La democrazia attraverso i diritti [2 ed.] 8858105206, 9788858105207

Il costituzionalismo rigido ha cambiato profondamente la natura del diritto e della democrazia, imponendo alla politica

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La democrazia attraverso i diritti [2 ed.]
 8858105206, 9788858105207

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Sagittari Laterza 192

Luigi Ferrajoli

La democrazia attraverso i diritti Il costituzionalismo garantista come modello teorico e come progetto politico

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli © 2013, Luigi Ferrajoli, per la lingua spagnola Prima edizione ottobre 2013

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Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0520-7

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

Il costituzionalismo è l’orientamento oggi prevalente nella teoria e nella filosofia del diritto. Esso si è affermato sulla base di quella profonda innovazione nella struttura degli ordinamenti giuridici dell’Europa continentale che è stata l’introduzione, all’indomani della seconda guerra mondiale, di costituzioni rigide, sopraordinate alla legislazione ordinaria e assistite dal controllo giurisdizionale di costituzionalità. Ne è seguito un mutamento delle condizioni di validità delle leggi, legate non più solo alle forme e alle procedure della loro produzione, ma anche ai loro contenuti, cioè alla coerenza dei loro significati con i principi stabiliti dalle norme costituzionali, primi tra tutti il principio di uguaglianza e i diritti fondamentali. Questo mutamento ha retroagito sulla natura delle nostre democrazie, rendendo a mio parere inadeguate le tradizionali concezioni puramente formali o procedurali della democrazia quali insiemi di regole del gioco, indipendenti dai e indifferenti ai contenuti del gioco democratico. Esso ha infatti innestato nella democrazia una dimensione sostanziale, corrispondente alla dimensione sostanziale della validità delle leggi e disegnata dai limiti e dai vincoli giuridici, di sostanza o contenuto, imposti ai poteri politici di maggioranza. Ha imposto, in breve, quella che possiamo chiamare la sfera del non decidibile: ciò che nessuna maggioranza può validamente decidere, cioè la violazione o la restrizione dei diritti di libertà, e ciò che nessuna maggioranza può legittimamente non decidere, cioè la soddisfazione dei diritti sociali costituzionalmente stabiliti. Di questa innovazione nella struttura del diritto e della democrazia sono state fornite due interpretazioni diverse, corrispondenti, grosso modo, a due diverse concezioni del costituzionali-

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Introduzione

smo e perciò della democrazia costituzionale: da un lato quella ancorata al vecchio paradigma giuspositivista, secondo la quale le costituzioni rigide hanno solo innestato un ulteriore livello normativo, quello costituzionale, nella struttura a gradi dello stato legislativo di diritto, senza alterarne l’interna sintassi né conseguentemente la dimensione semantica e la dimensione pragmatica; dall’altro quella opposta e oggi prevalente, post-positivista e tendenzialmente neo-giusnaturalista, secondo la quale i principi etico-politici di giustizia introdotti nelle costituzioni – oggetto di ponderazione anziché, come le regole, di applicazione mediante sussunzione – avrebbero ristabilito la connessione premoderna tra diritto e morale e posto fine alla separazione tra le due sfere che si era prodotta con l’affermazione, nel diritto moderno, del paradigma positivista. Nella prima parte di questo libro, dedicata al costituzionalismo come modello teorico, vengono discusse e sottoposte a critica queste due concezioni, alle quali viene contrapposta una terza, non intermedia ma diversa da entrambe: è la concezione del costituzionalismo e della democrazia che ho chiamato “garantista” e che si fonda sulle tesi che ho sviluppato in Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia. In base a essa, diversamente dalla prima concezione, il costituzionalismo è un modello normativo di ordinamento prodotto da un mutamento di paradigma sia del diritto che della democrazia, grazie al quale la validità delle leggi e la legittimità della politica sono condizionate al rispetto e all’attuazione delle garanzie dei diritti stipulati nelle costituzioni. Diversamente dalla seconda concezione, inoltre, la stipulazione di principi e diritti fondamentali in costituzioni rigidamente sopraordinate a tutte le altre fonti equivale all’imposizione, all’intera produzione normativa, di limiti e vincoli applicabili alle loro violazioni esattamente come le regole. Il costituzionalismo garantista viene così a configurarsi, sul piano teorico, come un completamento sia del positivismo giuridico, dato che consiste nella positivizzazione delle scelte medesime cui il legislatore deve uniformarsi, sia dello stato di diritto e della democrazia, dato che comporta la sottoposizione di ogni potere, incluso quello politico e legislativo, a norme formali e sostanziali dirette in via primaria a limitarne e a vincolarne l’esercizio e in via secondaria a censurarne o a rimuoverne le violazioni a garanzia dei diritti di tutti. Ne

Introduzione

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risulta una virtuale e in qualche misura fisiologica illegittimità del diritto positivo vigente rispetto al dettato costituzionale, che la scienza giuridica ha il compito di accertare e la politica e la giurisdizione hanno il compito di riparare o di correggere. Questa illegittimità è in una certa misura fisiologica, dato che le norme costituzionali che impongono alla progettazione legislativa l’introduzione e il rispetto delle garanzie dei diritti da esse stabiliti ben possono essere violate, per commissione o per omissione. Ma essa, come mostrerò nella parte seconda dedicata al costituzionalismo come progetto politico, sta oggi diventando patologica. È in atto una crisi profonda del paradigma costituzionale, che investe sia le forme rappresentative della democrazia che la sua sostanza costituzionale e sta compromettendo il ruolo di governo della politica e le funzioni regolative e garantiste del diritto. Questa crisi si manifesta nello sviluppo, a livello statale ed extra- o sovra-statale, di poteri economici e finanziari privi di limiti e controlli, nella subordinazione ad essi delle funzioni politiche di governo e nell’aggressione – ad opera di una politica tanto impotente nei confronti del capitale finanziario quanto onnipotente nei confronti dei ceti sociali più deboli – all’insieme dei diritti sociali e del lavoro. L’espansione del costituzionalismo e delle connesse garanzie, in ottemperanza alle sue prescrizioni normative e all’altezza dei nuovi poteri economici globali, sarà quindi proposta, nell’ultimo capitolo, come il compito principale della politica e come la sola alternativa razionale a un futuro di disordini, di violenze, di oppressioni e disuguaglianze, oltre che di involuzioni autoritarie e antidemocratiche. All’origine delle tesi esposte in questo libro ci sono stati due intensi e per me fecondi dibattiti, svoltisi su un saggio – Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista – pubblicato, insieme alle mie repliche, sul numero 34 del 2011 della rivista «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», e nel volume brasiliano Garantismo, hermeneutica e (neo)constitucionalismo. Um debate com Luigi Ferrajoli, curato da Lenio Luiz Streck e da André Karam Trindade. Sono perciò debitore e desidero ringraziare quanti sono in essi intervenuti: Joao Mauricio Adeodato, Josep Aguiló Regla, Manuel Atienza, Mauro Barberis, Pierluigi Chiassoni, Pao­lo Comanducci, Alfredo Copetti Neto, Alfonso García Figueroa, Andrea Greppi, Liborio L. Hierro, André Karam Trin-

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Introduzione

dade, Francisco Laporta, Alexandre Morais De Rosa, José Juan Moreso, Rafael Tomaz de Oliveira, Giorgio Pino, Luis Prieto Sanchís, María Cristina Redondo, Angeles Ródenas, Alfonso ­Ruiz Miguel, Pedro Salazar Ugarte, Carlos Luiz Strapazzon, Lenio ­Luiz Streck e Sérgio Urquhardt de Cademartori. Le critiche e le sollecitazioni rivoltemi sono state per me preziose, inducendomi a precisare, a chiarire e in taluni casi a correggere le tesi inizialmente sostenute. La discussione è perciò servita a rimuovere talune incomprensioni reciproche e anche a ridurre dissensi e divergenze, in molti casi dovuti soprattutto ai diversi apparati concettuali che sono alle loro spalle. Particolarmente chiarificatrice mi è parsa inoltre la lunga conversazione sul costituzionalismo con Juan Ruiz Manero – Dos modelos de constitucionalismo. Una conversación, pubblicata dall’Editorial Trotta di Madrid nel 2012 – che ha avuto il merito, grazie anche alla forma del dialogo e all’immediatezza delle repliche e controrepliche, di dissipare ulteriormente equivoci e fraintendimenti che dividono i nostri orientamenti. Ho infine discusso questo libro con Perfecto Andrés Ibáñez, Lucia Antonazzi, Alexander Araujo de Souza, Mauro Barberis, Tatiana Effer, Carlo Ferruccio Ferrajoli, Dario Ippolito, Raniero La Valle, Fabrizio Mastromartino, Giorgio Pino, Roberto Schiattarella, Salvatore Senese, Simone Spina e Hermes Zaneti, che parimenti ringrazio per le loro osservazioni. Non è inutile sottolineare fin d’ora il carattere non accademico di queste controversie. Esse non solo sottintendono concezioni teoriche diverse delle costituzioni e della democrazia, ma hanno anche rilevanti implicazioni pratiche: la normatività debole o forte associata alle norme costituzionali sostanziali, a seconda che siano concepite come principi tra loro ponderabili o come regole che impongono la loro attuazione legislativa e la loro applicazione giurisdizionale; la promozione di un ruolo attivo e creativo della giurisdizione, oppure la difesa della sua rigida soggezione alla legge e perciò della separazione dei poteri; il primato della giurisdizione, o invece dell’innovazione legislativa, e quindi della politica, nell’attuazione garantista, sempre incompleta e imperfetta, del progetto costituzionale; la conseguente opzione strategica per un’integrazione giuridica sovranazionale basata prevalentemente sul ruolo di garanzia affidato all’attivismo delle giurisdizioni se-

Introduzione

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condo il modello del rule of law, oppure per un costituzionalismo rigido multilivello, allargato ai molteplici poteri politici ed economici globali ed attuato dalla politica mediante la costruzione, alla loro altezza, di funzioni e istituzioni di garanzia dei diritti stipulati nelle tante carte statali e internazionali; la valenza pragmatica del costituzionalismo: se esso sia solo un modello teorico di diritto e di pratica giuridica oppure anche, come sosterrò nell’ultimo capitolo di questo libro, un progetto politico di costruzione della democrazia; la concezione, infine, della scienza giuridica: se ne sia ancora sostenibile il carattere solamente descrittivo e avalutativo, tuttora difeso dal vecchio positivismo giuridico, o se al contrario se ne debba riconoscere il ruolo critico e progettuale nei confronti del diritto illegittimo, cioè delle indebite antinomie e lacune generate dalla virtuale divaricazione fra il dover essere costituzionale e l’essere legislativo del diritto positivo medesimo. Naturalmente le concezioni teoriche del diritto non sono né vere né false. Sono più o meno adeguate alle finalità esplicative e ricostruttive perseguite dalla teoria. Oltre a una dimensione semantica, consistente nella loro portata empirica e nella loro capacità esplicativa, esse hanno tuttavia una rilevante dimensione pragmatica, dato che valgono a costruire l’immaginario giuridico intorno a quei particolari oggetti d’indagine, non meno artificiali delle teorie, che sono il diritto positivo e i sistemi politici. Questo immaginario, quando si afferma nella cultura giuridica e in quella politica, retroagisce sui sistemi istituzionali che sono oggetto della riflessione teorica, contribuendo a modellarne la normatività e ad orientare le pratiche e la deontologia degli operatori del diritto e degli attori della politica. Di qui la rilevanza pratica delle teorie e in generale delle culture giuridiche e politiche, determinata dal loro ruolo largamente performativo dell’artificio istituzionale, che è, almeno in parte, come esse lo concepiscono e lo teorizzano.

La democrazia attraverso i diritti

Parte prima

Il modello teorico

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La democrazia costituzionale

1.1. I percorsi della modernità giuridica. Tre modelli di diritto: giurisprudenziale, legislativo, costituzionale. Tre norme di riconoscimento. Tre nozioni di validità  Possiamo distinguere, schematicamente, tre paradigmi o modelli teorici di diritto, corrispondenti grosso modo ad altrettante esperienze storiche sviluppatesi negli ultimi secoli nel continente europeo: il paradigma giurisprudenziale, quello legislativo e quello costituzionale1. Si tratta, è bene precisare, di tre paradigmi teorici, non descrittivi di nessun ordinamento storico reale, consistendo in modelli concettuali che delle corrispondenti esperienze storiche identificano soltanto le norme di riconoscimento e i tratti distintivi prevalenti e caratterizzanti2.

1   Una distinzione analoga – tra “stato giurisdizionale”, “stato legislativo” e “stato costituzionale” – è stata formulata, con riferimento alle concrete vicende storiche del moderno Stato europeo, da M. Fioravanti, Stato e costituzione, in Id. (a cura di), Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Laterza, RomaBari 2002, pp. 8-21. La stessa distinzione è ripresa da M. Barberis, Stato costituzionale. Sul nuovo costituzionalismo, Mucchi, Modena 2012, § 2, pp. 33-50; Id., Nuovo costituzionalismo, democrazia costituzionale e pluralismo, in «Teoria politica», 2, 2012, § 2, pp. 194-198. Si veda anche, sullo stato giurisdizionale e sulla successiva formazione dello stato di diritto, L. Mannori, B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Laterza, Roma-Bari 2001; Id., Giustizia e amministrazione, in Fioravanti (a cura di), Lo Stato moderno cit., pp. 59-101. 2   È quanto ho più ampiamente precisato in Intorno a “Principia iuris”. Questioni epistemologiche e questioni teoriche, in P. Di Lucia (a cura di), Assiomatica del normativo. Filosofia critica del diritto in Luigi Ferrajoli, Led, Milano 2011, § 14.1.2, pp. 236-239, rispondendo alle osservazioni critiche di I. Birocchi, Una lettura storica (A proposito di Luigi Ferrajoli, “Principia iuris”), ivi, §§ 2.3-2.4, pp. 42-52. Sul paradigma costituzionale, rinvio a Principia iuris. Teoria del diritto e

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Parte prima. Il modello teorico

Il primo modello è quello del diritto giurisprudenziale premoderno. Secondo questo modello, che riflette l’esperienza storica del diritto romano e del diritto comune fino all’età delle codificazioni, il diritto, non esistendo un monopolio incontrastato della produzione normativa in capo a fonti predeterminate, consiste principalmente in un patrimonio di massime, di categorie, di principi e di precedenti giudiziari tramandato dalla cultura e dalla pratica giurisprudenziale e dottrinaria. Esso è perciò un sistema normativo che, secondo la terminologia kelseniana, possiamo ben caratterizzare come tendenzialmente e prevalentemente nomostatico. La sua norma di riconoscimento è infatti l’intrinseca giustizia o razionalità. Esistevano ovviamente, anche nell’esperienza storica premoderna, leggi, decreti, ordinanze e statuti. Tuttavia queste norme, a causa dell’eterogeneità, del pluralismo e del particolarismo degli ordinamenti che convivevano sui medesimi territori3, finivano, nei tempi lunghi, per inserirsi e amalgamarsi entro il corpus iuris tramandato dalla tradizione, soggiacendo al principio normativo, pur se di fatto largamente inattuato, dell’interna coerenza e completezza. L’esistenza e la validità delle norme di diritto comune, al di là delle deroghe costituite dal diritto statutario, dipendevano, in altre parole, dalla loro sostanza o contenuto prescrittivo. La logica, infatti, era interna e non esterna al sistema giuridico. Veritas, non auctoritas facit legem: è la verità, cioè l’intrinseca giustizia o razionalità, la norma di riconoscimento delle norme giuridiche secondo tale modello. Di qui la confusione tra diritto e morale, ovvero tra validità e giustizia. Una massima di Gaio, ad esempio, prevaleva in giudizio su una massima di Ulpiano, o viceversa, perché ritenuta, nel caso concreto, più giusta o comunque più appropriata. Per questo il gius-naturalismo era la

della democrazia, 3 voll., Laterza, Roma-Bari 2007 (d’ora in poi i tre volumi – I, Teoria del diritto; II, Teoria della democrazia; III, La sintassi del diritto – saranno citati con PiI, PiII e PiIII, e le definizioni e i teoremi con le lettere D e T seguite da numerazione progressiva). Cfr. anche Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale (1989), Laterza, Roma-Bari 2008, parte V e, per una sintesi sommaria, Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, Laterza, Roma-Bari 2011, cap. I. 3   Sul particolarismo giuridico premoderno prima del processo di unificazione e semplificazione del diritto promosso con le codificazioni, cfr. G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, I, Assolutismo e codificazione del diritto, Il Mulino, Bologna 1976, capp. I e II.

I. La democrazia costituzionale

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filosofia del diritto che rifletteva questa esperienza. Del resto non si spiegherebbe il predominio millenario di questa dottrina senza questo suo ancoraggio storico all’esperienza pratica del diritto. Il secondo modello è quello legislativo o paleo-giuspositivista, affermatosi con quella prima rivoluzione istituzionale che è stata l’affermazione del monopolio statale della produzione normativa. In base a tale modello, la cui norma di riconoscimento è il principio di legalità, le norme esistono perché prodotte, ben più e ben prima che perché dedotte4. Si tratta di sistemi normativi caratterizzabili, secondo il lessico kelseniano, come nomodinamici. L’esistenza e la validità delle norme sono infatti in essi riconoscibili sulla base della loro forma di produzione, e non già sulla base dei loro contenuti. Auctoritas, non veritas facit legem5: è non già l’autorevolezza dei dottori, e neppure l’intrinseca giustizia o razionalità delle norme, bensì l’autorità delle loro fonti che fonda l’appartenenza di una norma giuridica a un dato ordinamento. Di qui la separazione tra diritto e morale, o tra validità e giustizia, che non è altro che un corollario del principio di legalità: se l’esistenza delle norme dipende unicamente dalla loro positività, possono ben darsi norme positive ingiuste e tuttavia esistenti e norme giuste e tuttavia non positive e perciò inesistenti. La possibile ingiustizia delle norme è il prezzo che viene pagato ai valori della certezza del diritto, dell’uguaglianza davanti alla legge, della libertà contro l’arbitrio e della soggezione dei giudici al diritto assicurati da tale modello. Si capisce che il gius-positivismo è la filosofia del diritto che si afferma in corrispondenza con questa esperienza. Il punto di vista della giustizia, conseguentemente, si autonomizza dal diritto e dalla scienza giuridica come punto di vista politico e assiologico, esterno sia all’uno che all’altra.

4   È utile richiamare la nozione disgiuntiva di norma di riconoscimento proposta in PiI, § 8.10, p. 456 con la definizione D8.13: intendo con ‘norma di riconoscimento’ o la norma istitutiva dei criteri di identificazione sostanziale di un ordinamento nomostatico, oppure la norma deontica formale sulla produzione delle norme di un ordinamento nomodinamico. 5   È la classica massima hobbesiana, opposta a quella giusnaturalistica più sopra ricordata: “Doctrinae quidem verae esse possunt; sed auctoritas non veritas facit legem” (T. Hobbes, Leviathan, sive de Materia, Forma et Potestate Civitatis ecclesiasticae et civilis, trad. lat., in Leviatano, con testo inglese del 1651 a fronte e testo latino del 1668, a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, cap. XXVI, § 21, p. 448).

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Parte prima. Il modello teorico

Infine, il terzo modello è quello costituzionale o neo-giuspositivista, che si afferma con un ulteriore mutamento di paradigma e con una seconda rivoluzione istituzionale: la subordinazione al diritto della stessa legislazione, e perciò il completamento dello stato di diritto come stato costituzionale di diritto grazie alla diffusione in Europa, all’indomani della seconda guerra mondiale, delle costituzioni rigide quali parametri di validità del diritto vigente. In base a questo modello, mentre l’esistenza o vigore delle norme continua a dipendere dalla loro forma di produzione, la cui norma di riconoscimento resta il vecchio principio di legalità formale, la loro validità dipende anche dalla loro sostanza o contenuto, la cui norma di riconoscimento consiste nel principio di legalità sostanziale che la vincola alla coerenza con i principi e i diritti costituzionalmente stabiliti. Alla separazione e divaricazione esterna tra giustizia e validità, si aggiunge così la divaricazione interna tra validità ed esistenza: possono ben esistere, negli ordinamenti costituzionali odierni, norme esistenti perché prodotte in conformità alle norme formali sulla produzione e tuttavia invalide perché in contrasto con la costituzione. Con i principi e i diritti fondamentali da questa stabiliti viene infatti stipulata, quale solenne “mai più” agli orrori dei totalitarismi, quella che ho chiamato la sfera del non decidibile: ciò che nessuna maggioranza può decidere, in violazione dei diritti di libertà, e ciò che nessuna maggioranza può non decidere in violazione dei diritti sociali, gli uni e gli altri dalla costituzione stabiliti. L’ordinamento resta un sistema nomodinamico, nel quale le norme vengono ad esistenza se e solo se prodotte nelle forme da esso stabilite; e tuttavia viene in esso innestata anche una dimensione nomostatica, in forza della quale le norme indebitamente prodotte o non prodotte in contrasto con la costituzione si configurano come vizi, cioè come antinomie o come lacune che richiedono di essere rimosse. I principi logici della coerenza e della completezza, identificandosi con il dover essere della produzione legislativa rispetto ai principia iuris et in iure stipulati costituzionalmente, tornano ad assumere – quali principia iuris tantum, come li ho chiamati – valenza normativa6. Di qui, come si vedrà nel § 2.8, il 6   Sulle nozioni di “sfera del non decidibile” e di “sfera del decidibile”, cfr. PiI, §§ 11.18, 12.6, pp. 819-824, 872-876 e PiII, cap. XIII, § 15.1, pp. 303-308. Sulla distinzione tra principia iuris tantum e principia iuris et in iure, cfr. PiI,

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ruolo critico della scienza giuridica nei confronti del diritto illegittimo promosso dal gius-costituzionalismo, divenuto oggi la filosofia del diritto più diffusa perché più d’ogni altra in grado di dar conto delle odierne democrazie costituzionali. Abbiamo così tre modelli di diritto identificabili sulla base di tre diverse norme di riconoscimento, a loro volta corrispondenti a tre diverse nozioni di validità. Nel primo modello la validità delle norme tende a riconoscersi e a identificarsi con la loro intrinseca giustizia, legata immediatamente al loro contenuto normativo, cioè alla loro sostanza o significato prescrittivo. Nel secondo modello essa si riconosce e si identifica con la loro positività, legata unicamente alla conformità delle loro forme di produzione alle norme formali sulla loro produzione. Nel terzo modello essa si riconosce e si identifica, oltre che con la conformità delle loro forme, anche con la coerenza della loro sostanza o significato con le norme non più solo formali ma anche sostanziali sulla loro produzione. La modernità giuridica nasce con il secondo modello e giunge a compimento con il terzo, grazie alla positivizzazione dapprima delle forme della produzione legislativa e poi dei limiti e dei vincoli di sostanza imposti da norme costituzionali a questa sopraordinate. Se nel primo modello la validità delle norme era immediatamente legata alla loro sostanza e nel secondo era determinata unicamente dalla loro forma giuridica, nel terzo modello forma e sostanza sono entrambe vincolate, quali condizioni di validità delle norme prodotte, l’una alla conformità e l’altra alla coerenza o compatibilità con le norme costituzionali sulla loro produzione. Con il primo giuspositivismo, corrispondente alla formazione dello Stato sovrano quale detentore del monopolio della produzione legislativa, nasce dunque la politica moderna come fonte primaria del diritto: il diritto diventa un prodotto della politica e il suo principale strumento di governo. Con il secondo giuspositivismo, quello costituzionale, che positivizza il dover essere della produzione legislativa, il rapporto tra politica e diritto si complica: il diritto continua ad essere un prodotto e uno strumento della Introduzione, §§ 6-8, pp. 26-41; § 1.3, pp. 114-120; § 2.7, pp. 172-173; § 3.6, pp. 198-201; § 8.7, pp. 439-444.

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politica, ma la politica si subordina al diritto, e precisamente alla sfera del non decidibile stipulata nelle costituzioni. Nella concezione del primo stato legislativo di diritto, non dotato di costituzioni rigide ma al più di costituzioni flessibili, il fondamento dello Stato veniva espresso con formule di tipo organicistico e vagamente metafisico: il corpo sociale, la nazione, la volontà generale, il demos, il popolo sovrano, lo spirito del popolo e simili7, di cui la sfera pubblica veniva assunta come espressione politica. Il costituzionalismo rigido e democratico dello stato costituzionale di diritto, non a caso affermatosi in Europa all’indomani della liberazione dai vari fascismi, sostituisce queste raffigurazioni ideo­ logiche con l’esplicita positivizzazione, nel patto costituzionale, dei fondamenti e della ragion d’essere dell’artificio statale: da un lato le forme rappresentative della democrazia politica e la separazione dei poteri, dall’altro i diritti fondamentali imposti alle decisioni politiche quali limiti e vincoli di sostanza. La politica, le cui forme e le cui istituzioni rappresentative sono generate e legittimate dall’esercizio dei diritti politici, continua ad essere il motore della nomodinamica giuridica. Ma il fondamento assiologico e la ragione sociale dell’intero artificio giuridico e istituzionale si identificano con la garanzia dell’insieme dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti8. 7   Si vedano i saggi di: P. Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana fra Ottocento e Novecento, Giuffrè, Milano 1986; M. Fioravanti, Stato (storia), in Enciclopedia del diritto, vol. XLIII, Giuffrè, Milano 1990, pp. 708-758. Sul ruolo dei miti e in generale degli elementi a-razionali e irrazionali nella vita politica, si vedano: E. Cassirer, Il mito dello Stato (1946), trad. di C. Pellizzi, Se, Milano 2010; C. Bottici, Filosofia del mito politico, Bollati Boringhieri, Torino 2012; G. Zagrebelsky, Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza, Einaudi, Torino 2012. 8   Ho illustrato questo duplice primato – dei diritti politici e civili di autonomia, detti anche ‘secondari’ o ‘strumentali’ o ‘diritti-mezzo’, nella fondazione positiva del diritto, e dei diritti di libertà e dei diritti sociali, che ho chiamato anche ‘primari’ o ‘finali’ o ‘diritti-fine’, quale suo fondamento assiologico – in PiII, § 14.2, pp. 160 sgg. e in Intorno a Principia iuris cit., § 14.3.1, pp. 282-283. Sulla nozione di ‘ragione sociale’ come status delle persone giuridiche (incluse le istituzioni politiche) identificato dalle finalità per le quali esse sono istituite, si vedano in PiI, §§ 8.12-8.13, pp. 461-468, le tesi D8.14 e T8.104; nel § 10.9, pp. 630-635, le tesi T10.106-T10.110; nei §§ 12.10-12.11, pp. 890-903, le tesi D12.22 e T12.86 e, nel § 12.18, pp. 932-937, le tesi D12.35 e T12.190-T12.191; cfr. anche PiII, § 15.1, pp. 303-308.

I. La democrazia costituzionale

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Va infine aggiunto fin d’ora che oggi assistiamo alla crisi del paradigma costituzionale determinata essenzialmente dalla fine del monopolio statale della produzione normativa e dallo sviluppo, a livello globale, di poteri pubblici e soprattutto di poteri economici e finanziari che si sottraggono al ruolo di governo delle istituzioni politiche della democrazia rappresentativa e ai limiti e ai vincoli giuridici dello stato di diritto, sia legislativo che costituzionale. A questa crisi e alle sue prospettive future sarà dedicata la seconda parte di questo libro. Qui basti dire che il futuro dello stato di diritto e della democrazia, in alternativa al crollo di entrambi anche all’interno degli Stati nazionali, dipende oggi dalla progressiva espansione del paradigma costituzionale agli ordinamenti sovranazionali, all’altezza dei nuovi poteri extra- o sovrastatali. 1.2. Il costituzionalismo tra (paleo)giuspositivismo e (neo)giusnaturalismo. Una questione terminologica  Il paradigma costituzionale può essere concepito in maniere diverse. Può essere considerato, nel segno della continuità con il vecchio paradigma giuspositivista dello stato legislativo, come il frutto della semplice introduzione nell’ordinamento di un ulteriore livello normativo sopra-ordinato alla legislazione ordinaria; oppure, nel segno di una radicale discontinuità, come un superamento in senso tendenzialmente giusnaturalista o etico-oggettivista del positivismo giuridico. Uno degli scopi di questo libro è sostenere una concezione del costituzionalismo diversa da entrambe queste raffigurazioni: accomunata alla prima perché anch’essa giuspositivista, inteso con “positivismo giuridico” una concezione e/o un modello di diritto che riconoscano come “diritto” qualunque insieme di norme poste o prodotte da chi è abilitato a produrle, indipendentemente dai loro contenuti e quindi dalla loro eventuale ingiustizia9; diversa 9   Così H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato (1945), trad. di S. Cotta e G. Treves, Edizioni di Comunità, Milano 1959, parte prima, X, B, a, p. 115: la “positività” del diritto “risiede nel fatto che esso è creato ed annullato da atti di esseri umani”; Id., La dottrina pura del diritto (1960), trad. di M.G. Losano, Einaudi, Torino 1966, cap. V, § 34, i, p. 247: “Non si può negare la validità di un ordinamento giuridico positivo a causa del contenuto delle sue norme. Questo è un elemento essenziale del positivismo giuridico”; H.L.A. Hart, Il concetto di diritto (1961), trad. di M.A. Cattaneo, Einaudi, Torino 1965, cap. IX, § 1, p. 217: “Intenderemo per positivismo giuridico la semplice tesi secondo cui non è in

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da entrambe, come si vedrà nei due prossimi capitoli, per la novità strutturale e per la normatività forte associate al paradigma costituzionale, da essa configurato come un sistema di garanzie, cioè di limiti e vincoli giuridici imposti all’esercizio di qualunque potere quale condizione della sua legittimità10.

nessun senso una verità necessaria che le leggi riproducano e soddisfacciano certe esigenze della morale, anche se nella realtà hanno fatto questo”; Id., Il positivismo e la separazione tra diritto e morale (1958), in Contributi all’analisi del diritto, a cura di V. Frosini, Giuffrè, Milano 1964, § 2, pp. 119-120, nota, dove il secondo dei cinque possibili significati di positivismo viene individuato nell’“affermazione che non vi è connessione necessaria tra diritto e morale”. Ma si ricordi anche la massima hobbesiana qui richiamata nella nota 5, “auctoritas, non veritas” – che equivale a dire la forma di produzione, cioè l’abilitazione giuridica a legiferare, e non la bontà del contenuto prodotto – “facit legem”, in opposizione alla massima giusnaturalista “veritas, non auctoritas facit legem”. La nozione qui accolta in accordo con le tesi suddette corrisponde invece solo in parte al primo e al secondo significato e non corrisponde affatto al terzo significato di “positivismo giuridico” distinti da N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico (1965), Laterza, Roma-Bari 2011, cap. V, pp. 87-96. Precisamente: a) corrisponde soltanto in parte alla nozione del positivismo come “approccio allo studio del diritto”, con la quale ha in comune la tesi che il giurista deve occuparsi solo del “diritto qual è”, e non del “diritto quale deve essere” dal punto di vista della giustizia, ma dalla quale si discosta, come meglio si vedrà nel § 2.8, perché richiede anche la critica del diritto vigente in contrasto con il “diritto quale deve essere” in base alla costituzione e che parimenti fa parte del “diritto qual è”; b) non corrisponde se non in parte alla nozione del “positivismo giuridico” come “teoria” che descrive il “diritto come fatto”, cioè come l’insieme delle regole “poste direttamente o indirettamente da organi dello Stato”, ma dalla quale si discosta non potendosi oggi più ammettere, dopo la fine del monopolio statale della produzione giuridica, la “comune identificazione del positivismo giuridico con la teoria statalistica del diritto”; c) infine non corrisponde affatto al terzo significato individuato da Bobbio, quello del positivismo come “ideologia”, secondo il quale il diritto esistente, solo perché tale, è anche “giusto”: concezione che in realtà non è affatto giuspositivistica, essendo in contrasto con le prime due, e non è mai stata sostenuta, ma è stata anzi respinta da tutti i classici del positivismo giuridico: da Bentham, da Austin, da Kelsen, da Hart e dallo stesso Bobbio. 10   Ho criticato la seconda di queste due concezioni del costituzionalismo, opponendole l’approccio garantista, in Principia iuris. Una discusión teórica, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 31, 2008, § 1.3, pp. 402-403, dove ho sottolineato le differenze tra i due approcci già rilevate da L. Prieto Sanchís, Principia iuris: una teoría del derecho no neo-constitucionalista para el Estado constitucional, ivi, pp. 325-353, ora in Id., El constitucionalismo de los derechos. Ensayos de filosofía jurídica, Trotta, Madrid 2013, cap. II; in Intorno a “Principia iuris” cit., § 14.1.4, pp. 248-261. Per una critica più ampia e argomentata, cfr.: Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista, in «Giuri-

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Il nuovo paradigma e la sua concezione vengono comunemente denominati con il termine “neocostituzionalismo”11: in opposizione da un lato al costituzionalismo classico e, dall’altro, al vecchio positivismo giuridico. Ambedue queste opposizioni sono a mio parere fuorvianti. Lo è quella tra “neocostituzionalismo” e “costituzionalismo” a causa dell’asimmetria dei due termini, il primo dei quali designa un modello teorico-giuridico empiricamente riferito agli odierni ordinamenti dotati di costituzioni rigide, mentre il secondo non designa né un sistema giuridico né una teoria del diritto, bensì la dottrina politica – realizzata di fatto in ordinamenti dotati di solide tradizioni liberali, ma indipendente da qualunque ordinamento – della limitazione dei pubblici posprudenza costituzionale», 3, 2010, pp. 2771-2816, trad. sp. Constitucionalismo principialista y constitucionalismo garantista, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 34, 2011, pp. 15-54; e le repliche al dibattito che ne è seguito: El constitucionalismo garantista entre paleo-iuspositivismo y neo-iusnaturalismo, ivi, pp. 311-360 e O constitucionalismo garantista e o Estado de direito, in L. Luiz Streck, A. Karam Trindade (orgg.), Garantismo, hermenuetica e (neo-)constitucionalismo. Um debate com Luigi Ferrajoli, Editora Do Advogado, Porto Alegre 2012, pp. 231-260. 11   Il termine “neocostituzionalismo” è stato introdotto nel lessico filosoficogiuridico da alcuni filosofi del diritto genovesi: S. Pozzolo, Neoconstitucionalismo y especificidad de la interpretación constitucional, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 21, 1998, pp. 355-370; Id., Neocostituzionalismo e positivismo giuridico, Giappichelli, Torino 2001; P. Comanducci, Il positivismo giuridico: un tentativo di bilancio, in Studi in onore di Franca De Marini, Giuffrè, Milano 1999, pp. 123-124; M. Barberis, Neocostituzionalismo, democrazia e imperialismo della morale, in «Ragion pratica», 8, 2000, pp. 147-162; Id., Filosofia del diritto. Un’introduzione teorica, Giappichelli, Torino 2005, § 1.5, pp. 27-41; Id., Esiste il neocostituzionalismo?, in «Analisi e diritto 2010», 2011, pp. 11-30; Id., Nuovo costituzionalismo cit.; Id., Il neocostituzionalismo, terza filosofia del diritto, in «Rivista di filosofia del diritto», I, 1, 2012, pp. 153-164. Sulla nozione di neocostituzionalismo, utilizzata quasi esclusivamente in Italia, in Spagna e in America Latina, si vedano inoltre: M. Carbonell, Neoconstitucionalismo y derechos fundamentales, Cevallos, Quito 2010, pp. 23-40; la voce Neocostituzionalismo, a cura di G. Bongiovanni, in Annali dell’Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano 2011, pp. 749-772. Bongiovanni segnala le svariate ed eterogenee accezioni con cui l’espressione “neo-constitutionalism” è impiegata nella letteratura anglosassone, talune delle quali non hanno nulla a che vedere con il costituzionalismo (ivi, nota 4, pp. 749-750): che è un’ulteriore ragione, in aggiunta a quelle più oltre esaminate, per abbandonare questo termine come fonte di confusione. Ho criticato l’uso di questo termine e motivato la proposta di revisione terminologica qui di seguito avanzata in Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista cit., § 1, pp. 2773-2778 (trad. sp., pp. 17-21).

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teri a garanzia di determinati ambiti di libertà12. Ma altrettanto fuorviante è la contrapposizione tra “neocostituzionalismo” e “positivismo giuridico”, accreditata dal significato di comodo associato ai due termini dell’opposizione: il primo concepito, anziché come un nuovo e più sviluppato paradigma giuspositivista, come un superamento in senso anti-positivista e tendenzialmente giusnaturalista del positivismo medesimo, e il secondo associato, anziché alla semplice idea della positività del diritto, a quella del primato della legge statale prodotta dai parlamenti, e perciò al modello paleo-giuspositivista dello stato legislativo di diritto13. Il risultato delle due opposizioni è la consegna dell’odierno costituzionalismo all’area delle dottrine giusnaturalistiche o comun-

12   È il costituzionalismo politico evocato, in opposizione al neocostituzionalismo, da Paolo Comanducci, che si richiama alle costituzioni europee del Settecento e dell’Ottocento e, in particolare, allo Statuto albertino del 1848 e alle altre costituzioni italiane pre-unitarie, le quali erano costituzioni flessibili non diverse, formalmente, dalle leggi ordinarie e non alterarono perciò il paradigma dello stato legislativo di diritto né tanto meno la connessa teoria giuspositivista del diritto: P. Comanducci, Forme di (neo)costituzionalismo: una ricognizione metateorica, in Neocostituzionalismo e tutela (sovra)nazionale dei diritti fondamentali, a cura di T. Mazzarese, Giappichelli, Torino 2002, pp. 71-77. Si tratta della nozione corrente di costituzionalismo, adottata ad esempio da: M. Troper, Il concetto di costituzionalismo e la moderna teoria del diritto, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 1, 1988, pp. 61-62; G. Rebuffa, Costituzioni e costituzionalismi, Giappichelli, Torino 1990; M. Fioravanti, Costituzione, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 85-98; Id., Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 5, 90, 149; T. Mazzarese, Diritti fondamentali e neocostituzionalimo, in Id., Neocostituzionalismo cit., p. 11. Ma il costituzionalismo è spesso inteso in senso ancor più ampio, cioè come insieme di principi politici risalenti al pensiero greco e all’esperienza romana e affermatisi poi nel Medioevo e, in particolare, nel diritto inglese: si ricordi il classico saggio di C.H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (1947), trad. e intr. di N. Matteucci, Il Mulino, Bologna 1990. Analogamente Mario Dogliani identifica il costitituzionalismo con “un insieme di istituti [...] disseminati nel corso dei secoli in esperienze politiche molto diverse”, tanto che è legittimo “collegare il costituzionalismo antico e quello moderno come diverse forme storiche [...] di una tradizione millenaria che non ha mai cessato di rielaborare e sperimentare il suo nucleo normativo”: M. Dogliani, I diritti fondamentali, in M. Fioravanti (a cura di), Il valore della Costituzione. L’esperienza della democrazia repubblicana, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 42. 13   Si vedano, ad esempio, Fioravanti, Costituzionalismo cit., pp. 90-104; G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino 1992, cap. II, § 6, p. 38.

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que anti- o post-positiviste14. Identificato il “costituzionalismo” con l’ideologia politica liberale e il “neocostituzionalismo” con la tesi antigiuspositivistica della connessione tra diritto e morale – sul piano teorico “concorrente con quella positivista” e ad essa “alternativa”15 – il costituzionalismo giuspositivista non trova infatti spazio quale paradigma teorico in questa classificazione, chiaramente assai poco descrittiva perché frutto della sovrapposizione alla riflessione sul costituzionalismo del vecchio scontro tra (neo)giusnaturalisti e (paleo)giuspositivisti16.

14   È la concezione del costituzionalismo sostenuta non solo dai neocostituzionalisti non positivisti, ma anche da taluni fra i loro critici positivisti, come Michel Troper, secondo il quale il costituzionalismo è incompatibile con il positivismo giuridico: “Ora è chiaro che il positivismo, nei tre sensi di questo vocabolo” – quelli distinti da Norberto Bobbio – “è del tutto incompatibile con il costituzionalismo”, il quale “pare strettamente legato alle dottrine giusnaturaliste” (Troper, Il concetto di costituzionalismo cit., p. 63). La tesi che (non il neocostituzionalismo, ma) il costituzionalismo, con la sua pretesa di sottoporre le leggi a norme superiori stipulate come inderogabili, esprime un’istanza classica del giusnaturalismo fu sostenuta già da N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo, in «Rivista trimestrale di procedura civile», XVII, 3, 1963, p. 1046. 15   Comanducci, Forme di (neo)-costituzionalismo cit., p. 79. 16   Ben diversa era stata la caratterizzazione (non del “neocostituzionalismo”, ma semplicemente) del “costituzionalismo” proposta da Luis Prieto Sanchís in Constitucionalismo y positivismo, Fontamara, Mexico 1997. Anche Prieto aveva distinto, parallelamente alla distinzione bobbiana dei tre tipi di giuspositivismo, tra costituzionalismo “ideologico”, “teorico” e “metodologico”, pronunciandosi, nel cap. V, § 2, “in favore di una teoria del diritto e di un costituzionalismo positivista”. Una lettura in termini giuspositivisti del neo-costituzionalismo è stata offerta anche da: Mazzarese, Diritti fondamentali e neocostituzionalismo cit., § 1.4, pp. 14-22; Id., Towards a Positivist Reading of Neo-constitutionalism, in «Associations. Journal of Legal and Social Theory», 6 (2), 2002, pp. 233-260; Id., Juspositivismo y globalización del derecho. Qué modelo teórico in J.J. Moreso, M.C. Redondo (a cura di), Un dialogo con la teoría del derecho de Eugenio Bulygin, Marcial Pons, Madrid 2007, pp. 61-71; E. Bulygin, Tecla Mazzarese sobre el positivismo y la globalización del Derecho, ivi, pp. 185-186; V. Giordano, Il positivismo e la sfida dei principi, Esi, Napoli 2004, pp. 20-22. Ciò nonostante, l’espressione “neocostituzionalismo”, nell’accezione sostanzialmente giusnaturalista sopra illustrata, è entrata nell’uso corrente, fino a generare un’abbondante letteratura e a dare il titolo a una serie di importanti volumi: Mazzarese, Neocostituzionalismo cit.; M. Carbonell (ed.), Neoconstitucionalismo(s), Trotta, Madrid 2003; Id. (ed.), Teoría del neoconstitucionalismo. Ensayos escogidos, Trotta, Madrid 2007; R. Quaresma, M.L. De Paula Oliveira, F. Martins Riccio de Oliveira (ed. por.), Neoconstitucionalismo, Editora Forense, Rio de Janeiro 2009; M. Carbonell, L. García Jaramillo (ed.), El canon neoconstitucional, Trotta, Madrid 2010.

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Mi sembra perciò opportuno adottare e proporre una terminologia diversa che faccia uso, all’interno di un medesimo discorso, di termini omogenei: ‘costituzionalismo giuridico’, ‘giuscostituzionalismo’ o ‘secondo giuspositivismo’ – in opposizione al ‘primo giuspositivismo’ dello stato legislativo di diritto, privo di costituzione o dotato di costituzioni flessibili – per designare il costituzionalismo rigido delle odierne democrazie costituzionali, quale che sia la dottrina filosofico-politica alla quale si aderisce; ‘costituzionalismo politico’ per designare invece la dottrina liberale dei limiti al potere, quali che siano le caratteristiche strutturali dei concreti ordinamenti giuridici17. Naturalmente può ben usarsi ‘costituzionalismo’ per designare in sede di filosofia politica la dottrina liberale dei limiti al potere, e in sede di teoria del diritto il paradigma delle odierne democrazie costituzionali. L’importante è che non si confondano i due diversi significati all’interno di un medesimo discorso18. 17   È al costituzionalismo politico quale insieme di limiti solo esterni o politici – e non al costituzionalismo giuridico basato sul controllo giurisdizionale di legittimità sulla legislazione – che una parte della filosofia politica ritiene ancor oggi che debba essere affidato il rispetto dei diritti fondamentali, in nome del valore democratico e della “dignità” della legislazione prodotta da organi rappresentativi. Si vedano, ad esempio, R. Bellamy, Political Constitutionalism. A Republican Defence of the Constitutionality of Democracy, Cambridge University Press, Cambridge 2007; J. Waldron, Law and Disagreement, Oxford University Press, Oxford 1999; Id., Principio di maggioranza e dignità della legislazione (1999), trad. di A. Pintore, Giuffrè, Milano 2001, pp. 8, 11, 99 sgg., 104 sgg. Si veda, sul “political constitutionalism” e sulla democrazia “vista da Westminster”, il recente studio di A. Ferrara, The Democratic Horizon. Hyperpluralism and the Renewal of Political Liberalism, Cambridge University Press, Cambridge i.c.s., cap. VII. 18   Paolo Comanducci, nel suo intervento “Constitucionalismo”: problemas de definición y tipología, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 34, 2011, pp. 95-100, ha ribadito, a sostegno della terminologia qui criticata, due continuità: l’una, sul piano teorico, del paradigma costituzionale rispetto al vecchio paradigma giuspositivista dello stato legislativo, non essendo a suo parere intervenuto nel passaggio dall’uno all’altro nessun mutamento di struttura; l’altra, sul piano ideologico, del neocostituzionalismo rispetto al costituzionalismo politico. Alla critica della tesi della prima continuità e alle nove innovazioni introdotte dal paradigma costituzionale saranno dedicati i §§ 2.6-2.8 del secondo capitolo. Quanto alla tesi della seconda continuità, essa è il risultato di una petizione di principio, cioè della nozione stessa qui criticata di neocostituzionalismo che non tiene conto della trasformazione dei limiti politici o esterni ai pubblici poteri, rivendicati dal costituzionalismo politico, in norme costituzionali di di-

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Potremmo poi chiamare ‘costituzionalismo giusnaturalista’ e ‘costituzionalismo giuspositivista’ le concezioni dell’odierno costituzionalismo giuridico, a seconda che questo sia configurato o meno come un superamento del positivismo giuridico. Tuttavia i sostenitori di una concezione anti-giuspositivista del costituzionalismo non si dichiarano di solito giusnaturalisti, ma piuttosto non-positivisti o post-positivisti. Ciò che tutti li accomuna è invece la configurazione come principi etico-politici di gran parte delle norme costituzionali, e in particolare dei diritti fondamentali, e l’adozione di una distinzione forte, qualitativa e strutturale, tra principi e regole, oggetto i primi di argomentazione e ponderazione e le seconde di applicazione nella forma della sussunzione19. Questa stessa distinzione, d’altro canto, sia pure come distinzione debole o quantitativa o di grado, è accettata anche da molti giuspositivisti20. ritto positivo e perciò in limiti e vincoli giuridici e interni. Per una replica più analitica, rimando a El constitucionalismo garantista entre paleo-juspositivismo y neo-jusnaturalismo cit., § 2, pp. 317-323. 19   R. Dworkin, I diritti presi sul serio (1977), trad. di G. Rebuffa, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 90-121; R. Alexy, Teoria dei diritti fondamentali (1994), trad. di L. Di Carlo, Il Mulino, Bologna 2012, cap. III, § 1, p. 101; M. Atienza, J. Ruiz Manero, Las piezas del Derecho. Teoría de los enunciados jurídicos, Ariel, Barcelona 1996, cap. I; Id., Tre approcci ai principi del diritto, in P. Comanducci, R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1993, Giappichelli, Torino 1993, pp. 9-29; Zagrebelsky, Il diritto mite cit., cap. VI, p. 149; Id., Introduzione, in R. Alexy, Concetto e validità del diritto (1992), Einaudi, Torino 1997, p. xx; Id., La legge e la sua giustizia cit., cap. VI, pp. 205-236. 20   A. Pintore, Norme e principi. Una critica a Dworkin, Giuffrè, Milano 1982, I, 4, pp. 24-27; L. Gianformaggio, L’interpretazione della Costituzione tra applicazione di regole ed argomentazione basata su principi (1984), in Id., Filosofia del diritto e ragionamento giuridico, a cura di E. Diciotti e V. Velluzzi, Giappichelli, Torino 2008, § 3, p. 178 sgg.; L. Prieto Sanchís, Sobre principios y normas. Problemas del razonamiento jurídico, Centro de Estudios Constitucionales, Madrid 1992, cap. II; P. Comanducci, Principi giuridici e indeterminazione del diritto, in Id., Assaggi di metaetica due, Giappichelli, Torino 1998, cap. VII, § 2.1, pp. 84-87; J.J. Moreso, Come far combaciare i pezzi del diritto, in P. Comanducci, R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1997, Giappichelli, Torino 1998, pp. 79-118; E. Diciotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, Giappichelli, Torino 1999, cap. V, § 5, pp. 425-435; Barberis, Filosofia del diritto cit., pp. 104-116; Mazzarese, Diritti fondamentali e neocostituzionalismo cit., § 3.1, pp. 38-39; G. Maniaci, Razionalità ed equilibrio riflessivo nell’argomentazione giudiziale, Giappichelli, Torino 2008, pp. 300-307; G. Pino, Diritti fondamentali e ragionamento giuridico, Giappichelli Torino 2008, pp. 17 sgg.; Id., Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Il Mulino, Bologna 2010, cap. III, § 1, pp. 51-75.

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Alla distinzione tra costituzionalismo giuspositivista e costituzionalismo giusnaturalista o non-positivista sarà perciò opportuno aggiungere la distinzione e il confronto tra quello che ho chiamato costituzionalismo principialista, o modello principialista o semplicemente principialismo, e quello che ho chiamato costituzionalismo garantista, o modello garantista o semplicemente garantismo21. Il primo orientamento è caratterizzato dalla configurazione dei diritti fondamentali come valori o principi morali strutturalmente diversi dalle regole perché dotati di una normatività più debole, affidata non già alla loro attuazione o applicazione ma alla loro ponderazione legislativa o giudiziale. Ad esso sarà qui opposto il secondo orientamento, caratterizzato invece da una normatività costituzionale forte, di tipo regolativo: cioè dalla tesi che, a parte taluni principi puramente direttivi, tutti gli altri principi costituzionali, e in particolare i diritti fondamentali, si comportano come regole, dato che implicano l’esistenza o impongono l’introduzione delle regole consistenti nei divieti di lesione o negli obblighi di prestazione che ne sono le relative garanzie22. In questa seconda concezione, che sarà illustrata in questo e nel prossimo capitolo, il costituzionalismo sarà configurato come un modello normativo di

21   Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista cit. Ho tratto le espressioni “principialismo” e “principialista” da: Prieto Sanchís, Constitucionalismo y positivismo cit., p. 65 e da A. García Figueroa, Principios y positivismo jurídico. El no positivismo principialista en las teorías de Ronald Dworkin y Robert Alexy, Centro de Estudios Políticos y Constititucionales, Madrid 1998, § 1.2.4, p. 69, dove viene chiamato “principialismo” il “non-positivismo” che concepisce “le norme costituzionali sui diritti” come “principi considerati idonei a connettere il diritto alla morale per il tramite dell’argomentazione”; Id., Criaturas de la moralidad. Una aproximación neoconstitucionalista al Derecho a través de los derechos, Trotta, Madrid 2009, passim. Espressioni analoghe, ma in senso critico, sono usate da L.L. Streck, Verdade e Consenso. Constituicao, Hermeneutica e Teorias discursivas. Da possibilidade a necesidade de respostas corretas em direito, Lumen Juris, Rio de Janeiro 2009, che dedica un lungo paragrafo (il § 13.5, pp. 475-543) alla critica del “panprincipiologismo em Terrae brasilis”, cioè della tendenza della giurisprudenza brasiliana a elaborare principi non formulati nella costituzione ma frutto soltanto di argomentazioni morali. L’espressione “costituzionalismo garantista” per designare la “teoria giuridica dei limiti del potere politico” è stata usata invece da A. Pace, Le sfide del costituzionalismo nel XXI secolo, in «Diritto Pubblico», 3, 2003, p. 900. 22   Sulla nozione di ‘garanzia’ e sui tipi di garanzie, si veda la nota 1 del prossimo capitolo.

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ordinamento giuridico fondato sulla rigida soggezione dell’intera produzione normativa alle norme costituzionali e ai diritti in esse stabiliti, sulla configurazione come antinomie o come lacune delle loro violazioni, le une per commissione e le altre per omissione, e sull’obbligo della giurisdizione di annullare le prime e della legislazione di colmare le seconde. È peraltro utile precisare che “garantismo” è un neologismo diffusosi in Italia negli anni Settanta con riferimento al diritto penale, quale replica teorica alla riduzione, in quegli anni, delle garanzie penali e processuali dei diritti di libertà, ad opera di una legislazione e di una giurisdizione eccezionali giustificate dall’emergenza del terrorismo. Ma è chiaro che il paradigma garantista deve essere allargato, in sede di teoria generale del diritto, all’intero campo dei diritti della persona. Con “garantismo” s’intende quindi, in questa più larga accezione, un modello di diritto basato sulla rigida subordinazione alla legge di tutti i poteri e sui vincoli loro imposti a garanzia dei diritti, primi tra tutti i diritti fondamentali sanciti dalla costituzione. In questo senso il garantismo è sinonimo di “stato costituzionale di diritto”, cioè di un sistema che ricalca il paradigma classico dello Stato liberale allargandolo in due direzioni: da un lato a tutti i poteri, non solo a quello giudiziario ma anche a quelli legislativi e di governo, e non solo ai poteri pubblici ma anche a quelli privati; dall’altro a tutti i diritti, non solo a quelli di libertà, ma anche a quelli sociali, con conseguenti obblighi, oltre che divieti, a carico della sfera pubblica. Va aggiunto che l’opzione tra uso ristretto e uso allargato di “garantismo” non è affatto politicamente neutrale. L’appello al garantismo quale sistema di limiti imposti alla sola giurisdizione penale si è infatti spesso coniugato, nel dibattito pubblico non solo italiano, con l’insofferenza per limiti giuridici e controlli giudiziari dei poteri politici e dei poteri economici, sulla base di una concezione della democrazia come onnipotenza della maggioranza legittimata dal voto popolare e del liberalismo come assenza di regole e limiti alle cosiddette libertà del mercato. In questo senso l’espressione significa perciò esattamente il contrario di “garantismo” quale paradigma teorico generale: che vuol dire invece soggezione al diritto di qualunque potere, sia esso pubblico o privato, tramite regole, vincoli e controlli giuridici idonei a impedirne, a garanzia dei diritti di tutti, l’esercizio arbitrario o illegale. In quest’altro senso allargato il garantismo è la faccia per così dire

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attiva del costituzionalismo, consistendo le garanzie nelle modalità attive – i divieti e gli obblighi – correlative alle aspettative passive nelle quali consistono tutti i diritti. Esso designa, in breve, l’insieme dei limiti e dei vincoli imposti a qualunque potere e idonei a garantire la massima effettività di tutti i diritti e di tutte le promesse costituzionali. 1.3. Positivismo giuridico, stato di diritto e democrazia. Il carattere formale del paradigma legislativo e di quello costituzionale È chiaro che, così concepito, il paradigma costituzionale, in quanto frutto della sottoposizione dell’esercizio di qualunque potere a norme positive non solo formali ma anche sostanziali, rappresenta non già un superamento, bensì un rafforzamento e un completamento del positivismo giuridico, da esso allargato alle stesse scelte – la garanzia dei diritti fondamentali stipulati da norme costituzionali – cui deve sottostare la produzione del diritto positivo. La modernità giuridica risulta in tal modo completata dai due mutamenti del diritto all’inizio illustrati e consistenti entrambi in un’articolazione multi-livello dei sistemi giuridici: dapprima la subordinazione della giurisdizione alla legislazione; poi la subordinazione della legislazione alla costituzione. Ne conseguono due nessi che legano il positivismo giuridico così allargato con il sistema politico: l’uno, strutturale, con lo stato di diritto; l’altro, strumentale, con la democrazia. Il primo nesso, strutturale, tra positivismo giuridico e stato di diritto, si fonda sul principio di legalità. Tutti i pubblici poteri sono, dal paradigma costituzionale o neo-positivista, sottoposti al diritto: la giurisdizione e l’amministrazione alla legalità ordinaria; la legislazione alla legalità costituzionale. Il principio di legalità assume quindi, nel paradigma costituzionale, una complessità strutturale e una valenza garantista ignote al paradigma legislativo. Come meglio si vedrà nel prossimo capitolo, nel quale sarà ridefinito come primo postulato dello stato costituzionale di diritto, esso può essere articolato in due principi – quello di mera legalità e quello di stretta legalità – che hanno due significati distinti, anche se connessi dal fatto che il primo forma un presupposto del secondo. Nel primo significato, quale norma di riconoscimento del diritto esistente, esso equivale al principio di positività: è diritto tutto e solo quello che è posto o prodotto tramite l’esercizio di

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poteri conferiti dalla legge e nelle forme, quali che siano, da questa stabiliti. In questo senso – lato, o debole, o formale – il principio è alla base di tutti gli ordinamenti giuridici moderni, anche i più illiberali, nei quali i pubblici poteri hanno una fonte o una forma legale, dalle quali è condizionata la validità del loro esercizio23. Nel secondo significato, che suppone la positività richiesta dal primo, il principio di legalità esprime la prima garanzia contro l’arbitrio: è diritto valido tutto e solo quello prodotto tramite l’esercizio di poteri altresì subordinati alla legge, non solo quanto alle forme ma anche quanto ai contenuti del loro esercizio. In questo senso – stretto, o forte, o sostanziale – il principio è alla base di quei soli ordinamenti nei quali anche il potere legislativo è subordinato a limiti e a vincoli sostanziali quali quelli ad esso imposti dalla costituzione24. Non è peraltro inutile precisare che il senso “stretto” o “forte” o “sostanziale” dello stato di diritto non coincide con quello di “stato costituzionale di diritto”, essendo il primo non equivalente, bensì più esteso del secondo. Sono infatti “di diritto in senso stretto” o “forte” anche quegli ordinamenti, non riconducibili né al paradigma legislativo né al paradigma costituzionale dello stato

23   È il significato lato o debole di stato di diritto, corrispondente all’uso tedesco di Rechtsstaat, in base al quale sono stati di diritto tutti gli ordinamenti nei quali i poteri hanno una fonte legale. In questo senso, scrive Kelsen, “ogni Stato deve essere uno stato di diritto, nel senso che ogni Stato è un ordinamento giuridico” (Kelsen, La dottrina pura cit., cap. VI, e, p. 345); e poco prima: “se si riconosce lo Stato come ordinamento giuridico, ogni Stato è uno stato di diritto e questo termine diviene pleonastico” (ivi, c, p. 345). 24   Su questi due significati del principio di legalità – il principio di legalità formale o di mera legalità e il principio di legalità sostanziale o di stretta legalità – e sui due correlativi significati di “stato di diritto”, rinvio a Diritto e ragione cit., § 1, pp. 5-8, § 28, pp. 368-377, § 57, pp. 895-898; a PiI, § 8.5, pp. 432-436, §§ 9.1-9.2, pp. 485-498, §§ 9.7-9.9, pp. 514-524, § 9.17, p. 567, e a Lo stato di diritto tra passato e futuro, in Lo stato di diritto. Storia, teoria, critica, a cura di P. Costa e D. Zolo, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 349-386. È evidente che nel secondo di questi due significati, come scrisse Elias Diaz nella prima pagina del suo Estado de derecho y sociedad democratica (1966), Cuadernos para el dialogo, Madrid 1975, p. 13, “non ogni Stato è uno stato di diritto [...]. L’esistenza di un ordine giuridico, di un sistema di legalità, non autorizza a parlare senz’altro di stato di diritto [...]. Lo stato di diritto è lo Stato sottomesso alla legge, o meglio lo Stato il cui potere e la cui attività sono regolati e controllati dalla legge. Consiste, fondamentalmente, nell’impero della legge”.

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di diritto, nei quali la legge è però, di fatto, sottoposta a principi normativi sostanziali quali le libertà fondamentali e la separazione dei poteri. È il caso dell’esperienza inglese del rule of law, nella quale quei principi sono radicati storicamente, socialmente e culturalmente nella tradizione giuridica e nel comune senso civico e che perciò, benché priva di una formale costituzione ed anzi estranea alle vicende giuridiche dello Stato moderno, ha ispirato l’intera vicenda dello stato di diritto nel continente europeo25. Il nesso biunivoco oggi pressoché generalizzato tra stato di diritto in senso forte e costituzionalismo giuridico risiede nel fatto che le costituzioni rigide hanno positivizzato quei principi politici in norme giuridiche di rango costituzionale, affidandone l’effettività non già semplicemente al loro spontaneo rispetto da parte di giudici e legislatori, ma anche al controllo giurisdizionale di costituzionalità sulle loro violazioni. La legalità, che nel primo significato, mero o lato, è solo condizionante, quale che sia, del valido esercizio dei pubblici poteri, è così divenuta, nel secondo significato, stretto o forte, anch’essa condizionata, quale legalità a sua volta valida o legittima, dal rispetto e dall’attuazione delle norme costituzionali e dei diritti in esse stabiliti. Il costituzionalismo giuridico ha così soppresso l’ultima forma di governo degli uomini che nel vecchio paradigma legislativo si manifestava nell’onnipotenza del legislatore. 25   “Propriamente parlando”, ha scritto Giovanni Sartori, “non c’è ‘Stato’ di rule of law. La rule of law non postula lo Stato; postula, piuttosto, un diritto extra-statuale, autonomo: il diritto comune, il case law, insomma il diritto dei giudici e dei giuristi. Dunque, c’è rule of law anche, e soprattutto, ‘senza Stato’; o, più esattamente, senza che lo Stato avochi a sé la produzione del diritto. E basta dir questo per capire quanto la concezione inglese di stato di diritto (o meglio la concezione che ne viene erroneamente attribuita agli inglesi) sia diversa e lontana – nonostante le apparenze – dalla concezione continentale: e cioè dallo stato di diritto inteso come stato costituzionale di tipo garantista” (G. Sartori, Nota sul rapporto tra Stato di diritto e Stato di giustizia, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1964, fasc. I-II, pp. 310-311). Va ricordato, del resto, che una concezione analoga del diritto quale insieme di principi giuridici tramandati dalla tradizione, e quindi distinto e più ampio della legge, fu sostenuta anche dalla pandettistica e recepita in Italia dalla dottrina giuspubblicistica: “La legge suppone già il sistema scientifico del diritto, e non è già il sistema giuridico che suppone la legge [...]. Il diritto precede alla legge: e le scienze giuridiche sono sistemi di principii di diritto, e non già commento di legislazioni positive”, scrisse ad esempio V.E. Orlando, Principii di diritto amministrativo (1888), Barbera, Firenze 1915, p. 4.

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C’è poi un secondo nesso, strumentale e non meno importante, pur se di solito trascurato, che lega il positivismo giuridico vecchio e nuovo e la democrazia. Per comprendere questo nesso, è necessario chiarire che il paradigma costituzionale, non meno del paradigma legislativo, è un paradigma formale26, cioè un modello teorico – formale tanto da essere formalizzabile, quale semplice sintassi, in sede di teoria del diritto – che di per sé non dice nulla sui suoi concreti contenuti normativi. “Nello stampo della legalità”, scrisse Piero Calamandrei, “si può calare oro o piombo”27. E lo stesso si dica della costituzione, che è semplicemente un insieme di norme, qualunque esso sia, sopraordinato a ogni altra fonte normativa28. Per questo, né il positivismo giuridico né il costituzionalismo, né il paradigma legislativo né il paradigma costituzionale implicano la democrazia, e neppure sono da questa implicati: perché entrambi sono paradigmi teorici formali, in quanto tali compatibili, in astratto, anche con sistemi politici non democratici. Non implicano né sono implicati, del resto, neppure dallo stato di diritto nel senso forte o sostanziale più sopra illustrato, se con “sostanziale” si fa riferimento non già a qualunque contenuto normativo sopraordinato alla legislazione ma alle classiche libertà fondamentali o ai diritti sociali alla salute o all’istruzione. Possono ben darsi, infatti, non soltanto leggi, ma anche costituzioni, cioè testi normativi sopra-ordinati a qualunque altra fonte, di tipo illiberale e antidemocratico. È questa la differenza del paradigma

26   Il termine “formale”, è bene precisare, è qui usato come predicato metateorico della teoria del diritto, nonché dei modelli, delle tesi e dei concetti teorici: cioè per designare, come meglio si dirà nei §§ 2.8 e 2.9 e in particolare nella nota 35 del prossimo capitolo, le forme e le strutture dei sistemi giuridici, indipendentemente dai loro concreti contenuti normativi nei diversi ordinamenti; in un senso, perciò, del tutto diverso da quello in cui esso viene (ed è stato fin qui) usato, con riferimento alla “forma” di produzione degli atti giuridici linguistici in opposizione alla loro “sostanza” o “contenuto” o “significato prescrittivo”, in espressioni come “atti formali”, “validità formale”, “invalidità formale”, “norme formali (o procedurali) sulla produzione normativa” (cfr. PiI, cap. IX), “democrazia formale (o politica)” (cfr. PiII, capp. XIII e XIV), in opposizione alla dimensione sostanziale sia della validità che della democrazia. 27   P. Calamandrei, Prefazione, in C. Beccaria, Dei delitti e delle pene (ed. di Livorno del 1766), Le Monnier, Firenze 1945, p. 92. 28   È questa la nozione strutturale o formale di ‘costituzione’ formulata nella prima parte della definizione D12.22, in PiI, § 12.10, pp. 891-893.

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costituzionale e legislativo dello stato di diritto rispetto al rule of law, che invece incorpora principi di giustizia sostanziale sedimentatisi nella sua tradizione secolare quali limiti al dispotismo politico – al di là e magari contro il diritto prodotto dallo Stato – e che perciò conserva, sotto questo aspetto, un tratto caratteristico del vecchio paradigma giurisprudenziale29. E tuttavia, grazie alla positivizzazione delle norme formali e delle norme sostanziali sulla produzione giuridica e al conseguente carattere artificiale delle une e delle altre, è stato possibile innestare, nei due paradigmi dello stato di diritto, forme e contenuti democratici. È questa una tesi teorica puramente descrittiva, indipendente dalle opzioni filosofiche di tipo giuscostituzionalista, o giuspositivista o giusnaturalista, e dalle opzioni politiche di tipo liberale o illiberale, democratico o antidemocratico. Essa ci dice semplicemente che la formulazione in norme di diritto positivo delle norme sulla produzione giuridica è la tecnica mediante la quale sono stipulate le forme e i contenuti cui sono vincolate le norme prodotte, e quindi, in particolare, anche le forme della democrazia politica o formale, come la rappresentanza popolare e   Come scrive Gianluigi Palombella, “il rule of law implica l’idea della limitazione del potere materiale degli uomini”, essendo basato, anziché sulla “supremazia dello Stato” propria dell’esperienza continentale dello stato di diritto, sulla “centralità del diritto” come limite all’arbitrio politico, e perciò sul ruolo della jurisdictio, la quale “incorpora di fatto quel lato del diritto positivo la cui sostanza ha a che fare con il ‘giusto’”: G. Palombella, È possibile una legalità globale? Il rule of law e la governance del mondo, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 35, 49. È su questa base che Palombella sostiene la tesi, su cui tornerò criticamente nel § 5.1, della maggiore “capacità del modello di rule of law di essere praticabile oltre lo Stato”: ivi, p. 64. Questo modello, al di là della forma statale degli ordinamenti, conserva infatti un’intrinseca dimensione di giustizia sostanziale secondo la nozione formulatane oltre un secolo fa da Albert Venn Dicey: il rule of law, affermò Dicey, “esclude l’esercizio dell’arbitrio, della prerogativa e perfino di ampie potestà discrezionali da parte del governo [...]. Il suo significato è eguaglianza di fronte alla legge [...]. Le regole che in alcuni paesi stranieri sono per loro natura parte di un codice costituzionale, configurano non la fonte bensì la conseguenza dei diritti individuali così come essi sono definiti e garantiti dalle corti di giustizia” (A.V. Dicey, Introduzione allo studio del diritto costituzionale. Le basi del costituzionalismo inglese [1885], trad. di A. Torre, Il Mulino, Bologna 2003, p. 168). Sulla sostanza morale del rule of law si veda anche, da ultimo, G. Cogliandro, Rule of law. La possibilità del contenuto morale del diritto, Giuffrè, Milano 2012. 29

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la separazione dei poteri, nonché i contenuti della democrazia costituzionale o sostanziale, come il principio di uguaglianza e i diritti fondamentali: la tecnica, in breve, mediante cui sono state democratizzate, storicamente, le regole che disciplinano sia le forme di produzione che la sostanza del diritto prodotto. Non solo. Il primo giuspositivismo, basato sul primato della legge, ha reso possibile alla legislazione la positivizzazione delle garanzie dei diritti fondamentali, cioè la loro stipulazione in norme di diritto positivo. Il secondo giuspositivismo, basato sul primato della costituzione e sulla subordinazione ai diritti in essa stabiliti della stessa produzione legislativa, ha reso obbligatoria la positivizzazione delle medesime garanzie mediante la loro imposizione allo stesso diritto positivo. Le garanzie dei diritti fondamentali, che nel primo positivismo sono introdotte autonomamente dalla legislazione in accordo con principi di giustizia politici o esterni, sono state insomma imposte dalla costituzione, che ha trasformato tali principi politici in principi giuridici o interni. Precisamente, se grazie al primo positivismo giuridico è stato possibile, con l’introduzione del suffragio universale nell’elezione degli organi legislativi e di governo, affidare il chi e il come della produzione normativa a soggetti politicamente rappresentativi, grazie al secondo positivismo è stato vincolato il che cosa delle norme prodotte alla garanzia degli interessi e dei bisogni vitali dei soggetti rappresentati. La collocazione gerarchica della costituzione al di sopra della legislazione equivale infatti alla normatività della prima nei confronti della seconda, che a sua volta equivale, a causa del carattere linguistico di entrambe, al dover essere logico, oltre che giuridico, della coerenza e della completezza della seconda rispetto alla prima. L’antico, ricorrente contrasto tra ragione e volontà, tra legge della ragione e legge della volontà, tra diritto naturale e diritto positivo, tra Antigone e Creonte, che fin dall’antichità attraversa l’intera filosofia giuridica e politica e corrisponde all’antico e parimenti ricorrente dilemma e contrasto tra il governo delle leggi e il governo degli uomini, è stato così in gran parte risolto dalle odierne costituzioni rigide con la positivizzazione della “legge della ragione”, sia pure storicamente determinata e contingente, nella forma dei principi e dei diritti fondamentali in esse stipulati quali limiti e vincoli alla “legge della volontà”, che in democrazia è la legge del numero espressa dal principio

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di maggioranza30. È in questo che consiste il completamento del positivismo giuridico prodotto dal costituzionalismo: nella positivizzazione non più solo dell’essere ma anche del dover essere del diritto; non più solo delle sue forme di produzione ma anche delle scelte che la sua produzione deve rispettare ed attuare. Ciò non vuol dire affatto che venga meno la separazione tra diritto e morale che del positivismo giuridico forma il tratto distintivo. Antigone conserva la sua autonomia, quale portatrice del punto di vista morale e politico irriducibilmente esterno, critico e progettuale nei confronti del diritto vigente, incluso il suo contingente dover essere costituzionale. Certamente, con la trasformazione delle leggi di ragione, da essa volta a volta rivendicate, in norme costituzionali di diritto positivo, il divario tra il diritto e il senso corrente della giustizia si è ridotto. Ma il divario è destinato a riaprirsi con l’emergere di nuove istanze di giustizia e, di nuovo, a ridursi con la conquista di nuovi diritti, e perciò con il progresso storico del costituzionalismo. La democrazia costituzionale è il prodotto dell’integrazione di queste due dimensioni, quella formale e quella sostanziale, della democrazia, che, come vedremo nel quarto capitolo, sono oggi ambedue in crisi. Per comprenderne la complessità strutturale, è ora opportuno sottoporre ad analisi entrambe queste dimensioni generate, quali altrettanti mutamenti di paradigma, l’una dal primo giuspositivismo dello stato legislativo di diritto e l’altra dal secondo giuspositivismo dello stato costituzionale di diritto. 1.4. Il primo giuspositivismo e la dimensione politica o formale della democrazia. Aporie e fallacie nelle concezioni soltanto formali della democrazia  La dimensione formale della democrazia innestata nel paradigma legislativo consiste essenzialmente in un metodo di formazione delle decisioni politiche: precisamente, nell’insieme delle regole del gioco che attribuiscono al popolo o alla maggioranza dei suoi membri il potere, diretto o tramite rappresentanti, di assumere tali decisioni. È questa la concezione della democrazia tout court che ac30   Per una più ampia discussione della questione, rinvio a El constitucionalismo garantista entre paleo-juspositivismo y neo-jusnaturalismo cit., § 4, pp. 330336, in risposta agli interventi su «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho» (34, 2011) di Josep Aguiló Regla, Giorgio Pino e Francisco Laporta.

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comuna l’intera storia del pensiero politico: dalla classica tripartizione introdotta da Platone nel Politico e ripresa da Aristotele31 all’idea rousseauviana della volontà generale32, fino alle odierne teorie della democrazia rappresentativa, da Kelsen a Bobbio, da Schumpeter a Popper e a Waldron33. Ho illustrato più volte le ragioni e le aporie che a mio ­parere rendono insufficiente questa concezione solamente politica o formale della democrazia34: la sua mancanza di portata empirica a causa della sua inidoneità a dar conto delle odierne democrazie costituzionali, nelle quali il potere del popolo o dei suoi rappresentanti non è affatto illimitato ma è sottoposto ai limiti e ai vincoli di contenuto imposti dai diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti; la necessità di tali limiti e vincoli, a cominciare dai diritti di libertà, quali condizioni della stessa effettività della democrazia politica, cioè della formazione di una volontà degli elettori consapevole e informata; il fatto infine che tali limiti sono una garanzia di sopravvivenza della stessa democrazia politica, la quale in loro 31   “Terza forma di costituzione non è forse il governo della massa, che ha nome ‘democrazia’?”: Platone, Politico, 291d, in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2008, p. 349; “È necessario che sovrano sia o uno solo, o pochi, o i molti”: Aristotele, Politica. Costituzione degli ateniesi, a cura di R. Laurenti, Laterza, Bari 1972, 1279a, p. 146. 32   J.-J. Rousseau, Del contratto sociale (1762), trad. di R. Mondolfo, in Id., Opere, a cura di P. Rossi, Firenze, Sansoni 1972. 33   Si vedano: H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia (1929), trad. di G. Melloni, in Id., La democrazia, Il Mulino, Bologna 1981; Id., Teoria generale del diritto e dello Stato cit., parte II, cap. IV, B, pp. 289-308; K. Popper, La società aperta e i suoi nemici (1945), trad. di D. Antiseri, Armando, Roma 1973; J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia (1954), trad. di E. Zuffi, Edizioni di Comunità, Milano 1955; G. Sartori, Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna 1957; N. Bobbio, Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Einaudi, Torino 1984; Waldron, Principio di maggioranza e dignità della legislazione cit.; M. Bovero, Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2000. Si vedano anche le critiche che in base a questa concezione mi sono state rivolte da: M. Bovero e A. Pintore, nel mio Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari 2001 (cui ho replicato ivi, cap. III, § 6, pp. 318-331); P. Salazar Ugarte, P. de Lora, A. Greppi e, pur se in termini problematici, A. Ruiz Miguel in M. Carbonell, P. Salazar (a cura di), Garantismo. Estudios sobre el pensamiento juridico de Luigi Ferrajoli, Trotta, Madrid 2005 (cui ho risposto nel libro Garantismo. Una discusión sobre el derecho y la democracia, trad. sp. di A. Greppi, Trotta, Madrid 2006, cap. VI). 34   Nei lavori richiamati supra, nella nota 2.

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mancanza può essere manomessa dall’onnipotenza delle maggioranze, come hanno dimostrato il fascismo e il nazismo del secolo scorso che conquistarono il potere con mezzi legali e formalmente democratici e poi soppressero la democrazia. Qui intendo sottolineare due fallacie ideologiche che di solito accompagnano questa concezione solo formale e che consistono entrambe in un’indebita connotazione assiologica associata alle forme della democrazia politica: da un lato la giustizia, cioè l’idea che il potere del popolo sia un potere buono e giusto e, dall’altro, l’autogoverno che da tali forme risulterebbe garantito. La prima di queste due tesi attraversa gran parte della storia del pensiero democratico: dall’apologia della democrazia diretta formulata da Protagora nell’omonimo dialogo di Platone35, all’argomento di Aristotele sulle molteplici e perciò superiori intelligenze che concorrono nelle decisioni36, fino alla tesi di Rousseau­sulla volontà generale come volontà “sempre retta” e rivolta “all’utilità pubblica”37, sostanzialmente ripresa da Kant, secondo il quale tale 35   “Gli ateniesi, e anche gli altri, allorché sia in questione l’abilità dell’arte di costruire o di qualche altra arte, ritengono che pochi debbano prender parte alle deliberazioni. E se qualcuno che non sia di questi pochi vuol dare consigli, non lo sopportano, come tu dici: e a buona ragione, dico io. Ma quando si radunano in assemblea per questioni che riguardano la virtù politica, e si deve quindi procedere esclusivamente secondo giustizia e temperanza, è naturale che essi accettino il giudizio di chiunque, convinti che tutti, di necessità, partecipino di questa virtù, altrimenti non esisterebbe la città”: Platone, Protagora, 323a, in Id., Tutti gli scritti cit., p. 820. 36   Aristotele, Politica cit., 1281b, pp. 154-155: “Che la massa debba essere sovrana dello Stato a preferenza dei migliori, che pur sono pochi, sembra si possa sostenere: implica sì delle difficoltà, ma forse anche la verità. Può darsi in effetti che i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si raccolgano insieme sia­ no superiori a loro, non presi singolarmente ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e come quando si raccolgono insieme, in massa, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d’intelligenza”. 37   “La volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica”: Rousseau, Del contratto sociale cit., lib. II, cap. III, p. 290. Ma si ricordi anche questo passo inquietante: “Da sé il popolo vuole sempre il bene, ma non sempre lo vede da sé. La volontà generale è sempre retta, ma il giudizio che la guida non sempre è illuminato. Bisogna farle vedere gli oggetti come sono, e talvolta come le debbono apparire, mostrare il buon cammino che cerca, proteggerla dalla seduzione delle volontà particolari, ravvicinare ai suoi occhi i luoghi e i

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volontà non può “recare ingiustizia” né “fare torto a nessuno”38. Certamente questo principio ribalta la svalutazione o peggio il disprezzo nei confronti del popolo e, conseguentemente, il giudizio negativo sulla forma di governo democratica che accomunano gran parte del pensiero politico39. Certamente, inoltre, in paesi di solide tradizioni liberali e democratiche l’idea della maggiore “saggezza” della moltitudine in opposizione a quella di una singola persona o di un’élite, già sostenuta da Aristotele, può essere invocata a sostegno della dignità della legislazione prodotta con metodo democratico40. Tuttavia quel principio resta un non sequitur. Leggi ingiuste oltre che indegnamente incostituzionali possono ben essere emanate dalle maggioranze, come attesta l’attività quotidiana delle corti costitutempi, far contrappeso all’attrattiva dei vantaggi presenti e sensibili col pericolo dei mali lontani e nascosti. I singoli privati veggono il bene che respingono; il pubblico vuole il bene che non vede. Tutti ugualmente han bisogno di guida. Bisogna obbligare gli uni a conformare la loro volontà alla loro ragione; bisogna insegnare all’altro a conoscere ciò che vuole [...]. Ecco da che nasce la necessità di un legislatore” (ivi, lib. II, cap. VI, pp. 295-296). 38   Si ricordino questi passi di Kant che richiamano apertamente Rousseau: “Il potere legislativo può spettare soltanto alla volontà collettiva del popolo. Infatti, siccome è da questo potere che devono provenire tutti i diritti, esso non deve assolutamente poter recare ingiustizia a qualcuno colle sue leggi. Ora è sempre possibile, quando alcuno decide qualche cosa contro un altro, che egli commetta contro di lui un’ingiustizia; ma non la commette mai, però, in ciò che egli decide riguardo a se stesso (perché volenti non fit iniuria)” (I. Kant, Principi metafisici della dottrina del diritto [1797], in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, trad. di G. Solari e G. Vidari, Utet, Torino 1965, § 46, p. 500); “Una legge pubblica, che determina per tutti ciò che a loro dev’essere giuridicamente lecito o illecito, è l’atto di una volontà pubblica da cui deriva tutto il diritto, e che quindi non deve poter fare torto a nessuno. Ma ciò non è possibile ad altra volontà che non sia quella del popolo intero (in cui tutti deliberano su tutti e quindi ognuno sopra se stesso), poiché solo a sé non si può far torto” (I. Kant, Sopra il detto comune: ‘questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica’ [1793], II, in Id., Scritti cit., p. 259). Si vedano inoltre i passi kantiani riportati infra nella nota 41. 39   Cfr. N. Bobbio, La regola di maggioranza: limiti e aporie (1981), in Id., Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Einaudi, Torino 1999, p. 384. Basti ricordare la connotazione negativa associata da Platone alla democrazia nell’VIII libro della Repubblica. Ma si veda l’ampia rassegna di valutazioni negative del demos nella storia del pensiero politico non solo conservatore o reazionario, ma anche liberale, offerta da V. Pazé, In nome del popolo. Il problema democratico, Laterza, Roma-Bari 2011, parte prima. 40   Cfr. Waldron, Principio di maggioranza e dignità della legislazione cit., cap. V, pp. 113-146, che richiama e commenta il passo di Aristotele, qui riportato nella nota 36.

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zionali negli ordinamenti che dispongono di questa giurisdizione. Ma, soprattutto, l’illusione di una cosiddetta volontà generale come volontà buona non sottoposta a limiti legali – di nuovo, l’idea del governo degli uomini in luogo del governo delle leggi – è stata tragicamente smentita dai totalitarismi del Novecento, che certamente godettero di un consenso maggioritario e furono essi stessi il frutto di un suicidio delle democrazie. E torna purtroppo a riproporsi, come in questi anni abbiamo sperimentato in Italia, nella demagogia populista e nel senso comune. Esclusa ogni connotazione sostanziale della volontà popolare come volontà giusta e di qualunque potere, pur se democratico, come potere buono, domandiamoci allora se sia quanto meno sostenibile, quale fondamento assiologico della dimensione formale o procedurale della democrazia, la sua seconda connotazione sopra ricordata, quella che la caratterizza come “auto-nomia”, o “auto-governo” o “auto-determinazione” popolare, ossia come libertà positiva del popolo di non essere soggetto ad altre decisioni, e quindi ad altri limiti o vincoli, che non siano quelli deliberati da se medesimo. È anche questa una classica tesi, sostenuta da Rousseau e ripresa da Kant41. Ma è anche la tesi sostenuta da Hans Kelsen: “politicamente libero”, scrive Kelsen, “è colui che è soggetto a un ordinamento giuridico alla cui creazione partecipa. Un individuo è libero se ciò che egli ‘deve’ fare secondo l’ordinamento sociale coincide con ciò che egli ‘vuole’ fare. Democrazia significa che la ‘volontà’ che è rappresentata nell’ordinamento giuridico dello Stato è identica alle volontà dei sudditi. Il suo opposto è la soggezione dell’autocrazia”42. Kelsen ammette che “democrazia ed autocrazia, quali sono state ora definite, non

41   Si ricordi la nozione rousseauviana di libertà come “l’obbedienza alla legge che noi stessi ci siamo prescritta” (Rousseau, Del contratto sociale cit., lib. I, cap. 8, p. 287), ripresa da Kant: “Meglio è definire la mia libertà esterna (cioè giuridica) come la facoltà di non obbedire ad altre leggi esterne, se non a quelle cui io ho potuto dare il mio assenso” (I. Kant, Per la pace perpetua [1795], sez. II, in Scritti cit., p. 292, nota); “la libertà legale [è] la facoltà di non obbedire ad altra legge, che non sia quella a cui essi [i cittadini] han dato il loro consenso” (Id., Principi metafisici della dottrina del diritto [1797], ivi, § 46, p. 500). 42   Kelsen, Teoria generale del diritto cit., parte II, IV, A, b, p. 289. “Il principio di maggioranza, e pertanto l’idea di democrazia, è una sintesi delle idee di libertà e di eguaglianza”: ivi, B, b, 3, p. 292.

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descrivono effettivamente determinate costituzioni storiche, ma rappresentano piuttosto dei tipi ideali. Nella realtà politica non vi è alcuno Stato che si conformi completamente all’uno o all’altro di questi tipi ideali”43. E ripiega perciò su di una fondazione quantitativa della democrazia politica quale massimizzazione della libertà politica assicurata dal principio di maggioranza: “l’idea che sta alla base del principio di maggioranza è che l’ordinamento sociale deve essere in accordo con quanti più soggetti possibile, e in disaccordo con quanti meno sia possibile. Poiché la libertà politica significa un accordo fra la volontà individuale e la volontà collettiva espressa nell’ordinamento sociale, il principio di maggioranza semplice è quello che assicura il più alto grado di libertà politica possibile nella società”44. Ma anche questa è una raffigurazione illusoria. Come ha osservato lo stesso Kelsen, nella democrazia rappresentativa il voto popolare contribuisce soltanto all’elezione di chi è chiamato a decidere, ma non ha nulla a che vedere con le decisioni degli eletti45. Il popolo, nella democrazia rappresentativa, non decide nulla nel merito delle questioni politiche. Decide solo, nelle forme e nella mi-

  Ivi, A, b, p. 289.   Ivi, B, b, 2, pp. 291-292. “Il massimo grado di libertà possibile, e cioè la maggiore approssimazione possibile all’ideale di autodeterminazione che sia compatibile con l’esistenza di un ordinamento sociale, è garantito dal principio che un mutamento dell’ordinamento sociale richiede il consenso della maggioranza semplice di coloro che vi sono soggetti”: ivi, p. 291. La stessa tesi quantitativa era stata formulata da Kelsen in Essenza e valore della democrazia cit., p. 46, ove il principio di maggioranza era stato fondato sull’“idea che, se non tutti gli individui, almeno il più gran numero di essi sono liberi, il che vale a dire che occorre un ordine sociale che sia in contrasto col più piccolo numero di essi”. Il surplus di legittimazione che proviene alla dimensione politica della democrazia da questa sua concezione come autodeterminazione è forse alla base, come si vedrà nel § 2.9, della contrarietà o almeno della diffidenza di Kelsen (e di altri sostenitori del primato della legislazione come autogoverno) nei confronti dell’incorporazione nelle costituzioni di diritti fondamentali quali parametri del controllo costituzionale sulle leggi. 45   L’idea che i rappresentanti esprimano la volontà degli elettori, secondo Kelsen, è “una finzione” e un’“ideologia politica” che ha lo scopo “di nascondere la situazione reale, di mantenere l’illusione che il legislatore sia il popolo, nonostante il fatto che, in realtà, la funzione del popolo – o, formulata più esattamente, del corpo elettorale – sia limitata alla creazione dell’organo legislativo”: Kelsen, Teoria generale del diritto cit., B, g, p. 296. 43 44

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sura in cui lo consentono le leggi elettorali, chi saranno coloro che decideranno. Non a caso il divieto del mandato imperativo46, ben più che un connotato accidentale, è tutt’uno con la nozione stessa di democrazia rappresentativa, non essendo neppure possibile prefigurare, al momento delle elezioni, le decisioni che saranno prese dagli eletti. Anche nella democrazia diretta, d’altro canto, si decide comunque a maggioranza, e chi resta in minoranza risulta subordinato alla volontà eteronoma della maggioranza. La sola ipotesi di effettiva autodeterminazione popolare si avrebbe in una democrazia diretta in cui tutte le decisioni fossero prese all’unanimità. Ma questo tipo di unanimismo, ove fosse verosimile, farebbe supporre una ben più grave distruzione dello spirito pubblico: l’omologazione ideologica e la fine del pluralismo e del conflitto politico e perciò proprio della libertà47. Ciò che caratterizza la democrazia, infatti, è non tanto il libero consenso, quanto il libero dissenso. Ma allora anche l’idea della democrazia politica come “autogoverno” è un’idea fallace. La tesi classica secondo cui essa consisterebbe, come scrissero Rousseau e Kant, nel non obbedire ad altre leggi che a quelle che noi stessi ci siamo prescritte, o anche, come scrisse Kelsen, nell’accordo più ampio possibile fra volontà individuale e volontà collettiva è una tesi chiaramente ideologica, che allude a un’ipotesi che nel migliore dei casi è inverosimile e nel peggiore è illiberale. Possiamo ben caratterizzare i diritti politici come ‘diritti di autonomia politica’48. Ma è chiaro che “autonomia” non

46   Stabilito ad esempio dall’art. 67 della Costituzione italiana: “Ogni membro del parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Il divieto del mandato imperativo fu formulato per la prima volta dalla Costituzione francese del 3 settembre 1791: “I rappresentanti eletti nei dipartimenti non saranno rappresentanti di un dipartimento particolare, ma dell’intera Nazione e non potrà essere dato loro nessun mandato” (art. 7 della sezione III, del capitolo I, del titolo III). 47   “Spesso, purtroppo”, scrive Bobbio, “le maggioranze sono formate non dai più liberi ma dai più conformisti. Di regola, anzi, tanto più alte sono le maggioranze, specie quelle che sfiorano l’unanimità, tanto più sorge il sospetto che l’espressione del voto non sia stata libera. In questo caso la regola della maggioranza ha prestato tutti i servigi che le si possono chiedere ma la società di cui essa è lo specchio non è una società libera”: Bobbio, La regola di maggioranza cit., p. 391. 48   Così li ho chiamati nella definizione D11.17 in PiI, § 11.4, pp. 744-747, dimostrandone, con la tesi T11.72, ivi, p. 743, l’equivalenza con i ‘diritti politici’.

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designa affatto, in questa espressione, l’autogoverno politico, ossia la soggezione alle leggi prodotte da se medesimi. Le leggi, tutte le leggi, restano pur sempre eteronome, anche per la maggioranza che direttamente o indirettamente le ha votate. Ne consegue che il solo significato che può essere associato all’“autonomia” assicurata dai diritti politici è la libera autodeterminazione di ciascuno che tramite il voto si manifesta, oltre che nella partecipazione alla scelta dei rappresentanti, nel consenso e ancor più nel dissenso nei confronti delle loro decisioni; nella libera adesione, ma anche, e più ancora, nella libera opposizione; nella condivisione, ma anche nella critica e nel conflitto politico da essa legittimamente generato. Il solo fondamento assiologico della dimensione formale della democrazia è insomma la rappresentanza di tutti i governati resa possibile dall’uguaglianza politica, tramite il suffragio universale, in quella specifica classe di diritti che è formata dai diritti politici: che è un fondamento non diverso da quello dell’uguaglianza in tutti gli altri diritti fondamentali nella quale risiede, come si vedrà nel prossimo paragrafo, la dimensione sostanziale o costituzionale della democrazia. Non dimentichiamo che fino ancora alla prima metà del secolo scorso, quando tale uguaglianza è stata finalmente riconosciuta, la democrazia non è stata un valore condiviso. La stessa idea di “autonomia”, quale fondamento del suffragio ristretto, è stata associata anche dal pensiero liberale più illuminato, a causa del rifiuto da esso opposto al principio di uguaglianza, unicamente ai cittadini istruiti e/o proprietari perché considerati i soli capaci di autentica autodeterminazione49. È stato quindi il   Pazé, In nome del popolo cit., pp. 28-29. “Tutti i cittadini”, scrisse Montesquieu, “devono avere il diritto di dare il loro voto per scegliere il rappresentante, eccettuati quelli che sono di così bassa condizione che si ritiene non abbiano volontà propria”: Ch. Montesquieu, Lo spirito delle leggi (1748), trad. di S. Cotta, Utet, Torino 1952, II, lib. XI, cap. VI, p. 281. E Kant: “Colui che ha il diritto di voto in questa legislazione si chiama cittadino [...]. La qualità che a ciò si esige, oltre a quella naturale (che non sia un bambino, né una donna), è questa unica: che egli sia padrone di sé (sui iuris) e quindi abbia una qualche proprietà [...] che gli procuri i mezzi per vivere; e ciò nel senso che, nei casi in cui per vivere deve acquistare beni da altri, egli li acquisti solo mediante alienazione di ciò che è suo e non per concessione che egli faccia a altri dell’uso delle sue forze; quindi che egli non serva nel senso proprio della parola a nessun altro che alla comunità” (Kant, Sopra il detto comune cit., II, pp. 260-261). Si veda tuttavia, sui percorsi attraverso i quali l’idea della democrazia come valore 49

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valore connesso all’uguaglianza, a sua volta associato a quello della dignità della persona in quanto tale, che ha determinato il mutamento, da negativo in positivo, del giudizio sulla democrazia. Suffragio universale e principio di maggioranza si sono così affermati come il metodo più d’ogni altro democratico di selezione dei governanti, cioè di coloro che producono le regole eteronome cui tutti sono ugualmente sottoposti: perché consentono che a tale selezione concorrano in condizioni di uguaglianza tutti i governati in quanto tutti ad essa parimenti interessati; perché favoriscono il pluralismo politico, nonché il conflitto tra opzioni e concezioni diverse degli interessi generali; perché accordano rappresentanza al dissenso e lasciano spazio all’organizzazione dell’opposizione politica e sociale; perché consentono una qualche forma di controllo popolare e di responsabilità dei rappresentanti, sia pure solo attraverso la loro non rielezione, e le possibili alternative di governo; perché infine, congiuntamente ai diritti di libertà, valgono a promuovere la partecipazione popolare e lo sviluppo del dibattito e dell’opinione pubblica da cui sono condizionate sia la formazione delle maggioranze che le loro concrete decisioni. Naturalmente la realizzazione più o meno soddisfacente di questi valori e di queste funzioni dipende in gran parte dalle leggi elettorali, che sono le leggi di attuazione e garanzia dei diritti politici. L’importante è che si rifugga dalle due fallacie ideologiche qui rilevate e dal surplus di legittimazione impropria da esse prestato al potere politico: l’idea che la volontà politica espressa con metodo democratico sia buona e giusta e quella, non meno insidiosa, che essa consista nell’autogoverno del popolo. 1.5. Il secondo giuspositivismo e la dimensione costituzionale o sostanziale della democrazia. L’isomorfismo tra diritto e sistema politico  Dunque il metodo di formazione delle decisioni politiche basato sulla rappresentanza popolare per il tramite del suffragio universale designa e garantisce solo la forma democratica della sepositivo si venne affermando nel pensiero illuminista della fine del Settecento: D. Ippolito, Le dimensioni della ‘democrazia’: un itinerario meridionale tra illuminismo e repubblicanesimo, in A. Trampus (a cura di), Il linguaggio del tardo illuminismo. Politica, diritto e società civile, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2011, pp. 191-209.

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lezione dei governanti, ma non implica affatto che le decisioni prese dalla maggioranza abbiano una sostanza democratica. La forma rappresentativa degli organi legislativi e di governo, pur essendo una condizione necessaria della loro legittimazione politica e della dimensione formale della democrazia, non è sufficiente a garantire né la bontà delle decisioni politiche, né la loro corrispondenza alla (supposta) volontà popolare. Si aggiunga che la rappresentatività politica delle istituzioni elettive soffre oggi della crisi profonda che sarà illustrata nel quarto capitolo: per il venir meno del radicamento sociale dei partiti, per il loro discredito nella pubblica opinione, per la crescente personalizzazione e verticalizzazione dei sistemi politici, per la loro tendenziale subalternità ai poteri economici e finanziari, per lo sviluppo e il successo elettorale, come è avvenuto in Italia, di movimenti populisti, antiparlamentari e privi di democrazia interna. Proprio per questo è essenziale la dimensione sostanziale innestata nella democrazia politica dal paradigma costituzionale. Fu del resto sulla base della consapevolezza dell’insufficienza della dimensione solo formale a preservare la stessa democrazia politica che si affermò, nel secondo dopoguerra, il paradigma della democrazia costituzionale quale sistema di limiti e vincoli sostanziali – il principio di uguaglianza, la dignità della persona e i diritti fondamentali – alle decisioni di qualunque maggioranza. Proprio perché il metodo democratico non garantisce affatto tali limiti e vincoli di contenuto, si convenne la loro imposizione costituzionale al potere normativo delle contingenti maggioranze. Indubbiamente, connotati sostanziali di questo tipo, necessari per garantire lo stesso metodo democratico e i suoi svariati e complessi presupposti, sono stati teorizzati dalla filosofia politica liberale anche con riguardo allo stato legislativo di diritto. Ma, ripeto, lo sono stati come limiti politici o esterni, e non anche come limiti giuridici o interni. La democrazia costituzionale ha trasformato questi limiti politici in limiti e in regole giuridiche. È stata questa la grande innovazione del costituzionalismo europeo del secondo dopoguerra. Ne è risultato un paradigma complesso – la democrazia costituzionale – che accanto alla dimensione politica o formale include anche una dimensione che ben possiamo chiamare sostanziale, dato che riguarda la sostanza delle decisioni: ciò che da un lato è vietato e dall’altro è obbligatorio decidere, quali che siano le contingenti maggioranze.

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Questo mutamento di paradigma della democrazia e dello stato di diritto è avvenuto, come si è detto, con il cambiamento delle condizioni di validità – non più solo formali, ma anche sostanziali – della produzione legislativa50. Esiste infatti un nesso biunivoco tra il mutamento strutturale di tali condizioni e il mutamento strutturale della democrazia, generati entrambi dal paradigma del costituzionalismo rigido. Esiste, più in generale, un nesso isomorfico tra le condizioni giuridiche di validità – quali che siano, democratiche o non democratiche – e le condizioni politiche dell’esercizio legittimo del potere normativo: in breve, tra diritto e politica e tra teoria del diritto e teoria politica. È il nesso che fa della teoria politica un’interpretazione semantica, appunto teorico-politica, dell’apparato concettuale elaborato dalla teoria del diritto. La teoria del diritto, infatti, ci dice che cosa è la validità: non quali sono, o è giusto che siano, le condizioni della validità delle norme – che è quanto ci dicono le discipline giuridiche dei diversi ordinamenti e le diverse filosofie politiche della giustizia – ma che cosa sono tali condizioni. Ce lo dice, in quanto teoria pura o formale nel senso più sopra precisato, con la definizione del concetto di validità: è valida qualunque norma prodotta in un dato ordinamento in conformità e in coerenza con le norme formali e sostanziali, quali che siano, sulla sua produzione normativa. La teoria politica della democrazia ci dice invece quali devono essere, in democrazia, le forme e i contenuti appunto democratici della produzione normativa e in generale delle decisioni politiche. Ma la stessa cosa farebbe una teoria politica dell’autocrazia: l’identificazione delle forme autocratiche – ad esempio, il principio quod principi placuit legis habet vigorem, inteso ‘princeps’ quale organo autocratico dotato di potere assoluto e ‘vigorem’ nel senso di ‘validitatem’ – della produzione delle norme e più in generale delle supreme decisioni politiche. La democrazia costituzionale, nel suo modello garantista, si caratterizza dunque, rispetto alla democrazia solamente formale o politica, per l’imposizione giuridica ai poteri politici non solo delle forme delle decisioni, ma anche di quella che ho sopra 50   Cfr. Diritto e ragione cit., cap. XIII, pp. 895-909, 917, 926; Il diritto come sistema di garanzie, in «Ragion pratica», I, 1993, pp. 143-161; Diritti fondamentali cit., I, pp. 18-22, II, pp. 145-150 e III, pp. 318-332; PiI, cap. IX, §§ 9.10-11, pp. 530-542.

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chiamato la sfera di “ciò che non può” e di “ciò che deve essere deciso”, a garanzia dei diritti di libertà e dei diritti sociali costituzionalmente stabiliti. Ne consegue, in forza dell’isomorfismo tra diritto e sistema politico, un mutamento sia della nozione di validità che della nozione di democrazia, l’una e l’altra contrassegnate da una dimensione sostanziale in aggiunta alla dimensione formale propria del paradigma legislativo: sono sostanzialmente invalide e politicamente illegittime, pur se validamente prodotte nelle forme stabilite dalle norme formali sulla loro produzione, le norme in contrasto con i principi e i diritti stabiliti dalle norme sostanziali dettate dalla costituzione. Cambia conseguentemente il principio di legalità che, come ho già detto nel § 1.1, viene ad articolarsi in due principi: non più soltanto il principio di mera legalità o di legalità formale, in forza del quale la giurisdizione e le altre attività infra-legali sono subordinate alla legge quale che sia, ma anche il principio di stretta legalità o di legalità sostanziale, in forza del quale la validità sostanziale della legge medesima è subordinata alla compatibilità dei suoi contenuti con i principi e i diritti stabiliti dalle norme costituzionali51. Proprio l’isomorfismo che lega, sul piano teorico, la nozione giuridica di validità e la nozione politica di esercizio legittimo del potere impone insomma, negli odierni ordinamenti dotati di costituzione rigida, il riconoscimento, accanto alla dimensione formale o procedurale della democrazia, di una non meno importante dimensione sostanziale, generata dalle più complesse condizioni in essi richieste alla validità, relative non più solo al “chi” e al “come”, cioè alle forme della produzione normativa, ma anche al “che cosa”, cioè alla sostanza o al contenuto delle decisioni prodotte. Questa dimensione sostanziale, in aggiunta alla dimensione formale, così della validità come della democrazia, non ha nulla a che vedere con l’idea della volontà generale come volontà buona e giusta, ma semmai, al contrario, con la preoccupazione esattamente opposta che è ben possibile che tale volontà non sia né buona né giusta. Essa è stata innestata, nei nostri ordinamenti, dalla positivizzazione in costituzioni rigide, quali norme sostanziali sulla produzione legislativa, dei diritti fondamentali e di altri principi di giustizia, come

  Sono i due significati del principio di legalità distinti, supra, nella nota 24.

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il principio di uguaglianza, la dignità della persona e simili. Conseguentemente, diremo, nelle democrazie costituzionali continua ad essere vero che quod principi placuit legis habet vigorem, inteso ‘vigore’ nel senso di “esistenza”, ma non è più vero che esso abbia altresì validitatem, ben potendo accadere che una norma formalmente valida perché prodotta nelle forme normativamente previste sia tuttavia sostanzialmente invalida perché i suoi contenuti sono in contrasto con le norme costituzionali. Viene quindi meno, con il paradigma costituzionale, la vecchia coincidenza tra validità e vigore (o esistenza) delle norme, che è il tratto distintivo dello stato legislativo di diritto e un postulato del primo positivismo giuridico. Ma di nuovo, nel paradigma della democrazia costituzionale, possiamo registrare l’isomorfismo che anche in materia sostanziale lega validità e democrazia: i limiti e i vincoli sostanziali, cioè di contenuto, imposti dai diritti fondamentali alla volontà delle maggioranze, valgono infatti a condizionare la validità giuridica delle norme non più solo alle loro forme ma anche ai loro contenuti; non più solo alla loro conformità alle norme formali, ma anche alla loro coerenza con le norme sostanziali sulla loro produzione. Ed è chiaro che questa nuova dimensione sostanziale della validità retroagisce sulla struttura della democrazia e dell’esercizio democratico del potere, la cui legittimazione non è più solo politica o formale, cioè fondata solo sul suffragio universale e sul principio di maggioranza, ma anche legale o sostanziale, cioè fondata altresì sul rispetto e sull’attuazione delle norme costituzionali sostanziali52.

52   Non è inutile precisare, a scanso di equivoci, che anche i concetti di ‘validità sostanziale’ e di ‘norme sostanziali sulla produzione’ – come del resto di ‘diritti fondamentali’ – sono, al pari di quello di ‘validità formale’ e di tutte le altre nozioni della teoria del diritto, concetti “formali” nel senso metateorico, qui indicato nella nota 26, che essi non ci dicono quali sono o quali è giusto che siano i contenuti o la sostanza dettati dalle norme sostanziali come condizioni della validità sostanziale, ma solo che si tratta appunto di contenuti vincolanti per le fonti inferiori. Sarebbero norme sostanziali anche le norme costituzionali di un ordinamento totalitario che, ad esempio, imponessero una religione o un’ideologia di Stato e ne imponessero il rispetto sia alle leggi, quali condizioni di validità sostanziale, che alle libertà dei cittadini. L’isomorfismo tra teoria giuridica della validità e teoria politica – della democrazia costituzionale, ma anche di altre forme di governo – è anche in questi casi innegabile.

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1.6. Una critica della teoria kelseniana e bobbiana della validità e della democrazia  Un autorevole avallo della concezione solamente formale della democrazia, tuttora diffusa nella letteratura politologica, è stato offerto da Hans Kelsen e da Norberto Bobbio, la cui riflessione sulla questione è a mio parere condizionata dalla loro concezione parimenti formale della validità, a sua volta ancorata al vecchio paradigma legislativo dello stato di diritto. Kelsen, cui pure si deve la teorizzazione della struttura a gradi dell’ordinamento e del controllo di legittimità costituzionale sulle leggi, e dopo di lui Bobbio hanno identificato la validità delle norme con la loro esistenza53, rifiutando l’idea stessa dell’invalidità sostanziale delle norme di legge per contrasto con la costituzione. Certamente sia Kelsen che Bobbio ammettono che la costituzione può vincolare il contenuto delle leggi e, in generale, che le norme superiori possono condizionare non solo le forme ma anche i contenuti delle norme inferiori54. Ma l’identificazione della validità con l’esistenza ha co53   “Per ‘validità’ intendiamo l’esistenza specifica delle norme”: Kelsen, Teoria generale del diritto cit., parte I, cap. I, C, a, p. 30; “L’esistenza di una norma giuridica costituisce la sua validità” (ivi, D, c, p. 48); “Con il termine ‘validità’ indichiamo l’esistenza specifica di una norma”: Id., La dottrina pura cit., § 4, c, p. 19; “Questa ‘validità’ di una norma è la sua specifica esistenza ideale. Il fatto che una norma ‘sia valida’ significa che esiste. Una norma che non sia ‘valida’ non è una norma, perché non è una norma che esiste”: Id., Teoria generale delle norme, (1979), trad. di M.G. Losano, Einaudi, Torino 1985, cap. VIII, § 6, p. 54. Analogamente N. Bobbio, Il positivismo giuridico (1960), Giappichelli, Torino 1996, § 33, p. 135: “La validità di una norma giuridica indica la qualità di tale norma, per cui essa esiste nella sfera del diritto o, in altri termini, esiste come norma giuridica: dire che una norma giuridica è valida significa dire che essa fa parte di un ordinamento giuridico reale, effettivamente esistente in una data società”; Id., Teoria della norma giuridica (1958), ora in Id., Teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1993, § 9, p. 24: “il problema della validità è il problema dell’esistenza in quanto tale [...]. Validità giuridica di una norma equivale ad esistenza di quella norma in quanto regola giuridica”; Id., Teoria dell’ordinamento giuridico (1960), ora in Id., Teoria generale cit., § 11, p. 191: “L’appartenenza di una norma a un ordinamento è ciò che si chiama validità [...]. Una norma esiste come norma giuridica, o è giuridicamente valida, in quanto appartiene ad un ordinamento giuridico”. 54   Kelsen, Teoria generale del diritto cit., parte I, cap. XI, B, a, 2, p. 129; ivi, g, 2, pp. 135-136; ivi, H, b, pp. 158-159; Id., La garanzia giurisdizionale della costituzione (La giustizia costituzionale) (1928), trad. it., in Id., La giustizia costituzionale, a cura di C. Geraci, Giuffrè, Milano 1981, II, pp. 153-154: “Quando proclama l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, la libertà di opinione, la libertà di coscienza, l’inviolabilità della proprietà nella forma abituale di un

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me inevitabile conseguenza una concezione in ultima analisi solamente formale della validità, cioè altrettanto formale quanto quella dell’esistenza. Kelsen difende fermamente questa identificazione con un argomento ideologico e con una sorta di preoccupazione metafisica: la “contraddizione in termini”, da cui “sarebbe annullata l’unità del sistema”, espressa dall’idea stessa di “un diritto antigiuridico” ovverosia di una norma invalida55. Che invece è proprio la grande novità – la virtuale esistenza del diritto illegittimo – nella quale risiede il maggior pregio, oltre che e ben più che un vizio, introdotto nei nostri ordinamenti dal paradigma costituzionale. In realtà la vera ragione dell’identificazione risiede, a me pare, nella mancata scomposizione, da parte di Kelsen, della nozione di validità sulla base dei suoi diversi riferimenti empirici: da un lato la forma dell’atto normativo, con riferimento al quale è predicabile il vigore della norma, ossia la sua mera esistenza in un dato ordinamento; dall’altro il suo significato, cioè la coerenza o l’incoerenza della norma prodotta con le norme sostanziali ad essa sopraordinate, con riferimento al quale sono invece predicabili la sua validità o la sua invalidità sostanziali56. Di qui la mancata diritto soggettivo all’eguaglianza, alla libertà, alla proprietà etc. che viene garantito ai singoli, la costituzione dispone, in fondo, che le leggi non solo dovranno essere elaborate nel modo da essa prescritto ma non potranno inoltre contenere alcuna disposizione che attenti all’eguaglianza, alla libertà, alla proprietà etc. La costituzione non è allora solo una regola di procedura ma anche una regola sostanziale; sicché una legge può essere incostituzionale sia a causa di una irregolarità procedurale relativa alla sua formazione, sia a causa di un contenuto contrario ai principi o alle direttive formulati dal costituente, quando supera i limiti prefissati”. A sua volta Bobbio distinse espressamente tra “validità formale” e “validità materiale” in Sul ragionamento dei giuristi (1955), in L’analisi del ragionamento giuridico. Materiali ad uso degli studenti, a cura di P. Comanducci e R. Guastini, Giappichelli, Torino 1989, vol. II, § 5, pp. 167-169. 55   “Se però esistesse qualcosa di simile ad un diritto antigiuridico, sarebbe annullata l’unità del sistema di norme, quale trova espressione nel concetto di ordinamento giuridico. Ma una norma contraria a una norma è una contraddizione in termini”: Kelsen, La dottrina pura cit., cap. V, § 35, l, α, p. 298. Di “contraddizione in termini” a proposito della legge invalida, Kelsen parla anche in Teoria generale cit., cap. XI, H, b, p. 158, nel passo qui riportato alla fine della nota 58. 56   In PiI, §§ 9.9-T9.11, pp. 525-542, grazie all’uso dei quantificatori della logica dei predicati, ho potuto distinguere: a) l’esistenza (o il vigore), per la quale si richiede che l’atto normativo (e in generale qualunque atto formale) disponga di almeno taluna delle forme richieste dalle norme formali sulla sua forma-

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distinzione tra esistenza e validità, a causa della quale Kelsen non è in grado di concepire l’esistenza di una norma invalida, tanto meno per ragioni di contenuto, né di distinguere tra requisiti e vizi di forma, che si riferiscono all’atto normativo, e requisiti e vizi di sostanza che si riferiscono invece alla norma da esso prodotta. E poiché sia l’esistenza che l’inesistenza di una norma dipendono chiaramente soltanto da requisiti di forma dell’atto normativo, la concezione kelseniana non solo dell’esistenza ma anche della validità risulta una concezione puramente formale, inevitabilmente legata soltanto all’esistenza dell’atto e non anche al suo significato: “quel che è stato fatto”, scrive Kelsen, “non può essere trattato come se non fosse stato fatto”57. Di qui le contraddizioni irrisolte perché non solubili. La supposta “contraddizione in termini” cui darebbe luogo l’esistenza di una norma invalida viene infatti risolta da Kelsen talora con la tesi della validità e talora con la tesi dell’inesistenza delle leggi incostituzionali per ragioni di con-

zione (D9.16, T9.142-T9.143), sicché in loro assenza parleremo di inesistenza (o non-vigore) (T9.144-T9.145); b) la validità formale, per la quale si richiede l’osservanza di tutte le forme previste dalle norme formali (D9.18, T9.150), sicché parleremo di invalidità formale se dall’atto normativo sono osservate non tutte, ma almeno le forme che lo rendono riconoscibile come giuridicamente esistente (D9.20, T9.175-T9.176, T9.179); c) la validità sostanziale, che richiede che all’atto normativo sia associabile almeno un significato coerente con tutte le norme sostanziali ad esso sopraordinate (D9.19, T9.151, T9.155), sicché parleremo di invalidità sostanziale se nessun significato normativo associabile all’atto è compatibile con le norme sostanziali sulla sua produzione (D9.19, T9.177, T9.180); infine, d) la validità tout court, che richiede che ricorrano sia la validità formale che la validità sostanziale (T9.158), cioè la conformità di tutte le forme e la coerenza di almeno un significato dell’atto normativo alle norme, formali e sostanziali, sulla loro produzione (D9.17), sicché parleremo di invalidità tout court in caso contrario (D9.20, T9.181), cioè se di una norma vigente ricorre l’invalidità formale e/o l’invalidità sostanziale (T9.183). Naturalmente la teoria non può dire quali e quante forme si richiedono per l’esistenza di un atto formale, sia pure invalido, né tanto meno quali vizi di forma e quali di sostanza sono sanabili e quali insanabili: questo dipende dal diritto positivo dei diversi ordinamenti e viene accertato dalle relative discipline giuridiche positive. La teoria può solo sottoporre a quantificazione esistenziale le forme richieste per l’esistenza o vigore, a quantificazione universale le forme richieste per la validità formale e a quantificazione esistenziale i significati coerenti con quelli delle norme sostanziali, a loro volta sottoposte a quantificazione universale. 57   Kelsen, La dottrina pura cit., cap. V, § 35, l, α, p. 298.

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tenuto58: cioè con due tesi entrambe ammesse dalla sua concezione della validità come esistenza ma palesemente contraddittorie. Non solo: oltre che tra loro contraddittorie queste due tesi sono entrambe false. I vizi di sostanza, infatti, non comportano né la validità né l’inesistenza, bensì l’esistenza di una norma invalida, cioè precisamente la figura contestata da Kelsen come contraddizione in termini59.   Le due tesi vengono, da Kelsen, formulate entrambe ripetutamente. Ad esempio, la tesi della validità è sostenuta in La dottrina pura cit.: “La legge ‘incostituzionale’ è una legge valida fino al momento del suo annullamento individuale (cioè limitato ad un caso concreto) o generale. Non è nulla, è soltanto annullabile” (ivi, cap. IV, § 29, f, p. 165); “annullare una norma [...] significa porre fine alla validità di questa norma per mezzo di un’altra norma (ivi, § 35, lett. l, α, p. 298); “anche le leggi non conformi” a disposizioni costituzionali “devono considerarsi valide nella misura e fino al momento in cui non sono annullate nel modo prescritto dalla costituzione. Le cosiddette leggi ‘incostituzionali’ sono leggi costituzionali, annullabili però con un particolare procedimento” (ivi, cap. V, § 35, l, β, p. 305). Ma Kelsen sostiene anche, nelle stesse pagine, la tesi opposta dell’inesistenza: “né si potrebbe considerare valida norma giuridica quella norma giuridica di cui fosse possibile ritenere che non sia conforme alla norma che ne regola la produzione: sarebbe nulla, cioè non sarebbe affatto una norma giuridica. Ciò che è nullo non può essere annullato per vie giuridiche” (ivi, l, α, p. 298); “di una legge non valida non può dirsi che sia incostituzionale, perché una legge non valida non è affatto una legge, poiché giuridicamente non esiste e quindi non è possibile nessuna asserzione giuridica al riguardo” (ivi, l, β, p. 302). Ancora: la tesi della validità della legge incostituzionale è sostenuta da Kelsen in La garanzia giurisdizionale della costituzione cit., III, pp. 165-167, dove viene sostenuta la strana tesi che la pronuncia dell’“annullamento di una norma generale” consisterebbe nel “toglierle validità” anche con “effetto retroattivo”: avrebbe, afferma Kelsen, “la stessa natura di una legge di abrogazione” (Id., Il controllo di costituzionalità delle leggi [1942], trad. it., in Id., La giustizia costituzionale cit., p. 300). Al contrario, la tesi dell’inesistenza della medesima legge è sostenuta in Teoria generale cit., cap. XI, H, b, p. 158: “L’affermazione abituale che una legge ‘incostituzionale’ è invalida (nulla) è una proposizione priva di significato, perché una legge invalida non è affatto una legge. Una norma non-valida è una norma non-esistente, è giuridicamente un nulla. L’espressione ‘legge incostituzionale’, applicata a una legge considerata valida, è una contraddizione in termini. Infatti, se la legge è valida, essa può esser valida solo perché corrisponde alla costituzione; non può essere valida se contraddice la costituzione”. 59   Kelsen, come è noto, pensa di risolvere queste aporie con la cosiddetta “clausola alternativa tacita”: “La costituzione autorizza il legislatore a produrre norme giuridiche generali anche con un procedimento diverso da quello direttamente determinato dalle norme della costituzione ed anche a dare a queste norme un contenuto diverso da quello direttamente determinato dalle norme della costituzione” (Kelsen, La dottrina pura cit., cap. V, § 35, l, β, p. 304). La 58

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Un discorso analogo può farsi per Norberto Bobbio. Bobbio, al pari di Kelsen, ammette una dimensione materiale della validità. Tuttavia l’identificazione ripresa da Kelsen tra validità ed esistenza impedisce anche a lui di parlare di “invalidità materiale” o “sostanziale” e di “invalidità costituzionale” delle leggi. E lo stesso giudizio di validità materiale sulle norme non è da lui inteso come giudizio critico o valutativo, ma è al contrario contrapposto, come giudizio assertivo, ai giudizi di valore in termini di giustizia60. Probabilmente, per Bobbio, la concezione semplificata della realtà del diritto risultante dall’identificazione kelseniana della validità delle norme con la loro esistenza è determinata dalla (più che determinante della) sua tesi metateorica dell’avalutatività della scienza giuridica: una tesi, come vedremo nel prossimo capitolo, insostenibile nelle attuali democrazie costituzionali contrassegnate dalla divaricazione tra validità ed esistenza. Ma è precisamente questa tesi che Bobbio ha sempre fermamente difeso come presupposto della sua ben nota caratteriz-

stessa tesi è in Teoria generale del diritto cit., cap. XI, H, b, p. 159 e, prima ancora, nell’edizione del 1934 della Reine Rechtslehre (H. Kelsen, La dottrina pura del diritto [1952], trad. di R. Treves, Einaudi, Torino, 1961, § 31, pp. 88-89). Secondo Kelsen, in altre parole, la costituzione autorizzerebbe, oltre a forme e contenuti conformi e coerenti a quanto da essa “determinato”, anche forme o contenuti “diversi”, cioè non conformi o non coerenti, destinati all’annullamento. Ma questa è una tesi assurda, non meno della tesi secondo cui la norma che punisce l’omicidio autorizzerebbe l’omicidio destinato alla sanzione. Proprio questa bizzarria è la migliore conferma delle irrisolte aporie kelseniane. Non solo. Quella clausola – diversamente dal riconoscimento della possibile esistenza del “diritto antigiuridico” introdotta dalla rigidità delle costituzioni e paventata da Kelsen come “minaccia all’unità del sistema” (ivi, p. 298) – si risolve, essa sì, come hanno mostrato Manuel Atienza e Juan Ruiz Manero, “in una sorta di dissoluzione del diritto come sistema normativo che regola la sua stessa creazione” (Atienza, Manero, Las piezas del Derecho cit., cap. II, § 2.1, p. 52). Si veda anche, sull’assurdità di questa clausola, L. Ferrajoli, J. Ruiz Manero, Dos modelos de constitucionalismo. Una conversación, Trotta, Madrid 2012, pp. 33-47. 60   “Quando la ricerca è rivolta ai giudizi di validità materiale (è la ricerca di gran lunga più comune), il giurista fa opera prevalentemente di logico, risolvendosi la sua dimostrazione nello stabilire certe premesse da cui debbano necessariamente derivare certe conclusioni. In nessuno dei due momenti” – né in quello della ricerca sulla validità formale, né in quello della ricerca sulla validità materiale, aggiunge Bobbio – “[il discorso del giurista] è formato di termini di valore, coi quali si approva e si condanna, e condannando e approvando si cerca di indurre altri ad agire in una direzione piuttosto che in un’altra”: Bobbio, Sul ragionamento cit., pp. 168-169.

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zazione del positivismo giuridico, in opposizione al giusnaturalismo, come approccio allo studio del solo diritto “come fatto” o “qual è”, che giustamente esclude dall’universo della scienza il diritto “come valore” o “quale deve essere” moralmente e politicamente61, ma che ignora indebitamente il diritto “quale deve essere” giuridicamente e costituzionalmente e che pure fa parte del “diritto qual è”. Ed è chiaro che questa tesi dell’avalutatività dell’approccio allo studio del diritto è incompatibile con quella della virtuale esistenza di norme costituzionalmente invalide e del conseguente ruolo critico che ne verrebbe assegnato alla scienza giuridica. Insomma, sia Kelsen che Bobbio – nella loro giusta polemica con il giusnaturalismo, diretta a distinguere il diritto positivo come “fatto” dal suo dover essere etico-politico come “valore” – sono accomunati da una concezione unidimensionale della validità come “essere”, anziché come “dover essere giuridico” del diritto, non distinta dall’esistenza, a sua volta necessariamente determinata dalle sole forme della produzione giuridica. Di qui, per l’isomorfismo che sempre lega teoria politica e teoria del diritto, la loro concezione parimenti formale o procedurale della democrazia, consistente in nient’altro che nel carattere democratico delle forme delle decisioni politiche, cioè nelle norme – le famose “regole del gioco”, dal suffragio universale al principio di maggioranza e alla separazione dei poteri – che disciplinano il “chi” e il “come” della produzione normativa. Di qui, inoltre, in accordo con Bentham e con Austin – che però scrivevano con riferimento al paradigma legislativo, dove in effetti validità ed esistenza delle leggi si identificavano, dipendendo l’una e l’altra soltanto dalla forma degli atti normativi –, la preclusione della critica giuridica delle leggi invalide in aggiunta alla critica etico-politica delle leggi ingiuste. L’appiattimento della validità sull’esistenza ignora infatti la divaricazione deontica, interna al diritto positivo, tra norme sostanziali sulla produzione e norme prodotte, generata dal secondo giuspositivismo dello stato costituzionale, in aggiunta alla

61   N. Bobbio, Aspetti del positivismo giuridico, in Id., Giusnaturalismo e positivismo giuridico cit., p. 88. “La caratteristica dell’orientamento scientifico”, aggiunge Bobbio, consiste nell’“oggettività, intesa appunto come astensione da ogni presa di posizione di fronte alla realtà osservata, o neutralità etica, o, per dirla con la celebre formula weberiana, Wertfreiheit” (ivi, pp. 88-89).

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divaricazione esterna tra giustizia ed esistenza-validità generata dal primo giuspositivismo dello stato legislativo di diritto. 1.7. La divaricazione deontica tra validità e vigore nel paradigma costituzionale. La democrazia attraverso i diritti: un modello quadridimensionale  È in questa virtuale e strutturale divaricazione tra la validità e il vigore, cioè tra il dover essere costituzionale e l’essere effettivo della produzione legislativa, che consiste il mutamento di paradigma, così del diritto come della democrazia, generato dall’odierno costituzionalismo rigido. Nella democrazia solamente politica propria del vecchio stato legislativo di diritto, la legge era la fonte suprema e insindacabile della produzione giuridica, le maggioranze parlamentari erano onnipotenti e la validità delle leggi si identificava con la loro esistenza. La positivizzazione costituzionale dei diritti fondamentali sottopone anche il legislatore a limiti e a vincoli sostanziali, rompendo la presunzione di legittimità del diritto e aprendo lo spazio ad antinomie per l’indebita produzione di leggi invalide e a lacune per l’indebita omissione di leggi dovute. Di qui la necessità di una ridefinizione sia della validità che della democrazia, idonea a dar conto del paradigma costituzionale dell’una e dell’altra. Le condizioni della validità formale continuano a identificarsi, esattamente come nel vecchio paradigma dello stato legislativo di diritto, con le condizioni della democrazia formale, essendo soddisfatte le une e le altre dalla conformità delle decisioni prodotte alle regole che ne determinano le forme democratiche: precisamente il “chi” (le norme di competenza che attribuiscono i poteri legislativi e di governo a organi rappresentativi e quelle sull’autonomia negoziale dei soggetti capaci d’agire) e il “come” (le norme procedurali sul suffragio universale e sul principio di maggioranza e quelle sulle forme dei negozi privati) della loro produzione. Ma accanto alla validità formale, ripeto, il paradigma costituzionale richiede anche una validità sostanziale, corrispondente perciò a quella che ben possiamo chiamare democrazia sostanziale, l’una e l’altra soddisfatte dalla coerenza del “che cosa”, cioè dei significati o della sostanza delle decisioni prodotte, con i principi e i diritti costituzionalmente stabiliti. La nozione di democrazia nel suo modello garantista può essere così articolata in quattro dimensioni – quella politica, quella civile, quella liberale e quella sociale, le prime due formali e le altre due

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sostanziali – corrispondenti alle quattro classi nelle quali possono distinguersi tutti i diritti fondamentali: i diritti politici, i diritti civili, i diritti di libertà e i diritti sociali62. Secondo questa ridefinizione, il carattere rappresentativo di un sistema politico, assicurato dal suffragio universale e dal principio di maggioranza, è solo una condizione della validità delle leggi e solo un connotato della democrazia. Esso designa, della democrazia, la sola dimensione politica, relativa al “chi” e al “come” delle decisioni pubbliche, cioè alle loro forme democratiche, basate appunto sui diritti politici di autodeterminazione nella sfera pubblica. Ma a questa prima, necessaria dimensione formale, altre ne vanno aggiunte per dar conto della complessità degli odierni ordinamenti democratici. Va aggiunta anzitutto una seconda dimensione formale, relativa al “chi” e al “come” delle decisioni non pubbliche ma private: quella che ben possiamo chiamare la dimensione civile della democrazia, basata su quegli specifici diritti di autodeterminazione nella sfera privata cui è opportuno riservare il nome diritti civili. Si tratta infatti di quei diritti al cui esercizio è affidata quella specifica forma di produzione diretta e spontanea del diritto dei privati che è l’attività negoziale di tutti i soggetti capaci d’agire. C’è, in proposito, un equivoco nella tradizione liberale che ha lungamente pesato nella concezione e nella costruzione dello stato di diritto. Contrariamente alla loro configurazione corrente come “libertà” – risalente all’associazione, in un’unica categoria, della proprietà, dei diritti di autonomia e dei diritti di libertà operata da John Locke63­– questi diritti di autodeterminazione giuridica   In PiI, ho definito ‘diritto soggettivo’ come aspettativa positiva di prestazioni o negativa di non lesioni (§ 10.11, D10.20, p. 641); ‘diritto fondamentale’ come diritto soggettivo attribuito a tutti in quanto persone, o cittadini e/o capaci d’agire (ivi, § 11.1, D11.1, p. 727); i ‘diritti di libertà’ e i ‘diritti di autonomia’ come diritti fondamentali negativi consistenti i primi nella somma logica dei diritti primari di ‘libertà da’ e dei diritti primari di ‘libertà di’ e i secondi nei diritti-potere secondari di autodeterminazione nella sfera del mercato e in quella della politica (ivi, § 11.4, D11.11-D11.17, pp. 742-747); i ‘diritti sociali’ come diritti fondamentali positivi a prestazioni pubbliche di carattere sociale (ivi, D11.10, p. 742); da cui la distinzione di tutti i diritti fondamentali nelle quattro classi dei ‘diritti politici’, dei ‘diritti civili’, dei ‘diritti di libertà’ e dei ‘diritti sociali’ corrispondenti alle nostre quattro dimensioni della democrazia costituzionale (ivi, T11.73, p. 748). 63   J. Locke, Due trattati sul governo. Secondo trattato (1690), trad. di L. Pareyson, Utet, Torino 1968, cap. IX, § 123, p. 339: “Vite, libertà, averi, sono cose 62

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sono poteri, oltre che diritti fondamentali, dato che il loro esercizio consiste, diversamente da quello dei diritti di libertà, in atti precettivi produttivi di effetti normativi anche nella sfera giuridica altrui64. Non si tratta infatti di diritti che non comportano nessun esercizio, come la libertà di coscienza o l’habeas corpus consistenti in mere immunità, e neppure di diritti il cui esercizio, come quello dei diritti di libertà consistenti in semplici facoltà, non produce nessun effetto giuridico, bensì di diritti-potere esercitati da atti che interferiscono, a causa degli effetti obbligatori da essi prodotti, con le libertà degli altri. Di qui la necessità, di cui parlerò nel § 5.2, che essi siano sottoposti al diritto, cioè a regole che limitino i poteri altrimenti selvaggi dei mercati. È una questione elementare di grammatica giuridica. Gli atti con cui sono esercitati tali diritti-poteri si collocano a un livello normativo più basso rispetto a quello della costituzione e perfino della legge. Al ch’io denomino, con termine generale, proprietà”. La natura di “potere” della proprietà fu invece riconosciuta da Thomas Hobbes: “La ricchezza insieme alla liberalità è potere, perché procura amici e servi” (Hobbes, Leviatano cit., I, cap. X, § 4, p. 141); e lo sarà poi anche da Adam Smith: “La ricchezza, come dice Hobbes, è potere [...]. Il potere che questo possesso gli conferisce immediatamente e direttamente è quello d’acquisto; una certa disponibilità su tutto il lavoro, o su tutto il prodotto del lavoro che si trova sul mercato. La sua fortuna è maggiore o minore esattamente in proporzione alla dimensione di questo potere; o alla quantità del lavoro degli altri uomini, o, ciò che è lo stesso, del prodotto del lavoro degli altri uomini che lo mette in condizione di acquistare o di avere a disposizione” (A. Smith, La ricchezza delle nazioni, [1776], trad. di Anna e Tullio Bagiotti, Mondadori, Milano 2009, Libro I, cap. V, p. 112). È singolare che la concezione liberista dell’autonomia contrattuale e della proprietà come libertà, anziché come poteri, abbia sempre convissuto, contraddittoriamente, con l’idea della “forza di legge” associata alla volontà contrattuale, in un’epoca, tra l’altro, in cui fortissimo era il culto dell’onnipotenza del legislatore: “i patti validamente formati”, affermò l’art. 1134 del Code civil di Napoleone, “hanno forza di legge tra coloro che li hanno stipulati”, formula che figura tuttora nell’art. 1372 del codice civile italiano, secondo cui “il contratto ha forza di legge tra le parti”. 64   È questa, in termini semplificati, la definizione di ‘potere’ che ho proposto con la definizione D10.1 in PiI, § 10.1, p. 588. Ho insistito più volte sulla critica della nozione corrente di “diritti civili”, nella quale sono di solito inclusi indistintamente i diritti fondamentali di libertà, i diritti fondamentali di autonomia privata e il diritto reale di proprietà, nonché sulla distinzione strutturale tra i primi, consistenti in mere immunità o facoltà, i secondi consistenti in poteri il cui esercizio incide nella sfera giuridica altrui e i terzi in diritti singolari excludendi alios: cfr. PiI, §§ 1.6, 10.10, 11.6-11.8, pp. 132-134, 635-638, 752-772 e PiII, §§ 13.17, 14.14, 14.20, pp. 83-85, 224-230, 254-266.

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pari di quelli prodotti dagli organi istituiti dall’esercizio dei diritti politici, essi vanno perciò sottoposti non solo alle norme formali che ne disciplinano le forme a garanzia dell’autonomia dei loro autori, ma anche a norme sostanziali che ne limitino e ne vincolino la sostanza, cioè gli effetti e i contenuti prescrittivi, a garanzia dei diritti costituzionalmente conferiti a tutti. In aggiunta alla tradizionale dimensione formale, queste norme sostanziali sulla produzione giuridica hanno infatti innestato nella democrazia una dimensione sostanziale, relativa al “che cosa”, cioè alla sostanza delle decisioni. Sono le norme stabilite di solito nella prima parte delle carte costituzionali: i diritti fondamentali, il principio di uguaglianza, il principio della pace e simili, cui corrispondono altrettanti limiti o vincoli di contenuto ai poteri sia pubblici che privati. Precisamente, i diritti fondamentali consistenti in aspettative negative, come sono tutti i diritti di libertà e i diritti di autonomia, impongono limiti, cioè divieti di lesione; i diritti fondamentali consistenti in aspettative positive, come sono tutti i diritti sociali, impongono invece vincoli, cioè obblighi di prestazione. È così che questi diritti disegnano, nel loro insieme, quella che ho chiamato la sfera del non decidibile: la sfera dell’indecidibile che, disegnata dall’insieme dei diritti di libertà e di autonomia, i quali impongono il divieto, in quanto aspettative negative, delle decisioni che possano lederli o ridurli; la sfera dell’indecidibile che non, determinata dall’insieme dei diritti sociali, i quali impongono l’obbligo, in quanto aspettative positive, delle decisioni dirette a soddisfarli. Solo ciò che resta fuori da questa sfera è la sfera del decidibile, all’interno della quale è legittimo l’esercizio dei diritti di autonomia: dell’autonomia politica, mediata dalla rappresentanza, nella produzione delle decisioni pubbliche; dell’autonomia civile, direttamente sul mercato, nella produzione dei negozi privati, che dovrebbero anch’essi, al pari delle prime, essere sottoposti a rigidi limiti e vincoli costituzionali onde impedirne l’odierno carattere sregolato che è all’origine, come si vedrà nel quarto capitolo, delle gravissime crisi economiche che stanno oggi provocando la crisi della democrazia. Principio di maggioranza e libertà d’impresa, discrezionalità pubblica e disponibilità privata, deliberazione degli indirizzi politici e autodeterminazione economica sono insomma le regole che presiedono alla sfera del decidibile. Ma incontrano, nel paradigma costituzionale, limiti e vincoli invalicabili nella

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sfera dell’indecidibile disegnata dalle norme sostanziali sui diritti fondamentali onde sia garantita, secondo la formula kantiana, la pacifica convivenza delle libertà di tutti. Ne risulta un modello quadri-dimensionale di democrazia, ancorato alle quattro classi di diritti nelle quali ho sopra distinto tutti i diritti fondamentali: i diritti politici, i diritti civili, i diritti di libertà e i diritti sociali. I primi due tipi di diritti, politici e civili – che possiamo chiamare “secondari”, o “formali” o “strumentali” – assicurando gli uni l’autonomia politica e gli altri l’autonomia privata, valgono a fondare la legittimità della forma delle decisioni, rispettivamente nella sfera della politica e in quella dell’economia e perciò la dimensione formale della democrazia: da un lato la democrazia politica, dall’altro la democrazia civile. Gli altri due tipi di diritti, di libertà e sociali – che possiamo chiamare “primari”, o “sostanziali” o “finali” – riguardando ciò che all’autonomia sia politica che privata è vietato o obbligatorio decidere, valgono a fondare la legittimità della sostanza delle decisioni e perciò la dimensione sostanziale della democrazia: da un lato la democrazia liberale o liberal-democrazia, dall’altro la democrazia sociale o social-democrazia. È su queste quattro dimensioni, tutte necessarie e congiuntamente sufficienti, che si basa il modello garantista dell’odierna democrazia costituzionale, in forza del quale è sottratta a qualunque potere, sia pubblico che privato, la deroga ai diritti fondamentali e agli altri principi costituzionalmente stabiliti. Di questo modello analizzerò nel prossimo capitolo i tratti distintivi, illustrandone i mutamenti strutturali – ben nove mutamenti – che non consentono di sostenere la tesi paleo-positivista della sua sostanziale continuità rispetto al paradigma legislativo. Svilupperò quindi, nel terzo capitolo, la critica del modello principialista del costituzionalismo, mostrandone le gravi implicazioni teoriche e pratiche e, insieme, la sua possibile riformulazione in accordo con il modello garantista. Parlerò infine, negli ultimi due capitoli, della crisi profonda che investe oggi la democrazia in tutte le sue dimensioni e della prospettiva del suo superamento, affidata unicamente al rafforzamento delle garanzie del paradigma costituzionale e al loro allargamento a livello sovranazionale.

II

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2.1. Quattro postulati del modello garantista dello stato costituzionale di diritto  La dimensione sostanziale innestata nelle condizioni di validità delle leggi dal paradigma costituzionale ha cambiato profondamente, come si è visto, la struttura dello stato di diritto. Non si è trattato solamente della subordinazione al diritto dello stesso potere legislativo, ma anche della subordinazione della politica a principi e diritti stipulati nelle costituzioni come ragion d’essere dell’intero artificio giuridico. Si è trattato perciò di un mutamento e di un’integrazione, oltre che delle condizioni di validità del diritto, anche delle fonti di legittimità democratica dei sistemi politici, vincolati e funzionalizzati alla garanzia di tali principi e diritti. Il paradigma costituzionale prodotto da questo mutamento strutturale dello stato di diritto può essere ora descritto mediante quattro principi o postulati, corrispondenti ad altrettante garanzie, le prime due primarie e le altre due secondarie1. Si tratta di 1   Sulle nozioni di “garanzie”, di “garanzie primarie” e “garanzie secondarie” e, inoltre, di “norme primarie” e “norme secondarie”, di “lacune primarie” e “lacune secondarie”, di “effettività” e “ineffettività” l’una e l’altra “primaria” e “secondaria”, di “funzioni” e “istituzioni di garanzia primaria” e “funzioni e istituzioni di garanzia secondaria”, rinvio a PiI, § 3.5, D3.5, pp. 194-198, §§ 10.16-10.21, D10.39-D10.55, pp. 668-701, D12.13-D12.14 e D12.17-D12.18, pp. 874-879. Le garanzie sono gli obblighi o i divieti corrispondenti ad aspettative positive o negative: primarie quelle correlative alle aspettative nelle quali consistono i diritti soggettivi, secondarie quelle correlative alle aspettative di riparazione o sanzione delle loro violazioni. Ad esempio, il divieto penale dell’omicidio o del furto, e quelli costituzionali del divieto della pena di morte e delle indebite restrizioni delle libertà fondamentali sono le garanzie primarie negative

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un paradigma di carattere normativo – il modello garantista del costituzionalismo rigido, che chiamerò MG – il quale, essendo un modello teorico, è formale e formalizzabile nel senso, illustrato nel § 1.3, che consiste in una sintassi interpretabile da qualunque sistema giuridico multilivello, quali che siano i principia iuris et in iure da questo in concreto positivizzati. È poi evidente che tale paradigma e i suoi quattro postulati, consistendo in un modello teorico e normativo, non è mai interamente realizzato, né di diritto, né di fatto: né sul piano delle sue norme di attuazione, sempre imperfette e incomplete, né tanto meno sul piano della pratica giuridica, sul quale tali norme sono spesso violate. Il primo postulato è il principio di legalità, in entrambe le accezioni – lata o formale o legale, stretta o sostanziale o costituzionale – distinte nei §§ 1.3 e 1.5. Nel vecchio paradigma legislativo il principio di legalità, cioè la soggezione al diritto di qualunque potere, era ancora un principio parzialmente inattuato. Era il prodotto della prima, elementare articolazione multilivello dell’ordinamento giuridico, realizzatasi con la distinzione tra la produzione legislativa del diritto e la sua applicazione giurisdizionale e amministrativa, la prima sopraordinata alla seconda ma a sua volta formalmente legibus soluta. Grazie al paradigma costituzionale il principio di legalità assume una nuova complessità, quale principio normativo e, insieme, quale principio logico. In base ad esso, di diritti di immunità come il diritto alla vita e i diritti di libertà e di proprietà; analogamente, il debito e l’obbligo dell’assistenza sanitaria e della pubblica istruzione sono le garanzie primarie positive del diritto di credito e dei diritti sociali alla salute e all’istruzione. Gli obblighi di annullamento degli atti invalidi e di condanna per gli atti illeciti sono invece le garanzie secondarie affidate alla giurisdizione e predisposte per riparare o sanzionare le violazioni delle garanzie primarie. Diremo perciò che le garanzie primarie sono disposte o predisposte da norme primarie, la cui osservanza e inosservanza equivalgono rispettivamente all’effettività primaria e all’ineffettività primaria dei diritti garantiti, e la cui mancanza genera lacune primarie. Le garanzie secondarie, che intervengono in caso di violazione delle garanzie primarie e perciò di ineffettività primaria, sono predisposte da norme secondarie la cui osservanza e inosservanza equivalgono l’una all’effettività secondaria e l’altra all’ineffettività secondaria dei diritti, e la cui mancanza genera lacune secondarie. Mentre, quindi, le violazioni delle garanzie primarie o secondarie segnalano un’ineffettività contingente, le loro lacune, sia primarie che secondarie, segnalano il vizio ben più grave di un’ineffettività dei diritti di tipo strutturale.

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dovunque ci sia un potere, sia esso pubblico o privato, esecutivo o giudiziario o legislativo, statale o extra- o sovrastatale, devono esserci norme primarie, non solo formali ma anche sostanziali, che ne regolino l’esercizio, sottoponendolo ai limiti e ai vincoli nei quali consistono le garanzie primarie correlative ai diritti e agli interessi costituzionalmente stabiliti, nonché alle separazioni tra poteri che ne impediscano confusioni o concentrazioni. Ma la gerarchia delle fonti equivale anche a una struttura logica, entro la quale il principio di legalità equivale al principio di non contraddizione, che preclude come antinomia l’incoerenza tra le prescrizioni prodotte dall’esercizio di qualunque potere, incluso il potere legislativo, e le norme ad esse sopraordinate2. Al principio di mera legalità, in forza del quale la legge è condizionante della validità di tutti gli atti prescrittivi ad essa subordinati, il costituzionalismo rigido aggiunge il principio di stretta legalità, in forza del quale la legge stessa è a sua volta condizionata, dipendendo la sua validità dalla conformità delle sue forme e dalla coerenza dei suoi contenuti con le norme costituzionali, formali e sostanziali, sulla sua produzione. Si tratta di un’innovazione strutturale rispetto al paradigma legislativo, a causa della specifica natura che, come si vedrà nel § 2.6, differenzia la legge e le fonti ad essa equivalenti da tutti gli altri atti giuridici prescrittivi. 2   Merita di essere ricordato questo lucido passo di N. Bobbio, Formalismo giuridico e formalismo etico (1954), in Id., Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1955, cap. VII, p. 153: “Un sistema giuridico, in quanto è fondato sul principio di legalità, non deve essere contraddittorio. Questo punto è stato illustrato particolarmente dal Kelsen e dal García Máynez. Ma ciò significa che il principio di non contraddizione è una vera e propria regola giuridica, contenuta implicitamente in ogni ordinamento. E se prima ho mostrato che il principio di legalità ha in un sistema normativo la stessa funzione che il principio logico di non contraddizione ha in un sistema teoretico, ora mi rendo conto che il principio di non contraddizione funge nello stesso sistema normativo da regola giuridica. Il che si potrebbe anche dire, con formula sintetica, che in una concezione legalistica della giustizia sono presenti, contemporaneamente, una tendenza alla logicizzazione del diritto e una tendenza verso la giuridificazione della logica, o, in altre parole, un riconoscimento del valore logico del diritto e insieme del valore giuridico della logica”. “Il principio di non contraddizione”, aveva scritto a sua volta Kelsen nel passo richiamato da Bobbio, “è infatti altrettanto valido per la conoscenza nel campo della validità normativa quanto in quello della realtà empirica”: Kelsen, Teoria generale del diritto cit., Appendice, III, A, p. 415.

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Il secondo postulato è il principio di completezza deontica, in forza del quale, dovunque ci siano diritti o interessi stabiliti da norme primarie, devono essere introdotti, quali loro garanzie primarie, i doveri corrispondenti, cioè il divieto di lederli e l’obbligo di tutelarli e soddisfarli, in capo a funzioni e a istituzioni di garanzia primarie, a loro volta separate da qualunque altro potere3. Anche questo è un principio logico e insieme normativo. Esso enuncia, in particolare, la normatività dei principi costituzionali e dei diritti da essi stabiliti, i quali consistono in aspettative positive o negative le quali implicano i correlativi obblighi e divieti e perciò richiedono, se presi sul serio, leggi di attuazione in assenza delle quali ricorrono lacune responsabili della loro ineffettività strutturale. Precisamente, si richiedono leggi di attuazione per l’introduzione delle garanzie primarie di tutti i diritti sociali, delle tecniche di tutela di quelli che nel § 5.7 chiamerò ‘beni fondamentali’, nonché delle norme penali a garanzia dei diritti di libertà o immunità. Perfino il diritto alla vita, se l’omicidio non fosse proibito e punito dal codice penale, risulterebbe, in base al principio di legalità penale, privo di garanzie. Si tratta peraltro di un principio anch’esso tipicamente proprio del paradigma costituzionale, il quale comporta la possibile pur se indebita incompletezza dell’ordinamento, cioè la virtuale e illegittima esistenza di lacune strutturali. Non avrebbe senso, infatti, parlarne nel paradigma legislativo, dove la legge è la fonte suprema dell’ordinamento e non può quindi parlarsi di vincoli o obblighi di legiferare; così come non avrebbe senso parlare, in tale paradigma, del principio di stretta legalità quale principio giuridico, oltre che politico, e perciò di limiti o divieti di diritto positivo imposti alla legislazione. Il terzo postulato è il principio di giurisdizionalità, il quale impone che dovunque ci siano norme e garanzie primarie devono esserci, contro le loro possibili violazioni, anche norme secondarie, che predispongano l’intervento di garanzie secondarie o giurisdizionali ad opera di funzioni e di istituzioni di garanzia a 3   Rinvio, su questo principio, a PiI, § 2.7, pp. 172-173, § 3.6, pp. 198-201 e a PiII, § 14.13, pp. 222-224. Della separazione che ne consegue, nel modello garantista MG, delle funzioni di garanzia primaria dalle funzioni di governo e di quella cui ho sopra accennato dei poteri pubblici dai poteri economici e privati, parlerò ampiamente nel § 5.3.

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loro volta secondarie, separate anch’esse da qualunque altro potere. Esso suppone, evidentemente, il principio di legalità: solo la predeterminazione legale dell’oggetto del giudizio vale infatti a fondare la giurisdizione sull’accertamento di ciò che dalla legge o dalla costituzione è prestabilito, secondo il principio, simmetrico e opposto a quello hobbesiano, veritas, non auctoritas facit iudicium. In base ad esso, pertanto, nel modello garantista i giudici sono non solo soggetti alla legge, ma anche soggetti soltanto alla legge. Si tratta di un principio essenziale alla tenuta dello stato di diritto, dato che le garanzie giurisdizionali secondarie o strumentali sono una condizione necessaria dell’effettività delle garanzie primarie o finali formulate sulla base dei principi di legalità e di completezza: senza il controllo giurisdizionale sulle violazioni del diritto, e in particolare sul diritto illegittimo, lo stesso principio di legalità, sia lata che stretta, risulterebbe di fatto vanificato. Anche questo principio è stato allargato dal paradigma costituzionale, a causa dell’allargamento già illustrato del principio di stretta legalità. Al controllo giurisdizionale di legalità proprio del paradigma legislativo sugli atti regolati dalla legge si è aggiunto infatti il controllo giurisdizionale di costituzionalità sulla legge medesima. I giudici sono pur sempre sottoposti alla legge, ma solo alla legge ritenuta costituzionalmente valida, essendo essi tenuti a disapplicarla o ad eccepirne l’incostituzionalità di fronte ad appositi giudici costituzionali, ove la ritengano costituzionalmente invalida. Infine, il quarto e ultimo postulato è il principio di azionabilità, in base al quale, dovunque ci sia una giurisdizione deve pur essere prevista, quale ulteriore garanzia secondaria, la sua attivazione da parte dei titolari dei diritti e degli interessi lesi e, in via complementare e sussidiaria, da parte di un organo pubblico in grado di supplire alla loro possibile inerzia o debolezza. Di fronte alla lesione di un diritto, in breve, deve pur esserci, per parafrasare una classica formula, non solo un giudice, ma anche un pubblico ministero a Berlino che garantisca comunque quel meta-diritto, strumentale alla garanzia di tutti gli altri diritti, che è il diritto di accesso alla giustizia. Parlerò più ampiamente, nel § 5.9, di questo principio, richiesto anch’esso, a mio parere, dalla logica del paradigma costituzionale. Qui basti dire che esso è connesso, oltre che al principio di giurisdizionalità, al principio di completezza quale è dettato dalla costituzionalizzazione dei diritti fondamentali. Per i diritti patrimoniali,

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cui corrispondono immediatamente le garanzie primarie dei divieti e degli obblighi corrispondenti, bastava, nel vecchio paradigma legislativo, il tradizionale diritto d’azione previsto a loro tutela, ad esempio, dall’art. 24 della Costituzione italiana. Questo diritto individuale, tuttavia, non sempre è sufficiente ad assicurare la garanzia secondaria dei diritti fondamentali. Esistono certamente, in molti ordinamenti, vari altri tipi di accesso alla giustizia direttamente da parte dei cittadini, a garanzia dei loro diritti o di interessi collettivi: le azioni popolari di origine romanistica, oggi previste in Italia per talune questioni elettorali e amministrative di carattere locale; le azioni collettive o class actions, di origine statunitense ma diffuse ora anche in Europa, promosse da uno o più soggetti con effetti ultra partes in ordine ai danni provocati a intere categorie di persone; i recursos de amparo a tutela dei diritti costituzionali del cittadino, presenti in tutta la tradizione iberico-americana. Ma si tratta, anche in questi casi, di azioni private, non sempre in grado di assicurare la giustiziabilità delle violazioni di diritti e di beni fondamentali costituzionalmente stabiliti. Di qui la necessità di assumere il principio di azionabilità come un principio generale del modello garantista MG, in grado di assicurare l’effettività degli altri tre principi – di giurisdizionalità, di legalità e di completezza – attraverso l’integrazione dell’azione privata con quella affidata a un organo pubblico. Questi quattro principi disegnano la sintassi dello stato costituzionale di diritto, cioè l’insieme delle regole che disciplinano la produzione del diritto dando luogo, per la loro possibile violazione, alla virtuale comparsa del diritto illegittimo. Precisamente, i primi due principi esprimono i rapporti, di carattere normativo e insieme di carattere logico, tra i diversi livelli del paradigma costituzionale: alle aspettative negative e alle aspettative positive stabilite a livello costituzionale nella forma di diritti di libertà o di diritti sociali corrispondono infatti, rispettivamente, limiti o divieti di lesione e vincoli o obblighi di prestazione in capo ai poteri normativi di livello legislativo4. Principio di legalità e principio di completezza, riguardati 4   Si tratta delle relazioni di implicazione che con riferimento ai diritti fondamentali ho espresso – in PiI, §§ 11.4, 11.9, pp. 742-747, 772-776 – con le tesi T11.53-T11.58, T11.101-T11.111 e, più in generale, con riferimento a tutti i diritti soggettivi, ho espresso – in PiI, §§ 10.11-10.14, pp. 639-661 – con le definizioni D10.20-D10.33 e con le tesi T10.115-T10.185.

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con riferimento al sistema delle fonti, operano perciò, come meglio si vedrà nel § 2.8, come principia iuris tantum, cioè come principi logici e teorici che impongono al diritto prodotto dal legislatore la coerenza e la completezza che esso di fatto non sempre ha, ma che di diritto deve avere. Il terzo e il quarto principio sono invece principi soltanto teorici, che per un verso implicano logicamente i primi due e, per altro verso, sono diretti ad assicurarne l’effettività, sia pure in via secondaria o sussidiaria, mediante la riparazione delle antinomie e delle lacune conseguenti alle loro violazioni. Tutti questi principi sono pertanto tra loro connessi da due sequenze di implicazioni, l’una di carattere logico, l’altra di carattere normativo. Per un verso il principio di azionabilità suppone logicamente il principio di giurisdizionalità, che a sua volta suppone il principio di completezza, che infine suppone il principio di legalità: dato un diritto, allora deve esistere il diritto di azione contro le sue violazioni, il quale a sua volta suppone l’esistenza di una giurisdizione, la quale suppone l’esistenza di norme di legge alle quali la giurisdizione è sottoposta e che altro non sono che i divieti e gli obblighi corrispondenti al diritto leso. Per altro verso il principio di legalità richiede, per la sua effettività primaria, il principio di completezza, che a sua volta è effettivo solo se è garantito in via secondaria dal principio di giurisdizionalità, la cui effettività è a sua volta affidata al principio di azionabilità: dato un potere, allora devono esistere norme ad esso sopraordinate, le quali impongano limiti e vincoli, cioè divieti o obblighi, a garanzia di interessi pubblici e diritti fondamentali, le cui violazioni suppongono l’esistenza di una giurisdizione, attivabile dal diritto o dal potere di azione. La crisi odierna del paradigma costituzionale, quale sarà illustrata nel quarto capitolo, può essere letta come una crisi di tutti e quattro questi principi, alla cui attuazione e ancor prima alla cui implementazione, come si vedrà nel quinto capitolo, è affidato il futuro del costituzionalismo e con esso della democrazia. 2.2. La rigidità della costituzione e le garanzie costituzionali. Antinomie e lacune  Il modello garantista della democrazia costituzionale si caratterizza dunque essenzialmente come un sistema di limiti, di vincoli e controlli imposti a qualunque potere, a garanzia primaria e secondaria dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti. Di qui la centralità delle garanzie, equivalenti al lato atti-

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vo – gli obblighi o i divieti – della relazione di reciproca implicazione che le connette al lato passivo delle aspettative positive o negative nelle quali consistono tutti i diritti soggettivi, inclusi i diritti fondamentali. È dall’ottemperanza delle garanzie costituzionali – siano esse primarie, cioè consistenti negli obblighi e nei divieti immediatamente correlativi ai diritti stabiliti nelle costituzioni, oppure secondarie, cioè consistenti nella riparazione giudiziaria delle violazioni delle garanzie primarie – che dipende l’effettività dei diritti stabiliti, e perciò della democrazia costituzionale. Tali garanzie sono infatti poste a tutela di quella che ho chiamato la “sfera del non decidibile” disegnata dalle quattro classi di diritti – politici, civili, di libertà e sociali – nelle quali si articolano le quattro corrispondenti dimensioni della democrazia. Con l’espressione “garanzie costituzionali” si allude talora alla “rigidità” della costituzione, cioè alla non modificabilità dei principi, dei diritti e degli istituti da essa previsti, se non con procedure di revisione aggravate, e, inoltre, al controllo giurisdizionale di incostituzionalità sulle leggi ordinarie con essi in contrasto. Si tratta in realtà di una nozione complessa, che è opportuno scomporre in più nozioni distinte: da un lato la rigidità, che è un connotato intrinseco delle norme costituzionali; dall’altro l’insieme complesso delle sue garanzie, primarie e secondarie, che richiedono a loro volta di essere distinte e analizzate. La rigidità costituzionale non è, propriamente, una garanzia. È bensì un connotato strutturale delle costituzioni legato alla loro collocazione al vertice della gerarchia delle norme, sicché le costituzioni sono rigide per definizione, nel senso che, se non lo fossero, non sarebbero in realtà costituzioni ma equivarrebbero a leggi ordinarie. Essa si identifica, in breve, con il grado sopraordinato delle norme costituzionali rispetto a quello di tutte le altre fonti dell’ordinamento, cioè con la normatività delle prime rispetto alle seconde. È questo il senso della “naturale rigidità” delle costituzioni giustamente sostenuta da Alessandro Pace5. Ri5   Secondo A. Pace, La “naturale” rigidità delle costituzioni scritte, in «Giurisprudenza costituzionale», 1993, pp. 4085 sgg., una costituzione non rigida ma flessibile, cioè derogabile dalla legge ordinaria, non è in realtà una costituzione. Si veda anche, di A. Pace, La causa della rigidità costituzionale. Una rilettura di Bryce, dello Statuto albertino e di qualche altra costituzione, Cedam, Padova 1996.

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ferita alle norme costituzionali che stabiliscono quelle aspettative universali che sono i diritti fondamentali, la rigidità conferisce quindi a tali diritti una duplice normatività, dall’alto e dal basso: quali norme a tutte le altre sopraordinate, che dalle fonti subordinate non possono essere modificate, e quali aspettative negative o positive, in capo ai loro titolari, della loro non violazione e della loro attuazione. Non basta infatti, perché tali diritti siano garantiti, la loro positivizzazione, ma è necessaria anche la loro rigida costituzionalizzazione, in assenza della quale, ove la costituzione fosse flessibile, essi sarebbero derogabili dalla legge ordinaria. Si capisce perciò come la questione della rigidità – o meglio del grado di rigidità che è giustificato associare a una costituzione, e più precisamente ai diversi tipi di norme costituzionali – è assolutamente centrale nella teoria e, ancor prima, nella costruzione della democrazia costituzionale, identificandosi con quella del rapporto tra sovranità popolare e democrazia politica da un lato e diritti fondamentali dall’altro. Su di essa, fin dalle origini del costituzionalismo si contrappongono due tesi, l’una garantista, l’altra per così dire politico-democratica, sostenute entrambe sulla base del diverso senso e valore associati al potere costituente: la prima, sostenuta da Benjamin Constant, è la tesi dell’immodificabilità di almeno alcuni principi stabiliti dalla costituzione come fondamentali6, non esistendo nessun potere costituito superiore al potere costituente, esauritosi perciò con il suo esercizio; la seconda, risalente a Emmanuel-Joseph Sieyès, è la tesi della permanente modificabilità di qualunque principio costituzionale ad opera di un potere costituente concepito come costantemente in atto, quale espressione permanente della sovranità popolare e della democrazia politica7.

6   Cfr. B. Constant, Réflexions sur les constitutions (1814), in Id., Cours de politique constitutionnelle, Slatkine, Genève-Paris 1982, pp. 265 sgg., secondo cui non devono essere modificabili le norme sulla forma di governo e quelle sui diritti costituzionalmente stabiliti. 7   La tesi risale a Sieyès: “Una nazione non può né alienare né interdirsi il diritto di volere; e, quale che sia la sua volontà, non può perdere il diritto di cambiarla quando il suo interesse lo esige” (E.J. Sieyès, Che cosa è il terzo stato? [1788], trad. di U. Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1992, cap. V, p. 59). Il principio fu poi enunciato nell’art. 1 del titolo VII della Costituzione francese del 1791: “L’Assemblea nazionale costituente dichiara che la Nazione

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L’argomento principale portato a sostegno di questa seconda tesi è che un’eccessiva rigidità delle costituzioni varrebbe a limitare i poteri costituenti delle generazioni future e più in generale i principi della democrazia politica: a “legarne le mani”, secondo un’efficace formula corrente. È l’argomento del primato della volontà popolare espresso dall’art. 28 della Costituzione francese del 1793, secondo cui “ogni popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cambiare la sua costituzione” e “una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future”. Il costituzionalismo garantista ribalta questo argomento. Il principio del costante diritto di tutte le generazioni di decidere del loro futuro vale infatti, con paradosso apparente, a sostegno della tesi esattamente opposta a quella dell’esistenza di un permanente e radicale potere costituente come espressione della sovranità popolare: a sostegno, precisamente, della tesi che proprio la rigidità della costituzione è una garanzia essenziale della sovranità popolare delle generazioni future e degli stessi poteri delle future maggioranze. In base ad esso, infatti, deve essere preclusa la revisione quanto meno dei principi costituzionali supremi posti a salvaguardia futura della sovranità popolare e dei poteri di maggioranza: come il metodo democratico, i diritti politici e il suffragio universale, gli stessi diritti di libertà e i diritti sociali, che del consapevole esercizio dei diritti politici formano il presupposto elementare. La rigidità, in altre parole, lega le mani delle generazioni volta a volta presenti per impedire che siano da queste amputate le mani delle generazioni future. Chiarito il senso della rigidità della costituzione, è facile chiarire la natura delle garanzie costituzionali. Tali garanzie altro non sono che le garanzie della rigidità, cioè della normatività della costituzione. Esse non si identificano con la rigidità, che è un connotato della costituzione in quanto tale, bensì con le regole idonee

ha il diritto imprescrittibile di cambiare la propria Costituzione” (e a tal fine prevede, negli artt. 2-8, una procedura speciale di revisione), e poi nell’art. 28 della Costituzione francese del 24 giugno 1793. La stessa tesi fu espressa da T. Paine, I diritti dell’uomo e altri scritti politici (1791-1792), trad. a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 122: “Ogni generazione è e deve essere in grado di affrontare tutte le decisioni richieste dalle circostanze del suo tempo”.

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ad assicurarne l’effettività. Sono garanzie costituzionali primarie, rispettivamente negative e positive, il divieto e l’obbligo, imposti alla legislazione, di violare e di attuare le norme costituzionali e i diritti da esse stabiliti: in breve, le regole che disegnano la sfera del “non decidibile che” e del “non decidibile che non”. Sono garanzie costituzionali secondarie i controlli, demandati alla giurisdizione, sull’illegittimità delle violazioni della costituzione: in breve, le regole poste a presidio della sfera del non decidibile in caso di inosservanza, per commissione o per omissione, delle garanzie costituzionali primarie. È chiaro che entrambe queste garanzie hanno modificato il vecchio equilibrio tra i pubblici poteri che fu proprio dello stato legislativo di diritto: le prime restringendo i poteri politici, le seconde allargando il potere giudiziario. Di qui un primo argomento, su cui tornerò più oltre, contro il costituzionalismo principialista e a sostegno del costituzionalismo garantista. Proprio l’espansione del ruolo e del potere dei giudici generata dal paradigma costituzionale, oltre ad imporre un rafforzamento delle garanzie giurisdizionali, dovrebbe indurre, sul piano della filosofia giuridica e politica, a contrastare, anziché ad avallare e a incoraggiare la lettura principialista di gran parte delle norme costituzionali non già come regole che i giudici sono tenuti ad applicare, bensì come principi che essi hanno il potere di ponderare. Dire che le garanzie primarie e le garanzie secondarie esprimono la normatività e insieme garantiscono l’effettività delle costituzioni equivale, secondo l’approccio garantista, a leggere le loro violazioni come antinomie o come lacune strutturali, le prime per commissione e le seconde per omissione. Si tratta di antinomie e di lacune strutturalmente diverse dalle antinomie e dalle lacune rilevabili tra norme del medesimo livello. Utilizzo infatti ‘antinomia’ e ‘lacuna’ in un significato più ristretto rispetto agli usi correnti. Con questi termini, centrali nel modello garantista della democrazia costituzionale, designo soltanto le antinomie e le lacune generate dalla virtuale divaricazione deontica tra norme sulla produzione e norme prodotte, le prime di grado sopraordinato alle seconde. Diversamente dalle antinomie e dalle lacune tra norme dello stesso livello, tali aporie sono perciò configurabili come violazioni, che comportano, se non rimosse da interventi autoritativi, l’inapplicabilità della norma violata, nel primo caso per l’esistenza e l’applicabilità di una

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norma subordinata con essa in contrasto e nel secondo per l’inesistenza delle sue norme di attuazione8. Di solito, con “antinomie” si intende invece qualunque conflitto tra norme: non solo tra norme di grado diverso in violazione del principio di legalità, ma anche tra norme di epoca o di estensione diverse; e con “lacune” si intende qualunque assenza di norme: non solo la mancanza delle norme di attuazione richieste dal principio di completezza, ma anche l’assenza di norme che esplicitamente prevedano e qualifichino deonticamente un dato comportamento9. Si tratta invece di due ordini di fenomeni profondamente diversi. Il conflitto tra norme di epoca o estensione diverse viene comunemente risolto dall’interprete con l’applicazione del criterio cronologico o di quello di specialità; analogamente, l’assenza di norme che espressamente obblighino, o vietino o permettano una data azione viene superata dall’interprete – ove ciò non sia escluso espressamente, come accade in materia penale – mediante il ragionamento analogico o il ricorso ai principi generali del diritto. La stessa cosa non può dirsi invece per le antinomie e le lacune che sono determinate dai dislivelli normativi, come sono quelle che intercorrono tra norme costituzionali e norme di legge e che perciò ho chiamato “strutturali”. Solo esse, e non anche le altre, sono il frutto di violazioni giuridiche, delle quali richiedono perciò, ove si tratti di antinomie, un accertamento giurisdizionale che annulli come invalide le norme indebitamente esistenti e, ove si tratti di lacune, un intervento legislativo che introduca le norme di attuazione indebitamente mancanti. Solo esse, e non anche le altre, contraddicono la ge-

8   Rinvio, sulla questione, a PiI, §§ 10.19-10.20, pp. 684-695; PiII, § 13.15, pp. 77-82; PiIII, cap. X, pp. 507, 673-687. Ma si vedano anche i chiarimenti forniti, rispondendo a svariati interventi critici, in Principia iuris. Una discusión teórica cit., § 2.2, pp. 410-413; Intorno a “Principia iuris” cit., §§ 14.1.3-14.1.4, pp. 239-250, § 14.2.1, pp. 265-266, § 14.2.5, pp. 272-276; Dodici questioni intorno a “Principia iuris”, in S. Anastasia (a cura di), Diritto e democrazia nel pensiero di Luigi Ferrajoli, Giappichelli, Torino 2011, §§ 2.5-2.6, pp. 185-191, § 3.4, pp. 202-206. 9   Mi limito a ricordare: N. Bobbio, Teoria dell’ordinamento giuridico (1960), ora in Id., Teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1993, parte II, capp. III e IV; Id., Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, Utet, Torino 1963, vol. IX, pp. 417-424; G. Gavazzi, Delle antinomie (1959), ora in Id., Studi di teoria del diritto, Giappichelli, Torino 1993.

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rarchia delle fonti rendendo inapplicabili le norme costituzionali: le antinomie per l’indebita presenza di norme con esse in contrasto, e le lacune per l’indebita assenza delle loro leggi di attuazione. Solo esse, e non anche le altre, infine, consistono in vizi: non c’è infatti nessun vizio nella norma precedente o nella norma generale rispettivamente derogate dalla norma successiva e dalla norma speciale, e neppure nell’apparente incompletezza colmata dall’analogia. Mentre quindi sono apparenti le antinomie e le lacune risolte dall’interprete con la prevalenza assegnata alla lex posterior o alla lex specialis o con il ricorso all’analogia, sono invece reali, perché strutturali, le antinomie e le lacune consistenti in violazioni della costituzione, cioè in norme con essa in contrasto o nell’assenza di norme rispetto ad essa di attuazione10. Sono solo questi vizi, in conclusione, che a mio parere meritano il nome di antinomie e di lacune: precluse le prime dalle garanzie costituzionali negative, primarie e secondarie, e le seconde dalle più problematiche garanzie costituzionali positive. 2.3. Le garanzie costituzionali negative e le antinomie  Le garanzie costituzionali negative sono quelle, imposte dal principio di stretta legalità, dell’inderogabilità della costituzione da parte del legislatore ordinario, al quale precludono la produzione di antinomie, cioè di norme con essa in contrasto. Sono garanzie negative primarie i divieti per la legislazione ordinaria di produrre norme in deroga a norme costituzionali, siano essi incondizionati o condizionati all’adozione di un procedimento legislativo aggravato. Sono garanzie secondarie le norme sul controllo giurisdizionale di costituzionalità, che consistono nell’obbligo in capo alla giurisdizione di annullare o disapplicare le norme che sono in contrasto,

10   Capovolgo così la tesi di Bobbio, che considera “apparenti” le antinomie solubili con il criterio gerarchico, le quali invece sono a mio parere “reali” perché non solubili dall’interprete ma solo da un intervento giurisdizionale che modifichi il diritto vigente con l’annullamento delle norme invalide; mentre chiama “reali” le antinomie “in cui l’interprete è abbandonato a se stesso o per la mancanza di un criterio o per il conflitto tra criteri” e che invece sono a mio parere “apparenti” perché solubili mediante l’interpretazione, anche se sulla base di una sostanziale “libertà dell’interprete” (Bobbio, Teoria dell’ordinamento giuridico cit., §§ 17, 18, pp. 218, 224).

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per ragioni di forma o di sostanza, con le norme costituzionali e che violano perciò le garanzie costituzionali negative primarie11. Le garanzie costituzionali negative primarie possono essere più o meno vincolanti, a seconda del grado di rigidità da esse garantito: una rigidità assoluta ove la revisione sia da esse radicalmente esclusa; una rigidità relativa, ove esse predispongano forme più o meno aggravate di revisione. Nel primo caso abbiamo limiti assoluti, formulati in talune costituzioni in termini espliciti e tassativi12. Nel secondo caso abbiamo limiti relativi, che consentiranno di parlare di un grado più o meno elevato di rigidità relativa, a seconda del grado di aggravamento previsto per il procedimento di revisione rispetto alle procedure legislative ordinarie. Ma è chiaro che qualora la costituzione non prevedesse nessun procedimento di revisione e tuttavia prevedesse il controllo giurisdizionale 11   Sulle nozioni di “garanzie costituzionali primarie” e “secondarie”, rinvio a PiI, § 12.14, pp. 917-919 e alle definizioni D12.28-D12.30. Nel commento di queste tesi – ma non in quelle espresse in PiIII dalla loro formalizzazione –, identificai le garanzie primarie della rigidità con le stesse norme sulla revisione, in considerazione del fatto che esse comportano i divieti per il legislatore ordinario di derogare alle norme costituzionali. In realtà le norme sulla revisione, ove ricorrano le garanzie secondarie del controllo giurisdizionale di costituzionalità, indeboliscono sia la rigidità che i divieti nei quali consistono le garanzie primarie, dato che conferiscono al legislatore il potere, che non avrebbe in loro assenza, di derogare alla costituzione sia pure con procedura aggravata. Al contrario, in assenza di controllo di costituzionalità e pur in presenza di norme sulla revisione, la costituzione sarebbe di fatto flessibile, dato che nessun organo sarebbe in grado di censurarne le violazioni. Insomma, ciò che conta sono le garanzie costituzionali secondarie, che sono una garanzia delle stesse garanzie primarie. Devo questa correzione a un’osservazione critica di Dario Ippolito. 12   La previsione di limiti assoluti tassativi alla revisione costituzionale figura oggi, oltre che nell’art. 139 della Costituzione italiana sulla non modificabilità della forma repubblicana, nella Legge fondamentale tedesca del 1949, il cui art. 79, c. 3, stabilisce: “Non è ammissibile una modifica della presente Legge fondamentale che tocchi l’articolazione del Bund in Länder, o la partecipazione dei Länder alla legislazione o i principi enunciati negli articoli 1 e 20”. L’art. 288 della Costituzione portoghese elenca ben quattordici materie sottratte al potere di revisione. L’art. 60 della Costituzione brasiliana stabilisce l’intangibilità: a) della forma federale dello Stato; b) del carattere segreto, universale e periodico dell’esercizio del diritto di voto; c) della separazione tra i poteri; d) dei diritti e delle garanzie individuali. Gli artt. 441 e 442 della Costituzione ecuadoriana escludono riforme costituzionali che alterino la struttura fondamentale dello Stato o comportino restrizioni dei diritti o delle garanzie, o modifiche delle procedure di revisione della Costituzione.

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di costituzionalità, la rigidità della costituzione sarebbe assoluta, dato che qualunque sua modifica sarebbe suscettibile di essere invalidata come incostituzionale. Oltre ai limiti relativi espliciti alla revisione dettati dalla stessa costituzione, esistono peraltro anche limiti impliciti, come quelli che riguardano il metodo democratico e i diritti fondamentali, oggi riconosciuti sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza. Ad esempio l’art. 2 della Costituzione italiana dichiara “inviolabili” i “diritti dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”; e una pronuncia costituzionale, la sentenza n. 1146 del 1988, ha stabilito la sottrazione al potere di revisione dei “principi supremi dell’ordinamento”, da essa non espressamente elencati ma grosso modo identificabili, sul piano teorico, con quelli impliciti nella nozione di democrazia costituzionale quale sarà precisata nel § 2.7. Tuttavia il carattere implicito e relativamente indeterminato di tali limiti o divieti e il loro riconoscimento soltanto dottrinario e giurisprudenziale ne rendono fragile e incerto il ruolo di garanzia. Una dottrina normativa e garantista della costituzione dovrebbe invece formulare e proporre, sulla base di un disegno teo­ rico argomentato, gradi diversi ed espliciti di rigidità delle diverse norme costituzionali, giustificati dalla loro diversa rilevanza democratica: ad esempio, la rigidità assoluta delle norme che stabiliscono il principio di uguaglianza, la dignità della persona e i diritti fondamentali, dei quali andrebbe previsto il possibile rafforzamento ma non la possibile riduzione, nonché i principi della rappresentanza politica e della separazione dei poteri; forme più o meno aggravate di rigidità relativa delle norme sull’organizzazione e sul funzionamento dei pubblici poteri, come ad esempio il procedimento legislativo e le competenze delle autonomie locali; forme lievi di rigidità relativa, infine, per le norme meno importanti. Anche le garanzie costituzionali secondarie, consistenti nel controllo giurisdizionale di costituzionalità, possono d’altro canto essere più o meno incisive. Storicamente, come è noto, si sono sviluppati due tipi di controllo giudiziario sulla legittimità delle leggi: a) il controllo diffuso, affermatosi negli Stati Uniti e in altri ordinamenti americani e consistente nella disapplicazione nel caso sottoposto al giudizio (ma non nell’annullamento) della norma incostituzionale, che resta quindi in vigore pur dopo il riconoscimento della sua illegittimità, salvo il valore di fatto vincolante del

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precedente, tanto più autorevole se prodotto dalle corti supreme; b) il controllo accentrato, affermatosi in Italia e in molti altri paesi europei nel secondo dopoguerra, sul modello kelseniano adottato dalla Costituzione austriaca del 1920, e consistente nell’annullamento delle norme di legge incostituzionali affidato a un’apposita Corte costituzionale. Dei due modelli, quello più efficace è senza dubbio il secondo: “Una costituzione cui manchi la garanzia dell’annullamento degli atti incostituzionali”, ha scritto Kelsen, “non è, in senso tecnico, completamente obbligatoria”13. Ma anche il secondo modello, quello del controllo accentrato di costituzionalità sperimentato in Europa, presenta talora limiti molteplici: sotto il profilo oggettivo, dato che riguarda, ad esempio nel diritto italiano, non già qualunque atto di governo in contrasto con la costituzione ma solo le fonti primarie, cioè le leggi ordinarie e tutti gli atti ad esse equiparati; e sotto il profilo soggettivo, dato che legittimati a sollevare la questione di incostituzionalità sono talora, come di nuovo in Italia, soltanto altri giudici, ove la ritengano incidentalmente fondata e rilevante nei casi sottoposti al loro giudizio. Non mancano, d’altro canto, ordinamenti, come quello brasiliano, dotati di entrambi i tipi di controllo. 2.4. Le garanzie costituzionali positive e le lacune  Non meno importanti delle garanzie costituzionali negative sono le garanzie costituzionali positive, imposte dal principio di completezza e indebitamente trascurate dalla dottrina, benché indispensabili all’effettività dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti e soprattutto dei diritti sociali a prestazioni positive: come l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la previdenza e simili. Esse consistono nel dovere, cui è tenuto il legislatore in ottemperanza di tali diritti, di varare una legislazione di attuazione: in breve nell’obbligo di 13   Kelsen, La garanzia giurisdizionale della costituzione cit., § 22, p. 199: “Sebbene in generale non se ne abbia coscienza”, prosegue Kelsen, “una costituzione in cui gli atti costituzionali, e in particolare le leggi, restano validi – in quanto alla loro incostituzionalità non consegue l’annullamento – equivale presso a poco, dal punto di vista propriamente giuridico, ad un voto privo di forza obbligatoria. Qualunque legge, regolamento o anche atto giuridico generale posto in essere dai singoli ha una forza giuridica superiore a quella di una tale costituzione, cui sono tuttavia subordinati e dalla quale traggono validità”.

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introdurre le garanzie legislative, primarie e secondarie, correlative ai diritti fondamentali costituzionalmente stipulati. Vengo così a una questione centrale del garantismo – quella del rapporto tra diritti fondamentali e garanzie – sulla quale si è sviluppata una ormai annosa polemica. Secondo una tesi assai diffusa, in assenza di garanzie, cioè degli obblighi o dei divieti corrispondenti ai diritti pur costituzionalmente stabiliti, non si avrebbe, come io sostengo, una lacuna, bensì l’inesistenza dei diritti stabiliti14. Alla base di questa tesi c’è la confusione tra diritti e garanzie, avvalorata dall’autorità di Kelsen. Secondo Kelsen, come è noto, il diritto soggettivo sarebbe solo il “riflesso di un dovere giuridico”15, ossia di quella che ho sopra chiamato ‘garanzia primaria’. Di più: avere un diritto, aggiunge Kelsen, equivale ad avere “la possibilità giuridica di ottenere l’applicazione della norma giuridica appropriata che provvede la sanzione”16: ad attivare, in altre parole, quella che ho 14   È la tesi sostenuta da R. Guastini, Tre problemi di definizione, nel mio Diritti fondamentali cit., pp. 43-48, e da D. Zolo, Libertà, proprietà ed uguaglianza nella teoria dei ‘diritti fondamentali’, ivi, pp. 49-55, sulla quale si veda la mia replica ivi, pp. 156-171. Cfr. anche R. Guastini, Rigidez constitucional y normatividad de la ciencia jurídica, in Carbonell, Salazar, Garantismo. Estudios cit., pp. 245-249, e P. de Lora, Luigi Ferrajoli y el constitucionalismo fortísimo, ivi, § 3, pp. 255-259, su cui la mia replica è in Garantismo. Una discusión cit., § 3.5, p. 56, §§ 4.3-4.4, pp. 74-81. 15   “Se si definisce come ‘diritto’ il rapporto fra un individuo (nei cui riguardi un altro individuo è obbligato ad un certo comportamento) con quest’ultimo individuo, il diritto in questione è soltanto un riflesso di questo dovere” (Kelsen, La dottrina pura del diritto cit., § 29, a, p. 150); “Non vi è dunque nessun diritto per qualcuno senza un dovere giuridico per qualcun altro. Il contenuto di un diritto è in definitiva l’adempimento del dovere di qualche altro” (Id., Teoria generale cit., parte I, VI, A, p. 76); il diritto “non è altro che il correlativo di un dovere” (ivi, C, a, p. 77). È chiaro che questa tesi si spiega con l’identificazione operata da Kelsen dei diritti soggettivi con i soli diritti patrimoniali, con riguardo ai quali soltanto essa è sostenibile: tali diritti infatti – diversamente dai diritti fondamentali, le cui garanzie non esistono senza leggi di attuazione e che perciò, non a caso, Kelsen non considera diritti (si vedano i passi richiamati infra nelle note 42-44) – nascono simultaneamente alle loro garanzie: il credito insieme al debito, i diritti reali insieme al divieto della loro lesione. 16   Kelsen, Teoria generale del diritto cit., C, d, pp. 82-83. “In questo senso”, prosegue Kelsen, “questa norma costituisce la ‘sua’ legge. Soltanto se l’applicazione della norma giuridica, la esecuzione della sanzione, dipende dall’espressione della volontà di un individuo diretta a questo scopo, soltanto se la legge è al servizio di un individuo, questa può venir considerata la ‘sua’ legge, una legge soggettiva, e ciò significa un ‘diritto soggettivo’”. Ancora: “Il diritto soggettivo,

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chiamato ‘garanzia secondaria’. Kelsen – avendo identificato, come risulta da tutti gli esempi da lui proposti, i diritti soggettivi con i soli diritti patrimoniali, i quali in effetti sono sempre prodotti da atti negoziali insieme ai doveri sanzionabili ad essi corrispondenti (il debito correlativo al credito e il divieto di lesione correlativo alla proprietà) – opera dunque ben due identificazioni: tra i diritti e le correlative garanzie primarie e tra i diritti e le correlative garanzie secondarie. Questo singolare appiattimento dei diritti sulle garanzie è il prezzo pagato da Kelsen alla sua concezione imperativistica del diritto basata sulla centralità della sanzione. Si tratta tuttavia di un prezzo troppo alto, che contraddice le premesse normativistiche e giuspositivistiche della sua stessa teoria. Ne deriva infatti che diritti fondamentali formalmente posti o prodotti da validi atti normativi, ma privi di garanzie, sarebbero inesistenti; che inesistenti, semplici flatus vocis, sarebbero altresì le norme che li esprimono; che interi cataloghi di diritti – gran parte dei diritti sociali e quasi tutti i diritti umani stabiliti da convenzioni internazionali – sarebbero non-diritti, non-norme, solo perché privi di garanzie, sia primarie che secondarie17. È una tesi che contraddice ben due postulati del normativismo, al tempo stesso metateorici e teorici, ed altrettante norme di riconoscimento delle norme giuridiche. Contraddice in primo luogo il postulato del giuspositivismo, in quanto misconosce la positività delle norme giuridiche, le quali, in un sistema nomodinamico, esistono se poste o prodotte, e non se corrispondono a un principio teorico come è la tesi della necessaria compresenza di diritti e doveri, quasi che la teoria possa svolgere funzioni legislative; sicché non può ammettersi che un diritto non esista, benché posto dalla costituzione, così come non può ammettersi, al contrario, che esista la norma fondamentale, benché non posta da nessun atto normativo. Contraddice, in pertanto, deve consistere non già nell’interesse presunto, ma nella protezione giuridica [...]. Il diritto soggettivo non è, in breve, che il diritto oggettivo” (ivi, C, c, p. 81); “l’essenza del diritto soggettivo, che è più del semplice riflesso di un dovere giuridico, consiste nel fatto che una norma giuridica attribuisce ad un individuo il potere giuridico di far valere l’inadempimento di un dovere giuridico mediante un’azione giudiziaria” (Kelsen, La dottrina pura cit., § 29, d, p. 159). 17   Kelsen, in effetti, come si vedrà più oltre nel § 2.9, è giunto a negare che i diritti fondamentali siano propriamente diritti soggettivi.

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secondo luogo, il postulato del giuscostituzionalismo, in quanto misconosce il grado sopraordinato ad ogni altra fonte delle norme costituzionali e dei diritti in esse stabiliti, la cui esistenza e il cui carattere vincolante non possono essere subordinati alla produzione delle loro leggi di attuazione, senza con ciò ammettere un capovolgimento della gerarchia delle fonti, cioè il potere del legislatore, come ha scritto Michelangelo Bovero, di vanificare, o di abrogare o comunque di derogare alla costituzione e così di occultarne la violazione18. Al contrario, è la struttura nomodinamica del diritto positivo che impone la distinzione tra i diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti e le loro garanzie legislative. Poiché in un sistema nomodinamico, come proprio Kelsen ci ha insegnato, l’esistenza delle norme è legata a un fatto empirico, cioè all’atto della loro produzione, è ben possibile che, dato un diritto fondamentale espresso da una norma costituzionale, non esista – pur se dovrebbe esistere – l’obbligo o il divieto corrispondente a causa dell’(indebita) inesistenza della norma che dovrebbe prevederli; così come è ben possibile che, data la libertà fondamentale di un dato comportamento stabilita dalla costituzione, esista – pur se non dovrebbe esistere – il divieto del medesimo comportamento a causa dell’(indebita) esistenza della norma che lo prevede. È possibile, in breve, che il diritto vigente sia costituzionalmente illegittimo. È anzi non solo possibile, ma di fatto inevitabile, che in ordinamenti complessi, articolati su più livelli normativi, si producano sia antinomie che lacune. Questa possibilità è un corollario della normatività forte associata alle costituzioni dal modello garantista del costituzionalismo rigido, il cui tratto caratteristico è appunto lo spazio virtuale da esso aperto all’esistenza del diritto illegittimo, generato dalla possibile inottemperanza da parte del legislatore dell’obbligo di rispettare e di attuare le norme costituzionali. È precisamente quest’obbligo di una legislazione di attuazione, consistente nell’introduzione delle garanzie primarie e secondarie mancanti, che il principio di completezza impone al legislatore e che integra la garanzia costituzionale primaria positiva dei diritti

18   M. Bovero, Derechos, deberes, garantías, in Carbonell, Salazar, Garantismo cit., pp. 237-238.

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costituzionalmente stabiliti. Non è quindi vero che la mancanza di garanzie legislative primarie e secondarie equivale alla mancanza di qualunque obbligo correlativo a tali diritti, con la conseguenza che dovremmo o abbandonare la definizione di ‘diritto soggettivo’ come aspettativa cui corrisponde un dovere, oppure negare l’esistenza del diritto pur costituzionalmente stabilito19. Un obbligo esiste: è l’obbligo di introdurre le garanzie legislative corrispondenti ai diritti stabiliti. Si tratta di una garanzia debole sotto un duplice aspetto: in primo luogo perché essa, per così dire, è una meta-garanzia, consistente nell’obbligo di introdurre legislativamente le garanzie forti costituite dalle garanzie primarie e secondarie corrispondenti al diritto fondamentale costituzionalmente stabilito; in secondo luogo per la difficoltà di assicurarne l’effettività per il tramite di una garanzia costituzionale positiva secondaria quale è l’accertamento giurisdizionale delle lacune, cioè delle violazioni della costituzione per omissione20. Secondo il principio di completezza, infatti, i diritti fondamentali stabiliti dalle costituzioni richiedono quasi sempre leggi di attuazione che ne dispongano le garanzie, non essendo queste prodotte, come accade per i diritti patrimoniali, contestualmente agli stessi diritti garantiti. Ciò vale evidentemente per tutti i diritti sociali, come il diritto alla salute o all’istruzione, e per gli stessi diritti di immunità da lesioni penali, i quali, in mancanza di una legislazione sociale in materia di assistenza sanitaria e di istruzione, o delle norme penali che ne proibiscano e ne puniscano le offese, o delle garanzie processuali della libertà personale – cioè in assenza di garanzie forti, sia primarie che secondarie – sono de-

  È quanto scrive Guastini, Tre problemi cit., pp. 43-44.   Ho chiamato ‘garanzia debole’ l’obbligo di garantire, correlativo all’aspettativa espressa da un diritto fondamentale normativamente stabilito, e ‘garanzia forte’ l’obbligo della prestazione, ad esempio scolastica o sanitaria, introdotto dall’attuazione obbligatoria della garanzia debole: il primo obbligo è imposto al legislatore, e può accadere che questi non lo attui dando così luogo a una lacuna; il secondo obbligo spetta agli apparati istituzionali e ai loro funzionari istituiti in attuazione del primo (PiI, §§ 9.14, 10.20, 10.21, 11.17, 12.14, pp. 556, 694, 701, 815, 917, 918; PiII, §§ 13.15, 13.19, pp. 80, 96). Sul problema delle lacune, sul quale tornerò nei §§ 3.5, 5.6 e 5.8, si veda M. Carbonell (a cura di), En busca de las normas ausentes. Ensayos sobre la inconstitucionalidad por omisión, Unam, Ciudad de México 2003. 19 20

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stinati a rimanere sulla carta. Ma certamente non diremo, in questi casi, che non esistono gli obblighi corrispondenti ai diritti costituzionalmente stipulati e che perciò, sulla base della definizione di diritto soggettivo, tali diritti non esistono. Esiste infatti l’obbligo costituzionale, che però solo il legislatore può soddisfare, di introdurre le garanzie forti, cioè di colmarne la lacuna: un obbligo che invera e soddisfa, quale garanzia costituzionale positiva, la tesi teorica del nesso di implicazione tra diritti e garanzie. Aggiungo che è questo il principale compito della politica, che non si esaurisce nelle attività connesse alla sfera del decidibile, ma include soprattutto l’implementazione della sfera dell’indecidibile, cioè l’introduzione delle relative garanzie nella quale consiste la costruzione giuridica della democrazia; e che è ben possibile, come si vedrà nel § 5.6 a proposito dell’esperienza brasiliana, tramutare la garanzia positiva debole di produrre leggi di attuazione in una garanzia negativa forte, in grado ad esempio di precludere come invalide leggi finanziarie che non destinino determinate quote minime di bilancio alla soddisfazione dei diritti sociali. 2.5. Il costituzionalismo come nuovo paradigma  Si capisce come la concezione complessa e multidimensionale della democrazia proposta dal costituzionalismo garantista sia in grado di superare le aporie e le possibili fallacie nelle quali incorre, come si è visto nel § 1.4, la nozione soltanto politica di democrazia. Solo l’imposizione e il riconoscimento di limiti e vincoli ai poteri della maggioranza e del mercato, ad opera di norme costituzionali ad essi rigidamente sopraordinate, sono infatti in grado non solo di dar conto della dimensione sostanziale delle odierne democrazie costituzionali, ma anche di porre al riparo da se medesima, cioè dagli eccessi di poteri illimitati e virtualmente selvaggi, la stessa democrazia politica o formale. Non a caso, del resto, il costituzionalismo è un nuovo paradigma sia del diritto che della democrazia, generato da una rifondazione dell’uno e dell’altra a seguito delle tragedie che hanno funestato la prima metà del secolo scorso: i totalitarismi e le guerre mondiali. Si riscoprì allora, dopo che il potere delle maggioranze aveva consentito l’avvento delle dittature, il significato di “costituzione” come insieme di limiti e vincoli ai pubblici poteri stipulato un secolo e mezzo prima dall’art. 16 della Dichiarazione

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del 1789: “Ogni società nella quale non sono assicurate la garanzia dei diritti né la separazione dei poteri non ha costituzione”; che sono esattamente i due principi che il fascismo aveva negato e che del fascismo sono la negazione. Di qui la stipulazione, nelle costituzioni rigide del secondo dopoguerra e simultaneamente nella Carta dell’Onu e nelle tante carte internazionali sui diritti, di ciò che nessuna maggioranza può fare e di ciò che qualunque maggioranza deve fare, cioè la non derogabilità dei patti costituzionali e delle loro clausole, a cominciare dal principio della pace e dai diritti fondamentali. Ne è seguito un mutamento strutturale di paradigma sia del diritto che della politica e della democrazia e conseguentemente della scienza giuridica. Questo mutamento viene negato da molti teorici e filosofi del diritto, soprattutto di orientamento giuspositivista, secondo i quali il costituzionalismo rigido avrebbe semplicemente introdotto un ulteriore livello normativo nella struttura a gradi dell’ordinamento21. È questa una vecchia questione, sulla quale si sono svolti in questi anni numerosi dibattiti22. Illustrerò perciò, nei tre paragrafi che seguono, ben nove elementi di di21   Si vedano, per la loro chiarezza, le tesi sostenute da Francisco Laporta in M. Atienza, Imperio de la ley y constitucionalismo. Un dialogo entre Manuel Atienza y Francisco Laporta, in «Isonomía. Revista de teoría y filosofía del derecho», 31, 2009, pp. 209-223 e da R. Guastini, A proposito di neo-costituzionalismo, in «Teoria politica», 2011, pp. 147-158. 22   Mi limito a ricordare le critiche rivolte alla mia tesi del mutamento di paradigma da: Guastini, Rigidez constitucional cit., pp. 245-249; Id., Garantismo e dottrina pura a confronto, in Di Lucia (a cura di), Assiomatica del normativo cit., § 7.5, pp. 123-124; C. Luzzati, I Principia iuris di Luigi Ferrajoli, tra logica e ideologia, ivi, pp. 130 sgg.; J.J. Moreso, Sobre los conflictos entre derechos, in Carbonell, Salazar, Garantismo cit., pp. 159-170; Id., Sobre “La teoría del derecho en el sistema de los saberes jurídicos” de Luigi Ferrajoli, in L. Ferrajoli, J.J. Moreso, M. Atienza, La teoría del derecho en el paradigma constitucional, Fundación Coloquio Jurídico Europeo, Madrid 2008, §§ 2, 3, pp. 119-127; Id., Ferrajoli o el constitucionalismo optimista, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 31, 2008, § 2, pp. 281-283; P. Comanducci, “Constitucionalismo”: problemas de definición y tipología, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 34, 2011, § 4, pp. 99-100; L.L. Hierro, Sobre la odisea constitucionalista de Luigi Ferrajoli, ivi, § 2, pp. 155-156; F. Laporta, Sobre Luigi Ferrajoli y el constitucionalismo, ivi, pp. 167-181. Si vedano le mie risposte in: Garantismo. Una discusión cit., §§ 4.2-4.4, pp. 69-81; Constitucionalisno y teoría del derecho. Respuesta a Manuel Atienza y José Juan Moreso, in Ferrajoli, Moreso, Atienza, La teoría del derecho cit., §§ 5, 6, pp. 207-216; Principia iuris. Una discusión teórica cit., § 2.2, pp. 410-

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scontinuità tra il paradigma legislativo e quello costituzionale: a) tre relativi al diritto, cioè alle più complesse condizioni di validità delle norme di legge, non più limitate alle forme ma estese anche ai contenuti della produzione legislativa; b) tre relativi alla democrazia, cioè ai limiti e ai vincoli sostanziali imposti alla politica e alla democrazia politica dai diritti costituzionalmente stabiliti e dalle connesse garanzie; c) tre relativi alla scienza giuridica, cioè all’insostenibilità del vecchio metodo tecnico-giuridico e al nuovo statuto epistemologico imposto dal paradigma costituzionale all’approccio scientifico allo studio del diritto. 2.6. A) Il costituzionalismo e il mutamento di paradigma del diritto. Il diritto illegittimo  Cominciamo dal primo ordine di mutamenti. Il tratto distintivo del paradigma costituzionale risiede nella felice ambivalenza delle norme sostanziali sulla produzione legislativa formulate nelle odierne costituzioni rigide. Queste norme, riguardate ex parte populi, sono diritti fondamentali di cui sono titolari le persone in quanto tali, o in quanto cittadini e/o in quanto capaci d’agire; riguardate ex parte principis sono invece regole che hanno come destinatari del loro contenuto prescrittivo i pubblici poteri, a cominciare dal potere legislativo, e dal cui rispetto dipende la validità sostanziale del loro esercizio. È questa duplice valenza, sulla quale tornerò nel § 3.5, delle norme costituzionali sostanziali sulla produzione che rappresenta la prima grande innovazione del paradigma costituzionale secondo il modello garantista. Ne conseguono infatti due suoi importanti caratteri distintivi rispetto al paradigma legislativo, fondato unicamente su norme sulla produzione di carattere formale. In primo luogo, grazie alla positivizzazione dei diritti fondamentali in norme costituzionali sopraordinate all’intero ordinamento, il paradigma costituzionale capovolge, insieme alla nozione di sovranità, il rapporto tra istituzioni politiche e persone, funzionalizzando le prime alla garanzia, quale loro ‘ragione sociale’, dei diritti delle seconde23: quei diritti, infatti, sono attribuiti a tutte le persone dei governati e, 413; Intorno a “Principia iuris” cit., § 14.2.5, pp. 272-276; El constitucionalismo garantista entre paleo-iuspositivimo y neo-iusnaturalismo cit., § 2, pp. 317-323. 23   Sulla nozione di ‘ragione sociale’ e su quella parallela di ‘norma di riconoscimento’, rinvio alle note 8 e 4 del primo capitolo.

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al tempo stesso, impongono, a loro garanzia, limiti e vincoli a tutti i poteri governanti. In secondo luogo, grazie alle garanzie di tali diritti, consistenti nei divieti e negli obblighi ad essi corrispondenti in capo alla sfera pubblica, fa la sua virtuale e inevitabile comparsa, entro la struttura normativa del paradigma costituzionale, la figura, impensabile nel vecchio paradigma legislativo e negata da Kelsen come contraddizione in termini, del diritto illegittimo: illegittimo per commissione, ove dall’invalido esercizio del potere legislativo siano prodotte leggi in contrasto con i divieti costituzionali, oppure per omissione, ove a causa del mancato esercizio del potere legislativo non siano prodotte leggi d’attuazione degli obblighi ad esso parimenti imposti dalla costituzione. Cambiano infatti, come si è visto nei §§ 1.5-1.7, le condizioni di validità delle leggi, che ora dipendono dal rispetto non più solo delle norme procedurali sulla loro formazione ma anche delle norme sostanziali sul loro contenuto, ossia dalla loro coerenza o compatibilità con i principi di giustizia stabiliti dalla costituzione. Certamente, come hanno osservato i miei critici, i dislivelli normativi ricorrono anche nello stato legislativo di diritto: tra la legge da un lato e i regolamenti, i negozi, le sentenze e i provvedimenti amministrativi dall’altro. Per questi ultimi atti la divaricazione tra validità ed esistenza è presente anche nel vecchio stato legislativo di diritto, sicché la sola innovazione sarebbe di ordine solo quantitativo: risiederebbe nel fatto che la divaricazione e la conseguente, virtuale invalidità sostanziale si sono ora estese anche alle leggi. Ci sono invece ben tre fondamentali differenze strutturali tra la legge e tutti gli altri atti giuridici prescrittivi che comportano, per effetto della soggezione anche delle norme legislative a norme sostanziali sulla loro produzione, un mutamento di struttura dell’intero sistema giuridico. Le prime due differenze sono relative a ciò che la legge regola, la terza è relativa alle norme da cui essa è regolata. La prima differenza riguarda l’oggetto regolato dalle norme di legge. Soltanto le norme di legge sono destinate ad essere ulteriormente applicate nella produzione di altri atti linguistici precettivi, siano essi negoziali o amministrativi o giudiziari. Solo le norme di legge consistono in norme sulla produzione di tali atti, ai quali impongono la conformità con le forme e la coerenza con i significati da esse stabiliti: precisamente, in norme formali sulla

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loro formazione, come sono tutte le norme procedurali nella cui ‘applicazione formale’ tali atti consistono, o in norme sostanziali al cui ‘rispetto’ o alla cui ‘applicazione sostanziale’ tali atti sono vincolati. Soltanto alle leggi, e non anche ad altri atti precettivi, i giudici sono subordinati24. Soltanto le norme di legge generali ed astratte, infine, modificano la lingua giuridica, dettando al linguaggio giuridico nel quale tutti gli altri atti precettivi sono formulati sia le regole sintattiche di formazione che le regole semantiche d’uso delle fattispecie legali. Al contrario, tutti gli altri atti precettivi, dei quali è sempre stata predicabile la possibile invalidità sia formale che sostanziale per contrasto con le leggi, non incidono sulla lingua, ma sono atti di linguaggio, cioè di uso della lingua giuridica. Non sono destinati a ulteriori applicazioni giurisdizionali. Non lo sono per loro natura tutti gli atti singolari, cioè non consistenti in norme sulla produzione di altri atti, come gli atti negoziali, i provvedimenti amministrativi e giudiziari. Ma non lo sono neppure i regolamenti, i quali, oltre ad essere ben raramente norme sulla produzione di altri atti precettivi, sono destinati, se invalidi, non già ad essere applicati ma ad essere disapplicati. C’è poi una seconda, decisiva differenza nell’oggetto regolato. L’invalidità, sia formale che sostanziale, di tutti gli atti precettivi non consistenti in leggi è destinata ad essere sanata, a garanzia della certezza del diritto, ove non sia eccepita e accertata con successo nei tempi previsti dalla legge. L’azione di annullamento del contratto per incapacità delle parti o vizi del consenso, stabilisce ad esempio l’art. 1442 del codice civile italiano, si prescrive in cinque anni. Perfino la nullità, dice il medesimo articolo, non impedisce l’usucapione. Parimenti sanabile, mediante convalida o per acquiescenza della parte interessata a farla valere in tempi determinati, è l’invalidità dei provvedimenti amministrativi. E lo è, ovviamente, anche l’invalidità delle sentenze, destinate tutte a passare in giudicato. Per tutti questi atti, conseguentemente, è apparsa a lungo plausibile l’equivalenza tra esistenza e validità: perché tali atti diventano comunque validi se non sono annullati 24   Sulle nozioni di ‘rispetto’, di ‘applicazione’, di ‘applicazione formale’ e di ‘applicazione sostanziale’, e sulle correlative nozioni estensionalmente equivalenti di ‘coerenza’, di ‘corrispondenza’, di ‘conformità’ e di ‘sussunzione’, rinvio a PiI, § 9.15-9.16, pp. 556-566.

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nei tempi previsti. Al contrario, l’invalidità delle leggi è insanabile, essendo sempre rilevabile fino al suo accertamento e al conseguente annullamento giurisdizionale. Il rigetto dell’eccezione di incostituzionalità di una data norma di legge da parte di una Corte costituzionale non preclude infatti una successiva pronuncia di incostituzionalità. Sulle sentenze costituzionali che dichiarano la validità di una legge non si forma mai la cosa giudicata. Una legge invalida, in altre parole, non può validamente sopravvivere come tale nell’ordinamento, ma è sempre suscettibile di essere annullata. È questo un connotato strutturale del paradigma del costituzionalismo rigido: qualora l’invalidità di una legge fosse sanabile sulla base del giudicato costituzionale, la costituzione non sarebbe affatto una costituzione rigida. Infine c’è una terza differenza tra la legge e tutti gli altri atti giuridici precettivi, relativa questa alle norme da cui la legge è regolata, cioè alle norme costituzionali sulla sua produzione dotate di un grado più o meno elevato di rigidità25. Questa terza differenza è stata lucidamente rilevata da Maria Cristina Redondo26. Nello stato legislativo di diritto, ha osservato Redondo, esisteva un’autorità illimitata: l’autorità della legge nella cui produzione, non soggetta a limiti e a vincoli, si manifestava l’ultimo residuo del governo degli uomini. La costituzione ha sottoposto al diritto anche quest’ultima autorità illimitata, stipulando quella che ho chiamato la “sfera dell’indecidibile” e perciò sopprimendo anche quest’ultima forma di sovranità quale potestas legibus soluta. La differenza dal vecchio modello paleo-giuspositivista non è perciò legata soltanto alla specifica collocazione gerarchica della costituzione. Non consiste solo in un ulteriore scalino, o anello nella

25   Potrà trattarsi di rigidità assoluta o di rigidità relativa, l’una e l’altra estesa a tutta la costituzione o a sue singole norme. Un costituzionalismo democratico rigido, ripeto, dovrebbe sottrarre alla revisione, a mio parere, l’insieme delle condizioni di democraticità stipulate in PiI, § 12.10, nella definizione D12.22: la rappresentatività politica delle funzioni di governo, la separazione da queste delle funzioni di garanzia e i diritti fondamentali stabiliti nelle costituzioni come vitali, dei quali dovrebbe essere ammessa l’espansione, ma non la soppressione o la restrizione. Una simile rigidità assoluta è quella stabilita dall’art. 288 della Costituzione portoghese e dall’art. 60 della Costituzione brasiliana. 26   M.C. Redondo, El paradigma constitucionalista de la autoridad jurídica, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 34, 2011, pp. 245-264.

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catena dei dislivelli normativi. Essa consiste bensì nella pattuizione del carattere limitato di qualunque potere o fonte normativa27. Nella democrazia costituzionale l’atto costituente è infatti il patto di convivenza con cui vengono stipulati rigidamente limiti e vincoli a qualunque autorità; con cui ogni autorità viene costituita come “autorità limitata”; con cui gli individui pattuiscono la sfera di ciò che nessuna autorità può decidere o non decidere; con cui, in breve, viene pattuito lo stesso paradigma costituzionale e perciò completato, con la soggezione alla legge di qualunque potere, il modello dello stato di diritto. Per questo il potere costituente non esiste se non è concretamente esercitato e si esaurisce, come potere illimitato, con il suo esercizio28: perché il suo esercizio, nella democrazia costituzionale, genera il patto sui limiti di qualunque autorità da esso costituita e perciò ad esso sottoposta. Per questo la sua effettività viene a coincidere con la condizione sociale della sua legittimità, consistendo, scrive Redondo, nella “effettiva accettazione dell’idea del governo delle leggi contro il governo degli uomini, in sostituzione della vecchia idea dell’autorità illimitata”29. 2.7. B) Il costituzionalismo e il mutamento di paradigma della democrazia. I diritti fondamentali come frammenti di sovranità popolare  Vengo così al secondo ordine di mutamenti generati dal paradigma costituzionale: la dimensione sostanziale innestata nella democrazia – oltre che nelle condizioni di validità delle norme di legge – dai limiti e dai vincoli di contenuto imposti ai poteri politici dai principi e dai diritti costituzionalmente stabiliti. Tali limiti e vincoli e il conseguente controllo di costituzionalità vengono talora concepiti e contestati come una limitazione o peggio come una negazione della democrazia30. Questa tesi de  Ivi, pp. 250-252.   In questo senso, si vedano, in PiI, § 12.2, pp. 850-852, le tesi T12.14T12.17. 29   Redondo, El paradigma constitucionalista cit., p. 250. 30   Si vedano, ad esempio, le tesi in difesa del primato della dimensione politica della democrazia “modello Westminster” e la conseguente contrarietà o diffidenza verso il ruolo di controllo sulla legislazione delle corti costituzionali, espresse da autori come Jeremy Waldron e Richard Bellamy nei lavori citati supra, nella nota 17 del primo capitolo. Nello stesso senso, si vedano anche: A. 27 28

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ve essere, a mio parere, ribaltata. Certamente, stipulando, come appena si è detto, il carattere limitato di qualunque potere, le costituzioni rigide impongono limiti e vincoli di contenuto anche ai poteri politici nei quali si esprime la democrazia rappresentativa. Tuttavia, proprio grazie a quei limiti e vincoli sostanziali il paradigma costituzionale – oltre a mettere al riparo la democrazia da se stessa, come sopra si è detto – è in grado di integrare e, per così dire, di rafforzare la stessa nozione di democrazia politica e quella che è alle sue spalle di sovranità popolare. Tutti i diritti fondamentali – i diritti di libertà e i diritti sociali, al pari di quelli politici e civili – formano infatti la base dell’uguaglianza, che è appunto un’uguaglianza en droits, ed alludono quindi, in maniera ancor più pregnante dello stesso principio di maggioranza, al “popolo” intero, riferendosi a poteri e ad aspettative di tutti. Che cosa comportano, infatti, le due tesi più sopra illustrate, a) che i diritti fondamentali non sono predisposti da norme, ma sono essi stessi norme, e b) che tali norme, nelle democrazie costituzionali, sono incluse nelle costituzioni come altrettante norme sostanziali sulla produzione, di grado sopraordinato a qualunque altra? Comportano tre implicazioni, corrispondenti ad altrettante differenze e mutamenti strutturali rispetto al paradigma legislativo della democrazia formale e tutte di enorme portata ai fini di una teoria normativa non solo della democrazia costituzionale, ma della stessa democrazia politica. La prima implicazione è che delle norme sostanziali delle costituzioni imposte come limiti e vincoli ai poteri politici come condizioni di legittimità del loro esercizio, sono titolari, perché titolari dei diritti fondamentali da essa conferiti, tutti i soggetti cui i diversi tipi di diritti fondamentali sono costituzionalmente attribuiti. È questo il primo tratto distintivo della democrazia costituzionale, legato all’ambivalenza di cui si è detto delle norme che stabiliscono diritti fondamentali. Dire che tali diritti, in forza della loro forma logica universale, altro non sono che le norme che li enunciano, equivale a dire che la parte sostanziale della costituzione è “imputata”, nel senso tecnico-giuridico del termine,

Pintore, I diritti della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2003; Id., Democrazia e diritti. Sette studi analitici, Edizioni Ets, Pisa 2010.

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a tutti e a ciascuno, cioè al popolo intero e ad ogni persona che lo compone31. Di qui la “naturale” rigidità delle costituzioni32: i diritti fondamentali, e quindi le norme costituzionali in cui essi consistono, proprio perché sono diritti di tutti e di ciascuno, non sono sopprimibili né limitabili a maggioranza. La maggioranza, infatti, non può disporre di ciò che non le appartiene. Se tutti e ciascuno siamo titolari della costituzione perché titolari dei diritti fondamentali in essa ascritti, la costituzione è patrimonio di tutti e di ciascuno, e nessuna maggioranza politica può manometterli se non con un colpo di Stato e una rottura illegittima del patto di convivenza. Per questo, una volta stipulati costituzionalmente, i diritti fondamentali non sono nella disponibilità delle contingenti maggioranze e dovrebbero essere sottratti anche al potere di revisione; o, meglio, dovrebbe esserne ammesso solo l’allargamento e mai la restrizione, né tanto meno la soppressione. Ne consegue una seconda implicazione: il mutamento di senso, rispetto alla democrazia solo politica o formale, del principio della sovranità popolare. La costituzionalizzazione dei diritti fondamentali, elevando tali diritti a norme sopraordinate a qualunque altra norma dell’ordinamento, conferisce ai loro titolari – cioè a tutti i cittadini e a tutte le persone in carne ed ossa – una collocazione a sua volta sopraordinata all’insieme dei poteri, pubblici e privati, che al rispetto e alla garanzia dei medesimi diritti sono vincolati e funzionalizzati. È in questa comune titolarità della costituzione, conseguente alla titolarità dei diritti fondamentali, che risiede la sovranità popolare nell’unico senso in cui questa vecchia categoria è compatibile con il paradigma costituzionale: quale garanzia negativa, nel senso che la sovranità appartiene soltanto al popolo e a nessun altro, e nessun potere costituito può appropriarsene; e quale garanzia positiva, nel senso che essa, non essendo il popolo che la somma delle persone che lo compon-

31   Si vedano le tesi T12.168-T12.171, in PiI, § 12.16, pp. 928-929, e in particolare il teorema T12.168, secondo il quale i titolari dei diritti fondamentali stabiliti da una costituzione sono altresì titolari delle norme costituzionali da cui i loro diritti sono espressi. Ma si vedano ancor prima le tesi T11.8 e T11.16T11.20, ivi, § 11.1, pp. 728-731, secondo le quali i diritti fondamentali, in quanto universali, sono norme, e precisamente norme tetiche. 32   Nel senso illustrato da Alessandro Pace negli scritti qui citati nella nota 5.

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gono, equivale alla somma dei diversi diritti fondamentali di cui tutti e ciascuno sono ugualmente titolari e che consistono perciò in altrettanti frammenti di sovranità. La stessa democrazia politica ne risulta integrata e rafforzata: essa consiste nell’attribuzione a tutti e a ciascuno non soltanto dei diritti politici, cioè dei poteri di scelta dei loro rappresentanti, ma anche di tutti quei contropoteri che sono i diritti di libertà e i diritti sociali, cioè delle situazioni giuridiche supreme cui tutti i poteri costituiti sono subordinati come alla loro ragion d’essere e che da nessuno di essi possono essere sopraffatte. La terza implicazione è non meno importante sul piano teorico. Essa consiste nel fondamento assiologico e democratico del diritto e delle istituzioni politiche positivamente enunciato dalle norme costituzionali. Nella tradizione filosofico-giuridica, anche giuspositivista, si era costretti a vedere, all’origine e alla base dell’ordinamento, un fondamento non positivo, identificato volta a volta, nell’immaginario politico dello Stato liberale, con entità metafisiche come la Nazione, il corpo sociale, il popolo o la volontà generale, oppure, come nelle dottrine giusnaturalistiche, con il diritto naturale o con valori morali tendenzialmente assoluti, o anche, come nella teoria kelseniana, con la norma fondamentale, che certamente non è una norma positiva, dato che non è stata posta da nessuna autorità ma è solo un’ipotesi teorica. Il costituzionalismo rigido spazza via tutti questi oscuri sottofondi ideologici. Le costituzioni democratiche dichiarano esplicitamente, grazie alla loro rigidità, il fondamento al tempo stesso positivo e assiologico dell’ordinamento, identificandolo con il patto costituzionale, e precisamente con le garanzie dei diritti fondamentali in esso stipulati quali leggi del più debole in alternativa alla legge del più forte che vigerebbe in loro assenza. Anche sotto questo aspetto il giuscostituzionalismo ha completato il paradigma del giuspositivismo e, insieme, il processo di secolarizzazione del diritto e delle istituzioni politiche. A differenza che nello stato legislativo, il fondamento dello stato costituzionale si identifica ora esplicitamente con un fondamento di diritto positivo: la stipulazione di diritti fondamentali ad opera del patto costituente, consistente in un atto empirico storicamente determinato, così come sono empiricamente e storicamente determinati il potere costituente del quale esso è esercizio e i soggetti costituenti dai quali esso è prodotto. La novità del costituzio-

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nalismo non consiste infatti nell’aver introdotto il “dover essere giuridico”33, che ovviamente è comune a tutti gli ordinamenti nei confronti dei comportamenti da essi regolati inclusi gli atti a loro volta prescrittivi. Essa consiste bensì nell’aver pattuito e reso trasparente il fondamento assiologico, oltre che positivo, dell’artificio giuridico e istituzionale, attraverso la stipulazione del dover essere (o non essere) della stessa produzione legislativa: di ciò che nessun potere rappresentativo può decidere e di ciò che qualunque maggioranza di rappresentanti deve decidere. È questo il cambiamento di paradigma forse più significativo. I vecchi dislivelli presenti nello stato legislativo di diritto non riguardavano la legalità, non incidevano sul potere politico, non generavano limiti e vincoli alla legislazione e perciò all’onnipotenza delle maggioranze. Ne è prova il fatto che tali dislivelli e i vizi che ne conseguono, riguardando atti subordinati alle leggi e non destinati, come le leggi, ad essere applicati dai giudici e ad entrare a far parte dell’universo normativo che forma oggetto delle relative discipline giuridiche, sono pienamente compatibili con l’onnipotenza del legislatore e non a caso sono sempre stati ignorati dal costituzionalismo politico. Il paradigma costituzionale assegna peraltro al diritto positivo un fondamento assiologico non oggettivo né tanto meno assoluto, da esso rifiutato insieme al surplus di legittimazione aprioristica che ne proverrebbe, bensì politico e sociale, provvisorio e contingente perché sempre aperto alle espansioni del suo modello garantista, volta a volta sollecitate dalle rivendicazioni di nuovi diritti e contro lo sviluppo di nuovi poteri. Solo in questo modo, attraverso la sua funzionalizzazione alla garanzia dei diversi tipi di diritti fondamentali come fattori della dignità della persona, lo stato costituzionale di diritto viene a configurarsi come “stato strumento” per fini non suoi. Sono infatti le garanzie dei diritti fondamentali – dal diritto alla vita ai diritti di libertà e ai diritti sociali – i “fini”, cioè la ragion d’essere o ‘ragione sociale’ assegnata dal costituzionalismo garantista a quegli artifici che sono lo Stato e le altre istituzioni politiche. Ed è in questo rapporto tra mezzi istituzionali e fini sociali e nel conseguente primato dei diritti

33   È la tesi attribuitami da Laporta, Sobre Luigi Ferrajoli cit., p. 172 e da Hierro, Sobre la odisea constitucionalista cit., p. 155.

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fondamentali sui pubblici poteri, delle persone in carne ed ossa sulle macchine politiche e sugli apparati amministrativi, del punto di vista esterno delle prime sul punto di vista interno delle seconde, che consiste il significato profondo della democrazia. Soprattutto in tempi come quelli in cui viviamo, è proprio questa concezione garantista del costituzionalismo che deve essere affermata e difesa contro le derive maggioritarie della democrazia rappresentativa e le sue degenerazioni populistiche e videocratiche e, per altro verso, contro le analoghe pretese assolutistiche e la medesima insofferenza per limiti e controlli dei poteri economici del mercato. 2.8. C) Il costituzionalismo e il mutamento dello statuto epistemologico della scienza del diritto. Una cultura giuridica militante C’è infine un terzo ordine di caratteri distintivi del paradigma costituzionale suggerito dal costituzionalismo garantista: il mutamento del ruolo da esso assegnato alla scienza giuridica. Quello che ho chiamato l’“indecidibile (che o che non)” stipulato nelle costituzioni rigide è chiaramente un indecidibile di carattere deontico o normativo: ciò che deonticamente non può essere deciso, cioè la violazione dei diritti di libertà, può di fatto essere deciso; e ciò che deonticamente non può essere non deciso, cioè la soddisfazione dei diritti sociali, può di fatto non essere deciso. Possono ricorrere, come ho detto più volte, violazioni della costituzione per commissione, cioè antinomie consistenti nell’indebita produzione di norme invalide, e violazioni per omissione, cioè lacune consistenti nella parimenti indebita non-produzione di leggi di attuazione. Di qui la virtuale divaricazione deontica tra il dover essere costituzionale e l’essere legislativo del diritto, nella quale risiede il principale difetto ma anche, ripeto, il maggior pregio dello stato costituzionale di diritto: la comparsa, grazie alla rigidità delle odierne costituzioni, del diritto giuridicamente illegittimo. E ne consegue perciò un mutamento di statuto della scienza giuridica, investita di un ruolo critico e progettuale nei confronti del proprio oggetto: critico nei confronti delle antinomie, delle quali ha il compito di sollecitare la soppressione, progettuale nei confronti delle lacune delle quali ha il compito di sollecitare il completamento. Questo ruolo critico e progettuale, e non semplicemente descrittivo, della scienza giuridica è stato ed è tuttora negato da gran

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parte della cultura giuspositivista34. Alle origini di questa negazione c’è sicuramente la tesi kelseniana e bobbiana dell’equivalenza di validità ed esistenza e perciò l’esclusione della figura del diritto illegittimo. Ma l’avalutatività della scienza del diritto continua tuttora ad essere difesa dalla scolastica positivistica, pur dopo il riconoscimento che quella equivalenza, innegabile nel paradigma legislativo, è diventata insostenibile nel paradigma costituzionale. Probabilmente, come detto a proposito del pensiero di Bobbio nel § 1.6, questa tesi dell’avalutatività forma piuttosto un autonomo postulato metateorico, convenientemente suffragato, ben più che fondato, dalla tesi teorica dell’identità di validità ed esistenza. Ho peraltro l’impressione che essa sia anche il riflesso di un equivoco epistemologico che ha pesato e pesa tuttora, grazie all’avallo di Kelsen e di Bobbio, sugli studi di teoria del diritto, impedendo di coglierne la dimensione pragmatica. L’equivoco consiste nell’identificazione di (teoria) “formale” o “pura” con (teoria) “avalutativa” e/o “descrittiva”. “Formale” invece, quale termine metateorico associato alla teoria del diritto e ai concetti teorici, non equivale affatto ad “avalutativa”, né tanto meno a “descrittiva”. Certamente la teoria del diritto è una teoria formale – come dice Bobbio35, o “pura” come la chiama Kelsen – al

34   Mi limito a richiamare, contro la tesi del ruolo inevitabilmente critico e normativo della scienza giuridica nel paradigma costituzionale, le critiche rivoltemi: da A. Ruiz Miguel, Validez y vigencia: un cruce de caminos en el modelo garantista, in Carbonell, Salazar, Garantismo. Estudios cit., pp. 211-232, e da R. Guastini, Rigidez constitucional y normatividad de la ciencia jurídica, ivi, pp. 245-249, ai quali ho risposto in Garantismo. Una discusión cit., cap. IV, pp. 63-81; da P. Comanducci, Problemi di compatibilità tra diritti fondamentali, in «Analisi e diritto 2002-2003», 2004, pp. 317-329, cui ho risposto in La pragmatica della teoria del diritto, ivi, in particolare nel § 7, pp. 372-375. Critiche in parte diverse mi sono state rivolte da R. Guastini, Algunos aspectos de la metateoría de Principia Iuris, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 31, 2008, pp. 253-260, cui ho risposto in Principia iuris. Una discusión teórica, ivi, § 1.2, pp. 398-402. Si veda anche la critica giuspositivistica della tesi dell’avalutatività della scienza giuridica nell’odierno paradigma costituzionale, in PiI, Introduzione, § 6, pp. 26-32. 35   Secondo Norberto Bobbio, “la teoria generale del diritto è una teoria formale del diritto nel senso che studia il diritto nella sua struttura normativa, vale a dire nella sua forma indipendentemente dai valori a cui questa struttura serve e dal contenuto che racchiude” (Bobbio, Studi sulla teoria generale del diritto cit., p. vi). “È inutile dire che questa idea”, aggiunge Bobbio, “è stata elaborata, nella

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punto che in Principia iuris ne ho fornito una formalizzazione e un’assiomatizzazione. Lo è nel senso che, di per sé, essa è solo una sintassi – la sintassi di quell’universo linguistico che è il diritto positivo – la quale non ci dice nulla sui contenuti dei concreti ordinamenti, cioè su ciò che il diritto dispone o su ciò che è giusto che disponga o su come di fatto funziona, ma si limita a stipulare concetti e tesi in grado di spiegare e di analizzare la struttura di qualunque fenomeno giuridico. Ma proprio perché formale, cioè frutto di una costruzione logica basata su assunzioni stipulate dallo stesso teorico, la teoria non può essere puramente descrittiva e avalutativa: da un lato perché, se fosse descrittiva dei contenuti empirici di un dato ordinamento o del loro dover essere, essa non sarebbe formale né formalizzabile nel senso appena illustrato ma equivarrebbe alla dogmatica giuridica di quel dato ordinamento; dall’altro perché le assunzioni operate dalla teoria, a cominciare dalle definizioni, implicano sempre scelte, le quali non sono né vere né false. Ma soprattutto la teoria non può essere esclusivamente descrittiva perché non può non postulare la coerenza e la completezza delle tesi che parlano del diritto positivo e, conseguentemente, del diritto positivo con se medesimo: una coerenza e una completezza che di fatto possono anche mancare, a causa della divaricazione deontica che virtualmente sussiste tra l’essere (legislativo) e il dover essere (costituzionale) del diritto. Naturalmente questa dimensione non puramente descrittiva ma anche valutativa e prescrittiva suggerita dalla teoria alle discipline giuridiche positive è solamente e puramente giuridica; ladforma in cui è più nota, dal Kelsen”, la cui “dottrina” o “teoria pura” è perciò “formale” nel senso suddetto. La stessa caratterizzazione della teoria del diritto come “teoria formale” è ripresa da Bobbio negli Studi cit., pp. 3-7, 34-40, 145147. Sul carattere “formale” delle tesi teoriche, rinvio alle chiarificazioni svolte ripetutamente, a proposito della mia definizione di ‘diritti fondamentali’, nel mio Diritti fondamentali cit., cap. I, § 1 pp. 5-9; cap. II, §§ 1, 5, pp. 123-145, 150-151; cap. III, §§ 1, 4, pp. 279-288, 298-309 e soprattutto nell’Introduzione a Principia iuris. Non è inutile ripetere che “formale” nel senso qui indicato, cioè quale predicato meta-teorico dei concetti e degli asserti della teoria, non ha nulla a che vedere, come si è detto nella nota 26 del precedente capitolo, con il significato di ‘formale’ come termine teorico, riferito alla ‘forma’ degli ‘atti formali’ dalla quale dipendono la loro ‘validità formale’ e la dimensione ‘formale’ della democrazia, legate entrambe all’osservanza delle norme a loro volta “formali” sulla produzione.

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dove la valutazione etico-politica resta di pertinenza della filosofia politica, pur se svolta dal giurista allorquando formula critiche apertamente ed esplicitamente politiche. È perciò utile distinguere, in sede di meta-scienza giuridica, tra quella che chiamerò “avalutatività interna” e quella che chiamerò “avalutatività esterna”. L’avalutatività esterna, non legata alla natura e alla struttura del diritto, è un valore costitutivo dell’indagine e del discorso scientifico del giurista: essa consiste nell’imparzialità e nell’assenza di condizionamenti ideologici o politici, cioè nel costume deontologico di neutralità e di oggettività che si richiede a qualunque ricerca scientifica. Altra cosa è l’avalutatività interna, cioè l’esclusione di giudizi di valore nel corso della costruzione del discorso scientifico, preclusa invece alla teoria del diritto da ragioni epistemologiche, cioè dal carattere stipulativo dei postulati e delle definizioni, e alle discipline positive da ragioni più propriamente giuridiche: da un lato dalle scelte interpretative imposte dal carattere talora vago e valutativo del linguaggio legale; dall’altro, e soprattutto, dal dislivello normativo tra costituzione e legge ordinaria che impone la valutazione e la critica delle violazioni dell’una da parte dell’altra, siano esse consistenti in antinomie o in lacune. È in questa divaricazione interna al diritto tra livelli normativi – connessa alla duplice dimensione di “norma” e di “fatto” a sua volta regolato da norme, assunta dalla legalità ordinaria nello stato costituzionale di diritto – che risiede il tratto distintivo del paradigma costituzionale, caratterizzato appunto dalla subordinazione della legge ai principi etico-politici in esso incorporati e così trasformati da fonti di legittimazione politica o esterna in fonti di legittimazione (e, se violati, di delegittimazione) anche giuridica o interna. Ne conseguono tre mutamenti nello statuto epistemologico della scienza giuridica: nella natura della teoria del diritto, nel ruolo delle discipline giuridiche positive e nei rapporti tra la teoria e le discipline positive, che nel loro insieme formano la scienza giuridica, con la filosofia politica e con la sociologia del diritto36. 36   PiI, Introduzione; Per una rifondazione epistemologica della teoria del diritto, in Di Lucia, Assiomatica del normativo cit., pp. 15-32; La teoria generale del diritto: l’oggetto, il metodo e la funzione, in «Rivista di Filosofia del diritto», I, 2012, 2, pp. 229-251.

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Il primo mutamento riguarda lo statuto metateorico della teoria del diritto, configurabile come la sintassi del paradigma costituzionale rispetto alla quale le discipline giuridiche positive, la filosofia politica e la sociologia del diritto rappresentano altrettante interpretazioni empiriche o semantiche. La principale implicazione metateorica della divaricazione interna tra i livelli normativi del paradigma costituzionale riguarda pertanto il rapporto tra la logica e i suoi usi nella teoria del diritto da un lato, e il diritto medesimo dall’altro; in particolare, tra i principi logici iuris tantum della coerenza e della completezza formulati dalla teoria e i concreti ordinamenti giuridici, nei quali non sempre tali principi sono soddisfatti, ed esistono, perciò, antinomie e lacune strutturali generate dal divario che sempre virtualmente sussiste tra normatività ed effettività37. Conseguentemente, coerenza e completezza, richieste dalla logica alla teoria del diritto e alle discipline giuridiche positive quali condizioni di consistenza di qualunque discorso sul diritto, non sono né possono essere, nel paradigma costituzionale, caratteri intrinseci del diritto che è oggetto della teoria. Giacché questo diritto è un sistema nomodinamico, articolato su più livelli, ciascuno dei quali è normativo nei confronti di quello inferiore e può essere perciò da questo violato e contraddetto. La logica, in breve, è propria dei discorsi sul diritto, mentre non è, pur se dovrebbe, del discorso del diritto positivo, nei cui confronti ha perciò un ruolo non già descrittivo ma prescrittivo. Ciò vuol dire che i principi della logica deontica e tutti quelli della teoria che fanno uso di figure deontiche – come la contraddizione tra permesso e vietato, o l’implicazione tra aspettativa positiva e obbligo corrispondente espresse rispettivamente dai due quadrati delle opposizioni di cui ho parlato fin dai primi due capitoli di Principia iuris38 – sono sì principi del diritto ma non principi nel diritto. Non consistono in principi interni al diritto positivo, cioè in quelli che possiamo chiamare principia iuris et in iure, non essendo espressi né esplicitamente 37   Rinvio, per un approfondimento della questione, alla mia replica La logica nel diritto e nella teoria del diritto agli interventi raccolti da L. Baccelli (a cura di), More geometrico. La teoria assiomatizzata del diritto e la filosofia della democrazia di Luigi Ferrajoli, Giappichelli, Torino 2012, pp. 113-151. 38   PiI, § 1.4, pp. 120-124, § 2.3, pp. 151-157.

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né implicitamente da norme giuridiche. Per questo li ho chiamati principia iuris tantum: perché impongono all’intero diritto positivo, quali principi ad esso esterni, il suo “dover essere giuridico”, cioè la coerenza logica che per il suo carattere nomodinamico esso può di fatto non avere ma che, per la dimensione nomostatica innestata dalle norme sostanziali sulla sua produzione, esso deve logicamente e giuridicamente avere con i principia iuris et in iure costituzionalmente stabiliti. Ne consegue un secondo mutamento epistemologico, che investe le discipline giuridiche dei diversi ordinamenti e che consiste nel ruolo normativo che il paradigma teorico e formale della democrazia costituzionale, strutturato su più gradi o livelli normativi, suggerisce ad esse di svolgere nei confronti del diritto positivo. Entro tale paradigma, infatti, i principi teorici formulati dalla teoria quali principia iuris tantum sono per un verso principi analitici logicamente veri, descrittivi appunto del modello teorico; ma per altro verso sono principi normativi che impongono al diritto, non diversamente dai principi della logica o della matematica rispetto ai discorsi che ne fanno uso, la coerenza e la completezza rispetto ai principia iuris et in iure stipulati, in forma di diritti e principi di giustizia, dalle norme costituzionali. Insomma, i principi di questo secondo tipo – iuris et in iure – sono sì principi assiologici, ma sono anche principi interni di diritto positivo; mentre i principi del primo tipo – iuris tantum – sono sì principi esterni al diritto positivo, ma non sono affatto principi assiologici, bensì principi logici, la cui normatività non è diversa da quella delle regole della grammatica e della sintassi. Il paradigma costituzionale, contrassegnato dai dislivelli normativi, postula insomma, se preso sul serio, una scienza giuridica non puramente ricognitiva ma anche critica e progettuale nei confronti della virtuale presenza di antinomie e di lacune: cioè una teoria del diritto e una dogmatica giuridica che non possono più limitarsi a dire, secondo una classica tesi bobbiana, “ciò che il diritto è”39, non potendo non dire anche “ciò che il diritto deve essere” e che parimenti fa parte, a 39   Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico cit., cap. V, § 3, p. 88: “Come modo di avvicinarsi allo studio del diritto, il positivismo giuridico è caratterizzato dalla netta distinzione tra diritto reale e diritto ideale, o, con altre espressioni equivalenti, fra diritto come fatto e diritto come valore, tra il diritto

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un livello normativo superiore, del “diritto che è”, pur se ai livelli normativi inferiori “illegittimamente non è”. Di nuovo, e a maggior ragione, possiamo ripetere quanto scrisse Gaetano Filangieri in apertura della sua Scienza della legislazione: non il diritto che è, ma “la legislazione”, cioè il diritto che deve essere prodotto, “è oggi questo oggetto comune di coloro che pensano”40. Di qui il terzo mutamento epistemologico, che riguarda la dimensione pragmatica dell’intera scienza giuridica e, in particolare, i rapporti tra la teoria del diritto, le discipline giuridiche positive da un lato e la filosofia politica e la sociologia del diritto dall’altro. Il vecchio paradigma legislativo, entro il quale validità ed esistenza delle norme coincidevano, imponeva all’intera scienza giuridica un approccio al diritto positivo puramente descrittivo e avalutativo, secondo il primo dei significati di positivismo giuridico indicati da Norberto Bobbio. Fu su questa base che il metodo tecnico-giuridico, intollerante di ogni contaminazione di carattere politico o sociologico, si impose alla cultura giuridica positivista come il solo metodo di indagine scientifica. Di qui il tradizionale ruolo conservatore della scienza giuridica, o quanto meno la sua rigida separazione, secondo la celebre massima benthamiana, dalla critica del diritto, legittima soltanto dal punto di vista politico ad esso esterno41. Il paradigma costituzionale, imponendo alle discipline giuridiche positive la critica del diritto invalido e la progettazione del diritto futuro, l’una e l’altra dall’interno dello stesso diritto positivo perché ancorate al rispetto e all’attuazione dei principi democratici positivamente incorporati nelle costituzioni, ha cambiato l’atteggiamento dei giuristi nei confronti del loro oggetto d’indagine, orientandolo alla difesa e alla realizzazione del progetto costituzionale.

quale è e il diritto quale deve essere; e dalla convinzione che il diritto di cui deve occuparsi il giurista sia il primo e non il secondo”. 40   G. Filangieri, La scienza della legislazione (1780-1791), ed. critica a cura di A. Trampus, Centro di studi sull’Illuminismo europeo “G. Stiffoni”, Venezia 2003, vol. I, t. I, Introduzione, p. 12. 41   “Obbedire puntualmente, criticare liberamente”: questa la semplice massima con cui Bentham espresse il principio dell’imperio della legge nello stato legislativo di diritto (J. Bentham, A Fragment on Government, or a Comment on the Commentaries [1776], in Works of Jeremy Bentham, a cura di J. Bowring, Russell and Russell, New York 1962, vol. I, Preface, p. 230).

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Si spiega così, del resto, il ruolo progressista di fatto svolto in questi anni da una parte della scienza giuridica. Il costituzionalismo garantista ripropone infatti in maniera ineludibile i nessi biunivoci tra diritto e politica e tra scienza giuridica, filosofia politica e sociologia del diritto, programmaticamente ignorati ed esclusi dal vecchio metodo tecnico-giuridico, promuovendo una cultura giuridica militante in difesa dell’assetto costituzionale e dei diritti fondamentali: una cultura, peraltro, che richiede non un minore ma un maggior rigore metodologico. Esso ripropone, in primo luogo, il nesso tra scienza giuridica e politica: la politica e ancor prima le forze sociali sollecitano la riflessione della scienza giuridica sulle nuove istanze di garanzia connesse alle rivendicazioni di nuovi diritti; la scienza giuridica, a sua volta, suggerisce alla politica le tecniche di garanzia idonee a censurare il diritto illegittimo, a ottenerne le correzioni, ad attuare i principi costituzionali, a limitare e a disciplinare i tanti poteri selvaggi, pubblici e privati, che inevitabilmente si sviluppano in assenza di adeguate regole e controlli. Ripropone, in secondo luogo, i nessi e insieme le differenze metodologiche tra i diversi approcci disciplinari allo studio del diritto: la teoria del diritto, che essendo una costruzione artificiale basata su assunzioni e definizioni stipulative può – e se può, allora deve – essere elaborata nei termini più precisi e nelle forme logicamente più rigorose; le discipline giuridiche positive e dogmatiche, elaborate sulla base dell’interpretazione sistematica e dell’analisi del linguaggio legale e costituzionale e orientate alla critica interna e alle proposte di soluzione delle antinomie e delle lacune; la filosofia politica o della giustizia, basata sull’argomentazione morale e politica e rivolta alla critica esterna del diritto e alla sua progettazione e trasformazione; la sociologia del diritto, cioè l’indagine empirica sul funzionamento di fatto del diritto, che a sua volta sollecita, sulla base delle disfunzioni, delle carenze e delle iniquità da essa rilevate, il punto di vista critico esterno della filosofia politica e della politica. Di qui, in particolare, un nuovo terreno di incontro tra scienza giuridica e filosofia politica, dopo il lungo divorzio dichiarato oltre un secolo fa dalla cultura giuridica sulla base dell’opzione per il positivismo legislativo e per il vecchio metodo tecnico-giuridico: concetti come libertà, uguaglianza e diritti umani, nati nella filosofia politica, sono oggi transitati nel corpo degli ordinamenti positivi e non possono più essere ignorati

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dalla teoria del diritto. Ma è proprio l’estraneità di tali concetti alla tradizionale teoria del diritto che è all’origine, come ora si vedrà, del rifiuto paleopositivista di concepire il costituzionalismo come un nuovo paradigma rispetto a quello legislativo. 2.9. L’estraneità alla teoria del diritto tradizionale delle nozioni formali di ‘diritti fondamentali’ e di ‘paradigma costituzionale’  La letteratura teorico-giuridica ignora la nozione puramente formale di ‘diritti fondamentali’ e la normatività sostanziale che a tali diritti logicamente proviene dalla loro incorporazione costituzionale al vertice degli ordinamenti. È questa, a me pare, un’ulteriore ragione, oltre a quelle illustrate nei paragrafi che precedono, che spiega e ancor prima segnala l’indisponibilità della cultura giuspositivista a riconoscere il vistoso mutamento di paradigma del diritto, della politica e della scienza giuridica prodottosi con il costituzionalismo rigido. Per Kelsen i diritti fondamentali non sono neppure, propriamente, diritti soggettivi. “Fra i diritti politici”, egli scrive, “vengono anche computati quelli che si sogliono denominare diritti e libertà fondamentali, statuiti dalle costituzioni degli Stati moderni garantendo l’eguaglianza davanti alla legge, la libertà (cioè l’inviolabilità) della proprietà, la libertà della persona, la libertà di opinione, in particolare la libertà di stampa, la libertà di coscienza, la libertà di associazione e di riunione. Queste garanzie costituzionali non sono di per sé diritti soggettivi”42. E più oltre: “Nella precedente analisi dei diritti e delle libertà fondamentali, si è dimostrato che questi non sono di per sé diritti soggettivi”43. Per Kelsen, infatti, solo i diritti patrimoniali sono “diritti soggettivi” nel “senso tecnico in cui il creditore ha diritto a riavere il suo danaro da parte del debitore, o il proprietario ha un diritto all’uso esclusivo della sua proprietà”44: cioè nel senso già visto nel § 2.4, frutto della sua concezione imperativistica del diritto, che senza sanzioni e senza i doveri corrispondenti – in altre parole, senza le corrispondenti garanzie secondarie e primarie – non esistono diritti soggettivi.

  Kelsen, La dottrina pura cit., cap. IV, § 29, f, p. 163.   Ivi, cap. VI, § 41, b, p. 335. 44   Kelsen, Teoria generale del diritto cit., VI, C, d, p. 81. 42 43

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Non solo Kelsen, d’altra parte, ma anche Bobbio, Hart e Ross, quando parlano dei diritti fondamentali, non ne parlano in termini formali come di concetti appartenenti alla teoria del diritto, bensì con riferimento ai loro concreti contenuti – in particolare alle classiche libertà fondamentali –, trattandoli perciò come concetti appartenenti alla teoria politica della democrazia. Lo stesso si dica di molti odierni teorici del diritto, ai quali è apparsa strana e inaccettabile la mia definizione formale – cioè priva di connotazioni assiologiche o sostanziali, perché appartenente alla teoria formale del diritto – dei diritti fondamentali come diritti universali, attribuiti a tutti in quanto persone o cittadini e/o capaci d’agire, quali che siano in concreto, anche se futili o peggio moralmente riprovevoli45, le aspettative positive o negative con essi stipulate46; mentre nessuno metterebbe in dubbio il carattere formale delle definizioni teoriche di concetti come norma giuridica, obbligo, divieto, diritto soggettivo, validità o ordinamento, da nessuna delle 45   È il caso del secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, risalente, insieme ai primi dieci, al 1791: “Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben ordinata milizia, il diritto dei cittadini di tenere e portare armi non potrà essere violato”. 46   Ricorderò due autori che offrono due letture diverse, l’una post-positivista e l’altra positivista del costituzionalismo, ma che criticano entrambi come insostenibile una definizione solamente formale dei diritti fondamentali come quella da me proposta: Manuel Atienza, secondo cui tali diritti sono “valori” e la loro nozione implica il riferimento all’“idea di valore” (M. Atienza, Tesis sobre Ferrajoli, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 31, 2008, § 8, p. 215; Id., Sobre Ferrajoli y la superación del positivismo jurídico, in Ferrajoli, Moreso, Atienza, La teoría del derecho en el paradigma constitucional cit., § 6.1, p. 159; Id., Una teoria pragmatica del diritto, in «Rivista di Filosofia del diritto», I, 1, 2012, p. 130), e Tecla Mazzarese, che parimenti sostiene che tale concetto “non può non avere” una “marcata” e “intrinseca connotazione assiologica” (Mazzarese, Diritti fondamentali e neocostituzionalismo cit., § 3.1, pp. 38-39; Id., Razonamiento judicial y derechos fundamentales. Observaciones lógicas y epistemológicas in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 26, 2003, pp. 687-716; Id., Ancora su ragionamento giudiziale e diritti fondamentali. Spunti per una posizione ‘politicamente scorretta’, in «Ragion pratica», 35, 2010, § 5). Ma si vedano anche le critiche rivolte da E. Vitale, D. Zolo, L. Baccelli, M. Bovero e A. Pintore alla definizione formale di diritti fondamentali che ho dato nel mio Diritti fondamentali cit. e le mie risposte ivi, cap. II, § 2, pp. 123-134 e cap. III, §§ 4-6, pp. 314-332 e poi, di nuovo, da L. Baccelli, Assiomatizzare i diritti?, in Id., More geometrico cit., § 2, pp. 63-75, su cui si veda la mia replica La logica nel diritto e nella teoria del diritto, ivi, § 7, pp. 131-138. Si veda anche, sulla questione, il mio El constitucionalismo garantista cit., § 3, pp. 323-330.

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quali si richiede che dicano, in termini assiologici o sostanziali, quali sono o sarebbe giusto che siano le norme, gli obblighi, i divieti, i diritti o le concrete condizioni di validità delle norme richieste dai concreti ordinamenti. La ragione di questo diverso trattamento consiste evidentemente nel fatto che, diversamente dai concetti di obbligo, divieto, norma, validità e simili, la nozione di diritti fondamentali non è mai stata definita né utilizzata come concetto della teoria del diritto – formale al pari di tutti gli altri concetti teorici perché definibile unicamente, come nella definizione da me proposta, in base alla quantificazione universale dei soggetti che di tali diritti sono titolari –, ma è sempre stata considerata come una nozione appartenente alla filosofia politica, oltre che, ovviamente, alle discipline giuridiche positive, soprattutto costituzionalistiche. Ma questo vuol dire che proprio la pretesa che la sua definizione teorica includa o debba includere connotati assiologici o riferimenti ai valori di fatto positivizzati nei concreti ordinamenti segnala l’idea che tale concetto non viene considerato (anche) come un concetto della teoria del diritto. A sua volta, questa persistente estraneità della nozione di diritti fondamentali alla teoria (formale) del diritto si spiega soltanto con una concezione del diritto ancora basata sul vecchio paradigma legislativo, quando tali diritti non si erano tramutati, grazie alle costituzioni rigide del secondo dopoguerra, da limiti e vincoli politici esterni in limiti e vincoli giuridici interni di diritto positivo, e il relativo concetto non apparteneva perciò al lessico giuridico. E vale peraltro a spiegare la contrarietà di Kelsen all’“incorporazione” nelle costituzioni di “principi” o “ideali di equità, di giustizia, di libertà, di uguaglianza, di moralità etc.” e alla possibilità che essi siano “applicati da un organo di giustizia costituzionale” con conseguente “spostamento di potere dal parlamento a un organo estraneo”47. Ma proprio tutto questo è la migliore conferma della validità teorica della contestata nozione formale di diritti fondamentali e, insieme, della centralità di tale nozione, che non può essere ignorata da

47   Kelsen, La garanzia giurisdizionale della costituzione cit., § 17, pp. 189190. “Quella kelseniana”, ha perciò osservato Mauro Barberis, “è ancora una teoria dello stato legislativo otto-novecentesco” (Barberis, Stato costituzionale cit., p. 41).

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qualunque teoria del diritto che intenda dar conto della struttura delle odierne democrazie costituzionali. L’estraneità alla teoria tradizionale del diritto di una nozione di diritti fondamentali puramente formale, cioè indipendente dai suoi concreti contenuti assiologici, finisce così per risolversi nell’assunzione in suo luogo, sul piano teorico, della nozione di diritti fondamentali espressa dalla filosofia politica o dalle discipline costituzionaliste e riferita ai valori di uguaglianza, di libertà e di giustizia da tali diritti di solito concretamente espressi. Ovviamente tutti noi condividiamo il valore etico-politico del principio di uguaglianza, delle libertà fondamentali e dei diritti sociali. Ma questo valore morale non può far parte della definizione del concetto di ‘diritti fondamentali’ formulato in sede di teoria del diritto, senza comprometterne, oltre al carattere formale, la portata empirica e la capacità esplicativa. È infatti certo che un conservatore statunitense non concepisce come un valore il diritto all’assistenza sanitaria pubblica e gratuita; e che un cattolico integralista non considera un valore il principio dell’autodeterminazione su questioni vitali e perciò il diritto, ad esempio, di rifiutare trattamenti sanitari coer­citivi. Diremo che tali diritti, pur costituzionalmente stabiliti, non sono fondamentali perché non rientrano e sono anzi contrari ai valori del conservatore statunitense o del cattolico integralista, da essi magari assunti come “oggettivi”? All’opposto, prendiamo il diritto di detenere e portare armi stabilito dal secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti: diremo forse che esso non è un diritto fondamentale solo perché lo consideriamo criminogeno, segno di un incompleto trapasso dallo stato di natura alla società civile e al monopolio statale della forza? O non dobbiamo dire, piuttosto, che esso è un diritto fondamentale cui noi attribuia­mo non un valore ma un disvalore e che la norma che lo stabilisce è, per tale ragione, una norma ingiusta? Ma quest’ultima è una tesi di filosofia politica né vera né falsa, tanto che è contestata da quanti invece difendono quell’emendamento come espressione di un valore irrinunciabile; così come sono tesi di filosofia morale o politica le tesi, parimenti ritenute “oggettive” dai loro assertori, sul valore o sul disvalore del diritto all’assistenza sanitaria o all’autodeterminazione su questioni vitali. Confondere la teoria del diritto con la filosofia politica o con la dogmatica giuridica non giova né alla sua capacità

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esplicativa né alla sua dimensione pragmatica. Ne consegue un’ulteriore conferma della validità, in sede di teoria del diritto, di una definizione solo formale di ‘diritti fondamentali’: la quale, al pari delle definizioni di tutti gli altri termini della teoria, non deve dirci “quali sono” o “quali è giusto che siano”, ma solo “che cosa sono” i diritti fondamentali. Solo una tale definizione, infatti, può dar conto di tutti i diritti universalmente stabiliti o rivendicati come fondamentali nei diversi ordinamenti, indipendentemente dalle opzioni morali o politiche che sono alle loro e alle nostre spalle. Ma soprattutto ne consegue, più in generale, la conferma della validità teorica della nozione puramente formale di “paradigma costituzionale”, non meno di quella di “paradigma legislativo” già rilevata nel § 1.3: inteso “formale” nel senso metateorico precisato nel precedente paragrafo, cioè in un senso ovviamente ben diverso dal significato teorico del medesimo termine riferito alla ‘forma’ di produzione degli atti decisionali, anziché al significato, ossia alla ‘sostanza’ delle decisioni prodotte48. Con paradosso apparente, diremo infatti che solo il carattere formale – e perciò formalizzabile – della teoria del diritto e del paradigma teorico del costituzionalismo garantista consente di evidenziare e tematizzare la dimensione sostanziale, in aggiunta a quella formale, della democrazia costituzionale: inteso ora ‘sostanziale’, oltre che ‘formale’, quale predicato teorico di termini come ‘validità’, ‘norme sulla produzione’, ‘democrazia’ e simili. Soltanto definizioni formali, infatti, consentono di introdurre una serie di concetti teorico-giuridici necessari a dar conto dei limiti e dei vincoli sostanziali imposti, nello stato costituzionale di diritto, a tutti i poteri normativi: in primo luogo le nozioni formali di ‘norme sostanziali’ e di ‘validità sostanziale’, identificate le prime con le norme sulla produzione che dettano tali limiti e vincoli ai significati sostanziali delle decisioni prodotte, e la seconda con la coerenza o compatibilità logica di queste con i significati delle prime; in secondo luogo, e più specificamente, la nozione formale di ‘diritti fondamentali’ i quali, se costituzionalmente stabiliti, consistono in aspettative negative o positive di carattere universale nei confronti di tutti i poteri, sia pubblici che 48   Su questi diversi significati di “formale” quale termine teorico e quale termine metateorico, rinvio alle note 26 e 52 del primo capitolo e alla nota 35 di questo capitolo.

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privati; in terzo luogo, e ancor più specificamente, le nozioni formali di ‘diritti individuali’ – ‘di libertà’, ‘civili’ e ‘politici’ – e di ‘diritti sociali’, identificati i primi con le aspettative negative di non lesione o restrizione e i secondi con le aspettative positive di prestazione, le une e le altre omnium, nei confronti della sfera pubblica; in quarto luogo le nozioni formali di ‘garanzie negative’ e ‘positive’, cioè dei divieti e degli obblighi erga omnes logicamente corrispondenti ai diritti stabiliti e normativamente imposti alla legislazione di attuazione; in quinto luogo, infine, le stesse nozioni, anch’esse formali in senso metateorico, di ‘democrazia sostanziale’, oltre che ‘formale’, e più specificamente di ‘democrazia liberale’ e di ‘democrazia sociale’49. È in questa correlazione isomorfica tra le strutture normative del diritto e le strutture istituzionali della democrazia che consiste il paradigma costituzionale: il cui tratto teorico distintivo – che, come vedremo nel quinto capitolo, ne consente l’espansione a tutti i poteri, ben al di là di quelli statali – è precisamente il suo carattere formale, cioè la stipulazione di ciò che non può essere deciso e di ciò che non può essere non deciso, a garanzia di ciò che dal patto costituente è stato stipulato come fondamentale. Inversamente, è proprio nell’indisponibilità a considerare il concetto di diritti fondamentali e quelli ad esso logicamente connessi come concetti suscettibili, in sede di teoria del diritto, di definizioni solamente formali, che affondano le loro radici le tesi neo-costituzionaliste o principialiste dell’oggettivismo etico e della connessione tra diritto e morale, sostenute sulla base del valore oggettivamente morale per definizione assegnato ai diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti. È pertanto alla critica di queste tesi che saranno dedicati i primi paragrafi del prossimo capitolo.

49   Per questa sequenza di concetti, rinvio – in PiI, §§ 9.7, 9.1, 11.10, 11.3, 11.4, 11.9, 12.18, pp. 515, 531, 727, 738-744, 773, 934-935 – alle definizioni D9.12 di ‘norme sostanziali’, D9.19 di ‘validità sostanziale’, D11.1 di ‘diritti fondamentali’, D11.8-D11.15 di ‘diritti individuali’, di ‘diritti sociali’ e degli altri tipi di diritti fondamentali, D11.24-D11.26 dei ‘limiti’ e dei ‘vincoli fondamentali’ nei quali consistono le corrispondenti garanzie negative o positive e D12.34D12.39 di ‘democrazia sostanziale’ e delle altre dimensioni della democrazia.

III

Il costituzionalismo principialista

3.1. Due questioni controverse nella concezione del costituzionalismo  I diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti, si è detto nei §§ 1.5 e 2.6-2.8, sono norme sostanziali sulla produzione normativa. Sono in primo luogo “norme” essi stessi, essendo immediatamente disposti in via generale ed astratta in capo ai loro titolari, a differenza dei diritti patrimoniali, come il diritto reale di proprietà o il diritto di credito, che sono invece pre-disposti dalle norme che li prevedono quali effetti degli atti singolari da esse ipotizzati. Sono in secondo luogo norme “sostanziali” sulla produzione di norme, nel senso che disciplinano non già la forma, bensì il significato, cioè la sostanza delle norme prodotte – ciò che non può essere o non essere deciso –, condizionandone la validità alla coerenza con i diritti e i principi di giustizia da esse formulate. Queste due tesi sollevano due importanti questioni teoriche. La prima riguarda la natura delle norme nelle quali consistono i diritti fondamentali: se si tratti di “regole” oppure di “principi” tra loro in potenziale conflitto, volta a volta solubile con la loro “ponderazione”. La seconda riguarda la natura dei loro significati o contenuti sostanziali: se tali contenuti, consistendo in principi etico-politici di giustizia, abbiano ristabilito o meno la connessione tra il diritto e la morale in contrasto con il principio giuspositivista della separazione tra le due sfere. Su entrambe le questioni sosterrò due tesi opposte ad altrettante tesi di fondo che caratterizzano la concezione oggi prevalente del costituzionalismo, comunemente denominata “neocostituzionalista” e più sopra chiamata “principialista”: in primo luogo il carattere di regole della maggior parte delle norme che enunciano diritti fondamentali, in opposizione alla loro concezione corrente come principi, oggetto

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di ponderazione anziché di applicazione; in secondo luogo la separazione tra diritto e morale, che a mio parere non viene meno con la sostanza democratica innestata nelle costituzioni da tali diritti. Sono queste due tesi, entrambe di rilevante portata ai fini di una teoria normativa non soltanto della democrazia costituzionale, ma anche della democrazia politica, che saranno illustrate nei prossimi paragrafi. 3.2. Sul significato della tesi della connessione e di quella della separazione tra il diritto e la morale  Comincerò dalla seconda questione. I diritti fondamentali, e in generale tutti i principi stabiliti nelle odierne costituzioni, consistono chiaramente in valori morali e politici di giustizia altamente condivisibili. Di qui, secondo molti autori, l’idea che la loro costituzionalizzazione abbia reso insostenibile il principio giuspositivista della separazione tra diritto e morale e ristabilito la connessione tra le due sfere1. Per comprendere il senso di questa tesi e della sua opposizione alla vecchia tesi della separazione è necessario chiarire i termini della questione. Che cosa s’intende, nel dibattito filosofico-giuridico, con “connessione” e che cosa con “separazione” tra diritto e morale? Diciamo subito che cosa non deve intendersi con “con-

1   Mi limito a ricordare Dworkin, I diritti presi sul serio cit., cap. I; C.S. Nino, Introduzione all’analisi del diritto (1980), trad. di M. Barberis, P. Chiassoni, V. Ottonelli e S. Pozzolo, Giappichelli, Torino 1996; Id., Etica y derechos humanos. Un ensayo de fundamentación, Ariel, Barcelona 1989; J. Habermas, Diritto e morale (1988), trad. di L. Ceppa, in Id., Morale, diritto e politica, Einaudi, Torino 1992, p. 36; R. Alexy, On Necessary Relations between Law and Morality, in «Ratio Juris», 2, 1989, pp. 167 sgg.; Id., Concetto e validità del diritto cit.; Zagrebelsky, Il diritto mite cit., § 4, p. 162; Id., Introduzione, in R. Alexy, Concetto e validità cit., p. xix; Id., La legge e la sua giustizia. Tre capitoli di giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna 2008, cap. I, § 2, p. 24; M. Atienza, El sentido del derecho, Ariel, Barcelona 2001, p. 112; Id., El Derecho como argumentación. Concepciones de la argumentación, Ariel, Barcelona 2006, pp. 53, 245; Id., Tesis sobre Ferrajoli cit., § 6, p. 215; Id., Dos versiones del constitucionalismo, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 34, 2011, pp. 80, 82, 85; J.J. Moreso, El reino de los derechos y la objectividad de la moral (2002), in Diritti umani e oggettività della morale, a cura di E. Diciotti, DiGips, Siena 2003, pp. 9-40; Id., Ferrajoli o el constitucionalismo optimista cit., § 4, p. 285; F. Modugno, Scritti sull’interpretazione costituzionale, Esi, Napoli 2008. Si vedano anche i rilievi critici su questa tesi in Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista cit., § 2, pp. 2778-2781, § 4, pp. 2786-2794.

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nessione”, cioè quali significati di questa espressione non sono in questione, dato che nessuna persona di buon senso, e certamente nessun sostenitore della separazione, ha mai pensato di negare. Non si intende, con tale formula, nessuna di queste tesi, tutte banali e scontate: che le leggi abbiano contenuti morali (oppure immorali), cioè suscettibili di apprezzamento morale, e che contenuti morali (per noi) altamente apprezzabili abbiano gran parte dei nostri principi costituzionali; che esse siano accompagnate da una pretesa soggettiva di giustizia, essendo ovvio che qualunque legislatore ritiene e ha perciò la pretesa che le sue leggi siano ritenute giuste; che infine nell’interpretazione dei testi delle leggi e soprattutto delle costituzioni intervengano inevitabilmente, a suo sostegno, scelte orientate da opzioni morali o comunque eticopolitiche delle quali deve essere argomentata razionalmente la conformità ai principi costituzionali. Ciò che a partire da queste banalità, per una sorta di slittamento semantico, viene sostenuto dagli assertori della connessione è tuttavia che i principi costituzionali, poco importa se tutti o alcuni, incorporano non già una determinata morale, sia pure da noi condivisa, bensì la morale o la giustizia in qualche senso oggettivo della parola. La “pretesa di giustezza” della quale parla Robert Alexy non è affatto una pretesa in senso solo soggettivo2, ma equivale, al contrario, alla pretesa che le norme valide “non abbiano il carattere dell’ingiustizia estrema”, sicché “norme singole conformi

2   In assenza di questa pretesa, osserva Robert Alexy, un sistema normativo non è neppure un sistema giuridico: Alexy, Concetto e validità del diritto cit., cap. I, § 3.2, p. 33, § 4.1, p. 34; cap. II, § 4.2.2, pp. 64-65; cap. III, § 2.1, p. 94; cap. IV, p. 130. È la pretesa di giustezza, egli afferma, che distingue, quale criterio classificatorio, un “ordinamento banditesco” da un “ordinamento dei dominanti”, sia pure ingiusto (ivi, p. 32). È chiaro che questa tesi non contraddice affatto la tesi giuspositivista della separazione; così come non la contraddice, contrariamente a quanto ritiene Alexy (ivi, p. 80), la tesi parimenti banale e sostanzialmente equivalente della cosiddetta “connessione debole” secondo cui “sussiste una connessione necessaria tra il diritto e una qualche morale” (ivi, cap. II, § 4.3.2, p. 78), cioè, quanto meno, la morale del legislatore. “Questo aspetto”, riconosce del resto Alexy, “ha poca rilevanza pratica. Di fatto i sistemi giuridici concretamente esistenti avanzano regolarmente una pretesa di giustezza anche se talora con scarse giustificazioni” (ivi, pp. 130-131). La tesi ben più impegnativa avanzata da Alexy è quella chiaramente antigiuspositivista della cosiddetta “connessione forte”, secondo cui esisterebbe “una connessione necessaria tra il diritto e la giusta morale” (ivi, § 4.3.2, p. 78, § 4.3.3, pp. 80-85).

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all’ordinamento perdono validità giuridica... se sono estremamente ingiuste”3, evidentemente in qualche senso oggettivo. “Nei sistemi costituzionali”, scrive Jürgen Habermas, “la morale non sta più sospesa in aria, al di sopra del diritto, così come suggeriva la costruzione del diritto di natura nei termini di un insieme sopra-positivo di norme; adesso la morale si introduce nel cuore stesso del diritto positivo”4. “Il rapporto con la giustizia è costitutivo del concetto stesso di legge”, afferma Gustavo Zagrebelsky5. Ronald Dworkin, a sua volta, trova incomprensibile che un giudizio morale sia qualcosa di diverso da un giudizio “realmente” o “oggettivamente” o “veramente” morale: che ad esempio la tesi “la schiavitù è ingiusta” esprima qualcosa di diverso da “la schiavitù è oggettivamente o realmente ingiusta”6. José Juan Moreso sostiene che per fondare

  Alexy, Concetto e validità del diritto cit., cap. IV, pp. 132-133; cfr. anche, ivi, cap. II, § 4.2.1, pp. 39 sgg., § 4.2.2, p. 65; cap. III, § 1.2, pp. 92-93. Si tratta, nella sostanza, della classica formula enunciata all’indomani degli orrori del nazismo da Gustav Radbruch e richiamata da Alexy (ivi, cap. II, § 4.2.1, pp. 39 sgg.), secondo la quale la legge positiva perde validità allorquando la sua ingiustizia raggiunga una “misura intollerabile”: G. Radbruch, Ingiustizia legale e giustizia sovralegale (1946), trad. it., in A.G. Conte, P. Di Lucia, L. Ferrajoli, M. Jori (a cura di), Filosofia del diritto, Raffaello Cortina, Milano 2002, pp. 157-158. 4   Habermas, Diritto e morale cit., p. 36. 5   Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia cit., cap. I, § 2, p. 24; Id., Il diritto mite cit., § 4, p. 162: “In presenza dei principi la realtà esprime valori e il diritto vale come se vigesse un diritto naturale [...]. Il diritto per principi incontra il diritto naturale”; Id., Introduzione cit., p. xix: “Il diritto non è più solo la legge statuita ma è diventato la fusione della legge con indipendenti principi di giustizia”. 6   R. Dworkin, Questioni di principio (1985), trad. di E. D’Orazio, Il Saggiatore, Milano 1990, pp. 211-215. Di qui la famosa tesi normativa dell’“unica soluzione corretta”, sostenuta da R. Dworkin, No right Answer? (1978), trad. it. Non c’è soluzione corretta?, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2, 1983, pp. 469-501, peraltro in singolare contrasto con l’ampliamento della discrezionalità giudiziaria promosso dal ruolo centrale assegnato al bilanciamento nell’applicazione dei principi. Mi limito a ricordare, tra le molte critiche di questa tesi: R. Guastini, Soluzioni dubbie. Lacune e interpretazione secondo Dworkin. Con un’appendice bibliografica, ivi, pp. 449-467; E. Bulygin, Normas, proposiciones normativas y enunciados jurídicos (1982), in C.E. Alchourron, E. Bulygin, Analisis lógico y derecho, Centro de Estudios Constitucionales, Madrid 1991, § 4, pp. 186-189, trad. it., in E. Bulygin, Norme, validità, sistemi normativi, Giappichelli, Torino 1995, § 4, pp. 110-115, che mostra come le “proposizioni di diritto” discusse da Dworkin (ad esempio, ‘il contratto di Tom è valido’, ‘il comportamento di Jim costituisce reato’) “non sono né norme né proposizioni normative”, ma “hanno caratteristiche di entrambe”, essendo normative e al 3

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l’universalismo dei diritti umani è necessario assumere che esista una morale oggettiva7 e considera “un’ovvietà che le costituzioni includono concetti e tesi morali... e quindi incorporano la morale nel diritto”8. Manuel Atienza, infine, afferma ripetutamente che “esiste una connessione intrinseca tra il diritto e la morale”9 e che il costituzionalismo argomentativo o principialista è vincolato a una concezione oggettivistica della morale10. Alla base di questa tesi c’è dunque l’idea che esiste non già una tempo stesso vere o false, “sebbene tali caratteristiche siano tra loro incompatibili”; con la conseguenza che “risultano inintelligibili”; A. Pintore, Il diritto senza verità, Giappichelli, Torino 1996, pp. 167-172, che nella tesi dworkiniana vede “un ottimo esempio di versione ontologica e metafisica di teoria coerentista del diritto”; Giordano, Positivismo cit., pp. 148-176. 7   Moreso, El reino de los derechos y la objectividad de la moral cit., pp. 9-40. Si vedano, su questo saggio, le puntuali critiche di B. Celano, Commenti a José Juan Moreso, ivi, pp. 41-85. 8   Moreso, Ferrajoli o el constitucionalismo optimista cit., § 4, p. 285. 9   Atienza, Dos versiones del constitucionalismo cit., § 3, pp. 80-81. “È pienamente sensato affermare l’esistenza di una connessione intrinseca e concettuale tra il diritto e la morale”: ivi, p. 82; occorre “riconoscere l’esistenza di una connessione interna (nel senso sopra illustrato) tra il diritto e la morale”: ivi, p. 85. 10   “L’approccio al diritto come argomentazione comporta un oggettivismo minimo in materia di etica”: Id., El derecho como argumentación cit., p. 53. Un altro tipo di connessione è stato inoltre ravvisato da Atienza nel fatto che il punto di vista interno al diritto di cui parla Herbert Hart è configurabile come il prodotto di un’accettazione morale: “Non basta sapere che N è una norma giuridica per concludere che deve farsi ciò che N prescrive. Abbiamo bisogno, in definitiva, di una premessa pratica che prescrive che dobbiamo obbedire alle norme giuridiche e che, naturalmente, è una premessa di natura morale” (ivi, p. 245). “Il riconoscimento di una realtà come giuridica, come diritto valido”, aveva ancor prima scritto Atienza, El sentido del derecho cit., p. 112, “non può farsi senza ricorrere alla morale, dato che l’accettazione della regola di riconoscimento del sistema (diversamente da quanto ritiene Hart) implica necessariamente un giudizio morale”. Una tesi analoga è stata sostenuta da S. Sastre Aritza, Ciencia jurídica positivista y neoconstitucionalismo, McGraw-Hill, Madrid 1999. Ma questa è la questione dell’obbligo politico, la quale, come ha osservato Prieto, è una questione di pertinenza della teoria morale o politica e non della teoria del diritto: Prieto Sanchís, Constitucionalismo y positivismo cit., p. 12; un problema, ha scritto a sua volta Guastini, appartenente “all’orizzonte ideologico del legalismo, ma del tutto estraneo al positivismo giuridico”: R. Guastini, Dalle fonti alle norme (1990), Giappichelli, Torino 1992, pp. 277-278. Si vedano anche, contro questa interpretazione del “riconoscimento” hartiano come “atto di interiorizzazione”: A. Catania, Il riconoscimento e le norme. A partire da Herbert L.A. Hart (1979), ora in Id., Stato, cittadinanza, diritti, Giappichelli, Torino 2000, pp. 43-73; R. Guastini, Conoscenza senza accettazione,

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pluralità di concezioni morali e politiche diverse e talora tra loro in conflitto, bensì la morale; e che questa si identifichi, in tutto o in parte, con l’insieme o con la maggior parte dei valori stabiliti dalle odierne costituzioni democratiche. I principi formulati nelle nostre costituzioni – l’uguaglianza, la libertà, i diritti fondamentali – non sono quindi, per quanti sostengono una simile idea, semplicemente valori di giustizia da essi condivisi e fermamente difesi, bensì principi e contenuti di giustizia “veri” e, in qualche misterioso senso della parola, “oggettivi”. La connessione tra diritto e morale da essi teorizzata si risolve così in un tendenziale giusnaturalismo coniugato con quella variante del legalismo etico che è il costituzionalismo etico: cioè in una concezione esattamente opposta a quella qui sostenuta del costituzionalismo come secondo giuspositivismo, cioè come positivismo giuridico rafforzato in forza della positivizzazione anche delle scelte etico-politiche che devono presiedere alla produzione del diritto positivo medesimo. In base a questa concezione – quella del costituzionalismo garantista come giuspositivismo allargato – la costituzionalizzazione di principi di giustizia non incide affatto sulla separazione tra diritto e morale. Intesa in senso assertivo, la tesi della separazione è infatti un postulato del positivismo giuridico e un corollario del principio di legalità quale norma di riconoscimento del diritto positivo esistente. Vuol dire soltanto che “diritto”, in un ordinamento nomodinamico, è tutto e solo ciò che è posto come tale dalle autorità giuridicamente abilitate a produrlo, quale che sia – piaccia o non piaccia, sia esso considerato giusto o ingiusto – il suo contenuto normativo; che conseguentemente il diritto è altra cosa dalla morale, dato che la positività di una norma, sia pure di rango costituzionale, non ne implica la giustizia, essendo sempre possibile che essa (da tutti, o da alcuni, o anche da taluno) sia giudicata ingiusta o immorale, mentre la sua giustizia, inversamente, non ne implica affatto l’esistenza giuridica positiva; che pertanto la tesi secondo cui la giustizia di una norma non è né una condizione necessaria né una condizione sufficiente della sua validità registra “un dato di fatto”, come scrisse Herbert Hart richiamandosi a John Austin, “che consente ai giuristi di avere

in L. Gianformaggio, M. Jori (a cura di), Scritti per Uberto Scarpelli, Giuffrè, Milano 1997, pp. 407-433.

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una maggiore chiarezza di idee”11. La morale e la giustizia – per quanto i principi e i valori stipulati in una costituzione siano (da noi) moralmente e politicamente condivisi – restano pur sempre punti di vista esterni al diritto: i punti di vista morali e politici, non oggettivi ma soggettivi di ciascuno di noi, siano essi di adesione o rifiuto, in tutto o in parte, dei principi e dei valori costituzionalmente stabiliti. Ne è prova il fatto che quei principi e quei valori non sono affatto scontati, ma si sono tutti affermati storicamente – dalla libertà di coscienza all’uguaglianza, dal rifiuto della pena di morte al principio della pace, dai diritti dei lavoratori ai diritti sociali alla salute e all’istruzione – contro principi e valori morali diametralmente opposti, ma sostenuti da grandi maggioranze; che sotto questo aspetto è stato assai più il diritto, con la stipulazione giuridica di quei principi, che storicamente ha influenzato e cambiato la morale corrente, che non viceversa; che tali principi sono stipulati nel patto costituzionale di convivenza proprio perché, ancor oggi, non sono affatto sorretti da un universale consenso e vanno anzi posti al riparo da contingenti e sempre possibili maggioranze; e che noi li difendiamo con tanta maggior forza e passione quanto più sperimentiamo che non sono affatto universalmente condivisi, né tanto meno ritenuti oggettivamente veri, ma sono al contrario costantemente violati, ignorati e perfino negati o contestati. C’è poi un secondo e non meno importante significato della tesi della separazione. Intesa in senso normativo, questa tesi è un postulato del liberalismo politico e un corollario dei principi di tolleranza e di laicità. Vuol dire due cose. In primo luogo che non si giustifica eticamente il legalismo etico, cioè l’imposizione ai cittadini dell’adesione morale, o dell’accettazione o condivisione etico-politica dei principi morali che dalle norme giuridiche, sia pure di rango costituzionale, sono stipulati: un qualche grado di tale adesione a tali principi è certamente una condizione della loro effettività, ma non può certo essere imposta dal diritto senza violare la libertà di coscienza e di pensiero. In secondo luogo, e inversamente, la stessa tesi vuol dire che non si giustifica eticamente, in materia penale, il moralismo giuridico, cioè la produzione di

11   Hart, Il positivismo e la separazione tra diritto e morale cit., p. 116. Si vedano anche i passi di Hart riportati nella nota 9 del primo capitolo.

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norme dirette non già a prevenire danni a terzi ma solo ad affermare, o a sostenere, o a rafforzare o a sanzionare i precetti della (ovvero di una determinata) morale, come pretende ad esempio la Chiesa cattolica su questioni come il divorzio, il riconoscimento delle coppie di fatto, l’aborto, la procreazione assistita e il diritto di morire di morte naturale12. Sotto questo aspetto il principio della separazione è non solo una garanzia, contro i vari fondamentalismi religiosi, della laicità delle istituzioni politiche, ma anche il fondamento e la salvaguardia della laicità della morale, in forza della quale un comportamento è tanto più autenticamente morale quanto più è il frutto di una scelta autonoma e spontanea, e non dell’obbedienza a norme eteronome di carattere religioso o peggio giuridico. In entrambi questi significati la separazione tra diritto e morale rappresenta un lascito prezioso dell’illuminismo giuridico e un tratto distintivo della modernità nel senso kantiano della parola, dato che fonda la duplice autonomia dei giudizi morali dal diritto positivo e del diritto positivo da morali o ideologie istituzionalizzate, e affida le scelte morali non già all’adesione a una supposta ontologia morale oggettiva ed eteronoma, bensì alla spontanea autodeterminazione e alla responsabilità individuale. 3.3. Oggettivismo morale forte e oggettivismo morale debole. Un semplice dissenso sul significato del termine ‘vero’?  Ma forse il dissenso tra gli assertori della separazione e gli assertori laici e liberali della connessione tra diritto e morale è più superficiale di quanto non sembri. Alla sua base c’è chiaramente una diversa concezione della morale, a sua volta legata al carattere fortemente equivoco e compromettente della tesi dell’“oggettivismo morale”13 dai secondi assunta a sostegno della connessione. Con questa espressione si possono infatti intendere, grosso modo, due concezioni meta-etiche diverse, non sempre chiaramente distinte 12   Si ricordino le tesi contro “l’imposizione giuridica della morale” di H.L.A. Hart, Diritto, morale e libertà (1963), trad. di G. Gavazzi, Bonanno, Acireale 1968, che riprendono e sviluppano le classiche tesi utilitaristiche di J.S. Mill, Saggio sulla libertà (1858), Il Saggiatore, Milano 1981, cap. I. 13   Sulla questione dell’oggettività della morale e sulle molteplici risposte ad essa fornite dalla riflessione metaetica, si veda la raccolta di saggi Oggettività e morale. La riflessione etica del Novecento, a cura di G. Bongiovanni, Mondadori, Milano 2007.

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nel dibattito filosofico-morale: aa) la concezione ontologica di chi ritiene che esista un mondo oggettivo di valori morali rispetto al quale una tesi morale può essere qualificata come vera o come falsa; ab) la concezione razionalista di chi ritiene che i giudizi morali possono essere qualificati come veri o come falsi perché sorretti o meno da un’adeguata giustificazione sulla base di principi morali assunti come oggettivamente validi. D’altro canto esistono anche due concezioni diverse dell’anti-oggettivismo morale: ba) la concezione scettica di chi ritiene che i giudizi morali non sono argomentabili razionalmente, essendo il frutto di opzioni soggettive ed emotive né vere né false; bb) la concezione razionalista di chi ritiene che i giudizi morali non sono in ultima analisi né verificabili né falsificabili, pur essendo argomentabili razionalmente a partire da assunzioni che sono il frutto di opzioni soggettive le quali, per quanto argomentate, non sono né vere né false. Ovviamente le tesi metaetiche più inconciliabili sono quelle espresse dalle concezioni aa) e ba). La tesi aa), espressa in maniera emblematica dalla Chiesa cattolica e più in generale dai fondamentalismi religiosi, è una tesi metafisica che suppone l’esistenza di valori oggettivi perché iscritti nella natura e/o voluti da Dio. La tesi ba) è una tesi irrazionalistica che nega la possibilità di argomentazione razionale in materia morale, come se l’unica forma di argomentazione razionale fosse quella a sostegno della verità o della falsità delle tesi assertive. Osservo per inciso che queste due concezioni, per quanto opposte, condividono la medesima equivalenza tra ragione e verità, tra razionalità e oggettività, tra argomentazione razionale e fondazione oggettiva o cognitiva. La posizione meta-etica della maggior parte dei principialisti che sostengono la connessione tra diritto e morale riflette prevalentemente la seconda delle due concezioni sopra elencate dell’oggettivismo morale, quella espressa dalla tesi ab). Con le espressioni “oggettività” o “verità” o “falsità” delle tesi morali anche costoro, come i sostenitori delle tesi aa) e ba), alludono in realtà alla loro giustificazione razionale14, come se non esistessero 14   José Juan Moreso, ad esempio, dopo aver proposto come definizione di “oggettivismo morale” la tesi che “esiste un insieme privilegiato di principi (o valori, o ragioni, o regole) morali validi indipendentemente da qualunque contesto (cioè dalle credenze o dai desideri degli esseri umani in qualunque circostan-

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ragioni non di tipo teoretico, ma di tipo morale o genericamente pragmatico, a sostegno non della verità o dell’oggettività ma della giustizia, non delle nostre conoscenze ma delle nostre prese di posizione e più in generale delle nostre scelte primitive. Il campo delle argomentazioni razionali è invece sterminato, enormemente più ampio di quello delle tesi delle quali è predicabile la verità o la falsità. Si pensi non solo ai giudizi di valore morali o politici, ma anche a quelli estetici, e perfino alle ragioni di carattere teorico con cui sono argomentate, ad esempio, le assunzioni e le definizioni stipulative di una teoria. Si pensi, soprattutto, alle soluzioni di gran parte delle questioni filosofiche e teoriche, a cominciare da quella qui discussa di filosofia morale, che risulterebbero tutte squalificate come irrazionali da chi sostiene soluzioni diverse, qualora identificassimo razionalità e oggettività (o verità). È chiaro che i dissensi su tali giudizi e questioni – talora superabili, talora riducibili, talora insuperabili e irriducibili – non dipendono affatto dalla verità e dalla falsità delle posizioni in conflitto. Dipendono, in ultima analisi, dalle assunzioni e dai valori di partenza. Sono superabili o quanto meno riducibili i disaccordi che intervengono tra persone che condividono i medesimi valori di fondo o le medesime assunzioni primitive. Se condividiamo il principio di uguaglianza e quello della dignità della persona, non sarà difficile, richiamandoci alla coerenza con queste comuni

za)”, fonda su di essa la tesi etico-cognitivista, da lui chiamata “tesi semantica dell’oggettivismo morale”, secondo la quale “ai giudizi morali si conviene la verità e la falsità”, identificando il “criterio per accettarli”, ossia “la qualità di un giudizio morale, nelle ragioni che siamo capaci di offrire a suo sostegno” (J.J. Moreso, Antígona como ‘defeater’. Sobre el constitucionalismo garantista de Ferrajoli, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 34, 2011, pp. 185, 188, 191). Nello stesso senso, si vedano: A. Ruiz Miguel, Las cuentas que no cuadran en el constitucionalismo de Ferrajoli, ivi, pp. 277-280; M. Atienza, Cuento de navidad, in «Analisi e diritto 2009», 2010, pp. 116-117. Analogamente Juan Ruiz Manero: “Intendo con oggettivismo [...] la posizione di chi sostiene in primo luogo che i giudizi morali sono razionalmente fondabili o giustificabili [...]. Qui, io penso, si può solo parlare di verità, come dicevo, nel senso in cui ‘verità’ equivale a ‘giustificazione razionale’” (Ferrajoli, Ruiz Manero, Dos modelos de constitucionalismo cit., pp. 69, 71). Ho criticato questa identificazione tra verità oggettiva e giustificazione razionale in El constitucionalismo garantista entre paleo-iuspositivismo y neo-jusnaturalismo cit., § 5, pp. 339-344 e in La scelta come fondamento ultimo della morale, in «Teoria politica», 2012, pp. 177-185.

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assunzioni, concordare, e magari convincere quanti dissentono con argomenti razionali sull’inaccettabilità, ad esempio, delle tante forme di oppressione o discriminazione in danno degli immigrati. Al contrario, possiamo discutere fino alla noia di questioni etiche o politiche con un fascista o con un razzista; ma alla fine, se costui non si convincerà a cambiare le proprie idee di fondo, andrà registrato il dissenso insuperabile e la discussione sarà abbandonata perché sterile. Per questo un buon risultato di tutte le discussioni su questioni morali o politiche, ma anche su gran parte delle questioni filosofiche o teoriche, è sempre l’identificazione e la chiarificazione delle assunzioni, siano esse comuni o diverse, che sono alle loro spalle. Ma questo vuol dire che i valori morali e politici ultimi – la democrazia, l’uguaglianza, la libertà, la dignità delle persone – non si dimostrano, non si deducono, e neppure si inducono dalla loro più o meno ampia condivisione. Non hanno, insomma, nulla a che vedere con la verità. Essi, semplicemente, si scelgono, si postulano e si difendono. Possiamo argomentare la razionalità e perciò il fondamento di queste scelte, ai fini della convivenza pacifica e civile o del rispetto che abbiamo per gli altri o per noi stessi. Ma di fronte a un fascista o a un razzista che muove da assunzioni morali opposte, la discussione si ferma. Aggiungo che è proprio nella consapevolezza e nella responsabilità della scelta, in taluni casi problematica e perfino drammatica, che consiste l’autenticità e il tratto distintivo della ragion pratica e, in particolare, della morale. Mi domando allora perché mai, per sostenere la possibilità di argomentare razionalmente una tesi morale rispetto a principi assunti come fondamentali, si abbia bisogno di sostenerne la verità o l’oggettività. Questo nesso tra verità e argomentazione razionale è comprensibile e spiegabile nelle posizioni oggettivistiche più conseguenti, come quelle dell’ontologismo morale indicate sub aa) e sostenute, ad esempio, dalla Chiesa cattolica; la quale, in forza dell’opzione giusnaturalistica o anche di una sorta di giuspositivismo divino che vincola il bene e il male alla volontà di Dio, suppone l’esistenza oggettiva di entità, o di valori o di regole morali, sulla cui base è possibile presentare come vere le sue tesi in tema ad esempio di aborto, o di divorzio, o di procreazione assistita, o di accanimento terapeutico, o di riconoscimento delle coppie di fatto e squalificare le tesi opposte come false. Ma è chiaro che

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l’oggettivismo e il cognitivismo etico, comunque declinati, sono incompatibili con il liberalismo, il quale esclude che si possano imporre (non le azioni, o meglio le omissioni di danni a terzi ma) i giudizi morali, quali che siano, a quanti non li condividono. Essi comportano infatti inevitabilmente – e di fatto hanno comportato, allorquando sono stati e sono tuttora impugnati dalle tante Chiese, a cominciare da quella cattolica – l’intolleranza come false delle tesi non condivise e il rifiuto del pluralismo morale, politico e culturale. Di fronte a una tesi falsa infatti – ad esempio “2 + 2 = 5”, o “p implica non-p”, o “Cristoforo Colombo ha scoperto l’America nel 1692” – diremo non solo che essa è un errore, ma che è un’affermazione intollerabile. Ne è prova il fatto che le tesi morali di un’etica cognitivistica come quella cattolica, che proprio perché assunte come vere pretendono di imporsi a tutti come norme giuridiche, non sono confutabili sul loro terreno da un’etica oggettivistica di tipo laico o razionalista, ma solo contestando e rifiutando alla radice l’oggettivismo metaetico che è alle loro spalle. Quelle tesi, infatti, sono inconfutabili sul terreno della verità proprio perché le tesi etiche diverse sostenute da meta-etiche parimenti cognitivistiche si presentano anch’esse come vere, pur se non dimostrabili logicamente né comprovabili empiricamente, anziché come principi normativi, argomentabili come giusti sulla base di giudizi di valore. Naturalmente l’implicazione tra oggettivismo etico e intolleranza non vuol dire affatto che gli oggettivisti laici siano intolleranti. Vuol solo dire che essa ha il valore di un argomento a contrario contro le tesi metaetiche di quanti si dichiarano oggettivisti ma rifiutano l’(accusa di) intolleranza. Tale rifiuto implica infatti, per modus tollens, la negazione, in realtà, del loro professato oggettivismo e del conseguente cognitivismo etico. Per questo l’oggettivismo morale più conseguente, quello delle etiche religiose, dovendo fondarsi sensatamente sulla verità, preferisce ancorarsi, ben più che all’argomentazione razionale, a un’ontologia giusnaturalistica, oppure al volontarismo e al giuspositivismo divino, o a entrambe le cose. Laddove il tratto distintivo e il fondamento dell’etica laica risiede al contrario nella scelta, e perciò nell’autonomia della persona: nel non fare il male e nel fare il bene non già perché lo vuole Dio o una qualche norma o valore oggettivo ed eteronomo, ma perché lo si vuole autonomamente. Contrariamente alle morali oggettivistiche, ine-

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vitabilmente eteronome, la morale laica si fonda sull’autonomia della coscienza, in forza della quale sarebbe insensata, ancor prima che immorale, la disponibilità di Abramo a sacrificare Isacco solo perché l’ha voluto Dio. Contrariamente alla morale laica, per definizione autonoma, le morali oggettivistiche finiscono invece per avere, tendenzialmente, lo stesso statuto del diritto. Non a caso l’etica cattolica viene talora qualificata e accreditata dalle gerarchie come “diritto naturale”. Senza questo ancoraggio metafisico, il terreno dell’oggettivismo etico e delle verità morali – contrariamente all’idea corrente che su di esso troverebbero un più sicuro perché oggettivo fondamento i giudizi morali, la difesa di valori ai quali aderiamo fermamente e perciò le ponderazioni tra principi – è sempre, invece, un terreno scivoloso. Sappiamo tutti che nella storia del pensiero politico le argomentazioni fattuali a sostegno della disuguaglianza degli uomini sono state, da Platone e Aristotele in poi, assai più numerose di quelle a sostegno della loro uguaglianza e della loro pari dignità. Ma questo vuol dire che l’uguaglianza non è un fatto ma un valore; che la sua affermazione non è un’asserzione, ma una prescrizione; che come tale l’assumiamo e la difendiamo proprio perché, di fatto, siamo differenti e disuguali: a sostegno da un lato dell’uguale valore che vogliamo garantire a tutte le nostre differenze di identità (di sesso, di lingua, di religione, di nazionalità, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali, come dice il primo comma dell’art. 3 della Costituzione italiana) e, dall’altro, della rimozione o riduzione che vogliamo promuovere delle disuguaglianze economiche e materiali (quali ostacoli al pieno sviluppo della persona umana, come dice il secondo comma del medesimo articolo). Vuol dire, in breve, che l’uguaglianza, la dignità della persona, le libertà e gli altri diritti fondamentali non sono né valori oggettivi né principi scontati15. 15   Ricordiamo le parole di Cesare Beccaria: “Chiunque leggerà con occhio filosofico i codici delle nazioni e i loro annali troverà quasi sempre i nomi di vizio e di virtù, di buon cittadino e di reo cangiarsi colle rivoluzioni dei secoli” (C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, ed. di Livorno del 1766, a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino 1981, VI, p. 21); e quelle di Hobbes: “Essendo diverse le inclinazioni, accade che alcuni chiamino bene quel che altri dicono male; e che uno stesso individuo ora dica, di una cosa che è buona e ora che è cattiva e, della stessa cosa, che è buona per lui e cattiva per un altro” (T. Hobbes, Elementi fi-

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Proprio per questo tali valori vengono stipulati in costituzioni rigide sopraordinate a qualunque potere: perché quei valori non sono affatto condivisi da tutti. Giacché il ruolo delle costituzioni non consiste nel riflettere i valori di tutti: se così fosse avremmo costituzioni minimali e praticamente inutili. Il loro ruolo risiede nella stipulazione di valori o principi quali clausole del patto sociale di convivenza, anche contro le opinioni delle contingenti maggioranze. E la loro legittimazione dipende non già dal fatto che siano volute da tutti, ma dal fatto che garantiscano tutti. Per questo difendiamo e argomentiamo i nostri principi morali e politici con assai maggiore fermezza e passione di quanto non facciamo con le nostre tesi assertive: perché sappiamo che essi, ripeto, sono spesso violati o negati e vanno perciò difesi con tanto maggiore impegno quanto più diffuse sono le loro violazioni e negazioni; e perché, soprattutto, consideriamo legittime e perfino razionalmente argomentabili (in questo consiste la tolleranza) le opinioni morali e politiche opposte, che contestiamo non già perché false e come tali confutabili, ma semplicemente perché le riteniamo, al pari delle loro premesse di fondo, immorali o ingiuste. Ma allora, escluse le tesi dell’ontologismo in senso forte e dell’irrazionalismo emotivista, le divergenze tra l’oggettivismo di quanti si limitano a sostenere la possibilità di un’argomentazione razionale delle tesi morali, sia pure supponendo che le loro assunzioni siano vere o oggettivamente valide, e quanti sostengono la medesima possibilità rifiutando qualunque forma di oggettivismo o cognitivismo etico, consistono, in ultima analisi, nel diverso significato, per i primi più esteso e per i secondi più ristretto, che associamo alle nozioni, chiaramente stipulative, di “vero”, di “falso” e di “oggettivo”. Questo, d’altro canto, è anche ciò che distingue gli oggettivisti moderati o laici dagli oggettivisti fondamentalisti, che credono invece nell’esistenza di un mondo naturale o soprannaturale di valori o principi morali e conseguentemente di verità morali. Ma allora il dissenso tra concezioni razionalistiche è poco più che terminologico. Rispetto ad esso – senza illudermi di convincere quanti sostengono un oggettivismo e un ontologismo sia

losofici sul cittadino [1647], trad. it., in Id., Opere politiche, a cura di N. Bobbio, Utet, Torino 1959, cap. XIV, § 17, p. 278).

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pure minimi (dopotutto, anche in questo caso, siamo in presenza di assunzioni ultime, diverse e non dimostrabili) – dirò solo che l’eccessiva estensione, nel loro lessico, dei termini “vero” o “oggettivo”, in luogo di termini più pertinenti come “giusto” o “buono” o “ragionevole”, indebolisce gravemente le loro tesi morali senza nulla aggiungere ad esse: non solo perché, non essendo ammissibili tesi false, le espone alle accuse di intolleranza, ma anche perché, sull’inverosimile terreno dell’oggettivismo morale, qualunque tesi, purtroppo, è stata sostenuta ed è ancor oggi sostenibile. Ho perciò l’impressione che la difesa dell’oggettivismo morale, sia pure debole e moderato, da parte di molti neocostituzionalisti principialisti, sia in realtà connessa alla difesa della prima delle loro due tesi ricordate alla fine del § 3.1. L’idea che i principi di giustizia e i diritti formulati nelle nostre costituzioni siano principi morali in qualche senso oggettivi, e perciò la tesi della connessione tra il diritto e la morale quale sistema oggettivo di valori, vale infatti da un lato ad accreditare l’idea che essi siano tutti principi, distinti in senso forte dalle regole, e, dall’altro, a fornire una qualche compensazione alla loro indeterminatezza e un ancoraggio extragiuridico e oggettivo, sia pure illusorio, alla loro ponderazione, fino alla tesi estrema sostenuta da Dworkin dell’esistenza di una sola soluzione corretta16. 3.4. Regole e principi. Una proposta ridefinitoria  Vengo così al dissenso che divide il costituzionalismo garantista dall’altro e ancor più importante ordine di tesi che caratterizza il costituzionalismo principialista: la configurazione delle norme costituzionali sostanziali, e in particolare dei diritti fondamentali, non già come “regole” ma come “principi”, oggetto di ponderazione anziché, come le regole, di applicazione. La distinzione tra regole e principi è certamente un’importante acquisizione dell’odierna teoria del diritto. La questione di fondo,

  “Il deficit di razionalità e di legittimità che può derivare” da tale indeterminatezza, scrive Luis Prieto Sanchís, “viene compensato, da gran parte degli approcci costituzionalisti, da una complessa e potente teoria dell’argomentazione giuridica, nella quale viene forse riposta più fiducia del dovuto”: L. Prieto Sanchís, La teoria del diritto nei “Principia iuris” di Luigi Ferrajoli, in Di Lucia, Assiomatica del normativo cit., § 11.4, p. 195. 16

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tuttavia, è la definizione di queste due classi di norme: precisamente, il significato intensionale della nozione di “principi” in opposizione a quello di “regole” e, conseguentemente, il suo significato estensionale, cioè la classe delle norme – se inclusiva o meno dei diritti fondamentali – qualificabili come principi. Sono infatti formulati diversamente, come è noto, i criteri proposti per distinguere tra le due classi di norme. Secondo Ronald Dworkin, “le regole sono applicabili nella forma del tutto-o-niente”, nel senso che sono applicabili o non applicabili determinate conseguenze giuridiche ove ricorrano o non ricorrano le condizioni da esse previste; i principi, invece, “non indicano conseguenze giuridiche che seguano automaticamente allorché si diano le condizioni previste”; le prime perciò si applicano ai casi in esse sussumibili, mentre i secondi si pesano, sicché prevale quello cui è associato volta a volta maggior peso o importanza17. Per Robert Alexy, invece, i “principi sono precetti di ottimizzazione, caratterizzati dal fatto che possono essere realizzati in gradi diversi” e che da essi, a seconda delle circostanze del caso, sono derivabili volta a volta regole sulla base della loro ponderazione o bilanciamento; al contrario “le regole sono norme che possono essere sempre realizzate o non realizzate”, sicché “se una regola è valida, allora è obbligatorio fare esattamente ciò che essa richiede”18. Manuel Atienza e Juan Ruiz Manero, a loro volta, identificano la differenza tra principi e regole nel fatto che “i principi configurano il caso in forma aperta, mentre le regole lo fanno in forma chiusa”19. E Gustavo Zagrebelsky distingue le regole dai principi sulla base del fatto che solo le prime e non anche i secondi prevedono fattispecie in esse sussumibili20. In tutti i casi,

  Dworkin, I diritti presi sul serio cit., pp. 93, 94, 96.   Alexy, Teoria dei diritti fondamentali cit., cap. III, § 1.2, pp. 106-107; “I diritti fondamentali, in quanto principi, sono mandati di ottimizzazione. In quanto mandati di ottimizzazione, i principi sono norme che dispongono che qualcosa sia realizzato nella maggior misura possibile sulla base delle circostanze di fatto e di diritto” (R. Alexy, Derechos fundamentales, ponderación y racionalidad, in Carbonell, García Jaramillo, El canon neoconstitucional cit., p. 111). 19   Atienza, Ruiz Manero, Las piezas del Derecho cit., cap. I, § 2.1, p. 9. Mentre le regole, essi aggiungono, sono “ragioni perentorie dell’azione”, i principi sono ragioni dell’azione non già perentorie ma ponderabili con altre ragioni o principi. 20   Zagrebelsky, Il diritto mite cit., cap. VI, p. 149; Id., Introduzione cit., p. xx; Id., La legge e la sua giustizia cit., cap. VI, pp. 205-236. 17 18

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ciò che accomuna queste diverse connotazioni delle due classi di norme è il ruolo centrale associato alla ponderazione dei principi, in opposizione all’applicazione di cui sono invece suscettibili le regole, e perciò la tesi che sono oggetto di ponderazione anziché di applicazione, perché concepiti non come regole ma come principi tra loro virtualmente in conflitto, i diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti. Io credo che una più precisa definizione delle due classi di norme consenta di escludere questa tesi. A tal fine è utile muovere dalla nozione di “regole” accolta dagli stessi costituzionalisti principialisti e certamente più precisa di quella da essi offerta di “principi”: l’applicabilità delle regole nella forma tutto-o-niente secondo la tesi di Dworkin, la loro realizzabilità o non realizzabilità secondo la nozione di Alexy, la loro forma chiusa e non aperta secondo la definizione suggerita da Atienza e Ruiz Manero e il loro riferimento a fattispecie in esse sussumibili secondo la nozione proposta da Zagrebelsky. Ebbene, tutti questi connotati possono essere più chiaramente espressi e formalizzati attraverso il riferimento empirico che le regole devono comunque avere al comportamento che ne costituisce l’osservanza o la violazione. Sono regole, e precisamente regole deontiche – possiamo affermare su questa base – tutte e solo le norme delle quali siano configurabili gli atti che ne sono l’osservanza o l’inosservanza21. Chiamerò invece principi direttivi, o semplicemente direttive, le norme che formulano valori o obiettivi politici – ad esempio il lavoro posto a fondamento della Repubblica dall’art. 1 della Costituzione italiana, o lo sviluppo della cultura promosso dal suo art. 9 – senza che ne siano configurabili specifici atti di violazione o di osservanza; il loro riferimento empirico, infatti, non consiste in comportamenti determinati qualificabili come loro ottemperanze o inottemperan21   Ho espresso questa equivalenza tra ‘regole (o norme) deontiche’ e la loro possibile osservanza o inosservanza in PiI, § 4.7, p. 242, § 8.3, p. 424, con i teoremi T4.66 e T8.35: (x)(y)(RDEyx ≡ (OSSxy v IOSxy)) e (r)(x)(NDErx ≡ ((OSSxr v IOSxr)·NORr)); dove la variabile ‘x’ denota il comportamento o l’atto giuridico che forma l’argomento comune sia alla regola (o norma) deontica che alla sua osservanza e alla sua inosservanza. Ove una precisa e determinata osservanza o inosservanza non siano configurabili, non possiamo parlare, in base alla tesi T2.2, di figure deontiche (ivi, § 2.1, pp. 144-147), e perciò neppure di regole o norme deontiche, bensì di quelli che qui chiamerò ‘principi direttivi’.

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ze, bensì in politiche pubbliche, cioè in complessi eterogenei di possibili attività, nessuna delle quali è predeterminabile astrattamente come loro attuazione o inattuazione22. Ma non tutti i principi consistono in semplici direttive. Esistono infatti molte norme, formulate in termini di aspettative anziché di obblighi o divieti, che sono al tempo stesso principi e regole, e che chiamerò perciò principi regolativi: è il caso della maggior parte dei diritti fondamentali e del principio di uguaglianza, che sono norme nelle quali principi e regole sono gli uni la faccia delle altre. È questa tesi che intendo ora argomentare e che forse può valere, se non a conciliare, quanto meno a ridurre le distanze tra le diverse concezioni del costituzionalismo. 3.5. I diritti fondamentali come regole oggetto di applicazione e come principi oggetto di argomentazione  Domandiamoci dunque: come si configurano, sulla base di queste ridefinizioni, i diritti fondamentali espressi da norme costituzionali? Questi diritti sono anzitutto diritti soggettivi contrassegnati dal loro carattere universale, cioè generale oltre che astratto, nel senso logico della quantificazione universale dei loro titolari (omnium). Consistono, in secondo luogo, in aspettative negative di non lesione, come sono tutti i diritti di libertà e di immunità, oppure in aspettative positive di prestazione, come sono tutti i diritti sociali, come ad esempio i diritti all’assistenza sanitaria e all’istruzione. Ad essi corrispondono in terzo luogo – per la correlazione logica che sussiste tra aspet-

22   Una distinzione per alcuni aspetti analoga a quella qui operata è la distinzione tra “principi in senso stretto” e “direttive” formulata da Atienza, Ruiz Manero, Las piezas del Derecho cit., cap. I, §§ 1.3, 2.2, pp. 5, 14-15; cap. IV, § 4, pp. 140-141; cap. VI, § 2, p. 166, e ripresa da Atienza, El Derecho como argumentación cit., cap. III, § 8, pp. 163-169 e cap. IV, § 5, pp. 219 sgg.: i principi in senso stretto, secondo questa distinzione, esprimono “valori ultimi”, operano come “ragioni ultime” o “finali” dell’azione e prevalgono perciò, pur essendo anch’essi derogabili, sulle direttive, che operano invece come “ragioni per l’azione di tipo utilitario”. Mi sembra che la principale differenza tra le due distinzioni riguardi soprattutto i “principi in senso stretto”, che diversamente da quelli qui chiamati “principi regolativi” non si comportano, secondo Atienza e Ruiz Manero, come regole ma sono anch’essi oggetto di ponderazione. Un ampio confronto tra le due distinzioni e tra le concezioni delle norme ad esse retrostanti è contenuto in Ferrajoli, Ruiz Manero, Dos modelos de constitucionalismo cit., pp. 78-119.

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tative passive e modalità deontiche attive23 – divieti o obblighi (erga omnes) imposti come loro garanzie in capo alla sfera pubblica. In quarto luogo, e conseguentemente, essi hanno come argomenti e come riferimenti empirici comportamenti determinati, che sono esattamente gli stessi che formano gli argomenti e i riferimenti empirici delle loro garanzie: la non-lesione dei diritti di libertà, cui corrisponde il relativo divieto, e la soddisfazione dei diritti sociali, cui corrisponde il correlativo obbligo in capo ai pubblici poteri24. Ne consegue che i diritti fondamentali sono regole deontiche25, cioè figure deontiche di carattere universale i cui argomenti consistono nei possibili atti o comportamenti che ne sono l’osservanza o l’inosservanza. Essi possono infatti essere volta a volta rispettati o violati, attuati o inattuati e comunque applicabili alle loro violazioni, secondo la nozione di “regole” suggerita anche dagli autori più sopra citati. Precisamente, in quanto norme di rango costituzionale, essi sono norme sostanziali sulla produzione giuridica che comportano, in capo al legislatore, a) il divieto della loro lesione, cioè della produzione di leggi con essi in contrasto, in violazione del quale si producono antinomie e b) l’obbligo della loro attuazione, cioè della produzione di leggi che li garantiscano, in violazione del quale si producono lacune. Le conseguenze giuridiche delle antinomie, che Ronald Dworkin richiede perché si diano “regole”, consistono nell’annullabilità o nella disappli  Si vedano il postulato P3 e le tesi T2.58-T2.69 in PiI, § 2.3, pp. 151-157.   È quanto risulta dalla struttura diadica sia delle aspettative negative e positive nelle quali i diritti consistono, sia dei correlativi divieti e obblighi nei quali consistono le loro garanzie e che con le prime hanno in comune i medesimi argomenti, cioè la possibile commissione o omissione degli atti giuridici di cui i diritti sono aspettative passive e le garanzie sono modalità attive. Richiamo qui i teoremi T2.60 e T2.61 – (x)((∃y’)ASPy’x ≡ (∃y”)OBLy”x) e (x)((∃y’)ASPy’┴x ≡ (∃y”)DIVy”x) – sulla correlazione tra aspettative positive e obblighi e tra aspettative negative e divieti (in PiI, § 2.3, p. 155); il teorema T3.36 sulla nozione di ‘garanzia’ quale obbligo o divieto corrispondenti a un’aspettativa positiva o negativa (ivi, § 3.5, p. 197); infine le definizioni D10.20 e D11.1 di ‘diritto soggettivo’ e di ‘diritti fondamentali’ già ricordate nella nota 62 del primo capitolo e i teoremi T11.14, T11.102-T11.111 sulle garanzie primarie dei diritti fondamentali, consistenti – a seconda che siano diritti individuali negativi o diritti sociali positivi – in divieti di lesione (o limiti fondamentali), oppure in obblighi di prestazione (o vincoli fondamentali), gli uni e gli altri assoluti, cioè erga omnes (ivi, §§ 11.1, 11.9, pp. 729, 772-776). 25   Si vedano in PiI, § 11.1, pp. 729-730, le tesi T11.16-T11.20. 23 24

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cabilità, a seconda che gli ordinamenti siano dotati di controllo accentrato o diffuso di costituzionalità, delle leggi che ledono i diritti fondamentali ad esse costituzionalmente sopraordinati. Più problematiche sono le conseguenze giuridiche delle lacune; ma nulla esclude che anche per esse, come avviene in taluni ordinamenti come quello portoghese e quello brasiliano, siano predisposti come effetti, ad esempio, l’obbligo della loro segnalazione agli organi legislativi da parte delle corti costituzionali26 e magari l’irrogazione di sanzioni per il relativo inadempimento27.

26   Si tratta del controllo di costituzionalità per omissione previsto dall’art. 283 della Costituzione portoghese del 2.4.1976 e dall’art. 103, § 2 della Costituzione brasiliana del 1988, che si limitano a prevedere la segnalazione della lacuna da parte del Tribunale costituzionale all’organo legislativo e, nel caso della Costituzione brasiliana, l’invito a colmarla “entro trenta giorni”. Un importante antecedente del controllo giurisdizionale sulla mancata attuazione delle previsioni costituzionali da parte del legislatore ordinario è stato rintracciato da Dario Ippolito nella riflessione teorica di Mario Pagano e nella Costituzione napoletana del 1799: cfr. D. Ippolito, Progetti costituzionali: Mario Pagano, in P. Costa, B. Sordi, M. Fioravanti, P. Cappellini (a cura di), Diritto. Il contributo italiano alla storia del pensiero, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 2012, pp. 257-264. 27   Salvatore Senese ha proposto di integrare il modello della “raccomandazione” previsto dalla Costituzione brasiliana con quello, adottato dalle Corti europee di Strasburgo e di Lussemburgo, della condanna dello Stato inadempiente a pagare periodicamente una data somma di danaro fino al momento dell’adempimento: S. Senese, Consideraciones extravagantes de un “jurista empírico”, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 31, 2008, pp. 378381. Aggiungo per inciso – anche se la questione meriterebbe una ben più ampia trattazione – che la predisposizione di effetti non è per nulla un tratto distintivo di tutte le regole. L’idea assai diffusa (si vedano, ad esempio, R. Guastini, La sintassi del diritto, Giappichelli, Torino 2011, cap. IV, § 3, pp. 44-46; M. Barberis, Manuale di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 2011, pp. 134-136) di un’unica “forma logica” delle norme come “enunciati condizionali” che legano a un antecedente (una condotta, un evento, determinate circostanze o condizioni) un conseguente (una qualificazione deontica o un altro effetto giuridico) è il frutto di una falsa generalizzazione, probabilmente suggerita dal noto schema “se A allora B”, basato sulla centralità della sanzione, con cui Kelsen raffigura la struttura di tutte le norme. In realtà essa riflette la struttura di quelle che, nella tipologia delle regole e delle norme richiamata infra, nella nota 37, ho chiamato norme ipotetiche, ma non anche la struttura di tutte quelle che ho chiamato norme tetiche: dalle norme penali primarie ai divieti e agli obblighi in materia di circolazione stradale, dal ripudio della guerra al principio di uguaglianza e ai diritti fondamentali. Anche su questa questione, una discussione più approfondita è contenuta in Ferrajoli, Ruiz Manero, Dos modelos de constitucionalismo cit., pp. 99-119.

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È in questa loro natura di regole deontiche che risiede la normatività forte dei diritti fondamentali espressi dai principi costituzionali nei confronti sia della legislazione che della giurisdizione: vincolata la prima al loro rispetto e alla loro attuazione e la seconda alla loro applicazione sostanziale agli atti invalidi che ne sono le violazioni28. Ed è dalla possibilità delle loro violazioni, per commissione o per omissione, che le norme che li stabiliscono sono riconoscibili come regole deontiche29. Si tratta appunto delle regole che disegnano quella che ho chiamato la sfera immediatamente imperativa del “non decidibile” e che forma il tratto caratteristico del modello garantista della democrazia costituzionale: la sfera di ciò che alla legislazione è vietato o obbligatorio decidere, disegnata dalle garanzie primarie dei diritti di libertà e dei diritti sociali, le cui violazioni comportano, in capo alla giurisdizione, l’obbligo dell’annullamento o della disapplicazione delle leggi con essi in contrasto nel quale consiste la loro garanzia secondaria. Giova ricordare che nell’esperienza giurisprudenziale italiana il riconoscimento di questa imperatività delle norme costituzionali sostanziali ha fornito un fondamento decisivo al ruolo garantista della giurisdizione: fu la Corte costituzionale che, nella sua prima sentenza, affermò il loro carattere immediatamente precettivo, archiviandone l’interpretazione come “norme programmatiche” di politiche future – secondo la caratterizzazione oggi offertane da Manuel Atienza e da Juan Ruiz Manero, o quella analoga delle medesime norme come “precetti di ottimizzazione” propostane da Robert Alexy30 – che nei primi anni del dopoguerra ne aveva dato la Corte di Cassazione31. 28   Si veda, sulle nozioni di ‘rispetto’ e di ‘applicazione sostanziale’, il richiamo a PiI nella nota 24 del precedente capitolo. 29   È questo un banale teorema derivabile dalle tesi T4.66 e T8.35 qui richiamate nella nota 21. 30   M. Atienza, J. Ruiz Manero, Tres problemas de tres teorías de la validez jurídica, in J. Malem, J. Orozco y R. Vazquez, La función judicial. Etica y democrácia, Gedisa, Barcelona, pp. 94, 99; Alexy, Teoria dei diritti fondamentali cit., cap. III, § 1.2, p. 106. 31   Si tratta della sentenza n. 1 del 1956 della C. cost. Il carattere programmatico delle norme sostanziali della Costituzione era stato dichiarato da Cass. Sez. Unite, 7.2.1948, in «Foro italiano», II, 1948, p. 57. La stessa Cassazione, tuttavia, affermò poi il carattere di “norma precettiva di immediata applicazione” dell’art. 36 della Costituzione che stabilisce il diritto del lavoratore “a una

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Queste norme, tuttavia, hanno l’intrinseca e felice ambivalenza già segnalata nel § 2.6. Riguardate dal basso, ex parte populi, esse sono diritti, di cui tutti sono titolari in quanto persone o cittadini. Riguardate dall’alto, ex parte principis, esse sono regole, cioè divieti o obblighi di cui sono destinatari i pubblici poteri. Per questo le ho chiamate “principi regolativi”. Nelle costituzioni esse sono espresse di solito non in termini di divieti o di obblighi, bensì di diritti, e quindi di aspettative32: di aspettative negative di non lesione o restrizione, come sono il principio di uguaglianza e i diritti di libertà e di autonomia; o di aspettative positive di prestazioni, come sono i diritti sociali. Hanno perciò la forma di principi, proprio perché in tale forma le costituzioni proclamano esplicitamente le aspettative, cioè gli interessi o i bisogni vitali da esse stipulati come valori e come ragione sociale del patto di convivenza, lasciando implicite le garanzie, cioè i divieti e gli obblighi ad essi corrispondenti; perché, in altre parole, grazie a tale forma esse esprimono direttamente, come ha ben sottolineato Giorgio Pino, i fini e le scelte etico-politiche che con essi l’ordinamento intende perseguire33. Ma è chiaro che rispetto alle violazioni dei divieti e alle inottemperanze degli obblighi ad essi corrispondenti, questi principi vengono in rilievo come regole, nel senso già illustrato che sono applicabili giudizialmente alle prime e attuati legislativamente dalle seconde. Si tratta sempre delle medesime norme, o comunque di norme implicite l’una nell’altra. Del resto, soprattutto nelle dichiarazioni dei diritti settecentesche, queste norme furono spesso espresse in forma di regole, cioè di divieti perfettamente equivalenti ai corrispondenti diritti: “Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibirne il libero culto, o per limitare la libertà di parola, o di stampa ecc.”, afferma il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti; “nessuno può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla legge”, stabi-

retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (Cass., 13 settembre 1954, n. 3046). 32   Secondo la nozione di ‘diritto soggettivo’ definita in PiI, § 10.11, D10.20, p. 641 e qui richiamata nella nota 62 del primo capitolo. 33   Pino, Diritti e interpretazione cit., pp. 52, 130-131.

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lisce l’art. 7 della Dichiarazione francese del 1789. Queste norme, comunque formulate, se vengono riguardate come principi, enunciano direttamente valori: l’uguaglianza, la libertà, la salute, l’istruzione, la previdenza e simili. Se invece vengono riguardate come regole sono rispetto a questi “opache”34, pur se ad essi funzionali, dato che indicano direttamente la classe delle condotte vietate che ne sono le violazioni oppure delle condotte obbligatorie che ne sono le attuazioni: esprimono, in breve, le garanzie primarie, come ad esempio i divieti di discriminazioni, o di limitazioni o di restrizioni delle libertà, oppure l’obbligo di prestazioni, come quelle scolastiche o sanitarie in capo alla sfera pubblica. Questa ambivalenza dei principi regolativi consente pertanto di evidenziarne il duplice ruolo normativo, in grado di soddisfare le differenti esigenze fatte valere dalle due diverse concezioni – quella principialista e quella garantista – del costituzionalismo. In quanto principi, essi operano come argomenti nelle motivazioni dell’interpretazione giudiziaria o della politica legislativa35. Di qui la loro cosiddetta funzione “normogenetica”, cioè la loro attitudine a giustificare più regole, siano esse esplicite o implicite36. Proprio perché esprimono la ragion d’essere delle norme da cui sono enunciati, è su di essi, tanto più se di rango costituzionale, che soprattutto fa leva l’argomentazione razionale. Ma in quanto regole essi si applicano o si attuano. Di qui la loro normatività forte e il loro ruolo garantista quali norme rigidamente vincolanti nei confronti sia della giurisdizione che della legislazione. Del resto, anche le norme formulate in forma di regole, allorquando vengono utilizzate come argomenti interpretativi, vengono in rilievo e sono richiamate facendo leva sulla loro ragion d’essere, cioè sui

  Ibid.   È questo, secondo Claudio Luzzati, il principale tratto caratteristico, di tipo pragmatico, dei principi: “Ciò che fa di una norma un principio è, grosso modo, il suo uso quale argomento in grado di giustificare una conclusione pratica” (C. Luzzati, Príncipi e princìpi. La genericità del diritto, Giappichelli, Torino 2012, pp. 2, 37-39, 115-120). 36   F. Modugno, Principi generali dell’ordinamento, in Enciclopedia giuridica, vol. XXIV, 1991, § 4, pp. 8-9; Pino, Diritti e interpretazione cit., cap. III; Id., Principios, ponderacion y la separacion entre derecho y moral. Sobre el neoconstitucionalismo y sus criticos, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 34, 2011, p. 214. 34

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principi che stanno alle loro spalle. Si può anzi affermare che così come ogni principio regolativo è applicabile come regola alle sue violazioni, dietro ogni regola non insensata – dal divieto di sosta alla punizione dell’omicidio – c’è di solito un principio utilizzabile nell’argomentazione. L’argomentazione, in breve, è sempre per principi, mentre l’applicazione è sempre delle regole corrispondenti. E se è vero che ogni applicazione suppone di solito un’argomentazione per principi, è anche vero che ogni argomentazione è finalizzata all’applicazione di una regola. Principi e regole, nel caso dei principi regolativi, non sono comunque norme distinte o peggio contrapposte, ma sono gli uni l’altra faccia delle altre. La vera differenza rispetto alle regole deontiche riguarda solo quelli che ho chiamato principi direttivi, cioè le norme delle quali non sono configurabili precise violazioni, in esse come tali sussumibili. Questi principi sono infatti, essi sì, norme che impongono politiche – cioè attività non specificamente predeterminate ma rimesse all’autonomia del legislatore – idonee a realizzare le finalità da essi indicate. Il loro campo di denotazione tuttavia, non rientrandovi la maggior parte dei diritti fondamentali, è assai più ristretto di quanto ritengano gran parte dei neocostituzionalisti principialisti. Ad esempio, enunciano principi direttivi, nella Costituzione italiana, il già ricordato art. 1, c. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”; l’art. 3 cpv.: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”; l’art. 29, c. 1: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia”; l’art. 35, c. 1: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”; l’art. 47, c. 1: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio”. Si tratta, come si vede, di norme che, benché non immediatamente applicabili a precise violazioni, rivestono un’enorme rilevanza politica, dato che definiscono l’identità democratica della Repubblica. Intese in questo senso esse sono, nel lessico da me proposto, regole costitutive dell’identità, appunto, dello Stato italiano37. Ma esse, di-

  Per una più chiara e precisa caratterizzazione di questi principi direttivi

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versamente dai diritti fondamentali, parimenti costitutivi dell’identità democratica dell’ordinamento dalla cui costituzione sono stabiliti, non disegnano la sfera del “non decidibile che” o “che non”, ma solo le finalità da perseguire; non proibiscono né prescrivono attività determinate, ma hanno solo la debole valenza deontica consistente nel prescrivere politiche idonee ad ottenere i risultati programmati; non ne sono configurabili specifiche attività che ne costituiscano l’osservanza o la violazione, ma solo i risultati complessivi delle politiche pubbliche, sulla cui base si può valutare il loro grado maggiore o minore di realizzazione38. entro la tipologia da me proposta delle norme, cioè di quella classe di regole che sono le regole giuridiche, è utile richiamare talune assunzioni elementari formulate in PiI, Premessa, p. 89, §§ 4.5-4.6, pp. 222-228. Secondo il postulato P7, le regole “o sono esse stesse modalità o aspettative positive o aspettative negative o status, oppure pre-dispongono modalità, o aspettative positive, o aspettative negative, o status”. Secondo le definizioni D4.6 e D4.7, sono regole tetiche quelle “che dispongono modalità, o aspettative positive o negative, o status” e regole ipotetiche quelle “che pre-dispongono modalità, o aspettative positive o negative, o status” come effetti, ove si tratti di regole giuridiche o norme, degli atti giuridici che ne sono causa (T8.33). Incrociando questa distinzione con quella tra regole deontiche e regole costitutive (D4.8, D4.9, T4.55-T4.56) avremo quattro classi di regole: le regole tetico-deontiche, che dispongono esse stesse modalità deontiche o aspettative positive o negative (T4.58); le regole tetico-costitutive, che dispongono esse stesse status ontici (T4.59); le regole ipotetico-deontiche, che pre-dispongono modalità deontiche o aspettative positive o negative; le regole ipotetico-costitutive, che pre-dispongono status ontici (T4.61). La tipologia delle norme giuridiche, che sono le regole prodotte da atti giuridici (D8.1), ricalca interamente quella delle regole (T8.21-T8.29 e T8.36): le norme si distingueranno perciò in tetico-deontiche, ipotetico-deontiche, tetico-costitutive e ipotetico-costitutive (PiI, § 8.2-8.3, pp. 399-406). 38   La natura di regole anziché di principi o valori della maggior parte delle norme sostanziali della Costituzione italiana, e in particolare dei diritti fondamentali, è peraltro sostenuta da: G. Azzariti, Interpretazione e teoria dei valori: tornare alla Costituzione, in A. Palazzo (a cura di), L’interpretazione della legge alle soglie del XXI secolo, Esi, Napoli 2001, §§ 7-9, pp. 242-249; A. Pace, Interpretazione costituzionale e interpretazione per valori, in G. Azzariti (a cura di), Interpretazione costituzionale, Giappichelli, Torino 2006, pp. 86 sgg.; A. Vignudelli, Interpretazione e costituzione. Miti, modi e luoghi comuni del pensiero giuridico, Giappichelli, Torino 2011, pp. 897 sgg.; F. Bilancia, Positivismo giuridico e studio del diritto costituzionale, in Scritti in onore di Alessandro Pace, vol. I, Esi, Napoli 2012, pp. 53-92. Un’appassionata difesa del costituzionalismo moderno come modello prescrittivo, in opposizione alla sua nozione premoderna di tipo descrittivo, oggi avallata e riproposta dalle sue concezioni realiste e talora da

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Naturalmente non basta che la costituzione usi la parola “diritto” perché ricorra una regola. Ad esempio, il “diritto al lavoro” previsto dall’art. 4 della Costituzione italiana, non essendone prefigurabili precise violazioni o ottemperanze, non è, alla stregua delle definizioni qui proposte, una regola, bensì un principio direttivo: la direttiva della piena occupazione che i pubblici poteri devono perseguire con politiche adeguate. “La Repubblica”, afferma del resto lo stesso art. 4, “promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”; che è la stessa cosa che con parole diverse dice l’art. 40, c. 1 della Costituzione spagnola, secondo cui “i poteri pubblici realizzeranno una politica orientata alla piena occupazione”. D’altro canto non sempre è chiaro se ci troviamo di fronte a un principio direttivo o a un principio regolativo. In molti casi la questione è di grado, nel senso che in concreto possono darsi principi con un grado maggiore o minore di regolatività. L’importante è che la distinzione concettuale tra i due tipi di principi e il loro diverso ruolo normativo siano chiari sul piano teorico. Mentre i principi regolativi sono applicabili e attuabili al pari delle regole, tutti i principi direttivi, oltre a connotare l’identità delle istituzioni e a promuovere politiche pubbliche, sono utilizzabili, al pari del resto dei principi regolativi, come rilevanti argomenti nell’interpretazione costituzionale. Ad esempio, gli artt. 1 e 4 cost., sul lavoro come fondamento della Repubblica e come oggetto di un diritto, possono ben valere come argomenti a sostegno dell’invalidità di leggi restrittive dei diritti dei lavoratori, o anche, inversamente, come è accaduto nella giurisprudenza costituzionale italiana, a sostegno della validità di leggi che impongono limiti, come l’esistenza di una giusta causa, al potere del datore di lavoro di licenziare un dipendente39.

quelle neo-costituzionaliste, è svolta da G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, Laterza, Roma-Bari 2013. 39   Sentenze n. 471 del 6.3.1976 e n. 189 del 22.10.1980, della C. cost. Si veda, sul valore fondamentale di queste norme, G. Ferrara, Il lavoro come fondamento della Repubblica e come connotazione della democrazia italiana (2006), in Id., La crisi della democrazia costituzionale agli inizi del XXI secolo, Aracne, Roma 2012, pp. 31-53. Gianni Ferrara (ivi, p. 38) ricorda la tesi di Costantino Mortati secondo cui l’art. 4 cost. “deve essere assunto quale supremo criterio interpretativo delle norme” espresse dagli articoli della costituzione dedicati al lavoro, da lui considerate come “congegni” attraverso i quali il diritto al lavoro

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Si capisce l’enorme rilevanza pratica, oltre che teorica, di tutta questa questione. La tesi principialista che i diritti fondamentali e il principio di uguaglianza stabiliti nelle costituzioni – cioè le norme sostanziali più importanti sulla produzione legislativa – sono (solo) principi e non (anche) regole, oggetto di ponderazione o bilanciamento anziché di applicazione ad opera dei legislatori e dei giudici costituzionali, vale di fatto a indebolire la normatività delle costituzioni, ad assecondare un’impropria autonomia della legislazione e della giurisdizione ben al di là degli ordinari margini di discrezionalità della prima e di opinabilità delle attività interpretative della seconda, e perciò a contraddire i due fondamenti, per così dire strutturali, del paradigma costituzionale dello stato di diritto: da un lato la gerarchia delle fonti e la collocazione della costituzione al vertice dell’ordinamento quale insieme di norme vincolanti per tutti i poteri costituiti, dato che la ponderazione legislativa e quella giudiziaria si risolvono nella scelta, sia pure argomentata, dei principi costituzionali volta a volta ritenuti più “pesanti” a scapito di quelli ritenuti più leggeri; dall’altro la separazione dei poteri e la soggezione dei giudici alla legge, l’una e l’altra offuscate dal ruolo creativo del diritto assegnato dalla ponderazione alla funzione giudiziaria, trasformata in una fonte in contrasto, nei nostri ordinamenti di civil law, con il principio di legalità quale sola norma di riconoscimento del diritto vigente40. Se vogliamo evitare queste aporie dobbiamo perciò ricostruire diversamente la struttura del ragionamento giudiziario richiesto

deve essere reso effettivo (C. Mortati, Art. 1 in Commentario alla Costituzione, Zanichelli, Bologna 1975, pp. 17-18). 40   Si ricordi questo inquietante passo di Ronald Dworkin: “Il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti contiene la previsione normativa che il Congresso non limiterà la libertà di parola. È questa una regola, tale che se una particolare legge limitasse la libertà di parola sarebbe incostituzionale? Coloro che esigono che il primo emendamento sia ‘un assoluto’ dicono che deve essere inteso in questo modo, cioè come una regola. O invece afferma semplicemente un principio, cosicché quando venisse scoperta una limitazione della libertà di parola, sarebbe incostituzionale se il contesto non evidenziasse qualche principio o qualche considerazione di opportunità politica che in determinate circostanze sia abbastanza importante da permettere la limitazione? Questa è la posizione di coloro che sostengono quello che è chiamato il fattore del ‘chiaro e attuale pericolo’ o qualche altra forma di ‘bilanciamento’” (Dworkin, I diritti presi sul serio cit., p. 97).

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dal concorso o dai conflitti tra norme e quindi anche tra diritti e principi costituzionali: non solo perché la ponderazione delle norme contraddice la logica dello stato di diritto, ma anche perché la metafora del diverso peso corrisponde in realtà a procedimenti cognitivi che richiedono analisi differenziate. Distinguerò a tal fine due tipi di soluzioni di tali concorsi o conflitti, entrambi compatibili con la gerarchia delle fonti, con la separazione dei poteri e con il principio della soggezione alla costituzione sia dei giudici che dei legislatori: le soluzioni dei conflitti configurabili in astratto e quelle dei conflitti che si presentano in concreto. 3.6. Sulle soluzioni dei conflitti: A) Le soluzioni in astratto. Concorsi di norme  Gran parte dei conflitti tra diritti configurabili in astratto non sono propriamente conflitti che richiedano bilanciamenti. Si tratta piuttosto di limiti imposti da taluni di essi all’esercizio di altri, impliciti nella struttura logica degli stessi principi o diritti, talora esplicitati dalle stesse norme costituzionali e comunque riconoscibili in via generale ed astratta in sede di interpretazione giudiziaria o dottrinale. Non si tratta di limiti dettati da opzioni morali o ideo­ logiche, anche se riflettono di solito la massima kantiana secondo la quale il diritto deve consistere nella limitazione delle libertà di ciascuno onde renderle compatibili con le libertà degli altri41. Si tratta di limiti di carattere logico e concettuale. Né si tratta di limiti valutabili di volta in volta a seconda della singolarità dei casi, bensì di rapporti tra tipi di diritti riconoscibili a livello teorico o dottri-

41   Kant, Sopra il detto comune cit., II, p. 254: “Il diritto è la limitazione della libertà di ciascuno alla condizione del suo accordo con la libertà di ogni altro, in quanto ciò è possibile secondo una legge universale; e il diritto pubblico è l’insieme delle leggi esterne che rendono possibile un tale accordo generale”. La stessa nozione di diritto è formulata da I. Kant, La metafisica dei costumi (1797), trad. di G. Vidari, Laterza, Bari 1970, Introduzione alla dottrina del diritto, B, pp. 34-35: “Il diritto è dunque l’insieme delle condizioni, per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale di libertà”; ivi, C, p. 35: “Qualsiasi azione è conforme al diritto quando per mezzo di essa, o secondo la sua massima, la libertà dell’arbitrio di ognuno può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale”. È sostanzialmente lo stesso principio formulato da John Stuart Mill in termini utilitaristici: “Interferire sulla libertà d’azione di chiunque” si giustifica “soltanto al fine di proteggersi”, cioè “per evitare danno agli altri (Mill, Saggio sulla libertà cit., p. 32).

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nario una volta per sempre, cioè sulla base di argomenti che, per quanto opinabili, sono presentati e sostenuti come validi in qualunque caso42. È nell’argomentazione di queste soluzioni, aggiungo, che risiede uno dei compiti più rilevanti della dottrina giuridica. Un primo limite riguarda i rapporti tra immunità fondamentali e gli altri diritti fondamentali. I diritti fondamentali consistenti in mere immunità – cioè soltanto in aspettative passive negative come la libertà di pensiero o di coscienza o l’immunità da torture, e non anche in modalità attive, cioè in facoltà o in poteri –, poiché non comportano nessun atto quale loro esercizio, sono tendenzialmente al vertice della gerarchia: non potendo limitare o interferire nelle libertà e nei diritti degli altri, essi sono infatti un limite all’esercizio di tutti gli altri diritti e non sono limitabili dall’esercizio di nessuno di questi. Non sempre, tuttavia, i rapporti tra diritti di immunità e diritti attivi di libertà consentono soluzioni in astratto: ad esempio la libertà di manifestazione del pensiero incontra certamente il limite della dignità della persona, e perciò della sua immunità da diffamazioni o calunnie; ma tale limite può essere ritenuto più o meno rigido, dando luogo a soluzioni diverse nei casi concreti a seconda, ad esempio, del ruolo pubblico della persona di cui viene violata la riservatezza43. C’è poi un secondo limite, ben più importante, che riguarda i rapporti tra tutti i diritti fondamentali, inclusi i diritti sociali e i diritti di libertà – siano questi mere immunità o anche facoltà, come ad esempio la libertà di manifestazione del pensiero – e i diritti fondamentali di autonomia civile, che sono altresì poteri dato che il loro esercizio consiste in atti giuridici produttivi di effetti nella sfera giuridica altrui. È questo un limite legato alla questione di grammatica giuridica già discussa nel § 1.7: benché tutti questi diritti siano parimenti di rango costituzionale, l’esercizio dei se42   Come scrive Claudio Luzzati, “dati due principi qualsiasi sottoposti a bilanciamento, vi devono essere solo tre possibilità le quali si escludono a vicenda: o pesano uguale, o il primo pesa più del secondo o viceversa. Quel che non deve succedere è però che questo rapporto muti secondo i diversi contesti” (Luzzati, Príncipi e princìpi cit., p. 176). 43   Devo questa precisazione alle osservazioni critiche di J. Ruiz Manero, A propósito de un último texto de Luigi Ferrajoli. Una nota sobre reglas, principios, ‘soluciones en abstracto’ y ‘ponderaciones equitativas’, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 35, 2013, pp. 830-832.

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condi – si badi, non i secondi, cioè i diritti civili di autonomia, ma gli atti con cui questi vengono esercitati, come sono ad esempio gli atti contrattuali – si trova, nella struttura a gradi dell’ordinamento, a un livello più basso rispetto al livello costituzionale cui appartengono tutti i diritti fondamentali, nessuno dei quali può essere perciò da essi derogato. Talora questo secondo limite viene stabilito dalle stesse norme costituzionali. Ad esempio, l’art. 41 della Costituzione italiana afferma che “l’iniziativa economica privata è libera” ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”: che è una norma che stabilisce esplicitamente questo secondo limite di tipo teorico o concettuale, dato che in base ad essa l’esercizio dei diritti-potere di iniziativa economica, cioè dei diritti civili di autonomia privata, non può recare danno ai diritti di libertà o alla sicurezza o alla dignità della persona44. Abbiamo così tre classi di diritti fondamentali – le semplici immunità fondamentali, i diritti attivi di libertà e i diritti-potere di autonomia – la prima delle quali è di solito sopraordinata all’esercizio di tutti gli altri, mentre l’esercizio della terza è subordinato, nella struttura a gradi dell’ordinamento, al rispetto di tutti gli altri45. Sarebbe peraltro auspicabile che le norme costituzionali, in considerazione del fatto che sono tanto più vincolanti quanto più sono chiare ed univoche, formulassero esplicitamente e precisamente, onde ridurre al massimo la discrezionalità giudiziaria, i limiti e i contro-limiti che devono intervenire in caso di concorso di diritti fondamentali46. In tutti i casi, ciò che sul piano teorico importa sottolineare è che tali limiti e contro-limiti, tutte le volte che sono configurabili in astratto, vanno comunque argomentati e stabiliti in via generale, cioè una volta per sempre, dalla dottrina e

44   Lo stesso limite all’esercizio di tali diritti-potere può rinvenirsi nel preambolo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che parla di sviluppo “sostenibile”, cioè compatibile con la garanzia dei beni e dei diritti in essa stabiliti. 45   Rinvio, su queste gerarchie, a PiI, § 1.6, pp. 133-134; § 2.4, p. 161, § 11.6, pp. 752-759; PiII, § 15.1, p. 308, § 15.10, p. 356. 46   Limiti chiari e univoci, perché assoluti, sono ovviamente quelli cui la costituzione conferisce rigidità assoluta, sopraordinandoli perciò a tutti gli altri, come quelli richiamati supra, nella nota 12 del secondo capitolo. Sui limiti e le gerarchie tra principi fissati dallo stesso testo della Costituzione italiana, si veda Pace, Interpretazione costituzionale cit., pp. 83-103.

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dalla giurisprudenza47. Si tratterà, ovviamente, di argomentazioni opinabili, ma pur sempre proposte come valide in via generale, a prescindere dalla singolarità dei concreti casi giudicati. 3.7. B) Le soluzioni in concreto. La ponderazione equitativa Tutt’altra cosa è la soluzione dei conflitti che si presentano in concreto, cioè del secondo tipo di conflitti che ho più sopra distinto: quello generato dalla singolarità dei casi sottoposti a giudizio. Si tratta, in questi casi, della ponderazione concepita di solito dai suoi assertori, talora anche quando si tratta di conflitti configurabili e solubili in astratto, come “specificazione” o “concretizzazione” dei principi48. Qui siamo in presenza di una confusione tra fatti e norme. In concreto, infatti, ciò che cambiano non sono le norme, che sono sempre uguali, ma i casi giudicati, che sono sempre irripetibilmente diversi l’uno dall’altro, pur se sussumibili nelle medesime norme. La cosiddetta ponderazione investe perciò, in questi casi, non già le norme da applicare, bensì i connotati singolari e irripetibili dei fatti sottoposti al giudizio. Interviene nell’accertamento della verità fattuale, e non in quello della verità giuridica. Si pensi, in materia penale, alla valutazione delle circostanze attenuanti e di quelle aggravanti e al giudizio di prevalenza delle prime sulle seconde o delle seconde sulle prime; o al giudizio sulla proporzionalità della difesa all’offesa, o del fatto offensivo al pericolo per salvarsi dal quale il suo autore l’ha commesso, ai fini del riconoscimento o meno delle esimenti della legittima difesa e dello stato di necessità; o al bilanciamento degli indizi, delle prove e controprove nell’induzione probatoria; o alla valutazione della gravità del reato sulla

47   È quanto indirettamente ha fatto, ad esempio, la già ricordata sentenza n. 1146 del 1988 della C. cost., che ha stabilito che “la Costituzione contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”, con ciò affermandone la superiorità gerarchica rispetto ad altre norme della stessa Costituzione. 48   R. Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, Milano 1992, pp. 35-42; J.J. Moreso, Conflitti tra principi costituzionali, in «Ragion pratica», 18, 2002, pp. 201-220; D. Mendonca, Los derechos en juego. Conflicto y balance de derechos, Tecnos, Madrid 2005; Barberis, Stato costituzionale cit., pp. 69-70; Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia cit., pp. 218-219.

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base delle sue concrete e singolari circostanze. Si pensi, in materia civile, alla ponderazione delle svariate circostanze del fatto e degli interessi in gioco ai fini della valutazione della buona fede, o dell’entità del danno ingiusto49, o della colpa negli illeciti civili, o dei vizi dell’errore o del dolo o della violenza nel consenso nei contratti, o delle condotte e delle colpe dei coniugi nel giudizio di separazione, o simili. Si pensi, in materia costituzionale, ai diversi interessi concorrenti e alle molteplici e imprevedibili circostanze di fatto ponderate ai fini della valutazione delle violazioni del principio di uguaglianza, o di quello della dignità della persona, o dei diritti fondamentali, siano essi di libertà o sociali50. In tutti questi casi i giudici non valutano le norme alle quali sono soggetti, ma i comportamenti e le situazioni che sono chiamati appunto a giudicare. Non pesano le norme, ma le circostanze dei fatti sottoposti al loro giudizio. E non possono non farlo perché il giudizio non verte sui fatti in astratto, ma su fatti concreti e sulle loro irripetibili circostanze e caratteristiche. Questo tipo di ponderazione equivale dunque a un’operazione richiesta da quella che ho altrove chiamato la dimensione equitativa della giurisdizione: una dimensione indebitamente trascurata dalla riflessione epistemologica e che forma invece una componente essenziale e ineludibile di qualunque giudizio51. C’è un equivoco epistemologico, in tema di equità, che pesa, da Aristotele in poi, sulla nostra tradizione giuridica. L’equità sarebbe “un correttivo al

49   La “valutazione comparativa di due interessi contrapposti” è posta alla base del problema dell’illecito civile da Pietro Trimarchi, Illecito (diritto privato), in Enciclopedia del diritto, vol. XX, Giuffrè, Milano 1970, p. 98. 50   Anche gli interessi in conflitto bilanciati dalla decisione giudiziaria sono circostanze di fatto, valutate volta a volta con riferimento al caso concreto, in vista di una soluzione che non ha nulla a che fare con l’interpretazione e il bilanciamento delle norme. “Se l’interpretazione mira ad assegnare un significato al discorso del legislatore”, scrive Roberto Bin, “il bilanciamento degli interessi non muove certo verso questo obiettivo. Lo scopo è raggiungere una soluzione soddisfacente in presenza di un conflitto di interessi: una soluzione [...] che nulla ha a che fare con il mondo dei significati [...]. Il bilanciamento non pretende di fissare l’unico significato attribuibile ad una disposizione, ma di individuare il punto di equilibrio tra le posizioni di interesse in gioco nel caso specifico”: Bin, Diritti e argomenti cit., p. 60. 51   Diritto e ragione cit., cap. III, § 11, pp. 135-147.

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giusto legale”52 ovvero “il giusto che va oltre la legge”53, o la “retta ragione, la quale interpreta e corregge la legge”54, o “una deroga che si fa al diritto formale”55, o una “stampella della giustizia” che ci porta “a trasgredire la giustizia formale56, o un rimedio alle “storture della legge, attraverso il rinvio al diritto naturale”57, oppure, infine, “la giustizia dell’uomo in contrasto con la giustizia della legge”58. In realtà essa non si oppone affatto alla legge e alla giustizia legale o formale, consistendo in null’altro che nella comprensione e nella valutazione delle concrete e irripetibili circostanze e connotati che fanno di ciascun fatto un fatto diverso da tutti gli altri, pur se tutti appartenenti alla medesima fattispecie legale. Consiste, insomma, in un tipo di indagine fattuale inevitabilmente richiesto, soprattutto in presenza di un concorso di norme, dalla comprensione della singolarità dei fatti, e non certo una fonte o un metodo di produzione normativa59. Del resto, a riprova della tesi che la ponderazione ha 52   Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di A. Plebe, Laterza, Bari 1957, V, 10, 1137b, pp. 155-156. 53   Aristotele, Retorica, a cura di A. Plebe, Laterza, Bari 1961, I, 13, 1374a, pp. 67-68. 54   T. Hobbes, Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune d’Inghilterra (1665), in Id., Opere politiche cit., pp. 456-457, 465, dove Hobbes riprende la definizione di equità di Sir Edward Coke. 55   G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), trad. di F. Messineo, Laterza, Bari 1954, § 223, p. 191. 56   Ch. Perelman, La giustizia (1945), trad. di L. Ribet, Giappichelli, Torino 1959, pp. 61-63. 57   F. Carnelutti, Trattato del processo civile. Diritto e processo, Morano, Napoli 1958, p. 139. 58   N. Bobbio, Governo degli uomini o governo delle leggi? (1983), in Id., Il futuro della democrazia cit., p. 161. 59   Come sembra invece che siano intese la ponderazione e l’argomentazione da Atienza, El Derecho como argumentacion cit. Si spiega forse in questo modo il fatto che la ponderazione e l’argomentazione siano considerate da Atienza come temi della teoria del diritto e, conseguentemente, il rimprovero che più volte, come altri, mi ha rivolto della mancanza, nella teoria del diritto sviluppata in Principia iuris, di una teoria dell’interpretazione e dell’argomentazione. Questa mancanza è dovuta al fatto che la teoria dell’interpretazione, al pari della teoria della prova, della teoria dell’equità e, per altro verso, della teoria del metodo assiomatico nella costruzione della teoria del diritto, appartengono alla teoria della conoscenza giuridica: la prima alla teoria della conoscenza, dottrinaria e giudiziaria, del diritto vigente; la seconda alla teoria del ragionamento probatorio; la terza alla teoria della comprensione equitativa; la quarta alla metateoria della teoria del diritto.

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per oggetto non già le norme ma le circostanze dei fatti da esse previsti, gli stessi teorici della ponderazione dei principi fanno sempre riferimento, nell’analisi delle argomentazioni a sostegno delle soluzioni ponderate dei cosiddetti “casi difficili”, alla concretezza appunto di tali casi e alla loro irripetibile singolarità60. È poi evidente che la valutazione equitativa dei fatti giudicati retroagisce su quella che ho chiamato “interpretazione operativa”61 e che è perciò orientata, nell’identificazione delle norme più appropriate da applicare, dalla singolarità dei fatti sottoposti a giudizio. Di qui la varietà delle interpretazioni e delle massime di giudizio prodotte dalla sterminata casistica giurisprudenziale. Ma ciò che cambia non sono le norme, che sono sempre le stesse, ma i fatti, che sono sempre diversi e che il giudice legge sub specie iuris, cioè sulla base della pertinenza delle regole che è chiamato ad applicare e della loro interpretazione sistematica. Ritornando ai nostri esempi, il giudice non pondera le norme sulle circostanze aggravanti e quelle sulle attenuanti, o le norme incriminatrici del reato e quelle sulle esimenti, o le norme sulla libertà di stampa e quelle sul diritto alla riservatezza. E neppure deriva, come dice Alexy, le regole da applicare dalla ponderazione dei diversi principi ad esse retrostanti. Egli pondera bensì le diverse circostanze fattuali che giustificano la prevalenza delle aggravanti o quella delle attenuanti, oppure i connotati del fatto che giustificano o meno l’applicazione di una esimente, oppure se il fatto sia un legittimo esercizio della libertà di stampa o una violazione dell’altrui riservatezza. 3.8. Diritto vigente e diritto vivente  Insomma, la ponderazione come metodo di soluzione dei problemi interpretativi non ha spazio nell’applicazione della legge. È una metafora suggestiva, che come tutte le metafore è decisamente fuorviante se è presa 60   Alexy, Teoria dei diritti fondamentali cit., p. 110: “I principi, nei casi concreti, hanno diverso peso” e “ha la priorità il principio con il peso di volta in volta maggiore”. Lo stesso riferimento della ponderazione ai “casi concreti” è in Atienza, El Derecho como argumentacion cit., cap. 3, § 8, pp. 168-174. 61   Interpretazione dottrinale e interpretazione operativa, in «Rivista internazionale di Filosofia del diritto», 1966, fasc. I, pp. 290-304 e, da ultimo, in PiI, Premessa, p. 101; § 4.4, p. 231; § 6.12, pp. 337-338; § 8.8, p. 446; § 9.6, p. 514; §9.16, pp. 565-566; § 12.8, pp. 880-885.

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alla lettera. I principi non sono norme esposte alle scelte ponderate dei legislatori e dei giudici, bensì, al contrario, sono limiti e vincoli imposti ad entrambi. Quanto ai conflitti, ai dilemmi e alle incertezze che ricorrono in presenza di concorsi di norme, essi si risolvono di solito in via generale ed astratta con argomentazioni, sia pure opinabili e controverse, a sostegno della qualificazione giuridica proposta come la più corretta sulla base delle norme esistenti; oppure, allorché i concorsi e i dilemmi intervengono con riferimento ai casi concreti, attraverso la comprensione e la valutazione equitativa delle circostanze, singolari e irripetibili, che fanno di ciascun fatto un caso irriducibilmente diverso da tutti gli altri. Sia nell’uno che nell’altro caso, configurare la ponderazione come scelta ponderata di una norma a scapito di un’altra62, e ammettere quindi la derogabilità delle norme costituzionali63, equi62   “Se due principi collidono”, afferma ad esempio Alexy, “uno dei due deve soccombere”, senza che il primo sia ritenuto “invalido” o il secondo prevalente in forza del principio di specialità. Un dato principio, egli aggiunge, “prevale sull’altro sotto circostanze determinate. Sotto altre circostanze, però, il problema della priorità può essere risolto in maniera inversa. Si può intendere tutto questo se si afferma che i principi, nei casi concreti, hanno diverso peso, e che ha la priorità il principio con il peso di volta in volta maggiore”: Alexy, Teoria dei diritti fondamentali cit., cap. III, § 1.3.2, pp. 109-110. In questo modo, scrive giustamente Riccardo Guastini, il bilanciamento finisce per risolversi in una tecnica argomentativa consistente non già nel contemperare i principi, ma nell’accantonare, o sopprimere o sacrificare l’uno a vantaggio di un altro, per di più sulla base di una “gerarchia assiologica mobile” tra principi, variabile caso per caso a discrezione dell’interprete: R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, Milano 2004, pp. 216-221, 252-253. Un’implicita ammissione della normatività debole e scarsamente consistente proveniente alle norme costituzionali dalla loro configurazione come principi oggetto di ponderazione mi sembra rivelata, nell’ultimo saggio di Ruiz Manero, A proposito de un ultimo texto de Luigi Ferrajoli cit., dalla ripetuta qualificazione della commissione dell’azione qualificata deonticamente dai principi come una semplice “opportunità”, che può venir meno ove ricorra, ovviamente a parere dell’interprete, l’“opportunità di realizzare un’altra azione qualificata da un altro principio”. 63   In inglese “defeasibility”, in castigliano “derrotabilitad”. Sui diversi significati di “defettibilità”, cfr. P. Chiassoni, La defettibiltà nel diritto, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2, 2008, pp. 471-506. “I principi sono norme derogabili”, afferma ad esempio Alfonso García Figueroa, e “la defettibilità è una proprietà essenziale delle norme giuridiche negli Stati costituzionali”, sicché “una norma N può risultare inapplicata e deve esserlo se e solo se si manifestano nuove eccezioni non previste ex ante e giustificate” tramite ponderazione: A. García Figueroa, Criaturas de la moralidad. Una aproximación

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vale invece a vanificare la soggezione del giudice alla legge: in questo senso, ripeto, la ponderazione è un’operazione giuridicamente incompatibile con il principio di legalità e con la logica dello stato di diritto. Oppure si intende con ponderazione qualunque tipo di opzione interpretativa che, come sempre, interviene nella pratica giuridica; ma allora conviene non usare questa parola, ormai compromessa dalle teorie che l’hanno contrapposta alla sussunzione. In tutti i casi la ponderazione è un termine infelice e fuorviante: o perché trasforma l’applicazione della legge in un’operazione dalla legge svincolata, o perché è usato con un significato troppo esteso, al punto da designare qualunque tipo di ragionamento giuridico e di interpretazione sistematica. La questione non è di parole. Le teorie hanno un ruolo performativo del diritto e dell’immaginario dei giudici e dei giuristi. Uno degli argomenti portati di solito a sostegno della ponderazione è quello realistico secondo cui è precisamente questa operazione che di fatto fanno i giudici. Ammesso e non concesso che (e comunque nella misura in cui) è proprio questo che fanno i giudici – e non la normale interpretazione sistematica dell’insieme complesso delle norme di cui si compone qualunque ordinamento – la teoria della ponderazione vale a legittimare e ad assecondare questa pratica, al tempo stesso abnorme ed impropria. Tutto questo non esclude affatto il ruolo dell’argomentazione per principi. Possiamo anzi affermare che l’intera attività giurisprudenziale, proprio perché sottoposta alla legge e perciò all’onere della motivazione, consiste in un’attività argomentativa oltre che, e prima che, applicativa. E l’argomentazione, come si è detto nel § 3.5, utilizza sempre, come argomenti, i principi espressi, direttamente o indirettamente, da norme giuridiche. Possiamo meglio chiarire questa fenomenologia del diritto – della legislazione da un lato e della giurisdizione dall’altro – distinguendo nettamente tra il diritto vigente e il diritto vivente. Questa distinzione è il riflesso della necessaria ambivalenza del diritto moderno, legata

neoconstitucionalista al Derecho a través de los derechos, Trotta, Madrid 2009, pp. 20, 151, 136. Sul “carattere defettibile” dei diritti fondamentali conseguente ai loro potenziali conflitti e sul “carattere approssimato” della loro interpretazione conseguente alla loro indeterminatezza, cfr. anche Mazzarese, Ancora su ragionamento giudiziale e diritti fondamentali cit., § 5.3.

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a sua volta alla sua natura linguistica e positiva. Grazie a questa natura linguistica, ogni fenomeno normativo può essere riguardato al tempo stesso come atto normativo e come norma, il primo come segno e causa della seconda, la seconda come significato ed effetto del primo64. Alla domanda “che cosa è il diritto positivo” potremo perciò fornire due risposte diverse, ma entrambe empiricamente plausibili dai due diversi punti di vista dai quali può essere guardato il fenomeno giuridico. Potremo rispondere che il diritto consiste nell’insieme degli atti linguistici e degli enunciati prescrittivi validamente prodotti dalle autorità normative di un dato ordinamento. Ma potremo anche rispondere che il diritto consiste nell’insieme dei significati normativi a quegli enunciati associati dall’interpretazione degli operatori giuridici. La prima risposta è quella fornita dalle concezioni normativiste, la seconda è quella fornita dalle concezioni realiste del diritto: due concezioni comunemente tra loro contrapposte e che invece si implicano a vicenda, l’una come la faccia dell’altra65. Il postulato del positivismo giuridico resta il principio normativistico che il diritto è tutto e solo ciò che è posto o prodotto dalle autorità abilitate a produrlo, e cioè un insieme di segni e di enunciati normativi. Ma questo principio, essenziale per assicurare al diritto oggettività positiva e intersoggettività, si coniuga necessariamente con il principio rea­ listico che il diritto è la pluralità delle interpretazioni normative che a tali segni ed enunciati sono associabili e di fatto associate. Possiamo dissentire sul significato della norma sui “maltrattamenti in famiglia” espressa dall’art. 572 c.p. e registrarne le diverse interpretazioni che ne sono state offerte dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Ma ciò che rappresenta il nostro comune riferimento empirico è l’enunciato formulato da tale articolo. Diremo perciò che il diritto vigente (o positivo, o oggettivo, o empiricamente esistente) è l’insieme degli atti e degli enunciati 64   Sulle relazioni di implicazione reciproca tra segno e significato, tra causa ed effetto, tra fonte o atto normativo e norma, rinvio a PiI, § 4.1, D4.1, pp. 216219; § 5.4, D5.2 e T5.29-T5.31, pp. 269-273; § 8.1, D8.2, pp. 418-419, § 9.5, T9.60-T9.61, p. 505. 65   Ha ben illustrato questa mia tesi A. Renteria Diaz, Normativismo e giusrea­lismo nella teoria del diritto di Luigi Ferrajoli, in Di Lucia, Assiomatica del normativo cit., pp. 199-222. Sulla distinzione tra “diritto vigente” e “diritto vivente”, si veda anche Intorno a “Principia iuris” cit., ivi, § 14.1.3.2, pp. 243-248.

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prescrittivi prodotti, in un dato ordinamento, dalle autorità da esso abilitate alla produzione normativa; e che il diritto vivente (o interpretato, o argomentato, o applicato) è l’insieme delle interpretazioni, diverse e diversamente argomentate a seconda dei diversi interpreti e delle diverse circostanze di fatto, fornite dalla giurisprudenza. Il primo enuncia, come i dizionari, le regole d’uso dei termini della lingua giuridica: “furto”, “appropriazione indebita”, “libertà di stampa”, “dignità della persona”, “diffamazione”, “maltrattamenti in famiglia” e simili; il secondo è il linguaggio giuridico che fa uso di tali termini applicando le loro regole d’uso. Una cosa è perciò riconoscere le incertezze e i dilemmi che intervengono nell’uso della lingua e quindi l’onere della motivazione argomentata delle scelte interpretative; altra cosa è trasformare l’argomentazione in una fonte di produzione del diritto vigente. Il diritto vigente resta l’unica lingua di cui i giudici dispongano nel nominare i fatti giudicati: come furto o come appropriazione indebita, oppure come esercizio della libertà di stampa o come diffamazione, non già perché pesano il significato di queste parole – cioè le norme sul furto e quelle sull’appropriazione indebita, o le norme sulla libertà di stampa e quelle sulla dignità personale (più di quanto noi pesiamo, parlando, le parole “sedia” o “poltrona”) – ma perché valutano (o, se vogliamo, pesano) i connotati singolari dei fatti giudicati che li rendono identificabili e più motivatamente nominabili come furto o come appropriazione indebita, oppure come legittimo esercizio della libertà di stampa o come indebita diffamazione lesiva della dignità personale (così come, nel chiamare “sedia” o “poltrona” un determinato mobile, ne valutiamo o pesiamo i concreti connotati). È chiaro, d’altro canto, che diritto vigente e diritto vivente si implicano a vicenda, così come ogni segno implica uno o più significati e ogni significato implica un segno. Il diritto vivente è come lo interpretano, lo argomentano e lo applicano gli operatori giuridici: in questo senso, sia che il diritto vigente sia formulato in regole oppure in principi, esso si configura effettivamente “come argomentazione”, secondo la bella immagine propostane da Manuel Atienza66. Ma la sua base empirica è il diritto vigente, ricono-

  Atienza, El Derecho como argumentación cit. In questo senso il diritto

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scibile sulla base del principio di legalità. Per questo è inadeguato e insufficiente un approccio puramente realistico, che identifica il diritto con il solo diritto vivente, ignorando o comunque trascurando la sua base empirica, o positiva, o oggettiva o vigente; così come è inadeguato e insufficiente un approccio puramente normativistico, che identifica il diritto con il solo diritto vigente, ignorando o comunque trascurando il ruolo performativo del diritto vivente svolto dalla scienza giuridica e dalla giurisprudenza67. Schematicamente, limitandoci al rapporto tra legge ordinaria e giudizio, diremo che il diritto vigente è prodotto dalla legislazione, mentre il diritto vivente è prodotto dalla giurisdizione. Né la giurisdizione ordinaria può produrre o alterare il diritto vigente al quale, ai suoi diversi livelli, è subordinata; né la legislazione può produrre o alterare il diritto vivente dal quale è applicata68. È questo, in ultima analisi, il senso della separazione dei poteri. 3.9. Il costituzionalismo, la gerarchia delle fonti e la separazione dei poteri  Ma è proprio la separazione dei poteri che viene compromessa dalle dottrine principialiste. Configurando i diritti co-

vivente corrisponde alla concezione realistica del diritto espressa da Riccardo Guastini: “I testi normativi non hanno, per così dire, vita propria indipendentemente dall’interpretazione e dalla dogmatica”, sicché “ciò che noi chiamiamo ‘il diritto’ è indistinguibile dai concetti e dalle dottrine che i giuristi usano: apparentemente per descriverlo a livello di metalinguaggio, in realtà per modellarlo. Da questo punto di vista il diritto è – in ogni tempo e luogo – semplicemente indistinguibile, avrebbe detto Giovanni Tarello, dalla ‘cultura giuridica’”: R. Guastini, Algunos aspectos de la metateoria de Principia iuris, in «Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho», 31, 2008, pp. 254-255. 67   Sul ruolo performativo nei confronti del loro oggetto svolto dalla teoria e dalla scienza giuridica, rinvio a PiI, Introduzione, § 7, pp. 32-38 e a PiII, pp. 39, 56, 101-104, 608, 849. 68   Diremo perciò, con riferimento ad esempio all’ordinamento italiano, che la Corte di cassazione, quale giurisdizione di legittimità, censura il diritto vivente lasciando intatto il diritto vigente. La Corte costituzionale, quale giurisdizione di costituzionalità, censura invece il diritto legislativo vigente, annullando le leggi per contrasto con le norme costituzionali viventi. La prima interviene sui significati, cioè sul linguaggio del diritto, ovvero sulla validità dell’uso dei segni legislativi da parte dei giudici di merito. La seconda, quando non si limita a raccomandare interpretazioni compatibili con la costituzione, interviene sui segni, cioè sulla stessa lingua del diritto prodotta dal legislatore, accertandone la validità o espellendoli come invalidi.

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stituzionalmente stabiliti come principi oggetto di ponderazione, anziché come regole oggetto di applicazione, esse promuovono un attivismo giudiziario che rischia di risolversi in uno snaturamento della giurisdizione, da esse tramutata in una fonte di diritto, in forza del ruolo creativo e sostanzialmente legislativo ad essa assegnato dalla regola dello stare decisis69. Nata nel sistema giuridico americano di common law basato sui precedenti come fonti e sulla non completa identificazione tra diritto e legislazione, questa concezione è stata da quelle dottrine applicata al costituzionalismo europeo, sulla base di una sua lettura in termini di principi morali suggerita, soprattutto in Germania, dalla “giurisprudenza dei valori” adottata dal Tribunale costituzionale tedesco in opposizione al formalismo paleo-giuspositivista. Di qui l’avallo, in nome di una maggiore razionalità, della discrezionalità giudiziaria tramite la tecnica della ponderazione e la configurazione della giurisprudenza costituzionale come “fonte primaria” del diritto70. È questa una tesi inammissibile per l’approccio garantista. L’idea che le sentenze siano fonti contraddice il principio di legalità, la soggezione dei giudici soltanto alla legge e perciò la separazione dei poteri: in breve la sostanza stessa dello stato di diritto, almeno quale si è strutturato negli ordinamenti di civil law. Essa equivale, non meno di quella secondo cui sarebbe una fonte la dottrina, alla proposta di una regressione al diritto dell’età premoderna. Contro simili tesi occorre invece ribadire che “fonti” sono solo quegli atti o quei fatti cui l’ordinamento connette come effetto la produzione di norme vigenti che innovano o modificano l’ordinamento medesimo71; sicché, negli ordinamenti democratici di civil 69   Lenio Luiz Streck ha illustrato quella da lui chiamata la deriva “panprincipialista” del diritto e della giurisprudenza brasiliani, elencando una lunga serie di principi di creazione giurisprudenziale, privi di qualunque ancoraggio al testo costituzionale e frutto unicamente dell’inventiva morale dei giudici: Streck, Verdade e Consenso cit., § 13.5.1, pp. 475-496. 70   Si vedano, su questa mutazione della giurisdizione costituzionale tramite ponderazione in una “fonte” del diritto e sulle sue ascendenze nella tradizione costituzionale statunitense e tedesca: Id., Neoconstitucionalismo, positivismo e pós-positivismo, in Ferrajoli, Streck, Karam Trindade (a cura di), Garantismo, hermeneutica e (neo)constitucionalismo cit., pp. 61-63; A. Karam Trindade, Garantismo versus neoconstitucionalismo: os desafios do protagonismo judicial em terrae brasilis, ivi, pp. 109-114. 71   In questo senso si veda da ultimo, ad esempio, G. Pino, La gerarchia delle

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law, la produzione del diritto vigente è riservata alle istituzioni politiche e rappresentative, siano esse legislative o di governo, attraverso il cui esercizio viene creato nuovo diritto, cioè nuove norme destinate all’applicazione giudiziaria. Certamente i precedenti giurisprudenziali hanno una potente capacità di influenza sulla giurisdizione. Ma è essenziale non confondere autorevolezza e autorità, forza persuasiva e forza autoritativa. Soltanto l’autorità è fonte di diritto. La forza vincolante dei precedenti, invece, ha il suo fondamento solamente nella loro autorevolezza o plausibilità sostanziale, e non già in una qualche loro autorità formale quale è quella che compete al potere legislativo. I precedenti giurisprudenziali, in breve, hanno nei nostri sistemi il valore di argomenti persuasivi, ma non il valore di leggi. Valgono per la loro sostanza razionale, e non certo per la forma o per l’organo da cui sono prodotti. Vengono richiamati da altre sentenze per il valore assegnato alla coerenza e quindi a una qualche pur tendenziale uniformità della giurisprudenza, a loro volta promosse dal principio dell’uguaglianza davanti alla legge, e non certamente per il loro carattere di “fonti” vincolanti in quanto tali. Influiscono sulla produzione del diritto vivente e non certo su quella del diritto vigente. In altre parole essi possono, ma non certo devono, essere assunti a base di altre decisioni giurisdizionali72. Se fonti del diritto. Costruzione, decostruzione, ricostruzione, in «Ars interpretandi», XVI, 2011, pp. 22-23. 72   Ivi, p. 45: Pino parla in proposito di “fonti permissive” che “possono essere prese in considerazione” ma anche ignorate “senza con ciò viziare la validità della decisione”. L’espressione “fonti permissive” è presa da Hart, Il concetto di diritto cit., cap. VI, p. 293, n. 2, che ne ha fatto uso – in opposizione alle “fonti formali” o “imperative” che l’ordinamento “impone” di applicare – per designare le “buone ragioni” poste a base delle decisioni e ricavate ad esempio “da un testo del digesto” o dagli “scritti di un giurista francese”. Alessandro Pizzorusso, a sua volta, in un paragrafo intitolato “Ragioni che giustificano l’inclusione del precedente fra le fonti del diritto”, parla di “efficacia persuasiva” del precedente: A. Pizzorusso, Delle fonti del diritto. Articoli 1-9, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma 2012, pp. 723-726. Tutte queste considerazioni – il fatto che i precedenti abbiano solo un’efficacia persuasiva, che essi consistano solo in buone ragioni non imposte al giudicante, che infine, come scrive Pino, non bastino da soli a giustificare una decisione giudiziale (Pino, La gerarchia delle fonti del diritto cit., p. 45) – sono tuttavia altrettante ragioni che non giustificano affatto l’inclusione del precedente fra le fonti del diritto ma al contrario la escludono come un fattore di inutile e fuorviante confusione.

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Parte prima. Il modello teorico

“i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, come stabilisce l’art. 101 cpv. della Costituzione italiana che enuncia sinteticamente i due principi di legalità e di giurisdizionalità qui formulati nel § 2.1, allora è escluso da entrambi questi principi che essi possano essere soggetti anche ai precedenti giurisdizionali73. Affermare che i giudici creano diritto equivale insomma a confondere interpretazione e innovazione, applicazione e produzione, giurisdizione e legislazione, accertamento del significato delle

73   Mi sembra perciò una strana aporia, in contrasto sia con il principio di legalità che con il principio di giurisdizionalità, la cosiddetta “súmula vincolante” introdotta dall’art. 103-A della Costituzione brasiliana, approvato con l’Emendamento costituzionale n. 45 del 2004, che prevede espressamente, ove una massima sia deliberata dai due terzi dei membri del Supremo Tribunal Federal, il suo “effetto vincolante” per tutti gli organi del potere giudiziario e amministrativo. Ne risulta contraddetta la separazione dei poteri, a me pare, sotto un duplice profilo: innanzitutto per il ruolo sostanzialmente legislativo affidato a un organo giurisdizionale; in secondo luogo per la lesione del principio secondo cui, come dice l’art. 101 cpv. della Costituzione italiana, “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Si veda tuttavia, a sostegno di questo istituto, H. Zaneti Jr., Processo constitucional: o modelo constitucional do processo civil brasileiro, Lumen Juris, Rio de Janeiro 2007, cap. VI. Un’aporia del medesimo tipo, in violazione della soggezione del giudice soltanto alla legge, è stata da taluni rinvenuta nell’art. 360-bis inserito nel c.p.c. dalla l. n. 69 del 18.6.2009, secondo il quale non è ammesso il ricorso in cassazione “quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”. In realtà questa norma, che non riguarda le sentenze dei giudici ma i ricorsi delle parti, che essa è diretta a disincentivare richiedendone quanto meno adeguate motivazioni, non altera in nessun senso il valore soltanto “argomentativo” dei precedenti nell’ordinamento italiano: si veda, in questo senso, l’ampia analisi svolta da P. Chiassoni, Desencantos para abogados realistas, Universidad Externado de Colombia, Bogotà 2012, cap. VI, pp. 211-266. Ma si veda anche, per un’analisi critica di questa nuova norma, G. Fontana, Il filtro magico in nome della nomofilachia (profili costituzionali dell’art. 360-bis c.p.c.), in Studi in onore di Franco Modugno, Esi, Napoli 2011, vol. II, pp. 1471-1503. Sembra invece in contrasto con la Costituzione l’art. 79 del recente D.L. n. 69 del 21 giugno 2013 (il c.d. “decreto del fare”), che modifica l’art.118 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile, stabilendo che la motivazione della sentenza civile “consiste nella concisa esposizione dei fatti decisivi e dei principi di diritto su cui la decisione è fondata, anche con esclusivo riferimento a precedenti conformi”. Questo “esclusivo riferimento a precedenti conformi” contraddice infatti il principio costituzionale della “soggezione del giudice soltanto alla legge” e non anche, quindi, “a precedenti conformi”, che questa nuova norma sembrerebbe elevare a fonti di diritto.

III. Il costituzionalismo principialista

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leggi e volontà legislativa, diritto vivente e diritto vigente. Di qui la singolare ma non casuale convergenza tra costituzionalismo principialista, realismo giuridico e neopandettismo74. Con un duplice risultato. Da un lato queste confusioni compromettono la fonte di legittimazione della giurisdizione e della sua indipendenza – l’applicazione della legge e la soggezione soltanto alla legge – assecondando magari la pretesa che i giudici, in quanto producono e non semplicemente applicano il diritto, vengano eletti dai cittadini o siano designati da organi elettivi, cioè traggano anch’essi legittimazione dalla rappresentanza politica al pari delle funzioni di governo. Dall’altro queste medesime confusioni, che furono proprie del paradigma giurisprudenziale qui ricordato nel § 1.1, favoriscono una paradossale regressione premoderna di quella che è l’esperienza più avanzata della modernità giuridica. Il costituzionalismo principialista, grazie al ruolo di fonte del diritto associato alla giurisprudenza, indebolisce infatti la normatività delle costituzioni, affidando la scelta di quali principi costituzionali rispettare o non rispettare, attuare o non attuare, al bilanciamento giudiziario, oltre che legislativo, con conseguente ribaltamento della gerarchia delle fonti. Che è esattamente l’opposto di quanto richiede il costituzionalismo garantista con la teorizzazione della divaricazione deontica tra il dover essere costituzionale e l’essere legislativo del diritto e la critica del virtuale sviluppo del diritto costituzionalmente illegittimo, sia per commissione che per omissione: uno sviluppo, come si vedrà nei prossimi capitoli, che oggi ha assunto dimensioni patologiche, fino a compromettere lo stato di diritto e la democrazia, e dal cui superamento dipende il futuro dell’uno dell’altra. 74   Ho segnalato questa convergenza in Intorno a “Principia iuris” cit., § 14.1.4, pp. 250-252 e in Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista cit., § 2, pp. 2778-2781.

Parte seconda

Il progetto politico

IV

La crisi odierna della democrazia costituzionale

4.1. Crisi economica e crisi della democrazia  Il paradigma costituzionale finora illustrato è chiaramente un modello normativo complesso, mai pienamente realizzato né perfettamente realizzabi­le, a causa della virtuale divaricazione che sempre sussiste tra normatività ed effettività. Le garanzie possono ridurre questa divaricazione, tanto più ampia quanto più ambiziose e impegnative sono le promesse costituzionali, ma non certo eliminarla, dato che consistono anch’esse in figure deontiche. Per questo possiamo parlare soltanto, a proposito delle democrazie costituzionali, di un grado maggiore o minore di garantismo, e perciò di democrazia, a seconda del grado di effettività dell’insieme delle garanzie dei diritti e dei principi costituzionali. Ma questa virtuale illegittimità rappresenta anche il maggior pregio del paradigma costituzionale. Solo negli stati assoluti non esiste divaricazione, ma coincidenza, tra l’esistenza e la validità delle norme, prodotte dall’esercizio, privo di limiti giuridici, dei poteri legislativi e di governo. Questa divaricazione deontica tra normatività ed effettività della democrazia costituzionale è dunque fisiologica, esistendo sempre, entro certi limiti, un qualche grado di ineffettività delle garanzie. Ma può diventare, oltre tali limiti, patologica, allorquando raggiunge un punto di crisi o peggio di rottura. È il rischio che stanno oggi correndo le nostre democrazie a causa di due fenomeni convergenti: lo sviluppo dell’illegalità nell’esercizio degli stessi poteri pubblici normativi, quale si manifesta nelle violazioni delle garanzie e perciò nella produzione di antinomie, e l’ancor più grave difetto di legalità, quale si manifesta nell’assenza di garanzie e perciò nell’esistenza di lacune. È quanto sta accadendo sia negli ordinamenti statali, sia e ancor più negli ordinamenti

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sovranazionali. Le ragioni della crisi sono molteplici: la mancata introduzione, soprattutto a livello sovra- e internazionale, delle garanzie sia primarie che secondarie dei diritti stabiliti nelle tante carte e convenzioni, nonché di funzioni e istituzioni di garanzia all’altezza dei nuovi poteri e dei nuovi problemi globali; il fatto che la politica non ha mai realmente accettato la sua soggezione al diritto; la perdita della memoria delle tragedie del passato e di quei “mai più” che all’indomani della seconda guerra mondiale furono all’origine del nuovo costituzionalismo democratico; i processi di deregolazione e di riduzione del ruolo di governo e di garanzia della sfera pubblica che sono al tempo stesso, come in una spirale, la causa e l’effetto indotto dalla crisi economica. È precisamente la crisi economica in atto in tutti i paesi dell’Occidente capitalistico, generata dalla deregolazione della finanza, il principale fattore odierno di crisi della democrazia. Per le sue cause e per le risposte con le quali viene fronteggiata – le une e le altre accomunate da un’aperta subalternità della p ­ olitica all’economia – essa sta infatti provocando, e insieme rivelando, una crisi profonda di entrambe le dimensioni del paradigma costituzionale illustrate, nei §§ 1.4 e 1.5, quali conquiste della modernità giuridica: la dimensione formale o giuspositivistica, legata al ruolo regolativo della legge prodotta da organi legislativi rappresentativi, e quella sostanziale o giuscostituzionalistica, legata ai limiti e ai vincoli imposti ai poteri, sia pubblici che privati, a garanzia dei diritti fondamentali costituzionalmente stipulati. Entrambe queste dimensioni stanno oggi capovolgendosi. Da un lato, il ruolo di governo della politica nelle forme della rappresentanza democratica e il ruolo normativo del diritto statale vengono svuotati dalla perdita di sovranità degli Stati, dalla crisi di rappresentatività dei partiti, dai conflitti di interessi e dal sopravvento sui pubblici poteri dei poteri economici e finanziari di carattere transnazionale. Dall’altro, si sta sviluppando un processo decostituente dei nostri ordinamenti che si manifesta nel progressivo smantellamento dello stato sociale, nella riduzione dei servizi sociali e delle garanzie dell’istruzione e della salute, nella crescita della povertà, della precarietà del lavoro e della disoccupazione, nell’abbassamento dei salari e delle pensioni e nella restrizione dei diritti dei lavoratori: in breve, nell’erosione della dimensione sostanziale della democrazia – quella che ho chiamato la sfera del non decidibile – provo-

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cata dalle vocazioni decisionistiche, populiste e tendenzialmente assolutistiche e anticostituzionali dei poteri politici. All’impotenza della politica nei confronti dell’economia fa così riscontro una rinnovata onnipotenza della politica nei confronti delle persone e a danno dei loro diritti costituzionali, generata dall’insofferenza per i limiti e i vincoli da questi normativamente imposti ma sempre più assenti dall’orizzonte delle politiche di governo. I due processi – il depotenziamento della politica rispetto ai mercati e il suo potenziamento nell’opera di decostituzionalizzazione delle nostre democrazie – sono, come vedremo, tra loro connessi, l’uno come causa del secondo e il secondo come effetto richiesto dal primo. 4.2. Il ribaltamento del rapporto tra politica ed economia e l’impotenza della politica di fronte ai mercati finanziari  Il primo processo – lo svuotamento delle forme rappresentative della democrazia e l’indebolimento del ruolo normativo del diritto – è il prodotto di un capovolgimento del tradizionale rapporto tra politica ed economia, tra Stato e mercato, tra pubblico e privato. Si è prodotta, in questi anni, una silenziosa rivoluzione istituzionale. Non abbiamo più il governo pubblico e politico dell’economia, ma il governo privato ed economico della politica1. Non sono più gli Stati, con le loro politiche, che controllano i mercati e il mondo degli affari, imponendo loro regole, limiti e vincoli, ma sono i mercati finanziari, cioè poche migliaia di speculatori e qualche agenzia privata di rating, che controllano e governano gli Stati. Non sono più i governi e i parlamenti democraticamente eletti che regolano la vita economica e sociale in funzione degli interessi pubblici generali, ma sono le potenze invisibili e politicamente irresponsabili del capitale finanziario che impongono agli Stati politiche antidemocratiche e antisociali, a vantaggio di interessi privati e speculativi. Possiamo identificare, sommariamente, quattro ordini di ragioni di questo ribaltamento. La prima ragione consiste in un’asimmetria intervenuta nelle dimensioni della politica e in quelle dell’economia e della finan-

1   Cfr. S. Cassese, Crisi dello Stato, Laterza, Roma-Bari 2002, cap. III, § 1, che reca il titolo Dalla sovranità statale sull’economia alla sovranità dell’economia sullo Stato.

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za: l’asimmetria tra il carattere ancora sostanzialmente locale dei poteri statali e il carattere globale dei poteri economici e finanziari. La politica è tuttora ancorata ai confini degli Stati nazionali, in un duplice senso: nel senso che i poteri politici, soprattutto dei paesi più deboli, si esercitano soltanto all’interno dei territori statali, e nel senso che gli orizzonti degli attori della politica sono a loro volta vincolati al consenso degli elettorati nazionali. Al contrario, i poteri economici e finanziari sono ormai poteri globali, che si esercitano al di fuori dei controlli politici e senza i limiti e i vincoli legali e costituzionali apprestati dal diritto, che è tuttora un diritto prevalentemente statale2. È insomma saltato – o si è quanto meno indebolito, ed è destinato a diventare sempre più debole – il nesso democrazia/popolo e poteri decisionali/ regolazione giuridica. Si capisce così come il capitale finanziario globale, grazie alla sua libera circolazione, possa oggi condizionare e aggredire l’economia reale e gli stessi bilanci degli Stati, fino ad imporre alla politica, in assenza di una sfera pubblica alla sua altezza, la legge del mercato quale nuova Grundnorm, sopraordinata al diritto e alle stesse costituzioni. Il secondo fattore del rovesciamento del rapporto tra politica ed economia è di carattere culturale. Esso consiste nel sostegno prestato al primato dell’economia dall’ideologia liberista, basata su due potenti postulati: la concezione dei poteri economici come libertà fondamentali e delle leggi del mercato come leggi naturali. Le due raffigurazioni ideologiche sono tra loro connesse: la prima, ben più che rafforzata, è per così dire verificata dalla seconda, cioè dalla concezione della lex mercatoria come legge naturale, sopraordinata alla politica e al diritto come una sorta di necessità naturale, e perciò della scienza economica come scienza a sua v­ olta naturale, dotata della stessa oggettività empirica

2   Sul carattere globale e sconfinato dell’economia e dei poteri economici, si vedano gli scritti di M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Il Mulino, Bologna 2000; Id., Globalizzazione (aspetti istituzionali), in Enciclopedia delle scienze sociali. Aggiornamento, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 2001; Id., Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Laterza, Roma-Bari 2006; Id., La governance tra politica e diritto, Il Mulino, Bologna 2010; Id., Prima lezione di diritto globale, Laterza, Roma-Bari 2012.

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delle scienze fisiche3. Di qui il rifiuto come illegittimo e insieme irrealistico di qualunque intervento statale diretto a limitare l’autonomia degli operatori economici e finanziari e l’assunzione come tesi scientifiche, o rilevazioni fattuali o proposte realistiche di una lunga serie di luoghi comuni largamente ideologici4. Di qui la scomparsa dall’orizzonte della politica dei valori della democrazia costituzionale. Di qui, soprattutto, la trasformazione della politica in tecnocrazia, cioè nella sapiente applicazione delle leggi

3   “Prendersela con la finanza è altrettanto idiota che dire: ‘sono contro la pioggia, contro il freddo, contro la nebbia’” (dichiarazione di François Baroin, ministro dell’Economia del governo del presidente Sarkozy, cit. da V. Pazé, La democrazia degli antichi, la democrazia dei moderni, in «Questione giustizia», 2012, n. 5, p. 52). Il ruolo non secondario svolto nella crisi da questa raffigurazione delle leggi del mercato come leggi naturali e della scienza economica come scienza naturale è ben illustrato da L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011, cap. IV, pp. 85-106. Gallino ricorda questa pretenziosa affermazione di Milton Friedman, caposcuola della scuola di Chicago: “L’economia positiva è, o può essere, una scienza ‘oggettiva’, precisamente nello stesso senso in cui lo è una qualsiasi delle scienze fisiche” (M. Friedman, The Methodology of Positive Economics, in Id., Essays in Positive Economics, University of Chicago Press, Chicago 1953, p. 4). Mostra inoltre come l’assunzione da parte degli economisti di modelli scientifici ripresi dalle teorie fisiche e matematiche ha non solo suggerito diagnosi sbagliate e terapie fallimentari, ma è stata anche responsabile della creazione performativa di nuove realtà economiche, come ad esempio il cosiddetto modello Black-Scholes-Merton del mercato dei derivati, che ha non già descritto, ma creato questo tipo di mercato e i suoi effetti disastrosi (ivi, pp. 99-102). Si è insomma prodotto un circolo vizioso determinato da una singolare fallacia epistemologica: lo scambio dei modelli teorici elaborati dalle dottrine liberiste con la realtà, e perciò l’assunzione delle regole da essi imposte come leggi naturali dell’economia. Sul ruolo attivo della scienza economica come fattore della crisi, si veda anche S. Biasco, Ripensando il capitalismo. La crisi economica e il futuro della sinistra, Luiss University Press, Roma 2012, cap. 2, pp. 39-69. 4   È di nuovo Luciano Gallino che offre un elenco di questi luoghi comuni in apertura del suo libro, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista a cura di P. Borgna, Laterza, Roma-Bari 2012, p. v: “Caso mai la lettrice o il lettore non lo sapessero, il maggior problema dell’Unione Europea è il debito pubblico. Abbiamo vissuto troppo a lungo al di sopra dei nostri mezzi. Sono le pensioni a scavare voragini nel bilancio dello Stato. Agevolare i licenziamenti crea occupazione. La funzione dei sindacati si è esaurita: sono residui ottocenteschi. I mercati provvedono a far affluire capitale e lavoro dove è massima la loro utilità collettiva. Il privato è più efficiente del pubblico in ogni settore: acqua, trasporti, scuola, previdenza, sanità. È la globalizzazione che impone la moderazione salariale. Infine le classi sociali non esistono più”.

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dell’economia da parte di governi “tecnici” – non dimentichiamo il monito di Norberto Bobbio sull’antitesi e sull’incompatibilità tra democrazia e tecnocrazia5 – i quali traggono legittimazione dai mercati e solo ai mercati, e non già ai parlamenti, ai partiti, alle forze sociali e alla società, devono rispondere. Si spiega così come in questi anni la politica non si sia limitata, in molti paesi, ad abdicare al suo ruolo di governo, ma abbia attivamente contribuito allo sviluppo dei poteri selvaggi dell’economia e della finanza con i suoi tanti interventi diretti alla deregolazione e liberalizzazione dei mercati e alla privatizzazione dei servizi pubblici e dei beni comuni. E si spiegano anche la mancanza di una seria opposizione politica e la subalternità culturale all’ideologia liberista delle forze della sinistra, contagiate, almeno in Italia, dall’idea che è il sistema politico che deve adattarsi alle regole naturali dell’economia, e non viceversa, e dalla fiducia nel mercato come luogo della massima razionalità ed efficienza, non modificabile né contrastabile dalla politica6. Il terzo – e più penoso – ordine di ragioni della dipendenza della politica dall’economia e della regressione della sfera pubblica in favore degli interessi privati è la crescente confusione tra poteri politici e poteri economici che si manifesta nelle molteplici forme di corruzione, nell’azione delle lobbies, negli svariati conflitti di interessi e nel rapporto sempre più stretto tra politica e denaro: denaro per finanziare le campagne elettorali e per mantenere le burocrazie di partito; politica e denaro per ottenere l’accesso, il favore o peggio il controllo dei media. Tutti questi   “Tecnocrazia e democrazia sono antitetiche: se il protagonista della società industriale è l’esperto non può essere il cittadino qualunque. La democrazia si regge sull’ipotesi che tutti possano decidere di tutto. La tecnocrazia, al contrario, pretende che chiamati a decidere siano i pochi che se ne intendono”: Bobbio, Il futuro della democrazia cit., cap. I, § 10, p. 22. 6   Si veda, sui mutamenti della cultura economica della sinistra italiana, e in particolare del Pci-Pds-Ds, l’ottimo saggio di R. Schiattarella, La sinistra e l’economia italiana, in «Democrazia e diritto», 1, 2008, pp. 19-79. Sulla subalternità della sinistra alla cultura neoliberista, si veda anche S. Biasco, Per una sinistra pensante, Marsilio, Venezia 2009; Id., Ripensando il capitalismo cit., capp. 3-5, pp. 71 sgg. Alla conversione di una parte della vecchia sinistra ex comunista al liberismo ha probabilmente contribuito anche il suo vecchio determinismo economico, parimenti basato sull’idea del primato, rispetto alla politica e al diritto, della “struttura” dei rapporti economici di produzione. 5

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fattori di distorsione della sfera pubblica e dello stesso mercato, oltre a pesare sui pubblici bilanci (si parla, in Italia, di un costo della corruzione di 60 miliardi e di un costo dell’evasione fiscale di più di 120 miliardi di euro l’anno), hanno dato vita a una sorta di infra-Stato occulto e parallelo, impegnato nell’appropriazione privata della cosa pubblica, che contraddice tutti i principi della democrazia politica e dello stato di diritto, dal principio di legalità a quelli di pubblicità, visibilità, controllabilità e responsabilità dei pubblici poteri. Gli stessi alti costi delle campagne elettorali hanno un effetto distorsivo sulla rappresentanza politica. A causa dei finanziamenti da essi richiesti da parte del mondo dell’economia, le elezioni vengono oggi vinte non soltanto dai partiti e dai candidati che hanno ricevuto un maggior numero di voti, ma anche da tutti coloro che li hanno finanziati e ai cui interessi privati gli eletti sono di fatto vincolati da una sorta di mandato imperativo: che è chiaramente una violazione del principio, stabilito fin dalla Costituzione francese del 1791 e riprodotto dall’art. 67 cost., secondo il quale “ogni membro del parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”7. C’è stato infine un quarto fattore del capovolgimento del rapporto tra politica ed economia che riguarda i paesi dell’eurozona e che forse è stato, tra tutti, il più decisivo: il mutamento della costituzione economica di tali paesi prodotto dai trattati istitutivi dell’Unione Europea. Politica e diritto, nelle costituzioni nazionali dei paesi europei, sono di solito espressamente sopraordinati alle attività economiche. “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”, afferma l’art. 41, c. 3, cost.8; e il c. 2, del quale non a caso è stata dalla destra

7   Bobbio parla, in proposito, di una mutazione in senso neo-corporativo del sistema politico, all’insegna della trasformazione della rappresentanza politica in rappresentanza degli interessi (Bobbio, Il futuro della democrazia cit., p. 12). Sulla crescente confusione tra interessi pubblici e interessi privati e sul condizionamento dei primi da parte dei secondi, rinvio al mio La rivincita degli interessi e l’eclisse del pubblico, in «Teoria politica», 2011, pp. 71-85. 8   È questa la norma che Natalino Irti ha chiamato la “decisione di sistema” adottata dalla Costituzione italiana, la quale “affida alla legge, e dunque allo Stato come fonte produttiva di norme il disegno globale dell’economia: il dovere di indirizzarla e coordinarla a fini sociali [...]. La legge non si limita a vietare taluni

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proposta in questi anni la soppressione, stabilisce che “l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Non solo. L’art. 42 sulla proprietà privata affida alla legge il compito di “assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”; e l’art. 43 prevede la possibile nazionalizzazione di imprese “che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. Disposizioni analoghe sono dettate dagli artt. 14 e 15 della Legge fondamentale tedesca, dal capitolo III della Costituzione spagnola, dalla parte II della Costituzione portoghese e dagli artt. 17 e 18 di quella greca. Ebbene, questo modello dirigista dell’economia ad opera della politica e del diritto è stato letteralmente capovolto dai trattati europei, che all’ordine del diritto hanno sostituito l’ordine dell’economia. Sulla base del principio della libera concorrenza entro uno “spazio senza frontiere interne”, affermato dagli artt. 26 n. 2 e 106 n. 2 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea ed elevato a una sorta di norma fondamentale dell’ordinamento comunitario, è stato precluso qualunque intervento degli Stati nell’economia dei loro paesi. In particolare, l’art. 107 del Trattato dichiara “incompatibili con il mercato interno”, salvo talune deroghe di carattere eccezionale, “gli aiuti concessi dagli Stati... che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”; e l’art. 63 vieta “tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi” e “tutte le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi”, così consentendo le fughe di capitali onde evadere le imposizioni fiscali. Si è così dato vita a due sistemi – l’uno dirigista degli Stati membri, l’altro liberista dell’Unione – tra loro in “radicale antitesi” e in “secca mezzi, o a consigliare e promuovere l’impiego di altri, ma determina i ‘fini sociali’, i quali, per loro natura, sono diversi dai fini individuali, perseguiti dai singoli imprenditori. Si tratta di una visione teleologica, o, appunto, di dirigismo volto a raggiungere fini sociali prescelti dal legislatore”: N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 19-20. Su questa costituzione economica italiana, affidata però alle contingenti e mutevoli politiche governative, si veda anche G. Amato, Il mercato nella Costituzione (1991), in Associazione italiana dei costituzionalisti, La costituzione economica, Cedam, Padova 1997, pp. 12-16.

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antinomia”9. Ma il sistema liberista è chiaramente destinato a prevalere, a causa dell’impossibilità della legislazione degli Stati di derogare ai trattati, ripetutamente affermata dalla Corte europea di giustizia e dalla nostra stessa Corte costituzionale con il solo limite del rispetto dei principi “supremi” costituzionalmente stabiliti10. In Italia, del resto, questa impossibilità è stata esplicitamente stabilita dalla modifica, nel 2001, dell’art. 117 cost., in base alla quale “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto” non solo della Costituzione italiana, ma anche “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”. In forza di questa nuova gerarchia delle fonti, risulta così impedita allo Stato l’attuazione del programma disegnato dalla sua costituzione, essendo preclusi tutti gli interventi legislativi attraverso i quali si sono sviluppate in passato le sue politiche economiche, fiscali, industriali e sociali: dai divieti di esportazione dei capitali agli aiuti pubblici diretti a salvare le imprese in difficoltà e i connessi posti di lavoro, dalla disciplina delle banche e del credito a quella delle licenze all’esercizio di determinate attività commerciali o industriali, dalle diverse forme di protezione dei diritti dei soggetti deboli, come la scala mobile e l’equo canone, fino agli interventi sui prezzi di beni e servizi essenziali volti a garantirne l’equità e ai monopoli pubblici di imprese di interesse generale come le ferrovie, le poste, l’informazione televisiva e le fonti di energia11. 9   Irti, L’ordine giuridico cit., pp. 23, 25; S. D’Andrea, O la costituzione della Repubblica italiana o l’Unione europea, in «Indipendenza», nov.-dic., 2011, pp. 8-11. Su questi temi, oltre che per un bilancio storico dell’intervento pubblico dello Stato italiano nell’economia dall’Unità ad oggi, cfr. S. Cassese, La nuova costituzione economica, Laterza, Roma-Bari 2000. 10   Sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984 e n. 348 del 2007 della C. cost. La svolta liberista è del resto un fenomeno globale, cui hanno potentemente contribuito tutte le sinistre di governo dell’Occidente. Gallino, Finanzcapitalismo cit., pp. 68-77, ricorda il ruolo svolto, nella liberalizzazione dei mercati finanziari, in Europa da François Mitterrand e dal suo ministro dell’Economia poi presidente della Commissione europea Jacques Delors e, negli Stati Uniti, dall’amministrazione Clinton, cui si devono il Financial Services Modernization Act del novembre 1999 e il Commodity Futures Modernization Act del dicembre 2000 che soppressero la legge Glass-Steagall del giugno 1933 voluta da Roosevelt dopo la crisi del ’29, liberalizzarono la circolazione di capitali e posero fine alla separazione tra banche commerciali e banche d’affari e al divieto alle prime di operazioni speculative. 11   Di fronte a “risultati così profondi” raggiunti dalle norme comunitarie “al

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4.3. La crisi della dimensione formale della democrazia e il fallimento delle politiche imposte dai mercati. La spirale della disuguaglianza  Questo ribaltamento del rapporto tra politica ed economia sta producendo una profonda crisi istituzionale, che come qui mostrerò investe sia la dimensione formale delle nostre democrazie che la loro dimensione sostanziale. La crisi investe, in primo luogo, le forme della democrazia politica. La democrazia politica è nata all’interno degli Stati con il suffragio universale nell’elezione dei rappresentanti ai supremi organi statali ed è tuttora vincolata alle forme rappresentative dei parlamenti e dei governi nazionali. La subalternità delle politiche nazionali ai mercati ha svuotato, insieme al ruolo di governo della politica, la stessa legittimità e rappresentatività degli organi elettivi, ai quali i mercati impongono interventi antisociali, in danno del lavoro e dei diritti sociali e a vantaggio, di fatto, degli interessi privati della massimizzazione dei profitti, delle speculazioni finanziarie e dell’appropriazione di beni comuni e vitali. Ne consegue un ruolo parassitario della politica e delle istituzioni democratiche e un generalizzato discredito del ceto politico, attestato dai tassi sempre più bassi di popolarità dei partiti, dei loro leader e delle stesse istituzioni rappresentative: che è un discredito e una crisi della politica in quanto tale, sempre più subordinata all’economia, sempre più priva di autorevolezza, sempre più lontana – per incapacità, o per soggezione ideologica, o per connivenza con il mondo degli affari – dai bisogni e dai problemi dei paesi che sarebbe chiamata a governare. E ne consegue, inevitabilmente, la rivolta di masse crescenti, soprattutto giovanili, contro tutti i governi, dagli Stati Uniti alla Grecia e alla Spagna, dal Cile alla Francia e all’Italia. “Siamo il 99%”, è lo slogan del movimento degli occupanti di Wall Street che esprime in maniera lapidaria questa degenerazione oligarchica della democrazia: un 99% governato dall’1% della popolazione, che negli Stati Uniti possiede il 40% della ricchezza, paga meno tasse, come ha dichiarato il miliardario Warren Buffett, dei lavoratori salariati e nel quale vengono di fuori della procedura aggravata dell’art. 138”, afferma Natalino Irti, “c’è quasi da chiedersi se il parlamento nazionale abbia avuto lucida e piena coscienza di generare norme distruttive o eversive della stessa Costituzione”: Irti, L’ordine giuridico cit., p. 27.

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sempre più accomunati, dall’opinione pubblica, poteri economici e poteri politici, ceti di governo e grandi concentrazioni economiche e finanziarie, indistintamente percepiti come un unico blocco di potere ostile alla società. Il secondo aspetto della crisi riguarda, con il venir meno dei limiti e dei vincoli all’esercizio dei diritti-potere del mercato, le forme dello stato di diritto consegnateci dalla tradizione liberale. Anche lo “stato di diritto”, come dice questa stessa parola, è nato e si è sviluppato nei confronti soltanto dello Stato, cioè dei poteri statali, nella forma della sottoposizione del loro esercizio al diritto prodotto dalle leggi degli Stati. Non ha investito né i poteri sovrastatali, dato che il diritto positivo è stato per lungo tempo ed è tuttora in gran parte identificato con il solo diritto statale, né i poteri economici privati, a loro volta ideologicamente concepiti dal pensiero liberale, come si è visto nel § 1.7, anziché come poteri, come diritti di libertà. Di qui, dalla convergenza dell’originario modello liberale dello stato di diritto e dell’odierno carattere sovranazionale dei poteri privati del mercato, l’impotenza degli Stati, in grado di dare a problemi globali risposte soltanto locali, non all’altezza di quei poteri insieme privati e globali che sono, in particolare, i poteri della finanza. Non solo. Lo stato di diritto, nelle forme odierne del paradigma costituzionale, si è venuto svuotando, almeno in Italia, anche nei confronti dei poteri pubblici statali, a causa delle tante violazioni e dei tentativi di riforma della Costituzione, dell’insofferenza per i limiti e i controlli costituzionali e delle ricorrenti rivendicazioni populiste dell’onnipotenza delle maggioranze. Infine la dipendenza della politica dall’economia segnala un terzo aspetto, il più profondo e vistoso, della crisi che stiamo attraversando: la crisi, ancor prima che della democrazia rappresentativa e dello stato di diritto, dello stesso Stato moderno, inteso lo Stato quale sfera pubblica deputata alla difesa degli interessi generali e quale istituzione politica separata dall’economia e rispetto ad essa eteronoma e sopraordinata. È questa una crisi di portata epocale. La separazione tra società civile e Stato, tra economia e politica, tra sfera e interessi privati e sfera e interessi pubblici, tra proprietà e sovranità, è un tratto caratteristico della modernità giuridica e politica, che fa parte del costituzionalismo profondo dello Stato moderno, in opposizione allo stato patrimoniale dell’ancien

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régime12. Lo Stato nazionale è nato infatti, alle origini del capitalismo, come sfera pubblica separata ed eteronoma rispetto all’autonomia delle sfere private, e in particolare delle sfere economiche, nei confronti delle quali è stato a lungo in grado, grazie al monopolio statale della produzione giuridica, di svolgere un ruolo di regolazione e di controllo: un ruolo tanto necessario per limitare le naturali vocazioni predatorie dell’economia capitalistica a tutela degli interessi generali e del funzionamento dello stesso mercato, quanto impensabile che possa essere svolto autonomamente dalle imprese, la cui legittima regola di condotta è la cura dei propri particolari interessi e perciò la massimizzazione dei profitti, a scapito di qualunque altro interesse, inclusi gli interessi pubblici. Questo ruolo di regolazione eteronoma dell’economia da parte della politica e del diritto entra in crisi, nel mondo globalizzato, con il venir meno della capacità di governo della prima e del ruolo di garanzia del secondo e, per quanto riguarda l’Europa, con l’istituzione del mercato comune basato sul già ricordato divieto dell’intervento degli Stati nell’economia dei loro paesi: un principio che fu giustificato con la necessità di garantire la libera concorrenza tra le imprese tramite l’esclusione per tutte di aiuti statali, ma che soprattutto ha realizzato il sogno liberista dell’assenza di regole e di limiti ai poteri economici e finanziari. Per questo possiamo parlare, a proposito dell’odierna subalternità della politica all’economia, di una regressione premoderna: per il ribaltamento dei rapporti tra poteri privati e proprietari e poteri politici di governo, non più i primi subordinati e regolati dai secondi, ma viceversa; per la crescente confusione e concentrazione nelle medesime mani delle due classi di poteri; per i conflitti di interesse e le molteplici forme di corruzione e condizionamento lobbistico della sfera pubblica. È questa triplice crisi che sta oggi investendo le democrazie occidentali. Democrazia politica e stato di diritto sono erosi alle fondamenta dallo sviluppo di poteri politici e soprattutto economici e finanziari sovra- o transnazionali, i quali si sottraggono al controllo politico e democratico dei governi nazionali e ai vincoli 12   “Al cittadino appartiene la proprietà, al sovrano l’impero”, è la celebre frase di Jean-Etienne-Marie Portalis a commento del Code civil, ricordata da S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata (1981), Il Mulino, Bologna 1990, p. 105.

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legali apprestati dagli ordinamenti statali, così rompendo il duplice nesso tra democrazia e popolo e tra potere e diritto, tradizionalmente mediato dalla rappresentanza politica e dal primato della legge prodotta da istituzioni rappresentative. Il declino del ruolo eteronomo del diritto e del primato della politica sull’economia equivale d’altro canto al declino della sfera pubblica e dello Stato nazionale, alla cui sovranità si sostituisce una sorta di invisibile e tacita sovranità dei mercati, liberi dai limiti giuridici e dalle politiche d’intervento degli Stati. C’è in tutto questo un paradosso. Le resistenze degli Stati a dar vita a sfere pubbliche sovranazionali – ad esempio a un governo politico dell’economia di livello quanto meno europeo e, in prospettiva, mondiale – sono dettate, nell’ottica miope dei tempi brevi, da un’illusoria difesa, come ad esempio in Francia, di un qualche residuo di sovranità statale; mentre in realtà esse finiscono per coprire la sostanziale subalternità delle loro politiche agli interessi dei poteri economici e finanziari, che proprio sull’assenza di una sfera pubblica alla loro altezza basano il loro sviluppo come poteri sregolati e selvaggi. Ma l’aspetto più paradossale della crisi economica in atto è il carattere fallimentare delle politiche rigoriste imposte dai mercati alle sapienti tecnocrazie che hanno di fatto commissariato e neutralizzato la politica. In tutti i paesi europei indebitati, dalla Grecia alla Spagna e all’Italia, queste politiche, dettate dai mercati finanziari per il tramite dell’Unione Europea, non hanno prodotto un miglioramento, ma in molti casi un peggioramento di tutti gli indicatori sui quali si misurano di solito le dimensioni della crisi economica: dalla diminuzione del Pil alla crescita della misura del debito pubblico, della disoccupazione e della povertà. La potenza dell’ideologia liberista è tale che il mercato senza regole, dopo essere stato la causa della crisi in assenza di politiche capaci di disciplinarlo e governarlo, continua a riproporsi come la terapia: tagli alla spesa pubblica nella sanità e nell’istruzione, privatizzazioni, deregolazioni, garanzie dei profitti come variabili indipendenti, liberalizzazioni, imposte su pensioni e salari anziché sui grandi patrimoni, fine della concertazione, crescita delle disuguaglianze e rottura della coesione sociale. Una terapia distruttiva, anche sul piano economico, dato che aggrava, come mostrano i suoi esiti catastrofici nell’economia greca, le cause stesse della crisi, provocando maggiore povertà, riduzione delle entrate fiscali, restrizioni

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del potere d’acquisto della maggioranza delle persone e perciò minori investimenti, crescita dei debiti pubblici e degli attacchi speculativi e richieste di maggiore austerità, così dando luogo a una spirale recessiva incontrollata che rischia di determinare il collasso dell’intera economia globale. All’origine di questo fallimento c’è stata, come riconoscono ormai concordemente innumerevoli economisti e commentatori, una diagnosi sbagliata della natura e delle cause della crisi13. La crisi non è dovuta alle dimensioni del debito pubblico di taluni Stati europei, né tanto meno alle loro politiche di spesa a garanzia dei diritti sociali. L’Europa è tuttora la massima potenza economica, assai meno indebitata degli Stati Uniti, il cui debito è superiore a quello di tutti i paesi dell’eurozona, o del Giappone, che ha un debito pubblico che è più del doppio del suo prodotto interno lordo. La crisi è stata originata negli Stati Uniti dagli squilibri dell’economia globale: in primo luogo dallo sviluppo della produzione industriale in paesi con bassi salari, come la Cina, e dei consumi nei vecchi paesi produttori, sostenuti dalla crescita incontrollata dell’indebitamento privato e di quello pubblico, promosso il primo dalle banche private e il secondo dai governi; in secondo luogo, e conseguentemente, dallo sviluppo ipertrofico nei paesi occidentali, favorito per compensare la perdita di competitività industriale, della finanza internazionale, cresciuta in questi anni, grazie anche alla liberazione della circolazione dei capitali e alla potenza delle innovazioni tecnologiche, fino a diventare molte volte il Pil mondiale e perciò in grado di aggredire interi sistemi politici ed economici14; in terzo luogo, e di conseguenza, dall’aumento esponenziale, anche nei paesi occidentali, della

13   Mi limito a ricordare J.E. Stiglitz, Bancarotta. L’economia globale in caduta libera, trad. di D. Cavallini, Einaudi, Torino 2010; Gallino, Finanzcapitalismo cit.; P. Krugman, Fuori da questa crisi, adesso!, trad. it., Garzanti, Milano 2012; M. Pianta, Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa, Laterza, Roma-Bari 2012; G. Ruffolo, S. Sylos Labini, Il film della crisi. La mutazione del capitalismo, Einaudi, Torino 2012. Si veda anche il documento Per un’altra economia, per una svolta in Europa, sottoscritto da 70 economisti e promosso dal Forum Cgil per l’economia e, inoltre, il volume di L. Pennacchi (a cura di), Tra crisi e “grande trasformazione”. Libro bianco per il piano del lavoro 2013, Ediesse, Roma 2013, in particolare il saggio introduttivo di L. Pennacchi, La crisi, il lavoro, il nuovo modello di sviluppo, pp. 15-46. 14   Gallino, Finanzcapitalismo cit., cap. III, pp. 168-198.

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disuguaglianza15: da un lato della povertà, che riduce i consumi, gli investimenti e l’occupazione, e dall’altro della ricchezza, che viene perciò impiegata, dalla mediazione bancaria, assai più nella speculazione finanziaria, favorita dagli ingenti indebitamenti, che negli investimenti nell’economia produttiva, depressi dalla riduzione della domanda. Il compromesso tra capitalismo e democrazia, che nei trent’anni seguiti alla seconda guerra mondiale aveva assicurato una forte crescita dell’economia e un aumento dell’uguaglianza, dell’occupazione e delle garanzie dei diritti sociali, si è così rotto nei successivi decenni con la mutazione del vecchio capitalismo pro-

15   Negli Stati Uniti l’1% della popolazione possiede il 35,6% di tutta la ricchezza privata, che è più di quella posseduta dal 95% della popolazione più povera preso nel suo insieme. Le 400 persone più ricche della lista Forbes possiedono una ricchezza superiore a quella dei 150 milioni di americani più poveri, cioè di metà della popolazione statunitense. Inoltre il 99% della popolazione ha visto nel 2010 ridursi al 76% del reddito nazionale la sua quota di reddito, che nel 1976 era del 91%. La quota di ricchezza del 90% della popolazione più povera è scesa dal 19,1% della ricchezza nazionale nel 1962 al 12,8% nel 2009. Nel 2010 il compenso medio di un amministratore delegato pagato dalle 500 imprese dell’indice Standard & Poor’s è stato di 10,8 milioni di dollari, con un aumento del 27% rispetto al 2009. Il rapporto tra tale retribuzione media e la retribuzione media di un lavoratore statunitense, che nel 1980 era di 42 a 1, è oggi di 325 a 1. Tra il 1983 e il 2009 oltre il 40% degli incrementi di ricchezza sono stati a beneficio dell’1% e l’82% a beneficio del 5%, mentre il 60% della popolazione più povera si è ulteriormente impoverito. Infine, l’1% della popolazione mondiale, composto da miliardari, possiede 42.700 miliardi di dollari, più di quanto posseggono i 3 miliardi di abitanti della terra più poveri (Usa: i numeri della disuguaglianza, http://www. lib21.org/usa-i-numeri-della-disuguaglianza). Un aumento della disuguaglianza, sia pure in misura inferiore, si è verificato anche in Europa, e in particolare in Italia: nei paesi dell’Ocse il reddito medio del 10% delle persone più ricche della popolazione è superiore di circa 9 volte il reddito medio del 10% più povero, mentre nel 1985 era superiore soltanto di 7 volte (OECD, Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising, OECD Publishing, 2011, p. 22). In Italia, in particolare, secondo i dati della Banca d’Italia, la metà più povera della popolazione possiede solo il 9,5% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco ne possiede il 45,9%; inoltre, il numero degli abitanti a rischio di povertà assoluta è aumentato del 3,8% in un solo anno, passando dal 24,6% nel 2010 al 28,4% nel 2011 (Banca d’Italia, Supplementi al Bollettino Statistico. I bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2010, Roma 2011, p. 20). Si vedano anche, sulla crescita delle disuguaglianze e della povertà, in Italia e a livello europeo e mondiale: M. Revelli, Poveri, noi, Einaudi, Torino 2010; Gallino, Finanzcapitalismo cit., pp. 111-127; Id., Disuguaglianze globali, in «Il dubbio. Rivista di critica sociale», 2, 2002; Pianta, Nove su dieci cit., cap. III. Sulle disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri, cfr. inoltre, infra, il § 4.6 e la nota 33.

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duttivo in capitalismo finanziario improduttivo e insaziabilmente predatorio16. L’epicentro della crisi si è peraltro spostato in Europa, a causa degli squilibri e delle disuguaglianze tra le economie dei diversi paesi dell’Unione e, soprattutto, della carenza di istituzioni pubbliche in grado di garantire la moneta unica e i diversi debiti sovrani. Gli attacchi speculativi e la subordinazione ai mercati degli Stati dell’euro sono infatti incoraggiati dall’incompiuta costruzione istituzionale europea: dalla mancanza di una banca centrale dell’Unione dotata, a sostegno della propria moneta, dei medesimi poteri di tutte le banche centrali del mondo; dal conseguente venir meno del potere dei singoli Stati di emettere o svalutare la moneta, e così di scoraggiare le aggressioni della speculazione finanziaria; dall’assenza di una garanzia pubblica europea dei debiti sovrani, che avrebbe l’effetto di stabilizzare e omogeneizzare i tassi di interesse; dalla mancanza di una politica fiscale comune e di un bilancio pubblico di tipo federale; dalla diversa affidabilità delle varie economie, che fanno fuggire i capitali dai paesi più deboli verso quelli più forti, come la Germania, aggravando ulteriormente gli squilibri; in breve dall’assenza di politiche economiche e sociali comuni a tutti i paesi dell’euro. Di qui la cosiddetta sfiducia dei mercati nei sistemi bancari dei paesi europei maggiormente indebitati. Essa è generata dal venir meno del ruolo di garanzia degli Stati a sostegno della loro moneta, cioè dell’aspettativa degli investitori di un aiuto comunque offerto in ultima istanza dai governi ai loro sistemi bancari. I paesi europei risultano così gravati da ingenti debiti pubblici in una moneta sulla quale, al pari dei paesi poveri e sottosviluppati, i loro governi non hanno di fatto il controllo. È questa la principale ragione per la quale la moneta unica, concepita all’atto della sua introduzione come un fattore di crescita e di integrazione, rischia oggi di provocare l’aumento degli squilibri e la disgregazione dell’Unione. Si capisce come in queste condizioni le politiche di rigore imposte agli Stati più indebitati sono inevitabilmente destinate ad aggravare la crisi economica, tanto più irrimediabilmente quanto

16   È la tesi di Ruffolo, Sylos Labini, Il film della crisi cit. Nello stesso senso, Biasco, Ripensando il capitalismo cit., cap. 1, pp. 11-37.

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più tardano le misure dirette a contenere e a regolare, anziché a favorire e a scatenare la finanza. Sono politiche sbagliate, come ripetono da tempo sempre più economisti, dato che consistono in risposte alle sole conseguenze della crisi globale, ma non alle sue cause, delle quali finiscono anzi per acuire e moltiplicare gli effetti, non essendo possibile nessuna crescita di lungo periodo senza un’equa distribuzione della ricchezza17. Producendo la riduzione delle prestazioni dello stato sociale, colpendo soprattutto i redditi da lavoro e le pensioni e determinando l’aumento della disoccupazione, esse deprimono i consumi, abbattono la domanda di beni e servizi, aggravano la stretta creditizia, scoraggiano gli investimenti, provocano la chiusura di migliaia di imprese e compromettono la crescita, così riducendo la capacità dei paesi indebitati di pagare i loro debiti, accrescendo la sfiducia degli investitori e innalzando sia il debito pubblico che il cosiddetto spread. Con la conseguenza di un’ulteriore imposizione di nuove politiche di rigore in danno dei diritti sociali e del lavoro, secondo una spirale perversa il cui esito ultimo e disastroso sul piano economico e su quello sociale è un gigantesco trasferimento di ricchezza dai ceti più poveri ai ceti più ricchi. Il mercato come sistema di relazioni che si pretende retto da leggi naturali ha finito così per rivelarsi come l’odierna versione dello stato di natura basato sulla legge del più forte. Assistiamo perciò a un altro paradosso. Dopo aver provocato la crisi economica ed essere stati salvati dagli Stati, i poteri sregolati della finanza speculativa hanno aggredito gli stessi Stati che li avevano salvati, minacciandone il fallimento e imponendo loro politiche antisociali ed economicamente disastrose: la restrizione della sfera pubblica e del welfare, e in particolare delle garanzie dei diritti all’istruzione, alla salute e alla sussistenza; lo smantellamento del diritto del lavoro; l’impoverimento di massa e la devastazione dei beni comuni. 4.4. L’onnipotenza della politica di fronte alla società e la crisi della dimensione sostanziale della democrazia: A) Il processo decostituente negli ordinamenti statali  Vengo così al secondo aspetto della crisi della democrazia, quello che investe la dimensione sostanziale in essa innestata dai principi costituzionali. È il processo

  Cfr. il documento Per un’altra economia cit., p. 2.

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decostituente indotto dalle politiche oltretutto fallimentari sul piano economico ora illustrate, che si manifesta nell’obsolescenza del principio della soggezione alla legge sia dei poteri politici che dei poteri economici e che sarà esaminato, in questo e nei prossimi paragrafi, ai diversi livelli del diritto: a) al livello delle democrazie nazionali; b) al livello del diritto comunitario europeo; c) al livello del diritto e delle relazioni internazionali. Si è visto più sopra come la crisi della democrazia rappresentativa a livello statale è determinata anzitutto dalla dislocazione dei poteri che contano fuori dei confini nazionali. Nell’età della globalizzazione il futuro di ciascun paese dipende sempre meno dalla politica interna e sempre più da decisioni esterne, assunte, in sedi extra-statali, dalle grandi concentrazioni economiche e finanziarie e dalle politiche ad esse subalterne delle maggiori potenze e delle istituzioni internazionali da queste controllate, come gli organismi comunitari europei, il Fondo monetario internazionale e i vertici dei vari G8, G4 e G20. Venuto meno il nesso tra democrazia e popolo e tra poteri che contano e (stato di) diritto, non è più vero, in un mondo di sovranità disuguali e di crescente interdipendenza, che le decisioni più rilevanti spettino a poteri direttamente o indirettamente democratici e subordinati alla legge. In breve: siamo governati, di fatto, da soggetti che non ci rappresentano, mentre i soggetti che ci rappresentano sono ad essi subalterni e di fronte ad essi impotenti. Ebbene, proprio questa impotenza della politica rispetto ai mercati richiede, perché possa aver luogo il processo decostituente, un aumento della sua potenza nei confronti della società. Il sopravvento dell’economia sulla politica e l’abdicazione della seconda al ruolo di governo nei confronti della prima non sarebbero infatti possibili senza un simultaneo processo di liberazione della politica da limiti e da vincoli legali e costituzionali. È in questo duplice processo che risiede la crisi sistemica che sta investendo le democrazie occidentali: la sostituzione al governo politico e democratico dell’economia del governo economico e ovviamente non democratico della politica, che a sua volta richiede la rimozione della costituzione dall’orizzonte dell’azione di governo e la riduzione delle promesse “eccessive” della democrazia costituzionale. Anche questa singolare onnipotenza della politica si avvale, all’interno delle democrazie nazionali, di un necessario sostegno

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ideologico: l’idea che la sola fonte di legittimazione dei poteri politici sia il voto elettorale e la conseguente concezione della democrazia come onnipotenza della maggioranza e delle elezioni come investitura popolare di un capo. Il tramite di questa onnipotenza della politica, richiesta sotto il nome di “governabilità” dalla sua impotenza e subalternità ai poteri dei mercati, è stato la semplificazione dei sistemi politici attraverso la loro personalizzazione e verticalizzazione, a loro volta favorite dalla crisi di rappresentatività dei partiti e avallate dalle ideologie maggioritarie e dalle derive populiste. La governabilità si è così risolta nella sostanziale separazione del ceto politico dalla società, grazie alla quale sono state possibili le restrizioni, per far fronte alla crisi, dell’intero sistema dei diritti fondamentali e delle loro garanzie: dei diritti sociali attraverso tagli massicci alla spesa pubblica; dei diritti dei lavoratori, vanificati dalla precarizzazione, dall’instabilità dei rapporti di lavoro e dalla crescente disoccupazione; del pluralismo dell’informazione, pesantemente ridotto dalle concentrazioni dei giornali e delle televisioni favorite dalla corruzione della politica; delle molteplici separazioni e incompatibilità dirette a impedire confusioni di potere e conflitti di interesse. In questo modo la crisi economica è degenerata nella crisi non solo della dimensione formale o politica della democrazia, ma anche di quella sostanziale e costituzionale. A sua volta, questa duplice crisi della democrazia – della capacità di governo della politica e del progetto costituzionale di garanzia dei diritti – ha retroagito sulla crisi economica e sociale, aggravandone le cause secondo la spirale e il circolo vizioso sopra illustrati. È quanto è accaduto in quasi tutti i paesi europei, dove si sono verificati in questi anni un esautoramento dei parlamenti e un correlativo rafforzamento degli esecutivi e dei capi degli esecutivi quali premesse e condizioni delle politiche antisociali. Sotto tutti questi aspetti il caso italiano è un caso esemplare. In questi ultimi vent’anni si è prodotta in Italia una deformazione delle istituzioni rappresentative a causa di molteplici fattori: la sostituzione del sistema elettorale proporzionale con sistemi di tipo maggioritario che hanno verticalizzato la rappresentanza e trasformato le forze politiche in partiti personali e talora padronali con vocazioni populiste; la deformazione, nel dibattito pubblico e nel senso comune, dell’immagine stessa della democrazia politica, identificata, ben più che nella rappresentanza della pluralità degli interessi so-

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ciali e nella loro mediazione parlamentare, nella scelta elettorale di una maggioranza e del suo capo; l’idea di una legittimazione assoluta proveniente dal voto popolare e perciò l’insofferenza per i limiti costituzionali e per la separazione dei poteri; lo svuotamento del ruolo del parlamento, attraverso una legge elettorale che ha trasformato le elezioni dei parlamentari nella loro nomina da parte dei vertici dei partiti – ai quali, ben più che agli elettori, essi rispondono e dai quali dipendono – e la rottura e il sostanziale capovolgimento del rapporto di fiducia tra parlamento e governo18; la crescita infine e la massiccia presenza in Parlamento di movimenti di protesta che contestano il divieto del mandato imperativo sul quale si basa la rappresentanza politica e presentano come “democrazia diretta” l’ennesima forma di subordinazione degli eletti agli ordini di un demagogo. Da ultimo, con un disegno di legge costituzionale approvato il 6 giugno 2013 – che istituisce un Comitato di venti senatori e venti deputati incaricati di proporre la riforma dei titoli I, II, III e V della parte seconda, in pratica dell’intera Costituzione – si sta progettando l’ennesimo attacco alla nostra democrazia parlamentare in vista del suo mutamento in una repubblica presidenziale. Si tratta di un eccesso, o peggio di un abuso di potere: in primo luogo perché il solo potere ammesso dall’art.138 della nostra Costituzione è un potere di revisione, che è un potere costituito il cui esercizio può consistere solo in singoli e specifici emendamenti, e non cer18   Durante i governi berlusconiani le crisi politiche della maggioranza e le loro possibili e fisiologiche soluzioni parlamentari sono state comunemente stigmatizzate, nel dibattito pubblico, come illegittime violazioni della volontà popolare: come “tradimenti degli elettori”, “lesioni del mandato elettorale”, “ribaltoni” e perfino “golpe” e “rovesciamento della democrazia”. Di questo svuotamento di fatto del ruolo del parlamento è stata del resto tentata la costituzionalizzazione. Si ricordi – oltre alla l. cost. del 16.11.2005 bocciata dal referendum del giugno 2006, che prevedeva l’impossibilità della sfiducia parlamentare al governo se non ad opera della sua stessa maggioranza – il progetto unificato, proposto dalla maggioranza delle forze politiche incluse quelle di sinistra alla fine della XVI legislatura, che prevedeva l’istituto della sfiducia costruttiva aggravato e allargato, rispetto al modello tedesco, anche alla non approvazione di un disegno di legge sul quale il governo avesse posto la fiducia. Il progetto abortì dopo l’approvazione da parte della destra, poco prima dello scioglimento del parlamento, di un emendamento che introduceva il presidenzialismo. Sulla degenerazione e lo snaturamento in questi anni dell’istituto della fiducia si veda C.F. Ferrajoli, L’abuso della questione di fiducia. Una proposta di razionalizzazione, in «Diritto Pubblico», 2, 2008, pp. 587-636.

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to nella trasformazione dello stesso potere di cui è esercizio in un potere costituente in grado di emanare una nuova costituzione; in secondo luogo perché il potere di revisione previsto dall’art. 138 è un potere interamente parlamentare, usurpato in questo caso dal governo, oltre tutto su sollecitazione del presidente della Repubblica che della Costituzione vigente dovrebbe essere il garante: è infatti l’attuale governo delle “larghe intese” che ha presentato la riforma come suo impegno programmatico e che ha elaborato il disegno di legge costituzionale, nel quale ha imposto al Parlamento procedure d’urgenza e tempi contingentati, riservando addirittura a se stesso un potere di emendamento in forme privilegiate rispetto a quelle consentite ai parlamentari. Si capisce, su queste basi, il doppio processo di decostituzionalizzazione e delegificazione che ha investito entrambi i paradigmi, quello costituzionale e quello legislativo, della democrazia italiana. Il processo decostituente di erosione della dimensione sostanziale innestata nella democrazia dal paradigma costituzionale si è manifestato non solo nelle molte violazioni e nei ripetuti tentativi di riforma della Carta del 1948, ma prima ancora nell’attacco al costituzionalismo in quanto tale, cioè quale sistema di limiti e vincoli ai poteri politici, nell’aperta rivendicazione dell’onnipotenza delle maggioranze e nel rifiuto di quel sistema complesso di regole e controlli, di separazione e contrappesi, di garanzie dei diritti fondamentali e di funzioni e istituzioni di garanzia che forma la sostanza del paradigma costituzionale. Anche grazie a questa subcultura anti- o quanto meno a-costituzionale, la crisi economica è stata fronteggiata attraverso la riduzione, sotto il nobile nome di “riforme”, delle garanzie dei diritti dei lavoratori e dei diritti sociali: dei salari, dei diritti sui luoghi di lavoro, delle pensioni e, insieme, della qualità dell’assistenza sanitaria e dell’istruzione, con conseguente aumento delle disuguaglianze e crollo dello spirito pubblico e della coesione sociale. Il primo bersaglio è stato il lavoro, che l’art. 1 cost., di cui non a caso è stata proposta dalla destra la soppressione, pone a fondamento della Repubblica. Il vecchio diritto del lavoro, con i suoi diritti e le sue garanzie conquistate in decenni di lotte, è stato dissolto, in Italia, da una serie di controriforme: la sostituzione della contrattazione collettiva nazionale con quella aziendale o individuale; l’abbandono del vecchio modello del rapporto

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di lavoro a tempo indeterminato in favore di una molteplicità di rapporti di lavoro individuali, atipici, flessibili, saltuari, precari e perciò privi di garanzie; l’abbassamento generalizzato, in nome della competitività, dei salari reali, benché questi incidano ormai meno del 10% sui costi della produzione; la neutralizzazione del conflitto sociale e la rottura dell’unità dei lavoratori, divisi, umiliati e messi in competizione tra loro dalla pluralità dei contratti di lavoro e dall’imposizione, come negli stabilimenti Fiat, della rinuncia ai loro diritti sotto il ricatto dei licenziamenti. Il rapporto tra poteri privati e diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti è stato così capovolto – non più i primi subordinati ai secondi ma i secondi ai primi – dall’inaugurazione alla Fiat di un modello di rapporto di lavoro basato sul rifiuto di ogni regola, dalla costituzione alle leggi e ai contratti collettivi, e sulla rivendicazione di un potere imprenditoriale incondizionato. Il modello Fiat è stato poi sostanzialmente recepito dall’art. 8 della l. n. 148 del 14 settembre 2011, che capovolgendo la gerarchia delle fonti ha stabilito che la contrattazione aziendale o territoriale può derogare a qualsiasi legge ordinaria o contratto collettivo in ordine a quasi tutti gli aspetti dell’organizzazione del lavoro. Del resto, un capovolgimento analogo, rispetto per di più alla costituzione, era già stato operato dalla l. n. 183 del 4 novembre 2010, che ha consentito la previsione nei contratti collettivi di lavoro della cosiddetta “clausola compromissoria”, con la quale il lavoratore si impegna, all’atto dell’assunzione, a rinunciare al diritto fondamentale di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti previsto dall’art. 24 cost. e a sottoporsi a giudizi privati di tipo arbitrale. Da ultimo è stato soppresso l’obbligo della reintegrazione del lavoratore licenziato senza giusta causa previsto dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in contrasto, tra l’altro, con il “diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato” previsto dall’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: una misura totalmente irrilevante sul piano economico e più ancora su quello dell’occupazione, che si spiega soltanto con la volontà politica di manifestare una scelta di campo in favore dei mercati finanziari. Il lavoro è stato insomma il terreno sul quale è stata massimamente sviluppata, dall’azione congiunta del mercato senza regole e delle politiche pubbliche ad esso subalterne, l’aggressione ai diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti. Ne è risultata la svalorizzazione dei

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lavoratori, ridotti, come nell’Ottocento, a merci in concorrenza tra loro, e perciò il sentimento stressante di insicurezza, di inutile mortificazione della propria dignità, di competizione, di paura e di angoscia introdotto nelle loro condizioni di vita a danno, oltre tutto, della loro stessa produttività. Parole come “classe operaia” e “movimento operaio” sono oggi non a caso fuori uso, essendo state fortemente compromesse, con la precarietà dei rapporti di lavoro, la vecchia solidarietà di classe e la stessa soggettività politica dei lavoratori, fondate entrambe sull’uguaglianza nei diritti e nelle condizioni di lavoro e perciò sull’auto-rappresentazione del lavoratore come appartenente a una comunità di uguali. Ma l’aggressione delle politiche recessive è stata contemporaneamente rivolta – con i tagli alla spesa pubblica destinata alla scuola, alla sanità, alla previdenza e alle altre forme di assistenza – a un secondo bersaglio: all’insieme dei diritti sociali, la cui garanzia universale e gratuita è tra l’altro una condizione elementare della valorizzazione delle capacità individuali e perciò della sempre decantata meritocrazia. Il massiccio trasferimento di ricchezza dai poveri ai ricchi con cui si è sviluppata la spirale della disuguaglianza è così avvenuto, certamente in Italia ma anche in molti altri paesi europei, anche attraverso l’aggressione ai diritti sociali e alle loro garanzie: in primo luogo al diritto alla salute, essendo stati ridotti gli investimenti nella sanità pubblica ed essendo venuta meno la totale gratuità delle prestazioni sanitarie che del carattere universale del diritto è un corollario; in secondo luogo al diritto all’istruzione, essendosi abbassata, con la riduzione del numero degli insegnanti e la precarietà e discontinuità dei loro rapporti di lavoro, la qualità della scuola pubblica, da quella elementare a quella universitaria; in terzo luogo dei diritti all’assistenza e alla previdenza, con le tante riforme restrittive della legislazione in materia di pensioni. Il risultato è stato un generale declino dei nostri paesi. Le spese sociali infatti – oltre ad essere, come si vedrà nel § 5.6, una condizione essenziale dello sviluppo produttivo – riducono le disuguaglianze economiche, e con esse le disuguaglianze nelle opportunità di partenza. La soddisfazione dei diritti all’istruzione, alla salute e alla sussistenza non è quindi soltanto un fine a se stessa, ma è anche un fattore decisivo di costruzione della democrazia: perché, in primo luogo, è una condizione dell’effettivo e consapevole esercizio di tutti gli altri diritti, a cominciare dai diritti

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politici; e perché, in secondo luogo, la crescita dell’uguaglianza economica e sociale equivale alla crescita delle pari opportunità e della coesione sociale. Laddove lo smantellamento dello stato sociale e delle sue garanzie demolisce il presupposto politico e sociale della democrazia, che è l’uguaglianza nei diritti fondamentali, dalla quale dipendono la percezione degli altri come uguali e il sentimento di appartenenza a una medesima comunità nella quale il futuro di ciascuno non è determinato inesorabilmente dalla nascita e dal censo della propria famiglia. La crisi ha infine investito, oltre al paradigma costituzionale, anche il paradigma legislativo dello stato di diritto, pregiudicando la capacità regolativa della legge, oltre che della costituzione. L’indebolimento del principio di legalità è avvenuto tramite due processi all’apparenza opposti ma in realtà convergenti: da un lato la delegificazione e la deregolazione dei mercati e dei rapporti di lavoro, dall’altro l’inflazione legislativa in tutti i settori del diritto, a cominciare dal diritto penale. Ho appena parlato della delegificazione dei rapporti di lavoro attraverso l’abbattimento dei suoi presidi legislativi: dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori al diritto costituzionale di agire in giudizio, fino all’inderogabilità della legge e dei contratti collettivi ad opera della contrattazione individuale. Ancor più massiccia e programmata è stata la deregolazione dei mercati delle merci e dei capitali. Ma l’aggressione al principio di legalità è avvenuto anche attraverso il fenomeno opposto dell’inflazione della legislazione e della degradazione qualitativa del linguaggio legale in quella che è stata chiamata l’età della decodificazione19. In Italia, ad esempio, si contano ormai in molte decine di migliaia le leggi statali e regionali vigenti, a causa di una politica che ha degradato la legislazione ad amministrazione20, smarrendo la distinzione tra le due funzioni sul terreno delle fonti come su quello dei contenuti con il risultato, tra l’altro, di sottrarre i provvedimenti in forma di legge al contenzioso amministrativo. In materia penale, in par19   È il titolo del noto libro di N. Irti, L’età della decodificazione, Giuffrè, Milano 1979. 20   Sul fenomeno in crescente espansione delle leggi-provvedimento, che in Italia superano ormai i tre quarti ogni anno dell’intera produzione legislativa, si veda S. Spuntarelli, L’amministrazione per legge, Giuffrè, Milano 2007.

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ticolare, l’inflazione legislativa, generata da un’infinità di leggi d’eccezione, d’emergenza e d’occasione, è giunta al punto che la Corte costituzionale ha dovuto archiviare come irrealistico, con la sentenza n. 364 del 1988, il classico principio della non scusabilità dell’ignorantia legis. Si aggiunga il dissesto del linguaggio delle leggi espresso dalla sua crescente vaghezza, oscurità e tortuosità. È questo un fenomeno gravissimo, incredibilmente trascurato da una cultura giuridica alla quale pure si devono studi innumerevoli e raffinati sull’interpretazione delle leggi. L’indeterminatezza semantica del linguaggio legale – non solo della legislazione statale, ma anche e forse ancor più delle norme del diritto comunitario – ha raggiunto forme di vera inconsistenza con gli intricati labirinti normativi generati da articoli di legge lunghi intere pagine, rinvii scoordinati e contraddittori, neologismi talora incomprensibili, frasi inutilmente tortuose e complicate e formule oscure e polisense, frutto di solito di scelte compromissorie, o peggio della scelta di affidare le scelte normative all’applicazione giudiziaria. È chiaro che una tale disfunzione del linguaggio normativo compromette la sua capacità regolativa e insieme la legittimità della giurisdizione, di fatto trasformata, dall’enorme discrezionalità da essa aperta all’interpretazione, in una fonte di creazione del diritto. Compromette in breve, con il principio di legalità e con la separazione dei poteri, i lineamenti elementari dello stato di diritto. 4.5. B) Il processo decostituente a livello europeo. La crisi dell’Unione Europea  Uno specifico effetto delle politiche recessive con le quali è stata affrontata la crisi economica è stato l’indebolimento, fino al rischio del collasso, dell’Unione Europea, divenuta, si è detto, l’epicentro della crisi. Queste politiche, ostinatamente imposte dalle istituzioni comunitarie e solo per questo accreditate come europeiste, stanno provocando l’impoverimento dei paesi maggiormente indebitati, la demolizione dei loro sistemi di welfare, l’aumento della disoccupazione, la crescita delle disuguaglianze tra i paesi dell’Unione e la progressiva riduzione del consenso popolare al processo, sempre più deludente ed iniquo, di integrazione europea. Il processo decostituente si è manifestato anzitutto, a questo livello, nei confronti del Trattato costituzionale europeo. Come ha mostrato Giuseppe Guarino, l’intera gestione della moneta

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unica è avvenuta in violazione dei trattati21. Nel 1997, poco prima dell’entrata in vigore dell’euro, la Commissione ha approvato i regolamenti nn. 1466/97 e 1467/97 che hanno sostituito il limite del 3% del Pil, imposto all’indebitamento degli Stati dall’art. 104 del Trattato di Maastricht del 1992, con il pareggio di bilancio, cioè con il limite dello 0%22 che riduce radicalmente la possibilità di politiche pubbliche dirette a garantire i diritti sociali. Queste norme, afferma Guarino, sono inesistenti, ancor prima che invalide, perché viziate da incompetenza assoluta: un regolamento, infatti, non può modificare il trattato dell’Unione, rispetto al quale è una fonte di rango inferiore. Tale vizio d’origine e la conseguente illegittimità-inesistenza delle norme dei due regolamenti sul pareggio di bilancio sono stati per di più riconosciuti dal Trattato di Lisbona del 2007, il cui art. 126 ha riprodotto testualmente l’art. 104 del Trattato di Maastricht sul limite del 3% del Pil entro il quale gli Stati possono indebitarsi. Del resto, ha osservato Guarino, di questa illegittimità-inesistenza si deve essere resa conto la stessa Commissione, che con il regolamento n. 1175/2011 del 6.12.2011 ha abrogato i due regolamenti 1466 e 1467/97 regolando nuovamente l’intera materia: al punto 8 delle premesse al nuovo regolamento la Commissione riconosce infatti gli “errori commessi nel corso dei primi dieci anni dell’Unione”, cioè negli anni nei quali sono stati applicati i regolamenti del 1997. Ma questo nuovo regolamento n. 1175/2011 è rimasto lettera morta. Il 2 marzo 2012, infatti, è stato approvato da 25 dei 27 paesi dell’Unione il Trattato istitutivo del cosiddetto Fiscal Compact che ha reintrodotto nell’art. 3, n. 1, lett. a, il principio del pareggio o dell’avanzo del bilancio e, nell’art. 4, l’obbligo degli Stati di paga-

21   G. Guarino, Euro: venti anni di depressione, in «Nomos. Le attualità nel diritto», 2, 2012. 22   I valori di riferimento – adottati dall’art. 104 del Trattato di Maastricht del 7.2.1992, riprodotti dall’art. 126 del Trattato di Lisbona del 13.12.2007 e stabiliti dal protocollo n. 5 del Trattato di Maastricht e dal protocollo n. 12 del Trattato di Lisbona – sono, come è noto, il 3% per il rapporto fra il disavanzo pubblico e il prodotto interno lordo e il 60% per il rapporto fra il debito pubblico e il prodotto interno lordo. Il regolamento CE n. 1466 del 7.7.1997 ha stabilito invece, nell’art. 2bis della sez. 2bis, che “gli obiettivi di bilancio a medio termine specifici per paese sono indicati in un intervallo compreso tra il –1% del Pil e il pareggio o l’attivo”.

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re nei prossimi venti anni il loro debito eccedente il 60% del Pil nella misura di un ventesimo l’anno: quindi una nuova e ancor più pesante modifica del Trattato di Lisbona, a sua volta illegittima, osserva ancora Guarino, non solo perché operata senza le procedure previste dall’art. 48 del Trattato dell’Unione per la sua revisione, ma anche perché lo stesso Trattato sul Fiscal Compact stabilisce, nell’art. 2 n. 2, che “il presente Trattato si applica nella misura in cui è compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione europea e con il diritto dell’Unione europea”; sicché non “si applica” nelle disposizioni suddette, chiaramente incompatibili con l’art. 126 del Trattato di Lisbona, ovviamente tuttora in vigore. Insomma, conclude Guarino, tutta questa vicenda è priva di basi giuridiche. E tuttavia, per un incredibile zelo rigorista, il pareggio di bilancio è stato frettolosamente introdotto nella Costituzione italiana, su proposta del governo, dalla l. cost. n. 1 del 20 aprile 2012, che ha modificato l’art. 81 sostituendolo con un testo alquanto contorto, approvato oltre tutto con la maggioranza dei due terzi onde metterlo al riparo dal referendum costituzionale23. 23   La l. cost. n. 1 del 20.4.2012, intitolata Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale, aggiunge al vecchio art. 81 i due seguenti commi: “1. Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. 2. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”. Essa sopprime inoltre il comma in base al quale “con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese”, e introduce un ultimo comma che stabilisce che “il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale”. Seguono altri quattro articoli, nei quali, come nel primo, non si usano mai le parole “pareggio di bilancio”, bensì l’espressione “equilibrio dei bilanci”, la cui nozione è illustrata dal lungo e complesso cap. II della legge di attuazione del 20.12.2012. Non è stata invece ancora emanata la legge costituzionale prevista alla fine del nuovo art. 81. Si veda, per un primo commento all’ennesimo vincolo alla politica imposto da questa riforma, G. Pisauro, La regola costituzionale del pareggio di bilancio e la politica fiscale nella Grande Recessione: fondamenti economici teorici e pratici, in Pennacchi (a cura di), Tra crisi e “grande trasformazione” cit., pp. 109-122, dove si riporta la lettera del 28.7.2011 al Presidente e al Congresso degli Stati Uniti nella quale otto econo-

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A sua volta, il Trattato sul Fiscal Compact è stato ratificato in Italia dalla l. n. 114 del 23.7.2012. Si è insomma verificata una lunga serie di violazioni del Trattato dell’Unione, segno della disinvolta indifferenza delle autorità europee per i limiti e i vincoli giuridici, avallata dal sostanziale silenzio sulla questione nel dibattito pubblico. Si aggiunga che le politiche rigoriste istituzionalizzate da questi interventi hanno prodotto effetti economici disastrosi, provocando il crollo del Pil in tutti i paesi dell’eurozona: basti pensare, ha ricordato Guarino, che tra il 1950 e il 1990 la crescita media del Pil era stata del 3,86% l’anno in Francia, del 4,05% in Germania e addirittura del 4,36% in Italia, maggiore quindi che negli Stati Uniti dove nello stesso quarantennio essa è stata in media del 3,45%; mentre tra il 1999 e il 2011, dunque negli anni successivi ai regolamenti del 1997, la medesima crescita media è scesa in Francia all’1,61%, in Germania all’1,32% e in Italia, passata dal primo all’ultimo posto, allo 0,68%24. Ma l’aspetto più grave di tutta questa vicenda e delle misure economiche varate in questi ultimi quindici anni è stato di carattere politico e sociale. La costruzione dell’Unione Europea è stata indubbiamente, dopo secoli di guerre e nazionalismi, l’evento storicamente più importante e progressivo del secondo Novecento. Le politiche di rigore imposte da quelle misure stanno minando alle radici, insieme alla dimensione sostanziale e sociale del costituzionalismo europeo, lo stesso processo di integrazione dell’Unione. È stata più volte lamentata la mancanza di un popolo europeo quale presupposto dell’unificazione politica e istituzionale e della stessa legittimità di una costituzione dell’Europa25. Questa misti di fama mondiale – Kenneth Arrow, Peter Diamond, Eric Maskin, Charles Schultze, William Sharpe (tutti premi Nobel per l’economia), Robert Solow, Alan Blinder e Laura Tyson – criticavano il principio del pareggio di bilancio nelle fasi di recessione economica (il testo completo della lettera è disponibile in http://www.cbpp.org/cms/index.cfm?fa=view&id=3543). 24   Guarino, Euro cit., pp. 2-3. 25   P. Grimm, Una costituzione per l’Europa? (1994), trad. it., in Il futuro della costituzione, a cura di G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther, Einaudi, Torino 1996, pp. 339-367; M. Luciani, La costruzione giuridica della cittadinanza europea, in G.M. Cazzaniga (a cura di), Metamorfosi della sovranità. Tra Stato nazionale e ordinamenti giuridici mondiali, Edizioni Ets, Pisa 1999, pp. 89-96; M. Luciani, Diritti sociali e integrazione europea, in «Politica del diritto», 2000, pp. 367 sgg.; Id., Legalità e legittimità nel processo di integrazione europea, in G.

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tesi, a mio parere, deve essere ribaltata. L’unità politica di un popolo è data dall’uguaglianza nei diritti, stabiliti nelle costituzioni, di quanti in esso si riconoscono, appunto come uguali: dalla “par condicio civium” e dai loro “iura paria”, come scrisse Cicerone oltre duemila anni fa26. È quanto afferma lo stesso preambolo alla Carta europea dei diritti fondamentali: “L’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà”. Prima ancora, del resto, il Consiglio europeo di Colonia del 3-4 giugno 1999 aveva dichiarato: “La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione Europea” e “il presupposto indispensabile della sua legittimità”. L’Unione Europea, ben più che un mercato comune, è quindi un insieme di popoli che si vogliono unificati da comuni valori di civiltà, oggi però posposti ai valori dei bilanci dalle inadeguate tecnocrazie comunitarie; le quali, mentre minacciano l’espulsione della Grecia, culla dell’Europa, nulla dicono delle derive autoritarie dell’Ungheria e del riemergere in tanti paesi di rigurgiti neonazisti, antisemiti e razzisti. Ben più della libera concorrenza, l’unificazione politica dell’Europa richiederebbe insomma, come presupposto, l’uguaglianza dei cittadini europei e l’indivisibilità dei loro diritti fondamentali, che sono un prodotto e insieme un fattore dei vincoli di solidarietà e del sentimento di appartenenza a una medesima comunità. Ebbene, questo presupposto elementare dell’unità europea è stato rotto in questi anni e rischia di capovolgersi nel suo contrario, a causa delle politiche antisociali imposte dai mercati agli Stati Bonacchi (a cura di), Verso la costituzione europea. Una costituzione senza Stato, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 71-87; C. Offe, Esiste, o può esistere una ‘società europea’?, in Sfera pubblica e costituzione europea, a cura della Fondazione Basso, Carocci, Roma 2002, pp. 65-119; P.C. Schmitter, Il futuro dell’Europa. Una singolare pluralità di alternative, ivi, pp. 121-141; G. Ferrara, La costituzione per l’Europa. Il naufragio di Bruxelles, in «La rivista del Manifesto», 46, 2004, pp. 23-25. 26   “Quare cum lex sit civilis societatis vinculum, ius autem legis aequale, quo iure societas civium teneri potest, cum par non sit condicio civium? Si enim pecunias aequari non placet, si ingenia omnium paria esse non possunt, iura certe paria debent esse eorum inter se qui sunt cives in eadem re publica. Quid est enim civitas nisi iuris societas civium?” (Cicerone, De re publica, in Collezione romana, opera in 35 voll. diretta da E. Romagnoli, Istituto Editoriale Italiano, Roma 1928, lib. I, XXXII, p. 80).

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dei paesi economicamente più deboli. In tutti i paesi dell’Unione stanno sviluppandosi sentimenti nazionalisti e di reciproca avversione: tra tedeschi e italiani, tra olandesi e greci, tra finlandesi e spagnoli. Sta così accadendo che l’economia, che dai Padri costituenti dell’Europa fu concepita e progettata come un fattore di unificazione – dapprima il mercato comune e poi la moneta unica – è oggi diventata, in assenza di politiche in grado di governarla, un fattore di conflitto e divisione. Gli Stati, essendo stati privati del controllo sulla moneta, non possono infatti, per far fronte ai loro debiti pubblici, utilizzare lo strumento della svalutazione, ma solo le politiche di rigore che di fatto sono state finora quasi interamente in danno delle spese sociali. Ne è conseguita una crescita delle disuguaglianze tra i cittadini dell’Unione, non essendoci uguaglianza nei diritti in mancanza di funzioni e istituzioni di garanzia comuni. Non c’è ovviamente uguaglianza nei diritti sociali e del lavoro, garantiti nei paesi più ricchi e inevitabilmente violati o ridotti, a causa della crisi, in quelli più poveri. Ma non c’è neppure uguaglianza nei diritti politici. Un cittadino tedesco conta assai più, all’interno dell’Unione Europea e del suo stesso paese, di un cittadino greco o spagnolo o italiano: perché il suo governo conta enormemente più dei governi della Grecia o della Spagna o dell’Italia nel determinare le politiche europee; e perché, conseguentemente, il suo voto è assai più decisivo dei voti dei cittadini dei paesi più poveri nel condizionare le politiche governative e perciò il futuro in Europa del proprio paese27.

27   Una recente indagine del Censis ha mostrato il diverso peso che i cittadini dei diversi paesi dell’Unione attribuiscono alla loro voce e al loro voto nel determinare le politiche nazionali e quelle europee. Quanto alle politiche nazionali, la percentuale dei cittadini che ritengono che la loro voce conti qualcosa è del 18% in Italia, del 15% in Grecia e del 45% in Spagna, mentre è del 70% in Germania e dell’81% in Olanda. Non molto diverse sono le percentuali dei cittadini che ritengono di contare qualcosa nelle politiche europee: il 16% in Italia, il 15% in Grecia, il 27% in Spagna, il 47% in Germania e il 55% in Olanda. Un senso di totale impotenza è invece lamentato riguardo alle politiche nazionali dal 77% degli italiani, dall’84% dei greci, dal 52% degli spagnoli, dal 19% degli olandesi e dal 26% dei tedeschi; e per quanto riguarda le politiche europee, dal 75% degli italiani, dall’84% dei greci, dal 68% degli spagnoli, dal 43% degli olandesi e dal 44% dei tedeschi (Fonte: elaborazione Censis su dati Eurobarometro 2012, riportati in G. De Rita, La crisi della sovranità, in «Un mese sociale», mercoledì 6 giugno, 2012, pp. 12-13).

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Certamente, alla base di questa crisi dell’Unione Europea ci sono un difetto e un errore originari nella sua costruzione istituzionale, cioè la creazione del mercato comune e dell’unione monetaria non accompagnata dall’introduzione di istituzioni e funzioni di governo comuni: una banca europea con i poteri di cui sono dotate tutte le banche centrali, un bilancio e una fiscalità comune e un comune governo politico dell’economia. Esiste più in generale, alla base della crisi, un deficit di democrazia, essendo ancora l’Unione Europea un ordinamento giuridicamente e politicamente amorfo, privo di entrambi i requisiti del costituzionalismo democratico: la rappresentatività politica delle fonti comunitarie, dalle quali proviene, direttamente o indirettamente, la maggior parte della legislazione dei paesi dell’Unione, e la subordinazione delle loro decisioni a controlli di validità chiaramente ancorati alla tutela dei diritti fondamentali. La cessione di sovranità, necessaria alla costruzione dell’Unione, rischia così di avvenire in favore delle tecnocrazie, a loro volta subalterne alle ragioni della finanza. Ma la crisi è soprattutto politica, essendo dovuta principalmente al venir meno dei necessari rapporti di solidarietà e del conseguente senso di uguaglianza e di appartenenza a una medesima comunità politica. Solidarietà, uguaglianza, diritti umani, dignità della persona, interessi generali e beni comuni – in breve l’intero vocabolario costituzionale – sono del resto termini sconosciuti al linguaggio delle ideologie e delle tecnocrazie liberiste. Accade così che l’Europa, che fino a pochi anni fa rappresentava un modello di civiltà mai raggiunto in precedenza nella storia, sta cambiando natura. Non è più l’Europa civile e sociale – l’Europa dei diritti, come per decenni è stata percepita dai progressisti di tutto il mondo – bensì un’Europa debilitata politicamente e moralmente, oltre che economicamente: perché avvertita come ostile da una parte crescente delle sue popolazioni, in Grecia, in Spagna, in Portogallo, in Irlanda, in Italia; e perché, di nuovo, in preda agli egoismi localistici e nazionali, delle pretese egemoniche, dei populismi, delle xenofobie, dei rancori, della sfiducia e delle reciproche diffidenze che hanno sostituito l’originario spirito unitario e solidale. È questo il prezzo altissimo che stiamo pagando alla miopia dell’attuale ceto politico europeo e alle sue politiche recessive e per di più fallimentari, per non aver fatto

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fronte con poche decine di miliardi al primo profilarsi della crisi in Grecia: la distruzione dello spirito pubblico comunitario, il rischio di un crollo dell’economia europea da cui tutti avrebbero da perdere e, insieme, l’esplosione di una questione sociale gravissima e di rivolte popolari in mezza Europa, dove il sogno europeo si è trasformato in un incubo e l’Unione e l’euro vengono ormai difesi dalla forza pubblica. 4.6. C) Il processo decostituente a livello globale  È soprattutto a livello internazionale che sta peraltro manifestandosi la crisi della capacità regolativa del diritto. A questo livello la globalizzazione si è risolta in un vuoto ancor più grave di diritto pubblico, cioè di regole, di limiti e vincoli a garanzia dei diritti umani nei confronti dei nuovi poteri transnazionali, sottrattisi al ruolo di governo e di controllo dei vecchi poteri statali. Al primato del mercato sulla politica ha così corrisposto, sul piano giuridico, la sostituzione, alle forme tradizionali della normazione eteronoma, generale ed astratta, di un diritto di produzione contrattuale, che inevitabilmente riflette la legge del più forte28. La crisi degli Stati, e perciò del ruolo garantista delle costituzioni e delle sfere pubbliche nazionali, non è stata infatti compensata dalla costruzione di una sfera pubblica minimamente all’altezza dei processi di globalizzazione. La Carta dell’Onu, la Dichiarazione universale del 1948, i Patti del 1966 e le tante carte regionali dei diritti, che nel loro insieme formano una specie di costituzione embrionale del mondo, proclamano le libertà fondamentali e i diritti sociali in capo a tutti gli abitanti del pianeta. Ma mancano totalmente le loro norme di attuazione, cioè le garanzie internazionali dei diritti proclamati e le relative funzioni e istituzioni di garanzia, in assenza delle quali il processo decostituente è destinato a svilupparsi nella forma di una crescente distanza tra le promesse normative e la realtà delle loro smentite e violazioni. L’immagine hobbesiana e lockiana della società internazionale come insieme di Stati so28   Si vedano: Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione cit.; S. Rodotà, Diritto, diritti, globalizzazione, in «Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale», 4, 2000, pp. 765-777; U. Allegretti, Globalizzazione e sovranità nazionale, in «Democrazia e diritto», 3-4, 1995, pp. 47 sgg.; Id., Diritti e Stato nella mondializzazione, Città Aperta, Troina 2002.

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vrani nella condizione di guerra propria dello “stato di natura”29 è oggi, perciò, più che mai pertinente, essendo la società globale affollata da una moltitudine di “nuovi soggetti sovrani globali”30, a cominciare dai poteri del mercato, le cui leggi economiche possono ben dirsi “naturali”, nel senso dello stato di natura nel quale prevalgono gli interessi dei più forti. L’aspetto paradossale di questa anomia internazionale è che alla crescita delle promesse normative e per altro verso della complessità dei problemi e delle interdipendenze generata dalla globalizzazione, hanno fatto riscontro in questi anni, anziché una più razionale articolazione istituzionale della sfera pubblica, una sua sostanziale riduzione, all’insegna da un lato della moltiplicazione degli ordinamenti pubblici, para-pubblici e privati, generali e settoriali, sovra- o inter- o transnazionali secondo i tratti premoderni del particolarismo giuridico31 e, dall’altro, dell’incapacità regolativa di questo labirinto istituzionale e perciò della sostanziale assenza di limiti ai grandi poteri economici e finanziari. Le vittime principali di questa anomia sono ovviamente i paesi più poveri, che hanno 29   Hobbes, Leviatano cit., cap. XXI, § 8, p. 351: “Gli Stati vivono nella condizione di guerra perpetua e sull’orlo della battaglia, con le loro frontiere armate e i cannoni piazzati tutt’intorno contro i loro confinanti”; Locke, Due trattati sul governo cit., cap. II, § 14, p. 248: “Poiché tutti i principi e i magistrati di governi indipendenti per tutto il mondo sono in uno stato di natura, è chiaro che il mondo non fu mai né mai sarà privo di un certo numero di uomini in quello stato”. 30   L’espressione è di Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere? cit., cap. III, § 5, pp. 50-52, che di questi nuovi sovrani fornisce un’ampia mappa: dai summit più o meno informali dei vari G7, G8 e G20 agli ordinamenti sovranazionali come l’Unione Europea e le altre organizzazioni regionali, dalla miriade di organismi internazionali di tipo pubblico, o tecnico, o economico, o finanziario fino ai soggetti economici privati e alle agenzie di rating. 31   Si veda, su questo insieme frammentato e disorganico di organismi sovranazionali eterogenei, S. Cassese, Lo spazio giuridico globale, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 8-11, che calcola in 1850 il numero di tali organismi, sviluppatisi senza nessun disegno costituzionale e senza effettive capacità di garanzia. Si veda, inoltre, di Cassese, La nuova costituzione economica cit., cap. XI, pp. 283-289, che parla della “disaggregazione dello Stato” provocata dal venir meno della sua “unità di comando”, sostituita da “una struttura puntiforme e reticolare” di istituzioni sovrastatali, ovviamente incapaci di governare un sistema economico globale “deterritorializzato” composto ormai da ben 250.000 imprese multinazionali (“stateless firms”) con quasi 80 milioni di addetti. L’immagine della “rete” o del “labirinto” di “ordinamenti pubblici globali” è ripetutamente evocata anche in Id., Crisi dello Stato cit., pp. 14-20 e capp. II, V.

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per primi sperimentato il rovesciamento del rapporto tra Stati e mercato. Grazie alla cosiddetta “concorrenza tra ordinamenti”32, non è più lo Stato che in questi paesi garantisce la concorrenza tra imprese, ma sono le grandi imprese che mettono in concorrenza gli Stati privilegiando, per i loro investimenti, i pae­si nei quali i diritti dei lavoratori sono meno garantiti, maggiore è la possibilità di sfruttare il lavoro con bassi salari, minori sono le tutele dell’ambiente e maggiore è la possibilità di corrompere le locali forze di governo. Di qui, oltre alla regressione neoassolutistica dei poteri economici, la crescita esponenziale della disuguaglianza, segno di un nuovo razzismo che dà per scontate, nei paesi poveri, la miseria, la fame, le malattie e la morte di milioni di esseri umani senza valore. Secondo le stime della Banca Mondiale, più di un quinto della popolazione mondiale vive oggi con poco più di un dollaro al giorno e circa la metà con poco più di due dollari al giorno. La durata della vita media delle persone appartenenti al terzo più povero dell’umanità è perciò la metà della durata della vita media di quelle appartenenti agli altri due terzi33. È una disuguaglianza – come ci dicono le statistiche sulle differenze di reddito tra paesi ricchi e paesi poveri e sulle decine di milioni di morti ogni anno per mancanza di acqua, di cibo e di farmaci essenziali – che non ha precedenti nella storia. L’umanità è oggi, nel suo insieme, incomparabilmente più ricca che in passato. Ma è anche, se si ha riguardo a masse sterminate e crescenti di persone, incomparabilmente più povera. Gli esseri umani sono, sul piano giuridico, assai più uguali che in qualunque altra epoca grazie alle innumerevoli   Sulla cosiddetta “concorrenza tra ordinamenti”, si vedano i saggi raccolti da A. Zoppini (a cura di), La concorrenza tra ordinamenti giuridici, Laterza, RomaBari 2004, relativi però soprattutto alla competizione tra ordinamenti all’interno dell’Unione Europea, in particolare, i saggi critici di: G. Alpa, La competizione tra ordinamenti: un approccio realistico, pp. 43-57, che illustra le tante “finzioni” retrostanti a tale espressione; N. Lipari, ‘Concorrenza’ tra ordinamenti e sistema delle fonti, pp. 81-97, che ne mostra l’interna contraddittorietà. 33   T. Pogge, Povertà mondiale e diritti umani. Responsabilità e riforme cosmopolite, trad. di D. Botti, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 120. “La povertà nel mondo”, scrive Pogge a conclusione del suo libro sulle terribili dimensioni della povertà e sui suoi tragici effetti, “è molto più grande, ma anche molto più piccola di quanto pensiamo. Uccide un terzo di tutti gli esseri umani che vengono al mondo e la sua eliminazione non richiederebbe più dell’1% del prodotto globale” (ivi, p. 304). Si veda supra, sulla crescita delle disuguaglianze, la nota 15. 32

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carte, costituzioni e dichiarazioni dei diritti. Ma sono anche, di fatto, assai più disuguali in concreto. L’effetto inevitabile di queste disuguaglianze è la fuga di masse crescenti di persone dai loro paesi. Il vecchio diritto di emigrare, che da cinque secoli fa parte del diritto internazionale ed è tuttora stipulato nell’art. 13 cpv. della Dichiarazione universale dei diritti umani, è stato però negato e penalizzato dalle leggi contro l’immigrazione dei nostri paesi. L’immigrazione è divenuta così il fenomeno, prevalentemente illegale e clandestino, nel quale si manifestano nella maniera più scandalosa le violazioni del principio di uguaglianza, dei diritti umani e della dignità della persona, che pure formano la sostanza delle nostre democrazie costituzionali. All’emarginazione sociale, di cui sempre i migranti sono stati vittime, quelle leggi aggiungono infatti l’emarginazione giuridica, che li espone alle forme più incontrollate di sfruttamento e di oppressione. Si sono in questo modo riprodotte le differenziazioni giuridiche di status, per ragioni di nascita, che furono proprie dell’ancien régime. Ma il dato più drammatico è il silenzioso massacro prodotto dai respingimenti dei clandestini34. Dal 1988 al 10 novembre 2012 sono morte, nel tentativo di penetrare nella fortezza Europa, ben 18.673 persone, delle quali 2352 soltanto nel 2011. Ben 6449 hanno perso la vita nel Canale di Sicilia nel tentativo di approdare, dall’Egitto, dalla Libia e dalla Tunisia, a Malta o in Italia. Altre 4859 persone sono morte lungo le rotte che dal Marocco, dall’Algeria, dal Sahara occidentale, dalla Mauritania e dal Senegal vanno verso le isole Canarie e la Spagna. 1462 persone sono affogate nel mar Egeo, tra la Turchia e la Grecia e tra l’Egitto e la Grecia, ed altre 705 sono morte nel mar Adriatico e nello Ionio, tra l’Albania e le Puglie. Inoltre, 1703 persone hanno perso la vita, dal 1996 ad oggi, attraversando il deserto del Sahara in direzione del Mediterraneo; 372 migranti sono morti, soffocati o assiderati o schiacciati dalle merci viaggiando nascosti nei tir; 412 sono annegati attraversando i fiumi frontalieri; altri 114 sono 34   Si veda, su questi respingimenti in mare, F. Mastromartino, Il diritto di asilo. Teoria e storia di un istituto giuridico controverso, Giappichelli, Torino 2012, pp. 248-251. Si veda anche C.F. Ferrajoli, Un rifugio senza libertà. Il trattenimento del richiedente asilo nei centri di identificazione, in «Politica del diritto», 2007, n. 2.

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morti per il freddo percorrendo a piedi i valichi delle frontiere; 293 sono stati ammazzati dagli spari delle polizie di frontiera35. 4.7. La crisi della capacità regolativa del diritto. Cinque emergenze planetarie  Lo sviluppo dell’illegalità e dell’a-legalità e, conseguentemente, di poteri sregolati e selvaggi è oggi assai più rapido e penetrante dei processi di costruzione di una legalità alla loro altezza, cioè delle garanzie primarie e secondarie in attuazione dei quattro principi del modello MG dello stato di diritto illustrati nel § 2.1. Le conseguenze catastrofiche di questo sviluppo sono cinque emergenze planetarie, destinate ad aggravarsi se non ci sarà una svolta radicale nell’economia, nella politica e nel diritto. Si tratta di emergenze ben note, denunciate quotidianamente dalla stampa. Ma questo rende ancor più irragionevoli e irresponsabili l’inerzia della politica e il progressivo dissesto del paradigma costituzionale. La prima emergenza è quella democratica illustrata nelle pagine che precedono. La crisi della politica intrecciata con la crisi dell’economia, si è visto, sta oggi provocando la restrizione sia della dimensione formale o politica che della dimensione sostanziale o giuridica della democrazia costituzionale. Come sempre, la crisi della politica si traduce nel discredito o peggio nel rifiuto della democrazia rappresentativa e dei partiti che ne sono i necessari strumenti e nella tentazione di affidarsi alla demagogia di un capo. L’impotenza della politica, la sua subalternità all’economia e il suo divorzio dalla società generano infatti, inevitabilmente, il disimpegno qualunquista e il rifiuto delle istituzioni rappresentative che sono sempre le premesse delle svolte reazionarie. È quanto è avvenuto, in Italia, con le origini del fascismo, in tempi recenti con il berlusconismo e poi con le sempre nuove varianti del populismo e, in molti altri paesi europei, con il riemergere di movimenti apertamente fascisti. Cresce, in quasi tutti i paesi, il numero dei cittadini, soprattutto tra i più poveri, che si astengono nelle elezioni e non hanno fiducia nella politica, da essi avvertita indistintamente come ostile. 35   Sono i dati aggiornati al 10 novembre 2012, riportati nel sito Fortress Europe: La fortezza (http://fortresseurope.blogspot.it/p/la-fortezza.html). Si veda anche, su questo eccidio, G. Del Grande, Il mare di mezzo. Al tempo dei respingimenti, Infinito Edizioni, Milano 2010.

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La seconda emergenza, ancor più drammatica, è quella sociale e umanitaria alla quale ho accennato nel precedente paragrafo. Essa consiste in quattro grandi flagelli: la fame, la sete, le malattie non curate e l’analfabetismo. A causa dei crescenti squilibri economici, circa 870 milioni di persone soffrono la fame e la sete, 771 milioni, in prevalenza donne, sono analfabeti e quasi 2 miliardi di persone non hanno accesso ai farmaci essenziali o salvavita. Le conseguenze di questi flagelli sono spaventose: più di 8 milioni di persone – 24.000 persone al giorno – in gran parte bambini, muoiono ogni anno per la mancanza dell’acqua e dell’alimentazione di base, e più di 10 milioni muoiono ogni anno per la non disponibilità dei farmaci salvavita, vittime del mercato ancor più che delle malattie36. L’acqua potabile è infatti sempre più scarsa e perciò oggetto di appropriazione privata; mentre i farmaci essenziali o sono brevettati, o peggio non sono distribuiti e neppure prodotti, benché non costino quasi nulla, per difetto di domanda nei paesi ricchi, riguardando malattie infettive – infezioni respiratorie, tubercolosi, malaria e simili – in questi paesi debellate e scomparse. La terza emergenza è quella ambientale. La nostra generazione ha recato danni irreversibili e crescenti al nostro ambiente naturale. Abbiamo massacrato intere specie animali, avvelenato il mare, inquinato l’aria e l’acqua, deforestato e desertificato milioni di ettari di terra. L’attuale sviluppo sregolato del capitalismo, insostenibile sul piano ecologico ancor più che su quello economico, sta avvolgendo come una metastasi il nostro pianeta mettendone a rischio, in tempi non lunghissimi, la stessa abitabilità. Nell’ultimo mezzo secolo, mentre la popolazione mondiale si è più che triplica36   Sono i dati sulla fame e la sete, sull’analfabetismo e sulla mancanza di farmaci essenziali nel mondo riportati, rispettivamente, in: FAO, The State of Food Insecurity in the World, Roma 2012, p. 8; UNESCO, Education for All Global Monitoring Report 2006. Literacy for Life, Paris 2005, pp. 19-20; WHO, The World Medicines Situation, Genève 2004, p. 61. Si vedano anche i dati riportati da Gallino, Finanzcapitalismo cit., pp. 115-127. Sul progetto non realizzato dell’Organizzazione mondiale della sanità di fornire i 340 farmaci identificati come “essenziali” o “salvavita”, cfr. G. Tognoni, I farmaci essenziali come indicatori di diritto, in «Giornale italiano di farmacia clinica», 12, 2, 1998, pp. 116-122; M. Correggia (a cura di), Accesso ai farmaci: la malattia del profitto, dossier di Medici senza frontiere, Abilgraf, Roma 2002; N. Dentico, Medicine? Soltanto per il mondo dei privilegiati, in «Fondazione Internazionale Lelio Basso», VI, 3, 2000.

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ta, il processo di alterazione e distruzione della natura – le cementificazioni, lo scioglimento delle calotte di ghiaccio in Groenlandia e in Antartide, il riscaldamento globale, gli inquinamenti dell’aria e dei mari, la riduzione della biodiversità, le esplosioni nucleari – si è sviluppato in maniera esponenziale. Contemporaneamente si stanno estinguendo le risorse energetiche non rinnovabili – il petrolio, il carbone e i gas naturali – accumulate in milioni di anni e dissipate in pochi decenni. Lo sviluppo insostenibile sta insomma dilapidando i beni comuni naturali come se fossimo le ultime generazioni che vivono sulla Terra. È di nuovo uno slogan movimentista – “questo è il solo pianeta che abbiamo” – che denuncia in termini drammatici questa corsa insensata verso la catastrofe. La quarta emergenza è quella nucleare. Negli anni del secondo dopoguerra i blocchi contrapposti hanno accumulato giganteschi arsenali di armi nucleari in grado di distruggere più volte l’intero pianeta. La fine della guerra fredda e del bipolarismo non ha affatto segnato la fine di questo pericolo, che torna anzi ad affacciarsi in forme ancor più minacciose. La moltiplicazione dei paesi dotati di armamenti nucleari37, chimici e batteriologici, la crescente possibilità tecnologica di produrre tali armamenti, il fatto infine che bande criminali e terroristiche potrebbero entrare in possesso anche solo di una parte di questo sterminato arsenale di armi micidiali – rischiano di rigettare l’umanità nel bellum omnium ipotizzato da Thomas Hobbes. Con una differenza: diversamente dalla guerra di tutti contro tutti propria del primitivo stato di natura, quella prospettata dagli odierni poteri selvaggi nel ben più devastante stato di natura tecnologico sarebbe un bellum nucleare senza nessun vincitore. La quinta emergenza, che aggrava tutte le altre, è quella criminale. La criminalità organizzata è sempre esistita. Ciò che è nuovo rispetto al passato è il suo carattere transnazionale, la sua forza 37   Nonostante i trattati di riduzione degli armamenti nucleari sottoscritti nel 1991 e poi nel 2010 dagli Stati Uniti e dalla Russia, secondo i dati risalenti al gennaio 2011 sono presenti sul pianeta 20.530 testate nucleari, in possesso di otto paesi: Stati Uniti e Russia (che ne posseggono rispettivamente 8500 e 11.000), Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan e Israele (S. Andreis, Le spese militari nel mondo, in Economia a mano armata. Libro bianco sulle spese militari, a cura della redazione di Sbilanciamoci!, sbilanciamoci.org, Roma 2012, pp. 84-85). A questi paesi si è aggiunta la Corea del Nord, che recentemente è giunta a minacciare apertamente un attacco missilistico contro gli Stati Uniti.

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militare e, soprattutto, la sua capacità di contagio, di condizionamento e di corruzione dei poteri legali, sia economici che politici. È questo intreccio dei poteri criminali con i poteri legali, in forza del quale i primi tendono a prevalere sui secondi impossessandosene o corrompendoli o intimidendoli, l’aspetto più minaccioso del crimine organizzato. La collusione si manifesta chiaramente nella sfera economica: l’economia criminale delle mafie, cresciuta enormemente in dimensioni fino a diventare uno dei settori più fiorenti e ramificati dell’economia internazionale, non confina, come sfera distinta e separata, con l’economia legale, ma al contrario tende a integrarsi nell’economia di mercato, inquinandola e controllandola attraverso una fitta serie di cointeressenze e complicità. Ma il contagio si estende anche ai poteri pubblici, nei cui confronti la criminalità organizzata è dotata di una pretesa di impunità e di una capacità di intimidazione e corruzione tanto maggiori quanto maggiore è la sua potenza economica e militare. La minaccia alla democrazia è in questo caso diretta e distruttiva. La corruzione dei poteri pubblici e la loro collusione con i poteri mafiosi non sono solo manifestazioni di devianza sociale, ma anche fattori di degenerazione istituzionale. Per il loro carattere occulto esse contraddicono infatti tutti i principi dello stato di diritto e della democrazia: dal principio di legalità a quello di pubblicità e trasparenza, da quello della rappresentatività a quelli della responsabilità politica e del controllo popolare. 4.8. Dalla crisi economica alla crisi sociale e politica. Il costituzionalismo garantista come progetto politico  La crisi economica sta dunque risolvendosi in una crisi politica, sociale, umanitaria ed ecologica che mina alle radici tutti i presupposti della democrazia. I principali effetti delle emergenze ora illustrate sono la violazione per miliardi di esseri umani di tutti i loro diritti e una crescita esponenziale delle disuguaglianze – tra le persone all’interno di ciascun paese, e tra le economie dei diversi paesi – e perciò l’erosione delle basi sociali della democrazia e della pace che sono costituite, in ultima analisi, dall’uguaglianza nei diritti fondamentali. Di qui, inevitabilmente, il crescente discredito della politica, nel migliore dei casi avvertita come impotente e parassitaria e, nel peggiore, come antisociale e asservita agli interessi distruttivi dei più forti. La politica moderna, da Hobbes in poi, si legittima infatti

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in quanto espressione e protezione degli esseri umani in carne ed ossa. È legittimata socialmente, nella sua dimensione sostanziale e di riflesso in quella politica e rappresentativa, dalla sua capacità di risolvere i problemi: di attuare i principi costituzionali, di garantire i diritti e prima di tutto la vita, di redistribuire la ricchezza attraverso prestazioni e servizi, di limitare e disciplinare i poteri altrimenti selvaggi dell’economia. È invece screditata e delegittimata allorquando capovolge questo ruolo; quando non solo non limita né disciplina i poteri privati dei più forti, ma ad essi si subordina come un loro strumento; quando smantella lo stato sociale, favorendo i più ricchi e penalizzando i più poveri e non riduce, ma dilata le disuguaglianze; quando dispensa sacrifici, anziché beni e servizi, capovolgendo il significato di nobili parole come “riforme” e “riformismo”: non più le riforme sociali in favore dei più deboli, ma le controriforme antisociali in loro sfavore. È quanto sta oggi avvenendo, certamente in Italia, simultaneamente alla formazione di un ceto politico pletorico, separato dalla società come casta privilegiata, irresponsabile e in larga parte incompetente e corrotto. Questa crisi della politica – del suo ruolo, della sua capacità di governo e perciò della sua legittimazione – è la causa prima di tutte le crisi e delle derive finora esaminate. È dalla crisi della politica che consegue la crescente inadeguatezza del diritto quale strumento di regolazione dei poteri, sia pubblici che privati, e di garanzia dell’uguaglianza e dei diritti fondamentali delle persone. È nell’impotenza della politica di fronte alle sfide globali e nella sua onnipotenza nei confronti dei soggetti più deboli e dei loro diritti che consiste la crisi odierna della democrazia in tutte le sue forme e dimensioni. È perciò la rinascita e la rifondazione della politica, oggi, il vero, difficile problema, reso grave ed urgente dal fatto che la crisi della politica, se non arrestata, genera sempre sul piano sociale – insieme alle passioni tristi degli odi, degli egoismi, della rassegnazione, del disimpegno, delle paure e delle angosce – il veleno, distruttivo del senso civico e dello spirito pubblico, dell’antipolitica, che è sempre il terreno di coltura di tutti i populismi e di tutte le svolte autoritarie. In questa prospettiva, come si vedrà nel prossimo capitolo, il costituzionalismo garantista, grazie alla normatività forte associata alla maggior parte dei principi costituzionali, si rivela, oltre che come un modello teorico, come un progetto politico di costruzione della democrazia.

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5.1. Il costituzionalismo come paradigma teorico formale e le sue possibili espansioni. Costituzionalismo garantista e rule of law nei tempi lunghi e negli spazi globali  Il dilemma oggi imposto dalla crisi sopra illustrata alla riflessione sul futuro della democrazia e dello stato di diritto è radicale: o il declino dell’una e dell’altro, oppure lo sviluppo del paradigma costituzionale al di là dei confini degli Stati nazionali e dei poteri statali. Questa crisi, al tempo stesso economica, ecologica, politica e sociale sta minacciando non solo la democrazia e lo stato di diritto, ma anche la pace e la stessa abitabilità del pianeta. Sta rivelando, in breve, l’incompatibilità del capitalismo senza regole con le condizioni elementari della convivenza civile. Le emergenze globali da essa provocate richiedono perciò una svolta storica, cioè un terzo mutamento di paradigma del diritto, della politica e dell’economia e una terza tappa nello sviluppo della modernità. Dopo il paradigma legislativo affermatosi con la nascita degli Stati nazionali, e poi la sua evoluzione nel paradigma costituzionale delle odierne democrazie nazionali, l’alternativa a un futuro di catastrofi ambientali, politiche, economiche e sociali è lo sviluppo di un costituzionalismo sovranazionale, quanto meno europeo e in prospettiva globale, in grado di riabilitare il ruolo di governo della politica e quello di garanzia del diritto. Questa prospettiva è resa possibile dal carattere formale del paradigma costituzionale illustrato nei §§ 1.3 e 2.9. Questo paradigma, ripeto, è stato concepito e si è sviluppato con riguardo soltanto ai poteri statali, le cui politiche possono dare soltanto risposte locali a quelli che sono problemi globali. Non ha investito né i poteri sovrastatali, essendosi il diritto positivo per lungo tem-

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po, e tuttora in gran parte, identificato con il solo diritto statale, né i poteri economici privati, a loro volta ideologicamente concepiti, dalla tradizione liberale, anziché come poteri, come diritti di libertà. Tuttavia il suo carattere puramente formale consente di disancorarlo dalla sua origine statalistica e dalla sua tradizione stato-centrica. Inteso in questo senso, esso non è solo una conquista del passato. Quel paradigma è anche il più importante lascito del secolo scorso, che offre alla politica l’orizzonte e la tecnica per progettare il futuro. Il suo modello teorico è infatti un modello formale, la cui sintassi, comportando l’imposizione di limiti e vincoli garantisti, può valere per qualunque sistema di poteri, siano questi pubblici o privati, statali o sovrastatali. Le difficoltà che si oppongono alla prospettiva di un costituzionalismo globale non sono quindi di carattere teorico, ma tutte e solo di carattere politico, legate alla difesa di interessi e di poteri consolidatisi nel vuoto di diritto e di garanzie alla loro altezza. Semmai, sul piano teorico un costituzionalismo garantista di livello globale si coniuga, ancor più dei costituzionalismi statali, con l’universalismo dei diritti fondamentali, il cui tratto distintivo è la loro natura di diritti individuali e, insieme, di diritti di tutti. C’è in proposito un luogo comune che deve essere ribaltato. Le costituzioni presupporrebbero l’esistenza di un demos, cioè di una qualche unità, o omogeneità culturale, o identità collettiva, o quanto meno la presenza di legami prepolitici tra i soggetti per i quali sono destinate a valere. È vero esattamente il contrario. L’unità di un popolo, come ho detto nel § 4.5, non forma il presupposto, bensì l’effetto dell’uguaglianza nei diritti, i quali agiscono come fattori di integrazione politica e sociale generando la percezione degli altri come uguali e il senso comune di appartenenza a una medesima comunità politica. Le carte costituzionali dei diritti non traggono perciò la loro legittimità dal consenso delle maggioranze, ma dalla garanzia di tutti; e sono tanto più legittime e necessarie quanto maggiori sono le differenze di identità che tramite i diritti di libertà sono in grado di tutelare e le disuguaglianze materiali che tramite i diritti sociali impongono di rimuovere. La loro funzione non è quella di rappresentare la comune volontà di un popolo, che non esiste, ma al contrario quella di garantire, con i diritti di ciascuno e di tutti, l’uguaglianza e la convivenza pacifica tra soggetti e interessi diversi e virtualmente in conflitto.

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Deve essere quindi ribaltato anche un altro luogo comune: la tesi della fallacia della domestic analogy che vizierebbe come irrea­ listico qualunque progetto di un ordine internazionale modellato sul paradigma costituzionale, solo perché “le caratteristiche assolutamente uniche” delle comunità degli Stati non ricalcano, come ha scritto Hedley Bull, quelle delle società nazionali e dei corrispondenti ordinamenti statali1. Semmai, è viziata da tale fallacia l’idea che non esisterebbe nessun’altra istituzione politica, oltre allo Stato nazionale, suscettibile di essere sottoposta a vincoli legali e costituzionali, solo perché non esiste una perfetta analogia tra le caratteristiche degli ordinamenti sovrastatali e quelle – oltre tutto prive di qualunque valenza garantista, come la sovranità, il territorio e il popolo-nazione – degli ordinamenti statali. Proprio il carattere formale sia del paradigma legislativo che del paradigma costituzionale consente invece di calare nello “stampo della legalità”, secondo l’espressione già ricordata di Piero Calamandrei, qualunque insieme di limiti e vincoli di contenuto a qualunque sistema di poteri. Ciò che è stato calato nello stampo del diritto internazionale sono le tante dichiarazioni, convenzioni e carte dei diritti umani che compongono quella che possiamo chiamare un’embrionale costituzione del mondo. Ciò che manca sono le loro leggi di attuazione, cioè le garanzie, sia primarie che secondarie, dei tanti diritti stabiliti. Ma l’introduzione di tali garanzie, se prendiamo tali diritti sul serio, è da questi imposta alla politica non soltanto come il suo più importante compito storico e la sua principale fonte di legit-

1   H. Bull, La società anarchica. L’ordine nella politica mondiale (1977), trad. it., Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 60. “L’analogia domestica non è niente di più che un’analogia; il fatto che gli Stati formino una società senza governo riflette alcune caratteristiche uniche della loro condizione”: ivi, p. 65. La critica della domestic analogy – la cui formulazione più illustre risale al progetto kantiano Per la pace perpetua, riproposto nel secolo scorso dagli scritti sulle vie della pace di Hans Kelsen e di Norberto Bobbio – è stata ripresa in Italia da D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 1995, cap. IV. “Il rinvio analogico all’ordinamento giuridico statale impedisce di cogliere, come ha lucidamente sostenuto Hedley Bull, gli aspetti specifici che la duplice alternativa diritto/anomia e ordine/anarchia presenta nel quadro dei rapporti internazionali”: ivi, cap. III, p. 128; Id., Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 71. Ho criticato più ampiamente questa tesi scettica in Costituzione e globalizzazione, in M. Bovero (a cura di), Il futuro di Norberto Bobbio, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 118-133.

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timazione esterna, ma anche come un obbligo giuridico e come la condizione della sua legittimazione interna. Intendo dire che il paradigma costituzionale generato dalla stipulazione sovranazionale di diritti di libertà e di diritti sociali, disegna il dover essere giuridico del diritto sovranazionale medesimo, richiedendo agli Stati e alla comunità internazionale la non violazione dei primi e la soddisfazione dei secondi. È questa la logica interna del modello garantista del costituzionalismo: l’implicazione deontica, a carico della sfera pubblica, dei divieti e degli obblighi da parte delle aspettative negative e positive nelle quali consistono tutti i diritti stipulati nelle carte costituzionali, siano esse statali o sovrastatali. Rispetto alla crisi della sovranità degli Stati, ai processi di assoggettamento della politica all’economia e alla finanza, alla riduzione della capacità regolativa del diritto e alle restrizioni delle garanzie dei diritti sociali, la sola alternativa razionale e insieme giuridicamente obbligata al tramonto della democrazia costituzionale è insomma il suo allargamento in direzione di tutti i poteri, statali e non statali, e a garanzia di tutti i diritti positivamente stipulati. Va aggiunto che lo sviluppo di una legalità globale può avvenire non solo attraverso l’allargamento del paradigma legislativo e di quello costituzionale fuori dai confini degli Stati nazionali, ma anche attraverso la progressiva espansione del rule of law, che certamente non è ancorato al modello stato-centrico ed è dotato, come si è detto nel § 1.3, di un’intrinseca dimensione sostanziale quale insieme di limiti al dispotismo del potere politico2. Le due strade non solo non si escludono, ma possono utilmente integrarsi. È certo, tuttavia, che di fronte alle sfide globali rappresentate dalle grandi catastrofi planetarie, soltanto il paradigma garantista di un costituzionalismo rigido allargato ai molteplici poteri politici,

2   È questa la prospettiva disegnata dal libro di Palombella, È possibile una legalità globale? Il Rule of law e la governance del mondo cit., secondo la quale la costruzione di un diritto globale può essere meglio affidata al rule of law perché “non assimilabile alle logiche dello stato di diritto”, cioè dello Stato nazionale, e “anche per questo capace di proiettarsi sul teatro globale estendendo il filo della sua storia quasi millenaria” e di “mantenere le differenze” tra i “regimi” e le “legalità diverse” – contrattuali, statali, settoriali, sovranazionali, internazionali – che oggi convivono nell’odierna governance globale, proteggendone “le autonomie” e insieme arbitrandone le relazioni mediante un “principio di bilanciamento” (pp. 11-13).

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economici e finanziari che attualmente imperversano sulla scena mondiale è in grado di fornire risposte alla loro altezza. Per molte e diverse ragioni: in primo luogo perché il vecchio modello del rule of law esteso “oltre lo Stato”, mentre non è un paradigma formale in grado di essere sostanziato da qualunque contenuto, incorpora soltanto i tradizionali limiti delle libertà fondamentali e della separazione dei poteri, e non certo vincoli normativi a tutela dei diritti sociali e dei beni fondamentali, la cui garanzia costituzionale è oggi imposta per fronteggiare le tante catastrofi – economiche, sociali, ecologiche, militari e umanitarie – prospettate dall’attuale anomia internazionale; in secondo luogo perché soltanto il paradigma garantista del costituzionalismo rigido è dotato di forza normativa nei confronti della selva dei poteri vecchi e nuovi, ai quali è in grado di imporre, quali limiti e vincoli, le garanzie implicate dalla sua interna sintassi logica; in terzo luogo, e conseguentemente, perché soltanto tale paradigma consente, con la sua rigida normatività, di tematizzare il diritto illegittimo, cioè di leggere come dovute le tutele dei diritti stabiliti dalle tante carte sovranazionali e di censurare come loro violazioni le antinomie e, soprattutto, le lacune di garanzie responsabili della loro ineffettività; in quarto luogo, perché tale paradigma affida alla politica, ben più e ben prima che alle dinamiche spontanee del rule of law e all’attivismo delle giurisdizioni, il compito, necessario ed urgente, dell’attuazione dei principi e dei diritti costituzionalmente stipulati, tramite la costruzione del complesso sistema di funzioni e di istituzioni di garanzia da esso logicamente implicato e giuridicamente imposto. È infatti evidente che la regolazione dei mercati finanziari, la creazione delle funzioni e delle istituzioni di garanzia dei diritti sociali e dei beni comuni, la distribuzione dei farmaci salvavita, la messa al bando delle armi, il divieto oltre determinati limiti dell’emissione di gas inquinanti – in generale, tutte le garanzie di diritti e di beni vitali – non possono essere affidate allo sviluppo spontaneo di un diritto globale di formazione negoziale o giudiziaria. Richiedono regole di attuazione, poco importa se nella forma delle leggi o delle convenzioni internazionali. È una questione di sintassi giuridica: per ragioni strutturali il rule of law, mentre si accorda pienamente con il costituzionalismo principialista, non è da solo idoneo ad assicurare le funzioni di garanzia che il modello normativo del costituzionalismo garantista rende invece possibili oltre

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che dovute. Ciò non toglie il ruolo essenziale, di espansione e generalizzazione dei valori costituzionali, svolto dalla giurisprudenza e dall’odierno dialogo tra le giurisdizioni dei diversi ordinamenti. Ma questo ruolo sarà tanto più incisivo quanto più sarà ancorato alle strutture garantiste del paradigma costituzionale. In tutti i casi, di fronte alle dimensioni della crisi, o si va avanti o si va indietro. O si realizza un’ulteriore espansione del costituzionalismo garantista in direzione dei nuovi poteri extra-statali che si sono sottratti alla normatività dei diritti, oppure si rischia il collasso non solo delle democrazie nazionali ma anche delle condizioni elementari della sopravvivenza e della pace. Il paradigma statale del costituzionalismo è infatti del tutto inadeguato a fronteggiare le cinque emergenze planetarie illustrate nel § 4.7. Problemi globali richiedono risposte globali che gli Stati non sono in grado di dare. Per due ragioni. In primo luogo perché, come si è visto nel precedente capitolo, i poteri che contano, sia politici che economici, si sono trasferiti fuori dei loro confini e dei loro controlli. In secondo luogo per due gravi aporie che affliggono le condizioni del consenso popolare e i tempi e gli spazi della politica nelle odierne democrazie rappresentative. La politica, in democrazia, conosce solo i tempi brevi delle scadenze elettorali, o peggio dei sondaggi, e gli spazi ristretti delle circoscrizioni elettorali. Non conosce né i tempi lunghi, né gli spazi planetari delle sfide globali. Ma sono proprio i tempi lunghi e gli spazi mondiali che oggi disegnano gli orizzonti di qualunque politica razionale ancor prima che democratica. Per questo, politica, diritto ed economia non potranno più essere come prima. Se si vuole che ritrovino la ragione – la loro ragion d’essere e il loro ruolo di ragione –, è necessario che venga superato il capovolgimento dei loro rapporti che come si è visto è all’origine della crisi: non più l’onnipotenza della finanza e dell’economia rispetto alla politica e della politica rispetto alla società, ma la subordinazione delle prime alla seconda e della seconda alla terza, attraverso i limiti e i vincoli legali e costituzionali che devono imporsi sia ai poteri economici che ai poteri politici a garanzia dei diritti fondamentali di tutti. E questo è possibile solo attraverso un duplice allargamento del paradigma costituzionale dello stato di diritto e della democrazia: la sua espansione in senso estensionale a tutti i poteri e il suo rafforzamento in senso

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intensionale a garanzia di tutti i diritti. Solo questo duplice allargamento può produrre una riduzione delle disuguaglianze, che come si è visto sono tra le principali cause, oltre che tra i più gravi effetti della crisi: da un lato la riduzione delle eccessive ricchezze e la regolazione dei poteri speculativi di cui esse sono il frutto e lo strumento; dall’altro la riduzione delle povertà per il tramite delle garanzie del lavoro e dei diritti sociali. L’espansione in senso estensionale del paradigma costituzionale, cui è dedicato il prossimo paragrafo, consiste nel suo allargamento all’altezza di tutti i poteri, pubblici e privati, sviluppatisi al di fuori della sfera dei poteri statali. Richiede, in breve, una costituzionalizzazione sia del diritto internazionale che del diritto privato e commerciale. A sua volta, il rafforzamento del medesimo paradigma in senso intensionale richiede da un lato la rifondazione della dimensione formale della democrazia rappresentativa, attraverso la riabilitazione della politica e la ristrutturazione della sfera pubblica sulla base, come si dirà nel § 5.3, di un complesso sistema di separazioni tra poteri a garanzia dei diritti politici e civili, ben al di là della classica tripartizione montesquieviana; dall’altro lo sviluppo della dimensione sostanziale della democrazia costituzionale, attraverso le garanzie primarie e secondarie di tutti i diritti fondamentali sulla base, come si dirà nei §§ 5.4-5.9, del modello garantista MG quale è stato qui definito, nel § 2.1, mediante i principi di legalità, di completezza, di giurisdizionalità e di azionabilità. 5.2. L’espansione in senso estensionale del paradigma costituzionale nei confronti dei poteri economici e dei poteri sovranazionali. Per un’Assemblea Costituente europea  L’espansione in senso estensionale del paradigma costituzionale è dunque suggerita, dal costituzionalismo garantista, nei confronti di tutti i poteri: oltre che dei poteri pubblici statali, anche dei poteri privati e dei poteri sovra-nazionali, rimasti estranei al vecchio modello dello stato di diritto, fuori dal quale si sono sviluppati e sono destinati a crescere ulteriormente. L’espansione si richiede in primo luogo nei confronti dei diritti di autonomia privata nella sfera del mercato, configurati dall’ideo­logia liberista, come detto nel § 1.7, come libertà e consistenti invece in poteri, sempre più sottrattisi al principio di legalità

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essendo stati travolti, in questi anni, gran parte dei loro vecchi limiti giuridici. Dislocazioni di attività produttive fuori dai confini nazionali con conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro e sfruttamento massiccio del lavoro in altri paesi, privazione dei diritti dei lavoratori esposti al ricatto dei licenziamenti, produzioni industriali inquinanti e nocive alla salute, concentrazioni imprenditoriali perfino in materia di informazione, sviluppo incontrollato della finanza speculativa – sono il risultato di un generale processo di deregolazione che ha trasformato questi diritti-potere in poteri assoluti, in contrasto con il paradigma dello stato di diritto che non ammette l’esistenza di poteri legibus soluti. È perciò un costituzionalismo di diritto privato, se si prende sul serio il paradigma costituzionale, che oggi deve essere imposto normativamente alla politica e all’economia come la sola alternativa allo sviluppo selvaggio e distruttivo dei grandi poteri economici e finanziari. Deve cessare, a tal fine, l’attuale supremazia di tali poteri sulla politica e dev’essere restaurata la loro soggezione al diritto, quale è del resto stabilita dalla Costituzione italiana nei già ricordati artt. 41-47 sui limiti giuridici all’iniziativa economica privata e negli artt. 35-40 sui diritti dei lavoratori. Più difficile è lo sviluppo di un costituzionalismo sovranazionale. L’espansione del paradigma costituzionale ai poteri di carattere extra- o sovrastatale è certamente oggi – a causa del carattere globale dell’economia e della finanza e del carattere sovranazionale dei poteri politici da cui dipendono le decisioni più importanti – la più necessaria ed urgente. Ma è anche, nei tempi brevi, la più improbabile. Essa comporta un percorso inverso a quello compiuto dagli Stati nazionali: non già il costituzionalismo quale completamento del paradigma dello stato legislativo di diritto, ma al contrario la produzione delle leggi di attuazione delle promesse costituzionali espresse dai diritti fondamentali positivamente stabiliti nelle tante carte internazionali di cui già dispone il diritto sovranazionale. Richiede, più in generale, l’estensione ai poteri sovranazionali del tradizionale principio di legalità e del principio di completezza. Il vuoto di diritto pubblico sovrastatale di cui ho parlato nel § 4.6 è soprattutto, infatti, un vuoto di garanzie che deve essere colmato da un’adeguata produzione normativa. Il suo superamento richiederebbe perciò alla ragione giuridica e politica, dopo i due mutamenti prodottisi con le due rivoluzio-

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ni istituzionali della modernità – la fondazione gius-positivistica dello Stato come sfera pubblica eteronoma e separata dalle sfere private, e poi la fondazione gius-costituzionalistica della democrazia attraverso la garanzia delle sue diverse dimensioni mediante i limiti e i vincoli imposti ai poteri politici – un terzo mutamento di paradigma del diritto e delle istituzioni politiche: la fondazione gius-cosmopolitica di una sfera pubblica e di un costituzionalismo sovranazionale, cioè di limiti e vincoli a garanzia dei diritti, imposti ai poteri sovrastatali contro le molteplici crisi – economiche, politiche, ecologiche e sociali – provocate dal loro odierno carattere predatorio e selvaggio3. È poi evidente che la sottoposizione di tali poteri ai principi di legalità e di completezza equivarrebbe altresì a una riabilitazione del ruolo di governo della politica, della quale la legge è pur sempre un prodotto. Proprio la crisi economica in atto e le catastrofi da essa provocate o minacciate potrebbero peraltro rappresentare un’occasione, a causa della necessità e dell’urgenza di misure pubbliche sovrastatali in grado di fronteggiarla dopo il fallimento delle politiche liberiste, per far compiere un passo avanti al processo di integrazione, sia europeo che internazionale. Mai come oggi, di fronte alla gravità della crisi, si è rivelata la mancanza drammatica di un governo politico sovranazionale dell’economia, in grado di imporre regole, limiti e controlli alla finanza internazionale onde impedirne gli attacchi speculativi. Ciò che si richiede è perciò lo sviluppo del paradigma costituzionale all’altezza dei nuovi luoghi, non più statali ma extra- o sovrastatali, nei quali si sono spostati i poteri e le decisioni: in breve la costituzionalizzazione del diritto internazionale, sia pubblico che privato. I rimedi da più parti prospettati al vuoto di diritto pubblico sovranazionale, taluni di livello europeo, altri di livello internazionale, sono molteplici ed eterogenei, tanto necessari e urgenti 3   Gustavo Gozzi parla, a proposito di questo ulteriore mutamento di paradigma, di “costituzionalizzazione del diritto internazionale” e, correlativamente, di “internazionalizzazione del diritto costituzionale” (G. Gozzi, Diritti e civiltà. Storia e filosofia del diritto internazionale, Il Mulino, Bologna 2010, cap. XIII, § 3, pp. 356-357). Ma si vedano le amare riflessioni sviluppate da Gaetano Azzariti sulle incerte prospettive del costituzionalismo, in presenza degli odierni spazi globali nei quali si sono dislocati i poteri e dell’attuale dominio incontrastato della lex mercatoria (Il costituzionalismo moderno può sopravvivere? cit.).

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quanto purtroppo nei tempi brevi improbabili: una fiscalità europea e magari internazionale, a cominciare da un’adeguata tassazione delle transazioni finanziarie – come la nota Tobin tax, che dovrebbe ormai entrare in vigore in molti paesi europei, inclusa l’Italia – diretta non solo al prelievo di risorse pubbliche ma anche a ridurre, se non a impedire, i margini di guadagno delle operazioni di pura speculazione; una rigorosa disciplina dei derivati finanziari, diretta a impedirne l’attuale proliferazione incontrollata; il divieto di acquisti e vendite di titoli allo scoperto; un’armonizzazione a livello internazionale dei sistemi fiscali degli Stati, diretta a impedire le fughe di capitali nei paradisi fiscali, nei quali oggi sono evasi circa 21 mila miliardi di dollari, pari a un quarto del Pil mondiale; la soppressione delle odierne agenzie private di rating, talora colluse con gli interessi della finanza speculativa, e l’attribuzione delle loro funzioni di valutazione delle finanze degli Stati e delle imprese alla competenza di autorità internazionali pubbliche e indipendenti; la restaurazione della vecchia distinzione e della rigida separazione tra banche commerciali e banche d’affari; infine una riforma in senso effettivamente rappresentativo non soltanto dell’Onu, ma anche delle attuali istituzioni economiche – il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio – oggi controllate dai paesi più ricchi, onde restituirle alle loro originarie funzioni statutarie: la garanzia della stabilità finanziaria, l’aiuto allo sviluppo dei paesi poveri, la promozione dell’occupazione e la riduzione degli squilibri e delle disuguaglianze, cioè esattamente l’opposto delle loro politiche odierne, consistenti nell’imposizione agli Stati più deboli di misure pesantemente antisociali nell’interesse delle economie dei paesi più forti. Soprattutto, la costituzionalizzazione di una sfera pubblica sovrastatale richiede oggi – ben più che lo sviluppo di funzioni di governo in vista di un improbabile e neppure auspicabile superStato sul modello dello Stato rappresentativo nazionale – il rafforzamento e l’introduzione di funzioni e istituzioni di garanzia dei diritti fondamentali stipulati nelle tante carte internazionali. Preciserò nel prossimo paragrafo il senso e il fondamento di questa distinzione tra funzioni e istituzioni politiche di governo e funzioni e istituzioni di garanzia primaria e secondaria. Qui basti dire che tale distinzione è particolarmente feconda ai fini dell’espansione

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in senso estensionale del paradigma costituzionale. Mentre infatti le funzioni di governo, essendo legittimate dalla rappresentanza politica, è bene che rimangano quanto più possibile di competenza degli Stati nazionali, le funzioni di garanzia, essendo legittimate dalla soggezione alla legge e dall’universalità dei diritti fondamentali da esse garantiti, non solo possono, ma in molti casi devono essere istituite a livello internazionale. È la mancanza o l’inefficacia di queste istituzioni e funzioni di garanzia dei diritti, pur stipulati in tante carte e dichiarazioni, la lacuna più vistosa del diritto internazionale, equivalente a una violazione strutturale dei diritti proclamati. Talune di queste istituzioni, come quelle economiche appena ricordate, e per altro verso la Fao, l’Organizzazione mondiale della sanità e la Corte penale internazionale, esistono da tempo, e occorrerebbe rafforzarle e dotarle dei mezzi e dei poteri necessari all’esercizio delle loro funzioni di garanzia. Altre – in tema di ambiente, di sicurezza, di criminalità organizzata e di altre emergenze globali – andrebbero invece istituite. Il loro finanziamento richiederebbe ovviamente una fiscalità mondiale: oltre alla già ricordata Tobin tax sulle transazioni finanziarie, la tassazione dell’uso e il risarcimento dei danni provocati dalla dissipazione e della distruzione di molti beni comuni – dalle orbite satellitari alle bande dell’etere, dalle risorse idriche agli spazi atmosferici – oggi utilizzati dai paesi più ricchi come res nullius. Non meno urgente ma più realistico, oltre che giuridicamente imposto dalle sue carte e trattati costituzionali, è il progetto di costituzionalizzazione dell’Unione Europea. Proprio il riconoscimento del fallimento e dell’irrazionalità delle politiche liberiste, risoltesi di fatto in un’abdicazione della politica e nell’abbandono del mercato a una sorta di stato di natura, richiede oggi che venga capovolto il senso stesso di una seria opzione filoeuropea: non più l’imposizione di controriforme antisociali all’insegna del rigore e dei tagli alla spesa pubblica, che oltre ad avere effetti recessivi provocano la rottura della coesione dell’Unione, bensì politiche di sviluppo, di garanzia dei diritti sociali e del lavoro e di promozione dell’uguaglianza, all’insegna dell’emancipazione della politica dalla sua attuale subalternità alla finanza. Quel riconoscimento potrebbe perciò favorire una rifondazione costituzionale di un’Europa federale e sociale che prenda finalmente sul serio il progetto giuridico e politico disegnato dalla Carta dei

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diritti fondamentali dell’Unione Europea approvata a Nizza nel dicembre 2000 e dai primi articoli del Trattato istitutivo della Comunità: “promuovere uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, [...] un elevato livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento di quest’ultimo, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri” (art. 2); e ancora, aggiunge l’art. 3, contribuire al “conseguimento di un elevato livello di protezione della salute” e di “un’istruzione e una formazione di qualità”, nonché all’eliminazione delle “ineguaglianze” e delle disparità “tra uomini e donne”. Prendere sul serio questi “compiti” costituzionali vuol dire adottare misure esattamente opposte alle attuali politiche europee: dotare l’Unione di un bilancio comune, di un fisco comune, di una banca centrale di tipo federale e di un governo comune dell’economia in grado di realizzare quello che una volta veniva chiamato “il modello sociale europeo”; promuovere interventi comunitari di spesa informati, come dice l’art. 5 del Trattato, al “principio di sussidiarietà”, qualora “gli obiettivi dell’azione prevista non possano essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri”; procedere all’unificazione europea del diritto del lavoro, a cominciare dalla “tutela contro ogni licenziamento ingiustificato” disposta dall’art. 30 della Carta dei diritti dell’Unione, onde impedire le dislocazioni delle attività produttive nei paesi più sforniti di garanzie dei diritti dei lavoratori; sviluppare una politica europea diretta alla piena occupazione, alla riduzione delle disuguaglianze, all’accoglienza e all’integrazione dei lavoratori immigrati; garantire la difesa dell’ambiente e dei beni comuni, anche attraverso l’istituzione di un demanio pubblico europeo. Un’altra Europa, sociale e democratica, è insomma non solo possibile, ma normativamente prescritta dalle sue carte costituzionali, le quali disegnano “il passaggio dall’‘Europa dei mercati’ all’‘Europa dei diritti’” quale condizione della sua “piena legittimazione democratica”4. In particolare sono possibili, per uscire dalla crisi, misure in grado di neutralizzare gli attacchi dei mercati, a co-

  S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 29.

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minciare dalla stipulazione di una garanzia comune per i debiti pubblici dei paesi dell’euro5. Ma una rifondazione costituzionale dell’Europa richiederebbe oggi il superamento della logica internazionalistica dei trattati costituzionali e la convocazione di un’Assemblea Costituente europea, eletta su liste europee e incaricata della stipulazione di una vera Costituzione dell’Unione di tipo federale, oltre che liberale e sociale. Solo una tale Assemblea Costituente, ugualmente rappresentativa di tutta la popolazione europea, può oggi rifondare una sicura legittimazione democratica e costituzionale dell’Unione, ridisegnandone i lineamenti istituzionali secondo il modello degli Stati federali: con l’attribuzione di funzioni legislative all’attuale Parlamento europeo eletto su liste elettorali europee; con l’istituzione di un governo federale ad esso vincolato da un rapporto di fiducia o comunque eletto anch’esso su basi europee; con la creazione di istituzioni europee indipendenti di garanzia primaria dei diritti e dei beni fondamentali, legate alle corrispondenti istituzioni di garanzia di livello statale o regionale dal rapporto di sussidiarietà previsto dal già ricordato art. 5 del Trattato della Comunità. Per altro verso i principi garantisti del nostro modello MG, a cominciare dal principio di legalità, richiedono – a garanzia dell’uguaglianza nei diritti e della certezza del diritto – l’unificazione legislativa, quanto meno dei codici, e la creazione di correlative istituzioni europee di garanzia, sia primarie che secondarie. È assurdo che un mercato comune non abbia un codice civile comune; che nei confronti delle attività illegali e talora criminali di carattere transnazionale non esistano un unico codice penale di tipo federale6 né comuni codici di procedura; che in un mercato

5   Si vedano le proposte di politica economica alternativa per uscire dalla crisi formulate da Stiglitz, Bancarotta cit., capp. VII-X. Si vedano anche: A. Watt, A. Botsch, R. Carlini (a cura di), Dopo la crisi. Proposte per un’economia sostenibile, Edizioni dell’Asino, Roma 2010; Gallino, Finanzcapitalismo cit., parte quarta; Pianta, Nove su dieci cit.; Biasco, Ripensando il capitalismo cit., capp. 4, 5; Pennacchi (a cura di), Tra crisi e “grande trasformazione” cit.; G. Marcon, M. Pianta, Sbilanciamo l’economia. Una via d’uscita dalla crisi, Laterza, Roma-Bari 2013. 6   In questa direzione si è orientata da tempo la progettazione promossa da una parte della cultura giuridica europea. Si ricordi l’elaborazione, ad opera di una commissione di giuristi coordinata da Christian von Bar, dei Principles of European Contract Law, pubblicati da G. Alpa, I principi del diritto contrattuale

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unico delle merci e dei capitali non esista un unico diritto del lavoro e un sindacalismo transnazionale, in grado di assicurare uguali garanzie quanto meno a tutti i lavoratori europei e perciò di impedire la divisione e la concorrenza tra lavoratori, chiaramente distruttive dei loro diritti. Solo la progressiva unificazione giuridica – quanto meno a livello europeo, ma in prospettiva a livello globale – è in grado di garantire ugualmente i diritti di tutti, di impedire lo sviluppo di un perverso mercato al ribasso dei diritti e perciò di operare come un fattore insostituibile di integrazione sociale e politica. 5.3. Il rafforzamento in senso intensionale della dimensione formale della democrazia costituzionale. Quattro separazioni tra poteri  Mentre l’espansione in senso estensionale del paradigma costituzionale richiede, dall’innovazione politica e dall’invenzione giuridica, il mutamento di paradigma sopra illustrato in direzione di un costituzionalismo di diritto privato e insieme di un costituzionalismo di diritto sovranazionale, il rafforzamento in senso intensionale del medesimo paradigma è già fin d’ora giuridicamente imposto dalla sua interna sintassi normativa. Parlerò dapprima, in questo paragrafo, delle diverse separazioni dei poteri richieste dalla dimensione formale e rappresentativa della democrazia politica, e poi, nei §§ 5.4-5.9, delle garanzie richieste dai quattro postulati del nostro modello MG dello stato di diritto: corrispon-

europeo, in «Rivista critica del diritto privato», XVIII, 3, 2000. Su iniziativa della Commissione europea è stato inoltre elaborato da un gruppo di penalisti coordinato da Mireille Delmas-Marty un progetto denominato “Corpus Juris per la tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione Europea”, che tra l’altro prevede l’istituzione di un Pubblico ministero europeo indipendente e vincolato al principio di legalità: se ne veda il testo in G. Grasso (a cura di), Verso uno spazio giudiziario europeo, Giuffrè, Milano 1998. Il 28 febbraio 2002 è stata istituita, da una decisione del Consiglio dell’Unione, un’unità di cooperazione giudiziaria, soprattutto in materia di criminalità organizzata, denominata “Eurojust” e composta di un esponente per ciascun paese membro. Infine l’art. 86 del Trattato di Lisbona del 13.12.2007 prevede l’istituzione, “per combattere i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione”, di “una Procura europea a partire da Eurojust”, la quale, dice il c. 2, “esercita l’azione penale per tali reati dinanzi agli organi giurisdizionali competenti degli Stati membri”; su decisione del Consiglio europeo, aggiunge il c. 4, le “attribuzioni” di tale Procura possono essere estese “alla lotta contro la criminalità grave che presenta una dimensione transnazionale”.

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denti i primi due alle garanzie primarie e gli altri due alle garanzie secondarie dei diritti fondamentali e delle connesse dimensioni della democrazia costituzionale. La questione di fondo che si pone a proposito della dimensione formale, sia politica che civile, della democrazia è la ridefinizione della geografia dei diversi poteri – politici ed economici, pubblici e sociali, di governo e di garanzia – oggi accumulatisi senza regole e senza chiari confini, a causa delle innumerevoli concentrazioni e dei tanti condizionamenti impropri che, come si è visto nel precedente capitolo, stanno portando al collasso il paradigma costituzionale dello stato di diritto. Contro questi processi di accumulazione e confusione dei poteri, il solo rimedio è quello classico della loro separazione, che da un lato è il loro principale fattore di delimitazione e, dall’altro, una condizione necessaria della garanzia di tutti i diritti. Garanzia dei diritti e separazione dei poteri, cioè i due elementi identificati dal famoso art. 16 della Déclaration del 1789 come costitutivi di ogni costituzione, sono infatti tra loro logicamente connesse, non essendoci l’una in assenza dell’altra. Nel suo modello settecentesco la separazione riguarda soltanto i pubblici poteri. Oggi la complessità dei sistemi sociali – da un lato la molteplicità dei poteri dei quali il paradigma costituzionale richiede la soggezione a limiti e a controlli, dall’altro la molteplicità dei diritti e dei beni costituzionalizzati e delle correlative garanzie primarie e secondarie – impone una pluralità di separazioni e bilanciamenti tra poteri, ben al di là della classica separazione tra potere legislativo, potere esecutivo e potere giudiziario teorizzata da Montesquieu più di due secoli e mezzo fa. Distinguerò pertanto due coppie di separazioni tra poteri oggi richieste dal modello del costituzionalismo garantista come condizioni elementari di effettività di tutti i diritti fondamentali. La prima coppia riguarda la separazione tra poteri pubblici e poteri non pubblici ed extra-istituzionali: da un lato tra poteri politici e poteri economici, dall’altro tra poteri politici e poteri sociali. Sono due separazioni entrambe necessarie, sotto profili diversi, alla garanzia e insieme ai limiti imposti da un lato ai diritti civili, che come si è mostrato non consistono in semplici libertà ma in dirittipotere oggi più potenti che mai e, dall’altro, ai diritti politici, che richiedono anch’essi di essere garantiti contro gli attuali processi

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di crisi della rappresentanza. La seconda coppia di separazioni è invece all’interno della sfera pubblica, riguardando soltanto i pubblici poteri. Mostrerò come entro questa sfera non è più sufficiente la classica separazione tra funzioni politiche legislative e di governo e funzioni giudiziarie di garanzia secondaria, richiedendosi anche la separazione tra funzioni di governo e quelle che ho chiamato funzioni amministrative di garanzia primaria, necessarie alla tutela e alla soddisfazione dei nuovi diritti nei quali si articola la dimensione sostanziale, sia liberale che sociale, della democrazia. Alle classiche libertà si sono infatti aggiunti, nelle odierne democrazie costituzionali, diritti sociali e beni fondamentali parimenti ignoti al vecchio stato liberale, che richiedono anch’essi di essere garantiti da apposite istituzioni, sia contro i poteri politici che contro i poteri economici. La prima delle nostre quattro separazioni riguarda quello che nel § 4.3 ho chiamato il costituzionalismo profondo dello Stato moderno: è la separazione tra poteri politici e poteri economici, diretta a ristabilire l’indipendenza e il primato dei primi sui secondi. Si è visto come uno dei fattori della crisi della politica – della sua credibilità e del suo ruolo di governo – è oggi la sua subalternità all’economia e più ancora alla finanza determinata da condizionamenti lobbistici, da concentrazioni di poteri, dai conseguenti conflitti di interesse e dalle tante forme di corruzione e appropriazione privata della sfera pubblica. Questa confusione tra interessi pubblici e interessi economici compromette, come si è mostrato, sia la dimensione politica che la dimensione civile della democrazia, risolvendosi in una lesione dei diritti politici e dei diritti civili che di quelle due dimensioni sono alla base. La garanzia di tali diritti richiede perciò la rigida separazione dei poteri nei quali essi indirettamente o direttamente consistono, e conseguentemente la separazione della sfera pubblica dalla sfera economica e il primato della prima sulla seconda: l’una quale sfera eteronoma perché in funzione degli interessi generali, l’altra affidata invece all’autodeterminazione privata perché in funzione degli interessi dei singoli. A tal fine si richiede, oltre al divieto delle lobbies e a severe sanzioni per la corruzione, l’introduzione di rigide incompatibilità tra poteri politici e poteri economici: non solo le garanzie primarie, peraltro già presenti in molti paesi e perfino in Italia, dell’ineleggibilità alle cariche pubbliche di quan-

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ti sono titolari di rilevanti interessi e poteri privati7, ma anche le garanzie secondarie consistenti nell’attribuzione del controllo di tali limiti e incompatibilità, oltre che della competenza su tutte le questioni e i contenziosi elettorali, ad organi terzi e imparziali8. È chiaro che simili riforme varrebbero a rifondare e a garantire non soltanto la dimensione politica, ma anche la dimensione civile della democrazia; non solo l’effettività dei diritti politici, ma anche, con la libera concorrenza, quella dei diritti civili di autonomia privata o negoziale. Una tale separazione richiede d’altro canto una rigorosa limitazione, regolazione e trasparenza di quel fattore non secondario del condizionamento dei poteri politici da parte dei poteri economici che è costituito dai finanziamenti privati della politica. Il finanziamento dei partiti è oggi un fenomeno che sta inquinando la politica in molte democrazie: si pensi solo ai finanziamenti miliardari delle campagne elettorali negli Stati Uniti, che rischiano di riprodurre una singolare discriminazione e limitazione per censo dell’elettorato passivo; o peggio al connubio perverso tra potere economico, potere mediatico e potere politico prodottosi in Italia con i governi berlusconiani. Dovrebbe pertanto essere esclusa, esattamente al contrario di quanto viene oggi proposto dalla demagogia qualunquista, ogni forma di finanziamento privato dei partiti oltre una certa misura, pari a quella relativamente modesta che può supporsi motivata dall’adesione ideale di iscritti

7   Si ricordi l’art. 10 della legge elettorale italiana n. 361 del 30.3.1957, che dispone l’ineleggibilità di “coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato [...] per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica”, quali quelle richieste alle imprese televisive. Ciò che manca in Italia contro simili conflitti di interessi sono le garanzie secondarie o giurisdizionali, essendo i controlli sull’eleggibilità affidati, quali interna corporis, alle stesse assemblee elettive, in tal modo chiamate a giudicare in causa propria, cioè su questioni alle quali sono esse stesse interessate, e perciò investite esse stesse da un ulteriore conflitto di interessi. 8   Sulle istituzioni elettorali di garanzia indipendenti – come sono, ad esempio in Messico, il Tribunal Electoral del Poder Judicial e l’Instituto Federal Electoral, istituiti nel 1996 – si vedano: J. Orozco Henríquez, El Contencioso electoral, in D. Nohlen, S. Picado, D. Zovatto (a cura di), Tratado de derecho electoral comparado de América Latina, Ife, Ciudad de México 1998, pp. 708807; R. Becerra, P. Salazar, H. Woldenberg, La mecánica del cambio político en México. Elecciones, partidos y reformas, Cal y Arena, Ciudad de México 2000.

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e simpatizzanti. Oltre tale misura, da stabilirsi per legge, qualunque finanziamento privato – se non vogliamo che con le elezioni vengano eletti, insieme ai partiti e ai candidati, anche i loro finanziatori – dovrebbe essere proibito come illecito, per impedire gli impropri e occulti vincoli di mandato che potrebbero derivarne. Ingenti finanziamenti, infatti, rischiano sempre di essere motivati dall’aspettativa di indebiti favori dall’esercizio dei pubblici poteri, a danno dei pubblici interessi e prima ancora della rappresentatività degli eletti, oltre che della concorrenza tra operatori economici e della parità dei partiti e dei candidati nelle competizioni elettorali. Rischiano, in breve, di essere finalizzati alla corruzione. Questa finalità è del tutto palese nei casi non infrequenti di finanziamenti elargiti da uno stesso soggetto a più schieramenti o forze politiche diverse o addirittura opposte. In generale dovrebbero essere comunque proibiti i finanziamenti da parte di persone giuridiche, come le imprese e le società commerciali, essendo evidente che una persona giuridica non può avere motivi ideali per finanziare un partito ma soltanto interessi economici. Ne consegue che il finanziamento dei partiti, i quali sono strumenti essenziali dell’organizzazione della rappresentanza e del funzionamento della democrazia politica, deve essere pubblico, oltre che ad opera degli iscritti o dei simpatizzanti magari nelle forme sostanzialmente anonime della destinazione ai partiti di una quota dell’imposta sul reddito sul modello italiano della destinazione dell’otto per mille alle confessioni religiose. È poi evidente che i bilanci dei partiti devono essere sottoposti a tutti i controlli cui sono sottoposte le spese del pubblico denaro. La seconda separazione tra poteri intra- e poteri extra-istituzionali, richiesta dal paradigma costituzionale come condizione della rappresentanza politica, è quella tra istituzioni rappresentative e partiti, cioè tra i pubblici poteri esercitati dalle prime e i poteri sociali espressi dai secondi. Uno degli aspetti della crisi odierna della democrazia è la crescente distanza tra le tante forme di cittadinanza attiva, di mobilitazione civile dal basso e di disponibilità dei movimenti sociali all’impegno politico e la burocratizzazione dei partiti, trasformatisi in oligarchie saldamente integrate nelle pubbliche istituzioni e sempre più prive di rappresentatività politica; una distanza resa ancor più intollerabile dalla crescita della maturità civile di gran parte dei cittadini, delle loro conoscenze

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e del loro amor proprio, simultanea all’abbassamento del livello intellettuale e morale del ceto politico9. Ebbene, questo diaframma tra partiti e società può essere oggi superato solo se i primi saranno restituiti al loro ruolo di organi o strumenti della seconda, quali soggetti rappresentati, anziché rappresentanti, e quindi come istituzioni di garanzia del “diritto” dei cittadini di “associarsi liberamente”, come dice l’art. 49 della Costituzione italiana, “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. I partiti dovrebbero quindi essere separati dallo Stato – non solo dagli apparati amministrativi ma anche dalle istituzioni politiche elettive – e deputati alla formulazione dei programmi, alla scelta dei candidati e alla responsabilizzazione degli eletti, ma non anche alla diretta gestione della cosa pubblica. Per quattro ragioni: in primo luogo perché siano favoriti il loro radicamento sociale e soprattutto il loro ruolo di mediazione rappresentativa tra istituzioni pubbliche elettive ed elettorato attivo; in secondo luogo per evitare i conflitti di interesse che si manifestano nelle autocandidature dei dirigenti e nelle varie forme di cooptazione dei candidati sulla base della loro fedeltà a quanti li hanno, di fatto, designati; in terzo luogo per impedire la confusione dei poteri tra controllori e controllati e consentire la responsabilità dei secondi rispetto ai primi; in quarto luogo per determinare un più rapido e fisiologico ricambio dei gruppi dirigenti e del ceto politico, oggi tendenzialmente inamovibile. Occorrerebbe perciò introdurre forme di incompatibilità tra cariche di partito e cariche elettive istituzionali, sicché i dirigenti di partito avrebbero l’onere di dimettersi all’atto dell’assunzione di pubbliche funzioni. Si porrebbe così fine all’odierna occupazione delle istituzioni da parte dei partiti, i quali dovrebbero essere investiti di funzioni soltanto di indirizzo politico, e non anche direttamente di pubblici poteri. Solo una simile, radicale riforma può oggi porre rimedio alla crisi profonda di rappresentatività e credibilità dei partiti, peraltro essenziali al funzionamento della democrazia rappresentativa. Solo il venir meno degli attuali conflitti di interesse, che si manifestano nell’autoelezione o nella 9   Su questi processi e sul mutamento che ne è seguito dei nostri sistemi politici, si veda il bel libro di G. Cotturri, La forza riformatrice della cittadinanza attiva, Carocci, Roma 2013.

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cooptazione di fatto da parte dei capi dei partiti dell’intero personale rappresentativo, varrebbe a restaurare il rapporto di rappresentanza tra istituzioni elettive ed elettorato, a radicare i partiti nella società, a ridurre il loro discredito odierno e a restituire loro autorevolezza e capacità di attrazione e aggregazione sociale, nonché di controllo e responsabilizzazione degli eletti10. In ogni caso, e soprattutto se questa separazione non fosse attuata, si richiede la drastica riduzione degli attuali privilegi e degli altissimi stipendi degli eletti, i quali creano un interesse economico personale all’elezione e quindi un’impropria subalternità ai dirigenti di partito che formulano o comunque sostengono le candidature. Affinché i rappresentanti non abbiano un interesse personale di tipo economico all’elezione, e al tempo stesso condividano e comprendano le condizioni di vita dei rappresentati, le loro retribuzioni non dovrebbero superare le retribuzioni medie dei lavoratori dipendenti. Non dimentichiamo la distinzione di Max Weber tra chi “vive ‘per’ la politica” e chi “vive ‘di’ politica”11 e la necessità che, pur essendo dovuta la garanzia che possa vivere di politica chi dà un senso alla propria vita vivendo per la politica, è altrettanto dovuta la garanzia che non sia questo il principale scopo della professione politica. Infine, altre misure che dovrebbero introdursi a garanzia della rappresentanza sono: l’imposizione per legge alle forze politiche, quali condizioni del loro accesso alle elezioni o quanto meno al finanziamento pubblico, di statuti che garantiscano la democrazia interna, escludendo ogni forma di discriminazione del dissenso o peggio di mandato imperativo nei confronti degli eletti; la totale incompatibilità tra le funzioni politiche pubbliche e qualunque altro tipo di attività professionale o commerciale e con qualunque altro ufficio pubblico o privato, come le consulenze o la partecipazione a consigli di amministrazione di banche o grandi imprese; la previsione della non rieleggibilità alle cariche elettive per più, poniamo, di due mandati consecutivi; la selezione dei candidati alle elezioni, sperimentata con successo in Italia dai 10   Rinvio, su questa proposta, a: PiII, § 14.8, pp. 190-193; Poteri selvaggi cit., § 4.2, pp. 68-69. 11   M. Weber, La politica come professione (1919), in Id., Il lavoro intellettuale come professione (1948), trad. di Antonio Giolitti, Einaudi, Torino 1980, pp. 57 sgg.

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partiti della sinistra, tramite competizioni primarie regolate dalla legge; l’adozione di sistemi elettorali di tipo proporzionale, in alternativa a sistemi forzosamente bipolari che rischiano sempre di semplificare e verticalizzare la rappresentanza; l’introduzione già ricordata di istituzioni indipendenti di garanzia secondaria, competenti su tutte le questioni elettorali, dal controllo sui finanziamenti dei partiti a quello sulla regolarità delle elezioni, sulle incompatibilità e sulle cause di ineleggibilità. La seconda coppia di separazioni tra poteri a garanzia dei diritti imposta dal costituzionalismo garantista è quella interna alla sfera pubblica, tuttora organizzata secondo il classico modello della tripartizione formulata da Montesquieu. Di questa tripartizione, il modello garantista del costituzionalismo suggerisce un ripensamento e una riformulazione. Di fronte allo sviluppo delle funzioni pubbliche richiesto dalla stipulazione costituzionale dei diritti fondamentali e in particolare dei diritti sociali, quel modello dovrebbe infatti essere aggiornato ben al di là della separazione settecentesca del potere giudiziario dal potere legislativo e da quello esecutivo. La distinzione e la separazione dovrebbero oggi essere operate, come ho più volte sostenuto, tra istituzioni di governo e istituzioni di garanzia: le prime investite delle funzioni politiche di scelta e di innovazione normativa in ordine alla “sfera del decidibile” e perciò legittimate dalla rappresentanza popolare; le seconde deputate alla garanzia dei diritti fondamentali, cioè della “sfera del non decidibile”, e perciò legittimate dall’applicazione della legge, sia ordinaria che costituzionale. Rientrano tra le istituzioni e le funzioni di governo sia il potere legislativo che il potere esecutivo, quest’ultimo non più affidato al sovrano, come nell’ancien régime, ma legittimato, in democrazia, dalla rappresentanza politica al pari del potere legislativo, al quale oltre tutto è vincolato, nei sistemi parlamentari, dal rapporto di fiducia che quindi non è di separazione, ma di condivisione del potere politico. Rientrano invece tra le istituzioni e le funzioni di garanzia non più soltanto le funzioni giurisdizionali, ma anche le funzioni amministrative deputate alla garanzia dei diritti in via primaria, come le istituzioni scolastiche, quelle sanitarie, quelle previdenziali e simili. La separazione dei pubblici poteri dovrebbe perciò articolarsi in due separazioni intra-istituzionali: in primo luogo quella tradizionale tra funzioni politiche di governo, sia esecutive

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che legislative, e funzioni giurisdizionali di garanzia secondaria; in secondo luogo, attraverso la scomposizione di quell’insieme di funzioni eterogenee che si sono accumulate in capo alla Pubblica Amministrazione, tra funzioni amministrative di governo, ausiliarie e perciò dipendenti dalle funzioni politiche, e funzioni amministrative di garanzia primaria dei diritti, che dovrebbero essere separate dalle prime e rese indipendenti non meno delle funzioni giurisdizionali di garanzia secondaria12. Questa riformulazione della separazione tra i pubblici poteri è a mio parere essenziale ai fini della fondazione della democrazia costituzionale. La struttura della sfera pubblica dello Stato, tuttora modellata sulla vecchia tripartizione di Montesquieu, ha incanalato l’intero sviluppo dello stato sociale e delle sue prestazioni entro gli apparati burocratici del potere esecutivo. La ragione di questo inquadramento è evidente: le funzioni di garanzia primaria dei diritti sociali – alla salute, all’istruzione, alla previdenza, alla sussistenza – ignote all’esperienza settecentesca, non potendo essere organizzate entro il potere legislativo o il potere giudiziario, si sono tutte collocate in quel grande e indistinto contenitore che è la Pubblica Amministrazione, alle dipendenze del potere esecutivo o di governo. Di qui le pratiche dello spoils system, delle lottizzazioni partitiche e dei condizionamenti politici delle istituzioni di garanzia primaria – la sanità pubblica, la scuola, gli istituti di previdenza e di assistenza – la cui legittimazione politica, al contrario, risiede non certo nel consenso delle contingenti maggioranze, ma nell’applicazione della legge a garanzia dei diritti di tutti. È in forza di questa diversa fonte di legittimazione, non maggioritaria ma garantista, che la separazione e l’indipendenza di queste istituzioni e funzioni di garanzia, che ho chiamato “primarie” perché deputate alla soddisfazione in via primaria dei correlativi diritti sociali, dovrebbero essere assicurate non meno della tradizionale separazione e indipendenza delle istituzioni e delle funzioni giurisdizionali, che ho chiamato invece “secondarie” perché interven-

12   Sulla distinzione tra funzioni e istituzioni di governo e funzioni e istituzioni di garanzia, e di queste ultime in funzioni e istituzioni di garanzia primaria e funzioni e istituzioni di garanzia secondaria, rinvio a: PiI, §§ 10.16-10.18, pp. 668-684, §§ 12.5-12.8, pp. 862-879; PiII, §§ 14.10-14.12, pp. 200-218; Poteri selvaggi cit., § 4.2, pp. 70-72.

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gono in caso di violazione delle garanzie primarie. Con le funzioni giurisdizionali di garanzia secondaria, le funzioni amministrative di garanzia primaria condividono infatti le medesime fonti di legittimazione: in primo luogo l’applicazione sostanziale delle norme di legge – delle norme costituzionali e delle loro leggi di attuazione – nelle quali si è già manifestata la volontà politica del legislatore; in secondo luogo, e conseguentemente, il carattere tendenzialmente cognitivo dei presupposti giuridici e fattuali del loro esercizio; in terzo luogo il loro ruolo di garanzia, che deve essere, virtualmente, anche contro le contingenti maggioranze politiche perché a tutela degli interessi dei singoli soggetti titolari dei diritti, al tempo stesso individuali e universali, da esse garantiti. Solo in questo modo, attraverso l’uguale e imparziale attuazione dei diritti fondamentali di tutti ad opera di istituzioni indipendenti di garanzia primaria, è possibile la trasformazione dell’odierno stato sociale burocratico, con tutte le sue inefficienze e perversioni clientelari, in uno stato sociale e costituzionale di diritto. È poi evidente che tutte queste separazioni – tra poteri economici e poteri politici, tra il potere sociale dei partiti e il potere politico delle istituzioni di governo, tra funzioni e istituzioni di governo e funzioni e istituzioni di garanzia, sia primaria che secondaria – varrebbero a contrastare quell’onnipotenza politica delle maggioranze nei confronti della società, funzionale alla loro impotenza rispetto all’onnipotenza economica dei mercati, che sta oggi minacciando la tenuta delle nostre democrazie. Non dimentichiamo il monito di Montesquieu sulla vocazione di chiunque abbia un potere “ad abusarne, procedendo fino a quando non trova dei limiti” e sulla necessità, “perché non si possa abusare del potere... che il potere freni il potere”13: precisamente, che i poteri e le funzioni di garanzia frenino i poteri di governo, in attuazione dei limiti e dei vincoli a questi imposti dai diritti costituzionalmente stipulati; che i poteri di governo frenino e disciplinino i poteri economici e finanziari, onde arginarne la naturale rapacità ed impedire che i primi siano subordinati ai secondi, anziché viceversa; che infine i poteri sociali e culturali frenino e siano perciò a loro volta separati dai poteri politici di governo, per evitare che i primi

  Montesquieu, Lo spirito delle leggi cit., II, lib. XI, cap. 4, p. 274.

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siano controllati dai secondi, anziché viceversa. Giacché i poteri tendono naturalmente a confondersi: dai loro conflitti infatti, in mancanza di limiti e regole, può solo conseguire la sopraffazione dell’uno sull’altro e perciò la loro confusione e concentrazione. Per questo è necessario che essi si limitino tra loro, per evitare che si accumulino e si concentrino. E questo è possibile soltanto sulla base della vecchia ricetta montesquieviana della separazione, applicata però a tutti i poteri, vecchi e nuovi, quale essenziale metagaranzia dell’effettività di tutti i diritti e dei limiti e dei vincoli nei quali consistono le loro garanzie. 5.4. Il rafforzamento in senso intensionale della dimensione sostanziale della democrazia costituzionale e i quattro postulati del modello MG: A) Il principio di stretta legalità  Il rafforzamento in senso intensionale della dimensione sostanziale della democrazia è tutt’uno con quello del paradigma costituzionale dello stato di diritto quale è stato qui ridefinito, nel § 2.1, con i quattro postulati del modello garantista MG. Sono perciò questi quattro postulati o principi che il costituzionalismo garantista richiede che siano in massimo grado attuati e garantiti. Il primo di questi postulati è il principio di legalità, in base al quale tutti i poteri, sia pubblici che privati, devono essere sottoposti alla legge. Si è già detto nel § 5.2 dell’espansione di tale principio richiesta dal paradigma costituzionale nei confronti dei poteri economici privati e di quelli sovranazionali e del percorso inverso che tale espansione comporta rispetto a quello compiuto dal costituzionalismo statale: non già il completamento costituzionale del paradigma legislativo, bensì il completamento e l’attuazione legislativa di quell’embrione di costituzione del mondo già apprestato dalle tante carte internazionali dei diritti. Ma il principio di legalità, come si è visto nel § 4.4, è oggi in crisi anche a livello statale a causa di molteplici fattori, il più vistoso dei quali è il carattere alluvionale, confuso, impreciso, contorto e talora contradditorio e addirittura incomprensibile della legislazione che ne vanifica, perfino in materia penale dove massima è l’esigenza della certezza, la capacità regolativa e perciò il ruolo di limite e vincolo all’esercizio dei pubblici poteri. Contro questa deriva, che è al tempo stesso un prodotto e un ulteriore fattore di crisi delle capacità di governo della politica, si

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richiede una radicale rifondazione della legalità ordinaria, diretta a ristabilire quella “dignità della legislazione” oggi lesa, ben più che dai limiti e dai vincoli costituzionali e dal controllo giurisdizionale di costituzionalità, dalla sregolatezza e dalle involuzioni provocate proprio dalla pretesa di illimitatezza del potere legislativo, secondo il vecchio modello del governo degli uomini anziché delle leggi. Una tale rifondazione può perciò avvenire solo attraverso la soggezione della stessa legislazione a una meta-norma, il principio di stretta legalità, che vincoli il legislatore alla massima chiarezza e semplicità e a un rigoroso principio di economia. Questo principio è di per sé un principio formale, che condiziona la validità della legge, come si è detto nel § 2.1, alla conformità delle sue forme e alla coerenza dei suoi contenuti con le norme costituzionali, formali e sostanziali, sulla sua produzione. Ebbene, il guasto del linguaggio legale è oggi giunto al punto da rendere necessaria l’introduzione, tra le norme costituzionali sostanziali, di una specifica meta-norma sulla tassatività e determinatezza semantica del linguaggio legale contro le sue disfunzioni illustrate alla fine del § 4.4. In ogni caso, al di là della sua auspicabile previsione costituzionale, tale meta-norma altro non è che un principio razionale di grammatica giuridica, dal cui rispetto dipende la stessa capacità regolativa della legislazione. La legalità, infatti, è tanto più vincolante quanto più è essa stessa vincolata. È questo l’apparente paradosso garantista del principio di legalità. In tanto la legge può vincolare i giudici all’applicazione dei suoi contenuti normativi, in quanto questi contenuti siano a loro volta vincolati alla massima precisione e determinatezza. In tanto la legislazione, e perciò la politica, possono assicurare la separazione dei poteri e la soggezione dei giudici alla legge, e realizzare quindi la prerogativa costituzionale e democratica della riserva assoluta di legge, in quanto la legge medesima sia subordinata a sua volta al diritto, ossia alle garanzie idonee a limitare e a vincolare la giurisdizione mediante i vincoli della precisione e della tassatività imposti alla legislazione. La questione è di particolare importanza nel diritto penale, dove l’inflazione legislativa sta portando al collasso, almeno in Italia, la garanzia del principio di legalità. Un efficace correttivo contro questa deriva sarebbe il rafforzamento di tale principio attraverso la trasformazione della semplice riserva di legge in una riserva di codice; inteso con questa espressione il principio, da introdursi tra

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le norme costituzionali, secondo cui nessuna norma può essere prodotta in materia di reati, di pene e di processi penali se non attraverso una modifica o un’integrazione, da approvarsi con procedura aggravata, del testo del codice penale o processuale14. Non si tratterebbe semplicemente di una riforma dei codici. Si tratterebbe bensì di una ricodificazione dell’intero diritto penale sulla base di una meta-garanzia contro l’abuso della legislazione speciale, idonea a porre fine al caos esistente, a rendere più facilmente conoscibili le norme penali e a mettere i codici – concepiti dalla cultura illuministica come sistemi normativi relativamente semplici e chiari a tutela delle libertà dei cittadini contro l’arbitrio dei giudici – al riparo dall’arbitrio e dalla volubilità anche del legislatore. Il codice penale e quello di procedura diverrebbero testi normativi esaustivi e insieme esclusivi dell’intera materia penale, della cui coerenza e sistematicità il legislatore dovrebbe ogni volta farsi carico. Ne verrebbe accresciuta la capacità regolativa del diritto, tanto nei confronti dei cittadini quanto nei confronti dei giudici. La drastica depenalizzazione che ne seguirebbe – a cominciare da quel diritto penale cartaceo e burocratico che è formato dalla congerie dei reati oggi puniti come contravvenzioni o con semplici pene pecuniarie – sarebbe largamente compensata dall’aumento della certezza, dell’effettività e del tasso di garantismo dell’insieme. Non solo. Il principio di stretta legalità, in forza del quale la validità della legge è condizionata alla coerenza con norme ad essa sopraordinate, consente di sostanziare la stessa tassatività e determinatezza del linguaggio penale ancorandolo alle altre garanzie, relative agli elementi empirici costitutivi del reato: la materialità dell’azione, l’offensività dell’evento e la colpevolezza dell’autore. Più in generale, sarebbe oggi opportuno lo sviluppo di una scienza della legislazione, quale fu progettata da Gaetano Filangieri e da Jeremy Bentham, che sia in grado di fornire una tecnica legislativa preclusiva delle leggi-provvedimento e, soprattutto, capace di ridurre quanto più possibile la vaghezza, le incoerenze, le oscurità, la prolissità, i labirinti normativi e la deriva inflazionista 14   Ho proposto l’introduzione di questo principio in: La pena in una società democratica, in «Questione giustizia», 3-4, 1996, pp. 537-538; Sulla crisi della legalità penale. Una proposta: la riserva di codice, in «Democrazia e diritto», 2, 2001, p. 67; PiII, § 15.16, pp. 388-391.

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che sta alla base dell’odierna crisi della legge. Solo la rifondazione della legalità come stretta legalità e tassatività è infatti in grado di garantire il carattere tendenzialmente cognitivo dell’applicazione della legge e così di restaurare un corretto rapporto tra giurisdizione e legislazione sulla base di una rigida actio finium regundorum. E il fatto che anche questa sia una vecchia ricetta illuministica non toglie ad essa valore. Il fatto che il principio della chiarezza e determinatezza delle leggi fosse valido due secoli fa, quando la codificazione rese possibile il passaggio dall’arbitrio dei giudici del vecchio diritto giurisprudenziale allo stato legislativo di diritto, non lo rende meno valido oggi che la legalità, che proprio le costituzioni dovrebbero disciplinare, è degenerata al punto da far regredire i nostri ordinamenti giuridici all’incertezza del diritto giurisprudenziale premoderno. 5.5. BA) Il principio di completezza e le garanzie primarie dei diritti di libertà. I beni illeciti  Ma l’espansione del paradigma costituzionale richiede soprattutto, in attuazione del principio di completezza deontica, l’introduzione o il rafforzamento delle garanzie primarie di tutte e quattro le classi di diritti – politici, civili, di libertà e sociali – nelle quali si articola l’odierna democrazia costituzionale. Ho già parlato, nel § 5.3, delle garanzie dei diritti politici e dei diritti civili di autonomia e delle corrispondenti dimensioni formali della democrazia per il tramite della separazione tra poteri istituzionali e poteri extra-istituzionali. Parlerò in questo paragrafo dell’introduzione e del rafforzamento delle garanzie dei diritti di libertà; poi, nel § 5.6, delle garanzie dei diritti sociali; infine, nel § 5.7, delle garanzie di quei beni vitali che sono oggetto di diritti fondamentali e che perciò chiamerò “beni fondamentali”. Il terreno privilegiato delle garanzie dei diritti di libertà resta ovviamente quello del diritto e del processo penale. Non parlerò del programma di rifondazione dell’intero sistema penale secondo il modello normativo che ho chiamato “diritto penale minimo”15. Mi limiterò a segnalare due riforme necessarie ed urgenti. La prima consiste nell’introduzione di rigide garanzie dell’habeas corpus

15   Si vedano: Il diritto penale minimo, in «Dei delitti e delle pene», 3, 1985, pp. 493-524; Diritto e ragione cit.; PiII, §§ 15.10-15.16, pp. 356-391.

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e della dignità della persona contro quella pratica abietta che è la tortura: dalla sua pratica in segreto nel corso degli interrogatori di polizia a quella esibita e preordinata quale mezzo di intimidazione e mortificazione, come è avvenuto sui detenuti nelle carceri americane di Guantanamo e di Abu Ghraib e, in Italia, nei confronti dei manifestanti illecitamente arrestati in occasione del G8 a Genova nel luglio 2001. Contro questa vergogna le garanzie sono essenzialmente due, l’una primaria e l’altra secondaria: in primo luogo il divieto che una persona arrestata sia interrogata da agenti di polizia anziché da magistrati e senza la costante presenza di un difensore16; in secondo luogo l’introduzione del crimine di tortura, la cui mancata previsione nell’ordinamento italiano è un’intollerabile lacuna, se non altro perché la tortura è il solo reato la cui punizione è espressamente imposta dalla costituzione, nel suo art. 13, c. 4, oltre che dalla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti del 10 dicembre 1984. La seconda riforma riguarda il sistema delle pene. Nelle carceri italiane, a causa del sovraffollamento (65.701 detenuti, alla data del 31.12.2012, in istituti penitenziari la cui capienza massima è di 47.040 persone), le condizioni di vita dei detenuti contraddicono vistosamente il principio costituzionale secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Ne sono una testimonianza atroce il crescente numero dei suicidi in carcere17. Una politica diretta ad attuare il

16   In Italia l’interrogatorio di polizia senza la presenza del difensore fu soppresso dalla l. n. 932 del 15.12.1969 a seguito della pronuncia di incostituzionalità del 5.7.1968, poi reintrodotto dall’art. 5 del d.l. n. 59 del 21.3.1978 e codificato dall’art. 350 del codice di procedura del 1989 che nel c. 5 lo ha ammesso “sul luogo o nell’immediatezza del fatto”. 17   Nel 2011 i suicidi sono stati 66, su una popolazione carceraria di 67.224, dunque uno su mille. Ma il dato più impressionante è che il tasso di suicidi è aumentato del 300% dagli anni Sessanta a oggi. Nel decennio tra il 2000 e il 2009 i suicidi nelle carceri italiane sono stati 568, mentre nel decennio 1960-1969 sono stati solo 100 con una popolazione detenuta che era circa la metà dell’attuale. Sul sovraffollamento delle carceri in Italia, si vedano F. Cascini, Il carcere. I numeri, i dati, le prospettive, in «Questione giustizia», 2010, n. 1, pp. 50-59 e E. Sommario, Il sovraffollamento delle carceri italiane e gli organi internazionali per il rispetto dei diritti umani, ivi, 2012, n. 5, pp. 33-42, che riferisce della sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo che il 16 luglio 2009 ha condannato l’Italia, nel caso Sulejmanovic, per aver violato, con l’eccessivo sovraffollamento, il divieto di

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divieto costituzionale di trattamenti disumani e insieme a ridurre la pena alla “minima delle possibili”, secondo l’insegnamento di Beccaria18, dovrebbe quindi adottare talune semplici misure: abolire la vergogna dell’ergastolo, ancora presente in Italia; abbassare la durata massima delle pene detentive ai livelli europei, cioè a 20 o 15 anni al massimo19; limitare la pena carceraria ai soli delitti più gravi; prevedere per gli altri delitti pene più lievi, trasformando in pene edittali, irrogate direttamente dal giudice, le attuali misure alternative – come la sorveglianza speciale, la semilibertà, l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare – oggi irrogate, di fatto discrezionalmente, in sede di esecuzione della pena; limitare drasticamente il potere di ordinare la custodia cautelare; abrogare infine le leggi più inique e irragionevoli, come le norme in materia di droga, cui si deve una parte rilevante dell’attuale carcerazione penale e che hanno il solo, criminogeno effetto di consegnare al monopolio criminale il mercato delle sostanze stupefacenti. C’è poi una misura, all’apparenza singolare, che consentirebbe una riduzione del sovraffollamento delle nostre carceri: la previsione di una sorta di “numero chiuso”, in base al quale periodi-

trattamenti disumani e degradanti stabilito dall’art. 3 della Cedu. Ma il sovraffollamento e il conseguente peggioramento delle condizioni di vita dei detenuti non sono fenomeni solo italiani. Anche in Europa la popolazione carceraria è quasi dappertutto raddoppiata. Per non parlare del boom degli Stati Uniti, dove la popolazione carceraria è aumentata di sette volte negli ultimi 30 anni, passando da poco più di 350.000 alla fine degli anni Settanta (con un tasso stabile, tra il 1925 e il 1975, di circa 110 persone ogni 100.000 abitanti) agli oltre 2.300.000 del 2006 – il tasso di carcerazione più alto del mondo (un quarto della popolazione carceraria del mondo su un numero di abitanti che è meno del 5% della popolazione mondiale) – e dove il numero di persone in prigione o sottoposte ad altre forme di custodia è arrivato a 7.200.000: 1 americano su 32; 751 persone detenute ogni 100.000 abitanti (rispetto ai 627 in Russia, 151 nel Regno Unito, 88 in Germania e 63 in Giappone. I tassi di carcerazione negli Usa variano da Stato a Stato: circa 300 in Minnesota, quasi 1000 in Texas e 1138 in Louisiana (http://www.iht.com/ articles/2008/04/23/america/23prison.php). 18   Beccaria, Dei delitti e delle pene cit., XLVII, p. 104. 19   Venti anni è il limite massimo della reclusione in Francia (artt. 18 e 19 c.p.), in Belgio (art. 16), in Svizzera (art. 35), in Austria (art. 18), in Norvegia (art. 17), in Grecia (artt. 52 e 54) e in Lussemburgo (art. 16); quindici anni in Germania (artt. 14 e 17), in Ungheria (art. 32) e in Polonia (art. 39); addirittura dodici e dieci anni in Finlandia (cap. 2, § 1) e in Svezia (cap. 26, § 1).

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camente – supponiamo di anno in anno – i detenuti che devono ancora scontare pene o residui di pena detentiva di minore durata dovrebbero essere destinati, nel numero che eccede la capienza delle nostre istituzioni carcerarie, a misure alternative alla pena, come la libertà vigilata o gli arresti domiciliari. Si tratterebbe di una misura doppiamente razionale: una sorta di indulto automatico che porrebbe fine al trattamento disumano di tutti i detenuti e, per di più, varrebbe a condonare le detenzioni brevi o brevissime che, come è documentato da tutte le ricerche criminologiche, non hanno nessun senso punitivo né funzione preventiva. Ma si tratterebbe, soprattutto, della sola misura in grado di rendere compatibili il trattamento carcerario con il principio della dignità della persona e con il divieto di trattamenti punitivi contrari al senso di umanità stabiliti dagli artt. 3 e 27 cost.20. 20   È stato proprio sulla base di questi due principi – la dignità della persona e il divieto di punizioni disumane – che in Germania e negli Stati Uniti è stata ordinata dai giudici la liberazione di detenuti il cui trattamento è stato ritenuto con essi in contrasto. La sentenza del 22.2.2011 della C. cost. tedesca, richiamando un’analoga pronuncia della Corte federale di giustizia dell’11.3.2010, ha dichiarato incompatibili le condizioni disumane della detenzione di un cittadino con il principio della dignità della persona – da essa ritenuto non bilanciabile con nessun altro perché stabilito come inderogabile dagli artt. 1 e 79, c. 3, della Legge fondamentale tedesca – e ha perciò ordinato l’interruzione della relativa esecuzione penale. Ancor più radicale è stata la sentenza dell’8.4.2009 della Corte federale della California, che, avendo ritenuto che le condizioni disumane dei detenuti determinate dall’eccessivo sovraffollamento erano incompatibili con il divieto di pene crudeli e non strettamente necessarie stabilito dall’ottavo emendamento della Costituzione, ha ordinato la liberazione di oltre 40.000 detenuti. Non solo. La Corte suprema degli Stati Uniti, con la sentenza del 23.5.2011, ha confermato la liberazione di ben 46.000 detenuti disposta dalla Corte della California, a causa delle loro condizioni disumane di vita causate dal sovraffollamento. Si vedano: il commento e la traduzione di queste due ultime sentenze ad opera di G. Salvi, Ridurre la popolazione carceraria è un dovere giuridico (leggendo ‘Three Judges Court’ – California, 8 aprile 2009), in «Questione giustizia», 5, 2009, pp. 122-150; Id., “La questione non permette questo torto”: la Corte suprema degli Stati Uniti e il sovraffollamento carcerario, ivi, 2011, n. 6, pp. 205-229. Cfr. anche G. Grande, La Corte suprema degli Stati Uniti e l’ordine alla California di ridurre il numero dei prigionieri, in «Antigone», 2/3, 2011, pp. 13-25. Sulla proposta del numero chiuso, si vedano inoltre: G. Palombarini, C. Renoldi, Una consapevole provocazione: pena detentiva e numero chiuso, in «Questione giustizia», 5, 2006, pp. 929-944; F. Della Casa, Il meccanismo del ‘numerus clausus’ tra parziali legittimazioni e drastiche bocciature, ivi, pp. 26-44; S. Anastasia, Metamorfosi penitenziarie. Carcere, pena e mutamento sociale, Ediesse, Roma 2012, pp. 120-124.

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D’altro canto le classiche garanzie primarie delle libertà fondamentali si stanno rivelando largamente inidonee a mettere tali diritti al riparo dalle vecchie e nuove insidie e aggressioni che ad essi provengono, oltre che dai poteri pubblici, anche dai poteri privati. Segnalerò, in particolare, due ordini di limiti – l’uno alle invadenze delle gerarchie religiose, l’altro al mercato dell’informazione – che un costituzionalismo liberale di diritto privato dovrebbe imporre a tali poteri. In primo luogo si richiede la garanzia dell’autodeterminazione della persona, oltre che della laicità del diritto e dello Stato, contro la pretesa dei poteri ecclesiastici che i loro precetti e valori morali, da essi assunti come oggettivi e come veri, siano imposti a tutti come norme di legge e sorretti da sanzioni o limitazioni o costrizioni giuridiche: in tema di autodeterminazione della maternità, di procreazione assistita, di tutela dei diritti delle coppie di fatto, di dignità della persona contro accanimenti terapeutici e simili. Le religioni al potere, equivalendo alla verità al potere, sono sempre, come detto nel § 3.3 e come attestano tutti i fondamentalismi religiosi vecchi e nuovi, una minaccia alla tolleranza e perciò al paradigma liberale della democrazia costituzionale. In secondo luogo le classiche libertà di stampa e di manifestazione del pensiero impongono oggi la difesa del pluralismo dell’informazione attraverso il divieto di possedere più di una testata giornalistica o televisiva e, soprattutto – essendo la libertà di informazione un diritto fondamentale costituzionalmente stabilito, e non una variabile dipendente del mercato e della libera concorrenza –, garanzie idonee ad assicurare la necessaria separazione e indipendenza dei giornalisti e delle loro redazioni anche dalla proprietà delle testate21. È questa una delle implicazioni di maggior rilievo della distinzione tra libertà fondamentali, diritti civili di autonomia imprenditoriale e diritti di proprietà che sopra ho posto alla base di un costituzionalismo garantista allargato al diritto privato. C’è infine un’altra fondamentale garanzia delle libertà negative di immunità, e precisamente del diritto alla vita, che la grammatica del costituzionalismo garantista impone di introdurre quale limite ai diritti civili e alle leggi del mercato: la qualificazione come beni

21   Per un’illustrazione più diffusa e argomentata, rinvio a: PiII, §§ 15.7, 15.22, pp. 336-344, 419-427; Poteri selvaggi cit., §§ 2.4, 3.4, 4.4, pp. 36-39, 55-57, 75-81.

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illeciti22 delle armi e il divieto, a garanzia dell’immunità da lesioni e uccisioni, della loro produzione, del loro commercio e della loro detenzione. È questa una questione di fondo, che va ben al di là delle stesse garanzie dei diritti vitali di libertà. Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile si fonda, come insegnò Thomas Hobbes, sul disarmo dei consociati e sul monopolio statale della forza. La produzione, il commercio e la detenzione di armi sono perciò il segno di una non compiuta civilizzazione della società. Le armi servono solo ad uccidere: ad alimentare la criminalità e le guerre. Non si spiega perciò, se non con i pesanti condizionamenti esercitati sulla politica dalle lobbies delle fabbriche di armi, perché esse non siano messe al bando come beni illeciti – ne cives ad arma veniant – almeno come le droghe. Il loro carattere criminogeno è rivelato dal confronto tra il numero degli omicidi nei paesi in cui le armi sono liberamente accessibili sul mercato e quello nei paesi nei quali la loro detenzione è rigidamente disciplinata. Nel 2010 ci sono stati nel mondo ben 468.000 omicidi, dei quali il 31% nei paesi delle Americhe, in molti dei quali esiste il libero commercio delle armi, con una media di 1516 persone uccise ogni 100.000 abitanti, più del doppio della media globale che è di 6,9 persone, e dodici volte più che in Italia, dove il medesimo tasso è dell’1,2, e più in generale in Europa, grazie al ben più rigido controllo delle armi23. Anche sul piano internazionale, d’altro canto, il divieto della guerra nella Carta dell’Onu richiederebbe il progressivo passaggio dallo stato selvaggio di natura allo stato civile, attraverso l’affermazione del monopolio giuridico della forza in capo all’Onu, e perciò la messa al bando delle armi da guerra, e in particolare delle armi nucleari, e lo scioglimento degli eserciti nazionali. Questa attuazione dell’ideale kantiano della pace porrebbe fine alla quarta e alla quinta delle emergenze globali elencate nel § 4.7, tanto più gravi ed urgenti a causa della possibilità, di cui allora si è detto, che interi arsenali di 22   Sul concetto di ‘beni illeciti’ cfr. PiI, D11.33, § 11.11, pp. 784-785 e PiII, § 16.9, pp. 521-527. 23   In termini assoluti, gli omicidi sono stati 15.241 negli Stati Uniti nel 2011, 20.585 in Messico nel 2010, 43.909 in Brasile nel 2009 e 13.985 in Venezuela nello stesso anno, contro i 590 in Italia nel 2009; con un tasso per ogni 100.000 residenti di 5 negli Stati Uniti, di 18,1 in Messico, di 49 in Venezuela e di appena 1 in Italia (in UNDOC, 2011 Global Study on Homicide. Trends, Contexts, Data, Vienna 2011, pp. 93-95).

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armi di distruzione di massa cadano nelle mani di bande criminali o terroristiche. È inutile dire che il principale ostacolo a una simile prospettiva, cioè al divieto delle armi quale garanzia primaria del diritto alla vita e della pace, è rappresentato, di nuovo, dagli interessi dei fabbricanti e dei commercianti di armi. Il volume della spesa militare a loro esclusivo beneficio ha infatti raggiunto nel 2011 la cifra di 1740 miliardi di dollari, pari al 2,6% del Pil mondiale: una cifra che oltre tutto pesa sull’attuale crisi economica e che è di fatto sostenuta da quanti hanno visto da essa ridotte le garanzie dei loro diritti sociali24. 5.6. BB) Il principio di completezza e le garanzie primarie dei diritti sociali. Il diritto a un reddito di base. Per un welfare dei diritti Sono soprattutto l’assenza o la debolezza delle garanzie dei diritti sociali – alla salute, all’istruzione e alla sussistenza – i problemi più gravi e drammatici generati dalla violazione del principio di completezza. È infatti nella mancanza di adeguate leggi di attuazione di tali diritti, pur costituzionalmente stabiliti, che risiede oggi il principale difetto di legittimità costituzionale dei nostri ordinamenti. L’assenza di garanzie dei diritti sociali è pressoché totale nel diritto internazionale, e questa carenza è responsabile delle catastrofi umanitarie ricordate nel precedente capitolo. Ma mancano o sono comunque inadeguate, anche in molti ordinamenti statali, le garanzie primarie di molti diritti sociali e le tecniche giuridiche idonee a costringere i pubblici poteri ad introdurle. Mancano perfino, in molti casi, le tecniche garantiste in grado di impedire lo smantellamento, provocato in Italia e in molti altri paesi occidentali dalla crisi economica, di molte delle garanzie sociali esistenti.

24   S. Andreis, Le spese militari nel mondo, in Economia a mano armata cit., p. 81. Ben il 43% di questa spesa, pari a 698 miliardi di dollari, viene sostenuta dagli Stati Uniti. Seguono la Cina (119 miliardi di dollari), il Regno Unito e la Francia (59,3 miliardi), la Russia (58,7 miliardi), il Giappone (54,5 miliardi), l’Arabia Saudita e la Germania (45,2 miliardi), l’India (41,3 miliardi) e l’Italia (37 miliardi): ivi, p. 83. Sulle spese militari in Italia, progressivamente cresciute dal 1948 ad oggi, si vedano: G. Marcon, Crisi economica, la spesa pubblica e quella militare, in Economia a mano armata cit., pp. 6-13; L. Nascia, M. Pianta, La spesa militare in Italia, 1948-2008, ivi, pp. 14-39; M. Paolicelli, Le spese militari italiane nel 2012, ivi, pp. 40-48. Si veda anche V. Comito, Le armi come impresa. Il business militare e il caso Finmeccanica, Edizioni dell’Asino, Roma 2009.

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L’argomento avanzato di solito a sostegno della mancanza o dell’ineffettività di tali garanzie è il loro costo economico. È questo un luogo comune che deve essere sfatato e ribaltato. I sistemi politici non sono società commerciali a fini di lucro. Le finalità da cui traggono legittimazione democratica sono la garanzia dei principi di uguaglianza e dignità delle persone e dei diritti fondamentali stabiliti nelle costituzioni. Non solo. Se è vero che le garanzie dei diritti sociali costano, è anche vero che costa assai più lo stato di indigenza provocato dalla loro mancanza. Esiste infatti un nesso tra lo sviluppo economico e le garanzie dei diritti alla salute, all’istruzione e alla sussistenza, dalle quali dipendono non solo il benessere e la qualità della vita ma anche le capacità produttive delle persone. Le spese sociali necessarie alla garanzia di tali diritti non sono soltanto, perciò, fine a se stesse, ma rappresentano anche gli investimenti economici primari, dato che da esse dipende lo sviluppo della produttività, sia individuale che collettiva. Ne è prova la maggiore ricchezza dei paesi nei quali, come in Europa, è stato costruito lo stato sociale e sono state assicurate, almeno fino a ieri, le garanzie dei diritti sociali e del lavoro, rispetto da un lato ai paesi poveri e privi di altrettante tutele e, dall’altro, rispetto al loro stesso passato. Ma ne è prova la stessa recessione che affligge i nostri paesi, provocata dai tagli alla spesa pubblica, dalla riduzione dell’occupazione e dalla crescita delle disuguaglianze seguiti alle misure messe in atto, con gli esiti fallimentari di cui sopra si è detto, per fronteggiare la crisi economica. In Italia il boom economico avvenne insieme alla costruzione delle garanzie dei diritti dei lavoratori, all’introduzione del servizio sanitario nazionale e allo sviluppo dell’istruzione superiore e universitaria. La crisi recessiva è iniziata quando sono stati tagliati i finanziamenti della scuola, è stata ridotta la sanità pubblica e il diritto del lavoro è stato demolito. Precarietà e mancanza del lavoro, impoverimento di massa e assenza di garanzie di sussistenza generano infatti insicurezza, panico sociale, frustrazioni, dissipazioni di competenze e di talenti, rivolte antipolitiche, illegalismo diffuso e crescita della criminalità, cioè altrettanti fattori, oltre tutto, di recessione e riduzione della ricchezza. D’altro canto, nelle società odierne sopravvivere è sempre meno un fatto naturale, affidato alla libera iniziativa e alla volontà di lavorare, e sempre più un fatto sociale, dipendente dall’integrazione

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dell’individuo nel tessuto delle relazioni economiche e sociali25. Diversamente dalle società primitive, nelle quali la sopravvivenza era assicurata da un rapporto diretto con la natura, nella società capitalistica, e più che mai nell’odierna economia globalizzata, si è rotto irreversibilmente il rapporto tra sopravvivenza e occupazione teorizzato da Locke all’origine dell’età moderna26. Oggi, come mostrano i flussi migratori e la crescita della disoccupazione giovanile, quel nesso tra lavoro, proprietà e sopravvivenza che forma il principale postulato ideologico del capitalismo si è rotto in maniera irreversibile: non basta più la volontà di lavorare per ottenere un’occupazione. Di qui la stipulazione nelle odierne costituzioni, quali clausole fondamentali del patto di convivenza, dei diritti sociali positivi a prestazioni vitali, in aggiunta al diritto negativo alla vita da lesioni altrui. Di qui, in particolare, la necessità impellente, maturata in questi anni con la crescita della precarietà del lavoro e della disoccupazione, dell’introduzione, in aggiunta alla garanzia dei diritti sociali alla salute e

25   “L’uomo civilizzato”, scriveva già Tocqueville, “è infinitamente più esposto alle vicissitudini del destino dell’uomo di oggi”: A. de Tocqueville, Mémoires sur le paupérisme (1838), in Id., Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1989, tomo XVI, Mélanges. 26   Si ricordi la lunga argomentazione sviluppata da Locke, Due trattati sul governo cit., cap. V, a sostegno del nesso tra sopravvivenza, lavoro e proprietà. “La ragione naturale”, egli scrive, “ci dice che gli uomini, una volta nati, hanno diritto alla loro conservazione, e per conseguenza a mangiare e bere”: ivi, § 25, p. 258. Questo diritto è soddisfatto dalla proprietà, che a sua volta è frutto del lavoro: “Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, pure ognuno ha la proprietà della propria persona” e del proprio lavoro, con il quale “ha congiunto” a “tutte quelle cose che egli trae dallo stato di natura [...] qualcosa che gli è proprio, e con ciò le rende proprietà sua”: ivi, § 27, pp. 260261. Ne consegue che “quanta terra un uomo lavori, semini, bonifichi e coltivi, usandone il prodotto, tanta è proprietà sua. Egli, col suo lavoro, la recinge, per così dire, sostituendosi alla proprietà comune [...]. Né questa appropriazione di una porzione di terra in base alla coltivazione di essa torna a pregiudizio per altri, poiché ne rimane sempre abbastanza buona, e più di quanta possa servire a chi ne è sprovvisto”: ivi, §§ 32-33, pp. 263-264. Infatti, “la misura della proprietà è stata dalla natura ben stabilita in base all’entità del lavoro dell’uomo e dei comodi della vita: non c’è lavoro umano che possa sottomettere o appropriarsi di tutto, né fruizione che possa consumare più che una piccola parte, così ch’è impossibile che un uomo per questa via invada il diritto di un altro”, essendo sempre possibile, per quest’ultimo, emigrare “in qualche parte interna e deserta dell’America [...] poiché vi è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio degli abitanti”: ivi, § 36, pp. 266-267.

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all’istruzione, di un reddito minimo sociale ex lege, quale garanzia di quello che giustamente è stato chiamato il “diritto all’esistenza”27. Naturalmente il diritto al lavoro, quale è previsto dall’art. 4 cost., impone che sia perseguita la piena o quanto meno la massima occupazione. E a tal fine vanno ristabilite tutte le garanzie dei diritti dei lavoratori, a cominciare dal diritto alla stabilità del rapporto di lavoro, assicurata da un lato dalla regola del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e, dall’altro, dal divieto di licenziamenti senza giusta causa: due principi equivalenti a due metagaranzie – veri e propri diritti ad avere diritti – che le attuali politiche di deregolazione del mercato del lavoro hanno di fatto dissolto insieme, di fatto, all’intero diritto del lavoro edificato da un secolo di lotte operaie e sindacali. Dobbiamo però prendere atto che la disoccupazione è in crescita in tutto il mondo; che essa è ormai un fenomeno di massa, non più contingente ma strutturale; che la piena occupazione è un obiettivo irraggiungibile e in ogni caso non raggiunto; e che perciò la garanzia di un reddito di base rappresenta una condizione essenziale della vita, della democrazia e del patto di convivenza civile. Di questa garanzia esistono molti modelli, diversi quanto ai presupposti, alla misura e all’estensione. Sul piano concettuale, tuttavia, se ne possono distinguere soprattutto due tipi: il reddito minimo garantito ai soli bisognosi, previo accertamento della mancanza di un reddito sufficiente e/o di altre condizioni, e quello invece conferito a tutti, come oggetto di un diritto fondamen-

27   G. Bronzini, Il reddito di cittadinanza. Una proposta per l’Italia e per l’Europa, Gruppo Abele, Torino 2011, pp. 35 sgg.; Rodotà, Il diritto di avere diritti cit., cap. IX, pp. 232-249. Cfr. anche PiII, § 15.19, pp. 404-409. Si ricordino, inoltre, dell’ampia letteratura sul reddito sociale di cittadinanza: R. Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, trad. di M. Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 135-147, 156; G. Standing, Un reddito di cittadinanza per gli europei, in «Politica e economia», 11, 1988; P. van Parijs (a cura di), Arguing for Basic Income. Ethical Foundations for a Radical Reform, Verso, London 1992; Id., Il basic income e i due dilemmi del welfare state, in «Filosofia e questioni pubbliche», 2, 2000; A. Caillé et al., La democrazia del reddito universale, Manifestolibri, Roma 1997; C. Del Bo, Un reddito per tutti. Un’introduzione al basic income, Ibis, Como-Pavia 2004; Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’era globale, a cura del Bin Italia, Manifestolibri, Roma 2009; M.R. Marella, Il reddito di base nel quadro costituzionale europeo, http://www.bin-italia.org/article.php?id=1587; F. Mastromartino, Basic Income. Argomenti per una società più equa, in «Progetto Lavoro», 16, nov.-dic. 2012, pp. 25 sgg.

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tale e perciò universale. Il primo modello è quello più largamente sperimentato in Europa e più volte raccomandato dall’Unione agli Stati membri28. È anche quello previsto dall’art. 38 della Costituzione italiana, che attribuisce ai lavoratori “il diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita”, non solo “in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia”, ma anche nel caso, per il quale tale diritto è rimasto inattuato, di “disoccupazione involontaria”.

28   Per una rassegna delle varie forme di reddito garantito introdotte nei diversi paesi europei – in particolare in Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Olanda e Regno Unito – si veda da ultimo Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile, a cura del Bin Italia, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2012, cap. II, pp. 55-76. La misura del reddito è ovviamente diversa da paese a paese: massima in Danimarca e Lussemburgo (1325 e 1146 euro), minima in Polonia e Bulgaria (102 e 24 euro) (ivi, p. 58). L’Italia è il solo paese, insieme alla Grecia, che a livello nazionale non conosce questo istituto, fatto oggetto di molteplici proposte (e da ultimo di una proposta di legge di iniziativa popolare che lo ha previsto nella misura di 600 euro mensili) ma finora introdotto solo da talune leggi regionali: ivi, cap. III, pp. 103-136, cap. IV, pp. 160-180, cap. V, pp. 186 sgg. Eppure il reddito minimo garantito trova un solido fondamento giuridico, oltre che negli artt. 38 e 39 cpv. della Costituzione italiana, in numerose norme dell’ordinamento dell’Unione Europea: nell’art. 34, c. 3, della Carta di Nizza, che prevede “il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”; nel Trattato sul funzionamento dell’Unione, cui l’art. 153 impone la “lotta contro l’esclusione sociale” (lett. j) e l’“integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro” (lett. h); nell’art. 10, c. 2, della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, che stabilisce che “le persone escluse dal mercato del lavoro, o perché non hanno potuto accedervi o perché non hanno potuto reinserirvisi e che sono privi di mezzi di sostentamento devono poter beneficiare di prestazioni e di risorse sufficienti adeguate alla loro situazione personale”. Si ricordino inoltre la Raccomandazione del Consiglio europeo n. 441 del 1992 sul “diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana”; la Risoluzione del Parlamento europeo del 9.10.2008 sulla promozione dell’inclusione sociale e la lotta contro la povertà, che ha invitato gli Stati membri a introdurre “meccanismi di reddito garantito” idonei ad assicurare a tutti “un reddito sufficiente che permetta di condurre una vita dignitosa”; la Risoluzione del 20.10.2010, anch’essa del Parlamento europeo, sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e nella promozione di una società inclusiva in Europa. Infine il diritto a un reddito di base trova un fondamento di diritto internazionale nell’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, che stabilisce “che ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia” e che è ripreso quasi alla lettera dall’art. 11 dei Patti sui diritti economici del 1966.

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Il secondo modello è quello ben più radicale del reddito di base incondizionato, garantito ex lege, dalla maggiore età in poi, in forma universale e generalizzata e recuperabile dai soggetti abbienti attraverso un prelievo fiscale basato, come si dirà più oltre, su una progressività ben maggiore di quella attuale. È evidente la sua enorme portata innovativa, che farebbe del reddito di base una garanzia in grado di cambiare la natura dello stato sociale e di accrescere la qualità non solo della democrazia, ma anche della vita e del lavoro. Sotto più aspetti: perché tale modello è quello che meglio si accorda con l’universalismo dei diritti fondamentali; perché esso esclude ogni connotazione caritatevole e quindi lo stigma sociale e la conseguente lesione della dignità della persona connessi, come nel primo modello, a un’indennità legata al non lavoro e alla povertà; perché meglio si concilia con le odierne forme flessibili del lavoro, sottraendo i lavoratori al ricatto del non lavoro e liberando i soggetti più deboli, come i giovani e le donne, dai vincoli domestici; perché varrebbe a ridurre i costi economici, le inefficienze, le possibili iniquità, le discriminazioni e i favoritismi, ma anche le invadenze nella vita privata e le inevitabili limitazioni della libertà conseguenti alla pesante mediazione burocratica richiesta dall’accertamento dei diversi presupposti cui il reddito di base è nel primo modello condizionato. Ma soprattutto il reddito di base, tanto più se in forma universale, varrebbe a cambiare la qualità e la natura del lavoro. Non solo, infatti, esso non è in alternativa, secondo un pregiudizio diffuso nei partiti della sinistra e nei sindacati, alla garanzia del lavoro posto a fondamento della Repubblica dall’art. 1 cost., ma varrebbe al contrario ad esplicitare il valore democratico e liberale di quel fondamento. Il diritto a un reddito di base ha infatti una duplice natura. È innanzitutto, come è ovvio, un diritto sociale a una prestazione vitale da parte della sfera pubblica. Ma è anche un diritto civile di autodeterminazione e un diritto di libertà, dotato quindi di una duplice capacità liberatoria: quale fattore di liberazione del lavoro e, insieme, dal lavoro. In primo luogo, infatti, esso è una condizione elementare dell’autonomia contrattuale dei lavoratori e perciò della libertà del lavoro: una persona disoccupata e senza mezzi per sopravvivere è costretta ad accettare qualunque condizione di lavoro e magari a sottostare ai meccanismi clientelari e perfino mafiosi che governano

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il mercato del lavoro; e un lavoratore precario non può certo lottare per i propri diritti se il suo rapporto di lavoro può non essere rinnovato alla scadenza. Sotto questo aspetto il diritto a un reddito minimo è davvero un diritto ad avere diritti, che varrebbe a conferire forza negoziale al lavoratore, sottraendolo al carattere coercitivo e ricattatorio dell’offerta di lavoro, di qualsiasi lavoro come condizione della sussistenza. In secondo luogo, il diritto a un reddito di base è anche un diritto di libertà dal lavoro coatto e servile. Esso conferisce valore e dignità al lavoro sul quale deve fondarsi la Repubblica: che non è certo il lavoro come merce svalorizzabile a piacere dal capitale ed esposta al massimo sfruttamento, bensì il lavoro come frutto di una libera scelta, fattore di emancipazione della persona, espressione delle sue capacità, strumento di affermazione e realizzazione personale e sociale. È in questa valorizzazione del lavoro come autodeterminazione che risiede il carattere intrinsecamente liberale, oltre che sociale, del diritto a un reddito di base. Garantendo la sussistenza, tale diritto è anche un meta-diritto, che opera come condizione dell’effettività di tutti gli altri diritti dei lavoratori e perciò come presupposto di ogni società democratica. È insomma una misura a garanzia non solo della sussistenza di chi non ha lavoro, ma anche della dignità di chi lavora o cerca lavoro e a cui conferisce la forza necessaria a difendere i propri diritti, tanto da essere il più sicuro fattore di difesa del lavoro. Ne è prova il fatto che nei paesi nei quali il reddito minimo di base è garantito, i salari sono più alti e più inattaccabili sono le garanzie dei diritti dei lavoratori; mentre nei paesi come l’Italia che sono privi di tale garanzia i salari reali si sono abbassati e l’intero edificio garantista del diritto del lavoro è stato progressivamente demolito. Ma è l’intero sistema del welfare che potrebbe essere rifondato sul modello della garanzia del reddito di base universale, cioè attribuito a tutti e recuperato da chi dispone di altri redditi con il prelievo fiscale. Si tratta di un modello basato sulla correlazione tra il carattere universale (omnium) dei diritti sociali e il carattere assoluto delle loro garanzie (erga omnes)29. In base ad esso le fun29   Sulla correlazione biunivoca tra diritti universali, cioè omnium, come sono tutti i diritti fondamentali, e garanzie universali o meglio assolute, cioè erga omnes, si vedano i teoremi T10.178-T10.181 e T10.189-T10.191, T10.222-

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zioni di garanzia dei diritti sociali, da quelli all’istruzione a quelli alla salute e alla previdenza, andrebbero non solo assegnate, come si è detto nel § 5.3, a istituzioni di garanzia indipendenti, ma anche declinate, sulla base del carattere universale dei diritti garantiti, nella forma di obbligazioni nei confronti di tutti, e quindi ex lege. Ne risulterebbe un’enorme semplificazione dell’odierno stato sociale, nato e sviluppatosi attraverso l’espansione di quel grande contenitore che è la Pubblica Amministrazione: la trasformazione dell’attuale welfare burocratico, opaco, clientelare, assistenziale e paternalistico, basato su ampi spazi di discrezionalità politica e amministrativa, fonte di abusi, di sprechi e corruzione, in un welfare di diritto o dei diritti, basato sulla forma universale dei diritti e quindi sul carattere gratuito, semplificato, trasparente e ope legis delle relative prestazioni e sulla riduzione al minimo dei costi e degli abusi prodotti dall’intermediazione burocratica degli accertamenti e dei controlli. Può darsi che un simile welfare, come viene di solito obiettato, incentiverebbe in qualche caso il disimpegno individuale, l’inerzia e il parassitismo. Ma questo è un costo non diverso da quello che hanno tutte le garanzie. È comunque certo che nella maggior parte dei casi si produrrebbero una riduzione delle disuguaglianze e degli arbitri e un maggior senso civico, legato al maggior sentimento di appartenenza alla comunità politica. In questa prospettiva – quella di un welfare dei diritti sociali basato sulle loro garanzie sia primarie che secondarie – innovazioni di grande rilevanza provengono peraltro da quello che ben possiamo chiamare il “costituzionalismo di terza generazione”, sviluppatosi in taluni paesi dell’America Latina e in particolare in Brasile. Mi limito a ricordare l’obbligo in capo ai governi, introdotto dalla Costituzione brasiliana, di rispettare precisi “vincoli di bilancio”, intendendosi con questa espressione esattamente l’opposto del nostro vincolo (del pareggio) di bilancio: cioè l’obbligo di destinare quote minime della spesa pubblica alla soddisfazione dei diritti sociali e, in particolare, del diritto alla salute e del diritto all’istruzione30. Grazie a questa innovazione, la garanzia debole T10.223, T10.234-T10.235 e T11.101-T11.111. in PiI, §§ 10.14, 10.16, 11.9, pp. 655-661, 668-675, 772-776. 30   L’art. 212 della Costituzione brasiliana in materia di istruzione stabilisce

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del generico obbligo in capo al legislatore di introdurre, senza alcun vincolo quantitativo, leggi di attuazione dei diritti sociali si è trasformata nella garanzia forte dell’obbligo di destinare alla soddisfazione di tali diritti almeno determinate quote dei bilanci pubblici; con il risultato che sia la lacuna di simili leggi che la loro inadeguatezza, di per sé incensurabili in sede giudiziaria, si sono trasformate in antinomie, rilevabili e riparabili in tale sede, su iniziativa degli uffici del pubblico ministero, quali violazioni della costituzione. È poi evidente che qualunque rifondazione della dimensione sostanziale del paradigma costituzionale richiede oggi l’introduzione di una fiscalità realmente progressiva, in grado sia di finanziare le garanzie dei diritti sociali, sia di ridurre le enormi ricchezze che sono spesso il frutto di accumulazioni parassitarie quando non illegali e, soprattutto, sono di solito fonti di poteri privati impropri, idonei a condizionare la sfera pubblica. Il principio della progressività delle imposte è stabilito in quasi tutte le costituzioni,

che “l’Unione applicherà annualmente mai meno del 18%, e gli Stati, il Distretto federale e i Municipi mai meno del 25% del ricavato delle imposte [...] al mantenimento e allo sviluppo dell’insegnamento”. L’art. 198, §§ 2 e 3 in materia di salute stabilisce invece che “l’Unione, gli Stati, il Distretto federale e i Municipi utilizzeranno annualmente, per le azioni e i servizi sanitari pubblici, risorse minime derivanti dall’applicazione di percentuali calcolate, nel caso dell’Unione nella forma definita ai sensi della legge complementare prevista nel § 3”, cioè di una legge “che sarà rivista almeno ogni cinque anni” e che “stabilirà”, oltre alle percentuali suddette, “i criteri di rateizzazione delle risorse dell’Unione vincolate alla salute e destinate agli Stati, al Distretto federale e ai Municipi”. In assenza di tale legge l’art. 77, § 4 delle Disposizioni transitorie, prevedendo l’eventuale lacuna, stabilisce che “si applicherà all’Unione, al Distretto federale e ai Comuni quanto disposto” nei paragrafi precedenti, e cioè la destinazione delle risorse minime utilizzate nell’esercizio finanziario dell’anno prima “aumentato come minimo del 5%” per quanto riguarda l’Unione, “del 12% per quanto riguarda gli Stati e il Distretto federale” e “del 15% per quanto riguarda i Municipi”. Da ultimo, peraltro, la lacuna è stata evitata dalla legge complementare n. 141 del 13.1.2012, che in materia di sanità ha confermato le percentuali del 12% per gli Stati e del 15% per i Municipi e l’Unione, stabilendo che esse dovranno aumentare con la crescita del Pil. Infine l’art. 34, VII, lett. e, stabilisce che “l’Unione non interverrà nelle politiche di spesa degli Stati o del Distretto federale” se non per “assicurare l’osservanza” del principio dell’“applicazione del minimo richiesto delle entrate risultanti da imposte statali [...] per la conservazione e lo sviluppo dell’insegnamento e per le prestazioni e i servizi pubblici sanitari”. Sui vincoli di bilancio, rinvio anche a PiII, § 13.19, p. 98, § 15.18, pp. 402-403.

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inclusa quella italiana che lo prevede nel suo art. 53. Dobbiamo perciò domandarci se sia una giusta ed effettiva “progressività” la previsione di aliquote massime delle imposte sul reddito – in Italia, ad esempio, l’aliquota del 43% – comuni ai redditi superiori a 75.000 euro l’anno e a redditi a questi superiori di centinaia di volte. È chiaro che un’effettiva progressività dovrebbe equivalere alla stipulazione di tetti massimi di reddito al di sopra dei quali, se non altro per impedire gli abusi dei poteri da essi provocati, occorrerebbe intervenire con un ben più radicale prelievo fiscale; tanto più che le imposte sul patrimonio non immobiliare possono oggi essere eluse dalla libera circolazione dei capitali e dalle loro fughe nei paradisi fiscali. Aliquote fiscali in grado di scoraggiare accumulazioni sconfinate di ricchezza furono del resto stabilite negli Stati Uniti, cioè nel paese che più di ogni altro ha una tradizione di limitazione degli interventi dello Stato nella sfera dell’economia: nell’aprile 1942, Franklin Delano Roosevelt fissò un reddito massimo per il tempo di guerra di 25.000 dollari annui (pari a 350.00 dollari del 2010); nel 1944 il Congresso degli Stati Uniti stabilì per i redditi superiori a 200.000 dollari annui un’aliquota d’imposta del 94%; nei due decenni successivi quel tasso si mantenne intorno al 90%, per poi scendere al 70% durante la presidenza di Lindon Johnson e poi, con Ronald Reagan, al 50% nel 1981 e al 28% nel 198831. 5.7. BC) Il principio di completezza e le garanzie dei beni fondamentali. Beni comuni, beni personalissimi e beni sociali  C’è poi un’altra espansione del modello garantista del costituzionalismo, oggi richiesta sempre più urgentemente dal principio di completezza. È cambiato in quest’ultimo secolo, ed è destinato a cambiare sempre più profondamente, il rapporto dell’uomo con le cose. 31   S. Pizzigati, Rinascita di un’esigenza. Stabilire un tetto per i redditi, in «Le monde diplomatique. Il Manifesto», 2, XIX, febbraio 2012, pp. 1, 16-17. Si ricordi, inoltre, la recente introduzione in Francia, censurata dal Consiglio costituzionale, di un’imposta del 75% sui redditi superiori a un milione di euro. Negli Stati Uniti di oggi la progressività delle imposte è invece di fatto soppressa: basti pensare che nel 2010, 25 delle 100 maggiori società statunitensi, grazie anche all’utilizzazione dei paradisi fiscali, hanno pagato ai loro amministratori delegati più di quanto hanno versato in imposte: Usa: i numeri della disuguaglianza cit.

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Lo sviluppo tecnologico ha reso possibile, nel bene e nel male, ciò che prima era impossibile: da un lato la produzione di beni artificiali e dall’altro la distruzione di beni naturali, gli uni e gli altri vitali per le persone. Ed ha perciò provocato, con l’affermazione di nuovi diritti fondamentali, la necessità di un allargamento del paradigma costituzionale attraverso la garanzia delle cose che di tali diritti sono oggetto. Il rapporto dell’uomo con le cose è cambiato in primo luogo nel bene, nel senso che è diventato possibile ciò che in passato era impossibile: guarire e sopravvivere, grazie alla produzione e alla distribuzione di beni artificiali, come i farmaci e in generale i progressi della medicina, che consentono di curare malattie in passato non curabili, o il cibo necessario a nutrirsi e oggi producibile su scala industriale grazie ai progressi dell’agricoltura. È soprattutto questo carattere artificiale e sociale, e non più solo naturale della sopravvivenza, che ha determinato l’allargamento del patto costituzionale di convivenza ai diritti sociali, i quali impongono l’accesso di tutti a una prima classe di beni vitali, i farmaci salvavita e gli alimenti di base, la cui mancata distribuzione è oggi responsabile della seconda catastrofe elencata nel § 4.7: la morte ogni anno – per fame, per mancanza dell’acqua e di farmaci elementari – di milioni di esseri umani. C’è poi un’altra classe di beni artificiali la cui creazione ha reso possibile ciò che prima era impossibile: le forme nuove e globali di informazione e comunicazione generate dall’uso di Internet e dalla conoscenza in rete. Queste nuove tecnologie hanno dato vita a uno spazio globale, l’accesso al quale, virtualmente da parte di tutti, ha allargato i tradizionali diritti fondamentali all’istruzione, all’informazione, alla conoscenza e insieme alla manifestazione del pensiero, imponendo nuove garanzie positive e negative: da un lato l’accesso alla rete quale servizio pubblico globale, dall’altro l’immunità da limitazioni e discriminazioni ad opera sia delle autorità pubbliche che del mercato. Ma il rapporto dell’uomo con la natura è cambiato anche nel male. Lo sviluppo tecnologico e sregolato del capitalismo e il saccheggio del pianeta da parte delle grandi imprese dei paesi più ricchi stanno provocando la terza catastrofe elencata nel § 4.7: sconvolgimenti climatici, inquinamenti, alluvioni, smottamenti, siccità e desertificazioni. È così diventato possibile, anche

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in questo caso, ciò che prima era impossibile: la distruzione, la dissipazione e l’appropriazione privata di una seconda classe di beni vitali, non già artificiali bensì naturali, come l’acqua, l’aria, l’integrità dell’ambiente e gli equilibri climatici, e prima ancora la Terra quale pianeta abitabile che è il primo, fondamentale bene comune o di tutti32. Questi beni furono concepiti come res communes omnium fin dal diritto romano, che li qualificò extra commercium ed extra patrimonium: “Quaedam enim naturali iure communia sunt omnium”, scrisse Marciano, “et quidam naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris”33. Una storia sociale dei beni ci mostrerebbe però come questi beni naturali hanno cessato di essere comuni nel momento in cui, essendo diventati scarsi a causa delle devastazioni prodotte dallo sviluppo anarchico del capitalismo, hanno acquistato un valore di scambio, senza per questo essere garantiti a tutti dal diritto. C’è un celebre e illuminante passo di Adam Smith che merita di essere ricordato. Dopo aver distinto i due significati della parola “valore” – il “valore d’uso”, consistente nell’“utilità di qualche particolare oggetto”, e il “valore di scambio”, consistente nel “potere di acquistare altri beni che il possesso di questo oggetto conferisce” – Smith afferma: “le cose che hanno il massimo valore d’uso spesso hanno scarso o nessun valore di scambio; e, al contrario, quelle che hanno il massimo valore di scambio hanno frequentemente scarso o nessun valore d’uso. Nulla è più utile dell’acqua; ma con essa non si potrà acquistare quasi nulla e difficilmente si potrà ottenere qualcosa in cambio di essa. Un diamante, al contrario, non ha quasi nessun valore d’uso; ma con esso si può ottenere in cambio una grandissima quantità di altri beni”34. È tuttavia accaduto che le “cose” elencate da Marciano,

32   Si ricordi il libro-manifesto di V. Shiva, Il bene comune della terra (2005), trad. di R. Scafi, Feltrinelli, Milano 2006. 33   D 1,8,2, pr-1: “Alcune cose, per diritto naturale sono comuni a tutti… E per diritto naturale sono beni comuni a tutti queste cose: l’aria, l’acqua che scorre, il mare e i suoi lidi”. Il passo è ripreso nelle Institutiones di Giustiniano (Iust., Inst. 2, 1, pr-1). Si veda da ultimo, sui beni comuni nel diritto romano, P. Maddalena, I beni comuni nel diritto romano: qualche valida idea per gli studiosi odierni, in «Federalismi.it», 11 luglio 2012. 34   A. Smith, La ricchezza delle nazioni, (1776), trad. di A. e T. Bagiotti, Mondadori, Milano 2009, lib. I, cap. IV, p. 109. Già Platone aveva scritto,

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come l’acqua, l’aria, il mare e i litorali, dotate di enorme valore d’uso ma non, originariamente, di valore di scambio, sono diventate “beni”, cioè cose dotate di valore economico di scambio, proprio perché le aggressioni di un capitalismo senza regole ne hanno determinato la scarsità, la vulnerabilità e la non riproducibilità. Il paradosso, insomma, è che la semplice valorizzazione economica di quelle cose e il loro conseguente valore di scambio provocati dallo sviluppo capitalistico ne hanno determinato, in assenza di un intervento del diritto e in contrasto con i diritti fondamentali alla vita stipulati in tutte le carte costituzionali e internazionali, non già la loro trasformazione in beni (oggetto di diritti) fondamentali, ma il fenomeno esattamente opposto: la loro privatizzazione quali beni (oggetto di diritti) patrimoniali. Il capitalismo anarchico ha così provocato un doppio processo predatorio: dapprima la dilapidazione o la distruzione dei beni comuni e la trasformazione della loro originaria disponibilità naturale, come fu tipicamente quella dell’acqua potabile, nella loro scarsità; successivamente la trasformazione di questi medesimi beni, proprio a causa della loro intervenuta scarsità, nella loro appropriabilità privata secondo la logica del mercato. Solo una rivoluzione giuridica e politica può oggi imporre la garanzia di tutti questi beni vitali, siano essi artificiali o naturali, come beni di tutti contro la loro mercificazione o devastazione ad opera di un capitalismo sregolato e predatorio. Ma a questo fine non basta il modello garantista dei diritti. La sintassi dei diritti fondamentali, attribuiti ai singoli a garanzia delle loro aspettative e bisogni individuali, non è sufficiente, da sola, ad assicurarne una garanzia adeguata quando questa dipende dalla distribuzione, o dall’accesso o dalla tutela dei beni vitali che di tali diritti costituiscono l’oggetto e perciò richiede, a tal fine, che tali beni siano direttamente garantiti dalla sfera pubblica. Per molteplici ragioni. In primo luogo i diritti fondamentali spettano al singolo individuo, ed è impensabile che questi sia in grado, in tali casi, di ottenerne la garanzia: il loro oggetto è infatti costituito da beni – l’atmosfera, gli equilibri ecologici, l’acqua, l’alimentazione di nell’Eutidemo: “Ciò che è raro è prezioso, o Eutidemo. Invece l’acqua non costa nulla, pur essendo ottima” (Platone, Eutidemo, 304 B, in Id., Tutti gli scritti cit., p. 794).

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base, i farmaci salvavita – la cui garanzia richiede la loro diretta protezione o prestazione da parte della sfera pubblica, quali beni spettanti a tutti in quanto persone ed a tutti accessibili ugualmente e perciò gratuitamente. In secondo luogo, per quanto riguarda i beni artificiali come sono tipicamente i farmaci salvavita, la loro prestazione suppone necessariamente la loro produzione e distribuzione ad opera di apposite istituzioni di garanzia. In terzo luogo, per quanto riguarda i beni naturali, pur essendo la loro protezione nell’interesse vitale di tutti, di tale interesse non sono affatto consapevoli le singole persone, che di solito non ne percepiscono neppure le violazioni: quando viene avvelenata l’aria di una città, o cementificata una spiaggia o abbattuta una foresta, gli abitanti del posto non pensano di essere stati privati di una proprietà comune, ma si raffigurano come utenti o possibili beneficiari di future lottizzazioni; ancor meno vitale, e per molti del tutto irrilevante e perfino incomprensibile, è poi l’interesse per la protezione del clima e dell’ambiente, che riguarda semmai le generazioni future e che può essere tutelato solo lasciando loro in eredità un pianeta abitabile. In quarto luogo, l’inevitabile trasformazione di questi beni vitali in beni patrimoniali o merci, che proverrebbe dalla mancanza di una loro diretta garanzia quali beni accessibili a tutti, sarebbe in contrasto con la stessa legge del mercato basata sulla libertà della domanda; giacché tali beni continuano a non avere, propriamente, un valore di scambio per la ragione opposta a quella indicata da Adam Smith: non già perché non sono rari ma accessibili a tutti, ma perché, al contrario, essendo divenuti rari e non più accessibili a tutti, e tuttavia vitali, chiunque sarebbe disposto a pagare per essi qualunque prezzo. Per questo – perché non si è liberi di non comprarli – questi beni non possono essere trasformati in merci, come oggi consentono o addirittura impongono le leggi sulla loro privatizzazione in contrasto con lo stesso principio del libero rapporto sul mercato tra domanda ed offerta. Il linguaggio dei diritti individuali è insomma inadeguato, da solo, a suggerire le tecniche di tutela dei beni vitali naturali e le forme di accesso ai beni vitali artificiali, mettendo i primi al riparo da lesioni e rendendo gli uni e gli altri accessibili a tutti. Lo è soprattutto per le popolazioni dei paesi più poveri: quelle che più patiscono le devastazioni ad opera dei paesi più ricchi dei beni vitali naturali e la mancanza di quelli artificiali, e che non hanno

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un giudice cui chiedere giustizia, o perché tale giudice non esiste, o perché non hanno i mezzi per adirlo. Di qui la necessità di integrare il paradigma garantista dei diritti fondamentali con una dimensione nuova e sempre più urgente e inderogabile della democrazia e del costituzionalismo: la diretta garanzia di quei beni vitali che dei relativi diritti fondamentali costituiscono l’oggetto. C’è pertanto una questione teorica pregiudiziale che richiede di essere affrontata: la stipulazione di una definizione e di una classificazione plausibile di tutti questi beni. Negli usi correnti e in gran parte della letteratura giuridica e politologica è in uso da qualche tempo l’espressione “beni comuni” per designare un coacervo di valori benefici eterogenei. Si va dalla configurazione di tali beni come declinazione al plurale della nozione olistica di “(bene) comune”, all’inclusione tra di essi delle entità più disparate: non solo delle classiche res omnium, come l’aria, l’ambiente, gli equilibri ecologici, l’acqua, i fondi marini, i monumenti e Internet, ma anche l’istruzione, la salute, la cultura, il linguaggio, l’informazione, il sapere e perfino il lavoro e il diritto35. Ho l’impressione che simili usi retorici, che alludono con la stessa parola 35   Mi limito a ricordare: M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, pp. 7-8: “Con il termine ‘comune’ intendiamo, in primo luogo, la ricchezza comune del mondo materiale – l’aria, l’acqua, i frutti della terra e tutti i doni della natura [...]. Per comune si deve intendere, con maggior precisione, tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via”; U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 52 sgg.: “Un bene comune, a differenza tanto della proprietà privata quanto di quella pubblica [...] non può concepirsi come un mero oggetto, una porzione tangibile del mondo esterno. Non può essere colto con la logica meccanicistica e riduzionistica tipica dell’Illuminismo che separa nettamente il soggetto dall’oggetto [...]. Per questo [i beni comuni] resistono a una concettualizzazione teorica scompagnata dalla prassi [...]. In altri termini, i beni comuni sono resi tali non da presunte caratteristiche ontologiche, oggettive o meccaniche che li caratterizzerebbero, ma da contesti in cui essi divengono rilevanti in quanto tali. I beni comuni richiedono perciò una percezione olistica, che ne colga appieno gli inestricabili nessi con la comunità di riferimento e con le altre comunità ad essa contigue o che ad essa si sovrappongono. Essi non possono in alcun caso essere oggettificati [...]. Nell’ambito dei beni comuni il soggetto è parte dell’oggetto (e viceversa)”. In questo senso, per Mattei, sono ad esempio beni comuni, “nel contesto di una prassi di lotta”, il lavoro (ivi, p. 53), il diritto (ivi, pp. 58, 60) e la ricerca universitaria (ivi, p. 61). Per una critica radicale di questa concezione confusa e olistica

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a nozioni dotate di riferimenti empirici di genere diverso – dalle cose ai diritti, dai servizi pubblici ai principi di giustizia, dagli interessi collettivi ai valori – contraddicono la grammatica del diritto, rischiando di vanificare la capacità esplicativa del concetto e di annullarne ogni concreta valenza garantista. Naturalmente i concetti teorici sono costruzioni convenzionali, elaborate in funzione della loro portata empirica e delle loro utilizzazioni operative. Le loro definizioni sono definizioni stipulative, né vere né false. Una definizione ben formata, tuttavia, non può confondere in un unico definiendum domini empirici diversi, quali sono le cose, i diritti, i servizi, le attività proprie come il lavoro e le attività altrui come le prestazioni a garanzia dei diritti sociali e perfino valori come il sapere e la cultura. Il risultato sarebbe il venir meno del significato estensionale del concetto, cioè della sua idoneità a denotare con qualche precisione il proprio oggetto grazie all’univocità dei suoi connotati intensionali e, insieme, della sua utilizzabilità per le finalità garantiste ad esso assegnate. Il linguaggio giuridico è il linguaggio nel quale pensiamo i problemi e le loro soluzioni. E queste soluzioni consistono in garanzie, cioè in tecniche normative diverse a seconda che ciò che si intende garantire siano cose, o diritti di immunità, o diritti di accesso, oppure attività proprie o attività altrui. Ebbene, a questi fini la nozione oggi corrente di “beni comuni” rischia di diventare da un lato una categoria troppo estesa, nella quale vengono fatti rientrare anche i valori più disparati, che propriamente non sono configurabili come beni, cioè come una classe delle “cose”, e richiedono tecniche giuridiche diverse da quelle che possono essere apprestate a tutela dei beni; dall’altro una categoria eccessivamente ristretta, nella quale non rientrano beni che, pur essendo vitali, non sono configurabili come “comuni”, cioè come res communes omnium, quali ad esempio le parti del corpo umano e per altro verso i farmaci salvavita e il cibo necessario all’alimentazione di base. Sarà quindi utile procedere a una ridefinizione e a una classificazione tipologica di tutti questi beni vitali, vecchi e nuovi, quanto più possibile precise e soprattutto ancorate alle tecniche di garan-

dei beni comuni, si veda il recente libro di E. Vitale, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Laterza, Roma-Bari 2013.

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zia in grado di tutelarli. Secondo l’art. 810 del codice civile italiano, “sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”. Il lessico giuridico tradizionale, tuttavia, soffre di una duplice carenza. Per un verso i soli beni da esso designati sono i beni patrimoniali, disponibili e alienabili, spettanti a ciascuno con esclusione di altri: non a caso la definizione di bene formulata dal citato art. 810 apre il libro III del codice civile sulla proprietà privata, cioè sul più classico e importante dei diritti patrimoniali e sugli altri diritti reali. Per altro verso, le sole figure fondamentali conosciute dalla nostra tradizione giuridica sono i diritti individuali caratterizzati appunto come “fondamentali”: i diritti universali alla vita, i diritti civili e politici, i diritti di libertà e i diritti sociali con i quali, come si è visto, sono designati tutti i bisogni e gli interessi vitali stipulati come meritevoli di tutela. D’altro canto non tutti i beni vitali sono configurabili come “comuni”, cioè accessibili a tutti pro indiviso. Non lo sono, ad esempio, gli organi del corpo umano, che al contrario appartengono unicamente alla persona ma richiedono anch’essi di essere sottratti al mercato e di essere tutelati come fondamentali. Ma non lo sono neppure beni vitali come i farmaci salvavita o gli alimenti di base. Converrà quindi disporre, per designare l’insieme di tutti questi beni vitali, di una categoria più ampia: quella dei beni fondamentali quale sotto-classe della classe dei beni, in aggiunta e in opposizione alla sotto-classe dei beni patrimoniali; i primi definibili come i beni indisponibili e accessibili a tutti in quanto oggetto di diritti fondamentali; i secondi come i beni disponibili da parte di chi li possiede in quanto oggetto di diritti patrimoniali36. Disporremo così di una categoria, quella dei beni fondamentali, nella quale possono essere inclusi tutti quei beni dei quali si richiede l’uguale garanzia a tutela di tutti, perché vitali, e che vanno perciò sottratti alle logiche del mercato e alla disponibilità della politica: in primo luogo i beni comuni, cioè le vecchie res 36   Ho introdotto la categoria dei ‘beni fondamentali’, configurandoli come ‘cose’, distinguendoli in ‘personalissimi’ (come le parti indisponibili del corpo umano), ‘comuni’ (come le classiche res communes omnium) e ‘sociali’ (come i farmaci salvavita e gli alimenti di base) e contrapponendoli ai ‘beni patrimoniali’: PiI, § 11.10, pp. 776-782, e PiII, § 14.21, pp. 263-266, 585, 598. Rinvio anche a Per una Carta dei beni fondamentali, in T. Mazzarese, P. Parolari (a cura di), Diritti fondamentali. Le nuove sfide. Con un’appendice di carte regionali, Giappichelli, Torino 2010, pp. 65-98.

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communes omnium, il cui uso o l’accesso alle quali è vitale per tutte le persone e che formano perciò l’oggetto di diritti fondamentali di libertà di uso o godimento; in secondo luogo quelli che possiamo chiamare beni personalissimi, come le parti del corpo umano, che formano l’oggetto di diritti fondamentali di immunità, cioè di libertà da lesioni o manomissioni, incluse quelle, vietate, provenienti da atti di disposizione; in terzo luogo quelli che possiamo chiamare beni sociali perché oggetto dei diritti fondamentali sociali alla salute e alla sussistenza, come i farmaci salvavita e gli alimenti di base. Avremo perciò tre sotto-insiemi di beni fondamentali che, per quanto diversi, sono accomunati dall’essere oggetto di diritti fondamentali, siano essi diritti negativi di non lesione o diritti positivi a prestazioni: i beni comuni, i beni personalissimi e i beni sociali. In questo modo, aggiungo, la categoria dei beni fondamentali si configura come una categoria parallela e corrispondente a quella dei diritti fondamentali, che si oppone ai beni patrimoniali nello stesso modo in cui i diritti fondamentali si oppongono ai diritti patrimoniali. Questa categoria ha un duplice vantaggio. In primo luogo la sua definizione vale ad esplicitare la relazione di implicazione tra i beni fondamentali, siano essi sociali o comuni o personalissimi, e i diritti fondamentali, siano essi positivi o negativi, attraverso l’identificazione dei primi come l’oggetto dei secondi37. In secondo luogo, grazie a un’adeguata ridefinizione della nozione di “sfera pubblica” come la sfera degli interessi universali o di tutti, inclusi quindi quei diritti di tutti che sono i diritti fondamentali e le loro garanzie38, essa rende ingiustificata la contrapposizione a tale no37   Su questo nesso tra beni comuni e diritti fondamentali, e precisamente sulla configurazione dell’“accesso come diritto fondamentale della persona”, insiste ripetutamente e giustamente Rodotà, Il diritto di avere diritti cit., cap. IV, pp. 111 sgg. 38   In PiI, § 11.15, pp. 802-809, ho definito ‘sfera pubblica’ come “l’insieme delle situazioni di cui tutti sono titolari o che sono stabilite a garanzia dell’interesse di tutti” e che inoltre “non sono prodotte dall’esercizio dei diritti civili di autonomia” (D11.36). Ne è conseguita non solo l’opposizione tra sfera pubblica e ‘sfera privata’ (T11.135), definita questa come l’insieme delle situazioni conferite a singoli nell’interesse di singoli dall’esercizio dei diritti civili di autonomia (T11.136), ma anche l’appartenenza alla sfera pubblica dell’insieme dei diritti fondamentali (T11.138) e quindi dei beni fondamentali che di taluni di tali diritti sono oggetto.

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zione, oltre che a quella di “sfera privata”, di una terza e autonoma categoria: quella da molti evocata del “comune”, ovvero della “proprietà comune” come terzo tipo di relazione con i beni. “La proprietà è pubblica o privata”, afferma l’art. 42 della Costituzione italiana, intendendo chiaramente che è “pubblica” qualunque proprietà non modellata sullo schema individualistico del diritto reale di proprietà quale diritto patrimoniale, disponibile e alienabile. Ed è evidente che nella sfera pubblica allargata nel senso sopra ridefinito rientrano, in quanto oggetto di diritti fondamentali, anche i beni comuni, dei quali del resto non si vede quale gestione sia possibile che non sia a carico della sfera pubblica. Sarà quindi opportuno affiancare, alla categoria dei diritti fondamentali, la categoria non meno essenziale e fino ad oggi indebitamente trascurata dalla dottrina giuridica dei beni fondamentali: “fondamentali” perché, diversamente dai beni patrimoniali e analogamente ai diritti fondamentali, tali beni – dall’aria ai fondi marini, dall’acqua al cibo, dai farmaci salvavita agli organi del corpo umano – devono essere garantiti a tutti come inviolabili. In questa prospettiva sarebbe auspicabile che alle tante carte e convenzioni internazionali e costituzionali dei diritti fondamentali si aggiungessero carte costituzionali e carte internazionali dei beni fondamentali, idonee a garantire a tutti i beni vitali sopra elencati. L’utilità di distinguere le tre classi di beni fondamentali sopra definite è peraltro legata alla diversità delle loro tecniche di garanzia. I beni comuni naturali, come tutti quelli ecologici, sono beni che devono essere protetti tramite divieti di lesione o di appropriazione privata, a garanzia della loro conservazione e del diritto di tutti di accedere al loro godimento. La medesima accessibilità a tutti deve essere garantita ai beni comuni artificiali, come Internet e la rete, quale universale diritto di libertà di informarsi, di comunicare e di manifestare il proprio pensiero. I beni sociali, come i farmaci salvavita, sono invece beni artificiali, che devono essere garantiti da obblighi di prestazione, tramite la loro distribuzione a tutti e, se necessario, la loro diretta produzione ad opera della sfera pubblica, a garanzia dei correlativi diritti sociali. Altri beni, come l’acqua e gli alimenti di base, sono naturali e comuni perché si trovano in natura e ne va preservata la riproduzione; ma sono artificiali e sociali la loro prestazione e distribuzione, necessariamente affidate alla sfera pubblica. I beni personalissimi, infine,

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sono beni naturali garantiti da divieti di lesione e di alienazione, ma esattamente all’opposto dei beni comuni deve esserne assicurata l’immunità quali beni non accessibili a nessun’altro che alla persona cui appartengono. In tutti i casi, riconoscere e garantire tutti questi beni vitali come fondamentali vuol dire renderli inviolabili e indisponibili, sottrarli alla disponibilità della politica e del mercato e renderli accessibili a tutti. E questo si può fare soltanto con la loro stipulazione come beni costituzionali, cioè previsti come fondamentali da costituzioni rigide: garantiti da immunità, cioè dal divieto di mercificazione e di lesione, ove si tratti di beni comuni o di beni personalissimi, e dall’obbligo della loro prestazione gratuita ove si tratti di beni sociali. Assistiamo invece, anziché a un allargamento della sfera pubblica, al suo restringimento e smantellamento. Si pensi alla vendita di beni demaniali e alle privatizzazioni di essenziali servizi e funzioni pubbliche, affidate a privati e inevitabilmente mercificate. Il caso dell’acqua, oggetto di quel corollario del diritto alla vita che è il diritto alla sussistenza, è esemplare. L’acqua potabile non è più, di fatto, un bene solo naturale, né tanto meno un bene comune naturalmente accessibile a tutti. Più di un miliardo di persone non hanno la possibilità di accedervi e per questo milioni di persone muoiono ogni anno. L’acqua è infatti diventata un bene scarso per più motivi: per le aggressioni al patrimonio forestale che provocano ogni anno la deforestazione di milioni di ettari; per gli inquinamenti delle sorgenti, dei fiumi e delle falde acquifere, provocati da attività industriali sregolate; per le massicce privatizzazioni, infine, delle risorse idriche che paradossalmente sono state ridotte a beni patrimoniali proprio nel momento in cui se ne richiede, per la loro scarsità, la garanzia come beni fondamentali. Questa garanzia non può che consistere nella trasformazione dell’acqua potabile in un bene pubblico sottoposto a un triplice statuto: l’obbligo della distribuzione gratuita a tutti nella misura necessaria ai minimi vitali (calcolata in almeno 40 o 50 litri al giorno per persona); il divieto delle sue distruzioni e degli sprechi oltre un limite massimo; la tassazione su basi progressive dei consumi eccedenti il limite minimo ma inferiori al limite massimo39.

  Sono i tre statuti proposti dal Manifesto italiano per il contratto mondiale

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Quanto ai beni comuni di carattere più propriamente ambientale, la garanzia più appropriata è quella adottata negli ordinamenti statali con la loro qualificazione come beni demaniali, in quanto tali sottratti al mercato. Di questa garanzia si richiedono tuttavia due ordini di espansioni. In primo luogo l’istituzione di più tipi di demanio: non solo i demani comunali, provinciali, regionali e statali, ma anche, a causa delle aggressioni provenienti dall’industria e dal mercato globale, demani sovrastatali, di livello europeo e, per taluni beni, di livello globale. In secondo luogo si richiede una più rigida protezione normativa dei beni demaniali, non più solo legislativa, come quella offerta in Italia dal codice civile che la legge ordinaria può ben modificare, bensì costituzionale, attraverso la loro costituzionalizzazione ai diversi livelli dell’ordinamento: come beni demaniali costituzionali all’interno degli Stati o dell’Unione Europea, ma anche – in materia di atmosfera, di acque potabili, di falde acquifere, di grandi fiumi e laghi, di grandi foreste, di biodiversità e simili – come beni demaniali planetari. Tali beni dovrebbero insomma essere protetti da norme di rango rigidamente costituzionale, e se necessario internazionale, onde siano messi al riparo dalle manomissioni che possono provenire dal legislatore ordinario e perciò dalle contingenti maggioranze. Taluni di questi beni comuni, del resto, sono già oggi qualificati dai trattati internazionali – come il Trattato sugli spazi aerei del 1967 e la Convenzione sul mare del 1982 – come “patrimonio comune dell’umanità”40. E già oggi sarebbe

dell’acqua, proposto da R. Petrella, Il Manifesto dell’acqua. Il diritto alla vita per tutti, Gruppo Abele, Torino 2001, pp. 137-138. Sul problema dell’acqua si vedano anche: G. Nebbia, Il problema dell’acqua, Cacucci, Bari 1999; M. De Villiers, Water: The Fate of Our Precious Resource, Houghton Mifflin, New York 2000; V. Shiva, Le guerre dell’acqua (2002), trad. it., Feltrinelli, Milano 2003; Centre Tricontinental, L’eau, patrimoine commun de l’humanité, L’Harmattan, Paris 2002; il fascicolo Acqua della rivista «Parolechiave», 27, 2002; R. Petrella, Il bene comune. Elogio della solidarietà, pref. di L. Gallino, Diabasis, Reggio Emilia 2003; D. Zolo, Il diritto all’acqua come diritto sociale e come diritto collettivo. Il caso palestinese, in «Diritto Pubblico», 1, 2005, pp. 125-142; A. Lucarelli, S. Marotta, Governo dell’acqua e diritti fondamentali. Una battaglia contro la privatizzazione, Palazzo Margliano, Napoli 2006; E. Molinari, L’acqua, bene comune dell’umanità. Il movimento mondiale: successi e problemi, in «Quale Stato», 2/3, 2006, pp. 197-210. 40   Il Trattato sugli spazi extra-atmosferici del 27.1.1967 qualifica tali spazi co-

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ad esempio possibile, sulla base di principi elementari del diritto civile, la garanzia secondaria di tali beni, i cui danneggiamenti e la cui stessa utilizzazione – si pensi ai danni ambientali prodotti dalle emissioni inquinanti e all’utilizzazione delle linee aeree, delle orbite satellitari e delle bande dell’etere – ben potrebbero giustificare azioni di danno o di indebito arricchimento da parte delle popolazioni più povere che ne subiscono gli effetti più devastanti, contro i paesi ricchi e le loro imprese che di tali usi ed abusi sono i principali profittatori e responsabili41. Si tratterebbe di risarcimenti e compensi giganteschi, i cui importi ben potrebbero essere destinati al pagamento dei debiti pubblici e al finanziamento delle garanzie, a livello sia statale che internazionale, dei diritti sociali stabiliti dalle tante carte internazionali. La garanzia dei beni comuni di carattere ecologico richiede d’altro canto la loro tutela non solo dal mercato, ma anche dalle lesioni che possono provenire dai disastri nucleari. Come ha mostrato da ultimo la tragedia della centrale di Fukushima in

me “appannaggio dell’umanità intera” imponendone l’“utilizzazione per il bene e nell’interesse di tutti i paesi, quale che sia lo stadio del loro sviluppo economico o scientifico” (art. 1) e vietandone “l’appropriazione nazionale attraverso proclamazioni di sovranità o atti di utilizzazione o occupazione o altri mezzi” (art. 2). La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10.12.1982, a sua volta, afferma che “l’Area (di alto mare) e le sue risorse” – siano esse “solide, liquide o gassose, in situ”, o “sui fondi marini o nel loro sottosuolo” (art. 133) – “sono patrimonio comune dell’umanità” (art. 136), ne vieta “l’appropriazione” da parte di qualunque “Stato o persona fisica o giuridica” (art. 136, c. 1) e stabilisce che “tutti i diritti sulle risorse dell’Area sono conferiti a tutta l’umanità”, che “queste risorse sono inalienabili” (art. 136 cpv.), che gli Stati contraenti sono responsabili in solido per i danni provocati “da imprese statali o da persone fisiche o giuridiche che [ne] posseggono la nazionalità” (art. 139), che “le attività nell’Area sono condotte a beneficio di tutta l’umanità” e che “dei vantaggi economici derivanti” deve essere “assicurata l’equa ripartizione [...] su base non discriminatoria”, “tenendo particolarmente conto degli interessi e delle necessità degli Stati in via di sviluppo” (artt. 140 e 160 cpv. lett. f e i). Sulla nozione di “patrimonio comune dell’umanità”, si vedano: J.M. Pureza, El patrimonio común de la humanidad. ¿Hacia un Derecho internacional de la solidariedad?, Trotta, Madrid 2002; Centre Tricontinental, L’eau, patrimoine commun de l’humanité cit. 41   Si calcola che le emissioni inquinanti pro capite siano, ogni anno, di 20 tonnellate di anidride carbonica negli Stati Uniti, di 7 tonnellate in Europa e di 3,5 tonnellate in Cina: F. Mini, Owning the weather: la guerra ambientale globale è già cominciata, in «Limes», 2, 2012, p. 13.

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Giappone – e prima quelle di Three Miles Island del 1979 e di Chernobyl nel 1986 – la sicurezza assoluta contro il nucleare è irrealizzabile o quanto meno sommamente improbabile. Attualmente ci sono nel mondo 442 reattori nucleari attivi, che nel loro insieme forniscono il 16% dell’elettricità mondiale42 e sono una fonte costante di pericoli e di inquinamenti. La probabilità che possano verificarsi nuovi incidenti catastrofici in una delle centinaia di centrali nucleari sparse per il modo è quasi una certezza. Si aggiunga il pericolo di attentati terroristici: 442 centrali nucleari rappresentano un obiettivo troppo vulnerabile. L’esistenza stessa delle centrali è d’altro canto una minaccia alla salute: è stato calcolato che nelle loro vicinanze c’è più del doppio di leucemie infantili. Infine, ai pericoli di catastrofi e di piogge radioattive va aggiunto il problema irrisolto delle scorie nucleari. Il sistema, in breve, è insieme dannoso, fragile e pericoloso. La sola misura razionale è perciò una convenzione internazionale che proibisca la costruzione di nuove centrali e metta in atto una graduale disattivazione di quelle esistenti insieme alla produzione di energie alternative e rinnovabili, da quelle eoliche a quelle solari, oltre tutto fonte di nuova occupazione e perfino economicamente vantaggiosa rispetto ai maggiori costi di costruzione e manutenzione delle centrali: costi che includono quelli di solito non calcolati, ma necessari alla tutela delle generazioni future da danni irreparabili, che si richiedono per smantellare e mettere in sicurezza gli impianti dopo la loro disattivazione. Aggiungo che una politica razionale di tutela dei beni comuni richiede oggi una lotta contro il tempo. C’è infatti una terribile

42   Le 442 centrali esistenti sono concentrate in 29 paesi e costruite da un piccolo numero di potenti imprese: 104 sono negli Stati Uniti (due delle quali – Diablo Canyon e San Onofre Obispo – sono in California sulla faglia di Sant’Andrea, che potrebbe improvvisamente spezzarsi), 58 in Francia, 54 in Giappone, 32 in Russia, 21 nella Corea del Sud, 20 in India, 19 in Gran Bretagna, 18 nel Canada, 17 in Germania, 15 in Ucraina, 13 in Cina, 10 in Svezia, 9 in Spagna, 7 in Belgio, 6 nella Repubblica Ceca e a Taiwan, 5 in Svizzera, 4 in Finlandia, Ungheria e Slovacchia, 2 in Argentina, Brasile, Messico, Bulgaria, Romania, Pakistan e Sudafrica, 1 in Armenia, Olanda e Slovenia. Molte di queste centrali – una su cinque – e ben 62 impianti in costruzione si trovano, come quella di Fukushima, in aree sismiche (http://www.dailyenmoveme.com/it/nucleare/lecentrali-nucleari-nel-mondo).

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novità rispetto a tutte le catastrofi del passato. Sempre, dalle altre catastrofi, anche le più terribili – si pensi alla seconda guerra mondiale e all’orrore dell’olocausto – la ragione giuridica e politica ha tratto lezioni, formulando, contro il loro ripetersi, nuovi patti costituzionali e nuovi “mai più” ai poteri politici sovrani. Diversamente da tutte le altre catastrofi passate, la catastrofe ecologica è in larga parte irreparabile, e potremmo forse non giungere in tempo a trarne le dovute lezioni, senza un nuovo e tempestivo “mai più”, questa volta all’onnipotenza e alla sregolatezza dei mercati. Per la prima volta nella storia c’è infatti il pericolo che si acquisti la consapevolezza della necessità di cambiare strada e di stipulare un nuovo patto quando ormai sarà troppo tardi. È questo l’aspetto più drammatico delle attuali emergenze globali. Esse sono ignorate dall’opinione pubblica mondiale, e perciò dai governi nazionali, e non entrano quindi se non marginalmente nella loro agenda politica, interamente ancorata ai tempi brevi e agli spazi ristretti delle competizioni elettorali e dei confini statali. La politica sta così perdendo la memoria del passato, cioè dei mai più alle guerre e ai fascismi, e la prospettiva del futuro e delle catastrofi incombenti. Solo con questa amnesia e con questa miopia si spiegano la rimozione dei grandi problemi della fame e della miseria nel mondo, la sottovalutazione dei pericoli per l’ecosistema e l’illusione che l’economia globale possa autoregolarsi e fare a meno di una sfera pubblica internazionale e di un rigido costituzionalismo globale. 5.8. C) Il principio di giurisdizionalità e le garanzie secondarie dei diritti e dei beni fondamentali. Ruolo e limiti della giurisdizione  Ogni passo compiuto nella limitazione e nella regolazione dei poteri sulla base del principio di legalità e ogni espansione delle garanzie primarie o legislative dei diritti sulla base del principio di completezza richiedono, in attuazione del principio di giurisdizionalità, un’espansione del ruolo e degli spazi delle garanzie secondarie o giurisdizionali. Questa espansione è avvenuta in questi anni in molteplici direzioni ed è destinata ancor più a svilupparsi. Esiste infatti una correlazione biunivoca tra stato di diritto e giurisdizione: poiché lo stato di diritto consiste nella soggezione al diritto del potere, lo spazio della giurisdizione tende ad espandersi con lo sviluppo del sistema dei limiti e dei vincoli legali imposti ai poteri, siano essi pubblici o privati.

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Nello stato legislativo del primo Ottocento questi limiti e vincoli erano minimi: perché minimo era il ruolo dello Stato, garante dell’ordine pubblico interno, tramite il diritto e la giurisdizione penale, e della certezza dei traffici tramite il diritto e la giurisdizione civile; e perché, per lungo tempo, lo Stato e la Pubblica Amministrazione furono concepiti come soggetti sovrani, non sottoposti al controllo giurisdizionale di legalità. Le sole giurisdizioni erano perciò quella civile e quella penale – l’una riguardante l’accertamento e la riparazione delle violazioni di diritto civile, l’altra l’accertamento e la punizione delle violazioni di diritto penale – destinate entrambe unicamente ai cittadini. Solo nel secondo Ottocento si affermò, con l’istanza liberale di una tutela giurisdizionale dei diritti nei confronti del potere esecutivo, un contenzioso amministrativo tra cittadini e istituzioni pubbliche. E solo con il trapasso dal vecchio stato legislativo allo stato costituzionale di diritto si è prodotta la compiuta trasformazione della giurisdizione in una funzione non più solo di controllo sociale, ma anche di garanzia dei diritti e di controllo sulle illegalità di tutti i pubblici poteri, incluse quelle del potere legislativo. Giacché la giurisdizione interviene in presenza delle violazioni del diritto, ed è quindi destinata ad espandersi quanto più si estende, con gli obblighi e i divieti imposti all’esercizio dei poteri, l’area delle possibili violazioni del diritto medesimo. È quanto è accaduto ed è destinato ancor più ad accadere con l’allargamento del paradigma dello stato di diritto avvenuto con la stipulazione di diritti e beni fondamentali in carte costituzionali, sia nazionali che sovrastatali, con la conseguente articolazione multilivello dei sistemi giuridici, con l’espansione della sfera dell’azione pubblica e, insieme, con l’aumento delle domande di giustizia non soddisfatte dalle funzioni politiche di governo. La prima articolazione multilivello degli ordinamenti giuridici, dopo la separazione tra produzione e applicazione della legge generata dall’affermazione del principio di legalità, è stata quella determinata dal paradigma costituzionale quale sistema di limiti e vincoli imposti alla legislazione, a garanzia dei diritti fondamentali stipulati nelle odierne costituzioni rigide. Ne è seguita l’espansione della giurisdizione avvenuta con l’introduzione del controllo giurisdizionale di costituzionalità sulle leggi invalide per contrasto con la costituzione. È stato soprattutto il ruolo di garanzia dei diritti fondamentali che ha determinato questa prima espansione, aggiun-

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gendo un ulteriore fondamento – la garanzia dei diritti, in aggiunta a quello tradizionale dell’imparziale accertamento del diritto violato – alla legittimazione politica del potere giudiziario quale funzione indipendente da qualunque altro potere: i diritti fondamentali, infatti, sono virtualmente contro le maggioranze, e le loro violazioni richiedono perciò una funzione di garanzia secondaria anch’essa virtualmente contro le contingenti maggioranze politiche. La seconda articolazione multilivello dei sistemi giuridici, cui ha fatto seguito un’ulteriore espansione della giurisdizione, è stata quella determinata dallo sviluppo di una legalità sovrastatale, sopraordinata alla legalità degli Stati nazionali. Ad essa ha corrisposto la creazione di giurisdizioni sovrastatali – dalle Corti europee di Strasburgo e di Lussemburgo alla Corte internazionale di giustizia e alla Corte penale internazionale – e di nuove competenze delle stesse giurisdizioni statali. Certamente, rispetto alle tante carte sovranazionali dei diritti, esistono vistose lacune di garanzie, sia primarie che secondarie: l’ordinamento internazionale è quasi del tutto privo di istituzioni di garanzia secondaria all’altezza non solo dei diritti sociali, ma in generale di tutti i diritti umani pur solennemente proclamati nelle tante dichiarazioni e convenzioni; la stessa giurisdizione della Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità è inoperante nei confronti dei paesi più forti, i quali non hanno aderito al suo trattato istitutivo, e largamente ineffettiva anche nei confronti dei paesi che ad esso hanno aderito. Tuttavia il percorso del controllo giurisdizionale sovrastatale sulle illegalità degli Stati è stato ormai tracciato e in parte avviato anche a livello globale, simultaneamente allo sviluppo crescente delle fonti di diritto sovrastatali, a cominciare dai diritti umani internazionalmente stabiliti che rendono sempre più intollerabile l’impunità, dietro il vecchio scudo della sovranità, dei crimini contro l’umanità. C’è poi un terzo e ancor più rilevante fattore di dilatazione degli spazi della giurisdizione: il ruolo crescente della magistratura quale istituzione terza deputata alla risoluzione dei conflitti e alla soddisfazione di diritti e domande di giustizia cui le istituzioni politiche di governo non danno risposte. Come ha ben osservato Stefano Rodotà, in molteplici settori della vita sociale – in materia di ambiente, di tutela dei consumatori, di tecnologie elettroniche, di questioni bioetiche, di diritti dei migranti – di fronte alla mancanza o alla debolezza delle risposte politiche, legislative o

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di governo, la giurisdizione è diventata il luogo legittimamente prescelto dai cittadini per far sentire la loro voce, rendere visibili e percepibili i loro diritti e soprattutto per farli valere. La garanzia giurisdizionale dei diritti e la conseguente soluzione dei conflitti hanno così dato vita a nuovi canali di inclusione e partecipazione democratica e di “accesso allo Stato”43; e la giurisdizione è diventata la sede privilegiata del riconoscimento e dell’attuazione dal basso dei diritti della persona, in alternativa alla mancanza di risposte politiche dall’alto dovuta alle inefficienze della Pubblica Amministrazione, o peggio alle lacune legislative di garanzie causate dall’inadempienza delle funzioni di governo. Un quarto e più appariscente fattore di espansione riguarda poi la giurisdizione penale. Esso consiste nello sviluppo, di cui ho parlato nel § 4.7, delle diverse forme di criminalità del potere: dei crimini dei poteri illegali delle organizzazioni criminali e, per altro verso, di quelli dei poteri legali, sia politici che economici, con i primi assai spesso collusi, dalle corruzioni e malversazioni alle devastazioni ambientali e alle grandi bancarotte, fino ai crimini contro l’umanità e alle molteplici forme di violazione dei diritti umani. Se è vero che le funzioni odierne della sfera pubblica, dalla garanzia dei diritti agli interventi di politica economica e sociale, sono incomparabilmente più numerose e complesse di quelle richieste nel vecchio stato liberale, è anche vero che sono incomparabilmente più ampi i loro spazi di potere e di arbitrio e perciò delle loro possibili illegalità e collusioni con i poteri illegali. Di qui l’espansione del ruolo della giurisdizione penale e della pubblica accusa e una fonte ulteriore della legittimità della loro indipendenza, essendo evidente che le illegalità dei poteri possono essere accertate soltanto da una giurisdizione da essi indipendente e perciò in grado di garantire, quanto meno, l’effettività secondaria, anche nei loro confronti, del diritto penale sostanziale. Infine un quinto ordine di espansioni del ruolo della giurisdizione, dettato dalla logica del costituzionalismo garantista, dovrebbe essere attuato – e in taluni ordinamenti è stato in parte 43   S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 169186. Si veda anche, su questa espansione degli spazi della giurisdizione, P. Andrés Ibáñez, En torno a la jurisdicción, Editores del Puerto, Buenos Aires 2007, pp. 41-43, 107-126.

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attuato – in molteplici direzioni. In primo luogo il controllo giurisdizionale di legittimità costituzionale dovrebbe essere esteso, come raccomandò Hans Kelsen, anche agli atti del governo e del parlamento di carattere non legislativo44. Non si capisce infatti perché, ad esempio, in Italia non dovrebbe essere sottoposta al sindacato di costituzionalità la partecipazione alla guerra, pur vietata solennemente dall’art. 11 cost. In secondo luogo, il medesimo controllo dovrebbe essere in qualche modo allargato alle lacune, cioè alle violazioni della costituzione non per commissione, ma per omissione45. È quanto prevedono, come ho ricordato nel § 3.5, la Costituzione portoghese e quella brasiliana. Ma è evidente che questo controllo incontra un limite insuperabile nella separazione dei poteri, che consente l’annullamento degli atti invalidi e perciò delle antinomie, ma non anche delle lacune, che la giurisdizione può solo segnalare al potere legislativo ma non certo colmare con la produzione delle norme mancanti: un limite, peraltro, che in Brasile è stato aggirato dai già ricordati vincoli di bilancio, la cui imposizione vale a trasformare le possibili lacune di garanzie in antinomie censurabili in sede giudiziaria. Da ultimo, un allargamento degli spazi della giurisdizione è generato dall’espansione del principio di azionabilità di cui parlerò nel prossimo paragrafo. È chiaro che tutte queste espansioni della giurisdizione, ben al di là delle classiche funzioni della giustizia civile e penale destinata prevalentemente ai comuni cittadini, sono accomunate da un medesimo tratto. Sono avvenute grazie all’espansione del modello garantista dello stato di diritto, cioè della soggezione al diritto dei poteri pubblici e privati e del conseguente controllo di legalità sul loro esercizio: sulle leggi costituzionalmente invalide prodotte dall’esercizio illegittimo del potere legislativo, sugli illeciti internazionali degli Stati e dei loro funzionari, sui reati commessi dai potenti e, infine, sulle violazioni dei diritti per commissione o per omissione e sulle conseguenti domande di giustizia alle quali il sistema politico e amministrativo è incapace di rispondere. Esse comportano inoltre, inevitabilmente, scelte interpretative che hanno accresciuto la dimensione politica della giurisdizione. 44   Si veda, in questo senso, Kelsen, La garanzia giurisdizionale della costituzione cit., cap. 2, §§ 10-15, pp. 176-185. 45   Si veda, sulla questione, Carbonell, En busca de las normas ausentes cit.

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Questo processo espansivo, infine, non si è affatto esaurito. Esso esprime, al contrario, una tendenza progressiva destinata, come dobbiamo augurarci, a svilupparsi ulteriormente. Per quanto allargato, infatti, l’insieme delle garanzie e il ruolo della giurisdizione sono oggi largamente inadeguati rispetto alle funzioni di tutela dei diritti stipulati nelle tante carte costituzionali e sovranazionali. Lo sono a livello statale e lo sono soprattutto a livello internazionale, dove esiste un vuoto di diritto pubblico e di garanzie, che il principio di completezza impone di colmare, rispetto da un lato ai nuovi diritti e, dall’altro, ai poteri non solo politici ma anche economici e finanziari sviluppatisi nel mondo globalizzato. Ebbene, dobbiamo riconoscere che da questa espansione della giurisdizione è conseguita una crescita enorme del potere giudiziario e del suo ruolo politico, che rischia di produrre uno squilibrio nei rapporti tra i pubblici poteri e richiede perciò un rafforzamento delle sue condizioni di legittimità. Certamente, il ruolo di garanzia nel quale consiste tale potere vale ad escludere, in via di principio, che si possa temere il cosiddetto governo dei giudici. Come scrisse Alexander Hamilton: “Il giudiziario [...] non può influire né sulla spada né sulla borsa” ed è perciò “senza paragone alcuno il più debole dei tre poteri dello Stato”46. Soprattutto, inoltre, il potere giudiziario interviene, con le sue censure e le sue sanzioni, soltanto sull’esercizio illegittimo degli altri poteri, e non anche sul loro legittimo esercizio. È un potere di censura e non di trasformazione, di conservazione e non di innovazione. Tuttavia, perché esso non travalichi le sue già estese competenze e intervenga non già negli spazi legittimi ma solo negli spazi illegittimi della politica, è necessario che la giurisdizione, di qualunque tipo e livello, consista quanto più possibile nell’applicazione sostanziale della legge, che è la sola fonte della sua legittimità. E questo richiede quattro condizioni. La prima condizione riguarda la concezione stessa del costituzionalismo. Proprio l’espansione crescente del ruolo e del potere dei giudici richiede oggi una concezione garantista del costituzionalismo che legga i diritti fondamentali non già come principi affidati alla ponderazione e all’attivismo giudiziario, bensì come regole

46   A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il Federalista (1788), trad. di M. D’Addio e G. Negri, Il Mulino, Bologna 1997, p. 623.

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vincolanti, destinate all’applicazione giurisdizionale alle loro violazioni. Il modello principialista della ponderazione, al contrario, mentre da un lato depotenzia la normatività costituzionale, attribuisce alla giurisdizione un’impropria discrezionalità, compromettendone la soggezione alla legge e con essa il fondamento della sua indipendenza. L’attivismo giudiziario promosso da tale modello, a sua volta, rischia di tradursi, come si è detto nel § 3.9, in una duplice lesione del paradigma dello stato di diritto: da un lato nel ribaltamento della gerarchia delle fonti, dato che la ponderazione finisce di fatto per risolversi nella scelta dei principi costituzionali volta a volta ritenuti più “pesanti” di altri; dall’altro, nella violazione della separazione dei poteri, a causa dell’indebito ruolo creativo di diritto di fatto assunto dalla funzione giudiziaria47. La seconda condizione consiste in una concezione e in una pratica garantista della giurisdizione. Nel momento in cui il potere dei giudici si converte, grazie al paradigma costituzionale, in un potere di controllo sul valido esercizio degli altri poteri, legittimati oltre tutto dalla rappresentanza politica, diventa essenziale affermarne, insieme all’indipendenza, limiti e vincoli rigorosi quali condizioni della sua stessa legittimità. Ciò vale per tutte le giurisdizioni, da quella costituzionale a quella ordinaria, e in particolare per quella penale, che non possono invadere, senza violare a loro volta la separazione dei poteri, gli spazi di competenza delle scelte politiche. È assurdo, ad esempio, che la legittimità del cosiddetto “fondo salva-stati” istituito dal Consiglio dei ministri europeo, e quindi il futuro dell’euro e con esso della stessa Unione Europea – cioè una decisione eminentemente politica – sia stata affidata alla decisione, nel settembre 2012, degli otto giudici della Corte costituzionale tedesca; o che l’introduzione di un’aliquota fiscale del 75% sui redditi superiori al milione di euro sia stata censurata, in Francia, dal Consiglio costituzionale, perché applicata ai redditi individuali anziché a quelli familiari; o che taluni magistrati delle procure, come spesso è accaduto in Italia, configurino come reati, in violazione del principio di stretta legalità e 47   Mauro Barberis parla di una “giudizializzazione della politica” indotta da tale modello e del conseguente “passaggio di poteri normativi da organi politici a organi giudiziari”, e richiama sul fenomeno un’ormai copiosa letteratura (Barberis, Nuovo costituzionalismo cit., pp. 193-194).

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tassatività, scelte o attività le quali, benché discutibili e censurabili sul piano politico o morale, rientrano nelle competenze della politica o della pubblica amministrazione. La separazione dei poteri deve essere messa al riparo dalle interferenze sulla giurisdizione del potere politico. Ma deve esserlo anche dalle indebite interferenze sulla politica del potere giudiziario. Solo la simultanea difesa delle due separazioni rende infatti credibili le difese dell’una e dell’altra e può fondare, insieme a una concezione garantista della giurisdizione, la deontologia e la responsabilità dei magistrati. La terza condizione è il rafforzamento delle garanzie giurisdizionali, a cominciare dal principio di stretta legalità e tassatività delle norme quale presupposto della rigida soggezione dei giudici alla legge e della natura tendenzialmente cognitiva del giudizio. La giurisdizione è sempre un sapere-potere, ed è tanto più legittima quanto maggiore è il sapere e quanto minore è il potere. Di qui, come si è detto nel § 5.4, la necessità di rifondare in particolare la legalità penale, ponendo un freno all’inflazione legislativa che pregiudica al tempo stesso l’effettività del diritto e il suo ruolo garantista, mediante la sostituzione della riserva di legge con una riserva di codice idonea ad assicurare quanto meno la coerenza, la sistematicità e la conoscibilità del diritto penale sostanziale. Ma sarebbe altresì necessaria una rifondazione della legalità costituzionale, attraverso una formulazione più precisa delle norme costituzionali e in particolare dei diritti fondamentali. C’è infatti un solo modo, come sopra si è detto, per limitare l’arbitrio giudiziario e rendere effettiva la soggezione dei giudici alla volontà del legislatore: che i legislatori, di qualunque livello, sappiano fare il loro mestiere, sottoponendo i giudici alla stretta legalità attraverso la formulazione quanto più possibile univoca e precisa delle norme che essi sono chiamati ad applicare. La quarta condizione consiste nello sviluppo di una rigorosa deontologia giudiziaria48. Ai fini della legittimazione degli spazi e dei poteri sempre più ampi della giurisdizione è necessaria, al di là del rispetto della legalità, una cultura della giurisdizione basata su una lunga serie di regole morali: la consapevolezza del carattere

48   Si veda, in proposito, il prezioso catalogo dei doveri dei giudici formulato da Andrés Ibáñez, En torno a la jurisdicción cit., pp. 54-58.

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sempre imperfetto e relativo della verità processuale, probabilistica in fatto e opinabile in diritto, e perciò di un irriducibile margine di illegittimità di quel potere “terribile” e “odioso”, come lo chiamarono Montesquieu e Condorcet, che è il potere giudiziario49; il conseguente costume del dubbio, il rifiuto di ogni arroganza cognitiva, la prudenza del giudizio – da cui il bel nome “giurisprudenza” – come stile morale e intellettuale della pratica giuridica; la disponibilità sia dei giudici che dei pubblici accusatori all’ascolto di tutte le opposte ragioni, secondo il modello di processo che Beccaria chiamò “informativo”, in opposizione a quello che chiamò invece “processo offensivo”, nel quale “il giudice diviene nemico” del reo e “non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose”50; il rispetto delle parti in causa, inclusi gli imputati, quali che siano, e la capacità dei giudici di ottenerne non già il consenso, bensì la fiducia nella loro imparzialità, nella loro capacità di giudizio e nel loro ruolo di garanti dei diritti; il rifiuto di ogni attivismo e protagonismo giudiziario e, ovviamente, di qualunque uso strumentale del proprio ruolo a fini extra-giudiziari. Se è vero infatti che l’indipendenza è una condizione necessaria del ruolo di garanzia del potere giudiziario, è anche vero, inversamente, che la soggezione alla legge di tale potere, l’onestà intellettuale e l’effettiva garanzia dei diritti sono le condizioni necessarie della legittimità della sua indipendenza, minacciata ogni qual volta un giudice o un pubblico ministero commettono un abuso, o condannano un innocente, o violano i diritti di un cittadino. Solo se il ruolo dei giudici non sarà avvertito e giudicato da quanti sperimentano il lo-

49   Ch. Montesquieu, De l’esprit des lois (1748), in Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1951, vol. II, XI, 6, p. 398: “La puissance de juger, si terrible parmi les hommes”; M. Condorcet, Idées sur le despotisme (1789), in Oeuvres de Condorcet, Firmin Didot, Paris 1847, tome IX, p. 155: “Le despotisme des tribunaux est le plus odieux de tous”; esso può essere evitato, aggiunge Condorcet, solo “si les juges sont strictement obligés à suivre la lettre de la loi” (ivi, p. 156), giacché “il y a despotisme toutes les fois que les hommes ont des maîtres, c’est-à-dire sont soumis à la volonté arbitraire d’autres hommes” (ivi, p. 147). 50   Beccaria, Dei delitti e delle pene cit., § XVII, pp. 45-46. Dell’“indifferenza richiesta nei giudici” aveva parlato anche L.A. Muratori, Dei difetti della giurisprudenza (1742), Rizzoli, Milano 1953, cap. XII, pp. 130-141.

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ro giudizio come un’arbitraria invadenza nelle loro libertà o nelle competenze di altri poteri, ne sarà da essi difesa l’indipendenza e la legittimità come necessarie garanzie dei loro diritti. 5.9. D) Il principio di azionabilità e la sua estensione al di là del diritto individuale di azione. Per un pubblico ministero di garanzia Da ultimo, dovunque ci sia una giurisdizione, è necessario che ci sia la possibilità di attivarla. È questo il quarto e ultimo principio del nostro modello garantista MG: il principio di azionabilità dei diritti lesi. Nel vecchio paradigma dello stato di diritto tale garanzia è assicurata dall’esercizio del diritto d’azione: “tutti possono agire in giudizio”, dice ad esempio l’art. 24 cost., “per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. Ma è chiaro che questa garanzia, affidata unicamente ai soggetti titolari dei diritti lesi, riflette il modello individualistico soprattutto del processo civile, che è un processo tra parti tendenzialmente uguali, a garanzia di diritti patrimoniali singolari e disponibili la cui tutela, anche giudiziaria, è rimessa all’autonomia delle parti. Mentre essa non è sufficiente, nel paradigma costituzionale, ad assicurare l’osservanza dei vincoli imposti alla sfera pubblica dai diritti sociali, dai beni fondamentali e dagli interessi collettivi costituzionalmente stipulati. E se è vero che qualunque violazione giuridica richiede come garanzia secondaria l’intervento di un giudice, è anche vero che tale garanzia è destinata all’ineffettività qualora tale giudice non sia accessibile dai soggetti interessati. Di qui la necessità di una garanzia dell’accesso alla giustizia come diritto universale in un duplice senso, soggettivo e oggettivo: quale diritto garantito a tutte le persone, inclusi i soggetti più poveri, e a garanzia di tutti i diritti lesi, inclusi i diritti fondamentali e in particolare i diritti sociali; quale diritto alla difesa nel processo e quale diritto di accesso al processo. Anche sotto questo aspetto il costituzionalismo latino-americano propone alla riflessione teorica e politica due rilevanti istituzioni di garanzia, ignote entrambe all’esperienza europea. La prima è la difesa pubblica affidata a un pubblico ministero di difesa. Questa difesa ad opera di un magistrato – sconosciuta all’esperienza europea, ma non al pensiero classico del liberalismo penale51 – è oggi prevista,

  “L’ufficio di pubblico difensore”, si chiese Jeremy Bentham, “è forse inuti-

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ovviamente su richiesta dell’imputato che non intenda o non possa avvalersi di un difensore di fiducia, in molti paesi dell’America Latina: dall’Argentina all’Uruguay e al Brasile, dal Cile al Perù e all’Ecuador, dalla Repubblica Dominicana al Guatemala e al Costarica. Si tratta di un’essenziale garanzia del diritto alla difesa, che in quanto diritto fondamentale deve essere garantito ugualmente e gratuitamente a tutti, e, insieme, della parità tra accusa e difesa, e perciò dell’effettività del contraddittorio quale banco di prova della verità processuale52.

le? È forse meno necessario di quello del pubblico accusatore? La società ha meno interesse alla sicurezza dell’innocente che alla persecuzione del crimine? Occorre impiegare più precauzioni e mezzi nell’accusa che nella difesa? [...] È dunque essenziale collocare visibilmente a fianco del magistrato che persegue il crimine un magistrato che vegli sulle sorti dell’innocente, che non si dia all’accusatore alcun vantaggio che non sia condiviso dal difensore, e che queste due funzioni siano separate da quelle del giudice, onde di questi sia garantita interamente l’imparzialità”, anche per evitare che “le cause dei poveri siano trascurate, dato che l’avvocato in esse non si impegnerebbe, potendo vendere il tempo che dedica a dei clienti insolventi ai clienti che lo pagano”: J. Bentham, De l’organisation judiciaire et de la codification, in Oeuvres de Jérémie Bentham, a cura di É. Dumont, Hauman, Bruxelles 1840, vol. III, cap. XIX, intitolato De l’accusateur publique. Du défensuer publique, p. 35. Ma già Filangieri aveva sostenuto che “l’istituzione di un magistrato difensore sarebbe necessaria. Ogni provincia dovrebbe averne uno o più, proporzionatamente alla sua popolazione. La cura di questo magistrato non dovrebb’esser quella soltanto di difendere que’ rei che, per la loro povertà non potrebbero essere da altri difesi, ma anche di assistere a tutt’i capitali giudizi, ancorché il reo richiesto non avesse il suo ministero”: G. Filangieri, La scienza della legislazione, edizione critica, diretta da V. Ferrone, a cura di F. Toschi Vespasiani, Centro di Studi sull’Illuminismo europeo, Venezia 2003, Libro terzo, Quinta parte, cap. XX, p. 216. La stessa proposta fu avanzata da Francesco Carrara, che parimenti ipotizzò l’istituzione di un “tribunato della difesa costituito come magistratura permanente, destinata a guarentire la libertà civile dei cittadini dai primi momenti nei quali sorge contro di loro il pericolo di un processo criminale. Dovrebbe al Pubblico Ministero lasciarsi tutto ciò che gli occorre alla persecuzione dei delinquenti; cioè tutti i suoi poteri attuali. Ma dovrebbe stargli a fronte un magistrato che avesse altrettanti poteri nel senso di vigilanza della procedura, e protezione dell’innocenza. Le preoccupazioni del magistrato destinato ad accusare troverebbero un equilibrio nelle preoccupazioni del magistrato destinato a difendere. A quello esercitare l’azione pubblica, provocare gli arresti e le procedure a carico dell’accusato. A questo provocare le scarcerazioni e le verificazioni a discarico”: F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale [1859], Fratelli Cammei, Firenze 1907, § 867, p. 349. 52   Si vedano, sulla difesa pubblica in America Latina: M.F. López Puleio, Note sul modello di difesa pubblica in Argentina e in Guatemala, in «Questione

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La seconda e ancor più importante garanzia dell’accesso di tutti alla giustizia, segnalataci dall’esperienza latinoamericana, è la previsione, accanto al diritto di azione dei singoli individui, del potere di attivare la giurisdizione in capo a un organo pubblico. Deve pur esserci un pubblico ministero a Berlino, come si è detto nel § 2.1 parafrasando il classico auspicio riferito ai giudici ma destinato a restare insoddisfatto ove questi non siano accessibili e chiamati a pronunciarsi su qualunque violazione delle leggi e in particolare dei diritti dei cittadini. Ebbene, questo ulteriore principio è stato introdotto nella Costituzione brasiliana, il cui art. 129 ha enormemente allargato le competenze del pubblico ministero fino ad includervi, ben al di là delle tradizionali funzioni accusatorie, l’azione giudiziaria a tutela dei diritti fondamentali, e in particolare dei diritti sociali, nonché degli interessi pubblici e dei beni di rango costituzionale violati dai pubblici poteri53. giustizia», 3, 2001, pp. 547 sgg.; Id., El acceso a un defensor penal y sus ámbitos especialmente críticos, en La aplicación de tratados de derechos humanos en el ámbito local, Editores del Puerto, Buenos Aires 2007; J.B.J. Maier, Derecho procesal penal, tomo II, Parte general. Sujetos procesales, Editores del Puerto, Buenos Aires 2003, pp. 259, 262. Si vedano inoltre: il fascicolo dedicato alla Defensa pública della rivista «Pena y estado», 5, 2002, e, in particolare, i saggi di M.F. López Puleio, Justicia penal y defensa pública. La deuda pendiente, e di S. Maris Martínez, Defensa pública, derecho del pueblo; il volume La defensa oficial y su impacto en la jurisprudencia, Ministerio Público de la Defensa, Buenos Aires 2005; A. Ruiz, Asumir la vulnerabilidad, in Defensa Pública: Garantia de acceso a la justicia, Ministerio Público de la Defensa, Buenos Aires 2008, pp. 37-46; L. Ferrajoli, La desigualdad ante la justicia penal y la garantía de la defensa pública, ivi, pp. 77-89; C.F. Alves, Pobreza y derechos humanos: el papel de la defensa pública en la lucha por la erradicación de la pobreza, ivi, pp. 147-166. Per un’analisi comparata dei diversi sistemi di difesa gratuita, con particolare riferimento agli Stati Uniti, alla Francia e al Brasile, si veda inoltre C.F. Alves, Justiça para todos! Assistencia jurídica gratuita nos Estados Unidos, na França e no Brasil, Lumen Juris Editora, Rio de Janeiro 2006. Cfr. anche il mio Il Pubblico ministero di difesa: un’esigenza garantista, in «Questione giustizia», 2, 2011, pp. 7-16. 53   Rinvio, su questo istituto, al mio Per un Pubblico Ministero come istituzione di garanzia, in «Questione giustizia», 1, 2012, pp. 31-43. Sull’originale figura del Pubblico Ministero brasiliano quale organo di garanzia, si veda, dell’abbondante letteratura: J.A. Vianna Lopes, Democracia e ciudadania: o novo Ministério Público brasileiro, Lumen Juris, Rio de Janeiro 2000; P.C. Pinheiro Carneiro, O Ministério Público e a Lei da Ação Civil Pública. Dez anos na defesa dos interesses difusos e coletivos, in «Revista do Ministério Público do Estado do Rio de Janeiro», 2, jul.-dez. 1995, pp. 138 sgg.; A. Araujo De Souza, O Ministério Público, a ação civil pública e a possibilidade, nesta sede, de controle incidental de

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Del resto anche le funzioni accusatorie si sono sviluppate storicamente, nella nostra esperienza giuridica, con l’affermazione del carattere pubblico conferito all’azione penale sulla base del riconoscimento dell’insufficienza, nell’originario processo accusatorio, dell’accusa privata affidata alle sole parti offese. Il pubblico ministero, in altre parole, si è affermato come organo pubblico anche a garanzia dell’accesso alla giustizia delle vittime dei reati. Se non esistessero un tale organo pubblico, la procedibilità d’ufficio e l’obbligatorietà dell’azione penale, neppure il diritto alla vita sarebbe garantito, essendo di solito inverosimile che la vittima abbia la forza e il coraggio di agire contro il proprio aggressore. Sotto questo aspetto, può ben dirsi che l’obbligatorietà dell’azione penale altro non è che un riflesso dell’obbligatorietà della garanzia secondaria dei diritti, dei beni e degli interessi penalmente tutelati. Ma un discorso analogo può allora farsi per tutti i diritti fondamentali – non solo per i diritti di libertà e di immunità da offese delittuose, ma anche per i diritti sociali – che sono tutti leggi del più debole, a sostegno del quale si richiede l’esistenza di un’istituzione di garanzia secondaria che ad esso assicuri l’accesso constitucionalidade: uma trilogia democrática, ivi, 15, jan.-jun. 2002, pp. 23-61; F. De Melo-Fournier, Le parquet brésilien entre sens et contrasens, in C. Lagerzes (dir.), Les figures du parquet, Puf, Paris 2006, pp. 201 sgg.; H. Nigro Mazzilli, O acesso à justiça e o Ministério Público, Saraiva, São Paulo 2007; E. Garcia, Ministério Público. Organização, atribuições e regime jurídico, Lumen Juris, Rio de Janeiro 2007; J. Paulo Dias, R. Ghiringhelli De Azevedo (ed.), O papel do Ministério Público. Estudo comparado dos países latino-americanos, Almedina, Coimbra 2008; C. Chaves, L. Barreto Moreira Alves, N. Rosenvald (ed.), Temas atuais do Ministério Público. A atuação do Parquet nos 20 anos da Constituição federal, Lumen Juris, Rio de Janeiro 2010; O Ministério Público e as Polícias em uma perspectiva comparada, fasc. monografico della «Revista do Conselho Nacional do Ministerio Público», 2, jul.-dez. 2011, vol. I; H. Zaneti Jr., F. Didier Jr., Curso de Direito Processual. Processo Coletivo, Jus-Podium, Salvador 2012, pp. 349-367. Uno studio ampio, sistematico e documentato del ruolo garantista del Pubblico Ministero brasiliano è ora offerto dalla tesi di dottorato di Alexander Araujo de Souza, Il Pubblico Ministero come istituzione di garanzia e il contrasto alla criminalità organizzata. Limiti e prospettive tra garantismo ed effettività, di prossima pubblicazione, che rileva tra l’altro le funzioni di garanzia di interessi pubblici e collettivi affidate al Pubblico Ministero anche da altre costituzioni (come dall’art. 124 della Costituzione spagnola del 1978, dall’art. 277, commi 3 e 4, della Costituzione colombiana del 1991, dagli artt. 266 e 268 della Costituzione del Paraguay del 1994; dall’art. 120 della Costituzione argentina del 1994 e dall’art. 225 della Costituzione della Bolivia del 2009).

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alla giustizia. È insomma la logica interna del costituzionalismo garantista che impone la garanzia secondaria dell’accesso alla giustizia, tutte le volte che un contenzioso processuale non è tra pari, come nel processo civile, ma tra soggetti disuguali, e richiede perciò che la sfera pubblica supplisca alla debolezza del titolare di un diritto fondamentale leso, che in quanto diritto di tutti è altresì di pubblico interesse. C’è poi un altro e non meno importante ordine di funzioni requirenti che il modello garantista del costituzionalismo richiede in attuazione del principio di azionabilità. Esso riguarda specificamente la giurisdizione costituzionale, e precisamente la legittimazione ad attivarla in capo ad organi pubblici indipendenti, a garanzia di qualunque violazione delle norme costituzionali, e in particolare dei diritti da esse stabiliti. Vanno ricordate, in questa prospettiva, due importanti proposte avanzate da Hans Kelsen: quella di estendere tale legittimazione non solo ai tribunali, ma anche agli organi amministrativi e, in generale, a “ogni pubblica autorità che, nell’applicare una norma, nutra dubbi circa la sua regolarità”54, e quella di istituire presso la Corte costituzionale un procuratore generale, da lui chiamato “difensore della costituzione”, con il potere di eccepire l’illegittimità di qualunque atto del parlamento da lui ritenuto incostituzionale55. Sono proposte che hanno ricevuto attuazione in molti ordinamenti. Si ricordino, sui molti soggetti legittimati ad adire la giustizia costituzionale – dalle minoranze parlamentari agli organi del potere esecutivo, dalle istituzioni locali alle persone fisiche, fino alla figura portoghese e brasiliana di un procuratore presso la Corte costituzionale – l’art. 93 della Legge fondamentale tedesca, l’art. 162 della Costituzione spagnola, l’art. 281, c. 2 della

  Kelsen, La garanzia giurisdizionale cit., § 19, pp. 194-195.   “Un istituto del tutto nuovo ma che meriterebbe la più seria considerazione sarebbe quello di un difensore della costituzione presso il Tribunale costituzionale che, a somiglianza del pubblico ministero nel processo penale, dovrebbe introdurre d’ufficio il procedimento del controllo di costituzionalità per gli atti che ritenesse irregolari. Il titolare di una simile funzione dovrebbe avere evidentemente le più ampie possibili garanzie d’indipendenza sia nei confronti del governo che del parlamento. Per ciò che concerne i ricorsi contro le leggi, sarebbe di estrema importanza attribuire il diritto di proporli anche ad una minoranza qualificata del parlamento”: ivi, p. 196. 54 55

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Costituzione portoghese e l’art. 103 della Costituzione brasiliana. Si tratta di istituzioni di garanzia che valgono a colmare la sostanziale lacuna presente invece in ordinamenti che, come quello italiano, prevedono soltanto il controllo incidentale di costituzionalità sulle leggi sollecitato da un giudice nel corso di un processo. Che è un controllo parziale e incompleto per due ragioni. In primo luogo perché lascia di fatto sopravvivere una legge invalida anche per molti anni; tanto più allorquando si tratta di leggi – si pensi alle leggi elettorali, o a quelle contro soggetti deboli come gli immigrati clandestini – sulle quali il controllo di legittimità ben difficilmente può essere attivato nel corso di un processo. In secondo luogo perché ne sono esclusi, come si è detto nel precedente paragrafo, gli atti non legislativi, come ad esempio la violazione dell’art. 11 sul divieto della guerra, essendo il controllo di costituzionalità limitato, dalla Costituzione italiana, alle sole leggi e ai conflitti tra poteri. 5.10. Il futuro della politica. Un significato allargato dell’interesse generale e della sfera pubblica  Naturalmente la gravità della crisi odierna del paradigma costituzionale non consente previsioni ottimistiche. Ma dobbiamo essere consapevoli che in tale crisi non c’è nulla di naturale; e che la democrazia, nelle sue diverse e complesse forme, dimensioni e livelli, è una costruzione artificiale, la quale dipende dalla politica, dalle lotte sociali a suo sostegno e anche dal ruolo critico e progettuale della scienza giuridica e della cultura politica. Il paradigma del costituzionalismo garantista impone comunque di leggere le degenerazioni in atto, ma anche le arretratezze e le lacune responsabili dell’ineffettività del progetto costituzionale, come altrettanti segni e fattori di illegittimità dei sistemi politici; e di identificare il grado di legittimità e la misura dell’illegittimità di un sistema politico dotato di costituzione rigida, rispettivamente con il grado di effettività delle garanzie dei diritti in essa stabiliti e con la misura delle loro violazioni. È l’analisi di questi profili di illegittimità, come detto nel § 2.8, il più rilevante compito scientifico oltre che civile che il costituzionalismo garantista assegna alla scienza giuridica: non più concepibile né praticabile come mera contemplazione e descrizione del diritto esistente, secondo il vecchio metodo tecnico-giuridico, bensì investita, dalla struttura a gradi del proprio oggetto, di un

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ruolo critico delle antinomie e delle lacune in esso legate ai dislivelli normativi e di un ruolo progettuale delle tecniche di garanzia idonee a superarle o quanto meno a ridurle. È poi evidente che la progettazione del “diritto che deve essere” è una progettazione politica, ancor prima che giuridica. Ma essa, diversamente da quanto poteva dirsi in epoca pre-costituzionale, è anche, in gran parte, una progettazione giuridicamente dovuta, che dai principi costituzionalmente stabiliti trae non solo la propria legittimità, ma anche il fondamento obbligatorio dei suoi contenuti politici e normativi. Proprio la gravità delle sfide rivolte al diritto e alla ragione dai problemi e dalle emergenze globali può peraltro rivelarsi, se prendiamo sul serio le promesse costituzionali stipulate nelle tante carte dei diritti nazionali e sovranazionali, come una straordinaria opportunità. Proprio la consapevolezza del carattere irreversibile della globalizzazione e dei pericoli di disastri irrimediabili provocati dagli attuali poteri sregolati e selvaggi può generare un senso nuovo del diritto e dell’interesse generale e una concezione universalistica del costituzionalismo e della democrazia, fondata sulla percezione come vincolanti della Carta dell’Onu e delle tante carte internazionali dei diritti umani quali diritti di tutti. Può insomma provocare, a livello globale, una riaffermazione della ragione giuridica e politica – di quell’artificial reason invocata da Hobbes alle origini dello Stato moderno – e la maturazione nel senso comune dell’idea della necessità di un nuovo ordine mondiale quale alternativa alla catastrofe. È questo, del resto, un processo di crescita civile già avviato con lo sviluppo dei tanti movimenti di contestazione dell’ordine esistente – si pensi alle mobilitazioni di milioni di persone in tutto il mondo contro le guerre, o in difesa dell’ambiente e dei diritti, o a tutela dei beni comuni, o contro l’attuale subalternità della politica ai mercati finanziari – che hanno preso sul serio quelle carte, interpretandole come un’embrionale costituzione del mondo e perciò rivendicando un’espansione a livello globale del paradigma garantista della democrazia costituzionale. Naturalmente non possiamo prevedere se l’espansione di tale paradigma riuscirà a svilupparsi, o se invece continueranno a prevalere la miopia e l’irresponsabilità dei governi. Ma i problemi globali generati dalla necessità e dall’urgenza di porre un freno alla distruzione dell’ambiente naturale e alla crescita delle disugua-

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glianze stanno rivelando un’interdipendenza che accomuna tutto il genere umano; e stanno provocando, anche grazie agli straordinari progressi della tecnologia delle comunicazioni, una rifondazione della politica attraverso la mobilitazione dal basso e lo sviluppo di movimenti transnazionali, in difesa dei diritti di tutti e dei beni comuni. È questa crescente integrazione planetaria la grande novità che questi problemi hanno creato e che consente una nota di ottimismo. Al di sopra di tutte le differenze politiche, religiose, ideologiche e culturali, al di là delle stesse disuguaglianze economiche e dei tanti conflitti che dividono l’umanità, i livelli generalizzati di miseria prodotti dall’incapacità della politica di governare la crisi economica e, più ancora, le minacce di distruzione dell’ambiente e le altre emergenze globali ci avvertono che ci sono interessi e beni vitali e collettivi che nessuna politica nazionale o liberista potrà mai confiscare o privatizzare, a cominciare dal pianeta Terra, con i suoi mari, i suoi fiumi e la sua atmosfera, che tutti condividiamo e che è nell’interesse di tutti preservare. I movimenti e le battaglie civili cui queste minacce hanno dato vita a livello planetario stanno provocando, in masse crescenti, la maturazione di un nuovo sentimento comune di appartenenza al genere umano, al di là delle differenze di nazionalità, di cultura e perfino di opinioni politiche. Per questo quelle minacce sono non soltanto il problema politico più grave, che richiede una forte ripresa del ruolo di governo della politica e del ruolo di garanzia del diritto, ma rappresentano anche un’opportunità senza precedenti: la possibilità di rifondare la garanzia della pace e dei diritti umani sulla necessaria interdipendenza mondiale da esse stesse generata e sulla percezione sempre più diffusa dell’umanità come un’unica nazione o comunità. Per la prima volta nella storia, la sfida globale lanciata alla ragione da queste minacce impone una politica altrettanto globale, basata su una cooperazione mondiale cui nessuna potenza potrà sottrarsi, e su un costituzionalismo mondiale che dovrà essere preso sul serio perché nell’interesse di tutti, non soltanto alla pace ma alla stessa sopravvivenza del genere umano. La sfida, infatti, sarà vinta solo se sarà creata una sfera pubblica planetaria alla sua altezza, garante di un interesse pubblico generale – l’interesse dell’intera umanità, ben più ampio dei diversi interessi pubblici nazionali o locali – e sorretta dalla consapevolezza del carattere al tempo stesso vitale, universale e comune di tale interesse.

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Perché si abbia una vera svolta sono però necessarie due condizioni. La prima è che il progetto garantista disegnato dalle costituzioni si proponga come progetto politico e che, intorno ad esso, si sviluppi il più largo consenso, grazie alla forza egemonica che riescono ad acquistare, nel senso comune, i diritti costituzionali quali interessi universali o di tutti56. Quel progetto, si è detto, è un progetto razionale, in grado di ridefinire e rifondare sul nesso tra ragione, diritto e democrazia una prospettiva liberal-socialista, alternativa sia alle esperienze dei socialismi realizzati del secolo scorso, clamorosamente fallite a causa del disprezzo per il diritto e per i diritti quali limiti e vincoli all’esercizio dei poteri politici, sia alla sovranità selvaggia dei poteri economici e finanziari cui le politiche odierne si sono assoggettate. La sua attuazione richiede perciò una battaglia culturale che metta al centro dell’agenda politica i diritti fondamentali, oggi aggrediti dalle politiche di rigore e ignorati dalle ideologie liberiste, e ne istituisca le garanzie sia primarie che secondarie nelle quali risiede la ragion d’essere, quella che ho chiamato la “ragione sociale” della democrazia costituzionale. Non basta, a tal fine, il ruolo pur necessario di garanzia secondaria svolto dalla giurisdizione, sul quale principalmente fa leva il costituzionalismo principialista. La costruzione della democrazia prospettata dal costituzionalismo garantista richiede soprattutto una riabilitazione del ruolo della politica, e con essa della legislazione, dalle quali dipendono l’introduzione o il rafforzamento delle garanzie primarie delle diverse classi di diritti costituzionalmente stabiliti: in materia di lavoro, di diritti sociali e di libertà, di tutela dell’ambiente e dei beni comuni e perfino di rappresentanza politica. La seconda condizione di una svolta democratica è che alla consapevolezza della nuova natura e delle nuove dimensioni dell’interesse pubblico o generale si accompagni un’energia che può provenire soltanto da una rinascita dell’impegno politico e da una rinnovata passione per la politica. Quell’energia della politica

56   Sul ruolo dell’egemonia nella formazione dell’opinione pubblica quale alternativa democratica alle derive populiste e, insieme, all’attuale impotenza e deresponsabilizzazione della politica, si veda da ultimo G. Preterossi, La politica negata, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 96 sgg., che parla di “egemonia della costituzione”.

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fu presente e straordinariamente potente nell’Europa del secondo dopoguerra, allorquando sulle rovine dei fascismi e della più terribile guerra della storia fu costruita la democrazia costituzionale. L’umanità non era mai caduta così in basso. Nel cuore dell’Europa, l’umanità era sprofondata nell’abisso del male assoluto. Fu su quelle macerie che fu rifondata la democrazia dalla politica alta di chi aveva combattuto il nazifascismo, con i mai più opposti a quel tragico passato dalle nuove costituzioni rigide, dai nuovi patti internazionali sui diritti umani e dalla costruzione dell’unità europea dopo secoli di guerre culminate nei due massacri mondiali. La stessa energia si è manifestata in Spagna dopo la fine del franchismo e poi in America Latina, dopo la caduta delle dittature. Sempre i nuovi patti costituzionali sono stati il prodotto ma anche la fonte dell’energia politica dei nuovi ceti dirigenti. Sempre, in tutti questi paesi, fu da quei patti che fu tratta l’energia necessaria non solo a fondare le nuove democrazie, ma anche a promuovere lo sviluppo economico e civile. Oggi sembra che ci sia stata in molti nostri paesi una perdita di memoria. Le costituzioni e il costituzionalismo sembrano rimossi dall’orizzonte della politica. E con la memoria è venuta meno l’energia politica, il cui esaurimento è forse il principale fattore della crisi odierna della democrazia. Questa energia, pur presente nei movimenti sociali di protesta, è oggi assente nella sfera istituzionale della politica. Giacché essa richiede, come sempre, oltre alla ragione, anche la passione politica, oggi spenta dai tanti egoismi e cinismi, dalle varie forme del qualunquismo anti-politico, dalla sfiducia, dalle paure e dalla disperazione che stanno deprimendo lo spirito pubblico. Richiede quella che Kant, riferendosi alle “grandi rivoluzioni”, chiamò “una partecipazione d’aspirazioni che rasenta l’entusiasmo” e che è sempre il segno del carattere “disinteressato” e perciò “morale” dell’impegno politico57. Solo l’assunzione disinteressata, come criterio dell’azione politica, del primato degli interessi generali stipulati nelle costituzioni sotto forma di diritti di tutti gli esseri umani, e perciò di interessi vitali dell’intera umanità, può quindi restituire senso alla politi-

57   I. Kant, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio (1798), in Id., Scritti politici cit., § 6, pp. 218-219.

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ca, riabilitarne il ruolo di governo sull’economia e riaccendere per essa quella passione, quella speranza e quell’energia, il cui esaurimento è invece il frutto del primato associato agli interessi personali o corporativi, siano essi gli interessi economici o nazionali, oppure il desiderio di potere, o semplicemente la vanità e la vanagloria. È stato un realista come Max Weber che ha mostrato, quale fondamento razionale e insieme morale dell’impegno e della vocazione politica, questo nesso tra “dedizione” e ragione, tra “l’ardente passione e la fredda lungimiranza”58 nel fare dell’interesse generale, perfino nella sua visione utopistica, senza mai disperare, il proprio scopo di vita. “La politica”, egli scrisse, “consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”. Per questo, egli aggiunse, chi ha la passione per l’impegno politico “deve foggiarsi quella forza d’animo tale da poter reggere anche al crollo di tutte le speranze, e fin da ora, altrimenti non sarà nemmeno in grado di portare a compimento quel poco che oggi è possibile. Solo chi è sicuro di non venir meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido e volgare per ciò che egli vuole offrirgli, e di poter ancora dire di fronte a tutto ciò: ‘Non importa, continuiamo!’, solo un uomo siffatto ha la ‘vocazione’ (Beruf) per la politica”59.   Weber, La politica come professione cit., pp. 102-103.   Ivi, pp. 120-121.

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Indici

Indice dei nomi

Abramo, 107. Adeodato, J.M., vii. Alchourron, C.E., 98n. Alexy, R., 17n, 96n, 97 e n, 98n, 110 e n, 111, 115 e n, 128 e n, 129n. Allegretti, U., 172n. Alpa, G., 174n, 193n. Alves, C.F., 247n. Amato, G., 148n. Anastasia, S., 61n, 210n. Andreis, S., 178n, 213n. Andrés Ibáñez, P., viii, 239n, 243n. Antigone, 25-26. Antonazzi, L., viii. Arajuo de Souza, A., viii, 247n, 248n. Aristotele, 27 e n, 28 e n, 29 e n, 107, 126, 127n. Arrow, K., 168n. Atienza, M., vii, 17n, 43n, 71n, 90n, 96n, 99 e n, 104n, 110 e n, 111, 112n, 115 e n, 127n, 128n, 132 e n. Austin, J., 12n, 44, 100. Azzariti, G., 119n, 120n, 173n, 189n. Baccelli, L., 85n, 90n. Bar, C. von, 193n. Barberis, M., vii-viii, 5n, 13n, 17n, 91n, 114n, 125n, 242n. Baroin, F., 145n. Barreto Moreira Alves, L., 248n.

Beccaria, C., 23n, 107n, 209 e n, 244 e n. Becerra, R., 197n. Bellamy, R., 16n, 76n. Bentham, J., 12n, 44, 87n, 206, 245n, 246n. Biasco, S., 145n, 146n, 156n, 193n. Bilancia, F., 119n. Bin, R., 125n, 126n. Birocchi, I., 5n. Blinder, A., 168n. Bobbio, N., 12n, 15n, 27 e n, 29n, 32n, 39 e n, 40n, 43 e n, 44 e n, 52n, 61n, 62n, 82 e n, 83n, 86n, 87, 90, 108n, 127n, 146 e n, 147n, 183n. Bonacchi, G., 169n. Bongiovanni, G., 13n, 102n. Borgna, P., 145n. Botsch, A., 193n. Bottici, C., 10n. Bovero, M., 27n, 29n, 68 e n, 90n, 183n. Bowring, J., 87n. Bronzini, G., 216n. Buffett, W., 150. Bull, H., 183 e n. Bulygin, E., 15n, 98n. Caillé, A., 216n. Calamandrei, P., 23 e n, 183. Cappellini, P., 114n.

­­­­­260 Carbonell, M., 13n, 15n, 27n, 66n, 68n, 69n, 71n, 82n, 110n, 240n. Carlini, R., 193n. Carnelutti, F., 127n. Carrara, F., 246n. Cascini, F., 208n. Cassese, S., 143n, 149n, 173n. Cassirer, E., 10n. Catania, A., 99n. Cazzaniga, G.M., 168n. Celano, B., 99n. Chaves, C., 248n. Chiassoni, P., vii, 129n, 136n. Cicerone, 169 e n. Clinton, B., 149n. Cogliandro, G., 24n. Coke, E., 127n. Colombo, C., 106. Comanducci, P., vii, 13n, 14n, 15n, 16n, 17n, 40n, 71n, 82n. Comito, V., 213n. Condorcet, J.-A. de, 244 e n. Constant, B., 58 e n. Conte, A.G., 98n. Copetti Neto, A., vii. Correggia, M., 177n. Costa, P., 10n, 21n, 114n. Cotturri, G., 199n. Creonte, 25. Dahrendorf, R., 216n. D’Andrea, S., 149n. Del Bo, C., 216n. Del Grande, G., 176n. Della Casa, F., 210n. Delmas-Marty, M., 194n. Delors, J., 149n. De Melo-Fournier, F., 248n. Dentico, N., 177n. De Paula Oliveira, M.L., 15n. De Rita, G., 170n. De Villiers, M., 233n. Diamond, P., 168n. Diaz, E., 21n. Dicey, A.V., 24n. Diciotti, E., 17n, 96n.

Indice dei nomi

Didier, F., 248n. Di Lucia, P., 5n, 71n, 84n, 98n, 109n, 131n. Dogliani, M., 14n. Dumont, É., 246n. Dworkin, R., 17n, 96n, 98 e n, 109, 110 e n, 111, 113, 121n. Effer, T., viii. Ferrajoli, C.F., viii, 160n, 175n. Ferrajoli, L., 43n, 71n, 90n, 98n, 104n, 112n, 114n, 134n, 247n. Ferrara, A., 16n. Ferrara, G., 120n, 169n. Ferrarese, M.R., 144n, 172n. Ferrone, V., 246n. Filangieri, G., 87 e n, 206, 246n. Fioravanti, M., 5n, 10n, 14n, 114n. Fontana, G., 136n. Friedman, M., 145n. Frosini, V., 12n. Gaio, 6. Gallino, L., 145n, 149n, 154n, 155n, 177n, 193n, 233n. Garcia, E., 248n. García Figueroa, A., vii, 18n, 129n. García Jaramillo, L., 15n, 110n. García Máynez, E., 52n. Gavazzi, G., 61n. Geraci, C., 39n. Ghiringhelli De Azevedo, R., 248n. Gianformaggio, L., 17n, 100n. Giordano, V., 15n, 99n. Giustiniano, 224n. Gozzi, G., 189n. Grande, G., 210n. Grasso, G., 194n. Greppi, A., vii, 27n. Grimm, P., 168n. Guarino, G., 165, 166 e n, 167, 168 e n. Guastini, R., 17n, 40n, 66n, 69n, 71n, 82n, 98n, 99n, 114n, 129n, 133n.

261

Indice dei nomi

Habermas, J., 96n, 98 e n. Hamilton, A., 241 e n. Hardt, M., 227n. Hart, H.L.A., 11n, 12n, 90, 99n, 100, 101n, 102n, 135n. Hegel, G.W.F., 127n. Hierro, L.L., vii, 71n, 80n. Hobbes, T., 7n, 47n, 107n, 127n, 173n, 178-179, 212, 251. Ippolito, D., viii, 34n, 63n, 114n. Irti, N., 147n, 148n, 149n, 150n, 164n. Isacco, 107. Jay, J., 241n. Johnson, L., 222. Jori, M., 98n, 100n. Kant, I., 28, 29n, 30 e n, 32, 33n, 122n, 254 e n. Karam Trindate, A., vii-viii, 13n, 134n. Kelsen, H., 11n, 12n, 21n, 27 e n, 30 e n, 31 e n, 32, 39 e n, 40 e n, 41 e n, 42 e n, 43 e n, 44, 52n, 65 e n, 66 e n, 67 e n, 68, 73, 82, 83n, 89 e n, 90, 91n, 114n, 183n, 240 e n, 249 e n. Krugman, P., 154n. Lagerzes, C., 248n. Laporta, F., viii, 26n, 71n, 80n. Laurenti, R., 27n. La Valle, R., viii. Lipari, N., 174n. Locke, J., 46 e n, 173n, 215 e n. López Puleio, M.F., 246n, 247n. Lora, P. de, 27n, 66n. Lucarelli, A., 233n. Luciani, M., 168n. Luther, J., 168n. Luzzati, C., 71n, 117n, 123n. Maddalena, P., 224n. Madison, J., 241n.

Magri, T., 59n. Maier, J.B.J., 247n. Malem, J., 115n. Maniaci, G., 17n. Mannori, L., 5n. Marciano, 224. Marcon, G., 193n, 213n. Marella, M.R., 216n. Maris Martínez, S., 247n. Marotta, S., 233n. Martins Riccio de Oliveira, F., 15n. Maskin, E., 168n. Mastromartino, F., viii, 175n, 216n. Mattei, U., 227n. Matteucci, N., 14n, 15n. Mazzarese, T., 14n, 15n, 17n, 90n, 130n, 229n. McIlwain, C.H., 14n. Mendonca, D., 125n. Mill, J.S., 102n, 122n. Mini, F., 234n. Mitterrand, F., 149n. Modugno, F., 96n, 117n. Molinari, E., 233n. Montesquieu, Ch.-L. de Secondat, barone di, 33n, 195, 201-202, 203 e n, 244 e n. Morais De Rosa, A., viii. Moreso, J.J., viii, 15n, 17n, 71n, 90n, 96n, 98, 99n, 103n, 104n, 125n. Mortati, C., 120n, 121n. Muratori, L.A., 244n. Napoleone Bonaparte, 47n. Nascia, L., 213n. Nebbia, G., 233n. Negri, A., 227n. Nigro Mazzilli, H., 248n. Nino, C.S., 96n. Nohlen, D., 197n. Offe, C., 169n. Orlando, V.E., 22n. Orozco, J., 115n. Orozco Henríquez, J., 197n.

­­­­­262 Pace, A., 18n, 57 e n, 78n, 119n, 124n. Pagano, M., 114n. Paine, T., 59n. Palazzo, A., 119n. Palombarini, G., 210n. Palombella, G., 24n, 184n. Paolicelli, M., 213n. Parijs, P. van, 216n. Parolari, P., 229n. Paulo Dias, J., 248n. Pazé, V., 29n, 33n, 145n. Pennacchi, L., 154n, 167n, 193n. Perelman, Ch., 127n. Petrella, R., 233n. Pianta, M., 154n, 155n, 193n, 213n. Picado, S., 197n. Pinheiro Carneiro, P.C., 247n. Pino, G., viii, 17n, 26n, 116 e n, 117n, 134n, 135n. Pintore, A., 17n, 27n, 77n, 90n, 99n. Pisauro, G., 167n. Pizzigati, S., 222n. Pizzorusso, A., 135n. Platone, 27 e n, 28 e n, 107, 224n, 225n. Plebe, A., 127n. Pogge, T., 174n. Popper, K., 27 e n. Portalis, J.-E.-M., 152n. Portinaro, P.P., 168n. Pozzolo, S., 13n. Preterossi, G., 253n. Prieto Sanchís, L., viii, 12n, 15n, 17n, 18n, 99n, 109n. Protagora, 28. Pureza, J.M., 234n. Quaresma, R., 15n. Radbruch, G., 98n. Reagan, R., 222. Reale, G., 27n. Rebuffa, G., 14n. Redondo, M.C., viii, 15n, 75 e n, 76 e n. Regla, J.A., vii, 26n.

Indice dei nomi

Renoldi, C., 210n. Renteria Diaz, A., 131n. Revelli, M., 155n. Ródenas, A., viii. Rodotà, S., 152n, 172n, 192n, 216n, 230n, 238, 239n. Romagnoli, E., 169n. Roosevelt, F.D., 149n, 222. Rosenvald, N., 248n. Ross, A., 90. Rossi, P., 27n. Rousseau, J.-J., 27n, 28 e n, 29n, 30 e n, 32. Ruffolo, G., 154n, 156n. Ruiz, A., 247n. Ruiz Manero, J., viii, 17n, 43n, 104n, 110 e n, 111, 112n, 114n, 115 e n, 123n, 129n. Ruiz Miguel, A., viii, 27n, 82n, 104n. Salazar Ugarte, P., viii, 27n, 66n, 68n, 71n, 82n, 197n. Salvi, G., 210n. Santi, R., 7n. Sarkozy, N., 145n. Sartori, G., 22n, 27n. Sastre Aritza, S., 99n. Schiattarella, R., viii, 146n. Schmitter, P.C., 169n. Schultze, C., 168n. Schumpeter, J.A., 27 e n. Senese, S., viii, 114n. Sharpe, W., 168n. Shiva, V., 224n, 233n. Sieyès, E.-J., 58 e n. Smith, A., 47n, 224 e n, 226. Sommario, E., 208n. Sordi, B., 5n, 114n. Spina, S., viii. Spuntarelli, S., 164n. Standing, G., 216n. Stiglitz, J.E., 154n, 193n. Strapazzon, C.L., viii, 18n. Streck, L.L., vii-viii, 13n, 18n, 134n. Sulejmanovic, I., 208n. Sylos Labini, S., 154n, 156n.

263

Indice dei nomi

Tarello, G., 6n, 133n. Tocqueville, A. de, 215n. Tognoni, G., 177n. Tomaz de Oliveira, R., viii. Toschi Vespasiani, F., 246n. Trampus, A., 34n, 87n. Trimarchi, P., 126n. Troper, M., 14n, 15n. Tyson, L., 168n. Ulpiano, E.D., 6. Urquhardt de Cademartori, S., viii. Vazquez, R., 115n. Velluzzi, V., 17n. Venturi, F., 107n.

Vianna Lopes, J.A., 247n. Vignudelli, A., 119n. Vitale, E., 27n, 90n, 228n. Waldron, J., 16n, 27 e n, 29n, 76n. Watt, A., 193n. Weber, M., 200 e n, 255 e n. Wondenberg, H., 197n. Zagrebelsky, G., 10n, 14n, 17n, 96n, 98 e n, 110 e n, 111, 125n, 168n. Zaneti, H., viii, 136n, 248n. Zolo, D., 21n, 66n, 90n, 183n, 233n. Zoppini, A., 174n. Zovatto, D., 197n.

Indice degli argomenti

accesso alla giustizia, 54-55, 245249. acqua, 177, 224-225, 227, 231-233. alimenti di base, 177, 225, 228. antinomie: apparenti, 62 e n; strutturali o reali, ix, 8, 19, 45, 52, 56, 60-62, 68, 81, 85, 113, 141, 185, 240; – come vizi o violazioni per commissione, 8, 19, 61-62; – – che la cultura giuridica e politica deve riconoscere, 81, 84-88, 251; – riparabili in sede giurisdizionale mediante annullamento o disapplicazione delle norme invalide, 61, 64-65. anti-oggettivismo etico, 103, 107. approccio garantista: vedi garantismo. argomentazione, 17, 88 103-106, 108, 112, 117-118, 123, 127n, 130-132. aria, 177-178, 224-227, 231. armi, 178, 211-213; come beni illeciti, 185, 211-213; diritto di portarle secondo la Costituzione statunitense, 90n, 92. aspettative: come figure deontiche passive nelle quali consistono i diritti, 20, 53, 55, 57, 184;

cui corrispondono divieti o obblighi, 48, 57-58, 85, 112, 113 e n; negative o immunità, nelle quali consistono i diritti di libertà, 48, 94, 112, 116; positive, nelle quali consistono i diritti sociali, 48, 50n, 94, 112, 116; universali, nelle quali consistono i diritti fondamentali, 58. atto costituente, 76. auctoritas non veritas facit legem, 7, 12n, 136. avalutatività della scienza giuridica: vedi scienza giuridica. beni: artificiali, 223; fondamentali o vitali, 53, 207, 222-236; – che richiedono la garanzia della costituzionalizzazione, 185, 231232; – – in assenza della quale rischiano la privatizzazione, 225; – come cose, 229 e n; – come oggetto di diritti fondamentali indisponibili, 229-232; – comuni, 224-235; – – critica della loro concezione comunitaria ed espansiva, 227229; – – garantiti come beni demania-

­­­­­266 li costituzionali, locali o globali, 233; – – privatizzati o devastati in assenza di garanzie, 146, 150, 157, 178, 191, 225; – personalissimi, 229-230; – sociali, 229-232; illeciti, 212-213; naturali, 178, 223-224; patrimoniali o merci, 229; – come oggetto di diritti patrimoniali disponibili, 229; valore d’uso e valore di scambio dei –, 224-225. bilanciamento: vedi ponderazione. bilancio: pareggio, 166-168; vincoli di – nella Costituzione brasiliana, 70, 220-221, 240. capitalismo: e democrazia, 155, 181; ed ecologia, 177, 181, 223-225. carcere/i: sovraffollamento delle –, 208-210; – e numero chiuso, 209-210; suicidi in –, 208-209. catastrofe/i, 176-179, 181, 184-185, 235-236, 251; vedi emergenze planetarie. coerenza (dei significati prescrittivi), 6, 8-9, 25, 36, 38, 40, 45, 52, 56, 73, 74n, 83, 85-86, 93, 95, 205206. cognitivismo etico, 100, 102-109. completezza, 6, 8, 25, 53-56, 83, 8586, 207 ss. concorrenza: libera, 148, 152, 211; tra ordinamenti, 174. conflitti di interessi, 142, 146, 152, 159, 196, 199. conflitti tra principi o tra diritti, 122-127; in astratto: come limiti imposti da

Indice degli argomenti

taluni all’esercizio di altri, 122125; in concreto: solubili mediante ponderazione equitativa delle circostanze di fatto del caso concreto, 125-127. conformità (delle forme degli atti prescrittivi), 8-9, 36, 38, 45, 52, 73, 74n, 205. connessione tra diritto e morale: vedi diritto e morale. controllo di costituzionalità sulle leggi, 22, 64-65, 76; accentrato, tramite annullamento della legge invalida, 65; – attivato d’ufficio da un procuratore, 249; – su questione sollevata nel corso di un giudizio, 65, 250; diffuso, tramite disapplicazione della legge invalida, 64; per omissione, 69, 114n, 240. corruzione, 146-147, 159, 179, 196, 239. costituzionalismo: come completamento: – del positivismo giuridico, vi, 20, 26; – del processo di secolarizzazione, 79; – dello stato di diritto, vi, 8, 2021, 188; come filosofia giuridica dello stato costituzionale, 9; come modello normativo di ordinamento, vi, 18-19, 141; come sistema di limiti e vincoli di sostanza alla legislazione, 20, 56, 70; concezioni diverse del –, vi-viii, 11-20, 241-242; crisi odierna del –, vii, 11, 56, 141-180; di diritto privato, 188-194, 211; di terza generazione, 220-221; e democrazia, 23;

Indice degli argomenti

espansioni del –, vii; vedi garantismo; etico, 100; futuro del –, 11, 56, 181-250; giuridico, 16, 22; giusnaturalista, 17-18; giuspositivista, 15, 17-18; globale o sovranazionale, 181194, 236, 252; – che richiede funzioni e istituzioni di garanzia più che di governo, 190-191; – cui si oppongono difficoltà di carattere non teorico ma solo politico, 182; politico, 16, 80; profondo dello Stato moderno, 151, 196; questioni terminologiche, 13-19; rigido, 36, 45, 51-52, 68, 71, 75, 79, 89, 184-185. costituzionalismo garantista o neopositivisita, vi, 11-12, 18-19, 5094, 100, 109, 117, 137, 183-186, 250; vedi garantismo; che configura i diritti fondamentali come principi regolativi, oggetto di applicazione alle loro violazioni, 113-122; come modello teorico, vi, 5-94; come paradigma formale: vedi formale, come predicato metateo­ rico; come progetto politico, vii, 179255; – di garanzia, rifondazione ed espansione della democrazia, 70, 77; – la cui attuazione è un obbligo del legislatore, 183-184; e rigidità costituzionale, 58-59, 68; vedi rigidità delle costituzioni; e separazione dei poteri: vedi separazione dei poteri; normatività forte del –, 12, 18, 68, 115, 117, 180;

267 nove mutamenti rispetto al paradigma paleo-positivista, 70-94: – A) tre relativi al diritto, 72-76; – B) tre relativi alla democrazia, 76-81; – C) tre relativi alla scienza giuridica, 81-89; quattro principi o postulati del – nel modello MG, 51-56, 176, 204250: – principio di azionabilità, 55-56, 245-250; – principio di completezza, 53, 207-236; vedi completezza; – principio di giurisdizionalità, 53-54, 236-245; – principio di legalità, mera e stretta, 51-52, 204-207; vedi legalità. costituzionalismo paleo-positivista, vi, 11, 70-94; vedi costituzionalismo garantista; costituzionalismo principialista o post-positivista, vi, 11, 18, 49, 60, 95-128, 185; che configura i diritti fondamentali: – come norme programmatiche o precetti di ottimizzazione, 115; – come principi oggetto di ponderazione, 95-96, 109-127, 134; convergenze del – con il realismo e con il neopandettismo, 137; implicazioni pratiche, viii-ix, 121: – capovolge la gerarchia delle fonti, 121, 137, 242; – indebolisce la normatività delle costituzioni, 121, 137, 242; – mina la separazione dei poteri e la soggezione dei giudici alle leggi, 121, 130, 133, 137, 242; normatività debole dei diritti fondamentali nel –, 18, 129n. costituzionalizzazione: dei beni fondamentali, 231-233;

­­­­­268 dei diritti fondamentali, 54, 58, 78, 84, 96 e passim; del diritto internazionale, 187, 189-191; del diritto privato, 187-188; vedi diritti civili; dell’Unione Europea, 191-194. costituzione/i: come pattuizione della sfera dell’indecidibile e limitazione di ogni potere, 75-76; economica, 147-149; embrionale del mondo, 172, 183, 204; legittimate non perché volute da tutti ma perché garantiscono tutti, 108, 182; normatività forte della –: vedi costituzionalismo garantista; riforme della – italiana, 160-161; rigide: vedi rigidità delle costituzioni. criminalità, 178-179, 209, 212-214, 239. crisi economica, 141-180. cultura giuridica, ix, 81-89. decostituzionalizzazione, 142-143, 157-176; degli ordinamenti statali, 157165; dell’ordinamento europeo, 165172; dell’ordinamento internazionale, 172-176. demagogia, 30, 176, 197. democrazia: aporie e fallacie delle concezioni solo formali o politiche della –, 5, 26-33, 39-45; basata sull’uguaglianza nei diritti fondamentali, 77, 179; come costruzione artificiale, ix, 58, 70, 185, 250, 253; costituzionale, 5-49; – atto costituente della –, 76, 79;

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– come sistema di limiti e vincoli, vi, 35-38, 56-57, 70, 76-77; – crisi della –, vii, 141-181; vedi decostituzionalizzazione; – – ragioni della –, 142-149; – due dimensioni, formale e sostanziale, 26, 35, 37; – formale, 26-28, 34-35, 45, 142; – – civile, 46, 49; – – politica, 26-34, 46-48, 58-59, 79; – – – aporie della – ancorate ai tempi e agli spazi brevi, 186, 236; – – – crisi della –, 35, 143, 150157; – – – – della rappresentanza, 150151, 158; – – – – dello stato di diritto, 151; – – – – dello stato moderno, 151152; – – – fondamenti assiologici della –, 30, 33-34; – – – rifondazione della –, 187204; – – relativa al ‘chi’ e al ‘come’ delle decisioni, 25, 37, 45-46; – sostanziale o garantista, v, 3538, 45, 76, 142, 157-176; – – crisi della – causata dalla crisi della democrazia politica, 142143, 157-163; – – liberale, 48-49, 94; – – relativa al ‘che cosa’ delle decisioni, 25, 37, 45, 48; – – rifondazione della –, 204-250; – – sociale, 48-49, 94; futuro della –, 11, 56, 181-255; isomorfismo tra condizioni della democrazia e della validità, 37-40, 44, 74; modello quadridimensionale della –: politica, civile, liberale, sociale, 45-49, 195, 207; nella storia del pensiero politico, 33, 107;

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nesso tra – e positivismo giuridico, 23-26; significato profondo della –, 8081. deontologia giudiziaria, 243-245. dialogo fra le corti, 186. direttive: vedi principi direttivi. diritti civili o di autonomia privata: come diritti-potere, 46-48, 124, 151, 188, 195; – il cui esercizio è a un livello inferiore a quello della legge e richiede perciò limiti e garanzie, 46-47, 123-124, 211; confusione liberale dei – con i diritti di libertà, 46-47, 144, 151, 182, 211. diritti di autonomia: vedi diritti civili. diritti di libertà, v, 8, 19, 27, 37, 4549, 59, 207-213; come aspettative di non lesione cui corrispondono divieti, 19, 48, 94, 115; distinti dai diritti civili di autonomia e dai diritti reali, 46-49; e garantismo penale, 19; garanzie primarie dei –, 207-213. diritti fondamentali: ambivalenza duplice: – a1) come diritti di tutti se riguardati ex parte populi, 58, 72, 116; – a2) come regole sui poteri se riguardati ex parte principis, 58, 72-73, 116; – b1) come principi o argomenti, in sede di interpretazione, 117118, 120, 130; – b2) come regole, in sede di applicazione alle loro violazioni, 117-118; come aspettative di forma universale, 53, 57-58, 77, 93-94, 112, 116; – che prescrivono garanzie me-

269 diante leggi di attuazione, 53, 65, 69, 183-184; come base dell’uguaglianza, 77, 90, 179; come diritti di tutti in quanto persone o cittadini o capaci d’agire, 46n, 229; come fondamenti assiologici delle democrazie costituzionali, 10, 7980, 169; come frammenti della sovranità popolare, 76-79; come leggi del più debole, 79, 248; come limiti e vincoli ai poteri, 10, 27, 38, 45, 48-49, 72-77, 115, 172, 182, 237; come norme sostanziali sulla produzione, 37, 49, 72, 77-78, 95, 113; come poteri o contro-poteri, 79; come regole o principi regolativi, 95, 112, 113 e n; concepiti dal costituzionalismo principialista come principi oggetto di ponderazione, 17-18, 109, 121; conflitti tra –: vedi principi, conflitti tra –; dei lavoratori, 150, 157, 159, 161163; distinti in quattro classi – politici, civili, di libertà e sociali – su cui si fondano altrettante dimensioni della democrazia, 45-49, 57, 77, 195, 207, 229; legittimati non perché voluti da tutti ma perché garantiscono tutti, 108, 182; normatività forte dei –, 18, 115, 117, 180; nozione teorica solo formale, estranea alla teoria del diritto tradizionale, 89-94; primari, 10n, 46n, 49; secondari, 10n, 46n, 49.

­­­­­270 diritti patrimoniali, 67, 69, 89, 229230. diritti politici, 10, 32-34, 45-49, 59. diritti sociali, v, 8, 37, 45-49, 59, 163-165, 213-222; alla salute, 163-164, 213, 220; alla sopravvivenza, quale fatto sempre più artificiale, 214-216, 223; all’istruzione, 163-164, 213, 220; come aspettative positive di prestazione, 94, 115; come investimenti produttivi primari, 163, 214; costi dei – e costi della mancata garanzia dei –, 214; e garanzie, la cui introduzione è obbligatoria, 65-70; estranei al rule of law, 185; garanzie dei – introdotte da leggi di attuazione, 53, 213-222; – richieste dal carattere sempre più sociale e artificiale e sempre meno naturale della sopravvivenza, 214-215, 223; privi di garanzie nel diritto internazionale, 213; restrizioni e tagli ai –, 150, 157, 159, 161, 163, 214; diritti soggettivi: come aspettative di prestazione o di non lesione, 20, 46n, 48, 57, 69; – cui corrispondono come garanzie divieti o obblighi, 69; riflessi, secondo Kelsen, degli obblighi o dei divieti corrispondenti, 66-67. diritto: crisi della capacità regolativa del –, 164-165, 172-173, 176, 184, 204-206; separazione tra – e morale: vedi diritto e morale; tre modelli, 9; vedi mutamenti di paradigma del –. diritto alla difesa, 245-246.

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diritto a un reddito minimo garantito: vedi reddito minimo garantito. diritto di azione, 55. diritto di emigrare, 175; teorizzato da Locke come garanzia dell’occupazione, 215. diritto di proprietà: vedi proprietà. diritto e morale: connessione tra –, vi, 6, 15, 94-98, 101-104; – cosa non significa, 96-97; – cosa significa, 97-100; vedi oggettivismo etico; separazione tra –, vi, 7, 26, 95-98, 101-104; – a garanzia della laicità dell’uno e dell’altra, 102; – in senso assertivo, corollario del principio di legalità, 95-96, 100101; – in senso prescrittivo, come corollario liberale del principio di laicità, 101; – – e rifiuto del legalismo etico, 101; – – e rifiuto del moralismo giuridico, 101. diritto illegittimo, 55, 68, 72-76, 81, 185; come contraddizione in termini secondo Kelsen, 40-42; come tratto distintivo dello stato costituzionale, 38-40, 73; – maggior difetto e maggior pregio dello stato costituzionale, 40, 81, 141. diritto naturale, 25. diritto penale, 19, 164, 205-206, 239; minimo, 207; riserva di codice in materia di –, 205-206. diritto positivo, 25-26. diritto vigente, 8, 26, 68, 121, 128133, 135, 137. diritto vivente, 128-133, 135, 137.

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disoccupazione crescente e strutturale, 215-217. disuguaglianza: come fattore di crisi economica e sociale, 154-155; crescita della, 154-155, 163, 174175, 179. divaricazione deontica tra dover essere costituzionale ed essere legislativo del diritto, 8, 44-45, 60, 73, 81, 83-85, 137, 141, 184. domestic analogy, 183. droga, 209. effettività, 20, 54-57; assicurata dalle garanzie, 54, 57, 65; primaria e secondaria, 50, 51n, 239. elezioni: e istituzioni elettorali di garanzia, 196-197, 201; leggi e sistemi elettorali, 34, 160; – come garanzie dei diritti politici, 34; – maggioritari, 159; – proporzionali, 159-160, 201. emergenza/e: legislazione e giurisdizione penale di –, 19, 64; planetarie o catastrofi, 175-181, 186, 189, 191, 212, 236, 251-252; – ambientale, 177-178, 223-224, 233-236; – criminale, 179-180; – democratica, 176; – nucleare, 178, 234-235; – umanitaria, 177, 213, 223. energia politica, 253-255. equità, 125-128. ergastolo, 209. Europa: costituzionalizzazione dell’Unione Europea, 191-194; crisi dell’Unione, 153-157, 165172;

271 per un’Assemblea costituente europea, 193; unificazione legislativa, 193-194. farmaci salvavita, 174, 177, 185, 228-231. finanza: deregolazione della – e crisi della democrazia, 142-146; poteri della –, oggi dominanti sui poteri politici, vii, 35, 142-157, 162. fiscal compact, 166-168. fisco: evasione fiscale, 147; paradisi fiscali, 190, 222; per la Tobin tax e per un – europeo e sovranazionale, 171, 190192; per un’effettiva progressività, 218, 221-222, 242. fondamentalismi religiosi, 102-103, 211. formale: come predicato metateorico di teoria del diritto e di modello o paradigma teorico, 23, 26 e n, 36, 38 e n, 51, 82, 83 e n, 89-94, 181183, 185; – non equivalente ad ‘avalutativo’, 82-83; come termine teorico connesso a ‘forma’, in espressioni come ‘validità formale’, ‘democrazia formale’ e simili, 23n, 38n, 82, 83 e n, 93 e passim. funzioni e istituzioni pubbliche: di garanzia, 142, 170, 174, 185, 190-191, 201, 202 e n, 203; – amministrative di garanzia primaria, 50n, 53, 193, 196, 202-203, 220; – giudiziarie di garanzia secondaria, 50n, 53-54, 193, 196, 202-203, 238;

­­­­­272 – legittimate dall’applicazione della legge, 201; – nell’ordinamento europeo e in quello internazionale, 190-193; di governo, 171, 190-191, 196, 201, 202n, 203, 237; – amministrative, 202; – politiche, legittimate dalla rappresentanza politica, 201; separazioni, tra – di garanzia e – di governo: vedi separazione dei poteri. garantismo, 18-19, 66; vedi costituzionalismo garantista; come la faccia attiva del costituzionalismo, 19-20; come neologismo, 19; come sistema di limiti e vincoli a tutti i poteri, 19-20; espansione del – in una triplice direzione: – a livello sovrastatale oltre che a livello statale, 181, 184-194; – a tutti i diritti fondamentali oltre che ai diritti di libertà, 19, 184, 186-187; – contro i poteri privati, oltre che contro i poteri politici, ix, 19, 184, 186-188; – in senso estensionale, 187-194; – in senso intensionale, 194-250; grado di –, 141, 206, 250; negli usi correnti nel dibattito politico, 19. garanzia/e, vii, 50 e n, 56-57, 113, 141; come condizioni di effettività dei diritti, 57, 65; come limiti e vincoli imposti ai poteri, 12; costituzionali, 56-70; – come garanzie della rigidità o normatività costituzionale, 59-60; – dei beni fondamentali, 185, 207, 222-236;

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– negative, 60, 62-65, 70, 94; – – imposte dal principio di stretta legalità, 62; – positive, 60, 62, 65-70, 94; – – imposte dal principio di completezza, 65, 183; – primarie, 50 e n, 52-54, 57, 60, 63, 66-69; – secondarie o giurisdizionali, 50 e n, 53-54, 57, 60, 62, 64, 67-69; deboli, 69 e n, 220; dei diritti come ragione sociale dell’artificio istituzionale, 10, 72, 79-80; distinte dai diritti, quali obblighi o divieti ad essi corrispondenti, 20, 50n, 57-58, 66-70, 112, 113n; forti, 69 e n, 70, 221; grado di effettività delle –, 141; la cui assenza genera: – l’esistenza di lacune strutturali, 66-70, 141; – l’inesistenza dei diritti secondo la tesi di Kelsen, 66-68, 89; – – che contraddice il principio di positività, 67; – – che contraddice la gerarchia delle fonti, 68; la cui introduzione è imposta dalla stipulazione dei diritti, 183184; nozione di –, 50, 51n; penali e processuali, 19, 206-210; primarie, 50n, 52-53, 60, 62-64, 69, 115, 117, 187, 195; – dei beni fondamentali, 222-236; – dei diritti di libertà, 207-213; – dei diritti politici, 195-196; – dei diritti sociali, 155, 213-222; secondarie o giurisdizionali, 50n, 53-54, 62, 69, 115, 187, 195, 236245; – come condizioni di effettività delle garanzie primarie, 54; – due modelli, accentrato e diffuso, 64-65;

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vuoto di – nell’ordinamento internazionale, 172-173, 188-189. gerarchia delle fonti, 57-58, 62, 121, 133-137; come struttura logica, 52; ribaltamento della – ad opera: – della ponderazione dei principi, 121, 130, 134, 137, 242; – della subordinazione della politica alla finanza globale, 143, 149150, 162; – della tesi kelseniana che in assenza di garanzie non esistono diritti, 68, 89; – della tesi secondo cui le sentenze sono fonti vincolanti, 134-136, 137 n. giudizi di valore e verità, 100, 102109. giurisdizione: come accertamento e sapere-potere, 54, 243; espansione odierna della – correlativa a quella dello stato di diritto, 236-241; internazionale, 238; legittimata dall’applicazione della legge, 137; limiti garantisti alla –, 205, 241243; penale, 19, 239; subordinata alla legge, 20, 37, 54, 56, 136-137; vedi separazione dei poteri; – tanto più – quanto più univoco è il linguaggio legale, 205-207, 243. giusnaturalismo, 6, 11, 14-15, 17, 44, 100, 106; come filosofia giuridica del paradigma giurisprudenziale, 6-7. giuspositivismo; vedi positivismo giuridico. globalizzazione: come opportunità, 251-255; come vuoto di diritto pubblico, 172-173, 188, 241.

governo degli uomini, 22, 25, 30, 75-76, 205. governo delle leggi, 25, 30, 76, 205. guerra, 212, 240, 250; illegalità della –, 141, 176, 212, 250. ideologia liberista, 144-146, 152153, 187, 253. immigrazione, 175-176; vedi diritto di emigrare. imposizione fiscale: vedi fisco. informazione, 211, 223; garanzie dell’indipendenza dell’– e del pluralismo dei mezzi di –, 211. interessi pubblici: come criteri dell’azione politica, 254-255; globali, 250-255. interpretazione: giuridica, quale associazione di significati a segni, 131; nella quale intervengono scelte etico-politiche, 97; operativa, 128; semantica o empirica della teoria del diritto, 36, 85; sistematica, 88, 128, 130; teoria dell’–, 127n. isomorfismo: tra condizioni di validità delle norme e di legittimità del potere politico, 36-37; tra diritto e sistema politico, 3438, 45, 74, 94; tra nozione giuridica di validità e nozione politica di democrazia, 37-40, 44, 74; tra teoria del diritto e teoria politica, 36, 44. istituzioni di governo e istituzioni di garanzia: vedi funzioni e istituzioni pubbliche. lacune: apparenti, 62;

­­­­­274 strutturali o reali, ix, 8, 19, 45, 50, 51n, 53, 56, 60-62, 65, 68-69, 81, 85, 113-114, 141, 185, 191, 208, 238, 240, 250; – come vizi o violazioni per omissione, 8, 19; – – che la cultura giuridica e politica deve riconoscere, 81, 84-88, 251; – primarie e secondarie, 50n; – riparabili solo in sede legislativa, mediante leggi di attuazione, in forza della separazione dei poteri, 61, 69, 240; – trasformate in antinomie dalla previsione, nella Costituzione brasiliana, dei vincoli sociali di bilancio, 221-240. laicità, 101-102, 106-108, 211. lavoro: bersaglio politico delle politiche liberiste, 161-163; diritto al – come principio direttivo, 120, 216; disoccupazione e precarietà del – prodotte da politiche antisociali, 142, 157, 159; distruzione del diritto del –, 157, 161, 164, 214; quale fondamento della Repubblica italiana, 111, 118, 120, 161, 218; – in quanto frutto di libera scelta e affermazione di identità, 218-219; rottura del nesso tra – e sussistenza, 214-216; stabilità del – come diritto del lavoro ad avere diritti, 216; unificazione europea del diritto del –, 192-194. legalismo etico, 100-101. legalità: vedi principio di legalità; crisi della sua capacità regolativa, 164-165; – e dissesto del linguaggio legale, 164-165, 205-207;

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– e inflazione legislativa, 164-165; difetto di – e sviluppo dell’illegalità, 141, 176; e linguaggio legale, 74, 84, 132, 185, 205-207, 243; globale o sovrastatale, 184, 238; ordinaria come norma e come fatto, 84; rifondazione della – mediante riserve di codice o di legge organica, 205-207; stampo della –, 23, 183; vincolante in quanto vincolata, 205, 243. legge della ragione e legge della volontà, 25-26. legislazione: di attuazione, mediante l’introduzione delle garanzie, 19, 53, 65, 68, 94, 183, 185; inflazione e disfunzione della –, 164-165, 204; principio di economia legislativa, 205; scienza della –, 87, 205-207. libertà: vedi diritti di libertà. linguaggio legale: vedi legalità. logica nel diritto e nella teoria del diritto, 6, 8, 25, 51-53, 55-56, 8586, 184-185. mercato, 48; leggi del – concepite come leggi naturali, 144-145, 157; poteri del – concepite come libertà, 144; ribaltamento odierno del rapporto tra – e Stato, 143-151, 172, 174; – per il mutamento della costituzione economica dei paesi europei, 147-149; – per l’asimmetria tra finanza globale e politica e diritto statali, 143-144, 186; – per l’egemonia del pensiero liberista, 144-146;

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– per le molte forme di corruzione e conflitti di interessi, 146-147; sottrazione al – dei diritti e dei beni fondamentali, 226, 229, 232233; sottrazione odierna del – al diritto e alla politica, 11, 151-153, 162. modelli di diritto: costituzionale, 8-9, 23; – garantista MG, 18, 36, 49-56, 72, 115, 137, 176, 187, 193-194, 204, 245; – principialista, 18, 49, 137; giurisprudenziale, 5-7, 137; legislativo o paleo-positivista, 5, 7, 14, 51, 75. modello garantista: vedi costituzionalismo garantista. modernità giuridica, 5, 9, 20, 102, 137, 142, 151, 181, 189. morale: autenticità della – in quanto frutto di autodeterminazione, 102, 105; come punto di vista esterno al diritto positivo, 7, 26, 101; connessione tra diritto e –: vedi diritto e morale; e verità, 103-109; idea ontologica che esista la –, 100; separazione tra diritto e –: vedi diritto e morale. moralismo giuridico, 101. mutamento/i di paradigma del diritto: primo –, con lo stato legislativo, 9-10, 20, 25-26, 51, 181, 237; secondo –, con lo stato costituzionale, 10, 20, 25-26, 36-38, 45, 50-52, 70-89, 181, 237-238; terzo –, con il costituzionalismo globale e la legalità sovrastatale, 11, 181-238. neocostituzionalismo, 13-15, 95; ve-

275 di costituzionalismo; costituzionalismo principialista. neopandettismo, 137. nomodinamica, 7-8, 10, 67-68, 8586, 100. nomostatica, 6-8, 86. norme: di riconoscimento, 5-11, 20, 67, 72n; esistenza delle norme di legge: vedi vigore; primarie, 50n, 52-53; secondarie, 50n, 52-53; sulla produzione giuridica, 24, 60, 72-73; – formali, 8-9, 24, 36-38, 48, 7273; – sostanziali, 24, 36-38, 40, 44, 48-49, 72-74, 77, 86, 95, 109, 113, 115; tetiche o ipotetiche, 114n, 119n. oggettivismo etico, 94, 98, 99 e n, 100, 102-109. paradigma costituzionale, 11, 20; come paradigma formale: vedi costituzionalismo; costituzionalismo garantista; formale. paradigma garantista: vedi costituzionalismo garantista; garantismo. paradigma giuspositivista: vedi positivismo giuridico. particolarismo giuridico, 6, 173. partiti politici: come organi della società, 199; crisi e discredito dei –, 35, 142, 150, 159, 198-199; finanziamento dei –, 147, 197198, 200-201; personali, 159; riforma dei – tramite una legge che ne garantisca: – il divieto di finanziamenti priva-

­­­­­276 ti da parte di enti, 200-201; vedi separazione dei poteri; – la democrazia interna, 200; – l’incompatibilità tra cariche di partito e cariche istituzionali, 199200. passione politica, 253-255. patrimonio comune dell’umanità, 233. politica: compiti della –, vii, 70, 182-185, 252-253; crisi della –, 142-149, 179-180, 236; – come impotenza rispetto ai mercati, 142-153, 158, 172, 176, 180, 191, 196; – – che si manifesta in politiche antisociali, 153-159, 163, 165, 168-171, 190-191; – – e nella sua trasformazione in tecnocrazia, 145-146; – come onnipotenza nei confronti dei diritti, 143, 157-165; – – richiesta dalla sua impotenza e subalternità ai mercati, 143, 158, 203; – – sorretta dall’ideologia dell’onnipotenza della maggioranza, 159; – vincolata, in democrazia, a tempi brevi e a spazi ristretti, 144, 186, 236; e diritto, 9-10, 36, 50, 88, 142; – primato dei diritti quali fondamenti assiologici, 10 e n; – primato della politica nella fondazione positiva, 10n; – relazione isomorfica tra sintassi del diritto e sistemi politici, 34-38, 45; futuro della –, 188, 250-255; legittimata dalla cura e dalla passione per gli interessi generali, 180, 254-255; moderna, 9, 179-180;

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ruolo di governo della –, vii, 142, 146, 150, 158, 189, 252, 254-255. ponderazione (dei principi): alternativa all’applicazione delle regole, vi, 17, 95-96, 109-111, 121, 134; – come scelta del principio da applicare, 121, 129; – in contrasto con il principio di legalità e con la gerarchia delle fonti, 121-122, 129-130, 242; equitativa delle circostanze fattuali, 125-128. populismo/i, 30, 35, 151, 159, 176, 180. positivismo giuridico: come concezione e/o modello di diritto, 11, 14, 67, 131; di cui il costituzionalismo è un completamento, vi, 20, 79; divino, 105-106; e democrazia, 20, 23-26; e stato di diritto, 20-22; vedi: principio di legalità; nella concezione di Bobbio, 12n, 44, 87; primo, o paleo-, vi, ix, 7, 9, 11, 13-16, 20, 25-27, 45; – come filosofia giuridica dello stato legislativo, 7; – nel quale validità ed esistenza delle leggi coincidono, 36-38; secondo, o neo-, 8-9, 11, 14-16, 25-26, 34, 44-45, 75, 79, 100; – come filosofia giuridica dello stato costituzionale, 8-9; – nel quale validità ed esistenza delle leggi non coincidono, 36-38. potere/i: confusioni e concentrazioni dei –, 146, 152, 159; costituente, 58-59, 76, 79, 161; costituito, 58, 78, 160; dislocati fuori dai confini degli Stati, 144, 158, 186, 189;

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economici concepiti come libertà, 144, 182; margine di illegittimità nello stato costituzionale, 141. poteri privati e finanziari: – la cui subalternità ai poteri politici fa parte del costituzionalismo profondo dello Stato moderno, 151, 196; – oggi in un rapporto di dominio con i poteri politici, vii, 11, 35, 142-157, 162, dovuto: – – al carattere locale dei primi e globale dei secondi, 142-144, 158, 186; – – alle ideologie e alle politiche liberiste, 144-146; – – ai conflitti di interesse e alla corruzione, 146-147; – – al mutamento in senso liberista della costituzione economica, 147-149; – sottoposti a limiti e vincoli costituzionali di contenuto, v-vi, 12, 19-20, 48, 52, 56, 70, 73; selvaggi, 47, 88, 146, 153, 178, 188. potere giudiziario: espansione del –, 60, 236-245; – condizioni di legittimità, 241245; indipendenza del –: vedi separazione dei poteri. precedenti giudiziari, 134-137; súmula vincolante nella Costituzione brasiliana, 136n. principi, 109-112; argomentabili come giusti, ma né veri né falsi, 103, 106-107; concepiti dai principialisti: – come norme soggette a ponderazione, viii, 18, 95-96, 107, 109, 111, 121, 241; – – con conseguente indebolimento della normatività e della



separazione dei poteri, 121, 133137, 242; – come oggettivi o veri, 100, 103, 109; – – con conseguente connessione forte tra il diritto e la morale, 95, 97-100; – sulla base di una distinzione forte con le regole, 17-18, 109; conflitti tra –: – in astratto configurati come limiti di taluni all’esercizio di altri, 122-125; – in concreto, solubili con la ponderazione equitativa, 125-128; distinti dalle regole: vedi regole e principi; distinti in regolativi e direttivi, 109-112, 120; – principi direttivi o direttive, 18, 111-112, 118-120; – – come norme costitutive, 118119; – – consistenti nella formulazione di valori o obiettivi politici, 111112, 118; – – costitutivi dell’identità politica dell’ordinamento, 118-119; – – eccessivamente estesi nella concezione principialista, 118; – principi regolativi o regole, 112; – – ambivalenza dei –, 116-118; vedi diritti fondamentali, ambivalenza dei –; – – consistenti in regole ove ne sia configurabile la violazione, 111, 113, 115-116; – – diritti fondamentali come –, 112, 116; – – – le cui violazioni comportano conseguenze giuridiche, 113-114; – – normatività forte dei –, 18, 113, 115, 117, 180; utilizzabili tutti come argomenti interpretativi, 117, 120, 130, 131.

­­­­­278 principia iuris et in iure, 8 e n, 51, 85-86. principia iuris tantum, 8 e n, 56, 86. principialismo, 18, 95-137, 185, 242, 253; vedi costituzionalismo principialista. principio di azionabilità, 54-55, 245250. principio di completezza deontica, 53, 58, 207-236; che richiede leggi di attuazione, 53, 58, 69, 183, 185; come principio logico e come principio normativo, 53, 55-56, 187-188. principio di giurisdizionalità, 53-54, 236-245. principio di legalità: vedi legalità; come norma di riconoscimento del diritto positivo, 7-8, 20, 100, 121; come prima garanzia contro l’arbitrio, 21; come primo postulato dello stato di diritto, 20, 51-56, 61-62, 100, 187-188, 193; due significati: – in senso mero, o lato, o debole, o formale, 8, 20-22, 37, 51-52; – – relativo alle forme di produzione normativa, 21 e n; – in senso stretto, o forte, o sostanziale, 8, 20-22, 37, 51-52, 204207, 243; – – come principio normativo e come principio logico, 51-52, 5556; – – relativo ai contenuti normativi prodotti, 21 e n; rifondazione del – tramite la riserva di codice, 204-207. processo decostituente: vedi decostituzionalizzazione. proprietà: come diritto di libertà nella tradizione liberista, 46, 47 e n;

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come diritto-potere nella concezione garantista, 47 e n, 211; come diritto reale, 67, 95, 148, 211, 229; e sopravvivenza, 215 e n; pubblica o privata, 231. pubblico ministero: a garanzia dell’accesso di tutti alla giustizia, 54, 248; brasiliano come istituzione di garanzia dei diritti, 221, 247-249; di difesa, 245-246; presso la Corte costituzionale, 247. ragione giuridica e politica, 186, 188, 236, 251-255. rappresentanza politica, 46, 48; aporie e fallacie, 26-34; come fonte di legittimità formale delle funzioni di governo, 25, 3435, 46, 201; crisi della –, 142-153, 158-160; e divieto del mandato imperativo, 32, 147, 200; – contestato dalla demagogia populista, 160; e partiti politici, 198-201; vedi partiti politici; separazione dei poteri. realismo giuridico, 131, 133 e n, 137. reddito minimo garantito, 216-219; come garanzia di sopravvivenza, 213-220; due modelli, 216-218: – in caso di disoccupazione involontaria ex art. 38 Cost. tuttora inattuato, 216-217; – universalistico, 218; rafforza l’autonomia contrattuale del lavoratore, 218-219; trasforma il lavoro, da coatto a frutto di libera scelta, 219. regole, 109-112, 119n; vedi principi regolativi;

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definizione, 111 e n; e principi, 17, 95, 109-112, 117118; – distinzione, forte o debole, 1718; nozione e tipologia, 119n. religione e diritto, 103, 211. revisione e riforma costituzionale, 57, 59, 160-161; limiti espliciti o impliciti alla –, 63-64, 75n, 78. riforma delle pene, 208-209; numero chiuso nelle carceri, 209210. rigidità delle costituzioni, 22, 56-59, 78-79, 81; come connotato strutturale delle costituzioni, 57; concezione garantista e concezione democratica della –, 58-59; grado, assoluto o relativo, di –, 58, 63-64, 75 e n; naturale, 57, 78. riserva di codice in materia penale, 205-207, 243. rule of law, ix, 21-22, 24, 184-186; con cui meglio si accorda il costituzionalismo principialista, 185; diverso dallo stato costituzionale di diritto, 21-22. salute: vedi diritti sociali, alla salute. scienza economica, 144-146. scienza giuridica: vedi teoria del diritto; avalutatività della –, ix, 43-44, 8283, 87; – esterna, come valore costitutivo dell’indagine scientifica, 84; – interna, preclusa dai dislivelli normativi nel paradigma costituzionale, 84; – per quali ragioni non può esserlo la teoria del diritto, 83; della legislazione, 206-207;

279 mutamenti prodotti dal paradigma costituzionale, 72, 74, 84; – nella teoria del diritto, la cui logica è normativa nei confronti del diritto, 85-86; – nelle discipline positive: ruolo critico e progettuale, 9, 44, 81, 86-88, 250-251; – nel ruolo militante in difesa dei diritti conferito alla cultura giuridica, 87-89; nessi tra –, filosofia politica e sociologia, 88. separazione dei poteri: come limite ai poteri e garanzia dei diritti, 187, 195, 203-204, 207; A) tra poteri politici e poteri economici, 151-152, 195-198; – e divieto di finanziamento dei partiti da parte di enti o oltre una determinata somma, 197-198; B) tra poteri sociali o partiti e poteri istituzionali, 195, 198-201; – incompatibilità tra cariche di partito e cariche istituzionali, 199200; C) tra pubblici poteri, basata sulle diverse fonti di legittimazione, 196, 201-203; – C1) tra funzioni di governo e funzioni amministrative di garanzia primaria, 75n, 196, 201-202. – C2) tra funzioni di governo e funzioni giurisdizionali di garanzia secondaria, 75n, 133, 165, 196, 201-202, 242-243; separazione tra diritto e morale: vedi diritto e morale. sfera del decidibile, 48, 70, 201. sfera del non decidibile, v, 8, 10, 37, 48-49, 57, 60, 71, 75, 81, 94, 115, 119, 142, 201. sistemi elettorali: vedi elezioni. sovranità: popolare, 58-59, 78-79;

­­­­­280 – ridefinita dalle costituzioni come garanzia, 72, 77; – – come somma di quei suoi frammenti che sono i diritti di tutti, 78-79; – – nel senso che appartiene solo al popolo, 78; statale, 142, 153, 184; – soppressa quale potestas assoluta dalle Costituzioni, 75; – sostituita di fatto dalla sovranità dei mercati, 153, 253. Stato: come monopolio della produzione giuridica, 9; come sfera pubblica separata, eteronoma e sopraordinata alle sfere private, 151-152; crisi dello –, 14, 147-149, 151152; e mercato, 143; fondamento assiologico: – in entità metafisiche nel modello dello stato legislativo, 10, 79; – nella garanzia dei diritti nello stato costituzionale, 10, 72, 79-81, 214, 238; giurisdizionale, legislativo, costituzionale, 5-11. stato di diritto: costituzionale, 5 e n, 10-11, 19, 21-22, 26, 44, 50-56, 79-80, 84, 93, 203, 237; – caratterizzato da limiti e vincoli sostanziali al potere legislativo, 93; – caratterizzato dalla divaricazione, difetto e pregio, tra costituzione e legge, 81, 84, 141; – come stato strumento della garanzia dei diritti fondamentali, 80; crisi dello –, 141-143, 151-153, 164-165, 181, 242; e giurisdizione, 236; e rule of law, 21-24;

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espansione del modello dello –: vedi garantismo; futuro dello –, 11, 181-255; legislativo, 5 e n, 10, 14, 16, 26, 35, 38-39, 45, 60, 73, 79-80, 237; – che ammette solo limiti politici o esterni, 35. stato di natura, 92, 173, 178; nucleare, 178; primitivo, 92. stato sociale, 142, 157, 164, 180, 202-203, 214, 220-221. teoria del diritto: vedi scienza giuridica; dimensione pragmatica, ix, 83, 86-89; – carattere stipulativo delle sue assunzioni e definizioni, 83, 88, 104; – normatività forte dei principi della logica o iuris tantum e ruolo critico suggerito alla scienza giuridica, 83-84, 86-87; dimensione semantica, ix; – interpretata dalle discipline giuridiche positive e dalla teoria politica, 36, 86; dimensione sintattica, quale teoria formale e formalizzabile, 23, 36, 82-83, 85. tortura, 208. uguaglianza, 182; come convenzione, 107; – sull’uguale valore delle differenze e sul disvalore delle disuguaglianze, 107, 182; come fattore di unità politica, 169, 171, 182; e democrazia, 34, 164, 179; nei diritti fondamentali, 77, 169, 182; politica, 33. validità, 9, 36-38, 50-52; dimensioni e condizioni, v, 5-9;

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Indice degli argomenti

– formale, 7, 9, 36; – – come conformità alle norme formali, 45, 205; – – relativa alle forme dell’atto normativo, 40; – sostanziale, v, 36-38, 41, 42 e n, 45, 50, 72-73, 76, 89, 95; – – come coerenza con le norme sostanziali sulla produzione, 45, 95, 205-206; – – relativa al significato o contenuto delle norme prodotte, 37, 40; e vigore (o esistenza), 8-9; – divaricazione tra – e vigore, 38, 45, 73; vedi vigore; – secondo Kelsen equivalenti, 3942, 82; isomorfismo tra dimensioni della – e dimensioni della democrazia, 36-38; tre modelli di –, 5-9; vincolata alla giustizia: – nel modello giusnaturalista e giurisprudenziale, 6-7;

– nel modello principialista, 97100. verità: e giudizi morali e di valore, 102109; giuridica o fattuale, 125. veritas non auctoritas facit iudicium, 54. veritas non auctoritas facit legem, 6, 12n; come norma di riconoscimento del diritto giurisprudenziale, 6. vigore (o esistenza), 7-8, 38-45, 64; coincidente con la validità: – nello stato legislativo di diritto, 9, 38, 87, 141; – secondo Kelsen e Bobbio, 3945, 82; relativo solo alla forma dell’atto normativo, 40-41. vincoli sociali di bilancio nella Costituzione brasiliana: vedi bilancio. welfare: vedi stato sociale.

Indice del volume

Introduzione

v

Parte prima

Il modello teorico I. La democrazia costituzionale

5

1.1. I percorsi della modernità giuridica. Tre modelli di diritto: giurisprudenziale, legislativo, costituzionale. Tre norme di riconoscimento. Tre nozioni di validità, p. 5 - 1.2. Il costituzionalismo tra (paleo)giuspositivismo e (neo)giusnaturalismo. Una questione terminologica, p. 11 - 1.3. Positivismo giuridico, stato di diritto e democrazia. Il carattere formale del paradigma legislativo e di quello costituzionale, p. 20 - 1.4. Il primo giuspositivismo e la dimensione politica o formale della democrazia. Aporie e fallacie nelle concezioni soltanto formali della democrazia, p. 26 - 1.5. Il secondo giuspositivismo e la dimensione costituzionale o sostanziale della democrazia. L’isomorfismo tra diritto e sistema politico, p. 34 - 1.6. Una critica della teoria kelseniana e bobbiana della validità e della democrazia, p. 39 - 1.7. La divaricazione deontica tra validità e vigore nel paradigma costituzionale. La democrazia attraverso i diritti: un modello quadridimensionale, p. 45

II. Il costituzionalismo garantista 2.1. Quattro postulati del modello garantista dello stato costituzionale di diritto, p. 50 - 2.2. La rigidità della costituzione e le garanzie costituzionali. Antinomie e lacune, p. 56 - 2.3. Le garanzie costituzionali negative e le antinomie, p. 62 - 2.4. Le garanzie costituzionali positive e le lacune, p. 65 - 2.5. Il costituzionalismo come nuovo paradigma, p. 70 - 2.6. A) Il costituzionalismo e il mutamento di paradigma del diritto. Il diritto illegittimo, p. 72 - 2.7. B) Il costituzio-

50

­­­­­284

Indice del volume

nalismo e il mutamento di paradigma della democrazia. I diritti fondamentali come frammenti di sovranità popolare, p. 76 - 2.8. C) Il costituzionalismo e il mutamento dello statuto epistemologico della scienza del diritto. Una cultura giuridica militante, p. 81 - 2.9. L’estraneità alla teoria del diritto tradizionale delle nozioni formali di ‘diritti fondamentali’ e di ‘paradigma costituzionale’, p. 89

III. Il costituzionalismo principialista

95

3.1. Due questioni controverse nella concezione del costituzionalismo, p. 95 - 3.2. Sul significato della tesi della connessione e di quella della separazione tra il diritto e la morale, p. 96 - 3.3. Oggettivismo morale forte e oggettivismo morale debole. Un semplice dissenso sul significato del termine ‘vero’?, p. 102 - 3.4. Regole e principi. Una proposta ridefinitoria, p. 109 - 3.5. I diritti fondamentali come regole oggetto di applicazione e come principi oggetto di argomentazione, p. 112 - 3.6. Sulle soluzioni dei conflitti: A) Le soluzioni in astratto. Concorsi di norme, p. 122 - 3.7. B) Le soluzioni in concreto. La ponderazione equitativa, p. 125 - 3.8. Diritto vigente e diritto vivente, p. 128 - 3.9. Il costituzionalismo, la gerarchia delle fonti e la separazione dei poteri, p. 133

Parte seconda

Il progetto politico IV. La crisi odierna della democrazia costituzionale 141 4.1. Crisi economica e crisi della democrazia, p. 141 - 4.2. Il ribaltamento del rapporto tra politica ed economia e l’impotenza della politica di fronte ai mercati finanziari, p. 143 - 4.3. La crisi della dimensione formale della democrazia e il fallimento delle politiche imposte dai mercati. La spirale della disuguaglianza, p. 150 - 4.4. L’onnipotenza della politica di fronte alla società e la crisi della dimensione sostanziale della democrazia: A) Il processo decostituente negli ordinamenti statali, p. 157 - 4.5. B) Il processo decostituente a livello europeo. La crisi dell’Unione Europea, p. 165 - 4.6. C) Il processo decostituente a livello globale, p. 172 - 4.7. La crisi della capacità regolativa del diritto. Cinque emergenze planetarie, p. 176 - 4.8. Dalla crisi economica alla crisi sociale e politica. Il costituzionalismo garantista come progetto politico, p. 179

V. Il futuro del costituzionalismo 5.1. Il costituzionalismo come paradigma teorico formale e le sue possibili espansioni. Costituzionalismo garantista

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Indice del volume

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e rule of law nei tempi lunghi e negli spazi globali, p. 181 - 5.2. L’espansione in senso estensionale del paradigma costituzionale nei confronti dei poteri economici e dei poteri sovranazionali. Per un’Assemblea Costituente europea, p. 187 - 5.3. Il rafforzamento in senso intensionale della dimensione formale della democrazia costituzionale. Quattro separazioni tra poteri, p. 194 - 5.4. Il rafforzamento in senso intensionale della dimensione sostanziale della democrazia costituzionale e i quattro postulati del modello MG: A) Il principio di stretta legalità, p. 204 - 5.5. BA) Il principio di completezza e le garanzie primarie dei diritti di libertà. I beni illeciti, p. 207 - 5.6. BB) Il principio di completezza e le garanzie primarie dei diritti sociali. Il diritto a un reddito di base. Per un welfare dei diritti, p. 213 - 5.7. BC) Il principio di completezza e le garanzie dei beni fondamentali. Beni comuni, beni personalissimi e beni sociali, p. 222 - 5.8. C) Il principio di giurisdizionalità e le garanzie secondarie dei diritti e dei beni fondamentali. Ruolo e limiti della giurisdizione, p. 236 - 5.9. D) Il principio di azionabilità e la sua estensione al di là del diritto individuale di azione. Per un pubblico ministero di garanzia, p. 245 - 5.10. Il futuro della politica. Un significato allargato dell’interesse generale e della sfera pubblica, p. 250

Indice dei nomi

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Indice degli argomenti

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