La democrazia dispotica 9788842094647

Questo libro nasce da una doppia interrogazione: sulla democrazia e sulla situazione attuale del nostro Paese. Si soffer

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La democrazia dispotica
 9788842094647

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Sagittari Laterza 178

Michele Ciliberto

La democrazia dispotica

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione gennaio 2011 Seconda edizione aprile 2011 Terza edizione giugno 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9464-7

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a Federico, Andrea, Donata non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere Spinoza

Prologo

...non par che qui sia scienza, ma dove sa di dialogo, dove di comedia, dove di tragedia, dove di poesia, dove d’oratoria... Giordano Bruno

Dal punto di vista formale, in Italia, «nihil sub sole novi» (come dice l’Ecclesiaste); sul piano sostanziale, il nostro paese è in una fase di grande travaglio e di profondi sconvolgimenti. È in atto una vera e propria ‘rivoluzione’ tra i poteri costitutivi della Repubblica: l’‘eccezione’ – l’emergenza – è diventata ‘norma’, come avviene nelle situazioni strutturalmente dispotiche. Il governo nazionale, pur frutto di una larghissima vittoria elettorale, implode per il venir meno di una parte della sua maggioranza. E su questa scia si è anche cominciato a parlare di fine di un ciclo quasi ventennale, e di solitudine e declino del leader che ha improntato della sua figura, della sua azione e anche dei suoi ‘vizi’ la vita della Repubblica negli ultimi vent’anni. Per poter avere chiari l’entità e lo spessore della posta in gioco, è necessario svolgere un’analisi spassionata della situazione attuale – cosa che in genere non accade, specie fuori d’Italia. Anzi. Quando i giornali stranieri analizzano e giudicano oggi il nostro paese continuano ad usare (con poche eccezioni) l’arma dell’ironia e del sarcasmo, considerandolo un frutto un po’ eccentrico, ma in fondo non sorprendente, della «cultura da caffè latino», della mancanza di partiti razionalmente organizzati, della nostra «democrazia da strada» (sono espressioni di Max Weber, risalenti al 1919). Per l’Italia, l’unico termine di confronto sarebbe dunque qualche

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paese dell’America del Sud, altrettanto estraneo alla cultura politica europea; con le sue esibizioni Berlusconi apparterrebbe alla vecchia, e nota, fenomenologia dei caudillos che hanno devastato, con la loro presenza, quel grande continente. Né c’è dubbio che nella sua vicenda umana e politica ci siano elementi che fanno pensare a spettacoli di terz’ordine, a manifestazioni di potere non degne di un uomo di governo (almeno secondo i parametri morali correnti). Tutto questo è vero. Ma bisogna imparare a guardare alla sostanza delle cose. E la sostanza consiste in questo: il berlusconismo non è un fenomeno decifrabile in termini puramente provinciali; né rappresenta il riproporsi di vecchie forme di autoritarismo proprie delle nostre classi dirigenti, del loro cronico, e tradizionale, «sovversivismo» (come qualcuno ha scritto). Tanto meno è assimilabile, come spesso è stato fatto e si continua a fare, al fascismo. Se fosse così, tutto sarebbe paradossalmente più semplice. È, invece, un frutto maligno della nostra democrazia, qualcosa che è nato e si è sviluppato dentro la crisi del nostro sistema democratico, e che di esso si è alimentato e continua ad alimentarsi. Nella sostanza il berlusconismo è una forma patologica della democrazia dei ‘moderni’; appartiene alla storia, e alle metamorfosi, della democrazia occidentale; e in questo senso, come oggi riguarda l’Italia, così – in forme e tipi ovviamente differenti – può riguardare, e coinvolgere, anche altre democrazie europee. Esso è il frutto diretto, da un lato, della frantumazione delle vecchie identità collettive; dall’altro, delle forme di ‘passività’ che hanno investito e coinvolto la parte maggioritaria del nostro paese, con la crisi e la distruzione delle tradizionali forme di autogoverno e di autorganizzazione, tipiche della «politica di massa» del Novecento. È – per dirlo con una formula – una nuova forma di quel «dispotismo democratico» su cui Alexis de Tocqueville nella prima metà dell’Ottocento ha scritto pagine fondamentali. Questa è la realtà, e con essa dobbiamo confrontarci, senza illuderci di poterci liberare del berlusconismo con un sorriso di sufficienza. De te fabula narratur, verrebbe da dire a molti nostri interlocutori europei. Bisognerebbe sempre ricordare alcune cose elementari per capire che cosa abbiamo di fronte: Berlusconi è arrivato tre volte alla Presidenza del Consiglio con un consenso popolare che è riuscito a conservare anche in momenti aspri, e che sarebbero stati, forse, fatali per altri leader politici. Negli ultimi tempi è stato investito

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da una serie di scandali assai gravi, dai quali è riuscito a venir fuori conservando, senza grandi danni, il proprio bacino elettorale, fra lo stupore degli osservatori politici e dei custodi della morale. L’intreccio voluto e consapevole di sesso e di potere, di ‘pubblico’ e di ‘privato’ che ha caratterizzato la sua leadership è ormai un fatto, riconosciuto da tutti; dai suoi seguaci è stato anzi glorificato come un dato naturale di cui vantarsi; perfino come una ‘tecnica’ di governo; o addirittura come un mezzo per liberarsi dei propri avversari. Tutto ciò non ha intaccato in modo sostanziale il consenso che continua a circondarlo, nonostante le tempeste. E questo nonostante la crisi, prima, e la dissoluzione, poi, del partito che ha fondato, cercando anche di dare forma organica al bipolarismo italiano (il contributo principale che Berlusconi ha dato alla riforma del sistema politico). Di fronte a un fenomeno di questo tipo si possono naturalmente accampare varie spiegazioni, tutte giuste e utili: si può perfino sostenere, come qualcuno ha fatto, che quelli che lo votano sono tutti sciocchi, insipienti, che non sanno quello che fanno. Oppure si possono citare la ‘secolarizzazione’ dell’Italia o la fortissima incidenza dei media – di cui Berlusconi è proprietario – nella formazione e nella estensione di questo consenso. Si può anche evocare la fine dei grandi partiti di massa che hanno costituito l’architrave della cosiddetta ‘Prima Repubblica’. Sono tutti elementi analitici importanti, da tenere in debita considerazione. Ma proprio l’ultimo argomento evocato, assai serio – cioè la fine dei grandi partiti di massa –, deve spingere la nostra riflessione verso un altro punto di notevole rilievo: Berlusconi non ha vinto in un paese politicamente analfabeta, estraneo alla cultura politica e alla dimensione politica di massa. Gli italiani che lo hanno votato – specialmente quelli appartenenti alle generazioni più adulte – sono stati per molti decenni un esempio, nel bene e nel male, di scelte politiche così radicate e convinte da risultare per molti aspetti impermeabili a qualunque mutamento. Berlusconi non ha sistemato, come un vecchio khan, i suoi accampamenti nel deserto: al contrario, ha vinto perché è riuscito a ricomporre intorno alla sua leadership forti e dure – pur se ormai storicamente disgregate – appartenenze politiche e di classe, interpretando – da un punto di vista originale – processi di fondo, di natura patologica, delle democrazie occidentali, affiorati con maggiore

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velocità e anche virulenza nella nostra società per gli elementi di specifica fragilità – questi sì – che strutturalmente la connotano. Limitarsi ad elencare tali, e consimili, fenomeni uno per uno perciò non serve, non è sufficiente. C’è qualcosa di più profondo da afferrare; e per poterlo fare è necessario, in via preliminare, cercare di cogliere il quadro generale entro cui essi si inseriscono, potenziandosi a vicenda e ponendo le basi della forza e del consenso che si è raccolto intorno alla leadership di Silvio Berlusconi. Bisogna cercare di guardare alla realtà, senza lasciarsi abbagliare – o disgustare – dalla superficie che, certo, non è attraente. Ed è proprio su questo sfondo di problemi che i ‘classici’ della democrazia possono risultare assai utili, contribuendo a sgombrare il terreno da molti equivoci. A mio giudizio, come già ho accennato, la sostanza consiste in questo: la situazione italiana interroga direttamente la democrazia in sé e per sé, il destino del sistema democratico; e, in tale quadro, pone la questione delle ‘patologie’ proprie della democrazia dei ‘moderni’. Di ciò si tratta, in ultima analisi, quando si parla del berlusconismo, ed è questo che rende complesso il discorso: per comprenderlo occorre scavare nella democrazia, nelle sue degenerazioni. Le patologie della democrazia non cominciano, ovviamente, con il berlusconismo: i ‘classici’ del pensiero democratico si sono interrogati, fin dall’inizio, sulle trasformazioni e le degenerazioni della democrazia. Nei testi di Tocqueville o in quelli di Weber – per limitarsi a fare due nomi – ci sono riflessioni e notazioni sulle degenerazioni dispotiche della democrazia o sui caratteri ‘carismatici’ della politica del Novecento che possono contribuire a chiarire la natura del berlusconismo come forma patologica della democrazia. Naturalmente occorre procedere cum grano salis quando si stabiliscono questi paralleli. Nei ‘classici’ ci sono osservazioni che contribuiscono a illuminare il nostro presente; ma esse sono valide, in primo luogo, da un punto di vista ‘morfologico’; non sul piano strettamente ‘empirico’. Non avrebbe alcun senso, ad esempio, cercare di ritrovare riscontri precisi tra le analisi di Tocqueville sul dispotismo «dolce» e il berlusconismo. Allo stesso modo, non avrebbe senso ricondurre il carattere ‘carismatico’ della leadership di Berlusconi nei canoni stabiliti da Max Weber. Nella sua azione politica ci sono, senza alcun dubbio, tratti tipicamente ‘carismatici’: la rottura, ad esempio, con la ‘tradizione’ – in questo caso con l’antifascismo, con la religione ‘civile’ dell’antifa-

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scismo, con la politica della ‘Prima Repubblica’ –; al suo seguito ci sono poi folle di individui che confidano nella sua persona e nella sua azione e che a lui si affidano, a patto di conseguire successo e potere, come avviene con qualunque capo di tipo ‘carismatico’. Ma Berlusconi non si è affermato come leader ‘carismatico’ nella lotta politica e nelle battaglie parlamentari, come i leader di cui parla Weber. Anzi, si è imposto nella crisi della democrazia italiana muovendosi su un piano del tutto estraneo alla politica in senso proprio. Come disse nel 1994 un suo antico e tuttora fedele collaboratore, commentando la sua vittoria elettorale, «Berlusconi è anzitutto un grande venditore; gli italiani cercavano un partito, in tre mesi l’ha costruito e glielo ha venduto». Questo, naturalmente, non significa che non sia, a suo modo, un leader ‘carismatico’; esistono diversi tipi di ‘carisma’. Berlusconi non è però, propriamente, un leader politico: in questa irriducibilità a canoni ordinari risiede la difficoltà di mettere a fuoco la sua figura. Si è impossessato, è vero, degli strumenti della politica ed ha imparato ad usarli assai bene, specie quelli che si maneggiano nelle quotidiane trattative di potere, che, del resto, già conosceva alla perfezione; ma si muove su un terreno strutturalmente diverso da quello ‘normalmente’ politico. Proprio per il carattere di questo suo ‘carisma’, ci sarà sempre uno iato incolmabile fra lui e la tradizionale classe politica italiana, così come ci sarà sempre una profonda, insuperabile, differenza tra il suo stile di governo e di comando e lo stile ordinario della politica italiana corrente, sia della ‘Prima’ che della ‘Seconda’ Repubblica. Si può dissentire o consentire, ma un punto è certo: a questa ‘tradizione’ Berlusconi è radicalmente estraneo, e se essa rappresenta la politica, è radicalmente estraneo alla politica. Il nuovo ‘dispotismo democratico’ è figlio diretto del declino – e della degenerazione – della politica, e può perciò essere combattuto anzitutto ricostituendo, in forme nuove, significato e valore della politica. È per questo che Berlusconi non ha, e non potrà avere, eredi: essi non ci saranno per due ordini di motivi. Intanto i leader ‘carismatici’ in genere non hanno eredi; Berlusconi, oltretutto, non si riconosce nella societas politica in cui dovrebbe essere scelto il suo eventuale erede. Qualora un erede ci fosse, dovrebbe avere caratteristiche non riconducibili all’universo politico. Se Weber vedeva nella «impoliticità» dell’epoca bismarckiana il segno della miseria della Germania, Berlusconi ha trasformato l’«im-

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politicità» – anzi l’‘antipoliticità’ – esplosa in Italia tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta nel piedestallo del suo successo personale e del consenso democratico che sostiene il suo sistema dispotico. È stata in effetti proprio questa estraneità alla politica che gli ha permesso di intercettare il consenso degli italiani, i quali, disgustati dal declino della ‘Prima Repubblica’, hanno visto in lui un capo capace di chiudere una vecchia storia e di aprirne un’altra; un leader capace di guidarli altrove, su vie magari non ben determinate ma in ogni caso diverse da quelle che la politica italiana aveva seguito fino ad allora. Il successo di Berlusconi come leader ‘carismatico’ è direttamente proporzionale al disgusto maturato da buona parte degli italiani per una politica intesa come luogo di estenuanti e inconcludenti mediazioni, di puro potere e di corruzione: un disgusto profondo, fortemente potenziato, occorre aggiungere, da vecchie, e robuste, venature qualunquistiche (controriformistiche, verrebbe da dire) caratteristiche della nostra storia. Per questo Berlusconi è stato spesso inscritto nel campo dell’antipolitica, ed egli stesso per ovvi motivi ha insistito su questo tasto, gloriandosene. È un errore: Berlusconi è piuttosto il frutto della ‘crisi democratica’ italiana e, in senso generale, della crisi delle forme della politica tipica del Novecento, imperniata in forti e strutturati organismi di massa capaci di chiudere nella loro rete il complesso della vita politica, sociale, culturale ed anche religiosa del paese. Rispetto a tutto ciò Berlusconi si è mosso, fin dall’inizio, su un’onda diversa: in questo senso specifico, egli è essenzialmente un leader post-politico. Il nuovo «dispotismo democratico» è riuscito ad imporsi nel nostro paese collocandosi oltre l’orizzonte politico in senso stretto, avviando una dissoluzione della politica e delle sue istituzioni; e ha ottenuto, proprio per questa via, il consenso di larga parte del paese. La sua forza è consistita precisamente nel mutare i punti di riferimento, e di orientamento, tradizionali – a cominciare da quelli ‘civili’ –; e nel generare una vera e propria mutazione antropologica attraverso l’uso spregiudicatissimo di una serie di strumenti antichi e nuovi, a cominciare dal sistema dei media, dal quale il moderno dispotismo ha tratto, e continua a trarre, esistenza e potenza. Interpretare il berlusconismo secondo parametri strettamente politici significherebbe non comprendere il fenomeno che si ha di fronte e

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ciò che lo distingue e lo caratterizza in modo specifico, anche nella storia generale del «dispotismo democratico». Si pensi, per fare un solo caso, al lessico berlusconiano: esso si propone, in modo esplicito e consapevole, di oltrepassare la dimensione strettamente politica, penetrando, e rivitalizzando, ‘sensi comuni’ profondi degli italiani – compreso il tasto dell’‘osceno’ e del ‘maschilismo’ –, riuscendo, proprio per questa via, ad estendere il cerchio del suo consenso. In sintesi: il nuovo dispotismo democratico si è imposto perché, sia sul piano culturale che su quello linguistico, ha spezzato i confini della politica tradizionalmente intesa; e lo ha fatto, occorre aggiungere, con un lavoro vasto ed organico in cui sono stati intrecciati, in un nodo originale e complesso, arretratezze tipiche della storia nazionale italiana ed elementi di innovazione ed originalità. Questo libro nasce dalla persuasione che i ‘classici’ siano tali perché sporgono oltre le barriere del loro tempo storico, e che essi possano contribuire a chiarire e ad illuminare situazioni anche assai distanti nel tempo e nello spazio, le quali, a loro volta, dimostrano la ricchezza e la varietà dei motivi che, come un tesoro, ogni ‘classico’ racchiude in sé. I ‘classici’ – non lo si dirà mai abbastanza – sono i nostri quotidiani compagni di studio e di lavoro. Oggi i ‘classici della democrazia’ possono contribuire a farci comprendere caratteri specifici del nascere e dell’affermarsi in Italia del berlusconismo; a patto, naturalmente, di avere chiaro un punto essenziale e già sottolineato: le convergenze ‘morfologiche’ non possono togliere, e non tolgono, le differenze esistenti tra le analisi dei ‘classici’ e i caratteri specifici di questa nuova forma di «dispotismo democratico». Weber scrive, ad esempio, pagine decisive sulla democrazia ‘carismatica’, ma si muove nell’orizzonte della «democratizzazione» e della «politicizzazione di massa», e in questo quadro situa la sua interpretazione del «cesarismo». Alle radici del berlusconismo ci sono, da un lato, la fine di entrambe; dall’altro, l’affermazione e la diffusione di nuove forme di individualismo del tutto estranee all’orizzonte di massa proprio del Novecento. C’è, in altre parole, un vero e proprio mutamento morfologico sia della politica che dei ‘cerchi’ entro cui si esprime e si sviluppa la vita sociale degli individui e della comunità. Detto questo, il problema generale che i ‘classici’ della democra-

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zia possono contribuire a illuminare è decisivo: in forma patologica, il berlusconismo appartiene alle vicende, e alle metamorfosi, della democrazia dei ‘moderni’ e delle sue crisi; e deve essere situato su questa lunghissima onda, se si vuole effettivamente comprenderlo, criticarlo o rifiutarlo. Non si tratta – conviene ribadirlo – di un problema solo italiano, ‘provinciale’; né di una ‘patologia’ che coinvolge solo la destra. È una tendenza generale dell’epoca nella quale si intrecciano, in modi complessi, dispotismo, plebiscitarismo, populismo, dinamiche di tipo carismatico. Essa ha investito anche le forze del centrosinistra, che – per cercare di ristabilire un nuovo circuito di comunicazione tra «governanti» e «governati» – si sono affidate, in Italia, alla ‘tecnica’ delle ‘primarie’. Le quali, in una sorta di eterogenesi dei fini, invece di riattivare la dinamica democratica (come è pur sembrato, in una prima fase), si sono progressivamente rovesciate in una forma di plebiscitarismo carismatico che ha accentuato, in chiave demagogica e populistica, la crisi della democrazia italiana, coinvolgendo anche le forze che dovrebbero essere impegnate in prima linea nella sua salvaguardia e nel suo potenziamento. A conferma – se ce ne fosse stato bisogno – della profondità e della gravità dei problemi che si pongono oggi, in generale, sul piano della rappresentanza politica e sociale, cioè – in una parola – delle ‘fonti’ e delle forme della sovranità. In queste pagine il lettore si troverà perciò di fronte una ricerca che si svolge in tre tempi, ma su un registro unitario, con una tecnica che se si trattasse di un film si potrebbe definire del flashback: nella prima parte si presentano, in modo sintetico, le posizioni di alcuni ‘classici’ che tra Otto e Novecento hanno insistito sulla metamorfosi e le ‘patologie’ della democrazia dei ‘moderni’; nella seconda parte si cerca di mettere a fuoco, alla luce di questi ‘classici’, le tendenze ‘dispotiche’ e ‘plebiscitarie’ insorte nel seno della democrazia italiana; infine, nella terza parte si propongono alcune ipotesi per rimettere il tempo «in sesto». Continuando il paragone: sono come tre atti di un’unica commedia, o di una sola tragedia (se si preferisce), collegati da un Entr’acte che, facendo da ponte, ha la funzione di rendere più agevole – e perspicuo – il passaggio dalla prima parte ‘filosofica’ alle altre due di carattere più esplicitamente ‘ideologico’ e ‘politico’. È da tale duplicità, e complessità, di motivi che discendono anche lo stile del libro, la sua singolarità. Impiegando, e variando, temi e

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registri stilistici assai diversi sul piano della scrittura, esso si propone di sperimentare uno stile in grado di far risaltare la pluralità – e la varietà – di temi e di registri con cui qui viene affrontato il tema del moderno dispotismo. È una scelta consapevole, come dovrebbe apparire chiaro fin dalle battute della Cena de le Ceneri che aprono il Prologo e chiariscono – con doverosa, necessaria ironia – l’obiettivo del libro: esso ambisce ad essere, simultaneamente, un esercizio di filosofia che interroga la politica e una riflessione politica che interroga la filosofia. Giudicherà il lettore, ovviamente, se l’esperimento è riuscito. Ma proprio per la singolarità, e l’‘eccentricità’ (se si vuole) della strada scelta, può essere utile, credo, indicare – in modo assai sommario – la ragione delle scelte concettuali e stilistiche che ho fatto in questo lavoro. È nel secondo libro della Democrazia in America di Tocqueville che viene concettualizzata la nuova specie di dispotismo – quello «dolce», «mite»: il «dispotismo democratico». A mio giudizio, resta questa la chiave di lettura essenziale per comprendere il nostro tempo storico, con le necessarie innovazioni e le modificazioni su cui si è già insistito: di qui il rilievo centrale assegnato a quel capolavoro in tutto il libro. La scelta di Marx è altrettanto chiara: mi interessava mettere a fuoco, attraverso la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e la Questione ebraica, il concetto di democrazia come «genere» di ogni costituzione e, in questo quadro, volevo valorizzare la «critica dell’ideologia» svolta da Marx, a cominciare dai «diritti dell’uomo» proclamati dalla Rivoluzione francese. Mi interessava farlo, oltre che sul piano storico, per sottolineare il vigore e l’eccezionale attualità di queste posizioni per una critica, oggi, del moderno «dispotismo democratico», il quale deve essere demistificato anzitutto sul piano ‘ideologico’ (nel senso materiale e immateriale del termine). Ma, al tempo stesso, attraverso quei testi, ho voluto mettere in rilievo le originarie matrici marxiane della sempreverde e sempre viva ‘democrazia diretta’ (compresa, al suo livello, la fiaccola ora un po’ offuscata delle ‘primarie’), analizzando in modo ravvicinato la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e, in modo speciale, le ultime pagine di quel testo, nelle quali è teorizzata, attraverso l’uso massiccio delle elezioni, la realizzazione della democrazia nella sua

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sostanzialità. Sul filo di queste riflessioni, mi interessava, infine, sottolineare i limiti radicali e insuperabili della critica marxiana della politica come «astrazione» e, dunque, orizzonte da oltrepassare, e dissolvere, per ottenere l’«emancipazione» integrale dell’uomo. Punto, lo dico subito, che considero centrale per lo sviluppo di una rinnovata teoria della democrazia. Senza politica, infatti – ce l’ha insegnato Machiavelli –, non c’è libertà. Ma ‘politica’ – si sa anche questo – è un’affermazione generica; si tratta di vedere come essa si sia concretamente esplicata nei processi reali, che sono sfociati – per sintonia o per contrasto – nel nostro tempo storico. Su questo sfondo, Croce, Mann, Weber, lo stesso Gramsci mi sono serviti, anzitutto, per mettere a fuoco il carattere di massa assunto dalla politica nel Novecento e verificare gli atteggiamenti, e le reazioni, suscitati dalla «politicizzazione di massa» come orizzonte complessivo del vivere dell’uomo e delle società – da quelli, addirittura repulsivi, di Mann a quelli realistici di Croce, fino alle riflessioni di Weber, da un lato, sulla ‘burocratizzazione’, dall’altro, sulla ‘carismaticità’. Ma ho utilizzato questa categoria – «politicizzazione di massa» – anche e soprattutto per mostrare le differenze radicali fra i totalitarismi novecenteschi nella loro complessità e il moderno «dispotismo democratico», che si afferma – e questa è la sua ineludibile specificità – quando tramontano e finiscono le forme della politica di massa proprie del Novecento, misurandosi con problemi del tutto nuovi sia sul piano della considerazione dell’individuo che su quello della società. Oggi i partiti di massa novecenteschi hanno perso la loro funzione; ma quello che, al fondo, è definitivamente cambiato è il rapporto tra ‘individuo’ e ‘massa’, tra ‘individuo’ e ‘comunità’. Nei grandi movimenti del Novecento, sia di destra che di sinistra, l’individuo era concepito come una ‘goccia’, un ‘frammento’, che si risolve, e acquista senso e valore, solamente nel gran fiume della Storia, il quale assorbe, dissolve, cancella ogni superflua, e dannosa, dimensione personale, individuale. Chi non era d’accordo con questa ‘ideologia’ (della quale sarebbe interessante mettere a fuoco le radici filosofiche), e recalcitrava o protestava, poteva finire in un lager, a Ovest come a Est. Su questo punto, a destra o a sinistra, le cose funzionavano, in sostanza, allo stesso modo, per un motivo preciso: in entrambi i casi agiva una rigida, e radicale, opzione anti-individualistica. Da questo punto di vista era nel giusto Danilo Kisˆ quando, nel 1984, consigliava a «un giovane scrittore» di mandare «al diavolo cento

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volte chi dice che Kolyma era diversa da Auschwitz»1. Ma già in un libro assai interessante della fine degli anni Trenta, uno scrittore francese – Roger Bonnard – aveva adunato tutti i regimi totalitari dell’epoca – di destra e di sinistra – sotto la categoria generale di «democrazia anti-individualistica»2. Con la fine della «politicizzazione di massa» propria del Novecento (contro la quale Thomas Mann scrisse pagine di fuoco nelle Considerazioni di un impolitico, di cui avremo modo di parlare a lungo), tutto questo è cambiato: e proprio sul punto decisivo del rapporto tra ‘individuo’ e ‘massa’. Nessun ‘individuo’, oggi, è disposto a sacrificarsi – e a sciogliersi – nella ‘massa’, a credere ancora nella «necessità storica», a salire sui «treni della storia», a sacrificare se stesso ai ‘princìpi’, in nome del ‘progresso’ della ‘società’. Le grandi entità collettive – dal partito alla classe – si sono esaurite. È una questione, al tempo stesso, di forma e di contenuto; nel senso più alto, è un problema di ‘linguaggio’, di comunicazione individuale e sociale. Qualunque sia il giudizio che si voglia dare su questo processo, un fatto è certo: non ha avuto fra i suoi esiti una emancipazione e una liberazione degli individui. Anzi: la forza del nuovo «dispotismo democratico» è stata proprio nella capacità di penetrare, con mezzi nuovi, in questi spazi, e di riempirli di nuovi ‘sensi comuni’, che si sono risolti in nuove, e più profonde, forme di soggezione, di sottomissione. Per riprendere una battuta di Marx (che a sua volta la riprendeva, ma rovesciandola, da Rousseau), all’individuo sono state sottratte le «forze proprie», e ne sono state sostituite altre che sono alla base della sua servitù. Questo è il problema, oggi, né, certo, è possibile riproporre la 1   D. Kisˆ, Homo poeticus, Adelphi, Milano 2009, p. 40. Su questo punto Kisˆ è assai netto: «Io affermo che la storia universale dell’infamia è il XX secolo con i suoi campi di concentramento, in primo luogo i lager sovietici. Perché per me l’infamia c’è quando – in nome dell’idea di un mondo migliore, idea per la quale sono morte generazioni di uomini –, quando in nome di una siffatta idea umanista costruisci dei lager e nascondi la loro esistenza, distruggendo non solo le persone ma anche i loro sogni più intimi di un mondo migliore. La storia universale si potrebbe ridurre, dunque, al destino di tutti quegli infelici idealisti che dall’Europa si sono rivolti verso la ‘Terza Roma’, Mosca, che in modo infame e crudele sono stati attirati nel tranello in cui avrebbero sofferto e sarebbero morti come bestie ferite due volte» (ivi, pp. 185-186). Il riferimento ovviamente è alla Storia universale dell’infamia di J.L. Borges. 2   R. Bonnard, Le droit et l’État dans la doctrine Nationale-socialiste, Librairie générale de Droit & Jurisprudence, Paris 1936.

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soluzione del giovane Marx che, nel 1843-44, fa perno sull’uomo come «genere» – nel quale il valore d’uso si afferma nella sua integralità – per individuare la via della emancipazione umana. Ma il problema resta: oggi come ieri, si tratta di individuare le vie e le forme per restituire all’uomo le «forze proprie», distruggendo le vecchie e le nuove servitù, costruendo in modo autonomo la propria vita e creando nuovi vincoli di solidarietà (e dico ‘solidarietà’, non ‘comunità’ per un’antica, e profonda, diffidenza nei confronti di questo concetto). E con questo il cerchio si chiude: l’interpretazione del moderno dispotismo e l’individuazione di alcuni suoi caratteri essenziali presentati in questo libro vogliono essere un momento di questo lavoro, un contributo – certo circoscritto, certo limitato, me ne rendo ben conto – a restaurare in Italia lo spazio della politica democratica, cioè – se Machiavelli ha, come io credo, ragione – lo spazio della libertà. È a questo, comunque, che mira in modo particolare l’ultima parte del libro, di carattere propositivo, nella quale sono rivendicate con forza l’‘immortalità’ – verrebbe da dire – dei ‘princìpi’ messi a fuoco da Marx nella Questione ebraica e il loro speciale valore per una critica rigorosa dell’ideologia dispotica dominante. Vorrei, però, essere chiaro sui caratteri e sui limiti di questo lavoro. I problemi qui affrontati possono essere analizzati da una pluralità di punti di vista: giuridico, politico, sociologico, economico, antropologico... Sono uno storico della filosofia, abituato per mestiere ad analizzare, commentare, connettere testi, e mi sono servito di questi strumenti per cercare di interrogarmi sul nostro tempo storico e abbozzarne una interpretazione: un tempo, direbbe Amleto, «out of joint». L’ho fatto alla luce di alcuni grandi ‘classici’. Del resto questo, credo, è il compito fondamentale dello storico, anche di quello della filosofia: rianimare la memoria, resuscitare i ‘morti’, farli colloquiare nuovamente con i ‘vivi’ – almeno con quelli, direbbe Bruno, che si ritengano tali. Ringrazio vivamente Elisabetta Scapparone e Laura Fedi che, oltre a darmi preziosi consigli, mi hanno aiutato nella preparazione del volume; ricordo con piacere i miei allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa con i quali, negli ultimi tre anni, ho discusso alcuni dei temi trattati nella prima parte; in modo speciale desidero ricordare, con amarezza e profondo rimpianto, Riccardo Tocchet,

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giovane normalista, mancato ante diem. Ringrazio gli amici che hanno letto queste pagine dandomi anche preziosi consigli: Paolo Rossi, Giuseppe Cambiano, Vannino Chiti, Mariano Giaquinta, Stefano Poggi. Un ringraziamento speciale desidero rivolgere a Maria Vittoria Benelli per l’aiuto che mi ha dato nella stesura del libro. Infine, mi è caro ringraziare il personale dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento per la preziosa collaborazione che mi ha offerto anche nella preparazione di questo volume. Palazzo Strozzi, ottobre 2010 M.C.

Nota dell’autore

Come il lettore avrà modo di constatare, questo libro è basato anzitutto su un diretto confronto con le opere degli autori studiati: per questo l’apparato delle note è ridotto all’essenziale e concerne in generale soltanto i testi direttamente utilizzati. Naturalmente, nello scriverlo ho avuto presente la letteratura critica principale nei diversi settori. Per quanto riguarda Tocqueville, mi riferisco in modo speciale ai lavori di Anna Maria Battista, di Dino Cofrancesco, di Francesco M. De Sanctis, di Nicola Matteucci, e naturalmente ai ‘classici’, vecchi e nuovi, tra gli studi francesi, compreso l’ultimo libro di Lucien Jaume. Interessante anche il volume pubblicato ora in America di Paul A. Rahe. Nel caso di Marx, oltre all’importante commentario di Finelli e Trincia sulla Critica del diritto statuale hegeliano, mi sono servito in modo particolare della fondamentale Introduzione all’Ideologia tedesca di Cesare Luporini (un maestro che mi è caro citare, perché è dalle sue lezioni che, in anni ormai lontani, ho imparato ad amare Marx). Nella letteratura intorno a Croce ho privilegiato soprattutto i lavori di Gennaro Sasso, Giuseppe Galasso e Michele Maggi. Della critica su Gramsci e Weber mi sono stati presenti i lavori di Pietro Rossi e di Massimo Cacciari per quanto riguarda Weber; di Giuseppe Vacca, Alberto Burgio e Leonardo Paggi per quanto riguarda Gramsci. I contributi più significativi del seminario – da cui è scaturito il primo capitolo – sono ora raccolti in Il destino della democrazia. Attualità di Tocqueville, a cura di O. Catanorchi e D. Ragazzoni, prefazione di M. Ciliberto, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010.

La democrazia dispotica

Parte prima

Metamorfosi della democrazia

Tocqueville e la «scienza» dei legami

Si diceva che bisognava ottenere anzitutto la giustizia e che, per quanto riguarda la libertà, ci si sarebbe pensato dopo; come se degli schiavi possano mai sperare di diventare liberi. Albert Camus

È stato Tocqueville a segnalare con grande chiarezza i rischi propriamente dispotici della democrazia, nella quale egli individua, fin dalle prime pagine del suo capolavoro, il destino inevitabile dell’umanità – un destino, sottolinea, che conviene guidare, se non se ne vogliono subire gli effetti negativi. Al processo democratico sono infatti intrinseci due esiti possibili: si può diventare tutti eguali e tutti schiavi (come paventava Montesquieu), oppure si può diventare tutti eguali e tutti liberi. Ma la storia europea moderna – con la Rivoluzione francese, con Napoleone, con il primato dello «Stato amministrativo» – ha dimostrato che la prima possibilità è assai più prossima e più concreta della seconda: quello che, infatti, cresce e si sviluppa è un ‘potere’ sociale che assume, direttamente, il controllo di tutti, togliendo autonomia e responsabilità ai singoli individui, i quali a loro volta delegano a questo potere la gestione della loro vita, rinunciando alla libertà. Mentre nel primo libro della Democrazia in America (1835), discorrendo degli Stati Uniti d’America, Tocqueville rivendica l’energia e l’intraprendenza dell’homo democraticus che si impegna con tutte le sue forze per affermare la sua personalità attraverso un mutamento incessante e inesauribile di ruoli e di funzioni sociali e

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politiche, nel secondo (1840), mettendosi dal punto di vista dell’Europa, insiste sul carattere statico delle società democratiche, sulla loro impermeabilità al mutamento, sulla chiusura di ciascuno nel proprio «particulare»1. Ma è sbagliato contrapporre questi due testi, come se corrispondessero a due momenti sostanzialmente diversi della sua ricerca: essi si situano nel quadro di un modello generale del dispotismo moderno, il quale è caratterizzato da un elemento morfologico comune – la centralizzazione dei poteri –, ma assume fisionomia e caratteri diversi a seconda delle differenti situazioni in cui si sviluppa e si afferma. La forza di un modello teorico sta nella capacità di ‘generalizzare’ contesti e situazioni differenti, riuscendo a dar conto – e a spiegare – gli uni e gli altri, alla luce di ‘princìpi’ comuni. Nella Democrazia in America, l’originalità di Tocqueville consiste, precisamente, nella capacità di sviluppare un modello in grado di spiegare sia il dispotismo europeo sia le tendenze dispotiche americane, avviando un metodo di ricerca e un tipo di indagine che, proprio per la loro novità, non vennero compresi dai suoi contemporanei – come dimostra lo scarso successo della seconda Democrazia, nella quale al centro dell’analisi, ma in un quadro teorico unitario, sono collocati l’Europa e il dispotismo europeo. È di voi che si tratta, sembra dire Tocqueville ai lettori che si ritraggono di fronte al suo testo e al quadro che egli offre della società europea, non avendo compreso che la prima Democrazia apriva un discorso generale sul dispotismo che non solo riguardava l’Europa, ma aveva preso le mosse proprio da domande e da problemi cui Tocqueville era giunto riflettendo, in primo luogo, sulla società europea e sul suo destino. Nella sua ricerca Tocqueville – ed è un’altra novità del suo metodo – intreccia costantemente livello teorico e livello storico, scrivendo testi di prima grandezza come l’Ancien Régime, ma mettendo costantemente, quasi ossessivamente, al centro lo stesso problema: la costituzione di una nuova ‘scienza politica’ in grado di cogliere

1   Sulle due Democrazie esiste una letteratura vastissima. Mi limito a citare il saggio che ha dato avvio alla discussione, ponendo il problema: S. Drescher, Tocqueville’s Two Democracies, «Journal of the History of Ideas», XXV, 1964, pp. 201-216 (nello stesso fascicolo cfr. anche H.O. Pappé, Mill and Tocqueville, pp. 217-234).

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genesi e caratteri del moderno dispotismo su tutti i piani della vita individuale, politica e sociale. Su questo sfondo, cerca di mettere a fuoco, al tempo stesso, una prospettiva sia teorica sia politica che, assumendo l’inevitabilità della democrazia – cioè della eguaglianza delle condizioni –, si sforzi di individuare le forme istituzionali e le strutture etico-politiche in grado di intrecciare, nell’epoca moderna, eguaglianza e libertà, trattenendo l’uomo dall’abisso nel quale sta per precipitare. È possibile farlo, secondo Tocqueville, solamente restaurando, sulla scia di Machiavelli, il valore della politica, cioè del conflitto, di cui peraltro egli avverte, nel mondo moderno, tutta la fragilità e il carattere puramente artificiale. Ma, a sua volta, questo convincimento – e sta qui il centro effettivo di tutta la sua ricerca – scaturisce da una serie di domande che hanno tutte al centro, in modo concorde, il problema della ‘condizione umana’. E da qui bisogna infatti partire se si vuole cogliere il fil rouge che intreccia dall’inizio alla fine la sua riflessione. Qual è lo stato della ‘condizione umana’ nel tempo democratico? E in che situazione si trova il «libero arbitrio» nell’epoca della democrazia? Sono questi i due interrogativi essenziali della Democrazia in America, e chiariscono con precisione l’orizzonte nel quale intende muoversi la riflessione di Tocqueville: non è quello teologico di Valla, di Erasmo o di Lutero; ma non è nemmeno di carattere stricto sensu politico. Il ‘problema’ di Tocqueville è di carattere essenzialmente filosofico, e concerne le trasformazioni della ‘costituzione interiore’ dell’uomo nei ‘secoli democratici’; quello che gli importa è mettere a fuoco il rapporto tra ‘dispotismo democratico’ e struttura originaria della personalità dell’uomo, assumendo come pietra di paragone il «libero arbitrio» – cioè il principio costitutivo della filosofia, e delle libertà, dei ‘moderni’. E, in questo quadro, ciò che gli interessa è svolgere, in chiave storica, un discorso complessivo sulla ‘modernità’ europea – dall’epoca della monarchia assoluta alla Rivoluzione francese, fino a Napoleone e alla Restaurazione –, individuandone i caratteri originari e delineando i problemi che si pongono per riaffermare, nell’epoca democratica, il principio della libertà dell’uomo, il suo «libero arbitrio». È sulla base di questo ‘problema’ – anzitutto antropologico – che egli si propone di elaborare una teoria complessiva

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del dispotismo, determinando i fondamenti di una nuova ‘scienza politica’. Questo è l’asse centrale di una riflessione nella quale convergono temi filosofici, politici, antropologici ed anche religiosi, tutti saldamente connessi l’uno all’altro dal ‘problema’ che li unifica e li sostiene. Alla base delle varie definizioni che sono state date di Tocqueville, privilegiando volta per volta un aspetto specifico della sua ricerca – moralista, politico, sociologo ed anche filosofo... – c’è questo dato obiettivo, di carattere unitario; è dunque sbagliato dividere la sua ricerca in ambiti disciplinari isolati gli uni dagli altri. La sua originalità – e il motivo per cui continuiamo a leggere le sue pagine – risiede proprio in questa ‘interrogazione’ generale sul destino dell’uomo nell’epoca del ‘moderno’ dispotismo: in questo senso la sua opera si potrebbe definire, senza forzature, un classico trattato De homine. Nel corso dell’Ottocento Tocqueville non è il solo a porsi quest’ordine di problemi, sulla base di un’analisi – e di un giudizio – assai critici sulla ‘modernità’ europea, sulla sua intrinseca ‘fragilità’. Se si volesse fare un nome – del resto già evocato dagli studiosi del suo pensiero –, si potrebbe fare quello di Jacob Burckhardt, al quale lo legano una serie di motivi di notevole rilievo, sia pure modulati secondo prospettive differenti. Li accomunano, in primo luogo, due convincimenti fondamentali: la Rivoluzione francese ha inaugurato una nuova epoca della storia dell’umanità, sempre e ancora aperta. Essa «non si risolve in un breve spazio di tempo, ma [...] prosegue per sessant’anni. Cambiando solo il teatro, in modo tale che la razza rivoluzionaria si rinnova senza posa e incontra sempre, da qualche parte, le sue tradizioni, la sua scuola. In modo che, da sessant’anni, c’è sempre stata una scuola per la Rivoluzione aperta del tutto pubblicamente in un luogo qualsiasi del mondo, in cui tutti gli spiriti inquieti e violenti, uomini immersi nei debiti [...] si formavano e si istruivano», sottolinea, quasi sgomento, Tocqueville2. «Oggi sappiamo [...] che la stessa tempesta che ha coinvolto l’umanità a partire dal 1789 travolge adesso anche noi [...]»; la Rivoluzione francese è il «primo periodo della nostra attuale epoca rivoluzionaria», ribatte, per parte sua, Burckhardt, con un tono in apparenza più distaccato, ma con un coinvolgimento in2   A. de Tocqueville, La rivoluzione, a cura di M. Diani, Sellerio, Palermo 1989, p. 208.

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teriore, che concerne direttamente il senso, e la stessa possibilità, del suo lavoro: «Il nostro compito qui – sottolinea – è la conoscenza, anzitutto dello sviluppo della Rivoluzione francese. Non appena ci stropicciamo gli occhi ci rendiamo conto di vagare a bordo di una barca più o meno fragile su una delle milioni di onde messe in moto dalla rivoluzione. Noi siamo quest’onda e proprio per questo non è facilitata una conoscenza obbiettiva degli eventi»3. In secondo luogo, sia Burckhardt che Tocqueville si interrogano sul destino dell’uomo, e dei diritti individuali, di fronte all’«onda» della Rivoluzione: la «nostra Rivoluzione [...] portava al disprezzo dei diritti individuali, alla violenza, poiché la Rivoluzione aveva come principale strumento il popolo», scrive Tocqueville4. «[...] per la democrazia il potere dello stato sull’individuo non potrà mai essere abbastanza grande, sicché tende ad annullare il confine tra stato e società ed esige che lo stato faccia tutto ciò che la società probabilmente non farà mai», sottolinea Burckhardt alcuni anni dopo, ma sul filo della stessa riflessione. E poco dopo, svolgendo temi sui quali Tocqueville si diffonde in modo esteso nella Democrazia in America, ribatte: «i governi forti hanno ripugnanza per la genialità», perché «la genialità non si può adoprare nell’amministrazione statale»; «le masse vogliono vivere tranquille e far guadagni»; «condizione preliminare di ogni e qualsiasi felicità» è «la subordinazione dell’arbitrio a una legislazione tutelata dalla polizia»5. Ma sia l’uno che l’altro sono convinti di essere trascinati, ormai, da una forza alla quale non è possibile opporsi: un’onda gigantesca – come scrive Burckhardt – che ha travolto, e continua a travolgere, individui, caste, istituzioni, trasformando dalle fondamenta la storia del mondo, costringendo – e su questo punto è Tocqueville ad insistere con più forza – a confrontarsi, e a fare i conti, con i problemi aperti dalla nuova epoca, tutti ancora sul tappeto e tutti decisivi per delineare il futuro dell’umanità: Il graduale sviluppo dell’uguaglianza delle condizioni è [...] un fatto provvidenziale – scrive nell’Introduzione alla prima Democrazia –; e ne ha

  J. Burckhardt, Introduzione a «L’epoca della Rivoluzione», a cura di M. Ghelardi, «Studi storici», 38, 1997, pp. 17-18, 32-33. 4   Tocqueville, La rivoluzione, cit., p. 208. 5   J. Burckhardt, Meditazioni sulla storia universale, versione italiana e Introduzione di D. Cantimori, Sansoni, Firenze 1959, pp. 266, 218, 278. 3

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tutti i caratteri essenziali: è universale, duraturo, si sottrae ogni giorno alla potenza dell’uomo; tutti gli avvenimenti, come anche tutti gli uomini, ne favoriscono lo sviluppo. Sarebbe quindi saggio credere che un movimento sociale, che ha così lontane origini, potrà essere arrestato dagli sforzi di una generazione? C’è forse qualcuno che può pensare che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo e aver vinto i Re, indietreggerà poi davanti ai borghesi e ai ricchi? È possibile che si arresti proprio ora che è divenuta tanto forte e i suoi avversari tanto deboli? [...] Tutto il mio libro [...] è stato scritto sotto l’impressione di una specie di terrore religioso, sorto nella mia anima alla vista di questa rivoluzione irresistibile, che progredisce da tanti secoli, sormontando qualsiasi ostacolo, e che ancor oggi avanza in mezzo alle rovine che essa stessa ha prodotte6.

È una situazione nuova, che pone problemi del tutto inediti, i quali – ed anche su questo Tocqueville e Burckhardt convergono – per la loro stessa natura possono essere affrontati solamente intrecciando questioni filosofiche e temi storici, nell’ambito di una moderna ‘filosofia della storia’ che ponga al suo centro come evento fondamentale, e in ogni senso periodizzante, la Rivoluzione francese. Al fondo, è questo che unisce Burckhardt e Tocqueville: sono entrambi figli della Rivoluzione, ed all’epoca della Rivoluzione appartiene la loro riflessione sul destino dell’uomo nell’età della democrazia, quando «individui sfrenatissimi pretendono [...] che l’individuo sia energicamente sottomesso e vincolato all’interesse generale»7. Senza la meditazione, durata tutta una vita, sulla Rivoluzione, la Democrazia in America – è una facile congettura – non sarebbe mai nata; ma, per quanto possa apparire paradossale, neppure Die Kultur der Renaissance o le Lezioni sulla storia europea avrebbero mai visto la luce. Tra Burckhardt e Tocqueville c’è, però, una differenza, ed è fondamentale: quest’ultimo vuole fondare una nuova ‘scienza politica’, ed elaborare un modello compiuto del dispotismo. È sintomatico che nelle pagine finali della seconda Democrazia, nella quale Tocqueville riprende ed esibisce al lettore i fili fondamentali della sua ricerca, egli insista proprio sul tema del «libero arbitrio»,

6   A. de Tocqueville, La democrazia in America, a cura di N. Matteucci, Utet, Torino 2007, p. 19. 7   Burckhardt, Meditazioni sulla storia universale, cit., p. 140.

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discorrendone in contesti differenti, ma tutti convergenti nel mostrare la condizione di apatia, di indifferenza e quindi di servitù nella quale l’uomo si trova nell’epoca del «dispotismo democratico». È questo, in effetti, il centro intorno al quale si raccoglie tutta la sua riflessione: vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che non fanno che ruotare su se stessi [...]. Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. Assomiglierebbe all’autorità paterna, se, come questa, avesse lo scopo di preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente all’infanzia [...]. È così che giorno per giorno esso rende sempre meno utile e sempre più raro l’uso del libero arbitrio8.

E poco dopo, riprendendo il motivo che, evidentemente, considera centrale, ribatte: La soggezione nei piccoli affari si manifesta ad ogni momento, ed è sentita indistintamente da tutti i cittadini. Non li porta alla disperazione, ma, contrariandoli continuamente, li induce a rinunciare e a non far uso della loro volontà. Spegne, poco alla volta, il loro spirito e fiacca il loro animo [...]. Inutilmente incaricherete questi medesimi cittadini, che avete reso così dipendenti dal potere centrale, di scegliere di quando in quando i rappresentanti di tale potere; questo uso così importante, ma così breve e così raro, del loro libero arbitrio non impedirà che essi perdano a poco a poco la facoltà di pensare, di sentire e d’agire da soli, e cadano così gradualmente al di sotto del livello umano9.

È proprio qui che risalta con forza una differenza di fondo tra l’epoca aristocratica (che Tocqueville per molti aspetti rimpiange) e l’epoca democratica, tra l’ethos aristocratico e l’ethos democratico: «Nelle nazioni aristocratiche il potere sociale si limitava normalmente a guidare e a sorvegliare i cittadini in tutto ciò che aveva un rapporto diretto e visibile con l’interesse nazionale; in tutto il resto li abbandonava di buon grado al loro libero arbitrio»10.

  Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 812 (corsivo mio).   Ivi, p. 814 (corsivo mio). 10   Ivi, p. 800 (corsivo mio). 8 9

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Di per sé questo contrasto non è una novità: Tocqueville contrappone in modo sistematico epoca della aristocrazia ed epoca della democrazia, ethos aristocratico e ethos democratico; ma è significativo – ed è indizio di una preoccupazione costante – che egli riproponga la contrapposizione proprio in rapporto alla questione del «libero arbitrio»: per quanto possa sembrare paradossale, nell’epoca dell’assolutismo, i «cittadini» – afferma quasi provocatoriamente Tocqueville – sono stati più liberi di quanto non accada nell’epoca del ‘livellamento’ democratico; e questo perché allora c’erano «contrafforti» in grado di contenere il potere del sovrano e la spinta livellatrice dello Stato assoluto moderno. La ‘disuguaglianza’, in quel contesto storico, è stata una sorta di baluardo della libertà, consentendo agli uomini di esprimere pienamente la loro individualità creativa e, quando ce ne erano le condizioni, la loro grandezza, anche rispetto alle figure e all’opera dei grandi monarchi assoluti. Ma allora – è questo un punto centrale della riflessione di Tocqueville, ed è un tema di matrice machiavelliana – fra nobiltà e sovrano c’era scontro, conflitto, dal quale è stata generata, fino a quando è stato possibile, la ‘libertà dei moderni’. Senza conflitto, senza opposizione, non ci sono, infatti, né «libero arbitrio», né effettivo progresso della società, né potenza dello Stato: quel conflitto che è venuto meno, con l’eguaglianza, nella società moderna, che perciò è diventata apatica, indifferente, ed è popolata da uomini mediocri, chiusi nel loro individualismo, impauriti, perfino, dalla possibilità di usare la loro libertà. L’indebolimento antropologico causato dalla fine del conflitto – da cui era germinata la ‘libertà dei moderni’ – ha avuto effetti assai gravi sul piano politico, sottraendo forza, e potenza, alla stessa sovranità popolare, che nei regimi democratici si riduce ad una funzione periodica – a un’abitudine – senza significato effettivo e senza peso dal punto di vista dell’esercizio reale del potere. In questo sistema, scrive Tocqueville, «i cittadini escono per un momento dalla dipendenza, per designare il loro padrone, e poi vi rientrano». Nel mondo moderno – cioè in Europa, perché è dell’Europa che Tocqueville parla in questi luoghi – il conflitto è stato concentrato in un momento, in un punto isolato – quello delle elezioni –, ed in questo modo esso è stato circoscritto e, progressivamente, stemperato e poi dissolto. Nei moderni regimi democratici si è, di conseguenza, operato uno spostamento radicale nel campo delle ‘fonti’ della sovranità: il

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popolo, che avrebbe dovuto essere il ‘sovrano’, si è trovato senza alcuno scettro nelle mani, ed è diventato preda di un nuovo potere che ne amministra in modo tanto «mite» quanto inesorabile la vita, su tutti i piani. Eppure – insiste Tocqueville – è precisamente questa specie di compromesso che si è realizzato tra «sovranità popolare» e «dispotismo amministrativo», al quale «molta gente si adatta facilmente» perché «pensa di avere sufficientemente garantita la libertà individuale quando l’affida al potere nazionale». Ma – osserva con forza, introducendo nel testo una nota di carattere esplicitamente personale – «questo non mi basta. La natura del padrone m’importa molto meno del fatto di obbedire»11. Colpisce che in questo testo Tocqueville riprenda un motivo che Rousseau avvia nel Contratto sociale, quando, discorrendo dei «deputati o rappresentanti», osserva che il popolo inglese «crede di essere libero, ma – precisa – si sbaglia di grosso»; «lo è soltanto durante l’elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti, esso diventa schiavo, non è più niente. Nei brevi momenti della sua libertà, l’uso che ne fa merita di fargliela perdere»12. Colpisce, ma non stupisce: a Tocqueville interessa ribadire che non è questo esercizio della «sovranità popolare» a salvaguardare la libertà dell’uomo e il suo «libero arbitrio» nell’epoca del «dispotismo democratico». Gli importa, cioè, ribattere anzitutto il carattere intimamente dispotico della ‘sovranità’ moderna. Ma gli interessa farlo – ed è questo l’elemento di novità del suo punto di vista – nel quadro di un’analisi sistematica, di carattere storico-comparato, che metta al centro il problema del rapporto tra eguaglianza e dispotismo quale elemento strutturale della modernità europea, mostrando come dalla prima scaturisca naturalmente il secondo: «La prima, e in qualche modo, la sola condizione necessaria per arrivare a centralizzare il potere pubblico in una società democratica, è amare l’eguaglianza o almeno farlo credere. Così – osserva Tocqueville – la scienza del dispotismo, tanto complessa un tempo, si semplifica: si riduce, per così dire, ad un unico principio»13. Il moderno «dispotismo democratico» non ha infatti nulla in comune con quello antico; è una realtà del tutto diversa per natura,   Ivi, p. 813.   J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, con un saggio introduttivo di R. Derathé, traduzione e note di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1966, p. 127. 13   Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 797. 11 12

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caratteri, funzioni, raggio di sviluppo e di applicazione. Esso non riguarda solo i barbari, la Persia, gli asiatici, i popoli senza virtù politica; non si manifesta come forza pura, né poggia sulla paura; non si esercita su popoli che sono per natura adatti alla soggezione e alla servitù e che perciò accettano il governo dispotico; non si configura come dominio del superiore sull’inferiore, né è localizzato geograficamente nell’Oriente, come pensavano Aristotele, Bodin, Montesquieu e anche Machiavelli, per il quale l’Europa è «piena di republiche e di principati», mentre l’Asia è «tutta sotto uno regno»14. Il «dispotismo democratico» è invece impiantato nel cuore dell’Europa, anzitutto nella Francia; né esso riguarda solo la politica e i rapporti politici: investe l’uomo nella sua interezza, la struttura stessa della sua personalità. Anzi, è «una tirannia non sul corpo, ma sulla mente»; e se si serve della forza, lo fa in modo invisibile. Il dispotismo moderno si impadronisce di tutto l’individuo, e penetrando nella sua anima «restringe in uno spazio sempre più angusto l’azione della volontà e toglie poco alla volta a ogni cittadino addirittura la disponibilità di se stesso. L’uguaglianza ha preparato gli uomini a tutto questo: li ha disposti a sopportarlo e spesso anche a considerarlo come un vantaggio»15. È un dispotismo di «nuova specie» – «dolce», «previdente», «mite» –, con un obiettivo preciso: distruggere l’autonomia dell’individuo – il suo «libero arbitrio» –, trasformandolo in un servo passivo del potere: una «servitù, regolata, mite e pacifica», che si combina «meglio di quanto si immagini con alcune forme esteriori della libertà», e che può anche «stabilirsi all’ombra della sovranità popolare». E questo per un motivo preciso: «I nostri contemporanei sono continuamente tormentati da due passioni contrastanti: provano il bisogno di essere guidati e la voglia di restare liberi. Non potendo liberarsi né dell’uno né dell’altro di questi istinti contrari, cercano di soddisfarli entrambi contemporaneamente. Immaginano un potere unico, tutelare, onnipotente, ma eletto dai cittadini; combinano centralizzazione e sovranità popolare. Questo dà loro un po’ di sollievo [...]»16; ma ciò non toglie che essi vivano nella servitù; una nuova forma di servitù, ma pur sempre servitù. Di fronte a questo spettacolo grigio e avvilente, Tocqueville, pur figlio della nobiltà di Antico Regime, arriva addirittura a rim  N. Machiavelli, Dell’arte della guerra, libro II.   Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 812. 16   Ivi, p. 813. 14 15

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piangere – come vedremo – i momenti ‘rivoluzionari’, che sono comunque un indice di vitalità delle società, destinate nell’epoca democratica a decadere e morire per esaurimento dell’impulso vitale, per consunzione. A meno che – e lo vedremo più avanti – l’homo democraticus non prenda coscienza di questa situazione e stabilisca dei moderni «contrafforti» volti a contenere questo nuovo «dispotismo democratico», sia sul piano politico che su quello sociale e individuale. La differenza tra il vecchio e il nuovo dispotismo ha una radice robusta, storicamente assai precisa: il dispotismo moderno è figlio della spinta alla eguaglianza propria della modernità, ne riflette, ne potenzia – sfruttandoli a suo favore – gli impulsi fondamentali; è il risultato diretto del processo di centralizzazione amministrativa proprio dello Stato assoluto e della spinta livellatrice che, nell’epoca moderna, ha progressivamente distrutto ogni gerarchia nella società, qualsiasi differenziazione tra gli individui, fino a realizzare una forma di ‘omogeneità’ sociale, mai conosciuta prima, almeno in questa forma. Questa «nuova specie» di dispotismo non è qualcosa di accidentale o di fortuito, superabile con la buona volontà degli individui o con proteste di ordine morale: è il frutto avvelenato della modernità, il punto d’approdo cui essa ha messo capo. Da questo punto di vista, c’è un rapporto diretto tra la Democrazia in America e il grande libro sull’Antico regime e la Rivoluzione, pubblicato nel 1856: esso è, in effetti, la storia dell’avvento, nel mondo moderno, della democrazia attraverso il livellamento e l’isolamento dei ceti, la fine di ogni forma di libertà politica, la voglia di eguaglianza a tutti i costi, la forte valorizzazione del potere centrale. Nell’Ancien Régime Tocqueville cita e riprende talvolta in modo letterale luoghi della Democrazia in America; ma è un riflesso automatico, quasi un gesto meccanico: si tratta, al fondo, di due momenti dello stesso ‘problema’, di due ‘capitoli’ dello stesso libro. Sul piano storico – è questo il centro del ragionamento – non ci sono fratture, come si potrebbe pensare se si concentrasse lo sguardo solo sulle rivoluzioni ‘politiche’; c’è, invece, una profonda continuità che scandisce tutto il processo di costituzione della ‘modernità’. Tra Rivoluzione – in modo particolare tra la Convenzione e la sua dura

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azione centralizzatrice – e Impero napoleonico c’è una salda continuità, che la Restaurazione non ha interrotto, anzi ha ulteriormente rafforzato. È una storia lineare, e al tempo stesso tragica, nella quale Napoleone – con il quale si è affermato «il dispotismo di uno solo [...] su una base democratica» («governare in nome del popolo ma senza il popolo»)17 – ha svolto un ruolo centrale; e lo ha fatto da grande attore quale è sempre stato, portando a compimento il processo moderno di centralizzazione del potere dello Stato avviato da secoli; e riuscendo a creare una «macchina amministrativa perfetta», facile «a funzionare, quasi senza motore», utilizzabile da tutti, senza distinzione di colore politico, in grado di sopravvivere ai vari regimi che se ne sono serviti: «Noi – sottolinea Tocqueville – abbiamo visto parecchie volte nei giorni nostri l’amministrazione sopravvivere al governo che la dirigeva. Mentre i grandi poteri dello Stato erano rovesciati o languenti, i poteri secondari continuavano nondimeno a sbrigare regolarmente e fermamente gli affari. Si era in periodo di rivoluzione, non già in periodo di anarchia»18. Con Napoleone – ed è questo è il succo della sua riflessione – politica e amministrazione si sono divaricate in massimo grado, ed è arrivato al culmine il processo di ‘depoliticizzazione’ proprio della modernità, da cui il nuovo dispotismo è scaturito. Con il Terrore giacobino prima, con l’Impero poi, politica e amministrazione si sono situate su due piani diversi, dando vita a due storie parallele, di diversa forza e qualità: l’una si è indebolita, mentre l’altra si è rafforzata, fino a diventare il vero luogo della identità – e della continuità – dello Stato, con conseguenze dirette, e traumatiche, su ogni piano della società. Come dimostra proprio Napoleone, il dispotismo è, infatti, frutto, da un lato, dei processi di centralizzazione; dall’altro, della subordinazione – che da essi, direttamente, sprigiona – della politica all’amministrazione: «Il mantenimento dell’ordine, l’applicazione regolare delle leggi, il rifiuto di ogni inutile crudeltà, il gusto stesso della giustizia formavano il carattere generale del suo governo»; il quale, però, indirizzava «tutte le menti e tutti i cuori verso il solo benessere individuale», come è nella natura propria di ogni regime dispotico19.   Tocqueville, La rivoluzione, cit., pp. 187-188.   Ivi, p. 149. 19   Ivi, p. 175. 17 18

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Ma è stata questa l’onda lunga della storia europea: La Rivoluzione e Bonaparte non hanno fatto che cambiare la natura del fatto senza crearlo [...]. I posti sono rimasti i principali mezzi di distinzione nello spirito della maggior parte dei cittadini; dati gratuitamente, essi sono, per di più, la rendita più desiderata dalle famiglie; resi inamovibili, gerarchizzati e inseriti nel gran sistema della centralizzazione, hanno messo tutti i cittadini nelle mani del potere centrale, e tutti quelli che li possiedono nella quotidiana e stretta dipendenza da questi20.

La storia moderna è dunque un lungo processo di ‘crisi’ – e di indebolimento progressivo – della politica e, al tempo stesso, di affermazione del primato dell’amministrazione. In questo senso, non ci sono cesure nella storia francese, nella quale si rifrangono – e si potenziano – i tratti di fondo della storia dell’Europa continentale moderna. Su questo punto, ed è interessante notarlo, concorda anche Marx, il quale nel primo abbozzo della Guerra civile in Francia a questo proposito si esprime con chiarezza: La prima Rivoluzione francese con il suo compito di fondare l’unità nazionale [di creare una nazione] dovette abbattere ogni forma di indipendenza locale, territoriale, urbana e provinciale. Fu perciò costretta a dare sviluppo a ciò che la monarchia assoluta aveva cominciato, la centralizzazione e l’organizzazione del potere statale, e ad estenderne l’ambito e gli attributi, il numero dei suoi strumenti, la sua indipendenza dalla società reale e il suo sovrannaturale dominio su di essa, che di fatto prese il posto del cielo sovrannaturale del medioevo con i suoi santi [...]. Questa parassitaria [escrescenza della] società civile, che aveva la pretesa di esserne la controparte ideale, raggiunse il suo pieno sviluppo sotto il dominio del primo Bonaparte. La restaurazione e la monarchia di luglio non vi aggiunsero altro che una più grande divisione del lavoro [...]. Nella loro lotta contro la rivoluzione del 1848, la Repubblica parlamentare di Francia e i governi di tutta l’Europa continentale furono costretti a rafforzare, con le loro misure di repressione contro il movimento popolare, i mezzi d’azione e la centralizzazione di quel potere governativo. Così tutte

  Ivi, p. 184.

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le rivoluzioni non fecero che perfezionare la macchina dello Stato, invece di sbarazzarsi di questo incubo ormai senza forze21.

Come si vede, sono notevoli le sintonie tra l’analisi di Marx e quella di Tocqueville, né è escluso (come vedremo più avanti) che abbozzando La guerra civile in Francia Marx si sia servito anche delle sue opere, a cominciare, in questo caso, dall’Ancien Régime; ma l’orizzonte in cui Tocqueville e Marx situano il giudizio sulla centralizzazione dello Stato moderno è assai diverso; come diverso è, ovviamente, il giudizio sulla Rivoluzione francese e lo stesso Napoleone, il quale – precisa Marx – non si servì di questo strumento solo per «domare la rivoluzione e sopprimere le libertà popolari: fu uno strumento della Rivoluzione francese per colpire all’estero, per creare a vantaggio della Francia, sul continente, al posto delle monarchie feudali, degli Stati più o meno ad immagine della Francia». In altri termini, la «centralizzazione e l’organizzazione del potere statale», in quella situazione, hanno svolto una funzione storicamente positiva, secondo Marx. Mentre per Tocqueville è proprio questo l’orizzonte storico-politico in cui quel lungo processo va situato e giudicato, sottolineando, su questo sfondo, le novità del dispotismo democratico rispetto al dispotismo antico. Ma, a loro volta, queste differenze di giudizio affondano le radici in una prospettiva teorica completamente opposta: la Comune, scrive Marx in quello stesso testo, è stata [...] una rivoluzione non contro questa o quella forma di potere dello Stato, legittimista, costituzionale, repubblicana o imperialista. È stata una rivoluzione contro lo Stato stesso, questo sovrannaturale aborto della società, la riassunzione da parte del popolo per il popolo della sua vita sociale. Non è stata una rivoluzione per trasferirlo da una frazione delle classi dominanti all’altra, ma una rivoluzione per abbattere questa stessa orribile macchina della dominazione della classe [...]. Il Secondo impero è stato la forma finale di questa usurpazione di Stato. La Comune è stata la sua precisa negazione, e, perciò, l’inizio della rivoluzione sociale del XIX secolo22.

21   K. Marx, F. Engels, Opere, vol. XXII, Luglio 1870-ottobre 1871, La Città del Sole-Editori Riuniti, Napoli-Roma 2008, pp. 483-484. 22   Ivi, p. 486.

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Dal punto di vista di Marx la Comune è stata la via per l’attuazione della democrazia nella sua integralità, anche attraverso la sostituzione, secondo l’insegnamento di Rousseau, della vecchia «casta di parassiti statali, di sicofanti» con propri delegati: essa, scrive Marx, si è sbarazzata «completamente della gerarchia statale» e ha rimpiazzato «gli arroganti padroni del popolo con i suoi funzionari sempre revocabili, una responsabilità fittizia con una responsabilità reale, in quanto essi operano continuamente sotto la pubblica sorveglianza»23. Per Tocqueville, al contrario, quanto più si espande la democrazia, tanto più si pongono le basi, nel mondo moderno, del nuovo dispotismo. E questo per un motivo sul quale si è già richiamata l’attenzione: è proprio dall’eguaglianza moderna e dall’indebolimento antropologico che essa genera, spingendo l’uomo a concentrarsi solo su se stesso e sul suo benessere personale, che scaturisce il dispotismo. Nell’epoca moderna, democrazia e dispotismo non sono contrapposti, anzi: il dispotismo ha radici profonde proprio nella democrazia, nell’eguaglianza. È un mutamento strutturale direttamente connesso alle radicali, e ormai irreversibili, trasformazioni che si sono avute con l’imporsi dello Stato sociale democratico – cioè con l’affermarsi della «eguaglianza delle condizioni», la fine di ogni differenza (o gerarchia) di carattere sociale o intellettuale e il consolidarsi di un nuovo ethos di carattere ‘individualistico’ da cui sono scaturiti apatia, indifferenza, tendenza alla servitù. Questa è la ‘novità’ moderna; e qui si è innestato, e ha preso vigore, il nuovo dispotismo; ed è con essa che bisogna perciò confrontarsi, analizzando con occhio disincantato i processi di eguaglianza e di centralizzazione – strettamente connessi gli uni agli altri –, cercando di vedere se, nella società moderna, persistano ancora spazi per il «libero arbitrio», o se si siano definitivamente dissolti, precipitando l’uomo nella barbarie, nella animalità. È una partita difficile; ma ci sono le condizioni per poterla giocare, perché non c’è un rapporto meccanico tra piano sociale e piano politico, tra «eguaglianza delle condizioni» e dispotismo. Si può lavorare per sviluppare e garantire i diritti individuali; salvaguardare i poteri secondari; si possono far nascere «associazioni», le quali hanno il compito di «fare nelle democrazie le veci di quei privati   Ivi, p. 489.

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strapotenti, che l’eguaglianza delle condizioni ha fatto scomparire», mettendo lo Stato «al sicuro dalla tirannide e dalla licenza». E si può anche formare il popolo, il quale, «educato ai suoi veri interessi, capirebbe che per trarre profitto dai vantaggi della società bisogna sottomettersi alle sue esigenze»24. Come diceva Rousseau – e Tocqueville concorda –, senza educazione non è possibile alcuna riforma politica; senza l’Emilio non può esserci il Contratto sociale. Soprattutto – dal momento che la società democratica è costituita da uomini isolati gli uni dagli altri, e perciò deboli e impotenti, apatici e indifferenti – occorre promuovere una nuova concezione della politica come ‘scienza’ dei legami. L’uguaglianza pone gli uomini fianco a fianco, senza un legame comune che li unisca. Il dispotismo innalza barriere tra loro e li divide. Quella li spinge a non pensare ai loro simili e questo fa dell’indifferenza una specie di virtù pubblica. Il dispotismo, già pericoloso in tutti i tempi, è dunque particolarmente temibile nelle epoche democratiche. È facile accorgersi che, in queste stesse epoche, gli uomini hanno uno speciale bisogno della libertà25.

Al fondo, per Tocqueville, è la politica, la partecipazione l’unica arma che l’homo democraticus ha a propria disposizione per contrapporsi alle nuove derive dispotiche. Se il nuovo dispotismo disgrega i legami tra gli individui, contrapponendoli l’uno all’altro, in modo da indebolirli e renderli passivi di fronte al nuovo «potere sociale», la politica ha il compito decisivo di ricostituire i ‘vincoli’ spezzati attraverso una serie di associazioni politiche e sociali che hanno la funzione di difendere, rafforzandola, l’autonomia e la responsabilità di ciascuno, salvaguardando la libertà. È solo la politica che può ‘legare’ gli individui animando la libertà e bloccando il processo verso la subordinazione e la servitù su cui si radica, e cresce, il dispotismo. Ma – e su questo Tocqueville insiste in modo perfino ossessivo – deve essere una politica opposta a quella della «nuova razza di rivoluzionari» – nata dalla Rivoluzione francese, ancora in giro per l’Europa – che, spingendo verso la massima eguaglianza, ha creato, e continua a creare, le condizioni per lo sviluppo del nuovo dispo  Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 22.   Ivi, p. 593.

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tismo; come hanno dimostrato, sul piano storico, prima Napoleone I, poi Napoleone III. Compito di una politica moderna, al tempo stesso post-democratica e post-dispotica, deve essere quello di costruire legami in un mondo che ne è, strutturalmente, privo. L’homo democraticus si sottrae alla politica, al ‘vivere civile’, rifugiandosi nel proprio benessere individuale, nella propria vita privata. La ‘crisi’ dell’epoca democratica è determinata proprio da questo, dal dileguarsi, e dallo svanire, della politica. Ma, come per Machiavelli, anche per Tocqueville la politica è tanto indispensabile, quanto fragile: essa è debole nel cuore dell’uomo ed è inseguita e soppiantata, in modo costante, dal potere dell’amministrazione, che tende prima a subordinarla, poi a dissolverla. Eppure senza politica non si riesce a costituire né l’uomo e la sua libertà, né un rapporto positivo tra libertà ed eguaglianza. Per ristabilire l’uno e l’altro, occorre dunque fare, per molti aspetti, un cammino inverso a quello della ‘modernità’. Come scrive il 5 ottobre 1829 a Beaumont, compagno di quel suo lungo viaggio in America, per Tocqueville, su questo punto, «non c’è dubbio: è l’uomo politico che dobbiamo formare in noi. Ed è a questo fine che dobbiamo studiare la storia degli uomini, soprattutto di quelli che ci hanno immediatamente preceduto in questo mondo»26. Sta qui la differenza essenziale con Marx, evidente anche nei giudizi sulla Comune: per Tocqueville solo la politica, in un mondo che sta andando, inesorabilmente, in direzione della servitù, può ridare all’uomo la libertà e ricostituirne la personalità, restituendo senso alla sua vita: Ai miei occhi – scrive a Gobineau il 24 gennaio 1857, poco prima di morire, quasi a suggello di tutto il suo lavoro – le società umane, come gli individui, sono qualcosa soltanto per l’uso della libertà. Che sia più difficile a stabilire e a mantenere la libertà in società democratiche, come la nostra, che in certe società aristocratiche che ci hanno preceduto, io l’ho sempre detto. Ma che sia impossibile, non sarò mai tanto temerario dal pensarlo27.

26   Cfr. su questo punto l’ottimo lavoro di U. Coldagelli, Vita di Tocqueville, Donzelli, Roma 2005, p. 31. 27   A. de Tocqueville, A. de Gobineau, Corrispondenza (1843-1859), a cura di L. Michelini Tocci, Longanesi, Milano 1947, pp. 314-315.

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Discorrendo della sua opera, si è spesso, e giustamente, sottolineato la sua vocazione di ‘moralista’; ma forse Tocqueville, con la sua battaglia per ricostituire, attraverso la politica e il conflitto, la libertà dell’uomo, il suo «libero arbitrio» – e con la sua persuasione del primato dei sentimenti, delle idee, dei costumi –, appartiene anzitutto all’ideologia dell’Umanesimo modernamente intesa; alla grande civiltà europea di matrice umanistica, da Machiavelli ad Erasmo, da Montaigne a Montesqueiu, allo stesso Voltaire. Sono questi i problemi che Tocqueville ha in mente quando decide di partire per l’America: la democrazia ha avuto come effetto un indebolimento strutturale della personalità degli individui che, proprio per questo, sono diventati passivi e pronti ad obbedire, senza recriminazioni, al potere centrale che gestisce la loro vita in tutti gli aspetti, a cominciare da quelli quotidiani. Quello che la democrazia europea ha sacrificato è il principio della libertà, l’unico in grado di ricostituire l’uomo nella sua integrità, facendolo nuovamente padrone del suo destino, stabilendo un corretto rapporto tra eguaglianza e libertà, tra libertà e democrazia. Ma se in Europa è nella democrazia – cioè nella eguaglianza delle condizioni – che stanno le radici prima del Terrore (il quale nasce dalla concentrazione del potere, dalla distruzione di ogni gerarchia già in atto nell’Ancien Régime)28, poi del dispotismo democratico di Napoleone, bisogna vedere se, fuori dell’Europa, la democrazia ha altre prospettive, se è possibile – e in che modo – intrecciare eguaglianza e libertà. E qualora questo sia stato concretamente possibile – ad esempio negli Stati Uniti d’America –, occorre studiare quali ne sono state le condizioni, analizzando quella realtà senza pregiudizi in tutti gli aspetti; cercando anche di individuare, se ci sono, le forze politiche e sociali in grado di arrestare il processo che sta consegnando l’uomo nelle mani del nuovo, «mite» dispotismo, spingendolo in una condizione di passività, cioè, in sintesi, di servitù. In altre parole, si tratta, per Tocqueville, di costruire un modello generale del dispotismo che comprenda sia il Vecchio che il Nuovo

28   A. de Tocqueville, L’Antico regime e la Rivoluzione, a cura di G. Candeloro, Rizzoli, Milano 2006, pp. 134 sgg.

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Continente, ma sulla base di un convincimento preliminare: la marcia della democrazia è «irresistibile»; né serve cercare di contrastarla: sarebbe tempo perso. Il 18 dicembre del 1840, cercando di chiarire a John Stuart Mill le ragioni dello scarso successo della seconda Democrazia appena pubblicata, dichiara con molta consapevolezza le sue intenzioni proprio su questo punto: Non credo molto, ai giorni nostri, agli errori letterari dell’opinione pubblica. Sono dunque impegnato a ricercare in me stesso in quale manchevolezza sia incorso [...]. Il rischio credo che sia nel dato stesso il quale racchiude qualcosa di oscuro e problematico che non afferra lo spirito della folla. Avessi parlato unicamente della società democratica degli Stati Uniti, si sarebbe compreso tutto. Avessi parlato della nostra società democratica in Francia, quale si forma al giorno d’oggi, ancora si sarebbe compreso bene il tutto. Ma, partendo dalle nozioni che mi forniscono le società americana e francese, ho voluto dipingere i tratti generali delle società democratiche di cui non esiste ancora un modello compiuto. È qui che lo spirito del lettore ordinario mi sfugge [...]29.

L’America per Tocqueville è, in effetti, una sorta di esperimento mentale e politico: Confesso – scrive nella Introduzione alla Democrazia in America – che nell’America ho visto qualcosa di più dell’America: vi ho cercato l’immagine della democrazia stessa, delle sue tendenze, del suo carattere, dei suoi pregiudizi, delle sue passioni, e ho voluto studiarla per sapere almeno ciò che da essa dobbiamo sperare o temere30.

La prima Democrazia non è una descrizione degli Stati Uniti, tanto meno un reportage di tipo tradizionale, anche se Tocqueville si sforza di presentare la società americana fin nei dettagli per dare completezza al suo lavoro. È invece una interpretazione teorica della democrazia americana, interrogata – e messa alla prova – sulla base dei problemi che aveva individuato guardando alla realtà europea, anzitutto a quella francese, e che lo avevano maggiormente interessato fino a turbarlo: la centralizzazione amministrativa; la crisi della 29   Cfr. A. de Tocqueville, Lettres choisies, Souvenirs, a cura di F. Mélonio e L. Guellec, Gallimard, Paris 2003, p. 470. 30   Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 27.

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politica metabolizzata dal primato del potere dell’amministrazione; la nascita di un dispotismo di nuova specie; la situazione della ‘condizione umana’, cioè del «libero arbitrio»... Quando Tocqueville parte per l’America ha questi ‘problemi’ nella testa e, in un modo o nell’altro, si propone di trovare una risposta. Un mese e mezzo dopo il suo sbarco a New York, il 29 giugno del 1831, scrive una lettera a Louis de Kergorlay – un documento assai prezioso – nella quale si riflettono subito le impressioni, e i giudizi, che inizia a maturare sulla società americana: Noi andiamo verso una democrazia senza limiti. Non dico che sia una buona cosa: quello che vedo in questo paese mi convincerà anzi che la Francia si troverà male, ma noi siamo spinti da una forza irresistibile. Tutti gli sforzi che si faranno per arrestare questo movimento non procureranno che delle reazioni negative. Rifiutare di accogliere queste conseguenze mi sembra una sciocchezza, e io penso che i Borboni, invece di cercare di rinforzare apertamente il principio aristocratico che muore presso di noi, avrebbero dovuto con tutto il loro potere dare ordine e stabilità alla democrazia. Forse avrebbero reso il movimento democratico meno dannoso per loro stessi e per lo Stato. In una parola, la democrazia mi pare un fatto che un governo può avere la pretesa di regolare, ma non certo di arrestare.

Nel 1835, su questo complesso di motivi si esprime con altrettanta chiarezza in una nuova lettera a Kergorlay, precisando il suo punto di vista e il lavoro che ha inteso compiere con la prima Democrazia: Io sono profondamente convinto che noi siamo spinti irresistibilmente dalle nostre leggi e dai nostri costumi verso una eguaglianza quasi completa delle condizioni. Nel momento in cui le condizioni diventano eguali, confesso di non vedere una soluzione intermedia tra un governo democratico (e così non intendo la repubblica, ma uno stato in cui tutti prenderebbero parte alla gestione politica) e il governo di uno solo privo di ogni controllo. Non dubito neppure per un attimo che con il tempo noi giungeremo o all’una o all’altra soluzione. Ora io respingo la seconda. Se mai un governo assoluto dovesse instaurarsi in un paese come la Francia, democratico in campo sociale e privo di energie, è impossibile comprendere fino a che punto arriverebbe la tirannide. Rimane la prima.

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Io non amo neppure questa; ma la preferisco all’altra [...]. Tra i due mali scelgo il minore31.

Dalla moderna democrazia possono scaturire due esiti: o tutti liberi e tutti eguali, o tutti eguali e tutti servi, secondo la definizione di Montesquieu che Tocqueville ha ben presente quando scrive questa lettera. L’importanza della esperienza del Nuovo Mondo risiede, precisamente, nel fatto che gli americani sono riusciti ad essere eguali restando liberi, senza cadere nelle mani di un potere assoluto. Sono stati favoriti dalle circostanze geografiche, dalla loro origine, dalla loro educazione, dai loro costumi, dalla loro religione, che hanno consentito loro di risolvere a proprio favore l’alternativa posta da Tocqueville nella sua lettera; sono stati anche fortunati. In ogni caso, un fatto è certo: sono stati capaci di intrecciare eguaglianza e libertà. È bene intendersi però sul termine ‘eguaglianza’: negli Stati Uniti ci sono, come in tutti i paesi del mondo, i ricchi e i poveri; «anzi – scrive Tocqueville – non conosco un paese in cui l’amore per il denaro occupi un posto maggiore nel cuore umano, e in cui si manifesti un disprezzo più profondo per la teoria dell’uguaglianza permanente delle proprietà». Democrazia, cioè eguaglianza delle condizioni, significa, in sostanza, mobilità sociale e politica; in America chiunque può salire o scendere nella scala sociale; arricchirsi o impoverirsi; non ci sono gerarchie rigide, fisse, come accadeva nei secoli aristocratici; tutti hanno eguali opportunità; e tutto è permanentemente in movimento: «la fortuna – scrive Tocqueville – vi circola con rapidità incredibile, e l’esperienza insegna che è raro vedere due generazioni raccoglierne i frutti [...]»32. Ma questo, che è il carattere proprio dello «Stato sociale democratico» in quanto tale, non sarebbe stato in grado di garantire, di per sé, quell’esito, se in America non fossero intervenuti altri fattori che hanno consentito di intrecciare positivamente eguaglianza e libertà, a differenza di quanto è accaduto, o può accadere, in Europa. Un primo fattore – già evocato – è costituito dalla religione degli americani, che non ha niente in comune con il cattolicesimo 31   Per queste due lettere, e un buon commento, cfr. A.M. Battista, Studi su Tocqueville, Introduzione di F. De Sanctis, Centro editoriale toscano, Firenze 1989, pp. 132 e 153. 32   Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 71.

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europeo; dal loro appartenere alla tradizione ‘dissidente’ del protestantesimo; dall’intima unione, presso di loro, tra spirito religioso e spirito della libertà. In America, e su questo Tocqueville insiste con forza, la religione è una sorgente della libertà33. Ma, accanto a questo, ci sono altri elementi importanti che hanno consentito quel risultato, e riguardano direttamente la struttura politica e sociale dell’America. Anzitutto – ed è questo il punto di massima differenza con l’Europa – in America «non esiste affatto accentramento amministrativo: vi si trova appena la traccia di una gerarchia. Il decentramento – ribadisce Tocqueville – è stato portato a un grado tale, che nessuna nazione europea potrebbe sopportarlo, credo, senza un profondo disagio e che anche in America produce effetti dannosi»34. In America manca, insomma, quello che è stato l’elemento essenziale della storia europea, dalla monarchia assoluta fino a Napoleone e alla Restaurazione. Esiste – e su questo Tocqueville richiama l’attenzione – una fortissima centralizzazione politica; ma è il primo punto, il «decentramento», che lo colpisce, perché può dischiudere, come in effetti ha dischiuso, una diversa strada al destino della democrazia. Tocqueville valorizza quindi in pagine molto intense l’esperienza del Comune in America, ma – ed è questo che sorprende – ne offre una interpretazione in termini di democrazia diretta, che colpisce per gli echi che essa è in grado di suscitare: «Nel Comune, come dappertutto, il popolo è la fonte dei poteri sociali, ma in nessun altro luogo esercita la sua funzione così direttamente. Il popolo, in America, è un padrone al quale è necessario compiacere sino agli estremi del possibile»35. «Nella Nuova Inghilterra – precisa Tocqueville – la maggioranza agisce per mezzo di rappresentanti, quando si devono trattare gli affari generali dello Stato. È necessario che sia così; ma nel Comune, dove l’azione legislativa e di governo è a diretto contatto dei governati, il sistema rappresentativo non è ammesso»36. Qui non ci sono rappresentanti, ma delegati, e questo è già un fatto straordinario. Ma c’è un secondo elemento altrettanto importante: le funzioni

  Su questo punto è utile A. de Tocqueville, un ateo liberale. Religione, politica, società, saggio introduttivo e cura di P. Ercolani, Dedalo, Bari 2008. 34   Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 111. 35   Ivi, p. 81. 36   Ibidem. 33

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principali nel Comune ammontano a diciannove; e «ogni cittadino è costretto, sotto pena d’ammenda, ad accettare queste diverse funzioni; del resto – e questo è il punto più sorprendente – sono per la maggior parte retribuite, affinché i cittadini poveri possano consacrarvi il loro tempo senza riceverne danno»37. Nel Comune tutti devono partecipare alla vita civile; gli oziosi non sono ammessi; la comunità paga coloro che, non avendo soldi, non sarebbero in grado di svolgere il loro compito. Insomma, in America, il Comune – questa cellula originaria della vita sociale e politica – è il luogo della partecipazione di ogni cittadino alla vita politica ed è, per questo, il primo «contrafforte» della libertà contro il dispotismo. Esso, in modi naturalmente diversi, svolge la stessa funzione che nello Stato assoluto moderno europeo è stata propria dell’aristocrazia, contrastando, sul piano amministrativo, i processi di centralizzazione. Per quanto possa apparire paradossale, nella prospettiva di Tocqueville ethos aristocratico europeo ed ethos comunale americano convergono su un punto fondamentale: sono, l’uno e l’altro, pilastri della libertà. Può apparire sorprendente, ma in questa pagina sono almeno tre i punti che fanno venire in mente il discorso di Pericle di fronte ai primi caduti nella guerra del Peloponneso – uno dei testi capitali della ‘democrazia degli antichi’ –, ‘riportato’ da Tucidide nella Guerra del Peloponneso. [...] noi – dice Pericle – non copiamo nessuno, piuttosto siamo noi a costituire un modello per gli altri. Si chiama democrazia, poiché nell’amministrare si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza. Le leggi regolano le controversie private in modo tale che tutti abbiano un trattamento uguale, ma quanto alla reputazione di ognuno, il prestigio di cui possa godere chi si sia affermato in qualche campo non lo si raggiunge in base allo stato sociale di origine, ma in virtù del merito, e poi, d’altra parte, quanto all’impedimento costituito dalla povertà, per nessuno che abbia la capacità di operare nell’interesse dello Stato è di ostacolo la modestia del rango sociale [...]. La cura degli interessi privati procede da noi di pari passo con l’attività politica, ed anche se ognuno è preso da occupazioni diverse, riusciamo tuttavia ad avere una buona conoscenza

  Ivi, p. 84.

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degli affari pubblici. Il fatto è che noi siamo i soli a considerare coloro che non se ne curano non persone tranquille, ma buoni a nulla [...]38.

Perciò ad Atene, come poi in America, anche i poveri erano messi in grado di assumere e svolgere ruoli politici, grazie all’intervento dello Stato: come in America, anche ad Atene i cittadini erano pagati per questo. E questo perché sia in America che ad Atene erano giudicati in modo negativo coloro che si rifugiavano nel loro benessere particolare, disinteressandosi della cosa pubblica: costoro, come dice Pericle, erano considerati non già ‘oziosi’, ma ‘inutili’. Sia nel testo di Tucidide che in quello di Tocqueville è in azione, come si vede, una forma di democrazia diretta: tutti devono partecipare, in prima persona, alla vita dello Stato, che ha bisogno della intelligenza e delle capacità di tutti i cittadini. In America è, dunque, rinata la ‘libertà degli antichi’, superiore, su questo punto, a quella di matrice cristiana dei ‘moderni’: «I doveri degli uomini fra loro, in quanto cittadini, mi sembrano mal definiti e alquanto negletti nella morale del cristianesimo. È qui, mi sembra, il lato debole di quella morale mirabile. Come è qui il solo lato veramente forte della morale antica»39. In conclusione, in America, l’eguaglianza si è intrecciata con la libertà, seguendo una strada radicalmente opposta a quella della storia europea, da cui è scaturito il moderno dispotismo democratico. Infatti, «quando i cittadini sono obbligati ad occuparsi degli affari pubblici, vengono necessariamente distratti dai loro interessi individuali e strappati di tanto in tanto dalla contemplazione di se stessi»40; strappati, insomma, dal loro individualismo, di cui sono evidenti gli effetti nella ‘crisi’ del mondo moderno europeo. È difficile dire, naturalmente, se Tocqueville conoscesse il testo di Tucidide che, del resto, proprio da pochi anni era ritornato in circolazione, anche in traduzione francese: riguardo agli studi classici, del resto, egli aveva avuto una formazione abbastanza mediocre: non conosceva il greco, e aveva nozioni essenziali del latino41. È chiara invece,

38   Tucidide, La guerra del Peloponneso, ed. critica con testo greco a fronte a cura di L. Canfora, Einaudi-Gallimard, Torino-Paris 1996, pp. 231, 235. 39   Tocqueville, Gobineau, Corrispondenza (1843-1859), cit., p. 40. 40   Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 593. 41   Su questo punto può essere utile L. Díez del Corral, Tocqueville. Formazione intellettuale e ambiente storico, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 211 sgg.

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in un luogo di questo tipo, l’incidenza della lezione di Rousseau, come risulta evidente dalla valorizzazione, nell’esperienza del Comune americano, della figura dei «delegati» rispetto a quella dei «rappresentanti» (punto, questo, che solleverà la critica di Stuart Mill)42. Ma non si tratta solo del Comune: in America la politica è presente ad ogni livello della società, ed è una struttura costitutiva – ed ineludibile – dell’esperienza umana e sociale di ognuno: È difficile dire – osserva Tocqueville – quale posto occupino le cure della politica nella vita di un uomo negli Stati Uniti. Immischiarsi del governo della società e parlarne, è la più grande occupazione e, per così dire, il solo piacere che un americano conosca. Ciò si nota perfino nelle piccole abitudini della sua vita [...]. Se, invece, un americano fosse costretto a non occuparsi che dei suoi propri affari, gli si toglierebbe metà della sua esistenza [...]43.

Tutto questo incide, naturalmente, sul piano della vita individuale di ciascuno, contribuendo a spezzare l’orizzonte asfittico dell’individualismo: «È incontestabile che il popolo dirige sovente molto male gli affari pubblici; ma quando il popolo si ingerisce negli affari pubblici, si vede sempre che il cerchio delle sue idee si allarga e che il suo spirito finalmente esce dalla routine quotidiana [...]»44. È, come si vede, un modello etico-politico diametralmente antitetico a quello europeo, al quale anzi Tocqueville lo contrappone in modo consapevole: gli americani non sono oppressi dalla centralizzazione amministrativa; partecipano quotidianamente alla vita politica, iniziando da quella comunale nella quale sono inseriti uno per uno; sono eguali dal punto di vista delle ‘condizioni’, cioè delle possibilità; ma, soprattutto, sono uomini liberi, capaci di esercitare il loro «libero arbitrio». Un altro mondo rispetto a quello europeo, dal quale si distinguono per altri due motivi essenziali: gli americani non hanno avuto bisogno di fare una rivoluzione per diventare eguali, come è accaduto nel Vecchio Continente; sono diventati eguali, essendo già liberi. Negli Stati Uniti – e su questo punto Tocqueville

  Per le grandi recensioni di Stuart Mill alle due Democrazie in America cfr. J. Stuart Mill, L’America e la democrazia, a cura di P. Adamo, Bompiani, Milano 2005, pp. 181-454. 43   Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 288. 44   Ivi, p. 289. 42

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insiste con forza – il primo valore è stato – e resta – la libertà, mentre in Europa le rivoluzioni hanno avuto come obiettivo fondamentale l’eguaglianza, e a questa lotta è stata sacrificata ogni cosa, a cominciare proprio dalla libertà, come dimostra in modo esemplare l’esperienza della Rivoluzione francese, con il passaggio dalla Assemblea Costituente alla Convenzione e al Terrore giacobino. In breve, l’esperienza dell’America – ed è questo che interessa Tocqueville – testimonia che è possibile seguire un’altra strada per ottenere l’eguaglianza, meno cruenta e fondata su un largo consenso della nazione. I cittadini americani non sono i giacobini; conoscono, e mantengono ferma dentro di sé, la distinzione tra ‘principio democratico’ e ‘principio rivoluzionario’. In questa distinzione, decisiva per Tocqueville, sta la differenza di fondo tra Europa ed America, tra la storia europea e la storia americana: «In America c’è un assetto sociale di tipo democratico, ma non c’è stata una rivoluzione democratica. Gli Americani sono giunti sul suolo che occupano all’incirca così come li vediamo oggi. Una cosa, questa – sottolinea – da tenere in considerazione»45. È questa differenza – di carattere propriamente morfologico –, infatti, che Tocqueville vuole far emergere con nettezza dalla sua analisi della società americana, mostrando gli aspetti positivi di quel modello di democrazia e rovesciando, per questo, una serie di luoghi comuni della tradizionale teoria politica: Quando gli avversari della democrazia pretendono che il governo di uno solo adempia ai suoi compiti meglio del governo di tutti, mi sembra che abbiano ragione. Il governo di uno solo, supponendo uguaglianza di cultura da una parte e dall’altra, pone più continuità nelle sue iniziative della moltitudine; mostra più perseveranza, maggior senso dell’insieme dei problemi, più perfezione nei particolari, più giusto discernimento nella scelta degli uomini. Coloro che negano queste cose non hanno mai visto una repubblica democratica, o hanno giudicato solo da pochi esempi. La democrazia, anche quando le circostanze locali e le disposizioni del popolo le permettano di mantenersi, non presenta lo spettacolo della regolarità amministrativa e dell’ordine metodico nel governo; ciò è vero. La libertà democratica non esegue ogni impresa con la stessa perfezione del dispotismo illuminato; sovente essa le abbandona prima di avere ricavato il frutto, o ne tenta di pericolose, ma a lungo andare essa produce

  Ivi, p. 495.

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più di lui, fa meno bene ogni cosa, ma fa più cose [...]. La democrazia non dà al popolo il governo più abile, ma fa ciò che il governo più abile è spesso impotente a creare; essa diffonde in tutto il corpo sociale un’attività incessante, una forza sovrabbondante, una energia che, senza di lei, non esisterebbero, e che, per poco che le circostanze siano favorevoli, possono produrre meraviglie. Questi sono i suoi veri benefici46.

È un grande testo di matrice, e sapore, nettamente machiavelliani, e perciò si è voluto citarlo per intero. La moltitudine, quando è messa in grado di governare, ha più chances di qualunque governo di tipo monarchico. Tocqueville, come il ‘giacobino’ Machiavelli, è sulla linea del grande pensiero democratico; con più dubbi e perplessità, certo, che vengono subito alla luce; non per deprimere, però, la democrazia, ma per renderla cosciente dei suoi pericoli e dei «contrafforti» che bisogna costruire se si vuole difendere la libertà47. È sintomatico, da questo punto di vista, che sia proprio questa pagina a chiudere il capitolo sesto della prima parte della Democrazia, aprendo la strada al capitolo in cui Tocqueville affronta il problema della «onnipotenza della maggioranza negli Stati Uniti e dei suoi effetti». Alexis de Tocqueville, bisnipote di Malesherbes, era passato attraverso l’esperienza della Convenzione; era ossessionato dal Terrore; aveva individuato proprio nella Convenzione la radice del dispotismo, sviluppato, poi, e perfezionato da Napoleone. «Ciò che noi abbiamo chiamato repubblica non è mai stato altro che un mostro», scrive in un suo appunto del ’32. «Quando la maggioranza della Convenzione esiliava la minoranza, quando il potere arbitrario toglieva ai cittadini i loro beni e i loro figli, la loro vita, quando un’opinione costituiva un crimine e meritava la morte, era libertà quella? Ma, mi si dirà che io leggo frequentemente e con cura gli annali insanguinati del Terrore»48.   Ivi, p. 290.   Per la posizione di Machiavelli su questo punto decisivo cfr. Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Introduzione di G. Sasso, note di G. Inglese, Rizzoli, Milano 1996, I, LVIII, pp. 179-183 (La moltitudine è più savia e più costante che uno principe). 48   Su questo punto cfr. A. D’Argenio, A. de Tocqueville e Hannah Arendt: un dialogo a distanza, Editoriale Scientifica, Napoli 2005, p. 240. 46 47

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Poco tempo dopo, trascrivendo la definizione di despotisme data dall’Encyclopédie ou dictionnaire raisonné, chiarendo il filo della sua riflessione, precisa: «‘Dispotismo. Governo tirannico, arbitrario e assoluto di un singolo uomo’ [...]. Ciò fu scritto prima che vedessimo il dispotismo di un’assemblea sotto la Repubblica»49: quello della «nuova razza dei rivoluzionari» venuti alla luce nella Rivoluzione francese proprio con la Convenzione. Questa «nuova razza» è continuamente al centro della riflessione generale di Tocqueville e, per la complessità degli ambiti che essa coinvolge, può consentire di entrare nel suo laboratorio concettuale, intravedendo la complessità dei problemi, delle idee, e perfino delle pulsioni con le quali egli si confronta, quando ragiona intorno al dispotismo europeo. Criticati in modo violento, sbeffeggiati perfino sul piano personale, i ‘nuovi rivoluzionari’ sono un frutto – certo spurio e perverso – del processo che ha messo capo, nell’epoca della eguaglianza, alla Rivoluzione francese e, in primo luogo, alla Convenzione e al Terrore giacobino. Ne sono un frutto avvelenato; ma non un accidente di cui ci si può sbarazzare con qualche giudizio di valore: anzi, al fondo essi sono la radice originaria sia del dispotismo democratico europeo, sia di quello – su base popolare – che rischia di instaurarsi anche negli Stati Uniti, se non adeguatamente contrastato. La Rivoluzione ha lasciato una «nuova razza di rivoluzionari [...] dietro di sé nel mondo». Sono l’eredità universale, e sempre viva, della Rivoluzione. Da sessant’anni, questa razza «si rinnova senza posa e incontra sempre, da qualche parte, le sue tradizioni, la sua scuola». Da sessant’anni – cioè dal 1789 al 1848 – «c’è sempre stata una scuola per la Rivoluzione aperta del tutto pubblicamente in un luogo qualsiasi del mondo, in cui tutti gli spiriti inquieti e violenti, uomini immersi nei debiti [...] si formavano e si istruivano». È una «razza turbolenta e devastatrice, sempre pronta ad abbattere e incapace di costruire; che non solo pratica la violenza, il disprezzo dei diritti individuali e l’oppressione delle minoranze, ma – cosa nuova – professa che deve essere così; che afferma, come dottrina, che non ci sono diritti individuali e, per così dire, non ci sono indi-

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  Ibidem.

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vidui, ma solo una massa alla quale tutto è permesso per ottenere i suoi fini!»50. È una «nuova razza di rivoluzionari» nella quale si proietta la doppia natura della Convenzione giacobina: è artefice, e figlia, della centralizzazione della Rivoluzione; ma, al tempo stesso, è interprete, e protagonista, di un escatologismo sociale e politico che esplode periodicamente, e non dà pace alla società europea. Su di essa il giudizio di Tocqueville è tanto articolato quanto senza appello. Questi ‘nuovi rivoluzionari’ non sono una setta segreta, si mostrano, senza pudore, agli occhi di tutti; incarnano, e proseguono, una rivoluzione che è, al tempo stesso – e questa è la novità –, una dottrina universale dell’uomo e della società, del primato della società, del pouvoir sociale. Dunque, una rivoluzione che è una teoria; una teoria che è una politica: e questo intreccio è un’altra delle sue specificità. In breve: questi ‘nuovi rivoluzionari’ sono i figli di Rousseau e di Robespierre; non nascono dal niente: scaturiscono dallo «stato sociale permanente che la rivoluzione ha fondato», dal dispotismo democratico al quale la Convenzione ha dato un contributo essenziale. Rappresentano «qualcosa di più duraturo e più naturale»51; e durano, continuano a durare, perché dura, continua a durare, l’accentramento amministrativo, causa e, al tempo stesso, frutto della Rivoluzione. Finché ci sarà uno Stato democratico centralizzato – negatore dei diritti individuali e delle minoranze –, questa «razza di rivoluzionari» perdurerà come una corrente sotterranea della storia europea; e di tanto in tanto esploderà. E non per dar voce a una ‘classe’ specifica: questi ‘nuovi rivoluzionari’ sono déracinés, scalmanati, senza legami, «immersi nei debiti». Sono solamente un effetto – sciagurato – del tempo dell’«eguaglianza», del «mondo nuovo». È, questo ora citato, un testo del 1853, nel quale Tocqueville compie un organico tentativo di gettare luce su questa «nuova», e duratura, «razza» – un tentativo duro e sprezzante, sfociato in un giudizio nel quale convergono, e si potenziano, motivazioni politiche e pulsioni – quasi incontrollabili – di ordine morale. Ma – a conferma del peso che gli attribuiva – Tocqueville torna sul tema poco dopo, in modo però più distaccato e compiuto, ed usando un lessico medico   Tocqueville, La rivoluzione, cit., p. 208.   Ivi, p. 207.

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che utilizza anche in una lettera a Kergorlay cinque anni dopo. Non è un caso, ovviamente, se privilegia, ora, un lessico di questo genere; è, anzi, la spia precisa di una difficoltà che è, anzitutto, di ordine teorico. Il punto è questo: Tocqueville non riesce a ricondurre il fenomeno analizzato nella dinamica ordinaria della vita, anche di quella delle rivoluzioni. E ciò per un motivo preciso: quella francese non è una rivoluzione come altre che ci sono state in passato – ad esempio, la Rivoluzione inglese –; né è facile farla rientrare in una normale ‘teoria’ delle rivoluzioni. Se si vuole intenderne caratteri e natura, bisogna mettere mano – e Tocqueville lo sa assai bene – a una nuova ‘scienza politica’, capace di confrontarsi con la novità dei problemi che essa ha portato alla luce, intrecciando centralizzazione politica e centralizzazione amministrativa e ponendo le basi generali dell’epoca del dispotismo universale. Ma c’è un altro motivo che spinge Tocqueville ad usare questo tipo di lessico medico: se il dispotismo democratico europeo è strutturalmente estraneo alle rivoluzioni – perché ciascuno è chiuso nel cerchio del suo «particulare»; non vuole mutamenti; non vuole essere disturbato –, riesce difficile comprendere, e spiegare, da dove scaturiscano le ondate rivoluzionarie che squassano l’Europa. Nella teoria delle rivoluzioni esposta nella Democrazia – un capitolo centrale della sua nuova ‘scienza politica’ – Tocqueville spiega che nell’epoca della democrazia le grandi rivoluzioni diventeranno «rare», perché con l’eguaglianza le pulsioni rivoluzionarie decadono, vengono meno. E in Francia già con l’Ancien Régime era stato avviato l’eguagliamento delle condizioni, mentre con la Rivoluzione era stato costituito lo Stato democratico centralizzato52. Certo, quando una «grande rivoluzione è terminata, permangono ancora a lungo le abitudini rivoluzionarie che questi travagli hanno creato, e le succedono profonde agitazioni». Ma sono passati sessant’anni, più di mezzo secolo; e la «nuova razza» prospera, come e peggio di prima. Questo è il problema di fronte al quale si ‘perde’ Tocqueville, quando esplode la rivoluzione del ’48. Con l’eguaglianza, il corso della malattia dovrebbe essere compiuto, eppure il virus vigoreggia come prima; la malattia non è dunque finita; eppure si dovrebbe entrare nella fase della stasi, della quiete, dell’appiattimen-

52   Tocqueville, La democrazia in America, cit., pp. 744-756 (Perché le grandi rivoluzioni diventeranno rare).

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to, della uniformità. Invece è un’onda lunga, che si protende fino al socialismo e al bonapartismo, i quali, a loro volta, sono intimamente connessi a questa «nuova razza di rivoluzionari», e alle strutture di fondo della storia francese. Questo è il rovello di Tocqueville: la dinamica della rivoluzione in Francia sfugge ad ogni norma, ad ogni criterio: c’è sicuramente nella malattia rivoluzionaria del nostro tempo [...] qualche cosa che non ci permette di confonderla con i mali analoghi che tutte le rivoluzioni producono, e che, soprattutto, può avere un carattere più duraturo, perché qui il male accidentale, che io chiamo la malattia rivoluzionaria, si trova ad avere certe radici vitali nello stesso assetto sociale permanente, nelle abitudini, nelle idee, nei costumi duraturi che la Rivoluzione ha fondato53.

Rispetto a quanto visto sopra, qui l’analisi si allarga: non si parla solo dell’assetto sociale, ma anche dell’elemento quotidiano, ideologico, antropologico. La Rivoluzione ha investito tutti gli aspetti della vita – individuale, sociale, politica –, ma in termini negativi, causando rovine, senza alcun vantaggio. Ci sono rivoluzioni che rappresentano momenti di ‘crisi’ nel senso classico della parola: trasformazioni, da cui l’organismo esce più forte perché esse ricostruiscono la sanità a un livello più alto. Non è il caso della Rivoluzione francese: essa si distingue per il suo carattere democratico [...] che toglieva alla tradizione il suo potere, a molte norme morali la loro stabilità, all’individuo e ai diritti individuali gran parte del rispetto istintivo che si porta loro, anche in tempo di rivoluzione, nelle società aristocratiche, infine che cercava un potere sociale che ha naturalmente pochi scrupoli, non essendo abituato a incontrare resistenze54.

Ritorna, anche qui, il tema del dispotismo democratico, strutturalmente anti-individualistico, violento, negatore di ogni forma di autorità che non sia la sua. Un dispotismo, una rivoluzione che hanno fatto scuola, dimostrando che è possibile rovesciare una monarchia e conquistare l’Europa. Una cattiva scuola, un cattivo inse  Tocqueville, La rivoluzione, cit., pp. 214-215.   Ivi, p. 215.

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gnamento, perché ha fatto credere «agli spiriti superficiali, i quali non facevano attenzione alle ragioni particolari che hanno favorito per questa volta l’esito della violenza, dell’energia e dell’audacia senza saggezza», che «il vero modo per arrivare al potere era l’energia, l’audacia, la violenza»55. Insomma, nella Rivoluzione francese si sono saldati, potenziandosi a vicenda, centralizzazione, da un lato; filosofia della violenza, dall’altro, dando vita a una miscela micidiale che è riuscita ad affermarsi e che continua, inspiegabilmente, a durare. E l’intreccio di filosofia e politica da cui è scaturito il dispotismo democratico su base anti-individualistica tipico dell’Europa si è a sua volta compiuto, e realizzato, nel nesso di filosofia e di violenza. La Rivoluzione è stato questo, in effetti: una filosofia – una teoria – della violenza in azione che ha generato abitudini, stili di vita, modi di essere, costumi, i quali si esprimono – e persistono – nella nuova, inafferrabile, «razza di rivoluzionari». Essa, scrive Tocqueville, «ha dato l’abitudine e suggerito persino ai violenti il bisogno di filosofare la loro violenza»56. È difficile comprendere se la «malattia rivoluzionaria» possa diventare – «in una certa misura e in alcuni suoi sintomi» – una «malattia permanente»57: questo interrogativo resta sospeso. Ma un fatto è certo: anche quando l’epoca rivoluzionaria sarà stata completamente superata resteranno alcuni segni specifici della esperienza passata: «una certa inquietudine e instabilità cronica e una disposizione permanente a ricadere facilmente nella malattia rivoluzionaria»58. Di questo Tocqueville era perfettamente consapevole; e per questo – pur non riuscendo a spiegarsene i motivi sul piano teorico – nel gennaio del ’48 sente l’arrivo della tempesta: sapeva assai bene che, in Francia, nell’epoca dell’eguaglianza continuava a scorrere un fiume carsico che, da un momento all’altro, poteva esplodere alla luce del sole. «Signori – dice nel suo discorso alla Camera il 27 gennaio del 1848 – [...], non sentite forse, per una specie di intuizione istintiva che non si può analizzare, ma che è certa, che la terra trema di

  Ibidem.   Ibidem. 57   Ibidem: «potrebbe essere una malattia permanente, poiché il suo carattere particolare deriva in parte dalle particolarità fondamentali della società creata dalla Rivoluzione francese». 58   Ivi, pp. 215-216. 55 56

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nuovo in Europa? Questo vento non si sa dove nasce, da dove viene, né, credetelo, chi trascinerà con sé [...]»59. Ma il problema è di fondo, e resta fermo nella testa di Tocqueville, che per scioglierlo inizia a scavare nella storia francese prima dell’urto rivoluzionario. La Rivoluzione, si è visto, ha avuto una duplice natura: da una parte, ha sviluppato il processo di centralizzazione moderna; ma dall’altra ha dato vita a una sorta di ‘escatologismo’ imperniato nella violenza, di cui la «nuova razza di rivoluzionari» è una espressione diretta. E proprio di costoro Tocqueville cerca di individuare le radici culturali con l’Ancien Régime del 1856, pur con la consapevolezza, anche in questo caso, di non aver risolto il ‘problema’, in cui si racchiudeva, per molti versi, il senso della sua stessa esperienza umana, politica, intellettuale. Qui Tocqueville riprende, da un altro punto di vista, il filo di tutto il discorso, sforzandosi di gettare luce sia sulla genesi del dispotismo democratico che sulla «nuova razza di rivoluzionari»: nel libro sulla Rivoluzione e in quello sulla Democrazia – si è già osservato – il ‘problema’, al fondo, è sempre lo stesso. Nella maggior parte delle grandi rivoluzioni politiche apparse fino allora nel mondo quelli che avevano attaccato le leggi riconosciute avevano rispettato la fede [...]; nella rivoluzione francese, le leggi religiose essendo state abolite nello stesso tempo in cui si rovesciavano le leggi civili, lo spirito umano rimase completamente senza equilibrio; non seppe più a cosa attenersi né dove fermarsi e si videro rivoluzionari di una specie nuova che portarono l’audacia fino alla follia, che nessuna novità poté sorprendere, nessuno scrupolo trattenere e che non esitarono davanti all’attuazione di alcun proposito. E non bisogna credere che questi esseri nuovi sono stati la creazione isolata ed effimera di un momento, destinati a passare con essa; essi hanno formato una razza che si è perpetuata e diffusa in tutte le parti civili della terra e che dovunque ha conservato la stessa fisionomia, le stesse passioni, lo stesso carattere. L’abbiamo trovata nel mondo nascendo, e l’abbiamo ancora sotto gli occhi60.

Essi hanno rifiutato la fede, la religione. E qui sta una differenza precisa tra la Rivoluzione dell’89 e quella inglese del 1688 (un te59   A. de Tocqueville, Scritti, note e discorsi politici (1839-1852), a cura di U. Coldagelli, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 93. 60   Tocqueville, L’Antico regime e la Rivoluzione, cit., p. 194.

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ma, questo del confronto con l’esperienza inglese, assai tipico nella cultura della Restaurazione): la Rivoluzione inglese, infatti, è stata «più religiosa che politica»61. Ma da questo punto di vista c’è una forte, ulteriore, differenza anche tra la Francia e gli Stati Uniti, che contribuisce a spiegare anche il loro diverso atteggiamento nella vita politica e sociale: agli occhi di un americano «il rispetto della religione garantisce [...] più di ogni altra cosa la stabilità dello Stato e la sicurezza degli individui. I meno esperti di scienza politica sanno almeno questo», esclama Tocqueville62. La «nuova razza dei rivoluzionari» è, invece, miscredente, incredula: e perciò, di conseguenza, strutturalmente negativa per la stabilità dello Stato. Al fondo, questi rivoluzionari che continuano a girare per l’Europa sono figli del Settecento: lì si forma la loro incredulità63. È questo un primo elemento importante per capire chi siano. Ma ce n’è anche un altro che aiuta a definirli: sono figli del Settecento anche per quanto riguarda le loro posizioni politiche e sociali. Da questo punto di vista, i loro padri sono i fisiocratici e pensatori come Morelly, dai quali nasce una «forma particolare di tirannia, chiamata dispotismo democratico [...], di cui il Medioevo non aveva idea [...]»64. 61   Tocqueville, La rivoluzione, cit., p. 204: «Benché le due rivoluzioni siano scoppiate in vista della libertà e della eguaglianza, c’è, fra di loro, questa immensa differenza: la Rivoluzione d’Inghilterra è stata fatta quasi unicamente in vista della libertà, mentre quella di Francia è stata fatta principalmente in vista dell’eguaglianza [...]; la Rivoluzione francese è stata antireligiosa, mentre, ad esaminarla bene, la Rivoluzione d’Inghilterra è stata più religiosa che politica». 62   Tocqueville, L’Antico regime e la Rivoluzione, cit., p. 191. Anche qui sono evidenti gli echi del ‘paradigma’ machiavelliano: «Se io fermo il primo Americano che incontro, sia nel suo paese sia altrove, e gli domando se crede utile la religione per la stabilità delle leggi e per il buon ordine della società, mi risponde senza esitare che una società civile, ma soprattutto una società libera, non può sussistere senza religione» (per Machiavelli, cfr. Discorsi, I, XI sgg.: il che significa – sia detto tra parentesi – che il severo giudizio di Tocqueville su Machiavelli – e sulla sua visione di un mondo come una grande arena in cui Dio è assente – va preso con molta cautela). 63   Ivi, p. 193. 64   Ivi, pp. 199-200. Per confermare la convergenza sullo stesso ‘problema’ della Democrazia in America e dell’Antico regime e la Rivoluzione basta una citazione da questa stessa pagina: «Non più gerarchie nella società, non classi distinte, non più ranghi stabiliti; ma un popolo composto di individui quasi simili e interamente eguali. Questa massa confusa è riconosciuta per solo legittimo sovrano, ma accuratamente privata di tutte le facoltà che potrebbero permetterle di dirigere o anche di sorvegliare essa stessa il proprio governo. Sopra di essa un mandatario unico, incaricato di fare tutto in suo nome senza consultarla. Per vigilare costui, una ragio-

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Ma anche dopo la grande analisi svolta nell’Ancien Régime, Tocqueville resta come sospeso di fronte a questi rivoluzionari, come incapace di mettere a fuoco chi effettivamente siano, senza riuscire a connettere i processi sociali che pure ha individuato e l’esplodere, e il permanere, di queste «nuove» energie politiche: In questa malattia della Rivoluzione francese – scrive a Kergorlay il 16 maggio del 1858 – c’è inoltre qualcosa di particolare che sento senza poterlo descrivere esattamente, né analizzarne le cause. È un virus d’una specie nuova e sconosciuta. Ci sono delle rivoluzioni violente nel mondo, ma il carattere immoderato, violento, radicale, disperato, audace, quasi folle e tuttavia potente ed efficace di questi rivoluzionari non ha precedenti, mi sembra, nelle agitazioni sociali dei secoli scorsi. Da dove viene questa razza nuova? Chi l’ha prodotta? Chi l’ha resa così efficace? Chi la perpetua? Perché siamo sempre di fronte agli stessi uomini, nonostante le circostanze siano differenti, e hanno messo radici in tutto il mondo civilizzato. Il mio spirito si consuma per concepire una nozione precisa di quest’oggetto e cercare i mezzi per descriverlo con esattezza. Indipendentemente da tutto quel che si spiega, nella Rivoluzione francese c’è, nel suo spirito e nei suoi atti, qualcosa d’inspiegato. Sento dov’è l’oggetto sconosciuto, ma ho un bel fare, non riesco a sollevare il velo che lo copre. Lo tasto come attraverso un corpo estraneo che mi impedisce sia di toccarlo bene sia di vederlo65.

Audacia, follia: è lo stesso lessico che abbiamo visto in azione nei testi precedenti e con il quale continua a definire la «nuova razza dei rivoluzionari», di cui qui dipinge i tratti in modo crudele e violento, come quando nei Souvenirs presenta Blanqui: «comparve sulla tribuna un uomo che ho veduto soltanto quel giorno, ma il cui ricordo mi ha sempre riempito di disgusto e d’orrore: le sue guance erano scavate ed avvizzite, bianche le labbra, l’aria malsana, perfida e immonda, un pallore sporco, l’aspetto di un corpo ammuffito; non gli si scorgeva biancheria indosso, ma solo una vecchia redingote nera incollata alle sue membra gracili e scheletriche: sembrava fosse vissuto in una fogna e ne fosse appena uscito. Mi venne detto che era Blanqui»66. ne pubblica senza organi; per fermarlo, rivoluzioni, non leggi. In diritto è un agente subordinato; di fatto è un padrone». 65   Tocqueville, La rivoluzione, cit., pp. 19-20 (i corsivi sono miei). 66   A. de Tocqueville, Ricordi, Prefazione di F. Braudel, a cura di C. Vivanti, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 124.

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È un testo che colpisce per la sua violenza e la sua durezza, quasi disumana: Blanqui non usciva da una fogna, ma da un carcere francese, nel quale era stato rinchiuso dopo il fallito tentativo insurrezionale del 12 maggio 1839. Ma quel lessico – «disgusto», «orrore» – aiuta a comprendere cosa si agitasse nel fondo del cuore di Tocqueville di fronte a quei ‘nuovi rivoluzionari’, nei confronti dei quali non riesce ad utilizzare – ed è una spia preziosa – lemmi diversi da quelli che coinvolgono la dimensione della anormalità, della pazzia. Rappresentando nei Souvenirs la «folle» giornata del 15 maggio 1848, racconta il suo incontro con Trélat, «un rivoluzionario di tipo sentimentale», dipingendo una sorta di bozzetto che rappresenta in modo assai vivido questa situazione psicologica, prima ancora che politica: «Mi prese le mani con grande effusione e con le lacrime agli occhi mi disse: ‘Ah, signore, che disgrazia! E come è strano pensare che sono dei pazzi, dei veri pazzi che ci hanno portato a questo! Blanqui è pazzo, Barbès è pazzo, Sobrier è pazzo, Huber soprattutto è pazzo, tutti pazzi, signore, che dovrebbero essere alla mia Salpêtrière’». Né Tocqueville si stupisce per queste affermazioni, anzi: «Ho sempre pensato – commenta ora in modo freddo, ma riprendendo lo stesso motivo – che, nelle rivoluzioni, e in particolare nelle rivoluzioni democratiche, i pazzi – non quelli ai quali si dà questo nome metaforicamente, ma quelli veri – hanno avuto una parte politica assai notevole»67. Si è insistito sulla «nuova razza di rivoluzionari» – e su ciò che essi significano – perché, per Tocqueville, sono – come si è visto – una sorta di ossessione permanente, mai superata. Ed è proprio a loro – cioè all’esperienza della Convenzione e al Terrore giacobino – che pensa quando esamina e giudica la democrazia americana, individuando nel suo seno i germi di un nuovo dispotismo, diverso rispetto a quello dell’Europa. Né questo nesso può sorprendere, dopo quello che si è detto: il Vecchio e il Nuovo Continente sono due capitoli dello stesso libro sul dispotismo: simul stabunt, simul cadent. Se non si capisce questo, non si intende il fil rouge della riflessione di Tocqueville, il ‘problema’ che unifica, dall’inizio alla fine, la sua ricerca teorica e quella storiografica.   Ivi, pp. 127-128.

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Non è [...] a causa dell’assenza di centralizzazione negli Stati Uniti che le repubbliche del Nuovo Mondo periranno – osserva, ponendosi il problema del futuro della democrazia americana –. Si può dire, anzi, che ben lungi dall’essere poco centralizzati, i governi americani lo sono fin troppo [...]. Le assemblee legislative inghiottono ogni giorno qualche residuo dei poteri di governo e tendono a riunirli tutti in sé stesse, come aveva fatto la Convenzione. Il potere sociale, così centralizzato, cambia continuamente di mani, perché è subordinato alla potenza popolare. Spesso gli accade di mancare di saggezza e di previdenza perché troppo potente. In questo consiste il vero pericolo. È dunque a causa della sua stessa forza, e non già della sua debolezza, che esso rischierà un giorno di perire68.

In breve: il carattere, e il limite costitutivo, della democrazia americana è l’accentramento politico che, in quel paese, esiste al più alto grado, non paragonabile con quanto accade nella stessa Europa. Quello che può portare alla rovina americana è proprio questa centralizzazione, così dura e potente da spingere Tocqueville a citare, in modo esplicito, proprio la Convenzione, da cui la «nuova razza di rivoluzionari» è scaturita. È una battuta preziosa, perché fa anche intravedere il modo in cui lavora la mente di Tocqueville e il nodo teorico intorno al quale si stringono tutti i fili della sua riflessione, parli dell’Europa oppure degli Stati Uniti: il ‘problema’ è sempre e ancora quello della centralizzazione, e delle varie forme che essa assume, generando varie forme di dispotismo – ‘dall’alto’ oppure ‘dal basso’, di natura ‘amministrativa’, oppure su base ‘popolare’. In ogni caso, la centralizzazione – qualunque forma essa assuma – è, e resta, il fondamento effettivo del modello di dispotismo elaborato nella Democrazia, poi ripreso e sviluppato, sul piano storico, nell’Ancien Régime. In Europa il dispotismo scaturisce dalla centralizzazione amministrativa e dalla dissoluzione della politica nell’amministrazione: su questo punto si è già ampiamente insistito, sottolineando il ruolo svolto in questo processo dall’Ancien Régime, dalla Convenzione, da Napoleone. Rispetto a questa vicenda tragica, Tocqueville sottolinea, e rivendica, l’originalità della democrazia americana, che invece è basata su un primato della politica e del ‘vivere civile’ che si esprime fin dai rami bassi e – per certi aspetti decisivi – del potere,   Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 112.

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come il Comune, nel quale si realizza una forma di vera e propria democrazia diretta. Ma è proprio da questo primato della politica che germina, paradossalmente, il dispotismo americano. Ciò che caratterizza gli Stati Uniti è, infatti, una forte centralizzazione politica, simmetrica al forte decentramento amministrativo: se lì ci fosse, come in Europa, anche una centralizzazione sul piano amministrativo, non ci sarebbe alcuno spazio per la libertà, osserva Tocqueville. In America – l’abbiamo visto parlando del Comune – è il decentramento amministrativo il primo baluardo della libertà rispetto alle tendenze dispotiche della politica; un baluardo importante, ma non sufficiente. Alla forte centralizzazione politica si congiunge, in modo strutturale, un altro elemento potenzialmente altrettanto dispotico, come dimostrano proprio la Convenzione e la «nuova razza di rivoluzionari»: il forte, straripante predominio del popolo nella vita politica della nazione. Il luogo di questo intreccio – come nella Rivoluzione francese – è il potere legislativo, nel quale il popolo fa sentire ed impone la sua voce, momento per momento, problema per problema, trasformando di fatto i «rappresentanti» in propri «delegati», favorito in questo dalla incessante rotazione alla quale i rappresentanti stessi vengono sottoposti, con votazioni che hanno in genere cadenza annuale: «Il legislativo – scrive Tocqueville – è, di tutti i poteri politici, quello che obbedisce più volentieri alla maggioranza. Gli americani hanno voluto che i membri del potere legislativo fossero nominati direttamente dal popolo, e per un periodo molto breve, al fine di obbligarli a sottomettersi non solo alle opinioni generali, ma anche alle passioni giornaliere dei loro elettori». E poco dopo ribadisce: «Si diffonde sempre più negli Stati Uniti un costume che finirà per rendere vane le garanzie del governo rappresentativo: capita molto frequentemente che gli elettori, nominando un deputato, gli traccino una linea di condotta e gli impongano un certo numero di obblighi positivi da cui egli non può in nessun modo allontanarsi. Tolti i tumulti, è come se la maggioranza stessa deliberasse sulla pubblica piazza» (né è il caso di sottolineare in queste espressioni l’eco del modello della polis greca operante nelle pagine sul Comune)69. Negli Stati Uniti c’è dunque una forte tendenza a sostituire al sistema rappresentativo, legalmente in funzione, una effettiva de-

  Ivi, p. 292.

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mocrazia diretta, trasformando il Parlamento in una sorta di nuova Convenzione: il «corpo legislativo» «rappresenta la maggioranza e le obbedisce ciecamente»; il potere esecutivo, nominato dalla stessa maggioranza, la «serve come uno strumento passivo»; «la forza pubblica non è altro che la maggioranza sotto le armi»; «la giurìa è la maggioranza investita dal diritto di emanare sentenze: i giudici stessi, in certi Stati, sono eletti dalla maggioranza». Questo significa che la «maggioranza», una volta che si è costituita intorno a un problema, ha «negli Stati Uniti un immenso potere di fatto e un potere di opinione quasi altrettanto grande; e, una volta che si è costituita riguardo a una questione, non ci sono, per così dire, ostacoli che possano, non dirò fermare, ma neanche ritardare il suo cammino, e lasciarle il tempo di ascoltare le lamentele di coloro che essa schiaccia nel suo passaggio»70. Tutto ciò ha effetti devastanti sulla vita della nazione a tutti i livelli, sia sul piano materiale che su quello intellettuale, perché, osserva, «le repubbliche democratiche rendono immateriale il dispotismo» («les républiques democratiques immatérialisent le despotisme»)71. È per formalizzare sul piano concettuale questa situazione che Tocqueville parla di «tirannide della maggioranza» («tyrannie de la majorité») – un problema su cui, come è ben noto, si era soffermato il costituzionalismo europeo della prima metà dell’Ottocento per mettere a fuoco, e contenere, gli effetti prodotti dalla presenza del ‘popolo’ negli organismi costituzionali sulla vita generale della nazione dopo la Rivoluzione dell’89, a cominciare dall’Assemblea legislativa. Alcuni studiosi hanno sottolineato l’importanza del rapporto tra Tocqueville e gli esponenti principali del costituzionalismo europeo, a cominciare da Constant, negandogli una specifica originalità. Ma si tratta di una sintonia estrinseca, perché nella Democrazia muta la sostanza del problema. Tocqueville usa questa espressione discorrendo dell’America, cioè del paese in cui si è già interamente realizzata l’eguaglianza delle condizioni, con tutti gli effetti che ne conseguono sul piano degli assetti parlamentari, politici e sociali. Rispetto al vecchio costituzionalismo liberale è perciò, consapevolmente, su un’onda più lunga. Nella Democrazia il popolo non è un pericolo   Ivi, p. 294.   Ivi, p. 301 (per il testo francese, A. de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, I, Prefazione di A. Jardin, Gallimard, Paris 1986, p. 380). 70 71

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da cui bisogna guardarsi; è, ormai, il protagonista della vita politica e sociale del paese e, grazie al carattere della Costituzione americana – e al potere assegnato al legislativo –, è in grado di intervenire, in modo diretto, su tutta la vita della nazione, in ogni momento, provocando una sorta di continuo – e insuperabile – corto circuito fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, che vede sempre prevalere la prima sulla seconda, quando non ci siano adeguati «contrafforti» che riescano a contrastarla, a contenerla. Parlando di «tirannide della maggioranza», Tocqueville non pensa solo al potere legislativo in quanto tale, ma anche al peso, e agli effetti, che la «maggioranza» ha sul piano dell’opinione, dei costumi, del pensiero. Pensa a qualcosa che, prima e oltre lo Stato, ha a che fare con la società e che, soprattutto, tocca la dimensione dell’‘immateriale’ – la più complessa, la più esposta, la più fragile –, prima ancora di quella ‘materiale’ in senso stretto72. Quando parla di «tirannia della maggioranza», Tocqueville si pone dunque, specificamente, il problema della genesi e dei caratteri del dispotismo americano, ma nel quadro del generale modello di dispotismo al quale sta lavorando. In questo senso il capitolo settimo della prima parte rappresenta effettivamente il punto di passaggio, e di raccordo, tra la prima e la seconda Democrazia. Il suo itinerario intellettuale – così inteso – è assai organico e compatto; né ha senso insistere in modo eccessivo, come talvolta si è fatto, sulle differenze tra prima e seconda Democrazia. Quello che muta è il punto di vista, ma nel quadro di un ragionamento fortemente unitario che collega i due testi, unificati, sul piano teorico, da alcuni temi di fondo, a cominciare dal rapporto tra centralizzazione e dispotismo, di qualunque specie esso sia. Ovviamente, i vari dispotismi hanno caratteri e forme differenti, connessi a differenti tradizioni politiche, a diversi sentimenti etici e religiosi, perfino a differenti posizioni geografiche. Anzi, l’obiettivo – e l’originalità – di Tocqueville consiste proprio nell’individuare le differenze fra l’Europa e l’America, rifiutando generici parallelismi o estrinseci rapporti; ma dal punto di vista genetico-strutturale la prima e la seconda Democrazia sono profondamente omogenee; e al di là delle differenze specifiche, è questa generale omogeneità che

72   Su questo punto, che è importante, acute osservazioni sono in N. Matteucci, Alexis de Tocqueville. Tre esercizi di lettura, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 39-40.

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Tocqueville intende sottolineare, dando forza, e coerenza, al suo modello di dispotismo. In America, la «tirannide della maggioranza» è altra cosa da quello che avevano in mente i costituzionalisti francesi: essa costituisce il terreno su cui germinano le tendenze dispotiche della democrazia americana, in via di progressiva e inesorabile affermazione, se non sono contenute. Del resto, di questo i ‘padri fondatori’ erano stati pienamente consapevoli e perciò avevano diviso il potere legislativo, introducendo il bicameralismo: per cercare di contenere, rallentandola e sottoponendola a un doppio filtro, la pressione continua del popolo sulle decisioni parlamentari. E alla stessa esigenza corrisponde lo sforzo teso a potenziare il potere esecutivo e a salvaguardare l’autonomia del potere giudiziario, al quale Tocqueville dedica particolare attenzione: «Più si riflette su ciò che accade negli Stati Uniti, più si resta convinti che il corpo dei legisti forma in questo paese il più potente e, per così dire, l’unico contrappeso alla democrazia»73. Scelte e posizioni che, ovviamente, Tocqueville condivide, nella convinzione che esse siano essenziali per conservare la libertà negli Stati Uniti, insieme alle leggi, ai costumi, alle abitudini degli americani, oltre alla «situazione particolare e accidentale» in cui li ha posti la Provvidenza e, soprattutto, al decentramento amministrativo che ha loro consentito di tenere insieme eguaglianza e libertà. Punto, quest’ultimo, su cui Tocqueville insiste con particolare forza proprio aprendo il capitolo su Ciò che negli Stati Uniti modera la tirannia della maggioranza; né questa insistenza è, ovviamente, casuale. Si chiude così il cerchio aperto con le pagine sul Comune, delle quali, su questo sfondo, appare con chiarezza la centralità nel disegno complessivo di Tocqueville. Se in quelle pagine una ‘forzatura’ c’era stata, si trattava di una forzatura consapevole, e corrispondeva a una esigenza di carattere propriamente sistematico. In sintesi: nel modello di dispotismo che Tocqueville elabora, quello europeo si caratterizza per il prevalere dell’amministrazione sulla politica; quello americano per un prevalere nella vita del paese della politica, attraverso il netto, e avvolgente, predominio del popolo a livello di potere legislativo, il vero cuore per Tocqueville –

  Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 316.

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coerentemente con il costituzionalismo della sua epoca – del potere nazionale. Ma sia il dispotismo americano che quello europeo, ai suoi occhi, appaiono eredi della Convenzione, dei giacobini; ne rappresentano ciascuno un lato, un aspetto. Considerata sul piano morfologico, e in rapporto al modello di dispotismo che sta elaborando, la Convenzione ha svolto, per Tocqueville, un doppio ruolo: da un lato, ha dato tutto il potere politico all’Assemblea legislativa; dall’altro, ha sviluppato il processo di centralizzazione amministrativa dello Stato assoluto. In breve, la Convenzione ha mantenuto insieme, e potenziato, massima centralizzazione politica e massimo accentramento amministrativo: con la prima ha posto le basi del dispotismo su base popolare che fermenta nella società americana; con il secondo ha distrutto in Francia la libertà, gettando le fondamenta del dispotismo napoleonico. Agli occhi di Tocqueville l’eredità della Convenzione si è dunque come spezzata in due tronconi, entrambi velenosi, per quanto separati l’uno dall’altro. L’‘eccesso’ politico non è, infatti, meno dannoso dell’‘eccesso’ amministrativo, dal punto di vista della libertà. Dall’uno e dall’altro sgorga, omogeneamente, il dispotismo. In conclusione: i cittadini americani, come i Convenzionali, risalgono, morfologicamente, ad un archetipo comune; sono per molti aspetti figli, gli uni e gli altri, di Jean-Jacques Rousseau. Quello che dunque occorre fare è muoversi su un’altra strada, quella di un sistema rappresentativo adeguatamente riformato; e questo implica un ripensamento del rapporto tra la ‘libertà degli antichi’ e la ‘libertà dei moderni’: occorre mantenere viva la dimensione politica, come facevano gli ‘antichi’; ma garantendo le libertà, e i diritti, dei ‘moderni’, nel quadro di un compiuto ed efficace sistema rappresentativo, basato sui «rappresentanti», e non sui «delegati», intrecciando eguaglianza e libertà. Riprendendo la coppia classica citoyen/bourgeois – sulla quale, in una prospettiva del tutto diversa, lavorerà anche Marx –, per Tocqueville occorre, da un lato, sostenere i diritti del citoyen; dall’altro, riconoscere quelli del bourgeois, ma trovando un nuovo punto di equilibrio e costituendo, nella società civile, ‘istituti’ che ne potenzino autonomia, indipendenza e, in primo luogo, vitalità. L’individuo – su questo punto Tocqueville insiste – non deve essere risucchiato nella sua dimensione di bourgeois, cioè nella pura ricerca del benessere individuale; e per questo è necessario battere

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sui diritti – su quelli che noi oggi chiameremmo ‘diritti di cittadinanza’: «Dopo l’idea della virtù, non ne conosco – scrive – una più bella di quella dei diritti; o piuttosto queste due idee si confondono. L’idea dei diritti non è altro che l’idea della virtù introdotta nel mondo politico. Con l’idea dei diritti gli uomini hanno definito ciò che sono la licenza e la tirannide [...]. Non vi sono grandi uomini senza virtù; senza rispetto dei diritti non vi è un grande popolo: si può quasi dire che non vi è società; infatti che cos’è una riunione di esseri razionali e intelligenti, il cui solo legame è la forza?». E, sullo stesso filo, ribatte: «Mi domando qual è, ai nostri giorni, il mezzo di inculcare negli uomini l’idea dei diritti, e di farla, per così dire, cadere sotto i loro sensi; e non ne vedo che uno solo, cioè concedere a tutti il pacifico esercizio di certi diritti»74. I diritti sono un fondamentale «contrafforte» rispetto a un ‘potere sociale’ che si afferma attraverso l’atomizzazione degli individui che, interamente impegnati nella ricerca del proprio benessere, precipitano, senza accorgersene, in una condizione di servitù. Più si espande il bourgeois, più si rinsecchisce il citoyen; e più si espande il potere dispotico, che si sviluppa uniformando tutti sotto di sé. Con il dispotismo – sia amministrativo che politico – cadono le diversità, che sono il fondamento della libertà; si afferma una grigia indifferenza; la ‘condizione umana’ sprofonda nella miseria della generale servitù. Ma proprio per la profondità e la radicalità dei processi sociali e politici che l’«eguaglianza delle condizioni» mette in moto, i diritti individuali non bastano, per difendersi dal dispotismo: è necessario promuovere, a livello di società civile, un ampio e articolato sistema di associazioni sociali e politiche, che favoriscano la più ampia partecipazione dei cittadini. Nel modello di Tocqueville – a differenza di quello di Constant, che nell’elenco delle ‘libertà dei moderni’ non aveva compreso il diritto di associazione75 –, le associazioni, insieme all’educazione e ai diritti, sono il «contrafforte» antidispotico più vigoroso, il vero baluardo della libertà nell’epoca dell’eguaglianza, sia in Europa che negli Stati Uniti.

  Ivi, p. 282.   Cfr. su questo le osservazioni di D’Argenio, Alexis de Tocqueville e Hannah Arendt, cit., p. 241. 74 75

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Su questo sfondo, sono interessanti due aspetti della riflessione di Tocqueville: il primo concerne in modo specifico il suo giudizio sulle repubbliche antiche, cioè sulla ‘libertà degli antichi’; il secondo proprio l’ampia riflessione sulla funzione delle associazioni, cioè l’estensione, e l’articolazione, della ‘libertà dei moderni’. Per Tocqueville – l’abbiamo appena visto – nella democrazia americana ci può essere il germe di una nuova forma di dispotismo, che però, a differenza di quello europeo, sale dal basso; è un dispotismo su base popolare. E questo pericolo è tanto più concreto se si pensa al ruolo che il popolo svolge nella società: esso – e anche su questo si è già richiamata l’attenzione – nomina chi fa la legge e chi la esegue; lui stesso forma le giurie che puniscono le infrazioni alla legge. Non soltanto le istituzioni sono democratiche nel loro principio, ma anche in tutti i loro sviluppi: così il popolo nomina direttamente i suoi rappresentanti, e li sceglie in genere ogni anno, per tenerli nella più assoluta dipendenza. È, dunque, realmente il popolo che comanda e, benché la forma del governo sia rappresentativa, è ovvio che le opinioni, i pregiudizi, gli interessi e anche le passioni non possano trovare ostacoli duraturi che impediscano loro di manifestarsi nella direzione quotidiana della società. Negli Stati Uniti, come in ogni paese in cui regna il popolo, è la maggioranza che governa in suo nome. Questa maggioranza si compone essenzialmente di pacifici cittadini che, vuoi per aspirazione, vuoi per interesse, desiderano sinceramente il bene del paese. Attorno ad essi si agitano di continuo i partiti, che cercano di attirarli e di farsene un appoggio76.

È sintomatica – e va sottolineata, perché ricorre anche negli altri testi citati su questo tema – l’insistenza sull’avverbio direttamente (e, in genere, sui lemmi che appartengono a questo gruppo), quando Tocqueville parla della democrazia americana: è una spia precisa della situazione problematica e, ai suoi occhi, contraddittoria, che ritiene di aver di fronte in America. Da un lato, a differenza dell’Europa, qui gli uomini sono forti, vitali, in continuo movimento, sempre alla ricerca di nuovi obiettivi sia sociali che politici; intrecciano benessere individuale e partecipazione alla vita civile; comprendono – e perciò la difendono – quanto la libertà sia importante anche per i loro traffici, per lo sviluppo

  Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 207.

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dell’economia; dall’altro, il predominio della democrazia diretta fomenta il generarsi – attraverso le maglie del sistema rappresentativo – di una nuova forma di dispotismo, non meno grave di quello che ha conosciuto, e conosce, l’Europa. Rispetto a questa situazione Tocqueville sviluppa una strategia scandita in vari momenti. Anzitutto riprende, e svolge in modi nuovi, il tema del rapporto tra ‘libertà degli antichi’ e ‘libertà dei moderni’, delimitando con forza il significato e il valore del modello ateniese – e, in generale, delle repubbliche antiche: esse non avevano capito la necessità della «divisione» del potere legislativo, che invece è «divenuta un assioma della scienza politica del nostro tempo»77. Il problema è, però, di carattere generale: le «repubbliche antiche [...] sono tutte perite per non aver conosciuto il sistema rappresentativo». Infine, e con questo si chiude il cerchio, ciò che veniva chiamato popolo nelle repubbliche più democratiche dell’antichità, non assomiglia affatto a quello che chiamiamo noi popolo. Ad Atene, tutti i cittadini partecipavano agli affari pubblici, ma, su oltre trecentocinquantamila abitanti, v’erano solo ventimila cittadini: tutti gli altri erano schiavi e assolvevano la maggior parte delle funzioni che incombono oggigiorno al popolo e persino alle classi medie. Atene, col suo suffragio universale, non era in fin dei conti che una repubblica aristocratica, in cui i nobili avevano ugual diritto al governo78.

Insomma: le repubbliche antiche non possono essere un modello sul piano politico, né in senso generale, né per quanto riguarda specificamente la democrazia. Anzi, con la loro storia – e la loro fine – dimostrano che la strada da imboccare deve essere quella del moderno sistema rappresentativo, l’unico in grado di garantire stabilità e continuità del ‘vivere civile’. Tocqueville toglie dunque di mezzo, in primo luogo, il modello ‘ateniese’, mostrandone la sostanziale sterilità e sottolineando, per contrasto, la superiorità – su questo punto – dei ‘moderni’ sugli ‘antichi’. Ma questo non significa che egli non si renda conto della funzione, e dell’importanza, della politica, se si vuole fondare su un terreno solido la ‘libertà dei moderni’. Ed è su questo piano che il discorso   Ivi, p. 107.   Ivi, p. 550.

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sulle associazioni diventa centrale: esse sono il terreno nel quale si può stabilire un rapporto fecondo tra ‘libertà degli antichi’ e ‘libertà dei moderni’, pur nella consapevolezza, da un lato, della fragilità della politica, come sapeva bene lo stesso Machiavelli; dall’altro, della ‘morfologia’ del moderno dispotismo, specie di quello europeo, che, in effetti, distrugge la politica e, con la politica, il conflitto. In questo ragionamento, Tocqueville muove da un duplice convincimento: «tutti i popoli democratici sono istintivamente portati verso la centralizzazione»; ma «ciascuno vi tende in modo diverso», come risulta con chiarezza dalle differenze tra la storia dell’Europa e quella degli Stati Uniti. Nel caso di popoli che hanno vissuto a lungo liberi prima di diventare eguali – come è il caso degli americani – è difficile che i singoli rinuncino alla loro indipendenza, «per quanto il potere centrale aumenti i loro privilegi». Invece, quando l’uguaglianza si sviluppa in un popolo che non ha mai conosciuto o che non conosce più da molto tempo la libertà, come accade sul continente europeo, allora le antiche abitudini della nazione si combinano subito, per una specie di istintiva attrazione, con le abitudini e le nuove dottrine che il sistema sociale ha fatto nascere, e tutti i poteri sembrano affluire spontaneamente verso il centro; vi si accumulano con rapidità sorprendente e lo Stato raggiunge di colpo gli estremi limiti della sua forza, mentre i singoli si lasciano cadere in un attimo fino all’ultimo scalino della debolezza79.

Questa, al fondo, è la differenza tra l’America e l’Europa: nella prima la libertà è antica, mentre l’uguaglianza è nuova; a differenza della seconda, «ove l’uguaglianza introdotta dal potere assoluto e sotto gli occhi dei re, è penetrata nelle abitudini dei popoli, molto tempo prima che la libertà entrasse nelle loro idee»80. Ma, accanto a questo, c’è un secondo motivo che spiega il carattere del dispotismo europeo: l’idea di un potere unico e centralizzato è tipico dei popoli democratici che hanno realizzato il principio dell’eguaglianza con una rivoluzione violenta. Ad essi l’idea dei «poteri secondari» e «intermedi» è sostanzialmente estranea. Tanto più che questi popoli, dopo una lunga lotta sanguinosa, desiderano solo la pace e sono perciò dispostissimi ad aumentare le attribuzioni

  Ivi, p. 792.   Ivi, p. 793.

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del potere centrale, purché questa pace sia garantita: «il desiderio della tranquillità pubblica – osserva Tocqueville – diviene allora una passione cieca, ed i cittadini sono portati ad accendersi di un amore disordinato per l’ordine»81. Tutti fenomeni tipici della storia europea, e non di quella americana, dove – come si è già notato – l’eguaglianza è stata preceduta dalla libertà, né è stata necessaria una rivoluzione violenta per poterla ottenere. In breve, democrazia americana e democrazia europea sono morfologicamente – cioè strutturalmente – diverse; ed è proprio questa differenza che fa sperare di poter contenere gli esiti dispotici in corso di affermazione in Europa. Ma senza farsi troppe illusioni: «L’esempio dell’America prova soltanto che non bisogna disperare di regolare la democrazia con l’aiuto delle leggi e dei costumi»82. Ciò incide, come si è visto, sui caratteri dei rispettivi dispotismi e, di conseguenza, sulle funzioni rispettive delle associazioni nel dispotismo americano e nel dispotismo europeo. Sono necessarie in entrambi i sistemi, su questo non c’è dubbio. Per questo, nei paesi democratici, al di qua o la di là dell’Atlantico, «la scienza dell’associazione è la scienza madre; il progresso di tutte le altre dipende dal progresso di questa»83. Sono le associazioni che rappresentano, nella vita dei popoli democratici, il momento dell’«azione reciproca» degli uni sugli altri, senza cui non c’è rinnovamento delle idee e delle coscienze, elevazione dell’animo, sviluppo dello spirito: per Tocqueville, come per Kant, senza azione reciproca non c’è progresso, non c’è storia84. Ma le associazioni rappresentano, al tempo stesso, il momento – e la leva – del conflitto nei confronti del potere, quando esso sconfina dai limiti che dovrebbero essergli propri. Da questo punto di vista, «sono le associazioni quindi a dover fare, nelle democrazie, le veci di quei privati strapotenti, che l’uguaglianza delle condizioni ha fatto

  Ivi, p. 796.   Ivi, p. 365. 83   Ivi, p. 601. 84   Ivi, p. 599: «Le coscienze e le idee non si rinnovano, l’animo non si ingrandisce e lo spirito umano non si sviluppa, se non attraverso l’azione reciproca degli uomini sugli altri»; per Kant, «Il mezzo di cui la natura si serve per portare a compimento lo sviluppo di tutte le sue disposizioni è il loro antagonismo nella società, in quanto esso divenga infine la causa di un ordine legittimo» (cfr. Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico [1784], in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1995). 81 82

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scomparire»85. Devono, cioè, assumere – e fare proprio – l’ethos aristocratico europeo, il quale ha il merito di aver tenuto aperto il conflitto tra libertà e autorità che ha attraversato tutta la storia moderna, in modo speciale quella europea. E lo devono fare tenendo conto dei diversi contesti in cui si muovono, e della differente natura del potere con cui sono costrette a fare i conti, per salvaguardare la propria libertà. Le associazioni svolgono un compito diverso in Europa e in America; né questo meraviglia, se si tiene conto del discorso generale che Tocqueville fa sul dispotismo. Così come non meraviglia che il giudizio sulle associazioni sia assai più positivo nella seconda Democrazia, quando all’ordine del giorno è il nuovo pouvoir che, con la sua ‘mitezza’, chiude in un cerchio di servitù tutti i cittadini, ponendo con massima urgenza il problema della costituzione delle associazioni come unico, effettivo baluardo della libertà – unico luogo, da un lato, di partecipazione, dall’altro, di conflitto. Nella prima Democrazia, il problema è del tutto diverso: quello che è in discussione è, precisamente, la pressione del popolo sul potere legislativo, sull’intera sfera della vita politica e sociale americana, il sostanziale prevalere di una forma di democrazia diretta su quella rappresentativa; in tale senso, il problema è l’‘eccesso’ di politica, non la sua mancanza. In questo contesto è del tutto naturale che Tocqueville esprima le sue perplessità anche sul sistema delle associazioni. Ma per comprendere quale sia la sua posizione, a quella data e in quella situazione, basta vedere ciò che, a suo giudizio, le associazioni devono fare in America: «ai nostri giorni – scrive – la libertà d’associazione è diventata una garanzia necessaria contro la tirannide della maggioranza»86. E così chiarisce il suo pensiero: Negli Stati Uniti, una volta che un partito è diventato dominante, tutto il potere pubblico passa nelle sue mani; i suoi uomini occupano tutti gli impieghi pubblici e dispongono di tutte le forze organizzate. Gli uomini più eminenti del partito d’opposizione, non potendo varcare la barriera che li separa dal potere, debbono potersi organizzare al di fuori; bisogna che la minoranza opponga tutta la sua forza morale al potere materiale che l’opprime87.

  Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 600.   Ivi, p. 230. 87   Ibidem. 85 86

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È in questo contesto che si situa in America la funzione liberale e liberatrice delle associazioni, a differenza della situazione europea, alla quale invece Tocqueville pensa in modo specifico quando nella seconda Democrazia riprende il problema delle associazioni, rinviando, certo, a quanto aveva già detto sulla questione, ma estendendo, e complicando, il suo ragionamento. Anzitutto perché qui non si tratta di associazioni politiche, ma di associazioni civili, che hanno precisamente il compito di difendere ogni cittadino, il quale «se [...] a mano a mano che diventa individualmente più impotente e di conseguenza incapace di preservare da solo la propria libertà, non imparasse l’arte di unirsi ai suoi simili per difenderla», sarebbe, nell’epoca dell’eguaglianza, preda della tirannia88. In queste democrazie, le associazioni sono dunque essenziali per conservare la propria libertà: perché – come Tocqueville non si stanca di ripetere – qui «tutti i cittadini sono indipendenti e inefficienti», e perciò «non possono quasi nulla da soli e nessuno può obbligare i suoi simili a dargli la propria cooperazione», a meno che – e questo è il compito delle associazioni – non si impari ad «aiutarsi liberamente», sfuggendo in questo modo all’impotenza. È quello che accade in America, dando ai cittadini una forza speciale: «Non appena un certo numero di abitanti degli Stati Uniti hanno concepito un sentimento o un’idea che vogliono introdurre nel mondo, si cercano, e, quando si sono trovati, si uniscono. Da allora non sono più uomini soli, ma una potenza visibile a distanza, le cui azioni servono d’esempio: che parla e che viene ascoltata»89. È dell’America che Tocqueville parla in queste pagine, ma è chiaro che riflette sull’Europa, sul dispotismo imperniato sulla centralizzazione amministrativa, sull’individualismo inerte, frutto di una eguaglianza da cui scaturiscono stasi, impotenza, chiusura nel proprio «particulare»: tutti quei sentimenti che spingono Tocqueville ad invocare, perfino, in termini positivi la Rivoluzione: Oserò dirlo in mezzo alle rovine che mi circondano? Ebbene quello che temo di più per le generazioni future non sono le rivoluzioni [...]. Si pensa che le società nuove cambino continuamente fisionomia; e io, invece, temo

  Ivi, p. 597.   Ivi, p. 600.

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che finiscano per rimanere troppo fisse nelle stesse istituzioni, negli stessi pregiudizi, nelle stesse abitudini, in modo tale che il genere umano si fermi e si limiti, che lo spirito si pieghi e si ripieghi eternamente su sé stesso, senza produrre idee nuove; che l’uomo si esaurisca in piccoli moti solitari e sterili, e che, pur agitandosi senza posa, l’umanità non avanzi più90.

È da questo tipo di riflessione – e dalla consapevolezza in cui essa si situa – che scaturisce la nuova, più penetrante, attenzione di Tocqueville sulle associazioni, le quali – così concepite – sono un pilastro del modello teorico da lui elaborato. Ma Tocqueville sa anche – e si situa qui il carattere intimamente tragico della sua riflessione – che le associazioni sono strutture fragili, frutto solamente dell’artificio, perché negli Stati democratici la tendenza all’azione reciproca è «quasi nulla»; e sa altrettanto bene che nelle epoche democratiche anche «l’indipendenza individuale e le libertà locali saranno sempre frutto di artificio»91. A differenza di quanto pensava Aristotele, l’individuo moderno non è un animal politicum; rifugge dalla politica, chiudendosi nel cerchio del suo egoismo, senza volontà né capacità di relazionarsi con gli altri. Ma diversamente anche da quanto accade nel ‘modello’ di Hobbes – in cui gli uomini si affidano al sovrano per uscire dalla situazione di bellum omnium contra omnes nella quale sono immersi –, i cittadini moderni vivono in uno stato di quiete, di stasi, di mediocre benessere che il nuovo potere salvaguarda e favorisce per sviluppare il suo dominio ad ogni livello della società. Costruire ‘istituti’ e legami politici nell’epoca moderna è perciò assai arduo: come sapeva Machiavelli, e sa anche Tocqueville, da una antropologia debole scaturisce la fragilità della politica. È questa la ‘condizione’ paradossale dell’uomo moderno: l’unica sua possibilità di salvezza è in uno ‘strumento’ precario, insicuro, incerto92.   Ivi, p. 756.   Ivi, p. 791. 92   Su questi temi sono assai importanti i lavori di F.M. De Sanctis: qui mi limito a citare Tempo di democrazia, Prefazione di D. Cofrancesco, Editoriale Scientifica, Napoli 2005 e Tocqueville. Sulla condizione moderna, Editoriale Scientifica, Napoli 2005. Interessanti sono anche i saggi di vari autori (fra cui lo stesso De Sanctis e Cofrancesco) raccolti in Il teatro della politica. Tocqueville tra democrazia e rivoluzione, a cura di F. Mioni, Diabasis, Reggio Emilia 1990. Fra i lavori usciti recentemente si vedano il bel libro di L. Jaume, Tocqueville. Les sources aristocratiques de la liberté. Biographie intellectuelle, Fayard, Paris 2008 (il volume è dedicato a F. Mélonio, autorevole maestra degli studi su Tocqueville), C. Colangelo, Uguaglianza immagi90 91

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Sono pagine intense; ma anche qui il problema essenziale per Tocqueville resta sempre quello intorno al quale si è interrogato, in modo costante, in tutta la sua opera: se sia possibile, e come, costituire una reale democrazia politica in una storia come quella europea, caratterizzata dall’accentramento amministrativo, dall’esperienza della Convenzione, dalla presenza continua e terribile della «nuova razza dei rivoluzionari»; se ci sia ancora spazio per la libertà dell’uomo e per il suo «libero arbitrio», o se il dispotismo si configuri, ormai, come un destino ineludibile. Né si può pensare di restaurare la società e l’ethos aristocratici: quel mondo è finito; non ci saranno più ‘individui’ come quelli di una volta. Si può solo cercare di «creare artificiosamente qualche cosa di analogo», sforzandosi di «far scaturire la libertà dal seno stesso della società democratica in cui Dio ci fa vivere»93. Se il ‘problema’ è, e resta, questo, Tocqueville sa però che riaffermare il primato del «libero arbitrio» nell’epoca democratica – che porta di necessità, e inesorabilmente, al livellamento degli individui – è un compito arduo, quasi impossibile, che può essere intrapreso solo coinvolgendo le radici originarie dell’esistenza umana; risalendo dalla dimensione politica a quella antropologica, fino al fondamento etico di ogni vivere individuale e collettivo. Perciò nelle pagine finali della seconda Democrazia, quasi spes contra spem, fa un elogio assai alto di quello che è, a suo giudizio, il predicato costitutivo, e insopprimibile, dell’umanità democratica: Coloro che vivono nei secoli democratici in cui stiamo entrando hanno per natura il gusto dell’indipendenza. Per natura sopportano malamente le regole: anche il perdurare dello stato che preferiscono finisce con lo stancarli. Amano il potere, sono però inclini a disprezzare e ad odiare colui che lo esercita, e gli sfuggono facilmente dalle mani proprio per la piccolezza e la loro stessa mobilità. Questi istinti esisteranno sempre [...]; essi impediranno a lungo l’insediarsi di un qualsiasi dispotismo e forniranno nuove armi a ogni nuova generazione che vorrà lottare in favore della libertà umana. Cerchiamo di avere dunque del futuro questo

naria. Tocqueville, la specie, la democrazia, La Città del Sole, Napoli 2005, e anche P.A. Rahe, Soft Despotism. Democracy’s Drift. Montesquieu, Rousseau, Tocqueville and the Modern Prospect, Yale University Press, New Haven-London 2009. 93   Tocqueville, La democrazia in America, cit., pp. 817, 816.

Tocqueville e la «scienza» dei legami

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timore salutare, che fa vegliare e combattere, e non quella sorta di terrore fiacco che abbatte i cuori e li snerva94.

Ma Tocqueville per primo non si faceva molte illusioni: era consapevole che, prima delle istituzioni, ciò che conta sono i «sentimenti», le «credenze», le «abitudini del cuore e dello spirito», e sapeva che su questo terreno la crisi dell’Europa era profonda; così come era cosciente – e questo dà un tono speciale a tutte le sue pagine – di appartenere a una «famiglia intellettuale e morale» che stava definitivamente scomparendo. L’intreccio di libertà e di democrazia – per il quale si era battuto lungo tutta la sua vita – più che un progetto etico-politico sembrava ormai appartenere al regno dei sogni.   Ivi, p. 824.

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La costituzione appare per quel che è, libero prodotto dell’uomo. Marx

Sulla democrazia Marx insiste fin dai suoi primi scritti, a iniziare da quel testo in ogni senso formidabile che è la Questione ebraica e dalla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. In questi testi, risalenti al 1843-44, Marx fa un duplice ragionamento: da un lato, sottolinea che la democrazia è la vera «costituzione», perfettamente adeguata ai bisogni e alla vita del popolo1; dall’altro – attraverso una dura discussione con Bauer –, sottopone a critica radicale l’eguaglianza politica, imperniata sulla distinzione di bourgeois e citoyen, frutto diretto – ed esito più alto – della ‘modernità’. Su questa base, critica con asprezza i «diritti dell’uomo» proclamati dalla Rivoluzione francese, sostenendo che essi altro non sono che i ‘diritti’ borghesi presentati in chiave universalistica. La eguaglianza politica propagandata dallo Stato moderno, a differenza di quanto pensa Bauer, non toglie, infatti, in alcun modo le diseguaglianze reali che esistono a livello della ‘società civile’. Lo Stato politico moderno – ribadisce Marx – maschera e mistifica queste diseguaglianze, proclamando una eguaglianza fra cittadini ‘astratta’, senza alcun riscontro nella realtà concreta. Anzi, la contraddizione moderna tra Stato e ‘società civile’ – che Hegel ha avuto il merito di rappresentare, senza riuscire a risolverla, e che certamen1   Sul concetto di ‘costituzione’ cfr. l’utile lavoro di S. Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel (1818-1831), Quodlibet, Macerata 2005.

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te costituisce un deciso passo in avanti, e un netto progresso, rispetto alla servitù medioevale –, proprio questa contraddizione è ciò che mette in questione radicale, dissolvendola, la ‘libertà dei moderni’. Perciò, a giudizio di Marx, se si vuole costituire la vera democrazia – e con essa la vera libertà – occorre superare questa situazione – entro cui fermentano e si sviluppano, potenziandosi, le concrete diseguaglianze umane –, individuando il luogo reale in cui tale superamento possa avvenire e fondando, in questo modo, il vivere libero dell’uomo. Nel 1843-44, per Marx questo luogo è costituito dall’uomo «generico» feuerbachiano, il quale nell’unità del «genere» (Gattung) riunifica, superandola, l’opposizione tra ‘politica’ ed ‘economia’, ponendo le condizioni antropologiche e sociali di una nuova epoca dell’umanità nella quale è, strutturalmente, tolta la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio. Come è ben noto, Marx si libererà nel giro di pochi mesi da questa impostazione di matrice feuerbachiana imperniata nel primato del «genere», con il quale si era conclusa la Questione ebraica, e già nell’Ideologia tedesca collocherà al centro della sua analisi i rapporti materiali di produzione, dando al proletariato caratteri assai più chiari e precisi di quanto avesse fatto nella Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, pubblicata nel 1844 negli «Annali franco-tedeschi». In breve, metterà da parte il «genere» e comincerà a mettere a fuoco la dimensione della «classe», secondo una linea di ricerca che resterà centrale in tutto il corso della sua riflessione. Ma né allora, né poi assumerà come centrale, nella sua prospettiva, il problema della democrazia politica e delle forme attraverso cui essa si struttura. Sia che faccia perno sull’uomo «generico» di Feuerbach, sia che basi la sua analisi sulla «classe», Marx resta sostanzialmente disinteressato alla questione della democrazia politica come al problema dello Stato. Si muove in una prospettiva che supera la contraddizione tra ‘Stato’ e ‘società civile’, dissolvendo l’uno e l’altra, dischiudendo un orizzonte di carattere «ultrapolitico» e «ultrademocratico», l’unico in grado – ai suoi occhi – di realizzare la concreta libertà dell’uomo. In Marx, si potrebbe dire, esiste fin dai primi scritti una vera e propria ‘ontologia della libertà’, che, per intrinseche ragioni strutturali, cancella il problema delle forme concrete della democrazia politica. Nelle sue pagine mancano, di conseguenza, sia un’analisi

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delle forme democratiche, sia un’analisi dello Stato borghese o una riflessione sullo Stato socialista – a meno di non voler ritenere tali le sue considerazioni sulla Comune di Parigi, nelle quali la democrazia diretta – e non delegata – è esaltata in frontale opposizione con lo Stato politico moderno e il primato dell’‘amministrazione’ che lo caratterizza fin dall’epoca dell’assolutismo (punto, questo, sul quale – come si è visto – concorda con Tocqueville). Ma tra Marx e Tocqueville c’è una differenza basilare: per Tocqueville, la democrazia – cioè l’eguaglianza delle condizioni – indebolisce la struttura umana, depotenziando il principio della libertà, che si esprime e si realizza nel conflitto tra gli individui e tra i poteri, che in questo modo si bilanciano e si controllano, così come nell’epoca dell’assolutismo il potere monarchico è stato contenuto dal «contrafforte» della nobiltà; per Marx la democrazia è la integrale realizzazione della «costituzione politica», la quale è il «libero prodotto dell’uomo». In questo senso, la ‘vera’ democrazia – cioè l’«ultrademocrazia» – è l’incarnazione sostanziale dell’uomo, si tratti del «genere» oppure della «classe». Su questo punto in Marx, pur nelle differenze profonde, c’è un elemento di continuità. Proprio qui sta la sua radicale diversità da Tocqueville: nella concezione della democrazia, del rapporto tra eguaglianza e libertà. Intesa come «eguaglianza delle condizioni», la democrazia postula per Tocqueville una forte libertà politica, unico effettivo «contrafforte» contro il livellamento, la stasi, la decadenza dell’individuo e della società; concepita, invece, come dimensione ‘sostanziale’ dell’umanità, essa, in effetti, cancella il problema politico della democrazia, perché cancella la contrapposizione tra ‘Stato’ e ‘società civile’ da cui – a giudizio di Marx – esso scaturisce e assume senso; un senso mistificatorio, perché occulta e deforma la realtà concreta delle cose. In Marx si possono trovare molte osservazioni decisive – a cominciare, naturalmente, dall’analisi del rapporto tra «capitale» e «lavoro»; ma nelle sue pagine non c’è una riflessione organica sulla democrazia politica e le sue forme. E non c’è perché non poteva esserci: dal suo punto di vista, libertà politica e democrazia sono unum et idem. Con una conseguenza che può apparire, a prima vista, paradossale: Tocqueville che accetta, senza amarla, la democrazia, si interroga, in nome della libertà, sulle strutture politiche democratiche, sottoponendole a una critica severa; mentre Marx, che glorifica la demo-

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crazia fin dai suoi scritti giovanili, identificando libertà e democrazia, non pone, e non affronta, il problema delle forme politiche della libertà, aprendo questioni che nel Novecento esploderanno in forme aspre e anche tragiche. Marx è sostanzialmente disinteressato alla discussione sul rapporto tra ‘libertà degli antichi’ e ‘libertà dei moderni’ che Constant aveva aperto nel 1819 con il suo memorabile discorso all’Athénée Royale di Parigi. La democrazia diretta – questa era stata la sostanza del suo ragionamento – è praticabile solo nelle piccole comunità, mentre le società moderne possono essere positivamente governate solo attraverso un governo di tipo rappresentativo, il quale è esercitato in nome dei cittadini, ma con una precisa separazione tra «governanti» e «governati». In questo modo, i «governati» avrebbero però avuto il vantaggio di potersi godere pacificamente la propria «indipendenza», mentre le «sfere private», sottratte al primato della politica, si sarebbero potute affermare nella loro autonomia e specificità. Insomma: da un lato, Stato; dall’altro, società civile. Constant comprende i problemi che possono derivare da questa separazione tra ‘vita’ e ‘politica’, e li dichiara in modo esplicito: «Il pericolo della libertà moderna è che, assorbiti nel godimento dell’indipendenza privata e nel perseguimento dei nostri interessi particolari, rinunciamo con troppa facilità al nostro diritto di partecipazione al potere politico»2. Sono, precisamente, i rischi che inducono Tocqueville a sottolineare, nel mondo moderno, il valore e il potere delle associazioni, le quali, per quanto artificiali, possono costituire un fondamentale punto di raccordo tra ‘politica’ e ‘vita’, tra ‘Stato’ e ‘società civile’. Marx discute a più riprese delle repubbliche e degli Stati antichi, contrapponendo, ad esempio, nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, gli «Stati antichi» – nei quali «lo Stato politico forma il contenuto dello Stato con esclusione delle altre sfere» – allo Stato moderno, che è un «accomodamento tra Stato politico e Stato non politico». In Grecia, ad Atene la politica è il principio 2   B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, traduzione e cura di G. Paoletti, con un Profilo del liberalismo di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 2001, p. 32.

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costitutivo del vivere comune, mentre le «sfere private» non esistono; «presso i Greci la società civile era schiava di quella politica». E ancora: «in Grecia, la cosa pubblica è l’affare privato reale, il reale contenuto dei cittadini, e l’uomo privato è schiavo, lo Stato politico come tale essendo il vero unico contenuto della loro vita e della loro volontà»3. In altri termini, nel mondo antico non c’è la distinzione fra ‘Stato’ e ‘società civile’, in cui si esprime il connotato specifico della modernità: «La differenza dello Stato moderno da questi Stati, in cui c’è unità sostanziale fra popolo e Stato [...] consiste in ciò, che la costituzione stessa è diventata una particolare realtà accanto alla reale vita popolare; che lo Stato politico è diventato la costituzione del resto dello Stato». Come si è detto, alla discussione sul rapporto, e le differenze, tra ‘libertà degli antichi’ e ‘libertà dei moderni’, Marx è sostanzialmente estraneo: nella Critica, e nella Questione ebraica, egli vuole proiettarsi nella direzione della integrale emancipazione umana – dell’uomo come «genere», quale ente comunitario –, oltre la dimensione politica in senso proprio. Ai suoi occhi, la politica o è troppo – come avviene nel caso di Bauer, il quale vede nell’emancipazione politica l’emancipazione dell’uomo, a iniziare dalla religione; oppure è troppo poco, se si vuole realizzare l’emancipazione umana. Al fondo, Marx vuole andare oltre sia la libertà degli ‘antichi’ che quella dei ‘moderni’, individuando il terreno effettivo nel quale l’emancipazione umana possa realizzarsi in modo compiuto. Da questo punto di vista – si è già cominciato a vederlo – la sua prospettiva è opposta a quella di Tocqueville: se quest’ultimo individua nella democrazia la radice di un vero e proprio indebolimento antropologico al quale si può cercare di trovare rimedi di carattere artificiale, senza farsi trop3   Cfr. K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, trad. di G. della Volpe, con aggiunte di C. Pizzingrilli, Prefazione di A. Negri, Quodlibet, Macerata 2008. Nel testo faccio riferimento alle pagine 69-73, nelle quali Marx presenta in abbozzo la sua teoria della democrazia. Dato il carattere dell’analisi – e il numero ristretto delle pagine – non faccio rinvii specifici, volta per volta, per non appesantire la lettura. Segnalo, invece, quando preferisco usare K. Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, traduzione e commentario di R. Finelli e F.S. Trincia, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983, pp. 79-83. Naturalmente ho tenuto presente anche il testo tedesco: K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, in K. Marx, F. Engels, Werke, Dietz Verlag, Berlin 1964, vol. I, pp. 203-391 (in modo particolare pp. 230-233). Faccio invece rinvii specifici quando si tratta di altre pagine della Critica o di altre opere di Marx.

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pe illusioni; per Marx con la democrazia «è l’idea della costituzione politica che viene finalmente adeguata alla realtà»4. Adeguata e oltrepassata: la democrazia è il terreno nel quale il popolo si determina – anzi si autodetermina – in modo compiuto, fondando, e oltrepassando, la dimensione politica e la contraddizione da cui essa, nel mondo moderno, è stata generata. E il terreno su cui, per Marx, questo avviene è il potere legislativo, al quale Tocqueville guarda, invece, con massimo sospetto, sia in Europa che in America, memore – come si è visto – della esperienza della Convenzione e del Terrore giacobino, individuando in esso la matrice effettiva della «tirannide della maggioranza», cioè del moderno dispotismo su base ‘popolare’. Nella Critica del 1843 c’è un gruppo di pagine assai intense concentrate proprio sulla questione della democrazia, che si intrecciano, ed aprono la strada, alla Questione ebraica, rendendo più chiari caratteri e obiettivi di questo scritto straordinario. La democrazia – spiega subito Marx – è la verità della monarchia, la monarchia non è la verità della democrazia. La monarchia è necessariamente democrazia come inconseguenza verso se stessa; l’elemento monarchico non è un’inconseguenza nella democrazia [...].

Alla base del ragionamento di Marx c’è un giudizio netto, espresso senza mezzi termini: «la democrazia è il genus della costituzione»; in essa si saldano «forma» e «contenuto». La monarchia è invece una specie – e assai misera – di costituzione; essa separa «forma» e «contenuto»; anzi è una «forma» che falsifica il «contenuto». A differenza della monarchia, invece la «democrazia può essere concepita per se stessa» e in essa ciascun elemento «è realmente solo un momento dell’intero demos»; mentre la monarchia è un sistema centripeto, in cui una «parte» determina «il carattere del tutto». Ciò che definisce, rispettivamente, forma e qualità della democrazia e della monarchia – e fonda il giudizio di Marx – è il rapporto dell’una e dell’altra con il popolo: «Nella monarchia il tutto, il popolo, è sussunto sotto uno dei suoi modi di esistere, la costituzione politica; nella democrazia la costituzione stessa appare semplicemen4   C. Luporini, Introduzione a K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1967, p. xxxviii.

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te come una determinazione, cioè autodeterminazione del popolo». Qui il popolo è il soggetto, il protagonista. Non solo: mentre nella monarchia il popolo è semplificato, ridotto a una sola forma di esistenza nell’ordine politico dello Stato, nella democrazia «lo stato politico è [...] solo un particolare contenuto, un particolare modo di esistere del popolo». È un punto su cui Marx insiste, considerandolo evidentemente centrale: «nella monarchia, ad es., la costituzione politica, questo particolare, ha il significato dell’universale che domina e determina tutto il particolare. Nella democrazia lo Stato, in quanto particolare, è soltanto particolare, e in quanto universale reale, cioè niente di determinato che sia distinto dall’altro contenuto». Alla base del ragionamento, e del giudizio, di Marx, c’è, in altre parole, la drastica messa in questione del rapporto tra ‘Stato’ e ‘società civile’, quale era stato proposto da Hegel. Nella monarchia – anche «nella repubblica come forma particolare di Stato» – accanto all’«uomo politico», c’è l’«uomo privato»; cioè – e più ampiamente – accanto allo Stato politico, secondo un rapporto di «forma» e «contenuto», ci sono «modi di esistenza particolari» – «proprietà», «contratto», «matrimonio», «società civile»: rispetto ad essi, che sono il «contenuto», lo Stato politico è «la relativa forma organizzatrice, e propriamente solo come intelletto, senza contenuto in se stesso, determinante e limitante, e che ora afferma e ora nega» («intelletto» –Verstand –: e già nell’uso di questo lemma – di chiara matrice hegeliana – sono evidenti il senso e la direzione della critica di Marx). Nella democrazia questo ‘modello’ è completamente contestato e dissolto: lo Stato è solo un «particolare» contenuto, senza alcuna funzione di carattere generale; anzi – si è già visto – è «un particolare modo di esistere del popolo». E questo – come hanno sottolineato i «francesi moderni» – significa che nella «vera democrazia» lo Stato perisce, scompare: il che, incalza Marx, «è giusto, nel senso che esso, quale Stato politico, quale costituzione non vale più per il tutto». Del resto, si tratta solo della presa d’atto di un fatto reale: in tutti gli Stati diversi dalla democrazia, lo Stato, la «costituzione», la legge, a differenza di quanto pretenderebbero, non riescono effettivamente a dominare e a penetrare «materialmente» il contenuto delle sfere non politiche; non riescono cioè a svolgere quella funzione generale che, in quanto «intelletto», ambirebbero a svolgere. A differenza di quanto avviene nella democrazia, e per un motivo fondamentale,

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che ne conferma la superiorità: qui Stato, legge, «costituzione» sono una «autodeterminazione del popolo», «un contenuto determinato del popolo», nella misura in cui questo contenuto del popolo «è costituzione politica». Nella democrazia è il popolo che si oggettiva nello Stato, nella legge, nella costituzione. E con questo torniamo al punto di partenza: è la relazione con il «popolo» che fonda la «verità», e la superiorità, della democrazia che, perciò, è pietra di paragone di tutte le «forme politiche»: esse «hanno come loro verità la democrazia» e «in quanto non sono democrazia non sono vere». In questo senso, effettivamente la democrazia è «l’enigma risolto di tutte le costituzioni», perché riconduce la costituzione al «suo reale fondamento, all’uomo reale, al popolo reale» e la pone «come opera propria di esso». Opera reale, non mistificata sul piano speculativo: esistenza, cioè, non essenza. Nella democrazia si ragiona, infatti, in termini di esistenza, di realtà; qui la costituzione appare per quello che essa effettivamente è: «libero prodotto dell’uomo». La costituzione politica è precisamente la libera organizzazione del popolo che si organizza sul piano della forma politica, la quale non coincide, immediatamente, con lo Stato: nella democrazia «la costituzione forma in generale soltanto un elemento di esistenza del popolo» e «la costituzione politica per sé non forma lo Stato»5. C’è tensione tra «costituzione» e Stato: non si risolvono, in modo immediato, l’una nell’altro, e questo per un motivo propriamente ontologico: il popolo è una pluralità di ‘contenuti’, senza un primato dell’uno – in questo caso dello Stato – sugli altri, in nome di una presunta universalità organizzatrice, priva in quanto tale di un contenuto proprio. Punto centrale, questo, perché Marx – facendo perno sulla democrazia – vuole tenere aperta la prospettiva della fine dello Stato – dell’«ultrapolitica» – come è apparso chiaro dal riferimento ai «francesi moderni», e come si vedrà in modo compiuto nelle battute finali della Critica. E per questo tiene fisso l’occhio sul popolo, sulla esistenza del popolo, la quale si svolge in una pluralità di ambiti, dei quali la politica – anzi l’autodeterminazione politica nella «costituzione» – è solo un momento.

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  Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., pp. 79-80.

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In questa riflessione sono dunque evidenti due movimenti: la politica è solo un momento della esistenza; lo Stato è un momento della politica: tanto è vero che in democrazia si può parlare di «fine dello Stato». A Marx non interessano, in effetti, né lo Stato né la politica: gli interessa svolgere una critica dell’una e dell’altro attraverso il principio del rovesciamento soggetto/predicato, riportando alla luce il soggetto reale che produce la costituzione; nel caso della democrazia, una costituzione che si risolve nella sua stessa dissoluzione, cioè nella «fine dello Stato». La politica, lo Stato, è un «contenuto» tra altri ‘contenuti’ – ribadisce Marx, spezzando con massima consapevolezza la falsa ‘universalità’ dello Stato; non un generico Stato, ma lo Stato moderno. È questa concezione della democrazia – la quale tende a superare la dimensione dello Stato – che diventa, lo vedremo più avanti, criterio di giudizio di tutta la politica moderna. Il lessico di Marx è eloquente in queste pagine: ciò che gli interessa è andare alla radice, afferrare il fondamento effettivo, la realtà, l’esistenza: un lemma che, contrapposto ad essenza, torna in modo quasi ossessivo in queste poche righe (modi di esistenza, esistenza legale, esistenza umana, forme di esistenza, esistenza particolare...). Gli interessa, insomma, afferrare, e mettere a fuoco, il soggetto reale – cioè il «popolo» –, distruggendo il procedimento speculativo – e il rovesciamento tra «soggetto» e «predicato» – su cui esso è fondato ed applicando sul piano strettamente politico l’insegnamento di Feuerbach, come del resto egli stesso dichiara in modo palese. La democrazia capovolge il punto di vista di Hegel, rimettendo il mondo «sui piedi»: «Hegel parte [...] dallo Stato e fa dell’uomo lo Stato soggettivato; la democrazia parte dall’uomo e fa dello Stato l’uomo oggettivato». In Hegel agisce il rovesciamento di «soggetto» e «predicato»: da «predicato» lo Stato diventa «soggetto»; nella democrazia l’uomo è il «soggetto», lo Stato è il «predicato», in quanto oggettivazione dell’uomo. E questo vale anche per la costituzione: «Come non è la religione che crea l’uomo, ma è l’uomo che crea la religione, così non la costituzione crea il popolo, ma il popolo la costituzione». La «costituzione» è il «predicato»; così come Dio, la religione sono i «predicati»: in entrambi i casi è l’uomo il «soggetto». Qui, come si vede, è in piena azione la lezione di Feuerbach, sia per il ‘metodo’ usato, sia per il nesso che Marx stabilisce tra ‘politica’ e ‘religione’, fra democrazia e cristianesimo.

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La democrazia sta, sotto un certo punto di vista, a tutte le altre forme politiche come il cristianesimo sta a tutte le altre religioni. La prima è l’«essenza di ogni costituzione politica»; il secondo «l’essenza della religione»: la democrazia è l’archetipo – l’idea madre, direbbe Tocqueville – di ogni forma dello Stato, come il cristianesimo è l’archetipo di ogni religione. La democrazia è la pietra di paragone di tutte le forme dello Stato, come il cristianesimo è la pietra di paragone di ogni religione. Ma dal punto di vista di Marx – incentrato sul primato dell’esistenza – la dimensione dell’essenza non basta. Gli interessa intrecciare ‘forma’ e ‘contenuto’, ‘universale’ e ‘particolare’, in polemica frontale con l’universalismo «astratto» di matrice speculativa. Precisa, perciò, subito dopo che il cristianesimo è «l’uomo deificato», ma «in una particolare religione»; così come la democrazia è «l’uomo socializzato», ma «in una particolare costituzione politica». Essa, come ha già spiegato prima, «sta alle altre costituzioni come il genere alle sue specie»; «solo che qui – ed è il punto centrale del suo ragionamento – il genere stesso si manifesta come esistenza, e però come una particolare specie di fronte alle esistenze non corrispondenti all’essenza». Sul filo dello stesso ragionamento, va riconcepito anche il concetto di ‘legge’: non è l’uomo che esiste per la legge, ma la legge esiste per l’uomo. Mentre nelle altre forme politiche l’uomo si riduce ad «esistenza legale», nella democrazia la legge è «esistenza umana»; è, appunto, un libero prodotto dell’uomo. Questa, ribadisce Marx, è la «differenza fondamentale della democrazia»; e in questo modo essa si confronta – superandole – con tutte le altre forme politiche. Esse sono il suo «Vecchio Testamento». Il ritmo del ragionamento di Marx è quello di una continua, programmatica specificazione. Prima parla di essenza della religione e di essenza di ogni costituzione in generale; poi specifica: non religione, ma cristianesimo; non costituzione, ma democrazia. Infine specifica ulteriormente: deificazione dell’uomo, ma attuata in una particolare religione, quella cristiana; socializzazione dell’uomo, ma attuata in una particolare costituzione statale, quella democratica. In entrambi i casi l’essenza si specifica in una particolare esistenza. La democrazia è un genere ed una specie: oltre che il fondamento di tutte le costituzioni, è una particolare costituzione politica, una esistenza; è specificandosi che essa dimostra effettivamente la sua superiorità e la sua verità.

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In conclusione, «nella democrazia il principio formale è al tempo stesso il principio materiale. Essa è dunque, primieramente, la vera unità dell’universale e del particolare». Qui, in fine, si intrecciano essenza ed esistenza, senza alcun primato dell’universale «astratto»: nella «vera» democrazia l’«essenza» – cioè lo Stato politico inteso come «forma organizzatrice», «intelletto» che determina e delimita – si dilegua, scompare; qui «lo Stato astratto ha cessato di essere il momento dominante». Tutto il lavoro di Marx, in queste densissime pagine, consiste nell’individuare un nesso organico fra ‘forma’ e ‘contenuto’, fra ‘particolare’ e ‘universale’, fra ‘esistenza’ ed ‘essenza’, ma muovendo dal ‘basso’, dall’esistenza, e tenendo fermo il fondamento dell’intero: l’uomo reale, il popolo reale. È questa la leva teorica di tutto il suo ragionamento, nel quale si intrecciano, in modo evidente, motivi ontologici, logici e politici. Attraverso la democrazia Marx vuole ritrovare il fondamento reale, così come Feuerbach attraverso la critica della religione aveva ritrovato l’uomo concreto. La democrazia è la dimensione del «concreto», del «reale», fino al punto da proiettarsi oltre la stessa forma dello Stato, ma senza cadere – e questo ovviamente è essenziale – nella «immediatezza medioevale». Critica della religione e critica della politica e dello Stato hanno dunque questo in comune: il dissolvimento dell’«astratto» e la affermazione del «concreto», dell’esistenza. Ma attraverso la democrazia – e l’interpretazione che Marx ne dà –, in questione (si è già accennato) è il giudizio sul carattere della modernità, che si è costituita attraverso il processo di «astrazione» della politica e dello Stato, distaccandosi dalla «democrazia della illibertà» propria del Medioevo. Sono due processi connessi, nell’epoca moderna: la costituzione politica «come tale» si sviluppa solamente dove si sviluppano, nella loro indipendenza, le sfere private. Dove, come nel Medioevo, commercio e proprietà privata non erano liberi, non era libera neppure la costituzione politica. Qui le classi della società politica e le classi in senso politico erano identiche; la società civile coincideva con la società politica: «perché il principio organico della società civile era il principio organico dello Stato»; non c’era separazione tra l’uno e l’altro. Al contrario, «la separazione delle classi civili e politiche esprime il vero rapporto della moderna società civile con

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quella politica»6. In questa separazione consiste il carattere distintivo della modernità. Con la modernità si è usciti dalla immediatezza e dalla confusione medioevale, dalla «democrazia della illibertà»: in questo processo si è espresso un elemento di libertà reale, concreta. È stato un grande passo in avanti; ma non è stato semplice: anzi, «il più difficile» – scrive Marx – è stato, appunto, «formare lo Stato politico, la costituzione, dai diversi momenti della vita del popolo». È questo il secondo tema, di natura schiettamente filosofico-storica, che Marx affronta in queste pagine: la formazione dello Stato politico, della costituzione politica, specificando subito quale sia stato l’esito del processo (al quale si è già fatto riferimento): «Negli Stati antichi lo Stato politico costituisce il contenuto dello Stato con l’esclusione delle altre sfere; lo Stato moderno è un compromesso tra Stato politico e quello non politico». Il punto dal quale Marx prende le mosse è questo: il «contenuto» dello Stato e del diritto non si lascia influenzare dalle forme. Esso vive, allo stesso modo, in forme diverse, o opposte: come monarchia o repubblica. C’è una separazione tra ‘forma’ e ‘contenuto’: «il contenuto dello Stato si trova al di fuori di queste costituzioni [...]». Lo stesso conflitto tra repubblica e monarchia si situa, e si risolve, nell’ambito dello «Stato astratto»: qui la repubblica politica rappresenta la democrazia. Non è poca cosa, certo: quando si parla di repubblica si ha a che fare, sul piano politico, con il venire avanti della democrazia. La repubblica è la forma politica della democrazia, nello Stato moderno. Come si legge nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte, «La repubblica non è altro, in generale, che la forma in cui si compie la trasformazione politica della società borghese [...]»7.

  Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., p. 179.   K. Marx, F. Engels, Il 1848 in Germania e in Francia, traduzione di P. Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma 1948, p. 265 (G. Giorgetti, nella sua traduzione, a trasformazione preferisce rovesciamento: cfr. K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 61). È un testo assai interessante, perché esso riflette anche in questo caso l’incidenza su Marx di Tocqueville, evidente, a mio giudizio, nel riferimento agli «Stati Uniti d’America, dove classi sociali esistono già senza dubbio, ma non si sono ancora fissate, e in un flusso continuo modificano continuamente le loro parti costitutive e se le cedono; dove i moderni mezzi di produzione, invece di coincidere con un eccesso di popolazione stagnante, compensano piuttosto la relativa scarsezza di teste e di braccia; e dove infine lo 6 7

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Se si considera la repubblica dal punto di vista della democrazia, essa però «cessa di essere la costituzione semplicemente politica»; si situa in un orizzonte diverso che è, al fondo, ultrastatale, ultrapolitico (ed è precisamente di questo che Marx è alla ricerca nella Critica). Ma nell’ambito dello Stato astratto, sotto forme diverse – repubblica o monarchia – possono stare gli stessi contenuti: «la proprietà etc., in breve tutto il contenuto del diritto e dello Stato, è, con poche modificazioni, il medesimo sia nell’America che in Prussia. Là la repubblica è dunque una semplice forma politica come è qui la monarchia [...]». Su questo piano non ci sono differenze reali tra repubblica e monarchia. Hegel ha perciò ragione, secondo Marx, quando dice: «lo Stato politico è la costituzione, cioè lo Stato materiale non è politico», perché qui l’«identità» è solo esteriore, c’è una reciproca estraneità, senza che lo Stato riesca a penetrare «materialmente» le sfere non politiche. Appunto per questo, «formare lo Stato politico, la costituzione, dai diversi momenti della vita del popolo», non è stato facile; anzi, riscattare la dimensione dello Stato è stato «il più difficile», specie dopo la lunga crisi medioevale, quando «gli Stati della società civile erano [...] come tali, nello stesso tempo degli Stati legislativi, perché non erano degli Stati privati, ossia perché gli Stati privati erano degli Stati politici»8. È su questo processo che ora Marx si concentra. Mantenendo fermo il rapporto tra costituzione e popolo, si interroga su un problema che coinvolge, in modo diretto, il giudizio sulla modernità, il suo carattere e i suoi limiti: come si è costituito lo Stato moderno; quali ne sono state le caratteristiche; come si è strutturato, lungo la modernità, il rapporto fra Stato e popolo. E lo fa, naturalmente, per delineare la sua prospettiva sia teorica che politica, nell’ambito – come si vede – di una precisa filosofia della storia. Nella modernità lo Stato si giustappone, nella sua universalità, alle sfere non politiche, diventandone il principio generale di organizzazione, determinando il carattere dell’«intero» dal suo punto di

slancio giovanilmente febbrile della produzione materiale, che deve conquistarsi un mondo nuovo, non ha lasciato né il tempo né l’opportunità di far piazza pulita del vecchio mondo spettrale» (ivi, pp. 265-266). Sono, come si vede, i temi della prima Democrazia in America. 8   Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., p. 180.

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vista specifico. La differenza tra le polis greche e la despotia asiatica e il mondo moderno sta nel fatto che in esso «la costituzione stessa è diventata una particolare realtà accanto alla reale vita popolare»9; sta cioè nel fatto che qui si è verificata la «separazione» della «società civile» dallo «Stato politico». Nella modernità, la «società civile» appare come un «modo di esistenza particolare», come il «contenuto, di cui lo Stato politico è la relativa forma organizzatrice [...]». E l’una e l’altro sono in una situazione di reciproco conflitto e contraddizione, come ha mostrato lo stesso Hegel, il quale «ha opposto l’universale in sé e per sé dello Stato al particolare bisogno e interesse della società civile»10. Qui lo Stato – come «intelletto senza contenuto» – tende ad affermare il suo dominio sulle «sfere particolari», riducendo anche la politica al punto di vista «universale» – ma vuoto – dello Stato. Su questi temi Marx si era già soffermato in precedenza, stabilendo la differenza tra monarchia e democrazia, che non gerarchizza i momenti secondo un ordine precostituito: «nella democrazia nessuno dei suoi elementi assume un significato diverso da quello che gli spetta»; in questo senso, la democrazia si proietta oltre la modernità – se questa è la concezione moderna dello Stato e del rapporto tra la sfera dello Stato e le altre sfere. Ora ritorna sul tema in termini generali, da un punto di vista filosofico-storico: rispetto allo Stato, le «sfere particolari» hanno cercato di rivendicare il loro ruolo, sforzandosi di far valere il loro punto di vista. Ma esse non sono riuscite a comprendere il senso della loro stessa rivendicazione, e ciò che essa comporta: una coscienza critica di ordine generale su se stesse e sull’intero. È mancata loro coscienza, consapevolezza: non hanno afferrato né il senso e il carattere dell’intero, né, in questo quadro, la loro funzione e il carattere della loro figura storico-sociale. In tanto esse sono ciò che sono, in quanto c’è quello Stato; se esso cade, viene meno anche la dimensione «privata» nella quale le «sfere particolari» sono collocate. Infatti, in quella forma, sono parte di un intero; ma esse non sono riuscite ad intendere il nesso tra quello Stato «astratto» e la dimensione di «privatezza» e di «alienazione» in cui si trovano; e non sono state perciò capaci di svolgere una critica effettiva dello Stato, comprendendo la radice della loro stessa alienazione.   Ivi, p. 76.   Ivi, p. 181.

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Ma questo – osserva Marx, che ha ovviamente presente la critica di Feuerbach – avrebbe richiesto ben altra coscienza del rapporto tra politica e religione, e un’analisi specifica del rapporto tra politica e religione nello Stato moderno, e della funzione svolta, in questo quadro, dalla «trascendenza»: le sfere particolari non hanno compreso come «il loro essere privato cada con la trascendenza della costituzione, ossia dello Stato politico, e che l’essere trascendente dello Stato non è nient’altro che l’affermazione della loro propria alienazione». In altre parole, quello che occorreva fare era una critica generale del «sistema»; non una rivendicazione specifica – e unilaterale – del proprio ruolo. Le «sfere particolari» avrebbero dovuto, cioè, alzare il livello della loro coscienza, mettendo in discussione l’«intero» di cui sono parte, non cercando spazio in quell’«intero», ma mettendolo in questione fin dalle fondamenta. Invece non sono scese alla radice del problema – della loro effettiva alienazione. Ma per far questo, si è già visto, avrebbero dovuto spostare il loro punto di vista, interrogandosi, in modo esplicito, sul rapporto politica/religione: nel mondo moderno, l’astrazione politica è, in effetti, direttamente, una forma di astrazione religiosa. La costituzione politica – scrive Marx – fu sino ad ora la sfera religiosa della vita del popolo, la religione della vita del popolo, il cielo della sua universalità rispetto all’esistenza terrestre della sua realtà. La sfera politica fu la sola sfera nello Stato, l’unica sfera in cui il contenuto fu generico come la forma, fu il vero universale, ma al contempo in tal modo che, con l’opporsi di questa sfera alle altre, il suo contenuto divenne anch’esso un contenuto formale e particolare.

Nello Stato politico non c’era rapporto tra la sfera dello Stato e le altre sfere, se non di separazione, di opposizione: nello Stato, la sfera politica si è opposta alle altre sfere, esprimendo, in questo modo, un punto di vista specifico, determinato. E così esso è venuto meno alla sua universalità, diventando un contenuto tra altri contenuti. Ma non come avviene in democrazia: in modo surrettizio, pretendendo di essere universale, mentre si tratta di un «contenuto formale e particolare» – cioè privo di concretezza, vuoto, astratto, senza agganci con la realtà: «la vita politica nel senso moderno è lo scolasticismo della vita del popolo», totalmente distante dall’esistenza concreta, terrena.

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Un punto comunque resta chiaro – e Marx lo ribadisce alla fine di questo breve schizzo – e concerne la novità del ‘moderno’: la «costituzione» politica si può avere solo nella modernità, quando le sfere private hanno raggiunto una esistenza autonoma; quando, in altre parole, viene meno la confusione tra ‘Stato’ e ‘società civile’. Se c’è confusione tra l’uno e l’altra, non c’è «costituzione» politica in senso moderno; si resta nel Medioevo. Il mondo moderno è invece andato in direzione della reciproca separazione e, perciò, della astrazione. Tra «astrazione» dello Stato e «astrazione» della vita privata c’è una relazione diretta: sono esiti dello stesso processo. Questo è il carattere specifico della modernità: «L’astrazione dello Stato come tale appartiene solamente al tempo moderno, perché l’astrazione della vita privata appartiene solamente al tempo moderno. L’astrazione dello Stato politico è un prodotto moderno». Se l’età medioevale congiunge le sfere «pubbliche» e «private» in una cattiva concretezza, nel tempo moderno le «sfere private» hanno acquistato indipendenza, e in questo consiste il passaggio – di straordinario rilievo – dal Medioevo alla modernità, sia per lo Stato che per la società civile: «là dove il commercio e la proprietà fondiaria non sono liberi, non sono ancora diventati indipendenti, non lo è neanche la costituzione politica. Il Medioevo era la democrazia della illibertà». Nel Medioevo – questo è il punto decisivo – «ogni sfera privata ha un carattere politico o è una sfera politica, o la politica è anche il carattere della sfera». Non c’è distinzione fra la costituzione politica e il «contenuto materiale dello Stato», la società: qui «la costituzione politica è la costituzione della proprietà privata, ma solo perché la costituzione della proprietà privata è una costituzione politica». Il tempo moderno è, invece, il tempo della separazione fra Stato politico e «contenuto materiale», mentre nell’età medioevale ‘forma’ e ‘contenuto’ coincidevano senza alcuna mediazione, generando una condizione di universale servitù. «Nel Medio Evo – insiste Marx – vita del popolo e vita dello Stato sono identiche. L’uomo è il reale principio dello Stato, ma l’uomo non libero», perché qui non c’è libertà, non c’è riconoscimento della indipendenza della sfera politica e delle sfere private, il vero frutto della modernità. Il Medioevo è perciò «la compiuta alienazione», l’antitesi completa della democrazia: è la democrazia della non libertà. Quella «concretezza» che allora corrispondeva ad una universale servitù non c’è più nel mondo moderno: qui si passa dal ‘concreto immediato’ all’‘astratto riflesso’; due limiti, ma di valore del tutto diverso. Nel

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mondo moderno c’è conflitto, contraddizione tra ‘Stato’ e ‘società civile’ – e questo, rispetto al Medioevo, è un deciso passo in avanti; si tratta, però, di una opposizione riflessa, astratta: e questo è il limite del processo moderno. Ma da tale opposizione è scaturita la ‘libertà dei moderni’, e da qui deve prendere le mosse la costituzione della «democrazia della libertà». Essa – perciò Marx si confronta così intensamente con Hegel in queste pagine – deve attraversare il processo moderno dell’«astrazione» per non ricadere nella cattiva immediatezza. «L’opposizione astratta, riflessa, appartiene solo al mondo moderno. Il Medioevo è il dualismo reale, l’età moderna è il dualismo astratto». Così intesa, l’astrazione moderna è un grado del processo dell’uomo verso la libertà, l’autodeterminazione: nel mondo moderno c’è stata una esperienza, sia pur astratta, della libertà. La politica, e la libertà – sia pure in questa forma – sono un grande risultato dell’epoca moderna. Muovendo di qui – cioè dal punto più alto del ‘moderno’ –, la democrazia deve situarsi in un orizzonte del tutto nuovo, mettendo fine al tempo dell’«astrazione» ed assumendo come proprio principio il fondamento reale, l’esistenza concreta: in una parola, il popolo. Ma a definire la democrazia non è sufficiente il ‘principio’ del popolo: è pur esistita nel Medioevo una «democrazia della illibertà». Il problema di Marx, quando scrive la Critica e La questione ebraica, è come tenere fermo il grande passo in avanti fatto dal mondo moderno rispetto al Medioevo, riaffermando – al tempo stesso – il primato della «esistenza», del fondamento reale che nel mondo moderno è venuto meno, si è dileguato. Ma in queste pagine Marx, come si è visto, non si confronta solo con il mondo moderno; entro una prospettiva di filosofia della storia si misura con la concezione della democrazia del mondo antico, oltre che con quella propria del Medioevo; fa cioè un discorso complessivo sulla democrazia, e di qui fa scaturire la superiorità – e la verità – della concezione che egli propone. «Presso i Greci la società civile era schiava di quella politica», scrive, in modo veloce e conciso, ma esprimendo con chiarezza il suo punto di vista11. E poco prima aveva affermato: «In Grecia [...]

  Ivi, p. 180.

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l’uomo privato è schiavo». Insomma, nelle polis greche «lo Stato politico non appare ancora come la forma dello Stato materiale»12. In altre parole, qui non c’è distinzione, e separazione, tra Stato e società civile. C’è un dominio completo della politica, e dello Stato politico, sul vivere comune. A Marx questa concezione dello Stato come «il vero, unico contenuto» della «vita» e delle «volontà» dei cittadini appare immediata, «pan-politica»; non coglie la distinzione – e la separazione – tra le sfere del vivere umano. Essa riduce la multilateralità dell’uomo in quanto «genere» a un solo lato, a un solo aspetto: ed è questa unilateralità che Marx vuole superare (come appare chiaro anche dal riferimento critico a Rousseau nella pagina finale della Questione ebraica). Qui la libertà è ridotta a un solo lato, e da questo punto di vista può avere esiti potenzialmente dispotici; né è casuale se Marx, dopo aver citato la Grecia, evoca proprio la «despotia asiatica», nella quale «lo Stato politico non è che l’arbitrio di un singolo individuo», e in cui «lo Stato politico, come lo Stato materiale, è schiavo»13. Quale sia il suo giudizio sul Medioevo, si è già osservato: l’uomo «è il reale principio dello Stato, ma l’uomo non-libero»: qui la democrazia – in quanto democrazia della non-libertà – coincide, sostanzialmente, con il dispotismo. Tutti eguali e tutti servi del signore: non c’è spazio per una vita del popolo che non sia quella della servitù. Qui il politico, lo Stato, è una espressione diretta, immediata, del «contenuto materiale». La democrazia della libertà alla quale pensa Marx, e di cui parla in modo compiuto nelle pagine finali della Questione ebraica, non si riduce al politico come quella antica, e non è una «democrazia della illibertà» come quella medioevale. Essa è una democrazia che realizza l’unità dell’uomo inteso come «genere», uscendo dalla dimensione «astratta» propria della ‘modernità’. Solamente quando l’uomo si afferma come socialità, riassorbendo in essa anche la politica, solamente allora si emancipa in modo concreto, mettendo fine all’«astrattezza» del mondo moderno, e alla contraddizione fra ‘Stato’ e ‘società civile’ nella quale esso è imperniato. Ma per far questo, scrive Marx, occorre compiere una vera e propria «transustanziazione»; bisogna, cioè, trasformare in «carne» e «sangue» le forme «astratte» della società moderno-borghese.   Ivi, p. 76.   Ibidem.

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Marx, in questi anni – anzi, in questi mesi – ha dunque in mente una democrazia imperniata sul «genere», sulla Gattung di matrice feuerbachiana. Analizza l’universo politico, ma il suo problema è l’uomo, il «genere», colto nella realtà della sua esistenza. Perciò ribadisce – sia nella Critica che nella Questione ebraica – il limite della politica e dello Stato moderni, contrapponendo ad essi la concretezza della democrazia come genere della costituzione politica, e il suo fondamento reale, esistenziale. Nella politica e nello Stato moderni la vita e l’esistenza del popolo si sono dissolti; ed è invece su di esse che bisogna fare leva per avviare un processo di emancipazione e di liberazione che, facendo perno sulla democrazia, individui gli strumenti che consentano di realizzare la «transustanziazione» della «società civile» moderna, collocandosi su un piano radicalmente altro rispetto a quello proprio della storia moderno-borghese. Il terreno su cui Marx nella Critica si propone di operare per ottenere questo risultato è il potere legislativo, utilizzando fino in fondo, e in modo integrale, lo strumento delle elezioni e mettendo su nuove basi la stessa idea di ‘rappresentanza’ politica. Può destare stupore questa scelta, ma essa risulta maggiormente comprensibile se si pensa al rilievo che il problema del legislativo aveva assunto nella scienza costituzionale liberale della prima metà dell’Ottocento e al rilievo centrale che, sia pure in forme nuove, aveva mantenuto nell’analisi svolta da Tocqueville nella prima Democrazia. Né è difficile comprendere i motivi di questa situazione: da un lato l’assemblea legislativa appare l’organo che, in un regime fondato sul principio della sovranità popolare, assomma, di necessità, nelle sue mani i poteri fondamentali dello Stato; dall’altro, proprio per questo, essa è vista come l’origine di una forma di dispotismo che tende a dissolvere le libertà individuali: si era così finito «per vedere la causa della dittatura montagnarda nell’unità del corpo legislativo»14. Per evitare che questo si ripeta, la nuova scienza costituzionale si propone come obiettivo prioritario quello di individuare «tutta una serie di meccanismi atti a limitare il temuto strapotere del legislativo, ovvero la for-

14   Cfr. Battista, Studi su Tocqueville, cit., p. 157, che si rifà, in questo punto, al libro di A. Saitta, Costituenti e Costituzioni della Francia liberale e rivoluzionaria, Einaudi, Torino 1952.

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za decisionale del popolo, rafforzando invece gli organi meno dipendenti dalla volontà della maggioranza: l’esecutivo e il giudiziario»15. Come è stato giustamente osservato, «il ‘mito’ tutto negativo del popolo che legifera nell’assemblea, forte di un potere senza ostacoli, di una potenza illimitata, domina la cultura borghese di primo Ottocento; è il problema primario di una generazione che in tale immagine proietta nuove diffidenze e paure, rese più acute dal ricordo di eventi recenti: i tempi della dittatura giacobina che sembravano aver calato tragicamente nella realtà moderna formule antiche di tirannide popolare»16. Marx, naturalmente, è su una posizione completamente antitetica rispetto a questo tipo di preoccupazioni e di posizioni. Anzi, nella Critica contrappone frontalmente potere governativo e potere legislativo, in termini inequivocabili: Il potere legislativo ha fatto la Rivoluzione francese; esso, là dove ha dominato nella sua specialità, ha fatto, in genere, le grandi rivoluzioni organiche generali; esso non ha combattuto la costituzione, ma una particolare costituzione antiquata, precisamente perché il potere legislativo è stato il rappresentante del popolo, della volontà generale. Per contro, il potere governativo ha fatto le piccole rivoluzioni, le rivoluzioni retrograde, le reazioni; esso non ha fatto la rivoluzione per una nuova costituzione contro una invecchiata, ma contro la costituzione, precisamente perché il potere governativo è stato il rappresentante della volontà particolare, soggettiva, della parte magica della volontà17.

In breve: è il potere legislativo che assicura la realizzazione della «costituzione», come libero frutto del popolo, della sua «volontà generale», riuscendo ad intrecciare universale e particolare, esistenza ed essenza; esso rappresenta il terreno, e il motore, di questo processo, che deve avere il suo apice nella realizzazione della democrazia, intesa come «genere di ogni costituzione». Mentre il potere governativo rappresenta la stasi, la reazione, la chiusura; il contrario della volontà generale e del processo di emancipazione che in essa, e attraverso di essa, si esprime; una volontà particolare, soggettiva, senza alcun rapporto con l’universalità: esso è, strutturalmente, «contro la

  Battista, Studi su Tocqueville, cit., p. 155.   Ibidem. 17   Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., pp. 136-137. 15 16

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costituzione», se il popolo è, come in effetti è, il fondamento reale della costituzione. Ora – ed è questo il problema che Marx si pone – «ha il popolo il diritto di darsi una nuova costituzione?». E «la risposta non può non essere incondizionatamente affermativa, poiché la costituzione, appena cessa di essere l’espressione reale della volontà popolare, diviene un’illusione pratica»18. Nella parte finale della Critica è questo ordine di problemi – e questo interrogativo – che Marx ha presente quando si pone il problema del potere legislativo e del suo significato. «Lo Stato esiste soltanto come Stato politico»: questo è il risultato del processo moderno-borghese. Ma la totalità dello Stato politico è il potere legislativo. Prender parte al potere legislativo è, quindi, prender parte allo Stato politico; è manifestare e realizzare la propria esistenza come membro dello Stato politico, come membro dello Stato. Dunque il voler prendere parte tutti singolarmente al potere legislativo non è altro che il voler tutti essere dei reali (attivi) membri dello Stato, o darsi una esistenza politica, o manifestare e effettuare la propria esistenza in quanto politica19.

Tuttavia il potere legislativo, proprio per la sua struttura, non è solo il terreno nel quale si compie il processo della propria realizzazione politica nel quadro del mondo moderno-borghese: anzi, esso, scrive Marx, è il «terreno della rivolta»; è il luogo nel quale si svolge, e si attua, la piena «antinomia di Stato e società civile»20 e il superamento, al tempo stesso, dell’uno e dell’altra. Il ragionamento di Marx è limpido: se lo «Stato privato», cioè la «società civile», vuole attingere «significato e attività politici», esso «deve piuttosto rinunciare a ciò ch’è già come Stato privato». Deve insomma uscire da sé, e mettersi da un altro punto di vista totalmente diverso, entrando in contraddizione anche con se stesso. Perciò Marx parla di «transustanziazione»: questo processo è un mutamento della propria sostanza. Dalla sfera privata la «società civile» deve penetrare nello «Stato politico», assumendo esistenza politica; ma   Ibidem.   Ivi, p. 270. 20   Ivi, p. 219. 18 19

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questa «transustanziazione» ha effetti – ed è questo ora il centro di tutto il ragionamento di Marx – sia sulla «società civile» che nello «Stato politico», fino al punto di dissolvere sia l’una che l’altro. In questo processo il potere legislativo ha una funzione centrale, decisiva: prima del «potere legislativo» la società civile, lo Stato privato, non esiste come organizzazione statale, e affinché pervenga a esistenza siffatta, occorre che la sua reale organizzazione, la reale vita civile, sia posta come non esistente [...]. La separazione della società civile dallo Stato appare necessariamente come una separazione del cittadino politico, del cittadino dello Stato, dalla società civile, dalla sua propria realtà empirica, ché in quanto idealista dello Stato esso è tutt’altro ente, diverso dalla sua realtà, distinto, opposto21.

Ma la società civile non si ferma a questo grado di conquista della sua esistenza politica: facendo perno sul legislativo, essa va oltre la dimensione degli ‘ordini’, degli ‘stati’, cioè delle barriere stabilite dallo Stato moderno-borghese al suo processo di emancipazione; tende a darsi piena esistenza politica, «a fare dell’esistenza politica la sua esistenza reale». Questa tendenza della società borghese a «trasformarsi in società politica», oppure «a fare della società politica la società reale» – si esprime, precisamente, nella tendenza alla «partecipazione il più possibile generale al potere legislativo»22. Perciò la società civile vuole penetrare «in massa, tutta intera se possibile, nel potere legislativo»: è qui che avviene la lotta per la sua reale esistenza e realizzazione politica e, al tempo stesso, è questo il luogo della sua fine e trasfigurazione – della sua compiuta «transustanziazione». Forzando al massimo il potere legislativo, e dilatandolo fino a farlo esplodere, la società civile «sostituisce alla fittizia società civile» del potere legislativo la sua «reale» esistenza, mutando in radice il concetto moderno-borghese di rappresentanza politica e ponendosi in una prospettiva teorica e politica totalmente nuova rispetto alle colonne d’Ercole dello Stato moderno-borghese. Leva di questo processo – incentrato nella eliminazione della contraddizione tra ‘Stato’ e ‘società civile’ e su un nuovo, diretto, protagonismo politico della società civile – sono, per Marx, le elezio  Ivi, p. 189.   Ivi, p. 270.

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ni: «Soltanto nell’elezione illimitata, sia attiva che passiva, la società civile si solleva realmente all’astrazione da se stessa, all’esistenza politica come sua vera esistenza generale, essenziale». E questo, naturalmente, non può avvenire, e non avviene, nel quadro del vecchio sistema rappresentativo, attraverso la vecchia ‘figura’ dei deputati: se la «società civile è società politica reale» – se, in altre parole, sono gli individui concepiti come «genere», e riconquistati nella loro unità, i protagonisti di questo processo –, non ha alcun senso porre «un’istanza che consegue unicamente dalla concezione dello Stato politico come esistenza separata dalla società politica»; qui tutto è cambiato; «scompare totalmente il significato del potere legislativo come potere rappresentativo»23. Sono cambiati, in modo radicale, il concetto di società politica, i suoi protagonisti, e con essi è mutato anche il concetto di rappresentazione, in stretta – e diretta – connessione con il mutamento ontologico – e antropologico – da cui questo cambiamento è reso possibile: «Il potere legislativo qui è rappresentativo nel senso in cui ogni funzione è rappresentativa: come, ad esempio, il mio calzolaio è mio rappresentante in quanto soddisfa un bisogno sociale». E quello che vale per il calzolaio vale per ogni membro della società: «ogni determinata attività sociale, in quanto attività generica, rappresenta semplicemente il genere, cioè una determinazione della mia propria essenza; come ogni uomo è il rappresentante dell’altro uomo. È qui rappresentante non per un altro, che egli rappresenta, ma per ciò che egli è e fa». Ogni idea di rappresentanza, e anche di delega, qui è dissolta in via definitiva: ciascuno è se stesso e tutti gli altri contemporaneamente, perché è in essenza un ente generico, un ente comunitario. Non c’è perciò alcun bisogno di deputati, di rappresentanti della volontà generale: essa è pienamente realizzata in questa società politica reale, di cui è libero protagonista il popolo. La «costituzione» appare, finalmente, per ciò che effettivamente è: libero prodotto del popolo, degli uomini legati gli uni agli altri nel «genere» e vincolati, attraverso il «genere», in un rapporto di comune attività e di reciproca solidarietà. Qui la società politica reale non ha nulla in comune con la società civile propria del mondo moderno-borghese – con i suoi particolari interessi e i suoi particolari bisogni, in conflitto permanente con «l’universale in sé e per sé dello Stato»: in questa società politica   Ivi, p. 272.

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coincidente con la società reale non c’è più contraddizione tra ‘società civile’ e ‘Stato’; anzi non ci sono più né società politica né Stato. Togliendo se stessa, la società politica toglie anche lo Stato, distruggendo il cardine costitutivo della modernità: il compimento di questa astrazione è al contempo la soppressione del­ l’astrazione. Quando la società civile ha realmente posto la sua esistenza politica come la sua vera esistenza, ha contemporaneamente posto la sua esistenza civile, nella sua distinzione da quella politica, come inessenziale; e con una delle parti separate cade l’altra, il suo contrario. La riforma elettorale è, dunque, entro lo Stato politico astratto, l’istanza dello scioglimento di questo, come parimente dello scioglimento della società civile.

Questa insistenza sulla riforma elettorale può apparire singolare; ma l’elezione di cui Marx discorre in queste pagine – e su cui insiste con molta energia – è una realtà assai complessa: essa «è il rapporto reale, della reale società civile alla società civile, del potere legislativo all’elemento rappresentativo. Ossia l’elezione è il rapporto immediato, diretto, non meramente rappresentativo ma reale, della società civile con lo Stato politico. S’intende quindi da sé che l’elezione costituisce l’interesse politico fondamentale della società civile reale». Qui l’elezione è lo strumento con cui la reale società civile si svincola dalle barriere dello Stato borghese, affermandosi nella sua autonomia, emancipandosi; e se «il potere legislativo è la posizione della rivolta», essa diventa il terreno su cui la rivolta viene condotta a una conclusione vittoriosa. Quello che interessa in queste pagine della Critica è precisamente la delineazione da parte di Marx di una posizione che – ponendosi sul terreno del mondo moderno – oltrepassa definitivamente l’orizzonte borghese e la contraddizione tra società civile e Stato su cui essa è fondata, conquistando una nuova relazione di società e di politica, della quale vengono ridefiniti senso e funzioni nella vita dell’uomo come «genere», quale «ente comunitario», oltrepassando, per questa via, le vecchie forme della rappresentanza politica. Qui società e politica sono riunificate, ma muovendo dal basso, dalla società, a sua volta riconcepita in termini radicalmente nuovi rispetto alla ‘società civile’ di matrice hegeliana: non è più «il sistema dell’atomistica», ma il luogo della «comunità» degli uomini, unificati nella realtà del «genere». Qui la «transustanziazione» della ‘società civile’ è pienamente compiuta e realizzata, ed è questo che

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rende possibile, dopo il tempo moderno, la «democrazia della libertà». Essa non ha niente in comune con il «pan-politicismo» antico e la «schiavitù» della società civile che ne derivava; tanto meno ha rapporti con l’«identità» medioevale; ma essa è radicalmente distante anche dalla «cattiva» separazione moderna di ‘Stato’ e ‘società civile’: è imperniata su una nuova concezione dell’uomo, che vede in ciascun uomo il rappresentante dell’altro uomo – non in «astratto», ma sul piano concreto: per quello che «egli è e fa». E così il cerchio si chiude: in queste pagine finali della Critica si afferma un altro concetto di società, di politica, di rappresentanza, da cui scaturisce la «democrazia della libertà» e con essa l’adeguazione della realtà all’idea della «costituzione», di cui Marx aveva parlato nelle prime pagine del testo. Esse vanno lette le une dopo le altre, qualora si vogliano intendere la sua concezione della emancipazione umana e il contesto filosofico-storico in cui essa è, volutamente, collocata. Se si ha presente tutto questo, non è difficile intendere la critica nei confronti di Bauer svolta nella Questione ebraica. Qui si resta in un orizzonte vecchio, che non fa i conti reali con i problemi posti dal processo – e dalle forme – dell’emancipazione umana. La posizione di Bauer – un avversario per cui Marx, a questa data, mostra rispetto – è chiara: gli ebrei chiedono di emanciparsi dallo Stato cristiano; ma questo non è possibile: dove c’è religione c’è sempre discriminazione. E questo vale sia per i cristiani che per gli ebrei, i quali pensano solo a se stessi e al loro ‘particolare’. I cristiani parlano di universalismo, ma infine essi si preoccupano solo dei propri interessi. Dunque per avere libertà ed emancipazione bisogna liberarsi della religione: o si diventa atei, o si trasforma la religione in un fatto privato. Solo uno Stato senza religione può garantire emancipazione e libertà. Se gli ebrei vogliono emanciparsi, devono battersi per uno Stato politico laico, neutrale in fatto di religione, per evitare ogni discriminazione – per sé e per gli altri. Marx sposta il discorso, in modo radicale: lo Stato politico non garantisce né libertà né emancipazione, perché al citoyen al livello dello Stato si contrappone il bourgeois a livello della ‘società civile’. All’eguaglianza politica astratta si contrappone la disuguaglianza effettiva a livello di società civile, il luogo effettivo degli antagonismi e delle diseguaglianze, che lo Stato non è in grado di superare ed armonizzare, e che anzi occulta e mistifica con il suo falso universalismo.

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E qui, oltre che da Bauer, è netta la distanza di Marx anche da Tocqueville, il quale, come si è visto, insiste con forza sui «diritti di cittadinanza» come «contrafforte» essenziale nei confronti del nuovo dispotismo, specie di quello di matrice europea. Marx ha una prospettiva del tutto diversa. A livello di ‘cittadinanza’, di ‘diritti del cittadino’, non c’è via per la emancipazione e per la libertà. Si tratta solo di una illusione, che occorre smascherare, dimostrando che i diritti politici sono solo un luogo – e uno strumento – di occultamento delle reali disuguaglianze tra gli uomini, e che esse sono, e restano, insuperabili se ci si mette dal punto di vista dell’«astrazione» politica, che si era espressa in modo compiuto – come vedremo più avanti – proprio nel Contratto sociale di Rousseau, un autore caro sia a Marx che a Tocqueville. Per Marx, se si vuole salvaguardare la libertà, occorre seguire una strada del tutto diversa, e sottoporre la politica – nella sua forma moderno-borghese – a una critica radicale: obiettivo che egli si propone di raggiungere proprio nella Questione ebraica, nella quale trae sul piano specificamente politico tutte le conseguenze dell’analisi di tipo essenzialmente filosofico svolta nella Critica. Marx, si sa, è un autore di rapidi e profondi svolgimenti; tanto più colpiscono i nessi tra la Critica e la Questione, scritte entrambe in un brevissimo arco di tempo. Tornano, alla lettera, gli stessi termini, le stesse espressioni: si ha talvolta l’impressione che, scrivendo la Questione, abbia ripreso nelle mani il grande abbozzo della Critica, trascegliendone temi e motivi funzionali all’obiettivo che ha ora in mente, a cominciare dalla critica nei confronti della «vecchia società», nella quale ritornano alla lettera espressioni e giudizi utilizzati per criticare la «democrazia della illibertà» del Medioevo e il rapporto «immediato» di «privato» e «pubblico» da cui essa era stata generata. Questo non toglie affatto che la Questione ebraica presenti elementi nuovi ed originali, anche per il carattere dell’avversario che Marx ha di fronte e per la soluzione individuata da Bauer al problema della emancipazione degli ebrei. A questa soluzione, si è già accennato, Marx si oppone frontalmente, mettendo al centro dell’analisi la coppia, di matrice hegeliana, ‘Stato’/‘società civile’, secondo il modulo della Critica; ma svolge il tema in modi nuovi, mostrando come, nell’ambito di quella coppia, sia la società civile il luogo reale del potere e della reale disu-

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guaglianza tra gli uomini. E su questa base avvia una vera e propria ‘critica dell’ideologia’, come appare in modo luminoso dalla analisi spietata che fa dei «diritti dell’uomo» proclamati dalla Rivoluzione francese: i cosiddetti diritti dell’uomo, i droits de l’homme, come distinti dai droits du citoyen, non sono se non i diritti del membro della società civile, vale a dire dell’uomo egoista, dell’uomo scisso dall’uomo e dalla comunità [...], nessuno dei diritti dell’uomo si spinge al di là dell’uomo egoista, dell’uomo in quanto è membro della società civile, ossia individuo ripiegato in sé, nel suo interesse privato e nel suo privato arbitrio, e separato dalla comunità. L’uomo, ben lungi dall’essere concepito in essi come ente di genere, la stessa vita di genere, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro originaria indipendenza [...]24.

In altre parole, nella Questione ebraica Marx – mettendo a frutto i risultati della Critica – comincia ad avviarsi lungo quella che sarà poi la linea centrale della sua ricerca e che troverà un punto di approdo essenziale in Per la critica dell’economia politica, pubblicato per la prima volta nel 1859. Del resto, è lo stesso Marx a riconoscere in modo esplicito il valore che nel suo svolgimento intellettuale aveva avuto il lavoro – uscito nel 1844 sugli «Annali franco-tedeschi» – Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in cui confluiscono direttamente i risultati teorici acquisiti sia nella Critica che nella Questione ebraica: «il primo lavoro intrapreso per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel, lavoro di cui apparve l’Introduzione nei ‘Deutsch-französische Jahrbucher’ pubblicati a Parigi nel 1844», scrive in questo breve ma straordinario schizzo autobiografico. La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei fran-

24   K. Marx, Sulla questione ebraica, testo tedesco a fronte, Introduzione, traduzione e apparati di D. Fusaro, Bompiani, Milano 2007, pp. 13, 143-145.

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cesi del secolo XVIII, sotto il termine di «società civile»; e che l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica25.

È precisamente il lavoro che comincia ad avviare nella Questione ebraica, riprendendo – e radicalizzando – i problemi teorici posti, sul piano filosofico, nella Critica, che però continua qui a rappresentare un essenziale punto di riferimento anche dal punto di vista delle soluzioni individuate. Marx non fa più alcun riferimento alle elezioni, essendosi evidentemente convinto della infondatezza e della fragilità del discorso svolto, su questo punto, nella Critica, specie alla luce della funzione decisiva che aveva loro attribuito; ma riprende, e mantiene, nelle pagine finali della Questione, l’impostazione feuerbachiana che, nella Critica, aveva messo a base della sua «democrazia della libertà». Nella Questione ebraica motivi nuovi si intrecciano dunque ad altri antichi, destinati – in qualche caso – a decadere rapidamente; ma proprio qui sta l’interesse di questo testo, nel quale Marx mette, infatti, a fuoco temi ai quali non verrà mai meno, e che appaiono tuttora vitali e degni del massimo interesse. E qui, simmetricamente, sta anche il valore eccezionale della Critica, la quale ancora oggi – nonostante le critiche rivoltele dallo stesso Marx – appare per quello che effettivamente fu nel suo processo di maturazione intellettuale e politica: un laboratorio eccezionale, in cui bisogna continuare a entrare, se si vogliono comprendere motivi strutturali di tutta la sua posizione. È singolare che Marx, per prendere le distanze da Bauer, citi proprio Tocqueville e Beaumont, il compagno del suo viaggio in America: «L’emancipazione dello Stato dalla religione non è l’emancipazione dell’uomo reale dalla religione», osserva in linea generale. E a questo proposito aveva citato poco prima proprio Beaumont: «Negli Stati Uniti – scrive quest’ultimo – non esiste né una religione di Stato, né una religione ufficiale della maggioranza, né un culto egemonico rispetto agli altri. Lo Stato è estraneo a tutti i culti [...]». Infatti esistono «Stati nordamericani» nei quali «la Costituzione non impone le credenze religiose e la pratica di culto come condizione dei privilegi politici». Tuttavia «negli Stati Uniti non si pensa che un uomo senza religione possa essere onesto».

25   K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Introduzione di M. Dobb, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 4.

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L’America settentrionale – ribadisce Marx – è il paese della religiosità per eccellenza, come garantiscono all’unanimità Beaumont, Tocqueville e l’inglese Hamilton [...]. Del resto, gli Stati nordamericani ci servono soltanto come esempio. La questione è come si comporti l’emancipazione politica compiuta nei confronti della religione. Se addirittura sul terreno dell’emancipazione politica compiuta noi rinveniamo non solo l’esistenza, ma l’esistenza viva e vitale della religione, ciò suffraga la tesi secondo cui l’esistenza della religione non contraddice alla perfezione dello Stato. Tuttavia, dato che l’esistenza della religione è l’esistenza di un difetto, la scaturigine di tale difetto può essere ancora cercata solamente nell’essenza dello Stato. Ormai la religione non rappresenta più il fondamento, ma soltanto il fenomeno della limitatezza mondana. Perciò noi spieghiamo la soggezione religiosa dei liberi cittadini tramite la loro soggezione mondana. Non crediamo che essi debbano superare la loro limitatezza religiosa, per poter superare i loro limiti mondani. Asseriamo che essi supereranno la loro limitatezza religiosa non appena avranno superato i loro limiti mondani. Noi non tramutiamo le questioni mondane in questioni teologiche. Tramutiamo le questioni teologiche in questioni mondane. Dopo che per molto tempo la storia è stata risolta in superstizione, noi risolviamo in storia la superstizione. Il problema del rapporto tra l’emancipazione politica e la religione diventa per noi il problema del rapporto tra l’emancipazione politica e quella umana [...]. Il limite dell’emancipazione politica emerge immediatamente nel fatto che lo Stato può affrancarsi da un limite senza che l’uomo sia realmente libero da esso, che lo Stato può essere uno Stato libero senza che l’uomo sia un uomo libero [...]26.

In conclusione – questo è il succo del ragionamento di Marx –, l’emancipazione non può essere politica; deve essere umana, e per ottenerla occorre – come già era stato chiarito nella Critica – far perno sull’uomo inteso come «genere», come Gattung. Ma quello che colpisce nella Questione è il quadro filosofico in cui questa critica dello Stato e della politica viene posta, in diretta continuità con le analisi svolte nella Critica discutendo con Hegel: L’emancipazione politica – scrive Marx – è, al tempo stesso, la dissoluzione della vecchia società, sulla quale poggia l’essenza dello Stato estranea al popolo, il potere assoluto. La rivoluzione politica è la rivoluzione della società civile. Qual era il carattere della vecchia società? Un solo termine la caratterizza: la feudalità. La vecchia società civile aveva

  Marx, Sulla questione ebraica, cit., pp. 101, 103, 105.

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immediatamente un carattere politico, ossia le componenti della vita civile, come per esempio la proprietà o la famiglia, o il tipo di lavoro, nella forma della proprietà terriera, del ceto e della corporazione erano elevati a componenti della vita dello Stato27.

Insomma: qui la vita privata era immediatamente politica, come aveva appunto chiarito, parlando del Medioevo, nella Critica, nella quale sono presenti, pari pari, gli stessi concetti: «nel Medioevo la proprietà, il commercio, la società, l’uomo sono politici [...]; ogni sfera privata ha un carattere politico o è una sfera politica, o la politica è anche il carattere delle sfere private»28. Nella Critica e nella Questione – si è già accennato – in punti cruciali, ritornano gli stessi lemmi, le stesse espressioni: nel Medioevo l’«affare totalmente pubblico» era un «affare privato», si afferma nella Critica; e nella Questione si ribadisce: «L’unità dello Stato, e pure la coscienza, la volontà e l’attività di quest’unità, vale a dire il potere universale dello Stato, appaiono di necessità, conseguentemente a questa organizzazione, come l’affare particolare d’un sovrano assoluto isolato dal popolo e dai suoi servi»29. Ma, come al solito, in un testo, con le costanti contano – e anche maggiormente – i mutamenti: nella Critica l’identificazione di ‘privato’ e ‘pubblico’ era individuata quale carattere proprio del Medioevo e della sua specifica «democrazia della illibertà»; qui Marx delinea una prospettiva filosofico-storica di carattere diverso: non si parla più di Medioevo (e neppure di mondo antico, opposto al «tempo moderno»); ma di «feudalità» come dimensione propriamente morfologica di un’epoca della storia europea che va dal Medioevo all’avvento della «rivoluzione politica». La quale diventa il principio della nuova periodizzazione che Marx propone in questo testo, avendo in mente anzitutto la Rivoluzione francese, come risulta anche dai riferimenti espliciti che fa ad essa discorrendo dei «diritti dell’uomo» e dei limiti entro cui essi sono stati proposti e devono, perciò, essere decifrati e demistificati. Nella Questione cade invece la categoria di «tempo moderno», che era stata utilizzata nella Critica; e con questo vengono anche meno i riconoscimenti che ivi erano stati fatti al passo in avanti, per quanto contraddittorio,   Ivi, p. 149.   Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., p. 73. 29   Marx, Sulla questione ebraica, cit., p. 151. 27 28

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realizzato nel ‘mondo moderno’ con la distinzione, pur conflittuale, tra ‘Stato’ e ‘società civile’. Ora attraverso la categoria di «feudalità» vengono sottolineati, piuttosto che i passi in avanti compiuti dalla distinzione fra ‘Stato’ e ‘società civile’, i prezzi che ad essa sono stati pagati con la rottura di quei ‘legami’ che avevano comunque garantito elementi di connessione nella società civile, prima della «rivoluzione politica». È evidente che in questa interpretazione gioca la volontà di Marx di mettere anzitutto in rilievo i limiti di questa stessa rivoluzione, che si è mossa sul piano «astratto» del citoyen, contribuendo in questo modo a fare della società civile un luogo di puro egoismo, di individui separati e indipendenti fra di loro e privi di reciproche relazioni, di forme, per quanto primitive, di solidarietà. Per quanto possa apparire singolare, e perfino paradossale, questo giudizio si affianca a quello di Tocqueville, non solo per l’accentuato rilievo dato ai ‘legami’, ma anche per l’interpretazione dell’epoca della monarchia assoluta, la quale, nonostante tutti i suoi limiti, si configura, a livello sociale, più ricca di ‘legami’ di quanto non sia accaduto dopo, con l’affermarsi della «rivoluzione politica». Marx, a differenza di Tocqueville, non parla positivamente dei «contrafforti» che hanno contenuto il potere politico sovrano, ma insiste allo stesso modo sul venir meno dei ‘legami’ sociali, delineando in forme nuove rispetto alla Critica, ma sul filo dello stesso ragionamento e delle stesse preoccupazioni, una concezione della politica come dimensione dell’«astratto», come puro formalismo universalistico, contrapposto alla ‘società civile’ quale luogo, sia pure caotico e disgregato, di una esistenza più concreta di quella che si svolge a livello politico. Con un doppio intento: da un lato, vuole criticare, e superare, questa politica; dall’altro, intende riscattare e riqualificare la ‘società civile’ in termini di «genere», integrando in essa la stessa politica quale funzione sociale, riportandola, in questo modo, dentro l’esistenza degli uomini, concepiti come enti comunitari e non più come individui indipendenti. È la politica, dunque, che gli interessa nella Questione, e in questo quadro gli preme sottoporla a una critica radicale, determinando i limiti della «rivoluzione politica» moderna, compresa quella francese, assumendo come principio – e perno – della sua analisi la coppia ‘Stato’/‘società civile’ messa al centro nella Critica, ma sca-

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vando dentro di essa da un nuovo punto di vista, che vuole mettere anzitutto in evidenza lo sfrenato «egoismo» – è questo il lemma che Marx usa sistematicamente in queste pagine – della ‘società civile’, antitetico alla dimensione dell’uomo quale «ente comunitario». In altri termini, nella Questione ebraica la coppia ‘Stato’/‘società civile’ si specifica, e si attua tematicamente, nella coppia citoyen/ bourgeois, che diventa il fulcro per individuare, da un lato, il limite della «emancipazione politica»; per determinare, dall’altro, le forme in cui «l’emancipazione umana» può effettivamente realizzarsi. Nella Questione – ed è questo il punto centrale da sottolineare –, la politica e, in modo specifico, la critica della politica – della sua specifica «astrazione» (anche nella forma «perfetta» di Rousseau) – è il momento preliminare – e ineludibile – del processo di realizzazione della «vera» emancipazione umana. La «rivoluzione politica» ha avuto senz’altro un merito, ponendo fine alla immediatezza dell’epoca feudale, ridando autonomia alla politica rispetto alle sfere private nelle quali era stata compressa, dispersa, disgregata. Questo è stato un passo avanti, e Marx lo riconosce; si tratta però di comprendere come questo passo è stato realizzato. E qui Marx individua i limiti decisivi, e insuperabili, della «rivoluzione politica». Essa ha svincolato lo spirito politico dai lacci in cui era bloccato, lo ha affrancato dalla vita civile, lo ha posto a livello dell’«interesse universale del popolo, in un’ideale indipendenza da quelle componenti particolari della vita civile». In questo modo «l’interesse pubblico in quanto tale divenne l’universale di ogni individuo e la funzione politica divenne la sua funzione universale»30. Ma questo è vero solo in teoria; sul piano pratico le cose sono andate in modo assai diverso. Stato e società civile si sono contrapposti, in un processo parallelo: da un lato, c’è l’«idealismo dello Stato»; dall’altro, il «materialismo della società civile»31. Ma è il secondo che predomina, e si impone, sul primo, collocando l’uomo in una condizione di isolamento, di separazione, di chiusura nel proprio, individuale egoismo. «La rivoluzione politica dissolve la vita civile nelle sue componenti costitutive, senza però rivoluzionare queste

  Ivi, p. 151.   Ivi, pp. 151, 153.

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componenti stesse né sottoporle alla critica»32. E questo ha generato due effetti contraddittori: con la «rivoluzione politica», la società civile è stata liberata dal «giogo politico» di matrice feudale da cui era oppressa, ma con esso sono venuti meno anche i «legami che tenevano avvinto lo spirito egoista della società civile. L’emancipazione politica – scrive Marx – fu al tempo stesso l’emancipazione della società civile dalla politica, dalla parvenza stessa di un contenuto universale». Da ciò, insiste Marx, è scaturita l’affermazione, a livello di società civile, dell’uomo egoista, chiuso nei suoi interessi particolari: «quest’uomo, il membro della società civile, è adesso la base, il presupposto dello stato politico. Da esso, egli è riconosciuto come tale nei diritti dell’uomo»33. Se nella Critica l’obiettivo era stato quello di fondare una «democrazia della libertà» imperniandola nella concretezza, nell’esistenza individuale concreta, qui Marx mette in evidenza che la «rivoluzione politica», pur mettendosi su questa strada, ha conseguito un risultato diametralmente opposto. In pagine densissime, la contraddizione tra ‘società civile’ e ‘Stato’ su cui aveva lavorato nella Critica in serrato confronto con Hegel diventa la chiave per decifrare la situazione dell’uomo contemporaneo, chiuso in una libertà che coincide con «il riconoscimento del movimento sfrenato delle componenti spirituali e materiali che compongono il contenuto della sua vita»34. Senza più relazioni sociali, l’uomo è serrato in una esistenza tanto concreta quanto priva di contatti reali sia con gli altri uomini sia con il mondo che lo circonda. Si è usciti dalla lunga epoca della «feudalità» per sprofondare in un mondo privo di legami, occultato, per di più, nei suoi aspetti fondamentali – e questo è un altro effetto della «rivoluzione politica» – da una ideologia statuale di carattere «universalistico», senza alcun rapporto con la realtà. Questo è l’esito della «rivoluzione politica» – una vera e propria epoca storica –, e qui sta il suo limite fondamentale: «la qualità del cittadino, di membro della comunità politica viene ridotta dagli emancipatori politici addirittura a mero strumento per la conservazione di questi cosiddetti diritti dell’uomo», scrive Marx, parlando dei diritti dell’uomo proclamati dalla Rivoluzione francese. «[...]   Ivi, p. 155.   Ivi, p. 153. 34   Ibidem. 32 33

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quindi il citoyen viene ritenuto servo dell’homme egoista, [...] l’ambito in cui l’uomo si comporta da ente comunitario viene abbassato al di sotto dell’ambito in cui esso si comporta da ente parziale, da ultimo [...] non l’uomo come citoyen, ma l’uomo come bourgeois viene scambiato per l’uomo in senso autentico»35. È precisamente questo il punto che a Marx sta a cuore in modo particolare, e su cui subito dopo torna ad insistere: «La costituzione dello Stato politico e il dissolvimento della società civile negli individui indipendenti [...] si realizza in un solo e medesimo atto»; ma «l’uomo, in quanto è membro della società civile, vale come uomo in senso autentico, come l’homme distinto dal citoyen, giacché egli è l’uomo nella sua immediata esistenza sensibile individuale, mentre l’uomo politico è solamente l’uomo astratto, artificiale, l’uomo come persona allegorica, morale. L’uomo reale è riconosciuto soltanto nella figura dell’individuo egoista, l’uomo vero soltanto nella figura dell’astratto citoyen». Sono, di nuovo, i lemmi centrali della Critica, ma ora essi sono utilizzati per sottolineare il contrasto tra ‘società civile’ – intesa come luogo della «concretezza», del potere effettivo, delle disuguaglianze reali – e ‘Stato’, individuato come luogo dell’«universalismo astratto», della pura dimensione «allegorica», senza alcuna consistenza reale. Se così stanno le cose – e questa è la struttura della ‘società civile’ –, non è certamente attraverso la politica che si può pensare di emancipare l’uomo. Bisogna andare alla radice, tornare alla concretezza dell’esistenza terrena, come Marx aveva già spiegato nella Critica, e riassorbire la dimensione politica nella vita dell’uomo, individuando in essa un aspetto – e solo un aspetto – della sua socialità, cioè della sua natura di ente generico, comunitario. E con questo torniamo alle pagine della Critica sulla «democrazia della libertà», sull’uomo quale fondamento reale, sulla «costituzione» come libero prodotto dell’uomo. Questo, per il Marx della Questione ebraica è, e resta, il fondamento ontologico, da un lato, della critica dell’astrazione politica; dall’altro, del generale processo di «emancipazione umana». La politica non è, e non può essere per motivi strutturali, il luogo della emancipazione dell’uomo: questo è il convincimento cui approda la Questione ebraica, e ad esso Marx non verrà mai più meno.

  Ivi, p. 145.

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È interessante e sintomatico, su questo sfondo, che Marx concluda la Questione facendo riferimento a Rousseau e al Contratto sociale, nel quale, egli scrive, «l’astrazione dell’uomo politico è perfettamente tratteggiata»: «Colui che affronta l’impresa di fornire istituzioni a un popolo – aveva scritto Rousseau nel capitolo sul «legislatore» – deve, diciamo così, sentirsi capace di mutare la natura umana, di trasformare ogni individuo [...] in una parte di un tutto più grande [...]; deve sentirsi capace di sostituire un’esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente. Occorre che sottragga all’uomo le forze che gli sono proprie per dargliene altre che gli siano estranee e delle quali non possa fare a meno senza l’ausilio delle altrui»36. Insomma, il legislatore deve creare il citoyen, se vuole fondare una nazione; ma, a giudizio di Marx, è proprio questo il limite grave, e insuperabile, della posizione di Rousseau (e dei suoi eredi ‘giacobini’, della nuova «razza di rivoluzionari» su cui si era a lungo, e in modo drammatico, interrogato Tocqueville). Quella «politica» è, al tempo stesso, una via sbagliata e una scorciatoia. Stabilito che «ogni emancipazione è un riportare il mondo umano, i rapporti umani all’uomo stesso», il problema, per Marx, consiste precisamente nel distinguere tra emancipazione politica ed emancipazione umana. Infatti, «l’emancipazione politica è la riduzione dell’uomo, da una parte, a membro della società civile, all’individuo egoista indipendente; dall’altra parte, al cittadino, alla persona morale». Occorre dunque superare i limiti della «rivoluzione politica» – perfettamente interpretata da Rousseau –, procedendo alla «emancipazione umana». Essa è possibile se si farà perno sull’uomo come «genere» – e sulle sue stesse forze –, e se si riuscirà ad integrare la politica nella esperienza sociale dell’uomo, superando la dicotomia tra bourgeois e citoyen, ristabilendo i legami che la «rivoluzione politica», con la sua azione «emancipatrice», ha spezzato, spingendo l’uomo in una condizione di isolamento e di separazione. Bisogna, cioè, ricostituire, da un lato, l’unità dell’uomo; dall’altro, i suoi «legami» con gli altri uomini, superando l’«astrazione» della politica e la condizione di solitudine – e di egoismo – in cui essa ha gettato l’uomo, dissolvendo tutti i vincoli operanti a livello di società civile. Sul piano teorico, occorre andare oltre Rousseau; sul piano storico, oltre l’esperienza dei giacobini, integrando – e transustanziando – nella dimensione sociale la politica: 36

  Ivi, p. 155. Per il testo di Rousseau, cfr. Il contratto sociale, cit., p. 57.

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Soltanto quando l’uomo reale, individuale, compendia in sé il cittadino astratto, e come uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali è diventato ente di genere, soltanto quando l’uomo ha riconosciuto e organizzato le sue «proprie forze» come forze sociali, e per ciò stesso non disgiunge più da sé la forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l’emancipazione umana è realizzata37.

È questa la via per uscire dalla separazione in cui la «rivoluzione politica» ha gettato gli individui, facendoli allontanare dall’isolamento «egoistico» in cui sono piombati, dischiudendo loro una esistenza «autentica». Ed è in questo modo che anche la politica può riafferrare il suo fondamento reale, uscendo dall’«astrazione» e diventando quella che deve essere, se vuole avere una funzione: concreta «forza sociale». È, al fondo, il quadro teorico delineato nelle pagine della Critica: l’emancipazione umana coincide, essenzialmente, con la «democrazia della libertà», con il tramonto, di conseguenza, di ogni potere di carattere rappresentativo. Nella Questione è in azione lo stesso principio che agisce nelle pagine finali della Critica: «ogni uomo è il rappresentante dell’altro uomo [...] non per un altro ch’egli rappresenta, ma per ciò ch’egli è e fa». In entrambi i testi, l’emancipazione umana è fondata su una democrazia integralmente diretta, senza alcuna forma di mediazione. Se la politica è universalismo «astratto» e potere «rappresentativo», per Marx deve aprirsi un tempo nuovo, che è al tempo stesso «ultrapolitico» e «ultrastatuale», e deve affermarsi una nuova concezione dell’individuo che assimila la politica nella propria dimensione sociale, facendone un momento – e solo un momento, in questa forma – della sua vita, della propria esperienza «concreta». In Marx – è questo il punto d’approdo della sua riflessione, a questa data – tra democrazia ed emancipazione, da un lato, e politica, dall’altro, non c’è relazione diretta, rapporto. Anzi, come si è visto sia nella Critica che nella Questione, la critica della politica è il presupposto dell’una e dell’altra. Come è ben noto, di lì a poco tempo Marx svilupperà posizioni diverse emancipandosi dai motivi feuerbachiani che campeggiano sia nella Critica che nella Questione.

  Ivi, p. 157.

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Ma se il tema della emancipazione umana resterà sempre il centro archimedeo della sua riflessione, altrettanto ferme resteranno la sua critica nei confronti della politica e dei suoi limiti strutturali, e l’esigenza di una sua «transustanziazione». In questo senso, sia la Critica che la Questione sono, nella sua opera, un punto di non ritorno. Se si legge la Questione – e la critica di Marx alla crisi dei «legami» generata dalla «rivoluzione politica» –, è difficile non pensare, come si è detto, a Tocqueville; anzi, si può azzardare un’ipotesi: la lettura della Democrazia in America, uscita pochi anni prima, ha forse inciso in modo significativo sulle posizioni di Marx sia nella Critica che nella Questione – e, specificamente, nella messa al centro dell’analisi della categoria di «feudalità» e nella nuova periodizzazione della storia europea proposta in quelle pagine. Si è visto quanto valore Marx abbia attribuito alla dissoluzione dei «legami» nella società civile operata dalla «rivoluzione politica»: essa ha svincolato «lo spirito politico, che era ugualmente diviso, disgiunto, disperso nei vincoli della società civile, lo affrancò da questo frazionamento, lo affrancò dalla commistione con la vita civile [...]»; ma l’«eliminazione del giogo politico fu al tempo stesso l’eliminazione dei legami che tenevano avvinto lo spirito egoista della stessa società civile [...]». Di conseguenza, l’uomo venne a trovarsi in una condizione di indipendenza ma, al tempo stesso, di isolamento, di chiusura, di puro «egoismo». È, come sappiamo, lo stesso ‘problema’ di Tocqueville, per il quale è precisamente questo il risultato dell’uguaglianza: essa «pone gli uomini fianco a fianco, senza un comune legame che li unisca. Il dispotismo innalza barriere tra loro e li divide. Quella li spinge a non pensare ai suoi simili e questo fa dell’indifferenza una specie di virtù politica»38. Ovviamente, le cause di questa situazione sono del tutto diverse per Marx e Tocqueville: per il primo è l’effetto della separazione tra citoyen e bourgeois, mentre per il secondo è il frutto dell’eguaglianza; entrambi concordano, però, nel giudicare che questa crisi dei «legami» è il frutto della «rivoluzione politica». Ma c’è un altro motivo che spinge a stabilire un rapporto fra questi autori così diversi: come si è visto, Marx, a differenza di quanto   Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 593.

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fa nella Critica, non tematizza nella Questione il «tempo moderno», mentre utilizza la categoria di «feudalità», individuando in essa – sia pure in modo disperso e disgregato – una presenza sia dello «spirito politico» che dei «legami» andati poi in crisi per l’azione della «rivoluzione politica». È, anche questo, un tema fondamentale di Tocqueville, che, come si è visto, analizzando l’epoca dell’assolutismo (coincidente per Marx con quella della «feudalità») individua proprio nella presenza dei «contrafforti» nobiliari e dei legami sociali il più valido baluardo contro il potere assoluto del monarca, incrinati – gli uni e gli altri – dal progressivo affermarsi del potere amministrativo, che costituisce l’autentico filo rosso della storia francese: punto, questo, decisivo su cui – come si è già accennato – concorda anche Marx nell’abbozzo del testo sulle Guerre civili in Francia e nelle pagine sulla Comune sopra citate. È dunque possibile che Marx, scrivendo la Questione ebraica, abbia avuto presente la periodizzazione proposta da Tocqueville. Sono convergenze assai interessanti, che non derivano, ovviamente, solo dal fatto di essere uomini della stessa epoca, ma – ed è questo il punto centrale – dalla sintonia dell’uno e dell’altro sull’analisi dei motivi che sono alla base della ‘crisi’ del mondo moderno – dalla fine dei ‘legami’ all’affermarsi della ‘centralizzazione’. Accanto alle convergenze, occorre però sottolineare che sono altrettanto profonde e radicali le divergenze. A giudizio di Marx – l’abbiamo appena visto –, per ristabilire i «legami» è necessario far forza sull’uomo concepito come «ente generico», riducendo la politica a funzione sociale, e costituendo, a muovere di qui, «democrazia della libertà» ed emancipazione umana; secondo Tocqueville c’è un nesso intrinseco tra politica e libertà, ed è compito specifico della politica costruire, attraverso le associazioni, nuovi «contrafforti» nei confronti del moderno dispotismo democratico. Allo stesso modo, per Marx si esce dall’accentramento amministrativo – come mostra la Comune – applicando in modo radicale la democrazia diretta ed eliminando ogni forma di rappresentanza; secondo Tocqueville si tratta invece di contenere il potere legislativo – che per Marx è il luogo della «rivolta» e della «transustanziazione» della società civile –, rafforzando l’esecutivo e il bicameralismo, come hanno fatto in America, se si vuole limitare il nuovo dispotismo su base popolare. Sono differenze di fondo, che scaturiscono da una pluralità di motivi. Un solo esempio: nella Democrazia in America è stabilito un

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rapporto organico tra libertà politica ed esperienza religiosa. Dal punto di vista di Marx, il ‘problema’ si pone in termini antitetici: «la critica della religione è il presupposto d’ogni critica», scrive nella Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel. E poco dopo ribadisce: «La soppressione della religione quale felicità illusoria del popolo è il presupposto della sua vera felicità [...]. La critica della religione è dunque, in germe, la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola sacra»39. È solo un esempio, si è detto; ma la differenza tra Marx e Tocqueville è di ordine generale; attiene, direttamente, ai ‘princìpi’ originari delle loro rispettive posizioni: nella Democrazia in America il problema è quello di delineare una teoria complessiva del dispotismo, cercando di individuare le strade in grado di salvaguardare il «libero arbitrio», rallentando il processo di indebolimento antropologico frutto dell’eguaglianza delle condizioni, della democrazia; per Marx la democrazia – la «democrazia della libertà» – è la piena, e concreta, realizzazione della «idea» di costituzione, cioè – in una parola – della «sostanza» nella sua integralità. 39   K. Marx, Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, Einaudi, Torino 1950, pp. 394-395.

Democratizzazione e potere «carismatico»

Qui diable allait-il faire dans cette galère? Molière (e Mann)

Tocqueville ha avuto il merito decisivo di cogliere il nesso tra democrazia e dispotismo, tra forme ‘patologiche’ della democrazia e nuovo – «dolce» – dispotismo, sottolineando con energia l’incidenza che nel prodursi di questa patologia ha l’imporsi del dominio del potere «amministrativo» su ogni aspetto della vita della nazione. «In un paese democratico – sottolinea –, di forte, vi è solo lo Stato», con conseguenze assai gravi sulla sua solidità, specialmente in tempo di guerra. È vero infatti che quando una nazione democratica è «ricca e popolosa» può diventare «facilmente conquistatrice»; ma è altrettanto certo che se viene vinta e il suo territorio è invaso, fino alla perdita della capitale, essa è «perduta». In democrazia, infatti – spiega Tocqueville – «poiché ogni cittadino è individualmente isolato e debole, nessuno può difendersi da solo, né offrire ad altri un punto d’appoggio [...]». E questo comporta che «se la forza militare dello Stato viene messa in ginocchio con la distruzione dell’esercito, e il potere civile è paralizzato dalla conquista della capitale, il resto non forma più che una massa senza ordine e senza forza che non può lottare contro la potenza organizzata che l’attacca». A differenza di quanto avviene negli Stati aristocratici, che hanno maggiori difficoltà a conquistare i loro vicini, ma sono anche capaci di difendersi meglio dalla conquista altrui, «perché il nemico trova ovunque piccoli focolai di resistenza che lo fermano»1.   Tocqueville, La democrazia in America, cit., pp. 777-778.

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Sono, con evidenza, temi di matrice machiavelliana, come dimostra la citazione esplicita che su questo punto Tocqueville fa del Principe, ma avendo in mente – ed è questo che interessa sottolineare – la debolezza strutturale dello Stato democratico, generata proprio dal primato della amministrazione sulla politica: «Machiavelli dice ne Il Principe che ‘è molto più difficile soggiogare un popolo che ha come capi un principe e dei baroni, che una nazione guidata da un principe e da degli schiavi’. Mettiamo, per non offendere nessuno, funzionari pubblici al posto di schiavi, e avremo una grande verità [...]»2. Lo Stato democratico rappresenta, in prospettiva, la fine dello Stato. Come si vede, Tocqueville comincia a cogliere, con acutezza, le nuove dinamiche della politica di massa su tutti i piani della vita sociale e politica (basta pensare agli acutissimi giudizi espressi su Napoleone III nei Souvenirs)3; ma non si sofferma in modo sistematico nell’analisi delle forme specifiche di questo dominio, per un motivo tanto decisivo quanto naturale: nonostante l’acutezza del suo sguardo, egli resta, storicamente, al di qua delle forme della «politicizzazione» e della «democratizzazione» di massa tipiche del Novecento. È sintomatico e, al tempo stesso, rivelatore che Thomas Mann, nelle Considerazioni di un impolitico, abbia stabilito la linea di demarcazione tra Ottocento e Novecento proprio su questo punto, prendendo, come è noto, nettamente posizione a favore del primo, nel quadro di una durissima polemica contro i «letterati» devoti alla Francia e il primato della politica tipico del Novecento. Per quanto è essenziale del mio spirito, io sono un vero figlio del secolo nel quale cadono i primi venticinque anni della mia vita, il diciannovesimo [...]; il mio epicentro spirituale si trova al di qua della svolta del secolo. Romanticismo, nazionalismo, borghesia, musica, pessimismo, umorismo, questi elementi che erano sospesi nell’atmosfera del secolo passato sono anche le componenti principali e impersonali della mia esistenza [...]; questa tendenza ricca di variazioni, questa atmosfera dominante del diciannovesimo secolo, così veritiero, così alieno dal culto dei bei sentimenti, così lontano dalle squisitezze verbali e dalle tenerezze, così sottomesso alla realtà e alle situazioni di fatto, è stata l’eredità decisiva che da esso ho raccolto [...]4.   Ivi, p. 777.   Cfr. Tocqueville, Ricordi, cit., pp. 211-214. 4   T. Mann, Considerazioni di un impolitico, a cura di M. Marianelli e M. Ingenmey, Adelphi, Milano 1997, pp. 42, 44-45. 2 3

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È il mondo della Kultur, della «musica», quello di Mann; e si oppone frontalmente all’«impero della civilizzazione», alla «democrazia mondiale», alla «società dell’umanità» e al «letterato» – in primo luogo il fratello Heinrich – che la interpreta e la propaganda senza misura e senza pudore: un mondo che «potrebbe avere un carattere piuttosto latino o anglosassone, nel quale lo spirito tedesco finirebbe col diluire e sparire, verrebbe estirpato, non esisterebbe più»5. Le Considerazioni sono un libro difficile, di complessa decifrazione, come sapeva del resto lo stesso Mann, che impiega varie pagine per definire, senza riuscirci, il genere letterario al quale esse appartengono: non «è il caso di parlare di un libro» – osserva –; è piuttosto «qualcosa di mezzo fra l’opera e un’effusione dell’animo, fra la composizione e un gravoso esercizio di lettura», «una specie di diario»6. Qualunque sia il genere letterario cui esse appartengono, sono un libro formidabile per più ordini di considerazioni: anzitutto, per la consapevolezza di provenire «da un mondo artistico scosso nelle sue fondamenta, dallo stato di crisi e di turbamento di tale mondo costretto a rivelarsi del tutto incapace di trovare qualsiasi altro modo di esprimersi» – una «situazione spirituale» in cui «fluttuava ogni cosa»; di «sconvolgimento» di «tutti i fondamenti culturali»; «di un tumultuare di pensieri senza via di scampo nell’arte», che aveva costretto Mann a chiudersi nella «galera» in cui le Considerazioni sono, consapevolmente, scritte7. In secondo luogo, esse sono un testo straordinario per la violenza, e la radicalità, con cui Mann attacca la democrazia: non una teoria di governo, non una forma politica, ma una vera e propria concezione della realtà, che «solo superficialmente ha a che fare con il diritto di voto», perché, con quel nome «improprio», egli stesso sa di portare alla luce questioni che riguardano non la politica o la teoria dello Stato, ma, direttamente, i fondamenti originari dell’esistenza umana, ciò che rende possibile, e necessaria, la comune civiltà, la Kultur8. In terzo luogo, quelle pagine colpiscono per la consapevolezza – e la lucidità – con cui Mann intreccia democrazia e politica, stabilen  Ivi, p. 59.   Ivi, p. 32. 7   Ivi, p. 34. 8   Ivi, p. 60. 5 6

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do su questo punto preciso la linea di demarcazione – ‘metafisica’, verrebbe da dire – fra Kultur e Civilisation: «se nelle considerazioni seguenti l’identità del concetto di ‘politica’ con quello di ‘democrazia’ viene propugnata o ammessa come scontata, questo avviene per un diritto riconosciuto con una chiarezza insolita» – osserva discorrendo del suo libro. Non si è politico «democratico» o politico «conservatore»: si è politici o non si è. E quando si è, si è democratici. L’atteggiamento spirituale del politico è in sé democratico; la fede nella politica è fede nella democrazia, nel contrat social. Da più di un secolo e mezzo tutto quello che in senso più propriamente spirituale si intende per politica, risale a Jean-Jacques Rousseau: è lui il padre della democrazia, per il fatto che è il padre dello spirito politico stesso, dell’umanità politica9.

Infine – ed è, per molti aspetti, il punto più notevole –, le Considerazioni sono un testo memorabile per la inquieta coscienza con cui Mann sospetta di essere, egli stesso, parte integrante – per la sua natura «letteraria» – di quella crisi; di essere, anche personalmente, immerso in essa; di essere insomma, al tempo stesso, critico ed espressione di una sorta di magma che egli per primo non riesce a dominare, controllando in modo adeguato la pulsione di tipo autobiografico, anzi esistenziale, con cui scrive questo suo personalissimo ‘diario di bordo’. È proprio in questa problematica – e in questa interrogazione, nelle quali si intrecciano e si fondono problemi esistenziali e questioni storiche di grande portata – che sta il fascino delle Considerazioni ed anche del loro stile tormentato, della loro impervia scrittura: sono, l’uno e l’altra, espressione diretta di quel magma, nel quale si manifesta – implicitamente e in modo esplicito – la persuasione che esso sia ormai difficilmente controllabile, perché incontrollabile è il processo di fondo che esso, sia pure in modo caotico, esprime, distruggendo le fondamenta di un intero mondo, di un completo patrimonio artistico e culturale. Quel processo – e quel magma – hanno per Mann un nome preciso, ed è questo che lo spinge ad impegnare questa durissima polemica con la politica, con la democrazia: è la «politicizzazione di ogni ethos», la «politicizzazione dello spirito»: in una parola, la «demo-

  Ivi, p. 49.

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cratizzazione», la «politicizzazione di massa», con tutto ciò che essa comporta, dal punto di vista della vita dello spirito10. L’«umanità» concepita come internazionalismo umanitario, la «ragione» e la «virtù» come repubblica radicale, lo spirito come qualcosa fra il club giacobino e la loggia del Grande Oriente, l’arte come letteratura sociale e retorica sdilinquita con malizia a servizio delle «aspirazioni» sociali: ecco, nell’ambiente biologico della politica che gli era proprio, il Nuovo Pathos come l’ho visto io da vicino11.

Di fronte al «Nuovo Pathos», Mann ha la percezione, e la tormentosa consapevolezza, che tutto sia entrato in movimento, che niente sia più fermo, che ogni risultato sia possibile, anche il peggiore. Oltre a capire che un mondo è finito e che una nuova epoca si è aperta, intende, infatti, che essa è connotata da una trasformazione tanto netta quanto irreversibile, costituita dall’avvento delle masse sul piano politico e sociale; ed intuisce che questo evento eccezionale può avere effetti devastanti su tutti i piani della realtà – a cominciare dalla sfera artistica e, prima ancora, dalla stessa continuità di quel mondo di cui si sente figlio. Da questa persuasione – che è la ragione di un’angoscia sia esistenziale che storica – scaturiscono la polemica con la politica, la identificazione della politica con la democrazia, e la difesa, come programma personale e storico, della «impoliticità» della Germania contro la «democratizzazione» e la «politicizzazione di massa», rappresentata dalla Francia e dalla eredità dei giacobini e di Rousseau. E qui stanno, anche, le radici del libro, coevo alle Considerazioni, su Federico II e la grande coalizione: il contrasto è antico, sprofonda nelle viscere dell’Europa, e riguarda direttamente il destino e l’avvenire dell’intero continente; perché quello che è in atto – e su questo Mann è nettissimo – è un vero e proprio scontro di civiltà, non riducibile in termini amministrativi o puramente politici. Da un lato, spirito, anima, libertà, arte, cosmopolitismo, Kultur, «il popolo impolitico per eccellenza» (che non ha rinunciato per questo alla volontà di potenza e di grandezza); dall’altro, politica, società, diritto di voto, letteratura, la Francia... È un conflitto che, con quello della Germania, coinvolge il destino dell’intera Europa: nelle Considerazioni, Germania ed Europa sono unum et idem.

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  Ivi, pp. 49, 50, 56.   Ivi, p. 49.

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Da questo punto di vista, il libro di Mann è, anzitutto, un documento eccezionale per la lucidità con cui avverte la fine di un mondo e l’estrema difficoltà di contrastare il nuovo. Un nuovo che incute «terrore» (per riprendere un termine usato da Tocqueville di fronte all’avanzare della democrazia); un «terrore» che nasce dalla percezione dell’avvento delle «masse»; della loro potente organizzazione politica e sociale; di ciò che esse rappresentano per il mondo da cui egli stesso proviene. È per questo che Mann decide di chiudersi in una «galera»: la battaglia da ingaggiare è universale, e definitiva, per la radicalità e la sostanzialità di ciò che viene messo in gioco, sia sul piano spirituale che su quello propriamente letterario: se i «letterati» vincono, è il suo stesso lavoro di artista che diventa impossibile, perché crolla il mondo da cui esso trae forza ed energie. Ma proprio su questo punto, che è alla base di tutto il libro, Mann si pone l’interrogazione più diretta e più tormentosa, perché concerne il fondamento e il senso stesso del suo lavoro di artista; quell’interrogazione che fa di questo libro, in apparenza chiuso e serrato nelle sue dure e violente riflessioni, un testo inquietante, ambiguo e, al tempo stesso, profondamente problematico: Se fossi io stesso ad alimentare, nell’intimo conservatorismo di me stesso, elementi che dessero appoggio al «progresso» della Germania? – si chiede alla fine della sua tormentosa via Crucis –. Se io stesso con una parte del mio essere fossi invece già da tempo a favorire il progresso della Germania verso quello che nel libro viene definito, con un nome tutt’altro che appropriato, «democrazia»?12

E questo proprio per la parte del suo essere che più gli sta a cuore e che egli vuole difendere, in modo programmatico, con le Considerazioni: «giacché la letteratura [...] è fondamentalmente democratica e civilizzatrice, o meglio, è lo stesso che democrazia e civilizzazione»13. Se così stanno le cose – e il «progresso» ha già vinto – qual è il destino dell’arte, dell’artista, nel nuovo tempo che si apre? Le Considerazioni sono un testo tragico, perché pongono una interrogazione che, nel momento stesso in cui viene enunciata, dischiude un abisso, testimoniando sul piano strettamente personale ed esistenziale la   Ivi, p. 60.   Ibidem.

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durezza, la violenza e il vasto ramificarsi del «Nuovo Pathos», del tempo democratico. Mentre cerca di difendere la Kultur – anche per difendere il senso stesso della propria esistenza –, forse Mann, inconsapevolmente, sta lavorando – e proprio con la sua attività di artista – al tramonto e alla fine di quello che egli si è proposto di difendere e per cui si è dichiarato pronto a dare, con «serietà» e «coscienziosità», tutto il proprio essere. «Mai nessuno ha avuto un fiuto più fine del mio per i segni dell’ascesa e della caduta, io sono il maestro par excellence di tutto questo – conosco l’una e l’altra cosa, sono l’una e l’altra cosa»14, aveva scritto il suo ‘maestro’ Nietzsche in Ecce homo. Forse è proprio questo che Mann ambiguamente intuisce e sottolinea con la sua domanda: di essere l’una e l’altra cosa. Mentre pensa di costruire, sta invece contribuendo con la sua opera di artista alla demolizione del mondo dal quale quell’opera è scaturita, confermando in modo tanto tragico quanto inequivocabile quello che Tocqueville aveva detto con chiarezza nella prima Democrazia in America pubblicata nel 1835: che la democrazia è un destino ineludibile e inevitabile anche per l’arte, per l’artista. Le Considerazioni, per questo complesso di motivi, sono un testo straordinario, come Mann sapeva per primo. Non meraviglia, perciò, la battuta che fa, a tanti anni di distanza, su quel suo antico lavoro, nel periodo della scelta antinazista: «Il mio atteggiamento democratico non perfettamente sincero è solo una reazione irritata all’‘irrazionalismo’ dei tedeschi, alle loro profondità fasulle [...]. Ho sempre sentito che, al tempo della mia ostinazione reazionaria, nelle Considerazioni di un impolitico, ero stato molto più interessante e lontano dalle banalità»15. E poco prima aveva già sottolineato in modo esplicito un punto che per lui restava cruciale: «In fondo sono l’autore delle Considerazioni di un impolitico – non lo ero; lo sono»16. Aveva ragione: in quel testo ambiguo, inquietante e problematico erano raccolte come in una cellula musicale originaria tutte le radici della sua personalità di artista e anche di «letterato».

14   F. Nietzsche, Il caso Wagner, Il crepuscolo degli idoli, L’anticristo, Ecce homo, Nietzsche contra Wagner, versioni di F. Masini e di R. Calasso, Adelphi, Milano 1970, p. 271. Su Nietzsche che «si definì ‘l’ultimo tedesco impolitico’», cfr. Mann, Considerazioni di un impolitico, cit., pp. 159, 256 (a p. 159, una utile nota del traduttore: «Nietzsche non usa l’aggettivo unpolitisch, ma antipolitisch»). 15   J. Fest, I maghi ignari, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 45-46. 16   Ivi, p. 47.

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Benedetto Croce, come si sa, si considerava amico di Thomas Mann e a lui dedicò la Storia d’Europa, una delle sue opere più impegnate sul piano etico-politico. Ma espresse con chiarezza le sue critiche alle posizioni sostenute nelle Considerazioni di un impolitico, che peccavano ai suoi occhi di astrattezza teorica e, soprattutto, di inconsistenza politica, anzitutto per la rigida distinzione posta da Mann fra «aristocrazia» e «volgo»: giacché il volgo resta – scrive sulla «Critica» il 20 maggio 1920, recensendo la seconda edizione del testo –; resta, perché opera (a suo modo, ben s’intende), e compie i suoi molteplici ufficii, tra i quali c’è anche quello di stimolare e accrescere nell’aristocrazia la coscienza dell’aristocrazia. Nessuna guerra, nessuna conquista, nessun assoggettamento, nessuna rivoluzione, nessuna invasione di popolo l’ha mai distrutto; e se la Germania (che pensa e sente come Mann) si proponeva questo fine, non fa meraviglia che abbia perduto la guerra, e l’abbiano guadagnata invece coloro che hanno saputo far meglio i conti con il volgo17.

In altri termini, con questo giudizio Croce sottolineava la necessità che l’aristocrazia – cioè le «classi dirigenti» – si confronti con il «volgo», quando voglia esprimere una effettiva direzione egemonica sull’insieme della società, a iniziare, ovviamente, dalle «moltitudini» (per citare il lemma che Croce usa). Ma dando a Mann questa vera e propria lezione di ‘alta politica’ (di cui sono una testimonianza straordinaria le coeve Pagine sulla guerra), Croce dimostrava di appartenere a una ‘tradizione’ assai diversa da quella del suo amico tedesco, nella quale aveva avuto – e continuava ad avere – un peso determinante la lezione di Marx. Del resto, è Croce stesso, nella Introduzione, scritta a Viù nel 1917, a Materialismo storico ed economia marxistica, a presentare con chiarezza la genealogia in cui si riconosceva e, in modo specifico, le radici teoriche della sua critica alla democrazia e, in genere, al pensiero illuministico contro il quale anche le Considerazioni – ma insistendo sul punto della «impoliticità» – avevano condotto una battaglia frontale: Chi tornerà col pensiero sulla storia della cultura italiana degli ultimi decenni non potrà, a mio avviso, non avvertire la larga e benefica efficacia esercitata dal marxismo sugli intelletti italiani tra il 1890 e il 1900 [...]. Ora, dopo più di vent’anni, il Marx ha perduto in gran parte l’ufficio di maestro, 17

  «La Critica», XVIII, 1920, pp. 182-183.

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che allora tenne [...]. La qual cosa non deve impedire di ammirare pur sempre il vecchio pensatore rivoluzionario (per molti rispetti assai più moderno del Mazzini, che gli si suole presso di noi contrapporre); il socialista, che intese come anche ciò che si chiama rivoluzione, per diventare cosa politica ed effettuale, debba fondarsi sulla storia, armandosi di forza o potenza (mentale, culturale, etica, economica), e non già confidare nei sermoni moralistici e nelle ideologie e ciarle illuministiche. E, oltre l’ammirazione, gli serberemo – noi che allora eravamo giovani, noi da lui ammaestrati – altresì la nostra gratitudine, per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni (Alcina, la decrepita maga sdentata, che mentiva le sembianze di florida giovane) della Dea Giustizia e della Dea Umanità18.

Erano, come si vede, gli stessi obiettivi polemici di Mann; ma agli occhi di Croce le Considerazioni di un impolitico finivano per apparire una sorta di sermone moralistico, privo di conseguenze pratiche e infecondo sul piano teorico. Se si voleva battere la democrazia, occorreva scendere su un altro terreno, abbandonare in questo caso le alte cime delle ‘concezioni del mondo’ – tanto più se concepite in maniera astratta –, e confrontarsi con i movimenti che ad essa facevano capo sul piano concreto, facendo valere la superiorità delle proprie posizioni. In breve, rispetto a Mann, il terreno su cui porre la critica della democrazia per Croce era la politica, con un netto, e conseguente, rifiuto della «impoliticità», sia sul piano politico che su quello ideale. Non era una novità, per Croce, affermare queste tesi: nelle due famose interviste del 1910 e del 1911 su La ‘mentalità massonica’ e La morte del socialismo aveva sottolineato con energia gli stessi punti, rivendicando anche in quel caso il valore della lezione di Marx e, al tempo stesso, il superamento che egli, con la sua opera, riteneva di averne compiuto19. Soprattutto in quelle pagine – ed è questo che qui interessa sottolineare – Croce aveva esplicitamente sottratto Marx alla democrazia, sostenendo che il «rigetto del socialismo utopistico» aveva significato il «rigetto assoluto dell’idea di eguaglianza». Il «passaggio dall’utopia alla scienza», sostenuto dal socialismo marxista, aveva espresso, precisamente, questo: 18   B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Laterza, Bari 1968, p. xiv. 19   B. Croce, Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, 3ª ed., Laterza, Bari 1955, p. 143.

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il passaggio dall’astratto ideale alla concretezza della storia, l’abbandono dell’«eguaglianza», cioè di un concetto aritmetico e geometrico, per un concetto biologico, per la vita che è disuguaglianza e asimmetria. Quindi lotta di classe, aristocrazia lavoratrice (ben distinta dal proletariato cencioso, dalla pezzenteria), che vinca la borghesia e trasformi il complesso sociale, dominio crescente sulle forze cieche della natura, predominio della tecnica20.

Marx, secondo Croce, non ha niente in comune con l’Illuminismo e con Rousseau (dal quale, come si è visto, nella Questione ebraica aveva preso in effetti le distanze, criticando il carattere «astratto» della sua concezione della politica); né poteva essere considerato un teorico e un sostenitore dell’eguaglianza. Il concetto di lotta di classe implicava una visione di tipo biologico (darwiniano) della vita, alla quale era connesso il continuo formarsi di nuove aristocrazie, compresa l’aristocrazia lavoratrice generata dalla critica di Marx al concetto di eguaglianza e anche dalla sua azione di agitatore politico: «il vero Marx del socialismo»21. Da questo punto di vista, per Croce, vi è una opposizione frontale fra il socialismo marxista e l’«astrattismo» della «mentalità massonica» – di matrice illuminista e giacobina – che «in nome della ragione, della libertà, della umanità, della fratellanza, della tolleranza» semplifica ogni cosa: la storia, la filosofia, la scienza, la stessa morale... Anzi, il socialismo – «nato dalla filosofia hegeliana, nutrito di realtà storica, violento, sarcastico, avverso ai sentimentalismi e alle fratellanze» – non poteva che ricevere danni da questa «mentalità», alla quale era opposto da ogni punto di vista. La crisi, il tramonto del socialismo in Italia era, secondo Croce, proprio l’effetto del suo «massonizzamento», cioè del dilagare della «mentalità massonica»: il che non toglieva i meriti che il socialismo aveva avuto nella generale storia dell’umanità, e anche in quella italiana22. E che consistevano, appunto, nel rifiuto del «socialismo egalitario ed ottimistico, che è diventato ridicolo»; nella sua opposizione a ogni tentativo di reazione; nell’ostacolare l’insorgere in Europa di nuove guerre; nel favorire la «legislazione del lavoro» e l’innalzamento delle condizioni di vita della classe operaia sia sul piano materiale che su quello intellettua  B. Croce, La morte del socialismo, ivi, pp. 151-152.   Ivi, p. 153. Su questo punto cfr. M. Ciliberto, Malattia/Sanità. Momenti della filosofia crociana tra le due guerre, in Id., Figure in chiaroscuro. Filosofia e storiografia nel Novecento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2001. 22   La ‘mentalità massonica’, in Croce, Cultura e vita morale, cit., pp. 145, 149. 20 21

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le, oltre a contribuire – e questo agli occhi di Croce era un merito fondamentale – «al risveglio filosofico e alla eliminazione del goffo positivismo», «intensificando gli studi di storia economica» e guardando «in modo nuovo alcune parti della storia». Tutti «doni» – e di prima grandezza – che il socialismo aveva fatto alla civiltà moderna, alla quale, invece, la «mentalità massonica» – cioè la democrazia – era rimasta sostanzialmente estranea, chiusa in posizioni e atteggiamenti privi di qualsiasi fecondità per il progresso del mondo moderno. In conclusione, con queste due interviste Croce faceva un’operazione assai accorta, strettamente connessa, a sua volta, alla delineazione di un preciso programma politico (come appare chiaro da un altro testo coevo, Il Partito come giudizio e pregiudizio): prima contrappone democrazia e socialismo, sostituendo al concetto di eguaglianza quello, di origine biologica, della vita come «diseguaglianza e asimmetria»; poi afferma che il socialismo, anche per il suo «massonizzamento», è finito; infine sostiene una posizione che riduce i partiti ai «generi della casistica politica, corrispondenti ai generi letterari della retorica». È questo il senso – e il risultato – politico della distruzione del concetto di eguaglianza operata da Croce alla svolta degli anni Dieci del Novecento, coinvolgendo in essa anche Marx: quel Marx che, come abbiamo visto, sia nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico che nella Questione ebraica aveva affermato il valore prioritario della «democrazia della libertà» – cioè della eguaglianza –, fino al punto di criticare, proprio su questo terreno essenziale, i limiti di fondo della «rivoluzione politica» moderna. Paradossalmente però, è proprio su questo ultimo punto – come si è già accennato – che si può individuare una convergenza tra Marx e Croce: nella critica del carattere «astratto» della concezione della politica elaborata dagli illuministi e, in modo specifico, da Rousseau. Nelle «noterelle» sulla Storia della filosofia della politica, discorrendo di Jean-Jacques, Croce usa lo stesso lemma usato da Marx nella Questione: «quella natura fuori della storia, quella ragione senza realtà, sono astrazioni», e in questo modo «si chiamano coloro che così pongono il problema del giudicare e del fare: ‘intelletti astratti’»23. Ma questa critica – e il lemma che la incarna – scaturivano da motivazioni opposte: per Marx il problema è la «vera» democrazia, 23  B. Croce, Per la storia della filosofia della politica, in Id., Etica e politica, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1994, p. 298.

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realizzata, a quella data, attraverso il concetto feuerbachiano di «ente generico» e la critica radicale della politica che ne discendeva; per Croce, il problema è distruggere in modo definitivo il concetto di eguaglianza, recuperando la dimensione politica, ma riducendola alla capacità di trovare «problemi» concreti, traendosi fuori dai partiti «per affisare, sopra di essi, unicamente la salute della patria». Sono posizioni frontalmente opposte, di cui è pietra di paragone proprio l’opposto giudizio sul concetto di eguaglianza, di democrazia. Ma, a differenza di Mann, Croce prende atto – e lo farà in modo progressivamente più netto – della «politicizzazione di massa» che connota il nuovo secolo; e invece di irridere, e insultare, il «Nuovo Pathos», si sforzerà di individuare soluzioni teoriche e politiche in grado di confrontarsi con la nuova situazione. Mentre Mann oppone in modo rigido «aristocrazia» e «volgo», Croce, da un lato, critica l’eguaglianza; dall’altro, elabora un concetto di aristocrazia assai diverso – concepito in modo aperto, «in un continuo rinnovamento, i cui componenti, compiuta l’opera loro, muoiono o tornano nelle file, sopravvivendo all’ufficio esercitato»24. Sono battute di un testo degli anni successivi, nel quale Croce espone con molta chiarezza il suo punto di vista su questo problema cruciale, criticando, secondo un suo metodo tipico, le due posizioni «estreme» – a suo giudizio, sbagliate – e facendo scaturire in modo naturale quella che è la posizione giusta. In questo caso, la prima posizione da respingere – se pure esposta in conclusione della nota – è l’«idea mistica della massa, che si è venuta formando nell’Ottocento e che ora par che abbia raggiunto il suo più alto punto»; in sintesi, quell’«idea irrazionale della massa» che è in sintonia con l’irrazionalismo contemporaneo. La seconda è la posizione dei soliti «estetizzanti», i quali considerano la massa «come il mostro immane da schiacciare, da legare, da deludere». Sono entrambe posizioni sbagliate: «masse ed aristocrazia non sono [...] entità separate e separabili, due mondi ciascuno chiuso in sé e che non può far pressione sull’altro se non dall’esterno; ma, tra loro comunicanti, compongono entrambi l’unica società umana in un continuo intimo fervore di reciproci scambi e trasformazioni»25.

  B. Croce, Discorsi di varia filosofia, vol. II, Laterza, Bari 1959, p. 184.   Ivi, p. 186.

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Né questa aristocrazia va concepita in modo rigido, castale: essa è aperta, e i nuovi elementi di cui essa si compone provengono precisamente dalla massa, che per questo deve essere educata e non lasciata in una condizione di miseria e di schiavitù da cui possono discendere solo effetti negativi sia sul piano sociale che su quello dei singoli individui e dei loro comportamenti morali. Bisogna, invece, educare le masse. Non solo: occorre «anche metterle in condizioni di libertà affinché si educhino da sé», altrimenti resterebbero sempre in fasce, affidandosi oltre che al lavoro dell’educatore, all’opera della vita. È in questo modo che si possono ottenere due risultati, entrambi fondamentali: rinsanguare l’aristocrazia, immettendo in essa elementi sempre nuovi; creare un «ambiente generale in cui i concetti nuovi, gli arditi disegni, le sagge provvidenze che nascono e si maturano nel cuore dei pochi, vengono accolti con minori fraintendimenti e ostacoli e col maggior consenso, e trovano molti animi disposti a cooperare alla loro attuazione»26. Qui la critica della eguaglianza s’intreccia a una visione limpidamente liberale che – anche sulla base delle posizioni degli «elitisti» – sfocia in una rottura delle rigide gerarchie sociali e intellettuali, dei ruoli fissati una volta per tutte e in una forte apertura nei confronti della «società civile» e anche dell’azione che, oltre alla scuola, possono svolgere, nell’opera di educazione delle masse, «associazioni operaie, camere di lavoro, sindacati, richieste di provvedimenti legislativi, leghe di resistenza, scioperi, e simili istituti e azioni», i quali sono in grado di dare un contributo assai alto nella formazione di coloro che sono già adulti27. Del resto, questo è un tratto tipico di Croce, ben visibile anche nella sua azione di ministro della Pubblica Istruzione nell’ultimo governo Giolitti: a differenza di Gentile, che attribuirà, nel processo di riforma, un ruolo – di carattere ‘giacobino’ – all’azione centrale del Ministero, egli aveva guardato alla ‘società civile’ come al centro nevralgico della sua azione riformatrice, e si era volutamente ben guardato dall’intervenire nel corpo della scuola italiana con drastici interventi ‘dall’alto’. Ma il vero punto di distanza di Croce da Mann riguarda, direttamente, la categoria di «impoliticità», dalla quale è massimamente  Ibidem.   Ivi, p. 185.

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distante sia per motivi teorici, sia per le conseguenze che essa può avere dal punto di vista del concreto movimento storico, dell’avanzamento della civiltà, come specifica con notevole chiarezza in una nota del 1931 intitolata, appunto, Apoliticismo28. In questo caso Croce prende le mosse da due raccomandazioni che in genere la società rivolge a coloro che si dedicano alla ricerca artistica, intellettuale, scientifica: non lasciarsi condizionare dalle «passioni» e dalle «tendenze della politica»; non partecipare, in modo diretto, alla vita politica – raccomandazione, questa seconda, che non ha «il carattere assoluto della prima, perché gli uomini della contemplazione e della meditazione non sono astratti spiriti contemplanti e meditanti, ma uomini, e, se la linea fondamentale della loro vita è indirizzata a quelle opere, non vi si esaurisce»29. Ma, osserva Croce, anche la prima raccomandazione va accolta cum grano salis, se non si vuol precipitare, dall’apolitia, nella «totale apatia» che è la morte di ogni cosa, compresa la fantasia, il pensiero, la poesia, la filosofia, «le quali non in altro hanno la loro materia che nelle passioni della vita [...]»30. Chiedere al poeta, al filosofo di astenersi dalla politica significherebbe chiedergli di astenersi da quella che è la materia viva del suo lavoro, della sua ricerca. L’uomo – sottolinea Croce – è un «intero» e ha interesse per la vita nella varietà e nella molteplicità dei suoi aspetti. Quella «esortazione e raccomandazione» deve essere perciò accolta con misura e intelligenza: con essa non si vuol inculcare l’apoliticismo, ma, come si dovrebbe dire esattamente, il simpoliticismo, l’interessamento per la politica come per ogni altra parte della vita umana [...] per convertire l’energia di quel sentimento in pura poesia, filosofia e storiografia; il che non avrebbe effetto se non ci fosse quell’energia di sentimento, se lo spirito del poeta, del filosofo e dello storico fosse indifferente, che vuol dire vuoto31.

E questo risulta, concretamente, da un fatto preciso: gli scrittori apolitici sono disprezzati come puri «letterati», a differenza dei

  B. Croce, Apoliticismo, in Id., Ultimi saggi, 2ª ed. riveduta, Laterza, Bari 1948, pp. 295-300. 29   Ivi, p. 297. 30   Ivi, pp. 298-299. 31   Ivi, p. 299. 28

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grandi poeti che trasformano in energia poetica tutte le loro passioni, comprese quelle politiche. Il concetto di ‘apoliticismo’ di Croce non è ovviamente identificabile con quello di ‘impoliticità’ di Mann, che ha uno spessore sia teorico che esistenziale assai più vasto e tocca, in modo diretto, il piano delle ‘concezioni del mondo’. È interessante però il rovesciamento di significato che il concetto di ‘letterato’ subisce in questa pagina di Croce rispetto alle Considerazioni di un impolitico: lì il ‘letterato’ è il politico, il demagogo, colui che subordina al «Nuovo Pathos» l’arte, lo spirito; nel testo di Croce accade l’opposto: il ‘letterato’ è colui che non ha passioni e tendenze politiche, e che perciò è sterile e disprezzato per la sua ‘pedanteria’ dalla società che lo circonda. Non si tratta, del resto, di uno slittamento di significato casuale o fortuito, anzi: esso scaturisce, direttamente, dalla concezione che Croce ha della politica e della funzione che essa riveste nel circolo della vita spirituale, rappresentato sul piano storico dal rapporto stabilito negli Elementi di politica tra Machiavelli e Vico. È di lì che germinano sia quella nota che lo ‘slittamento’ che la conclude32. Croce ha sostenuto con energia la coerenza e la continuità della sua ricerca; né c’è dubbio che nelle sue linee di fondo le cose stiano così. Ma ci sono anche profondi sviluppi e fasi di scavo, di approfondimento, che danno al ritmo del suo pensiero un andamento, e persino un fascino, particolari. Questo vale anche per la sua riflessione sulla democrazia, su cui, l’abbiamo visto, esprime un giudizio assai duro, servendosi addirittura, surrettiziamente, di Marx. Anche negli Elementi di politica, nelle «noterelle» sulla Storia della filosofia della politica si era espresso in modo netto, dopo aver ricordato la grande fortuna che gli ideali democratici avevano avuto nel «secolo decimottavo»: per grande che fosse allora l’efficacia polemica di quelle credenze e di quelle costruzioni, per grande che sia ancora, giacché tutti vediamo quale e quanto potere abbiano oggi i così detti ideali democratici, per grande che sia per essere in avvenire, è certo che quelle costruzioni, intese come dottrine ossia criteri di spiegazione dei fatti, erano e sono semplicemente assurde33.

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  Croce, Per la storia della filosofia della politica, cit., pp. 290-297.   Ivi, p. 300.

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Tanto più colpiscono di fronte a questa critica – e vanno perciò sottolineati – i termini nuovi con cui Croce nel gennaio del 1943 (le date contano) pone il problema del rapporto fra liberalismo e democrazia. Colpiscono anche perché muovono da una riflessione intorno a Tocqueville, il quale viene criticato per un «certo tratto conservatore [...], sebbene fosse un conservatorismo secundum quid, di origine nobilissima»; per «un attaccamento a talune tradizioni, istituzioni, condizioni di fatto in quanto egli le vedeva necessarie alla libertà, alla quale aveva sacrato tutto l’animo suo»34. Tocqueville – è questo il centro della critica di Croce (e anche di Omodeo)35 – non aveva avuto sufficiente «coscienza della intrinseca virtù creatrice» della libertà, e si era sforzato di cercare «sostegni fuori di lei». Croce si riferisce, evidentemente, alla funzione e al ruolo che Tocqueville aveva riconosciuto – come abbiamo visto sopra – alle associazioni come strumenti artificiali, ma essenziali per salvaguardare la libertà nel tempo del dispotismo democratico, sia in America, per contrastare la «tirannide democratica», sia in Europa, per ridestare il «libero arbitrio» umano messo in crisi – anzi in via di dissoluzione – ad opera del nuovo «potere sociale». Ma così facendo, secondo Croce, egli aveva mostrato di non intendere la «vitalità» della libertà, e che essa «solo per interne ragioni cresce, si fortifica, si amplia, s’innalza, e decade e si smarrisce, e poi di nuovo si avviva»36. Era una critica che discendeva dalla «metafisica della libertà» propria di Croce, che si era già espressa in grandi opere come la Storia d’Europa, e dalla quale Tocqueville era assai lontano per il sentimento propriamente tragico che aveva del nuovo tempo democratico e degli effetti distruttivi che avrebbe potuto avere sulla civiltà, se non fosse stato adeguatamente governato. Tocqueville, si è visto, aveva scritto il suo grande libro «sotto l’impressione di una sorta di terrore religioso», sorto nella sua anima alla vista di quella rivoluzione «irresistibile», che – scrive – «progredisce da tanti secoli,

34  B. Croce, Liberalismo e democrazia, in Id., Scritti e discorsi politici (19431947), vol. I, Laterza, Bari 1963, p. 115. 35   Di Adolfo Omodeo si veda Le memorie di Alessio di Tocqueville, in Id., Il senso della storia, a cura di L. Russo, 2a ed. ampliata, Einaudi, Torino 1955, pp. 386-401. 36   Croce, Liberalismo e democrazia, cit., pp. 115-116.

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sormontando qualsiasi ostacolo, e che ancora oggi avanza in mezzo alle rovine che essa stessa ha prodotte»37. Punti di vista assai diversi, anche in questo caso; ma, al di là delle differenze teoriche, quello che conta in questa pagina è il modo nuovo in cui Croce pensa la democrazia, e il rapporto reciproco – e vitale – con cui la pone nei confronti del liberalismo. Liberalismo e democratismo – osserva Croce – coincidono, e al tempo stesso divergono: «s’identificano in quanto l’uno e l’altro non vogliono sapere di domini dall’alto, teocratici o assolutistici che siano e cercano e affermano la libertà [...]»; divergono perché «la democrazia ha della libertà un concetto astratto, naturalistico e intellettualistico, e il liberalismo un concetto storico concreto; l’una deriva dal pensiero del secolo decimottavo, l’altro da quello del decimonono»38. È, quest’ultimo, il motivo critico che già si è visto all’opera sia negli articoli sulla mentalità massonica e sulla morte del socialismo che nelle «noterelle» di storia della filosofia politica. Tanto più è notevole il riconoscimento, da parte di Croce, che la democrazia, come il liberalismo, cerca e afferma la libertà. Né meno notevole è il riconoscimento che le fa subito dopo, sostenendo che, se sul piano teorico il liberalismo è superiore alla democrazia, sul piano pratico è auspicabile, e positivo, il rapporto reciproco, perché è da esso che scaturisce il superamento dei rispettivi difetti: Il liberalismo ha la sua forza e la sua debolezza nel suo procedere cauto, che tende a farsi timido; il democratismo, per contrario, nel suo radicalismo e semplicismo, che tende a sostituire alla qualità la quantità, all’effettualità della libertà la parvenza formalistica, e che, spingendosi all’estremo, senza volerlo, provoca e agevola l’intervento delle risoluzioni autoritarie, da esso aborrite in linea di principio39.

Sono due tipi «politici opposti», ma al tempo stesso «complementari»: come dimostra la stessa storia d’Italia, quando c’è questa concordia discors c’è progresso e prosperità; quando essa viene meno, c’è crisi e decadenza, come dimostrano i rivolgimenti europei del secolo e mezzo precedente: allora, il liberalismo si fece «scettico», «fiacco», «inoperoso», «o anche egoistico», mentre «le democrazie,   Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 19.   Croce, Liberalismo e democrazia, cit., pp. 116-117. 39   Ivi, pp. 117-118. 37 38

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scioltesi dalla guida e dal freno, che, pure indocili, finivano col sentire e accettare, del partito che era insieme loro avversario e loro amico, e procedenti impetuose e sconsiderate, misero capo di volta in volta ai Primi e ai Secondi Imperi e ad altre formazioni simili o analoghe»40. È, come si è detto, un testo notevole, e non per il riconoscimento del valore del liberalismo, quanto per la funzione assegnata alla democrazia. Sul piano teorico, essa è astratta, semplicistica, figlia del «secolo decimottavo»; dal punto di vista pratico, è invece una linfa essenziale del liberalismo, che senza la democrazia decade, perde forza, si chiude nel suo egoismo, smarrisce il senso dei fini e dei valori universali per i quali, pur con la sua «astrattezza», essa si batte. Con un risultato che può apparire paradossale: è proprio grazie alla sua «astrattezza» che la democrazia contribuisce a dare «concretezza» al liberalismo, impedendo che si ripieghi su se medesimo, e diventi «astratto», «sconoscendo» l’effettivo processo della libertà. Solo nel nesso di liberalismo e di democrazia è dunque possibile attingere la dimensione del «concreto», cioè del progresso storico: in una parola, della civiltà. Non è un piccolo riconoscimento, certo; specie se si tiene conto del punto da cui Croce era partito, e dell’asprezza dei giudizi che aveva dato in precedenza sulla democrazia41. Croce, l’abbiamo appena visto, critica l’«apoliticismo», ed anche su questo punto prende le distanze da Thomas Mann. Ma è soprattutto Max Weber che rifiuta in maniera drastica e radicale la «impoliticità» difesa con passione ed ardore in quel grande «diario» che sono le Considerazioni di un impolitico. Essa, egli scrive, è il segno di una miseria, di una grande debolezza, nella quale risiede l’eredità più grave lasciata da Bismarck alla Germania moderna; la quale potrà riprendersi e svolgere un ruolo adeguato solo a patto di ridare spazio e forza alla politica bloccando, ed eliminando, le derive di tipo autoritario – tipiche dell’epoca bismarckiana – provocate da quel dominio della burocrazia reso, a sua volta, possibile dalla miseria, anzi dall’assenza, della politica in Germania. È il tema su cui aveva   Ivi, p. 118.   Fra la ricchissima letteratura su Croce mi limito qui a rinviare a G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Morano, Napoli 1975; M. Maggi, L’Italia che non muore. La politica di Croce nella crisi nazionale, Bibliopolis, Napoli 2001; G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Laterza, Roma-Bari 2002 (1a ed. Il Saggiatore, Milano 1990). 40 41

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richiamato l’attenzione anche Theodor Mommsen, tracciando nel Testamento il bilancio tragico di una vita senza politica: Io – scrive – non ho mai avuto e mai agognato posizione e influenza politica; ma nel mio intimo, e, credo, con ciò che in me è di meglio, sono stato sempre un animal politicum, e desideravo di essere un cittadino. Questo non è possibile nella nostra nazione, nella quale il singolo, e sia pure il migliore, non trascende il servizio nei ranghi e il feticismo politico. Questo straniamento interno dal popolo a cui appartengo mi ha indotto in tutto e per tutto a non presentarmi con la mia personalità, per quanto mi fosse in qualsiasi modo possibile, dinanzi al popolo tedesco che non istimo [von dem mir die Achtung fehlt]. Io desidero che anche dopo la morte esso non si dia da fare con la mia individualità. Si leggano pure i miei libri, finché durano; quello che io sono stato o sarei dovuto essere, non riguarda la gente42.

È questo il punto centrale dell’analisi di Weber (e sta qui il suo momento di massima vicinanza con Tocqueville): in Germania manca la politica e nel vuoto da essa lasciato si è inserita la forza dura e ottusa, strutturalmente autoritaria, della burocrazia, pretendendo di assumersi la direzione dello Stato, cosa di cui essa è incapace per natura, funzione e anche per cultura. È questa la ‘potenza’ che la politica deve imparare a controllare e guidare, se vuole riaffermare il suo primato, distinguendo con forza le responsabilità, da un lato, dei ‘politici’; dall’altro, dei ‘funzionari’. Se non prevale sul potere della burocrazia, la politica non ha un futuro né in Germania, né altrove. Ma può farlo solo a patto di tener conto della nuova situazione storica, dell’epoca in cui si vive, che è quella della «democratizzazione» e della «politicizzazione di massa», l’epoca della «demagogia». Nel mondo contemporaneo, scrive Weber senza mezzi termini, «democratizzazione e demagogia vanno insieme»43, e di questo la politica – i politici – devono tenere massimamente conto, se vogliono ave42   Il testamento di Teodoro Mommsen, in G. Pasquali, Pagine stravaganti di un filologo, II, Terze pagine stravaganti, stravaganze quarte e supreme, a cura di C.F. Russo, Le Lettere, Firenze 1994, pp. 383-384. 43   M. Weber, Parlamento e governo. Per la critica politica della burocrazia e del sistema dei partiti, a cura di F. Fusillo, Premessa di F. Ferrarotti, Laterza, RomaBari 1993, p. 106. Mi limito, in coerenza con il ‘problema’ qui affrontato, a citare questo testo; ma, come è ben noto, si tratta di un Leitmotiv dell’opera weberiana, variamente sviluppato e riproposto.

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re successo. Riaffermare il primato della politica – e, prima ancora, della «vocazione» per la politica – significa comprendere anzitutto le nuove forme che essa deve assumere per imporsi alle ‘potenze’ che – in nome della «impoliticità» – mettono in questione il suo dominio, riducendola a una funzione subalterna o parassitaria. È sul filo di queste riflessioni che Weber si incontra con la questione della «carismaticità», cui dedica pagine assai importanti sia in Economia e società che nella Sociologia della religione44. Nell’epoca della «politicizzazione di massa», e della demagogia, la politica o è «carismatica» o non è; o impara a servirsi del «carisma», anche di quello della parola, oppure è destinata all’insuccesso. «Non v’è che questa scelta: o democrazia autoritaria (Führerdemokratie) e organizzazione di tipo ‘macchina’, o democrazia senza capo, vale a dire dominio dei ‘politici di professione’ senza vocazione, senza le qualità intime carismatiche che appunto creano il capo»45. E questo significa che, nell’epoca della «democratizzazione», la «carismaticità» è l’unico strumento di cui può, e deve, servirsi la politica se vuole affermare la sua «vocazione» ed imporre il suo primato. Il tema della carismaticità è dunque decisivo in Weber, ed è anche particolarmente interessante dal punto di vista scelto in questo lavoro. Conviene dunque, sia pure in modo ellittico, soffermarsi brevemente su di esso. Come è noto, Weber individua tre tipi puri di potere legittimo: razionale; tradizionale; carismatico. In questo ultimo caso, il potere «poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o alla forza eroica o al valore esemplare di una persona, e degli ordinamenti rivelati o creati da essa». Nel caso di questo tipo di potere, «si obbedisce al duce in quanto tale, qualificato carismaticamente, in virtù della fiducia personale nella rivelazione, nell’eroismo o nell’esemplarità, che sussiste nell’ambito di validità della credenza in questo suo carisma»46. Sono battute di Economia e società, in cui Weber svolge con ampiezza il tema della «carismaticità». Ma prima di vedere questi testi più da vicino, è necessario fare alcune osservazioni di ordine genera-

44   M. Weber, Economia e società, 2 voll., Introduzione di P. Rossi, Comunità, Milano 1961; Id., Sociologia delle religioni, a cura di C. Sebastiani, 2 voll., Introduzione di F. Ferrarotti, Utet, Torino 2008. 45   M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Nota introduttiva di D. Cantimori, traduzione di A. Giolitti, Einaudi, Torino 1966, p. 99. 46   Weber, Economia e società, cit., vol. I, pp. 210-211.

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le, per capire il significato profondo – e rivoluzionario – che Weber attribuisce alla dimensione della «carismaticità». Sono due, in particolare, i punti da sottolineare, assai significativi, peraltro, anche sul piano del lessico, come sarà facile vedere anche dalle citazioni seguenti: anzitutto occorre, naturalmente, aver presente la distinzione tra ‘scienze dello spirito’ e ‘scienze della natura’ che, in forme diverse, coinvolge larga parte della filosofia europea tra Otto e Novecento (compreso Benedetto Croce); in secondo luogo, e in stretta connessione con tale impianto teorico, bisogna tener conto della dialettica tra ‘forma’ e ‘vita’ (anch’essa assai corrente, a quella data, e su cui, come è noto, insisterà in pagine particolarmente efficaci Georg Simmel). Su questo sfondo problematico la «carismaticità», nella prospettiva di Weber, rappresenta, precisamente, la potenza della ‘vita’ che si oppone alla ‘forma’, collocandosi da un punto di vista radicalmente altro, irriducibile alla dimensione della «tradizione» e dell’«organizzazione» in tutte le sue forme – da quella di tipo patriarcale a quella burocratica. È grazie ad essa che irrompono, e si affermano, nuove forze, nuove energie che, contrapponendosi alle istituzioni tradizionali, vengono alla luce – e si potenziano – attraverso la «fiducia», l’«esperienza eroica», l’«illuminazione», l’«emozione»... Ed è proprio per questa sua specifica costituzione interiore che la «carismaticità», originariamente, ha a che fare anche con la magia, come lo stesso Weber chiarisce sia in Economia e società che in molti luoghi della Sociologia della religione. «Per ‘carisma’ si deve intendere una qualità considerata straordinaria (e in origine condizionata in forma magica tanto nei profeti e negli individui forniti di sapienza terapeutica o giuridica, quanto nei duci della caccia e negli eroi di guerra, che viene attribuita ad una persona») – scrive Weber in Economia e società, aprendo il capitolo sul Potere carismatico47. Ma, come si è accennato, il tema è trattato, per la sua centralità, anche nella Sociologia della religione: qui, discorrendo delle «tensioni tra mondo e religione», Weber sottolinea «come quei tipi di comportamento i quali, metodicamente elaborati come modo di vita, costituiscono il nocciolo sia dell’ascetismo che del misticismo, sono nati anzitutto da presupposti magici». Essi, spiega, «venivano usati per svegliare qualità carismatiche o

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  Ivi, p. 238.

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per scongiurare incantesimi maligni». E poco dopo – precisato che «l’ascetismo presenta le sue due facce: da un lato il ritiro dal mondo, dall’altro il dominio sul mondo in virtù delle forze magiche ottenute con il ritiro dal mondo» – osserva: «Nella storia di questo sviluppo il mago è stato il precursore del profeta [...]. Il profeta e il salvatore di regola erano legittimati dal possesso di un carisma magico [...]»48. È un tema centrale, sul quale non è il caso di insistere in queste pagine; può essere invece utile osservare di passaggio che, sul piano storico-filosofico, una precisa conferma della tesi di Weber – e del rapporto originario tra magia e carismaticità – è individuabile in molti pensatori del Rinascimento e, in modo particolare, in Giordano Bruno, il quale se ne serve sia in generale che nel quadro della sua riflessione civile e politica. Il motivo del «vincolo», del «vincolare» – su cui Weber insiste per chiarire il tipo di ‘legame’ che si stabilisce tra il capo carismatico ed i suoi seguaci – è, infatti, il nucleo centrale del De vinculis in genere – una delle sue principali opere magiche –, nella quale, muovendo dal «vincolo d’Amore», il Nolano illumina i vari tipi di vincoli che agiscono nell’universo, compreso il «vivere civile». Qui, il «capitano», il capo ‘carismatico’ – quale Bruno stesso sosteneva di essere – lega a sé i suoi seguaci, proprio sulla base di una azione di carattere magico, nella quale affondano le radici sia il suo «carisma» di capo, sia la sua capacità di vincolare, attraverso di esso, i suoi fedeli. Né questo procedimento eccezionale riguarda solo il «capitano» politico; concerne, allo stesso modo, anche il capo religioso; e, in generale, chiunque sia in grado, attraverso la magia naturale, di acquisire capacità eccezionali, trasformando gli altri uomini in propri adepti, pronti a seguirlo senza discussione, in totale dedizione e fedeltà49. La concezione weberiana della carismaticità come ‘potenza’, come ‘vita’, capace di scardinare le ‘istituzioni’ tradizionali – di qualunque specie esse siano –, si situa dunque su un orizzonte storico assai complesso entro cui si intrecciano motivi religiosi, politici, filosofici, magici... Ma, su questo sfondo (che qualche storico della scienza definirebbe ‘premoderno’), ciò che qui interessa sottolineare è proprio la tensione stabilita da Weber fra «carismaticità» e «burocrazia», alla   Weber, Sociologia delle religioni, cit., vol. II, p. 599.   G. Bruno, De vinculis in genere, in Id., Opere magiche, ed. diretta da M. Ciliberto, a cura di S. Bassi, E. Scapparone, N. Tirinnanzi, Adelphi, Milano 20032, pp. 413-584. 48 49

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quale sopra si è già fatto riferimento: e, in questo quadro, la rottura che il ‘portatore di carisma’ è capace di operare nella «razionalizzazione» e organizzazione ‘moderna’ di tipo burocratico, consentendo alla politica di riprendere la funzione e il ruolo che le spetta. Ma, anche alla luce di quanto si è detto nei capitoli precedenti, c’è un altro punto da sottolineare nell’analisi weberiana: al fondo, attraverso la «carismaticità», è il tema dei ‘legami’ che riaffiora nuovamente e si impone: quei ‘legami’ su cui – come si è visto – avevano già insistito sia Tocqueville che Marx, individuando nella loro rottura l’origine della ‘crisi’ moderna. Nell’epoca della politicizzazione – e degli Stati – di massa, la «carismaticità» è, precisamente, l’unica via che consente di riannodare, e potenziare, i ‘legami’ originari, opponendosi nettamente alla «razionalizzazione burocratica» e rivoluzionando gli assetti che essa istituisce e vuole, in ogni modo, conservare. Sta qui l’originalità della posizione di Weber: da un lato, nella messa a fuoco della tensione fra «potere carismatico» e «potere burocratico»; dall’altro, nella valorizzazione, attraverso la «carismaticità», della capacità del ‘portatore di carisma’ di costituire nuovi ‘legami’, riaffermando contro la ‘forma’ il primato della ‘vita’ su ogni piano dell’esperienza umana, a cominciare da quella politica. È una via difficile, impervia, piena di incognite, strutturalmente ambigua: ma negli «stati di massa – sottolinea Weber, quasi a prevenire l’obiezione – il risvolto cesaristico è ineliminabile»50. La «carismaticità», nel mondo contemporaneo, è l’unica forza in grado di generare nuovi ‘legami’ originari in grado di contenere, e ricondurre all’ordine, il potere burocratico. Su questi temi, in Economia e società si insiste fin dalle prime pagine della sezione su Il potere carismatico e la sua trasformazione, sottolineando, da un lato, i loro punti di tangenza nei rapporti con la tradizione; dall’altro, le loro profonde, radicali differenze. Infatti, anche la «razionalizzazione burocratica può essere, e spesso è stata, una forza rivoluzionaria di prim’ordine nei confronti della tradizione. Ma essa agisce in senso rivoluzionario con mezzi tecnici, cioè in linea di principio ‘dall’esterno’ [...], prima sulle cose e sugli ordinamenti, poi di qui sugli uomini [...]». Al contrario, «il carisma fonda la sua potenza sulla fede nella rivelazione e negli eroi, sulla convinzione emozionale

  Weber, Parlamento e governo, cit., p. 53.

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dell’importanza e del valore di una manifestazione di tipo religioso, etico, artistico, scientifico, politico o di qualsiasi altra specie, sul carattere eroico dell’ascesi o della guerra, della saggezza giudiziaria, della virtù magica o di qualsiasi altro tipo». Questa fede, però, «agisce sugli uomini in senso rivoluzionario ‘dall’interno’, e cerca di configurare le cose e gli ordinamenti in base alla sua volontà rivoluzionaria»51. Perciò, «contrariamente ad ogni specie di organizzazione burocratica dell’ufficio, la struttura carismatica non conosce una forma o un procedimento ordinato di insediamento o di destituzione, né di ‘carriera’ o di avanzamento, e neppure uno ‘stipendio’ o una disciplinata preparazione specialistica del detentore del carisma [...]». In netta opposizione a quanto avviene nell’universo incentrato sul primato della burocrazia, «il portatore del carisma assume i compiti che gli convengono esigendo di essere obbedito e seguito in virtù della sua missione». Assume questi compiti se ha successo: «provando», così, le sue qualità eccezionali, e guadagnandosi, con il successo, la fiducia e il consenso dei suoi seguaci. Ma – e questo è il tratto proprio della carismaticità – egli «non deriva il suo ‘diritto’ dalla loro volontà, sulla base di una specie di elezione; al contrario, il riconoscimento di colui che è qualificato carismaticamente costituisce il dovere di coloro ai quali egli rivolge il suo messaggio»52. Il potere carismatico non si oppone solo al potere burocratico; si oppone, allo stesso modo, ad ogni «economia ordinata» e ad ogni dimensione di carattere istituzionale: «il carisma – precisa Weber – vive in questo mondo ma non già di questo mondo»; «nella sua forma pura non è mai per i suoi portatori una fonte di profitto privato»; «esso è [...] la potenza dell’antieconomicità, anche e proprio quando tende al possesso di beni, come presso il guerriero carismatico». E intanto il carisma può tutto questo «in quanto nella sua essenza non è una stabile formazione ‘istituzionale’, ma, quando si manifesta nel suo tipo ‘puro’, è proprio il contrario». Perciò «la sussistenza dell’autorità carismatica è per sua essenza quanto mai labile», e deve essere continuamente «provata» dal «portatore» presso i suoi seguaci: egli deve fare miracoli se è un profeta, azioni eroiche se è un condottiero: ma miracoli ed azioni eroiche che siano giovevoli a coloro che lo seguono; altrimenti la sua autorità viene meno: essa infatti non è basata

  Weber, Economia e società, cit., vol. II, pp. 436-437.   Ivi, p. 432.

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né su una competenza d’ufficio, né su una fedeltà di tipo feudale. Se il portatore del carisma non riesce in questo – se non dà cioè prova delle sue forze, ciò vuol dire, agli occhi di chi si è affidato a lui, che egli «non è il signore inviato dagli dei»53. E con questo il cerchio della esperienza carismatica si chiude, perché il portatore del carisma fruisce della reverenza e dell’autorità «in virtù di una missione, che è concepita come incorporata nella sua persona [...]»54. In sintesi – e anche qui è interessante sottolineare il lessico –, il potere genuinamente carismatico non conosce perciò né principi né regolamenti astratti, e neppure una produzione «razionale» del diritto. Il suo diritto «oggettivo» è l’emanazione concreta di un’esperienza vissuta, assolutamente personale, della grazia celeste e della forza divina degli eroi; esso comporta un rifiuto del vincolo a ogni ordinamento esterno, a favore dell’esclusiva trasfigurazione della pura intenzione profetica ed eroica. Esso si atteggia perciò in modo rivoluzionario sovvertendo ogni cosa e rompendo in modo sovrano con qualsiasi norma tradizionale o razionale [...]55.

Di conseguenza il potere carismatico finisce appena perde «quella base puramente personale e quel carattere di fede nettamente emozionale che lo distingue dal vincolo alla tradizione della vita quotidiana [...]». In sintesi: il carisma ha carattere eccezionale e rivoluzionario; si contrappone al potere burocratico; è incorporato nella persona del «portatore»; è strutturalmente labile; finisce quando si piega – o è costretto a piegarsi – alla forza della «tradizione», finendo con il sopravvivere a se stesso56. Nella sua analisi – ed è uno dei punti più interessanti di questa posizione – accanto al motivo della «carismaticità» Weber mantiene però, al tempo stesso, fermo e centrale il ruolo e la funzione del Par-

  Ivi, pp. 434-435.   Ivi, p. 438. 55   Ivi, p. 435. 56   Ivi, pp. 442-444: «Con ciò l’essenza del carisma appare definitivamente sacrificata e perduta; e così è anche di fatto, se si considera il suo carattere eminentemente rivoluzionario. [...] Anziché operare in modo rivoluzionario, conformemente al suo senso genuino, rispetto a tutto ciò che è tradizionale o si fonda sull’acquisizione giuridica ‘legittima’, come allo statu nascenti, esso opera ora al contrario come fondamento giuridico dei ‘diritti acquisiti’». 53 54

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lamento. Questo deve essere il luogo in cui si selezionano i leader politici, e qui essi devono verificare la loro capacità di comando: è «attraverso la lotta» che «si costituiscono i capi del Partito». Al Parlamento tocca svolgere una duplice funzione: deve essere il terreno di selezione della classe dirigente e lo strumento di controllo del potere burocratico. Perciò i partiti che aspirano ad avere un ruolo nella loro nazione devono rinsaldare il ruolo del Parlamento, non deprimerlo: senza Parlamento non c’è vita politica, non c’è lotta; e senza lotta non c’è processo di selezione dei leader della nazione. Il ragionamento di Weber su questo punto è lucido e lineare: il Parlamento conta dove è il campo della lotta per la leadership; ma a sua volta esso può contare solo se gli uomini più eminenti dei vari partiti in competizione si impegnano in esso per poterlo controllare ed assumere le cariche politiche. E questo significa che il Parlamento conta se i migliori si impegnano nella vita dei partiti e ne diventano i leader. In breve, Parlamento e partiti sono strumenti decisivi, e reciprocamente connessi, per la vita democratica di un paese e per la formazione della leadership: per il politico moderno – insiste Weber – l’unica palestra adeguata è la lotta per il Parlamento e per il Partito nel paese, che non può essere sostituita da nient’altro di equivalente – meno che mai dalla concorrenza per l’avanzamento. Naturalmente solo in un Parlamento e per un Partito il cui capo acquisisca potere nello Stato [...]; non un Parlamento che tiene discorsi, ma soltanto un Parlamento che lavora può costituire il terreno sul quale crescono e, attraverso la selezione, compiono la loro ascesa uomini con qualità di capo autenticamente politiche e non meramente demagogiche. Ma un Parlamento che lavora è un Parlamento che controlla continuamente l’amministrazione collaborando con essa57.

Non è tuttavia una battaglia semplice, per un dato su cui Weber richiama energicamente l’attenzione e cioè per i processi di «burocratizzazione» che investono anche i partiti. I quali non verranno meno, ma potranno continuare a svolgere una funzione solo a patto di mantenere viva la lotta al loro interno. È questa la condizione essenziale perché possa esserci un’attiva, ed effettiva, rappresentanza popolare. Il Parlamento, però – e questo è un altro lato importante dell’analisi weberiana – non risolve la sua funzione nel configurarsi come

  Weber, Parlamento e governo, cit., pp. 52, 55.

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unico luogo reale della selezione e dello sviluppo della leadership politica: fra Parlamento e leader «carismatici» si apre, subito, una tensione costante. Ma è proprio in essa che risiede il fondamento della vita politica di una nazione. Espropriare, o indebolire, il Parlamento significherebbe aprire la strada a una deriva di tipo autoritario che sarebbe, in effetti, letale sia per la politica che per la stessa leadership «carismatica», perché si risolverebbe in un rinnovato dominio della burocrazia: «che cosa rappresenterebbe nell’ambito di questa Costituzione, con il suo potere burocratico autoritario, una democrazia senza alcuna struttura parlamentare?», si chiede Weber, riflettendo, in modo specifico, sulla situazione tedesca. «Una tale democratizzazione soltanto passiva sarebbe una forma assolutamente pura del potere burocratico incontrollato [...]»58. In conclusione, anche nell’epoca della «politicizzazione di massa» e del «cesarismo» il Parlamento deve continuare ad avere un ruolo centrale, come dimostra l’esempio dell’Inghilterra: tra gli altri suoi compiti, è proprio il Parlamento a garantire «una forma pacifica di rimozione del dittatore cesaristico quando egli ha perduto la fiducia delle masse»59. Rispetto a un’analisi così complessa – nella quale si ragiona dei partiti come strutture moderne e burocratizzate, fondamentali per la costruzione della leadership –, colpisce l’arretratezza, e la miseria (verrebbe da dire), del discorso che Croce fa, prima della guerra, sul partito e sulla sua funzione, incentrandolo su un parallelo organico tra ‘estetica’ e ‘politica’. «Che cosa sono, in fondo, i partiti politici?», si chiede nel marzo del 1912, nell’articolo sul Partito come giudizio e pregiudizio, rispondendo: «Sono i generi della casistica politica, corrispondenti ai generi letterari della rettorica. E a chi non è mai stato amico dei generi letterari, si vorrà condonare se estende la sua diffidenza ai generi o partiti politici»60. E come il genere letterario   Ivi, p. 109.   Ivi, p. 108. La letteratura weberiana su questi temi, si sa, è sterminata. Cito solo il classico lavoro di L. Cavalli, Il capo carismatico. Per una sociologia weberiana della leadership, Il Mulino, Bologna 1981; fra i molti lavori di P. Rossi, Max Weber. Una idea di Occidente, Donzelli, Roma 2007; M. Cacciari, Introduzione a M. Weber, La scienza come professione – La politica come professione, Mondadori, Milano 2006. 60 B. Croce, Il partito come giudizio e pregiudizio, in Id., Cultura e vita morale, cit., p. 191. 58 59

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non è fondamentale per il vero poeta che, quando è tale, se ne emancipa; così il partito politico non è fondamentale per l’autentico uomo politico, il quale si serve per i suoi obiettivi dei partiti esistenti, ma emancipandosene subito, quando produce effettiva azione politica: essa – scrive Croce – «richiede sempre un trarsi fuori dai partiti», i quali «sono necessari, ma necessari nella propria loro cerchia, come derivazione e non come scaturigine dell’azione politica, come conseguenza e non come premessa»61. Né è difficile comprendere contro chi si rivolga la polemica di Croce, se si tiene conto dell’apologia che fa in queste pagine dell’«interesse generale», della «unità sociale», della «salute della patria», in diretta contrapposizione, sul piano teorico, con il principio della lotta di classe: «concetto logicamente assurdo, perché formato mercé l’indebito trasferimento della dialettica hegeliana dei concetti puri alle classificazioni empiriche; e praticamente pernicioso, perché distruttivo della coscienza dell’unità sociale». Mentre, sul piano politico, la polemica è invece contro il Partito socialista, cioè contro l’unico partito organizzato in Italia, a quella data, in moderni termini di massa. Questa è, in effetti, la sostanza della posizione di Croce nel 1912: la politica non ha alcun bisogno di strutture organizzate, come i partiti: i partiti politici – scrive –, se porgono un’utile materia al sociologo di rappresentare schematizzando la vita politica, e se sul terreno effettuale sono il necessario effetto di ogni movimento politico nuovo; quando poi non si tratti né di costruire sociologie né di cercare che cosa si debba fare praticamente nel proprio paese, e di promuoverla col fatto, operando politicamente, sono concetti estranei che bisogna allontanare dalla mente; se non si voglia che quella cosa giudiziosa, che è il partito (giudiziosa, perché creata dal giudizio umano), si muti in pregiudizio62.

Può stupire l’arretratezza di questa posizione di Croce, tenendo conto di quello che sosterrà nel ’22 in polemica con Mann, dimostrando di aver capito molto bene di vivere nell’epoca della «politicizzazione di massa»; ma, come si sa, le date contano. Fra quei due testi ci sono dieci anni che cambiano la storia d’Europa e anche quella del mondo; c’è la Prima guerra mondiale, con tutto ciò che ne Ivi, p. 197.   Ivi, p. 194.

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consegue proprio sul piano della ‘coscienza’ delle masse e della loro ‘organizzazione’. E per quanto riguarda specificamente l’esperienza di Croce, ci sono, da un lato, le Pagine sulla guerra; dall’altro, Politica in nuce, pubblicata inizialmente nella «Critica» del 1924, poi confluita l’anno dopo, con altri scritti, negli Elementi di politica. Qui, nel capitolo sui «partiti politici» Croce però non si sposta, sostanzialmente, dalla concezione generale espressa nel 1912: «Il problema politico come problema pratico è problema d’intrapresa, d’invenzione, di creazione, e perciò, affatto individuale e personale»63. C’è, certo – e questo va notato –, un più franco ed esplicito riconoscimento del ruolo dei partiti, pur nella convinzione che «i partiti sono modi offerti alle varie personalità per foggiarsi strumenti d’azione e affermare sé medesime, e con sé medesime i propri ideali etici, e compiere sforzi per asseguirli; onde l’importanza che hanno nei partiti i capi e conduttori [...]». In politica ciò che infatti vale più di tutto è «il vigore della personalità, in cui si raccoglie e si esprime l’ideale etico», e che, al di là delle varie etichette utilizzate dai vari partiti, deve essere giudicata alla luce della storia, nella quale – al di là delle sigle e dei vari programmi – si afferma «la realtà dei diversi partiti, che è diversità di sentimenti, di temperamenti, di precedenti, di svolgimento morale, di cultura, di educazione, di vocazione»64. Lemma, quest’ultimo, da non sottovalutare, come non va sottovalutato il riferimento di Croce alla figura dei «capi» e dei «conduttori»: perché in entrambi è forse percepibile proprio l’eco di letture weberiane. Fu Croce, del resto, a far tradurre in italiano da Enrico Ruta e a far pubblicare da Laterza Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania. Nel complesso egli però rimase sostanzialmente estraneo a una concezione moderna dei partiti (e anche della politica, come Gramsci osserva a più riprese nei Quaderni). Forse non è casuale, se si tiene conto della storia italiana e della funzione dei partiti nel nostro paese dopo l’Unità: per citare solo un fatto, il Partito liberale si costituisce in Italia come tale solo nel periodo dell’avvento al potere del fascismo. Ma anche questo può non sorprendere se si pone mente a un altro carattere essenziale della storia italiana in quel periodo, sottolineato proprio da Gramsci in un memorabile discorso   Croce, Etica e politica, cit., p. 273.   Ivi, pp. 277 e 280.

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alla Camera dei deputati: «La massoneria, dato il modo con cui si è costituita l’Italia in unità, data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la massoneria è stato l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo»65. Con l’eccezione (parziale) di quello socialista, i partiti – come moderni ‘strumenti’ della democrazia organizzata – in Italia nascono con la Repubblica. E questo dato storico obiettivo avrà vaste conseguenze quando, nella crisi della ‘Prima Repubblica’, essi prima entreranno in crisi; poi esploderanno, lasciando spazi amplissimi – e incustoditi – prima all’iniziativa della magistratura, poi all’affermarsi e all’imporsi nel nostro paese del moderno dispotismo; il cui capo – è bene sempre averlo presente, per comprendere le strutture lunghe e profonde della storia italiana – è stato membro della Loggia P2, di cui era maestro venerabile Licio Gelli. Weber, si è visto, fa uno sforzo straordinario per tenere insieme democrazia parlamentare e «carismaticità», pur consapevole delle tensioni che questo rapporto sprigiona e dell’esito autoritario cui esso può condurre. Ma è altrettanto persuaso che non si possa non correre questo rischio perché, nell’epoca della «politicizzazione di massa», è questa l’unica strada aperta di fronte sia alla politica che alla democrazia. Né era l’unico a pensarla in questo modo; pur muovendosi in un orizzonte del tutto diverso, anche Antonio Gramsci coglie la centralità della «carismaticità» nel mondo contemporaneo. Ne discute la ‘forma’, non il rilievo e il significato: al capo «carismatico» borghese occorre sostituire il capo operaio, cioè il moderno partito politico, l’unico in grado di garantire un’azione politica costante e continua. Ma con la «carismaticità» occorre fare i conti e trasformarla in modo radicale: «Se è vero che ogni partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborarne uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine ‘carismatica’, deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità»66.   A. Gramsci, Sul fascismo, a cura di E. Santarelli, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 280. 66   A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, vol. II, Einaudi, Torino 1977, p. 772. E poco sopra aveva scritto, discutendo le posizioni di R. Michels: «Il capo politico dalla grande ambizione 65

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In Gramsci la «carismaticità» viene criticata quando si risolve in demagogia deteriore e sul piano di un potere personale incapace di pensare al futuro e alla necessità di strutturarsi sui tempi lunghi (né c’è dubbio che in queste battute ci sia un elemento di polemica contro la direzione politica di Stalin, già criticata nella famosa lettera del ’26); ma il ‘problema’ svolge una funzione essenziale nella sua riflessione, sia pure in termini critici ed anche antagonistici. Gramsci sa che con la «carismaticità» – e le cause da cui essa scaturisce – occorre fare i conti, se si vuole pensare – e fare politica – nell’epoca della «democratizzazione» e della «politicizzazione di massa». Da questo punto di vista, Weber – attraverso Michels, varie volte citato – è un interlocutore essenziale dei Quaderni, sia pure in una prospettiva che, sconvolgendo i «vecchi schemi naturalistici», sostituisce «nella funzione direttiva [...] organismi collettivi (i partiti) ai singoli individui, ai capi individuali (o carismatici, come dice il Michels)»67. Il che, a sua volta, è reso possibile da una stretta connessione di «sentire», «comprendere», «sapere», con un superamento di due pericoli entrambi gravi: da un lato, la pedanteria e il filisteismo; dall’altro, la passione cieca e il settarismo. Infatti, «l’elemento popolare ‘sente’, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale ‘sa’, ma non sempre comprende e specialmente ‘sente’». Mentre «non si

[...] tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili ‘concorrenti’ ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa e questi vogliono che un apparecchio di conquista (o di dominio) non si sfasci per la morte o il venir meno del singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell’impotenza primitiva». Battute nelle quali è facile intravedere l’intreccio di temi teorici e di motivi di natura più schiettamente autobiografica, evidenti, del resto, nelle varie ‘note’ di questo genere che si possono trovare nei Quaderni. 67   Ivi, p. 1430. E ancora: «Con l’estendersi dei partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita più intima (economico-produttiva) della massa stessa, il processo di standardizzazione dei sentimenti popolari da meccanico e casuale [...] diventa consapevole e critico. La conoscenza e il giudizio d’importanza di tali sentimenti non avviene più da parte dei capi per intuizione sorretta dalla identificazione di leggi statistiche, cioè per via razionale ed intellettuale, troppo spesso fallace – che il capo traduce in idee-forza, in parole-forza – ma avviene da parte dell’organismo collettivo per ‘compartecipazione attiva e consapevole’, per ‘con-passionalità’, per esperienza dei particolari immediati, per un sistema che si potrebbe dire di ‘filologia vivente’». Testo, anche questo, veramente notevole sia per l’incidenza nel lessico di Gramsci di lemmi propri del vocabolario delle ‘scienze della vita’, sia per la netta presa di distanza – attraverso Michels – dalle posizioni di Weber.

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fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione»: «In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (cosiddetto centralismo organico)». Invece – osserva Gramsci, ponendo un tema che ci interessa particolarmente in queste pagine, anche alla luce di quanto si dirà più avanti – «se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati, è dato da una adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere [...], solo allora il rapporto è di rappresentanza [...]». Una «rappresentanza» di natura «vivente» (per usare un lemma che gli è caro e ricorre anche in queste pagine), non di tipo intellettualistico, astratto, strettamente individualistico – in una parola di tipo «carismatico», che presuppone, ed è questo il punto centrale della polemica di Gramsci, una condizione di sostanziale «passività» delle masse68. 68   Ivi, pp. 1505-1506. Nella vastissima letteratura gramsciana mi limito a ricordare L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, Editori Riuniti, Roma 1970; A. Burgio, Gramsci storico. Una lettura dei «Quaderni del carcere», Laterza, Roma-Bari 2002; A. Rossi, G. Vacca, Gramsci tra Mussolini e Stalin, Fazi, Roma 2007.

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Il repubblicanesimo è il principio politico della separazione del potere esecutivo (il governo) dal potere legislativo; il dispotismo è il principio politico dell’autonoma esecuzione, da parte dello Stato, di leggi che lo Stato stesso ha promulgato: quindi è la volontà pubblica che viene esercitata dal sovrano come sua volontà privata. Kant

Nella prima parte di questo libro abbiamo visto alcuni dei temi essenziali della ricerca teorico-politica sulla democrazia svolta tra metà Ottocento e i primi del Novecento da grandi ‘classici’ come Tocqueville, Marx, Weber, Croce, Mann, Gramsci: rapporto tra democrazia e dispotismo; ultrademocrazia; democrazia «carismatica»; «cesarismo»; nuove forme di ‘rappresentanza’ delle masse... Sono temi classici, che possono essere assai utili per farci comprendere aspetti e caratteri della situazione storica attuale. Del resto, questo libro nasce, si è già detto nel Prologo, dalla persuasione che i ‘classici’ – in questo caso quelli della democrazia – siano in grado di sporgere oltre il loro tempo storico. Prima di procedere nell’analisi, può essere opportuno ricapitolare in modo sintetico i temi che sono affiorati dalle loro opere e che possono risultare utili per il discorso che si sta svolgendo. Tocqueville definisce in modo compiuto i caratteri del nuovo dispotismo – quello «dolce», «previdente», «mite»: in altre parole,

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il dispotismo basato sul ‘consenso’; frutto dello stesso sviluppo della democrazia; imperniato sulla progressiva riduzione della politica ad amministrazione, sulla distruzione dei poteri secondari a cominciare da quello giudiziario; e, in primo luogo, sulla disintegrazione del «libero arbitrio», soppiantato da nuove forme di sottomissione servile. Tutti fenomeni di prima grandezza nei quali si rispecchia, e si potenzia, la ‘crisi’ della società moderna, connotata dalla dissoluzione di quei ‘legami’ che nel periodo dell’assolutismo avevano contribuito a mantenere viva la dialettica fra ‘autorità’ e ‘libertà’. A questa ‘crisi’ – e al conseguente imporsi del nuovo dispotismo, cioè del dispotismo democratico – Tocqueville propone di reagire con strumenti che non hanno perso niente della loro attualità: potenziando le forme della partecipazione attraverso un sistema articolato di associazioni che salvaguardi e valorizzi, nel tempo della democrazia, il complesso di diritti nei quali si afferma e si consolida il principio della libertà civile e politica; e rafforzi, anzitutto, il «libero arbitrio» che di quelle libertà è principio e fondamento. Della difficoltà di questo processo Tocqueville è pienamente consapevole, così come è cosciente della fragilità, nel tempo moderno, della politica, la quale dovrebbe essere il vero motore della difesa, e del rinvigorimento, delle libertà attraverso un nuovo e originale intreccio delle ‘libertà degli antichi’ e delle ‘libertà dei moderni’. Ma questa consapevolezza non gli impedisce di impegnarsi strenuamente sul piano sia teorico che politico, e di cercare di ripensare in termini nuovi l’intreccio di libertà e democrazia confidando, in ultima analisi, nella struttura originaria dell’uomo, che – per quanto indebolita e infiacchita dalla democrazia – è costituita da una insopprimibile vocazione alla libertà. Marx, si è visto, su questo punto si muove in un orizzonte teorico del tutto diverso: la democrazia è la realizzazione dell’‘idea’ di costituzione nella sua integralità. Ma in comune con Tocqueville ha un tema essenziale: l’interpretazione della ‘crisi’ moderna come rottura dei ‘legami’ che, sia pure in modo confuso e disorganico, avevano comunque avvinto la società europea prima della «rivoluzione politica» e della distinzione tra società civile e Stato, fra bourgeois e citoyen alla quale essa aveva, infine, messo capo. Da questa persuasione scaturiscono in Marx – e a differenza di quanto accada in Tocqueville –, da un lato, una critica serrata della politica – anzi dell’«astrazione» politica; dall’altro – specie nella Critica della filosofia hegeliana del

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diritto pubblico –, una forte apologia della «democrazia diretta» in chiave feuerbachiana e un’esaltazione delle elezioni come strumento per uscire dalla ‘crisi’ del mondo moderno-borghese e realizzare la vera emancipazione umana, lungo una prospettiva che è, essenzialmente, ultrapolitica e ultrastatuale. Sono i lati più discutibili, e più datati, del suo pensiero, anche se destinati a una lunga vita, che lambisce perfino il nostro tempo storico. In Marx – è stato giustamente osservato – l’analisi dello Stato è una sorta di «buco nero», con cui – e non casualmente, occorre aggiungere – egli non ha mai ritenuto necessario fare i conti fino in fondo, con conseguenze che hanno pesato duramente sulle vicende sia teoriche che politiche delle forze sociali che si sono rifatte alla sua dottrina. Non è su questo piano che Marx può parlare nella nostra epoca; mentre invece resta vitale e attualissima la «critica dell’ideologia» svolta in testi come la Critica o la Questione ebraica – dallo «smascheramento» in termini di classe dei «diritti umani» proclamati dalla Rivoluzione francese alla messa a fuoco del rapporto reale tra ‘Stato’ e ‘società civile’ come luogo delle effettive diseguaglianze umane, fino alla critica senza appello dell’«astratto» universalismo politico-statuale. Questo Marx è, senza alcun dubbio, un nostro ‘contemporaneo’. Allo stesso modo, è un nostro ‘contemporaneo’ Weber, e non solo per il tema generale della «carismaticità», al quale dedica pagine memorabili, ma anche sul piano propriamente metodico, mostrando quanto siano complesse (e ‘torbide’ se si vuole) le radici della ‘modernità’. Lo è anzitutto per la presa d’atto, da una parte, delle trasformazioni subite dalla politica nell’epoca della «democratizzazione» e della «politicizzazione di massa», cioè nell’epoca della «demagogia»; dall’altra, per la rivendicazione di una politica di tipo «carismatico» come unico ‘strumento’, nel mondo contemporaneo, per contenere, e domare, il potere della amministrazione, della burocrazia – tema, questo, su cui, in termini diversi, si era soffermato anche Tocqueville. Quello che però congiunge Weber a Tocqueville e a Marx (e in modi differenti anche a Gramsci, come testimonia in modo eloquente il suo lessico incentrato sul primato del «vivente») è un altro punto, che era, e resta, centrale anche oggi: la concezione della ‘crisi’ moderna come rottura dei ‘legami’ e la interpretazione della politica carismatica – e qui sta il suo contributo originale – come l’unica via in grado di ricostituire legami ‘originari’, riaffermando, contro la

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‘forma’, la preminenza e la forza della ‘vita’. Tesi ovviamente discutibile, ma assai attuale, come conferma proprio il dibattito sul tema della «carismaticità» che c’è stato or non è molto nel nostro paese; dibattito – bisogna dire – assai povero sia sul piano storico che su quello politico, basato su avvicinamenti incongrui che non tengono conto delle differenze profonde che ci sono tra la «carismaticità» cui pensa Weber – il quale riafferma, ed è sintomatico, ruolo e funzione del Parlamento – e il nuovo modello di «carismaticità» che si è affermato – non solo in Italia – con la fine delle forme della politica di massa proprie del Novecento (e che Weber aveva bene in mente quando scriveva Parlamento e governo). Questi autori – Tocqueville, Marx, Weber, Gramsci – hanno dunque affidato le loro opere a un’onda che è arrivata fino a noi, che riguarda anche il nostro tempo. Ma la consapevolezza delle sintonie non deve, ovviamente, offuscare la distanza che su punti cruciali ci separa da essi, a cominciare, precisamente, dalla diversa conformazione odierna delle forme della politica e dalla crisi della sua dimensione di massa, almeno nei modi che essa ha assunto – a destra e a sinistra – lungo il Novecento (come testimonia, l’abbiamo visto, il dibattito assai illuminante fra Croce e Mann). Su questo punto c’è una cesura della quale occorre prendere atto, che non è più possibile sanare. C’è però un punto di forte sintonia sul quale si è più volte richiamata l’attenzione e che fa di questi ‘classici’ dei nostri compagni di strada con cui merita discutere: quel tema dei ‘legami’ da ricostituire dopo la crisi moderna, su cui essi si sono variamente confrontati. Per ricostituirli Tocqueville, Marx, Weber (e anche Gramsci) si sono mossi in differenti direzioni, ma con la comune consapevolezza che quello fosse il ‘problema’ centrale. È così, oggi, anche per noi, e per un motivo storico e politico preciso: come quegli autori, noi viviamo in un tempo storico dispotico – una forma specifica di dispotismo, come specifiche, e differenti, sono le forme dispotiche con cui si confrontano Tocqueville, Marx, Weber, lo stesso Gramsci. Ma, ieri e oggi, il dispotismo ha un elemento in comune, su cui Tocqueville ha insistito in modo magistrale: esso separa gli individui, li chiude nel loro «particulare» e, in questo modo, li rende deboli, dipendenti, fino a trasformarli in servi. Se infatti è discutibile la tesi secondo cui dalla democrazia scaturisce di necessità il dispotismo, è certo invece che in questo isolamento nasce e si sviluppa il «dispotismo democratico»: su questo Tocqueville aveva, e continua ad avere, ragione.

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Senza ristabilire ‘legami’ – politici, sociali, ‘vitali’ – non si esce dalla servitù e non è possibile ricostituire il nesso fra democrazia e libertà, fra libertà ed eguaglianza. In questo senso, la costruzione di nuovi ‘legami’ è il pilastro di una posizione coerentemente antidispotica. Sono questi i caratteri di fondo che unificano il nostro tempo e questi grandi ‘classici’: da un lato, la dimensione dispotica in cui noi siamo oggi collocati; dall’altro – e di conseguenza –, la necessità di individuare, e potenziare, ‘legami’ di tipo nuovo che ci consentano di uscire dalla servitù e di collocarci nella dimensione della indipendenza e della libertà. Ma naturalmente – e su questo si è già insistito nel Prologo – bisogna saper leggere questi testi senza inutili forzature e senza stabilire astratte corrispondenze. Anzi: una comparazione è tanto più seria e persuasiva quanto più individua nella loro autonomia e specificità – nella loro speciale morfologia, verrebbe da dire – gli attori della comparazione che si vuole stabilire. È dunque venuto il momento di definire i caratteri del nostro tempo storico che consentano di stabilire questa comparazione. Lo si farà in due tempi: delineando in questo Entr’acte il quadro generale; specificandolo poi, in termini più analitici, nella seconda e nella terza parte. Il carattere tecnicamente dispotico del nostro tempo storico è reso evidente da una serie di elementi: il disprezzo della legge e il dominio dell’arbitrio; la subordinazione della politica all’amministrazione; la guerra quotidiana ai ‘corpi intermedi’; l’attacco sistematico all’autonomia del potere giudiziario; la vera e propria lotta alla libertà di informazione; il rigetto del conflitto politico e sociale; il diffondersi, attraverso i media, di una immagine del paese illusoria, senza alcun rapporto con la realtà; l’imporsi, sul piano del governo, di strutture come la Protezione civile, alla quale viene affidato il compito di rappresentare il volto «dolce» e «mite» del potere nella gestione delle fasi di emergenza – cioè, nel caso dell’Italia, la vita ordinaria della nazione. È un «dispotismo democratico» di tipo nuovo, che ha assunto tratti ‘populistici’ e ‘carismatici’, anche – ed è questo il punto da sottolineare – in conseguenza del tramonto e della fine delle forme della politica ‘di massa’ proprie del Novecento. Nella sua affermazione ha dunque avuto un ruolo decisivo la lunga crisi della sinistra e, in modo specifico, la frantumazione sia di quello che si era soliti chiamare ‘popolo di sinistra’ – e delle sue caratteristiche strutture organizzative –, sia delle ‘classi sociali’, nell’ac-

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cezione classica del termine. E, strettamente connessa a questa crisi, nel suo successo ha certamente inciso la crisi della funzione e del significato della politica, con uno svuotamento sistematico delle assemblee legislative e un Parlamento ridotto alle dirette dipendenze del potere esecutivo, con una vera e propria mutazione genetica rispetto al ruolo che aveva svolto nella ‘Prima Repubblica’. Né si tratta solo del Parlamento: il nuovo dispotismo sta cercando di smantellare tutti i «contrafforti» (per riprendere il termine di Tocqueville) politici civili, culturali e anche religiosi che possono intralciare il suo dominio. È – come si è già detto – un dispotismo di tipo nuovo rispetto ai modelli classici – compreso quello presentato da Tocqueville nella seconda Democrazia in America –, basato su un largo consenso democraticamente acquisito, nel quale hanno avuto, e continuano ad avere, un peso determinante i mezzi di comunicazione di massa, a cominciare dalla televisione – soprattutto privata, ma anche quella pubblica – e dai ‘sensi comuni’ che essa diffonde attraverso un lessico tipicamente dispotico nel quale si intrecciano, fino a confondersi, lemmi che esprimono, da un lato, sentimenti di pura violenza; dall’altro, una rugiadosa retorica dell’«amore». Lessico, questo, che andrebbe sottoposto ad una analisi specifica proprio per la capacità che esso ha di mettere a fuoco con nettezza caratteri e finalità di questo nuovo «dispotismo democratico» e le tecniche di cui si serve per creare il suo vasto consenso. Soprattutto – e questo è un dato che appare chiaro proprio sul piano lessicale – è un dispotismo incomprensibile se non si tiene conto delle nuove forme di ‘individualismo’ che si sono affermate negli ultimi anni a tutti i livelli, compreso il rapporto – spesso di tipo feticistico – con il corpo e con la dimensione della corporeità. Un individualismo, per intendersi, tipico dell’epoca della ‘secolarizzazione’ nella quale siamo immersi, contro cui hanno cominciato, finalmente, a dire qualcosa anche alcuni vescovi italiani. In sintesi, il nuovo dispotismo – incarnato da Silvio Berlusconi – è anzitutto il frutto, comunque lo si voglia giudicare, della lunga ‘crisi’ italiana; di qui bisogna perciò prendere le mosse, qualora se ne vogliano comprendere alcuni caratteri essenziali. La «politicizzazione di massa» è un carattere specifico del Novecento: già Thomas Mann – l’abbiamo visto sopra – nelle Conside-

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razioni di un impolitico ne aveva percepito con chiarezza, ed anche con preoccupazione e con disgusto, l’avvento, criticando in pagine memorabili il dilagare della politica – cioè, ai suoi occhi, della democrazia – su tutti i piani, e rimpiangendo per contrasto l’ordine e l’equilibrio dell’Ottocento. A differenza di Benedetto Croce che, consapevole della novità, e della complessità, dei processi in atto, ne aveva però sottolineato – proprio in discussione con l’amico Mann – la ineluttabilità e, di conseguenza, la necessità di farci i conti. Il filosofo napoletano, che pure votò la fiducia al governo Mussolini dopo l’assassinio di Matteotti, non avrebbe però mai potuto immaginare la pervasività della «politicizzazione di massa» e i connotati schiettamente reazionari che essa avrebbe assunto in Europa, con l’imporsi prima del fascismo in Italia, poi del nazismo in Germania. Né il fenomeno sarebbe rimasto circoscritto all’ambito dei regimi reazionari di destra; allo stesso modo la «politicizzazione di massa» si sarebbe imposta, in forme originali, anche nell’Unione Sovietica, configurandosi come predicato costitutivo della ‘nuova’ politica affermatasi con il ‘secolo’ dischiuso dalla Prima guerra mondiale. Per comprendere questo dato, che è tragico – e non farsi più alcuna illusione sulle differenze tra regimi totalitari di ‘destra’ e regimi totalitari di ‘sinistra’ –, è sufficiente leggere i Racconti di Kolyma di ¤alamov1 o, anche, un romanzo come Una tomba per Boris Davidovicˇ di Danilo Kisˆ2. In sede storica contano però le differenze: occorre dunque, anche in questo caso, distinguere tra le modalità che il processo assume nel periodo compreso tra le due guerre e quelle che saranno proprie del periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, dopo la fine dei fascismo, con l’avvento della democrazia. Nei «regimi reazionari di massa» (per riprendere una categoria classica, ma efficace) il rapporto tra «governanti» e «governati» si costituisce in forme di dominio autoritario dall’alto, di partecipazione coatta, addirittura di tipo militare, con una forte valorizzazione della funzione del ‘capo’, delle adunanze di massa, dei ‘riti’ politici, attraverso un forte intreccio di religione e politica (come ha spiegato in testi fondamentali George Mosse). Con la Resistenza e l’avvento della democrazia il quadro muV. ¤alamov, I racconti di Kolyma, 2 voll., Einaudi, Torino 1999.   D. Kisˆ, Una tomba per Boris Davidovicˇ, Adelphi, Milano 2005. Su questo splendido libro offre preziosi chiarimenti lo stesso Kisˆ in Homo poeticus, cit. 1 2

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ta radicalmente, con una potente trasformazione delle forme della partecipazione, proiettata, ora, in un orizzonte limpidamente democratico, con una nuova e originale ricostituzione (come avviene ad esempio in Italia) del nesso tra masse e democrazia attraverso un ampio sistema di istituti democratici diffusi, in modo molecolare, in ampie zone del territorio nazionale. È, nella storia repubblicana, il periodo della ‘democrazia organizzata’ di massa, corrispondente alla trasformazione dell’Italia da paese agricolo in una delle prime potenze industriali a livello mondiale. In modi schematici e sommari: al movimento che va dall’‘alto’ verso il ‘basso’ secondo un impulso di tipo nettamente autoritario, si affianca – e si intreccia – un movimento che dal ‘basso’ va verso l’‘alto’, in coerenza soprattutto (ma non solo) con il modello ‘organico’ – sul quale si è pure richiamata l’attenzione – delineato da Gramsci nei Quaderni, imperniato sul nesso tra «sentire», «comprendere», «sapere». Si tratta di differenze essenziali, da ribadire con precisione; la dimensione di massa resta, però, il predicato costitutivo della politica novecentesca: è su questo terreno che avviene una vera e propria trasformazione morfologica, espressa in modo esemplare anche dal nuovo, fortissimo ruolo assunto dalla propaganda, che, servendosi di ogni mezzo, anche i più moderni (la radio, ad esempio, o anche il cinema), incide in tutte le fasi della vita degli individui – «dalla culla alla tomba» – (come in Italia aveva già compreso con chiarezza, nel 1941, Delio Cantimori in un saggio pubblicato su «Civiltà fascista»)3. È in questo quadro che si situano – e si spiegano – gli elementi di continuità che pur ci sono – nonostante le differenze radicali – fra i movimenti e i partiti che hanno fatto la storia del Novecento e che non vanno occultati, se si vuol capire la profondità e la complessità della «politicizzazione di massa»: dalla funzione del ‘capo’, sopra richiamata (e descritta in pagine di eccezionale vigore da Gadda in Eros e Priapo)4, alla netta subordinazione della vita individuale alla dimensione collettiva – sia essa rappresentata dal partito, dalla classe o, addirittura, dalla razza. Qualunque sia il punto di vista assunto, il dissolvimento dell’individuo è un aspetto essenziale della politica 3   D. Cantimori, Appunti sulla propaganda, «Civiltà fascista», III, 1941, pp. 3756. Su questo tema cfr. il mio lavoro Intellettuali e fascismo. Saggio su Delio Cantimori, De Donato, Bari 1967. 4   C.E. Gadda, Eros e Priapo (da furore a cenere), Garzanti, Milano 1967.

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di massa del Novecento; così come ne è un tratto decisivo – a destra come a sinistra – la riduzione alla sfera politica della pluralità delle sfere e dei campi di esperienze in cui si articola, e si sviluppa, la vita dell’individuo. Naturalmente, anche in questo caso occorre distinguere fasi e momenti, e il sovrapporsi di nuovi elementi, anche di carattere ideologico, che provengono da tradizioni diverse o addirittura opposte. Alla «politicizzazione di massa» – lo si è visto discorrendo di Weber – appartiene una forte personalizzazione in chiave «carismatica» del ruolo del ‘capo’, che ha assunto talvolta forme addirittura sacrali; ma nel rafforzamento di questo ‘tipo’ ha certamente inciso (in modi che andrebbero specificati) anche l’‘ideologia americana’ che nel nostro paese si è venuta sviluppando soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, fino ad imporsi ad opera sia di forze politiche che di istituzioni editoriali e culturali (ma su questo punto, che è cruciale per comprendere il Novecento, aveva richiamato l’attenzione Gramsci in pagine dei Quaderni che sono ormai classiche, facendo riferimento perfino a un personaggio come Irving Babbitt, autore, nel 1924, di un lavoro importante su questi temi: Democracy and Leadership). In Italia, poi, al dissolvimento dell’‘individuo’ ha contributo in modi assai profondi anche la specifica tradizione neoidealistica nazionale che – concordemente su questo punto – ha dissolto l’individuo ‘empirico’ o nello Spirito o nell’Atto. Se si tiene conto di questo lungo processo e della situazione in cui oggi ci troviamo, non c’è dubbio che il ’68, con tutte le sue complesse conseguenze, abbia rappresentato un vero punto di svolta. Per quanto possa apparire, almeno a prima vista, paradossale, è proprio allora che la «politicizzazione di massa» tipica del Novecento, anche attraverso lo sviluppo di processi contraddittori, comincia ad entrare in crisi. Se da un lato ci sono forze politiche – in genere minoritarie – che recuperano, e perfino potenziano, le forme più chiuse e settarie della politica novecentesca, al ’68 risalgono esigenze, e movimenti, di emancipazione e liberazione individuale che si irrobustiscono e si affermano, anche congiungendosi a motivi caratteristici della cultura radicale. La storia, come è noto, è sorprendente: proprio quando il Partito comunista italiano realizza i più consistenti successi elettorali (1975, 1976), inizia la crisi della sua strategia politica, mentre sul piano teorico comincia la dissoluzione di quel patrimonio marxista che ne era stato, fin dall’inizio, una componente indispensabile, sulla base di

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una precisa concezione del rapporto tra ‘praxis’ e ‘teoria’. Sul piano teorico, si spezza, progressivamente, il nesso fra socialismo e marxismo, si ripescano le opere di Proudhon contrapponendole a Marx, come se la Miseria della filosofia non fosse mai stata scritta; comincia a diventare di moda Heidegger. Entra, contemporaneamente, in una crisi assai profonda – e mai più superata – il carattere propriamente ‘civile’ della tradizione filosofica italiana, nel quadro di un’incipiente crisi dello Stato-nazione e, in questo quadro, di una complessiva ricollocazione – in senso fortemente limitativo – della funzione dell’Italia nel mondo, destinata ad accentuarsi nei decenni successivi. Sul piano politico – incrinandosi le strutture proprie di una politica organizzata di massa –, comincia a delinearsi una cesura sempre più netta fra «governanti» e «governati», fino al punto da riaprire il problema stesso delle ‘fonti’ della sovranità nel nostro paese, simmetrico al coevo processo prima di riduzione, poi di crisi delle basi antifasciste – e di massa – della democrazia italiana e dei partiti che ne erano stati i massimi artefici ed esponenti. È un processo complesso e anche, per molti aspetti, drammatico, come accade quando un «corpo misto» arriva alla fine del suo ciclo senza che sia più possibile riformarlo «ritirandolo ai princìpi», conformemente alle indicazioni di Machiavelli. Né è facile identificarne le cause – vicine e lontane –, che sono varie. Si può però, in prima approssimazione, tratteggiare un punto di vista da cui considerarlo, ed analizzarlo, sforzandosi di individuare il momento in cui i partiti figli della politicizzazione novecentesca cominciano ad entrare in una crisi irreversibile. La partita – almeno questo è il mio giudizio – si è giocata (e vinta o perduta, a seconda dei punti di vista) negli anni Settanta; per intendersi, nel periodo delle grandi battaglie civili, nelle quali sono confluite, potenziandosi reciprocamente, l’eredità migliore, da un lato, del ’68; dall’altro, della cultura laica e radicale. A quelle battaglie il Partito comunista italiano, che pure diede un contributo determinante alla vittoria, arrivò actus piuttosto che agens, senza riuscire a identificarsi pienamente in un processo nel quale si esprimevano però, in modo incontenibile, esigenze ormai irrinunciabili della società italiana, maturate – anche ad opera delle forze sindacali – nelle lotte degli anni Sessanta. Non era casuale, questa relativa ‘freddezza’: alla ‘cultura’ del maggior partito della sinistra italiana era sostanzialmente estranea

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una attenzione specifica per i problemi dell’individuo in quanto individuo, considerato, in generale, come ‘momento’ di un movimento complessivo, come parte di un ‘intero’ piuttosto che nella sua specifica determinatezza, la quale era, semmai, considerata con sospetto, anzi con pregiudizi di tipo moralistico. Né, del resto, questo sorprende: come si è già detto, l’attenzione all’individuo come tale è estranea alla «politicizzazione di massa» tipica del Novecento, anche nel versante di ‘sinistra’. Nel secondo capitolo della prima parte si sono viste le opzioni teoriche di Marx nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e nella Questione ebraica; ma lo stesso Gramsci, nei Quaderni, si esprime in termini assai problematici nei confronti di quello che chiama «individualismo». In breve: alla base di quegli atteggiamenti non c’era una buona o una cattiva volontà; più profondamente, e gravemente, si manifestava un limite teorico e storico tipico di una lunga tradizione: e proprio per questo – come i fatti si incaricarono di dimostrare – insuperabile. Se si vuol dunque mettere una data alla crisi della «politicizzazione di massa» novecentesca, indicando l’inizio – certo complesso e contraddittorio – di una nuova fase della politica italiana, è a quel periodo che bisogna risalire: paradossalmente – come si è già accennato –, è proprio negli anni del suo maggior successo elettorale che il Partito comunista inizia a separarsi da quella società italiana della quale – secondo l’insegnamento prima di Gramsci, poi di Togliatti – era riuscito a diventare una parte organica, una vera e propria ‘funzione’. E questa separazione avviene proprio sul terreno della concezione dell’‘individuo’ e del suo significato sia sul piano politico che su quello sociale, con tutto ciò che ne consegue: è qui che s’incrina, e progressivamente si spezza, il nesso tra «governanti» e «governati» che in Italia era stato realizzato dal Partito comunista attraverso lo strumento del «partito nuovo», con la politica della «democrazia progressiva». È con questa crisi che si apre, sia pure in modi e tempi diversi, il problema delle ‘fonti’ della sovranità nel nostro paese, al quale il Partito socialista di Bettino Craxi – intuendo la novità dei problemi che stavano insorgendo nella società italiana – si sforza di dare una risposta che, per quanto appaia oggi insufficiente e profondamente contraddittoria, esprime comunque la consapevolezza di una situazione nuova e, in ogni caso, non più governabile con i vecchi strumenti teorici e politici.

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Ma questa è solo una osservazione generale che andrebbe ben altrimenti approfondita. Qui interessa ribadire che, proprio in quel periodo, il Partito comunista non riesce ad immettere le nuove tematiche dell’individuo e dell’individualità nel proprio codice genetico, nonostante gli sforzi che fa in questa direzione, anzitutto sul piano ‘culturale’. In altre parole, non riesce a collocarsi oltre l’orizzonte della «politicizzazione di massa»; resta legato a una idea novecentesca della politica, mentre i ‘militanti’ – che nella nuova situazione iniziano a scoprirsi come ‘individui’ – cominciano a ritrarsi, a cercare altri luoghi nei quali esprimere nuove sensibilità e nuovi modi di concepire sia la propria vita che il rapporto con la società e con la politica, anche sotto l’impulso – in quegli anni davvero tumultuoso – di profonde trasformazioni sia sul piano materiale che su quello culturale, nell’accezione più ampia del termine (basta pensare al rilievo veramente decisivo che in questo processo di scomposizione e frantumazione di tradizionali identità collettive hanno avuto i movimenti femministi). È allora che comincia ad aprirsi uno scarto che non si è più risolto: da un lato, partiti che tendono a sclerotizzarsi negli apparati, senza rapporto con la complessità delle sfere della vita; dall’altro, ‘individui’ che, non riuscendo a mettere a fuoco nuovi luoghi di aggregazione – coerenti con le nuove forme di vita che vengono alla luce e si affermano anche nell’esperienza quotidiana –, tendono a declinare nel privato, separandosi dalla politica organizzata, con conseguenze assai gravi – e di lungo periodo – sulla generale vita democratica del paese. Ad accentuare questi fenomeni, che avvengono anzitutto sul piano antropologico e perfino esistenziale, intervengono processi che incidono a fondo sul terreno politico ed istituzionale in quanto tale e che portano alla crisi della ‘Prima Repubblica’ ad opera, anzitutto, della Lega, da una parte; della magistratura, dall’altra. Salta, allora, il sistema che aveva retto l’Italia per quasi cinquant’anni; ma se l’esplosione è drammatica, e addirittura sanguinosa, la crisi viene da molto lontano, ed è direttamente connessa al declino e alla progressiva disgregazione dei partiti di massa che erano stati uno dei pilastri essenziali della vita politica e civile del paese. Declino e disgregazione tanto più gravi e drammatici, perché si intrecciano a fenomeni di tipo internazionale – a cominciare dal crollo del muro di Berlino nel 1989 –, i quali incidono, a loro volta, con eccezionale potenza, nella crisi e nella fine sia del Partito co-

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munista che della Democrazia cristiana, dissolvendo, in via definitiva, il sistema nel quale essi avevano avuto il predominio, il primo dall’opposizione, il secondo dal governo. Oltre ad incidere – ed è anzi questo l’elemento di fondo da sottolineare – sul ruolo internazionale dell’Italia, la quale, dopo la fine del comunismo, perde la sua funzione di essenziale marca di frontiera tra due mondi, trasformandosi in una ‘provincia’ senza valore nel quadro delle relazioni internazionali. Con effetti dirompenti sul piano della politica interna, che in Italia, fin dagli anni della costituzione dell’unità nazionale, era sempre stata, sostanzialmente, una funzione della politica estera, effettivo centro nevralgico di elaborazione e di controllo delle modalità di formazione, e di ricambio, delle classi dirigenti nazionali. L’esito di questi processi, che ebbero momenti drammatici, è consegnato ormai agli atti: la Democrazia cristiana ha chiuso definitivamente i battenti, mentre il Partito comunista – come una sorta di straordinario camaleonte – è venuto assumendo vari e indefiniti colori, senza riuscire a trovare una fisionomia in cui trovare pace e consistenza. E non l’ha trovata perché, nonostante le varie metamorfosi, non è stato capace di misurarsi, attraverso strumenti teorici e politici, con la crisi della «politicizzazione di massa» e con ciò che essa comportava, collocandosi in un orizzonte di tipo nuovo. Anzi, si è cimentato in una operazione che, a considerarla oggi, appare tanto elementare quanto insensata: ha liquidato, senza una specifica riflessione, il deposito ideale che ne aveva sorretto la lotta politica per lunghi decenni, rinunciando addirittura ad ogni ‘battaglia delle idee’, confondendo idee e ideologie, dimenticando che la politica (come sapeva bene Antonio Labriola) ha bisogno, sempre, di ‘simboli’ e di ‘bandiere’; e si è affidato, come soluzione taumaturgica, allo strumento delle ‘primarie’, degenerato, progressivamente, in senso ‘plebiscitario’. Con la conseguenza di acuire lo smarrimento, e la crisi, di ‘militanti’ costretti a una sorta di estenuante, ed inesauribile, viaggio nel deserto, senza prospettive né di carattere politico, né di carattere ideale. Ne è scaturita una generale frantumazione, e una disgregazione, sociale, politica e culturale, nella quale si è inserito, ed è cresciuto, il nuovo «dispotismo democratico». Non c’è da stupirsi: l’individualismo – come Stuart Mill ha spiegato in pagine memorabili – è un valore positivo, specialmente in società di massa come le nostre, ma se non è governato in direzione dell’emancipazione declina in senso conservatore e anche reazionario, come dimostra eloquentemente la recente storia italiana. Né si tratta, del resto, solo dell’Italia, nella quale il fe-

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nomeno ha assunto aspetti particolarmente acuti: processi omogenei si possono individuare in forme differenti anche a livello europeo. In Italia, però – e sta qui la nostra specificità –, il processo di frantumazione delle vecchie identità collettive – ed anzi, comunitarie – è stato più duro e più violento, anche per la funzione nazionale che esse avevano svolto nella ‘Prima Repubblica’; e, di conseguenza, più vasto e penetrante è stato il processo di ‘passivizzazione’ delle masse popolari che ad esso si è intrecciato, con la fine della tradizionale dimensione ‘di massa’ della politica. È in tale contesto che in Italia si è, in modi drammatici, riaperta la questione – centrale in una moderna democrazia – del rapporto tra «governanti» e «governati», delle forme della rappresentanza politica e sociale; e ad essa, nel vuoto sostanziale delle forze di sinistra, il nuovo dispotismo democratico ha dato una sua risposta, servendosi di tutte le armi a propria disposizione, a cominciare dai media, investendo con la sua azione tutti gli aspetti della vita della nazione, e ricomponendoli in forme nuove, dal suo punto di vista. Insieme alla politica di massa, oggi, sono infatti venuti meno anche i blocchi storici e di classe fissi, consolidati: tutto è diventato dinamico (o liquido, come oggi è di moda dire). È in questo magma che affondano le radici del nuovo «dispotismo democratico», che ha assunto, in modo progressivamente più aspro, caratteri addirittura eversivi – specialmente nei confronti delle ‘regole’ –, anche per la particolare situazione nella quale si trova il suo capo, «sceso in campo» (come si usa dire, con immagine sportiva) – cioè in politica – per salvare se stesso e la sua azienda dalle numerose inchieste giudiziarie nelle quali era inciampato nella fase dell’«accumulazione primitiva» del suo vasto patrimonio. Ma – ed è bene sottolinearlo – nei comportamenti dispotici del ‘capo’ si esprime un tratto caratteristico di un’ampia parte della società italiana in questo momento. Se non si capisce questo, non si intendono il peso, l’incidenza, la profondità della penetrazione di questo nuovo dispotismo nella società italiana. È facile, quando un processo si è compiuto, esprimere giudizi; ma, a considerarle oggi, le responsabilità della sinistra appaiono, obiettivamente, assai gravi: non ha saputo confrontarsi, fin dagli anni Settanta, con le trasformazioni profonde della società italiana; è rimasta chiusa nei confini della «politicizzazione di massa» novecentesca, senza comprendere per tempo che stavano affiorando e si stavano imponendo nuovi modelli di vita, nuovi comportamenti umani

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e civili e, in primo luogo, una nuova concezione dell’individuo e della sfera individuale irriducibile all’ideologia del vecchio – glorioso – partito di massa; non è stata capace di pensare in termini nuovi il rapporto tra ‘politica’ e ‘cultura’, permettendo all’‘avversario’ di stabilire una nuova, durissima, egemonia culturale, perno costitutivo della stabilità e della omogeneità del proprio – dinamico – blocco sociale. La sinistra, in conclusione, è rimasta in mezzo al guado (per riprendere una espressione una volta di moda), oscillando tra valori astratti e ‘concretismo’, senza trovare un effettivo «punto dell’unione» tra gli uni e l’altro, lanciandosi in operazioni essenzialmente trasformistiche, senza fare i conti con le «dure repliche» della realtà. Per quanto possa apparire paradossale, è stato perfino costruito un nuovo partito, che dovrebbe aprirsi a nuovi orizzonti, sommando insieme due partiti che sono figli di una vecchia storia, arrivata, ormai, alla fine, al suo compimento. In questo esito sul piano storico ci sono responsabilità comuni: della ‘società’ – compresi gli intellettuali –, che ha teso a chiudersi in se stessa e nei suoi interessi egoistici; della politica, serratasi, a sua volta, in modi sempre più chiusi e compatti, in un ceto che si riproduce secondo logiche autistiche, senza contatto con il «mondo grande e terribile». Di tutto questo parleremo più avanti; ma, in abbozzo, si possono indicare due elementi profondi di questa crisi: da un lato, l’incapacità della politica democratica di ricostituire un proprio ruolo e una propria funzione ridando significato a se stessa; dall’altro, l’incapacità – o la riottosità – a misurarsi con i nuovi e i vecchi luoghi materiali della crisi e dello sfruttamento: con una crisi della rappresentanza del lavoro e del sindacato che è uno dei dati più gravi della situazione italiana, ma anche un effetto tipico del dispotismo – anche di quello democratico –, il quale si pone, in modo costante, come obiettivo la crisi e la distruzione dei ‘corpi intermedi’. Parlare di ‘capitale’ e di ‘lavoro’ è diventato inattuale, quasi blasfemo: come se il nuovo dispotismo non si fondasse su rapporti materiali specifici, che aspettano di essere indagati sia nella loro compattezza che nella loro mobilità. Frantumazione delle vecchie appartenenze collettive, ‘passivizzazione’ delle ‘masse’, nuove forme di individualismo egoistico, vasti e capillari processi di secolarizzazione, crisi delle forme novecentesche della politica di massa, funzione egemonica dei media nella formazione dei ‘sensi comuni’...: sono questi alcuni aspetti generali

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della nascita e del successo del nuovo «dispotismo democratico» che si è affermato in Italia con Berlusconi, risolvendo in chiave nettamente reazionaria la questione delle ‘fonti’ della sovranità apertasi nella lunga crisi italiana. Se si volesse definire questo stato delle cose, si potrebbe dire che oggi abbiamo di fronte una generale situazione di ‘patologia della democrazia’, che – e su questo vale la pena di insistere – non riguarda, in quanto tale, solo il nostro paese. Sull’insieme di questi temi, ed assumendo proprio la ‘patologia della democrazia’ come chiave esplicativa dei fenomeni che si sono descritti – e che investono, in forme diverse, ma in modi speculari, sia la ‘destra’ che la ‘sinistra’, generando una diffusa degenerazione del tessuto democratico del nostro paese –, ci fermeremo ora, cercando di mettere a frutto la lezione dei grandi ‘classici’ analizzati nella prima parte5. 5   Sui temi trattati in queste pagine interessanti osservazioni, da punti di vista diversi, in V. Chiti, La sinistra possibile. Il Partito democratico alle prese con il futuro, Donzelli, Roma 2009, e B. de Giovanni, A destra tutta. Dove si è persa la sinistra?, Marsilio, Venezia 2009.

Parte seconda

Patologie della democrazia

Vecchio e nuovo dispotismo

Les républiques démocratiques immatérialisent le despotisme. Tocqueville

Nella sua azione politica, ormai quasi ventennale, Berlusconi su un punto è rimasto sempre costante: ha sostituito alla legge l’arbitrio, secondo un ‘principio’ classico di ogni dispotismo. Dai suoi «valvassori» ha fatto varare in Parlamento (almeno) 37 leggi ad personam, come si usa dire: dalle rogatorie alla riforma dei reati societari alla legge Gasparri sulle televisioni, dalla cancellazione della tassa di successione per patrimoni superiori a 350 milioni di lire al lodo Alfano fino al decreto salva-Milan. In sedici anni, Berlusconi ha subordinato in modo sistematico l’attività legislativa ai suoi interessi personali in un ‘crescendo’ inarrestabile, con un uso privatistico dello Stato che è, anch’esso, tipico del dispotismo classico. Come direbbe Marx, è la «democrazia della illibertà»; anzi «la compiuta alienazione», tipica del Medioevo, in cui «ogni sfera privata ha un carattere politico o è una sfera politica, o la politica è anche il carattere delle sfere private»1. E che, nel suo caso, si esprime in uno stile di vita e in modelli antropologici che hanno intorpidito – e penetrato – la società italiana in modo così profondo da non provocare più proteste o critiche in una larga parte degli italiani, pronti al massimo a rifugiarsi, per protesta, nell’astensione (come si è visto nelle ultime elezioni regionali). Suscitando, naturalmente, fortissime preoccupazioni in Berlusconi, il quale, fondando il suo potere sul consenso

  Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., p. 73.

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democratico, ha reagito in un modo assai sintomatico: organizzando una manifestazione di massa e facendo ‘giurare’, in piazza, i propri candidati di fronte al ‘popolo sovrano’. Su questo radicale disprezzo della legge da parte di Berlusconi merita di fare una breve riflessione. Se c’è infatti un punto che caratterizza la costituzione e la forma dello Stato moderno è la certezza del diritto e della legge. Non per nulla questo tema è stato al centro della riflessione dei maggiori filosofi europei, sia moderni che contemporanei. Alla certezza del diritto e della legge Hobbes sacrifica addirittura la libertà dei singoli individui che, per poter vivere in pace e sicurezza sotto lo scudo della legge, abdicano ai propri diritti individuali a favore del grande Leviatano. Ma il tema della legge è al centro, con altrettanta forza, della riflessione di Niccolò Machiavelli, il quale stabilisce un nesso organico tra «buoni esempi», «buona educazione» e «buone leggi». La cosa può sorprendere chi è abituato a confondere Machiavelli e machiavellismo: ma il tema della legge nei Discorsi è centrale, e funge da discrimine fra il buono e il cattivo Stato. «È cosa di malo esemplo non osservare una legge fatta», scrive in quel testo capitale. E poco dopo, confrontando governo monarchico e governo repubblicano e spiegando perché preferisca il secondo, scrive: «come hanno durato assai gli stati de’ principi, hanno durato assai gli stati delle republiche, e l’uno e l’altro ha avuto bisogno d’essere regolato dalle leggi [...]»2. Ciò che decide di uno Stato, della sua fortuna e della sua durata, è dunque la legge su cui esso è fondato. Uno Stato senza leggi salde e definite finisce nell’anarchia, nel marasma, sprofonda nella decadenza. Per questo è solo in rapporto alla legge che si può fare un confronto obiettivo tra governo monarchico e governo repubblicano, e stabilire il primato di quest’ultimo: «Se [...] si ragionerà d’un principe obbligato alle leggi e d’un popolo incatenato da quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe [...]»3. Un punto resta dunque acquisito nei padri del pensiero politico moderno: la legge è fondamentale nello Stato, si tratti della repubblica oppure del principato. Ma non è necessario risalire a Machiavelli per ribadire il primato della legge e del diritto, il primato della ‘forma’. Basta pensare al Novecento, a quelle che Bobbio chiamava le   Machiavelli, Discorsi, cit., p. 183.   Ibidem.

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«dure repliche della storia»: quando viene meno il fondamento, e il riconoscimento, della legge, uno Stato – qualunque Stato – precipita verso la decadenza, comincia a dissolversi proprio come Stato, come comunità di cittadini liberi proprio perché eguali di fronte alla legge. Si è insistito su questo punto giacché è proprio questo atteggiamento di fronte alla legge e alla certezza del diritto che dimostra, e conferma, la dimensione tecnicamente dispotica dell’ideologia e della pratica di governo di Berlusconi. Sul piano storico, quello che conta sono le differenze, non le somiglianze: nella storia del dispotismo contano, in primo luogo, gli elementi di ‘novità’; Berlusconi – e qui sta la sua originalità – ha trasformato in una sorta di ‘senso comune’ diffuso l’uso in chiave personale e ‘privatistica’ della legge. Le leggi – lo sapeva già Aristotele – sono prodotti storici, e come tali migliorabili, o addirittura sostituibili, alla luce di una più alta coscienza dell’uomo, del diritto, della civiltà. Cambiarle per adeguarle al mutamento dei tempi è un fatto naturale. Il problema posto dal nuovo dispotismo è però un altro. Esso riguarda l’ethos di un paese, le ragioni sostanziali per cui un insieme di uomini diventa una comunità di cittadini, una Repubblica, uno Stato. Concerne, in altre parole, la distruzione della certezza del diritto e della legge, diventata ormai fatto quotidiano, e normale, per larga parte degli italiani. È vero: Berlusconi usa la legge in chiave ‘privatistica’, capovolge, in altre parole, il significato stesso della legge; ma ha avuto il consenso della maggioranza. Sta qui la novità dirompente che lo situa, a pieno titolo, come un fatto originale nella storia del moderno dispotismo, del dispotismo democratico. E richiede una spiegazione che si può dare solamente cercando di guardare all’Italia, a ciò che il nostro paese è diventato in questi due decenni. Alla base del nuovo dispotismo democratico ci sono infatti profondi processi di trasformazione della nostra società. In questi ultimi venti anni, l’Italia si è ripiegata, chiudendosi in se stessa, dando sfogo agli istinti peggiori sia verso l’‘esterno’ che all’‘interno’. La mobilità sociale che aveva connotato i primi decenni della vita repubblicana si è attenuata, poi è venuta del tutto meno, mentre si è affermata una società fortemente gerarchizzata, incapace di dare spazio anzitutto alle giovani generazioni. Da un lato, con una sorta di giaculatoria quotidiana, si è continuato a fare tutti i giorni l’apologia

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del ‘cambiamento’; dall’altro, tutto è rimasto fermo, statico, immobile. Soprattutto – ed è questo il punto di fondo – è cresciuto, si è sviluppato e si è imposto un nuovo modello antropologico pervasivo e totalizzante, che ha spinto i ‘diversi’ a chiudersi in spazi residuali, in nuove forme di emarginazione e di solitudine. Se si volessero individuare, in modo sommario, alcuni degli effetti di questo dispotismo democratico sulla società italiana si potrebbe sintetizzarli in questo modo: sul piano sociale, un fortissimo acuirsi delle diseguaglianze; una strutturale riduzione, e un livellamento verso il basso, dei redditi popolari; una sostanziale incapacità di pensare un mutamento che non sia risolto nei ruoli e nelle gerarchie sociali stabilite. E sul piano più strettamente politico l’affermazione, a tutti i livelli, del modello leaderistico e di un potere centrale di tipo «carismatico» teso ad imporsi come l’unico luogo in cui la comunità nazionale possa identificarsi (con un sintomatico spostamento, però, dalla tradizionale dimensione politica in senso stretto al piano sociale, civile, addirittura antropologico, in coerenza, come stile di vita, con i nuovi bisogni e le nuove aspettative scaturite dal nuovo ‘individualismo’ di massa). Parallelamente a questo, una tendenziale – e sempre più netta – subordinazione della politica alla amministrazione (quello che Weber temeva e deprecava), e anche per questo una profondissima dequalificazione della classe politica e parlamentare (la peggiore, senza alcun dubbio, della storia repubblicana). Su quest’onda, nuove forme di autoritarismo di massa, imperniate su un consenso popolare molto vasto, reso possibile da una vera e propria egemonia culturale realizzata attraverso un uso massiccio e spregiudicato dei mezzi di comunicazione di massa. E una crisi strutturale del principio del ‘pubblico’ – come valore comune, condiviso quale principio di democrazia e di eguaglianza tra i cittadini – dalla quale sono state potenziate nuove forme di razzismo, proprio mentre muta in profondità la composizione demografica della nazione, ponendo all’ordine del giorno problemi nuovi e inediti, ai quali si è risposto solo in termini di chiusura, di esclusione. Né questo atteggiamento ha riguardato solo gli immigrati o gli strati più deboli della società: da un punto di vista generale, lo scarto tra «governati» e «governanti» ha assunto modi e spessore mai avuti, in questa forma, nella recente storia italiana, nell’epoca delle forme e dell’organizzazione politiche «di massa». È in questo clima che si è affermato un nuovo – ma grigio – individualismo, concentrato integralmente sul proprio «particulare», pronto ad abdicare ai diritti

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individuali e alle libertà collettive, pur di difendersi dall’estraneo, dall’ignoto, da tutto ciò che viene ‘da lontano’, sentito – sempre e comunque – come un nemico da combattere. È, per molti aspetti, proprio la società democratica che Tocqueville aveva intravisto nella seconda Democrazia: una società che, giorno dopo giorno, sfocia in una forma di dispotismo «dolce», imperniato sul ‘consenso’; ma non meno duro e implacabile di quello antico, quando si tratti di difendere e rinsaldare il proprio potere, il potere dominante. Quella società di fronte alla quale Tocqueville, quasi per disperazione, era arrivato addirittura ad auspicare la rivoluzione: una società passiva, statica, incapace di effettivo mutamento. Sarebbe però assai sbagliato non vedere gli elementi di novità – e di forza – di questo nuovo dispotismo democratico, interpretarlo come il ritorno di un fenomeno tipico della storia d’Italia, come un fatto di carattere essenzialmente ‘retrospettivo’. C’è, certo, anche questo; ma esso rappresenta qualcosa di nuovo nella nostra storia. Il nuovo dispotismo – ed è qui l’elemento costitutivo della sua ‘modernità’ e la sua forza – non parla, infatti, alle classi, ai movimenti collettivi; si rivolge agli ‘individui’: a ‘individui’ isolati, privi ormai di identità comuni, chiusi nel loro interesse e pronti, nella crisi, a dislocarsi, sul piano politico, a destra o a sinistra, a seconda delle loro convenienze. Muovendo di qui, esso è riuscito a dar voce, e legittimità, alle nuove sensibilità e alle nuove richieste di vita dei ‘singoli’ che, ponendosi al di là dei vecchi confini e delle tradizionali identità collettive, ambivano a una vita più consona alle loro aspettative; è, cioè, venuto incontro a una nuova richiesta di ‘protagonismo’ sprigionata da una ‘società civile’ (per usare un termine classico, ma inadeguato) frantumata e disgregata. In sintesi: esso è riuscito a dar ‘forma’ – in chiave duramente conservatrice, anzi reazionaria – alle esigenze di mutamento e di rinnovamento insorte, a livello di massa, di fronte alla crisi della ‘Prima Repubblica’, intercettando, sul piano politico, il rifiuto e il rancore quasi viscerale da cui essa è stata investita, anche per l’azione, da una parte, della magistratura, dall’altra, della Lega; ha interpretato un fortissimo bisogno di affermazione individuale nell’ambito dei ruoli e delle gerarchie sociali consolidate. E lo ha fatto cambiando il sistema e l’ordine dei valori in cui la comunità nazionale si era riconosciuta fino a quel momento e contribuendo in modo decisivo – anche attraverso l’azione dei media – a frantumare le identità collettive presenti nella società italiana. In questo quadro – coerentemente, va

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detto – esso ha lavorato per la distruzione di quella ‘religione civile’ dell’antifascismo su cui l’Italia era stata ricostituita. Sta qui la radice del suo successo: il nuovo dispotismo democratico ha colto, e interpretato, fenomeni che si muovono nel profondo della vita della nazione, situandosi – e questo è il punto sostanziale – oltre i confini della «politicizzazione di massa» che ha connotato il Novecento. E in questa sua azione si è giovato anche di una situazione internazionale favorevole per la fine dell’Urss e la caduta del muro di Berlino. In Italia, fin dal Risorgimento, il rapporto tra politica estera e politica interna è stato, infatti, strettissimo; anzi – come è avvenuto in tutto il periodo della ‘Prima Repubblica’ – è stata sempre la politica estera a dettare e ad imporre gli schieramenti interni, e a costituire l’effettivo confine tra ‘destra’ e ‘sinistra’ – un confine aspro, invalicabile, come dimostra l’assassinio di Aldo Moro. Il nuovo dispotismo, invece, si è mosso in una situazione più aperta, che ha favorito la scomposizione dei vecchi blocchi politici legati a scelte di politica estera di carattere fortemente ‘identitario’, rendendo possibile – e anzi favorendo – una forte fluidificazione dei tradizionali schieramenti elettorali e anche uno spostamento ampio di elettori di sinistra verso destra. Nel nuovo dispotismo si intrecciano, dunque, in modo composito vecchie posizioni e nuove prospettive sia ideologiche che politiche. Qui la dimensione politica – e dello Stato – viene riassorbita nel ‘privato’, nella ‘società civile’ (per riprendere la coppia su cui lavora Marx nella Critica e nella Questione). Ma questo non significa che si ripiombi nel Medioevo (come qualche volta si sente dire), quando – scrive Marx – «l’uomo è il reale principio dello Stato, ma l’uomo non-libero»4. I sudditi del nuovo potere non sono i servi della gleba: sono i «cittadini» emancipati dalle rivoluzioni politiche moderne – compresa la Rivoluzione francese; cioè gli uomini «liberi», i quali aderiscono al nuovo dispotismo sulla base di un libero consenso. Qualunque sia il giudizio che si voglia dare su di esso, il berlusconismo – non si insisterà mai troppo su questo punto – è una patologia della democrazia. Questo intreccio di ‘dispotismo’ e ‘populismo’ è espresso in modo esemplare dal carattere bipolare sia del suo linguaggio che della   Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., p. 73.

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sua azione politica e di governo. Da un lato, come avviene nella «democrazia della illibertà», si afferma una concezione ‘privatistica’ dello Stato e del potere basata sulla distruzione del principio della eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge – cioè del fondamento di ogni ‘vivere civile’, monarchico o repubblicano; dall’altro, ridotta la politica ad amministrazione, si presenta l’immagine di un potere ‘mite’, ‘paterno’, pronto a comprendere i problemi dei sudditi e a risolverli grazie all’intervento sollecito e solidale dello Stato. Da questo punto di vista è stata, e resta veramente esemplare – e su di essa si è già richiamata l’attenzione – la vicenda della Protezione civile, una delle principali protagoniste di questa ‘rappresentazione’: si è cercato, con tutti i mezzi, di sottrarla al controllo del Parlamento e del potere giudiziario, collocandola – in nome della logica dell’‘eccezione’ – in una sorta di terra di nessuno, dalla quale doveva rispondere solamente al presidente del Consiglio. E questo per un motivo preciso, e politicamente ineludibile: la Protezione civile è un aspetto costitutivo della tecnica bipolare del dispotismo democratico che Berlusconi incarna; da un lato violenza, dall’altro ‘mitezza’ e ‘compassione’. Il nuovo dispotismo democratico – ed è questo il dato di fondo con cui fare i conti – ha mutato la struttura interiore di larga parte del paese; l’ha spostata su un altro terreno – antropologico, prima che politico; e lo ha fatto – e questo è il punto decisivo – sulla base di un ‘consenso’ di massa assai forte e diffuso, servendosi degli stessi strumenti della democrazia per forzarli, in direzione del dispotismo. La sua estraneità ai ‘princìpi’ della Costituzione repubblicana è perciò polare, strutturale: politicamente – storicamente, si potrebbe dire – nasce, in effetti, contro di essa. Il conflitto con gli altri poteri repubblicani – a cominciare da quello tra Presidenza della Repubblica e Presidenza del Consiglio – è dunque una ‘sostanza’, non un ‘accidente’, e prima o dopo dovrà trovare un punto di soluzione. Nella Costituzione repubblicana, il nuovo dispotismo vede – e non può non vedere – un ostacolo, un impaccio di cui liberarsi il prima possibile per continuare a realizzare la propria vocazione dispotico-carismatica. E in questo quadro la ‘conquista’ della Presidenza della Repubblica, sulla base di una investitura popolare che consenta al dispotismo democratico di svilupparsi nella società italiana senza più remore di alcun tipo, è

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un momento centrale, insopprimibile. Nella dinamica dispotica c’è un impulso tanto naturale quanto incontrollabile a distruggere ogni potere che possa limitarla, da quelli ‘intermedi’ a quelli più alti: nella sua strada non tollera impedimenti. In conclusione: questo nuovo dispotismo democratico non è stato un accidente nella vita politica nazionale, la calata degli Hyksos. È una sorta di radiografia di alcune strutture costitutive della nostra storia, colte – per così dire – nella loro dimensione più essenziale, trasparente; ne ha espresso gli istinti ‘animali’ più violenti ed aggressivi; ma, al tempo stesso, li ha potenziati e li rilanciati attraverso una spregiudicata opera di ‘modernizzazione’, di cui è stato motore decisivo l’universo mediatico, in cui esso si è incarnato e rappresentato. In questo senso, il berlusconismo è qualcosa di assai diverso dai tradizionali partiti di centro; non ha nulla in comune con quello che sono state in Italia la Democrazia cristiana o in Germania la Cdu (della qual cosa ha dovuto, infine, prendere atto anche la Chiesa romana, mettendo fine – come vedremo più avanti – alla stagione del ‘ruinismo’). Al nuovo dispotismo – per fare solo un esempio, ma decisivo – è strutturalmente estranea ogni idea di ‘mediazione’, almeno nella forma espressa da questi partiti: nella sua prospettiva, la politica è immediatamente al servizio dell’economia, degli interessi materiali (e per questo, sia detto tra parentesi, esso è estraneo a una politica di ‘grande coalizione’). Né Berlusconi si è mai preoccupato di nascondere questo tratto specifico della sua azione, anzi lo ha rivendicato, facendone un punto di forza presso il suo elettorato ed ottenerne il consenso. Con una battuta, si potrebbe dire che il capo del centrodestra è assai più ‘marxista’ dei suoi competitori del centrosinistra, come testimoniano sia la sua azione di governo sia la sua continua, e sistematica, ‘propaganda’ volta a motivare, riattivare, mobilitare in forme e modi moderni – anche con manifestazioni di piazza, nei momenti più difficili – strutture di fondo della storia e della società italiana, rinserrandole, sulla base di un vasto consenso popolare, in una dinamica di classe dura, elementare, dai tratti reazionari, diffusa, e socializzata, attraverso vaste operazioni di ordine sia ‘materiale’ che ideologico e simbolico. E a questo proposito va ribadita una considerazione già fatta (e che in genere si fa quando si parla di Berlusconi): non si potrebbe comprendere il nuovo dispotismo democratico se non si sottolineas-

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se con energia la funzione che i mezzi di comunicazione – e la Tv in particolare – hanno nel processo di ‘passivizzazione’ di massa che è alla base del suo successo. È un punto centrale sia sul piano dell’analisi che su quello strettamente politico. Non si tratta, infatti – come si è già accennato – solo della diffusione di ‘sensi comuni’ conservatori e reazionari; il nuovo dispotismo è imperniato su un rovesciamento sistematico di ‘apparenza’ e di ‘realtà’, di immaginazione e di essere reale, come vero e proprio strumento di governo e di dominio. Né di per sé si tratta di una novità: «Le repubbliche democratiche rendono immateriale il dispotismo», scrive Tocqueville nella prima Democrazia in America. E poco dopo ribadisce: «Sotto le monarchie il dispotismo era disonorato; stiamo attenti che le repubbliche democratiche non lo riabilitino e che, rendendolo più pesante per qualcuno, non gli tolgano, agli occhi della maggioranza, l’aspetto odioso e il carattere degradante»5. È un’osservazione acuta, come dimostra la nostra storia recente: in Italia c’è stato un radicale trasformarsi dei termini della lotta politica e sociale, ma ciò è avvenuto attraverso il sovrapporsi di una rappresentazione ideologica alla realtà nella sua materialità. E a sua volta questo fenomeno è effetto dell’affermazione, a tutti i livelli, di una cultura della fiction anche politica, che esprime e potenzia al tempo stesso i meccanismi del potere sociale ed economico. Squarciare il velo delle mistificazioni ideologiche e confrontarsi con la realtà materiale nella sua concretezza è diventato perciò assai difficile; ma, se questa analisi è vera, un punto risulta chiaro: non si può uscire dall’orizzonte del nuovo dispotismo se non collocando al centro dell’analisi le modalità dispotiche di rappresentazione e di autorappresentazione della realtà, letteralmente svuotata della sua materialità e riproposta artificiosamente in termini funzionali a un punto di vista preciso sul terreno dei rapporti di dominio e di classe. Una critica ‘materiale’ dell’ideologia è la condizione preliminare per la comprensione e – se ce ne sono le condizioni – per la sconfitta del nuovo dispotismo e dei modelli antropologici, civili, culturali che esso ha costruito rovesciando in modo sistematico il rapporto tra ‘apparenza’ e ‘realtà’ e rendendo ‘immateriali’ le forme del suo dominio. Il nuovo dispotismo agisce su tutti i piani, anche quello religioso, provocando nuovi conflitti e complesse conseguenze. Del resto, sa  Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 303.

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rebbe stato ingenuo pensare che il suo imporsi in Italia – e la ‘secolarizzazione’ di cui è un figlio diretto – non avesse avuto effetto anche sulla Chiesa italiana. Né è difficile descrivere le tappe che, sotto il suo impulso, hanno scandito le scelte della Chiesa negli ultimi anni. Dopo la crisi e la fine della Democrazia cristiana, la Chiesa di Roma, come altre istituzioni che si erano riconosciute in essa, aveva scelto di scendere direttamente sul terreno dell’impegno politico quando – a suo giudizio – venissero messe in questione posizioni che riguardavano il suo magistero, senza quindi ricorrere più a mediazioni partitiche di tipo tradizionale. Era stata questa la radice profonda e ‘obiettiva’ del ‘ruinismo’, nel quale si è espressa, lungo il pontificato di Giovanni Paolo II, una nuova modalità nel rapporto fra Chiesa italiana e mondo politico nazionale. Né si è trattato – e va detto per capire le radici di questo fenomeno – di un processo puramente nazionale: nell’ultimo ventennio una nuova sporgenza delle religioni connota la storia universale e riguarda sia il cristianesimo che l’Islam o le sette religiose americane. Distanziandosi dalle grandi opzioni del Concilio Vaticano II, la Chiesa ha cominciato a battersi per svolgere una funzione che, travalicando l’orizzonte personale di fede, si estendesse al campo sociale, politico, antropologico, proclamando la verità – e il primato – dei valori ‘cristiani’ in tutte le sfere del vivere dell’uomo, siano esse pubbliche o private. Quali siano state le ragioni di questo profondo spostamento di asse strategico – eccezionalmente impersonato dalla figura e dall’opera di papa Wojtyła – è difficile dire in modo esauriente: certo nel generare un nuovo ruolo della Chiesa sia sul piano universale che su quello specificamente italiano hanno giocato una funzione decisiva la crisi dell’89 con la ‘fine del comunismo’; il declino delle tradizionali culture di matrice laica; il tumultuoso diffondersi delle ideologie di tipo consumistico; la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa; la fine, sul piano mondiale, del ‘bipolarismo’ e l’imporsi dell’‘impero americano’; l’assunzione della guerra come forma ordinaria della politica internazionale. Qualunque ne sia stato il motivo, il ruolo della Chiesa negli ultimi decenni è profondamente cambiato, dando anche un forte contributo – con toni addirittura profetici, tipici di Giovanni Paolo II – allo sviluppo di una politica di pace, riproponendo alcune delle linee più profonde e più importanti del cristianesimo moderno, da Cusano ad Erasmo da Rotterdam. Naturalmente, queste nuove responsabilità che la Chiesa ha deciso di assumere, in forme e toni nuovi, implicano, oltre che dei diritti,

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dei doveri; non possono essere svolte secondo privilegi, e confini, tradizionali che, oggi, non esistono più per nessuno, né per la Chiesa né per lo Stato. Le Chiese – tutte le Chiese – hanno il diritto di scendere sul piano della ‘società civile’, direttamente, senza mediazioni partitiche, proponendo la loro visione dell’uomo, del mondo e della natura, e di battersi per essa a viso aperto, servendosi di tutti gli strumenti leciti in una società democratica. Ma non possono pretendere, ovviamente, di accampare vecchie pretese, chiedendo l’osservanza di antichi benefici; né di imporre, in chiave autoritaria, il proprio punto di vista ai singoli individui o, addirittura, allo Stato, le cui leggi tutte le Chiese – compresa quella romana – sono tenute ad osservare. Se le Chiese – tutte le Chiese – scelgono di impegnarsi direttamente sul piano politico, sociale, etico ed antropologico – come ‘soggetto’ accanto ad altri ‘soggetti’ – esse devono accettare la logica della contesa e anche del conflitto, senza pensare di potersi riparare dietro scudi che non possono, e non devono, esistere più per nessuno. È precisamente uno scudo di questo tipo che il ‘ruinismo’ ha ritenuto di poter trovare in Berlusconi e nel suo governo, rifiutandosi di accettare le conseguenze che discendono dalla fine della tradizionale mediazione partitica e dalla decisione di scendere, direttamente, sul piano politico, con tutto quel che deriva da una decisione di questo genere in una democrazia moderna, che per sua natura è – o dovrebbe essere – conflittuale. Con una scelta obiettivamente discutibile, la Chiesa romana, invece, da un lato, ha rivendicato giustamente il suo diritto di intervenire nei problemi della ‘società civile’, scontrandosi con altri atteggiamenti e opinioni; dall’altro, ha preteso di godere di uno stato di privilegio rispetto alle posizioni con cui entrava in conflitto, di qualunque natura esse fossero. In breve: ha preteso di essere, al tempo stesso, dentro la lotta e sopra la lotta, arrogandosi i diritti dell’arbitro – e del supremo giudice – nei confronti del conflitto aperto nel paese. E su questo piano ha giocato, e perso, la sua battaglia con il nuovo dispotismo democratico impersonato da Berlusconi. Si è trattato di un processo complesso, stratificato, multiforme: con il pontificato di Wojtyła, da un lato, l’Italia ha perso il tradizionale primato, diventando una ‘regione’ della Chiesa universale (in corrispondenza, si potrebbe dire, con la più generale perdita di peso dell’Italia nella politica internazionale, stabilizzatasi in modo definitivo con l’89); dall’altro, in questa ‘regione’ – di cui Ruini è stato a lungo

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il ‘capo’ effettivo – i confini tra politica e religione si sono fusi fino a confondersi, con conseguenze gravi per l’una e per l’altra. L’obiettivo della costituzione di una nuova forma di societas christiana, con l’assunzione, dopo la crisi della Democrazia cristiana, di un impegno politico diretto ed esplicito da parte della Chiesa italiana, si è risolto in una forte prevaricazione dell’impulso politico su quello propriamente pastorale ed evangelico. Invece di «prendere per mano» la libertà – come auspicava Tocqueville fin dalle prime pagine della Democrazia in America – la Chiesa italiana ha contribuito, di fatto, a consolidare, con il suo alto magistero, le tendenze dispotiche presenti, e in sviluppo, nella società italiana. Da questo punto di vista, per quanto possa apparire paradossale, il ‘ruinismo’ è stato un aspetto del processo di ‘secolarizzazione’ del cattolicesimo in Italia, in un rapporto di affinità – e di sostanziale subalternità – con il berlusconismo. Con Benedetto XVI è iniziata una nuova fase, che ha inciso negli equilibri della Chiesa italiana, avviando a dissoluzione il ‘ruinismo’ – fenomeno certo di notevole portata –, con l’ambizione di riportare la Chiesa italiana nell’orizzonte della politica vaticana complessiva, e in specie della Segreteria di Stato, tagliando le punte di più spiccata autonomia che avevano caratterizzato la stagione di Ruini. Ma è precisamente su questo terreno cruciale che si sono aperti, nella Chiesa, una discussione – e anche un conflitto – decisivi, perché riguardano il suo rapporto con la società nazionale, nell’epoca del dispotismo democratico. Da questo punto di vista, la vicenda che ha riguardato un anno fa l’«Avvenire» e il suo direttore resta esemplare, sul piano storico-politico, perché essa è parte di un conflitto più generale sulla visione sia pastorale che politica della Chiesa italiana: un conflitto che tocca direttamente l’orizzonte ecclesiale e, al tempo stesso, lo travalica, aprendo questioni che riguardano tutta la società italiana. Questioni che, per la loro imponenza, vanno al di là degli individui, come dimostra la stessa esperienza del presidente della Conferenza episcopale italiana, il quale, collocato in quel ruolo dal Segretario di Stato, si è trovato a svolgere un ruolo per certi aspetti imprevedibile e imprevisto. Esse riguardano il rapporto fra dimensione pastorale e dimensione politica in una situazione caratterizzata dalla presenza, da un lato, di profondissimi processi di ‘secolarizzazione’; dall’altro, da un potere che è disposto a fare alla Chiesa tutte le concessioni richieste, a condizione di non essere intralciato nei propri interessi, qualunque

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sfera essi tocchino. E questo nel quadro di una concezione totalmente ‘privatistica’ dello Stato, che non tollera intrusioni istituzionali di alcun genere, neppure da parte del Vaticano. In altri termini, esse riguardano il governo e l’autonomia della Chiesa italiana e il significato – e il destino – della missione della Chiesa nella nostra società. La vicenda dell’«Avvenire» – che in questa prospettiva ha anche un forte rilievo simbolico – si è situata in questo intricato insieme di problemi: per la Segreteria di Stato si è trattato di avviare un processo di ‘normalizzazione’ della Chiesa italiana, mentre per la Conferenza episcopale italiana è stata l’occasione per opporre una franca resistenza a questa pressione. Ma al di là dei singoli fatti, ciò che sul piano storico va particolarmente sottolineato in questo contesto sono soprattutto due punti: anzitutto i termini nuovi – di carattere più strettamente pastorale e post-ruiniano – delle posizioni assunte dalla Conferenza episcopale italiana anche in un quadro di potenziale conflitto con il governo Berlusconi. È una nuova posizione, generata da un giudizio assai più acuto e più preoccupato – e da una rinnovata, e più allarmata, analisi – sui generali processi di secolarizzazione che hanno investito l’Italia e che sono anche alla base del nuovo dispotismo democratico. Nei suoi esponenti più rappresentativi, la Conferenza episcopale italiana ha colto gli aspetti pervasivi che questa ‘secolarizzazione’ ha assunto, investendo, oltre che il piano politico, il livello degli stili di vita personali ed esistenziali, i modelli antropologici, il senso stesso dell’esperienza religiosa, a cominciare da quella cristiana; e, soprattutto, si è resa conto del rapporto diretto – e potenzialmente distruttivo – tra questi fenomeni e l’imporsi in Italia, in forme sempre più pervasive, del dispotismo democratico, iniziando a trarne le conseguenze sul piano strategico generale. E con questo veniamo al secondo punto da sottolineare. Il presidente della Conferenza episcopale italiana ha cominciato ad insistere – in forma sempre più pressante – sulla necessità di una educazione al senso della cittadinanza, dello Stato, della legalità e dell’impegno civile, invitando i giovani cattolici a un nuovo impegno politico. E in questo quadro, ha cominciato a battere in modo sistematico sul valore della democrazia. L’impegno per la res publica – ha detto il cardinale Bagnasco il 18 marzo 20106, rifacendosi, e non per caso, a Rosmini –

  Cfr. per questo l’«Avvenire» del 19 marzo 2010.

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trova nell’impegno politico la sua più alta forma d’espressione. Il sogno di allargare le generazioni dei politici cristianamente ispirati, che siano in grado di rinnovare profondamente questo fondamentale ambito dell’esistenza, passa attraverso la capacità di educare al senso della cittadinanza e dello Stato, della legalità e dell’impegno nella società civile [...]. L’appello alla partecipazione e alla passione, merce troppo rara nel nostro attuale contesto, se non vuole essere solo retorico, chiede risorse ed energie da destinare all’educazione delle giovani generazioni che, se hanno ricevuto, dandola per scontata, la democrazia, troppo spesso non sembrano in grado di abitarla e viverla in riferimento ai valori fondamentali della giustizia, della libertà e della pace.

È un discorso esplicito; né c’è contraddizione sull’insistenza da parte del presidente della Conferenza episcopale su questi temi ‘civili’ e la rivendicazione di una energica e costante vocazione pastorale ed evangelica della Chiesa italiana. Essa scaturisce dalla netta presa d’atto delle degenerazioni dispotiche del paese e dalla convinzione di doversi muovere a un duplice livello – pastorale e politico –, se si vuole salvaguardare il senso stesso dell’esperienza religiosa e, in specie, di quella cristiana. Soprattutto, rendendosi conto del punto di gravità al quale è arrivata la situazione italiana, il presidente della Conferenza episcopale – ed è questo il punto essenziale da notare – ha sottolineato che per combattere il dispotismo e restaurare lo spazio vitale per il riconoscimento e la crescita del cattolicesimo in Italia si può seguire una sola strada: riaffermare, con energia, il primato e il significato della democrazia, e il valore della politica come condizione strutturale della libertà dell’uomo, sia laico che religioso. Riprendendo la migliore tradizione del cattolicesimo democratico italiano, si è situato, cioè, in una prospettiva nettamente antidispotica, cominciando a distaccarsi, con nettezza, dai ‘compromessi’ propri del ‘ruinismo’. Che alla base di questi nuovi atteggiamenti della Conferenza episcopale italiana ci siano potenziali ma profondi elementi di conflitto con il berlusconismo – ulteriormente rafforzati dalle critiche dei cattolici italiani impegnati in una autentica esperienza ecclesiale – è, infatti, evidente. Nella riflessione del presidente della Cei alcuni punti sono chiari: il PdL non è un partito cattolico, né esso è in grado – per la sua stessa ideologia – di operare una positiva mediazione fra Chiesa cattolica e società italiana. Certo – e il presidente della Cei lo sa per esperienza diretta – il PdL è pronto allo scambio politico con la Chiesa italiana su temi anche assai rilevanti – e proprio su questo

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aveva puntato Ruini; ma a prezzi troppo alti e, perciò, inaccettabili: nell’ambito di un orizzonte interamente secolarizzato, senza alcun impulso di carattere specificamente religioso, anzi in una prospettiva che, potenzialmente, toglie senso all’esperienza religiosa e cristiana. Con le sue prese di posizione il presidente della Cei ha in primo luogo mostrato di comprendere che – come hanno insegnato i grandi ‘classici’ moderni – senza politica non c’è libertà, e che questo vale per tutti, credenti e non credenti, Stato e Chiesa; e perciò ha invitato in modo esplicito i giovani cattolici ad impegnarsi sul piano politico, difendendo anzitutto la legalità. Da questo punto di vista la polemica fra l’«Avvenire» e la Cei, da un lato, e Berlusconi, dall’altro, è tendenzialmente radicale e non superabile. Il nuovo dispotismo – ed è questo che si voleva sottolineare – con la sua virulenza secolarizzatrice e la sua refrattarietà ad ogni regola e a qualunque principio di etica pubblica va, di necessità, in rotta di collisione anche con la Chiesa romana, dischiudendo, in questo modo, nuovi scenari. Se questa analisi è giusta, si sta aprendo per la Chiesa italiana una nuova stagione, destinata a durare: nel luglio del 2010 un suo autorevole esponente – e i giornali l’hanno riportato con la giusta evidenza – ha detto che nel nostro paese mancano sia una ‘classe dirigente’ che una visione complessiva dei problemi della Nazione7.   Si veda «la Repubblica» del 1° agosto 2010.

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La tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio ma che ogni ‘cittadino’ può diventare ‘governante’ e che la società lo pone sia pure ‘astrattamente’ nelle condizioni generali di poterlo diventare. Antonio Gramsci

Mentre le forze della destra hanno messo mano a una sorta di ‘rivoluzione’ conservatrice – sfociata in una nuova forma di dispotismo democratico –, i partiti di centrosinistra sono stati travolti da una crisi che o li ha completamente dissolti (come è avvenuto al Partito socialista), oppure li ha sottoposti a una serie di metamorfosi traumatiche, come è avvenuto al Partito comunista, l’unico a resistere, sia pure a costi assai alti, in questa lunga tempesta. Né c’è alcun dubbio che la vittoria della destra sia stata resa possibile proprio dall’esaurirsi delle culture politiche e delle politiche della sinistra; dal consumarsi della ‘religione civile’ dell’antifascismo, in cui si era riconosciuto, senza eccezione, quello che allora veniva chiamato l’‘arco costituzionale’; dall’incapacità di misurarsi con i nuovi problemi che si aprono, in modi drammatici, quando finisce l’epoca delle forme e delle organizzazioni politiche ‘di massa’. C’è stato soltanto un lungo e tormentoso mutamento di sigle – dal Pci al Pds, dal Pds ai Ds, dai Ds al Pd. Paradossalmente – e lo si cita solo per ribadire la profondità della crisi –, mentre i partiti di centrosinistra erano travagliati da una crisi

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profondissima – e per alcuni fatale – è stata la Chiesa con Giovanni Paolo II e la Centesimus annus ad alzare una voce critica nei confronti delle nuove forme di duro ‘individualismo’ che in Italia si sono affermate con il berlusconismo, consumando ogni forma di solidarietà e di apertura alla diversità. La politica – come la storia – non sopporta il vuoto: mentre i ‘laici’ tacevano, la Chiesa ha preso direttamente la parola sulla scena politica, suscitando, naturalmente, forti preoccupazioni in chi si riconosce in una visione ‘laica’ della vita, della politica ed anche della funzione della Chiesa. Sotto la pressione di questa situazione, le forze del centrosinistra hanno cercato di superare vecchie divisioni e contrapposizioni – venute meno anche per l’esaurirsi della ‘guerra fredda’ –, riunendosi in un solo partito; ma senza riuscire a dar vita a qualcosa di effettivamente nuovo. Il Partito democratico, punto di arrivo di questo tormentato processo, è stato, e resta, la sommatoria di vecchi, estenuati, organismi, piuttosto che qualcosa di originale. Privo di una cultura politica autonoma – essenziale per qualunque organismo che voglia avere dignità e forza di partito –, angustiato da lotte continue – e fratricide – per la leadership, esso non è riuscito ad imboccare una strada effettivamente nuova, anche per l’implacabile resistenza degli antichi gruppi dirigenti che sono confluiti in esso, attaccati come ostriche – se si vuole, anche per legittime ragioni di sopravvivenza – a un potere in via di dissoluzione. Giorno dopo giorno, il Pd è apparso un partito in perpetua crisi, destinato a una vita difficile, a meno di non realizzare un drastico, netto, mutamento di rotta; e questo per un motivo che riguarda direttamente i caratteri della sua genesi, il suo «nascimento» (come direbbe Vico). Il Partito democratico – conviene ribadirlo – non è nato da un progetto politico autonomo, da una scelta positiva. È scaturito da una spinta di carattere essenzialmente difensivo: dall’esigenza di raccogliere tutte le forze disponibili per cercare di creare un’alternativa al berlusconismo, come testimonia, del resto, la forte accelerazione con cui è stato costituito, correndo, consapevolmente, il rischio di mettere in crisi il governo di Romano Prodi, come in effetti è accaduto. Da questo punto di vista, il Pd è assai diverso anche dall’Ulivo: figlio di una lunga ‘crisi’, non è mai riuscito a elaborare una propria idea dell’Italia e del suo ruolo nel mondo e a collocarsi in una prospettiva politica precisa è nato in una trincea da cui non è riuscito a

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riemergere svolgendo un’azione politica positiva. Per quanto possa apparire paradossale, nella nascita del Pd c’è stato un elemento di astrattezza ‘giacobina’ che ne ha compromesso, fin dalle origini, esistenza e sviluppo. Del resto, non si tratta di una novità: molte delle scelte fatte dalla sinistra e specie dal Partito comunista fin dal 1989 – cioè dalla caduta del Muro di Berlino in poi – scaturiscono da scelte di carattere ‘difensivo’, non da una propria, autonoma iniziativa politica. E questo fatto, nel quale si è espressa in modo evidente la crisi di una intera cultura e di una tradizione politica, ha pesato profondamente anche nell’esperienza del Pd e, in modo specifico, nella inclinazione ‘carismatica’ e ‘plebiscitaria’ che esso ha preso, fin dalla sua nascita, con l’esperienza delle ‘primarie’. In questa situazione – già di per sé assai grave e compromessa –, i dirigenti del nuovo partito si sono trovati, infatti, a dover affrontare quello che era, e resta ancora oggi, il problema principale per una forza di centrosinistra, e che è il frutto diretto, e drammatico, della ‘crisi democratica’ italiana degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso: lo scarto profondissimo apertosi, in questo periodo, tra «governati» e «governanti» (per riprendere i lemmi di Gramsci), fra ‘dirigenti’ e ‘diretti’, fra ‘base’ e ‘vertice’. Un grande problema politico e, al tempo stesso, una vera e propria questione di sopravvivenza, resi, l’uno e l’altra, manifesti, e tangibili, dall’abbandono da parte di molti militanti delle vecchie identità e ‘fedeltà’ politiche, e da una loro scelta, anche sul piano elettorale, a favore del berlusconismo. Problema, quest’ultimo, di per sé non sorprendente: quando vengono meno le tradizionali forme della politica di massa, i vecchi blocchi politici e sociali diventano più fluidi e più flessibili per l’incrinarsi delle vecchie – e strutturate – identità, e tendono ad entrare facilmente in crisi per la forte tendenza alla frantumazione e alla dispersione che ciò comporta, anche – va aggiunto – per il venir meno di solide, e profonde, appartenenze ‘identitarie’ di carattere internazionale. Per ottenere risultati positivi in questo senso sarebbe stato necessario muoversi (almeno) in quattro direzioni: una rinnovata analisi, di carattere materiale, della società italiana e, in questo quadro, del nuovo dispotismo democratico e delle trasformazioni sociali e politiche di cui esso era, al tempo stesso, causa ed effetto; una riflessione seria e aperta per uscire dai confini delle vecchie ideologie novecentesche, risalenti all’epoca della «politicizzazione di massa» (compresa quella socialista) e dei vecchi partiti (anche quando essi

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fossero di nascita recente); una attenzione adeguata, e non rapsodica, alla dimensione dei ‘valori’ dell’agire sociale e politico – in breve: di quelle che una volta si chiamavano ideologie, specie in una fase di profondi mutamenti ‘culturali’ (nel senso largo del termine), in cui sprofondavano le radici, e le ragioni del successo, del nuovo dispotismo –; un profondissimo rinnovamento dei vecchi gruppi dirigenti, figli, ormai, di un altro mondo, di un’altra epoca. Ovviamente, i ‘valori’ non si improvvisano a tavolino, né in un giorno; né i partiti si costruiscono in provetta. Ma quello che conta è la direzione in cui si procede, la direttrice di marcia, mettendo in conto, se è necessario, anche qualche sconfitta. È un punto su cui ha recentemente richiamato l’attenzione, con parole molto intense, Jacques Delors in una sua recente intervista: «da Mendès-France ho imparato una grande lezione: è meglio perdere un’elezione che perdere l’anima e il senso della propria direzione; una elezione si può rivincere dopo cinque anni, che vuole che sia? Ma se si perde la bussola, o si perde l’anima, per ritrovarle ci vogliono generazioni». È precisamente quello che è accaduto con il Partito democratico: si è dimenticato che l’agire politico non vive di se stesso, separato in una sfera autonoma, e che stabilire nuovi rapporti tra ‘valori’ e iniziativa politica, tra ‘politica’ e ‘cultura’ è una condizione essenziale per un nuovo partito riformatore in grado di misurarsi positivamente con la ‘crisi’ italiana e il nuovo dispotismo che ha sottomesso la nazione. Se si volesse individuare il punto di massima debolezza del nuovo partito, bisognerebbe insistere proprio su questo deficit sul piano dei ‘fini’, degli ‘ideali’; insomma sul piano di quei ‘valori’ prepolitici con cui la politica si alimenta e prende senso, di cui ha recentemente parlato Delors. ‘Fini’ e ‘valori’ – ma su questo si insisterà più avanti – che non possono essere definiti se non muovendo da un’‘idea’ dell’Italia in questo momento storico e, in questo ambito, dalla nuova centralità che l’‘individuo’, il singolo individuo, ha assunto nella crisi della «politicizzazione di massa» novecentesca, dopo il crollo dei blocchi sociali e politici che hanno strutturato la vita politica italiana per mezzo secolo. E quando si dice ‘individuo’ – sarà bene chiarirlo –, non si intende alludere ovviamente al tardo recupero di una prospettiva tradizionalmente ‘liberale’, ovviamente perdente o subalterna; ma al nodo teorico e politico da cui occorre muovere per ricostituire nuove forme di comune identità e di solidarietà sociale, mantenendo aperta, proprio per questo, una critica rigorosa – sia sul

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piano politico che su quello ideologico – nei confronti dell’‘individualismo’ egoistico che si è espresso, e continua ad esprimersi, nel nuovo dispotismo. Tutto questo, s’intende, per un motivo sul quale si è già richiamata l’attenzione nel Prologo: oggi l’‘individuo’ pronto a risolversi, per ragioni ideali, nella ‘massa’ non esiste più; né esiste più la dimensione ‘di massa’ propria del Novecento: quella ‘massa’, quell’‘individuo’ sono finiti, e con loro è finita la politica che in essi si imperniava; né c’è da auspicare che ritornino. I problemi con cui occorre fare i conti a tutti i livelli – sociale, politico, persino antropologico – sono completamente nuovi e vanno dunque affrontati e risolti con strumenti e programmi all’altezza del nuovo millennio che si è aperto. Nelle società contemporanee esistono ‘individui’ di tipo nuovo, i quali hanno nuove, e diverse, aspettative di vita, con i quali occorre misurarsi in modi nuovi, ben al di là delle frontiere di quella che è stata la grande esperienza socialista e socialdemocratica del Novecento. Se non si capisce questo, non si costruisce una strategia di tipo riformatore nel nostro paese. In questo senso, quello che si sarebbe dovuto costruire è un moderno partito imperniato sui ‘diritti’ individuali e su una forte solidarietà sociale; un moderno partito dei ‘diritti’ civili, politici, sociali dei cittadini italiani, di tutti i cittadini italiani, nativi ed immigrati, spezzando il nesso storico fra ‘nazione’ e ‘territorio’. E a sua volta questo avrebbe richiesto nuove forme di partecipazione, un nuovo «respiro» della politica ed anche un suo nuovo linguaggio, in grado di mettersi in sintonia con i nuovi bisogni quotidiani della gente, spezzando le logiche chiuse – a volte addirittura oligarchiche e perfino autistiche – in cui la politica, tutta la politica si è rinchiusa. Mai come oggi quella del ‘linguaggio’ – nell’accezione più vasta del termine – è diventata una questione direttamente, esplicitamente politica. La persuasione della ‘novità’ della situazione non deve, certo, togliere la consapevolezza che il ruolo dei partiti resta essenziale e che senza di essi non c’è, né può esserci, democrazia. Nel migliore dei casi, si precipita in forme di ribellismo e di astrattismo velleitario, oppure in forme nuove di dispotismo che di fatto svuotano la vita democratica di qualunque consistenza e concretezza. Il ‘problema’ dell’Italia – si è già avuto modo di osservarlo – è opposto: scaturisce precisamente dalla crisi della rappresentanza politica e sociale, dalla separazione sempre più grave ed evidente

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di «governanti» e «governati». È un problema aperto da qualche decennio: esso riguarda la questione delle ‘fonti’ e delle ‘forme’ della sovranità nel nostro paese e coinvolge direttamente il futuro della nostra democrazia. La forza del nuovo dispotismo berlusconiano è consistita, precisamente, nella capacità di dare una risposta a questo problema, riuscendo ad intrecciare – in termini duramente conservatori, talvolta reazionari – ‘arretratezza’ e ‘modernizzazione’. Ma storicamente è questo il ‘problema’ sempre e ancora aperto di fronte alle forze riformatrici; ed è rispetto ad esso che va considerata anche la questione della sinistra in Italia, della sua funzione nazionale e, in questo quadro, del significato del Partito democratico. Esso ha un senso nazionale reale se riesce, in primo luogo, a ristabilire su basi nuove un ‘circuito’ virtuoso tra «governanti» e «governati»; ha un senso, cioè, se riesce a porre e risolvere in modi nuovi il problema della rappresentanza nel nostro paese. Per cercare di ristabilire questo ‘circuito’ i dirigenti del centrosinistra – riprendendo l’esperienza dell’Ulivo – si sono affidati a uno strumento nuovo, le ‘primarie’, dichiarandole addirittura – con enfasi – componente essenziale del proprio Dna; con l’obiettivo – così almeno è stato detto – di ridare lo ‘scettro al sovrano’, cioè al ‘popolo’. Una notevole invenzione, occorre dire, giustamente salutata con favore e con grande fiducia; ma destinata, anch’essa, ad un sostanziale fallimento per l’intrinseca e strutturale fragilità – sia sul piano della cultura politica che su quello specificamente organizzativo – del partito che le ha promosse, da cui è scaturita, quasi naturalmente, l’inclinazione ‘carismatica’ e ‘plebiscitaria’ che, fin dall’inizio, esse hanno assunto. Le ‘primarie’ – questo è un fatto indiscutibile – specialmente all’inizio hanno avuto un vasto successo, che ha stupito gli osservatori in Italia e in Europa. Un successo certo non casuale, che discendeva, in modo diretto, dagli elementi che già si è avuto modo di citare, a cominciare dal tramonto e dalla fine delle forme della «politicizzazione di massa» proprie del Novecento. In Italia non esistono più ‘istituzioni’ come il Partito comunista o la Democrazia cristiana; per quanto riguarda il Partito democratico, è venuto sostanzialmente meno (almeno nelle forme tradizionali e con ovvie eccezioni) il ricco e articolato tessuto di sezioni, di Case del Popolo o di altre strutture consimili che, specialmente nell’Italia centro-settentrionale, hanno costituito la forza prima del Partito

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socialista, poi di quello comunista, consentendo un’ampia partecipazione democratica alle scelte proposte dagli organismi cittadini, regionali e nazionali. E con esso sono venuti meno quei canali di comunicazione – e di mediazione – tra «governanti» e «governati», tra ‘dirigenti’ e ‘diretti’ che quelle strutture consentivano. Tra società civile e società politica, fra i partiti e la gente si è aperto un fossato, ulteriormente acuito dall’inclinazione oligarchica che la politica ha assunto in Italia negli ultimi decenni e che ha favorito l’avvento del nuovo dispotismo democratico. È un problema serio, che riguarda la stessa costituzione interiore della democrazia italiana, ma è anche un problema con il quale la politica – e in modo particolare la politica dei partiti – stenta a confrontarsi, chiudendosi in una propria autosufficienza corporativa senza rendersi conto che in questo modo rischia – come si suol dire – di tagliare l’albero su cui è seduta. Quando la politica organizzata viene meno, si creano infatti nuovi, e diversi, luoghi di organizzazione e di partecipazione, come è avvenuto in Italia negli ultimi anni proprio con le ‘primarie’: esse hanno corrisposto a un’esigenza obiettiva, verrebbe da dire fisiologica. Se le vecchie strade sono ostruite e non funzionano più, la vita – anche quella politica – trova nuove forme per esprimersi e venire alla luce. Da questo punto di vista, le ‘primarie’ – e il valore e il successo che esse hanno avuto soprattutto all’inizio – sono state solamente la punta di un iceberg, il punto di arrivo – e il risultato più eclatante – di movimenti profondi che, nonostante l’affermarsi del dispotismo democratico, hanno continuato a scuotere in profondità il paese e, in modo speciale, lo schieramento di centrosinistra. Risiede qui la ragione del loro successo, specialmente iniziale, nonostante le ricorrenti, e cocenti, delusioni, e questo per un motivo preciso. Nella ‘crisi’ delle tradizionali forme politiche ‘di massa’, le ‘primarie’ sono state l’unico strumento a disposizione dei cittadini orientati verso il centrosinistra per far sentire la propria voce. L’hanno fatto con molto entusiasmo, entrando anche in rotta di collisione con le scelte, o le indicazioni, del partito. Il quale – immerso, a sua volta, in questa ‘crisi’ – non è stato, infatti, in grado di condizionare in modo effettivo il loro risultato, non disponendo più delle strutture attraverso le quali possano essere mediati la partecipazione, e il consenso, intorno alle scelte degli organismi dirigenti. Nel bene e nel male, le ‘primarie’ sono dunque scaturite dalla ‘crisi’, e dalla fine, del ‘circuito’ della partecipazione e della comu-

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nicazione politica di matrice novecentesca. Ma ricostituire questo circuito non è facile, come dimostra proprio questa esperienza. Le ‘primarie’, infatti, sono un utile strumento se si appoggiano ad un partito forte, organizzato al centro ed ampiamente strutturato nel territorio; se sono funzione organica di un partito che riesce ad essere, a sua volta, parte integrante di una nazione. Ma senza un forte partito di riferimento, strutturato necessariamente in chiave federale, che le diriga e le organizzi, le ‘primarie’ – specie quando siano assunte come norma generale – degenerano in senso ‘plebiscitario’ e diventano terreno di lotta tra boss sia locali che nazionali, i quali, mobilitando interessi concreti e coinvolgendo forze popolari, riescono a guadagnarsi, per questa via, l’appoggio del partito costringendolo a sostenere le proprie ambizioni personali e politiche. Si trasformano cioè, nonostante molta retorica, in una esperienza politica tipicamente populistica e plebea, spostando il movimento democratico italiano indietro di almeno mezzo secolo. Da nuova sorgente di vita politica, diventano, come in effetti è accaduto, una nuova, e diversa, forma patologica della democrazia italiana. La piazza, l’agorà – come sappiamo dalla storia antica – lasciata a se stessa viene manipolata dai ‘demagoghi’, da coloro che ne sanno ‘carezzare’ gli istinti, senza giovare alla polis; mentre i partiti, senza strutture organizzative dislocate sul territorio, non sono in grado di svolgere una reale funzione generale di orientamento e di direzione che comprenda, e dia senso, alle nuove forme di partecipazione che vengono alla luce nella ‘crisi’ delle forme politiche ‘di massa’ tipiche del Novecento. Questo non significa che non si debba lavorare per individuare nuove modalità della politica capaci di garantire – anzi di potenziare – la partecipazione democratica alla vita della città, della polis. È proprio su questo punto decisivo che si è giocato il destino del Partito democratico: volendo diventare una ‘funzione’ effettiva della società italiana in questo avvio di millennio, avrebbe dovuto elaborare nuove forme di funzionamento democratico, oltre quelle che sono state proprie del Novecento. Avrebbe dovuto cioè individuare nuovi luoghi – e nuove modalità – di aggregazione e di partecipazione, collegandosi alle esigenze più vitali della società italiana; rinunciando ad ogni velleità egemonica; assumendo come principio la nuova centralità dell’‘individuo’ in tutte le sue forme (‘individuo’: un lemma, e un concetto, abbastanza ostico – lo so bene – per politici e intellettuali di formazione sia marxista che cattolica). E in questo contesto avrebbe

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dovuto inserire, e valorizzare come centro propulsivo, anche le ‘primarie’. O era capace di fare questo, oppure il Partito democratico non sarebbe riuscito a svolgere quella funzione nazionale di agente e di motore della democrazia italiana alla quale, nell’intenzione dei suoi promotori, doveva ambire. Tertium non datur. Obiettivamente – e qualunque sia il giudizio che si voglia esprimere sia sul Pd che sulle ‘primarie’ – tutto questo non è avvenuto, con pesanti conseguenze per l’intero sistema politico italiano, che per stabilizzarsi in termini solidamente bipolari avrebbe avuto bisogno, sulla sua sinistra, di un forte e organizzato Partito democratico. È stata una perdita grave. Ma alla base di queste degenerazioni, oltre a un deficit di direzione politica, ci sono elementi che hanno intaccato fin dall’inizio l’esperienza delle ‘primarie’; ed è su questi ultimi che, sul filo della ricerca svolta in questo libro, va richiamata l’attenzione. Anzitutto – come si è già accennato – sulle ‘primarie’, fin dalle origini, ha pesato una forte componente di carattere ‘plebiscitario’ e ‘cesaristico’ che, accolta senza adeguata consapevolezza, ha comportato effetti gravi anzitutto per l’assenza – alla quale or ora si faceva riferimento – di un partito in grado di limitare questi processi degenerativi, esplosi, come è ovvio, anzitutto nelle zone più deboli del paese, a iniziare dal Mezzogiorno. Ma, occorre aggiungere subito, non era facile contenere i danni: l’attrazione per le soluzioni ‘plebiscitarie’ e ‘carismatiche’ veniva da lontano, aveva radici profonde, anche a sinistra. Anzi, in questa attrazione fatale, c’è stata una sorta di specularismo fra gli elettori del centrodestra e quelli del centrosinistra, accomunati da un profondo rifiuto per i caratteri, le forme e gli esiti della ‘crisi’ democratica, coincisa con la fine della ‘Prima Repubblica’. A destra si è visto in Berlusconi il leader ‘carismatico’ capace di guidare la traversata del Mar Rosso; a sinistra si è individuata nelle ‘primarie’ la via per chiudere una stagione fallimentare ed aprirne un’altra di cui il ‘popolo’ avrebbe dovuto essere protagonista in prima persona, scegliendo il leader in cui confidare e al quale affidare le proprie speranze. Due scelte, due opzioni opposte, nate però, entrambe, dal sentimento di una crisi traumatica di appartenenze, identità, tradizioni culturali e politiche, da cui si è ritenuto di poter uscire ricorrendo a strumenti ‘eccezionali’, differenti ovviamente, ma, in entrambi i casi, di carattere ‘carismatico’ e ‘plebiscitario’.

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Due scelte opposte; e, soprattutto, due risultati antitetici. Mentre a destra si è riusciti effettivamente ad individuare un ‘capo’, un leader capace di rompere con i confini politici tradizionali, ponendosi addirittura su un terreno altro rispetto a quello della politica, a sinistra i ‘capi’ che hanno cercato di spezzare i confini del proprio mondo dando vita a una forte ‘innovazione’ sono stati tutti duramente sconfitti: per limiti personali, certo, ma forse anche perché, pur facendo scelte così profondamente estranee alla loro storia, hanno pensato, in maniera confusa e contraddittoria, di poter continuare a mantenersi, al tempo stesso, su un terreno tradizionalmente politico. È anche per questa inconseguenza, e incoerenza, che essi hanno perso: a differenza della destra, ciò che alla fine è prevalso a sinistra è stata una sostanziale riaffermazione della ‘tradizione’, con il simmetrico – e graduale – decadere del valore e del significato ‘rivoluzionario’ delle ‘primarie’, limitate, progressivamente, alla dimensione di strumento politico prezioso, ma da affiancare agli altri, e da utilizzare quando e se fosse risultato utile ed opportuno. In altre parole, le ‘primarie’ sono state metabolizzate dai tradizionali gruppi dirigenti, e ricollocate nel flusso politico ‘ordinario’; come conferma, puntualmente, il progressivo indebolimento della prospettiva bipolare, che alla ‘forma’ delle ‘primarie’ è connessa in modo strutturale. Dal piano dell’‘eccezione’ si è, cioè, passati a quello della ‘norma’, con un vero e proprio ribaltamento del punto di vista originario. Secondo i ‘princìpi’ di ogni dinamica politica incentrata sul ‘carisma’, le ‘primarie’ si proponevano, infatti, di essere il luogo di rifondazione di un rapporto diretto tra ‘popolo’ e ‘leader’, che, circuendo i tradizionali apparati di partito, avrebbe dovuto ripiantare su nuove, solide basi la democrazia in Italia, ponendo fine sia alla ‘crisi democratica’ che al declino e alla fine delle forme della «politicizzazione di massa» propria del Novecento. Questo, in effetti, sono state le ‘primarie’ statu nascendi: il tentativo più organico fatto a sinistra per superare la crisi della politica e dei partiti di massa novecenteschi attraverso il ‘plebiscitarismo’; ed è precisamente su questo terreno che esse sono state progressivamente svuotate e, di fatto, sconfitte. Il che non toglie, ovviamente che, in alcuni casi, abbiano continuato ad essere strumento, e terreno, di lotta e di competizione fra leader locali dal forte carisma e capi nazionali del Partito in vista della propria affermazione personale e sociale. Ma il quadro di riferimento ideale e politico è completamente mutato.

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Se si volesse, si potrebbe fare una storia della vita politica italiana degli ultimi quindici anni assumendo come punto di vista privilegiato la categoria weberiana della «carismaticità»; è difficile però dire con quale grado di consapevolezza dei rischi sia stata imboccata questa strada nel centrosinistra. Le cose sono comunque andate in modo assai diverso da quanto il ‘popolo’ di sinistra aveva sperato, per la implacabile resistenza degli apparati tradizionali di partito, sia nazionali che locali: il primo segretario del Partito, eletto a furor di popolo, è stato bruscamente disarcionato in seguito ad una (relativa) sconfitta elettorale afferrata al volo per avviare un processo di ‘normalizzazione’ che si è compiuto con l’elezione di un nuovo segretario – il terzo, in pochi mesi –, con cui, al di là delle dichiarazioni, è iniziata una nuova fase, che tende, di fatto, a superare la stagione delle ‘primarie’. Come testimonia in modo eloquente proprio il rifiuto esplicito, e assai sintomatico, della dimensione della «carismaticità», su cui il nuovo segretario ha espresso giudizi nettamente critici. ‘Primarie’ e leader di tipo carismatico sono, infatti, unum et idem. Né c’è da stupirsi di questo: per cultura, carattere, e anche per una consapevole scelta politica, il terzo segretario del Pd è forse il leader meno ‘carismatico’ fra quelli attivi sulla scena politica italiana. E con questo fatto, il cerchio si è chiuso: a differenza del primo, questo segretario – azzardo un giudizio – non sarà, infatti, disarcionato. La storia è, notoriamente, imprevedibile: ma l’onda delle ‘primarie’, ormai in via di riflusso, difficilmente potrà mettere in questione gli apparati del partito, le ‘burocrazie’ che lo guidano. Ciò non vuol che dire che le ‘primarie’ non svolgeranno più un ruolo; ma in un quadro politico del tutto diverso. Se si aprirà un nuovo conflitto – come in effetti è accaduto e certamente continuerà ad accadere –, esso riguarderà, in primo luogo, i rapporti tra apparati nazionali ed apparati locali del partito, i quali, proprio facendosi forti delle ‘primarie’, non appaiono più disposti ad accettare il primato e le decisioni del centro. Né è escluso che le ‘primarie’ possano essere utilizzate da qualche Ulisse come un cavallo di Troia per penetrare nel Partito democratico e costringerlo ad accettare uomini e prospettive estranee, verso cui recalcitra. È, del resto, già accaduto. Ma questa è un’altra storia. Sul filo del nostro ragionamento, il punto che occorre sottolineare è un altro: come direbbe Weber, il gioco sta tornando nelle mani dei «politici di professione», «senza le qualità intime carismatiche che appunto creano un capo». Se le ‘primarie’ dovevano essere un «ritorno ai princìpi» (per riprendere l’espressione di Machiavelli)

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– ed avviare un ricambio tendenziale dei gruppi dirigenti –, questo «ritorno» non c’è stato. I protagonisti della vita politica a sinistra sono, e restano, sempre gli stessi; e dicendo questo, mi limito ad esprimere un giudizio descrittivo. Parlare di rinnovamento (anche generazionale), di innovazione può diventare, infatti, pura retorica: quello che conta è come e cosa si rinnova; e questa – sia detto tra parentesi – non è una questione di ‘generazione’. Si può valutare questo in modo positivo o negativo, ma un dato è certo: a sinistra non è stata elaborata nessuna seria prospettiva in grado di misurarsi con la fine delle forme della «politicizzazione di massa» novecentesca e l’avvento dell’epoca della «post-politicizzazione». Questo è – e resta, in ogni caso – il punto di maggiore debolezza dello schieramento di centrosinistra rispetto al berlusconismo. Questo «ritorno ai princìpi » non poteva però esserci anche per un altro, fondamentale, motivo. Battersi per introdurre elementi di ‘democrazia diretta’ – perché di questo si tratta quando si parla delle ‘primarie’ – è giusto, specie quando il rapporto tra «governati» e «governanti» si è incrinato in modo profondo. È giusto e opportuno soprattutto se è un bisogno fortemente sentito, e condiviso, da una parte dei cittadini, come ha dimostrato la straordinaria partecipazione, specie all’inizio, alle ‘primarie’, che corrispondevano, in effetti, ad una esigenza assai avvertita mirante a una riqualificazione sia della politica che della democrazia italiana. Ma se nel caso della destra la «carismaticità» poteva essere l’alfa e l’omega dell’intero progetto politico, non è così che, nel caso delle ‘primarie’, potevano stare le cose per le forze del centrosinistra. Come sapeva assai bene già Kant – e ha confermato tragicamente l’esperienza del Novecento –, dalla ‘democrazia diretta’ – quando sia priva di controlli – può sfociare il dispotismo: La forma di governo – scrive in un appunto preparatorio per la Pace perpetua –, come potere che applica la legge, può essere suddivisa in due tipi: essa è infatti o repubblicana, ossia adeguata alla libertà e all’eguaglianza, o dispotica, ossia una volontà che non vuole legarsi a questa condizione. La prima è una costituzione democratica in un sistema rappresentativo, in quanto viceversa la semplice democrazia secondo il modo di governo è dispotica1.

  Kant, Scritti di storia, politica e diritto, cit., p. xxvi.

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La vera repubblica, ribadisce negli stessi appunti, è la «democrazia rappresentativa», cioè una democrazia in cui l’esecutivo sia distinto dal legislativo2. Il tema è ripreso in modo esteso nel testo sulla Pace perpetua, nel quale Kant si propone, fin dalle prime pagine, di distinguere tra costituzione repubblicana e costituzione democratica. Questa è infatti, per Kant, la distinzione essenziale: non quella concernente la forma del dominio (forma imperii), che può essere di uno solo (autocrazia), di alcuni uniti tra loro (aristocrazia), di tutti insieme (democrazia). Ciò che conta è la forma di governo: e da questo punto di vista o ci sono repubbliche o forme dispotiche; se a reggere il governo sia uno, oppure siano molti, o tutti, questo non è, per Kant, l’essenziale. Essenziale è la distinzione tra repubblicanesimo e dispotismo: il primo è «il principio politico della separazione del potere esecutivo (il governo) dal potere legislativo; il dispotismo è il principio politico dell’autonoma esecuzione, da parte dello Stato, di leggi che lo Stato stesso ha promulgato, quindi è la volontà pubblica che viene esercitata dal sovrano come sua volontà privata»3. Nel dispotismo non c’è, quindi, divisione dei poteri e la sfera pubblica viene ridotta alla dimensione privata, a differenza della repubblica, nella quale c’è libertà nella legge da cui dipendono tutti i cittadini, e perciò eguaglianza. Nella repubblica ogni cittadino è uguale di fronte alla legge, alla quale nessuno può sfuggire. Il «tipo di governo repubblicano» è però possibile solo nel «sistema rappresentativo»: senza questa condizione si ha un «governo dispotico e violento, qualunque sia la costituzione», tipico della democrazia. Essa «è necessariamente un dispotismo, poiché [...] fonda un potere esecutivo dove tutti decidono su uno e in ogni caso anche contro uno (che di conseguenza non è d’accordo), quindi tutti, che però non sono tutti; ciò rappresenta una contraddizione della volontà generale con se stessa e con la libertà». In conclusione – ed è questo che a Kant interessa sottolineare –, le repubbliche sono rappresentative, mentre le democrazie sono strutturalmente dispotiche: «qualcosa di informe poiché il legislatore può essere in una sola e medesima persona contemporaneamente l’esecutore della sua volontà»4. Né   Ibidem.   I. Kant, Per la pace perpetua, Prefazione di S. Veca, traduzione di R. Bordiga, con un saggio di A. Burgio, Feltrinelli, Milano 1991, p. 35. 4   Ibidem. 2 3

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Parte seconda. Patologie della democrazia

è difficile comprendere con chi Kant se la stia prendendo dicendo queste cose: se la prende con Rousseau, con la «democrazia diretta»; con la «volontà generale» che prevarica sui singoli individui; con il rapporto diretto del popolo con il potere. Qui sta, per Kant, la radice del dispotismo. Solo nel sistema rappresentativo c’è effettiva conformità «al concetto di diritto». In sintesi: far perno, in modo esclusivo e demagogico, sulla «democrazia diretta» vuol dire aprire la strada a una situazione nella quale, come dice Kant, «ognuno vuole essere signore»; e questo giudizio vale sia per la società che per i partiti. Come avviene con i ‘classici’, la distanza storica non toglie la forza, e l’attualità, di queste posizioni. Secondo Kelsen, «la democrazia diretta che affida al popolo in prima persona la formazione delle leggi non è applicabile ai grandi stati moderni». Come del resto aveva già capito anche Rousseau, che aveva «esaltato» la democrazia diretta, ma sostenendo al tempo stesso che «il popolo legiferante non può operare se non in un piccolo Stato»5. Sono tesi, e fatti, che andrebbero tenuti presenti quando si parla di «democrazia diretta», ed anche delle ‘primarie’, le quali, in sostanza, a questo miravano: a mettere il ‘popolo’ – la ‘base’ – in condizione di intervenire direttamente, e senza mediazioni, nella decisione politica e, in questo caso, nella scelta del ‘capo’, del leader, sia pure nell’ambito di un partito. Ribadire l’importanza della democrazia diretta è, infatti, importante, così come è fondamentale favorire esperienze che vadano in questa direzione; ma a patto di inserirle in un quadro complessivo al cui centro devono essere – e restare – gli strumenti e le forme della ‘democrazia rappresentativa’; altrimenti si scade nel ‘dispotismo’, anche a livello di partito. Con un esito paradossale: per avere più democrazia – e ‘contare’ di più – si può diventare ‘strumenti’ in mano di altri ed essere utilizzati come ‘massa di manovra’ per scopi del tutto diversi da quelli per i quali si era scelto di impegnarsi. Come è appunto accaduto (e può continuare ad accadere) con l’esperienza delle ‘primarie’.

5   Per questi testi, e posizioni, di Hans Kelsen, cfr. M. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 17.

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Quando hanno scelto le ‘primarie’, i dirigenti del centrosinistra si sono messi su una strada di cui, evidentemente, non hanno misurato tutte le conseguenze, assumendo, e facendo propria, una ‘forma’ politica che può sfociare, naturalmente, nella dimensione ‘plebiscitaria’ e ‘carismatica’, cioè, in un carattere costitutivo del nuovo «dispotismo democratico» – sia pure senza la radicalità, e l’oltranza, che caratterizza quest’ultimo. Hanno, cioè, giocato con il fuoco, in modo confuso e contraddittorio, e si sono bruciati le mani; ma questo esito negativo non toglie alcuna forza, ed attualità, al nodo che, in modo confuso e informe, le ‘primarie’ si sono sforzate di sciogliere: il problema, sempre e ancora aperto, del rapporto fra «governanti» e «governati». L’esperienza delle ‘primarie’, con tutti i suoi limiti, è nata – e qui sta il suo valore – dalla presa d’atto che una vecchia forma della militanza politica era tramontata e che, soprattutto, era declinato l’universo dei valori che aveva sostenuto quel partito e quella concezione della militanza. È scaturita, cioè, dalla persuasione che fosse necessario imboccare altre strade, se si voleva continuare a dare una ‘rappresentanza’ alle forze della sinistra. Il carattere che hanno assunto dimostra i limiti strutturali teorici, culturali e anche politici del partito che le ha proclamate addirittura come parte del proprio Dna, e l’esaurimento delle culture politiche delle varie forze che in esso sono confluite – per una scelta ‘volontaristica’, occorre ribadire, più che per un disegno politico autonomo e positivo. Da questo punto di vista le ‘primarie’ sono state uno spettacolare esercizio nel vacuum di programmi specifici e storicamente maturati; ma esse hanno anche testimoniato, concretamente, quanto ampia, diffusa e profondissima sia l’esigenza di ‘partecipazione’ e di ‘decisione’ nel ‘popolo’ che in quella esperienza si è riconosciuto; e di questo occorre tener conto, se si vuole rimettere il tempo «in sesto». Ma – e con questo si torna a quanto si diceva all’inizio – per fare questo occorre riprendere le mosse da una rinnovata analisi teorica delle forze politiche e sociali, ponendosi anche il problema di dare nuove forme di ‘rappresentanza’ sia a coloro che oggi sentono l’insufficienza di quella che hanno, sia a coloro che non l’hanno né in Parlamento, né nella nostra società.

Parte terza

Rimettere il tempo in sesto

«Una modesta proposta»

The time is out of joint. Shakespeare

Bisogna dunque riflettere bene sulla lezione delle ‘primarie’, imparando a non contrapporre, in modo schematico ed astratto, ‘democrazia diretta’ e ‘democrazia rappresentativa’. Occorre, al contrario, stabilire organici rapporti tra l’una e l’altra, favorendo e potenziando tutte le forme di ‘democrazia diretta’, ma per riaffermare – questo è il punto – la forza e il primato della ‘democrazia rappresentativa’, sapendo, al tempo stesso, che essa è attualmente in una crisi assai profonda, come dimostra lo stato di impotenza e di subalternità nel quale si trova oggi il Parlamento, considerato come un ‘peso morto’ di cui occorrerebbe liberarsi. Per riprendere le limpide battute di Kant, oggi «la volontà pubblica viene esercitata dal sovrano come sua volontà privata», secondo le caratteristiche del «dispotismo», con un totale disprezzo della legge che invece, nella «repubblica», vale per tutti e per ciascun uomo. Tra l’indifferenza (quasi) generale, il presidente della Camera, alcuni mesi fa, ha addirittura chiuso l’Aula per mancanza di lavoro. Né questo stupisce: oggi, la politica si svolge da altre parti; anzi, come si è già detto e ripetuto, Berlusconi si è spostato su un terreno altro rispetto a quello della politica tradizionalmente intesa; e precisamente su questo ha costruito il suo successo e il consenso della maggioranza del paese. Del resto, basta scorrere l’elenco degli eletti alla Camera o al Senato e paragonarlo, non dico a quello del primo Parlamento nazionale, ma solo a quello di pochi decenni fa, per vedere le immense differenze e constatare che il Parlamento oggi non è in grado – tecnicamente, si potrebbe dire – di svolgere una seria azione di tipo legislativo.

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Non si tratta, del resto, solamente della politica in senso stretto: un elemento di fondo della ‘crisi’ della democrazia italiana è costituito oggi dalla situazione del sindacato, che attraversa un momento delicatissimo proprio sul terreno della ‘rappresentanza’, come dimostrano tanti drammatici episodi di ‘autogestione’ operaia verificatisi in questi ultimi tempi. Episodi cruciali, su cui non si riflette a sufficienza, in cui si rifrangono, come in un prisma sensibilissimo, alcuni dei problemi di fondo della nostra società, compresi quelli di cui si sta parlando in queste pagine: dalla crisi del sindacato, dai fenomeni di ‘autogestione’ – in una parola, dalla rottura dei ‘legami’ – possono infatti sortire, paradossalmente, processi di ‘centralizzazione’ destinati a rafforzare ulteriormente il potere dell’esecutivo, individuato come l’unico ‘istituto’ in grado di risolvere i problemi, con un ulteriore potenziamento e diffusione della ‘impoliticità’, da cui germina, per movimento naturale, il ‘dispotismo carismatico’ (utilizzo anche qui il termine ‘impoliticità’ in una accezione generica, differente da quella di Mann). Ma sottolineare il valore primario della democrazia rappresentativa non significa assumere un atteggiamento passivo, o acritico, rispetto ad essa e alla realtà in cui essa si colloca. Resta essenziale analizzare in primo luogo la situazione concreta dei cittadini dal punto di vista materiale – cioè sul terreno di quelli che una volta si chiamavano i ‘rapporti proprietari’, i ‘rapporti di classe’. Se non si fa questo, si torna indietro almeno di un secolo e si abbandona la stessa democrazia rappresentativa a un destino di crisi, di impotenza, di decadenza; si apre, in altre parole, la strada, come oggi avviene, alla miseria dell’‘impoliticità’. Un solo esempio: ora è di moda fare l’apologia del merito; il limite strutturale dell’Italia sarebbe costituito dal mancato riconoscimento dei ‘meritevoli’ nei vari rami della società. Né in linea di principio questa constatazione è falsa o priva di valore. Ma il problema prioritario del nostro paese oggi non è questo. Sono le diseguaglianze che lo travagliano: diseguaglianze antiche e diseguaglianze nuove; diseguaglianze che riguardano i ‘nativi’ e zone specifiche del paese (a iniziare dal Mezzogiorno), e diseguaglianze che coinvolgono, anzitutto, gli immigrati, che aspirano a diventare nuovi cittadini italiani. È proprio su questo punto che, oggi come ieri, appare decisiva, e per molti aspetti insuperabile, l’analisi svolta da Marx nella Questione ebraica, mettendo a fuoco con chiarezza i limiti strutturali – «astratti»,

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per riprendere il suo lemma – della eguaglianza politica e la necessità di scendere alla sostanza delle cose – cioè alle diseguaglianze della ‘società civile’ –, per poter porre su solide basi il processo della liberazione umana. Per Marx l’eguaglianza è la realizzazione della sostanza; e la coppia bourgeois/citoyen gli serve per mettere a fuoco il processo da compiere per realizzarla in modo concreto. Ma la sua critica non ha perso nulla della sua forza e attualità: valeva ieri e vale oggi. Naturalmente, anche in questo caso, occorre saper leggere i ‘classici’ cum grano salis: ad esempio, sono del tutto inaccettabili la filosofia della storia con cui la Questione ebraica si conclude e la prospettiva «ultrapolitica» e «ultrademocratica» che Marx delinea nelle pagine finali, con la dissoluzione della politica che ivi è attuata. Si è già sottolineato questo punto, e non è il caso di insistere. Non solo: l’analisi sviluppata in quel testo capitale deve essere sviluppata, e attualizzata, alla luce della situazione contemporanea e delle tendenze ‘dispotiche’ e ‘carismatiche’ che ne sprigionano. Ma proprio in un tempo come il nostro – «out of joint» – quel modello di analisi è assai prezioso, e può contribuire in maniera assai efficace a smascherare le forme attraverso cui si sviluppa il nuovo potere dispotico. Dalla fondazione della Repubblica non c’è mai stato un momento in cui la diseguaglianza tra i cittadini abbia dominato in modo più duro e violento, sottraendo al controllo dello Stato intere zone del paese. Ma quello che caratterizza il nostro tempo storico è l’accettazione della diseguaglianza, dell’arbitrio come norma, fatto ordinario; mentre è diventata un’eccezione – e come tale perfino sorprendente – l’applicazione della legge secondo i princìpi stabiliti dalla Costituzione. Non avrebbe però alcun senso svolgere nei confronti di questa situazione una critica di tipo moralistico o far l’apologia della «società degli apoti» di prezzoliniana memoria; occorre, anche in questo caso, saper andare alla sostanza della cosa e comprendere come sotto il fantasma dell’ideologia della ‘eguaglianza’ brulichi un verminaio di diseguaglianze su tutti i piani della realtà – nella famiglia, nei rapporti di genere, nella fabbrica –, di cui è artefice un moderno potere dispotico che ha rovesciato, in modo arbitrario, i rapporti tra ‘pubblico’ e ‘privato’, riuscendo a creare intorno a se stesso un consenso che, nonostante varie crisi periodiche, continua ad apparire forte e resistente. E qui il discorso deve essere di ordine generale: uno dei luoghi costitutivi del nuovo dispotismo che si è affermato in questi anni è,

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precisamente, il rovesciamento sistematico di ‘apparenza’ e di ‘realtà’ e, attraverso di esso, la costituzione di una idea della realtà in cui i ‘fantasmi’ predominano, fino a sostituirli, sugli esseri reali, ‘concreti’. È proprio da questo dominio dell’‘astratto’ – dell’‘immaginazione’, in tutte le sue forme – sul ‘concreto’ che germina il nuovo dispotismo. Né è difficile vedere quanto in questo processo di frantumazione, di mistificazione e di volatilizzazione della realtà – e dei rapporti ‘concreti’, reali – abbiano contato i mezzi di comunicazione di massa, che sono stati un motore decisivo sia del processo di mistificazione della realtà che della genesi e dello sviluppo del nuovo, «dolce», dispotismo. Basta pensare al lessico che è stato diffuso dai media, e si è imposto giorno dopo giorno, nella quotidianità; ed anche alla perdita di significato e di valore del lessico specificamente politico, sostitui­ to da un vocabolario proprio delle soap opera o, addirittura, da un linguaggio in cui predominano lemmi di ascendenza genericamente ‘religiosa’. Con una singolare, paradossale conseguenza: nel tempo della massima secolarizzazione, il linguaggio ‘religioso’ si è trasformato in segno, e simbolo, della nuova comunicazione post-politica: fenomeno, certo, blasfemo, che potrebbe apparire sorprendente se non si fosse già chiarito che il ‘berlusconismo’ è un movimento che, fin dall’inizio, ha fatto della ‘impoliticità’ – anzi, della antipoliticità – il proprio vessillo e il proprio segno di riconoscimento. Se questo è vero, l’analisi, in chiave materialistica, del lessico è oggi uno strumento indispensabile per comprendere le vie complesse e sottili attraverso cui il nuovo «dispotismo carismatico» ha affermato il suo dominio, penetrando – ed è ciò che più conta – nella vita quotidiana e costruendo nuovi ‘sensi comuni’ impermeabili ad ogni atteggiamento critico. Questo nuovo lessico – e i mezzi di comunicazione attraverso cui esso viene diffuso – sono stati l’autentica officina in cui il nuovo dispotismo ha elaborato gli strumenti del suo dominio: un lessico che concerne la ‘parola’ (come aveva capito Weber), ma che, oggi, coinvolge con altrettanta, e forse maggiore forza, la dimensione del corpo – della corporeità –, contribuendo con efficacia alla costruzione di nuovi modelli antropologici di tipo ‘individualistico’, base materiale delle nuove tendenze dispotiche che, nell’indifferenza (quasi) generale, si sono imposte nella nostra società. Tipica di questo lessico è la cancellazione dell’idea, e della prassi, del conflitto. Basta pensare a quello che è accaduto in occasione delle ultime elezioni regionali: sono state sospese tutte le trasmissioni nelle quali il conflitto continuava ad avere diritto di cittadinanza. Né

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si tratta di provvedimenti accidentali, o dettati da un risentimento momentaneo, da un accesso d’ira. Sono atteggiamenti, e decisioni, in cui si riflette, in modo programmatico, un primato sempre più vasto assegnato alla amministrazione sulla politica e, come si dice, al ‘buon governo’, nell’ambito – e questo è il punto decisivo – di una ideologia sociale di tipo ‘armonicistico’ che esclude, e cancella, la stessa possibilità di un conflitto politico e sociale. L’analisi critica di questa situazione è essenziale – e preliminare –, se si vogliono ricostituire le basi di una politica democratica in Italia; essa è parte sostanziale di una cultura antidispotica. Da questo punto di vista l’analisi svolta da Marx può risultare eccezionalmente utile nel ricondurre le cose dal «cielo» dei media alla «terra» dei rapporti reali, concreti, dissolvendo una delle radici essenziali del nuovo dispotismo, che si nutre e si rafforza proprio attraverso il rovesciamento sistematico di ‘immaginazione’ e ‘realtà’. Quando si vedono in azione i meccanismi del consenso imperniato sulla televisione, sia pubblica che privata, occorrerebbe aver sempre presente le battute di Marx nella Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel sulla religione, ed applicarle – mutatis mutandis – alla nuova situazione: La soppressione della religione quale felicità illusoria del popolo è il presupposto della vera felicità. La necessità di rinunciare alle illusioni riguardanti le proprie condizioni, è la necessità di rinunciare a quelle condizioni che hanno bisogno di illusioni. La critica della religione è dunque, in germe, la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola sacra1.

In questo senso, la demistificazione del lessico del nuovo dispotismo – nel registro ‘dolce’ come in quello ‘violento’ – è oggi un’operazione altrettanto decisiva per la luce che può gettare dentro il determinarsi, e lo svolgersi, delle nuove dinamiche dispotiche, e le tecniche di cui esse si servono per guadagnare consenso intorno al primato dell’«arbitrio» e dell’«informe». Limitarsi a irridere il lessico dell’attuale presidente del Consiglio – e ad enfatizzarne i lati più pittoreschi o anche osceni – è perciò un grave errore: impedisce di capire il ruolo che esso svolge nel guadagnare consenso alla sua figura e alla sua azione, e la necessità – per contrastarlo – di mette  Marx, Scritti politici giovanili, cit., p. 395.

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re in circolazione un lessico di tipo opposto, imperniato su ‘valori’ strutturalmente antidispotici. Così come è inutile – oltre che insensato – inseguirlo sul suo terreno, come a volte si fa: si resta all’interno del suo universo linguistico e politico. Mentre oggi, sul piano del linguaggio, è necessario fare una ‘rivoluzione’: la fine del moderno dispotismo inizia qui. ‘Riaprire’ la Questione ebraica e ristabilire, in chiave materialistica, i rapporti tra ‘apparenza’ e ‘realtà’ dovrebbe dunque essere un compito prioritario per rimettere il tempo «in sesto». Ma ciò non basta. La democrazia intesa come «eguaglianza delle condizioni» – ce lo ha spiegato Tocqueville – può covare e maturare germi potenzialmente dispotici. La battaglia per l’eguaglianza – e per l’«ultrademocrazia» –, la battaglia di Marx può risolversi in una nuova forma di servitù. Invece di essere tutti eguali e tutti liberi, si può diventare tutti eguali e tutti schiavi. A meno che non si affermi con altrettanta energia il principio della libertà, e con essa il principio del conflitto come struttura animatrice di ogni società effettivamente democratica. Lo sapeva già Machiavelli: senza conflitto, non c’è libertà. Ma Machiavelli sapeva anche – prima dello stesso Tocqueville – che la libertà senza «contrafforti» non vive, declina, finisce: a Roma, la base della libertà era il grande «contrafforte» del Tribunato della plebe, istituito proprio per contenere e ridurre il potere della nobiltà: Coloro che dannano i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori e alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà nascono dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma [...]. Né si può chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata, dove siano tanti esempi di virtù, perché li buoni esempi nascono dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano; perché chi esaminerà bene il fine d’essi, non troverrà ch’eglino abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del comune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà2.

  Machiavelli, Discorsi, cit., p. 71.

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Quando Machiavelli scrive questo elogio del conflitto sa bene di contrapporsi a quelle che erano state le linee di fondo della storiografia precedente; perciò insiste, volutamente, su quello che, a suo giudizio, è il fondamento della libertà ‘civile’. Dopo di lui, sia Bodin che Hobbes criticheranno a fondo questa sua posizione, nella quale individueranno una leva in grado di travolgere e dissolvere lo Stato; ma quel ‘precetto’ resta valido ieri come oggi e, in ogni caso, è la base di ogni critica radicale del dispotismo, di qualunque specie esso sia, antico o moderno. È dal conflitto – e dai «contrafforti» di cui la libertà necessita – che bisogna partire, interrogandosi, naturalmente, sulla natura e la qualità dei nuovi «contrafforti» che occorre stabilire nei confronti dei nuovi potentati economici e di un potere esecutivo che, dopo aver travolto il legislativo, sta cercando ora di sottomettere il giudiziario. È sintomatico che in questo periodo giornali, televisioni, informazione politica abbiano in comune lo stesso obiettivo: evitare il conflitto fino al punto di criminalizzarlo, in nome di ‘interessi superiori’ – soprattutto dell’‘unità’ e della ‘pace sociale’ –, secondo, del resto, un atteggiamento tipico delle forze conservatrici e reazionarie, in Italia come in ogni parte del mondo. Quando questo atteggiamento si afferma, e diventa senso comune, la libertà di una istituzione, di un popolo, di una nazione, si affievolisce e decade, perché politica e conflitto fanno riferimento a un campo semantico – ed etico – comune che, in essenza, è quello della libertà. Per restaurare la politica e il suo primato è dunque necessario ridare, anzitutto, senso e significato al conflitto, a tutti i livelli, uscendo dalla lunga fiction in cui il nostro paese è stato precipitato, nella quale – ed è questo il ‘segreto’ della cosa – si celano, e si impongono, interessi materiali concretissimi. Sul filo di questa riflessione, vale la pena di togliere di mezzo un luogo comune: a differenza di quanto in genere si dica, la politica, negli anni che hanno fatto l’Italia contemporanea – dal secondo dopoguerra agli anni Sessanta –, è stata caratterizzata da profondissimi conflitti, capaci però – ed è questo il punto sostanziale – di trovare un comune quadro di riferimento nella Costituzione – che in quegli anni è stata la nostra effettiva religio – e dentro il Parlamento. Per quanto possa apparire paradossale e suoni male agli orecchi dei benpensanti, l’Italia si è sviluppata quando c’è stato conflitto ad opera di protagonisti di prima grandezza, a cominciare dalla Cgil di Di Vittorio. Senza quel conflitto – nel quale furono impegnate le

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forze migliori della nazione –, l’Italia non sarebbe mai diventata la potenza economica che è stata per un lungo periodo. Certo, il conflitto va ordinato, perché lasciato a se stesso si risolve nel disordine, nel caos, nella fine sia della libertà sia, in ultimo, della stessa civiltà; va incardinato in un sistema di regole condivise che trova il suo vertice dentro il Parlamento. Proprio quello che in una situazione dispotica non è possibile fare, perché, come oggi accade in Italia, il Parlamento è privo di qualunque effettivo potere e l’Italia è, sostanzialmente, un paese senza regole. Il dispotismo, lo sapeva già Montesquieu, è un mondo deserto di regole, una realtà confusa, informe; a differenza di quanto sostengono gli apologeti del potere attuale, è il dispotismo, e non il conflitto, a creare confusione, disordine e caos. «Contrafforte» vuol dire organizzazione, associazione, partecipazione; vuol dire, in altre parole, politica. E qui torniamo al punto decisivo: senza politica – senza, cioè, la costruzione di nuovi ‘legami’ – non c’è e non può esserci libertà. È questo il terreno su cui il nuovo dispotismo ha vinto, in ultima analisi, la sua battaglia: nell’affermare il primato di un ‘individualismo’ che separa gli individui (i ricchi e i poveri, i ‘nativi’ e gli immigrati, i meridionali e i settentrionali), contrapponendoli gli uni agli altri in una sorta di bellum omnium contra omnes che si risolve in un rafforzamento del potere dello Stato, cioè dell’amministrazione. Per contenere questo nuovo dispotismo c’è una sola strada: ridare capacità alla politica di costruire ‘vincoli’ e «contrafforti», misurandosi con i problemi aperti dalla fine delle forme della politica ‘di massa’ novecentesca, mantenendo aperto il conflitto, da un lato, tra eguaglianza e libertà; dall’altro, tra libertà dei cittadini e potere esecutivo dello Stato. Dai ‘classici’ – da Machiavelli a Tocqueville, da Weber a Gramsci – e dalla «lezione delle cose», un punto risulta chiaro, e decisivo, anche ai nostri giorni: è solo costruendo ‘vincoli’ e «contrafforti» che, nell’epoca della democrazia, si può uscire dalle derive dispotiche e ‘carismatiche’ di ieri e di oggi, cercando di ricostituire l’‘ordine’ e rimettendo il tempo «in sesto». È una battaglia del tutto aperta, che durerà per anni. Ovviamente per combatterla ci vorrà anche un partito. E con questo siamo tornati al problema della politica, che è il vero centro intorno al quale si adunano le analisi svolte in questo libro.

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Sarebbe sbagliato, a mio giudizio, dare un quadro statico della situazione italiana e pensare che dalla frantumazione dei vecchi assetti ‘comunitari’, dal livellamento individuale, dalla diffusione dell’‘individualismo’ egoistico, dalla riduzione della politica ad amministrazione sia scaturito, come tendenza dominante, un ripiegamento generale, una caduta nella stasi, nella stagnazione propria del dispotismo. Le cose non stanno in questo modo, come ha dimostrato – con tutti i suoi limiti – l’esperienza delle ‘primarie’, nelle quali si è manifestata con molta forza una generale esigenza di partecipazione, in grado di ricomporre lo scarto tra «governanti» e «governati» che si è aperto in Italia con la fine dei grandi partiti di massa della ‘Prima Repubblica’. Quell’esigenza, come dimostrano anche le manifestazioni degli ultimi mesi, non è venuta meno; anzi, proprio il radicarsi, e l’espandersi, delle tendenze dispotiche continua a produrre, quasi per contrappasso, un forte sviluppo della richiesta di partecipazione. Ma essa chiede di essere interpretata e ricondotta in un circuito di carattere politico, in grado di soddisfarla in forme e modi positivi. Non è mia intenzione – l’ho già detto nel Prologo – delineare i compiti di un moderno partito riformatore in Italia: non è il mio mestiere, né l’obiettivo di questo lavoro. Mi interessa sottolineare un dato, che si situa ‘a monte’ (come si suol dire) e che, a mio parere, oggi è decisivo. Lo faccio muovendo da quello che deve essere oggi il punto di partenza di ogni ragionamento sul nostro tempo storico: la profondità e l’intensità della penetrazione dei ‘sensi comuni’ dispotici nelle fibre del nostro paese. Una politica democratica presuppone anzitutto che gli individui si riapproprino delle «forze proprie» di cui sono stati spossessati dal nuovo dispotismo: questo è il punto decisivo. È il problema del «libero arbitrio», su cui richiamava, con accenti drammatici, l’attenzione Tocqueville nelle pagine finali della seconda Democrazia in America, sottolineando gli effetti nefasti del «nuovo», «mite» dispotismo sulla struttura antropologica dell’uomo, sull’autonomia delle singole personalità. Questa, in effetti, è, ieri come oggi, la causa, e al tempo stesso, l’effetto di ogni dispotismo, antico e nuovo: la ‘passività’ degli individui, delle loro volontà. Si può ottenerla con la forza o con il consenso, o utilizzando entrambe le leve, come avviene con le forme dispotiche moderne.

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Ma questa è la sostanza della cosa; e questo implica che mai come oggi si debba lavorare sul piano della ‘coscienza’, della ‘ideologia’, dei ‘valori’ – materiali e immateriali –, cioè, in una parola, sul piano della ricostruzione di un ethos sia pubblico che personale antitetico ai ‘valori’ del dispotismo democratico. Si potrebbe muovere a questa posizione l’accusa di non tener conto dei «rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel [...] sotto il termine di ‘società civile’»3; di cadere cioè nel ‘vizio’ dell’idealismo: ma è un rilievo tanto scolastico quanto superficiale. Ci sono, certo, fasi e momenti in cui la sostanza risiede nel piano strettamente materiale; e altri, e diversi, in cui occorre rovesciare questo punto di vista, perché occorre lavorare anzitutto sul piano ‘immateriale’, nella complessità della sua articolazione. Se mi è lecito citare un grande classico, ciò che oggi bisognerebbe fare è riproporre con forza – e come tema politico centrale – quella «uscita dalla minorità» che Kant proclamava come tratto specifico dell’Illuminismo: Illuminismo è l’uscita dell’uomo dalla minorità di cui è egli stesso colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, quando la sua causa non stia nella mancanza di intelletto, bensì nella mancanza di decisione e di coraggio nel servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto! Questa è dunque la parola d’ordine dell’illuminismo4.

È un testo del 1784, ma pone quello che, nel nostro tempo storico, è ridiventato il problema principale, perché l’‘essenza’ del dispotismo non muta: cambiano le forme in cui si sviluppa, la sua intensità e pervasività, la sua capacità di attrarre ‘consenso’, come avviene in democrazia; ma non la sostanza, che resta, al fondo, identica. Se si volesse esprimere con una battuta la condizione nella quale ci troviamo, si potrebbe dire che oggi è la «mente» che deve agitare la «mole», non il contrario; e che questa situazione è certo singolare, ma tutt’altro che casuale: essa è la conseguenza diretta dell’affermarsi del nuovo dispotismo democratico, delle forme attraverso cui si è

  Marx, Per la critica dell’economia politica, cit., Prefazione, p. 4.   Kant, Scritti di storia, politica e diritto, cit., p. 45.

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sviluppato e degli effetti che esso, in questi anni, ha prodotto a tutti i livelli, compresa la struttura antropologica degli individui. Ai miei occhi le società umane, come gli individui, sono qualcosa solo per l’uso della libertà. Che sia più difficile a stabilire e a mantenere la libertà in società democratiche, come la nostra, che in certe società aristocratiche che ci hanno preceduto, io l’ho sempre detto. Ma che sia impossibile, non sarò mai tanto temerario dal pensarlo5.

Si può condividere o meno questo giudizio – più volte ricordato in queste pagine – sull’aristocrazia e sull’ethos democratico; ma su un punto Tocqueville aveva sicuramente ragione: in tempi di democrazia – cioè di eguaglianza – la situazione della libertà diventa più complessa, più difficile, più precaria, come dimostra in modo inequivocabile il nostro tempo storico. E pone perciò con massima energia il problema della funzione e del significato della politica come condizione imprescindibile della libertà. Senza politica – si è già detto – non c’è libertà; ma proprio questo convincimento ci riconduce nuovamente a sottolineare il rilievo direttamente politico che ha oggi la «critica della ideologia» di matrice marxiana per ricostituire uno spazio in cui la politica democratica possa svilupparsi. Se non si esce dalla «minorità», se non si ridanno all’uomo le «forze proprie» – cioè il «libero arbitrio» di cui l’individuo è stato spossessato dal nuovo potere dispotico al quale tende spontaneamente ad affidarsi –, è impossibile rimotivare la politica. Ma se la politica perde importanza, o si dilegua, un popolo, una nazione si avvia alla decadenza, precipita nella «barbarie». Del resto, questa è la lezione della storia: quando l’amministrazione subordina a sé la politica e ne assume le competenze, allora inizia il dispotismo; né è possibile sconfiggerlo se non riconoscendo, e ristabilendo, la funzione della politica. L’antipolitica, l’impoliticità, è il terreno di coltura del dispotismo, lo spazio in cui esso germina e si potenzia confondendo, in modo ‘informe’, pubblico e privato, governo e affarismo, sesso e potere. Questo non vuol dire ripiombare nel vecchio primato di una politica che assorbe dentro di sé tutte le sfere della esperienza umana: da questo punto di vista la critica di Marx alla polis greca nella Critica   Tocqueville, Gobineau, Corrispondenza (1843-1859), cit., pp. 314-315.

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della filosofia hegeliana del diritto pubblico resta definitiva. La ‘società civile’ non può essere ridotta ad essere ‘schiava’ della politica, dello Stato. Ad allontanarci totalmente da una prospettiva di questo genere è tutta l’esperienza del Novecento, e in quell’abisso non si può, e non si deve, ricadere. La politica, come lo Stato, è una sfera e soltanto una sfera del vivere dell’uomo. Su questo Marx, con la Critica e con la Questione ebraica, continua ad avere ragione; mentre ha torto quando, in quelle stesse pagine, riduce la politica alla dimensione dell’«astratto», individuando in Rousseau, e nella sua concezione del legislatore, la perfetta incarnazione dell’«astrazione» politica. Quando sia considerato un contenuto fra contenuti, una forma tra le altre forme, la politica è, e resta, una dimensione essenziale del vivere dell’uomo. Ovviamente, quando essa non pretenda di autofondarsi, ma sia capace di essere ‘vincolo’ democratico di una nazione, di un popolo. È questa, peraltro, la grande lezione del pensiero laico: riconoscere il ruolo della politica e inserirla nella generale esistenza umana, nel ‘circolo’ della vita generale degli individui e della nazione. La miseria del nostro tempo – ciò che ne fa un tempo strutturalmente dispotico – è precisamente il tragico dileguarsi di questa dimensione politica. L’aveva compreso bene Croce all’inizio del Novecento, quando, in polemica con il disgusto di Mann, aveva sottolineato l’esigenza di un rapporto realistico con la politica, se si voleva svolgere una funzione positivamente egemonica sull’insieme della società, compreso il «volgo». Naturalmente, per restaurare la politica democratica occorre anche saper individuare i luoghi in cui essa può svolgersi, che non sono quelli della politica novecentesca, recuperando anche – si è detto – la funzione delle ‘primarie’, ricollocandole nel binario da cui sono debordate. E, sul filo del nostro ragionamento, vale la pena di tornare brevemente su una questione di cui oggi si discute spesso in Italia: il bipolarismo e il problema del ‘centro’. Nell’ambito della ‘modernità’ l’Italia ha una storia specifica, per un insieme di motivi etici, civili, religiosi che bisogna aver presenti se non si vuol cadere in una sorta di provincialismo alla rovescia. È nel nostro paese che è nata, e si è sviluppata, quella forma dell’agire politico che va sotto il nome di ‘trasformismo’: una pratica politica imperniata precisamente, in modo programmatico, sul cosiddetto

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‘taglio delle ali’, della quale sono noti gli effetti sulla morfologia politica, sociale e anche religiosa della nazione. Ma proprio tenendo conto della nostra storia nazionale e degli effetti del ‘trasformismo’ – cioè della mancanza di una effettiva, reale alternativa politica – sulla costituzione interiore della nazione si può comprendere, a mio giudizio, la strada da seguire. Essa è opposta a quella che invocano gli apologeti del ‘centro’. I limiti, e la debolezza, del bipolarismo italiano appaiono visibili senza microscopio: sono, in larga parte, effetto, da un lato, della fragilità e della scarsa consistenza, a sinistra, del Partito democratico; delle pulsioni, e delle tendenze, dispotiche, a destra, del Popolo della libertà. Questo è un dato di fatto, che la politica conferma quotidianamente. Eppure bisogna mantenere l’opzione bipolare se si vuole mettere su solide basi la democrazia nel nostro paese, e uscire dalla palude del ‘trasformismo’ che, secondo una tendenza tipica della nostra storia, ha intaccato giorno dopo giorno anche il bipolarismo. In Italia, verrebbe da dire, l’opzione bipolare è, al tempo stesso, una scelta istituzionale ed etico-politica. Ovviamente, occorre lavorare – maggioranza ed opposizione – per individuare un insieme di valori condivisi – prepolitici, preistituzionali – nei quali possano riconoscersi tutte le forze politiche, prima ancora di assumere compiti di governo o di opposizione e di contrapporsi in una normale dialettica bipolare. È quell’insieme di valori che Machiavelli chiamava «religione» e che, a suo giudizio, era stata la prima ragione della potenza e della forza dei Romani; tanto più è necessario in Italia, nella quale una ‘religione civile’ è lungamente mancata. Non sottovaluto, naturalmente, il peso, e il costo, di una scelta di questo tipo: sappiamo tutti che l’Italia è il paese delle cento città e sappiamo che la sua specificità nella storia moderna e contemporanea è costituita proprio dal suo carattere strutturalmente policentrico, quale si è venuto delineando fin dai primordi della sua storia. Il ritardo dell’Italia nella costituzione dello Stato è anche un effetto, certo perverso, della sua ‘grandezza’, non della sua ‘miseria’. Ma è altrettanto noto che proprio da questo policentrismo, così importante per gli effetti avuti sul piano culturale, è scaturita una carenza di direzione politica e statale incapace di interpretare e unificare – in chiave democratica – questa ricchezza. Tutto ciò ha infatti generato effetti assai negativi anzitutto nei processi formativi,

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e nella qualità, delle classi dirigenti nazionali – compreso il nuovo dispotismo, il quale è difficilmente intelligibile – in alcuni suoi caratteri essenziali – quando non sia situato nella lunga storia del ‘trasformismo’ italiano. Anzi, a questo proposito si può dire di più: il dispotismo italiano, nonostante se ne sia proclamato artefice e sostenitore, è strutturalmente antitetico – per natura e caratteri – al bipolarismo: questa è, al fondo, la radice del persistere della lunga ‘crisi’ italiana. Ciò che il nuovo dispotismo ha, infatti, messo in questione fin dalla sua nascita è la moderna distinzione dei poteri, come appare evidente dagli scontri quotidiani con la magistratura. Non è un caso, ovviamente: dal suo punto di vista la lotta con il potere giudiziario è una questione di vita o di morte; né può essere conclusa da qualche forma di tregua. Stupisce leggere ogni tanto commenti politici nei quali si depreca questa situazione, auspicando una sorta di tregua, se non di pacificazione. Vuol dire non aver capito la situazione attuale dell’Italia, la conformazione dispotica che ha assunto il nostro tempo storico, la ‘patologia della democrazia’ che lo caratterizza. Fra il ‘capo’ del moderno dispotismo italiano e la magistratura non c’è spazio per alcun compromesso: quella lotta si concluderà lasciando uno dei due contendenti senza vita sul terreno; né può chiudersi diversamente. Allo stesso modo è difficile che ci possa essere spazio per un serio compromesso, sulla questione – essenziale – delle intercettazioni telefoniche: il potere, specie quello di tipo tirannico, non ha mai tollerato la dimensione ‘pubblica’, come già ha spiegato, a suo tempo, in splendide pagine Girolamo Savonarola nel Trattato sul governo di Firenze. Ad ogni forma di dispotismo il controllo pubblico è strutturalmente estraneo; anzi, gli è antitetico. Il dispotismo può essere combattuto, e anche sconfitto; ma non convinto, tanto meno addomesticato6.

6   G. Savonarola, Trattato sul governo di Firenze, a cura di E. Schisto, Introduzione di M. Ciliberto, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 54-55: «[...] el tiranno è pessimo quanto al governo, circa al quale principalmente attende a tre cose. Prima, che li sudditi non intendino cosa alcuna del governo, o pochissime e di poca importanza, perché non si cognoschino le sue malizie». Notevole anche un’altra osservazione: «[...] si trova rare volte, o non forse mai, tiranno che non sia lussurioso e dedito alla delettazione della carne» (ivi, p. 53).

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Riaffermare la distinzione dei poteri e, in questo quadro, il ruolo del Parlamento e la funzione delle regole è dunque prioritario, ma non è sufficiente. Per ricostituire i luoghi del conflitto e della politica bisogna costruire anzitutto un nuovo ethos democratico. Si può farlo solo muovendo dai luoghi del lavoro, di quello materiale e di quello immateriale; e il terreno di questa connessione non può che essere uno e uno solo, la battaglia per l’eguaglianza delle opportunità nelle forme nuove che essa deve avere nel nostro tempo, aprendosi, con audacia e con regole rigorose, anche in direzione degli immigrati – cioè, in prospettiva, dei nuovi cittadini italiani. E proprio qui – sul terreno dell’ethos pubblico – è necessario fare un grande balzo in avanti, trascorrendo dal terreno della tolleranza – grande acquisizione moderna – a quello della ‘cittadinanza’, ponendo le basi di un nuovo paese, che non identifica più ‘nazione’ e ‘territorio’. Non sarà facile in breve spazio di tempo, neppure se venisse meno Berlusconi. Certo, mancherebbe quello che è il pilastro del nuovo dispotismo democratico che si è affermato in Italia; né esso potrebbe avere eredi: come si è già accennato, il potere carismatico non ne ha, ne può averli; questo è il suo carattere. Ma ciò non toglie la sostanza del problema, che resta assai grave: caduto, o finito, il ‘capo’, resteranno gli effetti che il dispotismo ha provocato nella generale vita del paese, nei ‘sensi comuni’ diffusi, intrecciandosi, potenziandole, a strutture antiche di lungo, lunghissimo periodo della storia italiana. Rimettere il tempo «in sesto» – e stabilire un argine alle patologie della democrazia sia a destra che a sinistra – non sarà semplice. Ma un punto è chiaro, sulla base di quanto si è detto fino ad ora, e va ribadito in conclusione. Al fondo, quello che nella società italiana si sta imponendo nuovamente con forza è il problema dei ‘legami’, su cui si è richiamata l’attenzione nell’Entr’acte, sottolineando come su questo punto cruciale concordassero, pur muovendo da posizioni assai diverse, Tocqueville, Marx, Weber ed anche Gramsci. Non è casuale, ovviamente, che questi ‘classici’, analizzando la democrazia e i suoi problemi, si siano posti il problema dei ‘legami’, dei ‘vincoli’, e della loro importanza decisiva nelle società democratiche sul piano politico come su quello civile e sociale. Se si assume questo punto di vista, si comprende meglio, credo, la situazione italiana, e la specificità della ‘crisi democratica’ che la coinvolge. Da un lato, si sono frantumate le vecchie appartenenze e le tradizionali identità. Dall’altro, il paese

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è stato ‘legato’ a due livelli: in primo luogo attraverso il ‘carisma’ del capo; e poi, attraverso una serie di ‘sensi comuni’ – presentati come ‘valori’ – imperniati sulla paura, sul rifiuto del diverso a tutti i livelli, sull’aspra contrapposizione agli immigrati, sentiti come un corpo estraneo da respingere alle frontiera (salvo servirsene, in modo brutale, come forza lavoro nelle funzioni più servili e ingrate), sul conflitto tra Nord e Sud, individuato come un peso morto di cui liberarsi, senza capire che fin dall’Unità, in Italia, Nord e Sud sono due facce dello stesso processo, e che in questo intreccio è stato sempre il Sud a rimetterci. Se questa analisi è giusta, il problema è oggi duplice: occorre contrastare in modo frontale le derive carismatiche; bisogna promuovere nuovi ‘legami’. Questo è il punto decisivo sia sul piano teorico che su quello politico ed organizzativo: si può cominciare a chiudere l’epoca del moderno dispotismo solamente avviando la costruzione di nuovi ‘legami’ civili e sociali, imperniati su nuove forme di reciproco riconoscimento, connesse, a loro volta, a un limpido e forte riconoscimento dei diritti, anzitutto di quelli individuali, secondo l’insegnamento imperituro di Tocqueville: Dopo l’idea di virtù, non ne conosco una più bella di quella dei diritti [...]. Con l’idea dei diritti gli uomini hanno definito ciò che sono la licenza e la tirannide [...]; senza rispetto dei diritti non vi è grande popolo; si può quasi dire che non vi è società [...]7.

  Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 282.

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Indici

Indice dei nomi

Adamo, P., 28n. Aristotele, 13, 53, 148. Babbitt, Irving, 136. Bagnasco, Angelo, 158. Bassi, S., 116n. Battista, Anna Maria, xxi, 24n, 74n, 75n. Bauer, Bruno, 56, 60, 80-81, 83. Beaumont, Gustave de, 20, 83-84. Benedetto XVI (Joseph Alois Ratzinger), papa, 157. Berlusconi, Silvio, viii-xii, 133, 143, 146-148, 152-153, 156, 158, 160, 169, 178, 192. Bismarck, Otto von, 112. Bobbio, Norberto, 147. Bodin, Jean, 13, 184. Bonnard, Roger, xvii e n. Borboni, dinastia, 23. Borges, Jorge Luis, xviin. Braudel, Fernand, 38n. Bruno, Giordano, xviii, 116 e n. Burckhardt, Jacob, 7, 8 e n, 9 e n. Burgio, Alberto, xxi, 126n, 173n. Cacciari, Massimo, xxi, 121n. Calasso, R., 101n. Candeloro, G., 21n. Canfora, Luciano, 27n. Cantimori, Delio, 8n, 114n, 135 e n. Catanorchi, O., xxi. Cavalli, Luciano, 121n.

Chiti, Vannino, 143n. Ciliberto, Michele, xxi, 104n, 116n, 191n. Cofrancesco, Dino, xxi, 53n. Colangelo, C., 53n. Coldagelli, U., 20n, 36n. Constant, Benjamin, 42, 46, 59 e n. Craxi, Bettino, 138. Croce, Benedetto, xvi, xxi, 102, 103 e n, 104 e n, 105 e n, 106 e n, 107, 108 e n, 109 e n, 110 e n, 111 e n, 112 e n, 115, 121 e n, 122, 123 e n, 128, 131, 134, 189. Cusano, Nicola, 155. D’Argenio, A., 30n, 46n. de Giovanni, Biagio, 143n. Delors, Jacques, 164. Derathé, R., 12n. De Sanctis, Francesco M., 53n. Diani, M., 7n. Díez del Corral, L., 27n. Di Vittorio, Giuseppe, 184. Dobb, M., 83n. Drescher, Seymour, 5n.

xxi,

24n,

Engels, Friedrich, 17n, 60n, 61n, 67n. Erasmo da Rotterdam, 6, 21, 155. Ercolani, P., 25n. Ferrarotti, F., 113n, 114n. Fest, Joachim, 101n.

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Feuerbach, Ludwig Andreas, 57, 64, 66, 70. Finelli, R., xxi, 60n. Firpo, Luigi, 94n. Fusaro, D., 82n. Fusillo, F., 113n. Gadda, Carlo Emilio, 135 e n. Galasso, Giuseppe, xxi, 105n, 112n. Gelli, Licio, 124. Gentile, Giovanni, 107. Gerratana, V., 12n, 124n. Gherardi, M., 8n. Giolitti, Giovanni, 107. Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła), papa, 155-156, 162. Gobineau, Arthur de, 20 e n, 27n, 188n. Gonnelli, F., 50n. Gramsci, Antonio, xvi, xxi, 123, 124 e n, 125 e n, 126, 128, 130-131, 135136, 138, 163, 185, 192. Guellec, L., 22n. Hamilton, Thomas, 84. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 56, 62, 64, 68-69, 72, 82, 84, 88, 187. Heidegger, Martin, 137. Hobbes, Thomas, 53, 147, 184. Ingenmey, M., 96n. Inglese, G., 30n. Jardin, A., 42n. Jaume, Lucien, xxi, 53n. Kant, Immanuel, 50 e n, 172 e n, 173 e n, 174, 178, 187 e n. Kelsen, Hans, 174 e n. Kergorlay, Louis de, 23, 33, 38. Kisˆ, Danilo, xvi, xviin, 134 e n.

Indice dei nomi

e n, 20-21, 30 e n, 37n, 49, 53, 96, 109, 137, 147 e n, 171, 183 e n, 184185, 190. Maggi, Michele, xxi, 112n. Malesherbes, Chrétien-Guillaume de Lamoignon de, 30. Mann, Heinrich, 97. Mann, Thomas, xvi-xvii, 96 e n, 97100, 101 e n, 102-103, 106-107, 109, 112, 122, 128, 131, 133-134, 179, 189. Marianelli, M., 96n. Marx, Karl, xv, xvii-xviii, xxi, 16, 17 e n, 18, 20, 45, 56-59, 60 e n, 61 e n, 62, 63 e n, 64-66, 67 e n, 68 e n, 69-74, 75 e n, 76-77, 79-81, 82 e n, 83 e n, 84 e n, 85 e n, 86-93, 94 e n, 102-105, 109, 117, 128-131, 137138, 146 e n, 151 e n, 179-180, 182 e n, 183, 187n, 188-189, 192. Masini, F., 101n. Matteotti, Giacomo, 134. Matteucci, Nicola, xxi, 9n, 43n. Mazzini, Giuseppe, 103. Mélonio, F., 22n, 53n. Mendès-France, Pierre, 164. Michelini Tocci, L., 20n. Michels, R., 124n, 125 e n. Mill, John Stuart, 22, 28 e n, 140. Mioni, F., 53n. Mommsen, Theodor, 113. Montaigne, Michel de, 21. Montesquieu, Charles-Louis de Se­ condat, barone di, 4, 13, 21, 24, 185. Morelly, Étienne-Gabriel, 37. Moro, Aldo, 151. Mosse, George, 134. Mussolini, Benito, 134.

Labriola, Antonio, 140. Luporini, Cesare, xxi, 61n. Lutero, Martin, 6.

Napoleone Bonaparte, 4, 6, 15-17, 2021, 25, 30, 40. Napoleone III, 20, 96. Negri, A., 60n. Nietzsche, Friedrich, 101 e n.

Machiavelli, Niccolò, xvi, xviii, 6, 13

Omodeo, Adolfo, 110 e n.

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Indice dei nomi

Paggi, Leonardo, xxi, 126n. Paoletti, G., 59n. Pappé, H.O., 5n. Pasquali, Giorgio, 113n. Pericle, 26-27. Pizzingrilli, C., 60n. Portinaro, P.P., 59n. Prodi, Romano, 162. Proudhon, Pierre-Joseph, 137. Ragazzoni, D., xxi. Rahe, Paul A., xxi, 54n. Robespierre, Maximilien-François-Ma­ rie-Isidore de, 32. Rodeschini, S., 56n. Rosmini, Antonio, 158. Rossi, Angelo, 126n. Rossi, Pietro, xxi, 114n, 121n. Rousseau, Jean-Jacques, xvii, 12 e n, 18-19, 28, 32, 45, 73, 81, 87, 90 e n, 98-99, 104-105, 174, 189. Ruini, Camillo, 156-157, 160. Russo, C.F., 113n. Russo, L., 110n. Ruta, Enrico, 123. Saitta, Armando, 74n. Šalamov, Varlam, 134 e n. Salvadori, Massimo, 174n. Santarelli, E., 124n. Sasso, Gennaro, xxi, 30n, 112n. Savonarola, Girolamo, 191 e n. Scapparone, F., 116n. Schisto, E., 191n. Sebastiani, C., 114n.

Simmel, George, 115. Stalin, Iosif, 125. Tirinnanzi, N., 116n. Tocqueville, Alexis de, viii, x, xv, xxi, 4-6, 7 e n, 8 e n, 9 e n, 10 e n, 11, 12 e n, 13 e n, 14, 15 e n, 17-18, 19 e n, 20 e n, 21 e n, 22 e n, 23, 24 e n, 25 e n, 26, 27 e n, 28 e n, 29-31, 32 e n, 33 e n, 34 e n, 35,36 e n, 37 e n, 38 e n, 39, 40 e n, 41, 42 e n, 43, 44 e n, 45-46, 47 e n, 48-50, 51 e n, 52, 53 e n, 54 e n, 55, 58-61, 65, 67n, 74, 81, 83-84, 86, 90, 92 e n, 93-94, 95 e n, 96 e n, 100-101, 110, 111n, 113, 117, 128-131, 133, 150, 154 e n, 157, 183, 185-186, 188 e n, 192, 193 e n. Togliatti, Palmiro, 138. Trincia, F.S., xxi, 60n. Tucidide, 27 e n. Vacca, Giuseppe, xxi, 126n. Valla, Lorenzo, 6. Veca, S., 173n. Vico, Giambattista, 109, 162. Vivanti, C., 38n. Voltaire (François-Marie Arouet), 21. Weber, Max, vii, x-xi, xiii, xvi, xxi, 112, 113 e n, 114 e n, 115, 116 e n, 117 e n, 118 e n, 119, 120 e n, 121, 124, 125 e n, 128, 130-131, 136, 149, 171, 181, 185, 192. Wojtyła, Karol, vedi Giovanni Paolo II.

Indice del volume

Prologo Nota dell’autore

vii xxi

Parte prima

Metamorfosi della democrazia Tocqueville e la «scienza» dei legami

4

Marx: critica della politica e democrazia

56

Democratizzazione e potere «carismatico»

95

Entr’acte

127

Parte seconda

Patologie della democrazia Vecchio e nuovo dispotismo

146

Democrazia diretta e tendenze ‘plebiscitarie’

161

Parte terza

Rimettere il tempo in sesto «Una modesta proposta»

178

Indice dei nomi

197