Le nuove forme della cultura cinematografica. Critica e cinefilia nell'epoca del web 8857509001, 9788857509006

La cultura cinematografica è in crisi? Molti operatori del settore propendono a rispondere di sì: al cinema ci si va men

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Le nuove forme della cultura cinematografica. Critica e cinefilia nell'epoca del web
 8857509001, 9788857509006

Table of contents :
Introduzione - Menarini, Roy
La critica cinematografica tra la sopravvivenza dell'expertise e la logica di Google - Bisoni, Claudio
Dal portale al blog : storie della critica non ufficiale - Malavasi, Luca
Cinefilia, trash e mutazioni mediatiche - Pezzotta, Alberto
Il discorso del festival - Bellavita, Andrea
TV Tropes Will Ruin Your Life : forme, canoni e obiettivi della critica online nella geek culture - Di Chiara, Francesco
Mymovies : la critica cinematografica online fra tradizione e rinnovamento - Autelitano, Alice
Primavera 2010 : The End : la serie tv tra fine di un'era e critica web - Martin, Sara
La riconfigurazione multimadiale del fenomeno Otaku : passione spettatoriale, critica anti-istituzionale e autorappresentazione giovanile nell’animazione giapponese contemporanea di serie - Teti, Marco
L'affaire L.A. Noire : comunità critiche e modi di ricezione nei discorsi tra cinema e videogioco - Benôit Carbone, Marco
Tutto ciò che è solido si dissolve - Persico, Daniela ; Stellino, Alessandro
Scrivere di cinema in rete : riflessioni personali - Rosenbaum, Jonathan
Sulla cresta dell'onda : l’esperienza della nuova cinefilia - Shambu, Girish
Postilla - Canova, Gianni
Gli autori -

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CINERGIE n. 1 Collana diretta da Roy Menarini

COMITATO SCIENTIFICO: Simone Arcagni (Università degli Studi di Palermo) Mariagrazia Fanchi (Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano) Luisella Farinotti (IULM – Milano) Leonardo Gandini (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) Vinzenz Hediger (Goethe Universität – Frankfurt am Main) Guglielmo Pescatore (Università di Bologna) Leonardo Quaresima (Università degli Studi di Udine) Dario Tomasi (Università degli Studi di Torino)

www.cinergie.it

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LE NUOVE FORME DELLA CULTURA CINEMATOGRAFICA Critica e cinefilia nell’epoca del web a cura di Roy Menarini

MIMESIS Cinergie

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Il volume è stato realizzato con il sostegno di:

Dipartimento di Storia e tutela dei Beni Culturali

Associazione Culturale Maiè

© 2012 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Isbn: 9788857509006 Collana: Cinergie n. 1 www.mimesisedizioni.it / www.mimesisbookshop.com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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INDICE

INTRODUZIONE di Roy Menarini

p.

9

LA CRITICA CINEMATOGRAFICA TRA LA SOPRAVVIVENZA DELL’EXPERTISE E LA LOGICA DI GOOGLE di Claudio Bisoni

p.

17

DAL PORTALE AL BLOG Storie della critica non ufficiale di Luca Malavasi

p.

33

CINEFILIA, TRASH E MUTAZIONI MEDIATICHE di Alberto Pezzotta

p.

51

IL DISCORSO DEL FESTIVAL di Andrea Bellavita

p.

71

SEZIONE UNO

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SEZIONE DUE TV TROPES WILL RUIN YOUR LIFE Forme, canoni e obiettivi della critica online nella geek culture di Francesco Di Chiara

p.

87

«MYMOVIES» La critica cinematografica online fra tradizione e rinnovamento di Alice Autelitano

p.

97

PRIMAVERA 2010 – THE END Le serie tv tra fine di un’era e critica web di Sara Martin

p. 107

LA RICONFIGURAZIONE MULTIMEDIALE DEL FENOMENO OTAKU Passione spettatoriale, critica anti-istituzionale e autorappresentazione giovanile nell’animazione giapponese contemporanea di serie di Marco Teti

p. 121

L’AFFAIRE L.A. NOIRE Comunità critiche e modi di ricezione nei discorsi tra cinema e videogioco di Marco Benoît Carbone

p. 135

SEZIONE TRE TUTTO CIÒ CHE È SOLIDO SI DISSOLVE di Alessandro Stellino e Daniela Persico

p. 151

SCRIVERE DI CINEMA IN RETE Riflessioni personali di Jonathan Rosenbaum

p. 161

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SULLA CRESTA DELL’ONDA L’esperienza della nuova cinefilia di Girish Shambu

p. 171

POSTILLA di Gianni Canova

p. 179

GLI AUTORI

p. 183

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Ringraziamenti Il curatore ringrazia, oltre ai collaboratori del presente volume, il DAMS di Gorizia e il gruppo di ricerca che ne fa parte. In particolare, tematiche e implicazioni di questo volume sono state messe a punto all’interno dei seminari del Dottorato internazionale di Studi Audiovisivi: Cinema, Musica e Comunicazione, Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali, Università di Udine.

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ROY MENARINI

INTRODUZIONE

Il mondo della critica e quello della cinefilia sono radicalmente cambiati nel corso degli ultimi anni. Non poteva essere altrimenti. È il cinema stesso che, sottoposto a mutamenti epocali e a potenti trasformazioni indotte dalle nuove tecnologie, sta assumendo una nuova posizione nel panorama culturale, sia come istituzione sia come mezzo espressivo. L’ambito del cosiddetto post-cinema ha fatto sì che la tradizionale esperienza cinematografica si sia tramutata in una più ampia esperienza mediale, alle prese con trasformazioni della fruizione tali da non poter lasciare inalterata la gamma degli strumenti estetici, interpretativi e di giudizio che formuliamo di fronte a un film. Curiosamente, però, le nozioni di genere, autore, festival, popolare, etc. sembrano non aver subito modificazioni nel profondo, almeno non nella maggioranza dei discorsi sociali. Ciascuna di queste categorie, anzi, ha saputo negoziare con i new media una propria soggettività. Per esempio, l’industria del blockbuster ha occupato in maniera sempre più orizzontale gli spazi mediali, ampliando la serie di interventi pubblicitari o di consenso e lavorando, anche testualmente, su narrazioni modulari e innovazioni tecnologiche in grado di assorbire le spinte centrifughe del web (in tal modo valorizzando nuovamente la sala come luogo della prima fruizione collettiva e del lancio per le successive piattaforme). Il cinema d’autore, a sua volta, pur ripiegato in maniera preoccupante sulla funzione nobilitante della sala, cerca di mantenere vivo il confronto con il colosso multinazionale allo scopo di difendere, se non ampliare, la nicchia del mercato che gli compete, in tal senso lavorando nella nicchia del web (si vedano le distribuzioni alternative proposte da siti e piattaforme online e video-on-demand). Il cinema internazionale “da festival” sembra quello più in fibrilla-

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Le nuove forme della cultura cinematografica

zione, grazie a appuntamenti vivacissimi e interessanti esperienze curatoriali (più che i grandi festival, bisogna guardare a Rotterdam, Melbourne, Pusan, per citarne alcuni). Lo scenario, insomma, è meno addormentato di quel che si vorrebbe far credere, anzi. E anche cinefilia e critica stanno affrontando cambiamenti decisivi. Il presente volume si deve intendere come primo punto fermo e primo approdo di analisi delle trasformazioni avvenute in questi anni. Non pretende di essere né un’istantanea del presente (condannandosi all’immediata obsolescenza, vista la rapidità delle variazioni sul web), né una predizione del futuro. Troppe volte, proprio intorno al cinema, si sono previste rivoluzioni che non hanno avuto luogo. Una di esse – la scomparsa della pellicola e la sua definitiva sostituzione con supporti digitali – è finalmente giunta, ma molto più lentamente del previsto. Allo stesso modo, il tramonto della sala ha incontrato resistenze impreviste, e idee originali (il ritorno del 3D va annoverato tra i colpi di scena elaborati dall’industria audiovisiva). Certo, al cinema non si andrà mai più allo stesso modo nel quale ci si andava negli anni Sessanta o Settanta. Tuttavia, l’integrazione e la rimediazione dei mezzi di comunicazione sta già dando i suoi frutti, destinando non alla scomparsa bensì a un ridimensionamento persino virtuoso l’universo dei grandi schermi. A lato, ma nei panni dell’elefante nella stanza di cui tutti conoscono l’esistenza ma di cui si parla con circospezione, c’è la deregulation del web, dove si trova praticamente tutto il mainstream che si vuole vedere. Gli anni Duemila hanno sancito l’impossibilità di frenare il fenomeno – che per di più, secondo studi molto informati, non sarebbe il vero nemico del cinema in sala, anzi. E anche i più eclatanti colpi portati dall’FBI o dalle legislazioni continentali e nazionali hanno per ora solamente scalfito l’enorme archivio di possibilità gratuite online. È probabile che – attraverso un ripensamento del diritto d’autore e della proprietà intellettuale, e per mezzo di graduali emersioni del pay-perview a basso prezzo – prima o poi avverrà quell’integrazione legale tra media diversi di cui si parla da tempo. Vedremo. Se ci dilunghiamo su questi mutamenti, è perché anche la critica e la cinefilia ne sono state toccate. Entrambe, pur non venendo considerate sinonimi una dell’altra (al contrario, trovandosi spesso su sponde opposte, caso mai in qualche occasione unite da un certo tradizionalismo), si sono in questi anni trovate a negoziare

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R. Menarini - Introduzione

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la propria presenza e lo storico prestigio qualitativo con fenomeni di pura quantità. Entrambe colpevoli, in certi settori, di conservatorismo e pura difesa consociativa dell’idea del cinema che fu, esse hanno solo in alcuni casi saputo riflettere in senso metalinguistico sui propri strumenti di espressione e in funzione metodologica sulle categorie analitiche ed estetiche da adeguare al mutato scenario. I nodi sono numerosi, e qui ci limitiamo a ricordarne alcuni, visto che la maggior parte verranno sviluppati e problematizzati nelle pagine a seguire: 1) il tema della perdita di statuto istituzionale e culturale della critica, che però si scontra con dati di assoluto interesse, quali la crescita inarrestabile della forma-recensione sul web. A mo’ di esempio: il sito più consultato in Italia, www.mymovies.it, che vanta 7 milioni di utenti unici al mese, grazie a news, trailer, approfondimenti, interviste, giochi, anteprime live, etc. ha come sezione di gran lunga più letta proprio quella delle recensioni (alcune delle quali giungono a cifre di lettori inimmaginabili per qualsiasi altra testata cartacea, sia essa periodica o quotidiana); 2) la restaurazione della critica come pratica di giudizio immediato e misurabile, ricollocato alla sua funzione semaforica e di sanzione di qualità (i casi di www.rottentomatoes.com e www. metacritic.com, dove i giudizi dei critici sui film, stoccati in grande quantità, danno vita a vere e proprie percentuali di gradimento); 3) le forme della critica non ufficiale, dapprima i blog singoli poi i siti di appassionati, che determinano una sorprendente vicinanza tra chi emette il giudizio e chi lo riceve (i casi dei portali di critica sulla serialità televisiva, come www.serialmente.com); 4) la disseminazione della critica come pratica quotidiana sui social network, sui social media, e sui forum di discussione (i comments, le sempre più frequenti richieste da parte delle testate ufficiali di recensioni dei lettori, le battaglie di valore); 5) le reazioni della critica ufficiale di fronte alle trasformazioni multimediali, come la video critica sui siti dei quotidiani o la twitter-critica; 6) la presenza sul web di numerose comunità cinefile, per le quali il primato della sala è ormai un valore superato, ma che tutta-

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Le nuove forme della cultura cinematografica

via seguono una sorta di esperanto del world cinema e del cinema d’autore – mescolato ovviamente al mai scomparso fascino esotico delle cinematografie emergenti, come Filippine o Thailandia, per citare le più vivaci negli anni Zero – e si affiliano a siti (come «MUBI», o «Doc Alliance» o altri) che propongono, in alleanza con i festival, una vera e propria distribuzione alternativa. Una nuova cinefilia, al tempo stesso conservatrice e innovativa, si sta affacciando. Certo, il mondo del web non si è ancora trasformato in un luogo remunerativo per il cinema di nicchia, ma niente impedisce che lo diventi. Il volume dunque punta a una prima storicizzazione delle trasformazioni, e a un quadro il più possibile stabile di quel che è avvenuto e avviene negli anni Duemila, con l’ovvia possibilità di tracciare percorsi che originano anche da prima (le trasformazioni della critica di fronte alle nuove tecnologie e ai mutamenti sociali e culturali dell’epoca mediale data a ben prima del 2000, come noto). Il libro è suddiviso in questo modo: una prima parte ospita interventi di largo respiro, intesi come saggi quadro sui problemi esposti, che vanno a toccare parole chiave come la critica web, la nozione di popolare, l’alleanza tra cinema bis e tecnologie, la funzione socioculturale dei festival. Una seconda sezione, invece, è dedicata a circostanze specifiche di analisi, case studies, oggetti mediali di studio, non sempre e non solo centrati sul cinema in senso stretto, ma anzi alle prese con esempi indicativi di comunità di riferimento, aree non periferiche dei discorsi sui prodotti culturali, e altri media (dall’animazione al videogame, dalla televisione al web). Infine, proponiamo un’appendice, curata insieme a una delle più raffinate e vivaci testate online, «Filmidee», con un estratto del dibattito sulla nuova cinefilia, che sta impegnando una vasta e suggestiva comunità di esperti, critici, appassionati, rigorosamente sul web, e che qui trova una prima sintesi libresca. Anche nel nostro caso, il presente volume – come i successivi della collana Cinergie ospitata da Mimesis – ha l’ambizione di non relazionarsi solamente a se stesso, né di esaurire la sua identità culturale in libreria. La rivista online Cinergie, che reca lo stesso

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R. Menarini - Introduzione

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nome della collana, andrà considerata come strumento di integrazione dei volumi, di rilancio di determinate questioni teoriche e critiche, di collettore dei pensieri che circolano in questi anni all’interno di un sempre più frastagliato (e suggestivo) panorama dei discorsi sul cinema. I libri fungeranno un po’ da punti fermi, come mezzi più stabili e storicizzati di riflessione e competenza sui singoli problemi affrontati. Il più sentito ringraziamento va ai collaboratori del presente volume, alla redazione di Cinergie, all’Università di Udine e al DAMS di Gorizia in seno al quale sono maturate idee, opportunità e possibilità di pubblicazioni, al comitato scientifico nazionale e internazionale che ha da subito accolto l’invito a guidare questa nuova collana.

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SEZIONE UNO

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CLAUDIO BISONI

LA CRITICA CINEMATOGRAFICA TRA LA SOPRAVVIVENZA DELL’EXPERTISE E LA LOGICA DI GOOGLE

Ma che cosa è questa crisi? Una breve premessa. Chi ha confidenza con la storia della critica cinematografica sa che le lacrime versate sui tempi andati e le previsioni di imminente autodissoluzione non sono da intendere come segni di un malessere oggettivo. Al contrario, vanno prese come un tratto di vitalità. Finché si lamenta, rimpiange, teme per sé e le sorti della cultura tutta, la critica è viva. O quanto meno lotta tra noi per tenersi a galla. Dalla fine degli anni Settanta, cioè da quando il nostro oggetto di studio e amore ha cominciato a esibire gli acciacchi dell’età, non s’è visto decennio sprovvisto di qualche dibattito sui destini della critica cinematografica. È stato così per gli anni Ottanta, quando si discuteva ancora di riflusso e la lezione della cinefilia settantesca era troppo fresca e scandalosa per essere assorbita senza traumi in un’industria culturale in rapido cambiamento. È stato così negli anni Novanta, quando riflessività, intertestualità, metacinema e postmoderno hanno preteso di farla da padroni. Ed è così, a maggior ragione, anche adesso, nella nostra contemporaneità digitale, dove qualcosa di grosso sta senz’altro accadendo. Oggi è la critica specializzata – quella che si legge su «Cineforum», «Filmcritica», «Segnocinema» – a tradire le smagliature più evidenti. I confini che la dividevano, a livello di gusti e di enciclopedie di riferimento, dalla vituperata critica quotidianistica appaiono sempre più labili. Il supporto attraverso cui ha continuato a esprimersi risente dei cambiamenti propri del settore editoriale e librario. Inoltre gli strumenti euristici privilegiati in quell’ambito hanno cominciato a mostrare sempre di più la corda. Si pensi ai recenti dibattiti sul rapporto critica/teoria e, più nel-

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Le nuove forme della cultura cinematografica

lo specifico, alla questione dell’autore. La nozione di autore aveva sempre funzionato come un dispositivo di integrazione tra produzione e consumo, cioè come uno di quei dispositivi che secondo Alberto Abruzzese inglobano in un unico corpo conflittuale la cultura d’élite e la cultura di massa (cosicché a partire dagli anni Trenta, se si parla di comunicazioni di massa o di industria culturale, non si parla di un’area che esclude la produzione di qualità, che marcia parallela alla produzione d’autore, che si distanzia dai generi colti, ma si dice invece tutto lo spessore di un sistema complesso in cui i due poli originari del conflitto si sono “sciolti” in modi estremamente complessi, trasversali)1.

La critica d’altra parte, proprio servendosi di questi dispositivi, aveva continuato a gestire la ripartizione del sensibile culturale secondo-novecentesco, separando arte e divertimento, gestendo le divergenze tra l’arte classica e l’arte industriale: Il ceto intellettuale […] consegna all’industria culturale le tecniche del divertimento. È una “rigorosa” spartizione tra la concettualizzazione in termini di valori ideali dei prodotti del lavoro creativo e la sperimentazione in termini di valori di mercato di tecniche capaci di divertire, cioè capaci di tradurre l’immaginario nei linguaggi del corpo e non in quello ormai socialmente “svuotato” dei concetti”2.

È evidente che oggi – ma le cose hanno cominciato a essere così almeno dagli anni Ottanta – non ha alcun senso cercare di gestire le forme di ricomposizione di queste fratture. E infatti la nozione d’autore pare uno dei punti più dolenti dell’industria interpretativa. Secondo Alberto Pezzotta il fallimento dell’autore riguarda in primo luogo la dinamica della diffusione culturale. Oggi gli autori non sono più popolari. Nel senso che la loro promozione investe un circuito sempre più asfittico di addetti ai lavori. In secondo luogo c’è un problema di rappresentanza/rappresentazione della figura dell’autore. Esiste ancora una funzione-autore ma è circoscrivibile

1 2

A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo. Fondamenti di storia e teoria dell’immaginario, Meltemi, Roma 2001, p. 139. Ivi, p. 141.

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C. Bisoni - La critica cinematografica

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a un “marketing dell’effetto-firma”3. L’autore oggi rappresenta solo se stesso, non rimanda a un contesto, a meccanismi identitari su scala macro-culturale. Inserito nei processi della globalizzazione, è come se si muovesse nel vuoto, ha perso contatto con territori specifici ed esperienze accomunanti. Oltre a ciò – seguiamo ancora Pezzotta – la fine dell’autore è un fallimento critico. La nozione serve poco per spiegare la maggior parte dei filmmaker attivi nel cinema odierno. E anche se servisse ancora a qualcosa, si pone anche qui un problema di “ascolto”. Alla pari del cinema, anche la critica ha perso un reale potere di incidenza sul sociale e sulle dinamiche generali che regolano i fatti estetici. La qualità delle argomentazioni cade in un contesto dove “nessuno ascolta più la critica”. Le osservazioni sulla capacità di ascolto della critica meritano qualche ulteriore osservazione. L’idea di un mondo in cui la critica giace inascoltata presuppone l’esistenza, in un’altra epoca neppure tanto lontano dalla nostra, di un modo in cui le cose non erano così. Il rischio di idealizzazione del passato diventa consistente. Possiamo indicare in modo abbastanza preciso un periodo della storia del Novecento in cui il cinema è stato l’arte popolare di massa per eccellenza. Con un leggero sforzo in più possiamo anche individuare dei momenti, piuttosto circoscritti, in cui persino il cinema d’autore ha goduto di una certa popolarità. Ma possiamo fare altrettanto con la critica? Quando la critica cinematografica è stata realmente popolare? Quando ha manifestato un incontrovertibile potere di inscrizione sociale? Di solito, se si devono fare i nomi dei critici più temuti e influenti si ricade sempre sugli stessi esempi: Pauline Kael per qualche regista della New Hollywood, il Marotta degli anni Sessanta sul cinema italiano, le firme di Bosley Crowther e Vincent Canby per i lettori del «New York Times». 3

A. Pezzotta, La critica e il fallimento degli autori, in «Cineforum», n. 496, luglio-agosto 2010, p. 50. La frase è una citazione da Serge Daney. Sotto l’influenza di questo effetto, bisogna immaginare che si possano iscrivere anche gli autori cinematografici contemporanei, in verità popolarissimi, che hanno fatto del brand autoriale un punto chiaro di riconoscimento, da Tarantino ad Almodóvar. Si pensi anche al potere della nozione d’autore nei processi di identificazione artistica e della comunicazione letteraria, cfr. C. Benedetti, L’ombra lunga dell’autore. Indagine su una figura cancellata, Feltrinelli, Milano 1999.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

Pochi nomi appunto, quasi tutti appartenenti a un periodo compreso tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, tra la nascita del cinema moderno e gli ultimi fuochi del modernismo politico (un giro d’anni a cui ci si è riferiti con l’espressione “The Golden Age of Movie Criticism”4). Più che altro eccezioni rispetto a una norma che dice tutt’altro. La verità è che la critica ha esercitato qualche influenza in settori limitati della storia del cinema moderno, senza mai incidere in modo determinante sulle dinamiche di consumo e di popolarità dei film. Nessun critico ha mai avuto il potere di cancellare un successo popolare, né viceversa di canonizzare, da solo, opere, correnti, autori (ogni processo di canonizzazione di un testo, per definizione, richiede la presenza di più variabili, a meno che il testo non sia Il Libro e il critico non sia Dio…). Ridefinire il “popolare” Da cosa deriva dunque il senso di disgregazione? La prima cosa da notare è che cambiando la percezione del campo culturale nel suo insieme, è mutata la nozione stessa di cosa vada inteso con il termine “popolare”. Per usare una metafora televisiva, nella cultura di massa novecentesca la dinamica del popolare è un fenomeno di diffusione delle unità culturali di tipo broadcasting, un modello uno a molti: poche istituzioni culturali incaricate di produrre testi e poche istituzioni incaricate dei processi di commento e autenticazione a fronte di una massa omogenea di consumatori. Più porzioni di massa amorfa vengono raggiunte da un’unità culturale, più sarà alto il grado di popolarità di quella stessa unità. L’idea di Chris Anderson è che solo oggi si vede la vera natura del consumo e della sua domanda. La si vede solo ora grazie alla democratizzazione degli strumenti di produzione, all’abbattimento dei costi di stoccaggio, spostamento e reperimento dei beni culturali: fenomeni sempre più caratteristici della rivoluzione digitale5. Prima invece, la natura della domanda era nascosta, occultata dalla scelta limi4 5

P. Lopate (a cura di), American Movie Critics. An Anthology From the Silents Until Now, The Library of America, New York 2006, p. IX. C. Anderson, La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati, Codice, Torino 2007.

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C. Bisoni - La critica cinematografica

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tata e dalla scarsità di informazione a loro volta dipendenti dalla struttura one-to-many dell’industria culturale tradizionale. Se ciò è senz’altro vero per quanto riguarda i settori della produzione “pesante” (si pensi al divario in termini di offerta di beni e servizi tra i palinsesti della tv commerciale dei primi anni Ottanta e il sistema mediale integrato di oggi), il quadro è un po’ più complesso per quanto riguarda la cultura nella sua generalità. Già dagli anni Settanta le logiche profonde cominciano a cambiare. In termini di teoria dei modelli, Flavio De Bernardinis6 parla di mutamento vettoriale: dal verticale all’orizzontale, reticolare, ibrido, point to point. […] dopo il Sessantotto, tutta la sfera della cultura viene meno alla propria funzione, ossia prefigurare, costituire uno strumento di previsione, uno spazio intermedio, una camera di compensazione tra il pensiero e la realtà effettuale. Dopo il Sessantotto, la cultura né anticipa, né media: la cultura accade. […] i fatti della politica, della società, della cultura, adesso sembrano irrompere. Provenienti non dal grande serbatoio della Storia, del Tempo, ma dall’eccesso di cultura di cui ogni punto dello spazio, della rete globale è immediatamente intriso.

La mia ipotesi è che il modello reticolare (uno a uno/molti a molti) della trasmissione culturale potenzialmente presente già dagli anni Settanta si compie proprio nella nostra epoca digitale, epoca nella quale l’eccesso di cultura e il modello a rete si manifestano in modo plateale e in cui, non a caso, alcune idee settantesche sembrano andare incontro a una “letteralizzazione” radicale: rilancio degli ideali partecipativi, modalità di trasmissione dei saperi dal basso, crisi delle istituzioni culturali, ridefinizione dei consumi, delle esperienze e degli spazi di visione. A prima vista la metafora migliore per descrivere le nuove modalità di diffusione culturale è quella del contagio, del fenomeno virale, dell’epidemia (qualcosa, tra l’altro, che ha uno spazio sempre più ampio nel nostro immaginario, anche cinematografico). Basta guardare le classifiche settimanali dei video più cliccati su Youtube per provare un senso di sconforto. Ci si trova di fronte 6

F. De Bernardinis, 1970-1976: appunti per una mutazione, in F. De Bernardinis (a cura di), Storia del cinema italiano, 1970-1976, vol. XII, Marsilio/ Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma, 2008, pp. 3-4.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

a una pletora di successi effimeri e incontrollabili: unità culturali che, interessate ciecamente solo alla replica infinita di se stesse, si diffondono attraverso ciò di cui dispongono, il vettore memetico per eccellenza della contemporaneità, la rete appunto. È sempre Anderson a suggerire che a questo quadro corrisponde un’idea molto diversa di cosa sia popolare. A essere popolare è la nicchia. O al limite l’insieme dei segmenti ritagliati a costituire un effettomassa, una nuova popolarità data dalla somma di tante comunità di gusto e consumo (la ridefinizione del termine comunità non a caso, come la nozione di popolare, è di nuovo al centro dell’interesse della filosofia politica). Le istituzioni tradizionalmente incaricate di dispensare consigli e divieti perdono gran parte del loro potere. Tuttavia esistono pratiche e processi che permettono il formarsi delle sottocomunità, che fanno da zona di aggregazione di idee, giudizi, abitudini ed esperienze. Continuano ad esistere operatori che facilitano la diffusione massiccia di certe unità culturali a discapito di altre. Nella teoria delle reti si chiamano connettori (hub)7, l’evoluzione web di ciò che la sociologia empirica dei media tradizionale aveva studiato sotto l’etichetta di leader di opinione di tipo locale8. Questo è il punto in cui si vede meglio il rapporto stretto che lega la figura del critico (cinematografico ma non solo) al tema del tramonto dell’expertise così comune agli Internet studies. I più entusiasti (in genere un diretto prodotto dell’ideologia Wiredoriented) celebrano la diffusione della cultura cinematografica online nei termini di una sconfitta dell’elitarismo critico tradizionale a vantaggio dell’esplosione della forma-recensione online su blog, siti, social network. Come dire: “everyone is a media outlet, i nuovi taste makers siamo noi”. Le cose non stanno proprio così. Infatti anche i difensori della cultura convergente hanno notato come le culture di fandom riproducano spesso la struttura verticistica, elitaria, tradizionale di organizzazione dei saperi. Per esempio, quando Henry Jenkins fa l’anatomia di una knowledge community studiando lo spoiling di Survivor incontra intelligenza collettiva e 7 8

A. Barabási, Link. La scienza delle reti, Einaudi, Torino 2004. Cfr. R.K. Merton, Patterns of Influence. A Study of Interpersonal Influence and of Communications Behavior in a Local Community, in P. Lazarsfeld, F. Stanton (a cura di), Communications Research 1948-1949, Harper & Brothers, New York 1949.

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modelli di partecipazione ludica alternativa all’expertise tradizionale. Ma anche altro: brain trusts che si svolgono “a porte chiuse”, vincolo sulla libera circolazione delle informazioni, segreti svelati in modalità top-down9. La comunità di spoiler di Survivor funziona proprio quando mantiene vivo lo scontro tra expert paradigm (soggetti che gestiscono informazioni riservate e ricavate da fonti protette) e scoperte artigianali (letture frame by frame ecc.). Ed è un interessante oggetto di studio non tanto come sito di contestazione/superamento dei saperi tradizionali, quanto piuttosto come occasione in cui è permesso a chi non ha accesso a certe istituzioni di riprodurne le dinamiche altrove: fare la parte dell’esperto, giocare il ruolo dell’autorità indiscutibile, provare l’esperienza dell’autorevolezza intellettuale ecc., in una specie di riappropriazione pop del paradigma dell’esperto. Fenomeni simili sono comuni alla cultura cinematografica online. Nella quale mi pare si possa dire che si contendono il campo due modelli di influenza culturale, entrambi esemplificati dal funzionamento di Amazon.com. Da un lato troviamo il fenomeno delle guide d’acquisto personalizzate online. Ogni volta che compri un libro o un film, il sito è in grado di elaborare un parametro di similarità tra unità di consumo e indicare un altro set di item culturali “limitrofi” che potrebbero ugualmente interessarti e che hanno interessato altri consumatori simili a te. Qui il meccanismo tradizionale dell’expertise è superato da un sistema automatico di registrazione ed elaborazione di metadati (item-to-item collaborative filtering10) capace di creare una sorta di simulacro di comunità di consumatori. Su questo piano gli algoritmi di raccomandazione tipici dei siti di e-commerce rubano il lavoro al recensore e lo fanno senza neanche prendersi la briga di pensare. D’altra parte troviamo la sopravvivenza di forme di expertise più tradizionali11. Amazon.com o siti come «MYmovies» hanno una 9 10 11

H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007. Cfr. G. Linden, B. Smith, J. York, Amazon.com recommendations, consultabile all’indirizzo http://ieeexplore.ieee.org/xpl/freeabs_all. jsp?arnumber=1167344 Cfr. M. Verboord, The Legitimacy of Book Critics in the Age of the Internet and Omnivorouness: Expert Critics, Internet Critics and Peer Critics in Flanders and the Netherlands, in «European Sociological Review», n. 26 (6),

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sezione dove viene raccolta una rassegna stampa e nuovi recensori si affacciano sempre sulla scena (o negli spazi dedicati ai consumatori-recensori, o in spazi analoghi di approfondimento dove prendono la parola esperti il cui capitale culturale si è consolidato altrove). L’expertise tradizionale è continuamente rimediata attraverso siti, blog, pagine personali, riviste online; funziona come un sistema senz’altro meno affidabile e chiuso di un tempo, ma anche molto più “testabile” nei suoi risultati e presupposti. Tutto ciò ha conseguenze di un certo rilievo sul ruolo della critica specializzata, la quale, per tradizione, ha più puntato sul ruolo esclusivo della propria expertise e si trova impreparata di fronte ad altri due tratti di fondo della cultura digitale, che per forza di cose riguardano anche la cultura cinematografica e che in qualche modo derivano dalle cose dette finora. Vediamoli. La rivincita della quantità All’interno delle humanities vige un’abitudine ben radicata a considerare la cultura in termini qualitativi12. La critica è sempre stata un’agenzia pensata per mettere in discorso la qualità culturale. Il critico cinematografico, da buon umanista, non fa eccezione. Pezzotta sostiene che alcuni dei principi-guida della critica oggi appaiono anacronistici13. E cita i criteri dell’incidenza politica e della innovazione formale: due criteri qualitativi per eccellenza. Per la tradizione illuminista, gli sciami, le masse, le epidemie quantitative di dati e comportamenti sono sciagure da limitare o evitare. Oggi sono il punto-chiave dello studio dei sistemi complessi14. Il mondo digitale è il luogo dove l’aspetto di maggiore stacco rispetto all’era pre-digitale è nell’ordine del quantitativo. Il quantitativo assorbe il qualitativo. La produzione simbolica è caratterizzata da fenomeni il cui tratto saliente è la quantità. Le

12 13 14

2010. Si possono naturalmente trovare varie eccezioni a questa massima generale, la più nota delle quali resta forse, per quanto riguarda il campo della teoria letteraria, il lavoro di Franco Moretti. A. Pezzotta, op. cit. Cfr. J. Parikka, Insect Media: An Archaeology of Animals and Technology, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2010.

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teorie dei sistemi complessi si basano sulla elaborazione di quantità elevate di informazioni. Capire un sistema complesso non significa interpretarlo, ma simularlo e al limite prevederlo. Il potere simulativo-previsionale è direttamente proporzionale al potere di calcolo e gestione di masse smisurate di dati. I problemi di espressività, stratificazione del significato, interpretazione degli item culturali lasciano il posto a problemi di raccolta, stoccaggio, reperimento dati. Il passaggio dall’immaginario del monolito kubrickiano (oggetto unico, puntuale, e al contempo abisso insondabile di senso) all’immaginario dell’archivio è osservabile un po’ ovunque e in particolar modo nelle comunità di fandom: le forme di epistemofilia contemporanea non si orientano verso il “piacere del testo” ipotizzato dalla teoria modernista, cioè nella direzione di pratiche interpretative radicali, ma verso la logica della mappa, dell’enciclopedia, dell’atlante e del dizionario, insomma della sistemazione ordinata dei saperi in eccesso che caratterizzano i prodotti culturali contemporanei. Il più straordinario dispositivo di sussunzione della qualità sotto la quantità è Google. Il motore di ricerca è un simulatore di empatia che riesce a riprodurre stati considerati, par excellence, qualitativi (intelligenza, capacità di violazione della privacy epistemica altrui) grazie a parametri come “capacità di calcolo” e “gestione di risorse di rete”. L’algoritmo appare in grado di risolvere l’immenso problema filosofico della rilevanza discriminando ciò che è importante da ciò che non lo è in base a una situazione stabilita da una domanda. Sembra cioè sensibile alle variabili pragmatiche in cui è la domanda stessa è posta. Google estende i propri compiti di ricognizione oltre le caratteristiche interne dei singoli file, verso i comportamenti e la ricorrenza delle richieste. Il motore condensa nella propria memoria le tracce di esperienza degli individui nella loro interazione con i dati, i metadati articolati in giudizi e valutazioni, con il compito di definire l’importanza dei dati stessi per il dibattito in corso nelle varie comunità di utenti . Il lavoro collettivo di produzione di significati culturali è tracciabile in toto15. Il trionfo dei metadati sembra l’esplosione dell’enciclopedia ideale 15

Per gli aspetti strutturali di Google e le riflessioni appena fatte sono debitore di P. Bottazzini, Googlecrazia. Il mondo in una query, Convergenze, Milano 2010.

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di Umberto Eco: l’insieme registrato di tutte le interpretazioni, la libreria delle librerie degli avvenimenti semiotici16. Ciò significa che Google è di per sé una macchina del giudizio generalizzato, l’occorrenza più espressiva di un’epoca di esplosione e registrazione integrale del gusto. Il mondo della critica cinematografica non è alieno da tutto ciò. Si prenda «Metacritic». Il sito accumula e rende consultabili decine e decine di recensioni di prodotti afferenti a quattro capitoli di intrattenimento (movies, games, tv, music). Di ogni film viene fornito un metascore in centesimi, costituito dalla media delle recensioni distribuite su tre gradi di giudizio (positive, mixed, negative). La qualità puntuale delle singole recensioni è a portata di mano. Basta cliccare su “read full review”. Il dato più interessante rimane il metascore: attraverso una versione sofisticata della valutazione “palline e stellette” con un colpo d’occhio ci si può fare un’idea dell’accoglienza nordamericana della maggior parte dei prodotti dell’industria culturale mainstream. Criteri analoghi regolano la sezione degli articoli degli utenti (Users Reviews). Come è facile notare frequentando anche la sezione delle recensioni degli utenti di Amazon.com, l’algoritmo del sito rielabora la valutazione che i singoli lettori danno del valutatore stesso. Ogni critico ha un punteggio di gradimento che lo spinge più o meno in alto nella classifica dei recensori più affidabili. Gli scettici avrebbero gioco facile a notare che i criteri indicativi della presunta qualità/ affidabilità di un recensore sono ben diversi dai valori fissati nella tradizione umanistica. In sintesi essere un buon recensore su Amazon significa soddisfare quasi gli stessi parametri individuati da Chuck Tryon a proposito dei blogger più influenti: alta connessione (alto quantitativo di recensioni postate), aggiornamento continuo, coinvolgimento in una rete di altri pareri/utenti, grado di “utilità” immediata17. Ciò che però conta è la “massa critica”, la possibilità nuova di gestire medie statistiche che segnalano delle continuità nei fenomeni di consumo, nonché l’aspetto legato anche in questo caso alla pro16 17

Cfr. C. Paolucci, Strutturalismo e interpretazione, Bompiani, Milano 2010, p. 454. Cfr. C. Tryon, Reinventing Cinema. Movies in the Age of Media Covergence, Rutgers Brunswick, New Jersey-London 2009, in particolare pp. 125-148.

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liferazione dei metadati. Su «Metacritic» è possibile analizzare lo score complessivo di ogni recensore professionista, leggendo tutte le recensioni di un singolo critico e il suo grado di “bontà” o “cattiveria” verso il cinema in generale in relazione alla media di tutti gli altri recensori e in base a tre gradazioni di giudizio (higher than the average critic/same as the average critic/lower than the average critic). Il sistema di valutazione incrociato tra film, prodotti culturali, lettori e recensori professionali testimonia in modo eloquente quanto la nostra contemporaneità – così infestata da elenchi, classifiche, liste di gradimenti e disgusti – sia uno spazio culturale in cui è tutt’altro che superfluo confrontarsi a fondo con la funzione orientativa al consumo. Una funzione che tra l’altro orienta non solo più a scegliere tra i prodotti culturali ma anche tra le recensioni dei medesimi, tra i critici che tentano di commentarli, discreditarli o legittimarli. Critica di gusto 2.0 La sociologia del gusto è una delle aree più vitali del pensiero sociologico contemporaneo. Almeno da quarant’anni ci insegna a considerare il gusto come una variabile socialmente determinata e le sue componenti come fattori centrali nella formazione della vita sociale. Esiste però una tradizione di pensiero, per altro con nobilissime ascendenze filosofiche, che considera il gusto principalmente come una facoltà del soggetto: qualcosa di connesso con il modo di essere della soggettività, con il giudizio di gradimento e quindi con un problema di affidabilità e fondatezza del gusto medesimo. È a questa linea di riflessione che si sono riallacciati in modo istintivo la critica cinematografica specializzata e, più in generale, i film studies. Chi scrive è cresciuto in un periodo nel quale la critica delle riviste si opponeva alla critica “impressionistica”, che veniva appunto definita “critica di gusto”, con ciò proprio indicando una categoria del lavoro intellettuale che all’argomentazione ragionata e all’utilizzo di protocolli metodologici se non certi quanto meno falsificabili, preferiva l’affermazione tautologica degli interessi privati di singoli o élite. Il giudizio e la valutazione venivano considerate attività compromesse con gli aspetti più aleatori e ideologici del lavoro intellettuale.

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Credo che sia venuto il momento di lasciarsi alle spalle questa impostazione. Nella società delle reti il posto un tempo occupato dalle agenzie come la critica e le istituzioni scolastiche è stato parzialmente preso dai nuovi taste maker e la stessa teoria del gusto si trova ad affrontare problemi inediti. La sociologia post-bourdieuiana ha corroborato e aggiornato il modello di analisi della formazione e della trasmissione del gusto in base a quale le pratiche di consumo e apprezzamento culturale sono formate e determinate da network sociali preesistenti18.Tuttavia i meccanismi di distinzione sono andati incontro a descrizioni alternative rispetto all’ipotesi di Bourdieu. È da intendere in questo senso la nota tesi onnivora di Peterson e Kern: la crisi delle forme consolidate di snobismo culturale indica che la cultura highbrow non si basa più su un consumo di beni elitari (Peterson e Kern si occupano specificamente di gusti musicali) ma su un ampliamento della dieta di consumo, fino a includere testi e prodotti propri delle forme di intrattenimento popolare19. A ben vedere non si tratta di una teoria del superamento dei criteri di distinzione attraverso gusti e consumi. Ma di una teoria di sviluppo di dinamiche distintive in un’epoca di maggiore accesso a beni, merci e servizi. Questo incremento è una costante della società delle reti. Dove infatti si assiste a un altro fatto degno di nota. I gusti sono determinati dai network relazionali ma vale anche l’inverso: i differenti stili di consumo e apprezzamento culturale influenzano e/o generano reti sociali20. Il gusto si converte all’istante in forme di socialità e di relazione tra individui, come testimoniato anche dai recenti studi sulle liste di preferenze e attività sui social network21. Online le reti 18 19 20

21

A partire ovviamente dal lavoro fondativo in questo ambito di studi: P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna 1983. R. A. Peterson, R. M. Kern, Changing Highbrow Taste: From Snob to Omnivore, in «American Sociological Review», vol. 61, n. 5, ottobre 1996. O. Lizardo, How Cultural Tastes Shape Personal Networks, in «American Sociological Review», vol. 71, n. 5, ottobre 2006. Cfr. anche O. Sullivan, T. Katz-Gerro, The Omnivore Thesis Revisited: Voracious Cultural Consumers, in «European Sociological Review», vol. 23, n. 2, 2007. Uno studio in chiave semiotico-computazionale dei social network come siti in grado di profilare le performance di gusto dei soggetti si trova in H. Liu, Social Network Profiles as Taste Performances, in «Journal of Computer-Mediated Communication», n. 13, 2008.

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di interrelazione personale sono più fluide e aperte. Il consumo culturale non solo favorisce i network esistenti ma aiuta a crearne di nuovi, offrendo basi conversazionali per interagire tra soggetti con interessi simili. Il gusto diventa sempre più un meccanismo di identificazione rituale e un modo per costruire reti fiduciarie, secondo la logica di funzionamento del capitale subculturale, delle nicchie formate da piccole comunità ognuna guidata da un set distintivo di stili di vita22. Comunità in cui sono i gusti a costruire il principale elemento di socialità/sociabilità23. Bourdieu aveva insistito sul principio dell’omologia attraverso i campi. Ogni campo culturale (letteratura, arti visive, musica, design, arredamento, alimentazione ecc.) ha un’autonomia e può essere indagato nelle sue relazioni interne. Malgrado ciò ci sono omologie trasversali: principi di classificazione e distinzione si riproducono attraverso più settori culturali. Un recente contributo coordinato da Tony Bennett giunge alla conclusione che i campi culturali odierni mostrano un maggior grado di autonomia rispetto al contesto degli studi di Bourdieu24. Vi sono campi che incrementano i processi di distinzione più di altri. Ve ne sono altri che al contrario vengono meno attraversati da polarità. Tra questi ultimi Bennett e i suoi collaboratori mettono anche cinema e televisione. L’ipotesi è che questi media tradizionali poco marcati da processi di differenziazione e distinzione abbiano oggi un ruolo di punto di convergenza culturale per gruppi di individui che, sotto altri aspetti e in altri campi, possono manifestare gusti molto diversificati. Tuttavia basta seguire la ramificazione generata dai link consigliati sui blog di cinema per accorgersi di come l’organizzazione in sotto-comunità di gusto sia un fenomeno presente anche nel campo dei media audiovisivi. Viviamo dunque in una società del giudizio generalizzato e imperante, dove i fattori di gusto funzionano come dispositivi di se22 23

24

Cfr. S. Thornton, Dai club ai rave: musica, media e capitale sotto culturale, Feltrinelli, Milano 1998. Per una distinzione dei due aspetti nella cultura delle reti, cfr. R. Eugeni, La ridefinizione del popolare nella società delle reti, consultabile all’indirizzo http://amsacta.cib.unibo.it/3030/1/La_ridefinizione_del_popolare_nella_ societ%C3%A0_delle_reti.pdf. T. Bennett, M. Savage, E. Silva, A. Warde, M. Gayo-Cal, D. Wright, Culture, Class, Distinction, Routledge, London-New York 2009.

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lezione nell’oceano di opzioni culturali che hanno invaso le nostre vite e sono tra i pochi elementi capaci di gestire processi identitari. La critica cinematografica non può non tenerne conto. Ed è auspicabile che si prodighi (come talvolta già sta facendo) per ri-inscrivere la propria expertise sul versante delle dinamiche di gusto, gestendole con l’autorevolezza che potrebbe continuare benissimo a esserle propria, invece di subirle. Conclusioni Ho sostenuto fin qui che la critica specializzata ha – per propria “storia naturale” – serie difficoltà a fare i conti con gli aspetti quantitativi della produzione culturale odierna e con la rivincita delle dinamiche di gusto tipiche delle comunità online. Però non voglio affermare che tutta la critica cinematografica è in crisi nell’epoca di Google. Dico solo che un suo settore risente del cambiamento più di altri. Lo spazio critico dalle culture digitali è tutt’altro che precluso all’expertise tradizionale. È uno spazio sempre più aperto e percorribile. Ad alcune condizioni. In primo luogo tarda – veramente oltre ogni ragionevole tempo massimo – una riflessione sulla validità dei supporti (per esempio, davvero ha ancora senso la rivista editoriale cartacea?). Inoltre, come ho detto, i critici dovrebbero dimostrarsi pronti ad abbandonare antiche pretese culturali e smettere di considerare la funziona orientativa al consumo come il più sciocco dei propri compiti. Avere una funzione di orientamento oggi significa concentrarsi sulle interconnessioni e sui meccanismi di diffusione dei saperi, attraversare le sottocomunità di consumo, lavorare trasversalmente sui capitali subculturali. Un lavoro per nulla semplice, scontato o privo di sorprese. A volte viene il sospetto che il coro delle lamentele non riguardi la presunta degenerazione dei discorsi sul cinema. Ma qualcosa d’altro difficile da articolare con formule chiare. La de-istituzionalizzazione della critica online ha portato allo scoperto la natura sostanzialmente “amatoriale” della produzione critica stessa. Per decenni, a fronte di un ristrettissimo numero di giornalisti e titolari di rubrica pagati per vedere e recensire film, l’ottanta per

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cento del comparto delle riviste cinematografiche e dell’attività recensoria è stato mandato avanti dal volontarismo culturale. Eppure pochi sarebbero stati disposti a considerare assurda la pretesa di essere pagati per vedere film che si sarebbero visti in ogni caso. Quello rimaneva comunque l’obbiettivo ragionevole e legittimo. La critica sul web ha mandato in crisi le ultime difese che permettevano di considerare seriamente l’autenticazione culturale come un lavoro salariato. Ora possiamo dire, più lucidamente: c’è stato un periodo piuttosto breve della storia dell’evoluzione culturale dell’Occidente in cui è parsa possibile la distribuzione del privilegio di vivere compilando pareri, interpretazioni giudizi sui prodotti della cultura di massa. E quell’epoca è finita. Come ciò riguardi però un presunto malessere della critica tout court è tutto da chiarire. La verità è che la rete non manda in crisi la cultura cinematografica ma solo alcune sue cinghie di trasmissione. Non vincola o riduce in alcun modo significativo l’accesso ai saperi tradizionali. Qualsiasi critico specializzato può continuare a fare ciò che ha sempre fatto, senza rinunciare a standard consolidati di qualità ed erudizione. Al contempo, se vuole, può anche collaborare alle piattaforme online. Scoprirà che i suoi articoli sul web saranno letti da un numero di persone irraggiungibile per qualsiasi articolo di rivista specializzata su carta. Non riesco a rimpiangere, come fa Pezzotta, “la dolcezza di vivere prima della rivoluzione globalizzata”25, quando gruppi di cinefili happy few che avevano bruciato le paghette di mezza vita in videocassette di contrabbando si ritrovavano al Festival di Torino tutti compiaciuti di essere in pochi a conoscere e apprezzare Wong Kar-wai. Così come neppure mi è facile condividere l’entusiasmo di Robert Koehler26 quando afferma: Se […] dovessi scegliere tra l’epoca dei Kael, Sarris e Bazin e la nostra, caratterizzata da migliaia di punti di vista non esiterei un istante a propendere per quest’ultima. Si tratta di un ambiente molto più avventuroso e creativo, con un accesso al cinema molto più ampio 25 26

A. Pezzotta, op. cit., p. 53. Citato in A. Stellino, D. Persico, Tutto ciò che è solido si dissolve, consultabile all’indirizzo: http://www.filmidee.it/archive/27/article/37/article. aspx. Si veda anche C. Tryon, Reinventing Cinema. Movies, cit.

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rispetto al passato. Preferisco vivere una temperie in cui esistono critici come Olaf Moller, Francisco Ferreira, Jonathan Rosenbaum, Quintin, Kent Jones, Diego Lerer, Jim Hoberman, Richard Brody e Christoph Huber.

Non mi è facile per la semplice ragione che nessuno mi costringe a scegliere tra le due narrazioni (il racconto nostalgico pre-globalizzazione o l’entusiasmo neopartecipativo): posso avere Bazin e anche «Senses of Cinema», e forse, ancora per un po’, il festival di nicchia (magari sì globalizzato… ma pazienza) e «MUBI» o «Festival Scope». La diffusione della cultura cinematografica digitale ha forse tolto il lavoro a qualcuno ma in genere non segue una logica disgiuntiva: si aggiunge e implementa la cultura cinematografica tradizionale. Si può sottoscrivere anche per la critica di cinema la semplice constatazione fatta da Noël Carroll riguardo alla critica d’arte: “There is probably more art criticism being produced and consumed now than ever before in the history of the world”27. Si fa fatica a capire cosa ci sia di male in tutto questo.

27

N. Carroll, On Criticism, Routledge, New York-London 2009, p. 1: un contributo recente che, in polemica con la filosofia dell’arte contemporanea, fa della priorità del momento valutativo su quello interpretativo il principale tema di discussione, giungendo a risultati abbastanza vicini a quanto ho sostenuto riguardo al ritorno della critica di gusto 2.0. Si veda in particolare la sezione del primo capitolo significativamente intitolata “The retreat from evaluation”.

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LUCA MALAVASI

DAL PORTALE AL BLOG Storie della critica non ufficiale

L’impero dei segni Il 12 novembre 2011, sono nati 103,970 blog, portando così il totale dei blog esistenti a 176,688,172. Esistenti, non necessariamente vivi. Perché, si sa, “aprire” un blog è ormai facile come accendere il computer: io stesso, non proprio bravissimo in queste cose, ci ho impiegato poco più di venti minuti. Altro è occuparsene costantemente, rendersi visibili e popolari, “gemellarsi” con altri blog, tampinare gli amici perché lascino un commento etc. Con tutta probabilità, il numero dei blog defunti o dormienti è pari – se non superiore – a quello dei nuovi nati, ma nelle statistiche di Blogpulse o dell’analogo Technorati manca del tutto questa indicazione, anche se la si può dedurre indirettamente da altre statistiche: per esempio, solo il 40% circa dei blog è aggiornato in media una volta al giorno o alla settimana; e, come si sa, quando un blog comincia a vivere di commenti mensili o, addirittura, di incursioni annuali, è come se fosse morto o, almeno, seriamente malato. Anche se, dal punto di vista formale o tecnologico, un blog non muore davvero mai: semplicemente, si interrompe, lasciando dietro di sé una scia di pensieri, parole, immagini che non smettono davvero mai di comunicare (o, quantomeno, di essere indicizzate), dentro il pulviscolo di frasi che compone la semiofera di Internet. E mai come in questo caso è vero ciò che affermava Jurij Lotman: e cioè, che ad avere un ruolo primario non sono i singoli elementi ma il “grande sistema” nella sua totalità e complessità. Fuor di statistica, la questione interessante è: perché ogni giorno centinaia di migliaia di persone decidono di aprire un blog e di cominciare a scrivere? Di entrare nel “grande sistema”? E, magari, di scrivere di cinema, e di entrare nel “piccolo sistema” della critica

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online? Difficile immaginare che, prima dell’invenzione di Internet, ci fosse un’analoga spinta (numericamente parlando) a inaugurare un diario scritto – perché proprio il diario, in fondo, rappresenta il modello comunicativo originario e strutturante di un blog: nelle statistiche qualitative di Blogpulse, il “diary” è di gran lunga la tipologia di topic più comune e frequente. È tuttavia evidente che, per quanto riferito concettualmente alla logica espressiva del diario, il blog ne è, dal punto di vista comunicativo (evitiamo di approfondire qui l’aspetto formale), l’opposto: ha infatti origine da un impulso a essere e a diventare pubblici, dal desiderio di esibire la propria intimità attraverso la scrittura, con una forza locutoria più simile al proclama offerto al pubblico anonimo e indifferenziato della Rete. Come ben sintetizza il dottor Sussman in Contagion (Steven Soderbergh, 2011): “Blogging is not writing. It’s just graffiti with punctuation”. Coniugando impulsi privati e desideri pubblici, i blog danno forma all’unico, vero modo contemporaneo di comunicare, fondato sulla visibilità della scrittura. Ciò che è detto deve anche essere visto (prima ancora che letto; o indipendentemente dal fatto di esserlo). I blog hanno realizzato un passaggio culturale per certi versi definitivo, che riguarda sia la forma della scrittura, sia la natura della comunicazione verbale: trasformare la scrittura in immagine e in “spettacolo” visivo, in pratica gestuale e pittografia della scrittura stessa. L’analogia sopracitata tra blog e graffiti è vera soprattutto da questo punto di vista (mentre il dottor Sussman la utilizzava per ridimensionare la credibilità dell’informazione blogghistica): perché i muri, si sa, attirano la scrittura; il muro “è il supporto stesso che sprigiona un’energia di scrittura, è lui che scrive […]: nulla appare più voyeur di un muro inscritto, perché nulla è osservato, letto con maggiore intensità”. Il muro, come aveva già intuito Barthes negli anni Sessanta, “è lo spazio eletto della scrittura moderna”1; e la profezia sembra essersi perfettamente avverata (il “wall” di Facebook). Il paradosso del muro (perché tale diventa se associato a una scrittura diaristica) spiega inoltre, dal punto di vista sociale, quel ritorno alla scrittura che mi sembra il più interessante fenomeno culturale dell’ultimo decennio (anche 1

R. Barthes, Variazione sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1999, p. 66.

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se lo svuota, al tempo stesso, delle promesse di crescita che sembrerebbe portare con sé). Ma la Rete non è soltanto il luogo della gestualità blogghistica. Accanto al “formato” del blog – certo il più originale e interessante – l’impulso contemporaneo alla scritturalità si realizza in forme molto diverse, variando continuamente l’equilibro tra la soddisfazione di quel primo impulso e il più quieto rinnovamento di pratiche e funzioni tradizionalmente associate all’atto di scrivere. In campo lungo, la Rete rimanda l’immagine di un territorio abitato da molteplici incarnazioni dell’idea di scrittura, rendendo quasi impossibile fornire una risposta univoca sul significato della scrittura nel/ del web. Ragionare – come faremo nelle prossime pagine – sulla critica cinematografica in Rete significa dunque, in primo luogo, confrontarsi con un’inedita molteplicità di forme (e di scritture), in cui il “mezzo” non esercita semplicemente una pressione mediale ma si rende (o potrebbe rendersi) complice attivo di una ridefinizione dei linguaggi, delle forme e delle pratiche della critica. Dal nostro punto di vista, si tratta soprattutto di capire se il territorio plurale della Rete ha contribuito in qualche modo a rinnovare la critica cinematografica, e se chi ha eletto il web a proprio spazio e mezzo d’espressione è riuscito a trasformare potenzialità e limiti del medium in novità non del tutto sciolte da un dialogo con la tradizione della critica, producendo qualche tipo di crescita o cambiamento rispetto a un ambito professionale che, com’è noto, negli anni ha perduto spazi, visibilità e, soprattutto, capacità di incidere sul dibattito culturale; si tratta, in prospettiva, di capire se il “sistema” Internet è riuscito a definire uno spazio per la critica cinematografica non provvisorio ma alternativo – sia sotto il profilo culturale, sia sotto il profilo delle pratiche discorsive – rispetto alla critica “istituzionale” che, non solo per tradizione, sembra stabilmente definita (in Italia) da un numero assai ristretto di pubblicazioni specialistiche mensili e bimestrali e dalla critica dei quotidiani: due territori lontanissimi, eppure abitualmente associati nell’idea di critica cinematografica. Come si vede, l’aspetto su cui mi sembra interessante ragionare è quello della natura stessa della critica, intesa come insieme di discorsi sociali che non si limitano a legiferare in merito al bello o al brutto, o a svolgere una funzione di servizio per il lettore/spettatore, ma definiscono un territorio chiaramente individuato dal pun-

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to di vista sociale e culturale, caratterizzato da pratiche e obiettivi ben precisi. Nelle pagine che seguono insisteremo dunque soprattutto sull’analisi delle trasformazioni (eventuali) che le scritture della Rete hanno prodotto nei confronti della critica intesa come istituzione: con riferimento, dunque, alle sue modalità espressive e comunicative, alla sua autonomia e riconoscibilità sociale, alle sue funzioni e alla sua dimensione culturale. Chiedendoci, in particolare: se il “nuovo” inscritto nel funzionamento stesso della Rete ha portato qualcosa di altrettanto nuovo alla critica cinematografica (che di novità sembra avere un disperato bisogno); quale idea di critica fa da palinsesto alle scritture della Rete e, al tempo stesso, quale idea di critica viene (ri)definita e rilanciata da queste stesse scritture; se ha ancora senso parlare al singolare (la critica, il critico) e come sono cambiati il gioco delle parti e i profili e i ruoli dei personaggi coinvolti (spettatori, lettori, cinefili, fan, amatori, critici…). Spazio altro o altrove? La critica fast-food Esiste uno specifico della critica online? Per quanto riguarda il cinema, l’idea di specifico è stata a lungo popolare: in particolare, ha guidato il dibattito teorico durante quei decenni in cui il cinema era alla ricerca di se stesso, nel confronto con il sistema delle Arti Maggiori. Porsi oggi questa domanda con riferimento alla critica in Rete mi sembra più che legittimo: in parte, perché la critica online è ancora un territorio in evoluzione, dove quel che si è fatto e si fa sembra avere approfittato solo in piccola parte delle novità – formali, tecnologiche, comunicative etc. – inscritte nella Rete stessa; in parte, perché il fenomeno, soprattutto sul piano culturale, è poco più che maggiorenne, tanto che sembra frettoloso se non impossibile riconoscere – non dico quantificare – il valore culturale della critica online. E poi, naturalmente, perché esiste una Sorella Maggiore, la critica cartacea, erede di una lunga e codificata tradizione, con cui le scritture della Rete devono e spesso desiderano consapevolmente confrontarsi. I termini in gioco sono dunque due, il medium e l’istituto della critica cinematografica così come la conosciamo e pensiamo, ed è dalla loro combinazione che sembra nascere la stragrande mag-

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gioranza della critica online. Combinazione di vecchio e nuovo, di pratiche canonizzate e di nuove possibilità espressive, di contesti d’azione storicizzati e di originali prospettive di realizzazione, di spazi chiaramente segnati (e fortemente limitati) e di possibilità apparentemente infinite di produzione di contenuti. La critica online – e quello che oggi è o potrebbe essere il suo specifico – nasce dall’incrocio di questi termini: dal maggiore o minore investimento su questo o quell’aspetto offerto dalla Rete e dal maggiore o minore grado di consapevolezza con cui è vissuto il confronto con la tradizione della critica cinematografica. E il gioco delle possibilità e delle combinazioni sembra potenzialmente senza limiti. Finora, tuttavia, più che la ricerca di un nuovo modo di fare critica, tanto sui blog quanto sui portali si è assistito alla quieta sommatoria delle caratteristiche più appariscenti e tradizionali dei due termini in gioco. Il risultato di questa prima ed elementare ibridazione è un tertium estremamente conservatore: lo si vede bene analizzando la struttura dei principali portali di cinema italiani – da «MYmovies» a «Movieplayer» –, estremamente simile e, nel complesso, modellata sul palinsesto di un rivista “generalista” come Ciak: per la sua mescolanza di informazione e approfondimento, interviste e recensioni, alto (articoli dedicati all’opera di un autore) e basso (giornalismo “rosa” sul mondo dei divi), cinema e “altre arti” affini (musica, televisione, fumetti…). La home page di questi portali è sempre piuttosto simile: all’informazione (prossimamente, news, dati del box office etc.) si affiancano le recensioni, tante, in linea con le uscite cinematografiche. Recensioni di film, certo, ma anche di altro, se non (idealmente) di tutto: film in tv, colonne sonore, dvd e blu-ray, serie tv (e, in alcuni casi, le loro singole puntate). Recensioni per altro verso classicissime, “da manuale”: queste catene di montaggio del commento sembrano scoraggiare deviazioni dalla norma e libertà autoriali, avendo di mira l’elaborazione di un’opinione critica in cui l’anonimato della forma si fa implicitamente garante di oggettività. Dal punto di vista concettuale, lo specifico critico dei principali portali Internet dedicati al cinema si regge insomma su un principio della quantità, idealmente opposto non alla qualità (che per molti starebbe altrove, nei giornali e nelle riviste) ma alla (inevitabile) esiguità dei contenuti cartacei (quindi, alla non-quantità). Lo spostamento dal termine contrario a quello contraddittorio è em-

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blematico, e il principio della quantità diventa, implicitamente, un principio di qualità. O, forse, per dar ragione ai detrattori della critica online, il contrario sarebbe proprio la non-quantità, con definitiva scomparsa dell’idea di qualità (i contraddittori, allora, sarebbero dei termini “irregolari” o, per l’appunto, emblematicamente, delle caselle vuote): non nel senso che non c’è qualità, ma nel senso che non importa più a nessuno; e se anche c’è, diventa difficile vederla. In effetti, il principio bulimico che fa da palinsesto ai portali specializzati sembra reggersi sulla necessaria decadenza di logiche come la selezione o l’identificazione, che sono, tradizionalmente, due vettori di riconoscibilità: definiscono una “linea” e promuovono una “firma”. Tutto è uguale a tutto: tutto si recensisce, tutto si recensisce allo stesso modo (e, implicitamente, tutto è passibile di essere recensito). In tal senso, i portali, occultando il principio della selezione, obliterano anche quello – ben più importante dal punto di vista sociale e culturale – della gerarchizzazione, trasformando le logiche e i linguaggi della critica in pratiche dizionariali, in cui proprio la componente critica – non semplicemente valutativa, ma di riflessione, argomentazione, elaborazione di un pensiero che non si conclude nell’espressione di un giudizio di valore – viene soffocata o addirittura convertita in (al limite, scambiata per) semplice informazione. È dunque facile intuire come alla critica cinematografica – intesa come istituzione e come pratica culturale – tutto questo serva a poco. Cadendo un principio della distinzione fondato su logiche diverse da quelle della quantità, i portali finiscono non soltanto per assomigliarsi tutti, ma perdono anche l’occasione di costituirsi come spazi altri rispetto al dibattito culturale che circonda i singoli film o il cinema in generale. Finché ci si limita a moltiplicare i modelli della critica cartacea, eleggendo la fertilità della Rete a unico punto di forza o linea guida (non una, due, tre recensioni, ma recensioni di tutto), è evidente che lo spazio definito e occupato da questi portali non possiede alcuno specifico – appunto – ma, più semplicemente, si impone come un altro spazio; più esattamente, come la versione rinvigorita e un po’ dopata dell’attività critica cartacea. Correlativamente, il conservatorismo di gran parte dei portali di cinema riguarda anche il lettore implicito inscritto in queste operazioni: si deduce un modello di lettore generico e opaco, a

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tal punto onnicomprensivo da non rinviare più ad alcun soggetto sociale minimamente caratterizzato. È il punto di non ritorno di un’esasperata interpretazione della “libertà” del web: che va benissimo, ma pone i portali di cinema dentro un’idea di critica fastfood che corrisponde – sia sull’asse della produzione, sia su quello del consumo – a un soggetto professionista, quello che Floch ha definito – con riferimento ad altri ambiti di consumo – il trangugiatore2. Alla base del consumo professionistico c’è, per l’appunto, un modus rapido, indifferente ai valori qualitativi, non estetico, fondato sull’immediata sazietà e sulla soddisfazione pratica di un bisogno. A questo modello si adeguano tutti o quasi i portali (italiani) di cinema, assolvendo così una funzione legittima e importante, ma che poco o nulla ha a che fare con la critica, le sue forme, la sua funzione e i suoi obiettivi. Anzi, dal punto di vista culturale, questo universo della recensione, alimentato dalle scritture acerbe di giovani o giovanissimi, generalmente non pagati e non selezionati, rischia di avere una ricaduta nociva sull’istituto della critica. Perché, oltre a non produrre alcun tipo di spostamento rispetto a un’idea basica di critica, la critica fast-food rischia anche di delegittimare un “mestiere” sempre a rischio di decadenza o estinzione. Scrive Armond White: We got film critics who are employed professionally by legitimate publications, and we have the world of the internet film writers. The internet has become so pervasive and overwhelming that the internet has stolen the impact and prestige and effect that traditional professional film criticism used to have. As a result of that I think that people who are now employed by the mainstream media are so intimidated by the internet that it seems, when you read mainstream published film critics, that they’ve simply given up being film critics, because they’re afraid of losing readership, because they’re afraid of losing their jobs, probably because publishers and editors simply want to get readers and appease readers, rather than inform and instruct readers. And I think that leads to a kind of anarchy where there are very few people writing about film who know what they’re talking about and who are rigorous about having standards in film. The anarchy, I think, comes 2

M. Floch, Semiotica, marketing e comunicazione, Franco Angeli, Milano 1997, pp. 59-88 e Id., Bricolage. Lettere ai semiologi della terra ferma, Meltemi, Roma 2006, pp. 184-200.

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from the fact that in mainstream media and the internet, most people who are writing about films are simply writing from a fan’s perspective instead of a truly critical perspective. So what used to be termed “film critics” now is almost meaningless, because you just got a free-for-all of enthusiasms rather than criticism3.

Il testo di White solleva molte interessanti questioni: quella della legittimazione della professione (quando si diventa un critico?), quella di una nuova forma di concorrenza, sicuramente più sentita negli Stati Uniti, condotta dalla Rete nei confronti del cartaceo, e che rischia non di “migliorare il prodotto” ma di adeguarlo definitivamente alle aspettative di lettori ed editori (fine della critica che – cito – “istruisce i lettori”); infine, la questione più spinosa, e la domanda più difficile a cui rispondere: chi è – oggi – il critico cinematografico? Le scritture della Rete non producono o legittimano soltanto una certa idea di critica; inevitabilmente, contribuiscono a dire qualcosa anche in merito al suo interprete e responsabile, il critico. In proposito, la pur rapida analisi della logica dei portali di cinema rivela l’esistenza di un critico trangugiatore al servizio di un principio della quantità, un “professionista” che maneggia in modo non problematico un modello ridotto a modulo, un opinionista anonimo fagocitato dal principio della bulimia che definisce la forma di questi portali. Principio che, è chiaro, per soddisfarsi sacrifica sull’altare della quantità anche la selezione degli addetti al lavoro, per altro verso protetti dalla dimensione meccanica e para-industriale del “mestiere” così ridefinito. E tutto questo – ne deriva – finisce per scambiare la funzione con il ruolo, sostituendo nuovamente un principio della qualità con uno della quantità: sono un critico perché recensisco – tanto, tutto, continuamente. White ha dunque torto quando dice che non basta scrivere di cinema per essere un critico, e non basta avere un’opinione su un film, e scriverla (“pubblicarla” online), per fare critica cinematografica; certo, può non aver torto in assoluto, ma sbaglia sicuramente perché esprime una speranza, anziché confrontarsi con la realtà. Mentre resistono, nel territorio del cartaceo, logiche più tradizionali di legittimazione e riconoscimento, la critica online sembra 3

http://www.slashfilm.com/armond-white-i-do-think-it-is-fair-to-saythat-roger-ebert-destroyed-film-criticism/.

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essersi dotata di regole di legittimazione sue proprie, un po’ solipsistiche e muscolari e nate, in alcuni casi, contro quelle della critica cartacea, a partire da un atteggiamento contro-culturale che, se condivisibile nelle premesse, fallisce quasi sempre nella realizzazione dei propositi (ne riparleremo tra poco, occupandoci di blog). Il cuore della questione, ancora una volta, non è un nostalgico rimpianto per un recente passato (c’è poco da rimpiangere, del resto), ma la verifica dell’eventuale esistenza di nuove forme o modi o percorsi di legittimazione del ruolo e della professione di critico cinematografico introdotti dalla Rete. La risposta, al momento, sembrerebbe negativa: il “sistema” della critica, ridefinito dall’avvento delle scritture della Rete, è in fase di dispersione e disgregazione, tirato essenzialmente tra due atteggiamenti, entrambi campanilistici: da un lato, il richiamo alla superiorità culturale della tradizione cartacea da parte di quei (pochi) critici pagati per scrivere di cinema; dall’altro lato, la rivendicazione di una novità, rappresentata dalla Rete in sé più che dalle pratiche di scrittura che vi si realizzano, che rima con autonomia, libertà di azione e pensiero e affrancamento da logiche e luoghi che, negli ultimi decenni, non si sono rivelati in grado di tutelare una professione. La contestazione allo status quo del mondo della critica cartacea è un collante comune a molti blog; e, almeno in teoria, questo atteggiamento mi sembra non solo condivisibile – considerato, per l’appunto, lo stato tutto sommato comatoso in cui versa la critica “ufficiale” – ma, anche, auspicabile. Tuttavia, salvo poche eccezioni, la risposta non sembra adeguata alla promessa, e le questioni finiscono per disporsi in cerchio, toccandosi e un po’ mangiandosi le une con le altre: per una nuova critica contro-culturale, servono nuovi critici, nuove scritture, nuovi sguardi. Che la Rete, non v’è dubbio, può rinvigorire e sostenere; ma la Rete, da sola, non è sufficiente a legittimare il nuovo, né a donargli autorità e rispettabilità. Per com’è usata e vissuta oggi, la Rete rappresenta, per la critica cinematografica, solo un cambiamento di luogo. Critici, cinefili, flañeurs, agrimensori La riflessione sullo stato della critica cinematografica all’interno dei portali di cinema ha chiarito almeno un aspetto generale:

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e cioè, che la critica cinematografica – anche in termini di pura e semplice visibilità – non ha tratto alcun particolare giovamento dalle possibilità “quantitative” offerte dal web, mentre una sua forma d’elezione (la recensione) appare ormai trasformata in un modello inerte, sfibrato e indifferente; nessuna colpa, o critica: semplicemente, i modelli sono altri – il database o il dizionario (l’incorporazione del dizionario di Morando Morandini all’interno del sito «MYmovies» mi sembra emblematica). Un po’ paradossalmente, questi portali appaiono come gli eredi diretti di una critica semaforica e usa e getta: un modello di critica di servizio (per quanto indubbiamente utile) che, negli ultimi anni, si è a poco a poco sostituita, non affiancata, a una critica di più ampio respiro intellettuale. Il paradosso – conformità con i modelli a parte – sta proprio qui: la Rete, almeno nel caso dei portali, sembra aver ereditato e per certi versi amplificato i limiti della critica cartacea, quegli stessi limiti che, al contrario, sembrerebbe destinata a correggere. E non sono affatto sicuro, per tutto quello che si è detto, che questi spazi possano seriamente configurarsi come utili palestre per i critici più giovani o gli aspiranti tali (sicuramente, non consentono loro di distinguersi). Ben più interessanti e stimolanti – per i critici, la critica e i lettori – risultano, nell’ambito dei portali o delle riviste online – quelle esperienze che, della logica strutturante della Rete, mimano la capacità di concentrare in un unico spazio non il tanto ma il diverso, mentre dalla tradizione della critica ereditano la varietà dei modelli, le funzioni storicamente assestate e il ruolo culturalmente non subalterno al mercato e al prodotto; non portali fast-food, ma progetti editoriali in cui la critica – e l’attività recensoria – non è ridotta all’applicazione di moduli standard di contenimento, descrizione e sintetica valutazione, ma si impone come attività creativa, esplorativa, produttiva. Mi limito a un solo esempio, il magazine «Doppiozero» (www. doppiozero.com). Qui, all’interno di uno spazio volutamente ambiguo ed eccentrico, liberato dal timing imposto dalla cronaca culturale e, al contrario, fondato su una selezione autoriale (con conseguente attenzione per il laterale, il dimenticato, il piccolo), la critica cinematografica trova senza dubbio uno spazio più stimolante: di confronto (con altri mondi e altre critiche), di scambio e di inserimento in un dibattito che allarga la prospettiva a un

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vasto insieme di prodotti e fenomeni culturali, eleggendo non la recensione in sé ma lo sguardo critico e l’autorialità degli interventi a logiche strutturanti. Il “manifesto” programmatico di «Doppiozero» è in proposito piuttosto chiaro (e il magazine mantiene le promesse): «Doppiozero» si presenta ai suoi lettori con un sito web dove si producono testi, si dà spazio ai singoli autori e si progettano opere collettive; un’interfaccia dove è possibile trovare libri scomparsi: un luogo di confronto e di dibattito che propone dossier dedicati a temi attuali; rubriche tenute da scrittori, saggisti, poeti, artisti, che condividono l’esigenza di interpretare l’attualità italiana e internazionale; antologie tematiche, segnalazioni, commenti […]. Ed è anche una vetrina di libri e di altri “oggetti” (immagini, strumenti, “cose”) che approfondiscono la nostra appartenenza al presente e ci spronano a immaginare futuri alternativi.

Confronto, dibattito, interpretazione, approfondimento… e personalissima selezione dei contenuti e variabilità delle forme critiche. Il lettore modello, in questo caso, non ha evidentemente nulla a che fare con il trangugiatore professionista visto sopra. Un sito come «Doppiozero» è, semmai – per continuare con la ripartizione di Floch – il regno degli esploratori: flâneurs della Rete, attratti dalla varietà dei percorsi e dalla valorizzazione della discontinuità, camminatori curiosi, in cerca di novità e stimoli, preparati ad assaggiare ciò che non conoscono, a valutare con attenzione e a dialogare con chi ha offerto loro quell’esperienza; ma, anche, consumatori/agrimensori, che sanno già che cosa cercare, e che vivono la Rete e i suoi contenuti non come qualcosa da consumare in fretta, per passare subito ad altro, dopo aver soddisfatto un bisogno, ma come un luogo di ristoro, approfondimento, dialogo e confronto, e che vogliono – da esperti – quel particolare tipo di preparazione (come sintetizza perfettamente un lettore di «Doppiozero» all’interno di un acceso dibattito tra il recensore di Melancholia e un suo critico: “Sono questi gli spazi preziosi che ci restano, per spegnere il Pc con la piacevole sensazione di avere imparato una piccola cosa in più o aver saputo vedere attraverso gli occhi più allenati di qualcun altro”). Il flâneur e l’agrimensore sono due tipologie affini di esploratori, il primo più incuriosito dalla selezione, l’altro alla ricerca di un mo-

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dello di pensiero e scrittura. Su entrambi, agisce un principio d’attrazione fondato sia sulla selezione dei contenuti, sia sulla firma, con conseguente recupero di logiche, per quanto virtuali, di dialogo tra scrivente e lettore; recupero che incide anche sulla responsabilità personale di chi scrive, contro l’anonimato a cui si condannano inevitabilmente le scritture di portali come «MYmovies», e contro la perdita di distinzione e gerarchizzazione della critica in rapporto alla produzione culturale. Il principio della complessità si oppone a quello della quantità; il modello fast-food a quello del ristorante “d’autore” con i piatti del giorno (rigorosamente firmati: così, nel caso non piaccia, si sa con chi prendersela). Per quanto riguarda la critica cinematografica – tristemente consapevole, al di fuori della Rete, della propria subalternità rispetto ad altre critiche e della propria difficoltà di ritagliarsi uno spazio chiaramente distinto rispetto al giornalismo d’informazione o all’articolo di colore – una “riserva” come «Doppiozero» offre un’esperienza importante; forse non innovativa ma, certo, rinvigorente. Lo si vede subito – scorrendo la sezione cinema – dal numero tutto sommato esiguo di recensioni; altre forme e altri sguardi – ben più interessanti – vi si affiancano, grazie anche alla migrazione temporanea di firme come quelle di Marco Belpoliti o Gianfranco Marrone in un territorio, quello del cinema, di cui si sono sempre occupati ma mai in modo univoco o ortodosso: piccoli testi d’“occasione”, dove il cinema è commentato di traverso, al di fuori di un’urgenza valutativa, nel segno della contaminazione tra saperi e discipline e, da manifesto, allo scopo di far parlare i film sullo sfondo delle dinamiche culturali, sociali, politiche dell’Italia di oggi (se ne deduce, sullo sfondo, una lezione importante: se il critico cinematografico vuol continuare a esistere e, soprattutto, a contare qualcosa, forse dovrebbe smettere di “recensire” film). L’altro aspetto interessante, scorrendo la sezione cinema, riguarda l’attenzione – anch’essa dichiarata a manifesto – per il piccolo, l’inatteso, il dimenticato, il trascurato. Naturalmente, pensando soprattutto al nostro flâneur curioso ma un po’ sprovveduto, ciò che conta è che queste fughe cinefile per iniziati convivano all’interno di uno spazio per il resto sintonizzato (anche se in modo selettivo) sull’attualità. Certo, un caso come questo non rappresenta, per la critica cinematografica, un’innovazione in termini di ruolo, status o mezzi; piuttosto, in aperto dialogo con la tradizione della critica “ufficia-

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le” e cartacea, svolge, tra le altre, una serie di funzioni “assistenziali”: di sostengo (verso ciò che è a rischio di scomparsa), di recupero (di ciò che si è ormai perduto), di continuazione (di modi e tradizioni caratteristiche della critica). A differenza di quanto accade nei portali di cinema, il web e le sue possibilità vengono in questo caso utilizzate in termini non conservativi ma tradizionali: un prolungamento della critica cartacea con altri mezzi, un ricovero per pratiche culturali minacciate, una riserva per la realizzazione di progetti ormai impensabili al di fuori del web. L’alterità, qui, è anche, implicitamente, una critica: una rivista è “altra” non soltanto perché si pone come alternativa, ma anche perché rappresenta – suo malgrado – un’alterità, se non addirittura una paradossale anomalia, rispetto al modo editoriale e pubblicistico della carta stampata. Certo, il rischio della museificazione è sempre in agguato, mentre la logica della “riserva” rischia di mantenere forzatamente in vita pratiche culturali ormai prive di autenticità, e del tutto sciolte da un rapporto “creativo” con l’attualità. Non sono poche le riviste – “culturali” o esclusivamente dedicate al cinema – che, già oggi, nate come alternative (in tutti i sensi) alla critica cartacea, ne mimano in fondo, e piuttosto pedissequamente, le logiche, rivelandosi dei progetti incompiuti, semplicemente parcheggiati, per convenienza economica, nello spazio del web. Passioni in libertà (o libertà di essere passionali) Resta infine da capire se la Rete e i suoi “muri”, oltre a consentire alla tradizione della critica cinematografica di continuarsi, possono anche rappresentare un luogo utile al suo rinnovamento: sia per quanto riguarda lo sviluppo di nuove forme di scrittura, sia per quanto riguarda le pratiche di visibilità e divulgazione. Non insisterò sull’aspetto del feedback: basta scorrere gli spazi destinati ai commenti o i forum di blog, siti dedicati, riviste online e così via, per accorgersi che la tanto sbandierata possibilità, per il lettore, di replicare, intervenire e dialogare è in realtà pura teoria (e la pratica che fa eccezione è davvero poca): la logica (o il paradosso) del muro vale anche per i lettori, che di fronte allo spazio bianco del comment fanno essenzialmente tre cose: lo lasciano bianco (ci sono intere annate di blog senza un solo commento), scrivono per

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se stessi, senza alcun interesse per un eventuale scambio di opinioni (in genere, con la presunzione di avere ragione), lo sfregiano con commenti compresi tra l’insulto e il pensiero monosillabico (ok, sì, no, sono d’accordo, boh, mi piace, non mi piace etc). Le motivazioni alla base di questa “crisi” della risposta sono tante e diverse, e pertengono, più in generale, alle pratiche e alle logiche di un universo – quello delle nuove tecnologie della comunicazione – che andrebbero approfondite in altra sede e all’interno di una riflessione più ampia. Mi limito a notare che la logica anonima e bulimica della critica fast-food di un portale non può che scoraggiare l’interazione; viceversa, la critica con nome e cognome di un magazine finisce invece per sollecitarla (o, almeno, per prevederla). Se ne deduce che la “funzione” del feedback (inteso come potenzialità tecnologica) non possiede alcun codice di funzionamento inscritto a priori: è, al contrario, una possibilità predeterminata dallo scrivente, una risorsa alimentata dal contesto e il risultato di una implicita legittimazione culturale al dialogo. Anche da questo punto di vista, dunque, la critica da portale non fa che ereditare un altro limite della critica cartacea o, meglio, non ha alcun reale interesse a esplorare una delle possibilità offerte dal web. Resta da considerare, tra le scritture critiche della Rete, il fenomeno dei blog, per certi versi il più interessante e nuovo, definito – per contrasto con la logica dei portali – da un principio della nonquantità e, per contrasto con la struttura delle riviste “di critica” (miste o di cinema), da un principio della selezione che si distende (come vedremo tra poco, in virtù delle tipologie) entro uno spettro molto ampio, compreso tra l’assoluta idiosincrasia autobiografica e l’adeguamento al timing imposto dal mercato distributivo. Certo, dire blog significa non dire quasi nulla: il “formato” è talmente elastico e le possibilità espressive così diverse (del resto, per l’appunto, siamo in un territorio invaso dal diarismo e dalla scrittura alla prima persona singolare), che anche le più settoriali categorie “blog di cinema” o, precisando ancor di più, “blog di critica cinematografica”, restano un referente a dir poco opaco. Per segmentare almeno in parte il territorio, credo sia opportuno dismettere una partizione tipologica per contenuti (utilizzata, per esempio, dai siti statistici) per valutare invece intenzioni e volontà dello scrivente, risalendo così all’origine della scrittura blogghistica, che è sempre, poco o tanto, segnata da quell’impulso alla scrit-

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turalità di cui si è detto nell’introduzione. Intenzioni e volontà spesso apertamente dichiarate (nel primo post o in spazi specifici) in forma di piccoli manifesti, dichiarazioni di intenti, propositi, indicazioni di lettura. Spostare l’attenzione sull’enunciatore e i suoi obiettivi programmatici sembra, del resto, inevitabile: sul fronte del destinatario – inteso come lettore modello – non si ravvisa, infatti, una analoga possibilità di distinzione (inscritta invece, spesso espressamente, nel territorio della critica cartacea). E anche quando il blogger sembra selezionare con maggiore attenzione il proprio lettore, l’operazione finisce per essere contraddetta dal funzionamento stesso della Rete. Quando un blogger scrive, infatti, è come se parlasse ad alta voce. Il sistema ne garantisce la sanità, evitando che venga confuso con qualche squilibrato che si aggira per le strade parlando da solo. Però, in fondo, è l’analogia più giusta – non quella dello squilibrato, ma quella di chi parla ad alta voce affinché qualcuno lo ascolti, senza sapere chi, quando, come e neppure perché: la Rete, con le sue imprevedibili gerarchie di ricerca e le sue altrettanto imprevedibili indicazioni di affinità tra ciò che si cerca e ciò che potrebbe essere giusto trovare, contribuisce non soltanto a diffondere casualmente questo cicaleccio blogghistico, ma costruisce anche i percorsi di amplificazione della voce, di destinazione della parola e di incontro tra scrittori e lettori. Tutti dentro, appunto, lo stesso “grande sistema”. Per una distinzione fondata sull’intenzione, e limitandoci all’insieme di quei blog in cui il cinema viene, anche se a gradi diversi, “criticato”, mi sembra possibile ravvisare tre modelli ricorrenti. Il primo è un modello propriamente diaristico, in cui l’attività critica – poco importa quanto evoluta e matura – si impasta completamente alle dinamiche biografiche. Più che la critica a un film, questo tipo di blog restituisce normalmente il racconto – in forma di “opinione” – di un’esperienza di visione, modellato, dal punto di vista formale, sull’oralità; il giudizio è strutturato secondo logiche del tutto personali e “appassionate”, con prevalenza di un criterio basico fondato sul mi piace/non mi piace, e senza particolare attenzione all’interpretazione; la scrittura scioglie qualsiasi legame di dipendenza o dialogo con la “comunità” critica e funziona, semmai, all’interno della micro-comunità definita dai lettori del blog; la critica assume dunque la forma di un’opinione personale e/o di un consiglio, in bilico tra impressione fotografica e chiacchiera in libertà. In sinte-

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Le nuove forme della cultura cinematografica

si, questa tipologia di blog rappresenta il grado zero della scrittura critica, di cui oblitera la funzione (e la consapevolezza), non utilizza (perché non conosce) i mezzi e il lessico e di cui assume come prioritario l’obiettivo della condivisione di un giudizio, elaborato a partire dal proprio, ed esibito, sentire di ordine emozionale. Un secondo modello, più amatoriale, si caratterizza, a differenza del precedente, per una precisa volontà di fare critica, e per la fiducia nelle possibilità comunicative offerte dalla Rete – e dal modello del blog in particolare – di realizzare una contro-critica – contro la critica ufficiale e i critici e le loro consuetudini. La dichiarazione di intenti contenuta nel blog «Una vita da cinefilo» può essere assunta come il profilo esemplare di questo secondo modello: Quante volte ci è capitato di restare a casa che so, un lunedì sera, e di sfogliare le ultime pagine di un quotidiano alla ricerca di un buon film da vedere al cinema o in televisione. Oppure di guardare sul televideo o su Internet il palinsesto della serata, o ancora di scrutare la nostra collezione di dvd o quella dei nostri genitori o dei nostri coinquilini in attesa di un film che attiri la nostra attenzione. Quante volte ci siamo addentrati in una videoteca per cercare una prima visione o un vecchio classico, e spesso è stato così confortante ricordarsi di un film consigliatoci in passato da un amico. Spesso il parere di una persona fidata risulta più attendibile e alla lunga molto più efficace di una recensione importante, e questo è proprio l’intento della mia rubrica, fornire una sorta di diario di film visti in modo poco formale, che ha poco a che vedere con i giudizi e le cosiddette “pippe mentali” del critico cinematografico. L’intento di questa pagina è di essere un’appassionante avventura dentro il cinema, visto con gli occhi di un amante innamorato o di un sognante viaggiatore. Comunicare in modo diretto le sensazioni che tutti proviamo davanti al cinema, di qualunque tipo. Il divertimento, la noia, la sorpresa, la felicità, la malinconia: in poche parole i motivi per cui vale la pena guardare un film, anche se c’è una gara di coppa in tv o gli esami universitari vorrebbero farci studiare tutto il giorno.

Il blogger fonda l’autorità della propria “rubrica” o “diario” su alcuni aspetti caratteristici della scrittura blogghistica: dando significativamente del tu al suo lettore, gli promette una critica in forma di parere e consiglio (“da amico”), priva delle “pippe mentali” dei critici e scaldata dalla passione amatoriale; anzi, con piena consapevolezza

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L. Malavasi - Dal portale al blog: storie della critica non ufficiale

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rispetto al modello precedente, la critica “appassionata” si impone come l’unico lessico autorizzato perché, in fondo, il cinema è proprio e soltanto questo: una serie di passioni scatenate nello spettatore. La spontaneità vince sul professionismo, la condivisione dei sentimenti sulla riflessione, l’informalità (dell’espressione e del lessico) sulla formalità. Sullo sfondo, un’idea di cinema come “intrattenimento” e macchina emotigena; la scrittura, inevitabilmente, segue: stilisticamente, si ravvisano molti punti di contatto con il primo modello ma, in questo caso, questi tratti (prima persona, oralità, visione come esperienza passionale etc.) sono vissuti e utilizzati in positivo e consapevolmente, perché garantiscono e realizzano un modello di scrittura e comunicazione alternativo a quello della critica ufficiale. Un terza tipologia, infine, è rappresentata da quei blog che, al contrario dei precedenti, non si pongono né al di fuori né contro la critica ufficiale – la sua storia, i suoi metodi, le sue forme etc. – ma ne rappresentano, al contrario, una specie di prolungamento. Che, in alcuni casi, potrà essere obbligato, e cioè vissuto come inevitabile a causa della difficoltà di conquistare uno spazio all’interno del piccolo mondo della critica cartacea; o, in altri casi, come compensatorio o, ancora, come temporaneo, in attesa di approdare ad altro. In tutti i casi, questi blog – senza smarrire del tutto un’impronta “diaristica” in termini di selezione e stile – tendono a replicare logiche e forme della critica “ufficiale”. Mi limito a un solo esempio, il blog «Memorie di un giovane cinefilo» di Francesco Chignola. Accanto a qualche post di musica e “altre arti”, dominano le recensioni, quasi sempre sincronizzate al ritmo delle uscite cinematografiche, concepite e scritte secondo il modello dominante della critica cartacea. La dimensione diaristica e autobiografica del blog viene quasi completamente anestetizzata a vantaggio di una scrittura “oggettiva”, non dimentica del lessico specialistico e chiaramente guidata da uno sguardo abituato a pensare il cinema dentro una prospettiva estetica, sociale e culturale ben più complessa di quella messa in gioco dalle due tipologie precedenti. E se, un po’ inevitabilmente, dai blog precedenti scomparivano quasi del tutto i principali modelli retorici del discorso critico (primo tra tutti quello della continuità autoriale), la scrittura di un blog come «Memorie di un giovane cinefilo», al contrario, aderisce alla tradizione dell’argomentazione critica, chiamandosi dentro (non fuori o conto) la “comunità” dei critici.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

Proprio lo stile, la forma e la retorica della scrittura critica potrebbero essere utilizzati come parametri di segmentazione dell’universo della critica online. Da questo punto di vista, mi sembra emergere un contro-modello interessante, se non vincente: quello, appunto, della critica “appassionata”, in deroga al miraggio dell’oggettività difeso – in quanto fondamento di autorità – dalla critica ufficiale. Trovo interessante questo aspetto non soltanto perché realizza, nell’ambito della critica, quella spinta, sociologicamente attuale4, alla “passionalizzazione” dell’esperienza e del discorso (riammettendo così il lessico del piacere censurato dalla critica ufficiale), ma anche, se non soprattutto, perché questo linguaggio invaso e quasi sfigurato dalla passione mi sembra del tutto coerente con le trasformazioni avvenute negli ultimi anni nel territorio del cinema, sia per quanto riguarda i film, sia, soprattutto, per quanto riguarda la logica del consumo, ormai quasi completamente affrancato dal timing della distribuzione e, per l’appunto, guidato da principi soggettivi, emotivi, al limite cinefili. Se la critica cinematografica di oggi conta poco o nulla, non è semplicemente a causa di un insieme di questioni già ampiamente dibattute (riduzione degli spazi, de-legittimazione culturale della professione etc.), e neppure – come si sente spesso dire – a causa della crisi del cinema in sala. Piuttosto, mi sembra che la critica – cartacea, ma non solo – continui a rimandare, per insufficienza di idee e mezzi, un rinnovamento sintonizzato sulle trasformazioni avvenute negli ultimi anni nell’ambito del suo unico referente, il cinema (film, spettacolo, industria, prodotto culturale etc.). Certo, non sono sicuro, come rivela questo rapido excursus, che le scritture critiche della Rete possano rappresentare la risposta; forse la contengono, ma ancora in forma di promessa o di segreto. Per il momento, accontentiamoci della pluralità della scrittura, della confusa o malintesa coabitazione di vecchio e nuovo (con qualche interessante ibrido in mezzo), della disgregazione delle gerarchie culturali e del policentrismo del dibattito. Il futuro della critica, forse, è tutto qui. E nelle passioni di chi vede e scrive.

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Cfr. M. Lacroix, Il culto dell’emozione, Vita&Pensiero, Milano 2002.

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ALBERTO PEZZOTTA

CINEFILIA, TRASH E MUTAZIONI MEDIATICHE

1. I supporti e le comunità. Dall’home video al web 1.1. Cinefili e rivoluzioni tecnologiche “En tant que cinéphile, je ne peux qu’aimer le vidéo”: questa frase di François Truffaut appariva come schermata iniziale in una serie di videocassette francesi degli anni Ottanta, dedicate ai classici del cinema d’autore. Nel 1983 Giovanni Buttafava scriveva su «Il patalogo» un testo intitolato Una videoteca ideale dove, agli albori dell’era del videoregistratore, descriveva i propri piaceri di cinefilo; e stendeva un lunghissimo elenco di cult movies o, come diceva lui, “filmsanti” italiani (da La segretaria privata di Goffredo Alessandrini a La luna di Bernardo Bertolucci), recuperati e riscoperti grazie alla programmazione televisiva, e resi fruibili ad libitum dalla videocassetta1. Ancora oggi esistono i nostalgici del grande schermo, ma sono soprattutto cinetecari gelosi custodi delle proprie pellicole, o registi che non tollerano di vedere rimpicciolite le proprie opere. Ma di fronte alle innovazioni tecnologiche, al mutare dei supporti di visione e delle forme di fruizione, una parte della cultura cinefila è sempre stata molto ricettiva: quella che ha fatto del cinema una passione che si sovrappone alla vita, e che ha amato il cinema in tutte le sue forme, comprese le più basse e meno qualificate culturalmente. Se vogliamo capire come cambia la cinefilia nell’era del web, è utile partire dalla prima grande rivoluzione tecnologica dell’esperienza spettatoriale, quella causata dal diffondersi dell’homevi-

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G. Buttafava, Una videoteca ideale, in Gli occhi del sogno. Scritti sul cinema, Biblioteca di Bianco & Nero-Ubulibri, Roma-Milano 2000.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

deo2. La videocassetta all’inizio degli anni Ottanta, e il dvd alla fine degli anni Novanta, spostano la visione sullo schermo casalingo, come aveva già fatto la televisione; di più, la rendono replicabile e manipolabile, sia pure entro certi limiti. Il cinema perde, per la prima volta, la dimensione di esperienza collettiva nella sala cinematografica. Si deve dedurre che la cinefilia diventa idiosincrasia e idioletto, come fa presupporre l’elenco di Buttafava, che assomiglia più a un privato catalogo di ossessioni o al diario di un adolescente che a una proposta storico-critica condivisibile? 1.2. Come nasce una comunità cinefila Rick Altman, nell’ormai classico Film/Genere, ha spiegato come le comunità degli spettatori, anziché essere gruppi materiali, siano spesso “assenti” e “implicite”3. Dopo avere analizzato il concetto di genere dal punto di vista di chi produce e distribuisce i film, Altman si sposta dal lato dello spettatore. E mostra come il riconoscimento di un genere, delle sue costanti semantiche e sintattiche, crei l’illusione e la necessità di una comunità con cui condividere gli stessi gusti e gli stessi amori. Se amo il cinema horror, posso anche non fare parte di alcun gruppo socio-culturale concreto, ma mi costruisco l’immagine di una “comunità assente”. L’esperienza del cinema di genere passa attraverso la “nostalgia” per una comunità di questo tipo; Altman la chiama “comunità costellata”, ma è una metafora di cui possiamo fare anche a meno. Detto altrimenti, per entrare a far parte della comunità di fan di The Rocky Horror Picture Show, non è (non era) necessario vedere il film in un’affollata proiezione del sabato sera, con i mimi in sala davanti allo schermo e gli spettatori che recitano a memoriale battute dei personaggi. Basta (bastava) vederlo su qualunque supporto, e condividere i valori estetici e morali di cui quel film è considerato espressione dalla comunità degli spettatori, eventual-

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Come quadro teorico di riferimento, si è tenuto conto in particolare di F. Casetti “Nuovi territori. Multiplex, Home Theater, canali tematici, peer o peer e la trasformazione dell’esperienza cinematografica”, in F. Casetti, M. Fanchi (a cura di), Terre incognite. Lo spettatore italiano e le nuove forme dell’esperienza di visione del film, Carocci, Roma 2006. Rick Altman, Film/Genere, Vita & Pensiero, Milano 2004.

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A. Pezzotta - Cinefilia, trash e mutazioni mediatiche

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mente influenzati dalla critica: il gusto camp snobistico4, il riuso ironico di generi cinematografici classici (il musical, l’horror), la trasgressione sessuale. Nella costruzione di una comunità, giocano sempre due elementi contrastanti e concomitanti. Da una parte, le caratteristiche dei prodotti, il mercato, i canali distributivi, i paratesti modellano le modalità di fruizione, e quindi contribuiscono a definire l’identità e le caratteristiche delle varie comunità. Ma in parallelo a questa comunicazione verticale, esiste una comunicazione laterale e dal basso tra i singoli spettatori o fan: questi si scambiano informazioni (o le lanciano nella semiosfera, come messaggi nella bottiglia), e aggiungono argomenti per rafforzare le proprie passioni. La comunicazione verticale è impositiva e ineludibile, e marchia il testo: l’immissione in un determinato circuito, un certo tipo di manifesto o di pubblicità sono altrettanti segnali di genere. La comunicazione laterale, che Henry Jenkins chiamerebbe partecipativa5, è meno immediatamente gerarchica: il che non vuol dire che sia automaticamente paritaria; e può essere implicita, nel senso che è meno legata a marche precise, ma può dipendere dal clima sociale o culturale. 1.3. Dai cult movies al trash La cinefilia degli anni Settanta e Ottanta, che crea il fenomeno dei cult movies6, nasce da un atteggiamento al tempo stesso controculturale, intellettuale e snobistico. Valorizza l’eccezione, l’oscurità, la trasgressione morale e comportamentale prima ancora che estetica. E crea una mitologia dello spostamento, della irripetibilità e della fatica della visione: film visti in sperdute sale 4 5

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Cfr. S. Sontag, “Note su ‘Camp’”, in Contro l’interpretazione, Mondadori, Milano 1967. Nell’era del fandom televisivo queste dinamiche hanno assunto forme complesse, e sono state oggetto di studi appositi, a partire da H. Jenkins, Textual Poachers. Television Fans & Partecipatory Culture, Routledge, New York-London 1992 (nuova edizione: 2005), che critica di sfuggita l’approccio di Rick Altman al concetto di genere. Un’interazione tra un approccio testuale semio-pragmatico e uno socio-culturologico pare ancora da farsi, ed esula dai limiti di questo intervento. Sui cult movies, si veda lo speciale Deconstructing cult-movie a cura di Roy Menarini, «Segnocinema», n. 90, 1998.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

di periferia o di provincia, o in proiezioni non replicabili in qualche festival (le celebri proiezioni a Massenzio durante le “estati romane” organizzate da Renato Nicolini), o con ritualità precise (i film di mezzanotte). Il cult movie non può essere di massa, pena la perdita della sua aura. Nell’era dell’home video, quanto più la comunità del fruitore si restringe fino a coincidere con il singolo e i suoi spazi privati, tanto più si estende e genera maggior coinvolgimento in proporzione alla maggiore accessibilità dell’oggetto di visione. Grazie alla vhs e al dvd, l’esperienza della visione diventa più facile e replicabile a piacere. E mentre si diffonde l’home video, all’inizio degli anni Novanta nasce un nuovo termine per indicare una nuova cinefilia: trash7. Il termine, strappato all’originaria connotazione negativa8, si sostituisce man mano a cult. E viene usato con orgoglio per indicare categoria estetiche e modalità di fruizione diverse dal cinema ufficiale, che sia quello dei grandi maestri o quello dei blockbusters hollywoodiani. Il trash nasce in parte come reazione dal basso a un’industria che, dalla fine degli anni Ottanta, si impossessa del concetto di cult privandolo di ogni elemento di trasgressività e trasformandolo in un elemento di marketing per lanciare film nuovi: lo aveva intuito Serge Daney fin dall’inizio del decennio9. Il trash propone una riappropriazione spontaneistica della storia del cinema che, a differenza del cult, ha una forte componente anti-intellettuali7

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Tra i primi libri sul trash (o meglio, che celebrano il trash) pubblicati in italiano, si possono citare: G. Salza, Spazzatura, Theoria, Roma 1994; J. Ross, L’incredibile storia del cinema spazzatura, Ubulibri, Milano 1996 (l’edizione inglese è del 1993); A. Farina, Sparate sul regista! Personaggi e storie del cinema di exploitation, Il Castoro, Milano 1997. Sul fenomeno si vedano anche: A. Pezzotta, Non sparate sul trash, in «Bianco & Nero», n. 1-2, 1997; E. Morreale, L’invenzione della nostalgia. Il vintage nel cinema italiano e dintorni, Donzelli, Roma 2009, in particolare il capitolo “Mutazioni della cinefilia: dal camp al trash”. Cfr. il saggio di P. Kael Trash, Art and the Movies, del 1969, poi raccolto in Raising Kane and Other Essays, Marion Boyars, London-New York 1996, e tradotto in italiano con il titolo Spazzatura, arte e cinema sul sito http:// www.filmidee.it. Serge Daney, nell’articolo “Wim’s Movie” (poi in A. de Baecque e G. Lucantonio, a cura di, Critique et cinéphilie, Cahiers du Cinéma, Paris 1996), parla di una “politica degli autori che è diventata marketing dell’effetto delle firme” (p. 194).

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A. Pezzotta - Cinefilia, trash e mutazioni mediatiche

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stica. Ignora, almeno in un primo momento, il cinema che esce in sala, e recupera il cinema di un passato relativamente vicino (la blaxploitation negli Usa, le commedie sexy e i poliziotteschi in Italia) come campione di valori che il presente non offre più. E diventa il collante di una comunità di spettatori che esaltano film ritenuti trasgressivi, anti-intellettuali e popolari (ma sul concetto di popolare si dovrà tornare), dove sesso, violenza e umorismo grossolano diventano elementi di apprezzamento e marche identitarie. 1.4. Collezionismo, commercio, scrittura Nella cinefilia da home video, alla fatica dello spostamento si sostituisce la fatica della ricerca. E compare una più marcata dimensione economica: entra in gioco il collezionismo. Quasi tutto si può trovare e si può avere, purché si sia disposti a pagarlo. Se nella cinefilia da sala la soglia discriminante riguarda l’impiego del proprio tempo (necessario per raggiungere la sala sperduta o non mancare l’appuntamento non replicabile), in quella da home video è di tipo pecuniario e, in minor misura, tecnologico (devo avere soldi per comprare vhs e devo saper maneggiare il videoregistratore). Nell’era del trash, si costituiscono nuove comunità di cultori del cinema di genere, basate sull’accumulo di oggetti, lo scambio e il commercio. Negli anni Novanta i collezionisti si scambiano liste, dove i film rari si duplicano solo in cambio di film altrettanto preziosi, o dietro adeguato esborso. Per essere fan dell’horror non basta più annotare le proprie visioni su un quadernetto e vantare visioni vecchie di decenni. Occorre anche possedere gli oggetti della propria passione, in modo da presentarsi alla comunità forti di un patrimonio da condividere. Forse non si è mai riflettuto come la nascita delle prime fanzines (a volte fotocopiate, in certi casi destinate a trasformarsi in riviste) sia contemporanea al diffondersi delle vhs. Non a caso una delle riviste storiche dedicate al cinema di genere, «Video Watchdog», fondata da Tim Lucas nel 1990, nasce come bollettino delle novità home video. In Italia «Nocturno», che nasce nel 1994, e «Amarcord», che nasce nel 1996, si rivolgono a un pubblico che è innanzitutto fatto di collezionisti e consumatori di vhs.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

Nelle comunità dei collezionisti, la scrittura critica diventa un forte elemento identitario e fondante: leggere e scrivere dei propri film preferiti diventa il passo successivo e spesso obbligatorio dopo il possesso della vhs. Chi colleziona film, spesso ne scrive; chi legge gli altri, spesso è anche un critico in prima persona, che misura ed esibisce la propria competenza anche sulla base dei film collezionati. Le fanzines nascono come spazio su cui dare sfogo alle proprie urgenze espressive al di fuori della critica ufficiale, ma anche come strumento per lo scambio, come aiuto alla reperibilità dei film cercati, attraverso un mercato parallelo di duplicazioni più o meno illegali. Chi era cinefilo negli anni Novanta, ricorda l’americana VSOM, Video Search of Miami: un’impresa commerciale, chiamiamola così, tuttora attiva, che all’epoca faceva pubblicità sulle riviste specializzate, e duplicava a caro prezzo film di genere, cult, trash e underground, non usciti sul mercato statunitense, e quindi, sulla base di qualche emendamento opportunamente evocato, non tutelati dal copyright federale. Un catalogo fotocopiato, spedito a pagamento, indicava accanto al titolo la qualità della copia ottenibile (con l’inevitabile perdita di definizione derivante da una duplicazione analogica, da videoregistratore a videoregistratore), e la presenza di sottotitoli inglesi fatti ad hoc per film orientali o europei. VSOM, tuttora attiva e presto detestata dai collezionisti italiani per la bassa qualità delle copie fornite (poteva capitare di ritrovarsi con registrazioni da televisioni private italiane), non era l’unica impresa di questo tipo10. Insistere su questa archeologia del collezionismo e della fanzine non intende essere una celebrazione nostalgica o un’aneddotica folkloristica. Si vuole suggerire come il mercato dei supporti, il costituirsi di comunità cinefile e la prassi di una scrittura selvaggia e di una critica dal basso, nell’era dell’home video, funzionassero con modalità che poi si ritrovano nell’era del web. 10

Chi scrive ricorda anche di essersi procurato nel 1997 il primo film di Abel Ferrara, il porno 9 Lives of a Wet Pussy, da un piccolo rivenditore per corrispondenza newyorkese, che inviava per fax le proprie liste di film duplicabili; e ignorava che il titolo suddetto, firmato nei titoli di testa con pseudonimo, apparteneva alla filmografia dell’autore di Il cattivo tenente. Tutto ciò, evidentemente, poteva succedere solo prima dell’era del web e di Internet Movie Database.

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1.5. Splendori e miserie del dvd La comunità del trash, nostalgica e proiettata verso un passato che non ha vissuto in diretta, diventa anche un target di mercato. Ciò può succedere perché, a differenza delle comunità dei cult movies, la comunità del trash è di massa, ed è sempre più facilmente raggiungibile con l’evolversi delle tecnologie. Il mercato comincia a interessarsi al fenomeno del trash, e a intuirne le potenzialità commerciali, con l’arrivo del dvd: il supporto digitale che alla fine degli anni Novanta esautora l’ingombrante vhs, vincendo la concorrenza di Laserdisc e VCD. Grazie agli extra o contenuti speciali (interviste, documentari, making of, scene tagliate e alternative, commenti del regista, trailer, bonus di ogni tipo) il dvd si rivolge al pubblico cinefilo, rendendo più attraente il possesso dell’oggetto. In realtà non si tratta che di un potenziamento di quanto avveniva nelle vhs: pochi ricordano le collector’s editions di titoli cult (poniamo The Killer di John Woo), accompagnate da libretti informativi e da trailer e scene alternative in coda al film. Il dvd, per altro, è un medium nato vecchio, e che infatti alla fine degli anni 2000 entra in crisi. All’inizio del decennio suscita un buon numero di analisi accademiche e non, cui la vhs non aveva avuto l’onore, che puntano sulla novità teorica ed esperienziale di alcune sue caratteristiche11. Di fatto, il dvd non è che un’estensione e un miglioramento della videocassetta, con una qualità di visione migliore ma non ottimale. La pretesa interattività12 consentita dalla facilità di accesso alle immagini e la favoleggiata rottura della linearità di visione non sono che un upgrade della funzione fast forward del videoregistratore. Di più, la visione personalizzata che diventerebbe accessibile a ogni fruitore di dvd, non è molto lontana dall’esperienza di qualunque spettatore degli anni Sessanta e Settanta che entrava in sala a film iniziato, usciva, rientrava, vedeva il film due volte. 11

12

Sul tema, si vedano: L. Quaresima, V. Re (a cura di), Play the movie. Il dvd e le nuove forme dell’esperienza audiovisiva, Kaplan, Torino 2010, e precedentemente lo speciale Critica del DVD a cura di P. Cherchi Usai, «Segnocinema», n. 124, 2003. Particolarmente illuminante l’intervento di Gianni Canova, Contro lo zapping istintuale, ivi.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

Con il dvd non cambia il rapporto dello spettatore con il film. Si tratta ancora di un oggetto concreto, riutilizzabile, e dalla durata più o meno estesa. La novità del dvd – e questo non è mai stato sottolineato abbastanza – è il fatto di essere stato concepito all’interno di una complessa strategia distributiva: è la tappa di un percorso che va dall’uscita del film in sala alla programmazione televisiva, dove ogni passaggio ha caratteristiche, prestigio, remuneratività e valori immaginari diversi. Il dvd non a caso è contemporaneo all’avvento dei multiplex. Ed è uno degli ultimi strumenti con cui l’industria ha cercato di organizzare e controllare razionalmente il mercato: prima che i film fossero comprimibili in DivX e diventassero liberamente scambiabili, scaricabili e visibili sul web. Nella breve epoca del dvd, meno di un decennio contro quasi i vent’anni della vhs, si sono create gerarchie precise nella distribuzione e nell’accessibilità di prodotti, in modo molto più sofisticato di quanto fosse avvenuto con la vhs. Così come il sistema dei multiplex non ha creato una più ampia circolazione di film, ma al contrario ha consentito uno sfruttamento più intensivo di pochi titoli penalizzando i film indipendenti, allo stesso modo il dvd ha creato nel mercato strozzamenti e gerarchie. I titoli considerati più prestigiosi escono in varie versioni: costose collector’s editions in cofanetti a più dischetti, edizioni in dischetto singolo per la grande distribuzione. Certo, sopravvivono nicchie che si rivolgono ai cinefili, dedicate a titoli rari, misconosciuti, o a classici presentati in edizioni curate sia dal punto di vista dell’immagine e del sonoro, sia della filologia. Ma solo le etichette che si rivolgono a un mercato internazionale, come l’americana Criterion, riescono a sopravvivere, mentre analoghe imprese italiane europee o chiudono o continuano tra grandi difficoltà. Per quanto riguarda il cinema di genere e trash, il dvd ha in parte patito la gestione dilettantesca delle libraries delle case di produzione del passato, spesso acquisite da terzi dopo la loro dismissione. Ma ha anche permesso una distribuzione di massa di titoli attorno a cui si era creato da tempo il culto e il consenso della comunità cinefila. Nel 2005 i film italiani più venduti sul mercato dvd sono Vieni avanti cretino (1982) di Luciano Salce con Lino Banfi, Attila flagello di Dio (1982)di Castellano e Pipolo ed Eccezzziunale... veramente (1982) di Carlo Vanzina, entrambi con Diego

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Abatantuono, e L’allenatore nel pallone (1984) di Sergio Martino con Lino Banfi. Alimentato da trasmissioni televisive come Stracult di Marco Giusti, in onda su Raidue dal 1999, il trash diventa anche un affare per trarre una redditività in prodotti che in certi casi non l’avevano mai avuta. Se si considerano gli incassi in sala dei quattro film sopra citati, si scopre che due sono successi medi (1108 milioni a testa per Allenatore ed Eccezzziunale) e due sono mezzi flop (Vieni avanti 648 milioni, Attila 483 milioni): e questo in anni in cui Speriamo che sia femmina di Monicelli incassava 2659 milioni, e Splendor di Scola ne faceva 1467. Sulle conseguenze di questo fatto si tornerà nella seconda parte di questo intervento: per il momento va sottolineato come la dimensione orizzontale della cinefilia trash sia fortemente condizionata e modellata dalle strategie verticali del mercato. La cinefilia della prima ondata dell’home video, negli anni Ottanta e Novanta, cercava i propri oggetti di culto negli angoli bui delle videoteche, secondo una mitologia in parte diffusa da Quentin Tarantino, cinefilo onnivoro con un passato di commesso in un videostore, e in seguito massimo divulgatore e promotore globale del cinema di genere del passato, in particolare italiano. La cinefilia degli anni Zero, invece, si nutre di ciò che trova nei megastores. Se Attila flagello di Dio diventa cult come non lo era mai stato e invece Tango della gelosia, per citare un altro film con Diego Abatantuono, rimane misconosciuto, per quanto all’epoca dell’uscita (il 1981) fosse stato indubbiamente “di culto”, dipende semplicemente dalle strategie del mercato e dall’accortezza degli aventi diritto. Il cinefilo si riduce a consumatore, chiuso nella nicchia che il mercato ha preparato per lui. Intanto, alla metà degli anni Zero, il consumo di cinema cambia. Mentre i multiplex entrano in crisi, si diffondono le pay tv e i canali satellitari e tematici. Il dvd diventa merce di poco prezzo, allegato di quotidiani e settimanali: era già successo alla vhs, ma l’operazione non ha più i crismi dell’eccezionalità, come era successo ai tempi dei film di Truffaut o dei classici italiani venduti insieme a «l’Unità». Smerciato in edicola a pochi mesi dall’uscita in sala del film, il dvd si propone sempre più esplicitamente come oggetto usa e getta, tradendo la sua natura di ultimo escamotage per consentire di fare qualche guadagno in un panorama mediale che sta entrando in crisi.

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L’abbassamento del costo del dvd e la sua distribuzione in massa in edicole e autogrill a prezzo ribassato ha avuto l’effetto collaterale di svalutare non solo l’oggetto, ma anche il cinema di cui consentiva la fruizione, e che veniva a perdere ogni aura. Ma anche quello di preparare, forse inconsapevolmente, alla rivoluzione del cinema sul web: dove il film non è più legato né a un oggetto tangibile, né a un costo. 1.6. Immateriale e (quasi) gratis: il cinema sul web Nell’era del web, il collezionismo home video rimane in forma residuale, come bene di lusso: per questo è stato lanciato all’inizio degli anni Zero il blu-ray, che garantisce qualità di visione e durevolezza di supporto superiore al dvd. Ma il primo effetto evidente delle tecnologie di compressione digitale sul web è stato di liberare il film dalla dipendenza da un oggetto fisico, cassetta o dischetto13. Il cinefilo degli anni Zero non ha più bisogno di essere un accumulatore di oggetti: basta che sia un raccoglitore di files, magari dotato di hard disk esterni dalla capacità di svariati terabytes. Il risultato è una notevole democratizzazione: dopo l’investimento iniziale di un pc e di una linea adsl, virtualmente si può iniziare a collezionare film a costo zero, scaricando gratuitamente da reti peer to peer, in barba alle leggi sul copyright. Ovviamente questo è possibile perché qualcuno si è preso la briga di mettere sul web i propri film, rippando dvd o trascodificando in formato DivX vecchie videocassette o registrazioni televisive. Spesso i film vengono muniti di sottotitoli home made, come succedeva ai tempi delle vhs di VSOM; degni di nota, perché indicativi di un consumo e di una comunità, sono i film americani con sottotitoli in inglese semplificato per gli utenti ispanici. Si può discutere se la disponibilità di titoli sia aumentata in modo significativo rispetto al mondo del dvd, dato che non tutto ciò che esiste in home video è finito in Rete (ma vale anche il contrario). Certamente è stato aperto uno spazio alle produzioni indipendenti che prima non esisteva. 13

Sulle tecnologie di compressione delle immagini e il loro effetti sulla fruizione e i media, cfr. N. Rigamonti, Personal home cinema. La rete, lo spettatore e il crogiuolo digitale, in F. Casetti, M. Franchi (a cura di), op. cit..

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Così come la nascita dell’home video è legata alla fanzine, quella del cinema su web è legata al tramonto delle riviste cartacee e alla diffusione della critica online esercitata su newsgroup, forum, blog, riviste web, siti tematici e monografici, siti generalisti che consentono possibilità di inserire voti e commenti (come Internet Movie Database), senza parlare di Twitter. Il blogger, da questo punto di vista, è un discendente diretto dell’autore o collaboratore di una fanzine; rispetto alla dimensione cartacea, ha molta meno difficoltà non solo a confezionare il proprio prodotto, ed è anche molto più slegato da un controllo di qualità da parte dei suoi lettori. Ma un discorso specifico sulla critica web esula dai limiti di questo intervento. Occorre invece chiedersi quanto sia diversa la comunità cinefila che fa uso del web da quella che nasceva dall’home video, e come sceglie i suoi valori. La cinefilia web da una parte ha una dimensione più spiccatamente multimediale: l’utente è attivo su più canali e utilizza più supporti, in un contesto dove vecchio e nuovo convivono. Per il momento si può lasciare senza risposta la domanda se questa media convergence, come suona una recente parola d’ordine degli studi mediologici14, sia solo un upgrade del passato o un cambio di scenario. Più immediatamente verificabile, nella cinefilia web, è la sua dimensione internazionale, parallela e indipendente dalla globalizzazione verticale che colpisce le strutture di produzione, distribuzione e consumo, con i noti effetti di controllo del mercato e omologazione del gusto. Internazionalizzazione, in questo ambito, significa accesso agevolato a fonti e produzioni diverse (oggi è più facile vedere un film di Hong Kong rispetto a vent’anni fa), ma anche delocalizzazione. Posso ignorare dove vive chi ha messo in rete il film che sto scaricando, posso non avere nessuna comunicazione con lui, ma il fatto di utilizzare la stessa rete crea un comune profilo identitario: quello di persone non solo dotate degli stessi gusti, ma anche dalle stesse idee, diciamo così, politiche, e dalle stesse pratiche, caratterizzate in primo luogo dall’infrazione del copyright. Com’è noto, mettere su una rete peer to peer un film piratato, ripreso direttamente in sala con la videocamera (cam), copiato da un dvd non commerciale inviato in anteprima ad addetti del set14

Si veda H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007 (l’edizione originale è del 2006).

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tore (screener), o copiato da un dvd magari uscito in un Paese con codice regionale diverso (dvd-rip), ha spesso il sapore di una sfida casalinga al potere delle multinazionali, di un sabotaggio al sistema capitalista (che questa sfida sia effettiva o fittizia è altro discorso). All’abbassamento della soglia di investimento economico e della politicizzazione più o meno reale, corrisponde però un innalzamento di soglie delle competenze tecniche e un nuovo tipo di elitarismo. Vedere un dvd è molto facile, copiare un dvd è abbastanza facile, metterlo in rete e scaricarlo lo è molto meno. L’accesso a una rete peer to peer come eMule presuppone non solo programmi appositi di gestione non intuitiva, ma anche la condivisione di un numero adeguato di film per acquisire il diritto di entrare in un gruppo che esclude chi cerca di fruirne in modo solo passivo. Scaricare film con un client BitTorrent, indipendentemente dalla legalità dell’operazione, è invece molto più facile, in quanto richiede solo l’installazione di un programma. Ma l’accessibilità del film voluto è ostacolata da tanti fattori: copie di bassa qualità; copie fasulle, contenenti virus o che reindirizzano a siti che richiedono una quota d’iscrizione; lentezza o impossibilità di scaricamento per i film poco richiesti. La gerarchizzazione dei consumi che si era imposta nei dvd si riproduce, paradossalmente, anche nel mondo del peer to peer: scaricare un film recente e di grande successo è sempre e comunque più facile che scaricare un film del passato o poco noto. Nel web non si creano gerarchie di valori alternative. E si riproducono alcune delle modalità elitarie del vecchio collezionismo home video: non tutti sono disposti a condividere tutto con chiunque. Certo, negli anni Novanta si doveva andare nel negozietto cinese di Parigi o Londra per trovare una copia illegale su vhs di un Laserdisc hongkonghese, mentre ora si tratta solo di trovare il link giusto da cui scaricare il dato film: almeno la fatica della dislocazione è evitata. 1.7. Qualcosa di completamente diverso? Gli svantaggi di gestione delle reti peer to peer sono scavalcate dai siti che offrono i film in streaming, a pagamento o no. In questo caso il sito funziona come un canale televisivo specializzato, e la modalità di visione funziona non diversamente dalla pay per view in televisione. Esistono piattaforme come «MUBI», dedicate a

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film d’autore che mai arriverebbero nel circuito “normale”. Ma per quanto «MUBI» offra ai suoi utenti anche l’accesso (tramite forum e Facebook) a una comunità vivace e competente, rimane all’interno di una fruizione tradizionale: dato che non è ipotizzabile che chi vede online i film di Pere Portabella o di Peter Tscherkassky lo faccia in modo interattivo, non lineare e anarchicamente personalizzato. Piattaforme come «MUBI» sono la dimostrazione che anche all’interno di un medium nuovo come il web esistano nicchie dove il passato continua a esistere (e a resistere). Un fenomeno di tipo completamente diverso rispetto a tutto quanto considerato finora è YouTube, dove i film vengono caricati in forma integrale, parcellizzata e antologica. Nato nel 2005 per ospitare video realizzati da chi li carica, YouTube non prevedeva all’inizio questa forma di utilizzo, e ha sempre combattuto l’upload di materiali provenienti da terze parti che infrangessero il diritto d’autore. Ma la battaglia sembra persa: e il sito, al momento, è un collettore straordinariamente caotico, ricco di materiali di ogni tipo, che vanno da programmi televisivi al cinema di ogni tempo ed epoca. Su YouTube, e non nel dvd o nel film scaricato, si realizza davvero l’interattività del fruitore e la manipolabilità del testo filmico. Su YouTube smonto il film, e lo fruisco a pezzi: isolo la mia sequenza preferita, e trovo oggetti con lo sesso tema (“Alvaro Vitali e Lino Banfi”: 356 video; “Alvaro Vitali pernacchia”: 9 video; “Edwige Fenech doccia”: 18 video), creando nuove catene paradigmatiche. Si attenda con ansia che qualcuno venga a parlare, anche questa volta, di fine della linearità della visione. Siamo davvero di fronte a una rivoluzione epocale? O siamo più verosimilmente di fronte a un nuovo contesto mediatico, che si affianca ma non sostituisce la fruizione filmica tradizionale? Dal punto di vista di questo intervento, va sottolineato come su YouTube la comunicazione dal basso e laterale tra gli spettatori possa ridisegnare i contesti di fruizione, creare e ridiscutere etichette generiche, eludendo in qualche modo la verticalità del mercato. Inoltre su YouTube, dato che chiunque può lasciare un commento, la comunità di visione non è più implicita, ma tangibile. Chi si prende la briga di intervenire è pur sempre un perditempo e la punta di un iceberg. Ma non c’è bisogno di scrivere un commento per lasciare traccia di sé: e ogni volta si può sapere quanti hanno visto il dato “video”, e valutare la comunità di cui

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si entra a far parte. Per esempio, il 3 novembre 2011, chi inizia a vedere Alleluja e Sartana figlio di... Dio, oscuro western comico di Mario Siciliano (1972), sa che 2954 utenti hanno già visto la prima parte, ma solo 735 hanno visto la decima e ultima delle parti in cui è stato diviso il film. 2. Gerarchie di valori, critica, diffusione: il caso del cinema di genere 2.1. La rifondazione del canone Fin da quando, negli anni Cinquanta, i giovani critici dei «Cahiers du Cinéma» recensivano polemicamente noir e western americani contrapponendoli al cinéma de papa, ogni rivalutazione del cinema di genere, che avvenga in diretta o sia postuma, come nel caso del trash, mira a contestare i canoni estetici correnti, a rifondare il canone dei film significativi e, in prospettiva, a riscrivere la storia del cinema. In Italia Giovanni Buttafava è tra i primi a manifestare insofferenza per un cinema ufficiale percepito come ridicolo e imbevuto di falsa coscienza. Il suo bersaglio è il cinema di impegno civile di Petri, Rosi e Damiani, cui contrappone il cinema “poliziottesco”, che lo diverte di più, apparendogli più genuino e meno pretenzioso, e che analizza con gli strumenti di uno snobismo intellettualistico ancora influenzato dal camp15. Erede dell’estetica di Buttafava, Marco Giusti costruisce a partire dalla fine degli anni Novanta un controcanone cui dà forma di dizionario: lo scopo è dare spazio “a tutti i capolavori dell’eccesso e dell’improbabile. Trash, bis, gore, splatter, cult. Di più. Stracult. [...] Uno spazio meraviglioso dove lo spettatore può perdersi per il puro piacere schermico. Là Bombolo vale Fritz Lang, Monnezza vale Nicholas Ray”16. Da La bestia in calore (1977) di Luigi Batzella (apprezzato come trash di primo grado) a L’odore del sangue (2004) di Mario Martone (letto maliziosamente come trash involontario), Giusti intende celebrare “uno scatenamento dalle regole 15 16

Si vedano i saggi Procedure sveltite (1980) e Metti, una guerra a cena (1971) in G. Buttafava, op. cit. Aletta di M. Giusti, Dizionario dei film italiani Stracult, Frassinelli, Milano 1999.

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del cinema civile del tutto liberatorio”17: valido negli anni Settanta, quando uscivano le commedie sexy con Gloria Guida e “l’Italia era ancora avvolta nella cappa pesante degli anni di piombo”; e valido oggi, quando, nell’era del postmoderno, sono saltate tutte le gerarchie. Prima di Giusti, il terreno è preparato dalle fanzines poi diventate riviste come «Nocturno», che seguono un percorso in parte alternativo. Al piacere immediato del risarcimento di un cinema ghettizzato, segue infatti la volontà di dare una forma articolata a questa passione: in modo da legittimarla polemicamente anche agli occhi di chi si occupa di un altro cinema, magari senza pari rigore. «Nocturno», poi seguita da «Cine70», tratta il cinema di genere con strumenti ereditati, spesso inconsapevolmente, dalla critica autorialista dei «Cahiers» (l’intervista-fiume al regista) e dalla critica storicistica-filogica. Per parlare dei film diventa essenziale conoscere e consultare visti e incartamenti ministeriali, in modo da ricostruire le vicende produttive e gli interventi censori. Amare un film maledetto sulla base della memoria non basta: si confrontano minuziosamente diverse versioni (vhs e dvd italiani e stranieri, super8, 35mm, registrazioni televisive, telecinema piratati o fatti in casa): nell’utopia, dichiarata come tale, di arrivare a un Urtext il più vicino possibile a quello concepito dall’autore. Alla competenza data dal numero di visioni e dalla conoscenza enciclopedica dell’opera di un regista, si affianca un’autorevolezza più concretamente verificabile sulla base di date e metri di pellicola. Su forum come quelli di «Nocturno» si svolgono discussioni anche feroci legate all’integralità della versione di film spesso oscuri, di limitata circolazione, o addirittura mai usciti. Alla ricostruzione di Maldoror, film di Alberto Cavallone forse incompiuto e comunque inedito, mai visto e probabilmente perduto, Davide Pulici dedica su «Nocturno» un’appassionante indagine e non ancora terminata18. Sia la cinefilia di «Nocturno» sia Stracult mirano a costruire una cultura cinematografica alternativa a quella media, giornalistica, ufficiale, accademica. Una differenza è il modo in cui si rapporta al presente. Stracult fin da subito ha cercato una ricaduta sulla con17 18

M. Giusti, Sex in Italy, in «Ciak», marzo 2005, p. 94. Si vedano i vari speciali Misteri d’Italia: «Nocturno», n. 47, 2006; n. 58, 2007; n. 70, 2008.

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temporaneità, celebrando i film e i personaggi ritenuti eredi del cinema di genere degli anni Settanta. Giusti ha pertanto iniziato a recensire sistematicamente ed entusiasticamente su «Il manifesto» tutti i cinepanettoni e i film dei comici italiani (da Pieraccioni a Boldi), vedendo in essi il proseguimento di un cinema popolare “sregolato”, “eccessivo”, sanamente plebeo, da contrapporre a certo cinema italiano di oggi pretenzioso e involontariamente ridicolo (quando non viene recuperato nel modo beffardo visto sopra). «Nocturno» invece, dopo essersi chiuso nel culto e nello studio del passato, ha cercato di aprirsi alla contemporaneità, cercando terreno di confronto soprattutto nell’horror internazionale e nel cinema orientale: ma rischiando di creare disorientamento nei suoi lettori, che a volte mal sopportano di vedere trattate nella stessa rivista gli horror della serie Paranormal Activity e i film di Bruno Mattei. 2.2. Ricadute sui media e popolarità Quali sono le ricadute sui media di queste prassi e di queste estetiche? «Nocturno» ha curato, nel corso degli anni, alcune collane dedicate al cinema di genere italiano, prima in vhs e poi in dvd, spesso arricchite da interviste e documentari, e con attenzione all’integralità della copia. Fissare la passione in un oggetto rimane il traguardo ultimo di una cinefilia nata nell’era dell’home video. Si tratta di una nicchia di mercato che si contrappone alla gestione spesso dilettantesca del cinema di genere (e non solo di quello) da parte di etichette che non si preoccupano di editare in dvd edizioni tagliate e spesso derubricate per il passaggio televisivo. Nel web la cinefilia estremistica di «Nocturno» trova un parziale riversamento attraverso il citato forum (cui si contrappone quello Gente di rispetto, più legato a «Cine70»), e produce indirettamente alcuni risultati. Esistono cinefili che confezionano, ed eventualmente mettono in rete, film MUX (o, con orrido neologismo, muxati). Nel caso più semplice viene modificata la traccia audio: per esempio a una copia straniera, integrale o di buona qualità, viene messo l’audio italiano proveniente da una copia tagliata o di bassa qualità. In casi più complessi, si inseriscono all’interno di una copia master (per esempio italiana) sequenze tagliate provenienti da altre versioni. Nel pio tentativo di restauro e di ricostruzione filologica, viene così creato un film-Frankenstein, che non è mai

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esistito in quella forma. Di La taglia è tua… L’uomo l’ammazzo io (El Puro) (1969) di Edoardo Mulargia, curioso western con personaggi gay, circola per esempio una versione MUX dove si parlano tre lingue diverse. L’utente interviene per modificare il testo d’origine: ma sono casi limite, non certo indicativi di una prassi diffusa o di un nuovo atteggiamento “interattivo” di fronte ai film. Molto più rilevante è l’impatto che ha avuto sui nuovi media la cinefilia di Stracult. Nel campo dell’home video, non c’è una connessione diretta a livello di marchio, come nel caso di «Nocturno». Ma è un fatto che attori e generi rimessi in circolazione da Stracult alimentano e indirizzano le scelte del mercato del dvd, e viceversa. La riedizione in dvd e la distribuzione in grandi numeri di film con Tomas Milian, Lino Banfi, Alvaro Vitali, Edwige Fenech nasce da un clima culturalmente favorevole, dove la vecchia categoria del cult è sostituita da quella dello sdoganamento, già invalsa in politica. Sdoganare, nel caso dei film di serie B, significa eliminare i sensi di colpa, fruire alla luce del sole di qualcosa in passato ritenuto disdicevole. Non solo: lo stracult fa diventare di massa un prodotto popolare che di massa non era mai stato, anche e proprio a livello di incassi e distribuzione. Come aveva scritto Vittorio Spinazzola, cinema popolare e cinema di massa non sono sinonimi19. La dottoressa del distretto militare o L’allenatore nel pallone erano destinati al consumo esclusivo delle classi subalterne, in un circuito di sale periferico. La loro riproposizione in dvd vent’anni dopo li trasforma in un altro oggetto: trash destinato al consumo di massa, come i cinepanettoni con Boldi e De Sica. Come scrive Morreale, il trash, “più che un cinema che dialoga con il popolo, potrebbe essere definito come il cinema popolare durante la scomparsa di un popolo”20: popolo che è stato sostituito da una massa di consumatori. Un’altra influenza di Stracult deriva dal fatto di nascere (e continuare) come trasmissione televisiva, dopo avere dato vita a vari libri e ad almeno due retrospettive del festival di Venezia: Italian King of the B’s nel 2004 e Il western all’italiana nel 2007. La rime-

19 20

V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Bulzoni, Roma 1985, p. 345. E. Morreale, op. cit, p. 202.

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diazione21 del cinema trash attraverso la televisione lascia una traccia molto più forte di quanto avvenga con il cinema in dvd, e forse anche con il cinema in Rete. Un film scaricato e visto sul pc è pur sempre un film. Ma che cosa diventa il cinema in un programma come Stracult, dove viene parcellizzato, videoclippato, sminuzzato, non diversamente da quanto avviene al cinema in qualunque altro contesto televisivo? Il cinema diventa materiale da saccheggiare per fare colore, esattamente come succede nei telegiornali. Secondo Morreale, Stracult, “segna la definitiva ricezione del cinema come sottogenere televisivo”22. Ispirato da uno spirito goliardico e romanocentrico, Stracult tratta il cinema di genere e i suoi protagonisti come campioni di una controestetica sregolata e “coatta”. E finisce per farne pretesto di intrattenimento, privandolo di ogni aura residua e rendendolo materiale indifferente e sostituibile, allo stesso livello degli sketch comici che inframmezzano il programma. Ciò spiega come l’estetica di Stracult possa venire agevolmente travasata su un medium come YouTube che, come detto sopra, pratica sistematicamente la parcellizzazione. Su YouTube Bombolo conta 2260 video, Tomas Milian 1840 (ma Monezza ne ha 3580), Alvaro Vitali 2310 (ma Pierino ne ha 4690). Trovano la loro nicchia anche personaggi pittoreschi come Jimmy il Fenomeno (312 video) e Salvatore Baccaro (106 video), un figurante mai arrivato a essere caratterista, noto per l’arcaica bruttezza, e immortalato sulla copertina del Dizionario dei film italiani Stracult. Per fare un confronto con il presente, su YouTube Massimo Boldi ha 3810 video, Boldi-De Sica 1230, Leonardo Pieraccioni 1490. È una prova che il web presentifica il passato: non cancella la memoria, ma schiaccia la prospettiva temporale. E gli anni Settanta di Monnezza diventano contemporanei degli anni Zero dei cinepanettoni.

21 22

Il termine, com’è noto, è stato reso corrente da J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini e Associati, Milano 2002 (l’edizione originale è del 1999). E. Morreale, op. cit, p. 201.

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Appendice Alla fine di questo percorso, può essere interessante confrontare alcuni dati (tratti il 5 novembre 2011) relativi alla diffusione e reperibilità del cinema di genere italiano sul web. I siti presi in esame sono: Isohunt (client BitTorrent per scaricare film), YouTube, Nocturno Forum e il più diffuso dei motori di ricerca, Google. A mo’ di campione, sono stati presi in esame registi e attori italiani legati a un culto cinefilo più o meno esteso. A seguire, gli stessi siti sono stati interrogati su registi e attori stranieri, considerati esponenti di una cinefilia internazionale legata al cinema di genere, e su registi e attori di fama generalista. Ovviamente i numeri forniti da siti come YouTube e Google sono imprecisi e indicativi. Mario Bava: IS 48, YT 1580, NOC 250, G 1.100.000 Alberto Cavallone: IS 0, YT 12, NOC 50, G 77.500 Bruno Mattei: IS 12, YT 599, NOC 175, G 508.000 Edwige Fenech: IS 45, YT 761, NOC 200, G 1.030.000 Tomas Milian: IS 44, YT 1840, NOC 375, G 825.000 Quentin Tarantino: IS 194, YT 42.000, NOC 550, G 19.500.000 Al Adamson: IS 2, YT 468, NOC 25, G 6.110.000 Jörg Buttgereit: IS 11, YT 325, NOC 75, G 46.800 Pam Grier : IS 37, YT 1930, NOC 50, G 2.870.000 Jean-Claude Van Damme: IS 306, YT 52.400, NOC 100, G 20.100.000 Sergio Leone: IS 58, YT 11.100, NOC 175, G 4.810.000 Federico Fellini: IS 127, YT 4570, NOC 325, G 4.910.000 Ingmar Bergman: IS 115, YT 3460, NOC 175, G 5.870.000 George Clooney: IS 112, YT 27.500, NOC 125, G 45.300.000 Marilyn Monroe: IS 121, YT 66.500 , NOC 25, G 53.400.000

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ANDREA BELLAVITA

IL DISCORSO DEL FESTIVAL

Discorso del festival e nuovi discorsi sul festival Gli anni Duemila hanno fatto registrare un rinnovato interesse per il film festival, che si è espresso in forme parallele e carsiche anche molto differenti tra di loro. Un proliferare di saggi, interventi, tavole rotonde, osservatori e centri di studio sul festival, e non soltanto sui film, al punto che i due oggetti di riflessione hanno quasi ribaltato la propria salienza: si è parlato (e quindi anche scritto, postato, riflettuto, teorizzato) quasi più del sistema e dei suoi meccanismi, cioè del festival come oggetto contenente, che dei suoi prodotti, vale a dire dei film come oggetti contenuti. Il punto di partenza di questo intervento è che il film festival costituisca esso stesso una modalità di discorso filmico, e una particolare forma di discorso sul film, associata ad una applicazione del potere al sapere. Utilizziamo qui1 il concetto di discorso in un’accezione molto particolare, legata all’uso che Jacques Lacan ne fa nel Seminario XVII, intitolato Il rovescio della psicoanalisi2. Lacan impiega il termine in un senso molto ristretto, e “la teoria 1

2

Sull’impiego del concetto di discorso al testo filmico, rimando a A. Bellavita, Film e discorso, in M. Fadda (a cura di), Corto-circuito. Il cinema contemporaneo nella rete, Bologna, Archetipo (in corso di pubblicazione). In quella sede, metto in relazione la formulazione lacaniana con l’idea di Michel Foucault di discorso come luogo dall’articolazione produttiva di potere e sapere. È lo spazio storico-logico che ordina un campo di significazione e stabilisce così una catena di segni significanti. Ma anche con quella che Jacques Rancière definisce “regime del sensibile”, cioè un modo di organizzazione delle evidenze sensibili, che determina il rapporto fra ciò che, in una data epoca, è sensibile e ciò che non è sensibile, fra ciò che è visibile e ciò che resta invisibile, e di conseguenza fra ciò che è enunciabile e ciò che non lo è. J. Lacan, Il seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, Einaudi, Torino 2001.

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dei quattro discorsi costituisce la scrittura di una logica del legame sociale: il discorso riguarda il modo in cui un soggetto si rapporta con il godimento attraverso il significante, e che rende possibile a ciascuno una barriera rispetto al godimento per costituire un legame sociale”3. Fin da subito, anche al di fuori della formalizzazione lacaniana, emergono due elementi di straordinario interesse della relazione che si stabilisce tra il film festival e il concetto di discorso: da una parte la possibilità di costruire un legame sociale “intorno” (o meglio, attraverso) la struttura del festival, e dall’altra la dialettica piacere/godimento che scaturisce dall’incontro con la medesima struttura. In termini più ampi, il discorso sul film comprende tutte le strutture che esplicitano e mettono a tema l’appartenenza di un testo al dispositivo filmico, che la certificano, la problematizzano e stabiliscono una galassia di legami. È possibile individuare tre diverse tipologie di discorso sul film4. La prima riguarda un’applicazione del potere: è il discorso dell’istituzione, che regola e stabilisce l’appartenenza del testo al dispositivo. Il discorso del festival ne costituisce una perfetta esemplificazione, come luogo di esibizione, di presentazione, di ricerca, ma soprattutto di sanzione di un’appartenenza. È quello che, in un’ottica lacaniana, verrebbe definito discorso del padrone, in cui il soggetto entra nel simbolico, nella Legge: è il discorso del divieto e dell’interdizione, come regola universale. Il Festival, l’istituzione, stabilisce per l’appunto un divieto e un’interdizione, in quanto il fatto stesso che un testo filmico ven3 4

S. Cimerelli, Una lettura introduttiva ai quattro discorsi di Lacan, in «Attualità lacaniana», n. 11, 2010, pp. 149-150. Riprendo qui la strutturazione formulata in Film e discorso, e già presentata durante gli interventi L’expérience doublée du cinéma contemporain: film et discours, presso Paris Spring School Cinéma, Art contemporaine 2, e Sono appena tornato da Cannes (e me ne vanto). Il discorso sul film, presso Corto circuito: il cinema contemporaneo nella rete. Rispetto alle precedenti formulazioni, emerge qui una differenza fondamentale: il discorso sul film operato dal film festival non è più inteso come una semplice applicazione del potere, ma come un’applicazione di potere congiunto al sapere (secondo una modalità diametralmente opposta a quella del discorso critico). Proprio l’abbondanza di discorsi teorico/accademici degli ultimi anni a proposito del film festival ha prodotto un nuovo cortocircuito di reciproche influenze, che non possono essere sottovalutate.

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ga accettato, assimilato all’interno di una selezione, cioè subisca la Legge, presuppone la possibilità della sua negazione, della sua espunzione. Dunque il discorso del festival attiva entrambe le tensioni: quella del potere e quella del sapere. Per sbrogliare la matassa: il film festival esercita il potere di decidere e di applicare la Legge (che cosa deve appartenere al proprio discorso, cioè quali film devono essere visti), ma deve negoziare con il suo “servo” (il guardante, spettatore, critico, partecipante…) l’articolazione del sapere. Considerando anche la possibilità di incorrere in uno stato di ignoranza, ovvero di non completa condivisione di quel sapere, e competenza specifica, che giustifichi il proprio esercizio del potere. Quante volte il critico/spettatore esprime forte perplessità su una scelta del festival, sulla presentazione di un film, sulla costruzione di una selezione? Se da una parte il festival-padrone mette in gioco la propria vita per sostenere la posizione di dominio (all’interno della dialettica hegeliana), dall’altro il criticoservo protegge la propria, lasciandosi confiscare la libertà: di fronte alla scelta del festival si può soltanto vedere, e al massimo far valere il proprio contro-sapere. Per quanto servo, il critico può sempre criticare. La seconda tipologia di discorso sul film è proprio quello del discorso della critica, come luogo di riflessione sul cinema, che esprime un’applicazione del sapere congiunto (o in contrapposizione) al potere. È quello che Lacan chiama “discorso dell’analista”, all’interno del quale l’analista non risponde della posizione di padrone, ma al contrario si presenta come rovescio del discorso del padrone, in quanto il critico-analista (e non più servo) rinuncia ad ogni posizione di dominio. Per svolgere (diremmo noi al di fuori dell’ortodossia lacaniana) la sua funzione più propria di esercizio del sapere come contro-potere. Anche su questo tema, le parole di Lacan sono di una straordinaria lucidità evocativa e, al di fuori di qualsiasi pratica e ortodossia analitica, suonano insieme come una chiamata alle armi e un monito: “È questa la vera difficoltà di colui che tento di accostare per quanto possibile al discorso dell’analista – egli deve essere contrario a ogni volontà, perlomeno dichiarata, di padroneggiare. Dico perlomeno dichiarata non perché debba dissimularla, ma perché in fondo è sempre facile scivolare di nuovo nel discorso

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della padronanza”5. Fin troppo facile esplicitare che, sostituendo il termine “analista” con quello di “critico”, la speculazione lacaniana diventa una lettura immediatamente comprensibile (e auspicabile) della funzione del critico. La terza possibile tipologia del discorso sul film prevede una pura applicazione di sapere: è il discorso dei film studies, l’applicazione di una categoria interpretativa al e sul testo filmico. Anche in questo caso troviamo un’esemplificazione perfetta, e non potrebbe essere che così, nel “discorso dell’università”, che è il nome impiegato da Lacan per descrivere una dinamica, per certi versi, assimilabile. Il discorso universitario è l’archetipo del discorso della conoscenza razionale: non è limitato al funzionamento dell’insegnamento accademico, ma riguarda ogni pratica discorsiva del consiglio e della pedagogia. Il discorso universitario specifica un particolare legame sociale che comporta una certa alleanza del padrone con il sapere: il sapere ha un padrone, il sapere accademico poggia sull’autorità dell’autore, sui significanti padroni riconosciuti dalla scienza ufficiale6. 5 6

J. Lacan, op. cit., p. 81. S. Cimerelli, op. cit., p. 171. Anche su questo tema, le parole di Lacan risuonano sinistramente convincenti: “Ciò che vi occupa il posto che provvisoriamente chiameremo dominante è questo S2, che si caratterizza non già come un sapere-di-tutto, no di certo, ma come un tuttosapere. Intendetelo come ciò che si afferma per non essere nient’altro che sapere, e che si chiama, nel linguaggio corrente, burocrazia. Non si può certo dire che non vi sia qui qualcosa di problematico. […] ciò che si opera dal discorso del padrone antico a quello del padrone moderno, chiamato capitalista, è una modifica nel posto del sapere. […] Il servo sa molte cose, ma soprattutto sa quello che vuole il padrone, anche se questi non lo sa, cosa nel tutto normale, perché allora non sarebbe un padrone. Il servo invece lo sa, ed è questa la sua funzione di servo. […] il fatto che il tuttosapere sia passato al posto del padrone, ecco quel che, anziché chiarire, opacizza un po’ di più ciò che è in questione, cioè la verità. […] Poiché è proprio questo l’S2 del padrone, che mostra il nerbo della nuova tirannia del sapere. Il che rende impossibile che a questo posto appaia nel corso del movimento storico, come forse avremmo sperato, ciò che ne è della verità”, in J. Lacan, Il seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, cit., pp. 30-31. È del tutto evidente come, ancora una volta, sia sufficiente sostituire il termine (astratto) di “università” nell’accezione lacaniana, con quello (concreto) di…”università” nella sua accezione empirica, per assaporarne tutta la forza!

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Con il viatico di Lacan siamo dunque arrivati ad un punto nodale del nostro intervento7, che si colloca al centro di tre strade, o meglio, di tre discorsi sul film. Il discorso del festival, caratterizzato da un’espressione di potere, e da una negoziazione del sapere. Il discorso del critico, caratterizzato da una messa in opera del sapere, che si presenta come antagonista al potere. Il discorso della teoria, caratterizzato da una costruzione del sapere, che si configura come nuova forma di potere. Cercheremo ora di approfondire le relazioni che si stabiliscono tra questi tre flussi discorsivi, e le reciproche influenze. A partire da un rifiorire degli studi teorici concentrati sul sistema dei film festival, sul quale si incarica di fare un punto essenziale il recente The Film Festivals dossier, pubblicato da «Screen»8. Lo speciale ripercorre i più significativi studi sull’argomento, a partire dal pionieristico saggio di Bill Nichols, Global Image Consumption in the Age of Late Capitalism9, che approfondiscono il ruolo e la funzione dei film festival in un contesto più ampio, che non riguarda soltanto la selezione e la promozione di film e registi, ma che comprende dinamiche sociali, culturali ed economiche10. 7

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E anche dell’estensore dell’intervento, che si colloca in una posizione ugualmente influenzata dai tre discorsi: come critico, come esponente del mondo dell’università e come fedele servo del festival, ovvero critico da festival. Per onestà, devo ammettere che la mia funzione di termometro della temperatura dei festival si è ridotta da qualche anno a una partecipazione costante alle kermesse di Venezia e Cannes e a un “reportage critico” per la rivista «Segnocinema», mentre in precedenza la mia frequentazione annuale comprendeva il Far East Film Festival di Udine, il Torino Film Festival, la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, e incontri episodici con Berlinale e London Film Festival. «Screen», vol. 52, n. 2, 2011, pp. 249-285. Si vedano in particolare i saggi: D. Archibald, M. Miller, The Film Festival dossier: Introduction, pp. 249253; F. Chan, The international film festival and the making of a national cinema, pp. 253-260. B. Nichols, Global Image Consumption in the Age of Late Capitalism, in «East-West Film Journal», vol. 8, n. 1, 1994, pp. 68-85. Dello stesso autore si veda anche B. Nichols, Discovering Form, Infering Meaning: New Cinemas and the Film Festival Circuit, in «Film Quarterly», vol. 47, n. 3, 1994, pp. 16-30. D. Archibald, M. Miller, op. cit., p. 249: “Since the pioneering work of Bill Nichols, researchers have come to recognize that film festivals are not just an adjunct to other activities but a phenomenon in their own right. While

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Il quadro teorico degli ultimi anni è caratterizzato da tre eventi di particolare interessa: la pubblicazione del libro di Marijke de Valck, Film Festivals: from European Geopolitics to Global Cinephilia11, immediatamente diventato un punto di riferimento per gli studiosi del settore; la creazione, da parte della stessa Marijke de Valck e di Skadi Loist del Film Festival Research Network, centro di studi che approfondisce sistematicamente lo stato dell’arte bibliografico sull’argomento12; il lavoro sistematico avviato all’interno del Department of Film Studies presso la University of St Andrews, che ha attivato a partire dall’aprile 2009 un International Film Festival Workshop13, con la pubblicazione conseguente di tre edizioni del The Film Festivals Yearbook14. The festival’s making of cinema The international film festival and the making of a national cinema è il titolo del saggio che Felicia Chan dedica all’influenza che un festival può esercitare non soltanto nella creazione di un fenomeno di interesse, ma anche nella istituzionalizzazione di un “cinema nazionale”15. Della promozione di un film o di un regista o della costruzione di un “feticcio/culto” legato al sentire e alla personalità di un direttore e/o curatore e/o board di festival, si parla continuamente, e con

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15

interlocking with a number of a important areas of cinema both culturally and industrially, film festivals possess their own economies, social economic drivers, professional and political dynamics, and agendas”. M. de Valck, Film Festivals: from European Geopolitics to Global Cinephilia, Amsterdam University Press, Amsterdam 2007. http://www.filmfestivalresearch.org. http://www.st-andrews.ac.uk/scf vs/events/34-conferences/68festworkshop. D. Iordanova, R. Rhyne (a cura di), Film Festival Yearbook I: the Festival Circuit, St Andrews Film Studies, St Andrews 2009; D. Iordanova, R. Cheung (a cura di), Film Festival Yearbook 2: Film Festivals and Imagined Communities, St Andrews Film Studies, St Andrews 2010; D. Iordanova, R. Cheung (a cura di), Film Festival Yearbook 3: Film Festivals and East Asia, St Andrews Film Studies, St Andrews 2011. Si veda a questo proposito S. Crofts, Reconceptualising national cinema/s, in V. Vitali, P. Willemen (a cura di), Theorising National Cinema, British Film Institute, London 2006, pp. 44–58.

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una precisione e una profondità più adatte alle attese in coda per una proiezione che ad una riflessione teorica: se Kim Ki-duk è “di Venezia”, allora Hong Sang-soo è “di Cannes”, se Tsai Ming-liang ha un buon film lo porterà a Venezia o a Cannes? Perché adesso tutti i registi americani preferiscono portare il loro ultimo lavoro a Toronto16? Esiste una pur vaga e lontana possibilità che il “film a sorpresa” di una qualsiasi edizione di Venezia diretta da Marco Müller non venga dalla Cina continentale? E via di questo passo. Più interessante è la capacità di un festival di influenzare la costruzione di un immaginario condiviso rispetto alla cinematografia di un intero paese. Che non rimane circoscritta alla durata e allo spazio di un festival, ma che si diffonde in modo rizomatico (o forse anche meglio: virale) attraverso la cassa di risonanza della critica, in direzione degli addetti ai lavori e dei potenziali lettori/ spettatori. La costruzione festivaliera di un cinema nazionale può assumere i contorni di un’operazione di eccellente marketing culturale, in particolare quando l’appartenenza geografica del festival coincide con quella della cinematografia creata e promossa. Il caso più emblematico, da questo punto di vista, è rappresentato dalla fondazione del cosiddetto New Korean Cinema da parte del Pusan Film Festival, a partire dalla metà degli anni Novanta. Il 1996 è un anno importante per il cinema della Corea del Sud: si svolge la prima edizione del Pusan International Film Festival, la più grande operazione di marketing culturale in ambito cinematografico, promosso dall’attività congiunta di studiosi, critici e registi, e diretto da Kim Dong-ho, che per assumerne la guida si dimette dal suo incarico di vice-ministro della cultura. Il PIFF si impegna a laureare, anno dopo anno, una intera generazione di nuovi “maestri” ed autori, e per il suo battesimo vengono presentate alcune opere prime destinate a segnare le sorti del cinema nazionale: The Day a Pig Fell Into the Well di Hong Sang-soo, Three Friends di Yim Soon-rye e Crocodile di Kim Ki-duk. In realtà ciascuno di questi tre registi occupa ancora oggi in patria una nicchia ristretta legata al cinema d’essai, e la loro rilevanza e centralità 16

A questa, ormai epocale, domanda è semplice fornire una risposta immediata: il TIFF – Toronto International Film Festival, come Cannes, è organizzato con una sezione di marché, di mercato dei diritti distributivi, e il suo collocamento geo-politico lo mette in immediata relazione con i circuiti di distribuzione e vendita del Nord America.

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è da leggersi piuttosto in chiave “occidentale” (attenzione critica e discreto successo di pubblico). Curiosamente poi godranno di fortune rigidamente separate su scala geografica: Hong Sang-soo diventerà un oggetto di culto in Francia e negli Stati Uniti, ma rimarrà praticamente inedito e sconosciuto in Italia. Al contrario di Kim Ki-duk, che viene adottato dalla critica e dai Festival (Venezia, Udine, Firenze) italiani e da «Positif», ma è snobbato dai «Cahiers du Cinéma» e perseguitato dalla critica femminista anglosassone. Mentre Yim Soon-rye è all’epoca una delle pochissime registe donne coreane, e a lei rimarrà soltanto il plauso della pubblicistica di gender. Un complesso progetto economico-culturale, condotto con tenacia e determinazione, e con una certa dose di cinica freddezza: almeno due dei “figli della nazione cinematografica” vengono serenamente abbandonati dal discorso del nuovo padrone-capitalista della Corea del Sud non appena smettono di riscuotere lo sperato successo sui mercati nazionali (ma soprattutto internazionali). Al quale segue immediatamente un doppio versante di rafforzamento: quello dei festival occidentali, e quello della critica di settore. Il New Korean Cinema arriva in Europa (e soprattutto in Italia) e in Nord America attraverso il circuito festivaliero, ed è sufficiente consultare i palmarès delle maggiori manifestazioni internazionali degli ultimi anni per accorgersi che sempre più spesso sui palchi delle premiazioni si parla coreano. Insieme, per raccontare ed interpretare questo cinema “nuovo” (per la sensibilità e la competenza dello spettatore e dello studioso occidentale), si va costituendo una critica sempre più specializzata, in grado di offrire prospettive di lettura che coniughino l’analisi delle singole pellicole con una conoscenza il più possibile articolata del sistema cinematografico e culturale nel quale si collocano: oltre al “decano” Tony Rayns (anche programmatore del Vancouver International Film Festival, con la sua rassegna Dragons and Tigers Pacific Rim), i nomi di Darcy Parquet (animatore del sito/forum www.koreanfilm.org e consulente del Far East Film Festival di Udine17), di Chuck Stephens, Derek Elley e Peter Rist per il versante angolofono e di Adrien Gombaud 17

Da non dimenticare che l’azione propulsiva del FEFF di Udine, che ha tenuto a battesimo molti importanti film e registi coreani, si è rivolta negli anni nello stesso modo anche ad altre cinematografie nazionali asiatiche: tra le “scoperte” del FEFF ci sono registi poi divenuti clienti fissi dei grandi festival internazionali come Johnnie To e Takashi Miike.

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per quello francofono, sono ormai punti di riferimento costanti per conoscere il cinema asiatico, e quello coreano in particolare. In questo modo il discorso del padrone si mescola con quello dell’analista: il festival offre la parola al critico, o allo studioso, che la fa sua, e la amplifica. Alla fine della catena, dopo l’ultima parola, lo spettatore ha semplicemente la possibilità di certificare con la propria presenza in sala (o, più probabilmente, in home viewing) una scelta compiuta all’origine. In sintesi: tra tutto ciò che non avrebbe mai potuto vedere, vede soltanto ciò che per lui è stato scelto di vedere. Dalla scelta del festival, e dalla certificazione della critica, alla cristallizzazione della distribuzione nazionale (influenzata certo più dal programma di un festival internazionale che da un intervento di critica, o peggio ancora di analisi teorica di un film…), e alla museificazione (e mummificazione) del successo di pubblico. E da lì a ripartire. Se l’esercizio del potere da parte di un festival nazionale sulla propria cinematografia è facilmente comprensibile, più complesso è il lavoro che i festival internazionali esercitano su altre cinematografie internazionali, e in particolare su quelle geo-politicamente e culturalmente più lontane. È ormai assodato che la funzione principale di un festival sia quella di scegliere che cosa si possa e si debba vedere all’interno della smisurata massa cieca della produzione: è quello che Felicia Chan definisce come invito a partecipare ad un “concentrated cultural tour of the world”18. Quasi una forma nobile, di high culture, di un “parco a tema”, o di quello straordinario e incredibile epifenomeno del kitsch e della pop culture che è la ricostruzione di terre lontane (e artistico-mitiche) all’interno dei grandi alberghi e dei casinò di Las Vegas. E, insieme, quasi una forma alternativa di distribuzione19. 18

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“The international film festival often appears to function as a cosmopolitan space in wich spectators are encouraged to participate in a kind of concentrated cultural tour of the world; it is also a space that regulates – in accordance with various social, economic, political and cultural force – what is allowed to flow through it. Apart from celebrating individual films and directors, festivals often showcase various bodies of work defined as cinema emerging from particular nations, more usually referred to a ‘national cinema’”, in F. Chan, op. cit., p. 253. “An alternative distribution network […] providing audiences with opportunities to enjoy commercially unviable films projected in a communal

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Le due componenti, quella più culturale e quella economicadistributiva, sono indissolubilmente legate. Alla base dell’incessante attività di definizione delle salienze all’interno delle diverse cinematografie internazionali c’è quello che Marijke de Valck definisce “dogma of discovery”, e che caratterizza una fase moderna dell’evoluzione dei film festival che, a partire dagli anni Ottanta, subiscono una professionalizzazione e una istituzionalizzazione. La de Valck fa risalire il concetto di scoperta obbligata (questa mi sembra la traduzione più efficace di dogma of discovery) addirittura alla Nouvelle Vague, e alla formalizzazione del concetto di autore e di new waves come strategia discorsiva: “the first consequence of the French New Wave, was that festivals appropriated the notions of auteur and new waves as strategic discourse. They deployed this discourse to distinguish themselves as institutions of discovery; the new festival task became to present the current condition of world cinema to the world”20. Se il riferimento a Godard e Truffaut può apparire un po’ forzoso (o almeno non così facilmente applicabile al di fuori di istituzioni fortemente legate a quell’esperienza, come Cannes e, in qualche senso, Venezia), l’idea di una “istituzione di scoperta obbligata” sembra davvero il modo migliore per leggere la facoltà di selezione che anima il discorso del festival. Gli esempi potrebbero essere infiniti, e per questo non ne facciamo nessuno, dal momento che tutti potrebbero essere ricondotti alla stessa domanda: perché selezionare in un particolare momento la rilevanza di una cinematografia precedentemente invisibile per regalarle visibilità internazionale? E perché, all’interno di essa, selezionare un particolare regista o movimento? Due le possibili risposte. Anzi tre, ma la terza non vale: perché se si potesse tranquillamente ammettere (o sperare) che la selezione venga compiuta sulla base di un semplice coup de cœur, e quindi di un puro godimento personale (nel senso più vicino alla jouissance

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space – films that most communities, even the most cosmopolitan, otherwise would not have the opportunity to see”, in M. Peranson, First You Get the Power, Then You Get the Money: Two Models of Film Festivals, in R. Porton (a cura di), Dekalog 3: on Film Festivals, Wallflower, London 2009, p. 23. Sul concetto di festival come alternative distribution, si veda anche M. de Valck, op. cit., pp. 92-93, 102-106. M. de Valck, op. cit., p. 175; si veda l’intero paragrafo The Dogma of Discovery and Politics of Participation, pp. 174-177.

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lacaniana), allora potremmo guardare con molta più condiscendenza e fiducia al discorso del festival. Ma questa assunzione di puro godimento non è ammessa: come dicevamo in apertura, il discorso del padrone ha la funzione di consentire la costruzione di un legame sociale e di difendere dal godimento. Senza di esso la parola (e la scelta) del festival, sarebbe analoga a quella del fan, o del cinefilo, così intessuta di godimento da non poter essere condivisa. In parole semplici: il festival può creare feticci ma non può essere feticista, può indurre godimento ma non può esserne mosso. Può creare mostri di cinefilia (mi concedo un unico esempio, condiviso tanto da Venezia quanto da Cannes: il godimento puro di una séance di svariate ore firmata da Lav Diaz…), ma non può ammetterli. Dunque rimangono due strade. La prima è quella dell’assorbimento del discorso dell’università, con il suo tutto-sapere burocratico. Ovvero: il festival sceglie perché Esso (direttore, curatori, consulenti, board scientifico…) ne sa di più degli altri, è in grado di selezionare in base alla pura qualità, o a qualsiasi altro criterio assoluto. Dalla salienza politico-sociale alla capacità di costruire una scuola nazionale o di rappresentare la massima eccentricità rispetto al mainstream della stessa cinematografia. Fino a criteri spesso non intrinsecamente legati al valore artistico dell’opera: su tutti lo stato di censura che pesa su un singolo regista o film. La seconda è quella del puro discorso del padrone: il festival sceglie perché è il festival. E basta. Dalla parte del padrone può esserci l’ignoranza, ma soprattutto c’è l’esercizio del potere. Forse non sarebbe dispiaciuta a Lacan una piccola riflessione sul ruolo che, tra gli stakeholders21 che esercitano influenza all’interno di un festival internazionale, riveste la Fédération Internationale des Associations de Producteurs de Films (FIAPF). La sua funzione è quella di “a regulator of international film festivals’ is largely self-appointed and it operates on a trust contract between those festivals and the film industry at large”22, e si esplicita nella tutela dei film che 21

22

All’interno di essi troviamo: “filmmakers and studios, journalists and press agents, professionals and programmers, local cultural councils and supranational agencies, tourist boards, cinephiles and others”, in R. Rhyne, Film festival circuits and stakeholders, in D. Iordanova, R. Rhyne (a cura di), Film Festival Yearbook I: the Festival Circuit, St Andrews Film Studies, St Andrews 2009, p. 9. http://www.fiapf.org/intfilmfestivals.asp.

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vengono presentati nelle varie manifestazioni, dal diritto d’autore fino alla gestione della compatibilità delle date, per consentire una circolazione ottimale dei prodotti. Eppure il numero dei festival che accettano di assecondare le norme e gli standard formalizzati dalla FIAPF e che compone la Competitive Feature Film Festivals è estremamente limitato: i “tre grandi” Berlino, Venezia e Cannes, e un altro piccolo gruppo che decide la propria partecipazione anno per anno (Shanghai, Mosca, Karlovy Vary, Locarno, Montreal, San Sebastian, Varsavia, Tokyo, Mar del Plata e Cairo). Evidentemente, se esiste una struttura di potere ancora più forte di quella del discorso del festival, ma che pure lo innerva e lo influenza in modo preponderante, è quella della produzione cinematografica. “Se pensiamo che è ascoltando il discorso di Lacan…” “…di Foucault o di un altro che avremo i mezzi per criticare l’ideologia che fanno ingoiare, ci sbagliamo di grosso. Io sostengo che è fuori che bisogna andare a cercare i mezzi per buttare all’aria l’Università”23. Lacan tiene il seminario su Il rovescio della psicoanalisi, dal quale abbiamo tratto la formalizzazione dei vari discorsi, nell’anno accademico 1969/1970. Invitato al centro universitario di Vincennes a tenere una lezione sull’argomento, il 3 dicembre 1969, viene duramente contestato dagli studenti che (in modo assolutamente comprensibile) lo accusano di rispondere con “belle parole” e ragionamenti astrusi ai problemi che stanno attraversando la società e la politica di quegli anni. In fondo, è la stessa obiezione che potrebbe fare chi, leggendo questo saggio, si chiedesse se è ascoltando il discorso di Lacan che avrebbe i mezzi per negoziare criticamente il potere della scelta operato dal discorso del festival. In pratica: è possibile sperimentare una conoscenza e una pratica del cinema internazionale, e in particolare di quello che emerge dall’invisibilità, al di fuori della dipendenza dalla selezione festivaliera? Alla provocazione, Lacan risponde in modo spiazzante: “Ma fuori di cosa? Perché quando uscite di qui, diventate afasici? Quando uscite, 23

J. Lacan, Il seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 257; la trascrizione dei dialoghi tra Lacan e i contestatori è riportata nell’allegato Analyticon.

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A. Bellavita - Il discorso del festival

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continuate a parlare, di conseguenza continuate ad essere dentro”24. Penso che la risposta si adatti perfettamente anche al nostro ambito, perché ri-tradotta significa: al di fuori del discorso del festival, tutti i soggetti implicati continuano a portare avanti i loro discorsi. Non diventano afasici, continuano a parlare, e in questo modo a generare nuove e diverse selezioni, che hanno la stessa struttura di quella operata dal festival. E quindi continuano a rimanere dentro. Non diventa afasica la critica, che può esprimere una posizione anche profondamente contraddittoria, ma che ragiona e prosegue la sua azione sempre a partire da quella selezione. Non diventa afasica la cinefilia, che continua a costruire feticci e simulacri, che perpetua un meta-dogma of discovery, fatto di passioni brucianti e intransigenti per un autore, un film, un movimento, sconosciuti, sotterranei, impervi, quasi mitologici, e che trova la propria ragione di essere nel culto misterico dell’inconnu. Non diventa afasica nemmeno la straordinaria (e davvero impagabile) opera di condivisione consentita da siti come www.mubi. com o www.festivalscope.com, che consentono a tutti coloro che non hanno la possibilità di partecipare fisicamente ad un international film festival, di poter scaricare digitalmente alcuni dei film presentati nelle varie sezioni. Di fatto si tratta di una meta-selezione: prima operata in termini di rapporto tra i siti e i singoli festival, e quindi di ulteriore scelta tra i titoli che vengono resi disponibili. Non diventa afasica la disponibilità potenzialmente illimitata del peer to peer (si scarica sempre e soltanto ciò che qualcun altro, in base alla propria disponibilità e sensibilità, ha deciso di mettere a disposizione), né il database borghesiano di www.imdb.com, per quanto l’assoluta disponibilità di parola/informazione sia quanto di più vicino si possa immaginare all’afasia. Con un (inconsapevole) colpo di genio storico/teorico, uno dei contestatori di Lacan, sentenzia: “Si può dire che Lenin ha rischiato di diventare afasico”. La risposta: “[…] l’aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, quella di portare, sempre, al discorso del padrone. È ciò di cui l’esperienza ha dato prova. Ciò a cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone. L’avrete”.

24

Ibidem.

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SEZIONE DUE

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FRANCESCO DI CHIARA

TV TROPES WILL RUIN YOUR LIFE Forme, canoni e obiettivi della critica online nella geek culture

Negli ultimi dieci anni, specialmente nell’ambito della serialità televisiva, la figura del nerd, o meglio del geek, ha acquisito una notevole esposizione mediatica, culminata nel successo di serie come The Big Bang Theory e Chuck, oppure nell’inclusione di personaggi come Abed nello show Community. Questo fenomeno fa riferimento alla continua espansione e alla crescente self-awareness di quella che viene definita geek culture1: una imagined community – secondo la fortunata definizione di Benedict Anderson2 – transnazionale3, transgenerazionale (in quanto comprende sia adolescenti che giovani adulti), priva di barriere di gender e dotata 1 2

3

E anche, ovviamente, a una nuova percezione del geek come target audience e in senso più ampio come target consumer. Si tratta di un aspetto fondamentale, che però esula dalle finalità del presente lavoro. Secondo Anderson una comunità è “immaginata” quando non si basa su relazioni interpersonali tra i suoi membri, ma su di un’idea di affinità e cameratismo che esiste solo nelle menti di questi ultimi. Anderson elaborò questo concetto nel 1983 all’interno del suo studio sulle comunità nazionali, nelle quali “gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, […] eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità. […] È immaginata ogni comunità più grande di un villaggio primordiale dove tutti si conoscono (e forse lo è anch’esso)” (B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma 2000, p. 27). La teoria di Anderson ha avuto una notevole fortuna nei decenni successivi all’apparizione del volume, ed è normalmente applicata anche ad altri tipi di comunità, come ad esempio quelle costituite dai fan di un determinato genere cinematografico o musicale. Sebbene essa sia principalmente collocabile in area nordamericana, non mancano anche in Asia o in Europa gruppi che fanno esplicito riferimento alla cultura geek. Per esempio la giornata mondiale dell’orgoglio geek, promossa dalla webzine El Marginado e strutturata secondo modalità evidentemente simili al Gay Pride, è nata in Spagna nel 2006 (Dia del orgullo friki, 25 maggio).

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Le nuove forme della cultura cinematografica

di un proprio canone – rigorosamente trans-mediale – continuamente rimesso in discussione attraverso i canali di espressione privilegiati dalla comunità: prima user groups su Usenet, poi forum e infine social network. Per meglio dire, è proprio il fare riferimento a un canone comune, composto di prodotti dell’industria culturale di diversa provenienza, a costituire la spina dorsale della comunità, la quale sembra infatti autodefinirsi attraverso il consumo. Ed è per questo che quest’ultima è in breve tempo passata dal formulare giudizi sostanzialmente individuali o rappresentativi di piccoli gruppi, al generare forme di critica semi-ufficiale attraverso la costituzione di blog o siti appositi, come il britannico Den of Geek!4 – interamente dedicato a recensioni di tv shows, fumetti, film e videogames – o Oafe5 – che recensisce action figures ispirate a personaggi provenienti dai media più disparati. L’aspetto più interessante consiste nel fatto che le recensioni apparse su questi siti fanno spesso riferimento a formule critiche maturate altrove, ma sempre all’interno della community e quindi nate dal basso, slegate dalle istituzioni preesistenti (università, critica professionale, ecc.) e discusse aspramente in ogni loro parte su forum e altri canali. Uno dei luoghi di raccolta, genesi e decantazione di tali categorie è TV Tropes6, un sito di carattere completamente diverso in quanto la sua finalità non è la critica in senso stretto. Nato nel 2004 come catalogo online degli archetipi narrativi utilizzati all’interno della serie Buffy the Vampire Slayer, il sito è diventato in breve tempo un enorme dizionario enciclopedico delle figure retoriche ricorrenti all’interno della pop culture contemporanea. Anziché formulare delle valutazioni, TV Tropes fornisce invece gli strumenti attraverso i quali la critica para-istituzionale della geek community viene esercitata. Sebbene infatti le recensioni apparse sui siti citati siano spesso fondate su parametri propri della critica quotidianista – qualità della recitazione, ritmo dell’opera, qualità di fotografia, scenografia ed effetti speciali, ecc.7 – la conoscenza delle figure retoriche catalogate su TV Tropes permette ai recensori di 4 5 6 7

Den of Geek – Cult TV, Movie, Games & Comics Reviewed, Discussed and Appreciated (http://www.denofgeek.com). Online Action Figures Entertainment (http://www.oafe.net). Television Tropes & Idioms (http://www.tvtropes.org). È per esempio il caso di Den Of Geek!

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intervenire anche in merito alla struttura narrativa dei testi, di creare parallelismi e comparazioni, di esprimersi sui trend industriali. Luoghi comuni narrativi identificati da una frase criptica e sarcastica al tempo stesso, creati dal basso e simili nella loro dimensione semantica alle funzioni proppiane, le voci di TV Tropes permettono così di individuare le modalità d’uso, le funzioni e le aspirazioni di una forma di critica non ufficiale, imperniata prevalentemente sui new media e da questi ultimi generata, legata a filo doppio a una imagined community in via di espansione. TV Tropes: struttura e finalità TV Tropes ha la struttura di una wiki, il cui scopo, dichiarato nella home page, è quello di offrire un “catalogo degli artifici e delle convenzioni cui può fare affidamento uno scrittore in quanto già presenti nelle aspettative degli spettatori”. Tali artifici e convenzioni sono denominati tropes (letteralmente: tropi, convenzioni narrative o figure retoriche) e sono raccolti in un indice suddiviso per categorie, all’interno di un sistema poco coerente e caratterizzato da alcune scelte che lasciano perplessi sul piano teorico: per esempio la sottosezione dedicata alle convenzioni proprie dei paratesti fa parte del gruppo dei “tropi narrativi”. D’altra parte cercare una coerenza di base troppo stretta sarebbe fuori luogo: TV Tropes non è un sito con ambizioni scientifiche e le note introduttive esaltano la dimensione partecipativa dell’operazione e il suo profilo non istituzionale, tanto più che lo scopo dichiarato è il divertimento del collaboratore/fruitore; nonostante ciò, la qualità della scrittura delle voci e la chiarezza dell’esposizione sono spesso notevoli. Le voci poste al livello più alto dello schema rimandano a un metalinguaggio piuttosto tradizionale, ma muovendosi verso il basso è invece possibile trovare definizioni più caratteristiche del sito e della community di fruitori. Alcune di esse sono attestate fin da prima metà degli anni Novanta – come la celeberrima Jumping the Shark8 – mentre altre sono invece nate sullo stesso sito, che 8

Letteralmente: “saltare lo squalo”. Deriva da una puntata girata in esterni della quinta stagione della sitcom Happy Days, all’interno della quale Fonzie, uno dei protagonisti, per scommessa oltrepassava saltando una gab-

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Le nuove forme della cultura cinematografica

denuncia così due istanze di base: quella archivistica (catalogare l’esistente) e quella di “ricerca” (creare nuovi oggetti da catalogare). Ovviamente questo meccanismo non è esente da aberrazioni legate alla struttura della wiki, come la tendenza a creare nuove voci al solo fine di acquisire prestigio all’interno della community: un fenomeno che, sebbene osteggiato in forma ufficiale, influisce sulla stessa dimensione teorica e sulla struttura dei tropes, e di conseguenza sul loro utilizzo. Struttura dei tropes Il primo aspetto di rilievo riguarda la dimensione principalmente semantica (anziché sintattica) delle voci. Buona parte di esse, cioè, rimanda a singole figure piuttosto che a sistemi o configurazioni. Inoltre, il successo del sito conduce alla continua creazione di voci che, per dirla in termini greimasiani, sono sempre più vicine alle strutture discorsive che alle funzioni semio-narrative di base: in altre parole, il bisogno di forgiare continuamente nuovi tropes fa sì che questi ultimi finiscano per avere un grado di figurativizzazione sempre più alto, che siano cioè più vicini alla superficie del testo invece che alle strutture profonde, a casistiche specifiche anziché a relazioni astratte ancora adattabili ai più diversi contesti. In questo modo, i tropes divengono pertanto più simili alle funzioni proppiane che agli attanti della semiotica generativa. Questo non significa che non esistano rapporti specifici tra i vari tropes: al termine di ciascuna descrizione c’è infatti una breve comparazione che lega l’oggetto della scheda ad altre voci per relazioni di antitesi, di sinonimia o di contiguità. Tuttavia, manca un “percorso narrativo canonico” che organizzi in modo sintattico le varie voci – come invece accadeva con le funzioni di Propp – e questo si ripercuote sulle forme della critica legata alla geek cultubia contenente uno squalo facendo sci nautico. L’eccessiva spettacolarità della sequenza avrebbe costituito un punto di non ritorno per la willing suspention of disbelief degli spettatori, determinando così una spirale discendente nella qualità dello show. L’espressione Jumping the Shark viene perciò utilizzata a proposito di una serie che, avendo esaurito la propria vena creativa, viene ugualmente portata avanti ricorrendo a improbabili stratagemmi che lentamente iniziano ad alienare la propria audience.

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re: l’analisi narrativa dei testi (filmici e non) si riduce spesso a un elenco – paratattico anziché ipotattico – dei tropes riconosciuti e a una valutazione relativa al modo in cui un particolare cliché viene gestito all’interno di un singolo testo o più in generale nell’ambito dell’industria culturale. Intermedialità e canoni A ogni descrizione di tropes fa seguito un elenco di esempi, raggruppati in base al medium di appartenenza: tra questi, oltre ai più comuni (film, musica, fumetti, televisione, animazione giapponese e occidentale, letteratura), appaiono anche il wrestling professionale, i videogame, i giochi di ruolo e la fan fiction. Spesso ai testi citati e ai loro autori vengono dedicate anche delle schede pubblicate su pagine a parte: queste ultime presentano una breve descrizione dell’oggetto, un eventuale accenno alla sua ricezione critica, e un elenco di tropes, in ordine alfabetico, che vi farebbero apparizione. Di tutti i media coperti da TV Tropes, l’unico ad avere delle schede indicizzate è il cinema: esistono infatti una pagina dedicata ai film “più importanti” di ogni decennio, una agli attori e infine una (minimale) ai registi. Perciò, sebbene non vi sia una gerarchia esplicita, il cinema sembra essere il medium d’elezione della community: si può quindi partire da queste schede e dalla loro organizzazione per individuarne il canone di riferimento. Non potendo effettuare un’analisi estesa ci si limiterà a effettuare alcune osservazioni: 1. Separazione tra opera e autore: nonostante l’identificazione del regista come autore del film risulti essere un dato percepito come naturale, non è detto che a questi venga dedicata una porzione di testo rilevante all’interno delle schede. Per esempio, esiste una pagina dedicata al Ultimo tango a Parigi (1972), ma l’attenzione non è posta sul suo legame con il resto dell’opera di Bertolucci quanto sul suo essere “il progenitore del genere Euroshlock”. 2. Arco temporale e area geografica: l’indice delle schede filmografiche raccolte dal sito è diviso per decenni, mentre questi ultimi sono ulteriormente divisi per anno. Tale suddivisione è tuttavia

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operativa solo a partire dagli anni Sessanta (probabile anno di nascita degli utenti più anziani), mentre le poche schede relative a film usciti nei decenni precedenti sono semplicemente elencate in ordine alfabetico. In secondo luogo, la maggior parte delle voci è dedicata a prodotti hollywoodiani, mentre una minore attenzione viene dedicata al world cinema9. 3. Figure di autorità: gli estensori delle schede sembrano citare preferibilmente l’opinione del critico Roger Ebert o i punteggi apparsi sull’antologia di recensioni «Rotten Tomatoes»10: la critica quotidianista sembra perciò essere il principale punto di riferimento esterno alla community. 4. Generi: buona parte dei tropes trae origine dal cinema di fantascienza e in particolare da Star Wars o da Star Trek. Quest’ultimo è assai rappresentato, soprattutto per quanto riguarda la serie degli anni Ottanta, The Next Generation11 – anche perché essa è cronologicamente collocata nel periodo di emersione della geek culture. Tuttavia, specialmente guardando le schede più recenti, si può notare come venga sostanzialmente inclusa buona parte della produzione mainstream, a prescindere dal genere di appartenenza, specialmente per quanto riguarda il cinema blockbuster. 5. Cinefilia: il canone che emerge dalle schede è molto diverso dalla cinefilia tradizionale, ma anche da quello proprio di altre communities, per esempio di quelle dedicate al cinema di genere. In particolare le schede manifestano un atteggiamento ambivalen9

10 11

Per una definizione di world cinema, come nuova categoria inglobante tutto ciò che non appartiene al cinema di Hollywood, si veda T. Elsaesser, European Cinema as World Cinema: A New Beginning? in T. Elsaesser (a cura di), European Cinema: Face to Face With Hollywood, Amsterdam University Press, Amsterdam 2005, pp. 485-513. http://www.rottentomatoes.com. Ci sono innumerevoli esempi, come la figura del “Wesley” (un personaggio che gli sceneggiatori continuano a imporre nonostante sia odiato dai fan), o il “WorfEffect” (la tendenza degli sceneggiatori di una serie di far mettere immediatamente al tappeto il più forte tra i protagonisti da parte di un nuovo antagonista allo scopo di farne percepire la pericolosità. Trae il nome dal klingoniano Worf di The Next Generation, perennemente vittima di questo espediente narrativo).

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te e, spesso, di disagio nei confronti dell’art cinema o di quello che viene a volte definito “cinema estremo”: si vedano in questo senso le pagine dedicate a Salò (Pier Paolo Pasolini, 1975) o a Michael Haneke12. Dalla teoria alla pratica In conclusione, conviene sottolineare due ultimi aspetti. In primo luogo, l’approccio di TV Tropes non è accettato passivamente da tutta la geek community: le reazioni negative a un sistema considerato troppo arido, che alienerebbe dai piaceri del testo e impoverirebbe le capacità interpretative del fruitore, sono tante da aver generato a loro volta un trope apparso sullo stesso sito, “TV Tropes Will Ruin Your Life”. È interessante in proposito notare come tale dibattito sembri riecheggiare quello degli ultimi anni dello strutturalismo, dal quale, in fondo, l’impostazione del sito sembra derivare. Ciò nonostante è difficile non percepire TV Tropes come una forma di autorità interna alla community, come dimostra il fatto che sia divenuta oggetto di parodia anche da parte del webcomic di culto XKCD13. In secondo luogo si è fin qui trattato TV Tropes come un archivio di strumenti interpretativi, i quali vengono poi utilizzati altrove per esaminare e valutare testi preesistenti; tuttavia, esso sembra avere al contempo una dimensione writer-oriented. Innanzitutto, la già citata definizione dei tropes che appare sulla home page è imperniata sull’utilizzo che di questi ultimi può essere fatto da parte degli autori di fiction, e solo secondariamente sulla loro ricezione da parte del pubblico. Inoltre, bisogna nuovamente sottolineare la grande attenzione che viene rivolta dal sito al mondo 12

13

Al contrario, dalle recensioni apparse in ambiti più vicini alla community dei fan del cinema horror come il sito di recensioni http://www.dvdmaniacs.net, http://www.bloodydisgusting.com o i siti delle riviste «Fangoria» (http://www.fangoria.com) e della francese «Madmovies» (http://www. mad-movies.com), così come sull’italiana «Nocturno», i film d’autore più disturbanti come quello di Pasolini o l’opera del regista austriaco vengono percepiti come una componente irrinunciabile del proprio canone di riferimento. http://www.xkcd.com.

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della fan fiction: infatti non solo vengono riconosciuti dei tropes specifici di questo universo, ma alcuni di essi, come “Mary Sue”14, vengono abitualmente utilizzati anche a proposito dell’operato degli sceneggiatori professionisti. Si fa strada quindi l’ipotesi che a TV Tropes non appartenga soltanto un’istanza critica, volta a fornire gli strumenti per riconoscere – contribuendo così a formare un canone della comunità – della buona fiction; ma anche e piuttosto una dimensione normativa, volta insegnare ai fruitori come realizzare della fan fiction di qualità, in un contesto come quello attuale che vede un’espansione del fenomeno impensabile fino a dieci anni fa. Quest’ultima ipotesi è più difficilmente verificabile: se infatti un sito di critica cinematografica può citare esplicitamente TV Tropes come punto di riferimento, è molto più difficile che uno – o più – autori di fan fiction denuncino esplicitamente un qualche debito nei confronti di quest’ultimo. Tuttavia, gli elementi che puntano in questa direzione sono molteplici: le numerose discussioni nella sezione “Writer’s Block” sul forum del sito, dove scrittori non professionisti si aiutano reciprocamente; il “World Building”, sezione nella quale gli utenti chiedono consigli su come strutturare un mondo finzionale coerente; infine la pagina delle “Fan Fic Recommendations”, nelle quali un utente può dare suggerimenti su come si potrebbe sviluppare un universo narrativo già esistente mediante la fan fiction. L’immagine che traspare della geek community, intendendo TV Tropes come uno dei suoi punti di riferimento, è così quella di una comunità nella quale, coerentemente con i meccanismi di funzionamento dei suoi canali di espressione privilegiati, il confine tra la 14

Il termine deriva dalla protagonista del racconto A Trekkie’s Tale, pubblicato da Paula Smith su «The Menagerie», una fanzine dedicata alla serie Star Trek. Esso costituiva di per sé una parodia della fan fiction contemporanea, e il suo personaggio principale era stato concepito per ridicolizzare la tendenza delle autrici di fan fiction – dal momento che all’epoca si trattava di un fenomeno principalmente femminile – a sfogare le proprie frustrazioni sublimandole in un alter ego che veniva ammirato, onorato e (soprattutto) sessualmente desiderato dai protagonisti dell’universo diegetico nel quale era stato inserito. Per estensione, l’espressione “Mary Sue” viene adoperata per indicare quei casi in cui un autore di fiction ufficiale tenta di rendere eccessivamente attraenti dei personaggi nella speranza di attirare su di essi le simpatie del pubblico, producendo però l’effetto opposto.

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fruizione, la partecipazione e la creazione tende a scomparire nella continua espansione e ridefinizione di quel canone di consumo che ne costituisce l’identità e il senso ultimo.

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ALICE AUTELITANO

MYMOVIES La critica cinematografica online fra tradizione e rinnovamento

Online dal 2000, «MYmovies»1 si è conquistato una posizione di dominio tra i portali d’informazione e critica cinematografica nel contesto del web italiano. Come recitano i credits dello stesso portale, «MYmovies» “si attesta come il primo sito italiano di cinema per visitatori”. È proprio a partire da questo dato quantitativo che lo abbiamo scelto quale studio di caso del presente lavoro. I dati riportati da Audiweb2 sui consumi online degli italiani nel mese di ottobre 2011 rilevano che su 38,973 milioni di utenti “connessi”, ovvero che possono potenzialmente usufruire di Internet (su una popolazione complessiva di 54,745 milioni di abitanti), gli utenti attivi sul web (fruitori per almeno un secondo nel periodo della rilevazione) ammontano a 27,274 milioni (il 10,5% in più rispetto allo stesso mese del 2010), con una media di 13,124 milioni di utenti attivi giornalmente. Alla luce di queste informazioni, risulta di notevole interesse il dato relativo alla media di utenti unici giornalieri del portale «MYmovies», che è pari a 209.367 (circa l’1,57% del totale di utenti attivi nel giorno medio). Per renderci conto del valore di questo dato, è utile confrontarlo con quelli relativi ad altri soggetti presenti nel medesimo campione di rilevazione: da un lato, le versioni web di popolari quotidiani come «La Repubblica» o «Il Corriere della Sera», che rispettivamente giungono a una media di 1.482.349 e 1.255.662 utenti unici, dall’altro lato, siti di argomento cinematografico affini (anche se non tutti, o non del tutto, assimilabili) a «MYmovies», come «IMDb – Internet Movie Database», «Film.it» o «Zapster», che arrivano nell’ordine a 48.121, 21.174 e 5.079 utenti unici giornalieri di media. 1 2

http://www.mymovies.it. Fonte: Audiweb Database, dati ottobre 2011 – Audiweb powered by Nielsen, cfr. http://www.audiweb.it/.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

Aggiungiamo alcuni dati ulteriori desunti dalle rilevazioni Audiweb di ottobre 2011 e disponibili sul sito di MYads, la concessionaria di pubblicità che gestisce un network di siti web tra i quali «MYmovies»3. Il portale di cinema vanta 31,1 milioni di pagine visitate al mese, per un totale di 3,275 milioni di utenti unici al mese, con una media di 9,5 pagine viste per utente e un tempo medio di connessione di 5,55 minuti. Quanto a gender ed età, il profilo degli utenti di «MYmovies» appare sostanzialmente in linea con quello medio riscontrato nell’intera Rete: 46% donne e 54% uomini (per la Rete: 48% e 52%), con quasi un 50% di utenti compresi tra 35 e 44 anni (25%) e tra 25 e 34 anni (23%), un altro 18% compreso tra 45 e 54 anni e un 15% di utenti tra i 18 e i 25 anni (restano un 12% di over 55, un 5% di giovani tra i 12 e 17 e 1% di under 11). Un’audience adulta, dunque, che possiede una cultura medio-alta: si noti, infatti, che il 53% del target è diplomato e il 31% è laureato o ha conseguito una specializzazione post laurea, mentre le categorie professionali maggiormente rappresentate sono quelle degli impiegati (21%), degli studenti (14%) e dei lavoratori autonomi (9%). Nel complesso, il numero di visitatori di «MYmovies» sembra essere in costante crescita: limitandoci ai dati relativi alla fruizione da gennaio 2009 a ottobre 2011 desumibili nuovamente dai rapporti di Audiweb, rileviamo che la media di utenti unici giornaliera (calcolata con il dato del giorno medio per ciascun mese) è cresciuta di circa 20mila unità dal 2009 al 2010 e di ulteriori 5mila unità dal 2010 al 2011, passando da una media di circa 175mila a oltre 200mila visitatori quotidiani. L’andamento di questa audience sembra oscillare non soltanto secondo il trend complessivo della Rete – che, in linea coi ritmi di vita nazionali, vede una sensibile flessione delle utenze a partire da giugno, raggiungendo il livello più basso ad agosto, il mese delle vacanze degli italiani – ma anche, comprensibilmente, sulla base della distribuzione delle pellicole nelle sale: non tanto (o non soltanto) blockbuster o film di cassetta, quanto piuttosto titoli capaci di accendere il dibattito critico e di intensificare la catena comunicativa anche da parte degli utenti/spettatori. 3

Gli altri siti sono: «Ibs», «Ilfattoquotidiano», «Libraccio» e «Wuz», cfr. http://www.myads.it.

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A. Autelitano - «MYmovies»: la critica cinematografica online

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Lo farebbe ipotizzare, ad esempio, il picco d’audience riscontrabile a giugno 2011 (fig. 1): in sala sono presenti blockbuster come Pirati dei Caraibi: Oltre i Confini del Mare e Fast & Furious 5 (poi classificatisi all’ottavo e al quindicesimo posto nel box office dell’anno), ma, se la presenza di visitatori dipendesse direttamente dal successo economico dei titoli, non si spiegherebbe il calo di contatti di luglio, con Harry Potter e i Doni della Morte: Parte II (terzo classificato del box office 2011) e anche Trasformers 3 (ventiduesimo) sugli schermi. È allora dunque più sensato presumere, tenuto presente anche il profilo degli utenti del sito (come dicevamo, mediamente adulti e con un elevato tasso di scolarizzazione), che a determinare l’innalzamento delle visite sia stato il dibattito intorno a un’opera come The Tree of Life, che ha polarizzato i giudizi critici e accresciuto la domanda d’informazione culturale del pubblico: confronto con la critica “ufficiale”, da un lato, e desiderio di espressione individuale, dall’altro. Pur non essendo un indicatore attendibile, notiamo infatti che il film di Malick conta su «MYmovies» 90 recensioni scritte da utenti iscritti al sito e 235 commenti nel forum dedicato, di cui circa 200 postati entro la fine di giugno (contro, ad esempio, le 31 recensioni di Pirati dei Caraibi: Oltre i Confini del Mare firmate da utenti o le 16 di Harry Potter e i Doni della Morte: Parte II, film che hanno raggiunto rispettivamente 123 e 174 commenti nei forum dedicati)4. Un film che vanta un numero di recensioni (116) e commenti maggiore dell’opera di Malick è, ad esempio, Hereafter di Clint Eastwood, uscito in Italia a inizio gennaio 2011 e, non a caso, altrettanto discusso a livello critico (e proprio per quanto riguarda il dibattito suscitato presenta non pochi elementi di contiguità con The Tree of Life, perché ha diviso drasticamente i commentatori in accaniti detrattori e convinti sostenitori, a partire soprattutto da valutazioni legate all’autorialità dell’opera e al suo contenuto mistico-soprannaturale). Altrettanto non a caso, proprio gennaio 2011 ha rappresentato il picco massimo il utenze fino al mese di ottobre – anche se, ripetiamo, si tratta di valutazioni ipotetiche, non avvalorate dai dati (e va inoltre considerato che si tratta del periodo dell’anno di maggior successo per il cinema, quello delle festività natalizie). 4

Dati aggiornati al 4 gennaio 2012.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

Fig. 1 Rilevamento degli utenti unici nel giorno medio mensile del portale «MYmovies» tra gennaio 2009 e ottobre 2011. Fonte: Audiweb Database, http:// www.audiweb.it/.

La critica cinematografica tra tradizione e web Le pagine del sito di «MYmovies» in assoluto più lette sono quelle delle recensioni cinematografiche. A fronte di un’ampia disponibilità di materiali sul sito (news, dati, classifiche, interviste, photogallery, trailer, ecc.) il lettore consulta «MYmovies» soprattutto per la lettura delle recensioni. Vediamo allora, innanzitutto, com’è strutturata – e quale posto riveste – la critica all’interno del portale. Navigando, possiamo notare come essa occupi uno spazio privilegiato e si presenti, al contempo, in molteplici forme. L’unico elemento fisso in tutte le pagine, insieme alla testata principale con nome e menù, è la barra dei motori di ricerca interni al sito, ovvero lo strumento necessario per esplorare e selezionare tutti i contenuti critici e informativi: nell’ordine, ricerca base (per titolo, attore o regista), ricerca dei film programmati in sala (per città) e collegamento alla maschera per la ricerca avanzata. L’utente può così usufruire di quella che il sito stesso definisce “la biblioteca del cinema on line”, “i grandi dizionari del cinema on line”, ovvero un database molto ampio (oltre un milione di pagine) costituito da una serie di fonti assai diversifi-

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A. Autelitano - «MYmovies»: la critica cinematografica online

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cate: i dizionari di «MYmovies» (di film, attori, registi, premi, dvd, colonne sonore, professionisti del cinema, box office), le versioni digitali di alcuni dizionari cartacei di fama (il Morandini, il Farinotti, il Dizionario dei telefilm Garzanti) nelle rispettive edizioni più aggiornate, la rassegna stampa (oltre 13mila recensioni di film, contemporanei e non, tratte dalle maggiori testate giornalistiche – quotidiani e riviste nazionali, e in alcuni casi internazionali – parzialmente digitalizzate5 sul sito) e, per finire, le recensioni e i commenti degli utenti. Di ogni singolo film, è dunque possibile recuperare e comparare una varietà di fonti critiche che vanno dalla fan critic alla critica ufficiale, passando ovviamente per le recensioni dei redattori e collaboratori del sito, che sono appunto quelle che ottengono il maggior riscontro tra i lettori. Quello che possiamo innanzitutto rilevare, è che all’interno portale è soprattutto la formula della recensione tradizionale ad affermarsi. Ovvero: la piattaforma online non produce nuove modalità e nuove forme della critica, ma trasporta sul web le forme esistenti e consolidate della recensione cartacea. Se i dizionari, per definizione, propongono la recensione nella sua forma breve, dunque perfettamente in linea con le supposte esigenze di sintesi e rapidità di lettura della Rete, le recensioni appositamente realizzate per il web sembrano configurarsi secondo il modello della recensione “classica”, da quotidiano, per quanto riguarda sia la lunghezza dei testi (compresi mediamente tra le 2.500 e le 3.500 battute) e la loro struttura, sia le strategie retoriche e il linguaggio6. La recensione di «MYmovies» è idealmente riconducibile alla scansione classica in introduzione, trama, giudizio; il linguaggio fa un uso contenuto di tecnicismi e specialismi, per potersi indirizzare a un pubblico competente ma ampio e non specializzato; la funzione della recensione è “semaforica”, finalizzata a orientare gli spettatori, come ulteriormente ribadito dalle “stellette”, che sintetizzano graficamente il gradimento del critico. 5

6

Fino al 2010 il database conteneva la versione integrale di queste recensioni. A causa delle disposizioni in materia di diritto d’autore il servizio ha subito una netta battuta d’arresto, limitando la digitalizzazione alla percentuale di testo garantita per legge dal diritto di citazione. Si vedano in particolare: A Pezzotta, La critica cinematografica, Carocci, Roma 2007, e C. Bisoni, La critica cinematografica. Metodo, storia e scrittura, Archetipolibri-Gedit Edizioni, Bologna 2006.

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Con questo non si intende in alcun modo alludere a una semplicistica uniformità delle recensioni o dei recensori, quanto a far emergere l’impostazione soggiacente, che per l’analisi metodologica della critica corrisponde, appunto, alla categoria della recensione classica, ma che nella pratica viene declinata secondo modalità e stili assai differenti. La stessa struttura, libera da imperativi di sorta, è passibile di variabili e alternative che possono riguardare la lunghezza delle recensioni, la disposizione (o la presenza stessa) delle parti sopra elencate, il registro discorsivo, l’approccio interpretativo e, naturalmente, lo stile di scrittura. Detto questo, è evidente come la critica online, nel caso di «MYmovies», non cerchi affatto la rottura con la tradizione ma la riaffermi, riproponendone le modalità e la funzione. Il tutto in terreno di scambio e confronto, che è forse il presupposto stesso del portale, dove a fianco delle recensioni scritte ad hoc, ci sono quelle tratte dalle altre testate tradizionali (soprattutto quotidiani) e dai dizionari ma anche, e soprattutto, quelle degli utenti. La critica dalla parte del pubblico Caratteristica fondamentale di «MYmovies» è dunque quella di integrare forme varie della critica ufficiale con il giudizio del pubblico e di far convergere tutte le valutazioni (dizionari, critica e pubblico) in un indice unico di gradimento, chiamato MYMONETRO, che tiene anche conto del rapporto incassi/sale (in Italia) di ciascun film. Il MYMONETRO è uno dei molti strumenti metrici col quale la critica tenta di dare una misura ai propri giudizi, di quantificare l’accoglienza di un film, traducendo e sintetizzando numericamente o graficamente la complessità della valutazione critica. Anche sul cartaceo il sistema metrico della critica cinematografica ha una lunga tradizione di giudizi espressi in pallini, cuori, teschi, stelle, faccine e quant’altro, ma sull’online esso ha assunto un rilievo di assoluta priorità, col rischio di una riduzione della critica a mero score, con conseguente eccesso di semplificazione della valutazione e di schiacciamento sulla funzione di orientamento semaforico del gusto. In questo senso, ed esulando momentaneamente dal contesto italiano, è senza dubbio esemplare il portale americano «Rotten

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Tomatoes»7, che aggrega, archivia e al contempo quantizza una mole davvero molto ampia di recensioni tratte dalla stampa nazionale e internazionale (consultabili con un link diretto al sito originale – salvo alcuni casi in cui l’accesso è vincolato alla sottoscrizione alla relativa testata), oltre ai commenti degli utenti. I giudizi della critica (divisa in “All critics” e “Top critics”) relativamente a un film vengono poi quantificati percentualmente e rappresentati come “Fresh Tomato” (pomodoro fresco), se il film raccoglie più del 50% di valutazioni positive, “Rotten Tomato” (marcio), in caso contrario (per il pubblico, il simbolo è invece un bicchiere di pop corn, ricolmo oppure rovesciato e semi-vuoto). La quantificazione metrica, però, non si limita soltanto a questo, tutto il sito è strutturato in base a criteri numerici, a partire dall’inclusione dei critici, regolata da parametri molto precisi legati alla diffusione e alla qualità8: per la stampa cartacea, ad esempio, possono sottoporre la candidatura le testate classificate tra le prime 100 della propria categoria (daily US newspaper, weekly US newspaper, magazine) o nella top 10 di quelle che vengono definite entertainment-based publication (così come ratificato dagli organi di rilevamento nazionali quali Audit Bureau of Circulations, The Magazine Publishers of America o la Association of Alternative Weeklies), mentre il critico deve lavorare per la testata rispondente ai suddetti criteri da almeno due anni; per la stampa online, possono proporsi siti che abbiano almeno 500.000 visitatori unici mensili (in base ai rilevamenti di comScore, Inc o Nielsen Net Ratings) e recensioni lunghe più di 300 parole, oltre a rispondere a “elevati standard di professionalità, qualità di scrittura, e integrità editoriale”, avere “un design e un layout che riflettano un ragionevole livello di qualità” e un dominio di proprietà, e anche in questo caso i critici devono aver pubblicato almeno 100 recensioni di lunghezza media superiore alle 300 parole nell’ultimo anno. La candidatura è in ogni caso vincolata al giudizio dello staff di «Rotten Tomatoes», così come l’attribuzione del già citato titolo di “Top critic”, conferito a quei critici che hanno “contribuito in modo significativo al dibattito cinematografico e critico”. Assegnato anch’esso in base a 7 8

http://www.rottentomatoes.com. Si vedano i “Tomatometer Criteria” consultabili alla voce “Critics submission”.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

criteri di diffusione precisi e massimamente esclusivi, può essere anche attribuito dallo staff in base a più generici parametri di influenza, portata, fama e qualità di scrittura. Si aggiunga, infine, l’onorificenza “Certified Fresh”, un sigillo di qualità attribuito ai film recensiti da un minimo di 40 critici (inclusi almeno 5 Top critics) che hanno ottenuto uno score uguale o superiore al 75%. Tutto questo per verificare come il criterio metrico possa divenire effettivamente determinante, e lo si comprende ancor di più se si considerano nello specifico i numeri di recensioni e commenti che concorrono al calcolo percentuale: per il già citato Hereafter, ad esempio, le recensioni aggregate sul sito sono ben 211, di cui 38 a firma di Top critics (e il rating complessivo del 46%, con una media voto di 5,8 su 10, si alza per i Top critics al 63%, con una media voto di 6,9 su 10); le votazioni degli utenti sono addirittura 62.326 (e la valutazione è di 2,9 su 5, per un rating del 40%). È evidente che un tale numero di recensioni e commenti rende praticamente impossibile per l’utente una lettura completa delle recensioni sui singoli film. Quello che conta, in «Rotten Tomatoes», è la possibilità di avere una panoramica ad ampio raggio, una quantificazione complessiva del giudizio della critica (e del pubblico) su un film. In confronto a «Rotten Tomatoes», «MYmovies» punta a un maggiore avvicinamento tra critica e pubblico – che pure operano in contesti tra loro separati e non sovrapponibili. La gerarchia dei ruoli è ugualmente e chiaramente esplicitata, ma si tenta di attenuare lo scarto dando agli utenti la possibilità non solo di partecipare alla discussione negli spazi preposti, ma anche di figurare come una delle forme riconosciute della critica (nella pagina relativa ai singoli film, sotto alla recensione ufficiale, la sezione “Dalla parte del pubblico” offre l’incipit di quattro recensioni degli utenti), di concorrere alla valutazione complessiva del film attraverso il MYMONETRO (sotto il quale pure figurano, espressi in stellette, le valutazioni medie dei singoli gruppi critici: dizionari, critica e pubblico) e anche di esprimere il proprio giudizio nei confronti delle recensioni del sito, segnalando il proprio assenso o dissenso rispetto ai giudizi espressi sul dato film dal critico di «MYmovies», visualizzati in percentuale a fianco della recensione stessa. Non è un caso che il nome completo del portale sia “MYmovies, il cinema dalla parte del pubblico”. È evidentemente agli utenti del sito che guarda questo tipo di organizzazione e integrazione dei contenuti,

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con l’obiettivo di realizzare una piattaforma di scambio nella quale l’utente si senta coinvolto all’interno del dibattito critico, parte in causa, con la possibilità di reperire informazioni e recensioni su un determinato film ma anche di esprimere, in più modi, la propria opinione.

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SARA MARTIN

PRIMAVERA 2010 –THE END Le serie tv tra fine di un’era e critica web

Maggio 2010: si spengono le luci sui set di Lost e 24, due simboli della nuova Golden Age della serialità televisiva. Negli stessi mesi vanno in onda anche gli episodi finali di Heroes (orfana di una conclusione vera e propria), del disastroso Flahforward (che, mancato l’obiettivo di trainare in una nuova saga i fan di Lost, chiude dopo una sola stagione) e poi ancora di Ugly Betty, della fortunata sitcom di Mtv Scrubs (dopo ben nove stagioni), di Law and Order e di Ghost Whisperer. Una crisi creativa profonda o l’inizio di una nuova era? Di certo, a distanza di tempo, possiamo affermare che l’impatto è stato significativo, che la voragine che si è aperta nei palinsesti delle diverse emittenti televisive forse non si è ancora completamente rimarginata, che l’accoglienza sul web di questo preciso momento, epocale nella storia della televisione, sia da parte della critica televisiva cosiddetta “ufficiale” che della “fan critic” (se è ancora possibile tracciare una netta linea di confine e se ha un senso in Italia, dove la critica televisiva “ufficiale”, soprattutto in rete, è sempre piuttosto latitante) è stata approfondita, appassionata, a tratti contraddittoria. E ha indubbiamente tracciato una linea di confine tra il “prima” e il “dopo”. Nei paragrafi seguenti verranno presi in considerazione estratti di articoli o recensioni sulle singole puntate finali (o sulle intere stagioni finali) scritti su siti e blog poco prima o poco dopo la fine di Lost – innanzitutto –, e poi di 24, di Heroes, di Flashforward. La selezione dei siti consultati si basa sul grado di approfondimento analitico dell’argomento e sulla notorietà o visibilità dei portali, pur non essendo questi – come vedremo – sempre ineccepibili da un punto di vista qualitativo. Sono stati volutamente esclusi i siti dedicati a una singola serie televisiva realizzati dalle fandom, quindi parziali per loro stessa natura. Attraverso un’“istantanea” della ricezione critica delle ultime

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Le nuove forme della cultura cinematografica

puntate di queste fiction, andate in onda a distanza di poche settimane, si vuole sia dare testimonianza della portata dell’evento sia dimostrare come, a partire da questo momento, anche le pagine web italiane, oltre alle pratiche di downloading e al lavoro di sottotitolazione quasi in tempo reale rispetto alla messa in onda americana, iniziano a dedicare ampio spazio all’approfondimento critico: si va da un livello poco più alto del post lasciato all’interno di un forum, fino alla recensione da parte di critici cinematografici e televisivi di professione o all’analisi da parte di studiosi di estrazione accademica. “Fotografare” questo particolare momento della storia della televisione è possibile proprio grazie al sistema di diffusione incalcolabilmente ramificata della rete. La carta stampata permette a una recensione di sopravvivere per un tempo estremamente limitato, il web dà invece a un testo critico una vita molto più lunga che a distanza di mesi o anni può essere riletto alla luce di un discorso più esteso, di un confine più ampio. Il caso in questione – la chiusura simultanea di più testi mediali importanti – permette inoltre di portare alle luce alcune pratiche critiche e interpretative della critica alla serialità. Alcuni esempi Il sito «tvblog» (supplemento alla testata blogo.it) dà addio ai grandi show della tv generalista americana, e si chiede – con una certa lungimiranza – se la televisione via cavo non stia definitivamente prendendo il posto di quella generalista: Domenica 23 e lunedì 24 maggio: un uno-due ben assestato che metterà ko numerosi fan di telefilm. In due giorni, infatti, milioni di telespettatori hanno dovuto salutare definitivamente due serie già da tempo considerate fondamentali per chi volesse studiare il ‘fenomeno telefilm’ dei giorni nostri. Parliamo ovviamente di Lost e 24, la prima giunta a termine domenica, dopo sei anni di misteri, colpi di scena e di un vero e proprio gioco che ha coinvolto autori e telespettatori. La seconda, invece, si è conclusa stanotte dopo otto anni, nei quali il protagonista Jack Bauer ha dovuto affrontare numerosi nemici, primo fra tutti se stesso e la sua difficoltà di essere un uomo “normale”. […] Le reti generaliste americane, insomma,

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S. Martin - Primavera 2010 – The End

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stanno facendo i conti con una crisi economica che li costringe a scegliere prodotti rassicuranti e poco coraggiosi, dove i telespettatori se ne stanno al loro posto senza interferire con gli autori e senza attendere con troppa ansia la prossima puntata. La prospettiva, per chi è cresciuto a pane e “grandi serie”, è di ritrovarsi con un sacco di storie autoconclusive, laddove sarà il rating a determinare eventuali trame orizzontali e, quindi, sviluppi narrativi. Soldi sicuri, telespettatori un po’ meno: sempre più vicini ad Internet, la fruizione di un prodotto dipende dai propri tempi, oltre che, ovviamente, dall’interazione che i network stessi decidono di avere con la rete. Averne paura, ormai, preannuncia una perdita di spettatori inevitabile. Un esempio? Prendiamo le tv via cavo, che hanno fatto di Internet la loro seconda casa, con webisodes (come quelli che anticipano la terza stagione di True Blood), community e pagine su Facebook. Certo, casi del genere si possono trovare anche nella tv generalista (pensiamo a Fringe ed al corso per principianti online), ma sono ancora casi isolati, o allo stadio iniziale. Ecco che, ancora una volta, per capire dove sta andando la tv di oggi bisogna citare la Rete, formando un connubio ormai imprescindibile per chi cerca un successo. Abc, Nbc, Fox, Cbs e The Cw solo negli ultimi anni stanno prendendo confidenza col web, prese come erano in passato a farsi la guerra l’una contro l’altra. E nel frattempo, Showtime, Hbo, Starz e tutte le altre ne hanno approfittato (e noi beneficiato). L’era delle grandi serie della tv generalista è dunque finita?”1

Forse sì. Ci sono alcune serie di successo prodotte dalle tv generaliste americane nella “post-primavera 2010”, ma di sicuro qualcosa è cambiato per sempre. Numerose fiction proposte negli ultimi tempi, ad alto o altissimo investimento, sono state un fallimento totale nonostante l’uso delle diverse piattaforme mediali, nonostante i nomi altisonanti fra produttori e sceneggiatori. Si pensi per esempio a Terra Nova della Abc o a Grimm (inedito in Italia) della Nbc. L’ultima stagione di Lost ha tenuto incollati agli schermi (della tv, del computer, degli smart-phone…) milioni di spettatori, tanto che anche un discorso del Presidente Obama è stato spostato per evitare l’accavallamento alla premiere dell’attesa sesta stagione. I motivi della “febbre” da Lost sono diversi. Innanzitutto l’an1

http://www.tvblog.it/post/19988/la-fine-di-24-lost-ugly-betty-heroes-enon-solo-addio-ai-grandi-show-della-tv-generalista-americana.

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nuncio del numero preciso di puntate che avrebbe avuto la fiction risale a tre anni prima. Buona parte delle serie infatti, termina quando crollano gli ascolti o calano le motivazioni, per Lost invece i fan (ma anche gli autori) hanno potuto fare un vero e proprio countdown e questo ha determinato un alto e costante livello di attenzione. Ma, come si legge in un articolo pubblicato su «Movieplayer»: Il motivo principale, quello senza il quale i precedenti perderebbero tutta la loro importanza, è il significato che Lost ha avuto, ha e avrà per il mondo della televisione, americana e non. Il debutto, avvenuto il 22 Settembre del 2004 con uno dei pilot più dirompenti, intensi e potenti, nonchè costosi, della televisione, ha segnato un punto di svolta nel mondo delle serie tv, con ripercussioni a livello internazionale e in particolare nel nostro paese. È forse proprio in seguito all’arrivo della serie di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber che la percezione del mondo dei serial americani è cambiata anche in Italia, elevandola da telefilm a serie tv2.

Per la prima volta in Italia una serie tv viene trasmessa, sottotitolata, a distanza di 24 ore dalla messa in onda americana (e in versione doppiata sette giorni più tardi) e, per la prima volta nella storia, l’ultima puntata di una serie tv diventa un media event e viene trasmessa in 59 Paesi in contemporanea o 48 ore più tardi dalla messa in onda americana. “Ci sono date che rimangono nella storia”, annunciava il promo realizzato da Fox Italia per l’ultimo appuntamento con Lost, accompagnato da immagini di eventi epocali, dall’allunaggio alla caduta del muro di Berlino. Il più noto critico televisivo nazionale, Aldo Grasso, sull’edizione online del quotidiano «Il Corriere della Sera», dedica un articolo all’attesa del season finale: Mai un telefilm ha saputo dare vita a forme di consumo così appassionate, al limite dell’ossessione. Un’anticipazione l’aveva data negli anni Novanta Twin Peaks, la serie di David Lynch che ha inaugurato la stagione più nobile della serialità americana: una visione rituale e altamente fidelizzata. Ma questa non era che una piccola avvisa2

http://www.movieplayer.it/serietv/articoli/verso-il-finale-di-lost-levento-della-nuova-televisione_6537/.

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S. Martin - Primavera 2010 – The End

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glia di quello che sarebbe riuscito a creare il serial targato Abc. […] Per anni, gli eventi mediali, le grandi cerimonie dei media capaci di aggregare un pubblico globale riunito intorno alla visione del piccolo schermo, hanno riguardato fatti “reali”: l’allunaggio, i funerali di Diana, persino il più tragico di tutti, l’attentato in diretta alle Torri Gemelle. Con la messa in onda dell’ultimo episodio di Lost, stiamo per assistere invece a un media event che ha per oggetto una fiction. Il finale di Lost viene trasmesso infatti in una specie di “simulcast globale”. […] Nell’evento del finale di Lost convergono così due spinte, solo apparentemente contrapposte. Da un lato, la possibilità per un contenuto forte di aggregare comunità vastissime in un consumo rituale, di culto, anche perché sincronizzato a livello globale. Dall’altro, la capacità di farlo in un momento in cui il televisore, totem di fronte a cui si raccoglievano le tradizionali vaste platee del media event, sembra essere in bilico, frammentato in molteplici schermi e piattaforme: il pc, l’iPad, il mobile, Hulu (il grande portale americano di streaming di Fox e Nbc), e così via. La strada dell’innovazione passa anche attraverso la seduzione del racconto, proprio perché ‘ogni risposta genera nuove domande’3.

Nonostante l’investimento mediatico e la simultaneità intercontinentale di trasmissione del doppio episodio, i numeri non hanno premiato la televisione e hanno smentito ogni previsione. Il record è giunto dal web: in una sola giornata un milione di utenti hanno scaricato le due puntate attraverso il software BitTorrent (un unico file di tipo BitTorrent è stato condiviso contemporaneamente da 100.000 persone). L’elettrodomestico casalingo lascia definitivamente il posto alle nuove piattaforme mediali. Qualche giorno dopo il media event, Elmar Burchia, sempre su «corriere.it» analizza il fenomeno attraverso le cifre: Tanti quesiti ancora irrisolti, ma una certezza: il finale di Lost non ha avuto i grandi numeri sperati. Il doppio episodio che domenica notte ha chiuso la serie culto della Abc è stato visto da una media di 13,5 milioni di telespettatori. Un record però c’è stato, ma sul web: in una sola giornata un milione di utenti hanno scaricato le due puntate attraverso il software BitTorrent. L’impresa del dottor Jack Shephard sull’isola 3

http://www.corriere.it/spettacoli/10_maggio_23/lost-la-finzionetelevisiva-si-trasforma-in-evento-mondiale_cf4f b9ae-6645-11df-b27200144f02aabe.shtml.

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del naufragio e quel finale di redenzione per i superstiti del volo Ocean 815 – che a molti è sembrato un po’ ambiguo –, è stato il programma tv più visto domenica negli Usa, è il più visto della sesta serie, in termini di spettatori totali. Tuttavia, la puntata di due ore e mezzo non ha raccolto un ascolto “epico”, sottolinea il portale TvByTheNumbers, soprattutto dopo l’immenso tam-tam esploso nelle settimane precedenti sul web. Per la serie è comunque il dato più alto dal 2007, quando il finale della terza stagione raggiunse i 13,8 milioni. Tantissimi fan in giro per il mondo hanno infatti scelto il web e scaricato il finale dagli applicativi più consultati. […] C’è da dire che già lo scorso anno Lost è stata la seconda serie più scambiata tra gli “scaricatori”, con una media di sei milioni di download a puntata. In vetta, staccata solo di qualche migliaio di downloads, c’era Heroes. Moltissimi poi gli utenti che hanno visto il finale in streaming, su portali quali Megavideo. La maggior parte dei downloads sono arrivati da fuori dei confini statunitensi; il 15% delle richieste dall’Australia, dove le puntate sono andate in onda mercoledì. Negli Usa gli episodi possono essere visti gratuitamente (e legalmente) sul sito ufficiale della Abc4.

Le cifre da record in rete non sono soltanto quelle del downloading, ma anche i numeri di visitatori e di commenti agli articoli dedicati all’ultimo appuntamento con i sopravvissuti del volo Oceanic 815. Internet non offre soltanto la possibilità di fruire di un determinato spettacolo pensato per un medium diverso (la televisione in questo caso) e non offre soltanto informazioni ed interpretazioni critiche in merito, ma dà la possibilità al “navigatore” di partecipare attivamente alla costruzione di significato di un determinato evento. Ecco che anche l’analisi della ricezione risulta utile perché dimostra che la comunità critica sul web, dedicata alla serialità, non può dirsi del tutto separata dalle comunità di fruizione e dai mediatori culturali. In fondo, anche i collettivi di sottotitolaggio di prodotti mediali sul web (Italian subs, Subsfactory, etc.), compiono interventi critici e interpretativi, attraverso l’esplicazione linguistica e culturale di citazioni, allusioni, idiomi e così via e, in buona sostanza, esprimendo una relazione intima e socialmente condivisa con l’oggetto di interesse. 4

http://www.corriere.it/spettacoli/10_maggio_26/lost-finale-ascolti-record-su-web_7e703350-68b2-11df-9742-00144f02aabe.shtml.

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Per il resto, la critica televisiva sul web, nella sua vicinanza alle forme del fandom, esprime alcune caratteristiche tipiche della cinefilia: per esempio la conoscenza profonda dell’oggetto di studio, la consapevolezza di rivolgersi a una comunità di lettori piuttosto coesa e dall’enciclopedia condivisa e omogenea, la relazione sentimentale con il prodotto estetico (allora il cinema, oggi la serie tv, su cui indirizzare di per sé la propria passione). Ne è un buon esempio l’articolo sulla puntata The End pubblicato sul sito «Serialmente», che ha ottenuto ben 560 commenti diversamente elaborati. «Serialmente» è uno dei siti dedicati alla serialità televisiva americana più frequentati in Italia, con una media di 16.000 pagine viste al giorno e circa 800 visitatori singoli, sempre al giorno. È stato fondato da un gruppo di fancritic migrati dal sito «Buff ymaniac»5 a seguito della chiusura della serie Buffy e analizza le fiction tv puntata per puntata (con riferimento esclusivamente al palinsesto d’oltreoceano). La maggior parte del nucleo di recensori non ha nessun tipo di formazione accademica sui linguaggi audiovisivi o sulla storia della tv e del cinema. Quasi tutti sono fan che, a partire dall’esperienza personale, hanno formato le proprie competenze. Il livello di approfondimento di ogni singolo articolo è quindi variabile e disomogeneo, così come la modalità di approccio al testo audiovisivo. Nonostante ciò, va sottolineato che un sito come «Serialmente» ha spesso saputo anticipare gli studi accademici e la critica ufficiale ed ha saputo coniare una terminologia specifica, oppure l’ha importata dagli Stati Uniti, quando ancora gli studi della materia in questione erano piuttosto scarsi in Italia, sia in termini quantitativi che qualitativi. L’autore, rivolgendosi in maniera diretta al lettore, con il tono colloquiale che contraddistingue la linea generale del sito, esordisce manifestando la sua difficoltà nell’affrontare l’analisi dell’episodio più acclamato della storia della televisione:

5

http://www.buff ymaniac.it/, è uno dei primi siti italiani interamente dedicato ad una serie tv con un approccio “analitico” al testo. Sono infatti presenti le schede di tutti gli episodi di Buffy. Il sito aveva al suo interno un forum frequentatissimo, ora integrato nel forum di «Serialmente».

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Le nuove forme della cultura cinematografica

Sapete cosa non è affatto facile? Scrivere un buon finale. Ancora più difficile scrivere un finale di una serie come Lost, così fuori dagli schemi, mai pienamente classificabile, caso più unico che raro di cult che incontra il pop. Accontentare tutti poi? Scordatevelo, è impossibile. Ma sapete anche cosa è alquanto impegnativo? Scrivere qualcosa di veramente sensato dopo aver visto le due ore (e mezza) che concludono tale serie. Umilmente, ecco i miei “two cents” su The End6.

La partecipazione attiva dei lettori della rete influenza sempre di più l’approccio critico da parte del recensore che ha un tale rispetto dell’opinione di chi lo legge da rischiare a volte di essere poco coraggioso nell’analisi del testo. Il recensore di «Serialmente» prevede un acceso dibattito alle sue parole e si giustifica prima di trarre le sue conclusioni sul finale di Lost. Poi, per quanto possibile, visto l’obbligo di contrassegnare con simboli di gradimento ogni episodio recensito, sospende il giudizio. Maestoso, solenne e commovente, The End non tradisce chi ha sempre considerato Lost innanzitutto e soprattutto una serie corale al servizio dei suoi personaggi ancor prima della sua mitologia, confezionando in un involucro due ore piene di azione e dai toni epici una sequenza di memorabili scene di ricongiungimenti, addii, battaglie, che rendono giustizia agli stessi personaggi così sempre al centro dell’universo di Lost. Sceneggiatura, regia e musica sono qui strumenti funzionali all’obiettivo principale dell’episodio, emozionare lo spettatore. Possono il commovente ricongiungimento tra Sawyer e Juliet, lo straziante addio tra Kate e Jack, il toccante secondo parto di Claire, l’emozionante passaggio di scettro tra Jack e Hurley, ecc. sopperire alla mancanza di un finale più rivelatore, più autenticamente fantascientifico? È dalla risposta a questa domanda che a mio avviso dipende il gradimento personale di questo finale di serie7.

Molto meno frequentato (51 commenti) l’articolo pubblicato su «everyeye», sito specializzato nella recensione di videogiochi che si dedica anche a cinema, anime, serie tv e fumetti. L’autore “perdona” la mancanza di risposte ai molti quesiti seminati dagli 6 7

http://www.serialmente.com/2010/05/24/lost-6x1718-the-end/. Ibidem.

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sceneggiatori durante l’intera serie televisiva e rinuncia a un giudizio analitico: “Un finale commovente ed emozionante per una delle migliori serie televisive di sempre. E non è un’esagerazione. Mancano alcune risposte, che non possono far passare in secondo piano la grandiosità che Lost ci ha saputo regalare – benché a momenti alterni – durante questo indimenticabile lungo percorso durato sei anni. Grazie Lost”8. Per molte lusinghiere parole spese dai fancritic in ogni angolo della rete, altrettante sono state le accuse mosse ai creatori della fiction per non aver saputo gestire la complessità della storia. In un editoriale scritto su «Movieplayer» si legge: Da storia focalizzata sui personaggi, alcuni forti personaggi, a serie dalla complessa mitologia, Lost non ha saputo bilanciare le sue due anime, perdendo di vista a metà del suo viaggio lo sviluppo dei suoi protagonisti, per tornare ad essi quando era ormai troppo tardi, finendo per non accontentare né gli amanti della sua prima anima, né quelli che apprezzavano l’impostazione cerebrale della seconda. È per questo che consideriamo il finale, e non solo quello, deludente e fallimentare, per la sua capacità di non accontentare quasi nessuno. Perchè la serie che tanto abbiamo amato in passato meritava una conclusione migliore, meritava di spegnersi con la stessa intensità con cui ha brillato9.

Nel bene o nel male, questo media event merita anche strappi alle regole del web e per la prima volta su «Serial Tv» (blog professionale d’informazione interamente dedicato alla serialità televisiva), l’autore del blog – fan deluso – scrive un commento personale a The End per poi invitare i lettori ad aprire un dibattito in merito. Stavolta è l’appassionato a scrivere, in prima persona per giunta, la propria opinione di fan di Lost sul finale che lunedì mattina tutti hanno potuto vedere su Fox, perché non può che giudicarsi col cuore l’epilogo della serie che ha cambiato il modo di fare televisione. Per cui quanto segue è da considerarsi solo l’opinione accorata di un fan, senza alcuna velleità professionale. Alcuni in rete hanno sentenziato

8 9

http://www.everyeye.it/serial/articoli/lost-stagione-6_recensione_11554 http://www.movieplayer.it/serietv/articoli/lost-dice-addio-un-vuotodifficile-da-riempire_6983/.

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che il finale mostrato si può amare od odiare, in verità personalmente mi sono solo ritrovato con un gran senso di nostalgia per la fine della serie e con un senso di incompiutezza che mi ha riempito la bocca di amarezza per l’occasione sprecata. Sì, sono tra quelli che non hanno gradito il finale della stagione, ma poi si può davvero parlare di finale? Lost è da sempre uno show costruito tra enigmi, misteri, frasi non dette, ma solo fatte intuire e basato su grandi interrogativi. L’aspettativa della loro risoluzione, quindi, era la molla principale che muoveva gran parte dei fan. […] A questo punto meglio uscirsene giocando sul fattore emozionale dei fan i quali si sono via via affezionati ai vari personaggi, per cui che cosa c’è di meglio di una bella riunione in cui tutti sono felici e contenti per mettere a tacere le falle narrative create10?

Se è vero che la natura democratica della rete concede spazi illimitati di scrittura critica, è anche vero che, come nell’ultimo caso, balza agli occhi la scarsa qualità di esposizione. Selezionare qualitativamente i siti dedicati all’intrattenimento (cinema, televisione) è difficile. Il numero di testate si moltiplica ma spesso le redazioni sono deboli e i redattori poco capaci di far uso di un linguaggio appropriato ed efficace. E questo significa da una parte non riprodurre le modalità di scrittura della carta stampata, inefficace in rete, e dall’altra non rimanere ancorati a una forma di linguaggio colloquiale e poco accurata – tipica dei blog personali e dei social network. Da Lost agli eroi A poche ore di distanza dalla fine di Lost, anche 24, la serie poliziesca targata Fox, 8 stagioni e 191 puntate, chiude, dopo aver vinto, dal 2001 al 2010, 18 Emmy Awards e decine di altri riconoscimenti in tutto il mondo. Di certo non si tratta di un media event, dato il calo lento ma inesorabile degli ascolti; 24 ha fatto il suo tempo e anche i fan ne sono consci, ma il season finale è fortemente atteso. Un redattore di «Film.it» scrive a due mesi dal congedo con la serie: 10

http://serialtv.blogosfere.it/2010/05/lost-finale-delusione-rimpianto-osolo-troppe-aspettative.html.

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L’amato protagonista della serie merita di essere archiviato tra le glorie di una tv capace di rinnovarsi e spingere il potenziale narrativo seriale oltre i confini già tracciati. Attendere che 24 perda quindi colpi sul terreno che lo ha reso celebre sarebbe un’ottusa crudeltà, un inutile accanimento terapeutico. Gli stessi sceneggiatori hanno compreso che ormai la lotta di Jack Bauer contro il terrorismo in 24 ore era un’idea abusata e, per la struttura dello show, non più declinabile senza precipitare nella parodia. Ma se si deve staccare la spina lo si faccia almeno in grande stile. Il giusto preavviso, largamente anticipato dai rumors, speriamo accompagni la storyline verso un finale adrenalinico e all’altezza della serie11.

24 non ha deluso le aspettative, l’ultima puntata è stata vista da quasi 9 milioni di spettatori e, come scrive l’autore dell’analisi di puntata su «Serialmente»: Mentre molti di voi, quasi tutti, piangevano o bestemmiavano sul finale perenne di Lost, c’era una piccola schiera – di cui il sottoscritto fa fieramente parte – che era in pena e lutto per 24, forse la miglior serie del nuovo millennio, che diceva addio a tutti scandendo il suo orologio per l’ultima volta (in attesa di un film). La Fox dà l’addio a Jack Bauer con un doppio episodio di grandissimo livello che corona una stagione più che buona, solidissima e dura, perfetta specialmente dall’episodio 15 in poi, quando agli autori è stata data comunicazione della chiusura, riuscendo a congegnare un finale di stagione davvero meritevole. E per molti versi indimenticabile. […] La sceneggiatura di Howard Gordon è perfetta nel trascinare il personaggio in una disperazione assoluta e disumana, in cui non c’è speranza in nessuno e per nessuno, nel costruire un meccanismo nero che dall’intreccio esterno si sposta tutto nel conflitto interno all’etica dei personaggi e alla politica di una nazione; Brad Turner alla regia sa seguire con cura e precisione, ma soprattutto ci regala uno dei più begli addii cine-televisivi degli ultimi anni, con Bauer che saluta Chloe (e gli spettatori) guardandola negli occhi, attraverso il drone che lo segue, piangendo12.

Lost ha diviso la rete e 24 ha saputo congedarsi con un finale in grande stile, ma le cose sono andate diversamente per Heroes, 11 12

http://www.film.it/televisione/notizie/la-serie-24-cancellata-dalla-fox/. http://www.serialmente.com/2010/06/01/24-8x2324-2-p-m-4-p-m/.

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definita in assoluto una delle serie televisive più innovative di tutti i tempi, almeno dal punto di vista della crossmedialità. La prima stagione, trasmessa dalla Nbc nel 2006, ha raccolto un successo di pubblico straordinario ed è stata considerata uno “dei programmi televisivi migliori dell’anno” dall’American Film Institute. Gli studi accademici, la critica specializzata, ma soprattutto il web hanno fagocitato il fenomeno Heroes spendendo parole lusinghiere, e persino abusando dei categorie critiche roboanti. Lo sciopero degli sceneggiatori nel 2007 (che ha messo in ginocchio l’intera catena produttiva dell’industria hollywoodiana), tuttavia, ha inferto un duro colpo a Heroes, che si trovava all’inizio della seconda stagione, con ottime premesse per proseguire con il successo ottenuto l’anno precedente. Da una struttura narrativa originaria composta da 24 puntate, solo 11 sono state realizzate e messe in onda e la deriva della serie ha avuto inizio. Chiusa frettolosamente, la seconda stagione è stata molto al di sotto delle aspettative. Gli sceneggiatori non sono stati in grado di gestire il crescente numero di personaggi principali che rappresentavano il punto di forza della prima stagione perché responsabili di una straordinariamente ricca storyline orizzontale. E gli spettatori hanno cominciato a defidelizzarsi. Il calo di audience è stato brusco: dai quasi 14 milioni di spettatori della prima stagione si è passati ai 7 della terza fino ai poco più di 4 milioni della quarta e ultima stagione. Ma il colpo più duro inferto ai fan (pochi davanti al teleschermo, ma in numero considerevole sul web dove Heroes, grazie anche alle webserie – miniserie diffuse solo online – e all’estensione digitale della serie che prende il nome di Heroes Evolutions) è stato il non-finale. L’ultima puntata di Heroes è andata in onda nel mese di febbraio 2010, ma soltanto tre mesi dopo l’emittente televisiva americana ha dato comunicazione che non ci sarebbe stata una quinta stagione. Heroes non è dunque mai finito. Tutte le storyline che coinvolgevano i numerosi personaggi principali sono rimaste aperte e la fiction ha tradito le aspettative delle fandom di tutto il mondo. E così, della serie potenzialmente più longeva perché adattabile alle più svariate piattaforme mediali, è rimasta poca traccia. L’ultima stagione ha collezionato poche (e pessime) recensioni in generale13 e l’ultima puntata (ignara dell’imminente cancellazio13

Un esempio: http://www.cineradar.it/heroes-serie-tv/.

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ne) è stata stroncata, pressoché all’unanimità, dal web, e persino accusata addirittura di plagio dal fumettista Jason Barnes, autore della la serie Carnival of Souls14. Tra culto e critica Lost, 24 e Heroes sono state, pur nel loro diverso modo di congedarsi, dei fenomeni di culto, Flashforward invece, prodotta e trasmessa dalla Abc a partire dal 24 settembre 2009, è stata un fenomeno ancor prima di iniziare – dato che avrebbe dovuto raccogliere in tutto e per tutto l’eredità di Lost. Ma qualcosa non è andato per il verso giusto, e la critica web ha reagito prontamente, come si capisce leggendo il blog della studiosa Barbara Di Maio a meno di un mese dall’esordio della serie: Già dai primi episodi, è chiaro come l’accostamento con Lost non sia casuale per questo giocare con le diverse prospettive e con i salti temporali. Eppure, la serie di Abrams aveva raggiunto questo livello solo dopo diversi episodi mentre in questo caso è proprio lo spunto di partenza della storia. L’esplosivo pilot ha sicuramente seminato delle buone prospettive di sviluppo della storia, eppure gli episodi successivi non hanno dimostrato per ora la stessa tensione narrativa. Sembra un po’ la storia di The 4400 che era partito con un pilot veramente accattivante per poi perdersi in tanti rivoli narrativi poco incisivi. Se questo tipo di costruzione permette uno sviluppo virtualmente infinito grazie allo sviluppo verticale che può assumere ogni episodio concentrato sul flashforward di un singolo personaggio, il rischio è nell’accumulare troppe storie autoconcluse che non riescano a costruire una corposa storyline orizzontale. Insomma, un effetto Heroes che potrebbe rivelarsi poco soddisfacente per un pubblico ormai sempre più abituato a prodotti elaborati e intelligenti15.

La serie, secondo le dichiarazioni di David S. Goyer (creatore) e Marc Guggenheim (produttore), doveva durare dai tre ai sette anni. Il 18 maggio 2010, invece, Flashforward è stata cancellata dopo una sola stagione 14 15

http://blog.italiansubs.net/heroes-il-luna-park-chiude-con-una-causadi-plagio/1198/. http://cult-television.blogspot.com/search?q=Flashforward.

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(addirittura con 22 anziché 25 episodi, come previsto inizialmente) e, anche in questo caso, come per Heroes, senza un vero finale. L’edizione online del mensile «Nocturno» commenta la breve vita di questa serie, che è stata un evento soltanto prima di iniziare: Le promesse fatte dal pilot sono servite solamente a superare il limite di 8 puntate, precedentemente fissato in caso di insuccesso, e avere l’onore di una full season. Ma già dalle puntate successive sono spuntate fuori, una per volta e in maniera regolare, tutte le magagne di una serie scritta male, diretta peggio e con scelte di casting quantomeno discutibili, a partire dall’inespressivo Joseph Fiennes, fratello del più noto (e bravo) Ralph. […] Prova provata della mancanza di interesse per la serie è data dall’episodio finale Future Shock, con le visioni del nuovo blackout che rimarranno per noi senza seguito e che suscitano un grado di interesse pari a zero: è il caso di dirlo, il futuro non è sempre scritto16.

Il 2010 dunque passerà alla storia come l’anno in cui è terminato Lost, in cui abbiamo detto addio a Jack Bauer (24), in cui le avventure meta-fumettistiche di Heroes e la serie “uccisa dalle aspettative” Flashforward sono state cancellate bruscamente senza la dignità di un epilogo. Il finale di una serie è da una parte il più grande timore di ogni spettatore, dall’altro la puntata più attesa. Dall’ultimo episodio ci si attende il possibile e l’impossibile. Ma, come si è potuto notare negli articoli presi in considerazione, critica e fan si dividono (soprattutto nel caso di Lost dove per un buon numero di spettatori delusi, ce ne sono stati molti altri entusiasti) e le aspettative a volte vengono tradite. In ogni caso, è chiaro che più la conclusione di una serie fa discutere, più diventa interessante. Si pensi per esempio a I Soprano (1999-2007). Il finale con lo stacco improvviso su uno schermo nero ha fatto storia, tanto che prima della messa in onda dell’ultimo capitolo di Lost, gli autori hanno rassicurato gli spettatori che il loro non sarebbe stato un finale “alla Soprano”. Non ci sono forse all’orizzonte “colossi” come Lost da amare/ odiare e indagare con ogni strumento a disposizione, ma l’approccio alla serialità televisiva, nello smisurato ambiente dei nuovi media (e non solo), ha acquisito un grado di sistematicità, continuità e credibilità prima inesistenti. 16

http://www.nocturno.it/recensioni/flashforward-is-over.

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MARCO TETI

LA RICONFIGURAZIONE MULTIMEDIALE DEL FENOMENO OTAKU Passione spettatoriale, critica anti-istituzionale e autorappresentazione giovanile nell’animazione giapponese contemporanea di serie

Otaku: definizioni e origini Il fenomeno socio-antropologico conosciuto, nell’arcipelago giapponese e internazionalmente, con l’appellativo di otaku ha subito dei cambiamenti di rilievo negli ultimi anni. La ragione che sta alla base di tali cambiamenti, almeno quella principale, risiede senza dubbio nell’avvento delle tecnologie digitali e dei cosiddetti nuovi media. A partire per l’esattezza dalla metà degli anni Novanta la produzione e il consumo delle opere a disegni animati, a fumetti o videoludiche acquisiscono in Giappone una dimensione multimediale ancora più marcata rispetto al passato1. Nello stesso periodo Internet diviene la piattaforma tramite cui i fruitori delle opere sopra indicate, perlopiù adolescenti di entrambi i sessi, manifestano con sempre maggiore frequenza i propri gusti estetici, i propri giudizi diciamo così critici e soprattutto la propria passione. Ciò che prenderemo in esame nella presente sede sarà dunque l’aspetto assunto dalla cultura otaku dopo l’affermazione della Rete informatica, del web. Noi riteniamo però opportuno fornire prima una descrizione e risalire alle origini di questa corrente sotto-culturale nipponica nota con il nome di otaku, alla quale aderiscono 1

Sul carattere multi-mediale specifico dell’industria nipponica dell’intrattenimento e dello spettacolo sono state condotte numerose ricerche. Cfr. a riguardo A. Allison, Cuteness as Japan’s. Millennial Product, in J. Tobin (a cura di), Pikachu’s Global Adventure. The Rise and Fall of Pokemon, Duke University Press, Durham 2004, M. Schilling, The Encyclopedia of Japanese Pop Culture, Weatherhill, Tokyo-New York 1997, p. 224 e M. Pellitteri, Il Drago e la Saetta. Modelli, strategie e identità dell’immaginario giapponese, Tunué, Latina 2008.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

in primo luogo i giovani. Il campo privilegiato dell’indagine sarà costituito dal disegno animato di serie. A cominciare dagli anni Ottanta la parola giapponese otaku designa una categoria di individui contraddistinta dall’enorme e quasi patologico interesse dimostrato in particolare nei confronti dei prodotti dell’industria locale dell’intrattenimento. Coloro che appartengono alla categoria in questione sembrano concentrare morbosamente l’attenzione sui fumetti, sulle serie animate, sui videogiochi, sul computer e sulle apparecchiature tecnologicamente avanzate2. Il termine otaku è traducibile in lingua italiana come “casa altrui” o con più precisione come “la tua casa”. Secondo Sharon Kinsella, Tomohiro Machiyama e altri esperti esso viene utilizzato allo scopo di rivolgersi agli interlocutori in maniera indiretta o meglio impersonale3. Si tratta infatti di una formula desueta usata per dare all’interlocutore non tanto del “tu” quanto del “voi”. Thomas Lamarre è dell’opinione che la sua funzione consista nel conferimento di un tono distaccato alle conversazioni ma soprattutto di una dimensione formale alle relazioni sociali. Le relazioni a cui lo studioso fa riferimento, instaurate innanzitutto dagli appassionati di animazione o di videogioco, sono non a caso poco intime, seppure cordiali4. Lamarre riprende e sviluppa delle idee contenute nel seminale saggio Otakugaku nyumon (“Introduzione alla otakuologia”) firmato da Toshio Okada, uno dei fondatori dello Studio Gainax, importante compagnia giapponese specializzata nel disegno animato5. La figura dell’otaku è coinvolta negli anni Ottanta e Novanta in 2

3

4 5

Cfr. P.W. Galbraith, The Otaku Encyclopedia. An Insider’s Guide to the Subculture of Cool Japan, Kodansha International, Tokyo 2009, p. 171 e A. Gomarasca, L. Valtorta, Sol Mutante. Mode, giovani e umori nel Giappone contemporaneo, Costa & Nolan, Genova 1996, pp. 5 ss. Cfr. S. Kinsella, Disegni a rischio. Gli otaku e il movimento del manga amatoriale, in A. Gomarasca (a cura di), La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo, Einaudi, Torino 2001, pp. 210-211 e P. Macias, T. Machiyama, Cruising the Anime City. An Otaku Guide to Neo Tokyo, Stone Bridge Press, Berkeley 2004, pp. 13-14. Cfr. T. Lamarre, The Anime Machine. A Media Theory of Animation, University of Minnesota Press, Minneapolis 2009, p. 152. Cfr. T. Okada, Otakugaku nyumon: todai “otaku bunkaron zemi” konin tekisuto, Shinchosha, Tokyo 1996.

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M. Teti - La riconfigurazione multimediale del fenomeno otaku

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un dibattito ampio, articolato e molto accesso incentrato su quella del giovane6. Essa viene addirittura considerata l’emblema, il simbolo dell’intera popolazione giovanile nipponica7. La distanza emotiva, nel senso di scarsa confidenza reciproca, da cui appaiono contrassegnati i rapporti che si stabiliscono tra i ragazzi rientranti nella categoria sociale denominata otaku viene interpretata dai giornalisti e anche da ricercatori d’area accademica come un palese sintomo di malessere psicologico. Una simile interpretazione non risulta tuttavia corretta. L’atteggiamento esibito dai ragazzi che l’espressione di otaku identifica segnala infatti un radicale mutamento di paradigma culturale e di orizzonte ideologico, come verificheremo più avanti. Comunque sia la definizione di otaku assume il significato finora proposto all’inizio degli anni Ottanta. Essa viene introdotta, nonché inventata, dal critico e disegnatore amatoriale di fumetti Akio Nakamori, autore di una serie di articoli intitolata Otaku no kenkyu (“Studi sugli otaku”) apparsa nel 1983 sulla rivista erotica «Manga Burikko»8. La sua diffusione sembra avvenire in seguito all’uscita dell’anime di fantascienza Fortezza Superdimensionale Macross (Chojiku yosai Macross, 1982-1983)9. Il protagonista della serie a disegni animati appena citata e due dei suoi realizzatori, Shoji Kawamori e Haruhiko Mikimoto, pronunciano non di rado la parola otaku e le donano in breve tempo una grande popolarità 6

7 8 9

Psicologi e antropologi nipponici sono del parere che l’espressione otaku denoti la spiccata propensione domestica di determinati ragazzi, i quali paiono affetti da una particolare forma di apatia per non dire di autismo e danno l’impressione di tendere verso l’asocialità, se non verso l’anti-socialità. I mezzi d’informazione attribuiscono all’espressione una connotazione fortemente negativa associandola tra gli anni Ottanta e Novanta ai delitti compiuti da Tsutomu Miyazaki, un giovane uomo colpevole, nel 1989, del rapimento, della mutilazione e dell’omicidio di quattro bambine. Nella stanza di Miyazaki vengono ritrovate numerose serie a disegni animati o a fumetti, anche di tipo pornografico, diverse apparecchiature elettroniche (attraverso le quali l’uomo ha perfino registrato gli omicidi commessi) e film di genere horror o ascrivibili al filone narrativo dello splatter. Cfr. S. Kinsella, op. cit. Cfr. P.W. Galbraith, op. cit., p. 172. Il neologismo anime viene coniato a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. Esso costituisce la contrazione del termine inglese animation e indica com’è ormai risaputo in particolare le produzioni animate giapponesi di serie destinate alla televisione oppure al circuito dell’home video.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

presso il pubblico televisivo, composto prevalentemente da adolescenti10. Okada rileva che il fenomeno otaku prende corpo alcuni decenni prima e concerne almeno tre generazioni di appassionati giapponesi11. La prima generazione comprende le persone nate tra il 1955 e il 1965. La seconda comprende invece gli individui nati tra il 1965 e il 1975. Della terza fanno infine parte le persone nate tra il 1975 e il 1985. Quest’ultima si colloca al centro della nostra indagine, come constateremo nei prossimi capitoli. L’esplorazione qui effettuata è a onor del vero allargabile a una generazione ancora più recente, nella quale rientrano (non soltanto in Giappone) i cosiddetti “nativi digitali”, ovvero coloro che hanno vissuto la propria infanzia in anni successivi rispetto a quello di creazione del World Wide Web, il 1991. Dalla prospettiva di Okada, coincidente con la nostra, assistiamo attualmente a una sorta di riconversione o meglio di riconfigurazione, in senso multimediale e ipermediale, del fenomeno otaku. Gli strumenti di auto-rappresentazione Ulteriori spiegazioni in merito ai nativi digitali, gli odierni adolescenti, vengono fornite da Gianluca Arnesano, il quale riprendendo le osservazioni di Marc Prensky scrive: le generazioni più giovani, [in primo luogo] quella che […] è definita generazione Y, [oppure Internet Generation, risultano costituite] dai cittadini nati dopo il 1980 […]. Sono quelli che Prensky ha definito nativi digitali [o “net-nativi”], cioè nati in un’epoca di cambiamenti digitali notevole che li ha resi completamente differenti […]. Essi hanno dunque sviluppato un nuovo linguaggio che l’altra parte della 10

11

Cfr. T. Murakami, Impotence Culture – Anime, J. Fleming, S. Lebowsky Talbott (a cura di), My Reality. Contemporary Art and the Culture of Japanese Animation, Des Moines Art Center, Des Moines 2001, p. 62 e M. Teti, Generazione Goldrake. L’animazione giapponese e le culture giovanili degli anni Ottanta, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011, pp. 193 ss. Kawamori e Mikimoto curano rispettivamente il mechanical design e il character design di Fortezza Superdimensionale Macross; si occupano cioè della caratterizzazione grafica degli apparecchi o dei veicoli meccanici e dei personaggi. Cfr. T. Okada, op. cit. e T. Lamarre, op. cit., pp. 146 ss.

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M. Teti - La riconfigurazione multimediale del fenomeno otaku

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popolazione ha dovuto a fatica imparare, allo stesso modo di come un immigrante impara la lingua del paese in cui giunge12.

L’estratto riportato è sufficiente a suggerire la profonda trasformazione dell’universo giovanile, non solamente nipponico, provocata da Internet. Tale trasformazione investe al contempo il piano percettivo, pragmatico e cognitivo. La metafora del nativo digitale, ideata lo ribadiamo da Prensky, sottolinea con efficacia l’applicazione di strategie comunicative e di codici linguistici differenti, la rimodulazione dei canoni estetici e il conseguente ribaltamento dei criteri di giudizio13. Essa pare adeguata, calzante alla figura dell’otaku. Gli otaku sono di sicuro tra i primi ad accogliere e assimilare le fondamentali novità apportate dall’informatica in campo espressivo e antropologico. Il linguaggio al quale si mostrano particolarmente avvezzi è quello audiovisivo. La modalità comunicativa che prediligono è multimediale, può prevedere un certo grado di interazione e contempla degli obiettivi di natura sociale14. Questa modalità sembra cioè privilegiare l’istituzione di comunità virtuali (in quanto esistenti soltanto sul web) fondate sulla condivisione di interessi e saperi. Gli otaku sembrano attribuire a Internet il ruolo e il compito auspicati da Ruggero Eugeni, il quale sostiene che “le reti devono [...] costituirsi non solo come dispositivi di connessione e di locazione, ma anche come dispositivi di rappresentazione”15. Il computer e la Rete non vanno dunque a loro avviso ritenuti semplicemente dei veicoli di conoscenza e di comunicazione. Il computer e il web sono in definitiva configurabili nell’ambito del movimento otaku come degli strumenti di rappresentazione, anzi di autorappresentazione. L’universo concettuale degli otaku si rispecchia 12 13 14 15

G. Arnesano, Viral Marketing. E altre strategie di comunicazione innovativa, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 110-111. Cfr. M. Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, in «On the Horizon», vol. 9, n. 5, 2001. Relativamente alle finalità di ordine sociale (nonché politico e ideologico) della Rete rimandiamo almeno a G. Lovink, My first Recession. Critical Internet Culture in Transition, V2_NAi Publishers, Rotterdam 2003. R. Eugeni, La ridefinizione del popolare nella società delle reti, in http:// www.mediamutations.org/home/atti/.

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in quello ipermediale e ipertestuale di Internet e ne viene a sua volta rispecchiato. L’ipermedialità e l’ipertestualità equivalgono con maggiore correttezza ai principi seguiti da entrambi. La logica sottesa alla corrente sotto-culturale degli otaku risulta analoga a quella diciamo così di funzionamento del web. Essa è basata sulla raccolta di un elevato numero di notizie effettuata in maniera non lineare, ovvero non molto ordinata. Le notizie in questione sono in formato video, audio, oppure grafico. Takashi Murakami conia alla fine degli anni Novanta la definizione di “Superflat”, traducibile in italiano con quella di “ultrapiatto”, per indicare l’estetica peculiare della società giapponese contemporanea16. Essa evidenzia la grande attrattiva esercitata sulla popolazione nipponica da una sintassi visuale mutuata dal disegno animato, dal videogioco o da Internet17. Tale sintassi appare contrassegnata dalla compresenza e dall’allineamento di tutti gli elementi su di una superficie piana bidimensione. L’estetica dell’ultrapiatto viene non a caso legata anche al movimento giovanile degli otaku. Ciò accade in virtù del fatto che la disposizione su piani paralleli delle varie componenti visive e la bidimensionalità della superficie rimandano inequivocabilmente alle immagini degli anime, allo schermo del computer oppure alle pagine web18. Gli otaku ricevono una indiretta nobilitazione da parte di Murakami, per il quale la nozione di «ultrapiattezza» è tipica della sensibilità artistica giapponese. Hiroki Azuma collega invece il concetto di ultrapiattezza al paradigma culturale della post-modernità, affermatosi in Giappone negli anni Ottanta e incarnato alla perfezione dalla corrente otaku19. Se inquadrata dal punto di vista degli otaku la società (tardo capitalistica e postmoderna) dà allo studioso l’impressione di non possedere per l’appunto «pro16 17

18 19

Cfr. T. Murakami, A Theory of Super Flat Japanese Art, in Id. (a cura di), Super Flat, Madra Publishing, Tokyo 2000. Cfr. L. Spita, L’eco del wabi-sabi nei giovani architetti giapponesi, in M. Casari (a cura di), Culture del Giappone contemporaneo. Manga, anime, videogiochi, arti visive, cinema, letteratura, teatro, architettura, Tunué Latina 2011, pp. 95 ss. Cfr. T. Murakami, SuperFlat Trilogy. Greetings, You are Alive, in Id. (a cura di), Little Boy. The Arts of Japan’s Exploding Subculture, Japan Society-Yale University, New York-New Haven 2005. Cfr. H. Azuma, Super Flat Speculation, in T. Murakami (a cura di), Super Flat, cit.. Cfr. inoltre A. Gomarasca, L. Valtorta, op. cit., pp. 6 ss.

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fondità», d’essere priva di valori trascendenti, siano essi di tipo religioso, politico o ideologico. La condizione psicologica degli otaku coincide dunque con quella dell’uomo postmoderno, in continua attesa delle emozioni fugaci procurate dalla molteplicità di stimoli percettivi provenienti da un flusso ininterrotto e accelerato di informazioni. Il discorso riguarda gli strumenti tramite cui il movimento degli otaku cerca di costruire la propria identità. A partire dagli anni Novanta bisogna con chiarezza estenderlo alla maggioranza dei ragazzi nipponici. Azuma dedica agli argomenti che stiamo affrontando delle analisi acute e accurate20. Egli asserisce che le fondamenta dell’odierna cultura di Internet giapponese sono state gettate dagli otaku negli anni Ottanta, quando il computer era “soltanto” un nuovo mezzo di comunicazione. Non solo abbondano in rete i siti web [...] di otaku, ma i nomi di vari siti FTP dei provider sono basati sovente su personaggi di disegni animati; e tra gli esempi forniti nei manuali d’utilizzo dei software di trattamento di testi o di contabilità si mescolano disinvoltamente brani tratti da giochi di ruolo o da romanzi gioco (novel games o visual novels)21, di cui è possibile ritrovare in numerosi ambiti tracce più o meno manifeste. Pertanto chi intenda [...] riflettere seriamente sulla cultura giapponese contemporanea non potrà prescindere da un esame della cultura otaku22.

Nel capitolo seguente osserveremo come il tentativo “d’appropriazione” di una identità, compiuto dagli otaku in modo non del tutto consapevole, incida sulle abitudini di consumo e sul sistema di valutazione relativi ai prodotti dell’industria nipponica dell’intrattenimento.

20 21 22

Cfr. H. Azuma, Generazione otaku. Uno studio della postmodernità, Editoriale Jaca Book, Milano 2010 e Id., Gemu teki riarizumu no tanjo. Dobutsuka suru posutomodan 2, Kodansha Gendai Shinsho, Tokyo 2007. I novel games sono dei romanzi interattivi fruibili sul computer nei quali le scelte del lettore (nonché videogiocatore) orientano la narrazione. Il genere in cui i novel games si inseriscono è spesso quello erotico. H. Azuma, Generazione otaku. Uno studio della postmodernità, cit., pp. 44-45.

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Dal consumo (e dalla critica) delle narrazioni al consumo (acritico) dei dati Al pari di altri esperti Azuma appare convinto del fatto che gli anni Novanta e l’avvento di Internet corrispondano, nell’ambito della corrente otaku, a degli autentici spartiacque sotto il profilo delle sfere d’interesse e dei modelli interpretativi assunti. Fino agli anni Ottanta gli otaku accordano la propria preferenza a produzioni seriali in grado di tratteggiare dei mondi immaginari verosimili. Gli anime fantascientifici Star Blazers (Uchu Senkan Yamato, 19741975) e Gundam (Kido Senshi Gundam, 1979-1980), trasmessi in televisione nell’arcipelago nipponico e all’estero, sono esemplari da questo punto di vista. Dai due anime segnalati derivano numerose produzioni animate indirizzate al mercato televisivo o dell’home video e persino dei lungometraggi cinematografici23. Takashi Murakami, il più celebre artista giapponese contemporaneo, ricorda che le opere capaci di riscuotere il consenso degli appassionati (di giovane età e di sesso maschile) sono soprattutto quelle ascrivibili al genere narrativo della fantascienza. Egli ragiona in diverse sedi sulla sottocultura otaku, la quale prende vita non a caso dopo l’uscita di Star Blazers e di Gundam24. Dalla poetica e dallo stile di Murakami traspaiono inoltre con evidenza le profonde istanze psicologiche avanzate dagli otaku25. Gli spettatori delle serie animate sopra menzionate si soffermano sui dettagli della trama e sull’aspetto delle apparecchiature tecnologiche raffigurate. Le proprietà giudicate da loro in maniera positiva risiedono nel realismo del disegno mediante cui gli apparecchi tecnologici vengono restituiti graficamente e nella coerenza del mondo fittizio ritratto dalle due serie animate e dalle produzioni audiovisive da esse ricavate. La valutazione da parte del 23

24 25

Le serie Star Blazers e Gundam vengono concepite e dirette rispettivamente da Leiji Matsumoto e Yoshiyuki Tomino. Matsumoto e Tomino vanno annoverati tra le fila dei registi nipponici più innovativi e influenti nel dominio del disegno animato. Cfr. T. Murakami, Earth in My Window, in Id. (a cura di), Little Boy, cit., p. 133 e Id., Impotence Culture – Anime, cit., pp. 58 ss. Cfr. anche F. L. Schodt, Inside the Robot Kingdom, Kodansha International, Tokyo 1988, pp. 86 ss. Cfr. T. Miyake, Mostri made in Japan. Orientalismo e auto-orientalismo nell’era della globalizzazione, in M. Casari (a cura di), op. cit., pp. 174 ss.

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pubblico, composto in prevalenza dagli otaku, è condizionata non dalla credibilità delle vicende illustrate bensì dalla credibilità della diegesi, ovvero l’universo di finzione inventato dagli autori26. Nonostante manifestino già in modo lampante la maniacale tendenza alla catalogazione di informazioni e dati, dalla quale sono contraddistinti, negli anni Ottanta gli otaku dimostrano di possedere ancora una coscienza critica. Quasi sempre questa coscienza critica viene esplicitata attraverso canali comunicativi non ufficiali quali le cosiddette fanzine, le riviste amatoriali contenenti spesso versioni parodiche di anime molto noti presentate (e vendute) alle fiere dedicate al fumetto oppure nei club in cui gli appassionati si riuniscono27. Gli otaku dell’epoca desiderano fruire di opere dalla struttura tradizionale, lo sottolineiamo. Per Azuma loro avvertono infatti il bisogno di una “grande narrazione”, seppure di tipo finzionale, la quale “può a volte [...] sostituire una grande narrazione nella realtà, cioè un’ideologia politica”28. Dalla seconda metà degli anni Novanta gli otaku rivolgono invece lo sguardo a forme di narrazione decisamente meno canoniche. La loro attenzione si focalizza innanzitutto su prodotti non recanti le tracce di precisi messaggi ideologici. Ciò che li attira è la possibilità di piegare il racconto alle proprie esigenze di natura affettiva. L’intreccio viene quindi del tutto trascurato, così come i temi trattati o gli eventuali valori veicolati. Sugli otaku esercitano un forte fascino alcune componenti accessorie quali i luoghi in cui sono ambientati gli avvenimenti descritti oppure i tratti visivi esibiti dai robot e dai personaggi in particolare femminili. Queste componenti sono nella maggior parte dei casi di ordine grafico; tuttavia possono consistere anche in situazioni tipiche o espressioni verbali con costanza usate dai protagonisti degli 26 27 28

Cfr. H. Azuma, Generazione otaku. Uno studio della postmodernità, cit., pp. 89 ss. Cfr. S. Kinsella, op. cit., pp. 182 ss. H. Azuma, Generazione otaku. Uno studio della postmodernità, cit., p. 90. Azuma mutua il concetto di grande narrazione da Jean-François Lyotard. In estrema sintesi tale concetto designa il significato di ordine ideologico, economico o politico e l’apparato di valori specifico di una società rinvenibili nelle attività dagli individui quotidianamente svolte e per estensione nelle rappresentazioni che di esse i media forniscono, le cosiddette piccole narrazioni. Cfr. in proposito J.-F. Lyotard, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Les Editions de Minuit, Paris 1979.

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anime. A esse i critici e i ricercatori assegnano l’appellativo di moe, traducibile letteralmente in lingua italiana con il termine di “bocciolo”. La nozione di moe va riferita al contempo alle caratteristiche fisiche di determinati personaggi e al sentimento di tenerezza che la loro apparente immaturità (a livello di atteggiamento) suscita nel pubblico29. Gli otaku guardano con favore alle produzioni da cui si riesce con facilità a estrapolare gli eterogenei elementi auto-significanti denominati moe. Si tratta di produzioni predisposte alla manipolazione dei consumatori nelle quali la storia raccontata, ridotta a un puro pretesto, viene articolata su differenti piattaforme mediali e sembra funzionale alla commercializzazione dei più svariati gadget: statuette raffiguranti i protagonisti, compact disc musicali, giocattoli, ecc. La serie animata Neon Genesis Evangelion (Shin Seiki Evangelion, 1995-1996), inseribile nel popolare filone della fantascienza robotica, è in tal senso emblematica30. Da essa vengono ricavati dei fumetti e dei film destinati alla sala cinematografica. Azuma considera Neon Genesis Evangelion una “grande non-narrazione”, ovvero “un insieme di elementi frammentari, [...] tali da poter essere interpretati liberamente, secondo le propensioni emotive di ogni spettatore”31. Quanto appena dichiarato dallo studioso trova conferma nella palese impossibilità di cogliere in Neon Genesis Evangelion un progetto complessivo dalla portata superiore sul piano contenutistico e una qualsiasi visione dell’esistenza. Questo si spiega con la volontà di soddisfare le aspettative degli otaku, gli

29

30

31

Il sentimento d’affetto provato dagli spettatori è sovente privo di connotazioni erotiche. Riguardo alla nozione di moe cfr. T. Saito, Otaku Sexuality, in C. Bolton, I. Csicsery Ronay Jr., T. Tatsumi (a cura di), Robot Ghosts and Wired Dreams. Japanese Science Fiction from Origins to Anime, University of Minnesota Press, Minneapolis 2007, pp. 230 ss. e P. Macias, T. Machiyama, op. cit., pp. 50-51. La realizzazione di Neon Genesis Evangelion viene affidata allo Studio Gainax, una compagnia le cui produzioni sono sempre indirizzate agli otaku. A dirigere l’anime è Hideaki Anno, uno dei registi più talentuosi nell’attuale scenario dell’animazione seriale nipponica. Nel 1984 Anno fonda lo Studio Gainax insieme a Okada, Hiroyuki Yamaga, Yoshiyuki Sadamoto e Takami Akai. H. Azuma, Generazione otaku. Uno studio della postmodernità, cit., p. 96.

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spettatori di riferimento della serie32, ai quali non importa scoprire dei significati più profondi o la poetica di un regista. Nel processo di classificazione e di interpretazione sono infatti le sembianze dei personaggi a occupare una posizione di assoluta centralità. Gli otaku non fanno distinzione tra le opere e i prodotti da esse derivati. Il concetto di opera originale e quello complementare di autore paiono perdere quindi ogni valore. I due concetti cambiano in verità statuto e vengono adeguati al contesto socio-antropologico, notevolmente cambiato rispetto anche solo a un decennio prima33. L’opera e l’autore diventano così dei brand, dei «marchi» che garantiscono la qualità di vari prodotti. A iniziare dalla seconda metà degli anni Novanta l’elaborazione di giudizi critici ha meno rilievo dell’individuazione e della classificazione di componenti moe. Gli appassionati creano dei siti Internet appositamente allo scopo di catalogare le proprietà moe dei protagonisti di anime, fumetti o videogiochi. Noi citiamo il motore di ricerca Tinami, attraverso cui si possono registrare e persino combinare gli attributi moe di numerosi personaggi34. Gli otaku sentono insomma la necessità non di seguire un racconto ma di raccogliere dei dati. Questo avvalora l’assunto di Azuma secondo il quale la cultura settoriale da loro alimentata costituisce il risultato più maturo della società post-moderna, incentrata su di un continuo, caotico flusso d’informazioni, sul declino delle grandi narrazioni e sulla proliferazione dei “simulacri”, di oggetti che nell’accezione data da Jean Baudrillard non vanno ritenuti né originali, né copie35. Gli otaku cercano con ogni probabilità di dotare di un senso tutte quelle informazioni che reputano utili alla costruzione o al consolidamento della propria identità. Murakami mette la cosa in relazione ad alcuni nodi irrisolti (sotto il profilo della psicologia collettiva) della recente storia giapponese36. Le produzioni animate o a fumetti concretizzerebbero 32 33 34 35 36

Dagli anni Ottanta gli otaku sono in assoluto i principali fruitori degli anime. Cfr. M. Teti, op. cit., pp. 61 ss. Cfr. H. Azuma, Gemu teki riarizumu no tanjo. Dobutsuka suru posutomodan 2, cit. Cfr. http://www.tinami.com/. Cfr. J. Baudrillard, L’échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris 1976 e Id., Simulacres et simulation, Galilée, Paris 1981. Cfr. T. Murakami, Earth in My Window, cit. e Id., SuperFlat Trilogy. Greet-

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allora, trasfigurandoli metaforicamente, degli episodi traumatici, in primo luogo la sconfitta dell’esercito nipponico durante la Seconda Guerra Mondiale. Nello stile di disegno degli anime, poco naturalistico, sensuale, a volte caricaturale o grottesco, l’artista ravvisa la rimozione di laceranti conflitti interiori. Egli è convinto che gli otaku provino a soddisfare dei bisogni inconsci e allo stesso tempo tentino di ri-comporre una identità nazionale resa fragile, frammentaria e composita soprattutto dalla pesante influenza americana subita nel secondo dopoguerra sotto l’aspetto economico e culturale37. Come è facile dedurre la quasi totalità dei discorsi ruotanti intorno ai videogiochi oppure alle serie animate viene dagli otaku condotta in Rete. Dalla fine degli anni Novanta assistiamo a una autentica proliferazione di siti Internet dedicati all’animazione o al fumetto e alla nascita di comunità abbastanza ampie composte da appassionati. Gli otaku espongono in definitiva i propri pareri per mezzo dei blog e dei forum38. Tra i canali mediatici da loro utilizzati possiamo ovviamente inserire oggi anche i social network. La formulazione di idee, o per meglio dire di opinioni concernenti i videogiochi e le opere a disegni animati, diventa una pratica quotidiana molto diffusa. Queste opinioni non poggiano su basi «scientifiche» e non seguono nemmeno il principio dell’oggettività. I criteri sui quali esse vengono fondate sono soggettivi e variano a seconda dell’individuo. Il movimento otaku pone l’accento sull’esperienza offerta a livello affettivo dai prodotti dell’industria culturale. La sua intenzione consiste nel restituire le sensazioni e le emozioni procurate dalla lettura di un fumetto piuttosto che dalla visione di un anime. Ci si rivolge d’altronde con chiarezza agli appassionati e non agli studiosi, le cui osservazioni ricevono un’accoglienza fredda o addirittura ostile. A proposito Azuma

37

38

ings, You are Alive, cit. Cfr. K. Iwabuchi, How «Japanese» Is Pokémin?, in J. Tobin (a cura di), Pikachu’s Global Adventure. The Rise and Fall of Pokemon, Duke University Press, Durham 2004 e N. Sawaragi, On the Battlefield of «SuperFlat». Subculture and Art in Postwar Japan, in T. Murakami (a cura di), Little Boy, cit. Gli indirizzi di siti web, blog e forum giapponesi gestiti dagli appassionati di disegno animato sono reperibili presso il motore di ricerca in lingua italiana otakusearch.com. Cfr. http://www.otakusearch.com/.

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dichiara quanto segue: “inclini a contestare l’ordine stabilito, [gli otaku] nutrono sospetti nei confronti di ogni procedimento che sia estraneo ai loro modelli e non gradiscono che una persona non appartenente al loro mondo disquisisca […] sugli anime”39. Gli otaku reputano la scrittura un atto creativo, qualcosa di spontaneo, di libero da vincoli normativi. Il modello di critica che impongono sul web ha senza dubbio un carattere anti-istituzionale. Esso viene opposto a quello della critica ufficiale, la cui autorità è rifiutata. Con maggiore correttezza gli otaku rifiutano, appunto, la “istituzionalità” della critica ufficiale, il suo essere (tra le altre cose) l’organizzazione sociale preposta a stabilire le formule enunciative da applicare e i canoni compositivi da adottare40. La critica amatoriale o meglio anti-professionistica appare attualmente uno degli strumenti più efficaci usati dagli otaku allo scopo di delineare una identità e di ri-appropriarsi del dibattito (accademico ma anche mediatico) in cui sono da decenni coinvolti nell’arcipelago giapponese.

39 40

Cfr. H. Azuma, Generazione otaku. Uno studio della postmodernità, cit., p. 47. Qui allarghiamo per comodità all’intero campo audiovisivo i ragionamenti fatti da Claudio Bisoni in merito all’istituzionalità della critica cinematografica. Cfr. C. Bisoni, Il linguaggio della critica cinematografica, Editrice Revolver, Bologna 2003, pp. 73 ss. e Id., La critica cinematografica. Metodo, storia e scrittura, Archetipolibri, Bologna 2006, pp. 4 ss.

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MARCO BENOÎT CARBONE

L’AFFAIRE L.A. NOIRE Comunità critiche e modi di ricezione nei discorsi tra cinema e videogioco

L.A. Noire è un videogioco del 2011 che omaggia il noir riprogrammando il genere nel medium interattivo. Questo sforzo produttivo di Team Bondi e Rockstar Games, dal budget hollywoodiano, è stato il primo gioco a essere presentato al Tribeca Film Festival1. Il risultato è parso coronare una serie di pregi tecnologici e produttivi, e critici e giornalisti hanno visto nell’intermediazione del canone cinematografico una tappa decisiva per l’ingresso del videogioco nel pantheon delle Arti. In un commento trasformato in un blurb promozionale, il «Guardian» non ha esitato a definire il gioco rivoluzionario in quanto “simile a un film”2. Questo saggio si occupa di L.A. Noire attraverso la sua ricezione critica presso la stampa e la critica generalista o specializzata, italiana e internazionale. L’analisi di recensioni, anteprime, interviste e giudizi critici mette in luce come il gioco solleciti le risposte di diverse comunità critiche e interpretative, da quella dei giocatori a quella del cinema, passando per la critica culturale “alta” di importanti quotidiani e istituzioni. È significativo che, al di là della loro provenienza, le diverse interpretazioni di L.A. Noire trovino un importante comune denominatore nel confronto del gioco con le altre arti. Produzione e stampa si sono avvicendati nell’evocare forme espressive come il cinema per legittimare o screditare, attraverso quei riconosciuti modelli estetici, un medium visto ancora come “minore” 3. 1 2

3

Per ulteriori commenti si rimanda al nostro articolo di cui questo lavoro è un ampliamento: L.A. Noire. Il grande sonno della critica, in «Segnocinema», n. 170, giugno-luglio-agosto 2011. S. Boxer, L.A. Noire Review, in «The Guardian», 16 maggio 2011, http:// www.guardian.co.uk/technology/gamesblog/2011/may/16/la-noire-gamereview. Sono di chi scrive la presente e tutte le successive traduzioni da articoli dall’inglese. L’obiettivo di questo saggio non consiste in un’analisi approfondita degli aspetti narratologici del gioco, ma in uno studio della sua ricezione. Anche

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Le nuove forme della cultura cinematografica

La nostra ipotesi è dunque che L.A. Noire sia storicamente rilevante non tanto in virtù di decantate rivoluzioni tecniche o estetiche, quanto per i discorsi che lo hanno circondato in merito allo statuto estetico ed artistico dei videogiochi. In questo senso L.A. Noire è soprattutto un’occasione preziosa per riflettere sulle attuali condizioni d’esistenza, sullo statuto intellettuale, e sullo stato di salute della critica videoludica. Riflettendo sui criteri che dovrebbero contraddistinguerla, noteremo come l’esercizio della sua funzione sia stato largamente assente: anche quando la critica ha pensato di mutuare un canone estetico dal cinema per celebrare il medium del videogioco, essa ha finito piuttosto, paradossalmente, per screditarlo. L.A. Noire si ispira alla letteratura hard-boiled e a film come L.A. Confidential (1997, diretto da C. Hanson, dal romanzo di J. Ellroy del 1990)4. Nella Los Angeles del 1947, il poliziotto Cole Phelps è angustiato dai ricordi della seconda guerra mondiale. La carriera lo porta fino alla omicidi e alla narcotici in una città del boom e dell’eccesso, in cui tutti covano segreti, tra lusso e povertà, violenza e corruzione. Il giocatore controlla Phelps e interagisce con ambienti e personaggi. La componente investigativa prevede indizi e interrogatori. I primi sono oggetti e informazioni da esaminare e annotare in un taccuino. Il gioco produce così un regime scopico e una richiesta cognitiva coerenti con il “genere” e con la soglia di attenzione richiesta al lettore o dello spettatore (si pensi alle carte e agli oggetti esaminati da Philip Marlowe ne Il grande sonno). Gli interroga-

4

così, non vi è qui la possibilità di compiere una ricognizione completa o sistematica dei principali articoli che hanno parlato di L.A. Noire, né si è in grado considerare la sterminata quantità di commenti prodotti su blog e social network. Ci limiteremo a presentare dei casi esemplari dal punto di vista dei principali discorsi in cui pensiamo che sia possibile ordinare le interpretazioni del gioco. Non possiamo qui approfondire il tema delle fonti di ispirazione del gioco, la sua aderenza a canoni e generi o le definizioni presupposte dai termini noir e hard-boiled. Si rimanda dunque a L. Gandini, Il film noir Americano, Lindau, Torino 2011; e a F. La Polla, Il cacciatore e il cacciato: l’hardboiled e i romanzieri rispettabili, in M. Fabbri ed E. Resegotti (a cura di), I colori del nero, Ubulibri, Milano 1989, p. 39. Per una lettura del gioco sotto la luce del noir si rimanda a G. Niola, Gli anni ’40 di L.A. Noire tra Ellroy e Mad Men, «MYmovies», 7 giugno 2011, http://www.mymovies.it/ cinemanews/2011/64512/.

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M. B. Carbone - L’affaire L.A. Noire

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tori si fondano invece sulle espressioni facciali dei sospetti, che vanno interpretate per capire se essi mentano o dicano il vero. La lezione è tratta dall’insistere sui volti del medium filmico, come negli interrogatori di Jack Vincennes in L.A. Confidential. Phelps e colleghi perlustrano la città e devono intervenire a mano armata in caso di crimini. Il tema è gangster nel senso più ampio possibile e ricorda serie come Grand Theft Auto (Rockstar, 1997-2011) o Mafia (2K Czech, 2002-10). La cornice narrativa scandisce missioni che sembrano puntate o capitoli, intervallate da dialoghi e flashback. L.A. Noire si avvale poi di svariate professionalità del settore cinematografico, tra cui Aaron Staton di Mad Men (HBO, 2007-10). Questi elementi sono stati valorizzati da una macchina di marketing orchestrata con i linguaggi dei best seller e dei blockbuster. Trailer, interviste e anteprime hanno predisposto e incoraggiato una forte eco nella stampa: L.A. Noire diviene “un videogioco che è come un film”5, un “romanzo interattivo”6, un gioco che “stupisce i cinefili del Tribeca”7, un “kolossal cinematografico”8. Tre sono gli aspetti che hanno fatto maggiormente parlare di L.A. Noire: l’espressività dei volti dei personaggi, l’ambientazione nella Los Angeles del dopoguerra, e gli aspetti narrativi e cinematici. La realizzazione di volti verosimili, mirante a esprimere la psicologia dei personaggi, è il frutto di una raffinata tecnologia di motion scan che registra un attore da 32 prospettive per poi mapparla sul modello digitale. Il «Guardian» la ritiene “un salto dimensionale”9, mentre la rivista Empire ritiene che con essa si sia squarciato il velo “del perturbante nel videogioco”10. 5 6 7 8 9 10

A.A., ‘L.A. Noire’ Is A Video Game That’s Like A Film, in «npr books», 19 maggio 2011, http://www.npr.org/2011/05/19/136428796/l-a-noire-is-avideo-game-thats-like-a-film. F. Cella (a cura di), L.A. Noire, romanzo interattivo, in «Corriere della Sera», 1 giugno 2011, http://video.corriere.it/noire-romanzo-interattivo/8174904c8bb0-11e0-93d0-5db6d859c804. J. Schreier, Rockstar’s L.A. Noire Wows Movie Buffs at Tribeca, in «Wired. com», 26 aprile 2011, http://www.wired.com/gamelife/2011/04/la-noiretribeca-2/. A. Contino, L.A. Noire, kolossal cinematografico, in «Wired.it», 31 maggio 2011, http://gadget.wired.it/reviews/videogiochi/2011/05/31/la-noirekolossal-cinematografico.html. S. Boxer, op. cit. A.A., L.A. Noire, in «Empire», http://www.empireonline.com/reviews/

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Le nuove forme della cultura cinematografica

La tecnologia impiegata in L.A. Noire è senz’altro un passo in avanti nelle applicazioni commerciali, prova ne sia l’interesse di alcune major cinematografiche11. Ma in realtà, il motion scan ha una storia applicativa più lunga, e un avanzamento è concettualmente diverso da una rivoluzione. Gli attori dialogano con espressioni suggestive, esprimendo un range di emozioni. Staton, volto e voce di Phelps, ha recitato 220 pagine di dialoghi, e riferisce di un’esperienza paragonabile “al cinema di alto livello”12. Che questo corrisponda a una rivoluzione sul piano estetico appare però opinabile. I volti sono lungi dal sembrare reali, “non li si scambia certo” per quelli di una vera persona, e anzi sono spesso inevitabilmente cartooneschi13. Anche senza concedere alcun primato al naturalismo, si è forse ancora lontani da un reale “spessore psicologico”14. Un’analisi perspicace è quella di «Wired». L.A. Noire ha sì “fatto un importante passo in avanti”, ma i giochi hanno sempre “tratto vantaggio del fervente automatismo che fa sì che il nostro cervello riconosca delle facce”, persino quando la tecnologia ci offriva solo “due punti e un tratto di linea”15. Un altro aspetto rimarcato in L.A. Noire è la Los Angeles del dopoguerra, l’oggetto di una vocazione storico-documentaria che rintraccia e riproduce monumenti e luoghi storici (tra cui la scritta Hollywoodland) avvalendosi delle riprese fotografiche dell’epoca. Per il «Guardian», si tratta di una ricostruzione “splendida e convincente”, più attraente della Los Angeles di oggi16. «Wired.it» parla di “una perla di rara bellezza, fotocopia di quella del 1947” e di una ricerca del dettaglio “maniacale”, con “siti storici ricostruiti nello stato in cui versavano a quel tempo”17.

11 12 13 14 15 16 17

reviewcomplete.asp?GID=787. Ne riferisce tra gli altri J. D’Alessandro, Un videogame al Tribeca, l’interattivo sbarca al cinema, in «Repubblica.it», 11 aprile 2011, http://www.repubblica.it/tecnologia/2011/04/11/news/videogioco_tribeca-14776249/. Ivi. A.A., L.A. Noire Review, in «Edge», 18 maggio 2011, http://www.next-gen. biz/reviews/la-noire-review. J. D’Alessandro, op. cit. C. Kohler, Searching for Meaning in the Faces of L.A. Noire, in «Wired. com», 16 maggio 2011, http://www.wired.com/gamelife/2011/05/la-noirereview/. S. Boxer, op. cit. A. Contino, op. cit.

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Il fotorealismo e i dettagli della Los Angeles del gioco sono un motivo di grande pregio. Tuttavia essa resta pur sempre un modello semplificato e astratto, rispondente a canoni e bisogni interni al testo e al medium. Nel confronto con un’idea di realismo essa non differisce, com’è logico e naturale, da uno spento e passivo sfondo di cartone; né l’idea della città è una prima assoluta per il videogioco, ché il tentativo di The Getaway (SCE Soho 2002, stesso produttore), la anticipa di diversi anni. Infine, il grado di esplorazione non è poi così libero al confronto con titoli coevi: «Game Informer» nota come non ci sia “granché da fare” e la città, benché spesso splendida, non sia affatto “viva e interattiva”, ma “uno sfondo da osservare mentre si guida”18. Il terzo aspetto rivoluzionario del gioco consisterebbe nella sua esperienza cinematica e narrativa. Tuttavia, questi aspetti rientrano in una storia ordinaria del medium, che è fatta di interscambi sistematici con tutti gli altri19. Sul «New York Times» si legge che “l’ultima frontiera dei videogiochi è il reale”. Normalmente esso è precluso ai giochi, al contrario delle arti che interrogano il senso della vita, come il cinema, la letteratura, il teatro20. Ma il “realismo” appare un concetto qui impiegato maldestramente: non si spiega in che senso una forma d’arte debba imitare la “realtà”, e in che senso, per potersi esprimere. Il naturalismo è oltretutto solo una delle direzioni accessibili al medium videoludico, e non necessariamente la più valida o promettente21. 18 19

20 21

M. Hegelson, L.A. Noire Review: A Compelling Yet Flawed Epic That Fascinates, in «Game Informer», http://www.gameinformer.com/games/ la_noire/b/ps3/archive/2011/05/16/review.aspx Per il concetto di realismo e il rapporto con il cinema ci si permette di rinviare ai nostri L’Occhio del Duemila. Verso un’estetica e una critica videoludica, in «Segnocinema», n. 156, marzo-aprile 2009; e Cinque per la gloria. I giochi dell’anno 2010-11 (per il cinema), in «Segnocinema», n. 171, settembre-ottobre 2011. S. Schiesel, 1947 Mystery That Matters Now, in «New York Times», 17 maggio 2011, http://www.nytimes.com/2011/05/17/arts/video-games/la-noireby-rockstar-games-review.html. La retorica del realismo si ripresenta ciclicamente nella storia videoludica, in risposta ai fenomeni più disparati che vanno dall’avvento di animazioni fondate sullo scatto fotografico, a quello dei mondi di gioco descritti con poligoni tridimensionali, o ancora prima a quello di rotoscoping e tecniche affini. Si veda il nostro Giochi animati, disegni giocati. Appunti per una storia dell’animazione videoludica, in «Segnocinema», n. 167, gennaio-

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Alla luce di quanto esposto appare chiaro come molti aspetti di L.A. Noire siano stati l’oggetto di discorsi iperbolici, che una volta contestualizzati cessano di apparire rivoluzionari, e hanno più senso in continuità con le linee evolutive del medium. Ci troviamo fin qui in assenza di una critica che dovrebbe contraddistinguersi per la conoscenza storica del medium del videogioco e per una forma di scetticismo rispetto al suo oggetto e ai discorsi celebrativi di cui esso si ammanta nell’arena commerciale. La narrativa che vorrebbe in L.A. Noire un momento privo di precedenti per la valenza culturale del videogioco è interessante allora in quanto momento di massima ricettività rispetto a qualunque oggetto che paia rispondere alle sue esigenze, in un clima che fa pensare meno a una critica videoludica e più a una diffusa “ludofilia” che si esprime tramite reazioni sproporzionate. Il plauso può essere giustificato in termini enigmatici, come quando Federico Cella parla “di un capolavoro, o se la definizione appare eccessiva, eccoci a parlare di un gioco che finalmente rende la voglia per i giocatori più esigenti di passare ore ed ore attivamente davanti alla televisione” (sic)22. Altre posizioni prefigurano sviluppi radicali. Su «XL di Repubblica» L.A. Noire “forse cambierà anche la storia del cinema”23. Ancora, sulla Stampa, il gioco “si preannuncia un successo, una piccola rivoluzione”24 sulla scorta dei production values, prima ancora della data di pubblicazione. La funzione critica qui non è tanto affrettata o residuale rispet-

22 23 24

febbraio 2011. A tale retorica si unisce spesso un determinismo tecnologico che non esprime criteri estetici ma si limita a respingere nell’oblio ciò che diventa tecnicamente obsoleto. Alcuni tra i migliori risultati estetici del videogioco andrebbero ascritti invece alle sue esplorazioni immaginifiche e nelle sue possibilità non naturalistiche, come la ricerca sui suoi formanti più essenziali: la luce, il vettore, il pixel. Ci si permette di rinviare al nostro Infiniti mondi giocabili, in «Segnocinema», n. 161, gennaio-febbraio 2010; e a Mimesi digitali. Estetica realistica e fantastica in due mondi possibili videoludici, in «E|C», marzo 2005, http://www.ec-aiss.it/archivio/tematico/ media_audiovisivi/media_audiovisivi.php. F. Cella (a cura di), op. cit. M. Sapio, S. Pennacchini, L.A. Noire, omicidi per gioco ai raggi X, in «XL di Repubblica», 20 maggio 2011, http://tekno-xl.blogautore.repubblica. it/2011/05/20/l-a-noire-omicidi-per-gioco/. A.C., L.A. Noire, dietro la Los Angeles nera in compagnia di Brendan McNamara, in «La Stampa», 19 maggio 2011, http://www3.lastampa.it/giochi/ sezioni/videogiochi/articolo/lstp/403099/.

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to a quella informativa, quanto assente. L’anteprima o la recensione, così concepite, non istituiscono alcuna critica videoludica, ma sono ridotte a narrativizzare il loro oggetto rimasticando il discorso elaborato dal marketing. A volerlo qui immaginare, il critico opererebbe assumendo al massimo la statura minima del giornalista bene interpretato da Danny DeVito in L.A. Confidential: a metà strada tra la cronaca del reale e la sua riproduzione in forma romanzata. Da questo vanno affrancati gli autori dei pezzi, i quali (oltre a non firmare spesso i titoli) rispondono a finalità informative e politiche giornalistiche proprie delle testate ospitanti. Analizzando il fatto critico dal punto di vista giornalistico, Claudio Bisoni nota come il redattore eserciti il proprio mestiere in un contesto di forti condizionamenti istituzionali dati dalla testata ospitante25. L’autore è raramente in grado di negoziare con le logiche generaliste di un quotidiano online e superare quelli che suonano come triti rituali cronachistici. L’orientamento della testata ospitante rientra dunque in una “mappatura” dell’oggetto della recensione, che avviene grazie a una serie “di schemi cognitivi” condivisi dalla comunità di giornalisti e lettori. È evidente che L.A. Noire è un videogioco tanto più interessante quanto più, lavorando all’incrocio di determinati modelli interattivi e narrativi, sollecita risposte diverse da diverse comunità discorsive, ciascuna delle quali sovrappone al testo proprie aspettative. Questo appare evidente spostandosi sul piano della stampa specializzata, che per una funzione maggiormente critica e legata allo specifico del medium si distingue in parte dall’insieme fluttuante di attenzioni rivolte a L.A. Noire dall’ambito filmico o letterario. Rockstar Games ha avuto buon gioco nel riportare in forma di blurb giudizi su L.A. Noire come “una ventata d’aria nuova” («Games Radar»), “un viaggio indimenticabile” («GameSpot»), o “il nuovo volto del videogioco” («Games TM»). Questi giudizi appaiono però, in alcuni casi, in parte decontestualizzati. Rockstar per esempio estrapola da un’anteprima di «Game Informer» che L.A. Noire è “un’esperienza senza precedenti”, ma nella recensione si legge che i videogiochi, “per quanto possa essere 25

C. Bisoni, La critica cinematografica. Metodo, storia e scrittura, Archetipolibri, Bologna 2006.

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magistrale una storia, vanno giocati”, che L.A. Noire è non privo di difetti e a volte “semplicemente noioso”26. È un giudizio che sintetizza la ricezione di alcune testate specializzate e di molti giocatori, il cui metro si orienta innanzitutto intorno alle proprietà interattive del gioco, e non ai pregi cinematici. Un’altra interpretazione equilibrata viene da «Edge», su cui si legge che “a esclusione del capture dei volti, non c’è un solo aspetto […] che non sia stato già realizzato in altri contesti”, anche se raramente la loro risultante è stata così atmosferica o coesa27. Anche la recensione di «Wired» contestualizza in una storia più ampia il gioco e riconosce come esso dal punto di vista ludico non sia affatto sofisticato, e anzi alquanto derivativo, ma nondimeno “assolutamente da provare se si è interessati allo sviluppo della narrazione nei videogiochi”28. L’edizione italiana parlava invece di “uno spettacolo per gli occhi e per la mente”29. Con tutte le possibili eccezioni del caso, si può forse sostenere che a proposito della ricezione critica di L.A. Noire esista un divario tra le testate generaliste e quelle cinematografiche da un lato, e quelle specializzate in giochi o tecnologia dall’altro, o nei termini di Claudio Bisoni, tra la critica “quotidianista” e quella “specializzata”30. Il divario interpretativo è meno marcato nel contesto italiano, in quanto anche le testate più specializzate tendono a leggere il gioco in termini rivoluzionari. Anche nel campo anglofono, tuttavia, più ci si allontana dal campo specializzato e più i giudizi su L.A. Noire interni alla storia del mezzo perdono in centralità. Ancora sul «Guardian», si legge che l’industria del videogioco sogna sin dal principio “di creare un gioco che sia indistinguibile da un film, se non fosse che si può controllare il personaggio principale”: di ciò L.A. Noire è “l’incarnazione”. L.A. Noire fa dimenticare di essere un gioco, e non infastidisce l’utente con le “animazioni irrealistiche, i dialoghi zoppicanti, le riprese mediocri o la caratterizzazione scontata” che sono i limiti connaturati al medium31. 26 27 28 29 30 31

M. Hegelson, op. cit. A.A., L.A. Noire Review, cit. C. Kohler, op. cit. A. Contino, op. cit. C. Bisoni, op. cit., p. 9. S. Boxer, op. cit.

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Sul «New York Times» si apprende che “il mondo reale è l’ultima frontiera del videogioco”, prima di L.A. Noire incapace, al contrario di cinema, teatro, letteratura e serie tv, di instaurare un dialogo con la “vita di ogni giorno”32. Il giudizio di valore non parte dal piano della complessità storica ed estetica o della specificità del videogioco, ma dall’avvicendamento alle altre arti: il gioco è propriamente cultura solo quando “sembra un film”. Impreparati a una valorizzazione del gioco fondata sulla pratica e sulla storia del mezzo, i critici di ispirazione filmica ne reperiscono il senso sull’unico terreno delle tipologie discorsive a loro familiare. La giustapposizione del videogioco a canoni naturalistici e cinematografici concede il permesso di soggiorno per il reame estetico a L.A. Noire. Essa tuttavia condanna il resto dei videogiochi in quanto diversi dal cinema, e dunque in quanto videogiochi. Nello stesso istante in cui pensano di riconoscere nel videogioco un valore estetico e culturale e di celebrarlo adeguandolo per intero al cinema, questi critici svalorizzano più o meno consapevolmente l’intero medium videoludico. Da un lato si assiste a una critica videoludica storicizzata e attenta alla specificità del mezzo, e che proprio per questo rovescia ogni proclama alla transmedialità con un relativo disinteresse per esperimenti come L.A. Noire. Dall’altro, a una critica non specialistica, che si esprime per riferimenti largamente estranei al medium, e per cui l’equazione tra gioco e cinema rende esperibile un oggetto prima alieno. Nel mezzo vi è una vasta e sempre più affollata zona grigia in cui una certa critica videoludica subisce il fascino dell’affermazione professionale o intellettuale di fronte ai colleghi di mezzi più blasonati, non accorgendosi di mutuarne lacune o fraintendimenti. Alcuni di questi fenomeni non sono una novità nella storia delle arti, né il cinema è stato (o è ancora) al riparo da simili fraintendimenti. Ricorda Francesco Casetti come solo nel dopoguerra si attesti “l’accettazione ormai diffusa del cinema in quanto fatto di cultura”, mentre molti dei discorsi precedenti “apparivano spesso guidati dal promuovere il nuovo mezzo” e “a riscattarlo dalla mar-

32

S. Schiesel, op. cit.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

ginalità”, spesso “attraverso i confronti con le altre arti”33. Mauro Antonini nota come questi ancora oggi il critico cinematografico appaia preoccupato dal dover “giustificare il proprio gradimento sempre giocando la carta della cultura tradizionale, avvalorando il suo giudizio con riferimenti alt(r)i”: Cronenberg è valido “perché rimanda a Kafka e non in quanto Cronenberg”34. Nel caso di L.A. Noire il paragone con il cinema appare una narrativa dominante, che si tratti di legittimare piuttosto che screditare il videogioco come medium. Nel primo caso, non mancano recensioni che parlano di “un detective movie che sembra un gioco, così si può sparare sulla gente”35, o di “un romanzo complesso ma pedante”36. In altri casi però L.A. Noire fa gettare la maschera a un certo establishment che, provocato, se ne serve per rimarcare che non solo questo gioco, ma il videogioco tout court non potrà emulare le forme culturali alte, a dispetto dei migliori tentativi. Secondo Geoff Andrew del British Film Institute, L.A. Noire scimmiotta il noir senza alcun successo. I videogiochi non potranno mai sperare di emulare “il significato politico, le associazioni storiche, l’ambiguità e la complessità psicologica” del cinema di qualità37. Queste forme di scetticismo radicale fanno eco a un celebre intervento dell’influente critico Roger Ebert per il quale “i videogiochi non potranno mai essere arte”38. Esse stabiliscono una gerarchia delle arti e suggeriscono che il gioco non possa accedervi, né con mezzi propri, né mutuandoli da altrove. 33 34 35 36 37 38

F. Casetti, Teorie del cinema. 1945-1990, Bompiani, Milano 1993, p. 9. M. Antonini, E tu vivrai nell’errore, in «Segnocinema», n. 166, pp. 24-26. A.A., L.A. Noire (A detective movie that plays like a game, so you can shoot people), in «1up.com», 24 giugno 2011, http://www.1up.com/do/ blogEntry?bId=9082930. B. Kyllo, L.A. Noire plays like a rich but tedious novel, in «Straight.com», 24 maggio 2011, http://www.straight.com/article-394482/vancouver/lanoire-plays-rich-tedious-novel. J. Graham, Are video games now more sophisticated than cinema?, in «The Guardian», 2 giugno 2011, http://www.guardian.co.uk/film/2011/jun/02/ la-noire-video-games-films-sophistication. Si rimanda a R. Ebert, Video games can never be art, in «Chicago Sun Times», 16 aprile 2010, http://blogs.suntimes.com/ebert/2010/04/video_ games_can_never_be_art.html. Incalzato dalle repliche dei blogger, Ebert ha poi parzialmente ritrattato: Okay, kids, play on my lawn, in «Chicago Sun Times», 1 luglio 2010, http://blogs.suntimes.com/ebert/2010/07/ okay_kids_play_on_my_lawn.html.

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È evidente che questi ragionamenti partono da una sostanziale ignoranza del medium che si traduce in un radicale pregiudizio. Soprattutto, però, i loro firmatari sono privi della memoria storica che l’esperienza del cinema dovrebbe offrire loro. Francesco Casetti ricorda la “difesa d’ufficio” dovuta al cinema rispetto “alle ampie perplessità da parte di coloro che sono abituati a confrontarsi solo con le zone alte del pensiero” e alle “ampie resistenze da parte dei custodi della tradizione”39. Lo statuto culturale dei film, oggi assodato, era teso inizialmente tra il riconoscimento della loro specificità e una ricerca di legittimazione tramite l’emulazione del teatro o della letteratura. Successivamente, negli anni dell’affermazione critica e accademica del cinema, si crearono le basi per la sua emancipazione. La ricezione di L.A. Noire mette dunque in risalto lo stato turbolento e contraddittorio non tanto dei procedimenti tecnici ed estetici del gioco, quanto delle narrative che lo circondano da prospettive diverse e contrastanti. I videogiochi appaiono di volta in volta qualcosa che potrebbe o non dovrebbe imitare cinema e letteratura, che sarà artistico solamente imitandoli, o che non lo sarà mai, a dimostrazione di scontri di forza tra i vari agenti che occupano il piano del discorso e del simbolico40. Questa prospettiva spiega sia la ricezione di L.A. Noire in termini entusiastici che il loro fondamento oppositivo, vale a dire il rapporto di sudditanza culturale da sempre subito dal videogioco nei confronti di mezzi culturalmente più affermati. Le letture entusiastiche di L.A. Noire dimostrano spontanee forme di sinergia tra produttori, commentatori e consumatori, coinvolti e schierati nel reclamare la legittimazione sociale del gioco e del giocatore. La consacrazione storica di questo gioco si spiega dunque con una forma di ansia emulativa di cui è vittima anche la critica specializzata41. Questa, tuttavia, non dovrebbe parlare di rivoluzioni a piè sospinto, ma distinguersi per la conoscenza del gioco come pratica 39 40 41

F. Casetti, op. cit., p. 9. Ci rifacciamo qui a P. Bourdieu, Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, Milano 2003. La critica videoludica specializzata nasce con al massimo una decina di anni di ritardo rispetto al videogioco. La sua ricezione in termini di oggetto culturale e degno di studio esplode con grosso ritardo, ma incontrollabile inflazione, intorno all’inizio degli anni Duemila.

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e per la sua storicizzazione, e definirsi per l’imperativo di interpellare i propri oggetti nella loro complessità. Il prezzo da pagare per questa omissione è l’equiparazione a un’appendice sterile del proprio oggetto, o meglio del soggetto che lo orienta. Così, la tanto acclamata inclusione di L.A. Noire al Tribeca Film Festival conferma solo “il discorso del festival” come “un’applicazione del potere” e un “discorso dell’istituzione”, che regola e stabilisce l’appartenenza del testo al dispositivo” e ne sanziona un’appartenenza42. L’errore di molta (a)critica videoludica è stato quello di sostituire una domanda intorno al videogioco con una risposta data dal Tribeca, il quale non è discorso “sugli oggetti che contiene”, ma “che il Festival stesso fa su di essi e su di sé”; esso offre ”un punto di vista ordinativo, che decide che cosa si deve e non si deve vedere”43. Mitch Krpata osserva che “è difficile dare la colpa ai giocatori se si aspettano che qualche cattedrale culturale conferisca legittimazione ai giochi, in un mondo ancora calcato da Roger Ebert”44. Tuttavia fa ugualmente sorridere che “la nuova frontiera” narratologica, interattiva, e naturalistica di L.A. Noire, in virtù della quale è legittimo che “lo snobistico mondo del cinema […] apra le porte al medium del videogioco”, sia in realtà “in formazione da più di 25 anni”45. E che si tratti di una storia che anche cattedratici e critici del gioco disconoscono o sono pronti a dimenticare. In questo senso abbiamo immaginato una funzione della critica che partisse dal senso di una comunità intellettuale capace di tessere “un discorso relativamente autonomo, autosufficiente” rispetto agli interessi dominanti, e in grado di riflettere su un “modello completo delle pratiche” sottese alla sua funzione46. È evidente che tale presupposto – l’esistenza di una critica videoludica – è stato in un certo senso evocato, mentre ci siamo occupati di altri discorsi. Vale a dire, di quei racconti della realtà secondo la denotazione 42 43 44 45 46

A. Bellavita, Primi a vederlo, e allora? Limiti e benefici della critica festivaliera, in «Segnocinema», 166, pp. 19-21. Ibidem. M. Krpata, L.A. Noire, Cold case, in «The Boston Pheonix», 26 maggio 2011, http://thephoenix.com/boston/recroom/121109-la-noire/. J. Davidson, L.A. Noire Getting Tribeca Film Festival Treatment, in «Techno Buffalo», 29 marzo 2011, http://www.technobuffalo.com/gaming/ platform-gaming/l-a-noire-getting-tribeca-film-festival-treatment/. Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 12.

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mitica del prodotto che sono stati indagati da Roland Barthes, e che sono tipici della pubblicità come degli altri “alimenti della nutrizione psichica”: la letteratura, lo spettacolo, il cinema, lo sport, la moda, la stampa47.

47

R. Barthes, L’avventura semiologica, Einaudi, Torino 1991, p. 32.

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SEZIONE TRE (in collaborazione con www.filmidee.it)

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ALESSANDRO STELLINO E DANIELA PERSICO

TUTTO CIÒ CHE È SOLIDO SI DISSOLVE

Il cambiamento genera disagio, il disagio genera paura e la paura conduce a conclusioni affrettate e irrazionali. Gran parte delle conclusioni cui è giunto il dibattito sull’evoluzione della critica cinematografica ai tempi di Internet è figlia di questo disagio e manifesta l’irrazionalità sintomatica della paura. A gran parte della critica odierna, specie italiana, interessa poco ragionare sui cambiamenti in atto: il confronto avviene ancora su un terreno obsoleto quanto le argomentazioni chiamate in causa. Appellarsi alla morte del cinema equivale ad appellarsi alla morte della critica, poiché non si dà l’una senza l’altro, e contribuisce a propagandare un equivoco di lunga data: che, come sosteneva Sartre, i critici siano custodi di cimiteri. Nella sua mutevolezza, il cinema è in continuo divenire e, come qualunque altro organismo, prolifera dove le condizioni sono favorevoli al suo sviluppo, vive dove gli si permette di sopravvivere. Se può essere accettabile la pigrizia intellettuale dimostrata da una schiera di professionisti invecchiata sulle pagine dei quotidiani, lo è certamente meno quella ostentata da nuove generazioni che non hanno la forza di rinnegare i propri padri (perché non li [ri]conoscono) né di combattere contro lo svilimento di una professione (perché gli è stata lasciata in eredità l’idea errata che il terreno di scontro sia quello imposto dall’industria). Che l’avvento di Internet abbia rivoluzionato la fruizione cinematografica è fuori dubbio, e che il futuro del cinema sia strettamente legato all’evoluzione di Internet è altrettanto evidente. Affrontare coscientemente gli effetti di questa rivoluzione significa mettere da parte nostalgie e preoccupazioni e accettare come ineludibili alcuni dati di fatto:

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Le nuove forme della cultura cinematografica

a) un certo tipo di critica non ha più necessità di esistere perché è venuto a mancare il ruolo di mediazione richiesto tra un certo tipo di produzione cinematografica e un certo tipo di pubblico; b) la carta stampata non è più il luogo d’elezione per la circolazione delle idee e della riflessione critica intorno al cinema ed è stata soppiantata da nuove forme di comunicazione e diffusione proprie del web; c) esiste, tuttavia, un luogo in cui è lecito e più che mai necessario esercitare la critica cinematografica e che esiste ancora un oggetto filmico che chiama in causa la critica cinematografica e i suoi strumenti. Riconoscere quei luoghi e quegli oggetti deve essere il compito primario di chiunque voglia confrontarsi con la critica cinematografica oggi e negli anni a venire. Cronaca di una sparizione annunciata: il critico e il suo doppio Tra gli addetti ai lavori che, per obbligo o volontà, si impegnano a seguire settimanalmente la distribuzione dei film nelle sale italiane circola da tempo una convinzione: che sia possibile recensire buona parte delle uscite senza vederle, magari limitandosi a dare un’occhiata al trailer. C’è chi si limita a sostenerlo, svolgendo poi diligentemente il proprio lavoro, e chi lo fa davvero, astenendosi dalle “perdite di tempo”. E tutto sommato non gliene si può fare una colpa. Scrivere di un film senza averlo visto è una pratica antiquata. Ciò che è relativamente nuovo è il margine sempre più ristretto di errore concesso da questa pratica, coadiuvata dalla possibilità di consultare in tempo reale i pareri altrui (la rassegna stampa internazionale fornita da imdb.com, ad esempio). Chi procede in questo senso lo fa appellandosi a due ragioni: da una parte l’estrema codificazione e incapacità congenita di tradire le attese propria del cinema mainstream (ovvero l’80% dei film distribuiti nelle sale italiane); dall’altra l’idea che ai lettori non interessa più il parere del critico, relegato sui quotidiani a trafiletti sempre più concisi e possibilmente supportato dall’immediatezza censoria di stellette e pallini.

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Il discorso, però, non è limitato esclusivamente ai quotidiani: si continuano a recensire mensilmente tutti i film in sala sia sulle riviste di divulgazione («Film Tv», «Ciak», «Best Movie») sia su quelle specializzate («Segnocinema», «Cineforum», «Duellanti»), e lo fa anche una rivista internazionale come «Sight & Sound», dedicando ad essi metà delle sue pagine. Ma queste recensioni non rappresentano forse la parte meno interessante delle pubblicazioni che le ospitano, considerando per di più che, in gran parte dei casi, vengono pubblicate con estremo ritardo rispetto all’uscita in sala dei film trattati e la scelta di non trascurare l’attualità non può più ritenersi tale? Le sezioni relative alle recensioni dei film in sala stanno diventando ovunque delle inutili appendici, tenute in vita solo dalla pigrizia creativa di direttori e redattori che si adeguano a schemi preesistenti. Persa la funzionalità primaria della forma recensione (indirizzare il gusto del pubblico e consigliare una visione piuttosto che un’altra) e constatata l’intercambiabilità dei giudizi (e, in taluni casi, persino delle firme), vale la pena ricordare quello che scriveva Gilles Deleuze nel 1986: C’è un cinema che non ha alcun bisogno della critica per riempire, non soltanto le sale, ma l’insieme delle sue funzioni sociali. Se la critica ha un senso, è quindi nella misura in cui un film presenta un supplemento, una sorta di scarto con un pubblico ancora virtuale, tanto che bisogna guadagnare tempo e conservarne le tracce aspettando. Senza dubbio questa nozione di supplemento non è semplice […], è veramente la funzione estetica del film, precaria, ma isolabile in certi casi e in certe condizioni, un po’ d’arte e di pensiero.

In un articolo intitolato Everyone’s a Critic Now uscito sul «Guardian» (e pubblicato anche da «Internazionale» con il titolo I critici inutili sul n. 887 del 7 marzo 2011), Neal Gabler sostiene che negli Stati Uniti tutti hanno elogiato The Social Network di David Fincher come miglior film dell’anno, così come in ambito letterario si è decretata all’unisono la supremazia di Jonathan Franzen con Libertà. Il film di Fincher è stato eletto il migliore del 2010 anche da «Sight & Sound» ed era al secondo posto nel poll dei critici istituito da «Film Comment» (ma era il primo in quello dei lettori): tutto ciò rafforza l’opinione di Gabler secondo cui la critica è ormai pienamente allineata al sistema produttivo, seguendo un procedimento in atto da tempo.

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Il coincidere delle opinioni di pubblico e critica giustifica allora il vecchio adagio secondo cui “non abbiamo bisogno di critici professionisti perché ciò che cerca la gente lo può trovare gratuitamente in rete”, un’affermazione che ormai non riguarda più solo le testate divulgative (o sarebbe più lecito definirle vetrine pubblicitarie?) di cinema online come mymovies.it e nemmeno i blog dei movie geeks che proliferano in rete. Finita l’epoca in cui la guerra era tra critica online e cartacea, oggi, ad esautorare i critici di professione non sono i blogger ma il passaparola dei social network che rende inutile tanto le opinioni di chi scrive sul web sia di chi pubblica sulla carta stampata. Il progressivo sminuirsi del dibattito culturale in campo cinematografico – quantomeno nel dialogo tra critica e pubblico – sembra aver raggiunto il suo ultimo stadio: quello in cui il lettore prende il posto del critico. In gioco c’è la perdita della sua identità – ma si potrebbe anche parlare di scambio di identità: se nessuno legge il critico, o se qualcun altro prende il suo posto, chi è il critico e a chi parla? Parla con me: io sono leggenda È un dato di fatto che, oggi, i lettori delle riviste italiane specializzate sono in gran parte i critici stessi ma è un assunto che si fa ancora fatica ad accettare. Da qui molte delle confusioni in atto, anche perché è ormai norma sovrastimare opere all’interno di un contesto al ribasso. Le riviste specializzate del nostro Paese, comprese quelle che ancora conservano una suddivisione tra film da trattare in maniera approfondita rispetto ad altri, scelgono come unico campo di indagine l’attualità cinematografica e ne utilizzano lo standard qualitativo come metro di paragone. Non si dovrebbe invece misurare l’oggetto film su una scala di valore che prescinda dall’attualità in sala, per di più nazionale? Per fare un esempio: siamo davvero sicuri che sia valsa la pena spendere così tante parole di analisi per L’uomo che verrà di Giorgio Diritti e non si sia trattato piuttosto di un atto mosso dal senso di colpa per aver trascurato il precedente Il vento fa il suo giro (che ha trovato il favore del pubblico grazie a un singolo esercente – Sancassani del cinema Mexico di Milano – che ha scommesso sul film, compiendo una vera operazione critica)?

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Come se non bastasse, tale ristrettezza di sguardo spinge a trascurare settori interi della produzione come quello documentario che – anche solo per prendere in esame la produzione nazionale recente – si sono dimostrati molto più prolifici e innovatori, fucine di nuovi linguaggi e nuovi autori. Film come A scuola di Leonardo di Costanzo, Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi e Bibione Bye Bye One di Alessandro Rossetto all’epoca della loro distribuzione non hanno ricevuto uno spazio adeguato all’interno di queste pubblicazioni, intente a perlustrare gli scadenti risultati nel campo della finzione nazionale (salvo poi riscoprire in ritardo di anni gli stessi autori, e dedicare speciali fuori tempo massimo al cinema del reale). Stando alle considerazioni fatte da un nutrito gruppo di critici sulle pagine di «Cineaste.com» all’interno di una tavola rotonda su “La critica cinematografica all’epoca di Internet” il problema non è solo italiano e secondo Richard Shickel, una delle firme storiche del «Time», riguarda tanto il critico della carta stampata (in particolare il quotidianista) quanto il blogger, perché entrambi non vedono i film che contano: La miglior critica oggi si sviluppa intorno a film che interessano una minoranza molto ristretta di lettori. La maggior parte della gente che va al cinema vuole sapere soltanto quando uscirà il nuovo, potenziale blockbuster nelle sale della loro città e non ha alcun interesse a scoprire che scontentano le poche sensibilità critiche rimaste con un desiderio – una necessità – nei confronti dell’arte. La verità è che il giudizio critico non è in grado di intaccare l’unica cosa che conta: gli incassi dei film sui quali i grandi studios hanno investito centinaia di milioni di dollari. E questo trova il benestare di buona parte degli editori di riviste e giornali che hanno tollerato la critica finché faceva i loro interessi senza mai farsela piacere veramente e condividendo con i propri lettori il dubbio riguardo il diritto dei critici di esprimere opinioni basate sulla propria riflessione intellettuale e non sul gradimento delle masse.

Flashback: “Non vogliamo altri mondi, vogliamo specchi”. Una questione di stile. Non più di cinque anni fa sembrava che l’autorità del critico di professione stesse ricevendo un duro colpo dal seguito crescente di cinefili dell’ultim’ora con i loro blog in rete. Si diceva che i “gio-

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vani critici” portavano una ventata di aria fresca all’interno di un settore asfittico e ripiegato su se stesso ma, oggi, si può affermare tranquillamente che i blogger non hanno mai messo in discussione l’autorevolezza dei critici di professione: si è trattato solo di un ulteriore passo in avanti (o indietro, a seconda dei punti di vista) del “populismo critico”. Il fioccare dei blog d’ambito cinematografico va semplicemente inquadrato all’interno del più ampio sentore di crisi di una professione e letto come reazione all’incapacità da parte della critica di agire sui gusti della popolazione e alla sensazione di perdita di interlocutori: il web offre uno spazio nuovo e teoricamente libero in cui far sentire la propria voce e la possibilità di recuperare il contatto perduto con i lettori si manifesta in maniera concreta – e, con l’avvento di Facebook, sempre più succinta. Ma Internet non ha dato vita a una nuova forma di critica, piuttosto a nuovi modi di trasmissione e a un diverso utilizzo del linguaggio. Secondo Andrew Tracy, uno dei fondatori del sito «cinemascope.com» i cambiamenti connessi all’avvento di Internet sono legati più a questioni di metodo che di contenuto. […] A essere radicalmente mutata è la maniera in cui si combattono le battaglie critiche, ora caratterizzate da un grado di informalità molto più elevato che conduce, di conseguenza, a un declino della pratica della critica cinematografica in quanto arte letteraria e, essenzialmente, solitaria. […] La potenzialità di responso immediato offerto da Internet ha fatto sì che queste conversazioni/discussioni/scontri fossero portate avanti in tempo reale e, allo stesso tempo, ha personalizzato il discorso sul cinema a un livello di enorme disagio, sconnettendolo da qualunque modello letterario e gettandolo in pasto all’irrazionalità maligna e meschina propria del linguaggio quotidiano. […] “Non vogliamo altri mondi, vogliamo specchi” diceva Stanislav Lem (via Tarkovskj) e il Nuovo Solipsimo della Rete – un mondo di milioni di nicchie, dove le fissazioni individuali vengono esibite in maniera talmente narcisistica in quanto distintivi di autenticità – ha trasformato il navigare tra i blog di cinema a un percorso patologico: la redazione di un diario pubblico in forma di discorso cinematografico. Paradossalmente, è questo che la critica online ha contribuito a degradare, o forse ha solo contribuito ad accelerare un degrado già in atto sulla carta stampata. La scrittura sciatta e l’autocompiacimento ha infestato la

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critica stampata ben prima dell’avvento di Internet e la stampa ha già dato il suo contributo verso lo svilimento della tradizione critica, poi alimentato da Internet grazie a una relativa assenza di imperativi commerciali.

L’assenza di imperativi commerciali, dunque, permette una maggiore libertà ma contribuisce a un degrado stilistico e argomentativo e i social network come Facebook hanno portato all’estremo la necessità di condividere nell’immediato il proprio entusiasmo o il proprio spregio per un film. “È la realizzazione dell’estasi della comunicazione teorizzata da Baudrillard” sostiene Kent Jones di «Film Comment», “la soddisfazione immediata dell’impulso a comunicare. […] Questo solleva importanti quesiti riguardo lo scrivere. Che cos’è scrivere? Scrivere è riscrivere, strutturare, argomentare, rifinire. C’è qualche differenza tra scrivere e fare critica? Ovviamente no”. Nel momento in cui l’appassionato ha la possibilità non solo di parlare di cinema (incubo morettiano per eccellenza) ma persino di scriverne, il discrimine è tanto di tipo stilistico (se è una cattiva critica può anche essere scritta bene, quella buona non ne può fare a meno) quanto culturale. Secondo Robert Koehler di Variety la debolezza principale dei blogger è legata alla loro dieta cinematografica, talmente ristretta e codificata che i loro scritti evidenziano in maniera lampante una scarsissima conoscenza delle tendenze che investono il cinema a livello internazionale. In ciò non sono diversi dai critici della carta stampata che si occupano solo dei blockbuster americani. Poiché non possiedono la capacità di storicizzare e le loro parole risuonano all’interno di una camera di riverberazione popolata da altri blogger e lettori che condividono la medesima visuale ristretta, la loro scrittura non è sottoposta a dinamiche di espansione, riflessione o rivoluzione interna, tutte forme necessarie a una pratica critica vitale.

(“Mancando loro una conoscenza adeguata della storia del cinema, stanno alla critica come Diablo Cody sta alla sceneggiatura” ha detto Andrew Grant di «filmbrain.com».) L’immagine del blogger cinematografico è stata macchiata fin dagli esordi dall’ascesa di Harry Knowles, il cui sito «Ain’t It Cool

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News» fece sensazione sul web grazie a legioni di fan che sposarono il tipo di discorso basato sul “è figo/fa schifo” che caratterizzava il sito e tale impostazione ha finito per essere vincente nell’appiattimento generale. Nell’epoca della critica semaforica, il lettore è in cerca di un responso immediato, frutto di un giudizio bipolare (positivo/nagativo): non gli interessa l’approfondimento interpretativo-argomentativo, vuole solo sapere se deve o meno vedere un film o, peggio, trovare conferma alla sua volontà di vedere un film. Solo ammettendo l’inutilità di un confronto critico con un cinema che non lo richiede più si può cominciare a (ri)identificare (nel senso di fornire un’identità) se stessi in quanto critici e il proprio ruolo. Tutto ciò che è solido si dissolve nell’Ethernet Colpita al fianco da più parti, la critica “ufficiale” non è stata in grado di cogliere i repentini mutamenti in atto imposti dal web, sia in termini di produzione dei testi che in rapporto alla diffusione e fruizione cinematografica. In Italia, in molti sono convinti che la critica online rappresenti l’ultima spiaggia di un mestiere in declino e non si preoccupano di esaminare il panorama sconfinato offerto dal web. L’affanno, dunque, è dovuto all’essere perennemente in ritardo sul moltiplicarsi di canali distributivi che rendono idealmente visibili a tutti autori geograficamente e produttivamente lontani. Il senso di spaesamento deriva dunque, oltre che dalla perdita di interlocutori, anche dal non avere più un campo di indagine stabilito: sottoposto alle miriadi di sollecitazioni esterne, trasmesse a una velocità decuplicata rispetto al passato, il critico, asserragliato nella sua torre, finge di non sentire le esplosioni. Sorprende scoprire che, persino tra gli addetti ai lavori, realtà come «MUBI» e «Festival Scope» siano poco note. La prima è una piattaforma VoD che innesta la possibilità di vedere in streaming film di spesso difficile (se non impossibile) reperibilità sul classico impianto da social network in cui ciascuno può personalizzare la propria pagina indicando preferenze e gusti e commentando i film che vede; la seconda permette di visionare le programmazioni dei festival in tempo quasi reale, garantendo a giornalisti e critici l’accesso alle sezioni più interessanti di una quarantina di festival,

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da Cannes a Venezia, passando per il Cinéma du Réel, il FID di Marsiglia, Indie Lisboa, Viennale, etc. Ciò non significa che in futuro si andrà ai festival restando a casa e guardando i film in concorso sul proprio laptop ma che si garantisce una vita un po’ più lunga ad alcuni film, marginalizzati e destinati spesso e volentieri all’oblio dopo il passaggio festivaliero. O che, con meno di 15 euro al mese, grazie a «MUBI» si può accedere alla filmografia completa di Agnès Varda, Lech Majewski e Pere Portabella, ai film sperimentali di Ken Jacobs e Peter Tscherkassky e a corti d’autore di tutto il mondo. Visto che le cineteche italiane preferiscono riproporre all’infinito i film di Bergman e Buñuel e rifiutano di ospitare una rassegna su Wang Bing o su Pedro Costa, è più facile che 100 persone vedano la Cinemascope Trilogy di Tscherkassky o Star Spangled to Death di Jacobs grazie a un singolo link postato su Facebook. Tutto sarà più chiaro quando l’industria smetterà di considerare il web come il nemico numero uno e comincerà a sfruttarne a pieno le potenzialità di diffusione. Nel momento in cui Netflix, la più grande piattaforma mondiale di streaming e noleggio online di dvd con oltre 20 milioni di abbonati, si può permettere di sfidare i canali via cavo producendo i 26 episodi di House of Cards, una serie tv diretta da David Fincher, qualcosa è evidentemente cambiato. Flashforward: Il critico che verrà, il vagabondo delle stelle Bisogna prendere atto che l’home video, anche nel supporto digitale, non è più il principale veicolo di diffusione cinematografica. Chiudono le catene di Blockbuster, i dvd diverranno presto oggetti da collezione e i blu-ray non hanno mai venduto. Bisogna abbandonare una volta per tutte il ristretto ambito nazionale: la nuova cineflilia è globalizzata. Bisogna accettare che alcuni dei migliori critici al mondo scrivano solo in rete e che alcuni dei testi più importanti prodotti in quest’ambito non saranno mai disponibili in forma stampata. Bisogna smettere di pensare che c’è stata un’età dell’oro della critica cinematografica solo perché la cerchia dei nomi di riferimento era più ristretta e le teorie più univocamente discusse e definite.

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Se, in qualità di critico, dovessi scegliere tra l’epoca dei Kael, Sarris e Bazin e la nostra, caratterizzata da migliaia di punti di vista” ha detto Robert Koehler non esiterei un’istante a propendere per quest’ultima. Si tratta di un ambiente più avventuroso e creativo, con un accesso al cinema molto più ampio rispetto al passato. Preferisco vivere una temperie in cui esistono critici come Olaf Moller, Francisco Ferreira, Jonathan Rosenbaum, Quintin, Kent Jones, Diego Lerer, Jim Hoberman, Richard Brody e Christoph Huber e quelli che chiamo “programmatori critici” come James Quandt, Berenice Reynaud, Nicole Brenez, Javier Porta Fouz, Mark Peranson e Thom Anderson, e in cui vedo costantemente emergere nuovi giovani critici da Toronto a Manila, in grado di conversare su Ford e Lav Diaz allo stesso tempo (e capaci di vedere le connessioni tra i due).

È alla produzione scritta online che dobbiamo guardare se desideriamo esplorare il cinema di Jia Zhang-ke, Raya Martin, Brillante Mendoza, Sharon Lockart, Miguel Gomez, Eugène Green. È a siti come «Senses of Cinema», «Cinemascope» e a blog come quelli di Jonathan Rosenbaum che dobbiamo rivolgerci per leggere le analisi più interessanti sul cinema contemporaneo e le sue evoluzioni. E se uno studioso come Rosenbaum accetta di pubblicare su «Filmidee», magazine online fondato da due persone a lui sconosciute, una delle riflessioni più acute sulle trasformazioni in atto in campo critico (di seguito riportata nel volume, nda) forse vale la pena domandarsi: su quali basi possiamo affermare che, oggi, la pubblicazione di uno studio su una rivista cartacea dà più lustro e ha più facoltà di raggiungere i propri destinatari rispetto a una sua diffusione in rete? In ogni caso, come sostiene Adrian Martin, “scrivere di cinema e farsi pubblicare i propri scritti non è mai stata un’attività remunerativa, piuttosto una vocazione privata, spesso sostenuta da altri impieghi o da sovvenzioni occasionali. Questa è la vera storia della critica cinematografica, in tutta la sua gloriosa spinta amatoriale”. Tutto è cambiato, dunque, ma forse niente è davvero cambiato. Ci sentiamo più soli ma non lo siamo: siamo in tanti, più di quanti siamo mai stati, e siamo ovunque. Tutto ciò che era solido si è dissolto, per prendere una nuova forma.

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JONATHAN ROSENBAUM

SCRIVERE DI CINEMA IN RETE Riflessioni personali1

Una parte di me capisce perfettamente perché un minimalista come Jim Jarmusch e una figura ottocentesca come Raúl Ruiz non intendano avere niente a che fare con l’email. Ruiz una volta mi ha detto: “Le mail non hanno odore”, spiegando così parte della sua avversione. Più difficile è provare nostalgia nei confronti della critica cinematografica prima dell’avvento di Internet, perché anche se aveva un odore era davvero poca quella rintracciabile al di fuori di alcune librerie universitarie ben fornite. Allo stesso modo, la scelta di film che si potevano vedere fuori da New York o Parigi prima del dvd era molto più ristretta, persino più casuale e confusa di ciò che si poteva leggere al riguardo. Le due evoluzioni non vanno considerate separatamente. L’incremento della scrittura riguardante il cinema sul web – magazine online, siti di riviste e giornali, gruppi di discussione e blog – si è evoluta parallelamente ad altre strutture di condivisione dedicate alla cultura cinematografica e ritengo che ciò sia più rilevante del declino della distribuzione in sala di film indipendenti e “d’arte”. Quando ero un giovane cinefilo nella New York dei primi anni Sessanta, le più importanti riviste di cinema scritte in inglese erano quelle che raccoglievano intorno a sé i contributi più diversi: «Sight and Sound», «Film Culture» e «Film Quarterly». Anche una rivista più locale e partigiana come «New York Film Bulletin» traduceva testi dei «Cahiers du Cinéma». Il mondo del cinema allora era più piccolo e gran parte della nostalgia per quell’epoca ha sicuramente a che fare con una sensazione di intimità. Quando la 1

Per gentile concessione di Jonathan Rosenbaum; pubblicato originariamente su Film Quarterly, vol. 60, no. 3, marzo 2007; rivisto e aggiornato nell’agosto 2009, ora su www.filmidee.it, #1, traduzione e note del redattore di Alessandro Stellino.

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critica cinematografica ha cominciato a diffondersi in rete, si era ormai stabilmente insediata in ambito accademico e giornalistico, istituzioni che si sono spesso comportate in maniera indifferente nei confronti l’una dell’altra, quando non platealmente ostile. La presunta “età dell’oro”, dunque, deve essere stata precedente a questa istituzionalizzazione. Significativamente, gli sforzi più convincenti nel disseminare la critica cinematografica all’interno del web non sono arrivati né dagli Stati Uniti né dalla Gran Bretagna ma dall’Australia – in particolare l’accademico «Screening the Past», fondato a Melbourne nel 1997 dallo studioso di belle arti Ina Bernard, e il più giornalistico «Senses of Cinema», fondato nella stessa città dal filmmaker Bill Mousoulis nel 1999. Entrambe le pubblicazioni vanno alla grande, hanno rispettivamente pubblicato 29 e 58 edizioni (dato aggiornato al maggio 2011, ndr) e continuano a conservare nel loro archivio online tutte le precedenti, benché «Senses of Cinema» abbia subito numerose modifiche dalla partenza di Mousoulis nel 2002 e un altro editor, il critico Adrian Martin, sia fuoriuscito per fondare il non meno ambizioso «Rouge» nel 2003 (l’ultimo numero è del 2009, ndr). È facile ipotizzare che tale concentrazione australiana sia fiorita grazie a una film community locale altamente sviluppata e interattiva, al desiderio di essere riconosciuti e allo stesso tempo di comunicare con il più ampio mondo della cinefilia. Altri siti estremamente utili, considerati ormai punti di riferimento (si tratta di una breve lista aggiornata nel 2009), includono gli accademici «film-philosophy.com» (l’ultima pubblicazione, dedicata a Baudrillard, è del 2010) e «filmstudiesforfree.blogspot.com» e, negli Usa, il giornalistico (e particolarmente attento nei confronti dell’industria) «moviecitynews.com», «theauteurs.com» (poi «MUBI», ndr) e «girishambu.com», tutti validi nell’indirizzare verso altri siti. Ci sono poi le versioni web di riviste specializzate («Sight and Sound», «Film Comment», «Cineaste», «Cinema Scope») che offrono estratti delle edizioni stampate, e siti che hanno rimpiazzato in toto la propria versione cartacea, come «Bright Lights». La mia conoscenza di blog e gruppi di discussione è più limitata, ma almeno un paio vanno menzionati. Tra i blog di critici più notevoli ci sono quelli dedicati in inglese a Serge Daney («sergedaney. blogspot.com») e a Raymond Durgnat (ormai rimosso), e quelli curati da Fred Camper, Steve Erickson, Chris Fujiwara e Dave Kehr

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J. Rosenbaum - Scrivere di cinema in Rete

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(il mio sito web «jonathanrosenbaum.com» è stato lanciato nel maggio 2008). E i principali gruppi di discussione dei quali sono a conoscenza sono l’autoriale «a film by», «film and politics» (nato come scheggia del precedente, su Yahoo), e alcuni gruppi separati situati sull’elaborato sito wellesnet.com («the Orson Welles web resource»). Quest’ultimo richiama alla mente una trafila di altri siti dedicati a singoli registi, tra i quali alcuni davvero notevoli, come quelli su Robert Bresson, Carl Dreyer, Jonas Mekas e Jacques Tati. Quanto è vasto il pubblico di queste fonti? Klaus Eder, a lungo segretario generale di FIPRESCI, l’organizzazione internazionale dei critici, mi ha detto qualche tempo fa che «Undercurrent» – una rivista online fondata nel 2006 da Chris Fujiwara con all’attivo solo tre numeri – aveva centomila lettori al mese. Considerando il livello di specializzazione della rivista – che si è occupata del critico cinematografico Barthélemy Améngual, di Alexander Dovzenko, della recitazione in Madigan di Don Siegel, di cinema austriaco, del sound designer Leslie Schatz e ha pubblicato saggi su Cameron Crowe, Philippe Garrel, Danièle Huillet, Terrence Malick, Park Chan-wook e Tsai Ming-liang – e considerando che i suoi centomila lettori sono più di tutti quelli che leggono le riviste cartacee messi insieme, l’informazione è sorprendente, oltre che foriera di incredulità. Era difficile far quadrare questa cifra con quella fornitami da Gary Tooze riguardo un mio recente articolo intitolato “Ten Overlooked Fantasy Films on DVD (and Two That Should Be!)” sul suo sito più commerciale «DVD Beaver» (dove ha stimato circa diecimila click durante la prima settimana in cui è stato postato l’articolo). Ma quando Klaus ha aggiunto che il tempo medio che ogni lettore trascorre su «Undercurrent» è di circa due minuti, ho compreso che il mio stupore era prematuro e che la sovrapposizione di due griglie incompatibili – una riguardante gli abbonati e i lettori di riviste come i «Cahiers du cinéma», «Film Quarterly» e «Sight and Sound», l’altra dedicata ai navigatori del web – poteva condurre solo a conclusioni confuse. E non credo che un paragone con «DVD Beaver» sia particolarmente significativo, dal momento che non conosco il tempo di permanenza dei lettori sul sito. Recentemente ho anche saputo da David Bordwell che il suo sito «davidbordwell.net» “riceve quotidianamente tra i 250 e i 450 visitatori unici, con una media di 2-3 pagine aperte da ciascuno.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

La maggior parte dei visitatori arrivano sul sito per la prima volta, e circa 60-100 ci ritornano. Come prevedibile, si tratta in gran numero di europei o americani”. Non credo si possano mettere in relazione queste cifre con quelle delle vendite dei libri di Bordwell (che non gli ho chiesto), e non sono nemmeno sicuro che sia significativo paragonare il suo sito a «Undercurrent», data l’ampiezza di argomenti ricercati dai navigatori del web. Bordwell si serve del suo sito soprattutto per ampliare o aggiornare i propri scritti cartacei, un atto che fa riferimento a funzioni qualitativamente differenti da quelle dei suoi lavori pubblicati. Partendo da queste considerazioni, ho cominciato a comprendere che le affermazioni riguardo l’estinzione della critica cinematografica e quelle di tipo opposto, relative all’inizio di una nuova epoca d’oro, sono ugualmente mistificanti se ritengono che la critica cinematografica in quanto istituzione funzioni nella stessa maniera sulla carta e sul web, come fossero due versioni della stessa cosa, anziché trattarsi di due iniziative differenti. I dibattiti relativi alla distribuzione di film stranieri nel mondo anglofono (in via di drastica riduzione nelle sale e in aumento esponenziale in dvd), alla sofisticazione di giovani cinefili riguardo la storia del cinema (in crescita stando alcuni gruppi di discussione, in declino stando ad altri), alla cifra dei film realizzati (ancora più difficile da determinare se film e supporto video vengono considerati intercambiabili), appaiono ugualmente incoerenti per la disparità dei punti di riferimento e trasformano in una Torre di Babele molte discussioni interessanti. Il fatto di non sapere se qualcuno che dice “ho visto un film” l’ha visto su un grande schermo insieme ad altre centinaia di persone o da solo su un laptop (o se ha visto un film o un dvd, a prescindere dal luogo in cui l’ha visto) è un aspetto centrale della nostra relazione alienata nei confronti del linguaggio. In breve, stiamo vivendo un periodo di transizione dove enormi mutamenti paradigmatici dovrebbero dare vita a nuovi concetti, nuove terminologie e nuovi metodi di analisi e valutazione, per non dire nuovi tipi di informazione politica e sociale, così come nuove forme di comportamento. Nella maggior parte dei casi non succede nulla di tutto ciò: ci affidiamo ancora a vocabolari e schemi di pensiero legati alla maniera in cui vedevamo i film mezzo secolo fa. Se consideriamo brevemente anche solo la questione riguardante l’etichetta in uso nelle mail o nei gruppi di discussione, incappiamo

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J. Rosenbaum - Scrivere di cinema in Rete

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in uno sconfortante assortimento di nuovi modi di comportamento. Se spedire una mail a qualcuno può a volte avere a che fare con il tipo di intimità che associamo al sussurro, esistono anche nuove forme di brutalità interpersonale che emergono periodicamente nei gruppi di discussione e obbligano i moderatori di tali gruppi a imporre standard di civiltà tra i membri. Anche la definizione di “straniero” ha subito una notevole trasformazione all’interno dei gruppi di discussione e alcuni di noi non sono ancora riusciti a trovare il corretto comportamento all’interno di tali contesti. Al fine di comprendere nuove esigenze che i vecchi sembrano incapaci di imparare, può essere utile tentare di ridefinire il concetto di comunità in relazione alla geografia, centrale all’interno di questi sviluppi. Diventa rilevante, ad esempio, il fatto che Fujiwara editi «Undercurrent» da Tokyo così come da Boston, e che l’editor di «Film Quarterly», pubblicata dall’University of California Press, svolga il suo lavoro a Londra – e forse anche il fatto che questa frase sia stata scritta su un aereo tra Chicago e Vancouver – specialmente se continuiamo a considerare il contenuto di entrambe le riviste come indirizzato a un pubblico specifico con una base geografica definita in relazione a una particolare nazione, città, università o istituzione. Essendo io una persona che sente di vivere più su Internet di quanto non viva a Chicago, considero tale distinzione di enorme rilevanza riguardo la maniera in cui funziono come scrittore. Forse è rilevante anche il fatto che «Rouge», la più ambiziosa tra le riviste di critica cinematografica online (i suoi testi vengono tradotti in inglese da fonti cinesi, francesi, tedesche, italiane, spagnole, portoghesi) abbia avuto origine in Australia. O quanto meno grazie a tre editor australiani, che in qualunque momento potrebbero trovarsi in Francia, in Grecia o altrove mentre svolgono il proprio lavoro. Ma se ciò è rilevante in parte lo è perché l’Australia è un paese multiculturale, dove esiste un canale televisivo statale multiculturale, SBS, praticamente unico al mondo. Sono convinto che il concetto stesso di nazione stia diventando obsoleto e disfunzionale, fatta eccezione per gli interessi di politici e corporazioni e la loro concezione dei singoli Paesi in qualità di mercati. È sconcertante sapere che il fatto che il resto del mondo detesti George W. Bush almeno quanto me sia stato liquidato come irrilevante all’interno della strategia politica del Partito Democratico,

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Le nuove forme della cultura cinematografica

così che gli Stati Uniti paiono più isolati dal resto del mondo di quanto lo fossero all’epoca della Guerra Fredda, nonostante Internet offra possibilità di comunicazione e interazione un tempo impensabili. E se riduciamo questo incredibile paradosso alle dimensioni più ridotte della comunità cinefila, sono evidenti le stesse anomalie. Le possibilità di scelta per l’appassionato medio di cinema si stanno restringendo nello stesso tempo in cui i tesori della cinematografia mondiale sono per la prima volta disponibili a livello internazionale in dvd. Parte del problema nello stabilire le nuove condizioni riguarda una vecchia abitudine che tende a considerarle di riflesso come buone o cattive – il che è altrettanto futile quanto arrivare a una conclusione semplicistica riguardo la globalizzazione. Lasciate che vi illustri questo concetto per mezzo di alcuni aneddoti personali. Poco dopo l’11 settembre 2001 sono stato invitato dall’editor del «Chicago Reader» a scrivere qualcosa sulle conseguenze dell’evento. Dopo la sua decisione di non pubblicare il mio articolo ho ricevuto una richiesta simile da «Senses of Cinema», a cui ho spedito lo stesso articolo, leggermente rivisto. Avevo scritto della mia paura riguardo il terrorismo, tanto americano quanto mediorientale – riferendomi agli americani che avevano improvvisamente cominciato a pensare allo scomparso World Trade Center come se fosse una loro proprietà privata e agli attacchi dell’11 settembre come fossero semplicemente, e senza ambiguità alcuna, un “attacco all’America”, consentendo così ai terroristi mediorientali e alle loro posizioni di dettare i termini della discussione e, di conseguenza, rendendo irrilevanti i non americani di otto differenti Paesi morti nell’attacco. Ero particolarmente infastidito da un manifesto con una bandiera americana e sopra le parole “11 settembre 2001/non dimenticheremo” posto in fronte al palazzo in cui vivo a Chicago da un inquilino che non si era preoccupato di avvisare nessuno degli altri residenti dell’edificio. Consapevole del fatto che le bandiere vengono spesso usate per intimidire, per chiudere conversazioni e non per aprirle, ho obiettato alla successiva riunione condominiale che “non dimenticheremo” in questo contesto significava che non avremmo dimenticato tutti i nonamericani uccisi – al qual punto il mio vicino ha abbandonato la stanza rifiutandosi di discutere oltre l’argomento, con il risultato che il manifesto è rimasto lì dov’era per numerose settimane. Ero

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tentato di attribuire parte di quel terribile clima a un certo “narcisismo del lutto” che un regista tedesco mi ha menzionato di recente in relazione ad alcune sua amicizie newyorkesi. Poco più di un’ora dopo che il numero di «Senses of Cinema» contenente il mio articolo è apparso online, ho ricevuto una email offensiva da parte di un critico di New York che conoscevo solo superficialmente il quale mi scriveva, in un impeto di rabbia, che non avevo nessun diritto di accusare gente come lui di essere narcisisti nei confronti del lutto quando dal suo appartamento poteva ancora sentire l’odore della cenere della carne bruciata. Avevo a che fare con tre irreconciliabili e disparate definizioni di comunità allo stesso tempo: una sensazione di censura, repressione e intimidazione nell’edificio in cui vivevo; una capacità di esprimere liberamente e apertamente questa sensazione e condividerla con altre persone grazie a un sito situato dall’altra parte del pianeta; e un’altra, quasi traumatica, nel venire assalito da una mia conoscenza a 800 miglia di distanza per aver espresso quel medesimo sentimento. La prima e l’ultima di queste esperienze erano da incubo e distopiche, la seconda utopica, e le ultime due possibili solo grazie a Internet, poiché non riesco a immaginare che la mia conoscenza newyorkese mi avrebbe mai telefonato per comunicarmi lo stesso messaggio. E solo la prima corrispondeva geograficamente al luogo in cui mi trovavo. Il secondo aneddoto riguarda la recente dipartita di Danièle Huillet e la maniera in cui è stata ricevuta da numerose persone su «a film by». Poco dopo aver appreso questa notizia sconvolgente (datami per telefono da un collega di New York, Kent Jones) ho postato l’informazione sul gruppo di discussione e per le successive 24 ore i commenti sono stati abbastanza limitati. Ma quando hanno cominciato a esserci erano dettagliati e ad ampio spettro e venivano da località distanti come Los Angeles, Parigi, il Midwest statunitense e Melbourne. Includevano foto della Huillet da piccola, ai tempi in cui viveva in una fattoria, che non sapevo nemmeno esistessero, informazioni relative al primo video digitale di Straub-Huillet (che poi ho scoperto essere disponibile online), link a un articolo di «Libération» e parecchi testi precedenti scritti in inglese – oltre che una dettagliata (e controversa) discussione riguardo un necrologio scritto da Dave Kehr per il «New York Times», un necrologio che plausibilmente non sarebbe stato scritto se la notizia relativa alla morte di Danièle Huillet non fosse stata postata su «a film by».

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Le nuove forme della cultura cinematografica

In generale, il tipo di discorso e comportamento vigente in «a film by» va dalle news all’analisi critica, passando per infantili e protratti scambi di insulti – un mix che non è certo ristretto ai gruppi di discussione dedicati al cinema e che può essere caratterizzato come riguardante i partecipanti occasionali e quelli abituali (o compulsivi) – coloro che li visitano periodicamente e quelli che sembrano fare poco altro a parte scambiare commenti. Significativamente, questo gruppo in particolare è stato formato inizialmente dai critici Fred Camper e Peter Tonguette per contrastare il comportamento poco educato regnante negli altri gruppi di discussione cinematografici e nonostante continui a essere costantemente monitorato ciò non ha escluso periodiche ricadute nell’invettiva, capaci di sovrastare qualunque tipo di comunicazione. Sarebbe interessante conoscere il parere di psicologi e/o psicanalisti sulle derive psichiche e i “complotti di famiglia” espressi in questi scambi, le cui forme di comportamento paiono essere specifiche del mondo di Internet e minano periodicamente le sue potenzialità più utopicamente progressiste. Grazie al sito «cimema-scope.com», dove firmo regolarmente una rubrica intitolata “Global Discoveries on DVD”, ho ricevuto una delle più eccitanti illuminazioni riguardo le possibilità inerenti lo scrivere di cinema sul web. Per qualche tempo ho fantasticato che i cineclub, uno degli sproni maggiori della cinefilia francese nel corso dell’ultimo secolo, potessero fare ritorno grazie ai dvd, stavolta in termini globali. I nuovi cineclub sarebbero potuti nascere ovunque, in abitazioni e appartamenti così come nei negozi; un modello di configurazione ideale sarebbe potuto essere quello delle “retrospettive” mobili in dvd, con i dvd venduti alle proiezioni (magari insieme a pamphlet e/o libri di rilievo), così come i cd vengono venduti dai gruppi musicali durante le esibizioni. Se si riuscisse a mettere in piedi un circuito abbastanza ampio di retrospettive organizzate in questa maniera, ciò potrebbe contribuire in maniera decisiva a finanziarne la produzione. In qualche modo questo sogno è già diventato realtà negli Stati Uniti grazie a «moveon.org» e al modo in cui il sito ha organizzato proiezioni private dei documentari di Robert Greenwald (Uncovered, Out-Foxed, Wal-Mart e Iraq for Sale) anche se la formula non sembra aver avuto fortuna con altre forme di film. Mentre partecipavo al Festival di Mar del Plata, la scorsa pri-

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J. Rosenbaum - Scrivere di cinema in Rete

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mavera, ho incontrato un insegnate e studioso di Córdoba, Roger Alan Koza, che aveva messo in piedi alcuni cineclub in piccole località che visitava regolarmente: i film scelti per le proiezioni erano tra i più ricercati di cui mi sia mai capitato di scrivere, come The House Is Black di Forough Farrokzhad (1962) e Checkov’s Motifs di Kira Muratova (2002). Il pubblico di queste singole proiezioni, nel complesso, ammontava a 7/800 unità. Considerando quanto è difficile riempire un singolo auditorium di tale capienza nelle nostre città maggiori per proiezioni simili, ho compreso che i paradigmi in perenne cambiamento di questi tempi sono in grado di trasformare anche quello che siamo abituati a considerare il gusto di una minoranza. Una volta che muta il paradigma di una singola zona geografica, tutto può mutare. Forse il film più folle di Kira Muratova è troppo difficile per la maggior parte dei newyorkesi, ma una volta che può essere disponibile in tutto il mondo su un dvd sottotitolato, tutto diventa possibile, compreso il fatto che venga visto da un grande numero di spettatori a Córdoba, in Argentina.

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GIRISH SHAMBU

SULLA CRESTA DELL’ONDA L’esperienza della nuova cinefilia1

La cinefilia è nel pieno di una straordinaria rinascita globale. Non che sia mai scomparsa: è stata presente sin dal momento della nascita del suo medium di riferimento. Quando noi occidentali ne tracciamo la storia, di norma localizziamo la sua prima, distinta incarnazione nella Francia degli anni Venti. Louis Delluc e Jean Epstein sono le figure chiave associate a quel momento storico. L’ondata successiva appartiene agli anni Cinquanta e ha avuto luogo sempre in Francia, nel decennio precedente la Nuovelle Vague. Ma prima di proseguire è necessario farsi una domanda: che cos’è un “cinefilo”? Che cosa lo differenzia da un semplice appassionato di cinema? Entrambi vedono tanti film ma, al di là di questo, traccerei una linea: la cinefilia comporta un interesse attivo nel discorso intorno ai film. Non solo guardare film, dunque, ma anche pensare, parlare e scrivere di film, nelle forme più svariate, non importa quanto standardizzate: sono tutte attività importanti per il cinefilo. Nel suo recente e fondamentale Goodbye Cinema, Hello Cinephilia, Jonathan Rosenbaum fa coincidere entrambi i fertili periodi della cinefilia francese con una forte affinità nei confronti della scrittura e del discorso letterario. Cita l’esempio di Godard, per il quale fare film è già un atto di critica cinematografica. Oltre alla stretta connessione tra cinefilia e scrittura, i due periodi avevano in comune il fatto che il numero dei cinefili intenti a scrivere di cinema era superiore a quello dei loro lettori. Inoltre, quei critici-cinefili erano in gran parte localizzabili in una manciata di grandi città caratterizzate da un vivace dibattito culturale. 1

Taken Up by Waves: The Experience of New Cinephilia è stato pubblicato sul sito «New Project: Cinephilia», traduzione di Alessandro Stellino, ora su www.filmidee.it, #1.

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Le nuove forme della cultura cinematografica

Tale aspetto è rimasto valido per tutto il corso del Novecento. Ma con l’arrivo del nuovo secolo, Internet e la rivoluzione digitale hanno radicalmente modificato le regole del gioco rendendo possibili almeno tre cose: un gran numero di cinefili, di qualunque provenienza, ha potuto pubblicare sui blog parole, immagini e suoni; allo stesso tempo, ha improvvisamente avuto accesso a un’ampia quantità di dvd provenienti da tutto il mondo, spediti e ricevuti per posta; valide risorse come l’impagabile pagina Twitter di David Hudson, thedailyMUBI, Facebook e i RSS reader hanno contribuito a rendere la vita da lettori dei cinefili più gestibile ed efficiente. La “nuova cinefilia” supportata da Internet e dai media digitali non è solo differente da quelle che l’hanno preceduta in termini quantitativi, in riguardo al volume di materiale generato e messo a disposizione dei cinefili. È anche qualitativamente differente. Qual è, dunque, l’esperienza della cinefilia ai tempi di Internet? Cosa la contraddistingue e la rende nuova? Quali sono le sue meraviglie? E quali i suoi rischi e pericoli? Mediatori I mediatori di Gilles Deleuze, pubblicato nel 1985, è uno dei miei saggi preferiti e penso che esprima bene il modo in cui funziona la cinefilia su Internet, anche se il testo non fa alcun riferimento al cinema, alla cinefilia o a Internet. Nel suo saggio, Deleuze si occupa del movimento nelle discipline sportive. Tradizionalmente, la nostra concezione del movimento pone all’origine l’individuo, in quanto sorgente. Si pensi alla corsa, al lancio del giavellotto o al lancio del peso: l’individuo è sempre il punto di partenza, la sorgente dell’energia, e crea da solo la potenza e lo slancio. Ma poi Deleuze sottolinea la popolarità crescente di discipline come il surf, il windsurf o il deltaplano, che fanno pensare al movimento in maniera diversa. Questi sport sono caratterizzati dall’inserirsi dell’individuo all’interno di un’onda preesistente. L’individuo, dunque, non è più l’unica sorgente del movimento. Per di più, viene a mancare un punto d’origine in grado di fungere da scaturigine del movimento. Di fatto, ciò che avviene in queste discipline è una sorta di messa in orbita.

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G. Shambu - Sulla cresta dell’onda

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Secondo tale concezione, il movimento chiave è costituito dall’immissione all’interno di una grande onda, di una colonna di aria ascendente, che unisce l’individuo a qualcosa di più grande e più potente. Deleuze chiama queste grandi onde “mediatori”. Deleuze dice questo: sta a noi entrare a fare parte delle onde che ci circondano, posizionarci nel percorso di questi mediatori, di queste onde di pensiero, creazione e riflessione che ci turbinano intorno in continuazione. Più pensiamo, viviamo e lavoriamo isolati, più è difficile muoversi in consonanza con se stessi. Ma con l’aiuto dei mediatori possiamo essere catturati in forze molto più potenti di noi ed esse possono aiutarci a pensare e fare cose che non avremmo mai fatto o a cui non avremmo mai pensato da soli. Questo, per me, è il grande modello di Internet. Come cinefilo, è nel web che, ogni giorno, incontro le mie grandi onde – i miei mediatori: sui blog, su Facebook, Twitter, su riviste, giornali e altri siti. Svariate volte, nel corso della giornata, mi conducono da un’idea a un’altra, da un film all’altro, da una scintilla di curiosità a un’altra. Come funzionano i mediatori Da quanto ho potuto capire, i mediatori della cinefilia su Internet appaiono per mezzo di piccoli, brevi incontri e agiscono da stimolanti. Una discussione su Facebook o una coda di messaggi su Twitter può spingermi ad aggiungere un altro dvd al mio elenco; un riferimento sul post di un blog può farmi venire voglia di richiedere un articolo per mezzo del prestito interbibliotecario; una fugace allusione raccolta in una conversazione via mail può farmi aprire un libro che possiedo da tempo per leggere un saggio che non sapevo vi si trovasse; un’osservazione letta all’interno di una recensione può stimolarmi a dare una nuova lettura di un regista familiare. Ogni giorno, può capitarmi di fare una dozzina di questi incontri che funzionano come piccoli stimolanti, aprendo porte verso nuovi film, scritti o idee; mi fanno crescere in qualità di cinefilo e critico. Internet ha improvvisamente reso possibile l’esistenza di una nuova, ampia comunità di mutuo insegnamento e apprendimento, una comunità che include persone conosciute (come accade su Facebook) e sconosciute (come accade su Youtube). Prima dell’avvento di Internet, la comunità di appassionati di cinema era composta da

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Le nuove forme della cultura cinematografica

pochi critici che scrivevano per un gran numero di cinefili. Ma sul web il numero di lettori e scrittori (colleghi insegnanti e colleghi allievi) è esploso. Combinate questo dato con la frequenza accelerata e quasi stordente degli incontri con i mediatori – ogni giorno, e a qualunque ora – e realizzeremo di avere enormi possibilità il cui unico aspetto negativo è proprio la loro iper-abbondanza. Alcuni esempi Per ora ho parlato in maniera astratta ed è utile riportare alcuni di questi “incontri con i mediatori” occorsi di recente. Ciascuno ha risvegliato la mia curiosità, mi ha regalato un’intuizione o ha in qualche modo espanso la mia consapevolezza: 1) L’affascinante resoconto di Jonathan Rosenbaum riguardo gli alti e bassi della sua interazione con François Truffaut e il conseguente impatto di tali scambi sulla critica relativa a Welles. 2) Adrian Martin che, nella recensione del nuovo, epico film di Raúl Ruiz, Misterios de Lisboa, scrive: “In molti Paesi, oggi, assistiamo al ripetersi di una logica prettamente borghese e stucchevolmente sospetta: che la meravigliosa forma della lunga narrazione televisiva ci ha riportato, in un colpo solo, all’Epoca d’Oro del romanzo ottocentesco!”. 3) L’elegante video saggio di 7 minuti di Christian Kathley, Pass the Salt che analizza con estrema attenzione un momento del film di Otto Preminger Anatomia di un omicidio (1959). È un magnifico esempio di critica cinematografica che impiega le stesse risorse del cinema (immagine e suono, montaggio e primo piano). 4) David Bordwell che nel suo stimolante articolo Accademici contro Critici sostiene: “Il tipico pezzo scritto da un cinefilo risponde a questa domanda: ‘Quali qualità distintive posso riconoscere in questo film e in che maniera arricchiscono la nostra consapevolezza del suo valore?’. La tipica interpretazione accademica sarebbe invece domandarsi: ‘Quali aspetti del film sono illuminati dalla mia struttura teorica di riferimento?’”.

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G. Shambu - Sulla cresta dell’onda

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5) Il pezzo di Ignatiy Vishnevetsky su Severed Ways di Tony Stone (2007), cineasta di cui non avevo mai sentito parlare, “un incrocio tra Los Muertos, la bobina finale di L’ultimo dei Mohicani, il cinema didattico di Rossellini, il sensazionalismo alla Denis e la massima di Straub ‘la natura possiede dieci milioni di volte più fantasia del più fantasioso degli artisti’”. 6) I termini coniati da Zach Campbell: “film reversibili” (The Matrix, 300 o V per Vendetta che veicolano furbescamente e in maniera semplicistica ideologie contraddittorie) e “film diffusi” (politicamente confusi e consapevoli di esserlo, come District 9 e Splice). 7) La recensione di Dave Kehr del dvd di Samuel Fuller Verboten (“Nelle mani di Fuller, ciò che a prima vista potrebbe sembrare un errore di gusto si trasforma in una visione del mondo”). 8) La recensione di Chris Fujiwara della retrospettiva su Nicholas Ray che ricorda il paragone di Godard tra Bitter Victory e una “illusione ottica” (“Lo spettatore non è più interessato negli oggetti ma in ciò che c’è tra essi e si trasforma a sua volta in oggetto”), al quale Fujiwara aggiunge: “Ogni film di Ray crea percorsi nascosti in piena vista”. 9) Il notevole post-collage di Mubarak Ali sui film di Mani Kaul e Kumar Shahani, con testi dei registi, di Jacques Rancière, Laleen Jayamanne, Geeta Kapur – con l’aggiunta clip audio! Il cinefilo del 21esimo secolo Negli ultimi due decenni è avvenuta una profonda trasformazione nella relazione tra il cinefilo e i suoi due principali oggetti di interesse: i film e il discorso che li riguarda. Prendiamoli in esame uno alla volta. Cinquant’anni fa, all’apice della cinefilia rappresentata dalla Nouvelle Vague, vedere un film significava quasi sempre vederlo in una sala. I termini di questa visione, o quello che i francesi potrebbero chiamare “dispositivo” – il luogo, la durata e l’organizzazione

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Le nuove forme della cultura cinematografica

spaziale dell’esperienza visiva – non erano determinati dallo spettatore ma da qualcun altro (l’esercente, piuttosto che il curatore). Questo contratto richiedeva al cinefilo una sorta di resa, una sottomissione nei confronti dei termini di visione imposti. Inoltre, un gruppo di cinefili – quelli che componevano l’audience della proiezione – partecipava di questo contratto contemporaneamente, socialmente. Tali condizioni producevano un’“interrelazione prolungata” con il film. Lo spettatore era messo nelle condizioni di prestare piena attenzione al film nel buio della sala buia e di restarvi fino alla fine, la sua perseveranza premiata dall’evidenza di suono e immagine sullo schermo, dalla possibilità di immergersi nei dettagli favorita da tali condizioni. Oggi le condizioni proprie di questa esperienza visiva sono radicalmente cambiate. Quasi tutti i cinefili – anche quelli che vivono in grandi città e hanno a disposizione una moltitudine di opzioni – tendono a guardare un buon numero di film sugli schermi della tv o del computer. Per di più, il nuovo “dispositivo” cede il controllo allo spettatore e deve adeguarsi ai suoi capricci, al suo umore e alle sue preferenze (Jean-Luc Godard aveva profeticamente previsto tutto ciò quando sosteneva che “quando andiamo al cinema siamo costretti ad alzare la testa, la tv ce la fa abbassare”). Il risultato di queste nuove condizioni è l’indebolirsi delle possibilità che un film venga guardato con piena attenzione dall’inizio alla fine senza interruzioni – in altre parole che tra il film e lo spettatore intercorra una relazione piena e prolungata. Quando la tecnologia ci permette di vedere Playtime di Jacques Tati (1967) o Jeanne Dielman di Chantal Akerman (1975) su un computer, a spizzichi e bocconi, mentre beviamo, mangiamo, interrompiamo e cerchiamo di adattare il film ai nostri comodi, stiamo forse compromettendo fatalmente la nostra abilità di rendergli piena giustizia in quanto cinefili o critici? Questa frammentazione dell’attenzione si applica persino con maggior evidenza, e moltiplicata all’infinito, al secondo oggetto dell’interesse del cinefilo: il discorso intorno al film. I social media – storicamente i blog, poi Facebook e Twitter – spezzettano la discussione critica in una corrente confusa di frammenti sempre più piccoli che si riversano incessantemente da dozzine di fonti diverse. Specialmente con Facebook e Twitter, la transitorietà e l’effimeralizzazione del discorso non sono solo dei rischi, essendo

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G. Shambu - Sulla cresta dell’onda

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connaturati nel profondo al design stesso del software. Diversamente dal blog, Facebook e Twitter non permettono di fare una ricerca in un archivio di post precedenti, frasi o conversazioni. Su questi siti, il presente è la dimensione assoluta e il passato evapora in maniera istantanea. Quanto è drammatica la differenza tra questa frammentazione e la concentrazione prolungata richiesta dal sedersi a lavorare per ore su un singolo libro o saggio, per decenni l’unica modalità di scrittura critica cinematografica? Ma che sia chiaro: non intendo costituire polemicamente un’opposizione binaria tra vecchio e nuovo, richiamando in maniera conservatrice alle unità perdute di una scomparsa epoca d’oro della cinefilia. Al contrario: sono il primo a ritenersi cinefilo grazie a Internet, uno il cui amore per il cinema non sarebbe potuto sbocciare e crescere senza i dvd, i blog, Facebook e Twitter. Gioisco di fronte alla ricchezza di opportunità di apprendimento e scoperta, al proliferare e svilupparsi del discorso sul film, reso possibile da Internet e dagli innumerevoli mediatori che ogni giorno ci mette a disposizione. Una relazione dialettica Non è necessario scegliere un approccio a scapito dell’altro. Anzi, abbiamo bisogno di instaurare una relazione dialettica con il discorso sul film che valorizzi tanto l’attenzione prolungata che si dedica alle forme estese di pratica critica in libri e saggi impegnativi, quanto l’attenzione frammentaria propria dei metodi di lettura e scrittura dell’epoca dei social media. Nel caso della visione cinematografica, però, i termini della relazione tra lettura e scrittura sul web in campo cinematografico rendono decisamente più facile – persino così potentemente allettante – gettarsi a capofitto nel web piuttosto che dedicarsi per un lungo lasso di tempo a un libro o a un saggio particolarmente impegnativo. Sempre di più, la battaglia per la conquista della nostra attenzione si muove in direzione di Internet. Desidero solo che ciò venga riconosciuto e che se ne prenda atto, e che si prendano le misure adeguate per correggere questa direzione, così come faccio io nei miei giorni di intensa cinefilia. Infine, lasciate che vi dica che la rigida polarità proposta appe-

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Le nuove forme della cultura cinematografica

na sopra non regge del tutto. Parte della miglior critica che si può leggere in rete – sui siti di Jonathan Rosenbaum, Catherine Grant o David Bordwell, o su riviste come «Rouge» o «Screening the Past», e risorse come «Moving Image Source» – non opera secondo le regole dei social media. Somiglia piuttosto a quella di artefatti tradizionali, come saggi e libri. In altre parole, Internet offre ampio accesso sia alla forma estesa di critica che a quella breve propria degli scambi di Facebook e Twitter. L’obiettivo è trovare un equilibrio tra i due e distribuire il tempo della nostra giornata in maniera tale che le due modalità si arricchiscano a vicenda.

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GIANNI CANOVA

POSTILLA

Fra testi e testicoli Questo libro contiene un ossimoro che è, al contempo, un paradosso. È un ossimoro perché l’idea stessa di “critica” – a parte certi periodi storici o certe congiunture particolari – è antitetica e inconciliabile con l’idea di rete. Il critico, per sua natura, nel migliore dei casi è un anarchico individualista, nel peggiore un solipsista o un anacoreta. Uno che non è interessato ad altri mondi che a se stesso. E che anche quando sembra parlar d’altro (per esempio, nel nostro caso, di cinema e di film…) in realtà non parla che di sé. Magari con qualche maschera addosso, ma soprattutto di sé. È possibile allora un network di solipsismi? Il buon senso suggerirebbe di no. E tuttavia, proprio per questa sua natura intimamente paradossale, quella di un “critical network” è un’idea che va indagata e meditata con attenzione. Perché per ora designa soprattutto un’occasione perduta, ma in futuro potrebbe anche indicare la strada maestra per lo sviluppo dei discorsi sul cinema che circolano nella rete. Perché un’occasione perduta? È presto detto: quanti fra le migliaia di bloggers, recensori, redattori, grafomani e collaboratori di siti che si occupano di cinema hanno visto anche solo una parte delle Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard? A giudicare dai risultati (cioè da quello che viene scritto, postato, taggato in rete…) si direbbe nessuno. Avessero visto, avrebbero capito che la rete – unita alle tecnologie digitali di produzione e di edizione di immagini e testi – poteva diventare davvero il campo di battaglia da cui far partire un attacco frontale all’impianto logofonocentrico della critica tradizionale (quella che si esprime sulla carta stampata usando la parola scritta o in tv affidandosi alla parola orale…).

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Le nuove forme della cultura cinematografica

Invece anche sul web e nei social network la critica viaggia per lo più con le parole. Godard – già vent’anni fa – era molto più avanti. Procedeva in modo non lineare, per associazioni libere, per attriti, con un rapporto fra parola e immagine sempre sorprendente e spiazzante. In rete, invece, i tentativi di interazione innovativa fra parola e immagine sono pochissimi dal punto di vista quantitativo e disarmanti sul piano qualitativo. Si riducono a un uso della parola didascalico o sentenzioso e a frettolosi “taglia-e-incolla” di poche immagini fisse – sempre le stesse – postate a pioggia in quasi tutti i siti e blog. Nessuno che usi davvero le immagini, che le alteri, le modifichi, le metta in cortocircuito con altre immagini. Nessuno (o quasi) che provi a generare dei crash, o dei cortocircuiti, fra l’apparato iconico del sito (o del blog) e l’arsenale verbale di cui il sito (o il blog) dispone. I tentativi di decostruzione dei materiali filmici (ridoppiaggio o rimontaggio, sul modello – nobile ma ancora novecentesco – del Blob di Enrico Ghezzi) sono praticati in chiave ludica o estetica, mai (o quasi mai…) in chiave critica. Tempo fa mi è capitato di cercare in rete qualcosa su un film recente, remake di un importante western della fine degli anni Sessanta. Speravo di trovare ciò che né sui giornali/riviste né in tv avevo trovato (e che forse nei vecchi media non potevo trovare): un’analisi comparata. Per esempio i due incipit messi uno accanto all’altro, fatti stridere visivamente uno sull’altro, magari con una voice over (la Voce del Critico) che glossasse, alludesse, depistasse, ipotizzasse… Niente di niente. Nient’altro che testicoli improvvisati e imparaticci, per lo più scopiazzati nella forma – l’unica che sembra galvanizzare la rete – della recensione (o della videorecensione): cioè due modi di espressione della critica evidentemente parassitari nei confronti delle vecchie forme elaborate rispettivamente sulla carta stampata o in tv. Come dire: lo “specifico” della rete non produce nulla di specifico nell’ambito della critica cinematografica. Non solo: il web 2.0, proprio per la sua natura social, parrebbe il medium più adeguato a sollecitare una pratica critica il più possibile vicina all’idea di “circolo ermeneutico”, o a quella comunità interpretante che solo nella condivisione di pensieri e linguaggi riesce a diventare produttrice di senso. Anche in questa prospettiva, tuttavia, si tratta di una possibilità lasciata per lo più allo stadio virtuale: invece di sollecitare nuove forme collettive di produzione e verifica del discorso critico, le centinaia di siti, blog e portali che si oc-

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G. Canova - Postilla

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cupano di cinema hanno avuto un solo, primo effetto immediato: quello di legittimare a livello di massa i vecchi vizi che la vecchia critica praticava in precedenza a livello di élite. Quali? Anche qui, è presto detto: la tendenza – che si suggeriva poc’anzi – a parlare di sé invece che del film. Il vizio di fare del film un pretesto per dare risalto alla propria visione del mondo. O – il che è anche peggio – per dar sfoggio della propria (presunta) bravura. E ancora: l’idea che la critica sia un’attività inquisitoria, molto vicina al lavoro del giudice (o del boia): un professionista legittimato dalla società ad emettere giudizi inappellabili di vita o di morte. Con l’aggravante che il giudice deve se non altro aver studiato Legge prima di emettere una sentenza, mentre l’aspirante critico può benissimo non aver studiato nulla e non saper nulla del cinema e della sua storia (e spesso – da quel che si legge in certi blog – non sa proprio nulla…) e sentirsi comunque autorizzato a giudicare. Spesso in tono sprezzante. Assertivo. Apodittico. Lapidario. Perché l’altra abitudine che il web ha consentito e legittimato è l’idea che il linguaggio possa essere violento, riduttivo, semplificato, tribale, e che l’esercizio della critica possa ridursi – alla fin fine – a una presa di posizione dilemmatica fra pollice su/pollice giù, fra mi piace/non mi piace, con un riduzionismo concettuale impressionante che assimila la critica stessa ai ludi gladiatori dell’antica Roma. Se le uniche forme praticate sono la recensione e l’intervista, l’approccio è quasi sempre autoriale. Feticisticamente autoriale. A nulla vale che da più parti si vada ripetendo che è un approccio sterile, e che l’aver trasformato tutti i registi in Autori è uno degli abbagli più nefasti e nefandi che la critica abbia commesso negli ultimi decenni. La critica sul web continua a costruire altarini profumati di incenso al culto tardivo dell’Autore e alla sua maggiore o minore coerenza creativa. Sic. Per finire: la critica sul web è smaniosa di produrre discorsi (giudizi, sentenze, insulti, apologie…) sui film, ma è refrattaria a ragionare di cinema. Sa esprimere giudizi take away sull’ultimo arrivato – poniamo – tra gli Autori del cinema tailandese, ma si trova in imbarazzo se deve spostare la riflessione sul terreno del dispositivo cinematografico o su quel che l’esperienza filmica sta diventando. E poi – come nella vecchia cinefilia dura e pura – anche la critica sul web coltiva la passione esoterica per il prodotto poco noto, spesso appartenente a cinematografie minori o periferiche, quello che perde di interesse non appena viene apprezzato

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Le nuove forme della cultura cinematografica

da un pubblico più vasto. Anche in questo caso – è evidente – il film è solo un pretesto: serve ad aggregare intorno ad esso una comunità di fans, cioè di soggetti idolatrici che si ritrovano nel culto, e che dalla condivisione rituale/iniziatica/esoterica derivano un surplus di garanzia identitaria. Ma la critica, o buona parte di essa – potrebbe obiettare qualcuno – funzionava così anche prima che arrivassero i social network. Appunto: non a caso, all’inizio si parlava di occasione perduta. Di un inerziale adagiarsi del nuovo (la “nuova” critica sui new media) nei peggiori e più usurati binari del vecchio. Nel chiacchiericcio indistinto. Nel brusio che non genera altro che la sorda eco di se stesso. Ma proprio questi limiti rendono ancora più intrigante e suggestivo un volume che va preso, ovviamente, non come una diagnosi del presente o un’acquisizione del passato ma come una possibile meta (un traguardo, un obiettivo) verso cui tendere nell’immediato futuro.

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GLI AUTORI

ROY MENARINI insegna Storia del Cinema presso il Dams di Gorizia, Università di Udine. Ha scritto numerosi volumi sul cinema contemporaneo e non solo, tra cui Ridley Scott – Blade Runner (Torino 2000), Il cinema di David Lynch (Alessandria 2002), William Friedkin (Milano 2003), Il cinema europeo (con M. Comand, Bari/ Roma 2006), Il cinema dopo il cinema (Genova/Recco 2003). Ha curato con Alice Autelitano Dentro la critica (Gorizia 2007). Dirige la rivista «Cinergie – Il cinema e le altre arti». È redattore di «Segnocinema». ALICE AUTELITANO ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi Audiovisivi presso l’Università di Udine, dove attualmente insegna “Storia e tecnica della televisione e dei nuovi media”. È autrice di Cronosismi. Il tempo nel cinema contemporaneo (Udine 2006) e Il cinema infranto. Intertestualità, intermedialità e forme narrative nel film a episodi italiano (1961-1977) (Udine/Lyon 2011). È redattrice delle riviste «Cinergie. Il cinema e le altre arti» e «Cinéma & Cie. International Film Studies Journal» e ha collaborato a numerose pubblicazioni nazionali e internazionali. ANDREA BELLAVITA è ricercatore presso l’Università dell’Insubria di Varese. Redattore di «Segnocinema», collabora con «Duellanti» e «FlashArt». È autore di vari saggi sul rapporto tra cinema e psicoanalisi e di Schermi perturbanti. Per un’applicazione del concetto di Unheimliche all’enunciazione filmica (Milano 2005), di una monografia su Kim Ki-duk (il Castoro, Milano 2006) e di una su Luchino Visconti (Roma 2006). Con Leonardo Gandini ha curato 21x11. Fare cinema dopo l’11 settembre (Recco/Genova 2008).

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Le nuove forme della cultura cinematografica

MARCO BENOÎT CARBONE è dottorando alla University College London nell’ambito degli studi di ricezione e dell’antropologia dei media. Ha studiato a Bologna, impegnandosi nel campo della ricerca accademica, della critica e dell’editoria. Collabora stabilmente con «Segnocinema» ed è tra i fondatori della rivista «GAME - Games as Art, Media, Entertaiment». CLAUDIO BISONI insegna Storia e metodologia della critica cinematografica presso l’Università di Bologna. Si occupa dei rapporti tra critica, estetica e processi culturali. Tra le sue pubblicazioni: Brian De Palma (Recco 2002); La critica cinematografica. Metodo, storia e scrittura (Bologna 2006); Gli anni affollati. La cultura cinematografica italiana (1970-1979) (Roma 2009), Elio Petri. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Torino 2011). Suoi saggi e articoli sono apparsi in volumi collettivi e su varie riviste, tra le quali «La valle dell’Eden», «Fotogenia», «Close-up». LUCA MALAVASI è docente di storia del cinema presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Sì occupa principalmente di cinema italiano e americano, di critica e analisi del film. Tra i volumi pubblicati, Mario Soldati (Milano 2006), Il cinema di Arthur Penn (Recco/Genova 2008), Racconti di corpi: cinema, film, spettatori (Torino 2009). Ha curato Dieci film. Esercizi di lettura (Genova/ Recco 2011). Scrive di cinema e di libri su «Cineforum» e «Pulp». SARA MARTIN insegna “Ideazione e produzione multimediale” al Dams di Gorizia, Università di Udine. È dottore di ricerca con una tesi su cinema e architettura. Scrive su «Cinergie. Il cinema e le altre arti» e coordina il sito www.mediacritica.it . Ha scritto saggi su riviste nazionali e internazionali e collaborato a volumi collettivi su Giuseppe Tornatore e Paul Schrader. DANIELA PERSICO. Critica cinematografica e regista, è tra gli organizzatori di Filmmaker e fa parte della direzione della rivista culturale «Cenobio». Ha collaborato con «la Repubblica» e scrive per «Lo straniero», «Il Giornale del Popolo» e «Panoramiques». È autrice delle monografie dedicate a Claire Simon e Wang Bing, edite da Agenzia X. Nel 2009 ha diretto Et mondana ordinare, pre-

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Gli autori

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sentato a numerosi festival. Con Alessandro Stellino dirige il magazine online trimestrale «Filmidee». ALBERTO PEZZOTTA, saggista e docente, è autore tra l’altro di La critica cinematografica (Roma 2007), Il western italiano (Milano 2012), Tutto il cinema di Hong Kong (Milano 1999). Ha curato (con Anna Gilardelli) Alberto Moravia, Cinema italiano. Recensioni e interventi 1932-1990 (Milano 2010). Ha collaborato alla Storia del cinema italiano (Marsilio), alla Storia del cinema mondiale (Einaudi) e Dizionario dei film di Paolo Mereghetti. Scrive su «Corriere della sera», «Cineforum», «Duellanti», «Ciak». ALESSANDRO STELLINO. Critico cinematografico e scrittore. Ha collaborato con «Ciak», «Segnocinema» e «Nocturno». Scrive per il quotidiano «La Nuova Sardegna» ed è tra gli autori del Dizionario dei film di Paolo Mereghetti. Ha pubblicato il suo primo romanzo, Incendi – Racconto di fine estate, per la casa editrice Il Maestrale. Con Daniela Persico dirige il magazine online trimestrale «Filmidee». MARCO TETI è dottore di ricerca in Modelli, linguaggi e tradizioni nella cultura occidentale. Collabora con la cattedra di Storia del cinema dell’Università di Ferrara. Per Mimesis ha pubblicato Generazione Goldrake. L’animazione giapponese e le culture giovanili degli anni Ottanta (2011). Ha pubblicato inoltre Lo specchio dell’anime. L’animazione giapponese di serie e il suo spettatore (Bologna 2009). Collabora con le riviste «Annali di Lettere di Ferrara», «G|A|M|E» e «Gorgòn». JONATHAN ROSENBAUM e GIRISH SHAMBU appaiono con traduzioni di saggi già editi online per gentile cortesia degli autori e del sito «Filmidee».

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