La critica cinematografica. Un'introduzione 886633121X, 9788866331216

Il volume presenta un'agile introduzione alla storia della critica, ai metodi per scrivere recensioni, ai trucchi d

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La critica cinematografica. Un'introduzione
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Claudio Bisoni insegna Ricezione e consumo dei media e Storia e metodologia della critica cinematografica presso l’Università di Bologna. Si occupa dei rapporti tra critica, estetica e processi culturali.Tra le sue pubblicazioni: Brian De Palma (Recco, 2002); La critica cinematografica. Metodo, storia e scrittura (Bologna, 2006); Gli anni affollati. La cultura cinematografica italiana (1970-1979) (Roma, 2009), Elio Petri. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Torino, 2011). Suoi saggi e articoli sono apparsi in volumi collettivi e su varie riviste, tra le quali «La valle dell’Eden», «Fotogenia», «Close-up», «Bianco e Nero», «Cinéma & Cie».

ISBN 978-88-6633-121-6

€ 10,00 AB 5301

Claudio Bisoni La critica cinematografica

210 mm

La critica cinematografica incontra oggi una rinascita grazie al web. Sempre più siti e portali ospitano discussioni sul cinema e recensioni di film. Il cinema continua a stare al centro della discussione culturale. Il volume presenta un’agile introduzione alla storia della critica, ai metodi per scrivere recensioni, ai trucchi del mestiere di critico. Attraverso uno strumento scritto con linguaggio rigoroso e al contempo accessibile il lettore ha a disposizione una panoramica sulle principali correnti che hanno animato la storia della critica cinematografica e sulle voci di scrittori o critici che hanno attraversato il Novecento, fino ai giorni nostri: da François Truffaut a Jacques Rivette, da Eric Rohmer a Serge Daney, da Giuseppe De Santis a Enzo Ungari.

CLAUDIO BISONI LA CRITICA CINEMATOGRAFICA Un’introduzione

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Centopagine Collana diretta da Stefano Calabrese, Alberto De Bernardi, Elisabetta Menetti e Guglielmo Pescatore

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La critica cinematografica Un’introduzione

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© 2013 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

Copertina e progetto grafico: Avenida (Modena)

ISBN 978-88-6633-121-6

ArchetipoLibri 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.archetipolibri.it / www.clueb.com ArchetipoLibri è un marchio Clueb Finito di stampare nel mese di marzo 2013 da Editografica, Rastignano (Bo)

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INDICE

Introduzione ...................................................................................

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Prima parte – La critica cinematografica dagli inizi del Novecento a oggi Capitolo 1 – Dagli anni Dieci alla Seconda Guerra Mondiale .... 1.1 In Italia … ............................................................................. 1.2 … e in Francia ......................................................................

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Capitolo 2 – Primo approfondimento: il secondo dopoguerra e la nascita della critica moderna in Francia ...................................... 2.1 Tra anni Quaranta e Cinquanta ........................................... 2.2 La politique des auteurs ........................................................ 2.3 La critica moderna tra novità e tradizione ...........................

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Capitolo 3 – Secondo approfondimento: dal sonoro al canone (neo)realista in Italia ................................................................... 3.1 La critica verso l’istituzionalizzazione ................................. 3.2 L’esperienza di «Cinema» .................................................... 3.3 Realismo e ambientazione .................................................... 3.4 «Cinema» e l’opzione realista: una questione ancora aperta 3.5 Il canone (neo)realista ..........................................................

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Capitolo 4 – Dagli anni delle lotte politiche alla fine del secolo ... 4.1 Sessantotto e dintorni ........................................................... 4.2 Dagli anni Ottanta agli inizi del nuovo millennio ...............

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Capitolo 5 – La critica di cinema nella cultura digitale .............. 5.1 Una storia inedita ................................................................. 5.2 La commistione delle tipologie di discorso ......................... 5.3 La ridefinizione della nozione di gusto ................................

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Indice

5.4 La ridefinizione dell’expertise .............................................. 5.5 La de-istituzionalizzazione ...................................................

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Seconda parte – Istituzione, metodo, pratica Capitolo 6 – Definizioni ............................................................. 6.1 Un termine generico ............................................................. 6.2 La critica come istituzione ................................................... 6.3 Una prospettiva archeologica ............................................... 6.4 Grado di autonomia .............................................................

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Capitolo 7 – Il campo della critica cinematografica .................... 7.1 Regolarità .............................................................................. 7.2 La forma-recensione ............................................................. 7.3 La recensione nel contesto discorsivo degli altri discorsi critici ...........................................................................................

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Capitolo 8 – La critica come mestiere ......................................... 8.1 Il modello di analisi di David Bordwell ............................... 8.2 Quello che i critici non dicono: l’interpretazione in pratica .. 8.3 Critica, retorica e risoluzione di problemi ...........................

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Capitolo 9 – Significati, mappature e schemi .............................. 9.1 Tipologie di significato ......................................................... 9.2 Strutture di significato .......................................................... 9.3 Doppioni oppositivi e temi .................................................. 9.4 Un tema longevo: la riflessività ............................................ 9.5 Logica, funzionamento, applicabilità di un tema ................ 9.6 Mappatura, due modelli a confronto ................................... 9.7 Schemi concettuali ...............................................................

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Capitolo 10 – Conclusioni: vincoli e libertà ................................ 10.1 I limiti dell’interpretazione ................................................ 10.2 Storia della critica e storia della cultura: gli studi sulla ricezione ........................................................................................ 10.3 Janet Staiger di fronte alla ricezione critica di Arancia Meccanica ........................................................................................... 10.4 Coda: la critica nel circuito dei discorsi sociali .................

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Bibliografia .................................................................................

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Introduzione

Tra crisi e rinascita È stata a lungo opinione diffusa che la critica cinematografica non stesse attraversando un periodo di buona salute. In parte è così anche nel nostro presente digitale. Gli spazi che quotidiani e settimanali dedicano alle recensioni dei film è in via di assottigliamento ormai da una trentina d’anni, se non di più. Le riviste di cinema specializzate festeggiano quando riescono a stampare copie in numeri a quattro cifre. E sono pochissime. I critici cinematografici capaci di sopravvivere (cioè di guadagnare uno stipendio stabile) facendo i critici cinematografici compongono una casta ristrettissima di individui, in genere guardati con invidia dall’enorme massa di operatori del settore che affidano l’esercizio compulsivo di visione e recensione ai secondi lavori, all’ottimismo della volontà, al volontariato culturale, in poche parole, al consumo del tempo libero. Nell’epoca di internet l’aspetto di volontariato culturale da sempre proprio della critica si è accentuato. Tuttavia è anche alla base della grande espansione e de-istituzionalizzazione dei discorsi critici che chiunque frequenti siti di cinema e blog ha davanti agli occhi tutti giorni. Dunque proprio oggi che la critica assomiglia sempre più a un hobby siamo circondati dal proliferare di discorsi che riguardano il cinema: il ritorno della cinefilia, il moltiplicarsi delle recensioni su riviste e siti di argomento cinematografico, il gioco delle opinioni e dei commenti sui film, i dibattiti sui social network: una vitalità inattesa il cui carattere di novità non va trascurato [Tryon 2009; De Valck, Hagener 2005; Menarini 2012].

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Introduzione

La critica allo specchio Eppure sotto la vernice del nuovo, sotto il cambiamento delle forme di scrittura e del linguaggio, le tecniche di analisi e i trucchi del mestiere rimangono pressappoco sempre gli stessi. La critica cinematografica è stata e in parte è ancora anche un’istituzione organizzata intorno a sindacati o associazioni di categoria, un insieme di pratiche discorsive che quasi tutti coloro che scrivono di cinema ripercorrono e rinnovano. Inoltre la critica continua a fare un’altra cosa che ha sempre fatto: riflettere su se stessa. Basta sfogliare un’antologia degli scritti dedicati al cinema nei primi due decenni del Novecento [Tra una film e l’altra …, 1980] per accorgersi che la critica cinematografica, fin dalle origini, si è incessantemente interrogata sul proprio statuto, sulla propria legittimità, sulle proprie funzioni. Possiamo dire che l’attitudine all’auto-osservazione è il tratto che meno si è modificato a contatto con i cambiamenti storici, sociali, culturali del secolo. Il compito dell’interpretazione ha coinciso almeno in parte con una pratica di monitoraggio continuo, di allarmata lamentazione verso periodi precedenti (quasi sempre ricordati come più floridi) e futuri (quasi sempre descritti in termini apocalittici). Semplificando un po’ le questioni in gioco (e lasciando da parte la tradizione specifica della storiografia della critica cinematografica), possiamo dire che l’auto-osservazione ha prodotto e continua a produrre riflessioni intorno a quattro questioni generali. In primo luogo ci si interroga sui criteri di appropriatezza. È in questione il set di strumenti, più o meno adeguati, per svolgere il compito professionale. In che modo la critica rende ragione della complessità dei fenomeni che è chiamata a descrivere e giudicare? Col mutare degli oggetti devono mutare anche gli strumenti per comprenderli? È un problema di pertinenza, valenza euristica, grado di aggiornamento delle competenze in campo nell’attività intellettuale. Facciamo due esempi. Il primo è I sette peccati capitali della critica, un articolo di François Truffaut degli anni Cinquanta in cui sostanzialmente si dice che il cinema è una cosa troppo complicata per cervelli che hanno dato il meglio di sé nel 1925. Il futuro regista pone in modo brutale il problema della competenza dei recensori, dei saperi necessa-

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Introduzione

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ri a un corretto esercizio della professione. La sua tesi suona così: alla critica francese mancano troppe cose perché il prodotto del lavoro intellettuale non risulti scadente: conoscenze storiche (i critici ignorano la storia del cinema), conoscenze tecniche (i critici non sono in grado di descrivere in modo competente una tecnica di ripresa), immaginazione (se i critici ne fossero dotati farebbero film invece di parlare di quelli degli altri), consapevolezza operativa (i critici fanno il processo alle intenzioni dei registi, ma poiché non sono in grado di ricostruirle, è come se giudicassero oggetti immaginari, inesistenti) [ora in Truffaut 1988]. Secondo esempio: un articolo di Marcello Walter Bruno intitolato Critica atto impuro [Bruno 1990]. Siamo negli anni Novanta. La questione non è più la presenza/assenza di competenze, ma la presenza/assenza di competenze adeguate. Secondo Bruno, la critica è sempre stata gestita da persone che hanno forzato il testo all’interno di griglie interpretative prestabilite. Di fronte alla natura violenta dell’analisi bisogna reagire su due fronti: cercando di mantenere attraverso il gesto analitico la “godibilità” del film e superando certi pregiudizi. Il fatto su cui la critica non sembra essersi soffermata abbastanza è la natura complessa del cinema così detto postmoderno. Questo cinema viene dopo la morte del cinema, nell’epoca della televisione. È quindi un cinema che ha imparato a riflettere su se stesso, a sviluppare un lato concettuale reintroducendo anche il piacere dello spettacolo (che si era in parte perso nella fase più “purista” della modernità cinematografica). Insomma, Bruno si pone la questione dell’aggiornamento della categorie critiche a partire da un problema di adeguatezza all’oggetto: l’oggetto è cambiato e la critica deve tenerne conto [Bruno 1989]. In secondo luogo ci si interroga sul grado e il potere di iscrizione sociale della critica cinematografica. Su questo piano è in gioco la performatività culturale della critica come istituzione nei confronti dell’opinione pubblica, vale a dire il ruolo della critica in termini di orientamento-condizionamento del consumo, del gusto, degli altri processi di ricezione. Quale è l’ampiezza dell’influenza del critico? Quale la capacità nel promuovere o marginalizzare un film? Più in generale, quanto la critica conta nell’affermazione di scuole, nei meccanismi di canonizzazione, nel consolidamento di determinate poetiche? Da questo

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Introduzione

punto di vista il tono di lamentazione si mantiene costante come una sorta di basso continuo attraverso i decenni. Quasi sempre si dà per scontato che il potere di influenza e l’autorità della critica abbiano seguito una parabola di decadenza. Queste considerazioni in realtà nascondono un’idealizzazione del passato. L’idea di un mondo in cui la critica giace inascoltata presuppone l’esistenza, in un’altra epoca neppure tanto lontano dalla nostra, di un mondo in cui le cose non erano così. Quando la critica cinematografica è stata realmente influente? Di solito, se si devono fare i nomi dei critici più temuti si ricade sempre sugli stessi esempi: Pauline Kael (il critico del «New Yorker» dagli anni Sessanta ai primi Novanta) nei confronti di qualche regista della New Hollywood, Giuseppe Marotta degli anni Sessanta nei confronti del cinema italiano, le firme di Bosley Crowther e Vincent Canby per i lettori del «New York Times». Pochi nomi appunto, quasi tutti appartenenti a un periodo compreso tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, tra la nascita del cinema moderno e gli ultimi fuochi del radicalismo teorico-politico: un giro d’anni a cui ci si è riferiti con l’espressione «The Golden Age of Movie Criticism» [Lopate 2006, IX]. Più che altro eccezioni rispetto a una norma ben diversa. La verità è che la critica ha esercitato qualche influenza in settori limitati della storia del cinema moderno, senza mai incidere in modo determinante sulle dinamiche di consumo e di popolarità dei film. Nessun critico ha mai avuto il potere di compromettere o cancellare un successo popolare, né viceversa di canonizzare, da solo, opere, correnti, autori (ogni canonizzazione di un testo, per definizione, richiede la presenza di più variabili, a meno che il testo non sia Il Libro e il critico non sia Dio …). Più di recente questi temi sono tornati al centro di un confronto che vede da una parte chi ha fiducia nei media elettronici e nelle culture digitali come propulsori per lo sviluppo di forme di influenza e di potere critico, dall’altra parte chi invece profetizza la diffusione di un dilettantismo emergente dalle ceneri della “sprofessionalizzazione” della critica introdotta dal web (si veda il capitolo 5). In terzo luogo ci si interroga sui criteri che organizzano lo statuto discorsivo. La critica è un insieme più o meno omogeneo di discorsi che si colloca all’interno di un più ampio contesto di saperi, prese di parola, generi letterari. Su questo piano è in que-

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Introduzione

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stione la natura della critica come parte del circuito dei discorsi sociali. Che tipo di genere letterario è la critica cinematografica? Come si organizza al proprio interno? Come si relaziona all’esterno con altre forme di sapere? Rimandano a queste domande gli interventi che si sono interrogati sul problema dei prestiti intellettuali, sul rapporto tra la critica cinematografica e saperi “limitrofi”, come l’estetica, la filosofia, la sociologia del consumo, la semiotica, la psicanalisi ecc. In quarto luogo, ci si interroga sui criteri di legittimità di giudizio, sul grado di oggettività/soggettività dell’enunciato valutativo. Quanto il momento di valutazione è intrinseco alla critica? Si può fare a meno della fase di giudizio e limitarsi al commento-analisi del proprio oggetto? Ammesso pure che la presenza del giudizio sia legittima in linea di principio, come renderla in linea di fatto qualcosa di più di un capriccio della soggettività? A questo ambito di interrogazioni appartengono i discorsi incentrati sul livello più o meno alto di impressionismo della critica cinematografica. In genere due sono le posizioni antitetiche più ricorrenti. Da una parte c’è chi afferma che l’elemento del giudizio è l’aspetto più arbitrario dell’attività critico-interpretativa e in certi casi è del tutto non pertinente. Un esempio di questa posizione è l’articolo di Bruno già citato: nel momento in cui tutto il cinema contemporaneo funziona come un oggetto concettuale, non ha senso esprimere enunciati del tipo «buona le recitazione» o «bella la fotografia». Sul fronte opposto invece si colloca chi continua a rivendicare un ruolo determinante per l’enunciato di gusto in ogni tipo di discorso critico [Carroll 2009]. Il lavoro della critica Da questi ambiti di riflessione soprattutto due idee sono penetrate nel senso comune: l’idea della critica come effetto di una preparazione e di un gusto individuali (l’expertise del critico) e l’idea della critica come forma di scrittura personale [Canova 1990, id. 1992; De Marinis 1996]: un’idea che esprimeva anche Oscar Wilde quando diceva che la critica è l’unica forma decente di autobiografia. L’esercizio critico rimane per molti appassionati di cinema principalmente una sorta di meta naturale,

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Introduzione

di organizzazione spontanea dell’amore per il cinema. Come tutte le attività che almeno potenzialmente consentono di conciliare il soddisfacimento delle esigenze economiche con il piacere personale, è un mestiere meno elitario di un tempo ma ancora ambito e desiderato. Il critico (il critico cinematografico in modo non diverso dai suoi colleghi di altre arti o linguaggi) è considerato nello stereotipo comune un individuo che al rigore della preparazione, alla motivazione del giudizio giunge per via di una capacità di esprimere il proprio gusto. È questo aspetto – che mescola un effetto di competenza con un effetto di espressione del sé – a rappresentare il dato più invitante dell’autorità della critica. Per alcuni inoltre la critica non è altro che una forma di scrittura, un luogo in cui i saperi trovano un’organizzazione coerente data dallo stile di un singolo (il recensore di talento). Se ripercorriamo la produzione scritta dei maggiori critici in vari campi, dallo studio della cultura popolare alla letteratura e ancora al cinema e alle altre arti, attraverso nomi come quelli di Serge Daney, Jonathan Rosenbaum, Pauline Kael, Robert Warshow, Roland Barthes, Harold Bloom, Octavio Paz, George Stainer, ci troviamo di fronte a un paradosso: in alcuni casi si tratta di voci dotate di saperi immensi, di erudizione pressoché sconfinata, ma ciò che fa lo stile pare essere l’uomo. Ciò che rende uniche, distinte, autorevoli, usurpatrici queste voci è l’abilità del bricoleur intellettuale, la capacità di conferire al sapere un aspetto nuovo, di creare cortocircuiti tra differenti settori della conoscenza. Ebbene, questa abilità è sotto gli occhi di tutti, è il dato più sensibile del critico di talento. Si può ricostruire, forse imitare. Non insegnare. Dunque nel presente libro se ne parlerà pochissimo, con la consapevolezza che si tratta di uno scacco di partenza: l’ingrediente essenziale nella scrittura critica è anche l’elemento più difficile da tramandare. Ciò peraltro non significa che non si possa concentrare l’attenzione su aspetti altrettanto importanti. Significa soltanto che l’attenzione posta alle capacità del critico di talento, allo stile dei singoli recensori, rischia di far trascurare quanto di sistematico, feriale, “routiniero” c’è nella critica stessa. E si tratta di una parte essenziale dell’attività di interpretazione/giudizio. Si tratta inoltre di qualcosa di cui la critica parla malvolentieri. I discorsi che i critici producono su se stessi, secondo le

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Introduzione

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modalità appena elencate, hanno un valore storico e culturale: ci dicono quali sono stati i problemi in agenda per le generazioni di interpreti che si sono avvicendate nella storia e ci illuminano su quanto i singoli operatori, le correnti, le scuole critiche hanno espresso in termini di desideri, insoddisfazioni, spinte al cambiamento. Tuttavia se vogliamo capire qualcosa di quel che fanno i critici nel loro lavoro quotidiano non ci sono di grande aiuto. Per questo motivo d’ora in poi non presteremo molta attenzione a ciò che i critici dicono di se stessi: i processi di auto-rappresentazione sono sempre parziali se non svianti. La critica cinematografica dice di fare cose che poi in concreto non fa. Dunque cosa fa concretamente? In questo libro Nelle pagine seguenti non è offerto il metodo infallibile per diventare critici autorevoli, né è tracciato l’identikit possibile del recensore virtuoso. Piuttosto sono descritte le condizioni essenziali dalle quali può emergere il talento individuale, quell’insieme di procedure che bene o male sono attive (magari accuratamente dissimulate) anche presso le voci più anticonvenzionali e distinte. Nella tensione eterna tra establishment e sovversione persino il critico più rivoluzionario conserva un granello di ciò che supera, è qualcuno con a disposizione un capitale (cioè una padronanza di risorse collettive accumulate) che gli permette di accedere al campo critico. Fare critica significa svolgere un mestiere e quindi (anche ma non solo) rispettare protocolli e procedure che persino gli atti più eversivi accettano o danno per scontati. La prima parte del libro è composta da un profilo storico in cinque capitoli. Un buon critico conosce la storia di cui fa parte. La storia della critica è relativamente breve ma assai articolata. Si è offerta una breve panoramica dalla nascita dei discorsi critici nei primi vent’anni del Novecento fino al presente. Il focus sulla storia della critica è limitato per forza di cose a un’ottica, diciamo così, continentale. In particolare a due paesi sono dedicati degli approfondimenti: il primo sulla nascita della critica cinematografica moderna in Italia, tra la fine degli anni Trenta e gli anni Cinquanta; il secondo sulla nascita della critica ci-

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Introduzione

nematografica moderna a Parigi, tra anni Quaranta e Sessanta. Il capitolo 5 fa i conti con le trasformazioni che la cultura digitale ha prodotto sulla critica cinematografica negli ultimi dieci/quindici anni. Nella seconda parte del testo si trova una descrizione delle routine interpretative, vale a dire delle operazioni che i critici compiono in concreto quando interpretano e giudicano un film. Il capitolo 6 contiene la definizione dei problemi istituzionali legati all’esercizio critico. Nei capitoli successivi si dà una definizione della critica in termini di istituzione culturale e se ne individuano le differenze rispetto ad altre aree del sapere (le scienze, le discipline). Seguendo le proposte di David Bordwell vengono scomposte e analizzate le tecniche di analisi, le routine interpretative dominanti nella pratica critica oggi. L’interpretazione è sia descritta come un terreno sottoposto al dominio della retorica e delle sue leggi sia analizzata come un’attività di problem solving che coinvolge la costruzione di significati a vari livelli, la mobilitazione di tematiche e schemi cognitivi. Infine la storia e lo studio della critica sono inseriti nel più ampio campo disciplinare degli studi di ricezione.

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Prima parte La critica cinematografica dagli inizi del Novecento a oggi

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Capitolo 1

Dagli anni Dieci alla Seconda Guerra Mondiale

1.1 In Italia … La critica cinematografica delle origini è un continente in gran parte inesplorato. La stampa specializzata di tipo corporativo-professionale vede la luce relativamente tardi rispetto alla data ufficiale di nascita del cinematografo. Per i primi dieci anni circa del Novecento la produzione discorsiva che ha per argomento il cinema (un mezzo di intrattenimento ancora senza una legittimità estetica) è legata alla promozione delle trame dei film, alla pubblicità di novità tecniche per gli addetti ai lavori, quindi a una diffusione di giornali, gazzette, bollettini tecnici portatori di saperi specializzati tutto sommato irrilevanti in prospettiva della diffusione di valori critici condivisi. Nei primi vent’anni d’esistenza il cinema è sulla bocca di molti. I discorsi che lo riguardano, prima ancora di porre una questione di definizione, pongono una questione di collocamento: dove posizionare il cinema? Sul versante del fenomeno di costume? Sul versante della scoperta scientifica o su quello del mondo artistico-letterario? Oltre a funzionari ministeriali, medici e criminologi troviamo, in un clima influenzato dal positivismo di fine Ottocento, psico-fisiologi, neuropsichiatri e psicologi, per i quali è di qualche interesse il legame tra il nuovo medium, il suo luogo principale di visione (la sala) e lo studio della materia e dell’energia psichica. L’esperienza cinematografica appare come un’occasione che produce distrazione ed effetti quasi allucinogeni, che stimola i sensi, colpisce la coscienza, innesca processi già attivi nella mente dei nevrotici (come la confusione tra apparenza e realtà): una sorta di macchina temibile, con un carattere contagioso.

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Capitolo 1

La sala viene considerata un ambiente capace di produrre effetti significativi sui modi di aggregazione degli spettatori e sulle dinamiche sociali alimentate dagli individui. La «folla di potenti sconosciuti» [Papini 1907, citato in Grignaffini 1989, 23] al cinema diventa visibile. Il cinema crea nuovi comportamenti e modalità relazionali, plasma soggetti collettivi indebolendo le barriere di classe e ceto, o su scala più ampia, di nazionalità o razza. La sala diventa il luogo in cui si osserva il pubblico nella sua accidentalità di comportamento (al pubblico è consentita una certa libertà di movimento), ma anche nella sua dinamica di varietà/coesione. In alcuni casi la presa sulle masse è ricondotta al potenziale illusionistico/rappresentativo di un nuovo linguaggio e, di conseguenza, al fattore estetico del medium (intensificazione dell’esperienza sensoriale). Per altri contano le peculiarità economiche. Il cinema garantisce in sostanza un’esperienza di visione il cui linguaggio presenta potenzialità espressive notevoli e richiede alla fruizione un minimo sforzo sia economico sia di tempo ed energie psichiche (il cinema impegna in concreto solo la vista: quindi produce in modo automatico un risparmio e una gerarchizzazione delle energie impiegate) [Papini 1907]. Si segnala nel biennio 1907-1908 una «soglia iniziale di una pratica discorsiva» [Boschi 1998, 27] con la fondazione di alcune riviste di cinema («La lanterna», «Cafè Chantant», «La rivista fono-cinematografica») e i primi articoli di Giovanni Papini e Sebastiano Arturo Luciani. A parte questi due casi e pochi altri, in questa fase si risente ancora del disinteresse del mondo della cultura umanistica per il cinematografo. Un disinteresse dovuto in gran parte all’influenza dell’estetica di Benedetto Croce. La vulgata crociana privilegia il sentimento del soggetto creatore e l’intuizione lirica rispetto alla tecnica. Quindi porta a un atteggiamento di sospetto preventivo nei confronti del cinema, arte meccanica per eccellenza. A Milano, a Napoli, su riviste come «La rivista fono-cinematografica», «La lanterna», «Il cinematografo», prevale l’interesse per gli aspetto scientifici del medium. Non vengono ancora poste questioni relative alle potenzialità espressive del nuovo mezzo, né al suo possibile statuto artistico. Solo alcuni intellettuali si muovono in controtendenza. Tra questi uno dei più tempestivi è appunto Papini che su «La stampa» instaura un parallelo tra cinema e vita moderna cele-

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brando il cinematografo come superiore al teatro per la sua possibilità di registrare e riprodurre grandi eventi appena avvenuti [Papini 1907]. Le istanze che dominano in questo periodo sono essenzialmente tre: una necessità di nobilitare il nuovo mezzo portandolo verso le classi più abbienti, con la conseguente promozione di un cinema di derivazione letteraria in grado di attirare un pubblico provvisto di un minimo capitale culturale; la volontà di legare la modernità tecnologica del medium al clima di celebrazione della tecnica tipico, per esempio, dell’avanguardia futurista (non a caso molti sostenitori del cinematografo sono legati al futurismo o influenzati direttamente da Filippo Tommaso Marinetti); il progetto di trovare una via cinematografica al realismo: in questo caso, più che sulla sperimentazione fantastica, si insiste sul potere di riproduzione del vero, di adesione alla verità storica che il cinema può garantire. Alla funzione sociale del cinema (in chiave realista) si dimostra vicina la pubblicazione «Lux», di Gustavo Lombardo. L’aumento della durata dei film, la nascita di un sistema narrativo sono fattori determinanti nello spostare l’attenzione sui problemi espressivi. Nel 1910 nasce «Vita cinematografica», una delle testate più importanti del periodo del muto (che si prolunga fino al 1934). Il problema estetico si affaccia anche su altre testate in concomitanza con la nascita di rubriche stabili sul cinema. Un’apposita rubrica è creata su «La gazzetta del popolo» già dal 1908, altri quotidiani imitano l’esempio e chiedono agli intellettuali di farsi carico delle recensioni. Nasce la tradizione di affidare ai letterati le rubriche cinematografiche. Matilde Serao interviene con regolarità sulle pagine dei giornali partenopei e così fanno altri suoi colleghi. Le voci sono a favore o contro. Gli interventi di condanna e sospetto non mancano. Ma il fronte opposto si infoltisce: Luigi Capuana, Grazia Deledda, Nino Oxilia si dichiarano favorevoli al nuovo mezzo. Convinti della superiorità del cinematografo (rispetto alle arti ottocentesche e soprattutto al teatro) rimangono Prezzolini e Marinetti, per giungere alla consacrazione del nuovo mezzo da parte di D’Annunzio, nel 1914. Per quanto Ricciotto Canudo sia considerato il primo teorico delle origini che concepisce in modo sistematico il cinema come arte, al suo pensiero non sfuggono anche gli aspetti mediologici del mezzo. In Canudo il processo di estetizzazione del me-

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dium si incrocia con un analogo processo di estetizzazione degli aspetti cinetici della vita moderna, inaugurando una delle tante versioni di quel movimento di generale trascrizione delle categorie estetiche nel campo della vita quotidiana e della sfera mediale che avrà importanti sviluppi nella storia della società della comunicazione novecentesca (dalle avanguardie fino ai processi più vicini alla nostra epoca descritti, tra gli altri, da Gianni Vattimo [Vattimo 1989]). Canudo pensa che il cinematografo resti un’arte nella sua essenza e un divertimento fotografico nella maggior parte delle sue applicazioni. Egli descrive, più che un’estetica cinematografica, i modi attraverso i quali il cinema può aderire ai precetti di un’estetica generale delle arti moderne. Il criterio che guida la valutazione del cinema in termini tanto entusiastici è una delle categorie estetiche più consolidate, quella della totalità: il cinema sarà la settima arte perché saprà cogliere per evocazione, far vibrare il tutto nel frammento. C’è un nesso strettissimo tra la meccanica del mondo restituita dal cinematografo e la capacità di sintesi evocatrice, cioè di implicare la «vita totale», «lo slancio dell’individuo verso l’universale» [Canudo 1966, 268]. A questo punto la questione dell’artisticità del cinema è posta. Ci si interroga anche sullo statuto dell’autore cinematografico, cioè sulla figura che istituzionalmente può essere ritenuta responsabile del risultato estetico. Per un po’ di tempo, in Italia come in altri paesi, autore del film sarà un titolo attribuibile a diverse figure professionali: lo scrittore da cui deriva l’opera (e che magari ha collaborato alla realizzazione cinematografica), oppure il direttore di scena [Pescatore 1999]. Grazie agli interventi di Sebastiano Arturo Luciani vengono affrontati i problemi specifici del linguaggio cinematografico (ritmo, montaggio, illuminazione) e i legami con le altre arti [Luciani 1920, 1928]. Il cinema, mediante questo confronto serrato (al quale è stato dato il nome di paradigma comparativo [Boschi 1998] e che è tipico delle teorie cinematografiche classiche) entra di fatto nel contesto estetico-culturale dell’epoca. Una simile constatazione però non deve fare dimenticare che la critica cinematografica per la maggior parte dei casi è del tutto sprovveduta. Nella pratica corrente di recensione domina l’impressionismo più assoluto, l’occhio del recensore è disattento a

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ogni elemento tecnico ed espressivo specifico. Se quindi la riflessione teorica non è povera di contributi, la pratica analitica e recensoria rimane legata a moduli retorici e concettuali inadeguati [Pellizzari 1999]. Il biennio 1912-’13 è anche ricordato come il periodo in cui si comincia a discutere in modo frequente del problema dell’autore. È indubbio che a cavallo dei primi dieci anni del secolo alcuni fattori producono il progressivo collocamento del cinema nell’ambito degli interessi umanistici. Come abbiamo detto, gli elementi all’origine del fenomeno sono diversi: un modello produttivo che sull’esempio dell’operazione «film d’arte» punta a divulgare il patrimonio letterario e figurativo della tradizione, l’attività delle riviste specializzate (nel 1910 nasce a Torino «Vita cinematografica»), gli intellettuali e il loro rapporto con lo schermo. A riguardo di questo ultimo punto, oltre agli atteggiamenti diversi che due personalità come Gabriele D’Annunzio e Luigi Pirandello hanno verso il cinema, va ricordato il dibattito suscitato presso l’intellighenzia letteraria da singoli film. La prima manifestazione di potenza culturale della nuova forma di spettacolo è di tre anni precedente a Cabiria. Si tratta de l’Inferno (1911) prodotto dalla Milano Film. La pellicola traduce sullo schermo l’iconografia delle illustrazioni di Gustav Doré realizzate per la Commedia dantesca. L’incontro tra cinema e pittura non sfugge agli intellettuali presenti alla prima napoletana, come Roberto Bracco, Benedetto Croce e Matilde Serao. A Parigi, Ricciotto Canuto presenta la pellicola all’École des Hautes Etudes Sociales della Sorbona. Da qui è un susseguirsi di adattamenti cinematografici di testi letterari di successo. Mentre sul piano teorico fioriscono i primi studi che cercano di definire uno specifico cinematografico proprio in relazione alle arti maggiori (musica, teatro, letteratura, pittura), i letterati vengono attratti dal mondo del cinema per motivi assai prosaici. Da Nino Oxilia a Verga, da Trampolini a Gozzano, da Pirandello a D’Annunzio, le collaborazioni cinematografiche degli scrittori sono soprattutto un segno del potere di seduzione economica che il nuovo mezzo riesce a esprimere. C’è chi cede semplicemente i diritti delle proprie opere. C’è chi incarica scrittori-ombra di adattare i testi letterari per lo schermo, chi invece scrive in prima persona. Qualcuno se ne vergogna (Verga). Qualcun

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altro lo ammette senza rimpianto (Gozzano). È D’Annunzio colui che espone maggiormente il proprio nome nel processo di nobilitazione culturale: «Quando firma il contratto con Pastrone per le didascalie di Cabiria, D’Annunzio, con una sola mossa, si assume la piena paternità di un’opera non sua, si offre, diremmo oggi, come testimonial della qualità del prodotto e gli conferisce un marchio di legittimità artistica […] che modifica in modo decisivo i rapporti tra cinema e letteratura» [Brunetta 2004, 62]. Matilde Serao è vicina alle idee di D’Annunzio sul cinematografo. Amica intima di Eleonora Duse (colei che si era esposta ai fischi del pubblico per difendere sulle scene un altro ideale dannunziano, quello teatrale), giornalista di successo e scrittrice affermata presso la borghesia partenopea (e non solo: nel 1926, un anno prima della morte, concorre al Nobel perdendolo a vantaggio di Grazia Deledda), scrive di Cabiria proprio attraverso l’argomento del valore artistico. La pellicola le appare una «possente istoria di passione» che allarga l’esperienza percettiva dello spettacolo comune, che produce una sintesi lirica implicitamente vicina ai canoni estetici difesi dallo stesso D’Annunzio e ispirati al concetto di opera d’arte totale teorizzato da Wagner. Cabiria è un film che, nelle parole della scrittrice, può conquistare lo spettatore digiuno di cinema, come pure non lascerà indifferente colui che conosce il linguaggio cinematografico ed è in grado di apprezzare il progresso tecnico che nel film viene esibito [Serao 1914]. 1.2 … e in Francia In Francia, un esempio della tendenza a considerare il cinema come luogo di riflessione estetico-teorica è il numero doppio (16/17) della rivista «Les Cahiers du Mois», nel 1925. Siamo in un periodo di fervida attività culturale, a Parigi. Mostre, conferenze, dibattiti si susseguono. È l’anno della Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes. Nel mondo del cinematografo i confini tra ruoli professionali sono labili: «Teorici e cineasti spesso coincidono (Germane Dulac, Jean Epstein, Marcel L’Herbier, René Clair…), altre volte sono i critici cinematografici che diventeranno storici del cinema (Léon

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Moussignac, Georges Charensol, il giovane Jean Mitry…) oppure sono scrittori, scienziati, filosofi» [Canosa 2001]. All’interno della rivista prevalgono interventi di carattere generale, nei quali circolano nozioni teoriche note all’epoca. Si parla di «settima arte», «decima musa», «fotogenia» e «cinegrafia». Ci si interroga su questioni di poetica, sul rapporto tra pensiero moderno e il cinema consultando intellettuali e artisti di prestigio a vario grado già “compromessi” con il nuovo mezzo (Alberto Cavalcanti, Fernand Léger, Robert Mallet-Stevens, Jean Cocteau, Robert Desnos). Già a partire dal 1914 la stampa cinematografica specializzata si espande in modo energico (tanto che si parla di una prima epoca d’oro delle riviste di cinema). «Le Film», «La Scène et l’écran», «L’Ecran», «Hebdo-Film», «L’Argus di cinéma», «Le Cinéopse», «Cinema-spectacle», «Ciné pour tous», «Scénario», «La Cinématographie française»: sono queste solo alcune riviste del periodo dedicate al commento e alla critica dei film [Ciment, Zimmer 1997]. Se i primi entusiasti sostenitori della settima arte non potevano essere considerati critici cinematografici in senso stretto (in quanto erano soprattutto teorici o artisti), il ruolo di critico invece è appropriato per Louis Delluc [Delluc 1985]. Regista in proprio di non eccezionale successo, giovanissimo critico teatrale, Delluc incontra il cinema già nella prima parte degli anni Dieci. Come per altri suoi contemporanei l’incontro prende forma di folgorazione alla prima parigina di I prevaricatori, un film di Cecil B. DeMille del 1915. Le sue riflessioni più celebri riguardano il concetto di «fotogenia» e il ruolo dell’attore cinematografico. Eppure Delluc non si considerava un teorico quanto piuttosto un animatore culturale tempestivo e prolifico. Sono molte le pubblicazioni da lui fondate o alle quali collaborava: «Paris-Midi», «Bonsoir», «Le Film», «Le Journal du Ciné-club», «Cinéa», solo per ricordare le principali. La prosa mette in luce un approccio ai singoli film che già contiene le caratteristiche poi attive nella critica cinematografica moderna del secondo dopoguerra: la predilezione per il cinema americano (Chaplin, Griffith) bilanciata da un’attenzione a tutto campo per le retrospettive e per i generi minori come il documentario, l’indipendenza di giudizio aliena dalle tentazioni della promozione commerciale, l’enunciazione chiara di un gusto individuale, l’ironia

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e l’agilità di scrittura, la pratica di affiancare all’analisi dei singoli film l’esercizio di promozione culturale (Delluc inventa termini ora entrati nel gergo comune come «cineclub», «cineasta», e si prodiga per la diffusione del cinema di qualità straniero, per esempio con il lancio di Il gabinetto del dottor Caligari). Delluc non è il solo a gettare le basi per una critica cinematografica adulta. Egli si trova in compagnia di scrittori (Apollinaire, Colette, Aragon) e di altri specialisti (René Jeanne, Emile Vuillermoz). Nel corso della seconda parte degli anni Venti l’interesse per il cinema monta su più fronti. Da un lato si assiste al crescere della saggistica, con una suddivisione in sottogeneri che diventerà poi tradizionale: storie del cinema, monografie d’autore, saggi teorici ecc. Nel 1922 esce L’Arbre d’Eden di Elie Faure. Poco dopo le pubblicazioni di Léon Moussignac (Naissance du cinéma, 1925; Le cinéma soviétique, 1928) mescolano un’impostazione marxista con la celebrazione della scuola sovietica e la divulgazione delle teorie di Canudo. Polymnie di Jean Prévost e Charlie Chaplin di Henry Poulaille mantengono vivo l’interesse per la recitazione, la mimica e l’arte dell’attore. Su un altro versante continua l’espansione del mercato editoriale legato alle riviste specializzate. Certe pubblicazioni hanno vita breve, altre resistono più a lungo. Nel complesso il numero delle proposte si aggira intorno alle cinquanta unità solo nella prima parte del decennio. Un posto particolare è occupato dalla prima serie di «La Revue du cinéma». Diretta e fondata da Jean George Auriol nel 1928, ha vita breve ma contribuisce a elevare gli standard critici dell’epoca. Auriol promuove un intervento culturale in grado di superare l’approccio programmaticamente celebrativo della generazione precedente (Delluc, Canudo) verso un’impostazione più empirica, legata alla lettura dei singoli film e a una visone del cinema come esperienza di passione quotidiana. La rivista dà per scontata la necessità di trattare il cinema con lo stesso grado di serietà del teatro, ma concede spazio al culto popolare per le star (Dietrich, Garbo) come pure dedica, non senza vezzo, alcune pagine a generi sommersi come i film medici e di esplorazione. Nel corso degli anni Trenta, in sintonia con gli eventi storici che investono il continente europeo, il clima politico e sociale del paese cambia, anche se il cinema continua a occupare un po-

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sto privilegiato nella cultura parigina. In genere questo decennio è messo in ombra dai clamori della prima generazione di interventi (Delluc, Epstein ecc.) e dai successi della generazione dell’immediato dopoguerra (Bazin, Sadoul, Astruc, Agel). Il dibattito sul cinema, prima di politicizzarsi verso la fine degli anni Trenta come quasi ogni aspetto della vita culturale nazionale, si organizza intorno ad alcune querelle, tra le quali le più importanti riguardano il passaggio al sonoro e la presenza di maestranze straniere (soprattutto tedesche) nel mondo del cinema francese. Gli schieramenti critici rispecchiano gli schieramenti politici. Da una parte e dall’altra emergono i nomi di recensori destinati a diventare maestri della generazione successiva. I luoghi in cui si pensa e commenta il cinema sono sempre più le riviste specializzate o le pubblicazioni di cultura generale. A sinistra si collocano Pierre Bost e George Sadoul. Su «Esprit» Roger Leenhardt e Valery Jahier riservano attenzioni particolari alla cinematografia americana, aprendo così la strada alla collaborazione di Bazin. A destra si trovano intellettuali ascoltati e influenti. Lucien Rebatet (che si firma con lo pseudonimo di François Vinneuil), apprezzato musicologo, voce indipendente (caratteristiche che non possono fare dimenticare, malgrado l’indulgenza post-bellica di Truffaut, la sua attività pamphlettistica radicalmente xenofoba e antisemita), si esercita sulle colonne di «Action française» e «Je suis partout» [Rebatet 2009]. Sulla «Revue universelle» Robert Brasillach tiene una doppia rubrica (cinematografica e teatrale) nella quale confluiscono articoli sulla commedia americana, Cukor, Ford, Wyler, a cui, sempre Truffaut, guarderà come modello. Autorevole è pure Alexandre Arnoux che scrive su «Les Nouvelles littéraires», rivista per il pubblico colto e adatta ad accogliere la finezza di scrittura di Arnoux, il quale ha modo di esercitarsi pure su «Pour Vous», pubblicazione specializzata, pensata per il grande pubblico (con una tiratura che raggiunge anche le 80.000 copie), molto curata nelle illustrazioni e nella veste grafica.

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Primo approfondimento: il secondo dopoguerra e la nascita della critica moderna in Francia

2.1 Tra anni Quaranta e Cinquanta Nel dopoguerra il cinema riconquista rapidamente il centro della scena culturale nazionale francese, come testimoniano l’investimento dello Stato nella diffusione della cultura cinematografica e un generale clima in cui il cinema è al centro degli interessi di filosofi, intellettuali, letterati. Il periodo è propizio e il boom editoriale delle riviste lo conferma: il terreno è reso ancora più favorevole dal successo di tirature ottenuto dalle pubblicazioni clandestine, dal lavoro dei cine-club e dalla pubblicazione delle riviste più importanti dell’immediato dopoguerra. A «L’Ecran Français» (nato come supplemento a «Les Lettres Françaises» nel 1943) si aggiungono, nel corso del solo 1946, «Télé-Ciné», «Image et Son», la seconda serie della «Revue du Cinéma», e a breve distanza, «Cahiers du Cinema» (1951) e «Positif» (1952). Per rappresentare un punto di congiungimento tra la generazione cinefila degli anni Venti e quella del dopoguerra Jean George Auriol, nell’ottobre del 1946, rianima «La Revue du cinéma». La rivista uscirà fino al 1948 e farà in tempo a pubblicare uno dei primi dossier su Hitchcock aprendo la strada alle celebrazioni che avrebbero investito il regista inglese di lì a pochi mesi. Sono soprattutto Alexandre Astruc e André Bazin a favorire il cambiamento delle categorie critiche post-belliche. Astruc è l’autore di una trentina di articoli influenti all’epoca all’interno del dibattito sul realismo, e viene ricordato soprattutto per la definizione della caméra-stylo: il cinema è un linguaggio attraverso il quale l’artista può esprimere pensieri e ossessioni servendosi della macchina da presa esattamente come un saggista o un romanziere fa con la penna [Astruc 1948, ora

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in Grignaffini 1984]. Il cinema viene associato, per la prima volta in modo così esplicito, alla libera espressione individuale. Bazin scrive per «Esprit», «Le tempes Modernes» e «La revue du Cinéma». Pensatore al centro della ricerca storico-teorica ancora oggi [Andrew 2011], critico del quale non si sono studiati a fondo tutti gli scritti (oltre ai saggi sono stati catalogati e attendono analisi sistematiche circa duemilaseicento articoli), Bazin partecipa al dibattito teorico mettendo a punto distinguo tra diverse forme di realismo (tecnico, ontologico, psicologico). È un operatore culturale impegnato nell’attività dei cine-club (la programmazione di Objectif 49) e nella diffusione di film o intere cinematografie (come avviene con il neorealismo italiano, attraverso gli articoli sulla «scuola della liberazione» [Bazin 1973] e la presentazione parigina di Roma città aperta). Inoltre è un critico che riflette sul ruolo stesso della critica e che, assieme ad Astruc, promuove il concetto di nuova avanguardia: superando la concezione elitaria alla base delle avanguardie storiche, egli individua nel cinema uno strumento la cui estetica è a priori destinata al grande pubblico. Bazin, assieme a Jacques Doniol-Valcroze, non crede che un regista d’avanguardia sia qualcuno che fa parte di un piccolo movimento distinto e aristocratico ma chiunque riesca a evidenziare le potenzialità estetiche del mezzo. Così sono d’avanguardia i film di Méliès, Preston Sturges, Wyler, Renoir, indipendentemente da quanto i singoli autori abbiano desiderato raggiungere o evitare il successo commerciale. Nella cultura cinematografica post-bellica Bazin si colloca tra spinte al rinnovamento delle categorie critiche, teorizzazioni sul realismo e apporto fenomenologico all’interpretazione dell’immagine (egli è più influenzato da André Malraux, Maurice Merleau-Ponty e Jean-Paul Sartre che dai critici-teorici degli anni Venti come Delluc o Léon Moussinac). È utile però ricordare anche le novità introdotte sul piano della scrittura e del ragionamento critico. Lo stile baziniano introduce scarti rispetto alla forme giornalistiche consolidate. Analizzando la recensione di Bazin su Alba Tragica, Jacques Aumont e Michel Marie notano che «la prima caratteristica della scheda […] è la sua lunghezza, piuttosto inconsueta: una buona ventina di pagine. La seconda è la libertà dell’autore in relazione allo schema di rito» [Aumont, Marie 1996, 37-38]. Bazin opera attraverso una ricorrente stra-

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tegia d’analisi. La lettura del contenuto è superata a favore di uno sguardo attento agli aspetti tecnici del linguaggio, i quali a loro volta sono riportati a una concezione estetica generale. L’attenzione ai parametri tecnico-formali (piano sequenza, montaggio, profondità di campo) non scade mai in formalismo di superficie (accusa che pure fu mossa all’epoca e che al limite avrebbe un fondamento di maggiore verità se riferita ad Astruc). La tecnica rimanda sempre a una metafisica, all’uomo che se ne fa espressione. Per quanto i suoi assunti teorici possano essere discussi, le capacità di interpretazione di Bazin, il formidabile intuito per i particolari e per i loro significati meno evidenti (si tratti dei baffetti di Charlot, di un gesto, o di un’espressione minima di un attore) hanno pochi eguali tra le voci del tempo e per certi versi anticipano un rapporto con il cinema classico di tipo modernista che comincerà a diffondersi solo negli anni Sessanta con la maturazione del cinema moderno. Auriol aveva il desiderio di riprendere l’esperienza della «Revue du Cinéma» con una nuova rivista. La sua morte accidentale nel 1950 spinge Bazin, Jacques Doniol-Valcroze, Joseph-Marie Lo Duca a fondare i «Cahiers du cinéma». Il primo numero, con copertina gialla che richiama la «Revue» e foto di Viale del Tramonto, esce il primo di aprile del 1951. I «Cahiers» del primo periodo dimostrano un eclettismo in seguito abbandonato. Nella prima fase la rivista difende il cinema americano, quello francese (Bresson, ma anche Carné e Autant-Lara) come quello staliniano (malgrado Bazin si fosse attirato l’epiteto di «liberale borghese» da parte della critica comunista di «Les Lettres Françaises» e «l’Humanitè» a causa di Il mito di Stalin nel cinema sovietico, un articolo pubblicato nel 1950 in cui venivano smontati il linguaggio e la messa in scena del dittatore sovietico nel cinema di propaganda [ora in Bazin 1973]). Tra il 1953 e il 1956 una lotta interna alla redazione contrappone la vecchia guardia (Bazin, Doniol-Valcroze, Pierre Kast, Joseph-Marie Lo Duca) ai giovani collaboratori della corrente hitchcock-hawksiana (Rohmer, Rivette, Godard e Truffaut). Con il consolidamento del potere dei giovani lo spirito polemico e le intransigenze di gusto si fanno più acuti e la necessità di rottura nei confronti della critica tradizionale riverbera fuori dall’ambiente ristretto dei «Cahiers». È nata la politique des auteurs.

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2.2 La politique des auteurs Atto di nascita della politica degli autori è considerato l’articolo di Truffaut Alì Babà e la “politica degli autori” [Truffaut 1955]. Siamo nel febbraio del 1955. Ma una politica non si può fare da soli e la politica degli autori non è stata una vera e propria rivoluzione in quanto ha sempre presupposto un buon grado di continuità con il passato [De Vincenti 1980, Grignaffini 1984, Costa 1995, De Baecque 1993]. Il carattere collettivo del fenomeno appare chiaro. La politique è espressione dell’ala oltranzista della redazione dei «Cahiers», composta quasi esclusivamente da futuri registi (Truffaut, Godard, Rivette, Rohmer) formatisi nella cultura cinefila e nei suoi luoghi più istituzionali (i cineclub del quartiere latino di Parigi, la Cinémathèque, la «Gazzette du cinéma»). Quasi tutte le idee promulgate da questi giovani sono sedimentate nel corso di un periodo compreso tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni del decennio successivo: dalle pagine della «Gazzette» viene la nozione di messa in scena, così come prende avvio l’operazione di rivalutazione di Hitchcock; gli aspetti più teorici e la centralità dei valori religiosi trasformati in mezzi di valutazione e interpretazione derivano da Bazin; l’idea della macchina da presa come strumento della libera espressione del sé discende da Astruc; da Roger Leenhardt è ereditata la possibilità di stabilire classifiche di gradimento tra registi fino a quel momento ritenuti non degni di particolare interesse come William Wyler o John Ford. La novità della politique sta nel tono inedito dato alla discussione, nello spirito iconoclasta, nell’attacco a un nemico che viene identificato con più precisione rispetto al passato. I giovani turchi (così venivano chiamati i collaboratori più combattivi dei «Cahiers») non sono disposti a farsi trattare dai critici della generazione precedente con l’accondiscendenza generalmente riservata agli scolari freschi di letture e visioni sbagliate. In una parola: l’elemento di novità è proprio la politica stessa, la concezione della critica come luogo di usurpazione del potere di influenza sul mondo del cinema, spazio dove sono necessarie libertà di giudizio e assoluta sincerità. Dove intransigenza e assenza di diplomazia sono la regola. Innanzitutto bisogna sgomberare il campo da un possibile equivoco: la politique non ha mai sostenuto la tesi della promo-

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zione generica del cinema d’autore. Ciò era già stato fatto dai critici che, richiamandosi alle categorie della critica d’arte e letteraria, avevano mutuato proprio da queste la nozione di autore-creatore dell’opera [Costa 1995]. L’aspetto specifico della politique è di avere applicato la categoria di autore a terreni inediti, in luoghi nei quali fino a quel punto si era voluto vedere solo mercato, industria, mestiere. Così, quei film che poco prima erano considerati prodotti di equipe, oggetti privi di reali tratti distintivi, segni di standardizzazione produttiva, diventano manifestazione del talento individuale. Non si deve dimenticare che in un’altra tradizione culturale (la sociologia critica francofortese) Theodor Adorno e Max Horkheimer avevano appena finito di liquidare alla stregua di differenti modelli di giardinette Ford fatte in serie alcune delle commedie americane oggi considerate dalla storia e dalla critica del cinema tra le migliori degli anni Trenta e Quaranta [Adorno, Horkheimer 1966]. Se oggi, contro il giudizio di Adorno, studiamo quei film nelle università di tutto il mondo, lo si deve anche all’apprezzamento promosso con vigore proprio dalla politica degli autori. In una Francia fieramente nazionalista e arroccata nella difesa della qualità del cinema francese (altro pilastro della tradizione che la politique aveva cominciato a sbriciolare), il cinema americano è il luogo principale dello scandalo. Ma i registi americani non sono l’unico oggetto d’amore. Altri europei sono al centro del dibattito: Rossellini, Bresson, sopra tutti Renoir. E anche Jacques Becker. Alì Babà e “la politica degli autori” è un articolo nel quale Truffaut prende le difese di un film minore di Becker e così facendo espone le caratteristiche principali della politique. Queste caratteristiche sono state descritte da Antoine De Baecque [De Baecque 1993 e 2003] e si possono riassumere in tre punti: 1. Il volontarismo dell’amore. Truffaut scrive: «Alla prima visione, Alì Babà mi ha deluso, alla seconda annoiato, alla terza appassionato e rapito. Lo vedrò ancora, senz’altro, ma so per certo che, superato vittoriosamente lo scoglio insidioso della cifra tre, ogni film prende il suo posto nel mio museo privato, molto ristretto» [Truffaut 1955, ora in La politica degli autori 2003, 29]. È in gioco un rituale che prevede la visione ripetuta e l’intimità con il film da amare. Si badi bene: «da amare», non semplicemente «amato». La politique richiede che si segua una pro-

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cedura: più visioni dello stesso film a distanza ravvicinata, prossemica vincolante rispetto allo schermo (i giovani turchi si stringevano sempre nelle prime quattro file dei cineclub), discussione a fine proiezione. La procedura risponde a un imperativo: non bisogna semplicemente provare piacere e amore per certi film, bisogna farseli piacere. Sempre Truffaut aveva affermato: bisogna amare Fritz Lang. Se in un film cogliamo i segni indelebili dell’autore, bisognerà difenderlo in ogni caso: «[…] preferisco schierarmi con Astruc, Rivette e tutti quanti amano senza distinzione tutti i film di Welles perché sono film di Welles e non assomigliano a nessun altro, per questo “stile Welles” che si trova in tutti i suoi film, siano essi lussuosi o poveri, girati rapidamente o lentamente» [De Baecque 1993, 101]. Anche di fronte ad Alì Babà, un film di cassetta con Fernandel, trascurato dalla critica, Truffaut ammette il proprio imbarazzo ma confessa che, anche se non gli fosse piaciuto, lo avrebbe difeso in nome della politique. Poi, in soccorso del critico è arrivato il rituale: le visioni multiple hanno portato lo spettatore a farsi piacere il film. Il piacere funziona, in un meccanismo circolare, da prova della validità della politique stessa. Si tratta di «una cifra magica: la politica degli autori darà in cambio, a chi si sottometterà ai suoi rituali, la scoperta dello stile di un autore, non tanto là dove il segno dell’autore è evidente, ma là dove solo a pochi è dato vederlo, nell’opera minore, occasionale» [Costa 1995, 82]. 2. Il dovere di seguire l’opera nel suo farsi. La necessità di amare l’opera di un regista si collega al fatto che l’oggetto da amare non è il singolo film, il testo nella sua unicità puntuale. Scrive ancora Truffaut a proposito di Grisbì di Jacques Becker «[…] abbiamo scoperto il cinema quando Becker vi debuttava, abbiamo assistito ai suoi brancolamenti, ai suoi tentativi: abbiamo visto un’opera farsi» [De Baecque 1993, 98-99]. Ciò che va giudicato e analizzato è un’entità che quantitativamente sfugge alla dimensione dell’opera presa in se stessa. L’apprezzamento estetico si deve rivolgere a qualcosa che è sempre più piccolo o più grande del “film esemplare”. Più piccolo, perché i critici della politique non difendono la nozione di capolavoro (anzi, ne hanno orrore), né le categorie estetiche che ne rendono possibile il riconoscimento nella tradizione (coerenza dell’insieme, perfetta

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riuscita rispetto alle intenzioni, “nobiltà” dei contenuti ecc.) ma lo scarto, il particolare secondario nell’opera maggiore, oppure le opere meno riuscite di una autore amato, la capacità del sacrificio e del fallimento in nome di un’ossessione. Più grande, perché accanto all’elogio dell’imperfezione si trova l’idea che non è il singolo film a contare ma il corpus delle opere. O per meglio dire, l’opera è un insieme di testi, un work in progress che guadagna una dimensione intertestuale, che si costituisce nell’accumulo di occorrenze legate tra loro dal fatto di essere riportabili a una sola fonte creativa (l’autore appunto). Infatti ciò che garantisce per l’integrità del corpus, della sua rilevanza complessiva, è ovviamente l’autore stesso. Quando entriamo nella produzione d’autore cambiano le regole della creazione. L’enunciato «non esistono opere, ci sono solo autori» ha come corollario «la negazione dell’assioma caro ai nostri predecessori secondo il quale succede ai film quello che succede alle maionesi: riescono o non riescono. Di argomento in argomento, i nostri predecessori, sono arrivati a parlare, senza perdere niente della loro gravità, di invecchiamento e perdita di creatività oppure di rimbambimento per Abel Gance, Friz Lang, Hitchcock, Hawks, Rossellini e addirittura per Jean Renoir e il suo periodo hollywoodiano» [De Beacque 1993, 100]. All’idea della senescenza creativa, della resa alle regole del mercato, la politique oppone un altro principio: un autore è un autore proprio in quanto non invecchia, matura; non declina, si purifica. L’autore così definito ha un’ultima caratteristica: è consapevole della propria unicità. In genio sa di essere un genio, per definizione. La prova della consapevolezza va affidata alla parola dell’autore stesso. Nasce così una delle forme discorsive più legate alla politique, cioè l’entretien, l’intervista al regista amato. Con i «Cahiers», l’intervista, da genere letterario frivolo, legato all’occasionalità della conversazione orale, diventa un’arma confessionale, uno strumento di analisi dettagliata, il luogo in cui si verificano le interpretazioni. Truffaut a questo riguardo è chiaro: l’autore deve dimostrarsi consapevole di ciò che i suoi interpreti scoprono. Il testo è un luogo dove sedimentano significati variamente stratificati, alcuni impliciti, non immediatamente reperibili se non attraverso un accurato lavoro di lettura, ma comunque significati di cui l’autore è a conoscenza, sui quali eser-

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cita un dominio. La parola dell’autore – ciò che i teorici dell’interpretazione chiamano intentio auctoris – è determinante per corroborare l’esattezza di lettura. I giovani turchi, per esempio, si impegnano in una serie di domande assai complesse rivolte a Hitchcock, il quale non sempre sembra disposto ad assecondare le traiettorie interpretative dei suoi ammiratori. Truffaut non vuole un genio incosciente e cerca di persuadere Bazin della consapevolezza di Hitchcock a proposito del proprio talento. L’intervista diventa un corpo a corpo con l’autore per cercare di individuare un terreno comune di comprensione, per portare alla luce il segreto di una poetica, per registrare le reticenze che l’autore costruisce a protezione della creatività [Truffaut 1996]. 3. Il concetto di «messa in scena». Il contenuto del film non ha un valore assoluto, perché il soggetto del film è la sua messa in scena. Per un inquadramento generale del concetto ci si riferisce a Bazin, il quale, dopo avere definito la messa in scena «la materia stessa del film», aggiunge la definizione seguente: «un’organizzazione degli esseri e delle cose che trova in sé il proprio significato, intendo dire sia morale che estetico» [Costa 1995, 84]. Rivette meglio di altri ha insistito su questa strada arrivando a una definizione di messa in scena come una sorta di registrazione di corpi in relazione tra loro in uno spazio. La registrazione di relazioni tra corpi sospesi in un ambiente è un valore intrinseco del cinema e trasforma in fattori secondari il soggetto e i contesti socioculturali o nazionali a cui è legata la nascita dei singoli film. A proposito di un regista appartenente a una cultura lontana come Kenji Mizogouchi, Rivette scrive: «[…] questi film ci parlano di fatto un linguaggio familiare. Quale? Il solo al quale tutto sommato un cineasta dovrebbe aspirare: quello della mise en scène. […] Se la musica è un idioma universale, lo è anche la mise en scène: è questo, e non il giapponese, che bisogna imparare per capire “il Mizogouchi”. Linguaggio comune, ma portato qui a un grado di purezza che il nostro cinema occidentale ha conosciuto solo in casi eccezionali» [Costa 1995, 84]. Linguaggio comune, dunque. In queste parole la messa in scena si configura come una lingua franca capace di abbattere steccati linguistici, come una koiné cinematografica in grado di superare o fare dimenticare le differenze specifiche tra culture in nome di qualcosa che appartiene al cinema in modo intrinseco

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in quanto strumento di espressione universale. Inoltre a tale koiné «viene riconosciuta la capacità di coniugare gli aspetti della oggettività del cinema (il realismo ontologico di ispirazione baziniana) e la soggettività dell’autore che costituisce l’obiettivo di fondo della linea critica dei «Cahiers»» [Costa 1995, 85]. Nella famosa Lettera su Rossellini, Rivette difende Viaggio in Italia solo sul piano della messa in scena, rifiutando ogni considerazione riferita ad altri aspetti del film, come l’abilità narrativa e la costruzione dei personaggi. Il film non ha nulla di letterario e rappresenta la modernità stessa del cinema, anche per merito dell’apparente banalità dell’intenzione: Rossellini non vuole dimostrare, ma mostrare; se i personaggi non hanno stati psicologici definiti è perché si rivelano nell’azione. Rossellini mostra corpi (quelli degli attori Ingrid Bergman e George Sanders) in un mondo di oggetti differenti e di altri corpi. «Questo non basta a fare un film», dicono i detrattori. «Ecco il più moderno dei film», risponde Rivette, perché la sua verità non si trova nella psicologia che anima gli eroi di una storia, ma nell’insieme attraverso cui i corpi ossessionano una messa in scena e, a forza di ossessionarla, raggiungono il mistero dell’Incarnazione. Per Rivette il soggetto stesso di Viaggio in Italia è l’Incarnazione e la sua messa in scena riguarda corpi e oggetti che non sfuggono mai al mistero allegorico. L’influenza del pensiero religioso è patente non solo in queste parole: «I dogmi dell’eucarestia […] costituiscono la base fondamentale dell’apporto teorico di Bazin e di Rohmer. L’“età classica” del cinema altro non è che un’interpretazione cattolica del mondo applicata all’ambito della messa in scena: mostrare la carne (il corpo di Cristo), mostrare degli oggetti (l’ostia) e in loro vedere l’universalità del mondo e la sua anima (la natura divina)» [De Baecque 1993, 159]. È comunque nella Lettera su Rossellini che il trasferimento dei dogmi cattolici, nella loro espressione legata alla potenza spirituale della carne, è portata alle estreme conseguenze [ora in La politica degli autori 2003]. Il concetto di messa in scena, come abbiamo detto, è determinante anche in un processo generale di mediazione tra opposti all’interno dell’edificio concettuale della politica degli autori. Ricapitoliamo: da un lato c’è l’esigenza della sincerità assoluta, l’imperativo portato avanti dalla politique di esprimere completamente se stessi, di intendere il cinema come une véritable écriture, secondo l’insegnamento di Astruc (è proprio la sinceri-

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tà a imporre ai giovani turchi l’adorazione per Nicolas Ray); dall’altro c’è il cinema, le sue prerogative (registrazione meccanica e oggettiva di corpi in movimento), la sua ontologia, la sua estetica della realtà. È grazie a una concezione del realismo (derivata da Bazin e da non confondersi con il concetto di verosimiglianza) e alla difesa del potere di riproduzione meccanica della cosa in sé che il cinema può essere pensato come arte moderna per eccellenza (oltre che come un’arte spirituale proprio in quanto oggettiva, legata alla riproduzione di un universo di oggetti che ci spinge a ricercare un “al di là” dei fenomeni, un altro principio immateriale). È in nome di questi stessi elementi che Hitchcock può diventare un genio metafisico capace di riproporre ossessivamente «la rivelazione, quasi mistica, per prove successive, di personaggi perduti nel mondo degli oggetti» [De Baecque 1993, 126], che si difendono certi autori dalle loro evidenti imperfezioni, che si neutralizzano tali imperfezioni nel processo di attribuzione di valore estetico. Ecco il valore di mediazione del concetto di messa in scena: l’autore esprime se stesso completamente. Quando questa sincerità, senza perdere nulla di sé, per mediazione della messa in scena, riesce a non tradire ciò che il cinema è e deve essere (la sua morale intrinseca), allora, e solo allora, si giunge all’identità assoluta e quasi miracolosa dei due estremi. Si può dire cioè che questo autore è il cinema. E così infatti, per esempio, si dice spesso sui «Cahiers» che Nicholas Ray è il cinema. Il concetto di messa in scena ha anche ricadute sulla valutazione, i giudizi e il gusto dei cinefili francesi (e di quelli che li prenderanno a modello in altri paesi). Questa connessione tra la nozione di messa in scena e la valutazione dei film è evidente in un altro celebre brano di Rivette dedicato al film Kapò [Rivette 1961]. Per i giovani critici dei «Cahiers» il massimo disprezzo va proprio ai registi che vogliono esprimere un soggetto interessante attraverso uno stile più o meno artistico. Kapò di Gillo Pontecorvo ricade in questa casistica: per Rivette, un’opera dal soggetto serissimo (i campi di concentramento nazisti) e dalla morale oscena. Il principio secondo cui «la morale è una questione di carrellata» (un pilastro del gergo cinefilo attribuibile a Luc Moullet) potrebbe essere interpretato in senso formalista. Rivette corregge il tiro e precisa il senso dell’espressione. Kapò è proprio un film formalista, e ciò non basta a salvar-

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lo. Anzi, il formalismo è uno dei motivi della sua condanna. Poco conta che nei fatti lo stesso Pontecorvo abbia fatto notare che il tipo di movimento di macchina a giustificazione dell’accusa di abominio non sia esattamente come lo descrive Rivette. La morale della politique ha qualcosa di visionario. Rivette nell’ultima inquadratura della sequenza del suicidio di Riva vede una carrellata in avanti (in realtà è laterale) per re-inquadrare il cadavere in contro-piano dal basso, con la preoccupazione di inscrivere esattamente la mano levata in un angolo del piano finale. L’inquadratura è stilizzata nel senso di una crocefissione, ma non più di tanto in un film formalmente anche più complesso, soprattutto nell’uso della disposizione dei corpi in profondità di campo. La preoccupazione figurativa esibita in questa occasione non è affatto superiore a quella che si trova, per esempio, nella prima parte del film. Ma il problema si pone a contatto con la realtà storica dei campi. L’enfasi sulla composizione dell’inquadratura e il movimento in avanti sarebbero esattamente la negazione della messa in scena, la violenza perpetrata ai danni dell’ontologia stessa dell’immagine cinematografica. Cosa non tollera Rivette? Quel carrello e quel modo di concludere l’inquadratura. Cioè, una doppia intenzionalità spettacolare di manipolazione del reale. Non è che non si possa mettere in scena l’orrore. È che non si può farne un problema di individualità stilistica, di intenzione artistica esibita. Il cinema potrebbe registrare i corpi nello spazio dell’orrore, della nuda vita, ma non deve sovrapporre alla messa in scena lo sguardo di un uomo che si manifesta in uno stile. Il luogo dello stile coincide con il luogo del disprezzo critico. La messa in scena, almeno in questo caso, è l’opposto del formalismo. Su questa linea di pensiero e nella volontà di esasperarne i paradossi logici ed estetici si colloca il lavoro di Michel Mourlet: il principale esponente della così detta «scuola del Mac-Mahon». Il nome della corrente viene dalla sala cinematografica omonima già frequentata dai giovani turchi. A lungo i mac-mahoniani sono stati considerati una versione parodica e manierista della politique, il suo versante estremo, più politicamente scorretto (e propriamente fascista). De Baecque, senza negare del tutto questi aspetti, considera gli articoli di Mourlet coerenti agli assunti della politique. Per Mourlet il cinema è un’arte ipnotica e catartica che deve privare lo spettatore di ogni di-

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stanza cosciente. Nella sua prosa la fascinazione assoluta per i corpi umani portati in scena produce, in un tripudio di accenti omoerotici, un elogio del corpo guerriero e virile, della magnificenza dell’espressione, della sublimazione dei gesti, insomma, della bellezza pro-filmica. Gli autori maggiormente amati sono Losey, Lang, Preminger, Walsh, ma anche De Mille e Vittorio Cottafavi. Il disprezzo pressoché assoluto investe il cinema moderno della Nouvelle Vague, alla pari di tutti i registi “intellettuali”. Il gusto per la provocazione può coincidere con il paradosso: Bergman è demodé ancora prima di girare il suo primo film, Fellini gira pellicole grottesche perché ha sposato Giulietta Masina. E così via. Con il n. 111 dei «Cahiers», dedicato a Losey, i mac-mahoniani suscitano l’irritazione degli altri redattori e da quel momento spariscono dalla rivista. Daranno vita, tra il 1961 e il 1966, a un’altra pubblicazione: «Présence du Cinéma». Mourlet fa in tempo a dare un’impronta personale al numero 111 con un articolo in cui afferma che la messa in scena è l’unico segno dell’intelligenza di un autore. Lo stile ne è la negazione. Per Mourlet, che non ama Hitchcock e Welles, Hitchcock ha uno stile. Losey no. Questo è il suo pregio. La stilizzazione di Welles non è che una “provocazione” di fronte alla lealtà loseyana. Un simile ragionamento è condotto a partire da nozioni comuni nella tradizione artistica. La storia dell’estetica ci insegna che il pensiero dell’arte ha codificato delle versioni privilegiate del concetto di bellezza. Tra quelle tradizionali, il critico mac-mahoniano ne adotta in modo programmatico tre incrociandole tra loro: l’idea del bello come ordine, misura, e l’idea della rivendicazione della semplicità e soprattutto della luminosità del bello [Bodei 1995]. Rigore, semplicità, folgorazione. Ogni forma loseyana sembra ottenere questo effetto. Semplicità, esattezza trasparenza dei gesti, esaltazione della vicinanza dei corpi (della carne, dei nervi, delle pulsazioni del sangue) si contrappongono alla distorsione dell’intelletto, alla relativizzazione della visione soggettiva (idea del bello come elemento ineffabile, indefinito). Avere una visione compiuta e personale del mondo è un atto disdicevole. Non esiste un universo loseyano. Losey non propone un mondo, non registra la presenza sullo schermo di un mondo possibile, ma del mondo reale: illuminazione dell’evidenza [Mourlet 1987].

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2.3 La critica moderna tra novità e tradizione Per necessità di sintesi proviamo a individuare i nodi problematici intorno ai quali collocare il lascito storico della cinefilia critica e della politique des auteurs. Ci sono tre ordini di contraddizioni produttive che hanno influenzato i critici delle generazioni successive e che si sono riprodotte all’interno delle varie comunità critiche nel corso della storia. Modernità/tradizione Quando la politique rifiuta la distinzione forma/contenuto in nome della messa in scena, rivaluta la serie b o considera Hitchcock un genio perché in lui riconosce proprio ciò che la critica precedente gli ha negato (realismo, soggetto, contenuti), compie un capovolgimento delle regole consolidate dalla tradizione critica. Ma si tratta di un rinnovamento integrale? Quanto è accettato e quanto è rifiutato della tradizione culturale? Su un piano generale la politica dei giovani turchi si presenta come un compromesso tra innovazione ed elementi familiari. Lo abbiamo detto: la politique applica determinate categorie estetiche su un territorio nuovo: il cinema commerciale, prodotto in serie dall’industria hollywoodiana e un certo cinema della modernità. Il luogo di applicazione è del tutto inedito ma gli strumenti concettuali spesso vengono dal passato, a cominciare dall’idea-cardine della politique, la nozione di autore, la quale deriva proprio dalla teorizzazione del genio creatore proposta dal Romanticismo [Caughie 1981]. I nuovi moralisti promuovono un amore per il cinema in termini di contro-cultura. Eppure partono da gusti piuttosto condivisi nel sistema delle arti consolidate. Come è stato notato, tra gli scrittori più citati dai «Cahiers» anni Cinquanta, oltre a Balzac, sono Gide, Valéry, Cocteau, cioè i continuatori del classicismo francese. Il gusto letterario dei «Cahiers» è tradizionale e anti-moderno. Non vengono affatto amati gli scrittori del Nouveu Roman. E poco citati sono Klossowski, Char, Queneau, Blanchot, Bataille, Genet. Nella pratica critica i fattori di rottura sono numerosi. L’elemento più moderno è probabilmente ciò che Rohmer ha indicato come il passaggio dalla politica dei brani scelti a quella delle

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opere complete [De Baecque 1993, 106]. La critica tradizionale celebra il capolavoro, la perfezione formale, la compostezza, l’equilibrio espressivo, i picchi di una carriera. I «Cahiers» difendono l’integrità delle filmografie dei cineasti amati. Allo stesso tempo dedicano cura alle opere minori (come Alì Babà o La congiura degli innocenti di Hitchcock). L’idea nuova è che si possa essere al contempo geniali e falliti, che sia proprio il sacrificio della perfezione a permettere di leggere un autore come un libro aperto, in quanto il vero autore pratica l’arte del fallimento con disinvoltura. Con altrettanta disinvoltura i giovani turchi tessono l’elogio dell’imperfezione. Ancora Truffaut: «Il film riuscito, secondo il vecchio modello critico, è quello in cui tutti gli elementi partecipano, allo stesso modo, di un tutto che merita allora l’aggettivo di perfetto. Ora la perfezione, la riuscita, io le definisco abiette, indecenti, immorali e oscene» [De Baecque 1993, 105]. Eppure accanto al disprezzo per il culto della bella immagine e per criteri di gusto consolidati c’è anche il progetto di collocare la modernità del cinema all’interno di un processo di continuità, nel solco del percorso secolare delle arti. Gli articoli di Rohmer sono il luogo in cui meglio si vede il processo di negoziazione tra spinte alla celebrazione della modernità e il peso della classicità e della tradizione. Rohmer, soprattutto nella raccolta di scritti intitolata in italiano La celluloide e il marmo, rivisita la gerarchia delle arti in nome del cinema americano [Rohmer 1991]. Registra il passaggio di un patrimonio storico dal proprio paese alle coste della California: «Questa scienza dell’efficacia, questa purezza di linee, questa economia di mezzi, tutte proprietà classiche, che diamine, non furono forse appannaggio di noi francesi?» [De Baecque 1993, 114]. Hollywood diventa la culla dello spirito originario del classicismo francese del XVII secolo e del Rinascimento italiano. Il classicismo è definito la modernità del cinema. Modernità e classicità del cinema coincidono: «Al cinema il classicismo non è alle nostre spalle, ma davanti a noi» [De Baecque 1993, 143]. Rohmer crede all’intrinseca “occidentalità” del cinema. Il cinema è universale ma il luogo di questa universalità non è ovunque. Si tratta di affermare il dogma delle poche nazioni creatrici: Italia, Francia, soprattutto Stati Uniti. Eppure la fede nella modernità e nella “occidentalità” del cinema è costruita attraverso il confronto con la letteratura, le ar-

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ti plastiche e figurative. Un confronto che rinnova (più che contestare) i criteri estetici radicati nella tradizione: inscindibilità di materiale e spirituale, culto del bello naturale (registrazione della cosa in sé), aspirazione alla linearità, alla semplicità, all’onestà espressiva, all’universalità, alla spiritualità. Sapere/credere Non bisogna confondere la cinefilia popolare, basata sul culto dell’attore e delle star, con la “cinefilia critica” dei «Cahiers». La politica degli autori discende dalla cinefilia critica, è un tipo di pratica interpretativa che lega efficacia e ragion d’essere al sapere, vale a dire alla realtà ben documentata, all’evidenza dei fatti. L’amore per il cinema che informa la politique è un amore di conoscenza. Si può ben dire che la politique, pur essendo fieramente anti-accademica, prende dall’università criteri di apprendimento e standard di erudizione. E condivide il desiderio di portare l’analisi del film a un grado di precisione di linguaggio che, in altro campo e con altri mezzi, era stato espresso anche dal progetto di fare della filmologia una scienza esatta, obiettivo primario della «Revue International de Philmologie». Quando Truffaut veste i panni del critico della critica, l’attacco all’istituzione rappresentata dai recensori di vecchia generazione è durissimo. In I sette vizi capitali della critica egli elenca una serie di difetti della categoria, tra i quali: mancanza di immaginazione, saccenteria, incapacità di ricostruire le intenzioni degli autori se non quando evidenti, ignoranza della storia e della tecnica del cinema [Truffaut 1988]. Le alternative per reagire al relativismo impressionista della critica più frettolosa sono: l’erudizione esercitata sulla compilazione delle filmografie complete e sulla correzione degli errori fattuali presenti nelle storie del cinema pubblicate (per esempio quella di Sadoul), il feticismo analitico che ripercorre tutti i particolari di una messa in scena. Da questo punto di vista la politica degli autori è legata all’idea fondamentale della critica come espressione del progetto illuminista. La tradizione critica moderna ha per scopo il fare sì che la verità sia indipendente dall’autorità: si giunge alla verità attraverso una procedura analitica che esamina i pro e i contro

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di un enunciato, indipendentemente dall’autorità che domina su quel luogo di enunciazione. Nel nostro caso, qualora ci sia un’autorità, questa dovrà essere l’autorità dell’autore cinematografico che ha dimostrato indubitabili qualità (qualità che sono lì sotto gli occhi di tutti, se si ha la pazienza di cercarle). Ma fatta eccezione per alcuni autori, la critica secondo Truffaut, consiste esattamente nella contestazione dell’autorità che ha dominato fino a quel momento su un settore della cultura (la cultura cinematografica francese post-bellica). Si tratta di dimostrare l’inesistenza di due presunte qualità: la qualità-competenza dei critici francesi tradizionali e la qualità del loro oggetto di venerazione: il cinema francese, appunto, “di qualità”, il quale, non a caso, Truffaut, in un articolo intitolato Una certa tendenza del cinema francese [Truffaut 1988], riduce a un insieme incoerente composto da sfruttamento di tematiche sessuali, pretese di impegno sociale, soggetti resi inconsistenti da sterili tecniche di adattamento letterario. D’altra parte, affianco alla verità come effetto della dimostrazione e del sapere, si colloca un’idea della verità come rivelazione, come atto dogmatico indifferente all’argomentazione logica. A ben vedere non c’è nulla di ragionevole nella pretesa di affermare l’infallibilità di un autore, nell’idea che un autore sia degno a priori di fiducia e amore. Eppure dietro all’affermazione che è sempre meglio il brutto film di una autore al film ben fatto di un mestierante, dietro a enunciati come «Non ho ancora visto Rapporto confidenziale, ma so che è un buon film, perché è di Orson Welles […]» [De Baecque 1993, 101] si nasconde quel volontarismo a fondamento del quale agisce proprio l’idea dell’infallibilità. Bazin se ne era accorto e nel saggio Sulla politica degli autori [Grignaffini 1984] cercava di ragionare con i suoi allievi in termini di «politica delle opere». Secondo Bazin il dogma dell’infallibilità dell’autore porta al culto estetico della personalità: «I Goethe, gli Shakespeare, i Beethoven, i Michelangelo creavano, a fianco di opere belle, delle cose non solo mediocri, ma assolutamente orrende» [De Baecque 1993, 108]. L’autore esiste ma è immerso in una tradizione storica, in un insieme di meccanismi produttivi, in un background espressivo e tecnologico che lo condizionano. L’insieme di fattori contestuali si evolve. Ci sono cineasti che abitano perfettamente a proprio agio l’evoluzione e

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altri che si fanno superare e invecchiano. Il genio quindi è una sorta di congiuntura tra doni personali e il momento storico. Tutti i grandi cineasti fanno film discontinui: «Certo ammiro Mr Arkadin e vi trovo gli stessi doni che in Citizen Kane. Ma Citizen Kane apre una nuova era del cinema americano e Mr Arkadin non è che un film di secondo piano» [Grignaffini 1984, 71]. Ad attirare l’ammirazione di Bazin non è tanto la possibilità del singolo genio infallibile, quanto piuttosto quei contesti, come la tradizione hollywoodiana, che hanno saputo esprimere un “genio collettivo” in grado di preservare l’espressione individuale all’interno di un assetto commerciale. La cosa interessante è che lo stesso Bazin, quando ama veramente il film di un cineasta, ripercorre quasi le stesse dinamiche di amore incondizionato dei suoi allievi. Egli a proposito di Luci della ribalta di Chaplin scrive: «Si ha senza dubbio il diritto di fare delle riserve sui capolavori […] E non dico che queste critiche siano false o sterili, ma osservo che a partire da una certa qualità della creazione artistica e, in ogni caso, davanti all’evidenza del genio, il partito preso contrario è necessariamente più fecondo. Voglio dire che invece di immaginare di estrarre dall’opera i suoi pretesi difetti, è meglio accordare loro il pregiudizio favorevole e trattarli come qualità di cui non abbiamo saputo ancora cogliere il segreto. Attitudine critica assurda, ne convengo, se si dubita del suo oggetto, e che presuppone qualcosa come una sfida. Bisogna “credere” a Limelight per farsene così l’avvocato totale, ma le ragioni per credervi non mancano» [Bazin 1973-1986, 250]. L’opera è quindi un capolavoro e ha elementi che giustificano un atteggiamento di venerazione. Eppure non sono le qualità a orientare l’atteggiamento. Ma l’atteggiamento a favorire l’emersione di certe qualità. La postura del critico si basa su una sorta di promessa, di atto di fede. Non è errato leggere la proposta baziniana su Chaplin nei seguenti termini: c’è solo un atteggiamento che si addice al genio dell’autore. Anche quando qualche dettaglio del film ci sembra mal riuscito (la prima parte della pellicola, le disquisizioni filosofiche di Calvero) dobbiamo dubitare di noi stessi e chiederci cosa ci sia di sbagliato nel nostro rapporto con il film [Žižek 2004]. A fare da autorità indiscutibile possono essere anche delle figure di critici, che magari nel frattempo sono diventati registi rispettati a livello internazionale. La prima generazione dei gio-

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vani turchi aveva saputo contestare la tradizione dalle radici e scegliersi i propri padri. Questi padri si chiamavano Hitchcock, Renoir, Ray, Welles ecc. La generazione successiva vede nelle stesse personalità di Truffaut, Godard, Rivette, delle figure autorevoli a cui credere senza riserve. Il volto più autentico del culto estetico della personalità di seconda generazione si trova nell’episodio del carrello di Kapò, che ha per protagonisti il film di Gillo Pontecorvo, la parola di Rivette e il giovanissimo Serge Daney, cioè colui che diventerà probabilmente il miglior critico cinematografico francese degli anni Settanta e Ottanta, qui però ancora alle prima armi. I fatti sono noti: un giorno Daney apre il n. 120 dei «Cahiers» e legge un articolo di Rivette di cui abbiamo già parlato: Dell’abiezione. Nel pezzo, tra le altre cose, si legge: «Guardate […] in Kapò la scena in cui Riva si uccide, gettandosi sul filo spinato percorso dalla corrente; l’uomo che decide, in quel momento, di fare una carrellata in avanti, per inquadrare il cadavere in contro-piano dall’alto, preoccupandosi di iscrivere esattamente la mano levata in un angolo dell’inquadratura finale, quest’uomo merita il più profondo disprezzo» [De Baecque 1993, 237-238]. È questa una posizione in puro stile «Cahiers» in cui Rivette fa da passaparola di un interdetto che, dall’intrinseca oscenità di un testo, lo attraversa per raggiungere, mediante la scrittura, i suoi lettori (e tra questi, il diciassettenne Daney). Rivette trasmette un dogma. È un’autorità che impone alla prassi critica una fede in base alla quale si afferma di avere visto per interposta persona. E infatti Daney può scrivere: «Non ho mai visto Kapò ma posso ugualmente dire di averlo visto. L’ho visto perché qualcuno – a parole – me l’ha mostrato» [Daney 1995, 23]. Sostituiamo la parola «Kapò» con la parola «Dio» e avremo esattamente il discorso tipico del fedele. Verità/relativismo Una conseguenza della commistione tra elementi di conoscenza e di fede, di sapere e di credere, è che c’è qualcosa di irrazionale nella politique. L’idea stessa di assumere l’autore come parametro pressoché unico di valutazione di un’opera significa teorizzare l’esclusione dall’interpretazione di elementi che ragionevolmente non dovrebbero essere esclusi (fattori storici, di

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valutazione della costruzione del racconto ecc.). Così abbiamo da un lato enunciati basati sulla certezza, l’erudizione, l’arguzia analitica, la dimostrazione, in generale la convinzione che le cose stanno come stanno e che basta un occhio particolarmente attento per accorgersene (discorso essenzialista che invoca pratiche descrittive adeguate). Dall’altro abbiamo una critica basata sul passaparola, l’atto di fede, il rispetto dell’autorità. Mentre la cinefilia critica inaugura una retorica che riesce a trasformare gli stati d’animo in assiomi evidenti e in un nuovo modo di interpretare i film, allo stesso tempo alla base della politica degli autori «possiamo individuare una esplicita tendenza a esibire il carattere convenzionale e arbitrario di attribuzione di valore estetico, legandolo a un sentimento di appartenenza, di gruppo e, allo stesso tempo, a una pratica critica che assumeva i caratteri della custodia di “segreti professionali”» [Costa 1995, 8]. La certezza della verità, proprio nel momento in cui è affermata con maggior forza e dogmatismo, lascia la scena al relativismo, al sospetto di trovarsi di fronte a un delirio organizzato, estremamente ben costruito, ma pur sempre eccentrico (lo stesso Chabrol ha definito proprio un «deliro organizzato» il libro scritto assieme a Rohmer su Hitchcock). Lo spirito settario comunque, dal punto di vista storico, non ha incontrato grandi difficoltà nel conquistare autorità. È bastato che un gruppo ristretto di individui (i giovani turchi) cominciasse a imporre certe abitudini, a socializzare certe forme di visione, a scrivere e argomentare le proprie idee in modo usurpatore e convincente, perché emergesse una nuova idea di cinema. La stabilità del canone è stata intaccata per sempre. Si può quindi dire che la cinefilia critica e la politique partecipano a quel movimento (tipico della modernità) visibile su tutta la scena culturale novecentesca, un movimento che gli estetologi a volte chiamano relativizzazione del bello e che viene spesso associato a una generale erosione della stabilità del concetto stesso di gusto estetico.

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Secondo approfondimento: dal sonoro al canone (neo)realista in Italia

3.1 La critica verso l’istituzionalizzazione Dal punto di vista generale della cultura cinematografica italiana gli anni Trenta sono un periodo di efferverscenza intellettuale. La riflessione critico-teorica costituisce un momento importante della rinascita del cinema nazionale, svolgendo una funzione promozionale e progettuale allo stesso tempo, in quanto coinvolta sia sul piano della pubblicistica sia su quello delle istituzioni. A riguardo bisogna ricordare il ruolo avuto da una rivista come «Cinematografo» di Alessandro Blasetti (1927-1931) che negli anni a cavallo tra il muto e il sonoro ingaggia una campagna per la rinascita della produzione italiana, prestando attenzione anche agli aspetti tecnici ed estetici del cinema (tra i collaboratori, Anton Giulio Bragaglia e Umberto Barbaro). Alle iniziative giornalistiche si accompagnano le iniziative istituzionali: L’Unione del Cinema Educativo (LUCE), il Centro Sperimentale di Cinematografia che ha avuto come antesignana la Scuola Nazionale di Cinema presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (1931-1935), la grande Enciclopedia del Cinema che avrebbe dovuto essere realizzata dall’Istituto Internazionale per la Cinematografia Educativa per l’editore Ulrico Hoepli (l’impresa non giunse a compimento). Il passaggio dal muto al sonoro, a cavallo tra anni Venti e Trenta, porta con sé una nuova contrapposizione di schieramenti, tra chi è favorevole all’innovazione tecnica e chi rimpiange il muto. Sul primo fronte si colloca il lavoro editoriale di Anton Giulio Bragaglia che riesce a fare sopravvivere lo spirito delle avanguardie oltre il loro ciclo di vita e riflette sul passaggio al sonoro e sulle modificazioni che apporta ai legami tra cinema e teatro [Bragaglia 1929].

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Nel corso degli anni Trenta – rimandiamo il problema del rapporto tra critica e fascismo, che richiederebbe una trattazione a parte [Pistagnesi 1976; Zagarrio 1976] – la critica guadagna in definizione istituzionale, i critici acquistano competenze. Grazie ad alcune firme (Mario Soldati, Nicola Chiaromonte, Emilio Cecchi) cominciano a circolare discorsi ben articolati sul cinema americano, il divismo, il rapporto tra cinema e cultura di massa. La critica cinematografica conquista dignità sui quotidiani. Si assiste allo sviluppo della pubblicistica cinematografica sulle riviste culturali, popolari e specializzate («Bianco & Nero», diretta da Chiarini, ottiene ben presto meritata fama). Sono per lo più intellettuali di formazione umanistica a occupare il ruolo di critici cinematografici: Filippo Sacchi al «Corriere della sera» dai primi anni Trenta, Mario Gromo alla «Stampa». Tra gli altri letterati che scrivono più o meno stabilmente di cinema: Giacomo Debenedetti, Alberto Savinio, Alberto Moravia, Guido Piovene, Mario Pannunzio, Corrado Pavolini, Massimo Bontempelli. La partecipazione dei letterati produce una costante della cultura cinematografica italiana: la dipendenza dei modelli teorico-critici dalle categorie estetiche dominanti nel campo letterario. D’altra parte, è proprio dai letterati che provengono, per lo più in forme non sistematiche, proposte e provocazioni innovative o anticipatrici. Degni di nota sono, in questa direzione, «L’Italiano» di Leo Longanesi, una rivista che si occupa frequentemente di cinema (anche con un numero monografico: 17-18, gennaio-febbraio del 1933) e «Prospettive» di Curzio Malaparte, che dedica al cinema il suo secondo numero (1937). Il fronte teorico è vivace. L’imperialismo dell’estetica crociana viene indebolito dai lavori di Bragaglia ed Eugenio Giovannetti [Giovannetti 1930]. Su «Bianco & Nero», prima sotto la direzione di Vezio Orazi e poi di Chiarini, nel corso dei primi anni Quaranta si nota una frattura tra l’ampio spazio dedicato alla riflessione storico-teorica (con i lunghi articoli sulle cinematografie estere, le traduzioni integrali di monografie di Béla Balàzs, o gli scritti di Umberto Barbaro, Francesco Pasinetti, i saggi di teoria del montaggio, i completamenti dell’antologia sull’attore, le inchieste sul rapporto tra intellettuali e cinema) e l’esigua presenza di critiche di singoli film. L’attività culturale/editoriale di Chiarini e Barbaro cerca e ottiene l’avvicinamento ad

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altre tradizioni critiche: l’estetica di Giovanni Gentile, il confronto con le teorie del cinema straniere. Il regime in parte vigila, in parte appare distratto. 3.2 L’esperienza di «Cinema» Con la rivista «Cinema» la critica comincia a presentarsi per ciò che sarà in modo più evidente nel dopoguerra: soprattutto volontà di capire il cinema per modificarlo indicando nuove strade da percorrere. Sotto la direzione prima di Vittorio Mussolini e poi di Gianni Puccini, nei primi anni Quaranta, la pubblicazione ospita giovani firme talvolta destinate al successo anche in campo registico. Qui vanno colti i primi germi della poetica neorealista. Si denuncia la perdita di valori comuni, si promuove un nuovo umanesimo. Viene anticipata la poetica zavattiniana del pedinamento. Gli scritti di Giuseppe De Santis, Mario Alicata, Massimo Mida, Antonio Pietrangeli descrivono e prescrivono un “dover essere” del cinema a venire, secondo indicazioni poetiche che trovano in Ossessione una sorta di manifesto realizzato. «Cinema» è la rivista su cui il lavoro critico sul cinema italiano è andato più a fondo. L’impostazione rispecchia la scissione tra aspetti culturologici e aspetti estetici individuata da Ruggero Eugeni attraverso la riflessione teorica a cavallo tra anni Trenta e Quaranta, negli scritti di Alberto Consiglio, Luigi Chiarini e Umberto Barbaro [Eugeni 2006]. I poli corrispondono a due modi diversi di considerare il cinema: uno in termini di fatto sociale e mediale, di elaborazione/rilancio di gusti, abitudini e comportamenti; l’altro in termini di fatto eminentemente estetico. Nell’ipotesi di Eugeni, a venire meno sarebbe proprio un punto di incontro tra le due concezioni del fatto cinematografico. Sulle pagine di «Cinema» un elemento che sembra colmare il vuoto, o funzionare come soluzione di compromesso tra gli estremi, è il concetto di mestiere. Carlo Lizzani elogia questa nozione, proprio in contrapposizione a un’industria che troppo spesso ha trascurato il problema della competenza professionale e a un’estetica eccessivamente legata a dinamiche astratte [Lizzani 1943]. D’altra parte, sulle valutazioni dei critici pesa il retroterra dell’idealismo filosofico italiano. La vera poesia è pensata come ri-

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gidamente ancorata al concetto di unità delle arti e vincolata alla presenza di una indifferenziata «ispirazione creatrice superiore». Sulle pagine di «Cinema» un discorso di politica culturale (legato al medium, al linguaggio) in virtù del quale si possono difendere i prodotti medi, gli onesti artigiani e mestieranti, è sempre tenuto separato da un livello che riguarda il cinema ancora da fare, un livello di apparizione di una vera arte di cui si intravedono solo brevi epifanie ai margini dell’esistente. Ne consegue che l’avvento della cinematografia italiana più autentica (ecco un aggettivo ricorrente nel linguaggio di «Cinema») sarà necessitato da norme di carattere universale. In altri termini, come principio ultimo non conta solo un’idea di cosa sia il cinema genuinamente realista (procedura specifica relativa alle opzioni espressive e tecnologiche del mezzo-cinema), ma anche l’idea di un’arte realmente autentica (la procedura generica arte nella sua totalità). È questo che si vuole dire quando si afferma: «Il cinema è arte nuova ma non nuova estetica» [Barendson 1943, in Mida, Quaglietti 1980, 239]. Sembra una precisazione secondaria. Non lo è. Perché la distinzione tra un piano governato da generiche leggi universali e un piano empirico legato al contingente dei casi concreti, dal punto di vista dell’attività critica, è produttiva. Più precisamente, consente di compiere almeno tre operazioni caratteristiche dell’approccio di «Cinema» alla cinematografia nazionale. In primo luogo lo iato tra critica concreta e rimando a un’idea vaga e comprensiva di arte permette ai collaboratori di «Cinema» di evitare i toni della propaganda più diretta, pur lasciandone inalterati alcuni presupposti. Si elogia Vecchia Guardia, eppure, al contempo, si tende a inscrivere il problema del ruolo sociale/propagandistico del cinema all’interno di un rapporto tra ragioni dell’arte e ragioni della politica, dove siano ancora una volta le prime a sovra-determinare le seconde, secondo i criteri di un’arte che si vuole realista, eppure autonoma (ecco altri tre termini ricorrenti, spesso legati tra loro: autonomia, universalità, spiritualità). Poiché una vera arte autonoma è un’arte realista, il valore sociale del cinema discende dalla corretta comprensione pratica di tale identità, piuttosto che da esigenze retoriche esteriori e posticce. In genere la legittimità di un cinema propagandistico non è per nulla messa in discussione sulle pagine della rivista. Al limite, di quest’ultimo si offre un modello

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descrittivo più complesso rispetto a quelli offerti da altri (a volte più triviali) discorsi critici. In secondo luogo, la distinzione consente di immaginare una norma estetica vincolante legata a un cinema ancora tutto da fare, un cinema puro per il quale bisogna inventare ed educare un pubblico, senza rinunciare a una critica propriamente di tendenza, cioè a impegnarsi in un esercizio di avanguardia del gusto, un gusto da promuovere affinché da minoritario e marginale conquisti il centro della produzione fino a coincidere con l’autonomia e la riconoscibilità di un nuovo stile unitario. Fare una critica di tendenza significa proprio questo: riconoscere tutti i meriti a registi come Mario Camerini e Alessandro Blasetti evitandone la celebrazione “integrale”, considerandoli autori non “pieni”, che hanno perso la strada; oppure significa insistere su ciò che ancora non c’è e al contempo cercare le tracce del nuovo là dove appare defilato, cioè a dire sia a margine di una tradizione storica con bel altre e più vistose ascendenze (di Cabiria si può dire che è un film «dove i mazzi degli agli e gli stoccafissi appesi si ricordano con più piacere che non le didascalie di D’Annunzio» [Pietrangeli 1942]) sia all’interno della tradizione spettacolare, di propaganda, o di altro orientamento (tracce dell’«autentico nostro spirito» sono trovate da De Santis in Piccolo Mondo antico di Mario Soldati [De Santis 1941a]). Una critica quindi indiziale, che procede per isolamento di frammenti privilegiati e significativi, come in una recensione di Un garibaldino al convento, dove si sottolineano i dettagli, le «brevi situazioni svolgentisi l’una dietro l’altra» [De Santis 1942, 100], oppure come quando vengono selezionate panoramiche, scene, elementi ambientali “tipici” di un nuovo stile italiano in Ettore Fieramosca, Terra di nessuno, Piccolo Hotel, Montevergine. In terzo luogo la distinzione facilita l’orientamento dei giudizi a partire da una contrapposizione vaga, logicamente poco rigorosa, sull’asse interiorità/esteriorità. Interni e ineffabili sono i criteri con cui sarebbe garantita la genuinità del realismo: la sincerità e la spiritualità. Ancora Lizzani: «condizione di questa salvezza è soltanto la sincerità» [Lizzani, 1942, 638]. E la salvezza di cui si parla è la salvezza dal formalismo, dall’elzevirismo cinematografico, idolo polemico di «Cinema» di cui diremo ancora qualcosa tra breve, luogo del falso, della simulazione, dell’apparente realismo, di un realismo esteriore e di fatto caratte-

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rizzato attraverso un linguaggio dell’esteriorità («[…] un vigore contenutistico era più evidente nel piccolo mondo dei Max, assai caldo, che nei Promessi sposi, tutti alimentati dal di fuori, sui margini formali» [Lizzani 1942, 638]). 3.3 Realismo e ambientazione Su «Cinema» il problema del rinnovamento del cinema italiano ruota intorno a un argomento centrale: l’ambientazione. Esistono dei modelli a cui si guarda per realizzare l’idea di una nuova poetica capace di indirizzare la produzione nazionale. Per quanto concerne il problema del modello produttivo, almeno a parole, e per motivi generali che tuttavia non sembrano incompatibili con molte delle idee circolanti su «Cinema», il cinema tedesco coevo [Viazzi 1941]. Per quanto concerne il paesaggio, il cinema francese, che rappresenta un modello proprio in relazione alla caratterizzazione ambientale. Infine, fa da esempio qualche illustre precedente nella cinematografia nazionale. Vecchia guardia, Sole, 1860, sempre elogiati sulla stampa d’epoca, diventano su «Cinema» il segno della “nostra” avanguardia, di un’avanguardia italiana, «che ha fatto meno chiasso» di quella legata alle esperienze degli anni Dieci e Venti: per alcuni critici, il punto di congiunzione con i cenni di una scuola realista che viene fatta risalire a Sperduti nel buio [Mida, Montesanti 1941]. La questione è complessa. Si tratta certamente in primo luogo di enunciare la necessità di una presenza, contro un cinema dell’assenza del paesaggio e della caratterizzazione (nazionale, ambientale ecc.), un cinema sordo alla poesia dell’ambiente, un cinema popolato da cadaveri [Visconti 1941], cioè stereotipi derivati da una tradizione artificiosa, banale e meschina, chiuso sull’orizzonte di ricostruzioni anonime nei teatri di posa. Il paesaggio non parla da solo. Sul paesaggio vanno compiute operazioni specifiche. Entra in gioco un sistema di mosse possibili, dove copre un ruolo essenziale il modello rappresentato dalla letteratura verista e in particolar modo da Verga. Non è difficile riconoscere la formazione letteraria di De Santis, Pietrangeli e Alicata, i quali citano Defoe, Flaubert, Stendhal, Faulkner, Gogol, Kafka, Thackeray, Dickens, Zola, Maupassant. Il cinema, lo dicono a chiare lettere Alicata e De Santis, contro le

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pretese dei cineasti “puri”, è un «insostituibile capitolo nella storia del gusto letterario e artistico del Novecento» [Alicata, De Santis 1941, 216]. E proprio la sua vocazione narrativa lo lega a una tradizione letteraria specifica, che è quella appunto del realismo europeo ottocentesco. Così come Carné, Renoir e Duvivier sanno ritrovare uno stile rileggendo Zola e Maupassant, anche in Italia dovremmo varcare la porta principale della nostra narrativa, il che significa ritornare a Verga inteso come creatore di un paese, di un tempo, di una società, adattissimo per riscattarsi dal gusto borghese. D’altra parte il proposito di portare la macchina da presa fuori, tra le cose del mondo, deve attuarsi mediante un rapporto interno tra le cose stesse e l’uomo: il paesaggio non avrà importanza se non ci sarà l’uomo, e viceversa. A tale co-implicazione De Santis dà il nome di linguaggio dei rapporti, proprio per intendere i legami profondi tra soggetto e mondo che lo circonda, in direzione di una capacità del cinematografo di dare importanza a tutti i particolari ordinari, a ogni segno di presenza dell’uomo, nella sua dimensione intima ma anche corale e di relazione con la natura [De Santis 1941b]. Quindi, due estremi che si richiamano: la caratterizzazione del paesaggio potrà toccare tutti i gradi del particolare e del tipico (nazionale, regionale, provinciale, corale, intimista) ma lo potrà fare proprio perché in questo modo dovrà connettersi a un orizzonte più ampio. A fare da centro d’equilibrio pare comunque rimanere ben salda la figura umana. Così la riflessione sull’istanza realista può slittare dalla centralità della questione dell’ambientazione ad altre, in apparenza più marginali, eppure ugualmente interessanti. Per esempio si trova su «Cinema» una attenta analisi dell’attore, sia in direzione di uno studio del rapporto tra volto, corpo e “respiro” dell’inquadratura sia in direzione di una considerazione delle tipologie attoriali nazionali (Vittorio De Sica, Amedeo Nazzari, Clara Calamai). La rappresentazione del paesaggio non deve solo evitare il rischio della genericità da teatro di posa. Ma anche lo stereotipo, la riconoscibilità più convenzionale, l’eccesso di tipicità e di decorativismo. Qui si innesta la già citata polemica contro il formalismo, l’elzevirismo cinematografico, il calligrafismo. Si tratta a ben vedere della polemica in cui meglio si misura lo scarto tra «Cinema» e le altre riviste di settore (probabilmente più che in

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relazione ad altri argomenti, compreso il troppo generico tema della difesa di una nuova istanza realista del cinema italiano). Se altrove il calligrafismo può apparire come una declinazione di professionalità e alto artigianato, negli scritti di «Cinema» diventa un esempio di confronto erroneo con la tradizione letteraria e al contempo un caso di rapporto controproducente con la tradizione pittorico-figurativa. La severità verso la corrente calligrafica è forte e si sostanzia nell’accusa di distogliere l’attenzione dai veri segni di cambiamento. Veri segni che trovano in Ossessione, già dal suo annuncio, l’incarnazione più rappresentativa. Più di una rivista si mostra ben disposta verso l’opera prima di Visconti. Su «Cinema» viene letta come la realizzazione della poetica verista promossa dalla rivista, come film del quale «in anticipo sulla realizzazione compiuta del tutto, possiamo scorgere la violenta capacità di superare gli schemi e le convenzioni, di scoprire nella natura e nel mondo morale nuovi rapporti e nuovi motivi» [Scagnetti 1942, 451]. Dopo l’uscita nelle sale e le polemiche conseguenti innescate sulla stampa, la pellicola diventa l’occasione di raccolta e rilancio di quattro anni di battaglia delle idee. 3.4 «Cinema» e l’opzione realista: una questione ancora aperta Se è innegabile che vi sono occasioni, come nel caso di Ossessione o della polemica anti-calligrafica, in cui il gusto di «Cinema» si distingue da quello delle altre sotto-comunità critiche dell’epoca, è altrettanto vero che il contributo in termini di esclusività dei contenuti di pensiero espressi da questa testata va oggi ridimensionato. L’idea di un’avanguardia del gusto, di una redazione “di fronda” impegnata a fare passare tra le maglie ideologiche del regime i contenuti puri di un’istanza realista che, assieme alla militanza anti-fascista, costituirebbe il nocciolo esclusivo dell’evoluzione neorealista successiva, rischia di essere fuorviante. O quantomeno attenuabile a fronte di alcune considerazioni. Già a restare entro l’orizzonte della rivista, è praticamente impossibile cogliere con precisione il potenziale d’erosione delle posizioni più avanzate della testata nei confronti della politica fascista. In genere si risponde a questo problema invocando l’esi-

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stenza di una sorta di cifrario, di linguaggio in codice destinato a funzionare per chi avesse disposto degli strumenti per interpretare. Ammesso che sia proprio così, non è mai stato chiarito il livello di diffusione di conoscenza del codice per la decriptazione di questo ipotetico idioletto critico contro-ideologico. Quanti sapevano? Quanti potevano leggere sotto la superficie delle parole? Chi era interessato a farlo? Particolari che sarebbe essenziale chiarire. Soprattutto a fronte di fatti più banali, ma anche più incontestabili. L’editoriale del n. 137 indica una perfetta conciliabilità tra retorica di regime e posizioni critiche della rivista. L’autore del pezzo (che si firma Niméco) elogia i pochi film rispecchianti la vita dei soldati italiani, tra i quali La nave bianca, Luciano Serra pilota, L’assedio dell’Alcazar, poi se la prende con le commediole sentimentali. Tutto l’articolo fa proprio un linguaggio (conquiste spirituali, legami tra uomo e natura, la vita quotidiana), che è quello degli “irregolari” di «Cinema», di cui declina una versione più propagandistica e nazionalista, con ciò stesso indicando quantomeno che quello medesimo linguaggio è politicamente neutro, buono per servire alla dissimulazione più o meno onesta o all’allineamento integrale alla propaganda. Il problema non è quello di riconoscere l’esistenza di differenze e sfumature tra il realismo promosso da «Cinema» e l’esigenza generica di maggiore realismo così come veniva a proporsi nei discorsi più organici all’ideologia fascista. Tali differenze sono visibili (o ricostruibili). Il problema è che la possibilità stessa di queste differenze ci dovrebbe portare a riconsiderare il grado di condivisibilità culturale dell’istanza realista nel dibattito critico sul cinema italiano dei primi anni Quaranta. Come ha mostrato Antonio Costa, richiamandosi agli studi di Maria Corti e Alberto Asor Rosa sul neorealismo letterario e la cultura italiana, è lecito ipotizzare forti continuità tra la cultura fascista e alcuni dei tratti distintivi del corpus critico di «Cinema». Il richiamo alla letteratura di Verga come modello cinematografico può essere riportato a tematiche che, in campo letterario, erano tipiche del movimento giovanile fascista, e che nel nostro caso sarebbero confermate dagli accenti presenti negli articoli sul verismo di De Santis e Alicata, consueti di quel “culto del primitivo” talvolta indicato come uno dei nodi centrali della cultura italiana degli anni Trenta. Analogamente l’anti-intimi-

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smo e l’anti-calligrafismo possono essere letti come «la traduzione cinematografica della battaglia che […] aveva occupato le riviste giovanili […] contro intellettuali di formazione pre-fascista, ermetici, formalisti; tutti coloro, insomma, che, rifiutando per varie ragioni le parole d’ordine di “impegno” e del “realismo” (ovviamente nell’accezione unica possibile), si rifugiavano in altri valori» [Costa 1984, 34]. Se si sposta lo sguardo fuori da «Cinema», si nota che la maggioranza della critica cinematografica dell’epoca è tutt’altro che indulgente verso la produzione media nazionale. Sul versante del rifiuto delle commedie di Bonnard, Mattioli e Malasomma «Cinema» si trova in ottima compagnia. Come pure lo è quando bisogna promuovere il riscatto del paesaggio. Così come non è esclusivo di «Cinema» il rifiuto di una cinematografia anonima, fatta in ambienti chiusi e senza tempo, di storie decadenti da romanzo d’appendice, allo stesso modo la promozione dell’istanza realista attraversa tutta la cultura cinematografica della seconda parte degli anni Trenta e soprattutto dei primi Quaranta, dove spinte verso un maggior generico realismo e coinvolgimento nelle cose della Nazione, cinema di propaganda, apertura dello sguardo sulla realtà politica e sociale (fasciste) si intrecciano di continuo. Infatti può capitare di leggere elogi della parlata schietta della gente comune e di assenza di retorica dell’eroismo in una recensione fascistissima e militarista su Giarabub di Alessandrini [Càllari 1941]. Oppure di incontrare, su un settimanale ad alta tiratura ligio alla propaganda, la richiesta di spingere le macchine da presa un po’ al di fuori degli studi di Cinecittà incontro alle bellezze naturali, «perché la natura è una specie di freno istintivo ad ogni possibile sbandamento verso l’esotico. Perché le bellezze naturali, se ben intese, possono neutralizzare false tendenze cosmopolite» [Ceretti 1940, 5]. Tutto ciò avviene anche perché la promozione di un nuovo sguardo verso la realtà è presente su più piani: nel lancio del cinema documentario di guerra, politico o anche turistico (punti su cui preme la stessa politica di regime); nell’invito a fare un cinema (pure di finzione) addosso agli eventi bellici, se possibile per magnificare le vittorie dell’Asse; ma anche, più capillarmente, in una serie di discorsi marginali e talvolta più ideologicamente neutri, non di meno capaci di contribuire a promuovere una preferenza per il lavoro fedele alla realtà del-

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la macchina da presa rispetto all’elaborazione fantastica dei materiali; discorsi che vanno dalla promozione delle “meraviglie” del micro-cinematografo, agli accenti quasi tecnolatrici per il valore e il coraggio degli operatori delle riprese aeree durante le fasi di guerra ecc. Insomma, l’opzione realista, così determinante nel dibattito sul cinema italiano, è spendibile su più fronti. Non è possibile ridurre la complessità di un simile quadro a contrapposizioni come «Cinema»/cultura cinematografica dominante, o realismo/anonimia d’ambientazione nei teatri di posa. 3.5 Il canone (neo)realista Il dopoguerra rappresenta un periodo di attivismo culturale e battaglia delle idee tra i diversi orientamenti ideologici impegnati nel tentativo di egemonizzare il mondo della cultura. La difesa del cinema italiano appare una priorità culturale. In poco tempo nascono più di trenta riviste di cinema e vengono pubblicate diverse monografie. Non pochi intellettuali sono chiamati a esprimersi su questioni di cinema o a tenere rubriche di critica. Tra questi Elio Vittorini, Italo Calvino, Franco Fortini, Renato Guttuso, Eugenio Montale, Ennio Flaiano, Cesare Musatti, Giacomo Debenedetti, Alberto Moravia, Giuseppe Berto, Corrado Alvaro. La teoria e la critica cinematografica mantengono fede ai propri assunti teorici e di gusto, pur dislocandoli in un orizzonte ideologico-politico invertito di segno. La figura più significativa a riguardo è Chiarini: rinato alle magnifiche sorti e progressive del socialismo, come teorico, dopo il 1945, riordina il proprio pensiero lasciandone inalterate le coordinate di fondo; come critico conferma gusti, diffidenze e interdetti prebellici. I quali sono ben compendiati nel celebre dibattito che lo vede scontrarsi con Guido Aristarco intorno a Senso, il film di Luchino Visconti. Il tema del dibattito è l’eredità del neorealismo negli anni Cinquanta e ha luogo sul n. 55 di «Cinema nuovo» nel marzo del 1955. Per Chiarini idea e realtà si fondono nell’opera neorealista al punto che la forma specifica del cinema e la sua potenza realistica diventano la stessa cosa. La “curiosità” del nuo-

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vo cinema si traduce immediatamente in una poetica dell’oggettività. Di conseguenza gli elementi spettacolari del cinema vengono tollerati a malapena e solo se inseriti nelle legittimità concesse dalla natura della forma realista. Date tali premesse, Chiarini giunge alla conclusione che Senso rappresenta un tradimento della causa neorealista. Pressoché ogni elemento del film viene investito da un’accusa: quella di funzionare contro un realismo autentico che si dovrebbe costruire attraverso un intimo e diretto rapporto tra l’idea e le cose. Il nemico ha un nome: esteriorità. L’esteriorità ha un luogo di apparizione: lo spettacolo. Tutto ciò che lo spettacolo (contrapposto al film) porta con sé – virtuosismo tecnico, composizione formalizzata dell’immagine, efficacia emotiva del soggetto, sensualità dei corpi – congiura contro il principio del realismo come espressione di un’interiorità fatta rappresentazione di una realtà che parla «di per sé sola» [Chiarini 1955]. Aristarco risponde a Chiarini difendendo il film. Senso non configura un tradimento, una regressione rispetto al neorealismo, ma un passaggio, un superamento nella direzione di una poetica compiutamente realista. La notissima tesi del passaggio dal neorealismo al realismo è costruita da Aristarco analizzando soprattutto la struttura narrativa del film. Senso diventa il film della decadenza della borghesia, anzi, per essere più precisi, della borghesia come classe sociale decadente, giunta al termine del proprio ciclo di vita. Nelle parole di Aristarco, Visconti non cade nel bozzetto e nella narrazione episodica (difetti ancora rintracciabili in certi film neorealisti) perché opta sempre per la predominanza della narrazione sulla descrizione recuperando la grande tradizione del romanzo ottocentesco. Chiarini aveva espresso un sospetto nei confronti dei grandi intrecci romanzeschi trasferiti sullo schermo. Aristarco invece riscatta il racconto vedendovi lo strumento che concede al regista la possibilità di definire in modo più preciso la fisionomia dei tipi umani, di rendere più chiaro il rapporto di dipendenza che lega la vita ai fenomeni sociali. Chiarini aveva contestato al film la bella forma, l’immagine ricercata. Aristarco dimostra che il calligrafismo è al servizio di una identificazione dialettica messa in atto per meglio esprimere lo splendore esteriore e decadente del mondo rappresentato [Aristarco 1955].

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Che vi sia una sostanziale continuità tra la teoria del cinema prebellica e quella degli anni Cinquanta è cosa documentabile anche a livello immediato. Dalla seconda metà degli anni Quaranta i pensatori attivi nel campo teorico sono quasi sempre gli stessi del periodo precedente. E tutti lavorano a una revisione/riproposizione del proprio lavoro. Oltre al caso di Chiarini, è quanto avviene con Carlo Ludovico Ragghianti, Umberto Barbaro e Alberto Consiglio. Gli anni Cinquanta sono il periodo dell’onda lunga del crocianesimo, dei «problemi che, anche se affrontati in forme (apparentemente) anti-crociane, e spesso con strumenti forniti dall’ideologia marxista, […] manifestavano, nel loro essere contro, la difficoltà, talvolta l’impossibilità, di andare oltre Croce, di essere post-crociani» [De Gaetano 2005, 39]. All’attività di Chiarini e Barbaro, che dà ancora orientamento alle pubblicazioni di settore, si affianca la lezione di Galvano Della Volpe, filosofo marxista, non certo ortodosso, il quale, con Il verosimile filmico, contribuisce a intaccare le fondamenta della cultura idealista italiana [Della Volpe 1954]. In generale però le referenze filosofiche del dibattito rimangono limitate entro i nomi di Croce, Marx, Gramsci, De Sanctis, e poco dopo Lukács. La prima storia delle teoriche approfondita viene scritta da Aristarco agli inizi degli anni Cinquanta [Aristarco 1951]. Lo scontro politico tra le due grandi sub-culture nazionali di questi anni (quella cattolica legata alla Democrazia Cristiana e quella comunista legata al Partito Comunista Italiano) lascia un segno anche sul terreno della cultura cinematografica. Ben presto l’irrigidimento ideologico si fa tangibile in vari campi della società. La corrente neorealista, dopo i primi successi presso le èlites intellettuali e l’interesse internazionale, si rivela un fenomeno tutt’altro che unitario, ma al contempo diventa un partito preso, una poetica da difendere dai rischi di contaminazione. Nasce il canone realista. La valutazione si stringe intorno a precetti estetici normativi. Il messaggio del film deve corrispondere a certe parole d’ordine, pena l’accusa di tradimento: «L’individualismo, l’analisi psicologica, l’allegoria, la dimensione onirica, non hanno diritto di cittadinanza» [Brunetta 1993, 378]. I tentativi di aprire la lezione del realismo a forme di intrattenimento popolare (come fa, per esempio, Giuseppe De Santis, con Riso Amaro, nel 1949) sono guardati con sospetto quando non con aperta ostilità. Condanne e incomprensioni investono i fe-

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nomeni più interessanti del cinema post-bellico: dai film di Rossellini e Fellini a quelli di Antonioni, Lizzani, Zampa, Pietrangeli, Lattuada. Esemplare a riguardo il percorso di un critico-teorico come Aristarco. Egli è tra gli animatori della nuova serie di «Cinema» (le pubblicazioni riprendono nel 1948) e fonda, nel 1952, «Cinema nuovo» (che dirigerà fino alla morte, avvenuta nel 1996). La passione militante lo porta a seguire la maggior parte dei film italiani a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta. Ben presto però la rivista, per quanto autorevole, si chiude su posizioni puriste, contro ogni traccia di individualismo, di cronaca o di temi esistenziali lontani dalla Grande Storia. Visconti è considerato uno dei pochi registi in grado di perseguire il grande progetto del passaggio dal neorealismo al realismo (intrapreso, come abbiamo visto, con Senso, nel 1954). Altri autori italiani accettati nel pantheon saranno Antonioni e i fratelli Taviani. Non molto altro. Le estromissioni invece investono maestri riconosciuti della cinematografica internazionale: Fritz Lang, John Ford, Orson Welles, Alfred Hitchcock. A favore della lotta al pregiudizio si distinguono in questo periodo dei giovani critici militanti che ben presto occuperanno un ruolo importante nel rinnovo delle leve a fine anni Cinquanta. Tra questi vanno segnalati Renzo Renzi, Tullio Kezich, Callisto Cosulich, Oreste del Buono. Oltre alla ripresa delle pubblicazioni per «Bianco & Nero», nel 1950 nasce «Filmcritica» (attiva ancora oggi). Il direttore, Edoardo Bruno, accoglie una gamma di voci politicamente dissonanti: Pietro Bianchi, Gian Luigi Rondi, Luigi Chiarini, Glauco Viazzi, Carlo Lizzani. Nel 1952, fondata da Fernaldo Di Giammatteo, nasce la «Rassegna del film», una delle poche riviste che tenta di stare al passo con l’evoluzione dell’industria cinematografica nazionale, affrontando senza preconcetti il cinema popolare. Da un certo momento in poi comunque sembra che il lavoro critico proceda «per accumulazione e ripetizione, senza il gusto delle scoperte e il piacere della creatività» [Brunetta 1993, 404]. Si allarga la frattura tra autori e critici da una parte, tra critica specializzata e critica quotidianistica dall’altra. Sui quotidiani, un cambio della guardia delle leve critiche si ha all’inizio degli anni Sessanta. Nuove firme si fanno spazio sulle testate principali. Al «Corriere della sera» Arturo Lanocita re-

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siste fino al 1961, poi viene sostituito da Giovanni Grazzini (un italianista di formazione). Al «Giorno» va Pietro Bianchi. A «La Stampa», già dal 1955, Mario Gromo ha lasciato l’incarico a Leo Pestelli. Ugo Casiraghi scrive su l’«Unità» (edizione milanese). Moravia tiene una rubrica su «L’Espresso», Filippo Sacchi su «Epoca». L’innovazione è comunque solo parziale. Dal punto di vista degli strumenti impiegati, i recensori non contribuiscono alla diffusione di una terminologia tecnica propria di un linguaggio specialistico. Ci si mantiene ancorati a parametri di verosimiglianza e coerenza drammatica modellati sugli standard del senso comune. Malgrado ciò, il ricambio delle maestranze critiche degli anni Sessanta partecipa, almeno marginalmente, a un più ampio percorso di emancipazione dalle tematiche del realismo dominanti nel decennio precedente. La compattezza del fronte realista comincia a sgretolarsi. Sotto gli attacchi portati da un libro come Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa [Asor Rosa 1965], per mediazione dei contribuiti delle nuove avanguardie sessantesche, si assiste a uno spostamento progressivo dell’interesse verso la sperimentazione linguistica, verso una concezione non strettamente oppositiva dei termini del binomio forma/contenuto, verso alcuni fenomeni della letteratura e del cinema popolare. Una spinta desacralizzante nei modi di intendere il rapporto tra cultura alta e cultura bassa è favorita, sempre in inizio di decennio, dalla pubblicazione di Apocalittici e integrati di Umberto Eco [Eco 1964]. Di lì a poco la critica cinematografica si misura con gli strumenti concettuali messi a disposizione dalle nuove scienze, soprattutto semiotica e sociologia. Nell’ambito dei convegni svoltisi presso la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, dal 1965 al 1967, intellettuali come Roland Barthes, Christian Metz, Pier Paolo Pasolini si incontrano nell’interesse comune per la creazione di una coscienza critica sensibile alle pratiche di significazione e all’analisi del testo [Pescatore 2002; Bisoni 2008]. Saranno soprattutto le riviste specializzate a raccogliere queste sollecitazioni nel momento in cui lo scontro politico esploderà nei conflitti del Sessantotto e degli anni seguenti.

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4.1 Sessantotto e dintorni Negli anni della contestazione la critica cinematografica militante anima un dibattito che ha per oggetto il rapporto tra pratica filmica e pratica rivoluzionaria. È il problema del cinema politico. Le posizioni in campo possono essere riportate alle quattro pubblicazioni principali nel periodo [Casetti 1993]. «Cinema nuovo» si erge a difesa del realismo critico e della metodologia marxiana. Il cinema appartiene alla cultura dominante, cioè borghese. Il cinema da promuovere e difendere è quello che sa farsi espressione delle ragioni delle classi subalterne, tenute ai margini della Storia: un cinema con una forte funzione sociale. Di impostazione più radicale e maoista, «Ombre Rosse», diretta da Goffredo Fofi, Paolo Bertetto, Gianni volpi, dà voce al movimento studentesco. Il ruolo del critico è messo in discussione alla pari del ruolo di ogni operatore nel campo della cultura borghese: l’intellettuale deve smettere di concepire se stesso in termini di specializzazione dei saperi e prendere parte alla lotta politica concreta. La critica ha il dovere di intervenire in modo fazioso, arbitrario, a difesa di certe ipotesi di lavoro culturale e contro altre. In altre parole, il critico ha il compito di mettersi al servizio della rivoluzione, depurando il proprio ragionamento della fascinazione per gli intellettualismi eccessivi. Diverso il taglio di «Filmcritica». La rivista si schiera per il primato dell’elemento estetico su quello politico. Gli autori difesi appartengono alle cinematografie emergenti e all’avanguardia: Carmelo Bene, Glauber Rocha, Godard, Truffaut, Polanski, il Free cinema inglese. Ma anche Hawks, Welles e altri classici hollywoodiani. L’idea-base della rivista è che la dimensione

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politica di un film dipende dal suo essere in grado di riflettere sui propri problemi formali andando oltre l’utilizzo di un linguaggio esplicativo, didascalico, autoritario. Il cinema da difendere è quello che riesce a evocare «un senso in più», vale a dire a giocare la carta della ricchezza espressiva e a consentire la libertà delle interpretazioni [Segatori 1996, Tomassetti 1971]. Su posizioni simili ma espresse con forza e linguaggio differenti si colloca «Cinema & Film». La pubblicazione, nata nel 1967, ha vita breve. La coordinazione redazionale è di Adriano Aprà, Stefano Roncoroni, Franco Ferrini, Enzo Ungari, Maurizio Ponzi. Le idee di «Cinema & Film» sono ispirate ai «Cahiers» degli anni Cinquanta e vengono filtrate attraverso l’interesse per l’analisi del testo caratteristico del periodo. La rivista è ricca di letture dettagliate di film, di analisi che tentano di inscrivere il problema dell’ideologia e del valore politico di singole pellicole sul piano della significazione del linguaggio cinematografico. L’enfasi va sul linguaggio che, se correttamente dominato, consente di esprimersi fuori dalla rappresentazione dominante. Le correnti e gli autori più difesi sono vari: Dreyer, Hitchcock, ma anche Bertolucci, Straub, l’underground. In Francia, il nesso cinema/politica prende la forma di una riflessione preliminare sul rapporto tra dispositivo cinematografico, tecnica e ideologia. Sotto l’influenza del marxismo (di un marxismo particolare: quello riletto da Luis Althusser) e, in seguito, della psicanalisi lacaniana, si sviluppa una critica all’ideologia della rappresentazione. Nel 1969, su «Cinéthique» (rivista di estrema sinistra, influenzata teoricamente da «Tel Quel», la bibbia del radicalismo teorico letterario francese) ci si interroga sul ruolo della macchina da presa. Il punto è che, prima ancora di definire il grado di militanza sulla base di questioni espressive o di contenuto, bisogna chiedersi cosa sia il mezzo usato. La macchina da presa, prima ancora di diffondere qualsiasi cosa, diffonde ideologia borghese. Essa non riproduce il mondo così com’è, ma il mondo filtrato attraverso un codice rappresentativo storicamente determinato. La camera riproduce i meccanismi della prospettiva rinascimentale e con ciò è la codificazione stessa dello sguardo borghese. Il cinema è in quanto tale schierato ideologicamente sul versante del rilancio/perfezionamento della rappresentazione codificata dalla tradizione borghese/capitalista. Il cinema tradizionale riproduce

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le ideologie esistenti a livello di contenuto. Ma contemporaneamente promuove un’ideologia propria, cioè l’impressione di realtà. Ciò che bisogna fare è promuovere un tipo di cinema in grado di interrompere l’illusione di naturalezza e trasparenza della rappresentazione del cinema classico. Diventa necessario spezzare l’impressione di realtà cara allo spettacolo borghese mediante un cinema materialista, dialettico, capace di portare in scena i meccanismi produttivi e concreti del fare cinema (come avviene in certi film di Godard, dove si vedono inquadrati gli assegni necessari a pagare le maestranze del film stesso che si sta guardando, o dove gli attori si rivolgono alla macchina da presa dicendo «siamo attori di un film di J. L. Godard»). I «Cahiers» rifiutano la netta dicotomia tra l’essere fuori e l’essere dentro al sistema di rappresentazione dominante. Da un lato ci sono film di rottura che interrompono l’illusionismo classico. Dall’altro ci sono film ciecamente fedeli all’ideologia dominante. Ma in mezzo si collocano molti film che lavorano a decostruzioni parziali dell’ideologia dominante o film, come quelli di Hitchcock, Dreyer, Rossellini, che sembrano interni all’ideologia borghese ma in realtà ne sanno individuare i punti di rottura, contraddizione o eccesso. Come si può notare il problema dell’ideologia è posto in modo diverso in Francia e in Italia. Lasciamo questa contrapposizione teorica sullo sfondo. Ciò che qui interessa è la ricaduta della differenza sul piano della critica, del giudizio, della promozione culturale. Diversità che è osservabile su un doppio fronte. In primo luogo la visione del cinema politico in Francia è legata in modo molto stretto al dibattito teorico nazionale. L’applicazione conseguente di quanto viene teorizzato porta come risultato che, per esempio, tra Crepa padrone: tutto va bene di Godard (1972) e Coup pour coup di Marin Karmitz (1972) si dichiara a chiare lettere che l’unico autentico film politico è il primo. In Italia su «Ombre rosse» si può leggere esattamente il giudizio contrario: Karmitz il vero rivoluzionario, Godard l’autore involuto, incomprensibile, formalista. In secondo luogo, i «Cahiers» da un lato vanno oltre il dogma delle nazione creatrici, attraverso la nozione di terzo cinema aprono al cinema brasiliano, giapponese, canadese e russo. Dall’altro rimangono aggrappati al canone classico pur decostruendolo ideologicamente. È vero che non si tratta di un movimen-

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to unitario. Già prima del Sessantotto la tradizione della rivista è messa sotto assedio: decostruzione delle nozioni di «autore» e «messa in scena», critica frontale a cineasti come Minnelli e Preminger sulla base di raid teorici di tipo interdisciplinare (ancora semiotica e psicanalisi) ad opera di nuovi critici come Lous Comolli e André Labarthe. Il cinema difeso in occasione dei festival (Nouveu Cinéma: Bertolucci, Straub, Rocha) è visibile solo nelle grandi città e spesso con anni di ritardo. I lettori si allontanano dall’elite critica. I film stanno in secondo piano, servono da studi di caso per urgenze teoriche e politiche di ben altra portata. D’altra parte, l’analisti testuale, per quanto influenzata dai seminari di Althusser e nutrita a robuste dosi di linguistica, si esercita spesso su film canonici in senso classico (di Welles, Ford, Sternberg), promuove letture rigorose, scientifiche di Hitchcock (cose che infatti motivano gli attacchi della ben più dottrinaria e gauchista «Cinéthique»). Quando i «Cahiers» definiscono la categoria dei film «che sono parte del sistema di dominio ma che ne lavorano le contraddizioni dall’interno» aprono una spazio di riflessione in grado di recuperare la tradizione del classico in una prospettiva di negoziazione tra spinte alla decostruzione politica e ciò che rimane (e resiste) della cinefilia storica. Questo contributo di mediazione sarà ripreso anche in Italia dalla cinefilia politicizzata degli anni Settanta [Ortoleva 1999]. Ma è anche tra le caratteristiche principali di Serge Daney, uno dei critici di cinema più apprezzati degli anni Settanta e Ottanta. Daney ha fatto parte della seconda generazione di critici che giunge ai «Cahiers» quando i giovani turchi sono già maestri affermati o autori internazionali, e che ha saputo mediare tra le istanze cinefile e le urgenze politiche degli anni Sessanta-Settanta. In Daney, nella sua prosa al contempo disincantata e rigorosa, si coglie l’abilità di fare incontrare/scontrare la lezione di Rivette e Godard con il richiamo a pensatori ad essa estranei come Louis Althusser, Jacques Lacan, Michel Foucault e Jacques Ranciere. Nella sua prosa si mescolano suggestioni teoriche, tentativi di mantenere in vita un’idea di etica della visione, capacità analitica di indagare in tempo reale le differenze tra la classicità del cinema e le sue mutazioni mediali. Ricorda Antoine De Baecque, a proposito di Daney: «non ha mai concepito il cinema come un sistema chiuso, e lo ha aperto incessantemente verso una geo-

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grafia del viaggio o verso i mondi intellettuali che, a volte, possono circondarlo o affiancarlo. Perciò tiene a incontrare Deleuze, Ferro, Legendre o Sibony, permettendo ai «Cahiers» di rinnovare le proprie riserve di idee. Infine comprende abbastanza in fretta, in particolare grazie a Godard, che l’immagine cinematografica non è più sola, che essa ha a che fare con quelle della pubblicità e della televisione» [De Baecque 1993, 353]. Negli anni Ottanta Daney è tra i primi a essere consapevole che non ha più senso chiudersi nell’atteggiamento del cinefilo nostalgico, in rimpianto di una purezza dell’immagine cinematografica persa per sempre. Egli pubblica su «Libération» una serie di riflessioni sulla ri-proposizione, la messa in circolo del patrimonio della storia del cinema attraverso la televisione. Contemporaneamente si accorge che il confronto tra cinema e l’audiovisivo in generale ha ridefinito in modo profondo e inusuale l’archivio complessivo delle immagini in movimento producendo effetti anche sul campo del cinema stesso [Daney 1995; id. 1999]. In Italia il dibattito critico si svolge soprattutto sul fronte del cinema politico, sia attraverso la discussione intorno a film socialmente impegnati talvolta prodotti dalle grandi case di produzione sia attraverso la promozione di ipotesi di cinema militante legate ai collettivi politici. Le cose iniziano a cambiare verso la metà del decennio. Voci sempre meno isolate fanno notare che è ora di cominciare a leggere «Tel Quel» per capire la rappresentazione e Foucault per capire San Michele aveva un gallo [Farassino 1973]. «Bianco & Nero» si trasforma in una pubblicazione monografica che ospita speciali dedicati a questioni come il cinema francese dopo il Sessantotto, il rapporto tra cinema e televisione negli Stati Uniti, Sergio Leone, il film sperimentale. Il fascicolo che raccoglie i numeri 9-12 del 1976 è particolarmente significativo. Intitolato La controversia Visconti, presenta articoli di giovani studiosi che, in polemica con la critica tradizionale, rifiutano la retorica di celebrazione del regista milanese. Visconti diventa l’emblema dell’arretratezza e del provincialismo della cultura cinematografica italiana [Di Giammatteo 1976; Grasso 1976; Menon 1976]. Nel corso del decennio, l’attività dei club-cinema (il Filmstudio a Roma, Il movie club a Torino, lo Spaziouno a Firenze, la Cappella Underground a Trieste ecc.) favorisce la diffusione di un

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gusto cinefilo tutto sommato inedito (o quantomeno rimasto ai margini) che dalle redazioni di «Filmcritica» e «Cinema & Film» filtra in alte riviste o iniziative [Bisoni 2009]. La cinefilia settantesca non rinuncia a uno sguardo politicizzato sul cinema di consumo, ma in certi casi privilegia i toni del discorso sentimentale verso il cinema classico, in altri nega che l’unica strada percorribile coincida con la politica culturale di «Cinema nuovo» o insegue il progetto di una conciliazione tra l’immaginario cinefilo e quello popolare, contribuisce alla diffusione di strumenti d’analisi del testo derivati soprattutto dalla semiotica, dalla critica francese dell’ideologia, dalla teoria dei massmedia. Nell’area della nuova cinefilia si muovono anche critici che dimostreranno capacità di adattamento al sistema dei media italiano, ideando trasmissioni e producendo contenuti che ancora oggi sono considerati parte di un patrimonio essenziale per molti cinefili. Si pensi al lavoro di ri-mediazione della cultura cinematografica fatto da Claudio G. Fava, Oreste De Fornari, Marco Giusti, Enrico Ghezzi. Attraverso i programmi di questi critici e autori televisivi (tra i quali il più noto e duraturo è Fuori Orario), i cinefili delle generazioni successive hanno avuto accesso alla visione televisiva di film di difficile reperibilità, spesso programmati solo da festival internazionali e cineclub cittadini. Tra i critici cinefili che, a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, hanno dato un contributo essenziale allo svecchiamento della critica cinematografica e agli studi storici sul cinema, vanno ricordati Adriano Aprà, Giovanni Buttafava ed Enzo Ungari. Aprà è uno dei primi critici che tra anni Sessanta e Settanta, soprattutto lavorando nella redazione di «Cinema & Film», si impegna nella diffusione di un modello di cinefilia dove interessi estetici e politici si intrecciano. Ha contribuito al rilancio degli studi sul cinema italiano riscoprendo generi popolari esclusi dal canone realista (per esempio, i melodrammi di Raffaello Matarazzo). Già dal 1968-’69 porta avanti varie provocazioni critiche. In quella fine decennio infatti, accanto a un articolo che fa a pezzi senza troppi complimenti Apollon, una fabbrica occupata (Gregoretti, 1968), film legato all’ambiente del movimento studentesco e alla sinistra extra-parlamentare [Aprà 1969], pubblica un elogio del cinema di Jerry Lewis, fino a quel momento oggetto di poche attenzioni. Aprà si chiede: quale è l’attualità di Jerry Lewis nel 1968? Ecco la risposta: Lewis è un regista capa-

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ce di mediare tra la tradizione del racconto hollywoodiano e le spinte decostruttive, moderniste del nuovo cinema. Nei suoi film la tradizione classica è al contempo rispettata e superata. Lewis ama la tradizione da cui proviene, ne riproduce lo splendore tecnico, la perfezione dei particolari artigianali, accumula tipologie di genere, e ne mette a nudo le componenti costitutive. Così, benché Godard e Straub facciano film per gli spettatori futuri e Lewis “solo” per gli spettatori presenti, si può vedere in quest’ultimo un regista che produce forme apparentemente canoniche nel momento stesso in cui le sta dissolvendo, portando Hollywood e ciò che sopravvive delle forme classiche verso un punto di non ritorno [Aprà 1968]. Giovanni Buttafava è stato un critico poliedrico ed erudito. Pur avendo pubblicato relativamente pochi libri completi a proprio nome, il suo ruolo di guida per le generazioni cinefile della seconda parte degli anni Settanta viene da più parti riconosciuto. Buttafava si forma in campo letterario (letteratura russa) e diventa in breve tempo un esperto poliglotta, fine conoscitore del cinema sovietico. Negli anni Settanta e Ottanta, oltre a scrivere su «L’Espresso», è tra gli animatori dell’iniziativa editoriale de «Il patalogo» (assieme a Franco Quadri, con cui aveva già lavorato a «Ubu», rivista semi-underground da cui, più o meno clandestinamente, transitano futuri cinefili e professori universitari). Vi è nella prosa di Buttafava «[…] la volontà […] di rompere con ogni schema: quello delle riviste specializzate, delle pubblicazioni ideologiche, dei centri ufficiali, o comunque di “abitarli” a modo suo. Come a modo suo vi è il diletto fantasmagorico di occuparsi di prodotti “bassi” o “popolari” senza rinunciare – in questa scelta che suona eterodossa – al metodo critico e senza parodiarlo: cioè con destrutturazioni divertite e spigliate, e non con idolatrie malinconiche e grevi» [Pellizzari 2000, 11]. Infine Enzo Ungari è ritenuto una delle personalità più rappresentative della cinefilia degli anni Settanta. Si forma attraverso la cultura dei club-cinema che aveva contribuito ad animare fin dalle origini. Nei suoi scritti (come in quelli di Serge Daney) si trova un misto di consapevolezza teorica, erudizione storica e sincero amore per il cinema [Ungari 1978]. L’insieme di queste qualità lo avrebbe trasformato, se gli fosse stato concesso di vivere abbastanza, in una di quelle autorità estranee a scuole o accademie, a cui, nella redazione di complicate opere

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editoriali collettive, si affidano sempre i pezzi più difficili e impervi, con la certezza della qualità del risultato. Il suo percorso intellettuale è da cinefilo canonico, a partire dall’amore incondizionato per Rossellini. Lo spettro del suo gusto è assai ampio (da Jerry Lewis a Carmelo Bene, passando per Warhol e Bertolucci) e si forma sui maestri del cinema classico, senza trascurare la modernità o la scoperta di autori poco conosciuti (Gitai, Kleifi ecc.). 4.2 Dagli anni Ottanta agli inizi del nuovo millennio Tra anni Settanta e Ottanta i saperi cinematografici proseguono nel lento processo di istituzionalizzazione. Mentre il mondo del cinema entra in crisi in particolar modo dal punto di vista della produzione e del consumo in sala, la cultura cinematografica vive un periodo abbastanza florido che dura fino alla metà degli anni Ottanta. In questo giro d’anni le pubblicazioni cinematografiche aumentano, nascono editori e collane di cinema; la storia del cinema entra nelle università e, in via sperimentale, all’interno di alcuni programmi scolastici. L’interazione tra critica e lavoro universitario porta la riflessione verso il recupero di tradizioni teoriche fino a quel momento minoritarie (per esempio, il pensiero di Bazin, autore già parzialmente tradotto nel 1972) e a riflettere su fenomeni più o meno recenti, in un’ottica nuova: il rapporto tra cinema e televisione, la serialità, l’intertestualità, la citazione, il remake. Nello stesso periodo il luogo in cui si manifestano in modo plateale segni di crisi è la critica quotidianista [Colombo 1998]. Nell’introduzione a un proprio volume di recensioni Giovanni Grazzini scrive: «estendendosi l’area della società dello spettacolo, anziché estendersi le competenze, il cronista ha prevalso sul critico sin quasi a neutralizzarlo. Parallelamente alla sua resa pressoché totale alla cultura del marketing, la grande stampa ha progressivamente ridotto gli spazi concessi al critico, soprattutto se dissidente dalle scelte redazionali […]» [Grazzini 1976, 19]. Il quotidianista viene affiancato da giornalisti di costume, “coloristi” che ne intaccano l’autonomia. Il critico fatica a stare dietro all’incremento dell’offerta culturale tipica degli anni Ottanta e Novanta, lamenta la mancanza di spazi e tempi per la ri-

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flessione, dimostra insofferenza per i festival “troppo pieni”. Inoltre, con il passare degli anni, si ha una riduzione degli spazi critici. Le recensioni si accorciano per lasciare spazio ad altri argomenti: «è ormai evidente che il numero di articoli dedicati alla televisione e lo spazio relativo è pressoché doppio rispetto al cinema» [Brunetta 1993, 120]. Il critico naviga incerto nel paesaggio multimediale, si trova spinto ai margini dalle dinamiche di consumo. Perde di vista la specificità del ruolo e del proprio oggetto di interesse. In questi anni di aperture al racconto, a Hollywood, alla televisione, la cinefilia pura viene affiancata da forme di cine-tele-foto-video-fagia. Anche in Francia qualcuno afferma: «Tutto il lavoro della fine degli anni Settanta consiste […] nel restituire corpo al cinema, attraverso una comprensione della cultura popolare […], della storia (Syberberg), del movimento (Godard, Deleuze), con l’esperienza della paura fisica (De Palma, Cronemberg) o con la curiosità per il corpo dell’altro» [De Baecque 1993, 376]. Quindi la critica opera su un terreno di tensioni contrapposte. Da una parte la volontà di recuperare il piacere della visione, la dimensione spettacolare dell’evento-film, la necessità di “dare corpo” e consistenza al cinema e alla riflessione che si esercita su di esso. Dall’altra, la consapevolezza che l’esercizio critico-teorico si produce su oggetti dal profilo sfuggente, che l’oggetto-film si perde, perde peso e corpo, nel flusso mediatico, all’interno di uno scenario sociale che si è allontanato dalla radicalità politica dei Settanta e fa già da terreno di accoglienza per le teorizzazioni sulla postmodernità. Nel corso degli anni Novanta e nel passaggio alla prima parte del decennio successivo, accanto al persistere del processo di assottigliamento degli spazi di recensione sulla grande stampa e all’assestarsi delle riviste specializzate su dati di vendita esigui, si osservano fenomeni inediti. I due principali sono: il recupero alla coscienza critica della produzione nazionale di genere più sommersa, la prima fase di riorganizzazione della cultura cinematografica mediante i new media e il web. La cinefilia politicizzata degli anni Settanta e Ottanta aveva contribuito a colmare i vuoti della storia del cinema ufficiale indagando i fenomeni di continuità (in termini di maestranze, sceneggiatori, pratiche di contaminazione) tra gli autori riconosciu-

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ti dalla cultura alta e il cinema di genere (melodramma, commedia anni Trenta ecc.) e concentrandosi su fenomeni solo apparentemente marginali (il cinema porno). Malgrado ciò, alcuni generi popolari, come il poliziesco, erano rimasti sostanzialmente inesplorati e guardati con disprezzo, soprattutto sulla base del persistere di un forte pregiudizio ideologico. Ora invece una nuova leva cinefila raccolta intorno a riviste come «Amarcord» e «Nocturno» si dedica a una sistematica considerazione storicocritica dei generi e dei sotto-generi di profondità. Oltre al poliziesco trovano rivalutazione fenomeni come il decamerotico degli anni Settanta, il nazi-porno, il Rape & Revange. In alcuni casi l’operazione riesce. L’indubbia competenza storica, l’erudizione nel compilare schede e filmografie, la presenza di critici capaci di considerare questi fenomeni interpretandoli in modo convincente, sono elementi che hanno permesso una migliore intelligenza di certi settori dell’industria culturale italiana. In altri casi lo spirito collezionistico e sacerdotale, la polemica anti-accademica, il partito preso della marginalità di gusto sono sfociati in una riesumazione archeologica priva di sguardo interpretativo, in un ambiguo (e talvolta molesto) anti-intellettualismo. Per quanto riguarda la prima fase della diffusione della cultura cinematografica on line, il fenomeno che inizialmente pare essere più rilevante è quello dei forum e dei blog di cinema in rete. Con i blog si assiste a una ripresa di forme discorsive in parte accantonate, come per esempio, la polemica, il dibattito tra voci contrastanti, la conversazione. Inoltre sul web si ricrea quell’effetto di comunità, di discorso condiviso e di attivazione di una memoria sociale che era stata una delle caratteristiche della cinefilia storica francese. La cinefilia è sempre stata una formalizzazione di un discorso sentimentale verso il cinema. In rete, soprattutto in una prima fase, prevale proprio questo aspetto: ciò che conta è il racconto dell’esperienza di visione, la sua condivisione comunitaria. L’idea dominante è quella di vivere l’esperienza del cinema senza il filtro dei saperi e della cultura cinematografica, atteggiamento esemplificato dalla frase di Orson Welles rivolta a Peter Bogdanovich, che si trovava a mo’ di epigrafe sulla pagina principale del blog di un giovane cinefilo: «Non esiste la cultura cinematografica, Peter, solo un enorme mucchio di film». Proprio in ciò però sta anche la differenza sostanziale rispetto

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Dagli anni delle lotte politiche alla fine del secolo

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alle generazioni cinefile degli anni Cinquanta e Settanta. I giovani turchi conducevano una battaglia culturale sul terreno dei saperi tradizionali. Era una questione di rivoluzione di gusto e anche di occupazione di luoghi fisici e simbolici: redazioni di giornali, posizioni professionali ecc. Si trattava di sconfiggere una cultura per fare letteralmente spazio a un’altra. I blog di cinema sembrano privi di questa dimensione strategica, polemica e aggressiva. Si collocano ai margini dei saperi più visibili e con essi interagiscono solo marginalmente. Le cose cominciano a cambiare nella seconda parte del primo decennio del nuovo millennio.

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5.1 Una storia inedita Mentre queste parole vengono scritte la critica cinematografica nell’epoca di internet si avvia a essere una creatura adulta. O quanto meno adolescente. È qualcosa di cui in sostanza sta diventando possibile fare una storia. La forma-blog, il numero dei blog e il loro funzionamento sono cambiati notevolmente negli ultimi dieci/quindici anni (dal 1998 al primo decennio del nuovo millennio). In questo capitolo l’attenzione cade sui principali cambiamenti in atto, e sui modi in cui questi cambiamenti vengono pensati, accettati o rifiutati nella cultura contemporanea. Almeno su un fatto sono tutti d’accordo: con l’affermarsi del web un cambiamento c’è stato anche nel mondo della critica cinematografica. L’accordo è minore su come interpretarlo. I difensori della rete insistono sull’effetto quantitativo: il web ha generato un avvicinamento al discorso critico che, indipendentemente dai risultati, è da considerare un fattore positivo. I detrattori invece insistono su altri fattori. Luca Malavasi ha sostenuto, per esempio, che la maggior parte dei portali di cinema italiani (MYmovies, Movieplayer) si ispira a un modello di critica conservatore, interamente costruito sull’emulazione delle formule proprie della critica cartacea, rivolto a uno spettatore ideale ingordo di film quanto sostanzialmente indifferente alla qualità della scrittura e del pensiero. Per quel che riguarda i blog, la situazione non è molto diversa anche se più frastagliata. Malavasi individua tre tipologie di blog di cinema. Nella prima il blogger segue un modello diaristico in cui la visione filmica aderisce completamente all’esperienza di vita, «la critica assume dunque la forma di un’opinione personale e/o di un consiglio, in bilico tra impressione fotografica e chiacchiera in libertà» [Malavasi 2012, 47].

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Nella seconda tipologia il blogger si propone di “fare critica” contro la critica ufficiale e le sue consuetudini intellettuali. In questo modello il critico tradizionale è pensato come un soggetto troppo professionale e distaccato per rendere conto della “vera” esperienza filmica, che in genere il blogger descrive come un insieme di passioni molto forti e coinvolgenti. Nella terza tipologia il blogger non si pone contro la critica professionale ma usa il blog per offrirne una sorta di prolungamento on line (è il modello proprio di tutti quei critici “professionisti” che tengono anche una pagina on line dove “rimediano” i propri contenuti). Detto ciò, lo stesso Malavasi ammette che in rete si trovano anche esempi alternativi di sguardo critico, attenti magari a rilanciare il progetto di un’autorialità adeguata ai tempi o l’attenzione a quel che l’industria culturale mainstream ha trascurato. Insomma, oggi nessuno è disposto a negare che «il mondo della critica e quello della cinefilia sono radicalmente cambiati nel corso degli ultimi anni» [Menarini 2012, 9]. Lo stesso può dirsi del cinema e della cultura cinematografica nelle loro totalità. Sono queste due totalità e i loro incroci a costituire lo sfondo migliore per studiare l’evoluzione recente della critica cinematografica. Ci soffermeremo soprattutto sui problemi interni al mondo della critica. Però resta fondamentale ricordare brevemente che la critica e la nuova cinefilia sono condizionate in modo profondo dall’impatto delle nuove tecnologie sul patrimonio filmico. Al punto che è stato possibile definire le fasi della cinefilia degli ultimi vent’anni cadenzandole sulle tappe dello sviluppo tecnologico: dal VHS al film senza supporto fruibile in rete, passando per dvd e blu-ray [Pezzotta 2012]. Affrontiamo i quattro principali nodi di cambiamento che il web ha introdotto nel mondo della critica cinematografica. 5.2 La commistione delle tipologie di discorso La proliferazione dei blog e dei centri di diffusione di discorsi sul cinema di vario genere (siti per specialisti, rubriche on line, forum su piattaforme dedicate ecc.) evidenzia il fatto che ci troviamo di fronte a una nebulosa discorsiva estesa e complessa. Le tipologie discorsive di base rimangono le stesse: saggio di varie

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lunghezze, interviste, e soprattutto recensioni in tutti i loro possibili sotto-format (brevissime, brevi, medie, lunghe). Tuttavia si piegano a usi più disinvolti che ne scardinano talvolta le regole costitutive. Il campo della forma-recensione è il più adeguato per spiegare il fenomeno. Come diremo più avanti, la recensione è la forma di discorso critico più regolata da codici retorici. Cioè più regolata da vincoli di inventio e soprattutto di dispositio ed elocutio (si vedano i punti 7.2 e 8.3). On line si assiste a una proliferazione di recensioni, proprio come avviene sulle riviste specializzate non accademiche. On line però la recensione è sempre più liberata da vincoli retorici (la posizione variabile della trama e del giudizio nel pezzo, le tipologie di cappello introduttivo ecc.). Questa libertà è osservabile anche sul piano dei registri discorsivi, con un netto predominare del registro informale caratterizzato da marcatori di colloquialità e scelte lessicali bassomimetiche. Il mix degli elementi che ho ricordato può dare vita a vari esempi. Eccone due: Parlami d’amore, ovvero l’Into the Wild italiano. Non sembra pure a voi che questi due si assomiglino un po’? Ma sì! Infatti anche i rispettivi film hanno parecchi punti in comune, che rendono l’opus primum mucciniano una specie di Into the Wild della Controriforma. Svolgimenti diversi, ma assi narrativi spesso paralleli. Non ci credete? Leggete la breve comparazione, poi ne riparliamo. 1a) La cosa più toccante, per chi scrive, di Into the Wild è il tentativo di Christopher (Emil Hirsch) di rifarsi una famiglia, di ricostruire ricorrendo a figure parentali sostitutive (i due hippie, l’ex militare vedovo) radici, identità e provenienza che possa sentire davvero sue. 1b) L’unica cosa interessante di Parlami d’amore è il tentativo di Sasha (Silvio Muccino) di rifarsi una famiglia, di ricostruire un complesso di Edipo dopo essere stato progressivamente abbandonato dalle persone care. 2a) Christopher fugge dalla upper class nichilista e decadente (la famiglia) e si ritrova nella comunità hippie. Lascia la città per la campagna. 2b) Sasha fugge dalla comunità hippie (gli ex tossici di Borgo Fiorito) e si ritrova nella upper class nichilista e decadente. Lascia la campagna per la città.

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3a) Christopher ha un incontro decisivo con una donna più anziana (Jan) che lo educa alla nuova vita. 3b) Sasha ha un incontro decisivo con una donna più anziana (Nicole) che lo educa alla nuova vita. 4a) Jan sconta il trauma di una perdita (il figlio) che tende a riparare con la presenza di Christopher. 4b) Nicole sconta il trauma di una perdita (il fidanzato) che tende a riparare con la presenza di Sasha. 5a) Christopher incontra una ragazza bellissima con la passione per la musica. 5b) Sasha incontra una ragazza bellissima con la passione per la musica. 6a) Christopher rifiuta di unirsi carnalmente con la ragazza bellissima di cui sopra. Lei piange. 6b) Sasha si unisce carnalmente in modo compulsivo con la ragazza bellissima di cui sopra, ma poi la rifiuta. Lei piange. 7a) Christopher incontra una specie di fratello maggiore delinquente (Vince Vaughn) che, prima di sparire (viene arrestato), lo incoraggia a seguire il suo istinto: quello per il viaggio. 7b) Sasha incontra una specie di fratello maggiore delinquente (Max Mazzotta) che, prima di sparire (si uccide in crisi di astinenza), lo incoraggia a seguire il suo istinto: quello per il poker alla texana. 8a) Christopher incontra qualcuno che lo riempie di botte. 8b) Sasha incontra qualcuno che lo riempie di botte. 9a) Into the Wild è un romanzo di formazione che si risolve in un fallimento, perché il protagonista cerca la solitudine e l’autenticità, ma arriva fatalmente a qualcosa di diverso che non cercava, l’autodistruzione. 9b) Parlami d’amore è un romanzo di formazione che si risolve in un fallimento, perché (ecco la Controriforma) il protagonista capisce che «non esiste una donna che non possa essere conquistata», ma a quel punto decide di conquistare sua mamma. 10a) Into the Wild è un film indubbiamente cinefilo, che rimanda continuamente alla New Hollywood (Malick, Rafelson, Peckinpah…). Ma questo forse è il suo lato meno interessante. 10b) Parlami d’amore è la pietra tombale di certa cinefilia nostrana (ci vogliamo mettere in fila?). Quella per intenderci che mescola Eyes Wide Shut, Il portiere di notte, C’era una volta in America, L’Atalante, Roma a mano armata per

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creare uno strano intruglio di etica noir (potrei vincere ma preferisco perdere), eccentricità visiva (che belle le luci colorate), sceneggiatura composta col t9. Cose che ci sono nel nuovo film di Soldini, che per fortuna qualcuno ha finanziato perché non vorremo mica impedire all’arte di esprimersi, scritto da Guia Soncini il 16 ottobre 2012, alle ore 14:27 (28 commenti) – Una che dipinge malissimo e fa opere concettuali urende e però noi dobbiamo empatizzare perché è artista, come dimostra la salopette perfettamente istoriata di colori mentre la maglietta è intonsa. – Mastandrea con un sopracciglio bianco perché i poveri non possono permettersi la tintura. – Un tredicenne che invece di farsi le pippe tenta di praticare la zoofilia con una cicogna renitente. – Il punto di vista della statua di Garibaldi: sostanzialmente, che gli italiani non siano all’altezza. – Il punto di vista della statua di Leonardo: pure. – Un soggettista che ha detto «Ho un’ideona: facciamo parlare le statue di Garibaldi e Leonardo!» – e nessuno gli ha sputato. – La soggettiva della cicogna. – Un affitto pagato in ritardo e un lavoro non pagato sceneggiati da gente che, beata lei, non ha un’idea neanche vaga delle due situazioni (ma a quest’ora starà certamente stigmatizzando il precariato in conferenza stampa). – Una corsa in bici nella metropoli trafficata, delle nuvole all’alba e altri effetti visivi fatti col fotosciòp gratuito in prova che gira su un Commodore 64. – Una baita svizzera: la riconosci perché fuori c’è la bandiera bianca e rossa, che tutte le baite svizzere piantano sulla soglia casomai qualcuno non sapesse dove si trova. – La Gerini fantasma in bikini che a un’ora e un quarto di film diventa improvvisamente genovese. – Battiston che studia le lingue e non sa come si dica «dove» in tedesco. – Gente genericamente corrotta, la riconosci perché dice le uniche cose di buonsenso, invece d’essere poetica e tentare d’ingropparsi cicogne o artiste con la fasciatura del naso rotto dipinta con le tempere. – Poveri che hanno la sveglia col display rosso. – Poveri che mettono i fiori a centrotavola per cena.

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– Poveri che rifiutano le offerte di altri poveri che portano capretti in dono per scusarsi che il loro figlio abbia messo sull’internet il video in cui la figlia dei poveri buoni faceva una pompa al figlio di questi poveri fuoriusciti da La ragazza con la pistola. – Poveri che sono poveri. – Adolescenti che parlano con accenti a caso diversi da quelli della madre, del padre, del fratello e della città in cui vivono. – Adolescenti dei quali comunque non si capiscono la metà dei dialoghi, come pure degli adulti, ché la presa diretta è arte, mica scienza, e a vedere le commedie mica ci si va per le battute. – Collant bianchi a significare intellettuale. – Accessori animalier a significare corruzione. – Favino che doppia una statua, e qualcuno, santiddio, lo salvi da se stesso e dalla sua incapacità di dire «no» ai copioni, non possiamo cambiargli numero di telefono? È per il suo bene1.

In entrambi i casi abbiamo quasi tutte le componenti richiamate: disarticolazione della dispositio tradizionale, riarticolazione del format intorno a modelli nuovi (l’elenco, la lista, il confronto a due unità), uso di un linguaggio colloquiale che si richiama alla forma diaristica (non a caso il diary nelle statistiche quantitative sui blog è di gran lunga la tipologia di topic più comune e frequente [Malavasi 2012]). 5.3 La ridefinizione della nozione di gusto Fino a qualche anno fa la critica delle riviste specializzate si opponeva alla critica impressionistica, che veniva appunto definita «critica di gusto». Il giudizio e la valutazione erano considerate attività compromesse con gli aspetti più aleatori del lavoro intellettuale. 1 I due articoli sono stati consultati on line l’ultima volta il 30/11/2012 rispettivamente ai seguenti indirizzi: http://secondavisione.wordpress.com/ 2008/02/22/post-643/; http://www.guiasoncini.com/2012/10/16/cose-che-cisono-nel-nuovo-film-di-soldini-che-per-fortuna-qualcuno-ha-finanziatoperche-non-vorremo-mica-impedire-allarte-di-esprimersi/.

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Oggi è sempre più difficile ragionare in questi termini. Nella società delle reti il posto un tempo occupato dalle agenzie come la critica e le istituzioni scolastiche è stato parzialmente preso dai nuovi taste maker e la stessa teoria del gusto si trova ad affrontare problemi inediti. La sociologia vicina alla lezione di Pierre Bourdieu ha corroborato e aggiornato il modello di analisi della formazione e della trasmissione del gusto in base a quale le pratiche di consumo e apprezzamento culturale sono formate e determinate da network sociali preesistenti [Bourdieu 1983]. Al processo, assai noto, che va dai network relazionali ai gusti oggi se ne affianca un altro in direzione inversa: dai gusti alle reti di relazioni. Vale a dire, sul web i differenti stili di consumo e apprezzamento culturale influenzano e/o generano reti sociali [Lizardo 2006; Sullivan, Gerro 2007]. Il gusto si converte all’istante in forme di socialità e di relazione tra individui, come testimoniato anche dai recenti studi sulle liste di preferenze e attività sui social network [Liu 2008]. On line le reti di interrelazione personale sono più fluide e aperte. Il consumo culturale non solo favorisce i network esistenti ma aiuta a crearne di nuovi, offrendo basi conversazionali per interagire tra soggetti con interessi simili. Il gusto diventa sempre più un meccanismo di identificazione rituale e un modo per costruire reti fiduciarie, secondo la logica di funzionamento del capitale subculturale, delle nicchie formate da piccole comunità ognuna guidata da un set distintivo di stili di vita, comunità in cui sono i gusti a costruire il principale elemento di socialità/sociabilità. Viviamo in una società del giudizio generalizzato, dove i fattori di gusto funzionano come dispositivi di selezione nell’immensità di opzioni culturali che hanno invaso le nostre vite. La critica cinematografica comincia a tenerne conto e torna a misurarsi senza pregiudizi con il potere dei gusti. Il fatto è testimoniato anche dal numero di critici che si impegnano a garantire un’affermazione costante della propria expertise on line e un consolidamento del ruolo di taste maker trasversalmente al sistema dei media, scrivendo sui giornali cartacei ma tenendo anche rubriche sui siti, dibattendo di cinema sui social network (per esempio, attraverso mini-recensioni su Twitter).

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5.4 La ridefinizione dell’expertise Un altro modo per rivedere i rapporti tra esercizio critico e sociologia del gusto è ragionare sui nuovi profili dell’expertise, cioè sul ruolo dell’esperto nella cultura contemporanea. A prima vista la metafora migliore per descrivere le modalità odierne di diffusione culturale è quella del contagio, del fenomeno virale, dell’epidemia (qualcosa che, tra l’altro, ha uno spazio nel nostro immaginario, anche cinematografico). Basta guardare le classifiche settimanali dei video più cliccati su Youtube per trovarsi di fronte a una miriade di video-successi effimeri e incontrollabili: unità culturali che, interessate ciecamente solo alla replica infinita di se stesse, si diffondono attraverso ciò di cui dispongono, il vettore di contagio per eccellenza della contemporaneità: la rete. Le istituzioni tradizionalmente incaricate di dispensare consigli e divieti (come la critica) perdono potere. Tuttavia ci sono pratiche che permettono il formarsi di sottocomunità, che fanno da zona di aggregazione di idee, giudizi, abitudini ed esperienze. Continuano a esistere operatori che facilitano la diffusione massiccia di certe unità culturali a discapito di altre. Nella teoria delle reti si chiamano connettori (hub) [Barabási 2004], l’evoluzione web di ciò che la sociologia empirica dei media tradizionale aveva studiato sotto l’etichetta di leader di opinione di tipo locale [Merton 1949]. Questo è il punto in cui si vede meglio il rapporto che lega la figura del critico (cinematografico ma non solo) al tema del tramonto dell’expertise così comune negli internet studies. I più entusiasti celebrano la diffusione della cultura cinematografica sul web nei termini di una sconfitta dell’elitarismo critico tradizionale a vantaggio dell’esplosione della forma-recensione on line su blog, siti, social network. Come dire: «i nuovi taste makers siamo noi». In realtà le cose sono un po’ più complesse. Infatti anche i difensori delle nuove tecnologie hanno notato come le culture di fandom riproducano spesso la struttura verticistica, elitaria, tradizionale di organizzazione dei saperi. Per esempio, quando Henry Jenkins studia un gruppo di spettatori che on line fa spoiling della trasmissione televisiva Survivor (lo spoiling consiste nello svelare in anticipo come si concludono determinati programmi o film) incontra intelli-

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genza collettiva e modelli di partecipazione ludica alternativa all’expertise tradizionale. Ma anche altro: brain trusts che si svolgono “a porte chiuse”, vincolo sulla libera circolazione delle informazioni, segreti svelati in modalità top-down. La comunità di spoiler di Survivor funziona quando mantiene vivo lo scontro tra expert paradigm (soggetti che gestiscono informazioni riservate e ricavate da fonti protette) e scoperte artigianali (letture frame by frame ecc.). Ed è un interessante oggetto di studio non tanto come sito di contestazione/superamento dei saperi tradizionali, quanto come occasione in cui è permesso a chi non ha accesso a certe istituzioni di riprodurne le dinamiche altrove (fare la parte dell’esperto, giocare il ruolo dell’autorità indiscutibile, provare l’esperienza dell’autorevolezza intellettuale ecc.): una specie di riappropriazione pop del paradigma dell’esperto [Jenkins 2007]. Fenomeni simili sono comuni alla cultura cinematografica on line. Nella quale si contendono il campo due principali modelli di influenza culturale, entrambi chiariti dal funzionamento di un sito come Amazon. Da un lato troviamo il fenomeno delle guide d’acquisto personalizzate on line. Ogni volta che si compera un libro o un film, il sito è in grado di elaborare un parametro di similarità tra unità di consumo e indicare un altro set di item culturali “limitrofi” che potrebbero ugualmente interessare l’acquirente e che hanno interessato altri consumatori simili a lui. Qui l’expertise tradizionale è superata da un sistema automatico di registrazione ed elaborazione di metadati (item-to-item collaborative filtering) capace di creare un simulacro di comunità di consumatori. Su questo piano gli algoritmi di raccomandazione tipici dei siti di e-commerce rubano il lavoro al recensore e lo fanno senza neanche prendersi la briga di pensare. D’altra parte troviamo la sopravvivenza di forme di expertise [Verboord 2010]. Amazon e siti come MYmovies hanno una sezione dove viene raccolta una rassegna stampa. Nuovi recensori si affacciano sempre sulla scena (negli spazi dedicati ai consumatori-recensori, o in spazi analoghi di approfondimento dove prendono la parola esperti il cui capitale culturale si è consolidato altrove). L’expertise tradizionale è continuamente rimediata attraverso siti, blog, pagine personali, riviste on line; funziona come un sistema senz’altro meno affidabile e chiuso di un

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tempo, ma anche molto più “testabile”. La testabilità va sottolineata con forza: il parere dell’esperto è sempre più contro-monitorabile, sottoponibile a sanzione. Si prenda Metacritic. Il sito rende consultabili decine e decine di recensioni di prodotti afferenti a quattro capitoli di intrattenimento (movies, games, tv music). Di ogni film viene fornito un metascore in centesimi, costituito dalla media delle recensioni distribuite su tre gradi di giudizio (positive, mixed, negative). La qualità puntuale delle singole recensioni è a portata di mano. Basta cliccare su «read full review». Il dato più interessante rimane il metascore: attraverso una versione sofisticata della valutazione «palline e stellette» con un colpo d’occhio ci si può fare un’idea dell’accoglienza nord-americana della maggior parte dei prodotti dell’industria culturale mainstream. Criteri analoghi regolano la sezione degli articoli degli utenti (Users Reviews). Come è facile notare frequentando anche la sezione delle recensioni degli utenti di Amazon, l’algoritmo del sito rielabora la valutazione che i singoli lettori danno del valutatore stesso. Ogni critico ha un punteggio di gradimento che lo spinge più o meno in alto nella classifica dei recensori più affidabili. Gli scettici avrebbero gioco facile a notare che i criteri indicativi della presunta qualità/affidabilità di un recensore sono diversi dai valori fissati nella tradizione umanistica. In sintesi essere un buon recensore su Amazon significa soddisfare quasi gli stessi parametri individuati da Chuck Tryon a proposito dei blogger più influenti: alta connessione (alto quantitativo di recensioni postate), aggiornamento continuo, coinvolgimento in una rete di altri pareri/utenti, grado di “utilità” immediata [Tryon 2009]. Non bisogna però sottovalutare un fatto nuovo: la proliferazione di metadati su Metacritic consente di analizzare lo score complessivo di ogni recensore professionista, leggendo tutte le recensioni di un singolo critico e il suo grado di “bontà” o “cattiveria” verso il cinema in generale in relazione alla media di tutti gli altri recensori e in base a tre gradazioni di giudizio (higher than the average critic/same as the average critic/lower than the average critic). Il sistema di valutazione incrociato tra film, prodotti culturali, lettori e recensori professionali testimonia in modo eloquente quanto la nostra contemporaneità – così infestata da elenchi, classifiche, liste di gradimenti e disgusti – sia uno spazio culturale in cui è tutt’altro che superfluo confrontarsi a

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fondo con la funzione orientativa al consumo. Una funzione che tra l’altro orienta non più solo a scegliere tra i prodotti culturali ma anche tra le recensioni dei medesimi, tra i critici che tentano di commentarli, discreditarli o legittimarli. 5.5 La de-istituzionalizzazione I fenomeni fin qui considerati (proliferazione delle tipologie discorsive, inedita funzione sociale del gusto, nuovi profili dell’expertise, messa in crisi dell’autorità della critica tradizionale) rispondono tutti a una logica profonda di de-istituzionalizzazione della critica cinematografica. Come vedremo nella seconda parte (6.3, 6.4), la critica cinematografica non è mai stata un insieme discorsivo ad alto tasso di istituzionalizzazione. Oggi però questa situazione si è accentuata. Al punto che per i più scettici si può parlare di una vera e propria scomparsa: la critica si sarebbe dissolta nel trionfo dell’opinionismo molecolare e incompetente caratteristico del web. In conclusione è necessario fare una precisazione ed evitare un rischio. La precisazione è la seguente. La de-istituzionalizzazione della critica on line ha portato allo scoperto la natura sostanzialmente amatoriale della produzione critica stessa. Per decenni, a fronte di un ristrettissimo numero di giornalisti e titolari di rubrica pagati per vedere e recensire film, circa l’ottanta per cento del comparto delle riviste cinematografiche è stato mandato avanti dal volontariato culturale. Eppure pochi sarebbero stati disposti a considerare fuori luogo la pretesa di essere pagati per vedere film che si sarebbero visti in ogni caso. La critica sul web ha mandato in crisi le ultime difese che permettevano di considerare seriamente l’attività ricreativa di chi guarda film con piglio professionale e competenza come un lavoro salariato. Ora possiamo dire, più lucidamente: c’è stato un periodo piuttosto breve della storia dell’evoluzione culturale dell’occidente in cui è parsa possibile la distribuzione del privilegio di vivere compilando pareri, interpretazioni giudizi sui prodotti della cultura di massa. Quell’epoca pare in effetti finita. Ciò però non significa che anche la critica sia morta. Essa piuttosto circola nelle forme nuove che abbiamo cercato di individuare.

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Capitolo 5

Il rischio da evitare è il pensiero in termini di logica disgiuntiva: o X o Y. L’ipotesi proposta in questo capitolo è che in certi casi è meglio ragionare in una logica additiva: X e Y. Nei termini del nostro discorso: la rete non manda in crisi la cultura cinematografica ma solo alcune sue cinghie di trasmissione. Non vincola o riduce in modo significativo l’accesso ai saperi tradizionali. Qualsiasi critico specializzato può continuare a fare ciò che ha sempre fatto, senza rinunciare a standard consolidati di qualità ed erudizione. Al contempo, se vuole, può anche collaborare alle piattaforme on line. Scoprirà che i suoi articoli sul web sono letti (o almeno visitati) da un numero di persone irraggiungibile per qualsiasi articolo di rivista specializzata su carta. Alberto Pezzotta ha rimpianto la dolcezza di vivere prima della rivoluzione globalizzata [Pezzotta 2012], quando gruppi di cinefili happy few si ritrovavano ai festival di nicchia per compiacersi di essere in pochi a conoscere e apprezzare i film di Wong Kar-wai. Di contro troviamo la posizione di chi, come Robert Koehler, afferma: «Se […] dovessi scegliere tra l’epoca dei Kael, Sarris e Bazin e la nostra, caratterizzata da migliaia di punti di vista non esiterei un’istante a propendere per quest’ultima. Si tratta di un ambiente molto più avventuroso e creativo, con un accesso al cinema molto più ampio rispetto al passato. Preferisco vivere una temperie in cui esistono critici come Olaf Moller, Francisco Ferreira, Jonathan Rosenbaum, Quintin, Kent Jones, Diego Lerer, Jim Hoberman, Richard Brody e Christoph Huber»2. In verità nessuno ci costringe a scegliere tra le due narrazioni (il racconto nostalgico pre-globalizzazione o l’entusiasmo neo-partecipativo): si può avere Bazin e anche un sito come Senses of Cinema. Si possono avere i festival di nicchia e, allo stesso tempo, esperienze come quelle offerte dalle risorse web (Mubi o Festival Scope). Ripetiamo: la diffusione della cultura cinematografica digitale ha forse tolto il lavoro a qualcuno ma in genere non segue una logica disgiuntiva: si aggiunge e implementa la cultura cinematografica tradizionale. Almeno questa non è una cattiva notizia.

2 Alessandro Stellino, Daniela Persico, Tutto ciò che è solido si dissolve, consultabile all’indirizzo: http://www.filmidee.it/archive/27/article/37/article.aspx.

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Seconda parte Istituzione, metodo, pratica

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Capitolo 6

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6.1 Un termine generico Un articolo di giornale, un tipo di discorso giornalistico, un mestiere, un’istituzione culturale: l’espressione «critica cinematografica» può richiamare ognuno di questi aspetti. Il termine è generico e va precisato. Si possono individuare quattro aree concettuali che definiscono e chiariscono cosa sia la critica cinematografica: 1) In primo luogo «con critica cinematografica si designa un dato testo, e cioè un singolo “pezzo” o un singolo “brano” con un proprio oggetto (questo o quel film, questo o quel cinema, questo o quella produzione), con una propria fisionomia (la forma del saggio piuttosto che quella della recensione o dell’intervento spicciolo), con una propria esistenza materiale (testo scritto, o intervento orale, o “crito-film” – cioè film che analizza un altro film) ecc.» [Casetti 1975, 98]. 2) In secondo luogo l’idea di critica rinvia «all’esistenza di un insieme di testi di un certo tipo, o di una classe di discorsi simili tra di loro» [Casetti 1975, 98]. 3) In terzo luogo «designa una norma, e cioè quel qualcosa che permette di unificare dei testi diversi sotto un’unica etichetta e che insieme li distingue da un qualcosa che è “diverso”; ciò che isola, ad esempio, nell’unità di un fascicolo – per le riviste cinematografiche – o nello spazio limitato di una pagina – per i quotidiani –, il “pezzo” critico dal saggio teorico, o dall’informazione tecnica, o dalla notizia scandalistica, o dall’inserzione a pagamento; e insieme ciò che fa sì che questo pezzo appartenga alla “critica”» [Casetti 1975, 99].

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4) In fine per critica cinematografica si intende «un’istanza e cioè qualcosa che “spinge” a produrre certi discorsi incanalandoli lungo certi itinerari e obbligandoli a rispettare certe regole. La realtà che si designa è un principio pur sempre astratto, ma in un certo senso attivo: è, questa volta, una certa forma di produzione opposta ai propri prodotti, un dato presupposto confrontato con le proprie conseguenze, una consuetudine socialmente accettata e socialmente agente distinta dalle scelte individuali che le si pongono di faccia [...]». Questa quarta accezione designa «il modo in cui la critica cinematografica è quello che è, indica il meccanismo interno che i singoli testi mettono in moto o la regola che istituisce l’insieme nel suo complesso» [Casetti 1975, 99]. Soffermiamoci sugli aspetti istituzionali della critica cinematografica: la critica come norma che stabilisce uno scarto rispetto ad altri tipi di discorso; la critica come sistema discorsivo legato a strutture più o meno stabili; la critica come insieme di saperi istituzionalizzati che partecipano alla definizione generale di una cultura. 6.2 La critica come istituzione La critica cinematografica è un fenomeno relativamente recente. Nasce, come abbiamo detto, nella prima parte del XX secolo, con un ritardo di circa vent’anni sull’invenzione del cinematografo. Ha avuto circa un secolo per definirsi. Se guardiamo alle istanze e alle norme che fanno sì che certi discorsi vengano considerati critica e altri no, ai soggetti che praticano l’esercizio della critica, ci troviamo di fronte a una galassia piuttosto instabile. Innanzitutto la critica cinematografica non si identifica con una disciplina precisa. Una disciplina è un campo relativamente “solido” di nozioni, di regole di accesso al campo medesimo, di linguaggi, di protocolli operativi. Una disciplina ha un nome riconosciuto scolasticamente e spazi che la circoscrivono (laboratori, dipartimenti universitari, riviste, congressi). La medicina, la fisica, la sociologia sono discipline. La critica cinematografica non possiede le loro regolarità. Essa è composta da co-

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noscenze imperfette, da prestiti e tradimenti di nozioni ereditate da campi di sapere più definiti e certi (teoria del cinema, teoria della letteratura, critica d’arte, critica letteraria ecc.). 6.3 Una prospettiva archeologica All’interno degli studi che hanno cercato di definire le forme dei discorsi, le proposte avanzate da Michel Foucault in L’archeologia del sapere hanno ancora un valore operativo. Per Foucault, la ricerca archeologica non si occupa dei saperi ben saldi, delle certezze scientifiche, della storia delle scienze, quanto piuttosto della storia delle «conoscenze imperfette, male fondate, che malgrado una vita ostinata non sono riuscite a raggiungere la forma della scientificità […] Storia non della letteratura, ma di quel rumore collaterale, di quella scrittura quotidiana di breve durata che non raggiunge mai lo statuto di opera o ne viene subito estromessa: analisi delle sotto-letterature, degli almanacchi, dei giornali e delle riviste, dei fuggevoli successi, degli autori inconfessabili. […] è la disciplina delle lingue fluttuanti, delle opere informi, dei temi non collegati» [Foucault 1994, 181]. L’analisi della critica cinematografica si trova a contatto con oggetti simili. Nel dire che la critica cinematografica non ha i confini e la stabilità di una disciplina si sottolinea il fatto che essa è una formazione discorsiva che funziona come un sistema di dispersione di saperi differenti. La critica si ritaglia uno spazio nelle pratiche culturali, si lascia influenzare da differenti forme di sapere, accoglie e riutilizza svariate informazioni. È una zona di passaggio dei saperi più diversi. Un’altra nozione elaborata dalla sociologia della cultura che può tornare utile al nostro discorso è quella di campo disciplinare. Questa nozione viene utilizzata da Pierre Bourdieu per contestare l’idea della scienza come impresa di ricerca pura, perfettamente autonoma, capace di svilupparsi secondo una logica rigorosamente interna. Gli scienziati non formano affatto un gruppo unitario e omogeneo. Il campo di una disciplina, come quello di ogni formazione culturale, è un terreno di lotte per dominare, modificare, entrare nel campo medesimo, è il risultato di scontri di forza tra i vari agenti che occupano il campo (singoli individui, equipe di lavoro, scuole). Ogni agente influenza e modifica il campo a partire dalla propria forza di intervento che è

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in parte determinata dal capitale simbolico specifico di cui dispone [Bourdieu 2003]. Ciò che è vero per la scienza secondo Bourdieu lo è a maggior ragione per la critica. Il critico, più dello scienziato, definisce e si lascia definire da un campo con confini labili. Se infatti analizziamo la critica cinematografica come campo critico, notiamo subito che quest’ultimo può essere descritto “per difetto” rispetto alle caratteristiche di altri campi (proprie di formazioni come la fisica e le altre scienze). Un campo ha comunque una struttura. Il che significa che ha delle proprietà generali e che i cambiamenti al proprio interno seguono determinate procedure. Invece la critica cinematografica presenta debolezze strutturali riassumibili in vari punti. Specificità di un mestiere Un medico, uno psichiatra, un architetto hanno in comune il fatto di appartenere a un esercizio professionale definito. Il capitale di conoscenze che gli occupanti di un campo disciplinare hanno accumulato riguarda saperi storico-teorici e abilità applicative. L’insieme di questi due elementi qualifica le competenze specifiche di un soggetto appartenente a una disciplina. Nel campo della critica cinematografica la specificità in questione non è così chiara. Da qui la difficoltà stessa di insegnare a fare critica. Certo, esistono manuali di analisi del film, storie del cinema, contributi teorici. Ma non esiste un curriculum di studi perfettamente definito, condiviso e accademicamente sedimentato per stabilire lo specifico professionale di un critico cinematografico. Quest’ultimo può venire da studi universitari genericamente umanistici, da saperi settoriali (Dams, curriculum cinema ecc.) o essere un operatore culturale cresciuto in autonomia, un critico “fai da te”. In altri termini, non esiste un criterio universalmente condiviso per stabilire il quantitativo e il tipo di capitale collettivo accumulato necessari per fare parte del campo critico. Formalizzazione del linguaggio Nelle discipline e nelle scienze gli operatori del settore dispongono quasi sempre di un linguaggio molto formalizzato. Il gergo della ricerca funziona in modo inverso al gergo della di-

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vulgazione. Il primo elimina i riferimenti alle espressioni comuni per concentrarsi su tecnicismi settoriali che permettono maggiore definizione analitica e risparmio di tempo nella spiegazione. Il secondo rende accessibili i termini tecnici parafrasandoli nel linguaggio ordinario. Per esempio, a partire dalla metà del XVIII secolo, nella fisica, il linguaggio viene sottoposto a un processo di matematizzazione che a sua volta produce un’autonomia del campo scientifico, contribuisce a creare una separazione sociale tra i professionisti e gli amatori della disciplina, a distinguere tra gli insiders e gli outsiders. La competenza matematica diventa un elemento di discriminazione e di controllo sull’accesso al sapere [Bourdieu 2003, 65]. Invece il linguaggio settoriale degli studi cinematografici presenta un grado di specificità ed esclusività piuttosto ridotto. La critica cinematografica, soprattutto se esercitata on line o su pubblicazioni popolari, rifiuta qualsiasi accenno a termini tecnici, quella specializzata utilizza un gergo che può apparire ostico solo in un primo momento. La lettura di un paio di manuali di introduzione all’analisi del cinema mette in grado chiunque di comprendere la maggior parte dei termini che compongono il linguaggio specialistico. Forme e forza del diritto d’ingresso Le scienze e le discipline tendono all’autonomia, a rendersi esclusive, a delimitarsi rispetto ad altri campi di sapere. Lo fanno, come abbiamo visto, dandosi un linguaggio settoriale e un sapere specifico. Lo fanno anche restringendo il diritto di ingresso al campo. I campi scientifico, burocratico e giuridico non sono di facile accessibilità. Per diventare un medico o un funzionario specializzato bisogna superare concorsi, ottenere diplomi, avere riconoscimenti. Il meccanismo delle sanzioni e degli attestati stabilisce l’esercizio della professione, i diritti e i poteri a esso connessi. Appartenere a una disciplina è un fatto di investitura istituzionale. Ma come si stabilisce l’identità dei singoli soggetti che operano in un campo? Foucault ha studiato il problema della posizione istituzionale del soggetto parlante. Chi parla? Chi è autorizzato a tenere questo tipo di linguaggio (medico, sociologico, psicanalitico ecc.)? Quale è lo statuto degli individui che hanno diritto di parola? Per un medico tale diritto è

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sancito da un atto di investitura esplicito (laurea, specializzazione ecc.). Non altrettanto si può dire di un critico cinematografico. Cosa sancisce il suo diritto di parola? Non c’è passaggio istituzionale che possa garantire questo diritto. Non ci sono test che stabiliscano una abilitazione legale alla professione. Né basta appartenere a un sindacato di categoria (per esempio il SNCCI, il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani) per vedersi riconosciuta una pubblica investitura del tipo di quella ottenuta nel caso di avvocati e giudici con i rispettivi ordini professionali. Illustri critici cinematografici non hanno mai fatto parte di associazioni di categoria e si sono vantati di tale autonomia. Il titolo di critico è informale e si conquista sul campo. Il critico non ha mandati da portare a termine né autorità da esercitare per investitura diretta. 6.4 Grado di autonomia Il grado complessivo di autonomia di un campo è un effetto dei fenomeni che abbiamo considerato fino a ora. Le comunità di sapere ben strutturate utilizzano i sistemi di limitazione d’accesso al proprio corpo dottrinale per definire meglio se stesse e darsi un grado elevato di autonomia. La definizione di sé come gruppo passa tramite la limitazione del circuito informativo. La sociolinguistica ha mostrato che queste pratiche di esclusione sono operative ovunque nella vita sociale quotidiana [Goffman 1969]. I gruppi sociali mettono in scena delle rappresentazioni nella comunicazione e lo fanno spesso sottolineando il “senso del noi” rispetto agli altri, identificandosi in gruppi o equipe ristrette con identità definite in relazione all’esterno. Il senso di esclusività rispetto all’esterno nelle discipline è raggiunto attraverso la specializzazione del gergo, la profondità dei saperi, ma non solo. Foucault ha individuato alcune pratiche limitative nei confronti dei soggetti parlanti. Una delle forme attraverso cui si esercitano processi di restrizione è rappresentato dal rituale. Il rituale ha il compito non solo di definire le qualificazioni che gli individui devono possedere per tenere un certo tipo di discorso, ma anche di precisare i gesti, i comportamenti, le circostanze e l’insieme di segni che devono accompagnare il discorso. Si pen-

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si ai rituali propri dei discorsi di legge nelle aule giudiziarie, alle cerimonie delle lezioni accademiche, alle procedure che regolano gli interventi parlamentari. Un’altra forma di restrizione è la costituzione di una società di discorso. La società di discorso ha la funzione di conservare e proteggere un insieme di saperi e di atti di parola. I discorsi devono circolare all’interno di uno spazio chiuso, in modo ristretto, disciplinato, vincolato [Foucault 1972]. L’esempio della medicina è ancora chiarificatore. Una equipe di medici non solo regola la professione quotidiana secondo un rituale preciso, ma si caratterizza anche come una società di discorso da cui il paziente è escluso. Dalla grafia illeggibile delle ricette mediche di una volta al linguaggio delle modalità di assunzione dei medicinali fino al gergo delle diagnosi: tutto congiura per il mantenimento di un segreto iniziatico, per l’impossibilità di comunicazione paritaria tra medico e paziente. I critici cinematografici invece costituiscono una società di discorso in cui i saperi sono largamente accessibili. Ciò comporta anche una facile reversibilità dei ruoli. Ci sono critici che si dedicano alla regia e viceversa. L’esercizio della critica cinematografica è aperto a tutti. Esistono gruppi e sottogruppi, sotto-comunità in opposizione tra loro (per esempio, una rivista come «Cinema Nuovo» è sempre stata tradizionalmente “nemica” di una rivista come «Filmcritica»). Più che la legittimazione data da una investitura ufficiale (diploma di laurea, abilitazione ecc.) sono i piccoli gesti di affiliazione a una delle sotto-comunità a definire, giorno per giorno, l’identità dei singoli critici, a creare le condizioni di un gioco di squadra, a dar vita a un senso di equipe. Certo, l’associazione di individui che definisce la critica cinematografica non ha contorni istituzionali definiti. A essere incerta è la stessa nozione di ruolo del critico cinematografico. Perché un ruolo sociale sia chiaro devono esserci parametri stabili, come l’insieme delle regole convenzionali che controllano il game sociale e le tattiche attive al suo interno. Ma la critica cinematografica non ha una strategia unica e comune, il mestiere di critico è compatibile con altri ruoli (docente universitario, giornalista, saggista ecc.): esiste il ruolo del critico ma non ci sono critici di ruolo [De Marchi 1977]. È vero quindi che non ci sono saperi vincolanti, barriere stabili, identità ruoli ben definiti. Ciò non significa che l’insieme

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della critica cinematografica non sia individuabile e non presenti regolarità. Se guardiamo ai punti 1 e 2 della nostra quadripartizione iniziale, le cose appaiono più chiare: la critica cinematografica si realizza concretamente in un insieme di discorsi riconoscibili, è composta da articoli, atti di parola, testi scritti con una materialità e una fisionomia descrivibili.

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7.1 Regolarità Un elemento di regolarità è il fatto che il campo critico, almeno fino a qualche anno fa, era divisibile in due macro-blocchi: la critica specializzata (che opera sulle riviste di settore e ha un’impronta analitica) e la critica quotidianista (che ha una funzione più divulgativa, di intervento/orientamento al consumo e trova spazio soprattutto sui quotidiani, sui settimanali, in televisione, sul web). Questa divisione è accettata da gran parte dei soggetti che occupano il campo, i quali si dispongono abbastanza naturalmente su uno dei due fronti o negoziano sempre più spesso posizioni intermedie tra essi. La storia della critica cinematografica è fatta anche di inconciliabilità e divergenze di giudizio tra questi due blocchi in merito a molti argomenti. Chi ha un po’ di familiarità con la storia della critica può provare a indovinare in anticipo quali pellicole saranno difese dai grandi giornali, quali invece dalla pubblicistica di settore e quali approvate o rifiutate da entrambi. La storia dei disaccordi critici potrebbe riempire un libro a parte. Solo per fare due esempi, il cinema politico degli anni Settanta è stato celebrato dalla grande stampa e regolarmente osteggiato dalle riviste di cinema. In anni più recenti registi come David Cronenberg, Brian De Palma, David Lynch Clint Eastwood sono diventati autori di culto presso i cinefili almeno quanto hanno suscitato resistenze presso la stampa non specializzata (per poi invece magari assumere il ruolo di «maestri riconosciuti», capaci di generare un apprezzamento trasversale agli schieramenti e all’opinione pubblica). Su entrambi i fronti un altro elemento di regolarità è dato dal-

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la presenza di stili di enunciazione e forme del discorso abbastanza ricorrenti. I giornali di cinema ci mettono di fronte a diverse pratiche di scrittura: interviste, anticipazioni, recensioni più o meno lunghe, articoli sul ruolo della critica stessa, saggi tematici su registi, correnti, generi ecc. Tuttavia non tutte ricorrono con uguale frequenza. 7.2 La forma-recensione Tra le tipologie di discorso critico la più diffusa (e stabile nella sua articolazione interna) è la forma-recensione. Con il termine recensione si definisce un tipo di discorso di tradizione giornalistica costituito da una breve analisi, da un giudizio, da un commento, accompagnati da una sinossi di un film. I recensori hanno spesso manifestato un senso di fastidio verso questa forma di discorso vedendovi il luogo dell’argomentazione superficiale e della valutazione poco analitica. Eppure rimane la formula quantitativamente più presente sulle riviste specializzate e negli altri contenitori che ospitano critica cinematografica, su carta e on line (mentre i suoi spazi sono progressivamente diminuiti sui quotidiani a favore dei pezzi di costume). Riviste come «Segnocinema», «Cineforum», «Filmcritica», «FilmTV» hanno una corposa sezione di recensioni. La forma-recensione può essere studiata sotto vari punti di vista. Concentriamoci sugli aspetti retorici, sul rapporto con l’oggetto di analisi e con l’insieme dei discorsi rispetto ai quali la recensione stessa si differenzia. La recensione non è semplicemente una forma di meta-discorso che si esaurisce nella critica di un oggetto-film: funziona come un atto di enunciazione che mette in campo alcune conoscenze, che si richiama ai saperi del cinema (elaborati in sede storica e teorica); è un doppio atto di discorso: da una parte è una tipologia di interpretazione rivolta all’esterno verso il proprio oggetto (il film di cui parla e riferisce), dall’altro è un atto di collocamento su un terreno di continuità e discontinuità rispetto ad altre tipologie discorsive.

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7.3 La recensione nel contesto discorsivo degli altri discorsi critici La recensione occupa un livello intermedio tra le forme “alte” del discorso sul cinema e quelle più “basse”. Non appartiene al registro accademico delle analisi dettagliate, della storia e della teoria del cinema, ma si distingue anche dalla tradizione delle cronache dai festival, degli articoli promozionali. La recensione si dà un’autonomia su più fronti. Nel campo della critica specializzata, per esempio, il recensore può attivare dei meccanismi discorsivi che gli permettono di stabilire una distanza rispetto ad altri discorsi: una funzione-stacco attraverso cui le recensioni specializzate si differenziano da quanto viene detto nel campo della critica quotidianista. Frasi come «Non date retta a quello che avete sentito nelle cronache dai festival», «Molti hanno scritto che il film x non vale nulla, invece…» sono modi con i quali si stabilisce una differenziazione degli statuti discorsivi. Simili operazioni possono essere attive anche all’interno di uno dei due sotto-campi. Per esempio, nel dominio della critica specializzata, la rivista «Cinema nuovo» ha operato spesso attraverso una funzione-stacco rispetto ad altre riviste rivali. Viceversa, il critico può dare vita a un effetto di continuità di corpus quando utilizza gli altri discorsi critici per confermare il proprio giudizio e dare l’impressione che le sue posizioni siano largamente condivise all’interno della comunità. Frasi come «tutte le riviste di cinema hanno criticato l’aspetto x del film y» o «Nessuno oggi non considererebbe il regista x un vero e proprio autore» svolgono proprio questa funzione. Dal punto di vista della retorica, la critica cinematografica presenta altre regolarità. Il linguaggio della critica dei quotidiani è cambiato poco nel corso degli ultimi vent’anni. Il recensore, che esercita il proprio mestiere in un contesto di forti condizionamenti istituzionali dati dalla testata ospitante, ha elaborato una scrittura che, al di là delle normali variazioni sintatticolessicali, rimane fortemente codificata. La dispositio degli argomenti segue quasi sempre la successione introduzione-riassunto della trama-giudizio conclusivo (con riferimento al lavoro degli attori). I registri ricorrenti sono stabili: uso dell’ironia, personalizzazione del discorso, ripetizione delle metafore (come quella sportiva o culinaria: il film come «piatto» più o meno riuscito, il

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regista che «va in gol» ecc.). Le scelte lessicali rimandano a un vocabolario non formalizzato e privo di termini tecnici. Il linguaggio della critica specializzata ha altri vincoli soprattutto legati all’uso dei termini tecnici in grado di garantire buoni standard di precisione descrittiva. Però i limiti di spazio sono più elastici, la dispositio tende a confinare la trama del film in una sezione a parte lasciando maggiore libertà nell’articolazione degli argomenti. I registri del discorso sono variabili. Troviamo esempi di enunciazione informale come pure esempi contrari che ricorrono all’asetticità del linguaggio scientifico. Dal punto di vista concettuale, il richiamo ai saperi teorici, tecnici e storici è centrale. Il recensore specializzato non nasconde le proprie competenze, crea un effetto di precisione e profondità di analisi. Le sempre più sottili differenze tra critica quotidianista e specializzata riguardano in parte il linguaggio, in parte i set di concetti ricorrenti. I critici specializzati si appellano in modo frequente e naturale ai saperi del cinema (monografie sul cinema, tradizioni culturali legate al lavoro di certe riviste, riviste accademiche, nozioni teoriche, rassegne ecc.). La critica delle riviste vive faccia a faccia con la tradizione critica precedente, si misura continuamente con essa. Mentre il recensore da grande quotidiano non attribuisce ai saperi storici e teorici specificamente cinematografici un ruolo prioritario (anzi, li dissimula, in un richiamo continuo al senso comune e a fenomeni estetici e culturali non specifici), lo specialista crede in questa specificità e la difende. Da qui nasce la maggior parte delle incomprensioni e delle accuse reciproche che, soprattutto negli anni passati, sono corse tra i due schieramenti.

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8.1 Il modello di analisi di David Bordwell Il tipo di attenzione che i critici stessi e gli studiosi di cinema hanno rivolto alla critica ha dato vita a differenti tipologie di contributi. Alcuni studiosi hanno indagato le questioni istituzionali poste dall’esercizio critico, altri si sono soffermati sugli aspetti teorici, altri ancora hanno privilegiato la ricerca storica, raccogliendo gli articoli dei recensori più meritevoli e ricostruendo la storia delle riviste [Pellizzari 1999; Bragaglia 1987; Brunetta 1993; De Vincenti 1980; De Baecque 1993]. Senza parlare, perché abbiamo già detto delle cose a riguardo, del fatto che i critici stessi hanno animato numerosi dibattiti sulla propria attività, insistendo, di volta in volta, su diversi aspetti: il rapporto della critica con la cinematografia nazionale, l’esigenza di rinnovare gli strumenti d’analisi ecc. [Per il lavoro teorico si vedano Casetti 1975; De Marchi 1977; id. 1977b; Tinazzi 1970 e 1972; De Marinis 1996]. Mentre i primi (contributi teorici, metodologici e storici) hanno intenti modificativi minimi rispetto all’assetto dell’esistente, gli ultimi presentano spesso la forma della lamentazione e dell’insoddisfazione verso “lo stato delle cose” [Bruno 1989; Canova 1990; Buccheri 1994]. 8.2 Quello che i critici non dicono: l’interpretazione in pratica Ciò che è rimasto quasi sempre inesplorato è proprio il punto di partenza da cui bisognerebbe iniziare una ricognizione sull’esercizio critico: il lavoro concreto dell’interpretazione. Un’analisi dei modi in cui la critica scompone e analizza i film permette di rendere visibile un contrasto. Esiste uno scarto tra l’idea

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che la critica si fa del proprio operare e l’operare concreto che emerge dalla descrizione degli atti di interpretazione, tra un’immagine (il prodotto dell’auto-rappresentazione intellettuale del critico) e una pratica (osservabile empiricamente). In altre parole il critico dice di fare e crede di fare cose che, sul piano operativo, non fa. O viceversa, scredita teoricamente nozioni e concetti che poi puntualmente impiega nella pratica. Sotto l’immagine che la critica dà di sé (un’immagine che, come tutte le narrazioni soggettive e interessate, può rivelarsi illusoria) la critica è impegnata in mosse concrete. Uno studio empirico degli atti di interpretazione aiuta anche in questo caso a individuare alcune ricorrenze. Ciò che sempre ricorre nel campo della critica è un set ben consolidato di tricks of the trade, di trucchi del mestiere, di routine interpretative standardizzate, a cui chiunque operi sul campo non è disposto a rinunciare. Si tratta dell’equivalente in campo critico di quell’insieme di attrezzi chiamati dalla sociologia della scienza «strumenti ceppo» e «strumenti generici» [Bourdieu 2003, 85], strumenti cioè che costituiscono una forma coagulata, largamente condivisa di conoscenza operativa. David Bordwell è lo studioso che ha dedicato maggiore attenzione alle routine interpretative [Bordwell 1989]. Per questo motivo d’ora in poi procederemo tenendo come guida il suo modello di studio dell’attività critica. 8.3 Critica, retorica e risoluzione di problemi Secondo Bordwell la critica può essere vista come una pratica carica di alte valenze culturali e sociali. Ma funziona soprattutto come un’attività di problem solving. Giocare il ruolo dell’interprete significa proprio questo: risolvere il problema di reperire significati non immediatamente individuabili sulla superficie del film che si sta analizzando. Il critico ha di continuo a che fare con la nozione di «significato». Un significato che va reperito nel testo e che va costruito attraverso l’analisi e la sua retorica. L’interpretazione consiste nel dare un senso all’oggetto che stiamo analizzando. Ma nel farlo si devono risolvere una serie di sotto-problemi:

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1) Il problema dell’appropriatezza. Il critico deve fare in modo che il film sembri appropriato all’analisi che se ne fa. In certi casi la questione dell’appropriatezza non si pone. Molti film (grandi successi, capolavori consolidati ecc.) non necessitano di una giustificazione per essere interpretati. Altri però lo richiedono. Quando, per esempio, dobbiamo rivalutare l’opera di un regista trascurato dalla tradizione o fare luce sull’opera minore di un maestro, abbiamo di solito a che fare con la necessità di spiegare le ragioni del nostro discorso. In tale tipo di “giustificazione” sta la questione dell’appropriatezza. 2) Il problema della corrispondenza. L’interpretazione deve essere supportata da prove. Deve esserci una corrispondenza tra l’analisi e le unità testuali. Il critico deve costruire il discorso dando l’impressione che esso sia correlato alla realtà materiale del film. 3) Il problema dell’originalità. Le istituzioni culturali di tipo umanistico non incoraggiano la ripetizione delle idee degli altri. Se qualcuno scrivesse di cinema ripetendo ciò che hanno detto in precedenza i colleghi, sarebbe subito accusato di incompetenza, plagio, mancanza di idee. Il critico deve dare un’impostazione originale al proprio lavoro differenziandosi da quanto è stato già scritto. Ci si aspetta che un’interpretazione utilizzi metodi nuovi, si serva di strategie consolidate per scoprire elementi inediti, faccia luce su particolari trascurati in precedenza. 4) Il problema della plausibilità. Il critico deve adottare una strategia per rendere credibile il proprio discorso. È la dimensione propriamente retorica dell’argomentazione. Il discorso più che vero, accurato e appropriato, deve apparire verosimile e convincente. Ancora qualche parola sul rapporto tra retorica e plausibilità. Nel modello adottato da Bordwell la retorica copre un ambito essenziale ma non particolarmente esteso. È possibile estendere la nozione di retorica accogliendone una definizione più ampia. È ciò che ha fatto Alberto Pezzotta nel suo modello di analisi del linguaggio della critica cinematografica, in cui adotta la prospettiva scelta da Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca nel Trattato dell’argomentazione (1976) [Pezzotta 2007]. Per i due

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studiosi il dominio della retorica copre tutto lo spettro del discorso argomentativo, la cui logica propria è quella del verosimile, una zona intermedia tra il discorso dimostrativo delle scienze e l’arbitrarietà delle credenze. L’intero discorso della critica rientra nell’ambito dell’argomentazione e ne condivide gli strumenti e le procedure di base. Come prima cosa la critica cinematografica, per essere verosimile, deve individuare un terreno comune con i propri lettori. Per farlo definisce alcune premesse condivise. Le premesse dell’argomentazione possono essere di tipo quantitativo (la scelta del linguaggio, di un certo grado di tecnicismo o specializzazione ecc.) o qualitativo (gerarchie di valori). Le gerarchie di valori hanno un ruolo fondamentale. Molti critici presuppongono che certi valori siano non questionabili: la poca convenienza nel mostrare certe tematiche (violenza, erotismo ecc.) è stato un presupposto a lungo vigente nell’ambito della critica cinematografica, così come il valore incontrastato di certi autori, il riconoscimento implicito di una dicotomia arte/industria ecc. Seguendo Perelman e Olbrechts-Tyteca, Pezzotta elenca alcune categorie di gerarchie o luoghi del valore: – I luoghi della quantità: in base ai quali una cosa vale più di un’altra per ragioni quantitative. Si tratta di categorie che i critici cinematografici applicano ogni volta che un film di successo è preferito a uno per iniziati, un’estetica dell’abbondanza a una dell’ascetismo ecc. – I luoghi della qualità: in base ai quali una cosa vale più di un’altra in virtù della sua singolarità/novità/complessità. I critici fanno leva su tali categorie quando danno la loro approvazione a un film «ambiguo» a scapito di uno «didascalico», a un film d’autore rispetto a uno commerciale ecc. – I luoghi dell’ordine: in base ai quali una cosa vale più di un’altra perché viene prima. I critici implicitamente fanno uso di queste categorie quando elogiano il cinema classico o quello delle origini rispetto a quello contemporaneo, o quando, tra i registi, privilegiano i maestri, i capostipiti, i fondatori, le opere prime di autori poi consacrati, infine quando elogiano certi film contemporanei perché legati a un genere “nobile” della storia del cinema (il western, il musical ecc.). – I luoghi dell’esistente: in base ai quali una cosa è migliore di un’altra perché esiste, è attuale e non possibile o eventua-

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le. I critici fanno uso di queste categorie quando privilegiano situazioni narrative o film realistici contro altri ritenuti inverosimili. In generale l’uso della nozione di «verosimiglianza» risente sempre di criteri di tal genere. Oltre a «fare base» su luoghi comuni condivisi da critico e lettore, il recensore produce «pezze di appoggio» a sostegno del proprio discorso e sviluppa altre tecniche di argomentazione. Egli dunque fortifica quel che dice attraverso prove. Le prove possono essere estrinseche o intrinseche. Sono del primo tipo quando esistono già nella realtà. Per esempio, quando un critico ricorre a contratti, testi già pubblicati, parole di un regista per corroborare la propria interpretazione, sta servendosi di prove estrinseche. Le prove invece sono intrinseche quando mirano a commuovere o convincere il lettore attraverso elementi creati dal critico stesso (che di volta in volta punterà a esaltare la propria auctoritas, o a evidenziare i tratti patemici dell’esperienza di visione, insistendo sulla noia, la paura, il disgusto o la gioia provocata da un dato film). Le tecniche di argomentazione più comuni elencate da Pezzotta sono: – L’associazione: è un tipo di ragionamento che stabilisce un legame tra un fenomeno generale e uno particolare. Per esempio, viene usato dai critici che difendono un film (fenomeno particolare) perché lo ritengono perfetta espressione del cinema classico, o di un genere, o della poetica di un autore (fenomeni generali). – Il paragone: è un tipo di ragionamento che consiste nell’accostare qualcosa di nuovo a fenomeni già conosciuti. I critici lo usano quando paragonano i registi amati a grandi scrittori, registi, artisti del passato; quando, per esempio, si accosta un film recente di Betolucci a Renoir, Pasolini, Ophüls. – L’analogia e la metafora (che può essere considerata una sorta di analogia condensata). L’analogia è un ragionamento più audace del paragone perché non si limita a rispecchiare la struttura del reale ma la crea. Per questo motivo le analogie sono spesso discutibili o giudicate azzardate. Tuttavia sono usate dai critici in modo costante. Lo stesso dicasi per le metafore. Seguiamo l’esempio fatto da Pezzotta: «Si legga la re-

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censione di Truffaut […] a Johnny Guitar, del 1955: “Nicholas Ray è un po’ il Rossellini Hollywoodiano. Come lui non spiega, non sottolinea mai. Più che dei film gira degli schemi di film”. In questo caso la definizione metaforica presuppone un’analogia di questo tipo: A (Ray) sta a B (Hollywood) come C (Rossellini) sta a D (il cinema in generale). Il risultato è di designare A come “il C di B”. Truffaut crea questa definizione metaforica per promuovere il valore di Ray, avvicinandolo a quello di un maestro indiscusso come Rossellini […] I termini che servono al ragionamento (C e D) sono meglio conosciuti o più prestigiosi di quelli su cui verte la conclusione (A e B): ed è il motivo per cui questi ultimi ne ricevono valore» [Pezzotta 2007, 74]. – La dissociazione. È un tipo di ragionamento tendente a dimostrare che un dato di realtà univoco presenta due facce, uno apparente e uno nascosto. I critici lo usano quando dicono che il film x sembra di genere ma in realtà non è solo questo. Quando, dopo aver elencato alcune caratteristiche apparenti di un testo, aggiungono qualcosa come «ma il vero tema del film è un altro…». O quando ricorrono a interpretazioni psicanalitiche che rintracciano significati profondi non visibili sulla superficie del testo. Fin qui abbiamo considerato le operazioni retoriche che il critico mette in opera e che la retorica classica considerava parte dell’inventio (il reperimento delle idee, degli argomenti, veri o verosimili, utili ai fini del discorso stesso). Ma un critico, come ogni oratore, organizza anche i materiali reperiti in una struttura (dispositio) e sceglie forma e stile per esprimersi (elocutio). Tralasciamo in questa sede i problemi di elocutio, su cui abbiamo già detto qualcosa e che riguardano lo stile di scrittura o il registro discorsivo adottati dai singoli critici e che sono influenzati da una serie notevole di variabili (scelte lessicali, modelli letterari di riferimento, condizionamenti imposti dalle sedi editoriali ecc.). Concentriamoci in breve sulla dispositio. Come si è detto, la recensione è una forma discorsiva che nel corso degli anni si è mantenuta abbastanza stabile. Tuttavia si è anche sviluppata in diversi format. I principali sono tre: 1) La mini-recensione, che solitamente compare sui settimanali o nelle rubriche periodiche dei quotidiani. È compo-

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sta in genere da 250/650 caratteri. Dato lo spazio a disposizione, la trama è tratteggiata in modo sintetico, solo per elementi salienti. La parte iniziale contiene un esordio ricco di elementi descrittivi spesso già connotati in modo valoriale, così da guadagnare spazio. La parte finale riassume in un aggettivo (o poco più) un giudizio lapidario. Chi scrive una mini-recensione deve avere qualità da “miniaturista”: precisione lessicale e icasticità di scrittura sono valori essenziali. L’estremizzazione dei tratti della mini-recensione si trova negli esempi di micro-recensione che compaiono su Twitter (massimo 140 caratteri). 2) La recensione lunga, da rivista specializzata, oscillante in media tra i 5000 e i 10000 caratteri. In questo caso alle qualità della sintesi si preferiscono quelle dell’analisi. Il cuore di una buona recensione specializzata è l’inventio, la scelta degli argomenti, che possono essere presentati in maniera piuttosto libera, essendo la sinossi in genere presentata a parte e il giudizio normativo estremamente limitato. 3) La recensione standard, oscillante in genere tra i 2000 e i 4500 caratteri. È questa recensione di taglia media a rappresentare il format dominante su quotidiani e pubblicazioni on line. È anche la forma di recensione in cui sono rimasti più codificati e stabili i vincoli di dispositio (che comunque, in certi casi, vengono trasgrediti). Una recensione standard presenta nella maggior parte delle occorrenze la seguente ripartizione interna: 1) cappello introduttivo (agganci all’attualità, considerazioni personali, esperienza concreta di visione ecc.); 2) presentazione della trama; 3) analisi della forma e del contenuto con ipotesi interpretative; 4) giudizio di valore sul film (e sulle sue componenti: attori, fotografia, musica, regia ecc.).

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9.1 Tipologie di significato Nel tentare di soddisfare i criteri di appropriatezza, corrispondenza, originalità e plausibilità l’interprete, secondo Bordwell, si impegna nell’attività di reperimento di significati. I significati che possono essere costruiti nel corso di un’analisi sono di quattro tipi: Significato referenziale Quando uno spettatore costruisce un primo livello di senso avanzando ipotesi su fabula e intreccio, sullo spazio-tempo del film applicando categorie di orientamento spaziale e di causalità, sta mobilitando significati di tipo referenziale. Si tratta di significati immediatamente elaborabili che richiedono capacità minime di astrazione e che coincidono in gran parte con l’identificazione/ comprensione lineare degli oggetti e delle situazioni presenti sullo schermo. Per esempio, un significato referenziale di Blade Runner è che l’azione si svolge in una Los Angeles del futuro dove gli umani sono impegnati in una lotta contro i replicanti ribelli. Significato esplicito Si tratta di un tipo di significato che entra in gioco quando lo spettatore, mediante un’operazione di lieve astrazione, assegna alla diegesi un valore particolare, un significato più concettuale. Uno dei significati espliciti di Blade Runner è che lo sfruttamento intensivo dei replicanti ha portato a un processo di ribellione tipico degli oppressi nei confronti degli oppressori. I significati referenziali ed espliciti costituiscono il processo di comprensione del film e il critico presuppone che essi siano comunicati in modo diretto, non mediato, dal film stesso.

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Significato implicito Il significato implicito riguarda gli elementi simbolici che lo spettatore può attribuire al film come manifestazione di senso non immediatamente evidente. Si presume che il film comunichi in modo indiretto e mediato questo tipo di significati. Un significato implicito di Blade Runner è che la ribellione dei replicanti è più che giustificata in termini esistenziali e politici. Altri significati impliciti nel film riguardano il tema della visione, dello sguardo inteso come attività percettiva che si svincola dai limiti del corpo umano (l’occhio del replicante ha visto cose che noi umani non possiamo neanche immaginare, ma è anche l’organo che tradisce la natura artificiale del replicante stesso). Significato sintomatico È quel tipo di significato che si ottiene partendo dall’idea che il film comunichi non solo in modo indiretto, ma anche in modo involontario. Nell’esperienza ordinaria facciamo largo uso di significati sintomatici. Se per esempio, se sentiamo un uomo dire alla propria moglie «taci e vai in cucina» e poi affermare che non ha nulla contro le donne, siamo autorizzati a pensare che la frase, malgrado le affermazioni successive, esprima sintomaticamente il dominio patriarcale sulla donna codificato nella nostra società. È la società che parla attraverso i significati sintomatici, oppure il sintomo rivela l’ossessione nascosta di chi lo esprime involontariamente. Infatti i significati sintomatici presuppongono che l’autorità e l’intenzione del parlante non siano d’aiuto nell’attribuzione di significato (egli può anche smentire l’attribuzione, ma la cosa non invalida l’attribuzione medesima), come nella terapia psicanalitica in cui è l’analista che possiede la verità del discorso del paziente. Nel campo del cinema, le femministe nordamericane hanno spesso accusato il cinema horror contemporaneo di veicolare un’immagine violenta e sadica nei confronti del corpo della donna. I registi hanno puntualmente smentito. Ma le femministe hanno avuto buon gioco nell’affermare che quella smentita era priva di valore, in quanto i cineasti possono creare testi carichi di terrore per il corpo femminile senza saperlo. In Blade Runner, per esempio, una lettura femminista individuerebbe significati sintomatici di tipo misogino nella considerazione del fatto che Deckard reprime la propria sessualità attraverso atti di violenza che richiamano la dinamica della castrazione (l’uccisione di Pris) e nel fatto che quando il protagonista comincia a

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desiderare Rachel, la spinge a baciarlo trattandola come una merce genetica destinata alla soddisfazione dei desideri maschili. La costruzione di significati impliciti e sintomatici costituisce l’operazione di vera e propria interpretazione (non più di semplice comprensione) del film. Le tipologie di significato non compaiono sempre assieme all’interno delle singole recensioni (in alcuni casi i critici si limitano a evidenziarne alcune) e il loro utilizzo non ha avuto una diffusione simultanea nella storia dell’interpretazione. Come abbiamo visto nella parte storica, è soprattutto nella critica cinematografica francese del dopoguerra che si sviluppano strumenti di analisi abbastanza sofisticati per il reperimento di significati impliciti, mentre è soprattutto tra anni Sessanta e Settanta, a seguito dell’interazione tra analisi del film e scienze umane (psicanalisi, semiotica, teorie femministe) che si diffondono le letture sintomatiche dei testi popolari (cinema, ma anche fumetto, programmi televisivi, musica commerciale ecc.). Bisogna sottolineare che gli interpreti hanno possibilità di movimento varie ma non infinite. Sono vincolati alla realtà testuale (problema della corrispondenza e della plausibilità). Al contempo le quattro categorie offrono grandi possibilità di reperimento di significati. Così può capitare che si creino contrasti e disaccordi non solo in relazione al significato da dare a una sequenza, ma anche in relazione alla tipologia di significato. Per esempio, può succedere che un primo critico intenda una specifica inquadratura della protagonista di un film come un elemento indicante la sfiducia velata del regista nei confronti dell’elemento femminile (significato implicito). Un secondo critico potrebbe sostenere che tale sfiducia non è affatto velata ma del tutto inconsapevole e tipica di tutto il cinema commerciale dominante (significato sintomatico). Un terzo critico potrebbe infine negare del tutto che sia possibile reperire significati misogini all’interno della pellicola (in questo caso il disaccordo non sarebbe sulla tipologia del significato ma sull’esistenza stessa di un significato preciso come quello reperito dai primi due critici). Chi ha ragione? Saranno i criteri di appropriatezza, originalità e corrispondenza a determinare nel lettore l’impressione che una delle interpretazioni sia più convincente delle altre.

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9.2 Strutture di significato Soffermiamoci su una recensione di Inseparabili, un film di David Cronenberg del 1988: Basato su una vicenda realmente accaduta di due gemelli trovati morti abbracciati, dieci anni fa a New York, narrata nel romanzo Twins, di Bari Wood e Jack Geasland, il film arriva ai vertici del fantastico e li travalica, si situa in una dimensione in cui tutto ciò che è immaginabile (ossessioni, perversione, scambi di corpi, sdoppiamento di identità) viene attuato in realtà, anzi oltre la realtà, nella clinica per la cura della sterilità dei gemelli Elliot e Beverly Mantle (Jeremy Irons), ginecologi e senza che ciò possa turbare la rispettabilità e la fama dei due chirurgi che hanno inventato un divaricatore Mantle. Ma non è un horror nella tradizione del gore come non lo erano i precedenti film del regista canadese, è piuttosto una meditazione lacerante sull’ossessione per l’interno del corpo […] resa esplicita da una frase detta da Elliot al fratello ‘dovrebbero fare dei corsi di bellezza per l’interno del corpo’. In una delle scene più sature di angoscia Beverly sogna Claire che recide con i denti il cordone ombelicale che lo lega al fratello e si sveglia di soprassalto; già in stato di alterazione mentale nel tentativo di rovesciare il gioco pericoloso delle identità imposto secondo natura da Elliot, sprofondato nella droga farmaceutica per aumentare le prestazioni sessuali, Beverly precipita in una voragine di delirio che lo porterà a disegnare e farsi costruire strumenti ginecologici ‘da usare con donne mutanti’. Per Cronenberg infatti l’orrore fisico non può prescindere da quello mentale, anzi vi si trasforma ed è quest’ultimo […] a rideterminare il primo, in una forma di conversione sempre reversibile […]. Estremista, perché metafora di una drastica riflessione sulle conseguenze dello sviluppo della ricerca biologica avanzata […] Inseparabili basa la sua forza su una capacità visionaria espressa con fredda determinazione concettuale1.

Qui ricorrono gli elementi su cui ci siamo soffermati: un’esposizione parziale della trama che porta all’individuazione di significati referenziali («basato su una vicenda realmente accaduta di due gemelli...»), espliciti («una meditazione lacerante sull’ossessione per l’interno del corpo») e impliciti («riflessione sulle conseguen1 Paolo Vernaglione, Eversive anatomiche visioni, «Filmcritica», 393, marzo 1989, pp. 160-162.

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ze dello sviluppo della ricerca biologica avanzata»); la loro messa in relazione con tratti specifici del film (stringhe di dialogo, descrizione di alcune scene, richiamo alla tipologia dei personaggi). Inoltre il reperimento dei significati (soprattutto impliciti) si basa sulla formalizzazione di strutture di senso in unità più complesse. Un esempio di formalizzazione è la frase «per Cronenberg infatti l’orrore fisico non può prescindere da quello mentale». Fisico/mentale: è un caso di ciò che Bordwell chiama un campo di relazione semantica (semantic field). I campi di relazione semantica organizzano unità di significato in relazione le une con le altre, sono uno strumento attraverso cui il critico avanza ipotesi sulla natura dei significati che vuole portare alla luce in un film. I campi di relazione semantica possono differenziarsi tra loro in base al grado di complessità. Ci possono essere temi strutturati intorno a schemi di relazione assai articolati (come, per esempio, il quadrato semiotico greimasiano). Sul terreno della recensione specializzata sono prevalenti tipologie di semantic field più semplici, come i doppioni oppositivi e i temi. 9.3 Doppioni oppositivi e temi Esiste probabilmente un’attitudine cognitiva a pensare per opposti. La storia del pensiero è ricca di esempi. Anche nel campo della critica cinematografica: si va dalle analisi di Jaques Rivette dei film di Hitchcock nei termini di una opposizione tra apparenze e segreti nascosti, alle teorizzazioni di Laura Mulvey sul piacere visivo costruite sul binomio voyeurismo/feticismo, alla ricorrenza di coppie come classico/moderno, dominante/dominato, movimento/stasi, ordine/disordine. Sono tutti casi di doppioni oppositivi [Rivette 1953; Mulvey 1975]. Invece quando un significato si moltiplica secondo minime varianti attraverso un testo, quando è reperibile in molteplici elementi del testo stesso, quando è possibile individuare una ridondanza di significati simili tra loro che «fanno gruppo», non si parla più di significati semplici, ma di temi. Un tema è precisamente l’organizzazione coerente e coesa di una serie di significati raggruppabili intorno a un universo semantico omogeneo. Gli interpreti per dare ampiezza oltre che profondità all’analisi preferiscono organizzare i singoli significati in unità tematiche coerenti.

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Esiste una lista dei temi reperibili predefinita a cui rivolgersi nel corso dell’analisi? La risposta è negativa in termini assoluti. Eppure è vero che certi temi ricorrono più di altri e che in ogni epoca non tutti i temi sono percepiti come rilevanti nella stessa maniera. Hanno goduto di ottima stima presso le varie comunità interpretative temi di tipo umanistico come il rapporto tra realtà e finzione, il tema dell’alienazione, dell’incomunicabilità. Continuano ad avere buon riscontro tematiche legate a questioni come l’ambiguità della percezione, l’idea di considerare le storie messe in scena come esempi di “lettura di testi” (il detective come lettore modello impegnato nell’interpretazione di un mondo diegetico testualizzato), la fenomenologia della violenza, la paranoia della società ecc. Godono di credito alterno o sono appannaggio di cerchie ristrette di individui appartenenti a sottocomunità questioni tematiche mutuate dal realismo estetico di stampo marxista, come il problema del rispecchiamento del reale o della demistificazione di certe strutture di potere. Il campo dei temi è sempre in espansione. Ma per ogni tema che diventa rilevante ce n’è un altro che passa nel dimenticatoio. Da dopo gli anni Novanta possiamo, per esempio, costruire una serie di campi semantici intorno al «sentire cosale» dei personaggi del cinema attuale seguendo suggestioni derivate dal campo della filosofia contemporanea [De Bernardinis 1997]. Allo stesso tempo sfioreremmo il ridicolo se cercassimo di dare conto di un film nei termini delle tematiche e delle coppie oppositive attivate negli anni Sessanta da una rivista maoista come «Ombre Rosse». 9.4 Un tema longevo: la riflessività I temi cambiano sotto l’influsso costante del contesto culturale. Tuttavia, tra tutti i temi possibili, ce n’è almeno uno che ha mostrato di essere più stabile di altri. È il tema della riflessività. Con questo termine si intende la capacità che ha un testo di riflettere su se stesso, sulla propria costruzione, sul contesto che lo ha generato ecc. Già negli anni Cinquanta la critica francese si era largamente servita di tematiche riflessive. Aveva fatto scandalo presso la critica americana che François Truffaut considerasse La finestra sul cortile di Hitchcock non un film sul Greenwich Village di

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New York, ma (a livello implicito) un film sul cinema. Truffaut credeva proprio a questo principio: un buon film ci dice sempre qualcosa sulla vita e qualcosa sul cinema. Per molti studiosi del resto tutta l’arte è attraversata da una tensione tra istanze illusioniste e istanze riflessive [Stam 1985]. La riflessività ha dominato come tematica anche negli anni Sessanta e Settanta, declinata in una versione politicamente più radicale. Una riflessività aggressiva e didattica viene promossa nel cinema politico materialista e nelle sue principali teorizzazioni, con la convinzione (fortemente influenzata dalle riflessioni di Bertolt Brecht) che l’impressione di realtà prodotta dal cinema non sia altro che un effetto di precisi codici del linguaggio cinematografico. Nei due decenni successivi la riflessività ha scoperto un versante più ludico, si è depoliticizzata almeno in parte ed è stata assunta da molti studiosi come il tratto più evidente del cinema postmoderno (un cinema che rimane concettualmente riflessivo come lo era quello della modernità, ma che è anche ludicamente disincantato e capace di recuperare il piacere del testo rinunciando all’ascetismo formale del modernismo precedente). Il concetto di riflessività, in altri termini, non ci ha mai abbandonati. Oggi sappiamo che «realistico» non è sinonimo di «borghese» e «riflessivo» non è sinonimo di «rivoluzionario». Cantando Sotto la pioggia ha valenze meta-cinematografiche e riflessive ma non ha valenze politiche (se non in senso molto indiretto). Ritroviamo tratti metalinguistici di tipo godardiano normalizzate in trasmissioni televisive popolari (esibizione dell’apparato, interpellazioni dirette allo spettatore, mescolamento di materiali eterogenei come fiction e documentario ecc.). Si possono incontrare testi che sono al contempo riflessivi e reazionari (la maggior parte dei testi televisivi), e testi assolutamente illusionisti con vocazione sociale (i film di Ken Loach, per esempio). 9.5 Logica, funzionamento, applicabilità di un tema Dal punto di vista delle routine interpretative standard, la riflessività è un concetto reperibile in modo molto semplice e diretto. Bordwell ipotizza che il critico effettui uno pseudo-sillogismo del tipo:

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questo film ha la proprietà X questo film riguarda la proprietà X la proprietà X è una proprietà del cinema questo film riguarda il cinema.

Ovvero: La finestra sul cortile documenta un caso di voyeurismo, La finestra su cortile è su un caso di voyeurismo, il cinema è strettamente legato al fenomeno del voyeurismo, quindi La finestra sul cortile è un film sul cinema. La nozione di riflessività è così presente e utilizzata per almeno due motivi: 1) La sua estendibilità a qualsiasi tipologia di significato. È semplice individuare elementi di riflessività nel fatto che Io e Annie mostra gente che parla di cinema e che va al cinema. Ciò vuol dire che il film di Allen è un meta-film in virtù dei suoi significati espliciti e referenziali. Possiamo però anche dire che La finestra sul cortile è riflessivo. Ma in questo caso sarà in virtù di significati di tipo implicito (le immagini non presentano riferimenti diretti al mondo del cinema, la situazione cinematografica è presente su un piano metaforico). Possiamo anche interpretare Quinto potere (film di Sidney Lumet, del 1976, in cui si racconta il suicidio in diretta di un noto commentatore della tv) come una manifestazione di angoscia dell’istituzione cinematografica nei confronti del mezzo televisivo individuabile soprattutto sul piano sintomatico. E così via. 2) La sua estendibilità a qualsiasi piano della situazione comunicativa instaurata dal film. La riflessività presenta caratteristiche di facile riportabilità a ogni tratto puntuale del film considerato. Solo per citare i casi più noti, la narratologia, la teoria dell’enunciazione, l’analisi del film ci hanno fornito i mezzi per considerare in chiave riflessiva parodie, citazioni, sguardi in macchina, schermi incorniciati e molto altro. Tutta una serie di oggetti, situazioni e atteggiamenti ha cominciato a manifestare insospettabili caratteristiche riflessive. Non più solo personaggi e avvenimenti, esistenti e agenti, ma anche cornici, quadri, porte, finestre, specchi, gesti, movimenti di macchina sono divenuti, più o meno metaforicamente, forme di autocoscienza del mezzo, di di-

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chiarazione poetica, di esplicitazione della figura autoriale, di indebitamento nei confronti di testi precedenti. Tutto ciò significa, in poche parole, che la riflessività è virtualmente ovunque nelle pratiche interpretative ordinarie. Basta avere gli strumenti per saperla individuare. 9.6 Mappatura, due modelli a confronto Significati e temi indicano qualcosa, ma non il “dove” di questo qualcosa. Sono elementi che, per non rimanere indicazioni astratte, vanno correlati alla concretezza dei dati di un testo. Se vuole soddisfare i criteri di corrispondenza e plausibilità dell’analisi, il critico deve individuare elementi testuali che fungano da “attracco” per le unità semantiche. Chiamiamo mappatura (mapping) l’attività di correlazione delle unità semantiche con i giusti elementi testuali. Per Bordwell esistono due strategie principali di mappatura: – Modello one-to-many: una unità semantica viene mappata su più di una proprietà del film. Se, come ha fatto André Bazin, correlo il tema dell’ambiguità del reale in Quarto potere alla profondità di campo e all’uso del piano sequenza, sto utilizzando una mappatura di questo tipo, in cui appunto una unità semantica (ambiguità del reale) viene riportata a più di una caratteristica del testo (profondità di campo e utilizzo del piano sequenza) [Bazin 2000]. Nel dire che il tema della riflessività è rilevabile nel film X sul livello della costruzione dei personaggi (che, per esempio, lavorano nel mondo del cinema), nell’uso dello sguardo in macchina, nella messa in scena di sale cinematografiche e di apparecchi tecnici di ripresa, produco un tipo di interpretazione che, giocando con il modello one-to-many, ha il pregio di essere economico senza essere necessariamente sintetico. – Modello many-to-one: una sola porzione di testo viene considerata come veicolo di più di un’unità semantica. Se troviamo tensioni sull’asse natura/cultura, elementi di voyeurismo e di riflessività nella caratterizzazione di un solo personaggio; se, come spesso si fa nel campo dell’analisi testuale, analizziamo dettagliatamente l’incipit di un film, ritrovando in esso una serie di temi che poi saranno svilup-

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pati lungo tutta la storia, stiamo facendo una mappatura many-to-one, la quale ha il vantaggio di creare intorno ad una porzione di testo limitata un effetto di complessità e di polisemia. 9.7 Schemi concettuali L’attività di mappatura è facilitata dall’utilizzo di schemi cognitivi. Schemi cognitivi sono attivi nel nostro campo specifico come nella comprensione della vita di tutti i giorni. Umberto Eco e i cognitivisti nord-americani sono d’accordo nell’affermare che per capire cosa accade quando parliamo di cani, gatti, mele o sedie abbiamo bisogno di categorie [Eco 1997]. Gli schemi cognitivi ci aiutano a crearle. Per attribuire un significato referenziale bisogna svolgere delle attività di inquadramento, di framing. Per Bordwell esistono due grandi categorie di schemi cognitivi. Gli schemi categoriali e gli schemi personificanti. I primi hanno a che fare con la vera e propria attività di framing. Il più potente schema categoriale è lo schema di genere. Per quanto problematica sul piano teorico, la nozione di genere è continuamente utilizzata, sul piano dell’interpretazione, come strumento per individuare caratteristiche testuali a cui riferire determinati significati. Melodramma, western, horror, classico, moderno, postmoderno, action movie, sono categorie. I critici le impiegano anche nel processo di attribuzione di valore estetico. Capita infatti di imbattersi in recensioni in cui gli interpreti valorizzano un film proprio a partire dall’individuazione di una variazione-scarto rispetto al genere in cui il film è stato incasellato (la congiunzione di tema riflessivo e schema categoriale è la strategia-base che sta dietro la maggior parte delle difese condotte dalle riviste specializzate nei confronti dei metawestern degli ultimi vent’anni, da Michael Cimino a Walter Hill passando per Lawrence Kasdan). Lo schema personificante invece consiste nel trattare una serie di entità astratte (un insieme di personaggi e un oggetto inanimato, cioè un film) come soggetti agenti in proprio. Il critico si serve di schemi di personificazione per individuare agenti più o meno personificati nel testo, intorno o dietro a esso. Uno dei casi più comuni è quello dell’interpretazione che poggia su uno

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schema di personificazione che a sua volta investe il personaggio (indagato di solito e principalmente nella sua costruzione di ruolo narrativo, nell’espressione verbale che egli veicola, negli aspetti fisiognomici da cui è più caratterizzato). Altrettanto comuni degli schemi di personificazione del personaggio sono gli schemi operativi quando si suppone che sia il film (il cinema) stesso o la macchina da presa ad agire in proprio (per esempio in espressioni come: «la macchina da presa è sempre nervosa e mobile»; «il film colma le proprie ellissi poco a poco nel corso del suo svolgimento»), oppure quando si punta alla personificazione di entità come «stile», «messa in scena» e «narrazione». Senz’altro lo schema personificante attualmente più impiegato in campo critico è quello che investe la figura dell’autore. Nei discorsi sul cinema, nell’istituzione critica in particolar modo, la nozione di «autore» mantiene una forte e generalizzata operatività. Essa è in azione, per esempio, quando cerchiamo di individuare una coerenza tematica e stilistica dietro alle pellicole di un solo individuo, quando costruiamo un’immagine idealizzata del regista e la poniamo a monte del processo creativo trascurando l’apporto di altri fattori produttivi e realizzativi.

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Conclusioni: vincoli e libertà

10.1 I limiti dell’interpretazione Se l’analisi dell’interpretazione offerta da Bordwell è esatta, le routine interpretative sono il punto di equilibrio dell’istituzione critica: da un lato garantiscono libertà analitica grazie alla ricchezza delle tipologie di significato, alla vastità dei temi reperibili e degli schemi codificati dalla tradizione, dall’altro evitano l’anarchia dell’interpretazione, smentiscono l’ipotesi che ormai sia possibile dire tutto ciò che si vuole di un determinato film, perché comunque viene segnato un percorso che non può essere abbandonato (non tutti i temi e gli schemi sono legittimi). In certi momenti, leggendo le recensioni, si ha l’impressione che la qualità di un film non sia più un parametro definibile in sé e che si possa parlare solo di un effetto-qualità dato dall’abilità dell’interprete. Oggi i critici hanno gli strumenti per individuare tematiche, ossessioni d’autore, stratificazione antinomiche dei significati pressoché ovunque. Possono descrivere temi simili giungendo a giudizi opposti, oppure riescono a giustificare un elemento poco credibile di un testo sul piano referenziale mediante la mobilitazione di un tema scelto ad hoc (per esempio, l’anacronismo in un film storico – poniamo la presenza diegetica di un dipinto ancora non esistente all’epoca dello svolgimento dei fatti – può essere giustificato in termini non realistici mobilitando un tema mappato sul personaggio, poniamo la “diversità” di quest’ultimo rispetto alla sua epoca). Inoltre i critici, anche quando non esprimono giudizi diretti, possono usare l’interpretazione per conferire valore o disvalore ai film. L’analisi delle recensioni mette in evidenza il fatto che l’interpretazione è raramente disgiunta da processi valutativi. Esistono due strategie dominanti. Quando il critico vuole pro-

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muovere la rilevanza di un film si serve di procedure analitiche accurate, reperisce temi nuovi e presta attenzione a tutti i particolari formali del testo. La giustificazione di eventuali pecche avviene attraverso il reperimento di significati impliciti o sintomatici, appellandosi al principio di non evidenza (bisogna guardare meglio sotto le apparenze). Quando il film non viene considerato degno di particolari attenzioni, l’accuratezza di analisi lascia il posto a considerazioni sarcastiche sulla tenuta della trama, sulla plausibilità dell’intreccio. L’interpretazione accentua l’utilizzo di relazioni testo-realtà, rileva imprecisioni sul piano del messaggio mobilitando soprattutto significati espliciti e referenziali (è ciò che accade per esempio, quando si sostiene che una sequenza girata su un treno vuoto d’estate non è credibile perché i treni d’estate non sono mai vuoti, oppure che le condizioni delle donne non sono supportate nella messa in scena da una giusta conoscenza della realtà storica corrispondente ecc.). I critici possono fare tutto questo e lo fanno. Eppure ciò non significa che possano fare tutto, che «ogni cosa va bene». L’istituzione critica ha norme e percorsi (routine, appunto) da seguire. Le routine stesse fanno da argine agli eccessi di originalità. L’originalità individuale si colloca all’interno di una serie di regolarità, di pratiche che in modo impersonale e poco appariscente sono operative all’ombra di ogni atto critico. Ciò che guida l’interpretazione è ciò che in filosofia della scienza [Kuhn 1969] si chiama matrice disciplinaria, l’insieme delle mosse consentite da una data comunità (di lettura o scientifica). Le interpretazioni differiscono per qualità le une dalle altre. Questo è ovvio. Ma la critica che non usa gli schemi che la definiscono non è una critica in grado di soddisfare i membri della comunità di lettura (in definitiva la parte più consistente dei suoi fruitori). Le recensioni migliori non sono quelle che sembrano più originali in astratto, ma quelle che usano i temi e gli schemi in modo originale piuttosto che farsi usare pigramente da loro. 10.2 Storia della critica e storia della cultura: gli studi sulla ricezione Può apparire noioso spendere energie nell’esposizione delle opinioni altrui. I lavori storici sulla critica cinematografica non hanno una grande tradizione per questo motivo. Le istituzioni

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del sapere umanistico incoraggiano l’originalità. Il parametro di originalità non viene soddisfatto quando ci si limita a ricostruire le idee o i giudizi degli altri (degli altri critici, nel caso specifico). Anche in campo accademico lo studio della fortuna critica di una autore, di una corrente o di una cinematografia, è considerato sinonimo di piatta compilazione. Un modo per riscattare la storia della critica cinematografica da tali pregiudizi (spesso tutt’altro che infondati) è di inserirla all’interno di interessi sempre più diffusi negli studi di settore. Almeno dalla seconda parte degli anni Novanta l’attenzione teorica è indirizzata alla figura dello spettatore in carne e ossa, ai modi in cui la sua esperienza può essere pensata come parte della storia del cinema e osservata in termini di fruizione cinematografica. Sotto l’influsso degli studi di ricezione (reception theory), dei cultural studies (in particolare dei lavori sull’audience televisiva e il suo ruolo attivo), delle teorie letterarie reader-oriented, si interrogano i modi in cui le comunità di spettatori influenzano, creano, modificano l’identità degli oggetti culturali nel momento in cui li consumano. Gli studi di Janet Staiger, per esempio, si servono della storia della critica cinematografica, dell’analisi delle interpretazioni di vari film, per ricostruire il contesto di apparizione di fenomeni specifici. Come si crea un canone? Quando un film diventa un classico? Cosa sono i film di culto? Ad alcune di queste domande si può rispondere almeno in parte ricorrendo allo studio della critica cinematografica [Staiger 1992 e 2000]. 10.3 Janet Staiger di fronte alla ricezione critica di Arancia Meccanica Ripercorriamo il modo in cui Staiger ricostruisce il contesto di fruizione di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, negli Stati Uniti [Staiger 2000]. Alla sua uscita, nel 1971, la pellicola, si afferma come un filmscandalo che innesca una grossa produzione di discorsi, recensioni e dibattiti. Staiger opera su questo materiale scritto una prima divisione: da una parte le recensioni negative del film, dall’altra quelle positive. Segue una seconda divisione: all’interno delle recensioni negative vengono individuati tre filoni tematici:

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1) La critica della rappresentazione della violenza e della sessualità come fine a se stessa. La violenza viene giudicata gratuita. Le musiche di commento ironiche sugli atti di brutalità sembrano ai detrattori un segno di cinismo. Kubrick è accusato di avere posizioni anti-umaniste. Ci si sofferma sui processi di immedesimazione dello spettatore nei confronti del protagonista Alex. Le recensioni parlano di una vittima migliore dei carnefici. Secondo questi articoli, il comportamento di Alex è motivato psicologicamente nel romanzo di Anthony Burgess da cui il film è tratto (cattivi genitori e pessime compagnie), mentre nel film l’istituzione poliziesca è descritta nella sua brutalità e nel godimento che prova praticando l’eccesso punitivo, senza giustificazioni. Tutto ciò potrebbe suggerire l’idea che non ci sia differenza tra violenza e violenza. Da qui deriva anche la critica seguente. 2) L’accusa di ambiguità ideologica: il film si concede appunto un atteggiamento incerto nei confronti delle brutalità mostrate. 3) L’accusa di misoginia. Per alcune femministe il modo in cui Kubrick ha messo in scena la violenza è molto diverso da come viene descritta nel libro. Nel film sembra che le donne vogliano essere martoriate e molestate. Inoltre la violenza sulla donna è trattata comicamente. Il film quindi rispetto al romanzo compie uno slittamento da posizioni genericamente misantrope ad altre specificamente misogine. Queste alcune delle argomentazioni riportate da Staiger tratte dalla stampa dell’epoca. La cosa interessante è che dietro a ogni filone di critica viene individuato un insieme di strati interpretativi. I temi critici in altri termini si organizzano nel dibattito a partire dalle circostanze culturali dell’epoca, in concomitanza con insiemi discorsivi adiacenti. Per esempio, Arancia Meccanica attira tanto l’attenzione su dinamiche legate alla sessualità per un motivo principale: i cambiamenti della definizione di oscenità tra anni Sessanta e Settanta a seguito sia della parziale diffusione nelle grandi città del cinema moderno europeo sia dei discorsi sulla liberazione sessuale successivi agli anni delle ribellioni giovanili. Malgrado le voci a sfavore, la pellicola diventa un oggetto di culto, presto canonizzato come uno dei film più importanti de-

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gli anni Settanta. Dopo avere ripercorso le recensioni a favore Staiger si sofferma sui fattori contestuali che hanno avuto un ruolo nella canonizzazione del film. In primo luogo il pubblico intellettuale della art houses (sorta di circoli culturali del cinema d’autore) promuove e appoggia il film celebrandolo in prospettiva autoriale. Il suo regista viene considerato quasi da subito un nuovo maestro. In secondo luogo Arancia Meccanica attira l’attenzione delle sottoculture gay e in generale il pubblico dell’underground trash cinema raccolto intorno alle proiezioni notturne, cicliche e ripetute, di film di culto. La trasformazione di Arancia Meccanica in un film di culto riguarda quindi sia pratiche critiche, sia pubblici selezionati, sale cinematografiche particolari, comunità ristrette di spettatori. Il film lascia il segno che lascia perché diventa oggetto di strategie di visibilità capillari, diffuse, ma precise, che coinvolgono sottogruppi definiti di spettatori. Arancia Meccanica e le sue interpretazioni fanno parte di una formazione discorsiva. I vari strati della formazione riguardano i discorsi interpretativi propriamente detti, ma anche pratiche concrete di visione, comportamento, gusto. 10.4 Coda: la critica nel circuito dei discorsi sociali Questo è un modo di fare storia della critica che ha almeno il merito di non limitarsi a fare la rassegna stampa di un fenomeno. È un metodo che collega gli enunciati di gusto e le strategie di lettura al contesto intellettuale di un’epoca. La critica cinematografica non è solo un’attività svolta a giochi già fatti, un servizio utile per orientare al consumo, è anche uno dei luoghi in cui viene costruita e negoziata la rilevanza sociale dell’esperienza cinematografica. In tal modo la storia della ricezione critica può smettere di essere un esercizio compilativo e diventare un contributo a una più generale storia della cultura.

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