente come potrei a un tempo mettermi alla portata dei sepolcri neri e delle lu­ minose ostie viventi! Dunque, ancora una volta, devo mettermi alla portata di tutti. Vediamo! È possibile, povera anima mia? Rispondi­ mi, perché la mia intelligenza è silenziosa. Stamattina, stavi in chiesa e cercavi di unirti, di identificarti con Gesù che si è donato a tutti gli uomini. Certo, hai pregato come meglio potevi per i vivi e per i morti. A rischio di darmi la nausea, suppongo che ti sia ricordata misericordiosamente di coloro che non sono né vivi né morti, che vivacchiano, non si capi­ sce perché, nelle immondizie e che vengono chiamati Borghesi. È così che ci si mette alla portata di tutti? Mi pare invece che, in quel momento, il mondo non era più tangibile per te, e tu stessa eri diventata assolutamente intangibile... Non mi dici nulla neanche tu; ed io resto appoggiato alla mia doman­ da come a un palo. Eccomi dunque incapace di fare quello che mi si chiede. Però cercherò di farlo, perché sono abituato alle cose impos­ sibili. Chi sa? il mondo non è poi così vasto come si crede. Quando una povera massaia criba il suo focolare, si meravi­ glia della troppa cenere e del poco combustibile che le resta per cuocere la minestra e scaldare la casa. Può darsi che do­ po aver cucinato la mia precedente Esegesi, io trovi soltanto poche cose da poter accendere nel fornello e che quel tutti si riduca ad alcune unità utili. Questo pensiero mi incoraggia. 79. Si tratta di Anne-Catherine Emmerich. V. Indice dei Nomi.

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I Dividere con l’ospite quello che si ha la fortuna di avere in pentola ovvero Quando ce n’è per due ce n’è per tre

La seconda formula sarebbe sorprendente se venisse da un teologo. Ma essa è troppo variabile per potervisi fermare. Sarebbe come dire che quando ce n’è per sette, ce n’è anche per nove o per ventiquattro. Basta allungare sufficientemen­ te... L’infinito sta in fondo al corridoio, e la chiave è sulla cornice della porta... Ma il Borghese non chiede l’infinito. Quando vede arrivare un ospite imprevisto, state pur certi che a costui — e soltanto a lui — sarà dato il grasso ^ell’agnello oppure la brodaglia. È così che si applica questa massima fraterna. Quanto alla fortuna della pentola, è un’altra cosa. La Fortuna, dice Omero, è figlia dell’Oceano, e questo ci dà una vasta idea del brodino rarefatto che la benevolenza del Bor­ ghese può offrire. Altri poeti la rappresentano calva, cieca, eretta, con le ali, un piede sul globo ruotante e l’altro nell’a­ ria. Tra gli Achei era dipinta o scolpita con in mano un cor­ no dell’abbondanza e ai suoi piedi si vedeva Amore. L’anti­ 223

chità le innalzò molti templi dove veniva adorata sotto diver­ si nomi, tra cui quelli di Virile, di Vergine e anche di Eque­ stre. Ma tra i borghesi non si sogna che la Fortuna della Pen­ tola, la quale pentola, notatelo bene, pare che abbia sostitui­ to il corno dell’abbondanza. Per quanto riguarda l’invoca­ zione di equestre, disgraziatamente caduta in disuso, essa qui potrebbe significare tutt’al più che si è a cavallo delle conve­ nienze e che nel medesimo tempo è giusto incoraggiare l’ippofagia quando si ha gente in casa. Ho ripetuto abbastanza che i luoghi comuni sono veri e propri tripodi per coloro che ne usano, e che in quel mo­ mento, senza saperlo, pronunziano oracoli temibili. Quando sono invitato a condividere quella Fortuna che sta nella Pen­ tola, la mia immaginazione satura di reminiscenze mitologi­ che evoca subito Medea* e il suo orrifico paiolo, senza riu­ scire a trovare l’amore ai piedi di questa divinità contempo­ ranea; e allora me ne vado a cenare al ristorante.

II La scelta di una carriera

È il titolo d’un libro del nostro grande Hanotaux*. Non so se ha esaurito la materia, perché non ho avuto la forza di andare al di là delle prime pagine. Impiegato alle pompe funebri del luoghi comuni, mi è impossibile leggere dei libri scritti con tanta arte e con una così sconcertante originalità. So però che questo libro vellica piacevolmente il Borghese, com’è nelle intenzioni dell’autore, il quale non è di quei gua­ stafeste che si compiacciono di contraddirlo o di stupirlo. Prima dell’invenzione delle scarpe, quando non esisteva il mestiere di calzolaio, e non c’erano ancora neanche le cal­ ze di lana, ho letto che i re barbari, nei loro festini, scalda­ vano i piedi nudi sul tiepido seno d’uno schiavo favorito di­ steso sotto il tavolo. Il generoso Hanotaux è oggi il titolare di questa incombenza presso il Re moderno e l’assolve con 224

grande zelo. Non è proprio colpa sua se la piacevole birban­ teria e il benefico cretinismo non crescono in proporzioni in­ finite. Hanotaux, così degno di fare da scaldapiedi al signor Prud’homme*, crede fermamente che si possa scegliere una carriera come si sceglie un ministro o un deputato. La disu­ sata e polverosa idea di una Vocazione irresistibile non è ac­ colta sotto la calotta troppo schiacciata del suo cranio dove vengono ammessi soltanto pensieri meschini e analogici. Il primo dovere del cittadino, dopo quello di votare per degli acefali, è di scegliersi una carriera o meglio di accetta­ re, con la più viva riconoscenza, una carriera scelta dai suoi genitori o da Hanotaux. Tutto il resto è fantasia e pericolo grave per la società. Conosco un poeta, che suo padre, molto tempo prima della nascita, aveva destinato a far l’impresario di demolizio­ ni.80 Una provvidenza ironica volle che diventasse infatti un demolitore di borghesi, ma il padre, vedendosi troppo esau­ dito, ne morì di dispiacere. Ecco il disordine previsto dal no­ stro infallibile Gabriel, che non viene mai abbastanza con­ sultato. Ili

Un vagabondo ovvero Un uomo senza confessione Dove sei, caro fratello mio, mio dolce vagabondo? Da tempo ti cerco dappertutto. Forse potresti spiegarmi delle cose che capisco male. Spesso m’è stato detto che ero un uomo senza confessione, perché sembravo una specie di vagabon-

80. Léon Bloy aveva assunto ironicamente il titolo pseudonimico di Entrepreneur de démolitions quando collaborava al periodico “Chat noir”.

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do senza stima pubblica, ed è per questo che ti chiamo mio fratello, il che forse non ti farà un grande onore. Ma quanto al primo punto, certamente la gente si in­ ganna, perché io sono un sedentario, quasi un impiegato sta­ tale, sebbene sia stato sempre sballottato qua e là durante la mia triste vita. Inoltre è curioso pretendere che io sia senza confessione, perché san tutti che talvolta mi confesso e che pure essendo, lo riconosco, professato da pochissima gente ho avuto però il cinismo di affermare molte cose che hanno fatto dispiacere. I miei libri sono pieni di dichiarazioni sgra­ devoli per la maggior parte dei contemporanei illustri. Que­ sto fatto non può essere validamente contestato. Dunque io non posso essere un uomo senza confessione, né al singolare né al plurale, nel senso grammaticale o filosofico di questa bizzarra espressione. Per quanto riguarda la stima del pub­ blico, sono anni che mi ci sono seduto sopra a mio bell’agio, ed è in questo modo che sono sedentario. Vorrei dunque sapere chi sei tu, fratello mio sconosciu­ to, e com’è possibile essere senza confessione nell’Assoluto, perché proprio a questo bisogna ricollegarci, dal momento che la lingua ci è stata data per parlare nell’Assoluto. Lo sap­ pia o l’ignori, sia un cretino o sia un genio, l’uomo è costret­ to a parlare e quindi anche ad agire nell’Assoluto. Così fece­ ro i borghesi e le borghesi di Bethleem quando rifiutarono l’ospitalità a san Giuseppe e a Maria piena di grazia, veden­ do in essi dei vagabondi, e costringendoli quindi a rifugiarsi in una stalla... Ma ecco che adesso mi fai paura, fratello mio scono­ sciuto. Come il Sommo Sacerdote, durante la Passione dolo­ rosa, ti scongiuro per Dio vivo, di dirmi chi sei. Io so che un giorno, vedremo apparire uno Sconosciuto prodigioso, un onnipotente Vagabondo, simile al vento che soffia dove vuole, che si sente ma senza sapere donde viene e dove va, e tremo al pensiero che tu potresti essere proprio Lui, uomo «senza confessione» e probabilmente pitocco, sotto la grande via lat­ tea del firmamento! 226

IV

Un uomo di peso

Questo luogo comune è molto meno misterioso. La pri­ ma condizione per aver diritto a questo titolo onorifico è di essere qualcuno e soprattutto di essere qualcosa, senza che sia indispensabile essere qualcuno. Un sindaco di paese, un brigadiere dei gendarmi, una guardia campestre, un maestro, sono uomini di peso. Rara­ mente lo è il parroco, dopo la Separazione,81 anche se aves­ se innumerevoli parrocchiani, e questo perché, non essendo un funzionario, non si può dire che sia qualcosa, anche se è qualcuno. Più si è qualcosa e più si ha peso: questo è palese e, a un certo livello, c’è da rompere tutte le bilance. Gli astrono­ mi che son gente d’una fede potente hanno pesato, a quanto si dice, il pianeta Giove e anche il Sole, ma chi oserebbe ci­ mentarsi a pesare non dico un Presidente della Repubblica ma addirittura un notaio? So bene che ci sono anche donne di peso, e io ne ho incontrate, ma questo ci trascinerebbe trop­ po oltre e rischierei di apparire psicologo, cosa che non vo­ glio a nessun costo. Basta però sapere che ci sono uomini che hanno un peso schiacciante, da cui è difficile sbarazzarci. Ce ne sono alcuni che sono come pietre tombali su sepolti vivi e i loro nomi somigliano a epitaffi.

81. La legge di Separazione, ideata sotto il governo di Emile Combes (1902-1905), sanciva un regime vessatorio nei riguardi della Chiesa — che culminò con la cacciata dei religiosi dalla Francia, — venne approvata nel dicembre 1905 sotto il ministero di Rouvier. Per E. Combes, cfr. Indice dei Nomi.

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V

Promettere più burro che pane

Secondo la Glossa,82 il burro significa o può significare la Consolazione divina, il Paracleto, e il Corpo di Cristo. È certo che lo speculatore, il quale promette più burro che pa­ ne agli imbecilli, è infinitamente lontano dal sapere quello che dice. Ma colui che lo fa parlare83 in sua vece lo sa e deve anche tremare di saperlo, come possono tremare i demoni. Significa promettere agli affamati di saziarsi, significa promettere la Beatitudine a coloro che non partecipano della Redenzione: e questo io lo sento ogni momento. Quando il Borghese parla, mi pare di non poter sentire più il tuono. Il sole s’oscura, la luna non dà più luce e le stelle precipitano... VI

Mangiare prima il pane bianco

Un viaggiatore, mentre attraversava una delle più pove­ re campagne, incontrò un ragazzo cencioso che divorava un tozzo di pane nero come lucido da scarpe. Mosso da com­ passione, gli donò un pezzo di pane bianco. Allora — e non dimenticherà mai quella scena — vide quel piccolo selvaggio spezzare con venerazione il pane bianco in minuscole porzio­ ni e stenderle sul pane nero, come se si trattasse di una rara leccornia, per mangiarle insieme voluttuosamente. Il viaggia­ tore capì che per quel poveretto, che non lo ringraziò nean­ che, il pane nero era l’essenziale e il pane bianco una gratui-

82. Bloy si riferisce, in questo caso, alla «glossa ordinaria» dell’Anti­ co e del Nuovo Testamento di Walafrido Strabone, che è stato il manuale esegetico di elezione nel Medioevo. 83. Secondo Bloy, è sempre Satana che parla per bocca dei borghesi.

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la voluttà, senz’altro apprezzabile, ma che non valeva una espressione di riconoscenza, e sarebbe stato irragionevole man­ giarli separatamente. 11 Borghese che non ha mai mangiato pane nero, perché lo riserva esclusivamente ai suoi schiavi, senza dar loro un sol boccone di pane bianco, dimostra marchianamente di es­ sere in cattiva fede quando dà a credere, con questo luogo comune, che il pane nero non gli fa paura e che lo mangerà, alle calende greche, quando non ci sarà più pane bianco. Ma, nel medesimo tempo e senza saperlo, egli parla come sempre da profeta. Il pane bianco significa per lui le allegre compa­ gnie, le delizie di questo mondo a cui ha un diritto inaliena­ bile; mentre il pane nero significa il contrario e deve essere l’appannaggio degli imbecilli affamati di Vita superiore. Tutti e due i pani, evidentemente, non possono essere mangiati insieme. Allora il Borghese mirandosi in se stesso come in uno specchio, si vede tutto bianco dalla testa ai piedi, bianco co­ me il pane che vuol sempre mangiare, bianco come la neve, bianco come la luna, e non vede la sua ombra dietro di lui, la sua ombra di stupidità, di ignoranza grassa, di infame brut­ tezza, di infinita cattiveria, nella quale dovrà restare eterna­ mente, quando la Faccia del Dio dei poveri avrà preso il po­ sto del suo specchio. VII

In modo onesto Signora, è vero che vi amo con passione e questo voi non lo ignorate. E poiché ho l’animo ben indirizzato, vi amo in modo onesto. Anche se voi vi trascinaste ai miei piedi, pian­ gendo e singhiozzando di cupido desiderio, non riuscireste nemmeno per un minuto a farmi dimenticare che vi debbo rispetto, pur adorandovi. Ricordate la moderazione delle mie 229

effusioni quando facemmo l’amore quell’ultima volta e la con­ trizione profonda che ne seguì. Che cosa volete? Sono stato allevato in questo modo e non posso cambiare. Prima di ogni cosa e sempre prima di tutto, la purezza delle intenzioni, ed è questa la regola della mia vita. Seguendo questo imperativo, mio padre ha fatto fortu­ na. È diventato ricco mediante la pratica caritatevole dell’u­ sura nei quartieri poveri, attività vanamente messa in discre­ dito da invidiosi che non vogliono conoscere l’eroismo inte­ riore profuso per limitare le sue operazioni e della delicatez­ za d’animo indispensabile per mantenere costantemente in equilibrio la propria coscienza e quella degli altri. Non vi par­ lerò neanche della mia venerabile madre che è ben conosciu­ ta e che quindi non ha bisogno di altri elogi... Voglio ripeterlo, la dirittura e la purezza di intenzioni. Questa è la nostra legge suprema. Fare il bene e lasciar che dicano. Non si forza nessuno. Anche gli atti più riprovevoli in apparenza possono essere giustificati se sono compiuti in modo onesto, con l’intenzione nascosta, ma spesso efficace, di soccorrere, nella realtà dei fatti, degli sfortunati che non sanno dove rivolgersi. E non è forse il caso vostro, mia deliziosa amica? Non essendo più nella prima giovinezza, e avendo ormai passato l’età in cui una donna è ancora piacente e stuzzicante, non avete potuto resistere all’impeto dei vostri desideri verso un giovanotto indebitato fino al collo e che vi sembra unico e insostituibile. Io mi sono lasciato avvicinare perché sono uo­ mo di cuore e tutti e due abbiamo fatto un affare vantaggio­ so, in modo onesto. Non mi chiedete niente di più. Vili

Pagate e sarete presi in considerazione Così mi ha affermato l’esattore incassando i duecentocinquanta mila franchi di contributi che gli verso ogni anno. 230

Questa frase notevole mi ha fatto pensare. Che cosa voleva farmi intendere quell’uomo pieno di ci­ fre e di pensieri? So benissimo che le tasse hanno una desti­ nazione nota a tutti e certamente patriottica. Servono a pa­ gare un Presidente della Repubblica e i cangianti titolari ne­ gli scenari dei loro ministeri. Deputati e sottodeputati vi tro­ vano la loro greppia, senza dire delle loro signore la cui mol­ titudine varia come la superficie del mare. E quanti altri ancora! Tutto questo ci conferisce prestigio, il cittadino che paga tutto questo con i rimasugli della sua dispensa e col fon­ do delle brache dei suoi figli merita una indiscutibile consi­ derazione. Però ci sono altri pagamenti, altri modi di pagare. Ho pensato subito a Giuda, che fu pagato perché tradisse il suo Maestro — e non troppo caro, a dir la verità, — ma pare che gli ebrei che lo pagarono non abbiano ottenuto molta con­ siderazione. Forse perché Giuda restituì il danaro, cosa che non accade mai al mio esattore. Ma che pensare di coloro che pagano i loro debiti alla società sotto la lama della ghigliottina o in galera? Volete dir­ mi quale considerazione ricevono costoro? Quando si paga­ no i cocci rotti si diventa ridicoli e pagare per tutti sembre­ rebbe idiota. Non vedo dunque come fuggire all’ambiguità di questo oracolo del mio esattore. Dopo tutto, potrebbe darsi che questo funzionario che è evidentemente un uomo di peso sia un individuo di grande pietà, e che parlandomi si ricordi di san Paolo che dice alle nazioni: «Voi siete stati comprati a gran prezzo».84 Allora tutto si rischiara, per poco che si noti la straordinaria consi­ derazione dei contemporanei per COLUI che ha pagato, e il rispetto infinito che si ha per LUI ai crocicchi della politica moderna e nelle amministrazioni dello Stato.

84. I Epistola ai Corinti, VI, 20.

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IX

È il primo passo che costa Coloro che hanno combattuto in Francia, quarantadue anni fa, oppure combattono oggi nella Tracia o nella Mace­ donia,85 sanno che gli altri passi non costano meno del pri­ mo, anzi costano molto di più. I postini rurali, pur non es­ sendo dei guerrieri, lo sanno bene, e ognuno se ne accorge nelle campagne, quando sono stanchi morti prima della fine della giornata di distribuzione. Ma noi dobbiamo, senza ar­ zigogolare sulle parole, accettare lealmente questo luogo co­ mune, nel suo senso allegorico, così come è presentato dagli uomini saggi i quali sanno benissimo che cosa vogliono dire. Essi ci farebbero notare subito che intendono soltanto parla­ re del primo passo nel cammino della virtù oppure del vizio. E allora perché soltanto questo primo passo dovrebbe costare? Mi si risponderà che ho sentimenti e istinti sregola­ ti, ma a me pare che ogni passo sullo stretto sentiero della virtù debba costare molto e che al contrario il primo passo, e forse anche il secondo, sulla grande strada del vizio, non costi proprio niente. È questa, mi pare, l’opinione universale. Bisognerebbe dunque intendersi sulla parola passo, che qui deve significare qualcosa di più che la mediocre azione di mettere un piede davanti all’altro. Dice il Vangelo: «Se uno ti vorrà costringere a fare mille passi, fanne duemila con lui».86 Evidentemente questo testo è allegorico, perché, se ci fermiamo al senso letterale, rischieremmo di oltrepassare i li­ miti e andremmo inutilmente oltre Fontainebleau o Carcas-

85. Bloy allude alla guerra franco-prussiana del 1870 e a quella che si stava combattendo nel 1913 tra Greci, Serbi, Romeni e Turchi da una parte e i Bulgari dall’altra. In questa seconda guerra balcanica la Francia appog­ giava la Grecia, la Romania e la Serbia mentre il teatro delle operazioni bel­ liche era individuato in Macedonia e in Turchia. 86. Matteo, V, 41.

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sonne. Bisogna dunque intendere questa frase con semplici­ tà, nel senso che ci viene rischiesto; precetto mostruoso per il Borghese che non può concepire l’usura se non nella veste di chi presta. Dare un centesimo sarebbe per lui fare il primo passo verso il baratro della rovina, e questo gli costa tanto che non si decide mai a farlo.

X Mettere l’aratro innanzi ai buoi

Quanto dire sposarsi prima di «essersi fatta una posi­ zione» o altra simile sciocchezza. Il Borghese non pensa che un carro possa andare da solo, con dietro i buoi che lo se­ guono a passo tranquillo. Sarebbe un miracolo, e di miracoli non ce n’è bisogno. Sfamare nel deserto cinquemila uomini con cinque pani e due pesci, come fece Gesù, gli sembra un racconto per di­ vertire i bambini, e non pensa invece, il disgraziato! che i suoi grandi uomini di elezione, quelli che lui crede dei luminari, la marmaglia filosofica del XVIII secolo, per esempio, e il moderno fior fiore di questa marmaglia, compiono, da due­ cento anni, un non minore prodigio nutrendo lui e i suoi in­ numerevoli consimili e ingrassandoli di bestialità, mediante quell’eroico alimento il cui nome è formato da cinque lettere c due sillabe.87 Che cosa potrebbe far lui dell’aratro a cui non mette ma­ no? che cosa ne potrebbe fare e come potrebbe mettere, da­ vanti o dietro questo strumento agricolo cantato da Virgilio, le nobili bestie del sacrificio che rappresentano per lui sol­ tanto una pietanza saporita?

87. L’eroico alimento corrisponde all’espressione scatologica che la tra­ dizione vuole esser stata proferita da Cambronne. Cfr. anche Indice dei Nomi.

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XI

Conti... chiari, amicizia lunga

Un buon conto è necessariamente quello che procura dei vantaggi al contabile. Diversamente sarebbe un cattivo con­ to. E i buoni amici sono coloro che possono essere utilizzati, spogliandoli o anche divorandoli. Sono definizioni assio­ matiche. Resta da sapere come l’amicizia possa essere il prodotto sicuro di un conto chiaro. Seguitemi attentamente: se dico male, lo potrete vedere da voi. Suppongo che siate un cassiere, che facciate il conto del danaro degli altri, stando attento, si capisce, a creare, nella operazione di riporto, un certo artifizio a vostro vantaggio. Sopraggiunge un amico, non meno canaglia di voi, a portar­ vi il rinforzo della sua esperienza personale e del suo raschiet­ to. Se fate uso della vostra ragione, dovete vedere in lui il dito della Provvidenza e servirvi di questo aiuto con tanta astuzia che il giorno in cui il vostro padrone si deciderà a ve­ rificare i bilanci, dovrà incolpare soltanto lui. All’occorrenza voi lo denunzierete con estrema indignazione e dopo aver invocato il santo Nome di Dio, come si fa nelle Curie episco­ pali. Conoscete i trucchi e le malversazioni molto meglio di me, e quindi non starò a insegnarvi il vostro mestiere. Che cosa accadrà allora? Il vostro compare andrà in ga­ lera, coperto d’ignominia, mentre voi forse riceverete un’ab­ bondante gratifica. In questo modo avrete guadagnato, con un colpo solo, una forte somma e un amico sicuro che vi be­ nedirà di lontano. Del resto, se i conti... chiari non fanno sempre le amici­ zie lunghe, è evidente almeno che i buoni amici fanno i con­ ti... chiari, come si voleva dimostrare.

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XII

Portare fortuna. Portare disgrazia

È una grossa difficoltà, un problema enorme sapere chi porta fortuna o disgrazia. Nei tempi antichi, quattro o cin­ quecento anni fa, prima di iniziare una qualsiasi attività, si andava a pregare davanti alla statua colossale di san Cristoforo, che si era certi di trovare nelle Cattedrali. Ai piedi del famoso Ausiliatore si leggevano queste parole: Christophorum videas, postea tutus eas: Guarda Cristoforo e poi vatte­ ne tranquillo. Nel medioevo era generalmente ammesso che non si poteva morire improvvisamente o per un accidente, durante la giornata, se si era guardata un’immagine di san Cristoforo. Però, in quell’epoca lontana e dimenticata non si diceva «portar fortuna». Si invocava con fede il Cristoforo, perché chi aveva portato il Cristo, poteva benissimo portare tutte le sue membra. Questo bastava alla gente semplice, e questo ave­ va il suo effetto. Oggi siamo diventati saggi e invochiamo i feticci. Ci so­ no porcellini portafortuna, o piuttosto antiscalogna, giacché la lingua si attaglia al pensiero. E abbiamo visto degli avia­ tori, degli scalatori delle nuvole, che portavano con loro gat­ tini, scimmiette, Pulcinella da quattro soldi, e alcuni, a quanto m’è stato riferito, anche sacchettini di escrementi. Tuttavia, poiché un gran numero di «conquistatori dell’aria» sono mi­ seramente periti, si è stabilito che qualcuno dei loro antisca­ logna poteva essere un portascalogna e così son nati molti scismi nella religione dei feticci. Devo però fare osservare che qui si tratta soltanto degli eroi, dei semidei dello sport, dei martiri del danaro sonante, i quali rischiano la loro pelle per guadagnare i premi esorbi­ tanti con cui vengono remunerati dalla stupidità due volte mil­ lenaria degli ammiratori di Simon Mago*. Il modesto Bor­ ghese, non sollecitato da alcun eroismo e senza ambizione di salire fino al cielo, si ritiene modestamente immune dalle di­ 235

sgrazie se ha nelle tasche il suo portamonete oppure il porta­ foglio altrui. Tutt’al più potrà portare in tasca un soldo bucato o un pezzo di corda d’impiccato, perché bisogna pur concedere qualcosa all’Incognita. Ma questa è la sua massima conces­ sione; poiché, essendo soprattutto ragionevole, egli vola, col sedere per terra, al di sopra delle superstizioni, e sa benissi­ mo che non bisogna iniziar niente di venerdì, che è il giorno dedicato a Venere — soprattutto il Venerdì santo che è dedi­ cato al Salame —, e che è imprudente stare a tavola in tredi­ ci perché porta disgrazia, a meno che il tredicesimo convita­ to non rappresenti un affare d’oro, vale a dire uno di quegli imbecilli eccellenti che sarebbe ridicolo disdegnare.

XIII

Tappare il buco Nella precedente Esegesi dei luoghi comuni, dieci anni or sono, mi sono occupato dei buchi che si possono fare so­ prattutto alla luna, sforzandomi di dimostrare l’inerenza tra l’idea di buco e l’idea di prosperità nello spirito di molti uo­ mini rispettabili.88 Ma non tutto è stato detto: quando ci si fa il proprio buco occorre poi tapparlo affinché i vagabondi non vi si in­ filino. È l’istinto delle formiche, degli insetti coprofagi ed è indubbiamente un lodevole istinto. Ma con che cosa lo si po­ trà tappare efficacemente se non usando a tale scopo quanto vi è di più puzzolente, di più rivoltante, di più impenetrabi­ le? Il miglior tappabuchi è la coscienza dei galantuomini!

88. 1, LXXXVI, p. 124.

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XIV

Avere un cattivo affare per le mani L’affare peggiore è quello di trovarsi nella necessità as­ soluta di compiere un atto eroico; per esempio, una restitu­ zione. Se per ipotesi una legge costringesse i figli ad aiutare i loro genitori e a rendere confortevole la loro vecchiaia, sa­ rebbe un affare esecrabile. E quanti altri ancora! Cercate di immaginarvi la situazione di Hanotaux* il Giu­ sto, che venisse perseguitato, finanche nella sua poltrona ac­ cademica, da una disgraziata che un tempo avesse ceduto alΓirresistibile tentazione del suo volto e che lui poi avesse ab­ bandonata nel fango, come era giusto fare, quando dovette rinunziare alle gioie inferiori per elevarsi ai compiti sublimi. Che odioso e pesante affare sarebbe tra le braccia di questo Atlante già troppo carico del peso del mondo! Aristide morì povero, la grammatica lo insegna, ed è ve­ ramente troppo ingiusto essere minacciato d’ostracismo da una donna di bassa condizione, che osa pretendere che il suo infedele la sfami almeno con qualche gettone di presenza al­ l’Accademia, quando poi ci sono tante croste mangiabili nel­ le pattumiere delle case borghesi! Le mani di Hanotaux*, e un simile affare tra simili mani! L’ho conosciuto abbastanza, venticinque o trent’anni fa, quando questo figlio di notaio era appena un galoppino agli Archivi del Ministero degli Esteri, da cui doveva balzar su tutto d’un tratto, fino ai fasti della grande scena politica. Un giorno ebbi occasione di parlargli di un’altra abbandonata e ricordo la sua generosa indignazione, il disprezzo amaro con cui colmò il colpevole. E aveva certamente ragione; quel col­ pevole non era un accademico.

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XV

Stare sui carboni ardenti Ecco un altro cattivo affare, ma invece di averlo tra le mani, lo si ha sotto i piedi o sotto il sedere, se mi è permesso dirlo. Non tutti hanno il buon umore di san Lorenzo sulla graticola, dove, per fortuna, non c’è posto per nessun Borghese. Si sta sui carboni ardenti quando si attende il postino; quando si prevedono gli schiaffi e intanto s’è dimenticata la propria maschera di ferro; quando si è impazientemente at­ tesi dall’amata e si è in fondo all’interminabile fila che atten­ de l’omnibus; quando si vede che l’ombrellaio ha ceduto la sua bottega a un dettagliante di vetriolo; quando si ha ur­ gente bisogno di prendere il treno di mezzanotte e sono ap­ pena le ventidue; quando un temibile marito sta salendo le scale e si prova una certa qual difficoltà a infilarsi i pantalo­ ni o a trovare il cappello, senza sapere come si riuscirà a scap­ pare; quando si esercita un mestiere onesto e si è costretti pa­ recchie volte al giorno a passare davanti al posto di polizia; ecc., ecc. C’è della gente che sta per tutta la vita sui carboni ar­ denti e non trova nulla di spiritoso da raccontare. Ci sono altri che si compiacciono di attizzare villanamente questi car­ boni sotto i piedi dei loro simili e camminano essi stessi su cocci di bottiglia, in modo da avere tribolazione e miseria per tutta la vita. «Se il tuo nemico ha fame, dice il Santo Libro, dàgli da mangiare; se ha sete, dàgli da bere; così facendo accumu­ lerai carboni accesi sul suo capo. » Il Borghese non fa così; conserva soltanto per sé tutti i suoi carboni e lascia letteral­ mente crepare di fame e di sete i più cari amici.

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XVI Avere a proprio carico

Si hanno dei carichi quando si ha l’obbligo di dare gli alimenti a delle persone: una moglie, dei figli, una suocera, dei vecchi genitori che non si decidono a morire e che non possono essere mandati all’altro mondo senza perdere qual­ cosa della propria reputazione. È vero che c’è l’assistenza pub­ blica, la quale non è stata fatta per i cani,89 ma come ricor­ rervi quando si ha anche la carica di magistrato, di notaio o d’agente di cambio? Allora si è un martire e lo si fa sapere quotidianamente alla terra e al cielo. La ricchezza stessa non serve a niente. Bisognerebbe non avere esperienza della vita per ignorare che quanto più si è ricchi tanto più i carichi sono grevi perché si hanno meno pre­ testi per lamentarsi; e bisognerebbe essere proprio sordi o an­ che insensibili per non sentire, a questo riguardo, i gemiti dei ricchi e non averne il cuore straziato. Sì, senza dubbio; ma per fortuna la lancia di Achille gua­ risce le ferite che produce. Quando si possiedono parecchi mi­ lioni e si hanno carichi schiaccianti, come il pagare il sussi­ dio di due franchi al giorno alla vecchia madre, si ha la pre­ ziosa risorsa di congedare i postulanti col dire: «Ho gente a carico! ». Così facendo si realizzano economie ginevrine90 — le più apprezzabili di tutte — e, nello stesso tempo, si ren­ de più pulita la propria coscienza. XVII

Fare la propria strada Questo non ha niente a che vedere con la pia pratica della Via Crucis. Anzi è indispensabile non fare la Via Crucis trop89. Cfr. 1, IV, p. 33. 90. Léon Bloy non riusciva a perdonare il mancato aiuto finanziario che gli era stato promesso da ricchi banchieri ginevrini.

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po frequentemente, se si vuol fare la propria strada con una certa rapidità. Bisogna aggiungere che la pratica della Via Cru­ cis è un ostacolo sicuro, ed è incompatibile con l’elasticità necessaria a chi ha deciso di fare la propria strada. Tuttavia ci sono strade e strade, anche se tutte portano a Roma, come si dice. Ci sono strade comodissime e strade accidentate; strade che salgono e strade che discendono; vie maestre e piccoli sentierini. C’è anche la via traversa che tal­ volta è la più breve e di solito viene scelta dai viaggiatori che non vogliono affaticarsi troppo; ed è stato notato che questa spesso viene preferita dalla ruota della Fortuna. L’essenziale è non cadere nelle carraie profonde e pericolose tracciate dalla ruota della Fortuna che non è affatto leggera. È altrettanto importante tenersi decisamente lontano dagli infermieri e dai poveri che vi si possono incontrare; e, so­ prattutto, non bisogna lasciarsi distanziare da chicchessia. Tut­ ti quelli che hanno fatto la loro strada vi diranno che ci sono circostanze in cui non bisogna aver paura di sopprimere, in un modo o nell’altro, la gente troppo frettolosa. La cosa più sicura è di sorpassare il competitore dopo d’averlo sgozzato. Però la strada che non bisogna mai prendere è quella del Paradiso, la quale passa per il Calvario, dove non si ve­ dono che anime innamorate e suppliziati.

XVIII Fare cerimonie

Il Borghese vi avverte, a ogni pié sospinto, che non bi­ sogna farne. Dice: «Non son capace di fare cerimonie! Vi invito a cena senza cerimonia, ecc. ». E voi avete immediata­ mente l’impressione di trovarvi di fronte a un individuo a po­ sto e benevolo, che non vuole importunare e non vuole esse­ re importunato, e che sta attento ad eliminare tutto ciò che potrebbe intiepidire o anche soltanto ritardare l’effusione dei cuori. 240

Per esempio, le cerimonie della Chiesa, giudicate forme vane dalla sua ragione pura e dalla sua ragione empirica, han­ no l’effetto di paralizzare la sua anima e di ostacolare gli slanci di pietà che lui potrebbe avere. A più forte ragione, le pom­ pe del mondo che hanno, si capisce, un’importanza maggiore. È un uomo semplice, tutto d’un pezzo, a tutto tondo, per così dire, e non pretende essere di grande levatura. Voi sapete subito ciò che vuol fare e ciò che vuol dire. E così, quando vi invita senza cerimonie, siete senz’altro costretti ad accettare. È «la Fortuna della Pentola» che vi tende le brac­ cia.91 D’altronde egli vi dà l’esempio della più deliziosa fa­ miliarità ruttando e scoreggiando a tavola, appena ne sente il bisogno. Perché stare a disagio con gli amici? Sono forse dei diplomatici? E perché non mostrarsi come si è, quando non c’è nulla da rimproverarsi? È vero che ci sono delle persone meno semplici, le quali abusano di questa amabile cordialità per tentare di avere da­ naro in prestito. Ma questo non ha presa su di lui e non lo sconcerta affatto. Allora più che mai si mostra qual è. Con profondo rammarico e con occhi umidi di tenerezza, vi obiet­ terà i suoi «carichi», i suoi schiaccianti carichi che non gli concedono di fare quello che vorrebbe, e vi accompagnerà affettuosamente fino sul pianerottolo, senza alcuna cerimonia.

XIX Fare bene le proprie cose

Lettera di un condannato a morte, la vigilia dell’ese­ cuzione: «Caro amico, domani, all’alba, sarò ghigliottinato. In fondo, preferirei che questa esecuzione non avvenisse, giac-

91. Cfr. 2, I, p. 223.

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ché la mia salute non lascia a desiderare; però, a quanto pa­ re, il mio caso è disperato. Ho trascorso la vita a fare bene le mie cose. Ecco la gran­ de parola dimenticata; e domani farò ancor meglio le cose, giacché mi si taglierà la testa per tutti quelli che le fanno ma­ le e che, per questo, imputridiscono nella cloaca della loro coscienza. Forse, come i signori giurati, tu credi che avrei po­ tuto accontentarmi di assassinare qualche borghese invece di assassinarne una moltitudine, ma la mia natura espansiva non mi concede limiti ed io ho voluto fare bene le cose. Quando un droghiere o un salumaio marita la figlia po­ trebbe accontentarsi di un pranzo di nozze in cui le merci ava­ riate della sua e di qualche altra bottega potrebbero essere utilizzate; potrebbe ugualmente manovrare in modo che il con­ to delle spese, maggiorato a suo vantaggio, venga presentato al giovane sposo nel momento in cui è più brillo e quindi in­ capace di una verifica. Ma no, lui fa le cose bene; vuole che lo si sappia e lo si onori per questo. In realtà, s’inganna, per­ ché tutti i convitati penseranno invece che è un idiota. Chi avesse generosamente massacrato tutti gli invitati alla festa, disinteressandosi delle ricompense terrene, avrebbe fatto le co­ se per bene. Io avrei voluto essere quell’uomo. Hanno creduto di ve­ dere in me un anarchico affiliato a chissà quale banda, e so­ no invece un solitario e mite sognatore, nemico della genta­ glia e sempre armato per combatterla. Gli altri non capisco­ no che il Borghese è questa gentaglia. Non appartenendo quin­ di all’umanità, egli non sa che gli esseri formati a immagine di Dio hanno il diritto e il dovere di distruggerlo con tutti i mezzi possibili. Lo comprenderanno più tardi, quando ve­ dranno cadere le aquile asfissiate dalla spaventevole conci­ maia dei proprietari e dei negozianti, nella Grande Sera dei cataclismi già annunziati. È impossibile essere artista, vale a dire testimone di una Vita superiore, senza sterminare, ogni giorno, un mucchio di borghesi, almeno col desiderio, col potente e vivo desiderio dello Splendore che essi offuscano. E quanto più un artista è 242

appassionato, tanto più questo desiderio è veemente. In que­ sto modo, poeti come Verlaine*, Villiers de l’Isle-Adam*, Baudelaire*, ne hanno sgozzato a milioni davanti al trono di Dio, ed io sono ghigliottinato perché sono stato il loro brac­ cio visibile. Io l’accetto per forza, con l’amaro rimpianto di aver avu­ to così poco tempo di spazzar via i bruchi parassiti dall’albe­ ro della vita. Quando la testa mi sarà stata troncata, uscirà da me, con un fiotto, una grande striscia di porpora che poI rà servire come tappeto per i piedi di Colui che dovrà venire alla fine dei secoli e che farà veramente le cose per bene, es­ sendo l’unico Giudice dell’esatta attribuzione delle aureole e dei castighi.» XX

Mandare a dire a qualcuno tante cose

— Gli direte tante cose da parte mia. Per assolvere esattamente questa missione di fiducia, sa­ rebbe opportuno essere muto o anche sordomuto. Se non si ha questa fortuna, si avrà almeno la possibilità di farfugliare qualche cosa, e così il messaggio sarà fedelmente trasmesso, giacché l’intenzione protocollare del mandante non sorpas­ sava il vasto abisso del niente dove si localizzano i sentimenti affettuosi dei nostri amici e dei nostri innumerevoli fratelli. XXI Fare del bene attorno a sé

È un problema di perimetro. Quanto meno è esteso, tan­ to più si fa del bene a se stessi. Non credo che questo para­ dosso abbia bisogno di una dimostrazione. Ma di quale bene si parla? 243

Se si tratta prosaicamente di aiutare i poveri, — il che contrasta con i princìpi elementari dell’economia borghese — a quale distanza, attorno a me, devo lanciare le croste di pa­ ne o le bucce affinché essi abbiano il tempo di raccoglierle prima che arrivino i maiali e i cani senza padrone? Infatti non si tratta di dar loro dei soldi o dei centesimi — assurda prodigalità che li invoglierebbe a far baldoria — e neppure di concedere loro dei buoni di pane o di carne, il che li espor­ rebbe all’indigestione e all’insonnia. D’altronde non si deve umiliare nessuno e nel medesi­ mo tempo bisogna mantenere sempre le distanze, con molta accuratezza. Se regalo dei vecchi pantaloni o un paio di cia­ batte inservibili da più di trentacinque anni, lo devo fare per­ sonalmente? In questo caso sarei costretto a uscire, a metter piede nella via, rischiando di pigliarmi dei pidocchi e di ve­ dere sbucare attorno a me altri straccioni che mi chiederan­ no lo stesso munifico dono. Inoltre, compiendo questo atto di carità, non manche­ rei a un precetto essenziale? La mia mano sinistra saprebbe necessariamente quello che fa la mia destra, e viceversa. Il che è assai imbarazzante. D’altra parte, se si tratta di fare del bene alle anime, co­ me si dice, è vero che posso offrir loro il mio esempio capace di istruirle esaltandole, ma io non vedo anime attorno a me, non ne vedo neanche una! Nessuno di coloro ai quali rasso­ miglio mi ha fatto vedere di avere un’anima. La mia ragione non concepisce se non ciò che è visibile. La parola anima non ha senso per me. Quando riesco a intravvederla, non so spie­ gare quel che succede, e tutto d’un tratto mi trovo solo e mi sento vuoto... assolutamente, spaventosamente solo e vuoto!

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XXII Fare del proprio meglio Meno male che c’è questa risorsa: fare del proprio me­ glio. È il rifugio, la strada lastricata, l’ombrello della coscien­ za, per dir così. Quando proprio non si può far niente, si fa del proprio meglio: è indiscutibile. I soliti contraddittori avran­ no voglia di pretendere che in questo, come negli altri casi, il meglio è nemico del bene; però non è meno certo che la coscienza del galantuomo è più al sicuro nel silenzio e nell’i­ nerzia che nel frastuono e nella lotta. Chi, considerata saggiamente l’inutilità di esporsi senza l’evidenza d’un vantaggio personale e tangibile, se n’esce per il rotto della cuffia, e lascia così agli altri di sbrogliarsela co­ me possono; oppure si unisce con una certa discrezione al ne­ mico per una più decisiva e vantaggiosa conclusione dell’im­ broglio; costui, possiamo dire, ha fatto del suo meglio. In qualsiasi altra maniera, c’è sempre il rischio di buscarsi un colpo mancino: il che è assurdo. Il galantuomo non deve mai compromettersi; e ingiusta­ mente si è dato addosso a Pilato, che fu il tipo del galantuo­ mo che fa del suo meglio e se ne lava le mani, come il prete prima del sacrificio della messa. Lavabo inter innocentes ma­ ms meas: laverò le mie mani in compagnia degli innocenti. Pilato era il grande Borghese romano, quando i romani erano i padroni del mondo. L’accademico Anatole France*, così caro al Borghese moderno è la persona meglio indicata per la riabilitazione di questo misconosciuto. Con la sua fol­ gorante autorità, e dopo d’aver consultato la sua personale esperienza, ci farebbe sapere che se avessimo la bella conci­ sione romana — a proposito del luogo comune che stiamo esaminando — non diremmo: Fare del proprio meglio, ma Fare, semplicemente. Sarebbe più espressivo e più esplicito!

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XXIII Fare la vita I pittori ambiziosi e anche quelli che non hanno ambi­ zioni dicono volentieri: fare la rappresentazione della vita, e sappiamo più o meno che cosa vogliono dire. Ma il Borghe­ se asserisce categoricamente: fare la vita; il che è tutto diver­ so. Forse sa quel che vuol dire, però non sa certamente quel­ lo che dice. Quando profferisce queste tre parole, si trova, senza saperlo, in quella strana situazione che spesso ho fatto notare: sta cioè sul suo tripode e pronunzia una parola di cui non conosce la portata. È come un viaggiatore sperduto in una caverna piena di rumori sotterranei e di fumo profetico. Raglia nell’Infinito e nell’Inconoscibile. Rembrandt o Donatello fanno la rappresentazione della vita; lo studente di medicina o di diritto che si ubriaca con le prostitute del quartiere latino fa la vita. È così; lo capiate o no. Il padre borghese che parla a questo modo deve però aver ragione, come sempre, perché parla con la bocca del­ l’inferno, perché la sua lingua è abietta, e perché infine non parla di se stesso. Se dicesse che suo figlio, il simpatico allegro adolescen­ te fa la rappresentazione della vita, le sue parole non avreb­ bero senso per altri buontemponi anche se frequentano le Belle Arti; ma dice: «Mio figlio fa la vita; il baldo giovanotto na­ to da me, che s’imbestia tutte le sere tra fornicazioni e be­ stemmie, è in questo modo un produttore della vita, come lo fui un tempo anch’io quando avevo la sua età». Indub­ biamente il povero vecchio rimbecillito non ci capisce nulla, tranne che il figlio gli costa molto danaro, e che tutte quelle donnacce del quartiere gli sono « più amare della morte », co­ me sta scritto nell’Ecclesiaste,92 ma, nonostante questo, è contento di avere un figlio che è come Dio, poiché fa la Vi­ ta, qualunque possa essere il significato di questo vocabolo. 92. Ecclesiaste, VI, 26.

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La Bestemmia, di cui si pasce il Borghese, è un pane fatto con lettere più dure del marmo rosso dell’inferno e che lui solo può digerire. — Ego sum Vita, — dice il Redentore dei viventi. — Sono io che faccio la vita e non ti conosco, — risponde il Borghese in agonia, chiudendo sopra di sé la co­ lossale porta della Morte. XXIV

Fare fortuna

Si fa fortuna quasi come si fa la vita, vale a dire stando attenti a non far mai nulla di decente o di utile che possa dar luogo a sospetti di disinteresse. Allora il danaro corre verso di voi come gli insetti e le lumache corrono su un frutto ca­ duto per terra. Siete completamente marci e pieni di bestie immonde? Però avete fatto fortuna e siete circondati dalla più ammira­ ta considerazione. Siete fetidi? Però avete dei piedi da cui esala come un fresco profumo di acacie e di mandorli in fiore. Siete orribilmente mostruosi? Però gli angeli stessi non sembrano più belli. Quando morì il miliardario Chauchard*, la sua ca­ rogna sparse un odore così soave che il pio clero della sua parrocchia non esitò a decretargli i funerali di un santo. Se non hanno fatto un panegirico, fu perché la materia dell’elo­ gio era troppo abbondante. Quando invece non avete fatto fortuna, quando avete avuto pietà di coloro che soffrono, quando avete cercato, piangendo lacrime d’amore, la Bellezza e la Grandezza, allo­ ra state nelle nuvole o nelle stelle, vale a dire molto al di so­ pra degli animali più immondi. Oso sfidare qualsiasi imbe­ cille, regolare o secolare, a smentire questa affermazione. Squartate un Borghese e troverete scritta tutt’intorno al suo cuore questa affermazione.

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XXV Fare il buono e il cattivo tempo Questo è possibile soltanto quando si è fatto fortuna. Sol­ tanto chi ha fatto fortuna può arricchire o rovinare gli om­ brellai e i lustrascarpe. Ma poiché troppi uomini hanno fatto fortuna, da quando sovrabbonda la lordura, e poiché la vo­ lontà d’ogni uomo è variabile, non si potrà mai sapere che tempo fa: una pioggia continua, la siccità, un solicchio palli­ do, coperto a ogni momento dagli acquazzoni? Inoltre, c’è l’influsso misterioso e meteorico delle donne. Quando tra gli uomini sono troppi coloro che vengono corni­ ficati dalle mogli, l’inondazione è probabile; e quelli che, in numero ridotto, credono alla fedeltà delle loro mogli e vorreb­ bero il bel tempo, sono sommersi, vinti, e finiscono di far for­ tuna. È un disordine senza fine; è la rovina degli almanacchi, è il totale scoraggiamento di coloro che amano la villeggiatura. Qui, nel mio incantevole ritiro di Bourg-la-Reine, dove il fango spadroneggia in ogni stagione, ho dovuto rinunziare a interessarmi di statistica. Quasi per imbrogliare tutti i miei cal­ coli, il municipio fa bagnare le strade quando non piove, e ap­ pena piove fa sconvolgere il fondo stradale perché c’è il panta­ no, cosicché non posso mai conoscere i costumi di questo pae­ se e mi trovo nell’impossibilità di stabilire un rapporto proba­ bile tra l’esiguo numero di case ricche e la mitica quantità ipo­ tizzata di case disgraziate, a causa di questa perpetua illusione d’un tempo abominevole. Altrove che cosa accade?

XXVI

Fare la carità Date eleemosynanr?3 fate l’elemosina. Traduzione per il pio borghese: Fate la carità. Chi ha 93. Luca, XI, 41.

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trecentomila franchi di rendita, dà qualche soldo alla porta della chiesa, poi si mette in una automobile per darsi alla bella vita o fare delle bestialità, e chiama tutto questo: Fare la ca­ rità. Ah! un giorno, quel Dio che ha fatto la lingua degli uo­ mini dovrà pur vendicare terribilmente questa povera ol­ traggiata! «Sia preso al laccio dei suoi occhi, quando mi guarde­ rà, e tu percuotilo con la dolcezza del mio parlare», dice l’af­ fascinante Giuditta mentre sta per tagliare la testa a Olofer­ ne. «La carità copre tutti i delitti» dice Salomone. «Il mio signore m’ha introdotto nel luogo dove serve il vino e ha or­ dinato in me la carità. Sostenetemi con fiori, confortatemi con pomi, perché languisco d’amore... Le acque del mare non valgono a spegnere l’amore, né le fiumane a sommergerlo»: così canta l’Anima dolorosa del Figlio di Dio torturato nel Cantico dei Cantici. «Io t’ho amata d’un amore eterno, dice il Signore per bocca di Geremia, e ti ho attratta con la pietà, vergine d’Israele».94 Quante altre parole prima di arrivare al Vangelo, dove Gesù parla dell’« impoverimento della carità d’un gran nu­ mero, quando abbonderà l’ingiustizia» e maledice i farisei che «la trasgrediscono con disprezzo»;95 prima soprattutto di ar­ rivare al formidabile capitolo di san Paolo, cantato dalla Chie­ sa nella domenica di Quinquagesima per ricordare ai fedeli che il Figlio dell’Uomo sta per essere tradito, deriso, oltrag­ giato, vilipeso, flagellato e condannato a morte; capitolo ter­ rificante quanto il grido disperato delle stelle, dove la Carità è descritta come una Persona incapace di morire, seduta da­ vanti a una porta sconosciuta!...96 Si vede che Lei può tutto soffrire, tutto credere, tutto sperare! E siamo avvertiti che senza di Lei tutto è inutile, che non servirebbe a nulla dona94. Le citazioni bibliche sono tratte, nell’ordine, da: Libro di Giudit­ ta, IX, 33; Proverbi, X, 12; Cantico dei Cantici, Vili, 7 e Geremia, XXXI, 3. 95. Matteo, XXIV, 12. 96. I Epistola ai Corinti, XIII. Questo testo viene letto durante l’Epi­ stola nella messa di Quinquagesima.

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re tutto quello che si possiede, neanche il dare il proprio cor­ po perché sia bruciato. Se siamo figli di santi o nipoti di figli di santi, noi leggiamo, piangendo e singhiozzando, che non vale a nulla parlare tutte le lingue, essere profeti, conoscere ogni scienza: tutto questo non vale nulla senza di Essa; per­ ché la Carità è paziente, benigna, per niente invidiosa o ma­ liziosa, senza superbia e senza vanagloria, non cerca neanche quello che le appartiene, ugualmente estranea all’ira e a ogni pensiero che riguarda il male; infine la carità è Dio stesso... A questo punto, ecco, veniamo a sapere che la levatrice, il vinaio, l’accordatore di pianoforti, la moglie del fotogra­ fo, la signorina del capostazione fanno la carità. È una cosa orripilante e avvilente! Non sappiamo più se ci troviamo a Patmos o a Lesbo,97 se siamo resi idonei per il servizio mili­ tare o per il servizio antropometrico, se siamo lucidi o pazzi, se siamo seduti a un festoso banchetto o se siamo distesi in fondo a un sepolcro in una bara inchiodata saldamente da seppellitori coscienziosi. Si pensa e si dice con grande stupore che, dal tempo della Grande Messa del Golgota, si sono avuti cristiani in numero infinito, milioni di martiri che hanno accettato con gioia i peg­ giori tormenti, confessori, solitari e Vergini, che hanno rinun­ ziato a tutto quello che il nostro mondo può offrire, e hanno dato tutto quello che si può dare, per morire d’amore nel­ l’assoluta povertà, e, nonostante questo, non ritenevano di aver fatto abbastanza per essere creduti caritatevoli. Sembra che tutto questo non sia niente a paragone del­ l’eroismo di un Padrone di casa che dona con ostentazione dieci centesimi, ogni domenica, al mendicante del portico, do­ po aver pensato, durante la messa, a usare decisamente i mezzi migliori per far sloggiare certe famiglie povere che non pos­ sono pagarlo. 97. Patmos era l’isola in cui San Giovanni Evangelista era stato esilia­ to e dove aveva scritto l’Apocalisse. Lesbo, l’odierna Mitilene, è un’altra isola dell’arcipelago greco, in cui nacque Saffo, la poetessa che una tarda leggen­ da vuole fervente cultrice di amori femminili.

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Un savio vegliardo, da me consultato, m’ha detto que­ sta profonda massima che raccomando ai pensatori: «I santi danno l’elemosina, ma soltanto i borghesi fanno la carità».

XXVII Fare l’amore

Questo luogo comune non è che una ripetizione, un dop­ pione di molti altri, come La scelta d’una carriera, oppure la sublime raccomandazione di non mettere tutte le uova in uno stesso paniere. Perciò lo lascio e non insisto. Il Borghese è, per natura, deicida, omicida, parricida e infanticida, ma glorioso. Qui potest capere, capiat.98

XXVIII

È meglio fare invidia che pietà Cerchiamo un po’ di luce da questo lato, visto che la parola meglio, magis, è tanto luminosa. Melius est... magis: «È meglio, dice Tobia, fare l’elemosina che accumulare te­ sori».99 Evidentemente non è quello che cerchiamo. «È me­ glio, dice David, essere abietto nella casa del Signore che abi­ tare nei tabernacoli dei peccatori».100 Non ci siamo ancora. Continuiamo a sfogliare il Sacro Libro. «Gli uomini amano più le tenebre che la luce» dice Gesù a Nicodemo. Ah, que­ sta volta credo che siamo vicino. Un po’ più avanti ancora Gesù dice che ci sono alcuni che « amano più la gloria degli uomini che quella di Dio».101 Inutile cercare oltre; ci siamo.

98. «Chi può intendere, intenda»; Matteo, XIX, 12. 99. Tobia, XII, 8. 100. Libro dei Salmi, LXXXIII, 10. 101. Giovanni, III, 19 e XII, 43.

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I facitori di discorsi vani hanno spesso parlato di tene­ bre dell’invidia e, per opposizione, hanno voluto far credere agli imbecilli che la pietà aveva qualcosa di radioso. D’altra parte è naturale preferire la gloria umana, che porta danaro e fa accorrere le belle donne, alla gloria di Dio che procura invece, come s’è visto, soltanto miseria e umiliazione. Non vi è dubbio sulla nostra scelta. Lasceremo che gli altri ci in­ vidino, finché vorranno, nelle loro tenebre, e conserveremo la luminosa pietà per noi stessi, considerando saggiamente che è meglio avere che chiedere, e che, essendo creature periture e di incerta durata, la cosa più importante è prendersi imme­ diatamente tutte le consolazioni possibili, anche se i poveri ne dovessero crepare d’invidia. II Miserere dei defunti è una sciocchezza poetica. Gli amatori della liturgia si compiacciono di pensare che la mor­ te non esiste, che c’è un’altra vita molto cambiata,102 dove i ricchi che si sono molto divertiti possono aver bisogno di pietà, dopo che le loro carcasse sono state portate al cimite­ ro. Ebbene, noi altri crediamo alla morte, alla vera morte to­ tale, senza resurrezione e senza purgatorio. La invocheremo con tutto il nostro cuore quando non potremo più godere, e la vorremo eterna.

XXIX Fare un po’ di toeletta Il boia si presenta con le forbici per tagliare i capelli del suo cliente. — Su via, caro amico, — gli dice affettuosamen­ te, — facciamo un po’ di toeletta. — Se lo dici tu! — risponde il condannato. La conversazione, di solito, non va molto più in là.

102. Vita mutantur, non tollitur, «La vita è cambiata ma non è tol­ ta». Introduzione alla Messa dei Defunti.

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Quando sento dire a un Borghese che fa un po’ di toe­ letta per andare nel mondo, penso a quella scena, a quel con­ dannato, meno criminale forse, che si fa, anche lui, un po’ di toeletta, per andare ne\Valtro mondo·, e vedo chiaramente la morte dietro il mio Borghese. Certo, il Borghese ritornerà con la testa sulle spalle, ma se essa è come il suo cuore sarà una testa da morto, e gli altri borghesi con la testa da morto saluteranno in lui un uomo di mondo che è simile a loro, di­ menticando i regolamenti municipali che prescrivono la chiu­ sura dei cimiteri al tramonto.

XXX Fate come se foste a casa vostra

Grazie, caro signor Lanson, accetto di fare come se stessi in casa mia, e tanto più volentieri in quanto io sono il Dia­ volo o, se preferite, un amico del Diavolo, un commensale dell’inferno; nella vostra casa mi pare infatti di stare a casa mia. I miei compagni abituali vi somigliano appuntino e non vedo perché dovrei stare a disagio. Quando sarete così genti­ le da restituirmi la visita, sarete accolto in una maniera che non lascerà dubbi sui nostri sentimenti. In poenis tenebrarum clamantes et dicentes: Advenisti, SOCIUS noster.103 XXXI

Farsi una pinta di buon sangue Non già un mezzo litro o un quartino, ma una bella e buona pinta, vale a dire un litro, secondo le vecchie misure.

103. Testo costruito quasi certamente da Léon Bloy: «Gridando tra Ir pene delle tenebre e dicendo: Sei venuto COMPAGNO nostro di elezione».

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Non ci vuol meno di un litro di sangue per esprimere la gioia d’un galantuomo che si torce dal ridere per aver sentito che la Repubblica ha depredato le anime del Purgatorio o le suo­ re degli ospedali. «La capacità di questo cuore! » diceva Ma­ dame de Sévigné. Al buon tempo dei sanculotti che fu, come si dice, il tem­ po dei giganti, se ne beveva molto spesso trincando con gli amici. Ma bisognava berlo caldo e stare perciò molto vicino alla ghigliottina, esponendosi alle correnti d’aria. Era una cosa inebriante e patriottica, ma scomoda. Oggi che la ghigliotti­ na è diventata saltuaria, il galantuomo, privo di questa mi­ stura, ma sempre tanto fraterno e non meno disposto alla gioia, si fa una pinta di buon sangue con le lacrime dei pove­ ri e dei bambini, perché ha il potere, come una volta Mosè, di cambiare quest’acqua in sangue. Può berlo in casa sua, assimilarlo tranquillamente davanti al focolare, in compagnia della sua cara moglie o della cara moglie di un inquilino bi­ sognoso, tutte e due con i suoi stessi gusti. Quando la pinta è consumata, il cameriere gliene porta un’altra piena, e la fe­ sta continua. E così, è allegro quasi come sotto il Terrore.

XXXII Le cose migliori hanno un tempo solo Ahimè! Il valzer amato dal Borghese e soprattutto dalla donna borghese non è dunque una cosa tra le migliori per­ ché ha tre tempi. Quando si vuole praticare la vera religione dei luoghi comuni, si incontrano molte illusioni che si devo­ no poi lasciare. In fondo, è una religione di rinunzia. Per esempio, generalmente si crede che il tempo della gio­ vinezza sia una cosa eccellente; ma è possibile ammettere in buona fede che la giovinezza abbia un solo tempo, mentre correttamente si dice che questa o quella donna è già fuori della prima giovinezza? Dunque bisogna dire che ci sono pa­ recchie giovinezze, almeno per le signore; e quindi c’è il tem­ 254

po della prima, della seconda, della terza giovinezza e forse anche della quarta. È una contraddizione molto singolare, e la giovinezza rischia di non essere una delle cose migliori. Poi c’è il tempo della vecchiaia che pare unico, giacché per lei quelle stesse distinzioni, nel linguaggio ordinario, non vengono usate. Bisognerà dire che la vecchiaia e, a fortiori, la decrepitezza completa, sono la cosa migliore? Temo che si tratti qui di un’altra illusione. Tutti i grammatici insegna­ no che il verbo ha quattro tempi principali e i loro derivati. Chi oserà pretendere che il Verbo non è la cosa migliore, per­ ché è il nome stesso del Creatore di tutte le cose? Tutto questo è importante. I fanatici dei luoghi comuni dovrebbero meditare su que­ sta parola efficace che mi fu detta un giorno da una bella donna, la quale mi edificò in modo particolare: «Prima di parlare, bisognerebbe girare sette volte la propria lingua nel­ la bocca del vicino». XXXIII Una gioia non arriva mai sola

Come le cimici nel letto d’un povero. La gioia dunque è sempre accompagnata. Lo credo perché lo dite voi. Resta da sapere da chi o da che cosa è accompagnata. Se mi giun­ ge una somma inattesa, ritengo naturalmente che sia una gioia, ma quasi subito dopo, vedo sbucare i miei creditori ed ecco che la mia gioia mi sfugge. Non pensate che sarebbe più esatto dire che la gioia se ne va sempre da sola? «La gioia dei cattivi scorre come un torrente», diceva Racine.104 La gioia dei buoni fa esattamente la stessa cosa e lascia dietro ili sé una fetida melma.

104. Athalie, III, 7. Risposta di Joas ad Athalie.

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XXXIV

Anche le buone compagnie si devono sciogliere Evidentemente la buona compagnia è quella dove ci si diverte. Essendo un edonista, non la concepisco in altro mo­ do. Sono idraulico e mia moglie è sarta. E scusate se è poco. Desiderando divertirci, abbiamo invitato, una domenica, qual­ che amico scelto con cura. Dovevamo far colazione in cam­ pagna in un luogo delizioso. La cosa cominciò con dei contrattempi. Obbligati ad aspettare tutti gli altri, perdemmo alcuni treni e cominciò a piovere. Arrivammo finalmente, bagnati e infangati, al Co­ chon d’or. Mia moglie, una donna mite, aveva già schiaffeg­ giato il pittore Isidore e il vecchio signore decorato, dell’As­ sociazione dei Maestri, che ci onorava con la sua presenza, poiché entrambi si erano permessi delle famigliarità in un gior­ no di festa. Eppure tutto andava bene e riuscimmo perfino a farci servire il pranzo in una cantina dove l’odore di muffa si me­ scolava con quello di un letamaio che stava nelle vicinanze. Era un’atmosfera veramente campagnola, l’immaginazione dei convitati diventava più vivida e la banda di Seine-et-Oise che passava nei pressi ci riempiva di sentimenti magnanimi, quan­ do la compagna del nostro amico, il giardiniere dell’Obéli­ sque, si peritò di sollevare un qualche problema a proposito di cappelli e mia moglie ne fu adombrata. Ci fu in men che non si dica uno scambio di epiteti bucolici tra i quali mi sem­ brò di riconoscere i nomi di qualcuno di quei volatili o qua­ drupedi che non ci si meraviglia di incontrare in campagna. A questo punto, devo confessarlo, la mia memoria si offu­ sca un poco. Avevamo bevuto, da più di due ore, una buona quantità di litri di vino e io non so più che cosa capitò esat­ tamente. Mi ricordo di aver visto, come in un sogno, passare proiettili di diversa natura e sentito grida confuse... Quando la guardia campestre venne a raccogliermi sot­ to il tavolo, allo spuntare delle sette di sera, mi ritrovavo so­ 256

lo in mezzo a cocci disparati, e obbligato a pagare un conto salato. Ma ebbi la soddisfazione di sapere che mia moglie era stata portata via, con la più commovente sollecitudine, dal vecchio signore dell’Associazione che aveva sfoggiato, così al­ meno sembra, una cavalleria degna di ogni lode. Me la ri­ portò, il giorno dopo, in ottimo stato, benché fosse ancora un poco turbata e sinceramente sconsolata per essere stata costretta a separarsi da me, insieme con tutti gli altri, per non perdere il treno. Cercai di fare del mio meglio nel consolar­ la, facendole notare che anche le buone compagnie si devo­ no sciogliere o presto o tardi, e conservo con cura il dolce ricordo di quella bella giornata. XXXV

Essere un uomo ordinato Parola banale. Un signore è ordinato quando paga le sue Iatture e può regolare le proprie scadenze. Una signora è or­ dinata quando ogni giorno verifica i conti della cuoca, quan­ do sta attenta a non lasciare la biancheria sporca accanto al­ le casseruole e a non pettinarsi i capelli quando scodella il brodo, a non servirsi dello spazzolino del marito per pulirsi le unghie; ma soprattutto è ordinata quando ha una cura co­ stante della più meticolosa economia e cerca di non somigliare a quelle donne scervellate che talvolta si occupano dei pove­ ri, come se non esistessero gli uffici di beneficenza. Tutto que­ sto è elementare. Ma c’è un problema ben più importante, ammesso che ci sia qualcosa di più importante della saggezza nell’amministrazione d’una casa borghese. Dio è ordinato, sì o no? Ec­ co, secondo me, un problema sacro, è il caso di dirlo, e chia­ ramente impostato. Conosco dei borghesi realmente ferrati in materia, che hanno letto Schopenhauer* e Nietzsche*, e dormono volen­ tieri con Bergson*. Sinceramente amanti della verità, deplo­ 257

rano in buona fede e con grande tristezza il disordine spa­ ventoso dell’opera di Dio. Si affliggono profondamente a ve­ dere che niente è a posto né le cose né gli uomini, a comin­ ciare da loro stessi, e che è infinitamente penoso che il Si­ gnore si sia dimenticato di consultarli. Sarebbe puerile op­ porre a costoro la favola del Gland et de la Citrouille105 che hanno letto nella loro infanzia col conveniente disprezzo. «Dio fa bene quello che fa» dice La Fontaine, «lodando Dio per tutte le cose». Essi conoscono questa cantilena e non se ne meravigliano. Rivendicano ad alta voce i diritti della zucca e si mettono al posto di questa cucurbitacea che non dovreb­ be strisciare per terra. E così per il resto. La creazione lascia molto a desiderare. Anzi diciamo che è fallita e abborracciata. Dio non ha fatto quello che ci si aspettava da lui; ed è un’ingiustizia che esiga poi da noi un balzello di adorazione. Un operaio che lavorasse come lui non resterebbe certamente per sei giorni in officina. Senza parla­ re del freddo e del caldo che si equilibrano così male, delle inondazioni ingiuste e delle inique siccità, della peste o del colera che attaccano indiscriminatamente i ricchi e i poveri; senza neppure insistere su quelle guerre calamitose di cui è impossibile prevedere la conclusione e che possono determi­ nare improvvisamente dei disastri finanziari; senza dir niente di certe carestie inaspettate che non si ha neppure il fiuto di organizzare in antecedenza e che sorprendono così penosa­ mente i capitalisti impegnati in altri affari di reddito inferio­ re; sì, anche facendo tabula rasa di tutto questo, che dobbia­ mo pensare delle aberrazioni dispotiche della pretesa morale cristiana? Supposto che il Decalogo sia stato promulgato soltanto per gli schiavi e i miserabili, si potrebbe ammetterlo con al105. Favola di La Fontaine in cui il personaggio che muove critiche al Signore perché ha fatto alta e robusta la quercia che porta frutti cosi pic­ coli mentre ha lasciato debole e condanna a strisciare per terra la zucca che ne produce di tanto maggiori, si ricrede quando una ghianda, cadendo dal­ l’albero, lo colpisce sulla testa.

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cune attenuazioni. Ma è un insopportabile disordine preten­ dere che un padrone di casa, per esempio, sia obbligato ad adorare un solo Dio, oppure che un commerciante abbia il dovere di non rubare e gli sia proibito di mentire. «Tutto al più e per tagliar corto, dirà la filosofia borghese, non sta forse scritto nei libri sedicenti sacri e ispirati dallo Spirito Santo, che il Figlio di Dio venuto per salvare il mondo ha scelto la follia e ha insegnato la follia?».106 E non mancherà di ag­ giungere che questa è una conclusione chiara, che il disordi­ ne divino è manifesto, e che il problema posto or ora è per­ fettamente ozioso.

XXXVI Avere un bel tupé Questo luogo comune non concerne soltanto i parruc­ chieri. Non si parla nelle loro botteghe di arricciolare o di fare delle onde a un tupé, e ancora meno di dargli una petti­ nata. Si può avere un bel tupé, un gran bel tupé, se volete, senza avere un solo capello. L’esempio di Giulio Cesare al Rubicone è un fatto del tutto incontestabile. È anche vero che abbiamo avuto Carlo il Calvo, «.Josiae similis parque Theodosio, simile a Giosia e pari a Teodosio», almeno a quanto ci dice la scritta assai ironica di un libro di preghiere dove viene rappresentato d’altra parte, fornito di un’abbon­ dante capigliatura. Eppure la storia non fa cenno di nessuna scappatella di questo annoso carolingio. Non ci sono quindi i presupposti per insistere sulla calvizie a cui ho fatto men­ zione soltanto per escludere ogni responsabilità da parte dei parrucchieri. Possiamo aggiungere che tupé è di già un vocabolo in 106. « Piacque a Dio salvare i credenti colla stoltezza della predicazio­ ne... Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e follia per i Gentili»; I Epistola ai Corinti, I, 21-23.

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disuso. Si dice ora aver una bella faccia tosta, — dove la fac­ cia in questione non ha naso — espressione deliziosa che tut­ ti sembrano capire, anche aU’Académie française dove Hanotaux* la adoperò quando fu incaricato di ricevere M. de la Palice, alla poltrona di un qualche ecclesiastico podagroso o forse di Paul Bourget* morto prima del termine del suo mandato, se la memoria non mi tradisce. Sia tupé oppu­ re faccia tosta, il Borghese ha orrore di quello che queste lo­ cuzioni vogliono dire. Esempio: un bel giovanotto le cui sole occupazioni sono quelle o di uccidere, ad ogni aurora, un mandarino107 o di affumicare le lenti per gli eclissi e che chiede la mano della figlia primogenita di un ricco notaio; un anarchico ricercato dalla polizia che piazza con le sue proprie mani una bomba ad orologeria nel cappello di M. Lépine*,108 un inquilino moroso che offre al padrone di casa, nel giorno di scadenza dell’affitto, uno strumento di precisione atto ad estrarre la trave dall’occhio di quel Borghese; un vicario in quarta di Sainte-Clotilde o di Saint-Roch che predica sulla necessità della sofferenza o il dovere della nuda povertà evangelica; infine e per dirla proprio tutta, un poeta da noi reputato il più gran­ de, come Dante, sì, prendiamo proprio il caso di Dante, che viene a proporre la Divina Commedia all’editore di François Coppé!* Queste sono le malefatte le più comuni dell’indivi­ duo che ha un bel tupé, un discreto tupé o un gran bel tupé, a seconda dei casi, ma sempre esasperante per il Borghese che ne rimane invariabilmente soffocato per la riprovazione.

107. Celebre paradosso presentato nel Génie du Christianisme (1802) di Chateaubriand: «Se potessi con un solo desiderio uccidere un uomo in Cina ed ereditare le sue fortune in Europa, con la convinzione soprannatu­ rale che nessuno lo verrebbe mai a sapere, formuleresti questo desiderio? » (I parte, Libro VI, cap. 2). 108. In quel tempo prefetto di polizia. V. anche Indice dei nomi.

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XXXVII Dar prova

Si sa che un uomo ha dato prova quando ha ucciso qual­ cuno in duello o rovinato parecchie famiglie. Una donna può aver dato prova in una maniera un poco differente, ma idenlica se stiamo ai risultati. Prove o prova· di che? Lo vorrei proprio sapere. Ci sono ancora dei professori, della scuola di Fénelon*, che provano resistenza di Dio con la fluidità dell’acqua o la consistenza della roccia. Questo mi fu insegnato verso la me­ li del secolo scorso da un vecchio professore di liceo, la cui giovane moglie, molto attraente e stimolante, si dava da fare in altre prove più certe e meglio apprezzate. Ma non si tratta di questo. Se mi si parla d’un uomo d’affari oppure semplicemen­ te d’uno scrittore di qualche notorietà che abbiano dato pro­ va, sto zitto, perché non voglio passare per un imbecille; pe­ rò mi ricordo subito di qualche smargiasso più o meno noto, e mi chiedo se il personaggio indicatomi ha soltanto provato la sua esistenza. Perché ho bisogno di questa prova e non di altro. Infatti son diventato assai diffidente dal giorno in cui mi sono accorto dell’inesistenza assoluta d’un grandissimo nu­ mero di individui che sembrano situati nello spazio e che è impossibile classificare tra coloro che hanno un’apprezzabile e sufficiente ragion d’essere. Se avete tempo da perdere, cercate di immaginare I lanotaux* ministro, oppure Hanotaux scrittore. Sforzatevi poi di pensare Anatole France* che accarezza amorosamente I lanotaux o Paul Bourget* sulla sua Barricade', non ci riu­ scirete. Il Nulla, sfinito per aver vomitato tanti altri uomini illustri, s’è trovato completamente vuoto quando Dio ha vo­ luto trarre da esso anche costoro. Se simili personaggi sono inesistenti, come è facile ac­ certarsene con un rapido esame, che cosa bisogna pensare d’un farmacista, di un professionista del bigliardo o di un 261

consigliere municipale, i quali hanno dato le loro prove, e che prove? Il censimento non significa niente. Non sapremo mai quanto è infinito il numero reale degli abitanti del nostro glo­ bo. Un visionario, che una volta conobbi nella miseria, mi dimostrò, in tre mesi, la nullità delle cifre. Parlandogli un giorno della Valle di Giosafat, dove il profeta Gioele ha pre­ detto che tutte le nazioni e tutte le generazioni saranno giu­ dicate in circuitu, gli espressi la mia meraviglia per la eviden­ te piccolezza di quel punto geografico e dell’impossibilità ma­ teriale di raccogliervi una così prodigiosa moltitudine per rea­ lizzare la profezia. Egli ebbe un amabile sorriso e, dopo qual­ che minuto di raccoglimento, mi rispose semplicemente: «Si sarà in tre!...». Non dimenticherò mai la terribile sensazione prodotta da quelle parole.

XXXVIII

Aver parecchie corde al proprio arco L’arco è un’arma da guerra del tutto fuori moda dopo l’invenzione della mitragliatrice e degli shrapnels; e inoltre la nostra legislazione penale ha rovinato il commercio della cor­ da. Un disperato che volesse impiccarsi gloriosamente a un cornicione dell’Arc de Triomphe sarebbe costretto, per tro­ vare una o più corde convenienti, a correre molto lontano nell’avenue della Grande-Armée dove le botteghe sono rare. E per di più non gli venderebbero che odiose corde per im­ ballaggio, le quali disonorerebbero il suo suicidio, ed egli si vedrebbe costretto a rinunziarvi. Dunque bisogna attenersi al senso metaforico, che d’altronde è molto oscuro. Si dice che un cittadino della Repubblica ha molte corde al suo arco quando può essere, successivamente oppure si­ multaneamente, un galantuomo e un ladro; quando è ugual­ mente capace di svaligiare una villa suburbana e di presiede­ 262

re una lega contro l’alcool; quando ha la mente abbastanza aperta per dare indifferentemente lezioni di matematica e le­ zioni di contegno, essere insieme rappresentante di assicura­ zioni, agente elettorale, incaricato per i funerali di prima clas­ se, autore drammatico oppure gestore d’una casa chiusa; quando infine è abbastanza ambidestro, al caffè o nell’omni­ bus, sapendo tenere la mano sia nella propria tasca che in quella degli altri vicini. Questo ci porta un po’ lontano dal­ l’arco di Ulisse, ma il saggio moderno si guarderebbe bene dal trafiggere con le sue frecce i pretendenti di Penelope, con­ siderando che la tela di questa principessa, che disfà di notte il lavoro tessuto di giorno, è una attrattiva sicura per gli in­ namorati che un marito astuto può utilizzare. XXXIX

Avere i piedi ben al caldo ovvero Aver fieno nei propri stivali

Certamente gli stivali rappresentano una rastrelliera piut­ tosto disgraziata per il mangime degli erbivori. Ma è inutile fare l’idiota. Lo sanno tutti che il fieno significa il danaro e che gli stivali significano la cassaforte. Però è strano che coloro i quali possiedono il danaro siano paragonati a delle bestie, e che gli stivali siano preferiti a qualsiasi altra cosa per simboleggiare la loro onnipotenza. Dobbiamo ricordarci che i poveri vengono chiamati anche straccioni senza scarpe e che i ricchi talvolta, mangiano il loro danaro: il che spie­ gherebbe la trivialità di questa locuzione proverbiale. Tutta­ via essa è particolarmente irriguardosa. Non riesco a imma­ ginare Fallières*, il nostro Presidente della Repubblica, pa­ ragonato a un vecchio ronzinante che mentre sta per andare in pensione, prende a prestito gli stivali metaforici di una guar­ dia dell’Elysée per riporvi le sue modeste economie. 263

XL

Avere un cuore d’oro

Che privilegio! Niente più palpitazioni, niente più emo­ zioni, niente più amori carnali, niente più trasporti incontrol­ lati. Si sta tranquilli come il topo nel formaggio e beati come porci. Cessazione dei fenomeni assurdi. Non ci si rode più, il cuore non sanguina più. Non si ha un cuore di bronzo, e neppure un cuore di pietra, ancor meno un cuor di leone, ma un bell’organo rutilante, conoide e cavo, tutto in oro e per­ fettamente insensibile. Questo è l’inestimabile privilegio del vero Borghese. Il più bell’elogio che si possa fare di lui è che ha un cuore d’oro. I proprietari, gli uscieri, gli usurai hanno quasi sempre un cuore d’oro, e lo si vede! Se cercate di tur­ barli, di impressionarli, di commuoverli, in un modo qualun­ que, perderete tempo. Il cuore d’oro vi metterà del piombo nella testa, del piombo nelle gambe, e avrete subito un aspet­ to di piombo. Però il cuore d’oro è un dono della natura. Non lo si trova nelle gioiellerie, le quali di solito vendono oro placcato e ingannano così tanti giovani sposi ingenui, preparando lo­ ro delle sorprese sgradite al Monte di Pietà. Se la matrigna natura vi ha dato un cuore ordinario, vi resta la possibilità di sposare una giovane che abbia un cuore d’oro e pochissi­ mo fieno nei suoi stivaletti molto logori. Fin dal giorno do­ po, vi manterrà e voi sarete in grado di apprezzare la vostra fortuna. Questo è il consiglio che vi do. XLI

Avere come testimone la propria coscienza — Signor Bivalve, favorite entrare. — Grazie, cara signora, mi son creduto in dovere di sa­ lutarvi passando di qui, ma temo di apparire indiscreto. 264

— Niente affatto: vi assicuro. Posate il cappello e l’om­ brello. Benissimo. Adesso sedetevi su questa poltrona che vi tende le braccia e datemi notizie della signora Bivalve. M’era sembrata affaticata, l’ultima volta che l’ho vista. — È vero, la mia povera moglie lavora troppo. Qualche volta ho cercato di trattenerla in casa, ma lei non mi dà ascol­ to. Non conosce che il sacrificio. — Dà troppe lezioni, non è vero? — Oh, signora, non me ne parlate; non so come possa reggere. Lezioni di piano, lezioni di canto, lezioni di inglese, di tedesco e anche di russo. La si vede soltanto nella metro­ politana e negli autobus. Quando non è tra i suoi americani del Trocadero, sta a Montmartre o a Montparnasse. Ha alun­ ni finanche nei sobborghi. E così mangio quasi sempre solo. Talvolta non rientra in casa. A tutte le mie osservazioni, ri­ sponde invariabilmente che ha come testimone la sua coscien­ za; così sono tranquillo e continuo a scrivere la mia grande opera. — Sì, so che avete iniziato un libro importante, che vi aprirà certamente le porte dell’Istituto. Ma permettetemi di tornare alla signora Bivalve. Voglio credere che la sua ecces­ siva attività sia ricompensata sufficientemente. — Certo, ed è proprio questo che la rende infaticabile. «Tu hai da scrivere il tuo libro, mi dice ogni volta che mette il cappello per uscire, tu hai una missione gloriosa, ed io vo­ glio toglierti ogni preoccupazione materiale». Ed eccola par­ tita. Oh, non manchiamo di niente, è certo. Talvolta mi fa delle belle sorprese. Ultimamente, conoscendo i miei gusti ci­ negetici, sempre contrariati dallo studio, ha avuto la bella idea di decorare la nostra sala da pranzo con magnifiche corna di cervo, intrammezzate da corna di toro o di bisonte che pro­ babilmente sono costate molto; ed io le guardo con tenerez­ za durante i pasti. Non è una cosa meravigliosa? — Ah, sì, la parola meravigliosa non è troppo forte. Mi piace soprattutto il tatto femminile in questo dono, che ha do­ vuto darvi un’alta idea della coscienza di vostra moglie. Evi­ dentemente, lei aveva bisogno di un marito come voi, e lo sa. 265

— Signora, vi prego, non confondetemi troppo. Mi sento indegnissimo d’una simile compagna, e poiché parlaTe di co­ scienza, la mia mi dice di non aver fatto abbastanza per me­ ritarla. Permettetemi adesso di andarmene. I miei libri mi chiamano e sono impaziente di cercare, su una indicazione sfortunatamente troppo vaga di Molière, un capitolo illumi­ nante di Aristotele o di Tucidide sui copricapi dei mariti al tempo eroico della Grecia. Ho l’onore di salutarvi. Il signor Bivalve è l’autore ben noto e temuto della Sé­ lection des Témoignages historiques. La signora Bivalve ha altri affari, che noi non dobbiamo conoscere e che non ci ri­ guardano; però tutti e due hanno come testimone la loro co­ scienza. Non si stancano di ripeterlo e sarebbe indegno non crederci. Mentre il signor Bivalve costruisce i suoi impiastri di note e di citazioni in cui soccombono senza speranza i te­ sti originali degli antichi cronisti, la signora Bivalve è assente e rientra quando vuole, lasciando a questo dotto la banale occupazione della cucina che lui ignora oppure il rammendo urgentissimo di cui è incapace. Del resto, è una famiglia per­ fetta, perché ognuno ha, e lo abbiamo già detto, come testi­ mone la propria coscienza: punto essenziale per assicurare la felicità coniugale e per confondere i maligni. Che il marito sia trattato da cretino nei giornali senza scrupoli o che so­ pravvenga un diluvio di lettere anonime che lo informino della scandalosa condotta di sua moglie, si rifugiano subito tutti e due sotto lo stesso impenetrabile scudo, e la loro serenità neppure per un istante ne viene alterata. L’allegro equilibrio di questa coppia è stato per me un’oc­ casione di riflettere profondamente sulla coscienza. Ci sono vocaboli, come questo, che vengono usati correttamente ma non si approfondiscono. La coscienza, dicono i filosofi, è il sentimento che si ha di se stesso: sentimento quasi sempre gra­ devole. La coscienza è perciò come uno specchio amoroso del­ la persona che ci si mira. È una voce interiore, un giudizio segreto che approva le azioni lodevoli e condanna le cattive. Nel primo caso che è indubbiamente il più frequente, l’ap­ provazione è senza riserve. Nel secondo, a cui è meglio non 266

pensare, la condanna delle peggiori turpitudini è per fortuna mitigata da un’indulgenza inesauribile e dalla misericordiosa prodigalità di tutte le dilazioni, perché è evidente che nessu­ no vuole il proprio male. Se si tratta di penetrare nella co­ scienza degli altri, cosa assai più facile e molto più diverten­ te, come ognuno sa, si richiede naturalmente la severità, una severità estrema, giacché la morale bene intesa, la stessa ca­ rità, per dir tutto, esigono che si stia più attenti agli altri che a se stesso. Ma questo ci porterebbe troppo lontano. «Mi dispiaccio meno di un tempo», ha detto il nostro François Coppée* nella Bonne Souffrance. Come potrei di­ menticare i teneri sentimenti che mi procurarono queste pa­ role! Un tempo, quando si abbandonava a quei poveri ecces­ si che dovevano condurlo, quasi guidarlo per mano, al letto dai molti meccanismi, non se ne dispiaceva troppo, credo, ma in fondo in fondo se ne dispiaceva. Più tardi, quando si accorse di praticare, anche se in modo disordinato, i coman­ damenti di Dio e i precetti della Chiesa si dispiacque meno e, essendogli stata rivelata giorno dopo giorno la bellezza della sua anima, smise di dispiacersi del tutto, almeno mi compiac­ cio di crederlo. Ci torna gradito opporre questo grande e magnifico esempio a quei santi corrucciati che hanno preteso di incul­ carci, nella ricerca della virtù, il continuo e reiterato disgusto per la nostra persona. François Coppée, ammirato con tanto giudizio e come poeta e come cristiano dalla Stampa Cattoli­ ca, aveva dunque in sommo grado come testimone la pro­ pria coscienza. Il suo caso è indiscutibile e irrecusabile. È si­ mile, senza dubbio, a quello del signor e della signora Bival­ ve ed è anche vicino a molti altri. Ciò che ne consegue salta immediatamente all’occhio. In quale letamaio di ignominia vediamo dunque sprofondare i miserabili che continuano a dispiacersi a ogni pié sospinto. L’uomo giusto deve essere contento di sé, nello stesso modo in cui lo è il salumaio che fa i conti in cassa, alla sera del 14 luglio, con le saracinesche ben chiuse, dopo aver smaltito durante la giornata una grandissima quantità di porcherie. 267

Chi potrebbe sostenere che quel gesto non sia un proficuo esame della sua coscienza, e come potrebbe quest’ultima ri­ fiutargli la sua più lusinghiera testimonianza? Il virtuoso Fouquier-Tinville*, nel momento in cui stava per essere condotto alla ghigliottina, sulla quale ne aveva spe­ dito tanti altri, scrisse: «Non ho nulla da rimproverarmi, muoio innocente». Questa testimonianza della sua coscienza è conservata negli Archivi nazionali. Una simile reliquia è pro­ babilmente miracolosa e bisognerebbe farla toccare agli im­ becilli malati di mansuetudine. I teologi quando parlano di coscienza hanno l’aria di ignorare che essa non può essere identica. La coscienza di Ne­ rone, per esempio, che sapeva di essere matricida, imperato­ re nel mondo intero e artista superiore, non era certamente la coscienza degli straccioni cristiani da lui destinati a illumi­ nare i suoi giardini. Similmente, oggi, c’è la coscienza del pa­ drone delle officine e quella dei suoi operai, delle loro mogli, dei loro bambini di cui si serve. C’è la coscienza dei ricchi e la coscienza dei poveri, la coscienza dei borghesi e la co­ scienza evidentemente diversa degli artisti. Infine e in gene­ rale, ci sono coloro che non hanno niente sulla coscienza e quelli che hanno qualcosa sulla coscienza, comunque voglia­ no intendersi queste parole. Sono tante le testimonianze, e ci sarebbe da smarrirsi. Talvolta penso che il mondo finirà in un diluvio di testimonianze. XLII Badare al solido

Mi ha spesso meravigliato sentire un ubriaco dichiarare di badare al solido. Ho anche notato che quanto più uno è ubriaco tanto più si ostina a strombazzare questa inconcepi­ bile preferenza. So benissimo che c’è gente che non è ubriaca e che dice volentieri la stessa cosa più volte al giorno. Tutta­ via il fatto da me segnalato ha la sua importanza e non sa­ 268

rebbe forse irragionevole attendere da esso un po’ di luce. La saggezza delle nazioni non ci insegna forse che « nel vino sta la verità»? A più forte ragione nell’alcool che è lo spirito del vino, quando non è spirito di tutt’altra materia vegetale o animale. Faccio notare di sfuggita, e semplicemente di sfug­ gita, che c’è una bella bestemmia nell’uso costante di questo vecchio adagio, appena si considera che la Verità è uno dei nomi di Gesù e che la sua presenza è reale nel vino transustanziato del Sacrificio. Ma non est hic locus. Ci ritornere­ mo più tardi. Per il momento si tratta di sapere che cosa s’intende per solido. I libri elementari ci insegnano che è una porzione del­ l’estensione geometrica, la quale ha tre dimensioni: questo pare incontestabile. Ma allora che pensare di un’amicizia solida o d’una pietà solida? Dove prendere le loro dimensioni? Come misurarle? Forse che la geometria deve essere stranamente sa­ crificata nei loro riguardi? Una pietà triangolare o poligonale non si concepisce meglio di un’amicizia sferica o a squadra come un patibolo. Talvolta si parla di libri solidi, il che è com­ prensibile se si pensa ad essi come a dei cubi che possono oc­ cupare più o meno spazio nella biblioteca del Borghese. È ben chiaro che non si può badare al solido se non si pensa al qua­ drato o alla sfera; e ogni altra concezione è illusoria. L’uomo che bada al solido, che vuole il solido, deve stare il più lontano possibile dalla religione, la quale è evidente­ mente liquida o gassosa, perché non offre oggetti palpabili alla mano del macellaio e percettibili all’occhio del bue. In­ terrogate Bergson*. Se la sua digestione è stata buona oppu­ re se il suo ritratto, fatto di recente da un cubista audace, ha potuto soddisfare la sua estetica, credo che senza difficol­ tà vi concederà che lo Spirito Santo non è ancora disceso in lui e che l’Incarnazione del Figlio di Dio è ancora da venire; però una coscia d’agnello, con l’aglio o senza, è un alimento di solidità indiscutibile; c’è del buono in tutte le religioni; la più bella ragazza non può dare che quello che ha; e Parigi non è stata costruita in un giorno. E allora sarete inondati di luce. 269

XLIII

È meglio aver da fare con Dio che con i suoi santi

È il consiglio preziosissimo delle persone istruite che san­ no il fatto loro. Un tempo molto lontano, quando i prote­ stanti e i modernisti non erano ancora stati generati, si cre­ deva che i santi avessero il potere di venire in aiuto di coloro che li invocavano con fede. C’erano dei Martiri famosi, detti Ausiliatori, i quali non mercanteggiavano la loro assistenza ai poveri cristiani che li onoravano in ricordo dei loro tor­ menti. C’erano anche dei cellcoli protettori di diversi mestie­ ri: san Biagio per i tessitori; san Bartolomeo per i sarti; san Crispino per i calzolai; sant’Eligio per i gioiellieri e i fabbri; santa Caterina per i carradori; san Giuseppe per i carpentieri e i falegnami; i santi Cosma e Damiano per i medici; sant’Isidoro per i braccianti, saint Fiacre per i giardinieri109; san­ civo per gli avvocati; san Luca per i pittori; san Michele per i pasticcieri; san Francesco per i tappezzieri, e quanti altri che non conosco o non ho ricordato! Ognuno di questi abitanti del Paradiso era onorato in modo particolare ed era l’oggetto di una fiducia che non po­ teva venir meno. Certo, s’aveva da fare con Dio, ma per mez­ zo dei suoi santi; non soltanto in Francia ma in tutti i paesi cristiani. Era questo un riflesso della Gloria essenziale nelle più umili dimore degli uomini, ed è così che si formarono le pazienti e miracolose nazioni del medioevo. Soltanto i men­ dicanti, gli straccioni, che chiedevano il pane di porta in por­ ta, ebbero l’insigne privilegio del patrocinio diretto di Gesù Cristo, perché erano avvicinati più degli altri cristiani al Sal­ vatore del mondo, e, per questo, era un grandissimo onore e una gioia accoglierli. Quando se n’incontrava uno nella cam­ pagna riarsa, pareva di incontrare una sorgente viva... 109. Secondo Bloy, Saint-Fiacre patrono dei giardinieri e venerato in tutta la Brie discende dal culto dell’antico Priapo da cui deriva per un sem­ plice gioco linguistico di assonanze. Cfr. Journal, cit., t. II, pp. 69-70.

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La pietà moderna, spegnendo questa poesia epica, ha sta­ bilito che i vecchi santi d’un tempo devono essere considerati in avvenire come dei domestici di scarsa importanza, al ser­ vizio di un eventuale Dio, la cui esistenza è problematica; co­ sicché la cosa più sicura, oggi, sarebbe di non aver da fare con nessuno, a eccezione dell’usciere e dell’esattore delle tas­ se. Questo è, secondo me, tutto quello che è restato in fondo al crivello dove sono passate le ceneri dei secoli. E questo basta al nostro Borghese che non vuol saperne del calendario ec­ clesiastico e non si ritiene un empio. Questo basta ugualmente a molti preti nemici dell’esagerazione religiosa, i quali pro­ clamano che la fede è in progresso, quando i loro parrocchiani hanno la bontà di non andare a fare i loro bisogni in chiesa e di chiedere educatamente la chiave dei luoghi di decenza.

XLIV La religione è così consolante!

Di solito questa frase è proferita o sussurrata da perso­ ne che non hanno bisogno di consolazione. Essa sottintende che si ha abbastanza religione per non somigliare a quei pub­ blicani che digiunano tristamente per tutto l’anno, mentre si passa il tempo in pranzi squisiti, con una gran pace di co­ scienza. A quelli che muoiono di fame non si deve niente, perché hanno la religione che li consola; anzi costoro devono mangiare con gioia il loro tozzo di pane oppure rallegrarsi ugualmente quando non mangiano assolutamente niente. I ventri vuoti sono eccellenti tamburi per trascinare i miserabi­ li alla conquista del Paradiso. Tanto peggio per loro se non capiscono la loro fortuna. Visita di uno dei miei amici al parroco di una tra le più ricche parrocchie di Parigi. Carrozze splendide stazionano da­ vanti alla porta e bisogna aspettare che belle dame e gentili signori facciano la loro entrata trionfale. Alla fine, il visita­ tore, giunto a piedi, viene introdotto. «Signor parroco — gli 271

dice — tutto questo è ben diverso da M...», e nomina una poverissima parrocchia ben conosciuta dal suo interlocutore. «In effetti», risponde quest’ultimo, «è di molto più conso­ lante!» Voglio sottolineare questa frase che non si noterà mai abbastanza. Ha l’aria di non voler dire niente ed è invece tutta la storia della nostra bella Francia religiosa all’inizio del XX secolo. Quel degno parroco non ha paura di dire che ha bi­ sogno di consolazione. La vista dei poveri affliggeva la sua anima sacerdotale. Non si sentiva a suo agio tra coloro che soffrono e avrebbero dovuto piuttosto affidargli un gregge che sarebbe stato capace di pascolare. Giacché i ricchi sono racconsolanti, avendo essi stessi talvolta il desiderio di essere consolati. Per dirla tutta, bisognerebbe aggiungere che essi ne hanno ancora più bisogno dei poveri, avendo l’anima ancor più sot­ tile, come lo ha così finemente osservato il nostro Paul Bourget*, dotato anch’egli di un’anima così sottile da avere una sola delle tre dimensioni richieste per la delimitazione geo­ metrica delle cose materiali e palpabili. E questo è avvertito in modo mirabile dai parroci che si occupano delle ricche da­ me; essi le consolano e ne vengono da loro racconsolati. La religione diventa dunque un’immensa bottega di consolazio­ ni reciproche, un’immensa rinomata bottega dove si scam­ biano di continuo parole di consolazione, verba consolatoria, come le proferiva l’angelo del profeta Zaccaria,110 ma dove le anime rozze dei miserabili non possono essere ammesse. Senza risalire al tempo dei Martiri, la cui storia non è del tutto consolante, possiamo leggere, in alcuni libri quasi scandalosi, che si sono avute epoche ben anteriori alla fon­ dazione dei Gesuiti, in cui si parlava molto meno di consola­ zione. La consolazione era rimandata alla venuta del Para­ cielo — venuta che si supponeva lontana —, e, nell’attesa del Terzo Regno di Dio sulla terra, si credeva che bisognasse 110. Zaccaria, I, 13.

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soffrire ai piedi della Croce, nel sangue del Padre dei poveri. Così si credeva, fermamente, sistematicamente; e la devozio­ ne non aveva nulla di sentimentale. «L’eminente dignità dei poveri», di cui ha parlato molto più tardi Bossuet, non era un vano discorso rivolto a delle parrucche e a delle dame in ghingheri, ma una realtà tangibile, indiscussa, tanto che era molto consueto vedere dei ricchi e anche dei nobili signori diventar poveri per farne parte. È vero che allora si aveva paura del Vangelo e che dopo siamo diventati più temerari. «Guai a voi, ricchi, perché avete la vostra consolazione!». Cercate, oggi, di spaventare qualcuno con questa Parola di Gesù Cristo! Ma mi accorgo che il parroco da poco evocato è riusci­ to a trascinarmi molto lontano. Il bisogno moderno di con­ solazione non è meno sentito dai ricchi che dai poveri ed è quello che Bourget* non potrebbe mai capire. D’altronde, neanch’io potrei farlo, benché sia situato a qualche distanza da queirillustre psicologo. «Io voglio amare, ma non voglio soffrire» fa dire stupidamente a una delle sue eroine l’imbe­ cille Alfred de Musset.111 Questo è il sentimento generale dei nostri devoti e delle nostre devote, ricchi o poveri. Ma da parte dei poveri diventa sconcertante. Avere a portata di mano e non volere la Sofferenza e l’Ignominia che impetrano! In altri termini, avere il mezzo di costruire una cattedrale spirituale più magnifica e più su­ blime delle famose basiliche, e preferire alla prima pietra una frasuccia melensa sussurrata nella penombra! Forse Dio non esiste, ma la religione è così consolante! Ah, come è conve­ niente questa religione di farisei e di farisee dal cuore prosti­ tuito, consolati dal Sudore di Sangue del Figlio di Dio!

111. On ne badine pas avec l’amour (1834), II, 5. Replica di Camille a Perdican.

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XLV La riserva mentale

Si dice che un uomo ha delle riserve mentali quando non dice tutto quello che pensa o che vuole dire. È un caso molto banale, e questa espressione non ha nulla di eccezionale. Chi dicesse tutto quello che pensa e dichiarasse tutte le sue inten­ zioni avrebbe dei pensieri troppo superficiali, pensieri di fac­ ciata, potremmo dire, e sarebbe una specie di mostro. La sua testa somiglierebbe a una casa impossibile, senza altezza e sen­ za profondità, senza tetto, senza cantina, senza scale, senza padrone, dove non si potesse dormire se non mettendo i pie­ di e anche le gambe fuori della finestra con grande scandalo delle persone eleganti o ragionevoli che passano per la stra­ da. Non è possibile immaginare nulla di più assurdo. Suppo­ sto che una casa simile possa sembrare abitabile a disgraziati usi a ostentare la loro miseria, persone degne di stima e che non hanno nulla da rimproverarsi, mai potrebbero tollerare di dare spettacolo a tutti coloro che fossero tentati di guar­ dare nella loro dimora. Un uomo che ha delle riserve mentali, è semplicemente un individuo sensato, che abita una casa bene ordinata, e quindi provvista di un luogo ritirato, dove gli è facile pensa­ re con sicurezza, e di un altro luogo, poco lontano dal pri­ mo, dove può soddisfare certi appelli della natura, senza che nessuno ne sia informato. L’ideale sarebbe che ci fosse un sol luogo per tutte e due le funzioni, che sembrano avere, in questo caso, una misteriosa e profonda affinità. I pensatori e i sociologi mi comprenderanno! XLVI Leggere tra le righe

È una cosa facilissima. Basta avere due soldi di chiaroveggenza, avere un po’ di esperienza e trovarsi nella volontà 274

abituale di non farsi ingannare. Un esempio tra centinaia di migliaia: « Caro maestro, ho appena letto con una sconfinata am­ mirazione la vostra incomparabile opera sulla Division du tra­ vail sexuel envisagée comme la source de la solidarité conju­ gale, e non so come esprimervi il mio entusiasmo, ecc.».112 L’autore, per fortuna circonciso, Emile Durkheim*, pa­ pa della sociologia della Sorbonne, abituato indubbiamente alla lettura tra le righe, decifrerà certamente così: «Triplice idiota, con indicibile disgusto ho dovuto in­ ghiottire quel capolavoro di cretinismo che tu hai, con inqua­ lificabile sfrontatezza, pubblicato, e non voglio perdere un minuto per rivomitartelo in faccia, ecc.». Notate bene che attenuo sensibilmente le espressioni ipotizzate di una sempli­ ce lettera diretta a uno stimato professore. Che dire di un intero libro, letto allo stesso modo? È vero che in questo caso sarebbe l’autore a parlare al suo let­ tore, ma lo stile non sarebbe meno generoso, ed ecco press’a poco l’avvertenza sincerissima che si troverebbe tra tutte le righe d’un romanzo di quattrocento pagine, scritto da Paul Bourget*, oppure da Maurice Barrés* o più semplicemente da Bottom.113 «Snob imbecilli e deliziose baldracche del bel mondo ecco la mia porcheria; assaporatela. È del tutto degna di voi, e il vostro infallibile gusto per le immondizie non mancherà di apprezzarla, ecc.». Bisognerebbe fondare una cattedra per l’insegnamento della lettura tra le righe.

112. Il titolo esatto del testo di Durkheim è: La Division sociale du travail (1893). Bloy aveva preso un abbaglio, documentandosi su fonti bi­ bliografiche secondarie. Per E. Durkheim v. Indice dei Nomi. 113. Allusione al personaggio dalla testa d’asino di Sogno di una not­ te di mezza estate (1583) di William Shakespeare.

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XL VII Leggere a mente riposata

C’è un solo libro che si può leggere a mente riposata. È il libro della Vita in cui c’è un solo rigo: Electus vel damnatus. XLVili Doveri verso Dio e verso il diavolo

Pare che sia esattamente la stessa cosa. Dicono i dottori ascetici che a Dio si deve il sacrificio della propria volontà, dei propri affetti, dei propri gusti, della stessa vita. Ora il dia­ volo chiede un’identica immolazione. La sola differenza che si potrebbe credere essenziale ed è invece una conferma del­ l’identità, risiede nel fatto che Dio esige la rinunzia al diavo­ lo, mentre il diavolo esige dal canto suo la rinunzia a Dio. Come fare per accontentare tutti e due? Abbiamo già detto che questo è impossibile. Il Borghese che ha dei senti­ menti religiosi vede chiaramente che è indispensabile servire insieme due padroni per la riuscita dei suoi affari, i quali, naturalmente, passano in prima linea. D’altra parte, egli sente dentro di sé, e a ogni istante, due uomini in continua opposi­ zione —- quei due uomini di cui si parla nel Libro — e che bisogna necessariamente dare a ognuno il suo compito. In­ terviene allora un’oscura contabilità. Abbiamo oggi fatto ab­ bastanza per piacere a Dio senza scontentare il diavolo e vi­ ceversa? Non ci siamo resi poco graditi a Dio facendo delle concessioni al suo avversario? Chi mai potrebbe illudersi di avere la sensibilità richiesta per mettere in equilibrio una si­ mile bilancia? Chi? chiedete voi. Ma naturalmente il Borghese, il Bor­ ghese col suo libro del Dare e dell’Avere. La grande arte in cui egli eccelle consiste nel trasportare alternativamente e astu­ tamente Dio e il Diavolo sulle due colonne, in modo da non 276

farsi dei nemici e trarre vantaggio dall’uno e dall’altro. È un gioco di equilibrio molto abile che richiede esperienza, pron­ tezza e stomaco forte. Forse mi si obietterà che cerco la luna nel pozzo e che coloro che usano questo luogo comune vogliono dire sempli­ cemente che si è debitori con tutti. Risponderò, come ho fat­ to già molte altre volte, che la parola del Borghese ha qual­ cosa di profetico, e quindi va oltre il suo pensiero, il quale di solito non va da nessuna parte, e che quello che io ho ap­ pena scritto è veramente quello che lui dice in realtà. XLIX

Come uno si fa il letto, così dorme

Un antico storiografo parlando di Carlo il Temerario si esprimeva in questi termini: «Colui che ebbe in eredità il suo letto fu costretto a cederlo per poter dormire, poiché un uo­ mo di così grande e irrequieta foga vi aveva potuto prendere solo qualche breve riposo». Questa frase vai bene una cita­ zione, anche se non sappiamo come era fatto il letto di que­ sto principe così focoso, e si può presumere che non vi si co­ ricasse affatto. Tutto questo non ha niente in comune con i letti dei no­ stri borghesi dove non riposano, quasi mai, eroismo e bal­ danza guerriera. Questa brava gente fa fare i letti dalle ca­ meriere più o meno scrupolose e vi si corica in modo molto tranquillo senza alcuna preoccupazione, quando gli affari van­ no bene. Coloro che ne entrano in possesso alla loro morte li fanno disinfettare a fondo per poterci dormire di un sonno altrettanto pacioso ed ecco tutto. Il tutto è come un sepolcro imbottito e confortevole dove una carogna viene a sostituire un’altra senza inconvenienti o peripezie avventurose. Ma se si vuol dire veramente che un Borghese si fa lui stesso il letto, allora bisogna leggere questa frase come una metafora. In questo senso, non è temerario affermare che la 277

maggior parte dei borghesi si corica nel fango, e una stra­ grande maggioranza nel fango misto al sangue dei poveri, in attesa del materasso di tizzoni ardenti che viene loro prepa­ rato per la vita eterna.

L

Mettere acqua nel vino

È un’antifrasi. L’uomo accorto mette l’acqua nel vino degli altri, quanta più acqua possibile, ma lui beve vino pu­ ro, soprattutto quando appartiene a una lega antialcoolista. Ma questo non è che l’inizio della saggezza. La fine della sag­ gezza sarebbe il diluvio, ma non bisogna arrivare fin là. Non bisogna affogare i clienti e compromettere i raccolti. Discer­ nimento e giusta misura: ecco quello che chiede la ragione. Talvolta è bene ubriacare il cliente, altre volte è utile fargli sentir sete. Questione di tatto e di colpo d’occhio. L’unica regola invariabile è di spegnere sempre l’entu­ siasmo e di soffiare su tutti i moccoli della speranza.

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INTERMEZZO

Fare bene e lasciar dire

L’altro ieri, 19 gennaio 1913, si celebrava alla Sorbonne il cinquantesimo anniversario dell’ingresso di Judas-Ernest Lavisse*, membro dell’Accademia sedicente francese, nella Scuola Normale superiore di cui oggi è il Direttore Raymond Poincaré*, eletto recentemente Presidente della Repubblica, in seguito a un meraviglioso imbroglio parlamentare, aveva voluto onorare di proposito con la sua presenza quella farsa giubilatoria.114 Naturalmente ci furono dei discorsi, e che discorsi! Si sentì un certo signor Guist’hau, ministro di non so che, ri­ cordare un vecchio panegirico di Lavisse, nel quale costui ave­ va parlato della « sola potenza, ormai sovrana, della scienza rinnovatrice, filosofia dell’avvenire e religione in nuce». La religione in nuce! Su quest’ultimo scalino del cretinismo uni­ versitario, Poincaré, successore di Luigi XIV, di Napoleone* e di Fallières*, ha stretto la mano del dotto Lavisse che un tempo fu uno dei suoi pedagoghi. Ma avrebbe dovuto strin­

ili Raymond Poincaré era stato eletto il 17 gennaio 1913. Cfr. Indi­ ce dei Nomi.

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gere moltissime altre mani, perché Lavisse non era che un’u­ nità nel gregge. Non bisogna dimenticare che ci sono dei professori del­ la Sorbonne come Aulard*, Lanson*, inventore delle «sei grandi leggi della letteratura sociologica», completamente ignorate prima di lui; Langlois* e il calvinista Seignobos*, in­ troduttore in Francia della filossera storica; infine e soprat­ tutto l’inimmaginabile pontefice Durkheim* al quale la futu­ ra società, a cui fortunatamente sarà tolto Dio e l’intelligenza, è debitrice del totemismo (?) e della «divisione del lavoro sessuale» (!). I giornali che hanno raccontato del giubileo del cachettico Lavisse mi pare che non abbiano fatto alcuna men­ zione di questi illustri professori che il nuovo imperatore del­ la Repubblica, così capace di comprenderli, sarebbe stato lieto di abbracciare con tenerezza. «Far bene e lasciar dire·, così avrebbe detto loro. Che im­ porta se una cieca moltitudine vi considera come empi creti­ ni e impuri pedanti al servizio degli assassini della Francia? Che importa se io stesso, olocausto a dodicimila franchi al­ l’anno, sarò considerato, nel più prossimo avvenire, come uno stupido bovaro al servizio degli agricoltori della vergogna e della disperazione? Non abbiamo forse come testimone le no­ stre coscienze repubblicane? Non siamo i figli dei giganti della Rivoluzione? Non sappiamo che Dio non esiste e che la sto­ ria è cominciata nel 1789? Queste certezze, signori, dovreb­ bero bastarci». Queste parole così fiere, pronunziate da un tale capo, non avrebbero mancato di incendiare i pozzi di scienza della Sorbonne, mettendo le ali ai piedi d’un gran numero di ascol­ tatori. Ma le cose troppo belle non succedono mai, e il giubi­ leo dovette finire molto piattamente. Che importa? dirò anch’io a mia volta; abbiamo degli uomini, un gruppo di uomini, uniti nella generosa volontà di distruggere il cristianesimo e di idiotificare la Francia. Han­ no a loro favore la forza quasi infinita d’una perseveranza che non scoraggia nessun insetticida e il veemente fanatismo 280

della assoluta stupidità. Chi oserebbe dire che tutto questo non vale nulla? Pensate che Durkheim* s’interessa di fabbricarci una mo­ rale e dobbiamo a lui l’inaudita scoperta che l’amore è sol­ tanto un caso della divisione del lavoro! E questo stesso so­ ciologo circonciso ha promulgato l’illuminante distinzione tra le società polisegmentarie semplici, le società polisegmentarie semplicemente composte e le società polisegmentarie dop­ piamente composte. Ed è sua quest’altra definizione lapida­ ria: «Le funzioni amministrative sono la funzione cerebrospinale dell’organismo sociale». Non è inutile dichiarare, a questo punto, che sono debi­ tore della conoscenza di tutte queste cose bellissime a un li­ bro molto interessante di Pierre Lasserre* sulla Doctrine of­ ficielle de l’Université. Non avrei potuto fare, senza pericolo di morte, le spaventose letture a cui questo eroico scrittore è sopravvissuto. Ciò che soprattutto mi ha impressionato in questa espo­ sizione della dottrina universitaria, è che la Francia sta per perdere il senso del ridicolo. Oggi si scrivono seriamente, e con un’immensa autorevolezza, cose infinitamente più stupi­ de di tutto quello che si può leggere in Molière o in Courteline, e nessuno pensa a scompisciarsi dalle risa. Al contrario, la gente è piena di rispetto e di una specie di timore religio­ so. Questo è il sintomo più palese della morte imminente. Possiamo concepire una Francia malata, inferma, rovi­ nata, prostituita, che chiede l’elemosina e non riceve che ol­ traggi, però sempre viva e gioiosa, nonostante tutto, di senti­ re dentro di sé un principio di vita, un’infallibile promessa di rinnovamento, di ritorno completo della sua giovinezza e della sua forza, dopo le eccessive disavventure e le derelizioni innumerevoli; ma una Francia incapace di sentire il ridico­ lo e capace ancora di vivere, questo non si può più concepi­ re. L’allodola gallica germanizzata, giudaizzata, laicizzata, massonizzata, fino al punto da non poter più distinguere il ridicolo dal serio e il grottesco dall’aulico; ah! una simile Fran­ cia io la vedo soltanto morta. 281

Le altre nazioni possono sussistere, a loro modo, nel bra­ go dei pedagoghi; ma questo non è possibile alla Figlia pri­ mogenita della Chiesa, alla Sposa preferita da Gesù Cristo; e tuttavia pare che questa spaventevole disgrazia stia sul punto di rovinarle addosso. Sarebbe già sufficientemente orribile dire che potremmo essere del tutto privati di Dio domani mattina o domani sera; ma che non scendessimo tanto al di sotto dei negri per adorare o far adorare ai nostri figli la feccia pre­ sentata da certi pontefici come il rinnegato Lavisse* o l’in­ commensurabile imbecille che ha nome Durkheim*, quando non si chiamano Lanson* o Seignobos*, questo è il colmo dell’ignominia che il pensiero francese non può sopportare. È vero, qualche voce s’è già levata, e si comincia a spe­ rare il riflusso della marea del cretinismo universitario. Ho paura che sia una vana speranza. I professori della Sorbon­ ne hanno ricevuto la stretta di mano dal Presidente novello, il quale può vedere in essi i manovratori dell’abbruttimento rispondenti ai suoi disegni e capaci di rendere illustre il suo regno. Elettrizzati da questo contatto, essi riprenderanno co­ raggio, rinverdiranno, si propagheranno e cretinizzeranno in maniera più concreta e più abbondante. Diventati più forti e più pachidermici, essi opporranno una maschera di bronzo agli schiaffi della critica e il parapioggia della loro coscienza ai vomiti del disgusto universale. Fare bene e lasciar dire, pen­ seranno allora acquattandosi come Iurchi prussiani sulla ci­ viltà cristiana.

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LI Il Ialino maccheronico

La prima cosa che s’incontra, uscendo dall’Università, è il latino maccheronico. Non starò a dire che il latino macche­ ronico è la lingua della Chiesa, la lingua di Dio, quella che Ci­ cerone non parlava. Lo sanno tutti. Gli stessi commessi viag­ giatori incapaci di declinare rosa: la rosa, sanno che i pagani parlavano un latino molto superiore a quello della Vulgata. È l’unica nozione che hanno imparato; però è solida come la roc­ cia e preferibile a tutti gli studi umanistici. E così si trovano d’accordo con i professori della Sorbonne che s’affannano tan­ to generosamente allo sterminio dell’insegnamento classico. La Chiesa parla latino, dunque il latino è funesto. Ecco una cosa semplice e chiara. Il simbolo della fede è in latino: il confiteor è in latino; l’assoluzione del prete è in latino, co­ me tutte le cerimonie del culto. Dunque non ce n’è bisogno. Tutto questo vecchiume è incompatibile con lo sport e con le altre manifestazioni della vita pratica. Aboliamo la lingua stravecchia, e avremo fatto un gran passo. Inoltre, questa lin­ gua, così bella al tempo degli idoli, non vale più niente da quando i cristiani hanno cominciato a usarla ed è diventata, per mezzo loro, latino maccheronico. 283

Perché maccheronico? Non mi sono mai accorto né ho mai sentito che i cuochi o le cuoche avessero l’abitudine di usare un latino qualunque nei loro intrugli. Sarà perché una tradizione venti volte secolare di non so quali ricette di Apicio, ha fatto credere che essi avessero studiato quel vecchio autore? Ma Celio Apicio, il più celebre ghiottone dell’antichità, visse sotto Tiberio e il suo trattato sull’/Irte culinaria è scritto nella lingua di Petronio che non era certamente un cristiano.115 Bisogna dunque cercare altrove l’origine di que­ sto luogo comune ed io ci rinunzio, limitandomi a presume­ re che si tratti di un timore oscuro delle graticole e degli spie­ di dell’inferno che ossessionerebbe, segretamente e nonostante tutto, i più fieri nemici del latino di Chiesa.

LII Il latino intercalato nel discorso è un affronto all’onestà Sfidare l’onestà pare implicare la disonestà: e questo stu­ pisce in una lingua pretesa morta. Se onestà significa pudo­ re, come al tempo di Boileau, la conseguenza necessaria è che si possono dire in latino le peggiori oscenità senza timore di fare arrossire le persone più caste, anche nel caso che capi­ scano. Così si spiegherebbe forse l’accanimento dei nostri pro­ fessori universitari contro una lingua che oltraggi la loro pu­ rezza, mentre gli impudichi sarebbero in condizioni di com­ batterli con energia. Si vedrebbe allora un superbo spettaco­ lo: il conflitto tra la Sorbonne e il Lupanare. Gli avversari sarebbero d’accordo tra loro soltanto su un punto essenziale: le necessità di finirla con la Chiesa che abusa veramente troppo del suo latino. Interrogate tutti i borghesi, soprattutto quelli che non hanno mai saputo una parola di 115. Tre celebri gastronomi latini si fregiano di questo nome e uno di questi è vissuto sotto Tiberio, ma nessuno di questi può essere identifica­ to con sicurezza nel Celio Apicio, autore dell’Arte culinaria.

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latino, e non ne troverete uno solo che non sia convinto che la Bibbia è piena di sconcezze; si capisce, la Bibbia in latino, perché le altre Bibbie sono state per fortuna espurgate da se­ rafici protestanti. Questi buoni giudici non mancheranno di dirvi che anche i libri di Zola* sono verginali a paragone del­ la Bibbia, perché scritti francese, e che francese!, ma che il latino, col mistero scandaloso dei suoi deponenti e dei suoi gerundivi è una lingua completamente perfida. Conosco del­ le persone d’una pietà sublime che hanno orrore àzWAve Ma­ ria per la parola ventris che a loro sembra un’abominevole profanazione. LUI

Il latino è una lingua morta

E allora perché non la seppellite? Volete che cominci a puzzare e diventi così un pericolo pubblico? Il Papa che si ostina a usare soltanto il latino per parlare a tutta la terra, mentre ha Yesperanto a portata di mano, non ci offre forse, dall’alto della sua cattedra, una prova evidentissima di que­ sto temibile pericolo? e non dovremmo far subire una rigo­ rosissima quarantena a tutti gli atti pontifici, disinfettandoli con molta attenzione prima che possano propagarsi, soprat­ tutto in Francia dove c’è più da temere il contagio? In questo disgraziato paese la folle illusione è così stra­ na che non si prende nessuna cautela; anzi vi si trovano degli individui convinti che Tacito e Giovenale possono essere letti da uomini che non stanno nel cimitero e che la Vulgata ha il potere di vivificare le intelligenze. Per fortuna, la Repubblica ha mutato rotta, una volta tanto, e pare che abbia compreso che il mezzo più sicuro per tarla finita col latino sia di strangolare la lingua francese. I nostri professori universitari lavorano a questo progetto. Quando nessuno più in Francia parlerà il francese, non si sa­ prà neppure che cosa significhi il nome di nazione latina. Si 285

succhierà la vita alle generose mammelle dell’Inghilterra, della Germania e forse della Bulgaria. Ma io affermo che allora si potrà contare sul prodigio di una lingua universale, più vi­ va di tutte le lingue parlate oggi nel mondo e che questa sarà la lingua di Cambronne*. LIV

Ci perdo il mio latino ovvero Non ci capisco un’acca Strana affermazione del vostro portinaio o del vostro lu­ cidatore di pavimenti, quando vogliono esprimere la loro im­ potenza a ritrovare una moneta che avete lasciato inavverti­ tamente fuori posto e che loro hanno accuratamente sistemato in tasca. Sotto l’effetto di un impulso molto oscuro e antico, que­ sti candidi servitori affermano, senza saperlo, che la perdita del loro latino, in questa determinata circostanza, è un disa­ stro irreparabile simile a quello del loro spulzellamento. Il la­ tino era di loro appartenenza proprio come la vostra moneta da cento soldi che non riescono più a trovare, e quella perdi­ ta senza rimedio li colma di bontà e di sconforto. Quando sentite un Borghese del tutto illetterato dichia­ rare che perde il suo latino, potete essere certi che accade in lui qualcosa di simile, che si trova alle prese con qualche dif­ ficoltà di coscienza e che, probabilmente, ha appena conclu­ so uno sporco affare. Estendete questo tipo di ragionamento molto semplice alle nazioni che hanno perduto il loro latino e penso proprio di promettervi una consolante visione.

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LV

Il matrimonio è una lotteria

Per molto tempo si è creduto che fosse un sacramento. Da quando è stato istituito il divorzio sappiamo invece che è una lotteria, che si può felicemente rinnovare. Se non si gua­ dagna il primo premio, si può sempre incappare in un nume­ ro vincente e la vita non è più triste. Se le emozioni della lot­ teria non convengono al vostro temperamento, è semplicissi­ mo, bisogna rinunziare al matrimonio. Ma non vedete la grande bellezza di questo nuovo ordi­ ne di cose? Un tempo, il matrimonio era un problema terri­ bile. Bisognava amare ed essere amato, bisognava fare una corte più o meno lunga, accettare formalità noiose e cerimo­ nie sciocche. Infine e soprattutto bisognava legarsi indissolu­ bilmente per tutta la vita. Oggi comprate un biglietto e aspet­ tate tranquillamente il giorno che si tira la lotteria. Se siete tra i vincenti, vedrete arrivarvi una donnina di più o meno valore che vi è facile condurre subito al munici­ pio, dove l’ufficiale civile vi accoppierà senza esitare. Se sie­ te scontento del vostro premio, vi sarà facile, più tardi, cam­ biare la sposa, prendendo un nuovo biglietto. La legge vi au­ torizza, vi incoraggia, e la lotteria è sempre aperta. Se frat­ tanto sono arrivati dei figli, l’Assistenza pubblica s’incarica di assicurare loro la felicità. Gli stessi vantaggi ha la donna, la quale può prendere parecchi biglietti vincenti ed estrarli nel­ lo stesso giorno: il che moltiplica le vostre possibilità di pro­ genitura. Allora la vita diventa come un paradiso. LVI

Ingannare il proprio marito

Volete sapere che cosa ne penso? Non si inganna mai il proprio marito. Non esistono esempi che una donna abbia 287

mai ingannato il marito, che abbia potuto fargli credere che le lucciole dei suoi amanti siano delle lanterne. Il marito s’in­ ganna da sé ed è quindi un caso di autosuggestione. Dovendo io scrivere, come si sa, per le giovinette, non vorrei far leggere loro delle frasi sconvenienti. Eppure sono costretto a proclamare la verità. Ogni Borghese ha la segreta ambizione di essere cornuto. Ambizione nascosta, lo so be­ ne, perfino ignorata dal suo io ambizioso, ma del tutto cer­ ta. Bisognerebbe non aver mai studiato il Borghese per non sapere che, dopo Napoleone*, è consumato dal desiderio di essere Cesare e che Messalina può procurargli questa illusio­ ne. Si metterà dunque a ricercare Messalina o Giuseppina. È molto semplice. Se sua moglie non ha il temperamento di queste generose imperatrici e se, d’altro canto, è poco ecci­ tante, cosa che capita abbastanza sovente, si sforzerà di spro­ narla in tal senso, persuaso che la cornificazione è il destino degli uomini superiori. Un’avventura con il garzone del ma­ cellaio, tanto per gradire, non potrebbe dispiacergli e trove­ rebbe assai gradevole la successiva, avuta con un dentista. Aspirerebbe allora a un professore aggiunto o ad un arcidu­ ca in viaggio. Il suo ruolo diventerebbe allora di tutto rispet­ to e la sua fortuna al gioco della maniglia o al dominio sa­ rebbe sfacciata. Coloro che vedessero in quest’uomo un marito ingan­ nato sarebbero ben poco perspicaci. Lui sa tutto e vede tut­ to. Se le scorribande della moglie non lo fanno assurgere alla gloria, gli conferiscono almeno una certa qual considerazio­ ne e i suoi affari vanno piuttosto bene. Mi spingerei perfino ad affermare, pregando le anime pure di chiudere occhi e orec­ chie, che questo marito si cornifica in un certo senso da solo e che una fonte di sozze delizie, da lui solo conosciuta, si trova nel fondo del giardino dell’amore dove gli usignoli della mo­ glie vengono a cantare. Chi oserebbe contraddirmi tra tutti questi moderni maiali? Il luogo comune del marito ingannato non ha dunque senso e la stessa moglie, per quanto sia stupida, lo sa molto bene. Questi due miserabili sono in realtà due morti che hanno 288

assassinato le loro anime, e i morti non possono ingannare né essere ingannati. Essi rappresentano l’uno per l’altra due specchi d’ebano scuro, in fondo all’abisso. LVII Non ci si sporca che col fango

Dipende. C’è il fango materiale e il fango spirituale. Può accadere che una signora borghese piena di fango spirituale si lamenti con foga irosa di essere stata inzaccherata dall’om­ nibus. Sarà costretta a cambiar veste e a profumare di nuo­ vo la sua intima lordura. Può accadere pure che un’altra si­ gnora borghese, non meno elegante e profumata, sia vittima della maldicenza dei bottegai della sua strada. «Non ci si spor­ ca che col fango» dirà alzando le spalle. «Questa gente mi trascina nel fango, però io ho la coscienza pulita» . Essa espri­ me così il suo disprezzo per un certo fango spirituale che lei vede negli altri e di cui le è nota Vinferiorità. Queste due borghesi, che potrebbero formarne una so­ la, hanno pienamente ragione. Il fango spirituale che insozza soltanto l’anima non merita che il disprezzo, ma l’altro fan­ go che compromette i vili vestiti suscita naturalmente l’indi­ gnazione e anche la rabbia. È il solo genere di fango che conta. — Che puzza qui! — dicevo a un’amabile signora che mi riceveva in assenza del marito; — non sentite questo odo­ re schifoso che ci arriva tutto d’un tratto? — È la vicina che apre il suo cuore, — mi spiegò lei. — Non ci si sporca che col fango, — rispose tranquillamente la vicina che aveva sentito.

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LVIII Il fuoco purifica tutto

«Parigi è purificata!» esclamava, nel 1871, il pestilente Edgar Quinet*, contemplando le rovine fumanti lasciate dal­ la Comune. Ma lui non fu purificato dai plotoni d’esecuzio­ ne, perché aveva messo al sicuro la sua preziosissima carcas­ sa. I pensatori del suo calibro non ne avevano alcun biso­ gno, e fu dimostrato che Parigi era finalmente sbarazzata di tutte le sue immondizie. Dopo quaranta anni di Repubblica non è lecito alcun dubbio a questo riguardo. Basta guardarsi d’attorno. Che purezza! che freschezza primaverile! che aria salubre! che presidenti e che ministri candidi! che ammini­ strazione liliale e verginale! Evidentemente il fuoco ha puri­ ficato tutto. Tuttavia i puri non lo sono mai abbastanza, e Giobbe ci assicura che anche le stelle non sono pure allo sguardo di Dio.116 Il fuoco dunque avrebbe ancora qualcosa da fare e le compagnie di assicurazione nutrono una certa inquietudine. C’è forse bisogno di purificare la coscienza degli onesti? mi si chiederà. Certamente, e molto più di quella degli altri, perché deve irradiare dappertutto, come la luce di un benefi­ co astro che penetra nelle più nere caverne dove si nascondo­ no ancora gli ultimi mostri del fanatismo religioso. La co­ scienza di un Emile Combes*, per esempio, quella di un Hanotaux* o di un Anatole117 saranno mai abbastanza pu­ re? Forse lo sono, ma non troppo, e io ritengo che un bel­ l’incendio non farebbe male. Per di più possiamo contare su coloro che li ammirano per la provvista delle prime fascine. Non c’è niente di meglio dei discepoli per purificare i mae­ stri, poiché appiccano il fuoco al loro deretano.

116. Giobbe, XXV, 5. 117. Si tratta di Anatole France. Cfr. Indice dei Nomi.

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LIX Tener conto del fuoco ovvero Salvare il salvabile

II mercante di vini tiene conto del fuoco quando, riem­ piendo una botte con l’acqua del pozzo, vi lascia pur rima­ nere una quantità di vino sufficiente per tingerla leggermen­ te. Un farmacista tiene conto del fuoco quando vende a soli dieci franchi una droga infima che gli è costata 60 centesimi. Un marito tiene conto del fuoco quando permette alla mo­ glie di consolare qualche generoso ammiratore. Si potrebbe perfino dire che anche lui rappresenta la parte del fuoco per quella sposa così infiammabile, ecc. I cristiani tengono conto del fuoco quando si degnano di accordare qualcosa a Dio che è veramente il Fuoco essen­ ziale, il Fuoco centrale, acceso in eterno per divorare ogni cosa alla fine di tutte le fini.

LX Il fuoco sacro Il fuoco della creazione Il fuoco di paglia

Identità abituale di questi tre fuochi. Difficili ad accen­ dersi, si spengono con incredibile rapidità. Talvolta non s’ac­ cendono neppure simili a quelle famose candele di Robert Macaire* di cui non si vedeva mai la fine perché non s’arri­ vava mai ad accenderle. Quest’ultimo caso sembra quello di alcuni dei nostri più illustri accademici, come Paul Bourget* o René Bazin*, i cui libri possono essere posti senza alcun pericolo nei più infiam­ mabili granai. Potrei citarne molti altri che lavorano, come si dice, nel fuoco, e le cui opere, raccomandate per le villeg­ giature estive, hanno il vantaggio di procurare a quelli che 291

le leggono l’auspicata sensazione del gelido intorpidimento del­ le dita o della freschezza dei pozzi. Soltanto così si può spie­ gare la continuità sempiterna del loro successo. LX1 Gettare olio sul fuoco

È il vecchio metodo per attizzare i focherelli che non vo­ gliono divampare. Adesso s’è trovato di meglio; per esem­ pio, il petrolio, di cui si son visti i magici effetti al tempo della Comune. Ricordo quelle pompe che vomitavano fiotti di petrolio su l’Hôtel de Ville in fiamme. Mai Parigi fu così bene illuminata. Ma non si tratta della luce. Oggi si vuole la distruzione, e noi abbiamo gli esplosivi, la dinamite, la melinite, la panclastite, a scelta degli amatori e a portata di mano: VEtna in casa, come diceva Villiers*. Il vecchio olio dei nostri padri ci fa una triste figura, anche nelle portinerie, ed io penso che un bidoncino di uno di questi prodotti messo sul più piccolo fuoco della maldicenza o della calunnia avrebbe un effetto immediato, incomparabilmente superiore. Offro questa idea a coloro che si lamentano continuamente dei fiammiferi dei monopoli.118 LXII Scherzare col fuoco

Si dice che sia uno scherzo che finisce male. Questo di­ pende forse dal fatto che non si conoscono bene le regole. 118. A partire dal 18 gennaio 1875, la fabbricazione e la vendita dei fiammiferi erano state accorpate in un Monopolio di Stato; il prodotto era diventato subito molto scadente e i francesi rimpiangevano i fiammiferi d’im­ portazione, specialmente quelli svedesi.

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Si dice che una gentile signora scherza col fuoco quando si tiene troppo accosto a un ardente signore e anche viceversa. Ho conosciuto un capitano dei pompieri la cui moglie e le due figlie scherzavano continuamente col fuoco. Barbey d’Aurevilly*, che mi fece conoscere quella casa, mi diceva che gli attrezzi della caserma vicina le rassicuravano. Ignoro quale ne sia stata la fine. D’altronde, penso ad altre cose in cui le signore non c’en­ trano. So che esiste un fuoco più terribile di quello dei vulca­ ni; l’accostarvisi è un piacere, ed è una magnifica gioia scher­ zare con questo fuoco, una gioia tale, miei cari amici, che vi fa simili a dei bambini e se ne può benissimo morire. Ma è necessario aver navigato sull’Acqua del Diluvio e non aver avuto paura di sudare il Sangue con Gesù, nell’Orto del­ l’Agonia.

LXIII Stare tra due fuochi

Un buon soldato si trova tra due fuochi quando non può scappare davanti al nemico senza farsi immediatamente spac­ care la testa dal suo capitano. Questo è in un modo o nell’al­ tro, il caso di tutta la brava gente che si trova tra due fuochi. Siamo tutti disposti ad agire male, non si vuole che que­ sto ed è umano, perché tale è l’istinto della maggior parte degli uomini. Abbiamo davanti l’invito insistente, quasi irresistibi­ le, delle concupiscenze; ma di dietro ci sono i gendarmi e, in loro vece, gli scottanti schiaffoni e le pedate di tutti coloro che non sono stati ancora presi in flagrante; infine, c’è la riprova­ zione pubblica, indifferente quanto volete ma sfavorevole a ul­ teriori imprese. E non si ha neppure la possibilità di incrociare le braccia. Bisogna fare questo o quello, assolutamente. A tutti coloro che si trovassero in questa angosciosa al­ ternativa posso proporre il magnanimo disinteresse d’un fa­ moso vagabondo. Eccone la storia. 293

Siamo nel 1848, all’epoca delle barricate. Quest’uomo si trovò d’un tratto in mezzo a una strada che non apparte­ neva più a nessuno. Truppe regolari da un lato, insorti dal­ l’altro. Nessuna scappatoia. Naturalmente, gli avrebbero chie­ sto ben presto che cosa caspita intendesse fare lì. Trovandosi molto vicino ai patrioti e accortosi che uno di essi tirava al­ quanto male, gli tolse elegantemente il fucile dalle mani, pre­ se di mira un ufficiale e l’uccise sul colpo. «Ecco come biso­ gna fare, disse dopo quel bel colpo; ti restituisco il fucile di cui non so che fare. Non è questa la mia opinione». Così potè andarsene tranquillamente, con la testa alta e coperto di gloria. LXIV

Gettarsi nel fuoco per qualcuno « Io mi getterei nel fuoco per mio marito », dice una mo­ glie virtuosa. Perché non nell’acqua? Indubbiamente perché il fuoco è il suo elemento e l’acqua rischierebbe di spegnerla, risponde uno dei miei allievi. Riconosco che questa risposta potrà apparire stupida. Non è evidente che quella eccellente donna dichiara, così, la sua decisione di affrontare tutto per colui che ama? Venga la prova e conoscerete il suo coraggio. Però è duro gettarsi nel fuoco per un Borghese. Indub­ biamente vi è lecito sostituirlo, nell’immaginazione, con un paladino, con uno di quegli eroi sublimi alla cui ombra si sa­ rebbe felici di morire. Ma costoro sono raramente dei mari­ ti. Non è possibile immaginare un semidio che abbia la mo­ glie che approvi le sue scappatelle e sia disposta a condivi­ derne i rischi. Oggi queste situazioni s’incontrano soltanto nei romanzi d’avventura che neppure le dattilografe leggono più. Sarebbe dunque ragionevole situare, in qualche modo geograficamente, questo luogo comune, e delimitare con mol­ ta esattezza l’altruismo che esso comporta. Ma non è una cosa troppo facile ed io declino l’incarico. Chiedo soltanto che mi 294

sia permesso di fare un’osservazione che attingo dai miei ricordi. Se la signora Prud’homme vede suo marito in mezzo al­ le fiamme, non penserà innanzitutto, da vera cristiana, a sal­ vare l’anima di quest’uomo, vale a dire la cassaforte che è anche la pupilla degli occhi suoi? Glielo ha detto tante volte! Per questo, rischierà volentieri, offrendo finanche la rivela­ zione più intima della sua persona a un cavalleresco geniere che vorrà coprirla d’acqua all’andata e al ritorno. E se il si­ gnor Prud’homme, sul punto di essere arrostito, ha un cane a cui vuol bene, l’altruismo della sua sposa non le permette­ rà di dimenticare questo quadrupede, e lei ritornerà il più pre­ sto possibile a svenire d’eroismo tra le braccia del suo pom­ piere. Se, dopo tutto questo, il marito salvato per miracolo dalle fiamme, cade nel fiume, dovrà lei buttarsi dentro? In coscienza, non credo. Il suo compito è di buttarsi solamente nel fuoco e in braccio ai pompieri.

LXV Il battesimo del fuoco

Desideravo arrivarci. Il famoso imperatore iconoclasta Costantino V, detto Copronimo, a così giusto titolo ammi­ rato dai protestanti, deve il suo immortale soprannome al fat­ to che, mentre veniva battezzato dal Patriarca di Costanti­ nopoli, insozzò coi suoi escrementi l’acqua del fonte batte­ simale. Nel battesimo del fuoco le cose si svolgono in maniera alquanto diversa. Non c’è patriarca e il battistero è rimpiaz­ zato dalle brache delle reclute, il che rappresenta una certa differenza. Ma è pur sempre un battesimo, uno di quella doz­ zina e più di battesimi che il secolo XIX ha inventati. C’è difatti il battesimo della spada, in uso nelle univer­ sità tedesche, il battesimo «della scienza accademica», sco295

perto trent’anni or sono dal padre Didon*, di giudaica me­ moria. Più recentemente s’è visto il battesimo civile, istituito da uno dei nostri più lirici deputati. Perché non ci potrebbe­ ro essere anche il battesimo degli schiaffi e quello delle peda­ te? E perché non aggiungervi pure il battesimo della crona­ ca, del romanzo a puntate, della cronaca nera, del notariato, del registro, della cornificazione, della bancarotta fraudolen­ te o del tribunale correzionale? Non si finirebbe più se si vo­ lessero enumerare tutti i battesimi possibili. Il solo che non conta è il Sacramento della Chiesa, il qua­ le ha cessato d’essere una realtà per gli eredi della coscienza del Copronimo.

LXVI Dove avete preso le belle cose che dite?

È semplicissimo, cara signora. Raccolgo i petali dei fio­ ri del vostro pensiero. Traduco come posso, nella mia pove­ ra lingua, «il misterioso sorriso della Gioconda» che vedo sulle vostre labbra e che mi è sufficiente. Quando non mi par­ late, mi pare che mi facciate una grazia. Allora il mio spirito si eleva dolcemente. Al contrario, quando mi parlate, il mio spirito si incupisce e se ne vola lontano. Temo di sentire cose troppo belle che sono incapace di esprimere convenientemente. Per questo, vi prego di non interrogarmi. Contentatevi di ispi­ rarmi silenziosamente e di sapere che leggo tutti i luoghi co­ muni sul vostro volto affascinante, come se leggessi un poe­ ma difficilissimo in un meraviglioso manoscritto, miniato ge­ nialmente da un grande artista dimenticato.

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LXVII

Siete un originale

È un’accusa terribile. Tutto può essere perdonato, tranne questo. Un Borghese darà la propria figlia a un bancarottiere, a un assassino; la darà con tutte e due le mani a un infame pros­ seneta, a un sensale di tradimenti e di infamie, perfino a un ministro; ma non la darà mai a un originale. È una repugnanza tale che la stessa ricchezza, per quanto venerabile e santa ai suoi occhi, non ci può niente o quasi niente. I poeti, gli spostati, i vagabondi amano credere che Γori­ ginalità sia qualche cosa. Questi poveri diavoli credono di fare l’elogio di uno scrittore, per esempio, dicendo che è un origi­ nale, che è lui e non un altro, e non si accorgono che questo elogio lo disonora. Oseranno dire che un rigattiere o un avvo­ cato di prima istanza può avere dell’originalità? Il senso del ridicolo li strangolerebbe subito. Che si vuole di più evidente? Un buon scrittore, degno dell’Académie française, non deve essere più originale di un calzolaio o di un conciatore. Consultate su questo le signore di Périgueux o i professori di Brives-la-Gaillarde. Egli ha anche il dovere di esecrare l’o­ riginalità dal più profondo del suo cuore. Un bel libro di Ana­ tole France* o dell’onesto Lavedan* si riconosce dal fatto che non urta nessuno e tutti lo possono leggere con piacere. Un quadro, una scultura devono poter essere apprezzati dai più stimati parrucchieri, e un monumento pubblico o dei privati, eseguito da un architetto coscienzioso, non deve esigere più originalità di un porcile. Questa è l’esperienza dei secoli. Un uomo ne vale un altro e il suffragio universale, al quale siamo debitori di tanti benefici, lo dimostra abbondan­ temente. Pensare o agire diversamente da tutti gli altri è in­ giurioso per la moltitudine. Platone che voleva circondare la sua repubblica con i più solidi bastioni, allontanandone tut­ to quello che poteva attentare alla morale, bandiva spietata­ mente i poeti e quegli altri rompiscatole che oggi vengono chiamati artisti originali. La cosa più sicura sarebbe uccider­ li. La vera morale intravista dal divino Platone consiste nel­ 297

l’essere del gregge, nel rassomigliare a tutti, e la rigida one­ stà borghese consiste nel non abusare della fiducia del padron di casa tenendo il capo tra le nuvole.

LXVIII L’Onore Quale potrebbe essere, oggi, il significato di questa vec­ chia parola? Un individuo diventato cavaliere della Legione d’Onore per aver trafficato fruttuosamente nella politica, nel­ l’arte o nella finanza, può benissimo non essere stato sul cam­ po d’onore, non aver il minimo senso d’onore, ignorare il punto d’onore, indietreggiare davanti a una questione d’o­ nore, non fare onore ai suoi impegni, e ottenere tuttavia gli onori supremi. A quanto pare, tutte queste cose possono be­ nissimo andar d’accordo. Lo stesso cavaliere mancherà volentieri alla sua parola d’onore per cavarsela da uno sporco affare con gli onori mi­ litari. Stando a pranzo in città, gli si faranno gli onori di ca­ sa, gli si darà il posto d’onore, e lui farà onore al pasto, col suo eccellente appetito. Se in lui c’è qualcosa di losco che ri­ chiede la mobilitazione della polizia, egli se la squaglierà bel­ lamente per la scala di servizio, mentre il commissario salirà per la scala d’onore. Anche questo va benissimo. Una donna senza neppure un globulo d’onore può certamente e meglio d’ogni altra essere dama d’onore d’una regina e anche d’una imperatrice. Son cose che si vedono. Non si vede però un matrimonio borghese senza il pag­ getto e la damigella d’onore. Una famiglia che si rispetta ha per punto d’onore di non fare a meno di queste cose, senza le quali il matrimonio certamente non riuscirebbe bene. Ci sono anche i debiti d’onore, che non si è obbligati a pagare, specialmente quando si è data la parola d’onore a mezzogiorno per le calende greche. Si possono forse far va­ lere le leggi dell’onore, ma questo codice gotico, mal trascritto 298

dai copisti e commentato da troppi interpreti, è assai oscuro. Il risultato di tutte queste osservazioni è che non c’è modo di sapere che cosa s’intende per onore. Dopo immense meditazioni e incalcolabile numero di pranzi abbondanti, sono arrivato a capire che l’onore è un Dio crepuscolare, un falso Dio che bisogna spazzar via come gli altri e che bisognerà innalzare un monumento alto come la luna al generoso legislatore che decreterà la sua abolizione.

LXIX L Onestà

Ecco ciò che ci occorre: l’Onestà, cioè l’arte di unifor­ marsi a tutti con accortezza, in modo che non ci sia distin­ zione possibile tra uomini che hanno guadagnato danaro in ogni e qualsiasi maniera. Inutile cercare altrove. Il possesso del danaro è il segno dell’onestà, è l’onestà assoluta. In tempi non molto lontani, anche quando il vecchio onore era già completamente svalutato, si credeva ancora un po’ all’onestà dei poveri. Per fortuna questo errore è stato dissipato. In quel tempo non si notava mai abbastanza l’e­ norme ineguaglianza di livello tra Vuomo onesto e il galan­ tuomo, tra la donna onesta e V onesta signora, vale a dire tra coloro che sono in viaggio senza conoscere la strada e quelli che conoscendola benissimo sono già bellamente arrivati. Cer­ to, questa ineguaglianza può cessare d’improvviso a causa di un grandioso furto o di un salvifico assassinio di un ricco pa­ rente. In questo caso, il qualificativo precederà il sostantivo invece di seguirlo, e non c’è altro da dire. L’uomo onesto, la donna onesta sono necessariamente sprovvisti di danaro e sono situati in quel gradino inferiore della società dove si lavora per guadagnare la propria vita. Costoro non hanno alcun diritto all’Onestà, quella più insi­ gne, scritta con la maiuscola. Invece, i galantuomini, allog299

giati nei mezzanini o al primo piano, li sfruttano con astuzia e meritano quindi una ben altra considerazione. Credo che nessuno vorrà rimproverarmi di non essere ab­ bastanza chiaro. Che mi si potrebbe chiedere di più? «La ve­ rità è in cammino» diceva Emile.119 Omnia tempus habent.™ Dopo l’onore, l’onestà; dopo l’onestà, la villania d’animo e la crapula dell’inferno generate da lei con amore. E andremo ancora più lontano. LXX

È meglio sentire questo che essere sordo Così dirà o penserà il Borghese costretto ad ascoltare la Sinfonia pastorale oppure un oratorio di Haendel. Se diven­ tasse sordo come Beethoven, gli somiglierebbe in qualche mo­ do, ma a che prezzo! Pensate: non udrebbe più il suono del­ la moneta d’oro o d’argento sulla sua cassa, e la piacevole musica dei singhiozzi dei poveri non accarezzerebbe più il suo timpano pieno di cerume. Dove sarebbe dunque l’interesse della vita per il galantuomo, e quale sarebbe la ricompensa del suo lavoro, se non potesse più godere della disperazione degli indigenti che lo implorano, degli indigenti che sono sta­ ti coltivati da lui per tanti anni e con tanto amore, come fio­ ri di dolore la cui fioritura completa doveva essere per lui co­ me il ritorno dell’Eden perduto? Infatti il Borghese è assai più profondo di quel che si creda e che lui stesso non pensi. Il Povero è Gesù Cristo, il Salvatore degli uomini. Lui non ne sa niente, si capisce, però lo sente e l’indovina. Intravvede confusamente che la vitto­ ria di questo Vincitore della morte gli sarebbe avversa. Biso­ gna impedirla a qualunque costo. Se questo è impossibile, lui

119. Si tratta di Emile Zola. Cfr. Indice dei Nomi. 120. «E ogni cosa conosce la sua stagione», Ecclesiaste, 111, 1.

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si fabbricherà almeno un altro paradiso terrestre, facendo sof­ frire i miserabili di cui Gesù è il Padre, sostituendo per co­ storo il Giardino delle delizie col giardino delle torture, e so­ stituendo per suo comodo i loro spaventosi lamenti ai cantici infinitamente deliziosi e infinitamente appassionati degli usi­ gnuoli eterni. Indubbiamente, in mancanza del senso dell’udito, ci sa­ rà il senso della vista e, certo, è già qualcosa veder soffrire Gesù nelle sue povere membra; sì, ma sentirlo gemere per boc­ ca dei bambini e delle madri, sentirlo piangere nei vecchi! Che sinfonia incomparabile! e, per il galantuomo, che inferno non poterne essere più inebriato!

LXXI Dove non c’è niente, il re perde i suoi diritti È quello che accade al padrone di casa che ha sostenuto delle spese e non trova niente da prendere. Strana situazione d’un re moderno la cui maestà è così lesa e non ha neppure il mezzo di punire. Se le troppo benigne leggi restrittive del suo potere, che lui ha avuto l’imprudenza di approvare, gli lasciassero almeno il privilegio di arrostire il suo inquilino e di mangiarlo, sarebbe certamente un’insufficiente compensa­ zione, ma non tutto sarebbe perduto. Egli potrebbe credere ancora a quella giustizia immanente che fu la cugina germa­ na del defunto Gambetta* e godere, nel medesimo tempo, d’un po’ di giustizia transitoria. C’è tutto da rifare. Quando la civiltà borghese avrà del tutto trionfato sulla barbarie cristiana, allora finalmente si vedrà rinascere l’antropofagia; però raffinata, perfezionata, sportiva, filantropica per eccellenza, magnificata, e anche in qualche modo soprannaturalizzata da tutti i prodigi dell’arte culinaria, e la tavola del re diventerà eucaristica, per dir così, perché vi si mangerà il Povero. Mi pare già di leggere una gentile lettera così concepita: «Il signore e la signora Ducré301

tin hanno l’onore di invitarvi senza cerimonie a pranzo, ve­ nerdì santo. Sarà servito un superuomo». Allora i diritti del monarca non potranno più essere perduti, giacché l’inquili­ no dichiarato commestibile potrà essere abbattuto molto tem­ po prima che possa avere soltanto la pelle sulle ossa, vale a dire nel preciso momento in cui gli intenditori vedranno in lui un magnifico boccone. Ma quanto siamo ancora lontani da quei giorni felici! LXXII Essere in galera. Essere in onore Non potrebbe essere un doppione, un’inutile tautologia, un pleonasmo? Abbiamo già visto che l’onore è una cosa completamente indefinibile. E allora perché si vuole che sia una ricompensa essere in onore quando si è stato in galera? In che cosa, mi chiedo, può consistere questa remunerazione? Quando fui mandato in galera, sessantasei anni fa, per aver svaligiato la Banca di Francia e assassinato la metà del personale, devo credere che ero in onore come ricompensa della pena che quella brillante operazione m’era costata? Ci mancò un capello che non fossi spedito alla ghigliottina. In questo caso, l’onore sarebbe stato ancora più grande? Non capisco niente; so soltanto questo, che la lingua francese è molto difficile. Quando un accademico o un sociologo mi scri­ ve che ha l’onore di salutarmi, non sono autorizzato a sup­ porre che quest’uomo ha finalmente ottenuto il bagno pena­ le come ricompensa dei suoi lavori e che il suo messaggio m’arriva dalla Caienna o dalla Nuova Caledonia? Devo con­ gratularmi con lui oppure compiangerlo? Prego i miei gentili corrispondenti di mandarmi, con una lettera assicurata, i chia­ rimenti che potranno procurarsi su questo importante ar­ gomento.

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LXXIII Essere in dolce compagnia

Quando vedete un signore a modo entrare dall’armaiuo­ lo, dite pure che è in dolce compagnia. Mi obietterete che que­ sto non ha senso, e così penso anch’io. Ma siamo dei Groen­ landesi e non si può esigere da noi di conoscere tutte le finez­ ze del linguaggio. Si dice che un uomo è in dolce compagnia quando ha un appuntamento galante. Per questo, passa prima dall’ar­ maiuolo, per munirsi di una buona rivoltella. Dal canto suo la donna amata fa altrettanto. Anzi talvolta costei si procura anche un po’ di vetriolo; e abbiamo così una coppia che va allegramente a divertirsi. Fin qui tutto va bene; bisogna cre­ derlo senza cercare di capirlo. Tutti i giornali del mattino e anche della sera vi diranno che questi sono i costumi e non c’è da replicare. Tuttavia c’è dell’altro. Perché si dice che un uomo è in dolce compagnia e perché non si dice mai che una donna è in dolce compagnia? E perché non dire pure che un individuo del­ l’uno o dell’altro sesso, che non abbia appuntamenti, è in cat­ tiva compagnia? Domande senza risposta come tante altre. Una volta ho sognato che a un tale veniva strappata la cotenna e veniva arrostito a fuoco lento. Questo accadeva in Oceania o in Macedonia, non lo so, però credo di ricordare che il paziente era un missionario, che aveva un sorriso di verginella e diceva di essere in dolce compagnia, o qualcosa di equivalente.

LXXIV A la guerre comme à la guerre Fui risvegliato da qualcuno che piangeva nelle tenebre. Certamente mezzanotte era già passata. I due corni della lu303

na calante stavano sopra il mio capo, proprio in fondo alla cupola nera e le stelle, così brillanti all’alba, scintillavano an­ cora freddolosamente sulle frange della Via Lattea. Dapprima sentii soltanto un enorme fastidio. Non è fa­ cile la tenerezza quando siamo mezzo gelati, quando da tem­ po non s’è mangiato nulla. La bestemmia mi stava già per erompere sulle labbra quando, attraverso i lamenti, sentii — per non dimenticarlo mai — questo versetto centrale del MA­ GNIFICAT : Et misericordia ejus a progenie in progenies timentibus eum.121 Nella notte nera e nel gran silenzio polare, tutto questo era così strano che credetti udire qualcosa che non proveniva dalla terra. Dormivamo accanto ai morti e non eravamo troppo si­ curi di essere ancora tra i viventi. Il giorno prima avevamo dovuto combattere, e alcuni, forse i più fortunati, erano an­ dati a cenare all’altro mondo. Tre o quattro gementi, feriti gravemente, erano stati portati via da barellieri, che pareva­ no ombre; e i sopravvissuti della nostra compagnia stavano distesi per terra, con lo stomaco vuoto, in attesa della batta­ glia annunziata per l’indomani. I miei compagni, certamente prima di chiudere gli occhi, s’erano chiesti quale poteva esse­ re veramente il nome del sonno che stavano per prendere. Al­ cuni di essi non si risvegliarono... Timentibus eum... Queste due ultime parole furono pro­ nunziate tre volte, a intervalli regolari, come da un fantasti­ co orologio che avesse suonato le tre, ma ogni volta indebo­ lendo sempre più il suono. Poi silenzio... Si parla talvolta del sudore freddo della morte quando si vuole esprimere la sen­ sazione fisica d’una grande angoscia... Era mio dovere alzarmi e andare verso il compagno ago­ nizzante il cui ultimo pensiero era per Colei che fu generata

121. «E la sua misericordia si estende di progenie in progenie su colo­ ro che lo temono».

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prima delle colline. Vi giunsi non senza difficoltà. Timentibus eum. La misericordia di Dio su coloro che lo temono... Dove stanno?... E dove stava colui che diceva queste parole prima di morire? Finalmente lo vidi. Era un piccolo semina­ rista molto coraggioso che non voleva che gli eretici prussia­ ni diventassero i padroni della Francia. Aveva ricevuto senza lamentarsi una brutta ferita mortale e non c’era nulla da fa­ re. «A la guerre comme à la guerre», mormorò vedendomi, e spirò. Quando sento un Borghese in villeggiatura dire questa povera frase a proposito di un disagio qualunque o di una leccornia di cui è privo, sono costretto a resistere alla tenta­ zione di strangolarlo immediatamente. LXXV

Per tutto c’è un inizio — Come sei grazioso, mio caro Léon, quanto mi sembri bello! Gli almanacchi dicono che sei vecchio, ma a dir la veri­ tà non sembra, e noi donne piene di fiducia attendiamo sem­ pre il tuo inizio, l’inizio della tua gloria. È stata annunziata da tanto tempo! All’epoca già lontanissima in cui la credeva­ mo molto vicina, nacquero dei piccoli uomini che oggi hanno fatto il loro servizio militare e hanno generato dei figli capaci di ammirare Barrés*. Ma c’è un inizio per tutto e non è mai troppo tardi. — Così parlava una delle mie vittime. — Mia dolce bambina, sei in errore, — le ho risposto benevolmente. — Io non sono di quelli che hanno un inizio, e non voglio appartenere a loro perché non voglio essere del numero di coloro il cui destino è quello di finire. Non t’ac­ corgi che in questo modo io posso diventare più simile a Dio che non ha principio e non ha fine? I lurchi borghesi, da cui prendi a prestito il linguaggio, ignorando l’Eternità d’una ignoranza invincibile, e tale ignoranza è attestata formidabil­ mente da questo luogo comune che a te sembra innocente. 305

Se io vedessi cominciare quella che tu chiami stranamente la mia gloria, se la gente si mettesse a leggermi, se i giovani si sradicassero da Barrés* e da qualche altro che gli somiglia per trapiantarsi in me, non capisci che, cessando immediata­ mente d’essere eterno l’insuccesso dei miei libri, sarebbe com­ promessa e rischierebbe di spegnersi la stessa nozione dell’E­ ternità divina, la quale sussiste ancora in qualche cervello? Nello stesso tempo avrei quello che tu chiami un inizio, vale a dire una fine probabile, inevitabile e poco lontana. Da do­ mani, i miei ammiratori più sfegatati mi vedrebbero banale, sciatto, rovinoso, fuori uso, arruginito, usurato come un vec­ chio pastrano, polveroso, senza smalto, incrinato, caduco, spoglio, arcaico, fossile, antidiluviano, preistorico, paleonto­ logico, immemorabile, e peggio ancora, romantico! Meglio cento volte l’oscurità continua, l’oscurità beata, la vergine nera dalle dita di spine che fu sempre la mia com­ pagna e la cui fedeltà mi conferisce una adolescenza eterna! LXXVI

Niente è eterno Identico al precedente. Tuttavia, o Borghese, la tua stu­ pidità ha però il carattere dell’eternità. Non riesco a immagi­ nare, nonostante i miei sforzi, una durata minore e non arri­ vo a concepire un istante di questa durata in cui tu smetterai di essere un imbecille. Soltanto questo deve costringere a cre­ dere all’Eternità divina. Ammesso pure che tu non abbia un’anima immortale — il che appagherebbe i tuoi desideri —, la tua stupidità vaghe­ rebbe ugualmente e per sempre sulla tua miserabile polvere, come lo Spirito Santo sulle ossa dei Martiri. Per quanto ri­ guarda il tuo inizio, non arrivo neppure a discernerlo; cosic­ ché tu mi sembri un prodigio. Sei talmente imbecille, mio povero giovanotto, che sco­ raggi a un tempo la metafisica e la zoologia curiose delle tue 306

origini. I tuoi gesti continuamente automatici e immodifica­ bili e i suoni più o meno articolati che profferisci ti rendono molto simile agli animali che hanno soltanto un’esistenza col­ lettiva, che fanno esattamente quello che facevano i loro an­ tenati, migliaia di anni or sono, senza alcuna educazione o cultura che possa distoglierli da quell’istinto. E per questo, tu sei anche inclassificabile. Sarà perché sei soltanto un’illu­ sione, una specie di cattiva esalazione sprigionata in tempi remoti da quell’angelo detestabile che prefigurò il giusto mez­ zo di Luigi Filippo prima di essere precipitato? LXXVII

Un’aurea mediocrità Il presidente Jules Grévy* aveva da poco inaugurato il Salone dei Champs-Elysées. Mentre usciva disse a coloro che lo accompagnavano: «Questo ci vuole, signori, questo. Niente genio, ma un’aurea mediocrità: ecco quello che ci vuole per la nostra democrazia! ».

LXXVIII Gli estremi si toccano

Queste parole stanno forse a significare che quando sta­ te per perdere la pazienza e sul punto di abbandonarvi a una collera da bestia feroce, uno spiraglio di buon senso vi mo­ stra che non siete il più forte e che lo scoppio della collera sarebbe pericoloso soltanto per voi stessi; allora diventate im­ mediatamente simile a un agnello. Questo è il caso più co­ mune. Ma ci sono molte altre interpretazioni. Per esempio, voi, signora, potete essere a un tempo bel­ lissima e stupidissima. Un finanziere di tutto rispetto può, sen­ za alcun rischio, svignarsela col danaro della sua clientela, 307

nel momento stesso che la proverbiale limpidezza delle sue operazioni viene ricompensata con l’ordine del Toson d’oro. Un uomo politico il cui nome evoca da solo le più memora­ bili infamie, può diventare immediatamente un Aristide, se lo zefiro della virtù gonfia d’un tratto le sue vele in direzione del Vello d’oro. Un illustre scrittore afflitto da una congeni­ ta idiozia può da un giorno all’altro trasformarsi in un uo­ mo di genio, se ha il fiuto di plagiare il manoscritto d’un so­ gnatore morto di fame. Può anche accadere che un accade­ mico di prima grandezza e congestionato di sublime, come Bourget*, si rassegni eroicamente a scrivere soltanto scemen­ ze per non umiliare i suoi colleghi, facendo diventare diffi­ denti i suoi lettori, ecc. Tutti i borghesi vi diranno che tra gli estremi non c’è lo spessore di un capello. E per questo, essi ne hanno orrore e preconizzano la mediocrità, il giusto mezzo, l’aurea medio­ crità, il filo per tagliare il burro, ritenendo, nella loro sag­ gezza, che le talpe non hanno bisogno dell’oculista e che i ranocchi sono esposti ai colpi di sole meno dei liocorni o de­ gli alerioni.122

LXXIX Essere benpensante ovvero Indietreggiare per saltare meglio

Si è benpensanti come un tempo si era un miserabile, vale a dire uno che non mangiava niente o quasi niente. San­ no tutti come sto attento a non mancare di rispetto ad alcu­ no, ma io non riesco a trovare il modo di attribuire un pen­ siero qualunque al conte De Mun*, generalissimo dei Ben­ pensanti da circa un terzo di secolo: individuo paragonabile 122. Specie di aquile senza rostro né artiglio disegnate sugli stemmi araldici.

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soltanto a quel magnifico imbecille dei Due Mondi che fu il marchese di La Fayette e al quale è dedicata a Parigi una stra­ da lunga parecchi chilometri. E si giudichi da questo l’influsso della stampa religiosa sui cattolici attuali comandati da un simile capo! Il suo pia­ no tutto militare e molto più profondo di quel che si possa credere, consiste nell’indietreggiare indefinitamente per sal­ tare meglio. È una meravigliosa strategia. Ecco: siamo in pre­ senza del nemico. Sarebbe forse facile vincerlo slanciandosi decisamente sopra. Le occasioni non sono mancate. Ma una cosa è essere benpensante e un’altra essere temerario, soprat­ tutto quando si possiede danaro e si tiene alla pelle. Il classi­ co temporeggiamento diventa allora necessario. Si indietreg­ gia fieramente e abilmente, abbandonando all’avversario tutto quello che vuole prendere, e all’occorrenza gli si mandano generosamente anche le armi, le munizioni e i disertori, ap­ pena la linea del fuoco comincia a divenire fluttuante. C’è poi la risorsa di divertirlo permettendogli il saccheggio delle case religiose oppure la tortura dei poveri parroci e dei padri di famiglia indifesi. La carità cristiana dei Benpensanti non permette di opporsi con vie di fatto che potrebbero avere de­ gli inconvenienti per loro stessi. Niente divergenze, dicono questi valentuomini, soprattutto niente divergenze sanguino­ se. Non basta lanciare da lontano bombe e obici di protesta legale, d’una indiscutibile efficacia? E infine, se questo non basta, si ha sempre la possibilità di capitolare onorevolmente e di saltare di su i bastioni nel limpido e calmo fiume della propria coscienza, dopo un’abbondante messe di pedate nel di dietro.

LXXX Adempiere ai propri doveri religiosi Il verbo adempiere, sinonimo di riempire, mi conduce a pensare alla botte bucata delle Danaidi. Apologo o similu309

tidine: quelli che adempiono ai propri doveri religiosi, non si trovano forse, in determinati casi, nella condizione di dan- , nati, costretti a compiere qualcosa di cui riconoscono l’inuti- { lità? Per quanto stupidi, questi forzati delle Convenienze e dell’Abitudine, debbono pur rendersi conto che la parola adempiere, usata in questo modo, è una vera irrisione e che in realtà adempiono un bel niente. Essendo vuoti, d’un vuo­ to infinito, come potrebbe qualcosa esser adempiuta, riem­ pita, da loro? Doveri religiosi, doveri mondani, doveri di sta- I to, doveri di cittadini, doveri funebri: tutte botti bucate. Vacuitas vacuitatum. Le persone di mondo che adempiono ai loro doveri religiosi praticando determinati gesti, strettamen­ te indispensabili, senz’essere sfiorati nemmeno per un istante da quest’idea rudimentale che ciò che loro si richiede è la San­ tità in senso stretto, da quali vermi non saranno giudicati — e condannati — nell’estremo giorno? In altri tempi, molto anticamente, quando questo luogo comune non esisteva ancora, si ambiva «alla pienezza dell’e­ tà di Cristo», secondo l’espressione misteriosa dell’Apostolo che ebbe la missione di addottrinare le genti, e che fu egli stesso quel Vaso che non potrà mai esaurirsi. Allora si di­ sprezzava ogni altro genere di pienezza: ci si lasciava fare a pezzi o sbranare dalle bestie feroci e tutte le riserve della gioia che non ha fine si riempivano sotto il torchio eucaristico dei Martiri. Oggi si ha invece la pienezza delle dispense ed anche la pienezza dello stomaco nei giorni di digiuno: vi sono almeno una trentina di uccelli acquatici permessi in Quaresima ed equiparati ai pesci. Vittoria decisiva dell’anitra sul merluzzo, j ma è la povera religione stessa che, ferita a morte, rimane sul campo di battaglia.

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LXXXI

Lavorare è pregare Labiis orare, pregare con le labbra: ecco la probabile eti­ mologia del verbo latino lab-orare che significa lavorare e an­ che soffrire. I cittadini di Babele che fanno uso di questo luo­ go comune non ne hanno alcun dubbio. È vero che la torre di Babele fu costruita due o tremila anni prima della fonda­ zione di Roma e cinque o seimila anni prima della nascita dei professori della Sorbonne, che si sforzano oggi di riedifi­ care la famosa Torre in cui la parola umana sarà sostituita da latrati; ma si tratta di una scusa. Però la lingua, anche devastata e diventata simile a un sepolcro, deve pur aver conservato una qualche forza divina per costringere i più detestabili imbecilli a proclamare la Ve­ rità, proprio come il diavolo è costretto a confessare Gesù Cristo in forza dell’esorcismo! «Io non vado in chiesa, dice il portinaio, perché non avrei il tempo di spazzare le scale o di leggere le lettere degli inquilini, e i giorni in cui potrei andarmi a confessare — inu­ tilmente, perché non ho nulla da rimproverarmi — sono di solito quelli nei quali non posso esimermi dal pulire i luoghi di decenza perché devo ricevere gente». «Voi mi rinfacciate di non servire Dio — esclama il droghiere. — Innanzitutto devo servire i miei clienti, cominciando da voi stesso che mi fate la lezione proprio quando peso il vostro formaggio», ecc. Del resto, lavorare è pregare, affermano l’uno e l’altro, pe­ rentoriamente. Così parlano nelle tenebre della morte tutti questi miserabili, eternamente incapaci di capire che in que­ sto modo oltraggiano se stessi condannandosi senza re­ missione. Ho nominato Babele. Ripenso d’un tratto a quella pro­ digiosa impresa umana che ci è difficile immaginare e che non potè essere interrotta se non dal miracolo della Confusione delle lingue, e mi dico con stupore che i luoghi comuni ci ri­ portano precisamente all’epoca così poco nota che precedet311

te immediatamente la catastrofe. «In quel tempo, dice la Ge­ nesi, sulla terra c’era una sola lingua».123 Non è vero che i luoghi comuni fanno qualcosa di simile e che sono forse real­ mente i materiali di una indistruttibile stupidità che ci servi­ ranno per ricostruire la superba Torre di cui il Signore non ne volle sapere? LXXX1I Il Fanatismo Il Fanatismo consiste nel pronunziare sì o no in qualsia­ si occasione. Non esiste altra definizione. «Sia il vostro par­ lare sì, sì; No, no; tutto quel che vien detto di più proviene dal diavolo». Questa è la formula del fanatismo nel Discor­ so della Montagna. Vedete com’è semplice. Però bisogna saperlo. Quando vi si chiede: Siete cristiano? se rispondete: Sì, senza perifrasi, siete un fanatico; se rispondete: No, siete an­ cora un fanatico. Se non rispondete affatto, sarete sospetto del più pericoloso fanatismo. E sarà lo stesso se si tratta di tutt’altra cosa diversa dalla religione. In genere, il laconismo, la concisione e quindi ogni spe­ cie di precisione è sospetta di fanatismo, e le fascine s’accen­ dono da sé. Un settario capace di vociferare abbondantemen­ te, un avvocato che urla, un deputato loquace e anche ven­ triloquo, un saltimbanco sui suoi attrezzi non saranno mai dei fanatici. Credo che questo non abbia bisogno di dimo­ strazione.

123. Genesi, XI, 1.

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LXXXIII

La parola di Dio

Per allontanare sicuramente il sospetto di fanatismo, i moderni predicatori hanno scoperto quella che essi chiama­ no con tanta modestia la Parola di Dio. Questa consiste nel chiacchierare per ore intere schivando con grande abilità il sì e il no. « Andate a sentire le conferenze del padre Machin — mi si dice —. Se non vi fanno male, non vi faranno neanche be­ ne; però è una maniera di ammazzare il tempo». Docile come un mite agnellino, vado a sentire il padre Machin che è evidentemente il predicatore meno fanatico. Par­ la a lungo e in modo così focoso che si ha sete per lui. So­ prattutto ammiro in lui Γ agilità di gazzella con cui supera gli ostacoli che potrebbero dividerlo dal suo uditorio: i Dodici articoli del Simbolo, la Scrittura, la Tradizione, il culto dei santi, la Penintenza, i Novissimi, soprattutto l’Inferno e al­ tro vecchiume su cui sarebbe ridicolo insistere. La filosofia moderna, quella di Bergson* beninteso, aiuta molto e sosti­ tuisce vantaggiosamente la Rivelazione. Con questa si è sicu­ ri di accattivarsi il pubblico, avendo cura di mescolarvi qual­ che discreta allusione ai benefici della democrazia e alla illu­ minata tolleranza degli attuali governanti, i quali assicurano gli incontestabili e meravigliosi progressi della fede. Neppure una parola sull’Amore divino. È così e non diversamente che viene annunziata la Parola di Dio. Quasi sempre io m’addor­ mento e russo per l’ammirazione. LXXXIV Una vita edificante È quella della signorina Purge che ognuno può incon­ trare, ogni giorno e a tutte le ore, nella chiesa dei santi Inno­ centi. Non ci si stanca di ammirare questa cristiana temuta 313

dal clero della parrocchia e che somiglia esternamente a un esame di coscienza, della tua coscienza, o tiepido fedele! Tra i trentacinque e i sessant’anni, come conviene a quelle vergi­ ni prudenti che, avendo sempre l’olio nelle loro lampade, non hanno bisogno di correre durante la notte dal droghiere, an­ che gli estranei la riconoscono, e credono di averla vista, qui o là, nella loro più lontana infanzia. Le sue vesti fanno pensare alle mura inespugnabili di Ba­ bilonia, su cui la cavalleria assira poteva manovrare a suo bel­ l’agio. Il solo aspetto di questa fortezza della virtù scoraggia i capitani provetti e fa indietreggiare i fantaccini più temerari. Per quanto riguarda il suo aspetto o piuttosto l’espres­ sione del suo volto mobile come un caleidoscopio, c’è un ta­ le conflitto di malumore e di compunzione, una così furiosa mescolanza di estasi e di acrimonia, di zuccherino e di acidu­ lo, di liquore benedettino e di petrolio che è impossibile defi­ nirla con precisione. Un’istantanea di questa persona indefi­ nibile darebbe a chi ha un po’ di immaginazione la sensazio­ ne di una vetrina accozzagliata da bazar metropolitano, in cui tutti gli articoli fossero carissimi e davanti ai quali i com­ pratori tenuti d’occhio dalle guardie si fermassero come pie­ trificati di stupore. La sua voce da maresciallo d’artiglieria, quando un’e­ stranea va ad occupare la sua sedia, assume un tono cristalli­ no di armonica oppure ha la sonorità carezzevole del violino quando recita il rosario o le litanie. Chi non ha sentito que­ sto non ha sentito niente. La signorina Purge vive di rendita ed è proprietaria d’una casa abitata da disgraziati operai che devono invidiare la sorte dei negri. Fu lei che, cacciando una famiglia di misera­ bili, che la supplicavano come avrebbero potuto supplicare il Pic du Midi, diede loro questa risposta corneliana: «An­ che i padroni di casa devono mangiare! ». La chiesa parrocchiale le appartiene come il poligono ap­ partiene agli artiglieri. Il parroco e i vicari tremano davanti a lei, sapendo benissimo che non si potrebbe andare avanti in parrocchia senza questo modello di carità che sta a capo 314

di tutte le opere. Quando lei fa la questua — cosa che accade spessissimo —, ci vorrebbe un coraggio straordinario per sfug­ girle. Ha un modo di tendervi ostinatamente la cassetta e di scuotervela sotto il naso che non ammetta deroghe. Appartiene alla diocesi di Versailles e ha anche organiz­ zato una associazione ginnica, di cui lei fa l’amministratrice, e che Monsignore è venuto a benedire. Mi assicurano che ha in casa un trapezio e che fa esercizi di equilibrio sulle mani e di manubrio tra una funzione e l’altra. Suo padre, ex professore universitario, reso docile da una morte naturale, al quale siamo debitori di una traduzione di Catullo in versi acrostici, le diede il dolce nome di Lesbia che la completa meravigliosamente. Tutta la sua vita è trasparente come il cristallo e perfino adamantina. Sarebbe una pazzia cercare delle avventure di cui lei sarebbe protagonista. Po­ trebbe sposare innumerevoli becchi allettati dal suo danaro, ma la Provvidenza che veglia sulle pecorelle non lo permette, e così il suo posto è nel Comune delle vergini a cui non è mancata che l’occasione o il martirio. Un devoto ascensionista divenuto secolare, forte ama­ tore del pesce fritto e ossessionato dalla concupiscenza degli sguardi, sta scrivendo la sua storia che intitolerà senza dub­ bio Une Vie édifiante e sarà pubblicata con l’imprimatur del Vescovo diocesano e con l’approvazione di parecchi pontefi­ ci. Queste poche righe appassionate gli potranno forse servi­ re da prefazione.

LXXXV

Non saper più a che santo votarsi È un lamento che s’ode in bocca a gente che non crede ai santi e che è incapace di formulare un qualunque deside­ rio di santità personale. A costoro consiglierei sant’Espedito, che ha il vantaggio sugli altri santi di non essere mai esi­ stito. Questo preteso martire, la cui storia è introvabile, fu 315

inventato secondo me negli ultimi venti anni del secolo scor­ so. Lo si invocava per gli affari che non andavano avanti e per i quali si desiderava una rapida conclusione. Una pia immagine, che si vedeva in una bottega d’arti­ coli religiosi, nei pressi del Bon Marche, lo rappresentava con in mano una spada, sulla cui lama stava scritta la parola HODIE, oggi, e col piede su un corvo nero che esalava su una striscia svolazzante l’odioso avverbio CRAS, domani. Se dun­ que la gente aveva una scadenza di cambiale per oggi, veniva immediatamente tratta d’impaccio da sant’Espedito. Così se il treno faceva ritardo e si aveva bisogno di arrivare quel gior­ no stesso, bastava invocare sant’Espedito e si poteva essere sicuri di vedere il treno entrare nella stazione d’arrivo a mez­ zanotte meno cinque. Se una bricconeria si mostrava infrut­ tuosa dopo il tramonto, sant’Espedito interveniva subito. Così per tutte le cose e finanche per le più banali. Un pugno in piena faccia o una pedata giungeva con la stessa velocità di una lettera assicurata o di una donna da marciapiede; e il cor­ vo sinistro spirava gracidando domani. È un vero peccato che l’autorità ecclesiastica abbia con­ dannata questa devozione così adeguata all’intelligenza e al­ la capacità dei nostri borghesi! LXXXVI L’uomo propone e Dio dispone Il signor Miasme propone un grosso affare della porta­ ta degli americani, che deve fruttare dal milleseicento al mil­ leottocento per cento e accrescere il numero dei decessi in pro­ porzioni mai conosciute. I poveri saranno spazzati via in una maniera prodigiosa, mai sospettata fino a oggi. Ma Dio di­ spone d’un insetto terribile, il pavor participum praedae de­ gli entomologi, conosciuto col nome volgare di fifa degli azio­ nisti, il quale si attacca particolarmente al diaframma e alle 316

mucose, e così la colossale combinazione del signor Miasme fallisce immediatamente. Il signor Emile Combes*, cugino del signor Miasme, pro­ pose la demolizione della Chiesa, ma una tegola, disposta dal­ la mano di Dio, gli cadde sulla testa, e si spera di non salvar­ lo. Stamattina m’hanno detto che ha soltanto pochi giorni di vita.

LXXXVII

Atteso come il Messia Si sa che nessuno, neppure tra gli ebrei, attende il Mes­ sia. Però nella società borghese, si è attesi come il Messia, quando si è indispensabili, e restituiti come un lavamano quando non si è più utili. LXXXVIII Chi dà ai poveri presta a Dio

Ci pensate? È la situazione più pericolosa. Chi dice pre­ statore dice creditore. Il nemico mortale del creditore è il de­ bitore. La conseguenza è spaventosa. Dando ai poveri, ci si espone all’inimicizia di Dio, perché si presta a lui. Dunque non bisogna mai donare ai poveri, se si vuole conservare l’a­ micizia di Dio. Bisogna guardarsi dal far l’elemosina come dall’aspide e dal basilisco. La cosa salta all’occhio. Però, poi­ ché il contrario di una massima deve avere anche delle con­ seguenze, è evidente che il mezzo più sicuro di diventare amico di Dio, è spogliare i poveri il più possibile. Facendo così, si è certi d’avere Dio dalla propria parte e di farsi ammirare dai galantuomini; come volevasi dimostrare.

317

LXXXIX Nessuna nuova, buona nuova Nel mio Journal, in data 23 dicembre 1889, trovo: «Nessuna nuova, buona nuova, dice un eterno luogo co­ mune. Sottoscrivo volentieri questa frase possente. Intanto se l’assenza di notizie dell’amico X significa che tutto va be­ ne per lui, devo necessariamente concludere che una notizia, anche eccellente, di questo carissimo amico, proverebbe che tutto va male e che molte notizie, buone o cattive, potrebbe­ ro far temere una catastrofe. Niente di più chiaro. Eppure diventa un ragionamento infantile, perché alla fine, se certe notizie non possono essere buone se non a patto di non esistere — giacché si dice che le buone notizie potrebbero solo scaturire dal niente di una qualsiasi notizia —, non è meno assurdo supporne delle cat­ tive, giacché queste cattive non sarebbero e non potrebbero essere delle notizie — dato che, come ci si accanisce a dimo­ strare la natura, l’essenza stessa della notizia è di non essere buona, altrimenti bisognerebbe tacerle a ogni costo, oppure di non essere cattive, e questo costringerebbe a dichiararle — il che è assolutamente impossibile. Per avvalorare la mia dimostrazione, aggiungo che i ru­ scelli formano i grandi fiumi, che l’abito non fa il monaco, che bisogna mangiare per vivere e urlare con i lupi, infine che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, e che non è mai troppo tardi per fare il bene, ecc.». Ecco che la cosa è chiara e bisogna rinunziare all’eserci­ zio della ragione, oppure concludere in buona fede che tutto va bene per i morti, dal momento che essi non ci danno mai notizie. Dunque è completamente inutile pregare per loro, co­ me ha ben capito il Borghese. Mi direte che non c’è servizio postale tra questo e l’altro mondo, e che quindi non ci può essere scambio di notizie. Certo, ma non vi accorgete che se fosse diversamente, questo luogo comune sarebbe ancor più evidente ed espressivo? 318

Se, per esempio, si venisse a sapere che un galantuomo è tormentato nelle fiamme, com’è scritto d’un certo ricco nel Vangelo di san Luca, poiché la notizia sarebbe cattiva e so­ prattutto inquietante per gli altri galantuomini, bisognerebbe considerarla come non data: 1) per renderla più buona pos­ sibile; 2) per salvare l’infallibilità del luogo comune; 3) per­ ché in nessuna parte sta scritto che i galantuomini sono dei fricandò. D’altronde, lo ripeto ancora una volta, i morti non man­ dano messaggi. Una bella notte d’inverno, tremavo per il fred­ do davanti a un fuoco miserello che stava per spegnersi. Non avevo legna, non avevo carbone, non avevo fiammiferi, non avevo danaro, non avevo alcuna notizia. Mi addormentai nel sonno pauroso di quelli che soffrono il freddo, la fame e tutti i guai possibili, quando vidi comparire un cosciotto, uno di quei magnifici cosciotti all’aglio, come se ne mangiano nel mio Périgord o altrove, con o senza notizie degli assenti o dei de­ funti. Era un sogno, sia pure; però non era completamente un sogno. Riconobbi quel cosciotto. Era il cosciotto norman­ no che quindici anni prima era stato servito a un grande scrit­ tore amico mio su uno scoglio del Cotentin. Quel convitato, dopo averne preso qualche fetta e dimenticando che ci sono dei poveri, diede l’enorme pezzo di carne al cane dell’albergo per godersi lo spettacolo dello stupore della povera gente se­ duta nelle vicinanze. Molto tempo dopo, rideva ancora... L’ho visto morire. Mentre stava spirando, due rivoli di lacrime scorrevano dai suoi occhi. Da ventiquattro anni so­ no senza notizie della sua povera anima, e vi lascio immagi­ nare se questo silenzio mi rassicura.

XC

Rendere chiara la propria religione Un magistrato eminente, un usciere schifoso, un cittadi­ no qualsiasi, dicono volentieri: «Vi rendo chiara la mia reli­ 319

gione, non voglio lasciar fraintendere la mia religione; la re­ ligione di Hanotaux* è stata fraintesa; ecc. ». E come questa ci sono ben altre cose che vengono pronunciate senza pen­ sarci e che è risultato impossibile capire. Non fate conto su di me per spiegarvi quest’ultima. Tutto quello che le mie ri­ cerche pazienti mi hanno permesso di individuare è che una religione che necessita di essere rischiarata è una religione nelle tenebre e che la stessa religione privata della luce può facil­ mente essere fraintesa. Desidero ardentemente che questa trovata vi accontenti, ma mi sembra ben lungi dall’essere decisiva. Essendo un uo­ mo di estrema semplicità, ho sempre pensato che la religione si rischiarava da sola, senza alcun bisogno che la si rendesse chiara e la religione oscura di un giudice di pace o di un com­ missario di polizia, che può essere fraintesa, mi sembra una cosa ancor più sorprendente per il fatto che questi personag­ gi tutti di un pezzo, molte volte, si dichiarano senza religio­ ne. A questo punto non mi ci raccapezzo più. Una ragazza di pregio da me conosciuta che si guada­ gna da vivere sul marciapiede, mi ha fornito benevolmente questa chiosa: «Nel nostro mestiere diciamo che siamo rese chiare dal riflesso delle monete nell’oscurità della notte, quan­ do un cliente ci paga e il fatto, credetemi pure, non ci impe­ disce di avere una religione. Scrivete quel che vi ho detto in tutta semplicità, mio caro signore, e non vi fate cattivo san­ gue. Se importanti individui molto rispettabili volessero esse­ re sinceri, vi direbbero esattamente la stessa cosa».

XCI Fare due centri con la stessa pietra ovvero Prendere due piccioni con una fava Era probabilmente l’intenzione di ognuno di quelli che lapidavano santo Stefano. Questione di rimbalzello. Rovina­ 320

re due famiglie insieme con una sola operazione comun i, m le; ottenere un ministero e la maledizione della gente pei In ne; espellere le suore ospedaliere condannando i vecchi a ino rire di fame e di miseria; pubblicare un manuale scolastico che abbia il doppio effetto di corrompere e di rincretinire fin fanzia; scrivere un libro stupido che sarà immancabilmente premiato da un’accademia e subito dopo dall’ammirazione degli imbecilli; uccidere la propria anima e quella degli altri con l’infallibile procedura del divorzio: tutte queste pratiche e molte altre, che sarebbe noioso enumerare, sono quello che si chiama prendere due piccioni con una fava oppure fare due centri con la stessa pietra, e farne anche di più a seconda del­ l’eventuale destrezza del lapidatore. XCII

Prendere parte al lutto di qualcuno

È il ritorno ai primi tempi del cristianesimo: «Tutti colo­ ro che credevano stavano insieme e avevano ogni loro cosa in comune. Essi vendevano le loro proprietà e i loro beni e ne di­ stribuivano il ricavato fra tutti, secondo il bisogno di ciascu­ no, ecc. ». Così scrive san Luca nel secondo capitolo degli At­ ti.124 Si crederebbe che questo sia stato scritto da poco e che l’inchiostro non abbia avuto neppure il tempo di asciugarsi. Voi avete il dolore di perdere vostra moglie, come tal­ volta accade. Appena inviate le partecipazioni e se siete una persona ragguardevole vedrete arrivare subito e d’ogni parte lettere inzuppate di lacrime di un mucchio di amici, ai quali non avevate mai pensato e che dichiarano di prendere parte vivissima al vostro dolore. Poiché vi danno l’assicurazione della loro assoluta devozione, non vi resta che usarne imme­ diatamente, e sarete certamente meravigliati dell’esperienza.

124. Atti degli Apostoli, II, 44-45.

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Lo ripeto: è il ritorno ai tempi apostolici. Oggi siamo talmente amati da tutti che la mano non basta più per tante lettere di compassione e bisognerebbe inventare una macchi­ na dattilografica capace di esprimere tutti i sentimenti dei cuori. Abitate invece al settimo piano e avete bisogno di dana­ ro? Il più vicino milionario, informato da voi di questa ne­ cessità, metterà in moto la sua macchina dattilografica e voi verrete subito a sapere che lui prende parte al vostro disagio — una parte incredibile — fino al punto di sentirne un vivo rincrescimento, però gli è materialmente impossibile fare qual­ che cosa, fosse anche un prestito di cento soldi, perché il gior­ no prima ha dovuto pagare quarantacinquemila franchi al suo tappezziere. Questo contrattempo increscioso non gli impe­ disce di volervi bene e il dispiacere che ne ha dovrebbe con­ solarvi. D’ogni parte vi sarà data la stessa risposta e voi prove­ rete così Γimmenso amore da cui siete circondato. Anche il vostro padrone di casa, per attestarvi il suo grandissimo in­ teresse, vi aumenterà il fitto. E tutta la roba vostra, tutto quel­ lo che vi appartiene sarà messo in comune, e ognuno pren­ derà una parte abbondante dei vostri brandelli, e voi crede­ rete di stare in mezzo ai primi cristiani.

xeni Servo vostro e di tutto cuore!

Chi potrà dire il posto immenso che ha il cuore nelle va­ rie forme del linguaggio dei galantuomini? Ho ricordato già che il Cuore d’oro125 è un privilegio inestimabile e non ci ri­ torno su, perché l’argomento mi sembra esaurito. Adesso ho davanti soltanto questa locuzione che ha l’aria d’una banale

125. Cfr. XL, Avere un cuore d’oro, II, pp. 264.

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frase protocollare, ma che esprime benissimo quello clic vuol dire: esprime con grande esattezza e con poche parole la me ravigliosa fratellanza che ci consuma. Ed è commovente il lai to che l’uso di questo luogo comune è universale e ricorre in ogni circostanza. Non lo si può evitare, tanto le anime so­ no piene d’amore! Scriviate alla vostra amante o al vostro pedicure, queste parole si formeranno naturalmente sotto il pennino e avrete bisogno di uno sforzo dell’immaginazione per trovarne altre. Sublime epoca la nostra, in cui non esiste più altra posizione sociale che quella di amico di tutto cuore o di amante di tutto cuore di tutti!

XCIV Altro è promettere e altro è mantenere

Due altre cose come? mi chiederete. Bella domanda! Due movimenti del cuore, naturalmente. Si promette per far pia­ cere, per dare speranza e gioia, e questo perché talvolta è van­ taggioso. Lo sanno i deputati, e gli speculatori non l’ignora­ no. Si promettono grossi dividendi a coloro che vorrebbero concorrere con il loro danaro alla patriottica coltivazione e diffusione del pero. Gli azionisti contenti potranno attendere i risultati sotto l’olmo del loro villaggio. Il secondo movimento non è meno bello del primo. Si mantiene certamente qualche cosa ma nel senso di detenerla e si sta attenti a non lasciarla. Piuttosto ci si farà ammazza­ re. È la frase eroica. Si è depositari di ciò che costituisce la felicità degli altri e, se è necessario, si spingerà la fedeltà fino a correre in capo al mondo per conservare intatto il deposi­ to. Tutto questo non avviene senza inquietudini, ma la co­ scienza è decisamente olezzante, perché si è dato, sia pure per pochi giorni, a qualche uomo, ciò che c’è di più prezioso, vale a dire la Speranza che è una delle tre virtù teologali, per mezzo della quale siamo sicuri di possedere Dio. 323

xcv Avere delle speranze Ecco un plurale molto singolare, e forse stupirei qualcu­ no se gli dicessi che l’uomo che ha delle speranze è in condi­ zione migliore degli altri di osservare il quarto comandamen­ to. «Onorerai tuo padre e tua madre per vivere lungamen­ te». Tuttavia la cosa è semplicissima. I vecchi genitori hanno del danaro e voi siete gli unici eredi. Questo, nel linguaggio aulico, si chiama avere delle spe­ ranze. Amandoli con tenerezza e non avendo più molte illu­ sioni su questa valle di lacrime, desiderate naturalmente la fine del loro esilio, visto e considerato che spetta a voi porta­ re ora il loro fardello. Niente di più filiale. Nel medesimo tem­ po voi li onorate nel modo più eccellente, giudicandoli ma­ turi per la beatitudine e la gloria del paradiso. Se non ci fos­ sero tanti pregiudizi, tanti ostacoli umani, tante leggi — par­ liamoci chiaro —, forse vi decidereste, per pietà e con un di­ sinteresse cartaginese, ad affrettare la loro partenza, sicuri, dopo una simile impresa, di diventare almeno centenari. Sa­ rebbe bello, ma anche mal compreso. Nel 1870, un bravo parroco di campagna presso il quale alloggiavo, mi raccontò, non senza raccapriccio, che nella sua parrocchia e nelle parrocchie vicine, tutti i contadini erano parricidi. Quando un vecchio non era più buono a nulla, lo si spacciava senza violenza, dandogli da mangiare cose noci­ ve, esponendolo al caldo e al freddo, mettendo il piolo mar­ cio alla scala, procurandogli una caduta qualunque; talvolta, ma più raramente, appendendo una falce tagliente a un chiodo tentennante proprio al di sopra del suo letto. Il procedimen­ to più pratico e più semplice consisteva nel farlo crepare di fame e di freddo per la strada. Il povero prete, terrorizzato da queste cose, non avrebbe capito nulla delle mie spiegazio­ ni evangeliche e per questo mi astenni dall’offrirgliele.

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XCVI Fare una bella morte Il più dotto dei dizionari afferma che questo luogo co­ mune significa: morire di morte naturale. Un bel passo avanti! Dunque ci può essere anche il caso di una morte soprannatu­ rale-, ma pare difficile precisarlo, soprattutto nella società bor­ ghese, dove non ho avuto mai occasione di osservarlo. Di solito si muore di malattia e, fino a quando non sarà abolito il significato delle parole, crederò che ogni malattia fisica è naturale. Il colera, la febbre gialla, l’apoplessia, la rabbia e, senza eccezione, tutte le malattie che possono pro­ curare la morte sono del tutto naturali. Similmente, se siete schiacciato da un autobus o se un comignolo vi cade sulla testa, è naturale che ne segua la morte. Lo stesso, se siete av­ velenato, se siete colpito da una rivoltella, o da un pugnale, se siete annegato o ghigliottinato. Impossibile esprimersi di­ versamente. Allora bisogna concludere che ognuno muore di morte naturale, vale a dire della sua bella morte, e che tutti fanno una bella morte, sia Thiers*, vittima di un’indigestione di fa­ gioli, che il nostro Emile Zola*, asfissiato negli escrementi dei suoi cani; e se siete un po’ nell’Assoluto, riconoscerete la più bella morte possibile, quella che conveniva meglio ai loro eccezionali meriti di pensatori e di storici.

XCVII

Perdersi in congetture

Dopo la bella morte, coloro che hanno tempo possono abbandonarsi a infinite congetture sulla sorte futura, o già realizzata, dei defunti. Se si pensa a un’altra vita, non c’è nien­ te di più facile e ragionevole che supporla gloriosa o beata, a condizione però che il morto abbia avuto la precauzione 325

di guadagnare molto danaro prima di morire. Però ci sono anche delle persone malinconiche e puntigliose, dei fanatici insomma, i quali ostentano rozzamente di non esserne trop­ po sicuri e formulano a questo riguardo le più disgustose con­ getture. Lasciamo tutto questo caso e torniamo sulla terra. C’è il grave problema dell’eredità materiale che procura già non poche seccature ai presunti eredi e offre ai notai l’occasione di inchiostrare, con gran vantaggio per loro, il più fetido fo­ glio di carta. Però nel caso di certi morti come Zola*, Paul Bourget* o cinquanta altri che sono stati i dominatori lette­ rari, c’è il problema, indubbiamente minore ma sempre gra­ vissimo, della successione intellettuale: e questo dà luogo a congetture nelle quali è facile perdersi. Alcuni si convince­ ranno che la farsa della gloria di questi scrittori continuerà in eterno. Altri, al contrario, meno pii, crederanno che i loro libri finiranno immediatamente nei gabinetti o nelle salume­ rie: cosa che pare già avvenuta per il grande Zola*. Altri an­ cora, forse incapaci di un qualsiasi intendimento letterario, sogneranno una selezione sicuramente imprevedibile da tutti gli angeli di luce. La gente si perderà subito in congetture, come se si fos­ se alla vigilia della fine del mondo, quando tutti i borghesi smarriti e atterriti andranno qua e là dicendo agli uomini e agli animali immondi: «Che succede? Che faremo? Dove met­ teremo il nostro amabile danaro che è costato tante lacrime e talvolta tanto sangue ai poveri idioti che ponevano la loro fiducia in Dio? Queste montagne che minacciano di cadere sopra di noi, offriranno alla nostra angoscia dei nascondigli sicuri? E queste semoventi colline che accorrono dall’orizzonte potranno servirci da cassaforte? Come uscire da questo de­ dalo di congetture?». E forse allora, un pietoso vulcano risponderà loro: «Af­ fidatevi a me e gettatevi nel mio cratere; io sono la tomba dei segreti dei morti».

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I

I

XCVIII A mali estremi rimedi estremi Tutti i galantuomini vi diranno che i mali estremi sono la rovina e la perdita della salute, quando, beninteso, riguar­ dano noi soli. Nel primo caso, bisogna rifarsi in qualche mo­ do, a spese di chiunque, e tutti i mezzi sono buoni. È una cosa elementare, perché il galantuomo, come ho notato già molte altre volte, è separato dalla galera soltanto da una pa­ ratia molto sottile. Nel secondo caso, vale a dire, se uno è diventato paralitico o rincretinito, non resta che il suicidio. Questi sono i rimedi estremi. Gli altri mali, di qualsiasi gene­ re, non sono a paragone che piccoli mali e non richiedono che piccoli rimedi. Per i mali altrui poi, piccoli o grandi che siano, sarebbe ridicolo pensare di rimediarvi. Ci sono cose più importanti da fare. Ognuno per sé e il buon Dio per tutti. Anzi spesso è utile aggravarli con astuzia. « Il profitto dell’uno è il danno dell’altro» ha detto Montaigne che era un pensatore d’una incomparabile fermezza.

XCIX

La scienza non ha detto l’ultima parola

Sarebbe difficile precisare l’epoca in cui ha detto la pri­ ma. Saremmo tentati di credere che si tratti di un’epoca dia­ bolicamente antica, e questa parola diabolicamente, che ci ri­ corda il racconto della Genesi, qui sta proprio al suo posto. Gli attuali scienziati poco favorevoli a Mosè e niente affatto spaventati dalle cifre, parlano, non discordando molto tra lo­ ro, di parecchie centinaia di migliaia di anni a proposito del­ la data approssimativa di questa prima parola; e la vita è trop­ po breve per verificare i loro computi. Detto tra noi, preferirei che la scienza non avesse detto 327

mai la sua prima parola, convinto che oggi saremmo meno ignoranti e molto meno bestie. Ma questa è un’opinione per­ sonale che non impegna né i membri dell’Istituto né i profes­ sori della Sorbonne. Ma io temo più di tutto l’ultima parola della scienza, la quale ha per natura un invincibile orrore per le manifestazioni scatologiche. C Non parlo a caso

Così di solito si dice quando si vuole suffragare, avendo co­ me testimone la propria coscienza, un’abominevole calunnia. In tal modo si dà a intendere di sapere benissimo quel che si vuole e che si dice esattamente quello che bisogna dire, senza una parola in più e senza una parola in meno. In questo ca­ so, si è così potentemente dominati dal generoso sentimento d’una implacabile giustizia da bestemmiare, senza saperlo, il solo Dio che abbia ancora oggi i suoi adoratori: l’onnipoten­ te, l’eterno, Γincomprensibile Caso che ha fatto tutto e al qua­ le tutto è dovuto, il caso felice, il caso provvidenziale, il caso delle battaglie, il caso del giuoco, il caso del mangiare, il ca­ so che punisce, il caso che ricompensa, z7 puro caso insomma. Con una sicurezza e una tranquilla empietà che fanno fremere, si dichiara che non si parla a caso·, il che è il rinne­ gamento ben chiaro. A chi o a che, mi chiedo, si oserà parlare, se non si par­ la a caso? Che cosa resterà agli oratori parlamentari o non parlamentari, ai predicatori quaresimali, agli avvocati, ai con­ ferenzieri, ai professori di filosofia o di morale, agli storici, agli scienziati, ai medici, ai veterinari, agli psicologi, ai so­ ciologi, ai pagliacci da fiera e infine ai giornalisti senza dei quali non potremmo vivere? Non parlare a caso!... Vorrei avere il potere di far senti­ re la terrificante enormità di questa bestemmia. 328

CI Non sono nato ieri

Ho notato che questa affermazione è frequente tra gli idioti dalla nascita. Essi vogliono che si sappia che loro han­ no una grande esperienza delle cose del mondo e che difficil­ mente li si potrebbe ingannare. Chiedete loro che cosa inten­ dono per ieri, e vi tratteranno da buffoni e vi parleranno del sole e della luna. Giudicandovi un ingenuo, vi proporranno forse una non casuale partita a carte o una sfida a bigliardo, per mostrarvi la loro competenza in quei giochi. Se mai per­ deranno, metteranno questo sul conto del Caso, il quale ha aperto un credito per loro, e non insisteranno per pagare le consumazioni. — Perché dunque piangi come un vitello? — chiede la guardia campestre a un abitante della sua circoscrizione che geme sul ciglio della strada. — Mia moglie mi fa becco —, risponde l’interpellato piangendo più forte. — Ah, e da quan­ to tempo? — Da otto giorni. La guardia campestre che non è nata ieri e che ha una grande conoscenza delle cose, essendo stato postino comu­ nale, così gli parla: — Da otto giorni soltanto e piangi? Io lo sono da trentacinque anni; basta che ci salti fuori il torna­ conto e poi che sono trentacinque anni a paragone dell’e­ ternità?

CII Il tempo passato non ritorna più Qui bisogna stare attenti; stiamo per camminare su co­ de di vipere. Spesso si sente dire: Un tale non mi torna a ge­ nio. Ha un volto che non mi torna a genio. Probabilmente si vuol dire di nutrire un ribrezzo per la sua faccia e che si desidera che non torni quando se n’è andato. Questo grazio329

so modo di dire si può applicare al tempo passato? Sarei ten­ tato di crederlo, dal tono perentorio e dalla voce brusca dei nostri borghesi quando dicono: «Quello che è accaduto è ac­ caduto, e non parliamone più». Il passato di solito li infasti­ disce visibilmente. Certo hanno avuto delle ore liete, e possono evocare il ricordo di vecchi scherzi che tornarono graditi; però in gene­ re preferiscono non guardare il passato da questo lato. La loro coscienza ha un bell’essere morta, però guizza ancora un po’ quando, per esempio, si fa allusione all’origine di certe fortune, quando si parla di certi morti ai quali non fu data una degna sepoltura, quando questo o quell’avvenimento con­ temporaneo ne richiama un altro con troppa precisione. Bi­ sognerebbe poter dimenticare tutto. L’immagine del passato non ritorna più ai galantuomini, precisamente perché ritorna troppo distintamente. Ed è per questo che si son dati tanto da fare per sfalsare e sfigurare la Storia; il passato delle na­ zioni moderne è importuno quanto il passato degli individui. «Alla svolta di un sentiero una carogna infame» ha scrit­ to Baudelaire*.126 Ecco quello che abbiamo fatto delle più belle cose d’un tempo. È preferibile chiudere gli occhi e tu­ rarsi il naso. Gli assassini non amano il confronto, e quella carogna appare in tutti i loro specchi. Tuttavia una voce mi­ steriosa dice loro che il passato resta sempre, che ritornerà, nonostante tutto, alla Fine dei tempi, che tornerà sopra di loro, checché facciano, e tornerà non già sotto quegli aspetti di derelizione e di ignominia spaventose immaginate dai poe­ ti, ma con la sua vera figura infinitamente grave, seria, im­ placabile, accompagnata dalla coscienza miracolosamente ri­ sorta degli uni e degli altri.

126. È il terzo verso di «Une charogne», poema delle Fleurs du Ma! (1857).

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cm Da che mondo è mondo A quale cronologia si fa appello quando si parla così? e quale idea ci si forma di un mondo che avrebbe potuto co­ minciare in epoca immemorabile, ma necessariamente impre­ cisa, in cui ognuno immagina il punto iniziale dei pensieri e dei sentimenti che crede di avere? Da che mondo è mondo, si è sempre fatta questa o quella cosa, si è sempre creduto questo o quello. È il livello intellettuale del cantoniere che crede che si sono sempre spaccate le pietre come fa lui, su tutte le strade dell’antico e del nuovo mondo; il concetto del giudice incapace di immaginare che nel corso dei secoli ci sia stato un momento in cui non c’era bisogno di leggi penali e di magistrati esperti per la loro applicazione. Quel che si vede s’è sempre visto, così si dice in alto e in basso della sca­ la sociale; e questo luogo comune non ha altro senso. Si sot­ tintende che ciò si vedrà sempre, poiché Dio non ha il per­ messo di fare cose nuove. Benissimo; ma noi continuiamo a ignorare che cos’è que­ sto mondo che è sempre il mondo e di cui si parla in maniera così assoluta. Il Vangelo dice che un giorno «la tribolazione sarà così grande come non se n’è mai vista dal principio del mondo e non si vedrà mai». Questa affermazione non man­ da espressamente a spasso i cantonieri e i giudici, ma infirma la loro testimonianza quanto alla permanenza e al ne varie­ tur di un mondo che può essere sconvolto in un istante e non avere più l’aspetto di mondo. Ora, considerando la minacciosa e misteriosa importu­ nità dei vecchi vocaboli scaglionati sulla strada di Tebe quando si torna stupiti e umiliati, dal Paradiso perduto, io penso che la spiegazione di questo luogo comune è semplicissima se ci ricordiamo che nel senso mistico il mondo significa l’impero del Diavolo. E così tutto diventa immediatamente chiaro. «Da che il demonio è demonio», ci sono i doveri del mondo, le persone di mondo, gli imbecilli che vanno nel mon331

do e la strada è di tutti; c’è il gran mondo, il mondo borghe­ se, il mondo dei dotti, il mondo dei letterati, il mondo catto­ lico, il mondo delle cortigiane; c’è anche Le Monde illustré e la gente di mondo esente dall’eroismo e dalla dispepsia non ha l’impressione di morire. CIV

Dove andiamo? Novantanove volte su cento risponderei sicuramente che andiamo al diavolo; e non sarei smentito che da un piccolis­ simo gruppo di sacrestani vagabondi che vorrebbero farsi cre­ dere gente di mondo affettando maniere gentili. Sì, amici miei, andiamo tutti al diavolo e ci troviamo in un treno rapido. Poiché i viaggiatori non devono ritornare, c’è una sola stra­ da senza segnali, e quindi non c’è da temere tamponamenti. Non resisto alla tentazione di citare una pagina del mio Désespère pubblicato nel 1887: « In una inqualificabile libreria di rue de Sèvres si vende questo Indicateur de la ligne du Ciel. La prima pagina offre la consolante visione d’un treno che sta per imboccare una galleria, aperta in una piccola montagna seminata di tombe. È la galleria della morte, oltre la quale si trova il cielo, l’E­ ternità beata, la «Festa del paradiso». Queste cose sono spie­ gate in tre paginette fitte di quella scrittura squisitamente gio­ viale che il giornale Le Pèlerin ha diffuso fino agli estremi confini del mondo e che sembra l’ultima fluida espressione letteraria della salivosa caducità del cristianesimo. Si acqui­ sta un biglietto senza ritorno alla grata della Penitenza, si paga con opere buone che servono anche come bagaglio; non esi­ stono vagoni letto, e i treni più rapidi sono proprio quelli nei quali si sta peggio. Infine due locomotive: l’amore in testa e il timore in coda. In vettura, signori, si parte». Il foglietto non diceva niente delle signore, che forse era­ no salite per prime. Oggi è press’a poco lo stesso, ma si è 332

cambiato il percorso e la meta non è la stessa. Inoltre sono state introdotte alcune modifiche. Così lo scompartimento, probabilmente destinato alle signore non accompagnate, è sta­ to soppresso in seguito alle lamentele ben motivate e per evi­ tare scandalo. Sono stati aggiunti dei vagoni letto, dove si dorme benissimo. È stato creato un corridoio dove si è pre­ gati di passeggiare completamente nudi se il caldo è insop­ portabile, cosa che permette, anche ai più miopi, di verificare il felice sviluppo a cui hanno contribuito gli allenamenti sportivi per il miglioramento della razza. I giornali, nei gior­ ni scorsi, hanno segnalato la balda prestanza dei ginnasti di Seine-et-Oise e degli aeronauti dell’ultimo concorso che era­ no insieme alla partenza e si incitavano con grida perfetta­ mente simili, nella imitazione, a quelle degli animali selvati­ ci. Infine è stata soppressa quell’assurda locomotiva in coda, dimostratasi già da molto tempo perfettamente inutile. Così, oggi, possiamo andare comodamente al diavolo e anche a tutti i diavoli. Hanno voglia di fare dei supplementi ai treni già esistenti: sono sempre affollati e, a tutte le stazio­ ni, bisogna rifiutare altri viaggiatori. Mi hanno anche parla­ to di un convegno straordinario dove parecchi arcivescovi si sarebbero fatti iscrivere. CV

Aver danaro Avete letto Le Consulat et l’Empire di Thiers?* In que­ sta storia, d’altronde inesatta, della più grande epoca del mon­ do, pare che il danaro occupi il primo posto. L’imbarazzan­ te problema finanziario va di pari passo con l’eroismo e con la vittoria. Napoleone aveva danaro! e ne dispensava prodigamente ai suoi servi spesso infedeli. Questo fatto ipotizza Thiers che fa il conto di tutte le somme versate a ogni generale della grande Armata, dopo la meravigliosa campagna del 1805. 333

Thiers sa a quali lettori si rivolge e offre quello che può esse­ re loro utile, perché meglio d’ogni altro e per esperienza per­ sonale, è un competente estimatore della quantità di danaro con cui conviene ricompensare il merito e remunerare la gloria.

CVI

Conosco solo il danaro

Certamente, immondo droghiere, vorresti che il danaro conoscesse soltanto te. Ma esso ne conosce molti altri che val­ gono quanto te, e tu sei troppo stupido per trattenerlo nella tua bottega. Inventa dunque qualcosa, bestia: fosse pure un unguento o un grasso per ungere gli uscieri e i cani rognosi. Con l’aiuto della pubblicità, forse vedrai arrivarti un po’ più di danaro, di quel caro danaro, di quel diletto danaro che tu credi di conoscere, con esclusione di tutto ciò che può es­ sere conosciuto; quel danaro col quale tu vai a letto, col quale riposi, la cui visione popola i tuoi ignobili sogni e che riem­ pie tutto il tuo sozzo cuore! Pochi momenti fa, un affamato ti supplicava, per amor di Dio, di dargli dei rimasugli invendibili, rimasugli che gli avrebbero forse impedito di morire. Tu gli hai risposto che conoscevi soltanto il danaro; e la tua degna moglie minacciò di chiamare la polizia; quel povero se n’andò maledicendovi. Questo non ti importa, mi dirai. Però, è probabile che quel mendicante fosse Gesù Cristo, che si traveste ordinariamente così e che è significato simbolicamente dall’Argento nelle di­ vine Scritture.127 — Sono io l’Argento, — ti dirà un giorno, — e non ti conosco.

127. Cfr. n. 6, I, p. 43.

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CVII

Non sputo sul danaro

Dunque è più difficile sputare sul danaro che sulla Fac­ cia del Figlio di Dio? Ci sarebbe da crederlo. Gli estatici hanno visto scorrere su quella Faccia gli orribili sputi della feccia di Gerusalemme. Gli adoratori del danaro non hanno mai vi­ sto uno sputo su una moneta da cento soldi. Se questa mo­ neta cadesse neH’immondizia, essi la raccoglierebbero piamen­ te e la pulirebbero rispettosamente. Forse la profumerebbero anche con qualche bacio. Ho letto che un gran signore del XVIII secolo aveva nel suo castello appartamenti così lussuosi che non si trovava mo­ do e luogo di poter sputare se non sul viso del padrone di casa. È proprio quello che accade al Verbo incarnato. Egli ha fatto l’universo così bello che non si può sputare se non sulla sua Faccia dolorosa. E allora perché pigliarcela tanto? Tutto quello che sta attorno a questa preziosa Immagine ha un valore inestimabile. Anche il letamaio fa crescere le pata­ te che valgono danaro e sono più utili della Redenzione per ingrassare i maiali. Sarebbe mai possibile dubitare nella scelta? Si racconta che un tempo esistettero degli uomini strani i quali per professione disprezzavano le ricchezze, conside­ randole come fango, se ne sbarazzavano come ci si sbarazza dei parassiti. Mi assicurano che esistono ancora alcuni di que­ sti uomini. Che volete che vi dica? Il massimo che possiamo fare è di sputare loro in faccia come si fa con Colui di cui essi si professano discepoli e di cui pretendono di essere gli imitatori. Costoro potranno allora, finché vorranno, inorgo­ glirsi dei loro stracci e sognare il loro Paradiso. CVIII

Mettere da parte un po’ di danaro

Questo luogo comune somiglia a una chiesa dove andas­ sero a pregare tutti, giovani e vecchi, buoni e cattivi. Pelle­ 335

grinaggio sicuro, in cui l’impetrazione sarebbe tanto certa quanto la morte. Chi mette da parte un po’ di danaro è simi­ le a un uomo che si facesse costruire un sepolcro in un luogo asciutto e al riparo dai vermi. Precauzione contro i poveri inquilini delle case umide, in balia di quegli animaletti sem­ pre disposti a rodere gli imprevidenti. Ogni piccola somma economizzata diventa così una porzione della sostanza che gli è stata affidata e di cui dovrà rendere conto un giorno. Met­ tendo da parte un po’ di danaro, voi preparate il vostro av­ venire e date ai poveri un esempio infinitamente più prezioso di tutte le elemosine. Credetemi, anche se foste ricchissimo, dovete sempre mettere un po’ di danaro da parte. Se mai incontrate un mi­ serabile, un morto di fame che un’elemosina di pochi soldi potrebbe salvare, potrebbe darsi che vi sentiate commosso, giacché il cuore dell’uomo è fragile; ma no, state attenti; quel­ lo è il momento della prova, è l’ora della terribile tentazione. Siate generosi e rifiutate con energia. Ricordate che il vostro primo dovere è di mettere da parte un po’ di danaro: l’om­ bra di Beniamino Franklin* vi guarda. Ricordo un sublime Borghese dell’Indre o della Creuse, che mi pare fosse impiegato nelle Imposte dirette. Egli ebbe la gloria di crepare senza aver mai dato un soldo a nessuno, e metteva ogni giorno un po’ di danaro da parte. Quell’uo­ mo eroico ebbe tre figli. Volle che il primo si chiamasse Vol­ taire, il secondo Rousseau e il terzo Franklin; e quest’ulti­ mo, dopo la morte di suo padre, dissipò tutto nei più sfrena­ ti bagordi. Peccato che non nascano più questi caratteri così temperati!

CIX

Chi muore non si porta dietro il danaro

Lo si dice come di tante altre cose; ma il Borghese non sbaglia. Certamente egli sa, quanto voi e quanto me, che non 336

potrà portare con sé tutto il suo oro né il suo danaro liqui­ do. Non porterà neppure i biglietti di banca, né le cambiali dei poveri diavoli, né i biglietti di favore per non so quale spettacolo dell’altro mondo. Ma lui è furbo e porterà i suoi titoli, la sua vera ricchezza cucita con la sua anima, i suoi titoli personali, che i suoi eredi non potranno in nessun mo­ do vendere o scambiare e che gli assicureranno infallibilmen­ te un posto nell’Eternità.

CX Il buon Dio è il danaro

Sono passati più di quarant’anni, ma io non potrei di­ menticare quella scena, che si svolse in Rue de Sèvres, al tem­ po della mia luna di miele con la splendida miseria che mi restò sempre fedele. Una povera vecchia, tirando un carretto a mano, ven­ deva pesce o legumi. Una signora borghese del tutto rispet­ tabile la ferma e si mette a mercanteggiare offrendo prezzi irrisori. — Sta bene, signora, non ne parliamo più; voi mi fate perdere tempo. — Il buon Dio mi manderà altri clien­ ti —, disse la venditrice. — Il buon Dio è la moneta da cento soldi! — rispose la borghese canzonandola. L’effetto di queste parole posso paragonarlo a un tizzo­ ne acceso in un barile di polvere. La vecchia si trasfigurò e diventò terribile. — E vi permettete di parlare così a me? — gridò, scop­ piando al massimo dell’indignazione e del furore. — In pre­ senza di una cristiana che si guadagna onoratamente la vita, osate oltraggiare il Dio dei poveri dicendo parole di cui ar­ rossirebbe anche una donna da marciapiedi! Meritereste di essere fustigata pubblicamente come una puttana. — E qui mi rivolgo a tutte le persone che possono capirmi. — Ecco, — aggiunse sempre più eccitata e alzando minacciosamente la mano verso la nemica che cercava invano di scappare at­ 337

traverso la folla che s’era subito radunata, — ecco una sudiciona che dice che il buon Dio è una moneta da cento soldi, la moneta da cento soldi che lei forse ha guadagnato con le sue sudicerie; e ha l’insolenza di venirlo a dire a me, creden­ do che fossi incapace di risponderle perché sono una povera donna. Faccio appello agli uomini di buona volontà per ri­ condurla a pedate dal suo ganzo... E continuò così per qualche tempo, con evidente giubi­ lo degli spettatori che non facevano scappare la vittima, alte­ randosi ad ogni parola pronunciata, mugolando come un’Ecuba e riempendo tutta la strada delle sue imprecazioni. Do­ vettero intervenire delle guardie per liberare la provocatrice, mezza morta di vergogna e di rabbia. Questo accadeva, ripeto, più di quarant’anni fa, vale a dire prima della guerra funesta e della degradante repubbli­ ca: epoca in cui non ancora tutto era distrutto. Oggi la be­ stemmia più immonda è l’espressione esatta del sentimento universale; e alla povera vecchia, che difendeva e vendicava a suo modo il Dio dei cristiani, verrebbe sputato in faccia dalla folla.

CXI

Non si conosce il colore del proprio danaro La persona di cui si dicesse questo, sarebbe all’ultimo grado dell’abiezione. Se si dicesse semplicemente che non si conosce il proprio danaro, la cosa sarebbe molto meno gra­ ve. Ma pensate! il colore del proprio danaro! Sappiamo che il danaro non ha odore. Lo affermano le persone più sensibili, quelle che hanno l’odorato finissimo. Ma si esige che abbia un colore e si vuol vedere questo colo­ re. Immaginate voi qualcosa di più bello di una moneta da cento soldi nelle mani d’un negro? E dov’è il Borghese capa­ ce di disprezzare i trenta bei danari d’argento nelle sozze ma­ ni dell’Iscariota? Questo traditore gentile e soffocato dai ba338

ci, al quale era riservata una sorte così dura, poteva almeno dire di conoscere il colore del danaro dei capi dei sacerdoti, perché non era di quei creduloni a cui si fa bere tutto. Di tanto in tanto, io vedo delle monete d’argento mac­ chiate di rosso, per essere passate tra le mani di un macellaio o di un assassino, e la vista di quelle monete mi fa volare con la fantasia. Pensando alla probabile origine di questo se­ gno della ricchezza, dico che è quello il suo vero colore che dovrebbe, che deve avere, il colore che presero certamente i danari di Giuda, il quale cessò di riconoscerli e li riportò immediatamente agli insigni volponi che glieli avevano dati. Costoro, neppure loro li riconobbero e non vollero mettere nei tesori del tempio delle monete di un così strano colore. Sappiamo tutti che se ne servirono poi per comprare il cam­ po del sangue, nome generico che, secondo me, possiamo af­ fibbiare a tutte le proprietà borghesi, dal tempo della Flagel­ lazione e della Crocefissione di Gesù Cristo. CXII

Far credito, aprire un credito Evidentemente, queste cose non le otterrete mai da chi non conosce il colore del vostro danaro. Ma se, mostrando un colore plausibile e senza essere miliardario, otterrete un credito qualunque, vi troverete in una situazione inferiore a quella dei galeotti più diffamati; sarete il negro, lo schiavo antico dei commercianti immondi i quali vi apriranno le ve­ ne mentre vi aprono il loro credito e taglieranno in piccoli pezzi la vostra carne quando a loro piacerà. Il più vile botte­ gaio che vi fa credito è il vostro padrone, come il demonio è il padrone dei dannati. Chi ha ottenuto un credito può credersi in villeggiatura, vale a dire nella situazione d’un uomo che supporremo sprov­ visto del superfluo, il quale, lasciato il benessere della sua casa e rinunziato, per un certo tempo, alle sue più care abitudini, 339

ai suoi amici e ai suoi lavori per l’illusione effimera e orribil­ mente costosa di un’aria più pura, si vedrebbe negli artigli dei mostri della campagna postisi in agguato su tutte le stra­ de e decisi a lasciarlo andar via soltanto quando è compietamente spogliato, disperato, mezzo morto, sicuri, del resto, che un inesplicabile bisogno di soffrire lo farà ritornare sicu­ ramente l’anno dopo. Il credito è un giardiniere molto accurato, che vi innaf­ fia finché vede in voi un resto di vita, una possibilità di rin­ verdire e di fruttificare. Quando svanisce questa speranza, vi strappa per buttarvi nel fuoco o nel letamaio e si mette a dis­ sodare quietamente il campo di un’altra persona.

CXIII Essere oberato, crivellato di debiti

Forse questo non è il caso mio né vostro né di nessun altro, però la cosa è possibile e questo basta. Un poeta che ha da pagare un pane da quattro libbre, alcuni chili di car­ bone e due o tre dozzine di risme di carta, può benissimo pas­ sare per un individuo crivellato di debiti. Son cose che si ve­ dono e si vedranno. Però l’espressione è curiosa, sebbene dif­ ficile a comprendersi. Se non sbaglio, essere crivellato significa essere passato per il crivello oppure somigliare a un crivello a causa dei fori delle ferite, e questa immagine è certamente eccessiva e inap­ plicabile ai debiti che si possono avere e che fanno dei buchi soltanto alla borsa del creditore. Nel primo caso, l’operazio­ ne, ben nota alle buone massaie, consiste, se si tratta di resi­ dui del loro focolare, nel separare mediante un setaccio le ce­ neri inutili da ciò che può essere ancora bruciato. Si sa che le ceneri ottenute in questo modo servirono al profeta Da­ niele per dimostrare al re di Babilonia l’empia frode dei sa340

cerdoti di Bel.128 Per estensione, si è parlato talvolta di cri­ vello della coscienza: strumento difettoso e infedele che la­ scia passare troppe cose e che può essere paragonato a uno di quei vecchi panieri bucati di cui è imprudente servirsi. C’è anche il crivello del diavolo menzionato nel Vangelo: «Sata­ na ha chiesto di vagliarvi come il frumento»129 e questo è un motivo di inquietudine perché Satana è il peggiore tra tutti i bugiardi. Ma tutto questo non spiega il nostro luogo comune. Significa semplicemente che si hanno molti debiti, che si è coperti di debiti? In questo caso le scosse brusche o ar­ moniosamente ritmiche del crivello mi avranno forse sbaraz­ zato da quella polvere, a meno che non mi sia accaduto di passare anch’io, con essa, attraverso uno di quei buchi, il che è poco verosimile. Insomma, non ci capisco niente, tranne che è enormemente noioso avere dei debiti ed è infinitamen­ te sgradevole doverli pagare.

CXIV Gettare il danaro dalla finestra

Quando e in quali circostanze si butta il danaro dalla fi­ nestra? Ecco un punto di casistica borghese. Un ignorante potrebbe credere che questo accade quando si versa all’esat­ tore l’importo delle tasse per le porte e le finestre, dimenti­ cando che qui si tratta di finestre soltanto, escluse le porte o gli sportellini, i passaggi per i gatti e i buchi per topi, attra­ verso i quali si potrebbe benissimo far passare delle monete. Prego le persone che vogliono istruirsi di notare che non si dice mai: gettar l’oro dalla finestra. Questa locuzione avreb128. Daniele fece cospargere la terra con della cenere, scoprendo così l’inganno dei sacerdoti che venivano di notte a cibarsi con le offerte votive, facendo poi credere che fosse stato il dio Bel a divorarle. Daniele, XIV, 1 sgg. 129. Luca, XXII, 31.

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be qualcosa di mostruoso. Bisogna lasciare ai poeti e alle al­ tre persone prive di ogni precisione questi ridicoli eccessi di linguaggio. È già abbastanza pericoloso concedere alla poe­ sia di nominare Vargento. In realtà, lo si getta dalla finestra quando si dà un soldo a un povero. Il fatto è elementare e non c’è bisogno di dimo­ strazione. Un vero Borghese non deve mai donare. Ma ci so­ no altre maniere; per esempio: se vi sfugge l’occasione di far passare un bottone di calzoni per una moneta da cinquanta centesimi; se siete abbastanza idiota da far notare a un bi­ gliettaio di autobus, padre di otto figli, che vi ha dato il re­ sto superiore a quanto vi doveva; se comprate, anche a vii prezzo, un capolavoro letterario o un oggetto d’arte che non avete intenzione di rivendere; se ricompensate con una mise­ ra somma un povero diavolo che vi ha salvato da un grave pericolo rischiando la vita, invece di farlo arrestare dalle guar­ die, ecc. Le circostanze in cui si è esposti a gettar il danaro dalla finestra sono infinite e il galantuomo deve stare molto attento.

CXV

Cercar di far quadrare il pranzo con la cena ovvero Cercar di riunire insieme le due estremità È l’antico simbolo del serpente che si morde la coda, il simbolo dell’Infinito, in tutti i tempi e in tutti i paesi. L’Infi­ nito non è la preoccupazione del Borghese, però qui egli ces­ sa di disdegnarlo perché il luogo comune delle due estremità gli sembra una buona occasione per manifestare la sua sag­ gezza, per darsi un atteggiamento sovrumano. C’è bisogno di dire che si tratta, come sempre, del danaro? Vedrete quanto sia semplice. Uno possiede una fortuna qualunque, centomila fran­ chi, o cento milioni non importa. Poiché il Capitale non de342

ve essere mai intaccato, si tratta di andare da un’estremità all’altra dell’anno con la sola rendita, a cui si suppone che sia data una certa elasticità. Questo tentativo rappresenta un vero sforzo di cui pochissimi uomini sono capaci. Propone­ telo a uno che ha la testa nelle nuvole, a un sognatore, a un magnifico, a un caritatevole. I più arditi vi confesseranno che non rispondono di niente. Alcuni, quelli che non si spaven­ tano di bestemmiare, arriveranno finanche a dirvi che la ric­ chezza deve essere distribuita come il concio e che l’intangi­ bilità del capitale che produce sempre, come Dio, e non si esaurisce mai, è una cosa abominevole. Se il Borghese, sufficientemente occupato a filare alla co­ nocchia d’argento della sua annata, avesse del tempo da per­ dere, replicherebbe molto tranquillamente che questo Dio, che viene audacemente opposto al capitale, è un povero Dio se infonde nei suoi adoratori simili sentimenti; che lui, Borghe­ se onorato e capitalista, non teme di sfidare questo preteso Onnipotente, sapendo da che parte prenderlo. E, immediatamente, inesplicabilmente diventato vocife­ ratore furioso e schiumante, urlerà: — Io riunisco insieme le due estremità, io tengo i due capi, il mio strascico d’argen­ to è nella mia bocca d’argento e il vostro buon Dio è croci­ fisso dal mio capitale. Io sono un galantuomo e me ne infi­ schio della religione. Allora voi penserete al cimitero situato all’estremità di quel bel viale di abeti che inizia dal manicomio. CXVI

Costa un occhio Un giorno, un cieco mi diceva che il suo cane gli costa­ va un occhio. Era un cieco dell’Académie française, diventa­ to tale per un barbaglio folgorante, a furia di leggere Hanotaux* e Paul Bourget*. Poiché mi meravigliavo che non 343

era diventato anche idiota, mi fece un sorriso di disprezzo che non capii. Dopo ho saputo che è un cieco a intervalli e ipotetico, il quale sa benissimo distinguere le monete false da quelle che sono accettate dai borghesi più attenti. Allora ho creduto in­ dovinare che ciò che costa un occhio, vale a dire la cosa più difficile che ci sia, è veder più basso di se stesso, quando si è accademici. CXVII Il modo di donare vale più di ciò che si dona

Questo luogo comune è di nobile razza. È un verso del grande Corneille, e una Provvidenza ironica ha voluto che fosse uno dei primi del Menteur.™ Il Borghese, ermetica­ mente negato per ogni letteratura, non lo sa, però trova que­ sto verso di suo gradimento e l’usa quando vuole che la gen­ te abbia di lui un gran concetto. È una risorsa, ma ci vuole tatto e abilità. Ho conosciuto un importante mercante di quadri il quale si accontentava di un modesto guadagno dal 500 al 1500%. Alcuni anni fa, divenne il benefattore di un pittore poverissi­ mo, oggi diventato celebre, le cui tele già allora erano ricer­ catissime. Questo abile mercante, sfruttando saggiamente la spaventosa miseria dell’artista, comprava a pochissimo prez­ zo i suoi più curiosi abbozzi e li rivendeva carissimi a dei col­ lezionisti suoi clienti, realizzando così dei guadagni molto forti. Il tutto si svolgeva nella maniera più affettuosa. Il buon commerciante, tanto mecenate quanto giusto, faceva talvol­ ta qualche piccolo regalo all’artista da lui così sozzamente sfruttato; un pacchetto di caramelle per i figli, un vecchio paio

130. Atto I, scena 1.

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di pantaloni, un pacchetto di trinciato; un portamonete da pochi franchi. Certamente non si poteva dire che era gran­ ché, ma c’era il cuore, e che cuore! E poi che dolci sorrisi, e che tenere strette di mano! «Il modo di donare vale più di ciò che si dona», pensava, affilando il suo coltello. Non 10 diceva espressamente, perché aveva un gran tatto, ma lo si leggeva sicuramente nel suo affabile volto!... Mi dispiace di aggiungere che fu ripagato con la più nera ingratitudine e che l’idillio terminò con sonori ceffoni. Non meno degno di ammirazione è un altro benefattore della stessa scuola. Costui non era un commerciante, ma un milionario avido di gloria, il quale un bel giorno decise di acquistare fama di grande scrittore. Aveva avuto il buon fiu­ to di scovare un indigente il cui robusto talento gli parve adat­ to al caso suo. Per dieci anni, questo cretino d’oro sfruttò 11 disgraziato, ottenendo da lui, per somme irrisorie, dei la­ vori che valevano assai più della metà della sua ricchezza, ag­ giungendovi anche la pelle di sua moglie: opere pensate, scrit­ te, realizzate integralmente, che lui non mancava mai di stor­ piare un po’ con la sua penna d’imbecille, perché non gli si dicesse che non aveva fatto proprio niente, ma che gli valse­ ro una notorietà considerevole e ricompense in danaro. Oggi siede all’Académie, è ufficiale della Legione d’onore e deco­ rato da parecchi monarchi. Ha finito col credere dì essere un genio, e non smaltisce più questa sbornia di prosopopea. L’autore vero e sempre più miserabile, ormai abbando­ nato, finirà in qualche triste modo. Finché si ebbe bisogno di lui, fu colmato di piccoli doni deliziosi, prodigati con quella raffinata delicatezza che pare il segreto dei ricchi soccorrevo­ li e degli ippopotami furiosi. Ci sono tanti modi squisiti di dare l’inferno!

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CXVIII

Nomea reputata vai più di veste dorata Se la metafora della veste dorata significa la ricchezza, a quanto dicono gli interpreti, possiamo essere in diritto di chiederci il perché e il come la nomea presupposta buona pos­ sa valere di più, poiché è esattamente la stessa cosa, in realtà o in apparenza. Non ci possono essere esempi che una perso­ na ricca abbia una non buona nomea. Se ne avesse una catti­ va sarebbe mostruoso e profondamente immorale, sicché la ricchezza è quello che di più rispettabile esiste sulla terra. Tuttavia ci deve esistere una distinzione, poiché i luoghi comuni non falliscono mai. È risaputo che la Fama, buona o cattiva, è munita di trombe e di ali, tutti i professori di re­ torica ve lo possono dire, ma non possono di certo fornire ulteriori dettagli sulla sua veste. È di certo un’aggiunta a que­ sto mito. Si potrebbe allora spiegare il gesto di una graziosa fanciulla che sbottona la sua veste, dorata o no, e perfino yi rinuncia del tutto per acquisire una certa fama, prendere per le ali dei robusti pennuti e farsi accompagnare o precede­ re da una fanfara di pettegolezzi. La veste abbandonata po­ trebbe forse diventare dorata da sola, con un procedimento molto naturale. Non vedo altra via se non continuare a sca­ vare in questo senso. I luoghi comuni rivelano la loro essen­ za soltanto a coloro che li studiano in tutta umiltà e con gran­ de purezza di cuore. CXIX Non ho fatto ancora i miei conti

Siamo a Tours, una città della Francia dove il luogo co­ mune è in grande considerazione. È vero che molte altre cit­ tà si disputano la gloria di aver dato i natali a questo luogo comune, però Tours deve esserne stata la culla, secondo l’o346

pinione più probabile. Faccio appello alla statua di De­ scartes!131 Uno straniero venuto per istruirsi entra in una chiesa, dopo aver fatto l’elemosina al mendicante abituale. Assorbi­ to dai pensieri, dà una moneta da venti franchi credendo di dare un soldo, e si accorge dell’errore soltanto molto tempo dopo. Torna in chiesa, ma il mendicante se ne è già andato. Espone allora il caso al sacrestano, che lo rassicura, affer­ mando che quel mendicante è un funzionario tra i più ono­ rati e che la moneta gli sarà scrupolosamente restituita me­ diante una nuova e insignificante elemosina. Per di più, gli fornisce l’indirizzo del mendicante. Il viaggiatore arriva in una casa molto ben messa dove subito viene accolto gentilmente da un personaggio ben ve­ stito, nel quale ha qualche difficoltà a riconoscere il suo men­ dicante. «Caro signore — gli dice costui — non preoccupa­ tevi. Questi errori succedono talvolta anche nella nostra pro­ fessione. Ma io non ho ancora fatto i miei conti. Vogliate dunque aver la bontà di accomodarvi». Un quarto d’ora do­ po, la moneta era ritrovata e restituita con delle scuse. Ho raccontato questa storia completamente veridica sol­ tanto per rendere giustizia a una stimata corporazione troppo spesso calunniata dai borghesi, i quali fanno anch’essi i loro conti, attentamente, ma per non restituire nulla, e rifiutano ogni solidarietà con i mendicanti, come se non fossero, in senso spirituale, degli straccioni, dei vagabondi, dei portabisaccia, dei calamitosi, dei guitti, dei pulciosi, dei miserabili che dor­ mono sotto il ponte della mendicità universale, dei pietosi as­ sistiti dalla stupidità e dalla villania moderne espresse dai luo­ ghi comuni di cui essi fanno uso; in realtà sono cadetti e infe­ riori a quei poveri diavoli dalla mano tesa che essi disprezza­ no perché sono gli ultimi a rappresentarci ancora, per quanto debolmente, la mendicità redentrice del Figlio di Dio!

131. René Descartes (1596-1650) era nato a La Haye, in Turenna.

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cxx Errore non paga debito

Di questo avviso, come abbiamo visto, era anche il men­ dicante di Tours, il quale fece una esatta verifica dei conti, da candido uomo del mestiere. La stessa verifica dovrebbero farla tutti i commercianti, ma poiché sono meno candidi e non devono rovinarsi, la intendono in un altro modo. Indub­ biamente anch’essi vogliono che i conti siano esatti, a loro modo, senza errori. E questo lo ottengono facilmente con un po’ di aritmetica, un po’ di intraprendenza e una robusta fac­ cia di bronzo. Inoltre la legge sta dalla parte loro, perché di­ ce che i loro libri fanno fede, come il Vangelo. Voi ordinate al vostro droghiere, che è il fior fiore dei galantuomini, un chilo di zucchero, una libbra di caffè, una mezza dozzina di bottiglie. Egli vi consegna coscienziosamente tute queste cose; però, professionalmente scrive dodici botti­ glie, due libbre di caffè e due chili di zucchero. Poi fa un conto esatto avendo cura di sbagliarsi di pochi centesimi nel riporto, per potervi edificare più tardi colla sua buona fede, rettificando davanti a voi questo impercettibile errore, nel caso che foste tentato di voler verificare. «Errore non paga debi­ to» dirà elargendovi un sorriso melenso. Se ha qualche infa­ rinatura classica, aggiungerà forse: «Errare humanum est», e voi ve n’andrete stupiti dell’enormità imprevista delle vo­ stre spese e commosso per la minuziosa probità di questo ne­ goziante che preferirebbe esporsi alla perdita di qualche sol­ do piuttosto che causarvi un danno qualunque. Ho conosciuto un droghiere della stessa levatura mora­ le, al tempo della mia ben conosciuta permanenza coatta a Cochons-sur-Marne.132 Un giorno che il totale dei suoi con­ ti mi soffocava, egli mi propose lealmente di farmi control­ lare i suoi libri. «Leggerò i vostri libri — risposi — quando

132. Cfr. n. 39, I, p. 131.

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voi avrete letto i miei», e mi rassegnai a pagare. Talvolta mi son chiesto con una certa inquietudine se quel giorno, senza volerlo, non ho suscitato una vocazione letteraria. Forse quel­ l’uomo è diventato un laureato dell’Académie Goncourt.

CXXI Ritirare dal gioco la propria posta

Si ritira dal gioco la propria posta quando si pianta con prontezza una ragazza che si è sedotta. Affermo questo sen­ za la minima intenzione pornografica e vi prego di credermi. Ma ci sono molti altri modi. In genere si tratta di sapersi sbro­ gliare, di essere, come si dice, in gamba. Quando assassinate un vecchio che vive di rendita, do­ po averlo svaligiato con profitto, fate in modo che le prove possano esser trovate presso l’esattore o il giudice conciliatore e, senza tradirvi, istradate abilmente la giustizia su una di quelle due piste. Se siete amministratori in una società d’af­ fari sforzatevi perché i capitali siano radunati in un punto determinato che, se volete, possiamo chiamare la vostra cas­ sa. Prima però studiate minuziosamente tutti gli orari utili e, giunto il momento, sulle ali del condor squagliatevela col malloppo, dopo aver tagliato, per quanto è possibile, tutte le comunicazioni. I vostri soci d’affari se la sbroglieranno co­ me meglio potranno colla contabilità che avrete resa impra­ ticabile come una foresta vergine dell’Amazzonia o dell’Alto-Congo. Vi risparmio altri consigli dovuti alla mia esperienza per­ ché queste indicazioni sommarie debbono bastare. Tutt’al più non avete che da compulsare la storia contemporanea: le com­ binazioni diplomatiche dell’ora presente vi illumineranno in modo esauriente.

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CXXII Ritirarsi dagli affari È una maniera villana e volgare di cavarsela dagli im­ brogli. È superfluo aggiungere che non bisogna ritirarsi dagli affari se non quando si è fatta fortuna. Diversamente sareb­ be come ritirarsi dal campo di battaglia prima della vittoria. — Ho guadagnato di che vivere tranquillamente in cam­ pagna e mi ritiro dagli affari. Sono stufo del vostro sporco commercio. Voglio darmi al giardinaggio e pescare con la len­ za — mi dite. — Ebbene, — ripondo senza esitare — siete un idiota e un rinnegato. Siete come un cattivo prete che si nauseasse dell’altare. Dunque non avete mai capito, miserabile che sie­ te, che l’uomo esiste soltanto grazie ai suoi affari, che gli af­ fari sono il suo ultimo scopo e che gli affari sono l’unica co­ sa vera. Che pretendereste di diventare? Siete un poeta o un devoto per vivere nella solitudine e fare a meno della vista corroborante di una «cassa»? Siete incapace di pensare, di sognare, di amare. Il più bel paesaggio sarà per voi quel che potrebbe essere per una vacca o per un mulo. Una lettura di­ versa da quella dei cataloghi, dei listini dei prezzi e dei bol­ lettini finanziari vi è impossibile. Finora siete stato soltanto abietto, adesso volete diventare infinitamente stupido e, molto prima della vostra morte, che sarà indecorosa, voi sarete con­ siderato come un rimbambito. Come potreste essere indifferente allo spettacolo di quella folla coraggiosa di commercianti e di industriali che lottano con costanza — come i martiri d’un tempo — e che offrono generosamente la loro vita per gli affari senza mai essere ten­ tati di rinnegarli? Intanto, siete stato testimone della fine su­ blime del grande Chauchard* che combattè fino all’ultimo e la cui carcassa miracolosa fu scortata da tutto un popolo singhiozzante! Oggi avete sott’occhio il sovrumano Pierpont Morgan* che crepa su un pavimento di miliardi sostentando­ si con una patata! Trovereste voi, nelle epopee della storia 350

o nella vita dei più famosi santi, qualcosa da paragonare a costoro? Ah, non bestemmiamo mai gli affari, i santi affari! Essi possono ritirarsi da noi, qualche volta, a causa della nostra indegnità o per effetto di qualche misteriosa malia; chi è ve­ ramente uomo non deve mai ritirarsi da loro. Quando poco fa ho detto che uno si può ritirare dagli affari, dopo aver fatto fortuna, parlavo agli sciocchi. I forti non intendono questo linguaggio. Per loro, non c’è fortuna fatta, non c’è neppure fortuna. Ci sono gli affari, nient’altro che gli affari, vale a dire la sola Realtà, l’unico splendore per il quale bisogna sacrificare la propria vita — e soprattutto la vita degli altri — dopo l’estinzione del cristianesimo.

CXXIII Tutti i nodi vengono al pettine ovvero Dopo di noi il diluvio

Quando un Borghese proferisce una di queste due affer­ mazioni, non crediate di trovarvi di fronte a un disperato che si rassegna alle peggiori catastrofi. Al contrario, lui è con­ tento che allora non ci sarà e non potrà esserne la vittima. Egli sa benissimo che tutto il mondo deve perire, e che lui solo sarà salvato in un’arca come il giusto Noè insieme con le sue bestie. Perché preoccuparsi? La pallida folla degli uo­ mini ha forse da fare altro che pagare per lui, soffrire per lui, pagare e soffrire tutto quello che si può pagare e soffrire? Credo che nessuno ancora si sia accorto che il sublime destino del Borghese è esattamente la contropartita, il con­ traltare della Redenzione come la concepiscono i cristiani. Il genere umano deve essere crocifisso per lui solo. Per lui so­ lo, capitemi bene. Si dice che il Figlio di Dio ha dovuto incarnarsi, soffrire sotto Ponzio Pilato e morire in croce perché tutti gli uomini 351

fossero riscattati. Ecco l’inverso. È indispensabile, è necessa­ rio, assolutamente e dalla sempiterna eternità, che tutte le creature s’immolino volontariamente o involontariamente af­ finché il Borghese digerisca in pace, affinché abbia la sicu­ rezza delle sue viscere e dei suoi reni, affinché si sappia che lui è il vero Dio e che tutto è stato fatto per lui. Dopo di che, potete fabbricare delle apologie, accinger­ vi a dimostrare la divinità del cristianesimo; il Borghese vi si siederà su, e voi annegherete nel diluvio dei suoi lordi escrementi.

CXXIV Il giorno più bello della vita Qui è lecito esitare. Ci sono due testimonianze. Il secon­ do vicario della parrocchia afferma che è il giorno della pri­ ma comunione, mentre il signor Prud’homme* afferma, con un’inquietante decisione, che è una sciabola. «Quella scia­ bola fu il più bel giorno della mia vita». Con chi stare? Se ricevessi l’onore di essere consultato, direi che è il gior­ no in cui si è visto per la prima volta un aeroplano. — Può darsi, — risponderanno subito i militari tedeschi — però il dirigibile è più bello ancora.

CXXV Vivere la propria vita Il detto consiste nel prendere la vita degli altri. Così pen­ sano i nostri più stimati anarchici. I vampiri non parlerebbe­ ro meglio. Un uomo dabbene, un santo, se ci tenete, non vi­ ve la sua vita, non vive affatto, per essere esatti. Non si può neanche dire che vegeti. È inesistente. Però non crediate che per vivere la propria vita, sia in­ 352

dispensabile massacrare dei borghesi, sport certamente gra­ devole ma imprudente e che può avere l’effetto di turbare la serenità dei paesaggi mobilitando genieri e artiglieri. Si rischie­ rebbe anche di passare per un eroe, il che appartiene all’in­ fantilismo romantico. Inutile arrivare fin là. Si vive la propria vita quando di proposito e cocciuta­ mente si ignora che ci sono uomini che soffrono, donne ri­ dotte alla disperazione, bambini che muoiono, e quando si può trarre vantaggio da tutto questo. Si vive la propria vita quando si fa unicamente ciò che piace ai sensi, ignorando de­ liberatamente che ci sono delle anime nel vasto mondo e che abbiamo anche noi una poverissima anima esposta a strane e terrificanti sorprese. Questo modo di dire è, d’altra parte, un solecismo e co­ loro che se ne servono sono anch’essi degli umani solecismi che non possono interessare l’Angelo confortatore dell’Ago­ nia e che certamente nessuna pietà potrà mai riconciliare. CXXVI

Vedere la morte in faccia Tutti gli eroi dei romanzi d’appendice sono abituati a ve­ dere la morte in faccia. Dobbiamo credere che nessuno di es­ si l’abbia mai vista di profilo? È forse più terrificante? Ma dire questo, è proprio come se non si dicesse niente. Dov’è il droghiere che crede alla morte? Io non l’ho mai incontra­ to. Nessuno crede alla morte. Un usciere che ha ricevuto del­ le pedate e che dice d’aver visto la morte in faccia non im­ pressiona nessuno. È certo che il cimitero non è fatto per i cani, sebbene ce ne sia uno verso Asnières, dove questi animali hanno tombe con epitaffi e dove le carogne dei borghesi non sono ammes­ se. Sì, la gente sa questo e altro, ma la realtà della morte non esiste per gli individui che vivono di rendita e di commercio. Il cimitero è un giardino dove si va a portare dei fiori 353

una volta all’anno. E questa è un’occasione di sbornie senti­ mentali, e talvolta è anche un’occasione per farsi un po’ di reclame o per preparare un affare, perché i sepolcri sono i posti migliori per parlare di cose puzzolenti e periture. E que­ sto è tutto. Nessuno di quei visitatori porterà sulla sua'faccia d’imbecille o di Giuda un’impronta qualunque delle dita del­ la morte, un’impressione anche vaga, un inizio di diarrea pre­ monitrice che l’avverta della necessità di morire un giorno. Al massimo, qualcuno, alla terza bottiglia, sarà ispirato a con­ sultare una cartomante oppure un avvocato genealogista per sapere se è possibile rivendicare un’eredità sconosciuta. Ma, mio dolce padron di casa, tu devi essere proprio cie­ co per non vedermi di faccia così come sono, io, il tuo inqui­ lino diletto che rappresento la morte quando vengo a ricor­ dartela ogni tre mesi. Ma tu hai occhi soltanto per il danaro che ti porto. Tu conti attentamente le monete da venti fran­ chi o le monete da cento soldi, che sono il sangue dei miei figli o il mio che ho sudato a goccia a goccia, e non capisci che dovrai pure restituirmelo a poco a poco sotto le specie della tua miserabile vita di cimice che questo sangue troppo generoso farà crepare. Non pensi mai ai morti. Intanto non sei più giovane e, se non completamente stupido, hai dovuto notare la somi­ glianza veramente sorprendente che prendono agli occhi di un vecchio tutti i volti umani — come un’affermazione più precisa della identità universale —, a mano a mano che sva­ niscono le semoventi illusioni dell’adolescenza. Quando ci si accosta alla tomba, si arriva a non vedere che un solo uomo in tutti gli uomini. Accade così nell’immenso mondo dei morti, i quali si ras­ somigliano tutti e a loro tu somigli sempre più, mio caro Cre­ so. Essi già ti circondano; stanno attorno alla tua tavola, at­ torno alla tua cassa, attorno al tuo letto e, se il tuo vecchio cuore avesse orecchie, li sentiresti dire tra loro: — Come ci somiglia questo fantasma che conta il danaro dei poveri! E perché tarda tanto a venir con noi? 354

CXXVII

E così via, per non dire del resto ovvero Faccio grazia degli altri, anche dei migliori Così farò. Non potrei continuare senza pericolo. La con­ tinua trattazione di questa materia esige una faccia di bronzo e uno stomaco di ferro che io disgraziatamente non ho. Inoltre, c’è il rischio gravissimo di ripetersi, perché i luoghi comuni non sono così vari come si crederebbe. I migliori, per dir così, quelli che sembrano spingersi in profondità inesplorate, sono proprio i più stupidi, quelli più capaci di accelerare l’incretinimento. Perciò ho deciso di fermarmi. Voglio sperare che i contem­ poranei apprezzeranno i miei sforzi, talvolta un po’ eroici, in queste pagine nelle quali ho cercato di rimettere in auge un in­ segnamento che non è dato da nessuno e di cui si sente il bisogno.

Post Scriptum — Se si trovasse un uomo abbastanza co­ raggioso da intraprendere la continuazione della mia Esegesi, ecco alcuni luoghi comuni molto importanti che ho lasciato nel mio piatto e che potranno provvisoriamente sostentarlo. Appartenere all’Académie française; Essere conosciuto co­ me il lupo bianco; Salvar capra e cavoli; Avere una risposta per tutto; Rovistare per cielo e per terra; Fare delle conquiste; Non legare i cani con le salsicce; Bere il calice fino alla feccia; Mette­ re la chiave sotto la porta e Piangere lacrime di sangue. Sarebbe anche utile e urgente trattare a fondo il Bulino della storia, il Canto del cigno, lo Spirito di corpo, l’Opinione pub­ blica, la buona Battaglia, la buona Stampa; avendo cura di fa­ re osservare che Noblesse oblige, che non c’è fumo senza fuo­ co, che un chiodo scaccia l’altro, che son sempre i buoni che se ne vanno, che s’impara a tutte le età; infine e soprattutto, che non si prendono le mosche con l’aceto e che i calzolai di solito portano le scarpe rotte. Questa nuova e interessante serie potrebbe essere intitola­ ta: IL SEGRETO DI PULCINELLA. 355

CONCLUSIONE

Benedictionibus abyssi jacentis deorsum.133 Gen., XLIX, 25

Spesso gli uomini si sono chiesti dove mai poteva tro­ varsi il Paradiso terrestre. Platone e il mio dotto amico del­ l’Istituto, Pierre Termier*, m’hanno dato il mezzo di identi­ ficarlo. Il Paradiso terrestre, il luminoso Eden da cui furono cac­ ciati i nostri Progenitori non era e non poteva essere che l’Atlantide. So che la teoria è stata già formulata da alcuni america­ ni, i quali certamente vorrebbero dare a credere che questo continente scomparso da tanti secoli fu un tempo una parte considerevole del loro continente e che l’attuale America pro­ lunga, attraverso i secoli, il biblico Giardino delle delizie. Basta aver visto, soltanto di passaggio, il sedicente beatifico impe­ ro del Dollaro, per sapere che pensare di questa pretesa. Ma essi aggiungono, stupidamente e grossolanamente, che il di­ luvio che si credeva universale è spiegato già abbastanza dal­ la sommersione della sola Atlantide con l’annientamento si­ multaneo del primo Eden. Smetto allora di stare a sentire que­ sti protestanti speciosi e torno al divino Platone che, se non

133. « [Iddio ti colmerà] delle benedizioni dell’abisso che giace di sotto».

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sapeva niente del Paradiso terrestre, pare però un testimone irrecusabile d’una tradizione arcisecolare. Nella sua mirabile conferenza all’Istituto Oceanografico, il 30 novembre 1912, Pierre Termier ha superbamente di­ mostrato, mediante le più recenti scoperte della geologia, la veracità del grande filosofo il quale racconta imperturbabil­ mente, da venti secoli, la storia dell’Atlantide nei suoi Dialoghi.134 «Geologicamente parlando — dice Termier* — questa storia platonica è perfettamente verosimile. Gli appassionati delle belle leggende ci possono credere. La scienza stessa, la più moderna scienza, li invita a questo attraverso la mia vo­ ce. È lei stessa che prendendoli per mano e conducendoli sulla riva dell’Oceano fertile di naufragi, evoca ai loro occhi, con migliaia di navi fracassate, affondate, ridotte a rottami, i con­ tinenti e le isole innumerevoli seppellite nel fondo degli abissi».

* * *

È meraviglioso e un po’ angosciante seguire il nostro geo­ logo sulle montagne nascoste nel mare o nelle valli dell’O­ ceano, che lui, per un momento, ha vuotato interamente del­ le acque, sostituendo con la luce del giorno le impenetrabili tenebre degli abissi. Che inconcepibile visione! Abbiamo sotto gli occhi, tracciata da lui, la carta topo­ grafica del letto dell’Atlantico, con le sue fosse che discen­ dono oltre i seimila metri, con le sue chine vertiginose, con le sue aride colline che avrebbero spaventato Dante, con i suoi anfiteatri che incutono timore, con le sue Alpi sconosciute, con le sue catene fantastiche e i loro contrafforti, le loro cre­ ste, i loro picchi, le loro cime indomite, i loro speroni, le lo­

134. Platone si occupa del mito di Atlantide nei dialoghi Timeo e Crizia.

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ro scogliere, i loro terrificanti gorghi abitati da mostri ignoti la cui sola vista produrrebbe la morte; infine, qua e là, pira­ midi o favolosi pilastri che sostengono isole incantate piene di luce e di verde, dove vivono uomini lieti o privi di gioia, senza pensare che in realtà essi stanno sull’estrema punta di una guglia che la più leggera scossa vulcanica potrebbe far scomparire immediatamente; infatti i vulcani si trovano più in basso, in immense vallate che probabilmente vanno da un polo all’altro, senza parlare delle enormi depressioni trasver­ sali, mediterranee o no, che sono ancora mal conosciute. Tutto questo produce nell’anima uno strano turbamen­ to. Ci si sente precari e infinitamente miserabili. Si vede che questa terra è un sogno, il sogno di un sogno, e che è assur­ do contarci su. «Insensato, questa notte ti sarà richiesta la tua anima». Questa terribile minaccia non riguarda soltanto gli uomini, ma anche le isole, i continenti, la terra intera. Il gigantesco naufragio dell’Atlantide non è una tradi­ zione isolata. In un’epoca infinitamente meno lontana, ver­ so la fine del secolo IV, un pezzo considerevole dell’Armorica fu inghiottito dal mare. La superba e potente città di Is dove regnava il re Grallon* scomparve in una notte col suo popolo e le sue ricchezze, e quel posto si chiama oggi la baia di Douarnenez.135 M’hanno detto che si vedono ancora dei ruderi della strada che portava dalla famosa abbazia di Landévénec alla città inghiottita. La si vede affondare e perdersi sotto le acque...

* * * Poiché non poteva essere che l’eco di una tradizione, che bisogna supporre antichissima, Platone si esprime in una ma­ niera simbolica, come i poeti che non hanno potuto e non 135. Località del Finistère, nel circondario di Quimper.

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potranno mai raccontare, con o senza simbolismo, che il Pa­ radiso perduto: unica preoccupazione o disperazione dell’U­ manità decaduta. Per un’intuizione superiore e senza nulla sapere di questo Paradiso, Platone lo vede nell’Atlantide, «isola più grande dell’Asia e dell’Africa», così dice per dare a chi l’ascolta l’idea di un’immensità. Era quello il soggior­ no delle delizie e la più fertile pianura, dove «regnavano re d’una grande e meravigliosa potenza»,136 i quali avevano sotto di loro numerosi villaggi ricchi e popolosi, e soprattut­ to una magnifica città i cui palazzi e templi erano costruiti «in pietra di tre colori»137 d’un significato misteriosissimo... Termier* spiega da geologo questi tre colori, senza però pre­ giudicarne il simbolismo, per la cui spiegazione nessun Edi­ po cristiano o pagano s’è ancora presentato. Tutte queste immagini, che somigliano ai ricordi confu­ si d’un bel sogno, possono convenire alla tradizione quasi scomparsa del Giardino biblico dove Dio aveva posto i suoi magnifici figli, i quali non poterono ritrovarlo dopo esserne usciti per spandersi su tutta la terra. Però è certo che questa reminiscenza leggendaria è molto diffusa nel mondo antico e sappiamo pure che l’inquietudine pagana non ha cercato altrove l’origine della Catastrofe primordiale. * * * Siamo dunque autorizzati a collocare il paradiso terre­ stre in quell’Atlantide, scomparsa certamente ma non perdu­ ta. Molti santi, e la stessa Chiesa, hanno creduto alla perma­ nenza di questo «Giardino delle delizie». Alcuni, come il su­ blime Cristoforo Colombo*, l’andarono a cercare nel mon­ do ancora inesplorato. Non si poteva ammettere che una crea-

136. Timeo, 24. 137. Crizia, 116 (a).

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zione così divina fosse stata annientata. Certamente essa esi­ ste ancora e allo stesso posto, ma in una maniera a noi sco­ nosciuta. Hodie mecum eris in Paradiso. Oggi sarai con me in Pa­ radiso. Così prima di morire, parla Gesù crocifisso a san Disma138 il buon compagno del suo supplizio, verso l’ora se­ sta, quando le tenebre stavano già per coprire la terra. In Pa­ radiso e oggi! Che significa questa affermazione? .Gesù non deve entrare nel suo Paradiso e salire al cielo se non dopo quaranta giorni, vale a dire nel giorno dell’Ascensione. Pri­ ma, oggi stesso, deve discendere agli inferi. Questo è forma­ le nel Simbolo della Fede. Perché si compia la promessa in­ fallibile del Cristo moribondo, non ci resta altro che il Para­ diso terrestre. Orbene, questo Paradiso era chiuso e introvabile dal tem­ po della Cacciata, e non s’è aperto che all’arrivo di quel me­ raviglioso Ladrone che rappresentava l’umanità salva sul Cal­ vario e la cui festa è stata fissata dalla Chiesa nel giorno 24 aprile. È opinione degli antichi Padri, prima e dopo san Ci­ rillo di Gerusalemme, il quale morì nel secolo IV, che le ani­ me dei defunti, subito dopo il Purgatorio, siano trasferite nel Paradiso di Adamo, necessario vestibolo del Paradiso eter­ no, dovunque esso si trovi sul mondo, e che il Buon Ladro­ ne ha la missione e il privilegio di introdurvi le anime; il pa­ triarca Enoch e il profeta Elia, i soli uomini preservati dalla morte, sono stati gli unici abitanti di questo deserto di beati­ tudine — molto differente dall’irrivelabile necropoli del Lim­ bo, considerato soltanto come un luogo superiore al Purga­ torio — per tutto il tempo che c’è voluto per arrivare alla morte del Salvatore che ne infranse le sbarre e le porte. Così pensano san Giustino, sant’Ireneo, sant’Ilario di Poitiers e molti altri. San Disma ha ricevuto le chiavi del Paradiso ter­ restre come san Pietro ha ricevuto le chiavi del Regno dei cieli.

138. Disma o Dima era il nome, secondo la tradizione, del Buon La­ drone. Cfr. Journal, cit., t. I, p. 151.

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Un giorno, una creatura straordinaria mi ha detto: «Dio quando vuol nascondere qualcosa, lo nasconde nella casa del ladro».™ Da più di trenta anni vivo di questa parola che mi ha illuminato tante cose. Cercare il Paradiso terrestre è cercare il Buon Ladrone. Ma dove cercarlo, se non nel posto stesso dove è scomparso, vale a dire in fondo all’abisso dove è sta­ ta inghiottita l’Atlantide? Il Giardino delle delizie ha dovuto discendere, anch’esso, come Gesù, molto vicino agli inferi, fino a quei luoghi dove non possono arrivare i più ambiziosi sondaggi. C’è disceso con la sua luce gloriosa, con le sue fiam­ me soprannaturali che lo circondano come un baluardo e con­ tro cui non possono prevalere né le tenebre né le acque im­ mense. Ignis in aqua valebat supra suam virtutem et aqua extinguentis naturae obliviscebatur, sta scritto nel libro della Sa­ pienza.™ I miracoli non mettono il Signore in imbarazzo. * * *

E adesso, che faremo del nostro povero Borghese e dei suoi luoghi comuni da cui ci siamo così allontanati? Lo riprendere­ mo dove lo abbiamo lasciato? Gli angeli e i ministri della Gra­ zia che sono i nostri custodi acconsentiranno? E chi di loro po­ trebbe ottenere dal Dio vivo il permesso di accompagnarci? Supposto che fosse possibile condurlo fin qui, portarlo dove siamo noi, in questo crepuscolo divino nel quale fre­ miamo d’amore, il Borghese non tornerebbe a chiederci la sua cara immondizia insudiciandoci con la sua sporca sag­ gezza? Ci direbbe, in un modo o nell’altro, che il Paradiso terrestre è lui stesso e che non consiglia a nessun ladro di in-* *

139. Léon Bloy riporta una delle riflessioni di Anne-Marie Roulé, ribat­ tezzata Véronique, la giovane prostituta da lui amata. La donna, dopo la sua completa conversione, aveva sviluppato una propensione per la veggenza mi­ stica che la porterà alla follia e all’internamento in un manicomio. 140. « Il fuoco sorpassa nell’acqua la propria potenza e l’acqua dimen­ tica che è nella sua natura di spegnere», Libro della Sapienza, XIX, 19.

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trodurvisi, perché le porte della sua intelligenza e le porte del suo cuore sono mirabilmente chiuse. Ci direbbe che gli basta la sua luce personale e che non ha bisogno di alcuna illumi­ nazione soprannaturale; che d’altronde, l’Atlantide è una ri­ dicola favola e che se esistesse un Paradiso terrestre lo si sa­ prebbe. Per quanto riguarda le anime, aggiungerebbe, nes­ suno le ha mai viste, e quando siamo morti, siamo morti dav­ vero. Quanto ai vostri vulcani e alle vostre convulsioni terre­ stri, anche questa è una bella fandonia. Gli scienziati dicano quel che vogliono. È loro mestiere far paura al mondo, ma io li sfido a togliermi l’appetito, ecc. « La via di Dio è nel mare e i suoi sentieri sono nelle pro­ fondità dell’abisso».141 Certamente, o Borghese; queste pa­ role del Salmista non significano gran che per te, anzi non devono proprio significare niente. Però, se queste parole le pronunziasse il tuo notaio, il tuo notaio inconcepibilmente e tutto d’un tratto illuminato, e ti rivelasse che tu stesso sei un abisso, nel quale cammina a suo bell’agio il padrone di tutti gli abissi, sì, veramente, se questo miracolo accadesse, che cosa diresti e che cosa ne sarebbe del tuo appetito? Pensaci dunque! un abisso che nessuno può misurare, come sta scritto nel Libro santo, e dove gli Occhi del Signo­ re, lucidiores supra solerti,142 sono i soli a potervi penetrare! Tu, il bottegaio ineccepibile e stimato, tu sarai l’abisso di Giobbe che dice: «La saggezza non è in me»;143 tu sarai l’a­ bisso che invoca l’abisso, invano! quando Colui che tu vuoi ignorare ti presenterà la scadenza della tua pigione d’abisso! Ci devi pensare, povero imbecille, e pensandoci smetterla un po’ di continuare a essere stupido e a far soffrire gli infe­ lici. Perché tu e io, siamo degli abissi, nient’altro che abissi!

Bourg-la-Reine, 18 aprile 1913

141. Libro dei Salmi, LXXVI1, 19. 142. «Più brillanti del sole», Ecclesiaste, XXIII, 28. 143. Giobbe, XXVIII, 14.

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INDICE DEI NOMI Abdul-Hamid Π ο Ab-Ulhamid II (1842-1918), sultano di Costantinopoli dal 1876 fu deposto nel 1909. Ordinò il massacro di cristiani armeni (1895-1896). Gabriel Hanotaux (v.), che aveva già ricoperto un inca­ rico diplomatico a Costantinopoli, era in quel periodo ministro degli affari esteri. I, 96

Abramo (XIX see. a.C.), figlio di Thare, nato a Ur nella Caldea. Fu il più grande dei patriarchi ebrei e visse per 127 anni. I, 98

Achille, figlio di Teti e Peleo, re della Fiotide in Tessaglia. Fu uno dei grandi eroi della guerra troiana e le sue gesta sono state raccontate nell’Iliade da Omero. II, 239.

Adam Paul (1862-1920), scrittore e polemista francese. Aderì dapprima al­ la corrente naturalista e di poi a quella simbolista. La sua visione misteriosofica e insieme pseudoscientifica non era condivisa da L. B. che lo introduce nel testo sotto lo pseudonimo molto palese di «Primo Uo­ mo». Lo spunto per questo luogo comune (I, CXXXII) è dato da un recente articolo di Adam sulla preparazione alla buona morte (Cfr. L. B., Journal, cit., t. II, 21 settembre 1901). I, 187.

Adriano Publio Elio (76-138), imperatore romano, grande protettore delle lettere e delle arti. Aveva fatto erigere mura colossali per delimitare i lontani confini del suo impero. I, 171. Aoreda Maria Coronel detta d’ (1602-1665), monaca cordigliera spagno­ la, famosa per le sue estasi. Ha scritto una Vita della Vergine che pre­ tendeva essere stata ispirata dalle sue visioni. L’opera fu condannata. I, 190.

Alessandro III detto il Grande (356-323 a.C.), re di Macedonia. I, 119. Allais Alphonse (1855-1905), scrittore e umorista francese. La grande ami­ cizia che lo legava a L. B., nata negli ambienti giornalistici dell’epoca e rinsaldata dalla complicità di una scelta alquanto simile di umori­ smo macabro e virulento, non riuscì a sopravvivere alle continue pro­ ve e richieste insistenti del nostro scrittore. L. B., in una lista intitola­ ta 26 mars 1892. Liste de ceux qui m’ont lâché depuis quelques an­ nées dove compaiono i nomi di coloro che lo hanno abbandonato e le date di questi per lui funesti avvenimenti, inscrive, accanto ai nomi di Huysmans (v.), François Coppée (v.), Gabriel Hanotaux (v.), Mau­ rice de Fleury (v.), anche quello di Allais in data 1892. Il suo astio verso questo falso amico era così radicato che lo introduce in modo mediato, attribuendo il suo nome a un personaggio di finzione (I, XX).

Anassagora (500-428 a.C.), filosofo greco, stabilitosi ad Atene dalla na­ tiva Clazomene (Lidia). Ebbe come allievi Tucidide ed Euripide. I, 203.

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Antistene (IV sec. a.C.), filosofo ateniese fondatore della scuola Cinica. Fu allievo di Gorgia e poi di Socrate. I, 203.

Antonio da Padova sant’ (1195-1231), francescano di tanta sagacia e fa­ condia nel dire, che meritò di essere chiamato da Gregorio IX l’«Arca del Testamento». Festa, 13 giugno. I, 61.

Aod (IV see. a.C.), giudice di Israele. Liberò gli israeliti dalla tirannia di Eglon re dei Moabiti. I, 78.

Apicio Marco Gabio, celebre gastronomo, vissuto al tempo di Tiberio. Scrisse un trattato sulla maniera di stuzzicare l’appetito, De re culina­ ria. Fu celebrato da Seneca, Giovenale, Plinio ed altri scrittori dell’e­ poca imperiale. Si tolse la vita con il veleno, temendo di non poter più vivere nella splendida agiatezza a cui era abituato, L. B. gli attri­ buisce impropriamente il nome di Celio. II, 284.

Arbuès Pietro san (1441-1485), canonico di Saragozza. Fu nominato in­ quisitore per il regno d’Aragona da Ferdinando il Cattolico nel 1484. Fu ucciso dagli ebrei mentre pregava in una chiesa e canonizzato da Pio IX nel 1864. I, 167.

Archimede (287-212 a.C.), grande matematico dell’antichità, nativo di Si­ racusa. I, 67.

Arianna, figlia di Minosse e di Pasifae, aiutò Teseo a combattere il Mi­ notauro (v.) e ad uscire dal Labirinto. I, 32.

Aristide (540-468 a.C.), generale e uomo di stato ateniese che per la sua probità fu detto «il Giusto». II, 237, 308.

Aristotele (384-322 a.C.), filosofo greco. II, 266. Ars curato d’, v. Vianney Jean-Baptiste Marie san. Atlante, figlio di Giapeto e di Climene, fu condannato da Giove, per aver preso parte alla rivolta dei Titani, a sostenere il peso della volta cele­ ste. II, 237.

Aulard François-Victor Alphonse (1849-1928), storico e critico letterario francese. I suoi studi si rivolsero specialmente sul periodo rivoluzio­ nario, L’éloquence parlementaire pendant la Révolution, 1882; Dan­ ton, 1894. II, 280.

Balzac Honoré de (1798-1850), romanziere francese. I, 190. Barbey d’AuREviLLY Jules-Amédée (1808-1889), romanziere e polemista francese. L. B. lo incontra quasi casualmente nel dicembre 1867 e stringe con lui una solida seppure discontinua amicizia. Alla sua frequenta­ zione deve la conversione religiosa, l’accentuarsi di un suo già agguer­ rito spirito polemico e quella propensione per il racconto crudele così ben delineato nelle Diaboliques (1878), novelle che consacrarono lo scrittore normanno come maestro del genere e anche caposcuola degli

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autori cattolici. Durante gli ultimi anni di Barbey, L. B., non condivi­ dendo le idee degli amici della baronessa de Bouglon, l’eterna amica e fidanzata, prende le parti di M.lle Read che si era invece attivamen­ te occupata dello scrittore ormai malato. Ed è proprio in casa di quest’ultima che incontra, nell’agosto 1889 e a pochi mesi dalla morte di Barbey, Jeanne Molbech che diventerà sua moglie. L. B. era rimasto molto colpito dalla morte dell’amico e la descrive nel testo, senza no­ minarlo, in due luoghi comuni (I, LXIII e II, LXXXIX). Nel 1903 sono state pubblicate le Lettres de Barbey d’Aurevilly à Léon Btoy. I, 176, 203; II, 293.

Barrés Maurice (1862-1923), romanziere francese, Nelle sue opere cercò di conciliare lo slancio romantico e la solida pragmaticità delle tema­ tiche latine ispirate all’ordine e alla ragione. Da questo impasto ne con­ seguì un esasperato culto dell’io, della terra e della morte che sfocia­ rono quasi inevitabilmente in un cupo nazionalismo. L. B. gli aveva consacrato nel 1892 un articolo molto ostile, dal titolo Petite secousse (L. B., Belluaires et Porchers, Paris, Stock, 1905, pp. 272-78). Nel Jour­ nal, cit., I, p.55, gli dà l’appellativo di «la fille Renan». I, 106; II, 275, 305.

Bartolomeo san, uno dei dodici apostoli. Festa, 24 agosto. Nel testo si fa menzione della famosa «Notte di san Bartolomeo» (23-24 agosto 1572) dove gli Ugonotti furono fatti massacrare da Caterina de Medici e i duchi di Guisa. I, 167-68; II, 270.

Baudelaire Charles (1821-1867), grande poeta francese che funzionò da tramite tra la corrente romantica e le scuole della seconda metà del­ l’Ottocento. L. B. apprezzò molto le sue Fleurs du mal (1867) e l’at­ teggiamento censorio e dissacratore nei confronti del Borghese. II, 243, 330.

Bazin René (1853-1932), scrittore francese che esasperava nelle sue opere la validità delle virtù ancestrali e, per questo motivo, chiaramente in­ viso a L. B. II, 291.

Beethoven Ludwig Van (1770-1827, compositore tedesco. L. B. scrisse un articolo su Beethoven in “Tablettes de la Schola”, 1 febbraio 1912. I, 206; II, 300.

Bergson Henri (1859-1941), filosofo francese. L. B. non stimava molto la sua teoria incentrata esclusivamente sull’evoluzionismo che stigmatiz­ za come approssimativa e funambolesca nel Journal, cit., Ili, p. 320. II, 257, 269, 313.

Biagio san (7-316), vescovo di Sebaste, città dell’Armenia. Festa, 3 febbraio. II, 270

Bloy Léon (1846-1917), scrittore e polemista francese. I, 202; II, 305.

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Bloy Madeleine (1897-1988), figlia del precedente e di Jeanne Molbech. I, 215.

Boileau Nicolas detto Boileau-Despréaux (1636-1711), scrittore francese. Il, 284.

Bossuet Jacques-Bénigne (1627-1704), prelato e famoso oratore sacro fran­ cese. Nominato vescovo di Meaux, fu chiamato per la sua illuminata sagacia «L’Aigle de Meaux». I, 76; II, 273.

Boucuerau Adolphe William (1825-1905) pittore francese, seguace dell’e­ strema fedeltà alla riproduzione reale fino alla precisione da dagher­ rotipo. Fu opposto, dalla critica contemporanea, come esempio posi­ tivo alle geniali innovazioni dei Fauves. I, 203.

Bourget Paul (1852-1935), scrittore francese che privilegiò un certo psi­ cologismo negli intrecci romanzeschi. L. B. cita (I, Vili) il suo romanzo Terre promise (1892) dove si ipotizza, nella prefazione, che il testo avrebbe potuto avere come titolo Le droit de l’enfant. Questa affer­ mazione ispira a L. B. l’articolo contro Bourget, L’Eunuque (Belluaires et Porchers, cit., pp. 252-61). Nello stesso periodo cita nel Journal il libro di Bourget e si pronuncia sulla possibilità di costruirvi sopra un interessante luogo comune. 1, 40, 57, 158 180, 187, 203; II, 260, 261, 272, 275, 291, 308, 326, 343.

Bran d’ENHAUT, personaggio storico normanno la cui storia fu narrata da Barbey d’Aurevilly (v.) , che voleva trarne spunto per un racconto, a L. B. I, 186.

Caino, figlio primogenito di Adamo ed Èva, uccise per gelosia il fratello Abele. I, 58.

Cambronne Pierre (1770-1842), comandante francese. Durante la battaglia di Waterloo rispose, secondo alcune versioni, con la frase «La vec­ chia guardia muore ma non si arrende». Un’accreditata aneddotica lo fa invece pronunciare quella famosa parola di cinque lettere alla qua­ le il suo nome è stato legato. I, 174, II, 286.

Canaris ο Kanaris Konstandinos (1790-1877), patriota e uomo politico gre­ co. I, 200.

Carlo II il Calvo (823-877), figlio di Ludovico il Pio, re di Francia e Im­ peratore d’Occidente. Non seppe difendere la Francia dall’invasione dei Normanni né l’Italia da quella dei Saraceni. Il, 259.

Carlo detto il Temerario (1433-1477), duca di Borgogna e figlio di Filip­ po il Buono. Il, 277.

Carneade (213-129 a.C.), filosofo greco, della scuola platonica, fonda­ tore della Nuova Accademia. I, 203.

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Caterina da Genova santa (1447-1510), della nobile famiglia dei Fieschi, Scrisse un Trattato sul Purgatorio e un Dialogo in cui compaiono co­ me interlocutori l’anima, il corpo, l’amor proprio, lo spirito, l’uma­ nità e Gesù Cristo. I, 179.

Caterina da Siena santa (1347-1380), terziaria domenicana. Festa, 30 apri­ le. I, 158.

Catullo Quinto Valerio (77-47 a.C.), poeta lirico latino. Il, 315.

Cesare Caio Giulio (100-44 a.C.), generale e uomo di stato romano. II, 259, 288.

Chamberlain Joseph (1836-1914), uno dei promotori della politica impe­ rialistica inglese, che con Cecil Rhodes, caldeggiò la guerra contro i Boeri del Transvaal. Le ultime fasi di questa guerra furono partico­ larmente cruente per la stessa popolazione civile, che perì nell’incen­ dio delle fattorie o nei campi di concentramento. I, 147.

Chateaubriand François René de (1768-1848), scrittore francese. L. B. ci­ ta (II, XXXVI) il famoso paradosso inserito nel suo Génie du Chri­ stianisme (1802). I, 165.

Cahuchard Hippolyte Alfred (1821-1909), ideatore dei grandi magazzini del Louvre. Si ritirò dagli affari nel 1885 e divenne filantropo e ama­ tore d’arte. Lasciò la sua collezione di quadri e di opere d’arte al mu­ seo del Louvre con un’ingente somma di danaro per il loro restauro e mantenimento. I suoi funerali furono trionfali e di pessimo gusto. II, 247, 350.

Cicerone Marco Tullio (106-43 a.C.), scrittore e famoso oratore roma­ no. II, 283.

Cineoiro, guerriero greco, figlio di Euforione e forse fratello del poeta Eschilo, caduto durante la battaglia di Maratona. Narra Erodoto che, nel tentativo d’inseguire i Persiani su una delle loro navi, gli furono troncate entrambe le braccia e le gambe. I, 50.

Cirillo san (IV see. d.C.), vescovo di Gerusalemme. Fu confessore e dot­ tore della Chiesa, morì nel 386. Festa, 18 marzo. II, 360.

Colombano san (540-615), illustre cenobiarca irlandese. Fondatore di mo­ nasteri molto famosi come quelli di Luxeuil in Francia, di San Gallo in Svizzera e di Bobbio in Italia. Festa, 21 novembre. I, 40.

Colombo Cristoforo (1451-1506), navigatore genovese e scopritore delle Americhe. La personale lettura mistica di questo «inventore» di nuo­ vi mondi viene fornita da L. B. in Le Révélateur du globe (1884), pre­ ceduto da un’entusiastica introduzione di Barbey d’Aurevilly (v.) e in Christophe Colomb devant les taureaux (1890), scritto ideato come sin­ golare dono di nozze alla sua sposa. I, 113, II, 359.

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Combes Emile (1835-1921), uomo politico francese. Presidente del Consi­ glio (1902-1905), instaurò una politica anticlericale con l’espulsione delle congregazioni religiose e propose anche la legge per la separazione tra 10 Stato e la Chiesa. II, 290, 317.

Coppée François (1842-1908), poeta e romanziere francese. Dapprima ami­ co di L. B., conosciuto in casa di Barbey (v.), diventa poi suo bersa­ glio preferito. L. B. colpisce in questo scrittore, come in molti altri, 11 simbolo della mediocrità incoronata dall’ingiusto riconoscimento dato dall’Académie française. Coppée, nella Bonne souffrance (1882) rac­ conta la sua conversione alla vera fede. I, 59, 148, 194; II, 260, 267.

Corneille Pierre (1606-1684), drammaturgo francese. Il, 344. Cosma san, fratello di Damiano (v.) e originario dell’Arabia. Medico di professione, come il fratello, subì insieme con lui il martirio durante le persecuzioni di Diocleziano. Festa, 27 settembre. II, 270.

Costantino V detto il Copronimo (718-775), figlio di Leone Isaurico, im­ peratore dissoluto e crudele iconoclasta. II, 295-96.

Courteline Georges Moineaux detto (1858-1929), commediografo e roman­ ziere francese. II, 281.

Creso, re della Lidia, tra i più ricchi e potenti del mondo allora cono­ sciuto. II, 354.

Crispino san, martire nel 287 assieme al fratello Crispiniano, protettore dei calzolai. Festa, 25 ottobre. II, 270.

Cristoforo san, visse al tempo dell’imperatore Decio e portò la fede cri­ stiana in Licia dove ricevette la corona del martirio. La forza della sua fede fu metaforizzata in una prodigiosa prestanza fisica che, se­ condo l’aneddotica popolare, gli permetteva di portare il Cristo sulle spalle. Festa, 25 luglio. II, 235.

Damiano san, v. Cosma san. II, 270. Daniele, uno dei quattro profeti detti maggiori. L’episodio riportato da L. B. si riferisce allo stratagemma ideato da Daniele che nella cenere aveva visto le impronte dei piedi dei sacerdoti, venuti nottetempo a cibarsi delle offerte consacrate al dio Bel. II, 340.

Dante Alighieri (1265-1321), scrittore e poeta toscano. II, 260, 357. David (1805-1015 a.C.), figlio di Jesse, della tribù di Giuda, re del Re­ gno Unito. II, 251.

DeMun Albert conte (1841-1924), uomo politico francese. Fondò nel 1873 VOeuvre des Cercles Ouvriers, che rappresentava assieme a tendenze sociali una propensione verso la destra. Per rendere più efficace la sua

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opera e il suo peso nella vita politica, volle organizzare un partito cat­ tolico, con tendenze monarchiche, ma l’invito di Leone XIII (v.) lo fece desistere dal proposito. II, 308.

Dentu, famiglia di editori e tipografi francese. L’ultimo prosecutore, in linea diretta, di questa attività fu Gabriel André Dentu (1796-1849). I, 38.

Descartes René (1596-1650), filosofo e matematico francese. II, 347.

Didon Henri-Martin (1840-1900), domenicano, lettore esperto della filoso­ fia di san Tommaso d’Aquino. Oratore possente e solerte educatore della gioventù fu attaccato da L. B. per la sua testimonianza a favore della morte cristiana di Claude Bernard (1878), teorico della scienza sperimentale. Cfr. L. B., Un Savonarole de Nuremberg, Propos d’un entrepreneur de démolitions, Paris, Stock, 1884, II p. 211. II, 296.

Disma o Dima san, era il nome dato, secondo la tradizione al buon Ladrone. II, 360-61. ο Donato di Nicolò Betto Bardi (1386-1466), scultore fioren­ tino. II, 246.

Donatello

Dreyfus Alfred (1859-1535), ufficiale francese. Israelita, fu accusato e con­ dannato a torto per spionaggio (1894). Fu assolto poi grazie anche a una vera e propria presa di posizione degli intellettuali francesi che, divisi in due fazioni opposte, continuarono a far parlare del suo caso. Emile Zola (v.) era tra gli innocentisti e scrisse un libello di adesione intitolato, J’accuse. I, 119.

Drumont Edouard (1844-1917), uomo politico e giornalista francese, ca­ po del partito antisemita francese. L. B. lo attacca ne Le salut par les Juifs (1892). I, 106.

Dumas Alexandre père (1803-1870), romanziere e autore drammatico fran­ cese. I, 180.

Dürer Albrecht (1474-1528), pittore e incisore tedesco. I, 206. Durkheim Emile (1858-1917), sociologo francese. Le sue teorie riconducevano i fatti morali a eventi sociali. Fu uno dei grandi fondatori della scuola sociologica francese di tendenza laica. II, 275, 280, 281, 282.

Du Sommerard Simons-Nicolas Alexandre (1779-1842), consigliere referen­ dario alla Corte dei conti francese. Molto ricco, divenne un grande collezionista di antichità che raccolse nell’Hòtel de Cluny, diventato un museo, poi acquistato dallo Stato nel 1843. I, 166.

Ecuba, moglie di Priamo, ultimo re di Troia. I, 110. Edipo, figlio di Laio, re di Tebe, e di Giocasta. Ritornando in patria, da dove era stato esiliato per la giusta profezia che lo vedeva parricida, svelò l’enigma della Sfinge. I, 32; II, 359.

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Elia (IX sec. a.C.), profeta di Israele al tempo di Acabbo e di Gezabele. II, 360.

Eligio sant’ (588-650), vescovo di Noyen, protettore degli orefici. Festa, 1 dicembre. II, 270.

Elisabetta Tudor (1538-1603), regina d’Inghilterra. I, 51. Emmerich Anna Catherina detta la suora di Dülmen (1774-1824), mistica tedesca. Si ritenne avesse ricevuto le stimmate. Le sue visioni furono descritte da Clemens Brentano, al quale lei stessa le aveva raccontate. I, 104.

Enoch, patriarca biblico, padre di Matusalemme. II, 360. Enrico IV di Navarra (1553-1610), diventato re di Francia grazie alla sua abiura al protestantesimo (1593). I, 89.

Epicuro (341-270 a.C.), filosofo greco. Insegnò l’atomismo. I, 203. Esone, re di Jolco, padre di Giasone e fratello di Polia. Essendo decrepi­ to ringiovanì, grazie alle opere magiche di Medea (v.), sua nuora. I, 53.

Espedito san, appartiene al gruppo dei martiri di Melitene, G. Delahaye ipotizza che sia soltanto la lettura errata di Elpidio e quindi sostiene la sua inesistenza. Festa, 19 aprile con Ermogene. II, 315.

Ester, ebrea, moglie di Assuero re di Persia e figlia di Mardocheo. I, 51. Euclide di Megara detto il Socratico (400-320 a.C.), fondatore della scuo­ la filosofica megarese. I, 203.

Ezechiele, uno dei quattro profeti detti maggiori, figlio di Buzi. I, 75.

Fallières Armand-Clément (1841-1931), uomo politico francese. Fu pre­ sidente del Senato nel 1899 e presidente della Repubblica dal 1906 al 1913. Allo scadere del suo settennato si ritirò dalla politica attiva per andare a curare i suoi vigneti del podere di Loupillon, vicino alla na­ tia Villeneuve-de-Mézin (Lot-et-Garonne). II, 263, 279.

Fénelon François de Salignac de La Mothe (1651-1715), prelato e scrit­ tore francese. II, 261. o Fiacrio san (610-670 circa), eremita irlandese, secondo la tradi­ zione, stabilitosi nella Gallia presso Meaux, dove fondò il monastero di Breuil. Festa, 30 agosto. L. B. lo fa discendere dal Priapo pagano, con una fantasiosa trascrizione latina. II, 270.

Fiacre

Fleury Jean-Baptiste-Louis-Edouard-Maurice de (1860-1931), medico e scrittore francese. Allievo di Charcot, s’interessò alla psichiatria. Fre­ quentò gli scrittori e gli artisti della scuola naturalista come Zola (v.), Maupassant (v.) ed altri. Molto amico di L. B., quando era interno a Sainte-Périne, verso il 1880, si allontanò da lui quasi dieci anni do­ po, scatenando le ire dello scrittore. L. B, lo dipinge con il nome fitti-

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zio di Maurice de Sainte-Périne in I, CIX e lo cita con quello ancor più evocativo di Maurice Peignecul in I, LXVI. I, 106, 145.

Foligno Angela da beata (1248-1309), terziaria francescana, dottissima nel­ le scienze teologiche. Le sue esperienze mistiche descritte nel Liber de vera fidelium experientia, composto da frate Adamo, ispirano una dot­ trina ascetica che rivela caratteri fortemente originali. Fu tradotta da Ernest Hello (v.). Festa, 4 gennaio. I, 207.

Forain Jean-Louis (1852-1931), disegnatore satirico e pittore francese. L. B. lo aveva conosciuto a casa di Barbey (v.). I, 94.

Fouquier-Tinville Antoine Quentin (1746-1795), spietato accusatore pub­ blico del Tribunale sotto la Rivoluzione francese. Il, 268.

France Anatole (1844-1924), romanziere e critico francese. La sua grande fama, in parte decretata da lettori borghesi, aveva più volte scandalizzato L. B., che lo ricorda anche come autore di racconti do­ ve vengono trattati argomenti religiosi con tono satirico (Π, XXII). II, 245, 261, 290, 297.

Francesco d’Assisi san (1182-1266), fondatore dell’ordine dei Francescani, Festa, 4 ottobre. I, 119.

Gambetta Léon (1838-1884), avvocato e uomo politico francese. Uno dei principali artefici, con Jules Fabre, della proclamazione della Repub­ blica dopo la disfatta di Sedan del 1870. Nel 1879 rifiutò la presiden­ za, appoggiando invece quella di Jules Grévy (v.). La statua in suo onore fu inaugurata nel 1889. I, 87, 105, 174, 213; II, 301.

Geraudel Auguste-Arthur (1841-1906), farmacista francese. Per curare le infezioni bronchiali della madre, inventò una pastiglia composta con il catrame della Norvegia mescolato a varie sostanze balsamiche. Questa medicina ebbe un successo strepitoso e fu esportata anche negli Stati Uniti e in Australia. I, 207.

Geremia (650-590 a.C.), uno dei quattro profeti maggiori. I, 40, 110. Giobbe, patriarca nativo della Caldea. Le sue peripezie sono rese note da un libro omonimo del Vecchio Testamento. II, 290, 362.

Gioele (Vili see. a.C.), il secondo dei dodici profeti minori. II, 262. Giosia, re di Giudea dal 639 al 609 a.C. II, 259.

Giovanni Battista san, figlio di Zaccaria e di santa Elisabetta, precur­ sore di Gesù Cristo. Festa, 24 giugno. I, 59, 151.

Giovanni Evangelista san, apostolo, figlio di Zebedeo e fratello dell’apo­ stolo san Giacomo il Maggiore. Festa, 27 dicembre. I, 115, 170.

Giovenale Decimo Giunio (55-128), poeta satirico latino. II, 285.

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Girolamo san (347-430), dottore della Chiesa. Esegeta e traduttore in Vul­ gata della Sacra Bibbia, fu nominato durante il Concilio di Trento «no­ taio dello Spirito Santo». Festa, 30 settembre. I, 25, 27.

Giuda Iscariota, apostolo nativo di Kerioth, sulle rive del lago di Tiberiade. L. B. si sofferma più volte sul suo gesto e lo cita come simbolico luogo comune di ogni possibile tradimento. I, 199; II, 231, 339, 354.

Giuditta (VII see. a.C.), eroina ebrea che uccise Oloferne (v.), generale di Nabucodonosor, che assediava la città di Betulia. II, 249.

Giuseppe san, sposo di Maria e padre putativo di Gesù. Festa, 19 marzo. II, 226, 270. ο Marie-Josèphe Tascher de la Paoerie (1763-1814), dappri­ ma moglie del visconte di Beauharnais e poi di Napoleone I (v.) che la incoronò imperatrice dei Francesi (1804). II, 288.

Giuseppina

Giustino san (100-167), filosofo e apologista cristiano, nato a Sichern in Palestina. Festa, 14 aprile. II, 360.

Grallon I, antico re della Bretagna, successore di Solon I. Nel 432 fece guerra contro i Romani. II, 358.

Gregorio IX papa, Ugolino dei conti di Segni (1142-1241). Uno dei primi atti del suo pontificato fu la canonizzazione di san Francesco d’Assisi e di san Domenico. Combatte anche Federico II, oppressore ad un tem­ po della Chiesa e dei Comuni italici. I, 47.

Grévy Jules (1807-1891), uomo politico francese. Giurista e deputato di estrema sinistra, successe al dimissionario Mac-Mahon (v.) nel 1879, alla presidenza della Repubblica. Pacifista, contrario alle imprese co­ loniali, si sforzò di esercitare personalmente il potere, allontanando Ferry e Gambetta (v.) che pure lo avevano aiutato nella sua carriera politica. Nel 1887 fu costretto a dimettersi in seguito allo scandalo delle decorazioni, nel quale era coinvolto suo genero Daniel Wilson. II, 307.

Guido Reni (1575-1642), pittore italiano. Guist'hau Armand (1864-1907), uomo politico francese. II, 279. Haendel George (1684-1759), compositore tedesco. II, 300. Hanotaux Gabriel (1853-1944), uomo politico e storico francese. Archivista-paleografo, addetto al ministero degli esteri (1879), capo di gabinetto dei ministeri Ferry e Gambetta (v.), fu ministro degli esteri, con una breve interruzione, dal 1894 al 1898. In tale veste partecipò ai negoziati per l’alleanza con la Russia e consolidò l’occupazione fran­ cese in Estremo Oriente. Scrisse importanti opere storiche, anche in collaborazione con A. Martineau, ma L. B. cita un suo libro minore del 1887, Le choix d’une carrière (I, LXXXIX e II, II). Il disprezzo e il risentimento dello scrittore nascono verso il 1884, periodo della

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sua relazione con Berthe Dumont. Spinto dal bisogno di danaro si ri­ volse all’amico che lo aveva già molto aiutato negli anni del suo dica­ stero ma ne ottenne un solenne rifiuto. Analoga esperienza conobbe quando si rivolse ad Hanotaux per avere i soldi per la sepoltura del figlioletto Pierre (1895). I, 59, 96, 128, 188, 214,; II, 224, 225, 237, 260, 261, 290, 320, 343.

Hello Ernest (1828-1885), pensatore e acuto polemista cattolico francese, L. B. lo incontra per la prima volta nel novembre 1875. I, 97, 176, 203. Hue Evariste Régis (1813-1860), della congregazione di San Lazzaro, mis­ sionario e viaggiatore francese. Scrisse interessanti resoconti dei suoi numerosi viaggi, Souvenirs d’un voyage dans la Tartarie e le Tibet pen­ dant les années 1844, 1845, 1846 e 1850, Le Christianisme en Chine, en Tartarie et au Tibet (1857-58). I, 79.

Hugo Victor (1802-1885), scrittore francese. L. B. cita il suo dramma Torquemada (I, CXXV11I) e Les Orientales, raccolta di versi (I, CLXIX). L. B. ricorda anche il discorso tenuto nel Panthéon da Hanotaux (v.) durante un penoso e confuso tributo al caposcuola del Romanticismo per il suo centenario. (L. B., Journal, cit., t. II, p. 96.) I, 167, 201, 207, 214.

Huvsmans Gustave Charles detto Joris-Karl (1848-1907), scrittore france­ se. La sua produzione di romanziere costruisce una parabola che lo porta dal naturalismo a un intenso misticismo cristiano. L. B. stringe con lui, a partire dal 1884, una salda amicizia che s’incrina per le soli­ te ragioni. Troppo esclusivo nei riguardi dei suoi amici e poco incline a «perdonare» loro i presunti tradimenti, L. B. pone fine a questo so­ dalizio nel 1889. I, 213.

Ilario di Poitiers san (315 ca.-367), vescovo di Poitiers e dottore della Chiesa. San Girolamo lo chiamò «il Rodano dell’eloquenza latina». Il, 360.

Innocenzo III papa, Lotario dei conti di Segni (1160-1216). Si oppose a Filippo il Bello e a Giovanni senza Terra; promosse la IV Crociata e la spedizione contro gli Albigesi. I, 47.

Ireneo (130 ca.-208), vescovo di Lione, nativo dell’Asia Minore. Subì il martirio sotto Settimio Severo. Festa, 28 giugno. II, 360.

Iside o Isi, divinità egiziana, sorella di Osiride. I, 45. Ivo san (1253-1303), santo bretone, patrono degli uomini di legge. Festa, 19 maggio. II, 270.

Jenner Edward (1749-1823), medico inglese scopritore della vaccinazione antivaiolosa. I, 163.

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Joly Elisabeth, cognata di René Martineau (v.). II, 219. Kanaris Klein, professore di francese, allievo di L. B. durante il suo se­ condo soggiorno in Danimarca. Cfr. L. B., Journal, cit., t. I, pp. 258-362. Nelle Esegesi prende il nome di Kanaris-Petersen (v.). I, 200.

Kanaris-Petersen, v. Kanaris Klein.

La Fayette Marie-Joseph marchese de (1757-1834), generale e uomo po­ litico francese. La strada che porta il suo nome inizia dalla Chaussée d’Antin e finisce al boulevard de la Villette. II, 309.

La Fontaine Jean (1621-1695), poeta francese. L. B. non ha mai molto apprezzato le sue Fables. II, 258.

Langlois Charles Victor (1863-1929), storico e cattedratico francese. Pro­ fessore di paleografia, continuò le sue ricerche negli Archivi della sto­ ria di Francia sul XIII e il XIV secolo. II, 280.

Lanson Gustave (1857-1934), letterato e critico francese. II, 280.

Lasserre Pierre (1867-1930), professore di filosofia , aderì alle dottrine na­ zionaliste di Charles Maurras. II, 281.

Lauretus Hieronymus v. LLORET Hieronimo. Lavedan Henri (1859-1940), giornalista, uomo di teatro e critico france­ se, entrato nell’Académie française nel 1899. Il, 297.

Lavisse Judas-Ernest (1842-1922), storico francese, Oltre alle ricerche spe­ cifiche e alla direzione di una colossale Histoire de France (1900-1912), riordinò l’insegnamento superiore, essendo stato nominato responsa­ bile dell’Istituto normale superiore. II, 280, 282.

Leone XIII papa, Gioacchino Pecci. Grande umanista, preconizzò in Fran­ cia un più rigoroso «ralliement» e, in una serie di encicliche, incorag­ giò il cattolicesimo sociale e l’avvicinamento della Chiesa ai problemi del mondo operaio (Rerum novarum, 1891). I, 46, 47.

Lépine Louis (1846-1933), amministratore e prefetto di polizia francese, Ha legato il suo nome a un concorso annuale (1902) per inventori. II, 260.

Lesbia, nome della donna amata e cantata dal poeta latino Catullo. II, 315. Lloret Hieronimo (1501-1571), frate benedettino spagnolo. L’edizione ori­ ginale della Sylva Allegoriarum è del 1570, in Barcellona. I, 33.

Lorenzo san (210-261), diacono di San Sisto IL Fu messo a morte sotto Valeriano. Festa, 10 agosto. II, 238.

Luca san, uno dei quattro evangelisti, nativo di Antiochia. Fu compagno di san Paolo (v.) che lo influenzò nella composizione del terzo Vange­ lo e nella stesura degli Atti degli Apostoli. Patrono dei pittori e dei medici. Festa, 18 ottobre. I, 195; II, 270, 319.

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Lucina, soprannome di Giunone quando è invocata come protettrice del­ le partorienti. I, 146

Luigi XIV (1638-1715), re di Francia. I, 116, 168; II, 279.

Luigi Filippo (1773-1850), figlio di Filippo Uguaglianza, re dei Francesi dal 1830 al 1848. Il suo regno segnò la salita al potere della classe borghe­ se. II, 307.

Mac-Mahon Edmé Patrice de, duca di Magenta (1808-1893), legittimista di intendimento servì con lealtà i vari regimi. Maresciallo di Francia, si distinse nelle campagne di Napoleone III. Fu governatore generale dell’Algeria e, nel 1873, ricoprì la carica di presidente della Repubbli­ ca, malgrado la sua provata fede monarchica. Durante la guerra francoprussiana, Mac-Mahon ordinò le famose cariche di Reichoffen, 6 agosto 1870, per disimpegnare le truppe francesi dalla stretta delle forze del principe reale di Prussia. Reichoffen è una località che si trova nel Basso Reno. I, 56, 140.

Macaire Robert, personaggio da melodramma, reso celebre da Frédérick Lemaître che lo interpretò sulle scene e dal caricaturista Daumier che lo raffigurò eroe borghese in una sequenza di Caricaturama (1836-1838). I, 74; II, 291.

Malebranche Nicolas de (1638-1715), filosofo francese. I, 164. Maria Stuart (1542-1587), regina di Scozia. I, 51. Martineau René (1868-1932), letterato francese. L. B. lo aveva conosciu­ to nel marzo 1901 e aveva ricevo da lui, oltre che la stima entusiasta per le sue opere, un soccorso finanziario che rese meno dura la sua esistenza a Lagny. In quello stesso anno, Martineau scrisse un testo critico su di lui, inserito in Un vivant et deux morts. Gli altri due au­ tori erano Villiers de l’Isle-Adam (v.) e Ernest Hello (v.). I, 23.

Massena André, duca di Rivoli (1756-1817), maresciallo di Francia. Fa­ moso per il suo carattere rude fu soprannominato da Napoleone (v.) «L’enfant chéri de la victoire». I, 174.

Matteo san, apostolo ed evangelista, nativo della Galilea. Festa, 21 set­ tembre. I, 170, 195.

Maupassant Guy de (1850-1893), scrittore francese. L’amicizia che lo le­ gava a Charcot e Fleury (v.) e l’adesione alla scuola naturalista lo aveva reso inviso a L. B. I, 187.

Mecenate, cavaliere romano. Favorito dell’imperatore Augusto, sfrutta­ va il suo potere per favorire le arti e le lettere. I, 53.

Medea, celebre maga, figlia di Eete re della Colchide. Sposò Giasone e con le sue arti riuscì a ringiovanire Esone (v.), suo suocero. II, 224.

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Messalina, moglie dell’imperatore Claudio e madre di Britannico e di Ot­ tavia. Fu rinomata per dissolutezza e crudeltà. Il, 288.

Memlino Hans (1435 ca.-1494), uno dei più originali e potenti pittori della scuola fiamminga. I, 139.

Menier Emile-Justin (1826-1881), industriale ed economista francese. Si oc­ cupò della sua fabbrica di cioccolato di Noisiel e divenne anche un chimico molto apprezzato. Aveva fondato alcuni periodici a Parigi come il “Voltaire” e “la Reforme économique”. I, 207.

Metchnikov

o Metchnikoff Elias (1845-1916), zoologo e microbiologo rus­ so, discepolo di Pasteur (v.). Premio Nobel nel 1908, aveva studiato per primo l’importanza dei globuli bianchi come elementi immunitari in un processo da lui chiamato «fagocitosi». I, 163.

Michelangelo Buonarroti (1475-1564), pittore, scultore, architetto e uo­ mo di lettere italiano. I, 60, 128.

Minotauro, mostro mezzo uomo e mezzo toro, figlio di Pasifae. Minosse lo rinchiuse nel Labirinto di Creta dove si cibava di vittime umane. Teseo, con l’aiuto di Arianna (v.), riuscì a ucciderlo. I, 32.

Molière Jean-Baptiste Poquelin detto (1622-1673), commediografo e at­ tore francese. L. B. lo considera svilito, un genere di consumo, non capito ma apprezzato dalla classe borghese. I, 115, 116; II, 266, 281.

Montaigne Michel Eyquem de (1533-1592), uomo di lettere francese. Il, 327. Morgan John Pierpoint (1837-1913), finanziere americano. Filantropo e collezionista d’arte, fu soprannominato «il re dell’acciaio». II, 350.

Mosè, il grande legislatore dell’Antico Testamento. L. B. fa riferimento alla statua di Michelangelo Buonarroti (v.). I, 128; II, 254, 327.

Murillo Bartolomé Esteban (1618-1682), pittore spagnolo. I, 130. Musset Alfred de (1810-1857), scrittore e poeta francese. II, 273. Napoleone I Bonaparte (1769-1821), imperatore dei Francesi. Nella costru­ zione storica di L. B. che privilegia più i personaggi determinanti che le varie epoche storiche non poteva mancare uno studio sul grande Corso (L'Ame de Napoleon, 1912). I, 99, 113, 120, 135, 174, 176, 207; II, 279, 288.

Nerone (37-68), imperatore romano, leggendario per la sua crudeltà e le sue persecuzioni contro i Cristiani. I, 120; II, 268.

Nicodemo san, ebreo fariseo, discepolo di Gesù. Gli viene attribuito un Vangelo apocrifo, chiamato Atti di Pilato. Festa, 3 agosto. II, 251.

Nietzsche Friedrich (1844-1900), filosofo tedesco. La sua teoria, tutta co­ struita sull’energia vitale non era mai stata condivisa né apprezzata da L. B. II, 257.

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Oloferne, generale di Nabucodonosor ucciso da Giuditta (v.). Il, 249. Omero, il più grande poeta lirico dell’antica Grecia. La tradizione lo vuo­ le cieco. I, 108, 142; II, 223.

Paolo san detto l’Apostolo dei Gentili (15-67), convinto fariseo e strenuo avversatore dei Cristiani, convertito sulla via di Damasco. L. B. aveva trasferito la sua interpretazione simbolica delle Sacre Scritture in un’o­ riginale lettura delle vicende storiche. Ottenne così un effetto di sincro­ nismo che, di fatto, destoricizza gli avvenimenti ma che gli consente però di abolire la presenza del «caso», in un eterno presente storico. I, 49, 68, 88, 132, 210; li, 231, 249.

Pascal Blaise (1623-1662), matematico e filosofo francese. I, 48. Pasteur Louis (1822-1895), chimico e biologo francese. I suoi lavori di ri­ cerca immunologica furono coronati con la creazione dell’lnstitut Pa­ steur (1888), destinato a proseguire gli studi di microbiologia. 1, 162, 163.

PeignecuL Maurice v. Fleury Maurice.

Penelope, fedele sposa di Ulisse, re di Itaca, e madre di Telemaco. Il, 263. Petronio o Caius Petronius Arbiter (I sec. d.C.), scrittore latino. Fu au­ tore del Satyricon. II, 284.

Pietro san (?-64), nativo di Betsaide, in Galilea. Fu il primo degli apo­ stoli e il primo papa. Festa, 29 giugno. I, 132.

Pilato Ponzio (I see. d.C.), procuratore romano nella Giudea. Non si op­ pose , con un atto di bieca passività, al sacrificio del Figlio di Dio. I, 58, 69, 115; II, 245, 351.

Pio IX papa, Giovanni Maria Mastai Ferretti (1792-1878). Proclamò nel 1854 il dogma dell’Immacolata Concezione. Benché fosse famoso per le sue propensioni liberali, non appoggiò il movimento unitario italia­ no. Con il Syllabus (1864), si pronunciò duramente contro gli errori mo­ derni. I, 113.

Pirrone (IV see. a.C.), filosofo greco. Fu il fondatore della scuola detta Scettica. I, 203.

Platone (428-348 a.C.), filosofo greco. Fu discepolo di Socrate e maestro di Aristotele. L. B. lo cita a proposito del mito di Atlantide, ricordan­ do i dialoghi Crizia e Timeo. II, 297, 356, 359.

Poincaré Raymond (1860-1934), avvocato e uomo politico francese. Fu presidente della Repubblica dal 1913 al 1920. II, 279.

Potin Félix (1811-1879), creatore di una catena di negozi. I, 207.

Prometeo, dio del genio del fuoco. Fu punito da Giove perché aveva tra­ sgredito ai suoi ordini, consegnando il fuoco anche agli uomini.

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Prudhomme o Prud’homme Joseph, personaggio creato dal romanziere Henri Monnier (1805-1877). Impersonò tutte le caratteristiche, viste in negativo, che erano appannaggio della classe borghese. Il, 225, 352.

Quinet Edgar (1803-1875), storico francese. Filosofo idealista ed ateo, for­ mulò le sue teorie su un pensiero fortemente liberale. Esiliato da Napo­ leone III, ritornò a Parigi nel 1870 con l’insediarsi della Commune. II, 290.

Reischoffen, cariche di, v. Mac-Mahon Edmé Patrice de.

Rembrandt Harmanszoon van Rijn detto (1606-1669), grande pittore fiammingo. II, 246.

Renan Ernest (1823-1892), scrittore francese. Abbandonò la carriera ec­ clesiastica per consacrarsi allo studio delle lingue e delle religioni. Nei suoi lavori di esegeta confermò una fede indiscussa nel razionalismo e nel progresso delle scienze. Cfr. Avenir de la science, 1890. I, 77, 101.

Richebourg Jules Emile (1838-1898), poeta e romanziere francese. Diven­ ne molto famoso per i suoi feuilleton. I, 60.

Richelieu Armand Jean Du Plessis (1585-1642), uomo di Stato fran­ cese. I, 96.

Ricord Philippe (1800-1889) medico chirurgo francese. Specializzatosi nello studio delle malattie veneree, riuscì ad isolarne i vari ceppi e a indicar­ ne le differenze. Insignito con la Legion d’onore da Thiers (v.), gli fu innalzata una statua in Boulevard de Port-Royal. I, 67.

Robespierre Maximilien de (1758-1794), avvocato e uomo politico france­ se. I, 186.

Rousseau Jean-Jacques (1712-1778), scrittore e pedagogista francese. I, 161; II, 299, 336.

Sade Donatien Alphonse François marchese de (1740-1814), scrittore fran­ cese. I, 187.

Sadoch Kahn o Zadoch Kahn, rabbino capo al quale L. B. aveva reso visita immediatamente dopo la pubblicazione del suo libro, Le Salut par les Juifs (1892). Cfr. L. B., Journal, cit„ t. I, p. 86, dove viene già sot­ tolineato il luogo comune In tutte le religioni c’è del buono (I, CXXX). I, 170.

Sainte-Périne Maurice, v. Fleury Maurice.

Salomone (I see. a.C.), figlio e successore di David (v.), re d’Israele. I, 151; II, 249.

Sansone (XII see. a.C.), leggendario Giudice degli Ebrei. I, 58, 159. 378

ScHMOEGER Hans, padre redentorista, biografo di Anne Catherina Emmeneh (v.). I, 104.

Schopenhauer Arthur (1788-1860), filosofo tedesco. Ideatore del pessimi­ smo, avversò le dottrine di Fichte, Hegel e Schelling. Nelle sue teoriz­ zazioni, insegnò che le cose sono proiezioni successive di una volontà panteistica, ciecamente portata a desiderare resistenza, mentre essa è per lo più lotta e dolore. L. B. avversava questo tipo di atteggiamento filosofico, avulso da una possente mistica dell’esistenza. I, 40; II, 257.

Scipione Publio Cornelio, detto l’Africano minore (185-129 a.C.), gene­ rale romano, figlio di Paolo Emilio, detto il Macedone. Distrusse Car­ tagine (146 a.C.) e Numanzia (133 a.C.). I, 77.

Seignebois Charles (1854-1942), storico francese. Collaborava con Langlois (v.) a opere quali La Méthode historique appliquée aux sciences socia­ les (1889). II, 280, 382.

Sévigné Marie de Rabutin Chantal marchesa de (1626-1696), autrice di fa­ mose Lettres indirizzate alla figlia, che illustravano la vita di corte, di­ ventando quasi una cronaca dell’epoca. II, 254.

Shakespeare William (1564-1616), poeta drammatico inglese. I, 206.

Simone detto il Mago, ebreo convertito. Aveva richiesto agli Apostoli di pagare il segreto del dono di operare miracoli. Maledetto da san Pietro (v.), si recò a Roma dove diede origine a una setta di gnostici. Dal suo nome si coniò il vocabolo simonia. II, 235.

Sofocle (496-406 a.C.), poeta tragico greco. I, 110. Stefano santo, diacono e primo martire cristiano, lapidato in Gerusalem­ me il 31 o il 36 dopo Cristo. Festa, 26 dicembre. I, 181; II, 320.

Tacito Caio Cornelio (55-120 ca.), storico latino. I, 120; II, 285. Talete, filosofo nativo di Mileto e uno dei Sette Savi della Grecia antica. I, 203.

Teodosio I detto il Grande (346-397), imperatore romano d’Oriente. II, 259.

Termier Pierre (1859-1930) geologo francese. Fu dapprima professore a Saint-Etienne (1885-1894) e poi cattedratico di mineralogia all’Ecole des Mines di Parigi. Conobbe nel 1906 L. B. e ne divenne l’amico fedele e disinteressato, aiutandolo a trascorrere con maggiore serenità l’ultima parte della sua esistenza. Il, 356, 357, 359.

Tertulliano Quinto Settimio Fiorente (160-240), apologista cristiano, na­ tivo di Cartagine. L. B. ammirava la veemenza e la robusta prosa di questo scrittore energico e motivato. I, 129.

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Theot Catherine (1716-1794), falsa veggente che pretendeva essere la nuova Èva e la madre del Messia. Sotto la Rivoluzione, istruirono contro di lei un’istruttoria, nella quale cercarono d’implicare Robespierre (v.), che era stato da lei designato come il Salvatore. I, 186.

Thiers Adolphe (1797-1877), uomo di Stato e storico francese. Venuto a Parigi dalla natia Marsiglia, fondò il “National” (1830) e appoggiò la Monarchia di Luglio. Nel 1870 si oppose invano alla dichiarazione di guerra contro la Prussia. II, 325, 333.

Tiberio, Claudio Nerone (42 a.C.- 37 d.C.) secondo imperatore romano. II, 284.

Tobia, ebreo della tribù di Neftali, celebre per la sua pietà. II, 251. Tommaso san detto Didimo, uno dei dodici apostoli. È ricordato per la dif­ fidenza da lui mostrata nei riguardi della Resurrezione di Cristo. Festa, 21 dicembre. I, 57, 58.

Torquemada Tomas de (1420-1498), grande Inquisitore di Spagna, triste­ mente conosciuto per lo zelo con il quale esercitava la sua missione. I, 167.

Tucidide (471-400 a.C.), storico greco, nativo di Atene. II, 266. Ulisse, re di Itaca, sposo di Penelope (v.) e padre di Telemaco. II, 263.

Vallès Jules (1832-1885), scrittore e giornalista francese. L. B. non lo sti­ mava molto perché lo vedeva troppo legato al periodo della Commune. I, 55, 116.

Venere, dea romana dell’Amore e della bellezza. II, 236. Verlaine Paul (1844-1886), poeta francese. I, 176, 203; II, 243. Vespasiano (9-79), imperatore romano di modeste origini. Dotato di forte carattere, ristabilì le finanze, riformò il senato e l’ordine equestre e fece costruire il Colosseo e il tempio dedicato alla Pace. I, 152.

Vianney Jean-Baptiste Marie san detto il Curato di Ars (1786-1859), cu­ rato di Ars per oltre quarant’anni, attirò in questa città numerosi pelle­ grini che lo veneravano per la sue opere improntate già a una grande santità. Festa, 9 agosto. I, 119.

Vigny Alfred de (1797-1863), poeta e romanziere francese. I, 123, 211. Villiers de I’Isle-Adam Auguste conte de (1838-1889), scrittore francese. La sua amicizia con L. B. risale al 1876, quando frequentavano il sa­ lotto di Nina de Villard, e termina soltanto con la morte. L. B. riporta, in forma aneddotica, il suo compiacimento nell’assistere alle esecuzioni capitali (I, LXXXIII) e fa intuire la sua presenza nel bieco episodio di un direttore di giornale che misconosce il suo genio (I, CIX).

380

Villiers aveva descritto Torquemada in un suo racconto, intitolato La Torture de l’espérance (I, CXXVIII). I, 122, 167, 176, 203; II, 243, 292.

Vincent Barthélemy, appartenente alla famiglia Vincent, editore in Lione nel XVI secolo. I, 33.

Virgilio Publio Marone (70-19 a.C.), poeta latino. II, 233. Vitellio Aulo (15-69), imperatore romano, famoso per la sua crudeltà. I, 152)

Voltaire François-Marie Arouet detto (1694-1778), scrittore francese. L. B. non condivideva il teismo di Voltaire. Nel luogo comune LX del­ la prima serie si fa riferimento alla voce Ame del Dictionnaire philoso­ phique (1754) di Voltaire. La citazione appare alquanto distorta ed esa­ gerata. I, 77, 79, 99, 100, 143; II, 336.

Wells Herbert George (1866-1946), scrittore inglese. L. B. apprezza i suoi romanzi di avventura o pseudoscientifici e li cita anche nel suo Jour­ nal. I, 125 nota.

Zaccaria, uno dei dodici profeti minori. II, 272.

Zola Emile (1840-1902), scrittore e polemista francese. L. B. lo aveva in­ dividuato e scelto come bersaglio preferito del suo odio verso gli scrit­ tori naturalisti o nei confronti di tutti coloro che cercavano di costruire le vicende narrate su matrici scientifiche. In Je m’accuse (1900) — chia­ ra allusione e risposta al J’accuse zollano — gli consacra un capitolo, intitolato Le crétin des Pyrénées. Emile Zola, in quegli anni, aveva pub­ blicato Lourdes. I, 39, 106, 160, 163, 189, 215; II, 285, 300, 325, 326.

381

INDICE

Introduzione .................................................................................

7

ESEGESI DEI LUOGHI COMUNI.......................................

21

Dio non chiede mai troppo...................................... Niente è assoluto, tutto è relativo ......................... II meglio è nemico del bene .................................... L’ospedale non è fatto per i cani ........................ La povertà non è vizio ........................................... Nessuno al mondo è perfetto .................................. I disonesti temono la luce del sole ....................... I bambini non chiedono di nascere....................... Bisogna mangiare per vivere.................................. Non si può vivere senza danaro............................ Far produrre il danaro.............................................. Gli affari sono affari ............................................... Ho la legge dalla mia parte .................................. Non è possibile avere tutto .................................... Non tutti possono essere ricchi ............................ Bisogna morir ricco ................................................. Quando si è in commercio....................................... Non ci si rifà.............................................................. La medicina è un sacerdozio ................................ Tutte le opinioni sono rispettabili ........................ Sono come san Tommaso......................................... Me ne lavo le mani come Pilato .......................... Predicare nel deserto come san Giovanni ........... Essere nelle nuvole ...................................................

29 30 31 33 34 35 39 40 41 42 43 44 45 47 48 49 50 52 53 45 57 58 59 60

I

π in IV V vi vu vin IX X

xi XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV

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Essere come si deve ................................................. 61 Essere pratici .............................................................. 62 «Stare a cavallo» sui princìpi .............................. 63 Essere poeta in determinate ore............................. 64 Essere in stato interessante ..................................... 65 Bisogna essere del proprio secolo ........................ 65 Non si deve essere più cattolici del Papa........... 68 Tutti i gusti esistono nella natura ........................ 69 Non sempre conviene dire tutte le verità ............ 69 Complicarsi inutilmente la vita ovvero Cercare di far suonare mezzogiorno alle due ........................ 70 XXXV Ci sono dei limiti che non bisognasorpassare . 71 XXXVI Ogni eccesso è difetto ............................................. 71 XXXVII Bisogna stare nel branco ovvero Ululare coi lupi 75 XXXVIII Soltanto la verità offende ........................................ 76 XXXIX Per ambizione si perdono i grandi uomini.......... 77 XL Non siamo sulla terra per divertirci .................... 78 XLi Non sono un santo............................................. 78 XLII Non mi reputo migliore di quel che sono.......... 80 XLiii La parola è d’argento e il silenzio è d’oro .... 81 XLiv Mi sono ben meritato il riposo ............................. 82 XLV II danaro non fa la felicità, ma........................ 83 XLVi Rientrare nel danaro speso ...................................... 84 XLVii Tutti devono vivere .................................................... 85 XLViii Tutte le strade portano a Roma ........................... 86 XLix Parigi non è stata costruita in un giorno........... 87 L La pioggia e il bel tempo ........................................ 87 li II fior fiore della gente perbene............................. 88 Lii L’onore delle famiglie .............................................. 92 lui I doveri del mondo .................................................. 93 Liv L’abitudine è una secondanatura ........................... 93 LV Non c’è piacere dove c’è disagio........................... 94 LVi Non c’è gioia senza dolore ................................ 95 Lvii Non si fa la frittatasenza rompere le uova ... 96 LViii Non ho spiccioli ......................................................... 97 Lix Potrei essere vostro padre .................................. 98 LX Si muore una volta sola ......................................... 99 LXi Beato lui, non soffre più! ........................................ 100 LXii Èmorto senza accorgersene ..................................... 101 LXiii Si direbbe che dorma ............................................ 101 XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV

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È morta come una santa.......................................... 103 Bisogna rispettare i morti ........................................ 104 Lxvi I morti non possono difendersi ............................. 105 LXVH Non sono un servo io ovveroQuando si allatta 106 Lxviii Non ho bisogno di nessuno .................................... 109 LXix I grandi dolori sono muti........................................ 109 lxx «Quo vadis?» ............................................................. no Lxxi La più bella fanciulla del mondo non può dare che quello che ha .............................................................. Ili lxxii Nessuno è tenuto all’impossibile ........................... 113 Lxxiii Un uomo avvisato ne vale due ............................. 114 LXXiv Che volete! l’uomo è uomo ................................... 115 Lxxv Col cielo ci s’aggiusta sempre................................. 115 Lxxvi Ci si conosce nell’altro mondo................................ 116 lxxvii I preti sono uomini come tutti gli altri............... 117 Lxxvni Ognuno per sé e il buon Dio per tutti............... 118 Lxxix Andarsene tranquilli per la propria strada.......... 119 LXXX Non valere quanto il diavolo .................................. 120 Lxxxi Lamentarsi che la moglie è troppo bella ovvero Non essere mai contento ................................................. 121 Lxxxii Ammazzare il tempo ................................................. 122 Lxxxiii Avere sempre la battuta pronta............................. 122 Lxxxiv Assicurare l’avvenire ai figli .................................... 123 lxxxv Fare onore alla firma o agli affari ....................... 124 Lxxxvi Fare un buco nella luna ovvero Squagliarsela senza pagare. Farsi un proprio buco ovvero Farsi una posizione ...................................................................... 124 Lxxxvii Tenere il piede in due staffe.................................... 125 Lxxxvni Vendere la pelle dell’orso........................................... 127 Lxxxix Perdere le proprie illusioni ...................................... 128 xc Soffrire le pene del martirio.................................... 128 xci Sepellirsi nel chiostro ................................................. 129 xcii Cercare il pelo nell’uovo .......................................... 130 xeni Stendere la mano ....................................................... 131 xciv Rispettare le convenienze.......................................... 134 xcv Essere in buona fede ................................................ 134 xcvi Non essere il primo venuto...................................... 135 xcvii Fare le prime scappatelle ovvero La gioventù deve divertirsi ovvero Non siamo di legno ................. 135 xcviii Fare un buon matrimonio....................................... 136

LXiv lxv

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Prefiggersi il matrimoniocome finalità.................. Farsi una ragione ...................................................... Metter su un affare .................................................. Cll Incoraggiare le belle arti .......................................... cui Dalla discussione viene la luce ................................ civ Chi sente soltanto una campana sente soltanto un suono ........................................................................... cv II sole splende per tutti ............................................ evi Tutti hanno più spirito di Voltaire ...................... cvii Chi vuol provare troppo, prova niente................ cviii Non è mai troppo tardi per fare bene................ cix A poco a poco l’uccello si costruisceil nido ... ex I piccoli ruscelli formano i grandi fiumi............ exi Non si può essere ed esser stato ........................... cxii Se la gioventù sapesse, se la vecchiaiapotesse... cxni Se si sapesse tutto! .................................................... exiv Non si può pensare a tutto..................................... cxv Non si possono fare due cose insieme ................ cxvi Ogni cosa a suo tempo ............................................ cxvii II tempo è danaro....................................................... cxvm II danaro non ha odore............................................ exix Più si fa i matti, più ci si diverte........................ cxx Non è oro tutto quel che brilla ............................. cxxi Non bisogna scherzare col fuoco........................... cxxn II buon Dio ................................................................. cxxiii La Natura ................................................................... cxxiv La Scienza ................................................................... cxxv La Ragione ................................................................. cxxvi II Caso .......................................................................... cxxvii La notte del Medioevo ........................................... cxxviii L’Inquisizione ............................................................. cxxix La notte di san Bartolomeo ................................... cxxx In tutte le religioni c’è del buono ........................ cxxxi Avere una falsa coscienza. Esagerare .................. cxxxii Non bisogna vedere troppo nero.......................... cxxxiii Le disgrazie tornano sempre utili .......................... cxxxiv Saper attendere .......................................................... cxxxv La salute innanzitutto .............................................. cxxxvi Dio non fa più i miracoli....................................... cxxxvii Non sono più stupido degli altri .......................... XCIX

c ci

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136 137 139 139 140 141 142 142 143 144 145 147 147 148 148 149 150 151 152 152 153 158 159 160 161 162 164 164 165 166 167 169 170 170 172 173 173 175 175

cxxxviii II fine giustifica i mezzi e Con i centesimi si fanno i milioni ....................................................................... cxxxix Mostrare cuore saldo ad avversa fortuna............ CXL Aver cuore, buon cuore............................................ CXLI Avere amor proprio ................................................... CXLH Avere facilità nel lavoro .......................................... CXLHI Avere fortuna ............................................................. CXLIV Avere pane in tavola ................................................ CXLV Mantenere delle ballerine .......................................... CXLvi Gli assenti hanno sempre torto .............................. cxLVii II danaro scompare..................................................... CXLvili Voglio dormire tranquilla ........................................ CXLIX Non voglio morire come un cane ......................... cl Gli amici dei miei amici sono miei amici............ CLI Vi parlo da amico ..................................................... cui La lettura preferita ..................................................... clip II cuore in mano e Le lacrimedi coccodrillo .. CLiv Essere figlio delle proprie azioni ........................... clv Cherchez la femme ..................................................... CLVI La donna onesta ......................................................... CLVii II coraggio civile ......................................................... CLViii Non tutto è roseo nella vita.................................... CLix Gli anni belli dell’infanzia........................................ CLX II buon tempo antico ................................................. CLXi C’è un Dio per gli ubriachi .................................... CLXii L’appetito vien mangiando ...................................... CLXiii Si presta soltanto ai ricchi ...................................... CLXiv Nessun mestiere è inutile .......................................... CLXV La notte è fatta per dormire.................................. CLXVI L’occasione fa l’uomo ladro.................................... CLXVII Non c’è fuoco senza fumo ...................................... CLXViii Tra due mali bisogna scegliereil minore.............. CLXix Non si è oro di coppella ovvero Quello che si addi­ ce alle giovinette ........................................................ CLXX La critica è facile ma l’arte è più difficile........... CLXXI Sono filosofo o l’Anno quaranta........................... CLXXii Una volta sola non costituisce abitudine ............ CLXXiii Non ci voleva proprio! ............................................ CLXXiv I figli sono come noi li facciamo ................... CLXXV Bisogna farsi un nome.............................................. 387

176 178 179 179 180 180 181 182 183 183 183 185 186 186 187 188 189 190 190 191 193 194 194 195 196 196 197 198 199 199 200 200 203 203 204 204 206 207

Si fa quel che si può ............................................... Si...................................................................................... Tutti gli uomini sono fratelli ................................ Tutto o niente ............................................................ Quel che donna vuole, Dio lo vuole................... Chi paga i debiti si arricchisce.............................. clxxxii Quando il diavolo diventa vecchio si fa eremita CLXXXiii Che cosa facevate nel 1870? .................................. Epilogo ......................................................................... CLXXVi CLXXVII CLXXViii CLXXIX CLXXX CLXXXI

207 208 209 209 210 211 212 215

ESEGESI DEI LUOGHI COMUNI

I

π in IV V vi vìi vili ix X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII

Alla mia cara piccola amica Elisabeth Joly ......................

219

Preludio

....................................................................................

221

Dividere con l’ospite quello che si ha la fortuna di avere in pentola ovvero Quando ce n’è per due ce n’è per tre .................................................................. La scelta di una carriera .......................................... Un vagabondo ovvero Un uomo senza confessione Un uomo di peso ...................................................... Promettere più burro che pane ............................ Mangiare prima il pane bianco ............................. In modo onesto ........................................................... Pagate e sarete presi in considerazione................ È il primo passo che costa...................................... Mettere l’aratro innanzi ai buoi............................ Conti... chiari, amicizia lunga .............................. Portare fortuna. Portare disgrazia........................ Tappare il buco .......................................................... Avere un cattivo affare per le mani................... Stare sui carboni ardenti ......................................... Avere a proprio carico............................................. Fare la propria strada ............................................. Fare cerimonie ............................................................ Fare bene le proprie cose ....................................... Mandare a dire a qualcuno tante cose............... Fare del bene attorno a sé ..................................... Fare del proprio meglio ........................................... Fare la vita ................................................................

223 224 225 227 228 228 229 230 232 233 234 235 236 237 238 239 239 240 241 243 243 245 246

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Fare fortuna ................................................................ Fare il buono e il cattivo tempo .......................... XXVI Fare la carità ............................................................... XXVII Fare l’amore ................................................................ XXVIII È meglio fare invidia che pietà ............................ XXIX Fare un po’ di toeletta ........................................... XXX Fate come se foste a casa vostra.......................... XXXI Farsi una pinta di buon sangue............................ XXXII Le cose migliori hanno un temposolo................. XXXIII Una gioia non arriva mai sola............................... XXXIV Anche le buone compagnie si devono sciogliere XXXV Essere un uomo ordinato ....................................... xxxvi Avere un bel tupé ...................................................... XXXVII Dar prova ................................................................... XXXVIII Aver parecchie corde al proprio arco.................. XXXIX Avere i piedi ben al caldo ovvero Aver fieno nei propri stivali .............................................................. XL Avere un cuore d’oro .............................................. XLi Avere come testimone la propria coscienza .... XLii Badare al solido ......................................................... XLiii È meglio aver da fare con Dio che con i suoi santi XLiv La religione è così consolante! ............................... XLV La riserva mentale .................................................... XLVI Leggere tra le righe .................................................. XLVii Leggere a mente riposata ........................................ XLViii Doveri verso Dio e verso il diavolo .................... XLix Come uno si è fatto il letto, così dorme............ L Mettere acqua nel vino ............................................

263 264 264 268 270 271 274 274 276 276 277 278

INTERMEZZO ............................................................................................

279

Far bene e lasciar dire ...........................................................

279

II latino maccheronico .............................................. II latino intercalato nel discorso è un affronto al­ l’onestà ......................................................................... 11 latino è una lingua morta.................................... Ci perdo il mio latino ovvero Non ci capisco un’acca 11 matrimonio è una lotteria .................................... Ingannare il proprio marito ....................................

283

XXIV

XXV

li Lii

lui Liv LV LVI

389

247 248 248 251 251 252 253 253 254 255 256 257 259 261 262

284 285 286 287 287

LVii LVin Lix LX

LXI LXii LXiii LXiv Lxv LXVi Lxvii Lxviii LXix Lxx Lxxi Lxxii Lxxiii lxxiv

Lxxv lxxvi lxxvii

Lxxviii Lxxix Lxxx Lxxxi Lxxxii Lxxxiii lxxxiv

Lxxxv Lxxxvi lxxxvii lxxxviii

Lxxxix xc xci

xcii xeni

Non ci si sporca che col fango ............................. II fuoco purifica tutto .............................................. Tener conto del fuoco ovvero Salvare il salvabile II fuoco sacro. Il fuoco della creazione. Il fuoco di paglia ....................................................................... Gettare olio sul fuoco .............................................. Scherzare col fuoco ................................................... Stare tra due fuochi ................................................... Gettarsi nel fuoco per qualcuno............................. II battesimo del fuoco .............................................. Dove avete preso le belle cose che dite? .............. Siete un originale ....................................................... L’Onore ........................................................................ L’Onestà ........................................................................ È meglio sentire questo che essere sordo............ Dove non c’è niente il re perde i suoi diritti ... Essere in galera. Essere in onore........................... Essere in dolce compagnia ...................................... A la guerre comme à la guerre ............................. Per tutto c’è un inizio .............................................. Niente è eterno ........................................................... Un’aurea mediocrità .................................................. Gli estremi si toccano .............................................. Essere benpensante ovvero Indietreggiare per sal­ tare meglio .................................................................. Adempiere ai propri doveri religiosi .................... Lavorare è pregare ..................................................... II Fanatismo ............................................................... La parola di Dio ...................................................... Una vita edificante .................................................... Non saper più a che santo votarsi......................... L’uomo propone e Dio dispone............................. Atteso come il Messia .............................................. Chi dà ai poveri presta a Dio ............................... Nessuna nuova, buona nuova................................. Rendere chiara la propria religione ...................... Fare due centri con la stessa pietra ovvero Prende­ re due piccioni con una fava ................................ Prendere parte al lutto di qualcuno .................... Servo vostro e di tutto cuore! ...............................

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Altro è promettere altro è mantenere .................. Avere delle speranze .................................................. Fare una bella morte ................................................ Perdersi in congetture .............................................. A mali estremi rimedi estremi ............................... La scienza non ha detto l’ultima parola.............. Non parlo a caso ...................................................... Non sono nato ieri .................................................... II tempo passato non ritorna più........................... Da che mondo è mondo .......................................... Dove andiamo? ........................................................... Aver danaro................................................................. Conosco solo il danaro ............................................ Non sputo sul danaro .............................................. Mettere da parte un po’ di danaro ....................... Chi muore non si porta dietro il danaro............ II buon Dio è il danaro ............................................ Non si conosce il colore del proprio danaro ... Far credito, aprire un credito................................. Essere oberato, crivellato di debiti......................... Gettare il danaro dalla finestra ............................. Cercare di far quadrare il pranzo con la cena ov­ vero Cercar di riunire insieme le due estremità . Costa un occhio ......................................................... II modo di donare vale più di ciò chesi dona . Nomea reputata vai più di veste dorata.............. Non ho ancora fatto i miei conti ......................... Errore non paga debito............................................ Ritirare dal gioco la propria posta ....................... Ritirarsi dagli affari .................................................. Tutti i nodi vengono al pettine ovvero Dopo di noi il diluvio ....................................................................... II giorno più bello della vita.................................... Vivere la propria vita ................................................ Vedere la morte in faccia........................................ E così via, per non dire del resto ovvero Faccio gra­ zia degli altri, anche dei migliori ..........................

323 324 325 325 327 327 328 329 329 331 332 333 334 335 335 336 337 338 339 340 341

Conclusione ................................................................

356

Indice dei nomi ..................................................................................................

363

xciv xcv xcvi xcvii xcvm xcix C

ci cn chi

civ cv evi cvii cviii Cix ex exi cxii cxiii exiv cxv cxvi cxvii cxviii exix cxx cxxi cxxii cxxiii cxxiv cxxv cxxvi cxxvii

391

342 343 344 346 346 348 349 350 351 352 352 353

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Finito di stampare nel mese di aprile 1993 per i tipi de “il melangolo” dalla Fantonigrafica - Elemond Editori Associati