I beni comuni. L’inaspettata rinascita degli usi collettivi 978-88-6542-599-2

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I beni comuni. L’inaspettata rinascita degli usi collettivi
 978-88-6542-599-2

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Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Società di studi politici Le sentinelle dell’acropoli dell’anima 2

Il bene dello Stato è la sola causa di questa produzione Gaetano Filangieri

La collana Le sentinelle dell’acropoli dell’anima è dedicata al fondatore e anima dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Gerardo Marotta.

Stefano Rodotà

I BENI COMUNI L’inaspettata rinascita degli usi collettivi

A cura di Geminello Preterossi e Nicola Capone

La scuola di Pitagora editrice

Le sentinelle dell’acropoli dell’anima Collana diretta da Massimiliano Marotta

Copyright © 2018 La scuola di Pitagora editrice Proprietà letteraria riservata La scuola di Pitagora editrice Via Monte di Dio, 54 80132 Napoli [email protected] www.scuoladipitagora.it 978-88-6542-598-5 (versione cartacea) 978-88-6542-599-2 (versione elettronica nel formato PDF) Finito di stampare nel mese di marzo 2018 presso Arti Grafiche Cecom Bracigliano (SA) Stampato in Italia – Printed in Italy

Indice

Nota editoriale 

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Napoli incontra Stefano Rodotà di Massimiliano Marotta

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Declinare per le comunità i beni comuni di Luigi de Magistris La vocazione civile di un Maestro amatissimo di Geminello Preterossi13 Verso i beni comuni di Stefano Rodotà

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Tavola Rotonda Profili pratici, teorici e amministrativi dei beni comuni destinati ad uso civico

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Nota introduttiva di Anna Fava

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Beni comuni ad uso civico. Alcune implicazioni di carattere teorpratico di Nicola Capone

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La rifondazione degli ex-luoghi: pratica politica e diritto nell’autogoverno dei beni comuni di Giuseppe Micciarelli

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Beni comuni: dal giardino pubblico agli usi collettivi di Fabio Pascapè

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Democrazia, collettività e beni comuni di Carmine Piscopo

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La Pratica dell’Uso civico come scelta Estetica Etica e Politica per il Sensibile Comune di Gabriella Riccio

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Appunti sul Comune come modo di produzione ai tempi del capitalismo cognitivo di Pierluigi Vattimo

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Nota editoriale

Il volume che qui presentiamo riporta una delle ultime lezioni pubbliche tenute da Stefano Rodotà il 21 febbraio 2017 nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, alla presenza partecipata di ricercatori, amministratori e centinaia di persone interessate. Nella giornata di studi – inaugurata dai saluti del Presidente dell’Istituto Massimiliano Marotta e del Sindaco di Napoli Luigi de Magistris e presieduta dal Direttore di studi dell’Istituto Geminello Preterossi – fu posta al centro della discussione la tematica dei beni comuni alla luce della più recente ripresa degli usi civici e collettivi in area urbana. In un dialogo vivo e ricco di spunti di riflessione, Rodotà rilanciò la sfida dei beni comuni nel vasto orizzonte del costituzionalismo dei diritti e dei bisogni, mettendo in evidenza la loro virtù trasformativa, la loro capacità di ripensare categorie, come la sovranità e la proprietà, che si sono consolidate nel corso della modernità e che oggi 7

appaiono monopolizzate dall’ordoliberismo e dalla finanziarizzazione della società. La lezione di Rodotà fu seguita da una Tavola rotonda, coordinata da Anna Fava, intitolata Profili pratici, teorici e amministrativi dei beni comuni destinati ad uso civico. Essa fu pensata sia per fare il punto sulle diverse prospettive aperte dall’esperienza napoletana, sia per guardare il processo dei beni comuni da diversi punti di vista implicati nella sua concreta realizzazione, da quello amministrativo e politico a quello artistico, filosofico e giuridico. Gli interventi che qui presentiamo di Nicola Capone, Giuseppe Micciarelli, Fabio Pascapè, Carmine Piscopo, Gabriella Riccio e Pierluigi Vattimo seguono l’ordine alfabetico.

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Napoli incontra Stefano Rodotà di Massimiliano Marotta

Un caloroso benvenuto a tutti i numerosi intervenuti all’incontro di studio: I beni comuni. L’inaspettata rinascita degli usi collettivi, organizzato dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. In un periodo storico in cui la tendenza dominante è privatizzare beni e servizi pubblici, in cui l’egoismo proprietario ha raggiunto una sfrenatezza indecente, in cui si privatizzano gli utili e si socializzano le perdite, assume un grande significato riunirci qui a Palazzo Serra di Cassano per riflettere su ciò che è comune e ciò che debba divenire comune affinché l’Italia prosegua il percorso democratico stabilito dalla Costituzione e si realizzi una vera Repubblica. I diritti appartenenti alla collettività sono infatti una delle forme più antiche e profonde di realtà giuridica, presente già nel diritto romano come forma di utilizzo collettivo di terreni non assegnati a privati ma lasciati a disposizione dell’intera comunità per il pascolo del bestiame. In tal senso vanno riscoperti, non solo sotto il profilo giuridico, ma anche culturale 9

e identitario di testimonianza del passato e di una più armonica convivenza tra uomo e ambiente. Significativa è la presenza del Sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, di alcuni amministratori del Comune di Napoli, di numerosi ricercatori e studiosi, di tanti, tantissimi cittadini: la città di Napoli riflette, si interroga su un tema che ritiene decisivo e invita un grande Maestro ad assumere la direzione morale e scientifica dell’incontro. Un grande Maestro, Stefano Rodotà, la cui amicizia con l’Istituto è cresciuta e si è consolidata sempre di più nel corso degli anni. Nel 2010 inaugurò l’anno accademico della Società di studi politici, la Scuola di Alta Formazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, con una prolusione sul tema: La Costituzione e la nuova dimensione dei diritti, il primo di una serie di dodici incontri di studio I venerdì della politica: che cos’è la Costituzione tenuti qui a Palazzo Serra di Cassano sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica. Da allora la sua presenza è divenuta indispensabile, e numerosissimi incontri si sono susseguiti finché, con nostro grande orgoglio, nel 2016 ha accettato di entrare a far parte del nostro Consiglio Direttivo, istituzionalizzando la nostra collaborazione e assumendo quindi oneri e responsabilità di direzione. Non potevamo fare a meno dell’amicizia di Stefano Rodotà, perché – prendo in prestito le parole di un grande amico e compagno di lotta del prof. Rodotà, il prof. Gianni Ferrara – Rodotà «incorpora 10

i profili più alti della persona umana: quello dello scienziato, quello del combattente per i diritti, per le libertà, per la democrazia. Li incorpora senza mai che uno dei due prevalga sull’altro. Sa congiungere l’uno all’altro mirabilmente. E lo sa perché è l’onestà intellettuale dello scienziato che lo incita a motivare il forte impegno politico, ininterrotto, mai rassegnato, mai scalfito da delusioni o sconfitte». È il vero intellettuale nel significato forte espresso da Edward W. Said: «un individuo che svolge nella società uno specifico ruolo pubblico che non può essere riduttivamente equiparato a quello di un anonimo professionista, membro competente di una classe che si limita ad occuparsi dei propri interessi. Caratteristica prima dell’intellettuale, ai miei occhi, è il fatto di essere una persona capace di rappresentare, incarnare, articolare un messaggio, un punto di vista, un atteggiamento, una filosofia o una convinzione di fronte a un pubblico e per un pubblico». Il messaggio di Stefano è la dignità umana come questione, come aspirazione e come conquista, concepita come fondamento, ragione ed essenza dei diritti, concepita come dignità sociale. Di fronte alle sue argomentazioni quel «linguaggio politico costruito in modo da far apparire le menzogne veritiere e il crimine rispettabile, e per conferire una parvenza di fondatezza alla vacuità assoluta» (G. Orwell) viene smascherato e si rivela ai nostri occhi per quel che è: disonesto, feroce, mostruoso, irrazionale, disumano. 11

Stefano, una decina di anni fa ci siamo incontrati e non ci siamo più lasciati; staremo sempre insieme, in amicizia e fermi come montagne! Buon lavoro a tutti.

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Declinare per le comunità i beni comuni di Luigi de Magistris

Incontrare il professore Stefano Rodotà all’Istituto Italiano degli Studi Filosofici all’indomani della scomparsa dell’avvocato Gerardo Marotta è per me molto significativo. Napoli ha avuto il privilegio di essere formata, così come di potersi confrontare, con due personalità di alto profilo morale e civile. Persone, intellettuali che hanno amato Napoli, che hanno donato tanto alla città mischiandosi con assoluta generosità con studenti ed abitanti della nostra comunità. È ancora più gratificante tornare qui, nella prestigiosa sede dell’Istituto in via Monte di Dio, all’indomani dello splendido risultato referendario che ha visto il Mezzogiorno avanguardia della difesa dell’integrità costituzionale. Qui a Napoli il settanta percento di chi ha votato ha espresso il proprio fermo dissenso ad una riforma che avrebbe ridimensionato drasticamente la sovranità popolare, principio fondante del nostro vivere civile. Ma non è sufficiente aver raggiunto questo risultato, come non bisogna accontentarsi di venire raccon13

tati e interpretati come una città dal solo fermo diniego, come una comunità riconoscibile nella sola accezione difensiva. È venuto il momento di essere audaci nell’attuazione della missione costituzionale e repubblicana, di rilanciare e tradurre nell’agire civico i principi costituzionali. Una audacia indicata chiaramente dai padri costituenti, in particolare nella stesura e promulgazione di tre articoli a me particolarmente cari: il primo, ad esempio, in sole quattro parole esplicite attribuisce tutta la sovranità della repubblica al popolo. È un tema questo che va declinato ed espanso costantemente, non ci si può fermare alla sola logica della rappresentanza politica. Non può essere il solo esercizio del voto, per giunta soggetto ad una progressiva ed emblematica disaffezione, ad assolvere l’esigenza di democrazia. Il voto, la composizione del parlamento e delle assemblee rappresentative, non esautora completamente l’accezione democratica del vivere civile di una società. Il secondo articolo che attribuisce ancora più chiaramente al popolo la custodia assoluta della sovranità è l’articolo 3 secondo comma. Quando sottolinearono che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» i costituenti indicarono una via non solo allo Stato e alle sue articolazioni istituzio14

nali, quindi al governo e al parlamento, ma bensì a tutti noi, alla res publica. Un passaggio acuto volto ad affermare come i principi della giustizia sociale e dell’uguaglianza – se non uguaglianza economica che è una ambizione ancora lontana dal divenire, quantomeno uguaglianza dei diritti – sono assolutamente legittimi. Questo è un tema non più rinviabile. E se i costituenti usarono il termine rimozione è perché non si rivolsero solamente ai parlamentari, o a chi ha la delega della rappresentanza nei luoghi della politica istituzionale, ma a tutto il popolo. Rimozione è qualcosa di più forte, che impone la mobilitazione popolare laddove ci sono ostacoli particolarmente forti. Inviterei a non sottovalutare alcune affermazioni che avrebbero preteso l’intervento dello Stato ai suoi massimi livelli. Mi riferisco alle affermazioni di un numero sempre più crescente di politici e in particolare all’attuale segretario della Lega quando dice, riferendosi ai migranti – e non lo dice più dei meridionali solo perché elettoralmente non gli conviene più – che è pronto ad organizzare una pulizia di massa e che intende andare a prenderli casa per casa. Queste sono affermazioni che pongono un ostacolo forte alla realizzazione della persona umana, è per frasi come queste che il nostro impegno democratico deve crescere ulteriormente. L’altro articolo a mio avviso fondamentale è il 9 perché fondativo della Repubblica che promuove la cultura e in qualche modo la difesa in generale dei bene comuni. È questo un articolo che cita il 15

paesaggio, la natura, il patrimonio storico, insomma imprescindibilmente caro per un benecomunista. Ed è proprio sulla definizione di bene comune che si rivela fondamentale lo studio portato avanti da Stefano Rodotà. Un tema che investe anche il concetto di proprietà privata presente sì nell’ordinamento, ma che sembra essere ancora un vero e proprio tabù per il dibattito pubblico. Inserire oggi l’argomento della proprietà privata in un confronto pubblico parrebbe equivalere alla eliminazione della stessa o all’esproprio e alla sua alienazione, ma non è così. Vale ricordare come gli articoli 41 e seguenti della Carta costituzionale spiegano come la proprietà privata si tutela se non è in contrasto con l’utilità sociale. Le delibere in assoluto più innovative sull’utilizzo dei beni comuni le abbiamo scritte nel confronto costante tra alcuni assessori e le comunità di abitanti. Lavoro partecipato e per questo faticoso, perché le comunità non ci hanno solo supportato ma anche redarguito e corretto, come è giusto che sia quando si interpreta la sovranità popolare nella accezione più ampia possibile. Delibere che sono andate a intaccare il principio che ogni bene privato della nostra città debba essere comunque e per forza tutelato. Abbiamo fatto sì che nei nostri atti amministrativi, grazie al prezioso contributo del Vicepresidente Emerito Paolo Maddalena, i principi costituzionali non vivessero solo attraverso le leggi. Questo vale soprattutto in una epoca dove buona 16

parte delle leggi promulgate risultano essere poi anticostituzionali. I principi costituzionali vivono e vengono ribaditi anche attraverso le delibere delle amministrazioni comunali. Con questi provvedimenti abbiamo affermato il principio secondo il quale se un bene privato viene abbandonato e non è più curato, attraverso una procedura amministrativa, si può arrivare alla sottrazione di tal bene per poi essere acquisito al patrimonio comunale e affidato alle comunità che sul luogo insistono attraverso un controllo popolare. Una seconda delibera rappresenta a mio avviso una novità significativa nel panorama internazionale, questa tratta degli usi civici urbani e dell’autogoverno di autonomie differenti che insistono all’interno della medesima comunità. Delibere redatte, non senza difficoltà, insieme alle comunità e alle esperienze che in questi anni hanno lavorato sull’esigenza di riappropriazione di spazi fondamentali per il vivere civile. In questi giorni il paese è attraversato da tensioni contrapposte su come interpretare il diritto. Mi riferisco al decreto legge sulla sicurezza urbana nel quale apparentemente vengono dati nuovi poteri ai sindaci. Anche qui le sensibilità degli amministratori locali sono molto diverse, viviamo in una stagione dove sembra consolidarsi un atteggiamento proteso a utilizzare il diritto sempre più in un’ottica autoritaria e repressiva. Esperienze importanti di autogoverno del territorio, esperienze che superano 17

il pubblico e vanno verso il bene comune, vengono affrontate con l’uso di manganelli, con sgomberi e con la repressione. Molti sindaci interpretano questo decreto legge come l’occasione per vietare manifestazioni assolutamente democratiche. Anche qui abbiamo provato a interpretare il diritto in modo diverso. Per noi si tratta di un mezzo per l’affermazione di diritti oramai affievoliti se non proprio addormentati. Bisogna prendere atto di come molti diritti riconosciuti all’interno della costituzione siano poi rimasti compressi perché non sono poi seguite le norme per realizzarli. Diritto come mezzo efficace di trasformazione sociale, di allargamento, consolidamento e avanzamento di alcune lotte popolari. Molte esperienze di protagonismo sociale hanno recuperato luoghi in sofferenza e li hanno fatti diventare luoghi di tenuta e coesione sociale, con mense popolari, ambulatori popolari, scuole di italiano per migranti, scuole di lingue straniere per i nostri cittadini che non possono pagare una scuola privata, teatri. Iniziative che non meritano da parte di una amministrazione accondiscendenza e tolleranza ma la costruzione di un percorso giuridico di riconoscimento e tutela. Sono esperienze innovative che impongono il superamento della lotta novecentesca tra pubblico e privato. Si tratta di beni di fruizione collettiva dei quali nessuno se ne può appropriare nemmeno pro-tempore. Dobbiamo favorire le condizioni affinché si possa disporre dei beni comuni e decidere insieme come usufruirne. 18

Faccio riferimento sempre a comunità di abitanti e non di cittadini, questo perché mentre in Italia c’è chi pensa a portare avanti politiche assolutamente discriminatorie fino a invocare la pulizia etnica io credo che è compito di un amministratore, di un amministratore che attua la Costituzione nella sua accezione inclusiva, essere a disposizione di tutta la propria comunità di abitanti, di chi ha una diversa nazionalità e anche e soprattutto di chi una nazionalità non l’ha ancora. Nel nostro piccolo, con la passione che ci caratterizza, ambiamo ad essere avamposto dell’attuazione della Carta costituzionale. Tentiamo ogni giorno di dare senso alla Repubblica, a quella res publica, luogo comune nel quale ognuno è protagonista della crescita sociale.

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La vocazione civile di un Maestro amatissimo di Geminello Preterossi

Stefano Rodotà era una persona rara, preziosa: uno studioso vero la cui parola era sempre fonte di orientamento civile certo. Dovremo confrontarci ancora a lungo con il suo straordinario, vitalissimo lascito culturale e politico. Nel febbraio 2017 aveva partecipato a una giornata di studi sui beni comuni a Palazzo Serra di Cassano, costruita intorno a lui, durante la quale per l’ennesima volta aveva mostrato la sua generosità e la sua inesauribile curiosità intellettuale. Questa pubblicazione a più mani, a cui ha lavorato fino all’ultimo insieme a Nicola Capone, ne è il documento. Rodotà concepiva il tema dei diritti come decisivo per il futuro. Ma era alieno da una concezione proprietaria dei medesimi, come sovranità dell’individuo atomizzato e indifferente ai legami sociali. All’opposto, sapeva che senza diritti sociali, e senza solidarietà come principio politico di convivenza, non c’è possibilità di realizzazione piena ed eguale 21

dei diritti dei singoli. La sua stella polare era la pari dignità sociale, di cui parla l’articolo 3 della nostra Costituzione: ovvero una libertà in relazione, possibilità reale per tutti. Diritti sociali e civili in questo senso debbono camminare di pari passo, non c’è motivo perché non sia così. È insensato pensare che gli uni possano espandersi a scapito degli altri (e infatti le grandi stagioni dell’affermazione e della costruzione delle garanzie dei diritti hanno visto il successo delle lotte su entrambi i fronti). La stessa Europa, o è un’unione politica della solidarietà, o è destinata a fallire rovinosamente. Oggi la Carta dei diritti di Nizza, cui Rodotà aveva dato un rilevante contributo, è stata riposta in un cassetto: basta guardare alle concrete politiche economiche e sociali portate avanti dall’eurocrazia di Bruxelles e Francoforte. Il costituzionalismo dei bisogni può essere rilanciato solo se cammina sulle gambe di soggettività incarnate e agonistiche. Quindi deve essere innanzitutto la politica – dal basso come istituzionale, tanto informale quanto mediata dai corpi intermedi – a dare corpo ai diritti (e al diritto). Ciò è possibile solo se è animata da una cultura solida, profonda, critica, aliena dai luoghi comuni. Per Rodotà la democrazia è partecipazione. Sapeva bene che il tema delle classi dirigenti, della loro formazione e della loro credibilità, è decisivo. Ma rigettava le visioni elitiste, che svalutano i movimenti sociali, e sostanzialmente non credono nell’am22

bizioso progetto del costituzionalismo sociale e democratico: cioè nella lotta per la liberazione umana possibile, attraverso la civilizzazione del potere e l’azione istituzionale di contrasto all’esclusione e alla discriminazione. Per questo non bisogna diffidare del popolo: alieno da semplificazioni populiste o antipolitiche, Rodotà sapeva bene che il riconoscimento dei cittadini bisogna guadagnarselo tutti i giorni, e che c’è un bisogno di coinvolgimento, di presa di parola, cui è vitale corrispondere nelle società pluraliste. Naturalmente, senza plebiscitarismi di nessun genere. L’alternativa alla scommessa nella partecipazione, alla ripoliticizzazione della società, è una stretta verticale, oligarchica del potere, che serve solo a difendere un bunker escludente: l’opposto di una prospettiva emancipativa. Alcune immagini vengono in mente, legate anche a quel suo modo di raccontare così coinvolgente: la battaglia della scala mobile accanto a Berlinguer, a difesa del lavoro, avendo intuito che lì partiva in Italia la controrivoluzione che avrebbe minato fino a spazzarle via le conquiste del costituzionalismo sociale, producendo la grave crisi di legittimazione in cui siamo immersi; Rodotà, che non era comunista, aveva capito benissimo (come Luciano Gallino) la portata della sfida che il neoliberismo portava alla qualità e alla tenuta delle nostre democrazie. La lotta accanto alla Fiom contro il potere prevaricante della Fiat di Marchionne (in solitudine, perché gli 23

eredi della sinistra di un tempo si voltavano dall’altra parte, non capendo la rilevanza di ciò che era in gioco – la dignità di chi lavora –, o preferendo cinicamente non entrare in rotta di collisione con i nuovi assetti di potere del capitalismo finanziario). Oppure quando organizzò in Campidoglio, su richiesta di Petroselli, un convegno – eretico per quei tempi – sui diritti degli omosessuali: segno di quell’apertura alle nuove istanze della società che nei momenti migliori il PCI di Berlinguer seppe coltivare. O la battaglia vinta – e poi tradita da (quasi) tutta la politica ufficiale – nel referendum per l’acqua bene comune. Infine la fermezza affilata con la quale ribadiva i concetti cardine del costituzionalismo contro la pochezza arruffona che ha animato il progetto Renzi-Boschi di controriforma della nostra Carta, anche questo bocciato dal basso il 4 dicembre del 2016, in una felice saldatura tra ceti popolari (sui quali morde la nuova questione sociale) e minoranze intellettuali coraggiose: uno spartiacque, una grande energia politica potenziale, che dovremmo trovare il modo di raccogliere. Rodotà aveva uno straordinario rapporto con i giovani. Testimoniato in tante occasioni, come ad esempio in quella del Festival del diritto di Piacenza, un evento organizzato insieme alla Laterza, a cui si era dedicato con incredibile slancio. Non sorprendeva, quella facilità di entrare in rapporto con tutti, e soprattutto la curiosità per il nuovo: avendo lui 24

stesso una luce limpida, da eterno ragazzo, negli occhi, che non ho mai visto in nessun altro. Una luce che esprimeva una fiducia lucida e ferma nell’avanzamento umanistico delle forme di convivenza, pur nella consapevolezza degli ostacoli che incontra e del profondo lavoro culturale che implica. Stefano Rodotà era un uomo fermissimo e dolce, dal tratto naturalmente gentile, elegante. Nel meditare a lungo il suo insegnamento, riscopriremo continuamente, ne sono certo, quante strade inedite e feconde aveva intuito, e con quale ineguagliabile stile. Per questo lo sentiremo sempre accanto.

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Stefano Rodotà Verso i beni comuni

Avvertenza editoriale

La prima parte del testo – Considerazioni introduttive – composta da dieci paragrafi è la trascrizione editata dai curatori della lezione tenuta da Stefano Rodotà il 21 febbraio 2017 all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici in occasione dell’incontro di studi intitolato I beni comuni e l’inaspettata rinascita degli usi collettivi. Invece, la seconda parte – I beni comuni – articolata in sette ampi paragrafi, consiste nella relazione scritta – intitolata Verso i beni comuni – che Rodotà presentò per la stessa occasione ma che preferì non leggere se non in piccola parte, chiedendo, però, che fosse integrata con la trascrizione della sua relazione in vista della pubblicazione degli atti.

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I. Considerazioni introduttive 1. Vorrei cominciare questa discussione con alcune considerazioni introduttive. Si parla tanto di rapporto politica-cultura ma si dimentica spesso che questo rapporto per dare risultati effettivi ha bisogno di passaggi istituzionali, passaggi molto difficili, che richiedono anche un po’ di coraggio politico, specie quando si vuol far diventare alcune indicazioni teoriche poi realtà operative. Il comune di Napoli, che ha dato basi giuridiche ad una serie di discussioni intorno al tema di cui oggi parleremo, ci mette nella condizione, come studiosi, di avere un materiale che non nasce soltanto dalla nostra riflessione, ma come politici del diritto – se vogliamo utilizzare questa espressione – ci permette di indicare delle possibilità concrete. Questo è un punto sempre molto importante perché non è mai morta la critica che dice che arrivati i giuristi arriva poi anche l’astrazione. Non è così, 31

è esattamente il contrario. In realtà i giuristi portano la loro capacità di generalizzare determinati problemi e di far vedere che alcune questioni non possono essere eluse. La questione dunque che abbiamo davanti è come politica e cultura non solo riescano a dialogare ma riescono anche a lavorare insieme – che è una cosa molto diversa. 2. Allora c’è un punto che vorrei segnalare – poi dirò alcune cose che spero possano servire alla discussione che seguirà. Ricordiamo, innanzitutto, che noi viviamo in questo momento storico in una forma di Stato che quelli che l’hanno analizzata nella maniera più rigorosa – penso ad esempio agli scritti sul costituzionalismo di Maurizio Fioravanti – definiscono come Stato costituzionale dei diritti, in cui è pienamente legittimata l’inseparabilità tra il carattere costituzionale dello Stato e il riconoscimento dei diritti individuali e collettivi. Dobbiamo domandarci, allora, che cosa abbiamo di fronte quando lo stesso carattere dello Stato, che diventa Stato costituzionale dei diritti, incontra la questione dei beni comuni? La questione dei beni comuni non è una questione secondaria perché essa pone il rapporto tra i beni e i diritti come essenziale. Non possiamo, infatti, ragionare intorno ai diritti senza vedere quali sono gli strumenti che li rendono effettivi. E potremmo addirittura aggiungere che i diritti in realtà creano i beni. Se riconosciamo ai soggetti, alle persone, un diritto non possiamo poi 32

fermarci, dobbiamo vedere quali sono gli strumenti – che sono poi dei diritti e dei beni – che consentono che questi diritti possano diventare effettivi. Questo è il tema che va affrontato. 3. Nel titolo di questo incontro si dice l’inaspettata rinascita degli usi collettivi. Per me sinceramente è meno inaspettata di quanto si pensasse, era, invece, molto attesa. Direi forse inaspettata nel senso che non si ci aspettava che arrivasse con una certa rapidità e che entrasse nella discussione pubblica così come è avvenuto. Ma il punto significativo è proprio quello a cui io ho fatto riferimento. Non solo è importante il rapporto cultura-politica o politica-cultura, ma è fondamentale individuare quali sono gli strumenti attraverso cui ciò che la cultura produce, in questo caso in termini di diritti, diventa fatto rilevante per le persone e per la politica in quanto tale. Ora, ripeto, l’incontro di oggi ha nel titolo l’espressione l’inaspettata rinascita degli usi collettivi. Gli usi collettivi stanno diventando qualcosa di particolarmente rilevante e a questo proposito io vorrei ricordare – l’ho già citato tante volte – un passo di Tocqueville, sottolineandone però una parte che avevo in precedenza trascurato. Tocqueville – qualche mese prima che venisse pubblicato il manifesto dei comunisti di Marx ed Engels – in un discorso pubblico, che poi lui stesso ritenne rilevante e lo volle porre addirittura all’inizio dei suoi Ricordi, diceva: «Ben presto la lotta politica 33

si svolgerà fra coloro che possiedono e quelli che non possiedono. Il grande campo di battaglia sarà la proprietà. E le principali questioni della politica si aggireranno intorno alle modifiche più o meno profonde da apportare al diritto dei proprietari». E qui seguono le parole che avevo precedentemente trascurato: «e allora rivedremo le grandi agitazioni pubbliche e i grandi partiti». Cioè ci sono temi che alla fine incontrano la molteplicità dei soggetti. Il fatto che oggi il titolo sia proprio questo I beni comuni e la rinascita degli usi collettivi lega secondo me il nostro tema alle ultime parole di Tocqueville. Allora noi ci troviamo dinanzi alla necessità di valutare la dimensione collettiva, che è molte cose, sono i partiti, ad esempio, ma in generale riguarda tutto ciò che di intermedio c’è tra il singolo e le istituzioni. 4. In realtà le questioni essenziali a mio giudizio sono due. Primo, nulla accade naturalmente. C’è una forte spinta a naturalizzare tutto e ciò significa da una parte deresponsabilizzazione, da un’altra parte consente di dire che non c’è bisogno di una progettazione, che non c’è bisogno di una istituzionalizzazione adeguata. Io credo che questo sia il modo sbagliato e politicamente regressivo, direi reazionario, di affrontare questo tipo di questioni. I beni comuni, invece, sfidano due dei dati fondativi della modernità che sono sovranità e proprietà, perché beni comuni significa mettere in discussione il carattere escludente della proprietà, escludere che ci 34

siano soggetti che possano impadronirsi del potere di gestione. E qui veniamo al secondo punto che riguarda il rapporto soggetti-beni, rapporto che è particolarmente importante per la dimensione dei beni comuni, perché i beni tante volte, come abbiamo già detto, sono creati dai soggetti. Cioè, una volta individuata l’esistenza di determinati soggetti dobbiamo poi porci anche la questione di quali sono i beni di cui questi soggetti hanno bisogno. Quali sono ad esempio i beni primari – vale a dire quei beni che consentano la stessa sopravvivenza delle persone? È evidente che questi beni richiedono un’attenzione particolare rispetto alle altre categorie di beni. Ma quello che io vorrei segnalare qui è che l’attenzione rivolta ai beni comuni non si risolve tutta nella crea­ zione più o meno astratta di una nuova categoria di beni. Essa è nient’altro che il riflesso della riconosciuta rilevanza di talune categorie di bisogni. Questo è il problema. 5. Vorrei avanzare qui una riflessione, senza però rischiare una fuga in avanti, e che cioè forse oggi ci troviamo davanti a un quarto costituzionalismo, che possiamo definire il costituzionalismo dei bisogni. Questo è evidente se noi leggiamo tutta una serie di nuove costituzioni operanti per esempio in alcuni paesi del Sudamerica o in Sud Africa e in India. Lì c’è un altro costituzionalismo, appunto, un costituzionalismo dei bisogni. Per esempio l’India non solo 35

ha riconosciuto la salute come diritto fondamentale ma contestualmente non ha permesso che i farmaci fossero sottoposti alle regole proprietarie, perché in questo modo si sarebbe negato alle persone ciò che formalmente gli veniva riconosciuto. E quindi, per esempio, presso la Corte costituzionale dell’India le richieste delle società farmaceutiche – società importanti come Novartis – che volevano riconosciuto un certo prezzo per un certo prodotto sono state respinte, per il fatto che il riconoscimento pieno di quel prezzo diventava uno strumento di esclusione della tutela della salute per la maggior parte della popolazione di quel paese. Dunque noi ci troviamo in questo momento impegnati in una riflessione non astratta sui beni. Quando dicevo un momento fa che la questione dei beni comuni non si risolve tutta nella costruzione di una nuova categoria di beni ma che l’astrattezza proprietaria si scioglie nella concretezza dei bisogni intendevo indicare da una parte una via di riflessione e dall’altra una via di politica del diritto. Identificazione dei bisogni e riferirli poi a quelli che sono i criteri indicati dalle costituzioni. Questo io penso sia un primo punto che va affrontato quando noi discutiamo di beni comuni. 6. Sui beni comuni c’è poi anche un problema di definizione. Come li identifichiamo? Voglio qui indicare non una definizione ma una modalità di riflessione. I beni comuni possono essere definiti 36

partendo dalla considerazione che essi si caratterizzano per l’appartenenza collettiva e la sottrazione alla logica totalizzante del mercato e della concorrenza, riguardando propriamente i beni materiali e immateriali indispensabili per l’effettività dei diritti fondamentali, per il libero sviluppo della personalità e perché siano conservati anche nell’interesse delle generazioni future. Questo discorso sulle generazioni future che sembra un discorso nuovissimo in realtà è risalente nel tempo. Non voglio qui tediarvi ma va evidenziato che la necessità di conservare beni per le generazioni future può richiedere delle traiettorie istituzionali particolari. La logica maggioritaria, per esempio, che è uno dei criteri informatori dei sistemi democratici, regge di fronte a tutte le situazioni? Ammettiamo il caso di trovarci dinanzi ad una situazione ambientale che è stata modificata in maniera tale che indietro non si può tornare, come affrontiamo questo nuovo tipo di questione? Come si può notare questi problemi sono inerenti al modo in cui il pubblico e il privato affrontano la questione dei beni? Il pubblico, ad esempio, seguendo le regole della democrazia rappresentativa può in qualunque modo intervenire e modificare i beni? Ecco che allora quando noi introduciamo la categoria dei beni comuni vogliamo dire che ci sono categorie di beni rispetto alle quali è necessaria una procedura ulteriore di garanzia. Vi sono per esempio già molti casi in cui la modifica di determinate categorie di beni richiede procedure di 37

consultazione che non sono necessarie in tutti i casi, situazioni in cui si prende la decisione di aspettare, di consultare i cittadini. Dunque, bisogna fare una nuova riflessione sui beni sopratutto su quelli che noi definiamo comuni per vedere se tutte le procedure del passato ci offrono quelle garanzie che sono necessarie per la natura dei beni di cui stiamo parlando. E allora definire quali siano i beni comuni è un’impresa molto importante perché significa attribuire a queste categorie di beni maggiori o minori garanzie. Questo è un punto molto significativo. 7. E quindi la questione dei beni comuni in qualche modo incontra la questione delle garanzie, la quale secondo me deve essere guardata da due punti di vista. Il primo punto di vista riguarda il fatto che ci sono determinati beni che hanno una loro rilevanza e rispetto ai quali – uso un’espressione che vi prego di prendere con cautela – dobbiamo creare il soggetto che sia in grado di offrire le garanzie necessarie. Garanzie legate non alla natura di un bene – io, come ho già detto, sono contrario alle naturalizzazioni perché i beni sono sempre creati attraverso l’attività di qualcuno – quanto piuttosto al fatto che taluni beni sono essenziali perché hanno un ruolo particolare nella vita di una determinata società. In questi casi noi dobbiamo individuare i soggetti e le modalità per le garanzie. Questo è un punto che riguarda il tema dei beni comuni con particolare rilevanza. Ho già detto qual è la strada per 38

provare ad avviarci verso una definizione: appartenenza collettiva, sottrazione alla logica del mercato, determinazione delle finalità, effettività dei diritti fondamentali. Questi, infatti, non possono essere assicurati effettivamente e concretamente se non attraverso determinate modalità e gestione dei beni. Questo è il punto. Tant’è che i diritti fondamentali, lo abbiamo detto, creano i beni. Se io ritengo che determinati beni sono essenziali per la vita delle persone allora io ho creato il bene. 8. Il secondo punto di vista passa per un’altra questione, ovvero, lo sviluppo della personalità. Di questo si parla all’inizio della Costituzione. Lo sviluppo della personalità è una delle linee del costituzionalismo novecentesco, che è stato accompagnato proprio dalle rilevanza attribuita alla persona e al suo sviluppo. In questo caso si tratta di un problema di distribuzione del potere. Fino a che punto il potere deve essere attribuito agli stessi soggetti che sono portatori degli interessi? Questo è un punto importante e qui mi sposto un po’ lateralmente. Se noi leggiamo l’articolo 36 della Costituzione si dice che la retribuzione deve essere tale da garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Qui c’è uno schema giuridico molto illuminante. Si individua il soggetto, si individua la finalità e si individuano i mezzi per arrivarci. Non si sfugge attraverso l’astrazione. In questo caso è individuata con molta precisione la retribuzione, i 39

soggetti, che poi attraverso la retribuzione devono poter raggiungere un certo risultato, e lo strumento, che è l’adeguatezza della retribuzione. Quindi noi ci troviamo di fronte ad una serie di sequenze che dobbiamo prendere in considerazione e che naturalmente poi incidono sulla questione dei beni. Il rapporto dunque che noi dobbiamo cercare è quello fra beni e soggetti. Nessun bene può essere discusso politicamente e istituzionalmente senza che si tenga conto dei soggetti ai quali un bene può essere riferito. Non c’è un bene che sta lì appeso dopodiché vediamo che cosa farne. Tant’è che questo spiega le diverse modalità di trattamento del bene, diversità che sono legate ai soggetti implicati nel contesto all’interno del quale il bene si trova. Ho già detto che i beni comuni sfidano sovranità e proprietà e quindi pongono la questione di quale sia l’insieme dei soggetti che possono dire la loro. Quando per esempio si parla di funzione sociale della proprietà dobbiamo domandarci che cosa essa sia. Essa è qualcosa che viene in qualche modo autoritariamente stabilita da un qualche soggetto pubblico o piuttosto è ciò che risulta dall’insieme degli strumenti messi nelle mani dei cittadini che possono dire la loro su come un determinato bene deve essere utilizzato? Arriviamo qui allora alle delibere napoletane. Queste dicono quali sono i cittadini che possono dire la loro e fare la loro parte in relazione a determinate categorie di beni. Ci troviamo di fronte a tre 40

operazioni: l’individuazione del bene, l’individuazione del soggetto, l’individuazione delle modalità. Questo è l’insieme dei temi che abbiamo davanti. E allora noi ci troviamo di fronte alla necessità di capire quali sono i soggetti collettivi che possono intervenire e quali sono gli strumenti che possono adoperare. 9. E qui voglio fare due ultime considerazione. Lavorando in questa direzione la dimensione del futuro è sempre ineliminabile. È tornata nella discussione pubblica nell’ultimo periodo la parola utopia. Che è un modo per reagire – almeno questa è la mia opinione – a una errata maniera di intendere l’abbandono e la critica della ideologizzazione, che era stata concepita come una sorta di esclusione del futuro, secondo la quale per evitare l’ideologia non dobbiamo parlare di futuro. Nell’ultimo periodo non è più così. Il futuro è tornato nei titoli dei libri, penso all’ultimo libro di Prodi e Cacciari intitolato significativamente Occidente senza utopie. La parola utopia torna nei titoli di saggi. È tornata anche l’espressione utopia concreta di Ernst Bloch ripresa dal suo testo su Lo spirito dell’utopia. Noi dobbiamo incorporare il futuro nel presente. Non possiamo dire che c’è la globalizzazione, ci sono le grandi dinamiche economiche, le grandi dinamiche tecnologiche e poi ragionare come se il futuro non fosse già quello che ci condiziona, ci guida, che disegna non solo la società nella quale viviamo ma 41

anche noi stessi, perché pone il problema di che cosa ciò che il futuro promette può essere già addirittura utilizzabile per modificare il corpo delle persone. Questo è un punto a mio giudizio importante. Ho detto il corpo delle persone. Tra i beni di cui abbiamo parlato, c’è il corpo delle persone. Esso è oggi centrale nella discussione politica. Se noi pensiamo su come si è svolta la discussione sui vaucher, che di fatto di sostituivano alla retribuzione, appare evidente come questi facevano scomparire il lavoratore in quanto tale e il suo corpo. Noi ci troviamo dinanzi al fatto che la persona e lo stesso corpo vengono fatti scomparire e risolti in strumenti che sono poi quelli che tramutano la persona in un documento. Nel caso dei vaucher non c’era più la persona con il suo lavoro ma c’era semplicemente la riduzione della persona a quel documento che gli veniva consegnato. 10. Allora se noi consideriamo i beni da questi diversi punti di vista dobbiamo per prima cosa vedere se ciò che abbiamo di fronte può essere ridotto a bene e verificare in che rapporto sta con la nozione stessa di bene, con la persona, il suo corpo, l’attività che svolge. Qual è il punto dove ci dobbiamo fermare? Questa è una questione che non possiamo assolutamente trascurare, perché se lo facessimo ciò significherebbe – come ha scritto nel suo ultimo lavoro, Ciò che resta della democrazia, Nello Preterossi – ridurre la società ad una società 42

tutta di diritto privato. Noi siamo di fronte a questo interrogativo. Possiamo accettare logiche politiche istituzionali che tendono a ridurre la società ad una società tutta di diritto privato? Questo è un passaggio importante. Cioè il potere normativo passa dalle istituzioni politiche rappresentative al mercato e questo produce poi le regole. Questo è un punto che noi non solo non possiamo trascurare ma anzi dobbiamo evitare che questo sia l’esito dei processi politici e sociali che si stanno svolgendo. Allora il problema dei beni comuni evoca le grandi questioni che abbiamo di fronte. Perché se un bene ha le caratteristiche che ho cercato di dire non può essere affidato ad una sorta di naturalizzazione – chi stabilisce qual è la natura di quel bene per cui deve essere trattato in un certo modo e non in un altro – perché in questo caso non sarebbe nient’altro che l’appropriazione di taluni soggetti del potere autoritario di decisione sulla generalità delle persone. Abbiamo detto, invece, che i beni comuni sono creati dai diritti fondamentali, che quando individuiamo una situazione di diritto dobbiamo poi – se non volgiamo fare semplicemente opera di propaganda politica – individuare gli strumenti attraverso i quali questo diritto può essere realizzato. E allora la sequenza finale che si potrebbe o dovrebbe desumere dalle cose che ho detto è questa: diritti fondamentali, accesso, beni comuni disegnano una trama che ridefinisce il rapporto tra il mondo delle persone e il mondo dei beni. Questo, almeno negli 43

ultimi due secoli, era stato sostanzialmente affidato alla mediazione proprietaria, alle modalità con le quali ciascuno poteva giungere all’appropriazione esclusiva dei beni necessari. Esclusiva nel senso che io nel momento in cui ottenevo il bene escludevo gli altri. Proprio questa mediazione viene ora revocata in dubbio. La proprietà, pubblica o privata che sia, non può comprendere e esaurire la complessità del rapporto persona/beni. Un insieme di relazioni deve essere ormai affidato a logiche non proprietarie. Questa logica ci spinge al di là del mondo dei beni, ci riporta alla persona nella sua integralità e all’insieme dei suoi diritti fondamentali. È la storica categoria della cittadinanza ad essere messa in discussione. Quando i diritti di cittadinanza divengono quelli che accompagnano la persona quale che sia il luogo in cui si trova, l’individuazione di questo spazio infinito, di questo nuovo common, porta con sé uno stare nel mondo che certamente sfida la cittadinanza oppositiva, nazionale, puramente identitaria. Questo è il punto che abbiamo di fronte: come noi oggi definiamo noi stessi attraverso non una identità che ci oppone agli altri ma attraverso la definizione di una identità che ci metta in relazione con gli altri. Cioè dobbiamo pensare l’identità come sistema relazionale e non come sistema divisivo. Oggi, invece, è prevalente nel mondo delle persone, nel mondo degli Stati, delle comunità e dei gruppi l’idea e l’uso dell’identità come identità oppositiva. 44

Tuteliamo, cioè, la nostra identità negando l’identità altrui o meglio definiamo la nostra identità in maniera tale da ritenere che possa essere messa a rischio dal contatto con altre identità. Questo è un passaggio assolutamente preoccupante e come tale deve diventare oggetto di discussione pubblica. II. I beni comuni 1. Dunque, i beni comuni, come ho già detto, sfidano le due categorie fondative della modernità – sovranità e proprietà. Lo aveva detto con chiarezza il maggiore tra gli artefici del Code civil des francais, Jean-Etienne-Marie Portalis: «al cittadino appartiene la proprietà, al sovrano l’impero»1. Ecco indicati, con ammirevole semplicità, il senso e la portata dell’operazione politica realizzata attraverso il Code, individualista e patrimonialista. La proprietà dà il tono al codice. Lo aveva già detto con assoluta chiarezza Cambacérès, scrivendo che «la legislazione civile regola i rapporti individuali e attribuisce a ciascuno i suoi diritti in relazione alla proprietà»2 . Lo sapeva bene Napoleone che, nel suo proclama del 18 brumaio, si presentava appunto come il difensore di 1 J.-E.-M. Portalis, Discours au Corps législatif, 26 nivose an XII, par P.-A. Fenet, Recueil complet des travaux préparatoires du Code civil, vol. XII, Videcoq, Paris 1836, pp. 259 ss. 2 J.-J.-R. de Cambacérès, in P.-A Fenet, Op. cit., I, p. 141.

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«libertà, eguaglianza e proprietà», reinterpretando, attraverso la cancellazione della fraternità, la triade rivoluzionaria. Portando a compimento questo disegno, il Code Napoléon definisce non solo lo statuto della borghesia vittoriosa, ma l’intera trama delle relazioni tra i cittadini, divenendo così il piano dei rapporti sociali. Non a caso Jean Carbonnier ha parlato del Code civil come della «costituzione civile dei francesi»3. Le conseguenze di questo radicale mutamento sono evidenti. «Ecco in mano mia il Codice civile. Non è per nulla il prodotto della società borghese. È piuttosto la società borghese, nata nel XVII secolo e sviluppatasi nel XIX, che semplicemente trova nel Codice una forma giuridica»: così Karl Marx nel 18494. La rilevanza attribuita alla proprietà, diritto esclusivo, non oscura soltanto la fraternità: reinterpreta anche gli altri due riferimenti della triade rivoluzionaria attraverso la saldatura tra libertà e proprietà e il conseguente, inevitabile, mutamento di senso dell’eguaglianza. Una volta intesa la proprietà come fondamento della libertà stessa, secondo la classica lettura del liberalismo, è evidente che J. Carbonnier, Le Code civil, in P. Nora (éd.), Le lieux de mémoire. Vol. II: La Nation, Gallimard, Paris 1986, p. 293. 4 K. Marx, Autodifesa, in Il primo processo della “Neue Rheinische Zeitung”, in K. Marx-F. Engels, Libertà di stampa e censura, tr. it. di L. Firpo, a cura di M. Caciagli, Guaraldi, Bologna 1970, pp. 191 ss. 3

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essa diviene pure la condizione dell’eguaglianza, dal momento che solo l’eguaglianza nel possesso si presenta come il fattore decisivo per il superamento delle disparità. L’individualismo proprietario connota non solo l’assetto economico, ma istituisce una diversa antropologia, quella del borghese moderno, che implica quasi una costituzionalizzazione della diseguaglianza. Tra l’originaria costituzione, la Dichiarazione dei diritti, e il Code civil si manifesta precocemente quella che oggi chiameremmo una asimmetria. Il proprietario tende a cancellare il cittadino, o meglio a concentrare la cittadinanza in capo al proprietario, con una vicenda che avrà la sua più evidente manifestazione nella cittadinanza censitaria. Davvero si confrontano due antropologie, potremmo quasi dire due diverse persone, anche se questo conflitto viene neutralizzato grazie all’invenzione del soggetto astratto, vero connotato della modernità, e alla conseguente creazione di altri strumenti giuridici che consentono di fare astrazione dalla concretezza dei rapporti economici. Non dobbiamo, tuttavia, dimenticare che l’astrazione del soggetto era indispensabile per uscire dalla società degli status e aprire così la via al riconoscimento dell’eguaglianza. L’invenzione del soggetto di diritto, l’istituzione dell’uomo come soggetto non solo nel mondo giuridico, rimangono uno dei grandi esiti della modernità, di cui vanno compresi i caratteri e la funzione storica. Quel che va respinto 47

è un uso politico che ha via via sterilizzato la forza storica e teorica di quell’invenzione, riducendo il soggetto ad uno scheletro che isolava l’individuo, lo separava da ogni contesto, faceva astrazione dalle condizioni materiali. Per ciò era indispensabile intraprendere un diverso cammino, quello seguito dalle costituzioni successive alla Seconda guerra mondiale con una duplice operazione: istituzionalizzando lo spazio dei diritti fondamentali con un passaggio dallo Stato di diritto allo Stato costituzionale dei diritti; e rendendo cosi possibile l’ulteriore passaggio dal soggetto alla persona5, intendendo quest’ultima come la categoria che meglio permette di dare rilevanza alla vita materiale e alla sua immersione nel sistema delle relazioni sociali. Da qui, in definitiva, una nuova antropologia, espressa attraverso una vera e propria costituzionalizzazione della persona. Questa è una vicenda che non si è svolta con le medesime modalità in tutti i paesi e nei diversi sistemi giuridici. Ma comune è stata la riscoperta dell’irriducibilità della persona a schemi astratti e della necessità di ripensare il complessivo rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni attraverso il collegamento e il filtro dei diritti fondamentali e delle modalità di una loro effettiva tutela. Tutto questo, per un non inedito paradosso, accade proprio 5 Ho analizzato questo aspetto ne Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 140 ss.

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in una fase in cui il diffondersi dell’ordoliberismo e la finanziarizzazione della società vogliono imporre una nuova sottomissione delle persone alla pura logica proprietaria, ad una legge del mercato nella quale si sarebbe incarnato un nuovo diritto naturale, con un conseguente trasferimento al mercato del potere normativo. L’obiettivo, perseguito con una strategia globale, è quello della creazione di una società interamente di diritto privato6. Questo prepotente ritorno della categoria della proprietà è accompagnato da un mutamento dell’altra categoria, quella della sovranità. Essa ha perduto il territorio giacobino, governato da un unico centro, chiuso in sicuri confini, e si dilata ormai sull’intero pianeta, affidata a soggetti privi di ogni legittimazione democratica, in cui si incarna il nuovo sovrano che governa un impero tendenzialmente sconfinato, per la volontà di potenza degli attori economici, per le relazioni di mercato, per la costruzione di questo mondo nuovo e interconnesso operata dalla Rete. Rispetto a questo assetto del mondo i beni comuni si manifestano come una contraddizione che non può essere riassorbita, come l’espressione di una logica conflittuale, come la continua manifestazione di anticorpi diffusi contro la finanziarizzazione del mondo.

6 Sul punto vedi la riflessione di G. Preterossi, Ciò che resta della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2015.

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Questa sommaria ricostruzione ci porta ad un interrogativo e ad una constatazione. Quale soggettività accompagna l’emersione dei beni comuni? Siamo di fronte ad una discontinuità storica e ad una rottura politica e sociale? 2. È necessario riflettere su questi interrogativi, sull’ultimo in particolare, perché si parla spesso di una rinascita dei commons, riferendosi a molteplici esperienze del passato, anche assai diverse tra loro. Ma sarebbe un errore storico e un segno di debolezza culturale ricostruire la fase più recente come se si fosse di fronte alla ripresa di una continuità interrotta. Le ragioni sono due. Non si può sostenere che saremmo di fronte alla conclusione della fase della proprietà assoluta e solitaria, che finirebbe così con l’essere considerata quasi come un accidente della modernità, una parentesi che si sta chiudendo. Né la rinnovata attenzione per i beni comuni può trovare solida legittimazione in vicende di tempi più o meno lontani. Proprio il carico del passato dovrebbe indurre ad una conclusione opposta. Non si tratta di ricucire una continuità, ma di riconoscere l’avvio significativo di una rottura, di una vera e propria discontinuità. In una fase così impegnativa bisogna liberarsi di ogni ambiguità. Il costante riferimento delle analisi continuiste è abitualmente costituito dall’esperienza inglese dei commons e delle successive loro enclosures. Un’esperienza non generalizzabile già per il tempo nel 50

quale si manifestarono e che può indurre a trascurare differenze che proprio la riflessione storica mette in evidenza. Diviene evidente, prima di tutto, che intorno ai beni variamente definiti comuni si è sempre giocata una partita politica per la distribuzione del potere. Oggi, ad esempio, si manifesta una attenzione particolare per l’acqua, per i conflitti che essa provoca, tanto che si giunge a parlare di vere e proprie guerre dell’acqua. E allora è bene richiamare almeno le analisi di un grande studioso, Karl August Wittfogel, che ha descritto il dispotismo orientale anche attraverso la costruzione di una società idraulica7, esercitando così un potere totale che consentiva un controllo autoritario dell’economia e delle persone. Il nodo è sempre quello del legame tra sovranità e proprietà, descritto nelle analisi più recenti con riferimento a Stato e mercato, una diarchia di cui proprio la categoria dei beni comuni consentirebbe il superamento. Come sciogliere quel legame che da tempo costituisce un problema che, a partire dagli anni ’60, si è cercato di risolvere attraverso la costruzione di una categoria di beni dichiarati patrimonio comune dell’umanità. Ad alcuni di questi beni fanno riferimento, con valore giuridico e significati differenziati, trattati e convenzioni internazionali: si tratta, in particolare, del fondo del 7 K. A. Wittfogel, Oriental Dispotism. A Comparative Study of Total Power, Yale University Press, New Haven 1957.

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mare, dell’Antartide, dello spazio extratmosferico, del patrimonio culturale dei singoli Stati, del genoma umano. Beni, come si vede, diversissimi, che tuttavia è stato possibile prendere in considerazione per dare evidenza ad una dinamica istituzionale verso il riconoscimento di beni pubblici globali8. Il tratto unificante di questi vari testi è rappresentato proprio dalla finalità di escludere che quei beni possano essere oggetto di appropriazione, con il duplice effetto di escludere per essi regole di tipo proprietario e esercizio di poteri sovrani9. Vengono inoltre previste una loro gestione collettiva, o comunque partecipata, una gestione solo per fini pacifici, una attenzione per i diritti delle generazioni future. Si individuano così molteplici soggettività, sia per quanto riguarda le modalità di gestione, sia in relazione ai destinatari della protezione. La categoria generale dell’umanità trova una sua concreta articolazione attraverso i poteri/doveri degli Stati firmatari delle convenzioni e la individuazione di altre categorie di soggetti legittimati ad esercitare

8 Si veda, ad esempio, M.-C. Smouts, Du patrimoine commun de l’humanité aux biens publics globaux, in M.-C. Cornier Salem, D. Juhé-Beaulaton, J. Boutrais, B. Roussel (éditeurs scientifiques), Patrimoines naturels au Sud. Territoires, identités et stratégies locales, Ird, Paris 2005, pp. 53-70. 9 Diversi sono i caratteri della Convenzione Unesco sui beni culturali.

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azioni a tutela di quei beni anche nella forma della gestione diretta o partecipata. Ma questi soggetti devono essere individuati con maggiore precisione, per evitare i rischi di un ritorno all’astrazione e per non lasciare spazio a logiche autoritarie, a soggetti che si appropriano del potere di rappresentare l’umanità o la natura. Il riferimento alle generazioni future, come precedentemente ricordato, non è una invenzione dei tempi nostri. Nella Costituzione francese del 1793 si dice esplicitamente che «una generazione non ha il potere di assoggettare alle proprie leggi le generazioni future». Una limitazione che si traduce in una più diretta assunzione di responsabilità verso il futuro nel suggestivo detto degli indiani d’America: «non abbiamo ricevuto la terra in eredità dai nostri padri, ma in prestito dai nostri nipoti». Proprio seguendo insieme la logica del potere limitato e della responsabilità collettiva è possibile cercare di uscir fuori dagli equivoci che il riferimento alle generazioni future può determinare e giungere alla conclusione che i diritti delle generazioni future concretamente si traducono in doveri delle generazioni presenti. Doveri formalizzati per quanto riguarda gli Stati firmatari delle convenzioni e che, per quanto riguarda una tutela diffusa e partecipata, esige un riconoscimento di poteri di intervento diretto da parte dei cittadini, legittimati ad esercitare forme di azione popolare. 53

Per meglio chiarire questo passaggio, torno su un esempio sopra esposto. Quando si prendono decisioni irreversibili o difficilmente reversibili, ad esempio modificando in modo radicale un ambiente, il semplice rispetto del principio di maggioranza non è sufficiente. Si incide, infatti, su uno dei principi della democrazia politica, che si fonda anche sulla possibilità che una diversa maggioranza, espressa dal voto dei cittadini, modifichi le scelte fatte da quella precedente. Per evitare che questo si risolva in un blocco del processo di decisione, si sono messe a punto diverse tecniche che possono evitare o ridurre il rischio di pregiudizi gravi per le generazioni future: procedure tecniche, come la consultazioni di esperti e le valutazioni d’impatto ambientale o d’impatto privacy; procedure democratiche, come l’imposizione di maggioranze qualificate per le decisioni e le consultazioni dei cittadini, anche attribuendo loro il potere finale di scelta attraverso referendum; rispetto dei principi di prevenzione e di precauzione, autorizzando l’utilizzazione di particolari innovazioni tecnologiche o di specifici prodotti solo quando siano chiari i loro effetti a lungo termine. L’umanità compare quando si parla del genoma o di particolari ambienti naturali, storici o artistici, dell’Antartide o dello spazio atmosferico, tutti definiti appunto patrimonio comune dell’umanità. Si vuole così porre un limite al potere di occupazione da parte degli Stati, che non possono impadronirsi 54

di una porzione della luna o dell’Antartide; e un ostacolo alla rapacità degli interessi economici che vogliono distruggere un ambiente o brevettare qualsiasi sequenza del genoma umano. Ma vi sono altre ambiguità da sciogliere quando ci si riferisce all’umanità e ai suoi diritti. Si è molto parlato negli anni passati della foresta amazzonica, assunta come simbolo di un ambiente da salvaguardare per l’essenziale funzione svolta per l’equilibrio ecologico del pianeta. Ma chi deve sostenere i costi di questa operazione? Se i vantaggi sono di tutti, i costi non possono essere addossati soltanto ai brasiliani, o agli indonesiani che distruggono le loro foreste per ottenere risorse commerciando legno pregiato. Se si vogliono vincere gli egoismi nazionali, e non dare la sensazione che si voglia espropriare un popolo del diritto di disporre liberamente delle proprie risorse, sono necessarie politiche compensative su scala mondiale. In questo senso, l’umanità diventa la comunità degli stati che deve contribuire, soprattutto con l’intervento dei paesi più ricchi, alla conservazione delle risorse esistenti, con trasferimenti a favore di altri paesi e adottando politiche volte a ridurre le proprie attività distruttive dell’ambiente, come si è cercato di fare con il trattato di Kyoto, rimasto prigioniero dell’egoismo nazionale, dell’unilateralismo, del rifiuto di politiche comuni. Dietro l’astrattezza della nozione di umanità scopriamo così diritti, obblighi e responsabilità di soggetti concreti. 55

Il principio di solidarietà assume una rilevanza particolare. Rispetto a questo principio, infatti, i beni comuni assumono la funzione di strutturare la solidarietà attraverso la creazione delle condizioni culturali e istituzionali propizie allo sviluppo di comportamenti collaborativi e partecipativi. 3. Da quest’insieme di considerazioni è possibile trarre alcune prime, provvisorie conclusioni. Le vicende storiche e i precedenti istituzionali da prendere in considerazione non possono essere soltanto quelli che riguardano le diverse forme di enclosures. L’individuazione dei beni è storicamente determinata ed è funzione non di una loro natura, ma del raggiungimento di finalità politicamente definite. Le modalità di gestione dei beni comuni, fin qui considerati soprattutto nella dimensione e nello spazio di beni comuni globali, varia in funzione delle finalità da raggiungere e della individuazione delle soggettività che possono rendere raggiungibili gli obiettivi di volta in volta individuati. Anche quando permane un riferimento alla sovranità nazionale, come nel caso delle convenzioni ricordate, si scioglie ogni suo nesso non solo con la logica proprietaria, ma con utilizzazioni dei beni contrarie al rispetto del diritto alla pace, come risulta esplicitamente dal divieto di utilizzazioni militari dello spazio. Se siamo di fronte all’opposto della proprietà, questo non significa soltanto l’esclusione del profitto, ma 56

di tutti gli altri attributi che la hanno accompagnata nella modernità. Una corretta ricostruzione delle vicende storiche è indispensabile per evitare la sovrapposizione di vicende diverse, la confusione tra diverse soggettività, l’equiparazione di finalità distinte e persino contrastanti. Solo così è possibile sfuggire alla enfatizzazione di specifiche vicende, con il rischio di pretendere di costruire modelli comprensivi generalizzando esperienze particolari. Il caso più evidente è rappresentato dall’esperienza inglese delle enclosures e dei beni ai quali sono state riferite. La diversità delle esperienze dei beni comuni è stata analizzata, ad esempio, da Allan Greer10, sottolineando come un generico rinvio ad essi possa produrre una ingannevole base comune di riferimento, precludendo la riflessione su riferimenti ben più solidamente unificanti, quali ad esempio quelli che richiamano i processi capitalisti. Una analisi differenziata è indispensabile. Il ruolo dei beni comuni è assai diverso in economie chiuse, dove essi adempiono in primo luogo ad una fondamentale funzione di garanzia per la sopravvivenza dei ceti economicamente più deboli, A. Greer, Confusion sur le Communs, in La Vie des idèes, . Per una più analitica comparazione tra esperienza inglese e americana Id., Commons and Enclosures in the Colonization of the North America, in «The American Historical Review», 2012, 117 (2), pp. 365-386. 10

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rispetto a situazioni in cui il loro carattere globale evoca economie aperte. Anche se si vuol rimanere nell’ambito classico della terra, è bene ricordare la distinzione che John Locke fa nel Secondo trattato sul governo, mettendo a confronto i commons dei villaggi del Vecchio Mondo con gli spazi aperti del Nuovo Mondo, dove il conflitto si manifestava piuttosto tra i beni comuni dei colonizzatori e quelli delle comunità indigene. Questo ricordo di Locke rinvia ad una forte e determinata consapevolezza di che cosa significasse il passaggio dai commons alla proprietà solitaria. Ma distinzioni sono imposte anche dalle categorie dei beni in comune, dalla quantità di persone che su di esse insistevano, che viene evocata in particolare attraverso il riferimento alla tragedia dei commons, sulla quale si è molto insistito anche con effetto di fraintendimento delle effettive dinamiche storiche. Questo tipo di analisi potrebbe continuare, ma questi pochi accenni dovrebbero essere sufficienti per mettere al riparo dalla tentazione della nostalgia, visibile in troppi scritti sui beni comuni, quasi che i modelli del passato possano essere recuperati per comprendere meglio il presente e progettare il futuro. Al tempo stesso, quelle analisi, come già si è ricordato, non devono produrre un effetto di rassicurazione, quasi che parlare di beni comuni e ritrovare i loro variegati patterns in una dimensione senza tempo possa avere l’effetto quasi miracoloso di resuscitare forme di proprietà collettive. La macchi-

na della proprietà11, infatti, ha ripreso la sua marcia, anche assumendo forme inedite. Proprio con questa realtà modificata deve confrontarsi la nuova categoria dei beni comuni, nella quale si manifesta una discontinuità, non il recupero di vecchi modelli. Ai beni comuni non si deve guardare nell’ottica di un ritorno ad una situazione premoderna, troppo fragile culturalmente e politicamente per fronteggiare la potenza delle nuove forme proprietarie. Se, com’è legittimo, si vogliono studiare le dinamiche delle ultime fasi, si deve rivolgere l’attenzione alla modernità, e piuttosto vedere nei beni comuni il punto d’approdo di un processo che ha cercato di restringere l’area occupata dalla proprietà, facendo emergere la nuova categoria dei patrimoni comuni dell’umanità che, come già si è notato, può essere considerata come una prima apertura verso la più larga categoria dei beni comuni globali. Processo, inoltre, che si è concentrato sul tentativo di relativizzare l’assolutezza proprietaria. Quest’ultima vicenda è di più lunga durata e il suo avvio può essere collocato nell’articolo 153 della Costituzione di Weimar, dove si trovano parole a loro modo eversive: «Das Eigentum verplifchtet» – la proprietà obbliga. Con questa formula si intendeva mettere in discussione l’assolutezza proprietaria, misurandone la legittimità attraverso la sua colloca11 P. Ambrose-B. Colenutt, The Property Machine, Penguin Books, Harmondsworth 1975.

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zione in una lunga costituzione in cui assumevano rilevanza i diritti sociali, insieme al riconoscimento inedito di altre categorie di diritti. Questa linea ha trovato una sua più esplicita definizione nella formula della funzione sociale della proprietà, di cui parla esplicitamente l’articolo 42 della Costituzione italiana del 1948, e nei paragrafi 14 e 15 del tedesco Grundgesetz del 1949, che collegano l’esercizio legittimo della proprietà alla realizzazione del bene della comunità, prevedendo anche la sua socializzazione. Ma proprio il tentativo di incidere sulla struttura assolutistica del diritto di proprietà incorporando in essa una funzione sociale, indusse a denunciare questa come una «menzogna convenzionale»12. Veniva così ripresa, in termini radicali e propriamente marxisti, una critica che Otto von Gierke, in chiave prevalentemente comunitaria, aveva rivolto al codice civile tedesco, mettendo in evidenza come la sua natura non poteva essere mutata versando nei suoi ingranaggi «una goccia d’olio sociale»13. Si manifestavano così diffidenze, o a veri e propri rifiuti, che scaturivano dal sospetto che la funzione sociale fosse strumento troppo debole per conseguire la 12 E. Pashukanis, Allgemeine Rechtslehre und Marxismus. Versuch einer Kritik der juristischen Rechtsbegriffe (1924), tr. tedesca di E. Hajòs, Verlag fuer Literatur und Politik, BerlinWien 1929, p. 6. 13 O. von Gierke, Die soziale Aufgabe des Privatrechts. Eine Grundfrage in Wissenschaft und Kodification am Ende des 19. Jahrhunderts (1889), Mohr, Tuebingen 2001.

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trasformazione che prometteva, destinata quindi a divenire una modalità indiretta di legittimazione di un ordine economico e sociale che veniva soltanto scalfito. È comunque vero che la relativizzazione del diritto di proprietà segue, nelle diverse epoche storiche e nei diversi sistemi sociali, percorsi assai differenziati, non sempre utilizzabili per una effettiva costruzione di beni comuni. Allo stesso modo, si deve essere consapevoli del fatto che l’affannosa ricerca di beni comuni in ogni luogo e in ogni tempo rischia anch’essa di produrre un opposto fraintendimento: la confusione tra beni comuni e beni gestiti in comune. Anche se si vuol concludere che un bene comune implica necessariamente una gestione comune, questione su cui ci siamo soffermati in precedenza ma che verrà discussa criticamente più avanti, non si può allo stesso modo affermare che l’accertamento di una gestione partecipata porta necessariamente a concludere che siamo in presenza di un bene comune. Sono numerosi gli esempi storici, anche a noi assai vicini, che mostrano come la sottrazione alla gestione individuale di determinati beni, frutto di una imposizione politica o culturale, può capovolgersi in imposizioni che privano le persone della possibilità di esercitare diritti fondamentali. Una modalità di gestione, in definitiva, deve essere sempre valutata in base ai diritti dei soggetti coinvolti ed alle finalità che vengono raggiunte. Si corre altrimenti il rischio di una ideologizzazione 61

della categoria dei beni comuni, facendo del comune una sorta di chiave che dovrebbe aprire qualsiasi porta o la ricognizione di un dato naturale, via via pervertito dagli interessi degli uomini. La storia delle regole e delle pratiche sociali ci dice che non è così. Cerchiamo di evitare che contro le ricerche ansiosamente volte a proiettare il comune in tutte le dimensioni spaziali e temporali possano essere usate ironicamente le parole di John Locke, quando osservava «all’inizio tutto il mondo era America». 4. Le critiche prima ricordate continuano a comparire in molti scritti a noi più vicini. Bisogna però aggiungere che il riferimento alla funzione sociale è stato anche rivitalizzato proprio dalla discussione sui beni comuni, istituendo un collegamento tra esercizio del potere sui beni, quale che sia la natura dell’appartenenza, e obiettivi sociali ai quali devono essere finalizzati. Alle diverse, provvisorie conclusioni già prospettate si può a questo punto aggiungerne un’altra, che riguarda appunto una funzione di garanzia dell’effettività dei diritti sociali che accompagna e legittima la categoria dei beni comuni. La storicizzazione del riferimento ai beni comuni, allora, non diminuisce la capacità innovativa di questa categoria. Al contrario, la libera dalle ipoteche di chi vuole ricondurli a modelli del passato o di chi cerca il loro fondamento in una natura che in essi si manifesterebbe. Solo questo diverso 62

sguardo sui beni comuni può permetterci di cogliere la discontinuità, la frattura rispetto al passato che essi manifestano. Gli stessi riferimenti ad altre esperienze devono essere illuminati dalla capacità trasformativa di una categoria che si presenta con caratteristiche radicalmente innovative. Dobbiamo liberarci dal fascino del ritorno a un altro modo di possedere14, al mondo che ha preceduto le enclosures, correndo il rischio di rimanere prigionieri di schemi che possono impedire, o comunque rendere più difficile, la necessaria costruzione dell’opposto della proprietà. Nell’ambito delle ricerche sui beni comuni si può cogliere un’ansia di genealogia che si manifesta in due modi. Uno è quello già ricordato della riscoperta/recupero dei modelli precedenti all’affermarsi della proprietà come modello escludente. L’altro si dilata sull’intero sistema e la discussione sulla proprietà si tramuta in una critica generale del capitalismo, di cui i commons sarebbero l’unico possibile antagonista. Tra questi due metodi d’indagine vi è un ingannevole punto di congiunzione, perché si sovrappongono forme precapitaliste e modalità proprie del capitalismo. Ma questa necessaria distinzione non basta. Come un recupero storicamente nostalgico impedisce uno sguardo realistico sul presente, così una contrapposizione semplificata 14

1977.

P. Grossi, Un altro modo di possedere, Giuffrè, Milano 63

e totalizzante tra commons e capitalismo rischia di articolare impropriamente la riflessione sull’uno e sull’altro termine. Dobbiamo liberarci anzitutto dalla seduzione della premodernità, di cui talora si finisce con il proporre, consapevolmente o no, una rivalutazione. «Nel nuovo medioevo i tempi sembrano maturi per rivolte ed insurrezioni»15. Questo rinnovato sguardo verso il passato ci porta verso quel neomedievalismo istituzionale, al quale si è riferito insistentemente, e con maggiore determinazione di altri, Manuel Castells16, partendo dalla premessa che «la rete, per definizione, ha dei nodi, ma non ha un centro»17, con effetti di policentrismo, di dispersione «dei poteri sovrani fra attori diversi tra loro non gerarchizzati e che non insistono sul medesimo territorio»18. La genealogia di questa vicenda ci porta a constatare che la categoria del Nuovo Medioevo è stata coniata negli anni della guerra fredda e ha conosciuto una crescente fortuna negli anni recenti, soprattutto in relazione al processo di costruzione dell’Unione euroU. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 24. 16 M. Castells, Volgere di millennio, trad. it. di G. Pannofino, Milano 2003, p. 373 ss. 17 Ivi, p. 399. 18 D. D’Andrea, Oltre la sovranità. Lo spazio politico europeo tra post-modernità e nuovo medioevo, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 31 (2002), I, p. 103. 15

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pea19. Ora, senza poter qui esaminare in dettaglio una questione così complessa e culturalmente sfaccettata, si deve comunque osservare che essa ha costituito il riferimento forte per una ricostruzione delle dinamiche della globalizzazione in termini di pluralità di costituzioni civili20, con due possibili indicazioni per quanto riguarda i beni comuni. Se, infatti, il neo­ medievalismo induce a mettere l’accento piuttosto sull’esistenza di una pluralità di centri, irriducibili a logiche comuni e ciascuno governato da portatori di interessi diversi, il rischio dell’impossibilità di una fondazione unitaria del comune diviene evidente, perché i beni possono di nuovo essere catturati da forme di sovranità assai prepotenti, anche se non statuali. Se, invece, la molteplicità dei contesti all’interno dei quali si collocano i diversi beni permette di cogliere la specificità di ciascuno, questa analisi realistica consente di sprigionare le potenzialità di cui ciascuna situazione è portatrice. In modo efficace si è detto che un uso troppo ampio dell’espressione beni comuni «può comprometterne l’efficacia espressiva e banalizzarne il senso», sì che «è indispensabile cercare di cogliere i caratteri comuni che attraversano gli usi eterogenei del termine per poi capire in che misura intorno alla definizione beni comuni sia pos19 Questa vicenda è ricostruita in modo efficace, e con persuasive notazioni critiche, da D. D’Andrea, op. cit., pp. 77-108. 20 G. Teubner, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni civili, Roma 2005.

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sibile costruire una categoria unitaria di risorse»21. Un lavoro di analisi, dunque, e di ricomposizione, che porta anche a esaminare in forme differenziate il rapporto tra accesso e gestione, dunque lo stesso significato della partecipazione. Se, ad esempio, si considera la conoscenza in Rete, se si riflette sui digital commons come uno dei temi centrali nella discussione, ci si avvede subito della loro specificità. Si è da tempo definita la conoscenza in Rete come un bene pubblico globale. Ma proprio questa sua globalità rende problematico, o improponibile, uno schema istituzionale di gestione che faccia capo ad una comunità di utenti, cosa necessaria e possibile in altri casi. Come si potrebbe estrarre questa comunità dai miliardi di soggetti che costituiscono il popolo di Internet? Siamo di fronte ad uno di quei beni che, nel linguaggio di Elinor Ostrom, possono essere definiti not community based. Di nuovo una sfida alle categorie abituali, vecchie o nuove che siano. La tutela della conoscenza in Rete non passa attraverso l’individuazione di un gestore, ma attraverso la definizione dalle condizioni d’uso del bene, che deve essere direttamente accessibile da tutti gli interessati, sia pure con i temperamenti resi necessari dalle diverse modalità con cui la conoscenza viene prodotta. Qui il modello partecipativo si presenta con caratteristiche parti21 M. R. Marella, Il diritto dei beni comuni, in «Rivista critica del diritto privato», 2011, p. 110.

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colari, con una possibile separazione tra governo e uso del bene. Ma, per garantire forme di governo adeguate alle peculiarità di specifiche situazioni, per la Rete si è ad esempio proposto di ricorrere a modelli di democrazia rappresentativa o diretta, attribuendo un diritto a far sentire la propria voce a gruppi di utenti autorganizzati che superino una determinata percentuale degli appartenenti a quella comunità (e Mark Zukerberg aveva tentato di organizzare un referendum su Facebbok). Comunque, la possibilità di fruire del bene non esige politiche redistributive di risorse perché le persone possano usarlo. È il modo stesso in cui il bene viene costruito a renderlo accessibile a tutti gli interessati. Sono dunque le caratteristiche di ciascun bene, non una sua natura, a dover essere prese in considerazione, la sua attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali. I beni comuni sono a titolarità diffusa, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero patrimonio dell’umanità e ciascuno deve essere messo nella condizione di difenderli, anche agendo in giudizio a tutela di un bene lontano dal luogo in cui vive. 67

La riflessione sui beni comuni diviene inevitabilmente una riflessione sui soggetti sociali, dunque non solo l’opposto della proprietà, ma anche di una visione astratta, in qualche modo metafisica, della soggettività. I beni comuni consentono di costruire una nuova connessione tra beni, bisogni, diritti, soggetti. È aperta una essenziale partita sulla distribuzione del potere. Poteri pubblici e privati si contendono ancora oggi il governo di una risorsa scarsa e preziosa come l’acqua e, con la stessa determinazione, di una risorsa abbondante e altrettanto preziosa come la conoscenza. Di fronte ai nuovi dispotismi si leva la logica non proprietaria dei beni comuni, dunque ancora una volta l’opposto della proprietà. La relazione immediata tra soggetti e beni è quella che scioglie i nodi della mediazione, nella quale può annidarsi la costruzione di nuovi soggetti proprietari. A questo punto, però, bisogna interrogarsi intorno all’uso enfatico del riferimento alla categoria dell’accesso che avrebbe dissolto, quasi in modo indolore, la categoria proprietaria come via obbligata per la fruizione dei beni. Quando nell’articolo 42 della Costituzione italiana si legge che la proprietà deve essere resa accessibile a tutti, si fa una operazione assai sfaccettata, la cui analisi può aiutare a cogliere meglio il rapporto tra proprietà e accesso. Siamo certamente di fronte ad una manifestazione significativa di critica all’assolutezza proprietaria, perché il raggiungimento di 68

quell’obiettivo esige politiche redistributive dei beni disponibili. Al tempo stesso, però, può emergere una visione della proprietà come strumento di stabilizzazione sociale, ribadendo il nesso tra proprietà e libertà. Accanto a questa posizione si colloca poi quella che, esaminando la struttura della moderna società per azioni, ha ridimensionato l’essenzialità del riferimento proprietario, mostrando come sia possibile separare il controllo dalla proprietà22e giungendo così parlare di potere senza proprietà23. Queste ambiguità si accentuano quando l’accesso viene presentato come lo strumento che rende irrilevante la proprietà. Se, ad esempio, si esaminano le forme di accesso alla conoscenza in Rete, si scopre infatti la persistenza persino accentuata del potere proprietario. Non solo il fornitore dell’accesso, attraverso i terms of service, esercita un potere normativo unilaterale per quanto riguarda lo svolgimento dei rapporto con l’utente. Mantiene anche, in molte e crescenti situazioni, un potere proprietario perfino più intenso di quello attuale. Se, per esempio, acquisto un libro, posso poi rivenderlo, donarlo, darlo in lettura ad altri, lasciarlo in eredità, distruggerlo. Se acquisto contenuti digitali, questi rimangono di 22 A. A. Berle jr.-G. C. Means, The Modern Corporation and Private Property, Macmillan, New York 1932. 23 A. A. Berle jr., Power without Property. A new Development in american political Economy, Harcourt, Bruce and Company, New York 1959.

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proprietà del venditore, escludendo tutte le facoltà prima ricordate, e giungendo fino a far cessare la possibilità di utilizzazione da parte dello stesso interessato. Il regime dell’accesso, dunque, può essere più costrittivo di quello proprietario, grazie alla separazione tra proprietà stabile e disponibilità revocabile. Altro è l’accesso in presenza di una gestione partecipata di un bene qualificato come comune, depurato dunque da ogni residuo proprietario. Questo accade, ad esempio, quando si costruisce la conoscenza in Rete, in via di principio, come un bene comune globale. Così non si può soltanto sbarrare la strada a nuovi chiusure, ma si dispone di uno strumento essenziale per analizzare le modalità di produzione della conoscenza nel tempo del passaggio da Internet 2.0, quello delle reti sociali, a Internet 3.0, l’Internet delle cose. 5. I beni comuni esigono una diversa forma di razionalità, capace di incarnare i cambiamenti profondi che stiamo vivendo, e che investono la dimensione sociale, economica, culturale, politica. Siamo così obbligati ad andare oltre lo schema dualistico, oltre la logica binaria, che ha dominato negli ultimi due secoli la riflessione occidentale – proprietà pubblica e privata, Stato e mercato24. E tutto questo viene 24 Questo punto di vista è ormai diffuso ed è espresso fin dal titolo di diversi libri. Ad esempio, D. Bollier-S. Helfrich

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proiettato nella dimensione della cittadinanza, per il rapporto che si istituisce tra le persone, i loro bisogni, i beni che possono soddisfarli, così modificando la configurazione stessa dei diritti definiti appunto di cittadinanza, e delle modalità del loro esercizio. Questa non è una illuminazione improvvisa. È l’esito di una riflessione che riguarda i beni primari, necessari per garantire alle persone il godimento di diritti fondamentali, e per individuare gli interessi collettivi, le modalità di uso e gestione dei beni stessi. «Interessi collettivi e retroterra non proprietario hanno fatto così guadagnare al mondo istituzionale una terza dimensione, nella quale si muovono a disagio i cultori della geometria istituzionale piana»25. Emerge un retroterra non proprietario, si manifesta concretamente l’esigenza di garantire situazioni legate al soddisfacimento delle esigenze e dei bisogni della persona, considerata appunto nella realtà della vita materiale e del rilievo ad essa attribuito dai principi costituzionali, sì che oggi è legittimo parlare di una persona costituzionalizzata, come già si è ricordato. La via verso la riscoperta dei beni comuni è così aperta, senza nostalgie di esperienze del passato e disponendo di strumenti (eds.), The Wealth of the Commons. A World beyond Market & State, Levellers Press, Amhester 2012; M. R. Marella (ed.), Oltre il pubblico e il privato. Per una strategia dei beni comuni, Ombre Corte, Verona 2012. 25 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 107. 71

che consentono di abbracciare le molteplici realtà di oggi senza forzature ideologiche. Prima ancora che la discussione sui beni comuni assumesse la rilevanza attuale, le premesse per una nuova ricostruzione erano state poste da operazioni concettuali che avevano variamente inciso sulla compattezza della categoria proprietaria. Quando, ad esempio, si prevede che possano essere affidate «a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale» (articolo 43 della Costituzione italiana), si adotta una logica istituzionale che svincola l’interesse non individualistico per determinati beni dal riferimento obbligato alla proprietà pubblica, alla tecnica delle nazionalizzazioni. Il formalismo proprietario viene rifiutato quando la categoria proprietaria viene scomposta e si mette in evidenza come il potere sostanziale di gestione del bene non esige il titolo formale di proprietario, modificando così il rapporto tra soggetti e beni. Lo stesso accade quando si sposta l’attenzione sull’accesso costituzionalmente garantito che, con le cautele già ricordate, può essere inteso come strumento che consente di soddisfare l’interesse all’uso del bene indipendentemente dalla sua appropriazione esclusiva. Muta lo sguardo sulla proprietà. «La proprietà (…) non ha bisogno d’essere confinata, come ha 72

fatto la teoria liberale, nel diritto di escludere gli altri dall’uso o dal godimento di alcuni beni, ma può egualmente consistere in un diritto individuale a non essere escluso ad opera di altri dall’uso o dal godimento di alcuni beni»26. Usando la vecchia terminologia, si potrebbe dire che si passa da una proprietà esclusiva ad una inclusiva. Più correttamente, questa situazione può essere descritta come riconoscimento della legittimità che al medesimo bene facciano capo soggetti e interessi diversi. Il discorso sull’esclusione viene tramutato così in quello sull’accessibilità. Questo necessario adeguamento delle categorie, nel quale possa rispecchiarsi la nuova razionalità, trova un suo ulteriore svolgimento nella considerazione della storica, e sempre controversa, categoria della funzione sociale. Questa, nata come insieme di limiti e vincoli all’esercizio del potere proprietario, è stata poi intesa anche come strumento per definire lo stesso contenuto del diritto, per circoscrivere fin dall’origine le facoltà esercitabili dal proprietario. Ma essa è stata poi configurata anche come potere di una molteplicità di soggetti di partecipare alle decisioni riguardanti determinate categorie di beni. Infatti, nel momento in cui taluni beni sono al centro di una costellazione di interessi, quando il bundle C. B. Macpherson, Liberal-Democracy and Property, in Id. (a cura di), Property. Mainstream and Critical Positions, Oxford University Press, Oxford 1978, p. 201. 26

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of rights che li caratterizza include anche quelli di una molteplicità di soggetti, questa loro particolarità implica che, in forme ovviamente differenziate, si dia voce a chi li rappresenta. Emerge così un modello partecipativo. La revisione delle categorie proprietarie porta con sé anche una revisione complessiva delle categorie dei beni, con il rinnovato interesse per i beni comuni, che tuttavia assumono caratteristiche anch’esse irriducibili ai modelli storicamente già noti. Se, ad esempio, si ritiene necessaria una nuova tassonomia, questa non può esaurirsi nella contemplazione dei beni comuni, trascurando o ritenendo irrilevante una innovazione che investa complessivamente i beni pubblici nel loro insieme. I beni comuni devono essere definiti partendo dalla considerazione che essi si caratterizzano per l’appartenenza collettiva e la sottrazione alla logica del mercato e della concorrenza, riguardando propriamente i beni materiali e immateriali indispensabili per l’effettività dei diritti fondamentali, per il libero sviluppo della personalità e perché siano conservati anche nell’interesse delle generazioni future. Accanto ad essi, tuttavia, devono comparire altre categorie di beni, come quelli indispensabili per lo svolgimento delle funzioni istituzionali dello Stato e per il raggiungimento di specifiche finalità sociali, insieme a quelli che devono essere messi in valore, perché la collettività possa trarne il massimo beneficio. Si determina così anche uno spostamento dell’asse concettuale, poiché non si muove dalla 74

considerazione del soggetto al quale appartengono i beni, ma delle funzioni alle quali devono adempiere nell’ambito dell’organizzazione sociale. L’attenzione rivolta ai beni comuni, dunque, non si risolve tutta nella costruzione di una nuova categoria di beni. Come ricordato, l’astrazione proprietaria si scioglie nella concretezza dei bisogni, ai quali viene data evidenza soprattutto collegando i diritti fondamentali ai beni indispensabili per la loro soddisfazione. Ne risulta un cambiamento profondo. Diritti fondamentali, accesso, beni comuni disegnano una trama che ridefinisce il rapporto tra il mondo delle persone e il mondo dei beni. Questo, almeno negli ultimi due secoli, era stato sostanzialmente affidato alla mediazione proprietaria, alle modalità con le quali ciascuno poteva giungere all’appropriazione esclusiva dei beni necessari. Proprio questa mediazione viene ora revocata in dubbio. La proprietà, pubblica o privata che sia, non può comprendere e esaurire la complessità del rapporto persona/beni. Un insieme di relazioni deve essere ormai affidato a logiche non proprietarie. Questa logica ci spinge al di là del mondo dei beni, ci riporta alla persona nella sua integralità e all’insieme dei suoi diritti fondamentali. È la già menzionata storica categoria della cittadinanza ad essere messa in discussione. Quando i diritti di cittadinanza divengono quelli che accompagnano la persona quale che sia il luogo in cui si trova, l’in75

dividuazione di questo spazio infinito, di questo nuovo common, porta con sé uno stare nel mondo che certamente sfida la cittadinanza oppositiva, nazionale, puramente identitaria. Larga e diffusa, dunque, è quella che ormai possiamo propriamente chiamare la rivoluzione dei beni comuni. Non siamo, infatti, solo di fronte ad una revisione di categorie tradizionali, ma all’emergere di quella nuova razionalità alla quale si è già accennato, che ha il suo fondamento nella connessione sempre più intensa tra persone e mondo esterno, con una forza espansiva che si estende fino alle frontiere della ridefinizione complessiva della collocazione della persona in una organizzazione sociale globalmente intesa, identificata appunto attraverso le caratteristiche dei beni da tutelare come comuni, come dimostra, ad esempio, la conoscenza in rete. 6. Per comprendere meglio questa vicenda estremamente intricata, tuttavia, non è solo indispensabile essere consapevoli delle elaborazioni che, negli ultimi decenni, hanno articolato le forme proprietarie e ridefinito le categorie dei beni. Conviene tornare a un riferimento collocato in un passato più lontano, ad esempio alla riflessione sopra richiamata di Alexis de Tocqueville, che nel 1847, pochi mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei comunisti di Karl Marx e Friedrich Engels, scriveva:«bientot ce sera entre ceux qui possèdent et ceux 76

qui ne possèdent pas que s’établira la lutte politique; le grand champ de bataille sera la propriété»27. È importante notare come il liberal-conservatore Tocqueville non si chiudesse nell’equazione proprietà uguale libertà, dunque nella dimensione puramente individualistica. Nel momento in cui l’istituto proprietario diveniva affare di società, scopriva che il momento del conflitto era ineliminabile, caratterizzava le dinamiche dell’istituzione proprietaria. Non a caso quel grande indagatore della società francese che fu Honoré de Balzac tre anni prima, nel 1844, aveva scelto come titolo iniziale del romanzo che si sarebbe chiamato Les paysans, quello di Qui propriété a, guerre a. Di nuovo l’immagine bellica, ritenuta l’unica possibile per descrivere l’asprezza del conflitto. Quel conflitto è continuato, ininterrotto, e il campo di battaglia, che per Tocqueville era sostanzialmente quello della proprietà terriera, si è progressivamente dilatato. Oggi sono soprattutto i beni comuni – dall’acqua all’aria, alla conoscenza – al centro di un conflitto davvero planetario, di cui ci parlano le cronache, confermandone la natura direttamente politica, e che non si lascia racchiudere nello schema tradizionale del rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata.

27 A. de Tocqueville, Souvenirs, Michel Lévy Frères éditeur, Paris 1893, p. 14.

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Nuove parole percorrono il mondo: software libero, no copyright, accesso libero all’acqua, al cibo, ai farmaci, a Internet, e queste diverse forme di accesso assumono la veste dei diritti fondamentali. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che riconosce l’accesso all’acqua come diritto fondamentale di ogni persona, così come ha sottolineato il diritto di ognuno ad un adequate food. Proprio intorno a questi beni il conflitto si fa sempre più incandescente. I segni sono continui. In molte aree del mondo sono in corso vere e proprie guerre per l’acqua; le previsioni per il futuro parlano di un rischio concreto di sete per le persone e di difficoltà per una serie di produzioni, in primo luogo quelle agricole; in Italia la questione è divenuta ineludibile dopo che, nel 2011, ventisette milioni di persone hanno detto sì in un referendum contro la privatizzazione della gestione dell’acqua, che veniva così collocata nella dimensione dei beni comuni. Diversi paesi, inoltre, hanno già riconosciuto l’accesso a Internet come diritto fondamentale della persona con una varietà di strumenti – costituzioni (Estonia, Grecia, Ecuador), decisioni di organi costituzionali (Conseil Constitutionnel francese, Corte suprema del Guatemala), legislazione ordinaria (Finlandia, Peru). Inoltre, il piano Obama sulle comunicazioni contiene una significativa reinterpretazione del servizio universale; l’Unione europea e il Consiglio d’Europa si sono già espressi a favore del diritto di accesso; di questi temi si di78

scute intensamente in rete e le mosse repressive e censorie contro inducono addirittura a chiedere che l’utilizzazione libera di Facebook venga riconosciuta come un diritto fondamentale della persona. In documenti ufficiali, come il Rapporto presentato dal relatore speciale Frank LaRue al Comitato per i diritti umani dell’Onu, nel maggio 2011, viene esplicitamente ribadito il carattere di diritto fondamentale proprio dell’accesso a Internet. Peraltro, qualificare l’accesso a Internet come diritto fondamentale è un riflesso della funzione assegnata a tale diritto come condizione necessaria per l’effettività di altri diritti fondamentali – in particolare per il diritto alla libera costruzione della personalità e per la libertà di espressione. E la previsione di una espressa garanzia costituzionale, nella forma appunto del diritto fondamentale, potrebbe essere introdotta nel sistema italiano attraverso una modifica dell’articolo 21 della Costituzione, nella forma seguente: «Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale». Non è un caso che Tim Berners Lee, respingendo le critiche di un altro dei creatori del Web, Vinton Cerf, abbia accostato l’accesso a Internet all’accesso all’acqua, mettendo in evidenza proprio il rapporto tra persone e beni, con i relativi diritti come strumenti che consentono ad ogni interessato di poter concretamente disporre dei beni essenziali per la sua esistenza. 79

Si è venuta così generalizzando una attenzione per l’accesso che, da situazione strumentale in casi determinati (accesso ai documenti amministrativi, ai dati personali), si è progressivamente reso autonomo, individuando una modalità dell’agire, da riconoscere come un diritto necessario per definire la posizione della persona nel contesto in cui vive. L’accesso, inteso come diritto fondamentale della persona, si configura come tramite necessario tra diritti e beni, sottratto all’ipoteca proprietaria. Non è un caso che questa dinamica sia accompagnata da altre mosse istituzionali, tutte volte a liberare da vincoli la conoscenza e la sua circolazione, com’è accaduto con la legge islandese che ha fatto di Internet un vero spazio libero, il luogo di una libertà totale, dove è legittimo rendere pubblici anche documenti coperti dal segreto, che entrano a far parte di un common della conoscenza, essenziale per il processo democratico. La tendenza è chiara. L’individuazione sempre più netta di una serie di situazioni come diritti di cittadinanza, anzi come diritti inerenti alla costituzionalizzazione della persona, implica la messa a punto di una strumentazione istituzionale in grado di identificare i beni direttamente necessari per la loro soddisfazione. Essi sono, anzitutto, proprio quelli essenziali per la sopravvivenza (l’acqua, il cibo) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza). Per questa loro attitudine vengono sempre più concordemente 80

considerati beni comuni, per indicare in primo luogo il loro raccordo con la persona e i suoi diritti. Sì che, quando si parla dell’accesso a questi beni come di un diritto fondamentale della persona, si fa una duplice operazione: si affida l’effettiva costruzione della persona costituzionalizzata a logiche diverse da quella proprietaria, dunque fuori da una dimensione puramente mercantile; si configura l’accesso non come una situazione puramente formale, come una chiave che apre una porta che fa entrare solo in una stanza vuota, ma come lo strumento che rende immediatamente utilizzabile il bene da parte degli interessati, senza ulteriori mediazioni. Il grumo proprietà-sovranità comincia ad essere sciolto. Ma una riflessione su Internet, attraverso il progressivo e generalizzato riconoscimento del diritto fondamentale all’accesso, mostra come attraverso l’estensione di questo diritto la rete si configuri come uno spazio comune. Una volta di più, dunque, è il riconoscimento di un diritto fondamentale a produrre un common, che in questo caso, come già si è detto per la cittadinanza, assume un vero carattere globale. Si chiarisce così ulteriormente il quadro d’insieme. La riflessione sui beni comuni impone una rilettura delle stesse categorie tradizionali, che si può sintetizzare nel modo seguente. Per quanto riguarda la dimensione soggettiva, si passa dall’astrazione del soggetto alla concretezza 81

della persona, individuata attraverso la materialità dei suoi bisogni. E la persona non riproduce la solitudine del soggetto, la sua astrazione dall’insieme delle relazioni sociali. La categoria dei beni comuni ha uno spiccato carattere relazionale, produce legami sociali, attribuisce rilevanza primaria al principio di solidarietà. Anzi, i beni comuni si presentano sempre più nettamente come una vera e propria istituzione della solidarietà. L’accesso, costruito come diritto fondamentale della persona rispetto ad una categoria di beni, perde l’ambiguità legata ad una sua presunta attitudine a far divenire superflua la presenza di una proprietà che, invece, rimane presente attraverso i poteri che possono essere esercitati dal fornitore di beni o servizi. Il trasferimento della funzione sociale dalla proprietà ai beni istituisce un diretto collegamento tra uso del bene e sua attitudine a rendere effettivi i diritti fondamentali. Si pone così il problema del non uso, dell’abbandono di beni socialmente rilevanti. La costituzionalizzazione della persona, in un quadro d’insieme caratterizzato dalla centralità dei diritti fondamentali, individua un criterio interpretativo e ricostruttivo dell’intero sistema istituzionale, consentendo d’individuare in maniera dinamica le situazioni di diritto alle quali deve corrispondere il riconoscimento di un bene comune. In altri termini, la costituzionalizzazione della persona eccede il riconoscimento di singoli, specifici diritti. 82

L’individuazione/riconoscimento di un bene comune deve essere accompagnata da una coerente individuazione del soggetto gestore del bene. Partendo da queste premesse, gli effetti di sistema del riconoscimento dei beni comuni sono riconoscibili in due direzioni: la vera e propria creazione di istituzioni dei beni comuni e l’emergere di una società che si organizza non solo per gestire, ma per individuare quei beni. 7. Vi è un punto verso il quale convergono le diverse considerazioni finora svolte: quello dei criteri attraverso ai quali si giunge alla qualificazione di un bene come comune. Per comodità di analisi, e perché si tratta di un riferimento che ha già trovato cittadinanza istituzionale, si può ricordare la definizione di beni comuni contenuta nel progetto messo a punto in Italia da una commissione nominata dal Ministro della Giustizia (definizione accolta dalla Corte di Cassazione e presente in proposte di legge attualmente in discussione in Parlamento): «cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti della persona e al libero sviluppo della personalità». Siamo così di fronte ad un significativo sviluppo della discussione culturale, che prende le mosse e proietta nel futuro due innovazioni essenziali del costituzionalismo del secondo Novecento. L’istituzione di uno spazio dei diritti fondamentali apre la strada ad una nuova forma di Stato, appunto lo Stato 83

costituzionale dei diritti, che porta con sé una nuova connotazione della democrazia. Il libero sviluppo della personalità, esplicitamente considerato dal par. 2 del Grundgesetz e dall’articolo 2 della Costituzione italiana, mette al centro dell’attenzione la persona con i suoi bisogni. Così i diritti fondamentali non vengono collocati in una dimensione statica e si pone il problema di garantirne l’effettività attraverso la disponibilità delle risorse necessarie. Non siamo dunque di fronte ad un semplice allungamento del catalogo dei diritti, ma ad una ricostruzione del sistema costituzionale intorno alla materialità dei bisogni della persona che, per questa via, viene costituzionalizzata. L’insistenza su questa qualificazione non è soltanto evocativa o retorica. Con essa si vuol dire che la costituzionalizzazione eccede il riconoscimento alla persona di specifici diritti e così indica un criterio per la comprensione complessiva del sistema, l’interpretazione dei singoli diritti e l’individuazione del loro rapporto con i beni. Il riferimento ad alcune significative situazioni consente di chiarire concretamente il senso di questa ricostruzione. Quando, nel 2013, la Corte Suprema dell’India, come dapprima accennato, ha risolto una controversia riguardante il diritto di una casa farmaceutica di fissare liberamente il prezzo di un farmaco, ha compiuto una serie di operazioni che consentono di chiarire meglio il rapporto tra diritti fondamentali e beni comuni. In sintesi ha stabilito che la 84

tutela del diritto fondamentale alla salute prevale sull’interesse proprietario alla tutela del brevetto, legittimando interventi legislativi riduttivi appunto della portata del brevetto. Ma non si può concludere che il bene comune individuato e protetto sia la salute. Questo è il diritto dal quale si muove per individuare il bene che può assicurarne la garanzia, in questo caso la conoscenza farmacologica, che può essere legittimamente collocata nell’area dei beni comuni. Nell’ultimo periodo, in Italia, si sono moltiplicate le iniziative volte a rendere possibili l’identificazione e la gestione di beni comuni nell’ambito locale. Molti comuni, infatti, hanno approvato regolamenti per consentire a gruppi di cittadini di gestire direttamente beni appartenenti agli enti locali. Le procedure sono diverse, ma un elemento caratterizzante è rappresentato dal fatto che comunità di cittadini non si candidano soltanto alla gestione di determinati beni, ma soprattutto individuano beni suscettibili di usi collettivi urbani. Questo vuol dire che si parte dalla costruzione di una soggettività, che quindi procede, autonomamente o con la collaborazione di soggetti pubblici, alla individuazione di beni corrispondenti al fine di garantire diritti nella dimensione urbana. Con due effetti. La costruzione di questi beni può essere collocata in un processo più generale, che ha come riferimento una rete di diritti finalizzati alla considerazione della città come bene comune. L’istituzionalizzazione della gestione collettiva ha un 85

risvolto più propriamente politico-istituzionale, dando vita ad una democrazia di prossimità. La fondazione costituzionale dei beni comuni trova un significativo sviluppo in quello che potrebbe essere chiamato, come all’inizio ricordato, il quarto costituzionalismo o costituzionalismo dei bisogni, che emerge con chiarezza nei documenti costituzionali del Sud del mondo. Seguendo un percorso analogo a quello ricordato per la salute, il riconoscimento di un diritto al cibo esige una sua considerazione come bene comune, con forme diverse di coinvolgimento dei soggetti interessati. Queste dinamiche non solo mettono in evidenza un collegamento sempre più stretto tra diritti sociali e beni comuni, ma fanno emergere la indivisibilità dei diritti fondamentali, unica via per dare rilevanza all’insieme delle esigenze della vita. Così la vita viene proiettata oltre la dimensione biologica e il rapporto tra diritti fondamentali e beni della vita non può essere costruito come se si trattasse di garantire la sola sopravvivenza. I beni devono garantire l’esistenza libera e dignitosa, secondo una linea già emersa nell’articolo 151 della Costituzione di Weimar. In questo senso, la categoria della partecipazione viene arricchita dalla necessaria rilevanza che assume il principio di solidarietà, che definisce anche le modalità organizzative della gestione dei beni comuni, che deve necessariamente assumere le forme cooperative adeguate alle caratteristiche del bene comune considerato. Inoltre, la rilevanza 86

del principio di solidarietà implica una ulteriore attenzione per il contesto all’interno del quale si concretizza il processo di identificazione dei beni comuni muovendo dai diritti fondamentali. Processo che diviene particolarmente intenso quando prende in considerazione il rapporto tra diritto al lavoro e reddito di esistenza o di dignità, prospettiva che, sia pure con qualche forzatura, ha fatto parlare del Welfare State come di un bene comune, appunto per l’intreccio tra solidarietà e partecipazione. Questo allargamento di prospettiva mostra che la individuazione e la definizione dei beni comuni sono guidate non solo dalla formale ricognizione di un diritto, ma dalla ricostruzione del complessivo contesto costituzionale, che ne individua le possibilità dinamiche, espansive. Siamo di fronte ad una forma di interpretazione costituzionalmente orientata, alla necessità di rispettare gli «objectives de valeur constitutionnelle»28, gli «Staatszielbestimmungen»29, per rendere concreta la garanzia dei diritti. In questo processo assumono rilevanza anche le pratiche sociali, sia per quanto riguarda la emersione di soggettività, sia per il modo in cui si Analizza ampiamente la questione P. de Montalivet, Les objectifs de valeur constitutionnelle, Dalloz, Paris 2006. 29 Per una ricostruzione complessiva K.-P. Sommermann, Staatsziele und Staatszielbestimmungen, Mohr-Siebeck, Tubingen 1997. Il termine fu coniato nel 1949 da H. P. Ipsen proprio in relazione ai problemi dello Stato sociale. 28

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possono meglio definire i bisogni e individuare le forme organizzative adeguate. Non si tratta, allora, di costruire una contro legalità, ritenendo che nell’attuale dimensione costituzionale non esistano le condizioni necessarie per la costruzione dei beni comuni. Proprio la riflessione finora svolta, e le pratiche che l’hanno accompagnata, mettono in evidenza come il riferimento ai beni comuni abbia già manifestato una sua virtù trasformativa di categorie che apparivano consolidate – in primo luogo quelle, ricordate all’inizio, della sovranità e della proprietà. Di questo bisogna tenere conto nel momento in cui si affronta la questione dell’uso o del non uso di beni, che mette in evidenza una contraddizione con la loro funzione sociale, individuata in relazione ai diritti di cui, di volta in volta, deve essere garantita l’effettività. Il processo di commoning, considerato nelle sue varie possibili manifestazioni, si dirama in molte direzioni. Può approdare a trasformazioni profonde dell’ambiente istituzionale, come è avvenuto con le costituzioni della Bolivia e dell’Ecuador, che hanno istituito la Pacha Mama, la Madre Terra, come soggetto di diritto e ne assicurano la garanzia attraverso una serie di meccanismi costituzionali. Operazione complessa, dove il costituzionalismo dei diritti si converte in una vera e propria cosmogonia, nella quale si radicano più profondamente diritti collettivi e doveri pubblici. 88

Al di là di queste innovazioni più radicali, il rapporto con la natura sta divenendo sempre di più un riferimento per la discussione sui beni comuni. Siamo di fronte ad un passaggio culturale, difficile da percorrere e che non può essere affrontato con approssimazioni o genericità. Si vuole abbandonare l’antropologia del soggetto proprietario per arrivare a quella del commoner. Ma questo non può avvenire con un abbandono della dimensione costituzionale, con una naturalizzazione del problema.

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Tavola Rotonda Profili pratici, teorici e amministrativi dei beni comuni destinati ad uso civico

Nota introduttiva di Anna Fava*

A caratterizzare la Tavola rotonda Profili pratici, teorici e amministrativi dei beni comuni destinati ad uso civico è il livello di implicazione di coloro che vi hanno partecipato. Tutti i relatori, infatti, compresa la moderatrice, in questi anni hanno preso parte a un processo politico che ha riguardato la costruzione di un altro modo di intendere la relazione tra i cittadini, la proprietà sia pubblica che privata e le amministrazioni preposte alla sua gestione. La riflessione svolta sui beni comuni all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, incentrata sulla figura giuridica dell’uso civico e collettivo urbano, è nata da una sperimentazione reale in cui tutti i soggetti implicati hanno messo in comune i propri saperi, le proprie competenze e le proprie energie politiche per provare a sfondare concettualmente e giuridicamente

* Anna Fava, dottoranda di ricerca in Filologia presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. 93

il paradigma proprietario dominante, apportando non solo degli avanzamenti in termini di ricerca, ma anche delle modifiche concrete sia all’ordinamento attuale sia alle dinamiche relazionali che normalmente (non) coinvolgono soggettività impegnate politicamente, ricercatori e soggetto istituzionale. Colui che per primo ha ispirato una simile prassi è stato Stefano Rodotà, che con una dose enorme di generosità, libertà e lungimiranza ha portato la forza della riflessione teorico-giuridica nel cuore dell’energia politica messa in atto dal movimento per i beni comuni al Teatro Valle. Il fatto che la relazione tra ricercatore e oggetto della ricerca sia anonima, asettica, è spesso considerato come garanzia di scientificità e oggettività. Ribaltare quest’idea, mostrare come una dinamica che tenga insieme molteplici livelli non solo non pregiudichi la qualità del discorso scientifico, ma lo renda anzi più ricco, integrandolo con la post normal science, con le esperienze e i saperi provenienti dal mondo del conflitto politico, è stato un altro dei frutti raccolti da questa preziosa esperienza. Frutti che, si spera, possano ispirare nuovi processi, nuove relazioni ispirate all’idea di bene comune.

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Beni comuni ad uso civico. Alcune implicazioni di carattere teorpratico di Nicola Capone*

I. Prima di dire qualcosa sul nesso Usi civici-Beni comuni vorrei brevemente fare una premessa. Tutto ciò che si sta sperimentando a Napoli intorno al tema dei beni comuni e degli usi collettivi è la rielaborazione e il risultato di un lungo processo culturale e politico che ha avuto inizio in Campania nei primi anni del nuovo millennio. Dal movimento di contestazione ecologica in difesa del territorio e del paesaggio, alla battaglia referendaria per evitare la privatizzazione dell’acqua, fino alla costituente dei beni comuni e alla recente bocciatura popolare della proposta di riforma costituzionale, numerose comunità di abitanti, comitati, collettivi, reti e coordinamenti hanno reagito alla devastazione ambientale, all’alienazione del patri-

* Nicola Capone, docente di storia e filosofia nei Licei (ISS Pitagora di Pozzuoli) e PhD in Filosofia del diritto (Università degli studi di Salerno – Laboratorio “Hans Kelsen”). Contatti: https://nicolacapone.academia.edu 95

monio pubblico e alla progressiva lacerazione del tessuto democratico imparando a riabitare lo spazio urbano e periurbano attraverso nuove forme di socialità. Un contributo determinante a questo complesso processo è venuto anche dai tentativi fatti sul piano istituzionale di dare forma giuridica e istituzionale a queste istanze. Penso alla cosiddetta Commissione Rodotà per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici – in cui sono poste le basi teoriche per una definizione dei beni comuni – e a quella incaricata di redigere il nuovo Codice dei beni culturali e del Paesaggio, presieduta da Salvatore Settis. Non è un caso che molti dei protagonisti di queste iniziative sono poi stati in prima linea in tutte le battaglie sopracitate. Tenere insieme questi diversi elementi permette di comprendere meglio l’estrema eterogeneità del movimento dei beni comuni che ha animato, a seguito del referendum per l’acqua pubblica, l’ondata di riappropriazioni di spazi pubblici e privati – abbandonati, sottoutilizzati o alienati o in procinto di esserlo dal cosiddetto federalismo demaniale. Premessa questa che può contribuire anche a chiarire il carattere originale della via ai beni comuni seguita per prima volta a Napoli. II. Gli usi civici e collettivi sono la più antica istituzione del mondo rurale risalente addirittura a prima del diritto romano e permettono ancora 96

oggi di governare collettivamente risorse comuni fondamentali per una comunità. Sono un dispositivo potente che ha resistito nel tempo nonostante il prevalere, in molti casi violento, della proprietà esclusiva dei beni. Questa forma d’uso si presenta come una modalità diversa di relazionarsi ai beni, un diverso modo di regolarne l’accesso che non permette l’uso e la gestione esclusiva di una risorsa da parte di alcuno. Tracce di questo diverso modo di possedere si trovano nelle Preleggi del Codice civile, che riconoscono gli usi come una delle tre fonti del diritto, e nel diritto pubblico e amministrativo che presenta i diritti collettivi di uso e godimento di taluni beni come una delle tre fattispecie che, insieme al demanio e al patrimonio, formano la nozione di proprietà pubblica1. Nella contemporaneità, invece, i beni comuni sono maturati prevalentemente in ambito urbano e mettono in relazione determinati beni a determinati diritti e bisogni fondamentali2. Non è un caso che questa categoria politica e giuridica sia emersa per difendere dalla privatizzazione un bene prezioso come l’acqua e per impedire che il patrimonio

1 Cfr. N. Capone, Del diritto d’uso civico e collettivo dei beni destinati al godimento dei diritti fondamentali, in «Politica del diritto», Fascicolo 4, dicembre, il Mulino 2016. 2 Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2015.

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pubblico fosse svenduto per rispettare le politiche economiche imposte dall’austerity. Proprio l’incontro tra le battaglie ambientali e quelle per la difesa dei beni pubblici ha permesso che a Napoli si istituisse un nesso teorpratico tra Usi civici e collettivi e Beni comuni. III. Questo nesso ha tre importanti conseguenze che si co-implicano reciprocamente: un diverso modo di intendere la proprietà pubblica e privata, un diverso modo di considerare le istituzioni democratiche e, infine, un diverso modo di istituire relazioni interpersonali. Per quanto riguarda la prima implicazione c’è da osservare che generalmente si assume come un dato di fatto la proprietà privata quale modello proprietario per eccellenza, un vero e proprio Moloch apparentemente insuperabile. La modernità, invece, a guardar bene, ci mostra che proprio intorno al tema della proprietà fin dall’origine è stata continuamente attiva una lotta tragica fra bisogni e interessi diversi. Basti pensare alla grande trasformazione che investì le campagne inglesi durante il periodo delle enclosures e che poi investì l’intera Europa3. E allora piuttosto che utilizzare la nozione dei beni comuni per limitarsi a stilare un elenco di beni – i beni comuni, appunto – da opporre a quelli già 3 Cfr. F. Capra-U. Mattei, Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Aboca edizioni, Sansepolcro (AR) 2017.

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esistenti – i beni pubblici e privati – è forse il caso di ripensare dall’interno la nozione stessa di proprietà e, attraverso la riflessione sui beni comuni, liberala dallo schema privatistico che la caratterizza. Seguendo questa impostazione viene in evidenza il fatto, ad esempio, che la proprietà pubblica nella Costituzione italiana non è meramente giustapposta a quella privata – come se il costituente non avesse voluto fare altro che descrivere l’esistente. Piuttosto con la nozione di proprietà pubblica si intese introdurre per via costituzionale un nuovo tipo di proprietà, che di fatto relativizzava la proprietà privata4. E questo è ancora più evidente se si considera il fatto che nell’impianto costituzionale l’intera nozione di proprietà non è più tra i diritti fondamentali ma è posta nella parte relativa ai diritti economici. Essa così perdeva il centro della scena politica, veniva relativizzata, marginalizzata e nello stesso tempo ridiscussa. In tal senso Massimo Saverio Giannini nel suo studio sui beni pubblici scriveva che la proprietà pubblica ha un valore polemico. Essa mette in discussione la natura esclusiva della proprietà, funzionalizzandola alla realizzazione delle finalità costituzionali – tra queste c’è la funzione sociale. La costituzionalizzazione della proprietà fa sì che i beni tutti – pubblici e privati – diventino utilitates, ossia strumenti utili per la rimozione degli ostacoli 4 Cfr. S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e sui beni comuni, il Mulino, Bologna 2016.

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di ordine economico e materiale che di fatto impediscono il pieno sviluppo della persona umana. È questa forse la vera novità della nostra Costituzione. Senza quest’opera di liberazione tutte le altre libertà restano delle mere astrazioni. IV. La seconda implicazione riguarda il ruolo delle amministrazioni. Anche in questo caso troppo facilmente si assume come un dato di fatto una vecchia idea di Stato, risalente nella migliore dell’ipotesi allo Stato di diritto dell’Ottocento, per cui gli enti istituzionali sono enti separati dalla collettività che si comportano rispetto ai beni pubblici come dei proprietari in grande. Il risultato è una contrattualizzazione di tutti i rapporti politici e sociali. In questa visione contrattualistica, dinanzi all’istituzione-persona c’è l’altro ente-persona astratto che è il popolo o i cittadini considerati singolarmente o in forma organizzata. Ebbene anche in questo caso si tratta di rassegnarsi ad un paradigma riduzionistico. Ma ancora una volta ci viene in soccorso Massimo Saverio Giannini quando scrive che gli enti pubblici rispetto alle comunità sono enti esponenziali, che amministrano per conto terzi. Questo significa che essi non possono mai sostituirsi agli originari titolari dei beni, ossia il popolo considerato nella sua generalità, ma tutt’al più sono da considerarsi come dei facilitatori dei processi di partecipazione e di cura collettiva della res-publica, soggetti garanti dei diritti collettivi esistenti tra i beni e la collettività. 100

Allora se noi guardiamo gli enti pubblici da questo punto di vista – come nel caso della proprietà – essi vengono relativizzati e tornano al centro della scena i beni con le loro utilità e le comunità con i loro di ritti e bisogni. Si tratta, allora, di far cambiare segno dall’interno alle pubbliche amministrazioni che non possono più decidere in modo esclusivo di beni che appartengono per statuto giuridico e politico all’intera collettività a titolo di sovranità. E questo è ancora più vero se si considera il fatto che oggi ci troviamo in ordinamenti giuridici e politici ispirati, come ci ricordava Rodotà, al Costituzionalismo dei diritti e dei bisogni5. V. La terza e ultima implicazione riguarda il diverso modo di relazionarsi necessario per l’utilizzo collettivo di risorse percepite e volute come comuni6. Da quanto osservato e sperimentato finora si evince come le comunità di abitanti, che hanno individuato un bene per soddisfare diritti e bisogni fondamentali, stiano innanzitutto re-imparando ad autoregolarsi, cioè a stabilire insieme le regole d’uso dello spazio o del bene condiviso, stando attenti a 5 Cfr. M. Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Laterza, Roma-Bari 2009; L. Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti. Il costituzionalismo garantista come modello teorico e come progetto politico, Laterza, Roma-Bari 2013. 6 Cfr. G. Pizziolo-R. Micarelli, L’arte delle relazioni, Alinea, Firenze 2003.

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salvaguardare i quattro principi dell’uso collettivo, ossia, l’accessibilità, la fruibilità, l’imparzialità e l’inclusività; in secondo luogo, è evidente come le stesse comunità stiano sviluppato la capacità di autogestirsi e autogovernarsi, provando a garantire così la sostenibilità gestionale e l’autonomia politica del processo; infine, si è potuto notare come gli spazi e i beni così vissuti siano stati ri-generati tornando nella disponibilità non solo delle comunità presenti ma anche delle future generazioni a cui sarebbero stati indebitamente sottratti, visto lo stato di abbandono in cui versavano. Insomma, è in corso una sperimentazione che non è certo né lineare né priva di contraddizioni ma che ha la forza di rimettere al centro la relazione tra soggetti diversi dando vita così ad un’ecologia delle relazioni capace di liberare le cose e noi tutti dall’isolamento a cui pare siamo stati destinati.

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La rifondazione degli ex-luoghi: pratica politica e diritto nell’autogoverno dei beni comuni di Giuseppe Micciarelli*

L’uso civico e collettivo urbano nasce per dare la possibilità di materializzare anche nell’ordinamento giuridico la realtà molto diffusa di esperienze la cui caratteristica gestione collettiva e comunitaria stenta ad essere coerentemente ricompresa negli schemi di diritto più consueti. Mi riferisco a quel segmento del variegato mondo delle pratiche di rigenerazione urbana che attraverso la partecipazione diretta, l’autorecupero e la costruzione di spazi di autogoverno collettivo intende non solo rivendicare diritti, ma anche provare a innescare processi diffusi per soddisfarli materialmente, alimentando desideri e costruendo soluzioni concrete per i bisogni non solo dei partecipanti, ma anche degli abitanti e delle fasce più deboli della popolazione in particolare.

* Giuseppe Micciarelli, assegnista di ricerca in filosofia politica e del diritto presso l’Università degli studi di Salerno, avvocato. Contatti: [email protected] 103

Quello che accumuna simili sperimentazioni non è un’ideologia, ma principi e metodi che si ritrovano sorprendentemente a diverse latitudini: la messa in comune dei mezzi di produzione (come sale prove, attrezzi per laboratori artigianali, spazi di coworking, etc.); l’utilizzo non esclusivo degli spazi; la gestione mutualistica di tempo, competenze e risorse. In questo senso non si tratta di luoghi gestiti da singoli collettivi o associazioni, ma spazi che svolgono la funzione di incubatori di relazioni sociali, la cui eterogeneità sfugge a qualunque caratterizzazione unitaria. Così sono sorte ovunque, non solo in Italia, da occupazioni o affidamenti, diverse forme di autorganizzazione che hanno aperto le proprie porte ad ambulatori popolari, doposcuola, laboratori artigianali, sportelli per il diritto alla casa, consultori, orti urbani, mercatini, sale prove, teatri e tanto altro. Sono spazi fuori posto e questo non riguarda, prima ancora del diritto, la realtà della concorrenza, della rendita e del mercato. Almeno questa è l’aspirazione, forse mai pienamente realizzabile, e ciò malgrado costituente di simili processi. Il segno comune è quindi, in senso molto ampio, intimamente politico, ma non collocabile in un unico pantheon condiviso. Si potrebbe efficacemente spiegare questa tendenza, caratteristica di una metamorfosi partita a metà degli anni novanta1, con un motto zapatista: questo 1 Per un raffronto sul caso di Napoli cfr. N. Dines, Centri sociali: occupazioni autogestite a Napoli negli anni novanta, in

mondo è troppo difficile da cambiare, meglio costruirne uno nuovo. Ma allora perché questo mondo nuovo ha la necessità di immaginare un nuovo istituto giuridico? Ci sono almeno tre ordini di ragioni. Il primo è di natura pragmatica. Le forme esistenti – che si presentano come concessioni, comodati d’uso, patti di condivisione – sono caratterizzate dall’assunzione di oneri di gestione, burocratici e di manutenzione, troppo gravosi per esperienze di base che non intendono trarre un profitto privatistico dall’uso sociale di questi spazi, ma che anzi li mettono a disposizione in forme prevalentemente gratuite o comunque a costi irrisori rispetto quelli di mercato. Questo accade perché l’ordinamento, stentando a riconoscere l’autonomia concettuale di simili usi a carattere comunitario, si interfaccia con strumenti nati per altri scopi. Si dimentica così che la natura antagonista di simili spazi nasce da una critica al mondo da cui provengono o che intercettano, si tratti di quello artistico, culturale o legato alle lotte per diritti fondamentali come quello alla casa o altri diritti sociali. Essere nati fuori legge insomma non è una scelta estetica, ma una via obbligata e ostinatamente confermata, a caro prezzo, almeno finché «Quaderni di sociologia», 21, 1999, pp. 90-111 e M. P. Vittoria, P. Napolitano, Comunità informali come “luoghi creativi” e drivers di produttività urbana. Il caso dei Centri Sociali a Napoli, in «Rivista Economica del Mezzogiorno», 1, 2017. 105

la propria realtà non viene riconosciuta per quello che è. E per essere tale il pieno riconoscimento deve passare anche per il diritto. In secondo luogo quella del diritto è la cifra di una delle sfide politiche più importanti e difficili che ci si possa assumere: il modo più radicale di opporsi all’ordinamento è uno solo, cambiarlo. Una prospettiva ancora più rilevante se si considera che corregge uno dei rovesci più limitanti di questi processi costruiti sull’immanenza: proietta la propria esperienza – insieme territoriale, generazionale e singolare – nell’orizzonte della riproducibilità per antonomasia, il giuridico appunto. Un modo per risalire ad un orizzonte universale, compiendo una battaglia non soltanto per se stessi e i propri desideri, cosa tutt’altro che fuori posto per l’impronta individualista del neoliberalismo contemporaneo, ma anche per altri luoghi e altre comunità, presenti e future, che quando incontrano il diritto troppo spesso incontrano soltanto il formalismo burocratico, fiscale e la repressione. Si potrebbero fare purtroppo molti esempi, tra questi significativo quello di MACAO a Milano che, dopo aver contribuito invano alla scrittura di una proposta di deliberazione presentata in consiglio comunale che adottava l’uso civico e collettivo urbano2, ha Una bozza preparata in un tavolo di lavoro collettivo a cui da Napoli partecipammo per una settimana Gabriella Riccio ed io, . 2

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lanciato una campagna di acquisto collettivo dell’ex macello occupato nel 2012, oggi in procinto di essere messo all’asta dalla Sogemi s.p.a. per risanare il suo bilancio. Situazioni che però non sono appannaggio solo di occupazioni e possono riguardare anche beni di proprietà privata, come mostrano le strategie adottate dal “comitato fiorivano le viole” di Perugia3. Questi esempi mostrano come gli spazi abbandonati siano innanzitutto generatori di visioni, che però collidono fragorosamente con la monotonia delle forme giuridiche con cui vengono tradotti. Così ad esempio in caso di spazi di proprietà pubblica – lì dove le forme sono a giusta ragione maggiormente tipizzate – quando dopo anni di mobilitazioni le autorità politiche sono costrette, o trovano elettoralmente conveniente, prendere atto del valore sociale prodotto, il risultato è la conquista di una concessione che però si può rivelare nel tempo contradditoria anche per le esperienze più significative, come mostra il caso emblematico dell’ “Angelo mai” a Roma4. Il comitato è riuscito a contrattare negli anni dei comodati d’uso, per la maggior parte gratuiti, coi proprietari di negozi e appartamenti sfitti in una strada centrale ma degradata della città. 4 Nato nel 2004 con l’occupazione di un ex convitto abbandonato nel centro di Roma ha subito duri attacchi e sgomberi culminati addirittura in un procedimento per associazione a delinquere, oggi pienamente archiviato. Malgrado l’affidamento, ottenuto con la giunta Veltroni nel 2009, di uno spazio 3

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Terza ragione: lo spazio condiziona il contenuto e quello giuridico non è un contenitore come gli altri, ma plasma e condiziona profondamente l’identità stessa delle comunità che animano questi luoghi. Nell’uso civico si afferma un principio istituente che è chiamato a mettersi così alla prova con se stesso: quello dell’apertura e della contaminazione. L’onere da adempiere è quindi, amministrativamente, quello di mettere nero su bianco, in dichiarazioni d’uso, le modalità, spesso complesse, di gestione concreta e non esclusiva degli spazi. Saranno queste a dover essere recepite dalle amministrazioni competenti, e dovranno garantire l’inclusività, l’apertura e la democraticità dei processi decisionali. Ma le dichiarazioni sono fondamentali soprattutto per assolvere ad un onere per così dire auto-riflessività politica. Chi conosce queste esperienze sa che non è affatto semplice mantenere fede all’idea che gli spazi siano sempre effettivamente aperti e curati, che possano effettivamente decidere chi lo usa e se ne prende cura, che sia in grado di accogliere le forme spontanee e continuamente generative di un’appartenenza non proprietaria né circoscritta ad utenti predefiniti da un contratto o da gerarchie di minoranze organizzate. Ed è qui che la strada della sperimentazione sull’uso creativo del diritto innesca in via terme di Caracalla, ristrutturato grazie alle attività del collettivo e senza alcun finanziamento pubblico, una parte dell’Angelo risulta ancora sotto sequestro. 108

una sfida decisiva: apre una riflessione matura sulle proprie pratiche che non possono né essere date per scontate né come apoditticamente democratiche ed orizzontali, né risolte in modelli standard anonimamente riproducibili in ogni luogo. Il passaggio dall’amministrazione condivisa all’amministrazione diretta di beni da parte della cittadinanza può rappresentare dunque una nuova strada per la democrazia partecipativa, per ampliare il perimetro di possibilità concreta di nuovi spazi di democrazia diretta. Un strategia di «contro-governance che passa attraverso la riqualificazione del concetto di “amministrazione” sottratto alla burocrazia (…) riprendendolo lì dove lo aveva lasciato Saint-Simon e Marx, la libera amministrazione delle cose sostituirà il potere dell’uomo sull’uomo»5. Ma come possono esperienze così eterogenee fare massa critica tra loro? Per sfidare l’aporia di generare una visione comune seppur non unitaria è necessario almeno costruire un lessico riconoscibile. Quello di ex luoghi e beni comuni emergenti risponde a questo scopo6. Per fare una città bisogna rifon5 P. Napoli, Il comune: un’appartenenza non proprietaria, relazione tenuta al seminario Dal Pubblico al comune, . 6 Sul punto e sul concetto di gestione diretta rinvio ad un ragionamento più articolato in G. Micciarelli, Introduzione all’uso civico e collettivo urbano. La gestione diretta dei beni comuni urbani, in «Munus», 1, 2017.

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dare i suoi spazi, ma questa è in fondo una scusa per rifondare una cultura politica incardinata sulla pratica e non sulla retorica e lo scontro tra piccole egemonie. Gli ex-luoghi possono accogliere diversi esperimenti capaci di innescare il ripensamento concreto non solo dello spazio urbano, ma anche di quello politico, sociale, artistico e culturale. Ma la potenzialità di trasformazione più grande non riguarda soltanto gli spazi fisici, ma il sistema di relazioni generato al loro interno. Le soggettività singolari e collettive che hanno innescato il processo di recupero hanno l’occasione di mettere in gioco le proprie identità con le diverse pratiche dell’agire che inevitabilmente si incontrano in nuovi spazi pubblici. È necessario partire da noi: accrescere le zone di conflitto senza trasferire questa attitudine anche nei confronti di spazi e aree affini. E questa è la sfida più difficile, ma necessaria per contrastare l’abitudine del mondo contemporaneo a costruire arcipelaghi identitari, cerchi di affinità a misura di social profiling commerce. È qui che bisogna spezzare l’humus del crescente senso comune che alimenta i nuovi muri e la diffusa ostilità verso qualunque altro; altrimenti in un mondo a misure di orecchie (mal) educate dall’eco dei soliloqui dei propri interessi anche parole d’ordine opposte potrebbero essere distorte fino al punto di essere accomunate: potrebbe capitare anche al decide la città – proposto a Napoli nell’ambito di una sperimentazione di democrazia partecipativa radicale – e il padroni a 110

casa propria – leitmotiv degli xenofobi di ogni colore. Il mediterraneo preconizza che il futuro della democrazia politica si giocherà sulla pelle dell’altro, e questo ci impone oggi più che mai di cominciare la sfida dell’eterogeneità a partire da noi.

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Beni comuni: dal giardino pubblico agli usi collettivi di Fabio Pascapè*

L’approccio ai beni comuni in una pubblica amministrazione locale è complesso e sconta, tra l’altro, il fatto che ad oggi non hanno un riconoscimento legislativo. Nell’approccio burocratico classico (di impronta sempre più difensiva) se una fattispecie non è prevista da un regolamento, da una norma, da un comma, difficilmente acquista voce, spazio, dimensione giuridica. Nella realtà napoletana, d’altro canto, negli ultimi anni si sono moltiplicate le realtà e le pratiche legate ai commons che di pari passo con il loro evolversi e svilupparsi hanno chiesto in maniera sempre più pressante risposte amministrative ed operative al governo locale. La visione dicotomica imperante, imperniata sul distinguo pubblico-privato e quindi ferma alla questione della titolarità

* Fabio Pascapè, dirigente del Comune di Napoli, Servizio Valorizzazione Sociale degli Spazi di Proprietà Comunale e Beni Comuni. Contatti: [email protected], [email protected] 113

del bene, ha mostrato tutti i suoi limiti. È apparso chiaro come la mera applicazione del modello concessorio avrebbe significato snaturare la valenza e la ricchezza del fenomeno sociale in atto. Occorreva uscire da questa visione riprogettando interamente l’approccio ed in un certo senso lasciandosi prendere e portare da quello che già era accaduto e continuava ad accadere. Ecco che è apparso sempre più chiaro come ci trovassimo di fronte alla riemersione in versione riveduta e corretta di una sorta di uso civico collettivo nel quale perdeva significato la soggettività (comitato, collettivo, movimento, etc.) della formazione sociale che pure aveva iniziato e consolidato l’esperienza stessa in favore dell’acquisizione di significato di una modalità d’uso collettivo che travalicava la soggettività per estendersi potenzialmente a tutti i cittadini et ultra. Nella esperienza delle otto strutture (ex Asilo Filangieri, ex OPG, Scugnizzo Liberato, Santa Fede Liberata, Villa Medusa, ex Schipa, Giardino Liberato di Materdei, ex Lido Pola) contemplate dai due ultimi atti deliberativi (deliberazioni di Giunta Comunale n.893/2015 e n.446/2016) l’elemento dominante intorno al quale ruotava l’esperienza in atto, infatti, era diventato la tipologia di uso che aveva completamente scardinato il ruolo del titolare proprietario e con esso la soggettività giuridica intesa in senso classico. Ma è lecito a questo punto interrogarsi su cosa fosse realmente accaduto. Forse costruire un esempio vicino alla nostra esperienza comune e quoti114

diana può aiutarci a comprendere. Ci sorregge in tal senso l’esame della intima natura di un giardino comunale. Quale è il ruolo del Comune? Cambia le lampadine, attinta le panchine, aggiusta i vialetti, ripristina le ringhiere. Se c’è un cancello di ingresso fornisce il personale che lo apre e lo chiude in determinati orari, manutiene gli impianti di irrigazione, eccetera. In altri termini si prende cura di un enorme contenitore, di un ambiente. E il cittadino cosa fa? Va al giardino a prendere aria buona e sole. Incontra altri cittadini sostando sulle panchine o passeggiando lungo i viali. E quando due o più persone si incontrano inevitabilmente si confrontano, cominciano a farsi domande ed a cercare risposte. Nel frattempo gli incontri si trasformano in capannelli di tre, quattro, cinque persone e la panchina non basta più. Ci si va a sedere sui gradini della fontana, qualcuno porta sedie pieghevoli da casa, qualcun altro porta e lascia sedie che non gli servono più. Il capanno dei giardinieri è in parte abbandonato e viene usato per evitare che le intemperie rovinino le sedie portate da casa. Si affrontano le problematiche di funzionamento del giardino perché magari l’aiuola non è manutenuta bene, la fontana è sporca, i vialetti sono pieni di buche. I cittadini protestano e chiedono al Comune di intervenire. Il Comune fa quello che può, ma i tempi sono duri. Le finanze scarseggiano e le emergenze sociali sono tante. Ma il giardino dà aria e sole a tutti, è un posto piacevole nel quale incontrarsi. 115

I cittadini si rimboccano le maniche, portano attrezzi, mettono in comune le loro abilità per quello che piano piano è diventato un bene comune, un uso collettivo e condiviso. Cominciano dunque a prendersene cura e recuperano anche il capanno dei giardinieri. Si costituisce un fondo comune. In fondo lo usano tutti, porta beneficio a tutti. Il giardino diventa ancora più bello perché nel prendersene cura i cittadini lo modificano, lo arricchiscono, lo arredano. Nel giardino il gruppo di cittadini cresce ancora di numero e, contemporaneamente, cresce anche la capacità di farsi carico, di darsi un’organizzazione, un piccolo governo, un sistema di regole. In altri termini cresce la cittadinanza che per sua natura è virale e contagiosa. Inevitabilmente lo sguardo e la discussione salta la recinzione e si posa sulla strada che c’è intorno al giardino. Perché non si riparano le buche? E la sosta selvaggia? Facciamo un comitato! Dove ci riuniamo? Ma nel capanno, naturalmente… A questo punto della storia lasciate volare la fantasia, che poi tanto fantasia non è, e potete immaginarvi l’evoluzione di questo processo. È lecito chiedersi cosa stanno facendo i cittadini. Usano collettivamente quel bene. E il Comune cosa fa? Manutiene (e nemmeno tanto) un ambiente di sviluppo civico (parafrasando la terminologia informatica) all’interno del quale accadono cose che bisogna affrontare (e questo lo dico soprattutto rivolgendomi alla categoria dei burocrati come me) mettendo da parte la burocrazia difensiva e le fan116

tasie orrifiche. Nel caso nostro basta assicurarsi che venga applicato il titolo primo della Costituzione e cioè che tutti possano entrare in questo giardino con la piena e pari opportunità di partecipare alla sua vita. Se nel giardino questo gruppo di cittadini si è dato un meccanismo per prendere delle decisioni, tutti debbono poterne fare parte. Sono consapevole che quella del giardino è una esemplificazione che in quanto tale ha i suoi limiti. Ma aiuta a comprendere cosa è accaduto e, soprattutto, costruisce un esempio di rassicurante prossimità per la burocrazia locale alle prese con un grande e profondo cambiamento. Tra l’altro, la grande novità di queste delibere è data dal fatto che esse sono state partecipate, sia pure in modo non strutturato ma sperimentale, anche nella loro elaborazione. Questo aspetto del processo ha, a mio avviso, migliorato notevolmente il tasso di effettività dei provvedimenti e delle norme in essi contenute. Noi siamo sommersi da una congerie di norme che spesso anche solo definire vigenti è un azzardo, stante la serrata ritmica della produzione normativa, regolamentare e provvedimentale. Ma la vigenza di una norma è una qualità astratta e non è per nulla detto che venga anche sentita come effettiva dai consociati. Ecco il senso di questa sperimentazione. Una delibera partecipata è in qualche modo una delibera che ha buone possibilità di conseguire un alto tasso di effettività. Questo è ancora più importante se si considera che la platea 117

degli interlocutori che hanno nei fatti sperimentato e sviluppato sul campo gli usi collettivi ha storicamente molti dubbi sulla legittimazione delle istituzioni e sulla loro capacità di interpretare i bisogni e di garantire i diritti. La partecipazione alla deliberazione è dunque un segnale di estrema importanza, una vera e propria opportunità storica per colmare il divario tra cittadino e istituzione attraverso, tra l’altro, una concreta e diretta partecipazione dei cittadini alla formulazione della decisione medesima. A questo processo fa da sfondo una problematica rispetto alla quale non è più rimandabile l’avvio di un processo di analisi ed approfondimento. Noi ci troviamo in una fase nella quale il livello politico del governo cittadino ha raggiunto su questo tema una lucidità e una lungimiranza tali da definire mete sfidanti ed innovative che spesso sopravanzano l’apparato burocratico che fa fatica (molta fatica) ad elaborare soluzioni operative ed applicative e in generale a darsi strumenti adeguati ai bisogni emergenti. Questo è un tema molto delicato soprattutto perché si è sostanzialmente scelta la via dell’amministrazione e di conseguenza le frange di cittadinanza responsabile e consapevole hanno ricominciato a guardare alla burocrazia con interesse iniziando a considerarla non più come un interlocutore (in passato anche oppositore per la sua esasperante lentezza a leggere ed accompagnare il cambiamento) ma come uno strumento al servizio del cittadino 118

che esprime bisogni e rivendica diritti. In questo senso torna centrale il superamento della visione dualistica. La PA non è un soggetto con il quale dialogare ma diventa uno strumento di ascolto, lettura e predisposizione partecipata di soluzioni operative al servizio dei bisogni e dei diritti del cittadino. In questa direzione la parte più grossa e delicata del mio lavoro è forse stata ed è creare ed alimentare un’interfaccia tra il Comune e le realtà che animano il processo in atto e procedono molto velocemente. Mi sono presto reso conto che queste realtà hanno prodotto e sviluppano cittadinanza proattiva capace di assumersi responsabilità di self-government, di self-regulation, di self-management, di elaborazione di norme, etc.. Tutto questo emerge dalle due delibere citate presenti sul sito del Comune di Napoli, dal processo in esse riepilogato, dagli articolati pareri espressi dal Ragioniere Generale e dal Dirigente firmatario e dalle osservazioni del Segretario Generale. Il riportare il focus sull’uso collettivo urbano distogliendolo dal titolo proprietario (pubblico-privato) è stata un’operazione che ancora una volta ha dimostrato e dimostra giorno dopo giorno come nei fatti anche sotto il profilo economico-finanziario la allocazione di risorse nell’uso collettivo ha una alta efficienza, assai più di quella che nella migliore delle ipotesi riesce a conseguire il ragionare per titoli proprietari (siano essi pubblici o privati). La vicenda dei commons ci ha fatto scoprire un mondo civicamente ricco e redditivo che ha prodot119

to governo ed autogoverno, rapporto col territorio, recupero, norma che ha tutte le carte in regola per diventare modello.

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Democrazia, collettività e beni comuni di Carmine Piscopo*

Il Comune di Napoli, primo in Italia ad aver istituito un Assessorato ai Beni Comuni, è impegnato nell’individuazione di percorsi amministrativi tesi a dare forza e vigore a un dibattito etico, civile, giuridico, ambientale, incentrato sulle forme d’uso del patrimonio per il prevalente interesse collettivo. Un principio, questo, sancito innanzitutto dalla Costituzione. È qui, che la categoria dei beni comuni, intesi quali beni sottratti all’uso esclusivo di parte, al mancato uso sociale, e funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali delle collettività, diviene centrale. Non, dunque, una cornice ideologica, quanto, piuttosto, l’attuazione di un principio fondamentale inscritto nella Costituzione, che afferma la prevalente utilità

* Carmine Piscopo, docente di Progettazione presso l’Università Federico II di Napoli, assessore al Diritto alla città, ai Beni comuni e all’urbanistica del Comune di Napoli. Contatti: [email protected] 121

sociale del patrimonio, escludendone ogni forma di privatizzazione o, peggio, di uso clientelare, tesa a rafforzare il potenziale costituente di una soggettivazione collettiva. Se il Diritto alla Città, infatti, comprende l’accesso alle risorse che regolano la vita nelle città, ciò implica anche una nuova configurazione e un nuovo assetto delle relazioni sociali, politiche ed economiche che definiscono tali rapporti. In coerenza con questa impostazione, nel 2011, l’amministrazione de Magistris ha modificato il proprio Statuto Comunale, introducendo, tra le finalità, gli obiettivi e i valori fondamentali della Città di Napoli, la categoria giuridica del bene comune, inteso nella sua disponibilità d’uso quale bene accessibile, fruibile, condivisibile, disponibile alla rappresentazione e alla realizzazione di istanze, di proiezioni, di desideri riconoscibili delle collettività insediate e in cammino. Bene comune, dunque, quale bene funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali delle persone. Ancora, nel 2012, il Comune ha approvato il Regolamento delle Consulte per la Disciplina dei beni comuni, quali beni di appartenenza collettiva, fissando nei punti della delibera del 18 gennaio 2013 i Principi per il governo e la gestione dei beni comuni della Città di Napoli secondo la quale «ogni cittadino deve concorrere al progresso naturale e spirituale della Città». Va ancora sottolineata l’azione del Comune riguardo all’acqua pubblica, mediante la trasforma122

zione della precedente società per azioni in Azienda Speciale a totale controllo pubblico. L’Amministrazione ha poi istituito, nel 2013, l’Osservatorio dei Beni Comuni, il cui lavoro ha portato a varare due nuove delibere aventi in oggetto le procedure per l’individuazione e la gestione collettiva dei beni pubblici e dei beni privati, quali beni che possano rientrare nel pieno processo di realizzazione degli usi civici e del benessere collettivo. Un percorso, questo, le cui radici affondano nel recepimento e nell’approvazione da parte del Comune di Napoli della Convenzione di Aarhus, divenuta in seguito parte essenziale del Regolamento del Consiglio Comunale. Dove, ancora, si sancisce la condanna della pianificazione autoreferenziale, come di ogni forma astratta di previsione urbanistica che non fondi sulla partecipazione diretta e sul diritto democratico dell’uso delle risorse e dello spazio pubblico, luogo di espressione dei bisogni autentici delle collettività, di produzione di stili di vita e di nuove economie. Non, dunque, una centralità fondata sulla nozione di reddito finanziario, nozione che ha contraddistinto storicamente l’assegnazione dei beni del patrimonio pubblico, quanto, piuttosto, l’idea secondo cui il redditto sociale, con i suoi Usi Civici (Uti Cives), è parte integrante del reddito economico, in quanto parte essenziale del benessere sociale e delle proiezioni delle collettività insediate. Il 17 giugno 2013, il Comune di Napoli ha fatto propria la Carta dello Spazio Pubblico, approvata 123

al termine dei lavori della II Biennale dello Spazio Pubblico, tenutasi a Roma dal 16 al 18 maggio 2013, quale contributo fattivo e concreto al processo di valorizzazione democratica e di studio dei modi d’uso dello spazio pubblico urbano. Un atto fondamentale per la giunta de Magistris, nel quale si riconoscono il diritto democratico all’uso e il potenziale trasformativo dello spazio pubblico, per la città di Napoli. Nel 2014, il Comune di Napoli ha adottato due delibere aventi in oggetto il recupero alle collettività dei beni abbandonati, di proprietà pubblica e di proprietà privata, secondo un percorso articolato di partecipazione collettiva nell’individuazione dei progetti e delle modalità d’uso. Due delibere, che hanno attivato un dibattito in Italia e che pongono al centro dell’azione amministrativa il prevalente interesse pubblico. È qui che l’Amministrazione riconosce il valore di esperienze già esistenti nel territorio comunale, portate avanti da gruppi e/o comitati di cittadini secondo logiche di autogoverno e di sperimentazione della gestione diretta di spazi pubblici, dimostrando, in tal maniera, di percepire quei beni come luoghi suscettibili di fruizione collettiva e a vantaggio della comunità locale, esperienze che nella loro espressione fattuale si sono configurate e si configurano come case del popolo, ossia luoghi di forte socialità, elaborazione del pensiero, di solidarietà intergenerazionale e di profondo radicamento sul territorio. Per tali esperienze, dirette al soddisfacimento di interessi generali e senza finalità 124

lucrative, laddove giustificato dall’alto valore sociale creato, l’Amministrazione comunale definisce la possibilità di procedere alla compensazione degli oneri di gestione, prevedendo regolamenti di uso civico o altra forma di autorganizzazione civica da riconoscere in apposite convenzioni. In data 7 ottobre 2014, inoltre, il Comune di Napoli, ha approvato una delibera inerente la possibilità di adottare (Adotta una strada) parti della città, a partire da un processo partecipato di cittadini riuniti in comitati civici. Si definisce, così, un ulteriore passo in avanti sul sui modi della partecipazione per l’attuazione delle politiche sociali, instaurando un ulteriore punto di incontro con la Carta dello Spazio Pubblico1. Ma è attraverso l’iL’ultimo atto in ordine di tempo è l’approvazione della delibera n. 458 del 10 agosto 2017 per l’uso temporaneo di attrezzature pubbliche dismesse, senza modifica della destinazione urbanistica, finalizzato alla valorizzazione del patrimonio pubblico non utilizzato o in stato di abbandono. Significativamente essa si intitola: 1. Individuazione e approvazione delle linee di azione per la valorizzazione dei beni di proprietà comunale a fini sociali. 2. Approvazione degli indirizzi per l’utilizzo temporaneo di spazi aperti e di immobili di proprietà comunale. 3. Individuazione dei soggetti organizzativi, delle competenze e delle procedure per la costruzione, la definizione e l’attuazione di progetti pilota. Essa fissa indirizzi e azioni relativi alla creazione di Comunità civiche urbane, alla sperimentazione di usi temporanei, alla fruizione di chiese del Centro storico non più adibite al culto, alla creazione di Comunità agricole temporanee per i giovani e orti didattici sociali e di quartiere, 1

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stituzione delle Assemblee territoriali, in costante dialogo con gli abitanti, che si definiscono i metodi della partecipazione democratica e i loro pesi nella formalizzazione delle delibere di proposta al Consiglio. È qui, che il pubblico si connota di una duplice funzione: come luogo elettivo delle scelte, in cui dare risposta alle proiezione dei desideri e delle istanze delle collettività di riferimento, e come luogo di riappropriazione, di adozione e di cura. Con questo stesso spirito, attraverso la costituzione di tavoli e di assemblee territoriali confluite in gruppi di lavoro, l’Amministrazione ha redatto e approvato, nel 2014 e nel 2015, lo Studio di fattibilità relativo al progetto di riqualificazione dell’area delle Vele (Lotto M) e i nuovi indirizzi urbanistici, poi approvati in Consiglio Comunale, del Sito di Interesse Nazionale Bagnoli-Coroglio. Analogo percorso è stato condotto per la definizione del masterplan dell’area ex Nato di Bagnoli. Le assemblee territoriali che hanno preso vita a Bagnoli, a partire dal 2015, hanno dimostrato con chiarezza quanto la città fosse contraria a quella espropriazione che il Governo, attraverso l’art. 33 dello Sblocca Italia, aveva messo in piedi. L’esito del voto della tornata elettorale di giugno 2016 nella Municipalità di Bagnoli ha definitivamente acclarato quanto le collettività, insieme con l’Istituzione alla realizzazione di nuove forme dell’abitare collettivo, per l’accoglienza a rotazione di persone e famiglie. [ndc] 126

Comune, Ente di prossimità, non fossero più disposte a rinunciare alle prerogative costituzionalmente sancite. In linea con questo spirito, vanno qui ancora ricordate le due delibere, del 2015 e del 2016, maturate in un lungo arco di tempo, relative all’approvazione della Dichiarazione di uso civico e collettivo urbano dell’Asilo Filangieri, e all’individuazione di sette spazi di rilevanza civica ascrivibili nel novero dei beni comuni. Delibere, queste, che hanno varcato i confini dell’Italia per la loro capacità di restituire alla soggettività collettiva un potenziale costituente, quale soggetto anonimo che vive nel respiro della città e la informa. Non, dunque, un sistema di assegnazioni a collettivi, come si è voluto scrivere sulle pagine di alcuni quotidiani locali, quanto la restituzione alla collettività di un bene che le appartiene, nel pieno riconoscimento di quanto la collettività esprime. È lungo questi assi – che tengono insieme pianificazione non autoreferenziale, superamento del concetto di proprietà per nuovi usi civici, prevalente interesse pubblico, necessità di legare confini e distanze sociali con nuove figure sollecitate alle realtà istituzionali e amministrative – che si dispone il territorio dei beni comuni. Non come un assioma che lega esclusivamente il territorio al suo progetto, quanto, piuttosto, come una sfida che ci sollecita al superamento di nozioni e figure date. Vanno ancora ricordate, a tal proposito, le delibere 127

della Giunta de Magistris per l’istituzione di luoghi collettivi democratici, a partire dal riconoscimento di realtà esistenti sul territorio. A partire, infatti, dalla Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze 2000), l’identità di un luogo non è data da valori astratti, quanto, piuttosto, dal riconoscimento dei valori che le collettività di riferimento danno di quei medesimi luoghi. Un principio, questo, che potrà trovare maggiore forza, il giorno in cui tutte le Istituzioni coinvolte definiranno un percorso in grado di dare concreta attuazione alla relazione che lega il paesaggio, quale sfera giuridica in senso proprio, ai diritti civili e sociali delle persone. Al diritto di cittadinanza, in quanto Diritto alla Città. Se numerosi appaiono ancora i nodi da sciogliere, il dibattito che si va oramai diramando e stratificando a partire dalla città di Napoli indica con chiarezza principi giuridici, etici, civili, amministrativi, politici che individuano nel bene comune il superamento della nozione di proprietà. Al centro, sono l’uso democratico dei nostri beni e la salvaguardia stessa del nostro ambiente. E, con essi, il nostro futuro e il respiro delle generazioni che verranno.

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La Pratica dell’Uso civico come scelta Estetica Etica e Politica per il Sensibile Comune di Gabriella Riccio*

«Una cattiva politica nasce da una cattiva cultura» ci ricorda a questo tavolo il Professor Rodotà. Una cattiva cultura è quella che perde autonomia, messa a servizio di interessi di mercato e particolari. Centrale è il tema delle politiche culturali e di come gli usi civici e collettivi possano essere spinta positiva in uno scenario che manifesta segni di grande sofferenza. Ci sarebbe da chiedersi cosa determina questo stato di sofferenza. Si tratta davvero di mancanza di spazi, di risorse, di accesso? Da un lato il mondo delle istituzioni culturali manda forti segnali che riconoscono il valore innovativo artistico e culturale di queste esperienze: il Princess Margriet Award dell’ECF al Teatro Valle; il premio Ubu al Valle «per l’esempio di una possibilità nuova di vivere il teatro come bene

* Gabriella Riccio, artista, attivista, ricercatrice indipendente. Contatti: [email protected] 129

comune» e all’Angelo Mai «laboratorio di sperimentazione artistica e attivismo politico, mosso dall’intento di portare la cultura – nella sua accezione più ampia – tra i beni primari»; le Buone Pratiche del Teatro a Milano invitano l’Asilo tra le esperienze culturali di riferimento sul territorio nazionale. Cosa dicono questi riconoscimenti? Ci dicono che l’arte e la cultura che nascono in questi spazi sono vitali e di qualità. Allora come mai la politica, tanto lenta quando si tratta di essere propositivi, è pronta ad attivarsi quando si tratta di inibire queste esperienze? Forse tutto ciò ha ben poco a che vedere con questioni legali, forse qui si tratta di uno spostamento di asse che la politica percepisce come un’invasione di campo, quel campo che la politica e l’arte condividono come articola Rancière: «Gli enunciati politici o letterari hanno effetti sul reale: definiscono non solo dei modelli di parola e di azione, ma anche dei regimi di intensità sensibile. […] Riconfigurano la cartina del sensibile facendo venire meno la divisione funzionale dei gesti e dei ritmi propri del ciclo naturale della produzione, della riproduzione e della sottomissione. L’uomo è un animale politico, perché è un animale letterario che si lascia sviare dalla sua destinazione “naturale” dal potere delle parole»1. 1 J. Rancière, La partizione del sensibile. Estetica e politica, DeriveApprodi, Roma 2016, p. 57.

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La proposta qui è quella di considerare la pratica dell’uso civico come possibile scelta estetica etica e politica per quello che Rancière definisce il sensibile comune. Non solo come forma di autogoverno dei beni comuni ­– utile per la rivitalizzazione da parte dei cittadini di spazi abbandonati, inutilizzati o sotto utilizzati – ma anche come forma di autogoverno in ambito artistico e culturale. Ricordo che le mobilizzazioni nel settore culturale in Italia sono ben consapevoli della non neutralità degli spazi che occupano, si tratta infatti di teatri o spazi di valore simbolico per la cultura. Alla luce della pratica dell’uso civico vorrei rileggere Rancière: «Chiamo partizione del sensibile quel sistema di evidenze sensibili che rendono contemporaneamente visibile l’esistenza di qualcosa di comune e le divisioni che, su tale comune, definiscono dei posti e delle rispettive parti. Una partizione del sensibile fissa dunque allo stesso tempo un comune condiviso e delle parti esclusive. Questa partizione delle parti e dei posti si fonda su una ripartizione degli spazi, dei tempi e delle forme di attività che determina il modo stesso in cui un comune si presta alla partecipazione e il modo in cui gli uni o gli altri avranno parte a questa partizione […] Il che definisce il fatto di essere o non essere visibile all’interno di uno spazio comune, di essere o non essere dotato di un linguaggio comune, ecc. […] La politica ha per oggetto ciò che può essere visto e ciò che può essere detto, chi abbia la competenza per vedere e la qualità 131

per dire; la politica ha per oggetto la proprietà degli spazi e i possibili del tempo»2. «Il performativo annuncia, l’operativo realizza»3: il momento performativo dell’occupazione è quello in cui le esperienze nate dalle lotte annunciano con un gesto di rottura un nuovo mondo possibile. Questo possibile ha a che fare con il concetto di utopia. Rancière ci dice che «la parola utopia è portatrice di due significati contraddittori, è […] il punto estremo di una riconfigurazione polemica del sensibile che infrange le categorie dell’evidenza; ma è anche la configurazione di un luogo buono, di una visione non polemica dell’universo sensibile nel quale ciò che si vede e ciò che si dice si armonizzano perfettamente»4. Nel momento in cui queste esperienze assumono la sfida operativa e la responsabilità di mettere in atto nel quotidiano quanto annunciato dalla visione – creando, producendo e accogliendo tutte le contraddizioni che il fare reale e la reale apertura comportano (soprattutto quando si tratta di fare concretamente e diversamente circondati dalla logica dominante del neoliberismo più sfrenato) – non si collocano più come utopie ma come eterotopie, non più non-luoghi, ma luoghi altri, Ivi, pp. 13-15. La citazione è tratta dall’intervento di Brett Nielson alla Conferenza di Roma sul comunismo 2017, promossa dalla rete C17. 4 J. Rancière, op. cit., p. 60. 2 3

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spazi-dispositivo in grado di trasformare in modo rizomatico l’esistente. Se le utopie designano ambienti privi di localizzazione effettiva, le eterotopie sono luoghi reali: «spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano»5. In questo senso Zanardi scrive: «L’eterotopia mette in discussione con il suo semplice apparire la partizione tra ciò che può e ciò che non può aver luogo. Una tale contestazione è tanto più radicale, quanto più la fondazione dell’eterotopia si mantiene a distanza dalle istituzioni, il che non significa essere sempre e pregiudizialmente contro. Una tale distanza, che non esclude affatto il conflitto, consente una libertà di iniziativa, di affermazione, che è negata a chi si attarda nella protesta, implicito riconoscimento dei poteri oggetto di protesta»6. La politica può sostenere questo potenziale di trasformazione soprattutto quando i fondi sono scarsi, ma soprattutto perché i tempi della politica e dell’amministrazione per loro natura non possono stare al passo con la vitalità del settore culturale.

M. Foucault, Utopie Eterotopie, Cronopio 2006, p. 12. M. Zanardi, Sottrazioni, eterotopie, laboratori, in Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana, Monitor, Napoli 2016, p. 452. 5 6

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L’arte e la cultura per loro natura hanno bisogno autonomia, ma l’autonomia non si dirige, si libera. È un invito agli amministratori a intervenire meno, permettere agli artisti di autodeterminarsi per avere un ambiente artistico e culturale autentico, sano, vitale che non venga ridotto a merce di scambio clientelare. Il riconoscimento da parte delle amministrazioni della pratica dell’uso civico in ambito artistico e culturale non può che mirare a sostenere e garantire ambienti di sviluppo7 perché l’arte e la cultura si manifestino come pratica di libertà. Ecco allora che gli usi civici emergono nel loro carattere etico. Questi spazi difendendo la dimensione improduttiva della creazione artistica e della ricerca, danno prova che auto-organizzandosi si può fare un uso più efficiente delle risorse mettendo in comune spazi, mezzi di produzione e competenze per accogliere e sviluppare con ritmi altri tutte quelle spinte creative reali del territorio. Immagino la possibilità di avere teatri ad uso civico in ogni città Da un punto di vista estetico la pratica dell’uso civico impone certo un ripensamento: accessibilità e inclusività creano spontaneamente percorsi per assonanza di linguaggi che potremmo definire curatoriali dal basso mettendo in crisi il ruolo delle inamovibili ed eterne direzioni artistiche 7 In questa direzione è orientata la delibera del Comune di Napoli 893/2015.

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come generalmente praticato in Italia; l’imprevisto e l’imprevedibile diventano pratica quotidiana di accoglienza e confronto e generano sconfinamenti tra campi del sapere, pratiche artistiche, linguaggi, tecniche; questi luoghi sfidano un certo conformismo culturale imposto in vario modo nei campi dell’arte e della formazione sulla questione della professionalità e del merito, si supera così il confine tra professionale e amatoriale, tra produzione del sapere accademico e formazione autodidatta; si rompe la logica del marketing così che grandi nomi e realtà meno conosciute coesistono e coabitano gli spazi con pari opportunità di accesso. La pratica dell’uso civico richiede disposizione alla flessibilità degli attraversamenti in un clima di solidarietà e collaborazione. Praticare l’apertura non è facile. Il difficile è restare aperti alle contraddizioni, alle quali non si risponde con la chiusura ma con disponibilità e assunzione di responsabilità nei confronti del processo senza sottrarsi mai al confronto. Da questo nasce – sia per assonanza che per dissonanza – dialogo, condivisione, trasmissione delle pratiche, messa in discussione delle scelte, in un continuo ed inesorabile aggiustamento che è manifestazione stessa dello stato di salute del processo. Si innesca così un circolo virtuoso che si allarga a spirale e rompe gli schemi abitudinari, producendo nel tempo trasformazioni reali. Elementi fondamentali: una sana pratica del consenso come metodo decisionale per lo sviluppo del pensiero critico, 135

lentezza e massima cura delle relazioni. Nel caso dell’uso civico il processo è il modello. Il pericolo maggiore, se pensiamo alle possibilità di trasmissione di queste esperienze, è quello di pensare di potere esportare un modello invece di trasmettere la pratica. Non dimentichiamo che ci sono voluti anni e molti tavoli di confronto per arrivare alla stesura del Regolamento di uso civico, un tempo necessario perché si crescesse insieme nella pratica. In questo senso concludo citando Zanardi: «il bene non è una “cosa” ma una prassi. Non qualcosa di già esistente, di cui si tratterebbe di riappropriarsi, ma innanzitutto un agire collettivo da inventare. Un agire che non preesiste alla sua comparsa […] Il bene-cosa viene “sbranato” per essere diviso tra i gruppi, gli interessi particolari, i poteri esistenti. Il bene come prassi è, all’opposto, inappropriabile e indivisibile, perché, fin quando la prassi è all’opera, essa coincide con l’autonomia e l’insieme dei gesti di chi la esercita. Per essere chiari, se c’è un bene, questo non è l’edificio “asilo filangieri”, di cui si può fare un pessimo uso, ma la pratica che lo inventa come luogo di buoni incontri»8.

M. Zanardi, Lo spazio dei buoni incontri, in . 8

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Appunti sul Comune come modo di produzione ai tempi del capitalismo cognitivo di Pierluigi Vattimo*

Sebbene la contrapposizione tra pubblico e privato continui a monopolizzare i discorsi relativi alla gestione delle risorse nelle società contemporanee, da qualche tempo a questa parte si registra un crescente interesse nei confronti delle tematiche dei beni comuni e del Comune. Nella letteratura accademica il tema dei commons è riemerso in relazione a due questioni fondamentali1: i) la crisi ecologica, che rimette al centro della scena la tematica dei commons tradizionali – fondiari o naturali; ii) la progressiva transizione da un capitalismo di tipo industriale ad uno di tipo cognitivo. * Pierluigi Vattimo, dottorando in Studi Internazionali presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, in cotutela con l’Université Paris 1 – Panthéon-Sorbonne. Contatti: [email protected]. 1 Cfr. C. Vercellone et al., Il comune come modo di produzione, Ombre Corte, Verona 2017. 137

Rimane tuttavia irrisolto un fondamentale problema di carattere epistemologico, relativo a cosa debba o meno considerarsi come Comune: se tale termine, cioè, debba essere utilizzato in riferimento alla natura intrinseca di certe categorie di beni; o se per Comune debba intendersi uno specifico modo di organizzare e gestire la produzione sociale. Parafrasando Braudel possiamo affermare quanto segue: il tema dei commons è antico, precede, attraversa e pare destinato a superare il paradigma dello sviluppo capitalistico e della modernità2. Gli antichi romani, ad esempio, includevano la nozione di res communes omnium nella sfera del diritto, riconducendo ad essa tutte quelle cose quali il mare, l’aria o i luoghi sacri, su cui nessuno poteva vantare un interesse esclusivo, in quanto di tutti. Le res communes, inoltre, venivano distinte dalle res nullius, che erano invece quelle cose di nessuno su cui chiunque poteva rivendicare certi diritti di proprietà. Dall’analisi del contesto feudale europeo emerge la coesistenza tra istituzioni del pubblico, del privato ed altre forme di proprietà incentrate sui commons, come mostrano alcuni importanti storici dell’economia3. Non a caso, in qualche misura, sarà proF. Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme: XVe-XVIIIe siécle, A. Colin, Paris 1979. 3 Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino ([1944] 1974); I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, 3 voll., il Mulino, Bologna 1978, 1982, 1995. 2

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prio in reazione a tali esperienze di auto-gestione del Comune che prenderà avvio il movimento delle enclosures, con la conseguente espulsione coatta dei contadini dalle terre. Le recinzioni rappresentano un passaggio fondamentale all’interno di quel processo di mercificazione della terra che porterà, infine, all’instaurazione della moderna società di mercato. Ed è sempre in questa fase che prende avvio quel processo irreversibile di costituzione degli stati moderni, in ragione del quale la nozione di Comune sarà progressivamente estromessa dal linguaggio dominante per fare spazio a quelle di pubblico e di privato. Tali fenomeni giungeranno a maturazione con la prima rivoluzione industriale. Il paradigma fordista/keynesiano che si andrà affermando in seguito vedrà ridursi ulteriormente lo spazio del Comune. Di fatti, nel corso dei cosiddetti trenta gloriosi anni4, caratterizzati dall’organizzazione burocratica delle solidarietà, l’idea del Comune, in quanto possibile spazio di azione sociale e politica, scompare quasi del tutto5. Una improvvisa riscoperta delle tematiche inerenti al Comune si registrata in tempi più recenti, soprattutto in reazione alle questioni che osservavamo precedentemente: la crisi ecologica e la graduale Cfr. J. Fourastié, Les Trente Glorieuses, Pluriel, Paris 1979. Cfr. G. Hardin, The Tragedy of the Commons, in Science, Vol. 162, n. 3859, 1968, pp. 1243-1248. 4

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transizione del capitalismo industriale verso un capitalismo di tipo cognitivo6. Tale scenario richiede necessariamente l’elaborazione di nuovi paradigmi interpretativi in grado di superare il binomio stato-mercato. A partire dalla presa di coscienza della finitudine7 del pianeta e delle risorse naturali, il tema della crisi ecologica ha rimesso al centro della scena, sebbene da una prospettiva inedita, la tematica dei cosiddetti commons tradizionali – fondiari o naturali. In tale ottica, un’attenzione particolare viene posta al problema della preservazione delle risorse rare e non rinnovabili. In proposito, vanno segnalate alcune importanti iniziative politiche e istituzionali emerse negli ultimi anni, tra cui il riconoscimento del carattere inappropriabile del comune naturale inserito nel progetto di riforma costituzionale dell’Islanda del 2012 e nella nuova costituzione ecuadoriana del 2008. Anche in Italia hanno avuto luogo interessanti iniziative che hanno cercato di spingere in direzione del riconoscimento giuridico dei beni comuni. Si segnala, in particolare, la Commissione Rodotà del 2007, che ha, peraltro, stabilito degli importanti 6 Basti pensare al valore che si sviluppa oggi dalle reti della comunicazione e all’importanza propria del linguaggio all’interno di queste. 7 Cfr. M. Serres, Tempo di crisi, Bollati Boringhieri, Torino 2010.

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punti di connessione tra i commons e i diritti fondamentali della persona8. Il secondo fenomeno cui si è fatto cenno, connesso con lo sviluppo di un’economia della conoscenza, invita a riflettere sui temi dell’intelligenza diffusa – o del marxiano general intellect – e della rivoluzione informazionale delle reti di computer9. I recenti sviluppi del capitalismo pongono in essere il tema dei nuovi commons legati alla conoscenza e alle altre risorse immateriali che sfuggono al vincolo della scarsità. Va però osservato che la distinzione tra commons naturali e commons legati alla conoscenza può, per certi versi, considerarsi arbitraria. I commons naturali, infatti, sono allo stesso tempo commons della conoscenza, dal momento che le modalità della loro gestione e del loro godimento incorporano una serie di saperi complessi, spesso trasmessi da generazione in generazione. I commons della conoscenza, d’altra parte, sono intrinsecamente legati alla produzione di beni sia materiali che immateriali, oltre ad essere l’elemento chiave su cui si fonda l’erogazione di una serie di servizi essenziali quali la salute e l’istruzione. Emerge quindi una questione che merita di essere approfondita relativa a cosa debba o meno considerarsi come Comune. Se tale termine, cioè, 8 Cfr. G. Viale, Virtù che cambiano il mondo. Partecipazione e conflitto per i beni comuni, Feltrinelli, Milano 2013. 9 Cfr. A. Gorz, L’immateriale: conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

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debba essere attribuito in riferimento alla natura intrinseca di certe categorie di beni; o se, il Comune – come nell’ipotesi che intendiamo approfondire – debba considerarsi come una costruzione sociale10. I meccanismi produttivi dei beni e dei servizi attualmente dominanti integrano informazioni, codici, saperi e persino affetti, dunque i produttori hanno bisogno di garanzie, di agire liberamente sul e nel Comune. I contenuti della nuova forma di produzione – idee, immagini, affetti – basti pensare alla rete, sono evidentemente sempre, con facilità, riproducibili; stentano a rimanere chiusi nella gabbia della proprietà privata, è come se nell’atto della loro produzione, proprio perché venuti direttamente a contatto con il Comune, avessero incorporato la tendenza a divenire e persistere in quanto beni comuni, mostrando una energica resistenza ai molti tentativi di privatizzazione e sottomissione al controllo pubblico. L’assunzione del Comune, dunque, in quanto modo di produzione ci pone nella condizione di poterne finalmente parlare declinandolo al singolare e quindi in termini sostantivi. Stiamo uscendo da una lunga storia che ha probabilmente coinciso con 10 Michael Hardt e Antonio Negri scrivono: «Per comune si deve intendere […] tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come la conoscenza, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via». (Cfr. M. Hardt-A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Bologna 2010, pp. 7-8).

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l’epoca moderna, storia che ci consegna la tematica del Comune come realtà, o meglio come produzione. La considerazione del Comune come fondamento di una formazione sociale alternativa all’economia esistente, pone il problema dello statuto e del modo di regolazione della moneta. Per vari motivi la moneta viene considerata come il Comune dei Comuni: infatti, è la governance monetaria (modalità di creazione e accesso alla moneta, i fondamenti del suo valore, etc.) che condiziona il tipo di legame sociale che vi è fra gli individui, così come i meccanismi che regolano l’allocazione delle risorse. Sono queste questioni che ci permettono di rispondere alle domande fondamentali proprie dell’economia politica, ovverosia: chi decide cosa e come produrre? Per quali finalità sociali? Le ipotesi fin qui avanzate, ci proiettano direttamente nel campo di nuove tecnologie come la blockchain11. Sono diversi gli studi che dimostrano l’interesse scientifico rilevante rappresentato da questo tema, capaci di connettere concretamente differenti terreni di ricerca (sia tecnologici che sociali al punto tale per cui si fa sempre più strada, la categoria di tecnopolica)12. La blockchain va definita come una base di dati distribuita che mantiene in modo continuo una lista crescente di record, i quali fanno riferimento a record precedenti presenti nella lista stessa ed è resistente a manomissioni. 12 T. Terranova, Moneta di silicio, moneta del comune, in A. Fumagalli e E. Braga (a cura di), La Moneta del comune. La 11

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Il convincimento da cui muoviamo è che lo sviluppo di sistemi di governance del Comune possano favorire processi virtuosi di creazione e di distribuzione della ricchezza in grado di rispondere meglio alle concrete esigenze espresse dai singoli territori.

sfida dell’istituzione finanziaria del comune, DeriveApprodi, Roma 2015. 144