La crisi dell'individuo 9788881036868

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La crisi dell'individuo
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LaGinestra

·8· Collana diretta da Ferruccio Andolfi e Italo Testa

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Il volume è stato pubblicato con il contributo della Fondazione Cariparma

Si ringraziano Anna Zaniboni e l’Archivio Carlo Mattioli di Parma per la gentile collaborazione In copertina Ginestre di Carlo Mattioli Individuum und Gesellschaft. Entwürfe und Skizze, Gesellschaft. Erste Fassung eines Soziologischen Excurses, Über das Problem der individuellen Kausalität bei Simmel, Die verwaltete Welt oder: die Krise des Individuums Traduzioni di Francesco Peri Individuum und Staat Traduzione di Italo Testa Individuum und Organisation Traduzione di Alessandro Bellan

ISBN 978 88 8103 686 8

© 2010 Edizioni Diabasis prima ristampa 2014 Diaroads srl - vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 – e-mail: [email protected] www.diabasis.it

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Theodor W. Adorno

LA CRISI DELL’INDIVIDUO A cura di Italo Testa

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Theodor W. Adorno

La crisi dell’individuo

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Sub specie individuationis. Gli individui tra resistenza e solidarietà nella ‘nuova antropologia’ di Adorno, Italo Testa

31

Sul problema della causalità individuale in Simmel

53

Individuo e società. Abbozzi e frammenti

99

Il mondo amministrato, o la crisi dell’individuo (con M. Horkheimer e E. Kogon)

121

Individuo e organizzazione

139

Individuo e stato

147

Società. Prima stesura di una delle Lezioni di sociologia

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Questa raccolta

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Sub specie individuationis. Gli individui tra resistenza e solidarietà nella ‘nuova antropologia’ di Adorno Italo Testa

1. Punto focale della teoria critica della società, la riflessione sull’individualità s’intreccia con l’elaborazione delle opere maggiori della scuola di Francoforte a cavallo tra l’inizio degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta, illuminandone gli snodi teorici e i detour decisivi. Gli scritti qui presentati, in particolare, raccogliendo per la prima volta in un solo volume il corpus di saggi, abbozzi e frammenti sull’individuo elaborati da Theodor W. Adorno tra il 1940 e il 19541, lasciano cogliere il ruolo chiave giocato da quest’ultimo nel riorientamento sub specie individuationis del programma teorico elaborato assieme a Max Horkheimer nella «decade produttiva» degli anni dell’esilio americano dell’Istituto per la ricerca sociale2: periodo che avrebbe condotto, tra il 1942 e il 1944, alla stesura a due mani dei Frammenti filosofici, successivamente pubblicati con il titolo Dialettica dell’illuminismo (1947), e quindi, nella seconda metà degli anni Quaranta, alla prosecuzione in solitario, da parte di Adorno, dell’impresa comune, con la composizione dei Minima Moralia, pubblicati infine nel 1951, due anni dopo il ritorno in Germania. Gli inediti adorniani degli anni Quaranta, in particolare, inquadrano nella prospettiva dell’individualità il problema dell’elaborazione metodologica della teoria critica della società (§ 2) e quindi della definizione del suo punto di vista normativo, consentendo inoltre di riscoprire il programma, successivamente abbandonato, di una «nuova antropologia» (§ 3), e di leggere in questa luce il nesso sistematico tra la Dialettica dell’illuminismo e i Minima moralia (§§ 4 e 5). Gli inediti dei primi anni Cinquanta, poi, emergendo dai can-

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tieri di quest’ultima opera e della fenomenologia della individualità offesa quivi articolata, permettono di apprezzare come la questione della crisi dell’individuo borghese nel mondo amministrato sia rimasta per Adorno il nodo centrale per la messa a punto di un modello di teoria critica quale diagnosi delle patologie sociali della modernità e dei suoi dispositivi biopolitici di amministrazione della vita (§ 6). Questa crisi è infine l’occasione non per la liquidazione, bensì per il ripensamento ex novo dell’individualità sia nel suo potenziale critico-negativo – quale nucleo di opposizione e resistenza al dominio – sia nel suo nesso emancipativo con la categoria della solidarietà (§ 7). 2. Negli scritti filosofici dei primi anni Trenta3 Adorno aveva elaborato una visione del metodo filosofico quale Deutung, nel senso di una ermeneutica che, richiamandosi a Freud in funzione contrastiva rispetto all’ermeneutica esistenziale di Heidegger, procedesse materialisticamente alla decifrazione di figure e costellazioni di senso nelle disjecta membra di una realtà sociale disgregata e frammentaria4. Adorno iniziava così a delineare il modello di una teoria sociale non esplicativa, che non punta ad una spiegazione causale della realtà, ma prende invece la forma di una fisiognomica delle forme di vita capitalistiche e delle sofferenze psico-somatiche ad esse connesse5. La critica materialistica della società moderna reificata si richiamava così sia al procedimento micrologico del pensiero per costellazioni dell’amico Walter Benjamin, sia – attraverso quest’ultimo – a una lettura, già al di fuori delle coordinate neokantiane, del procedimento idealtipico di Weber. Il metodo dell’elaborazione di idealtipi esemplari che possano raggruppare in modo nuovo e rendere raffigurabili, intuibili nella loro singolarità, fenomeni eterogenei della realtà sociale contemporanea, trova una messa a punto teorica importante nella conferenza Sul problema della causalità individuale in Simmel (1940),

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tenuta nell’ambito del seminario sociologico della Columbia University di New York, due anni dopo l’arrivo di Adorno nella metropoli statunitense. Il contributo di Simmel ad una «gnoseologia delle scienze sociali» si gioca per Adorno proprio sul terreno dell’individualità (questo volume, p. 40). La «causalità individuale» – intesa fondamentalmente da Adorno quale idea dell’autonomia e della spontaneità della persona – è colta qui quale idealtipo della teoria sociale. Nella concezione simmeliana della causalità individuale quale possibilità logica che non si applica ai fenomeni empirici, Adorno valorizza, al di là del paradosso della formulazione, il motivo di una teoria sociale che non procede con spiegazioni causali sulla falsariga della scienza naturale, ma che piuttosto, intendendo raffigurare la legge individuale dei fenomeni, è volta a decifrare «nessi di significato» esemplari la cui legalità immanente si radica nella «sfera della nostra esperienza dell’individuo umano» (p. 44). L’individualità, dunque, non andrà intesa quale principio causale esplicativo – giacché essa potrebbe spiegare causalmente la storia solo se gli uomini fossero liberi, quali di fatto non sono, essendo sottoposti al dominio – ma piuttosto nel senso di una «idea regolativa» (p. 51), come una possibilità che resta da realizzare, e che proprio per questo consente di raffigurare e criticare come patologiche quelle deformazioni della società contemporanea che ne ostacolano il dispiegamento. Attraverso questa interpretazione, che dovrebbe sciogliere dialetticamente le aporie di Simmel, Adorno installa così l’individualità quale condizione di possibilità della teoria critica6, giacché è in riferimento ad essa che determinati fenomeni sociali possono essere raffigurati teoricamente e criticati quali sue negazioni da abolire7. Ma Simmel è anche il pensatore che per Adorno avrebbe «raggiunto il confine ultimo dell’individualismo e indicato problemi che non possono essere risolti con categorie individualistiche, ma senza riuscire a oltrepassare davvero le limitazioni del punto di vista dell’individualità accidentale»

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(p. 49). Simmel è dunque il pensatore che, facendo saltare dall’interno il nucleo ideologico della concezione borghese dell’individuo che con i suoi presupposti atomistici inficiava le scienze dello spirito, aspira, pur senza riuscirvi, a formulare una teoria sociale che unisca momento sociale e momento individuale. Peraltro la critica della forma falsa e ideologica dell’individualismo – del punto di vista dell’«individuo accidentale» – non mira a liquidare la categoria di individualità, bensì a ripensarla ex novo, liberandone il potenziale emancipativo dai limiti imposti dalle forme correnti di organizzazione che fanno perdurare il contrasto tra gruppo sociale e individuo. La finalità emancipativa della teoria sociale, così, si precisa quale dispiegamento in forma sociale di potenziali individuali altrimenti bloccati e sfigurati. L’eredità di Simmel che Adorno si fa carico di ripensare, infine, non riguarda solo la dimensione critica e il potenziale emancipativo della categoria di individualità, ma investe anche il problema del punto di vista normativo della teoria critica. Quest’ultimo, infatti, si riflette nella prospettiva utopica dell’individuazione completa, cui l’idea di causalità individuale, proprio in quanto tenuta ferma quale possibilità ancora tutta da realizzare, rinvia, e che Adorno si sforza di afferrare nella formula hegeliana del «vero individuo» quale «vero universale» (p. 52). 3. È nel quadro di una diagnosi epocale che l’ipotesi problematica di Simmel viene discussa da Adorno, al di là delle sue difficoltà teoriche, quale espressione della «situazione odierna» e delle patologie dell’individualità ad essa connesse. In questo approccio le nozioni di «individualità», «differenza qualitativa» e «causalità» elaborate da Simmel sono rilevanti quali altrettanti momenti e «categorie fondamentali derivate dal concetto stesso della soggettività» (p. 33). Il problema di far emergere dall’interno dell’esperienza umana gli aspetti ideologici, ma insieme le dimensioni critiche e emancipative dell’individualità – superan-

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do così l’impostazione adialettica ancora presente nel neokantismo di Simmel – condurrà successivamente Adorno a tentare dapprima, con Horkheimer, una ricostruzione genealogica della soggettività occidentale, nell’ampio affresco della Dialettica dell’illuminismo, e quindi, nei Minima moralia, ad una ricostruzione storica della sua situazione attuale. Leo Löwenthal, collaboratore dell’Istituto dal 1926 e amico di gioventù di Adorno, ha scritto una volta che «il sogno teoretico» del circolo francofortese emigrato in America era che alle opere collettive sull’autoritarismo e la famiglia condotte negli anni Trenta facesse seguito un’indagine comune su tutti gli aspetti della caduta dell’individuo nella società borghese8. Questo progetto non si realizzò nella forma vagheggiata, e tuttavia la questione dell’individuo rimase, come sottolinea Löwenthal, il «filo conduttore» delle indagini sue e di Adorno. Possiamo considerare i saggi qui raccolti come frammenti afferenti a quell’opera che non vide mai la luce9. In particolare gli abbozzi e frammenti su Individuo e società, risalenti per lo più ai primi anni Quaranta10, portano in luce il problema dell’ascesa e della crisi di un certo modello di esperienza individuale quale filo conduttore che interseca i diversi piani di discorso sviluppati nella Dialettica dell’illuminismo – i cui anni di composizione si intrecciano con quelli di Individuo e società – e nei Minima moralia. La diagnosi epocale della soggettività che Adorno affronta in Individuo e società si avvale dei risultati degli Studi sull’autorità e la famiglia (1936) e delle analisi delle trasformazioni del capitalismo promosse dalla «Zeitschrift für Sozialforschung», l’organo in cui il gruppo dell’Istituto rende note le sue ricerche dal 1932 al 1941. La crisi della struttura autoritaria della famiglia borghese quale agenzia di mediazione tra società e individuo – a seguito delle trasformazioni strutturali che vedono il passaggio dall’ottocentesco capitalismo concorrenziale dei capitani d’impresa al capitalismo monopolistico dei grandi trust e agli esperimenti collet-

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tivistici degli anni Trenta – è l’elemento decisivo che produce la scomparsa di quella forma di individualità autonoma che aveva la sua base sostanziale nella proprietà privata dei mezzi d’impresa e la cui individuazione si compiva dapprima tramite la socializzazione familiare. La disarticolazione della vita individuale è così la chiave per decifrare le patologie sociali del presente. Adorno si concentra qui in particolare sulla questione benjaminiana della distruzione dell’esperienza, le cui trasformazioni incidono a fondo sul tessuto che, come si evinceva dal saggio su Simmel, dovrebbe assicurare continuità e immanenza di senso ai fenomeni sociali. La fenomenologia della crisi dell’esperienza individuale, che Adorno abbozza in questi frammenti, assume inoltre un netto rilievo antropologico: ciò cui si assiste non è solo un epifenomeno psicologico e sociale, ma investe la trasformazione profonda delle strutture, storicamente prodotte, della forma di vita umana attuale. L’obiettivo esplicito di Adorno è, già dal primo abbozzo di Individuo e società (datato 23 giugno 1941), quello di enucleare i tratti del «nuovo tipo umano» che sta emergendo (p. 56). Egli assume, infatti, che siano in corso «modificazioni così radicali» da mettere in discussione la forma individuale sino ad ora conosciuta dell’esperienza, e da comportare una vera e propria mutazione antropologica. Polemizzando con le posizioni che postulano una qualche «invarianza della natura umana», contro cui si era scagliato già nel 1932 nella conferenza L’idea di storia naturale, dove valorizzava per contro il tratto mutevole e caduco della naturalità11, Adorno mira esplicitamente all’elaborazione di una «nuova antropologia», vale a dire, come egli scrive nel secondo e centrale abbozzo di Individuo e società, «la teoria del nuovo tipo umano in formazione sotto le condizioni del capitalismo monopolistico e statale» (p. 66). Questo abbozzo di una nuova antropologia va letto in connessione con le Considerazioni sull’antropologia filosofica (1935) di Horkheimer e quindi con il concetto di un’«antropologia

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dialettica» cui afferiscono, come si legge nell’ultima riga della premessa del 1944 alla Dialettica dell’illuminismo12, i frammenti filosofici posti in coda all’opera13. Gli abbozzi di Individuo e società permettono così di riscoprire il torso di un altro dei grandi programmi incompiuti del circolo francofortese e di esplicitare in questa luce le tappe della sua esecuzione frammentaria attraverso le varie fasi del lavoro di Adorno. Insistendo sul carattere non psicologico, bensì antropologico del nuovo tipo umano – che nel frammento Su Chaplin e Hitler sarà esemplificato dalle due figure complementari del dittatore e dell’uomo disarticolato di Tempi moderni –, Adorno interpreta una serie di fenomeni sociali nel senso di una sparizione incipiente in vasti strati della popolazione di quell’«unitarietà, continuità e sostanzialità del singolo» che costituiva l’infrastruttura dell’individuo «compiuto, costante e autonomo» che la psicologia assumeva dalle categorie del liberalismo. Nella nuova costellazione socio-economica degli anni Trenta e Quaranta – comune da questo punto di vista sia al capitalismo monopolistico statunitense, la cui nuova agenzia di socializzazione è costituita dall’industria culturale, sia agli esperimenti totalitari del comunitarismo nazista e del capitalismo di stato sovietico – si delinea così una situazione in cui, saltata l’agenzia di mediazione familiare, il collettivo fa direttamente presa sul singolo. I tratti del nuovo tipo umano della «generazione radiofonica» che così viene socializzata dai mass media sono la rinuncia alla continuità dell’esperienza e alla continuità erotica, l’indebolimento della struttura monadica dell’io e il nuovo carattere gregario del singolo divorato dal collettivo. Il tono fortemente pessimistico di questa analisi, che fa affermare ad Adorno che «i rappresentanti del nuovo tipo non sono più individui», non deve però oscurare il fatto che è pur sempre dell’«individuo nel senso tradizionale», del «vecchio individuo» della società borghese e del suo involucro ideologico che si decreta la sparizione. Per altri versi questo processo presenta an-

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che opportunità emancipative, nella misura in cui potrebbe liberare facoltà individuali atrofizzate dalla figura atomistica dell’individuo isolato e concorrenziale che dominava la società liberale. In tal senso per Adorno «l’apertura di una breccia nella parete monadologica che nell’era liberale imprigionava ogni individuo in se stesso è motivo di grandi speranze» (p. 62). Anche la denuncia – ripresa su larga scala nel capitolo sull’industria culturale della Dialettica dell’illuminismo – dello «pseudoindividualismo» e della «pseudoindividualizzazione» della società di massa, le cui forme ideologiche, nel romanzo e nel cinema, mascherano il fatto della standardizzazione, è attuata nella prospettiva di un di più di individuazione, di un’individuazione completa14. È dunque afferrando, sebbene ex negativo, «le possibilità che secondo il criterio di un’umanità veramente emancipata si profilano» (p .66), che Adorno nel frammento Problema del nuovo tipo umano può criticare le forme di collettivismo emergenti nella situazione attuale proprio in quanto esse impediscono lo sviluppo di quelle potenzialità sociali che l’individuo potrebbe altrimenti sprigionare. E sempre in tal senso devono essere letti gli accenni ad una «educazione riflessiva» che, procedendo oltre il modello formativo della cultura tradizionale, possa fare dell’esperienza negativa di sofferenza degli «uomini ‘mutilati’» la «condizione ideale per mettere fine alla mutilazione» (pp. 63-64). Una riflessione, quest’ultima, il cui motivo sarà ripreso sia nei frammenti finali della Dialettica dell’illuminismo, con l’immagine dell’individuo cicatrice i cui punti ciechi sono contrassegni massimamente individuanti15; sia nella fenomenologia della vita offesa e mutilata dei Minima moralia, che in questa chiave potranno essere letti come la prosecuzione di tali meditazioni sul terreno di una antropologia storica della sofferenza individuale16.

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4. L’affresco della Dialettica dell’illuminismo scava la genesi dell’individualità nella pre-istoria – il mito di Odisseo e le sirene – di una divaricazione tra spirito e natura che ha finito per ridurre quest’ultima a cosa morta e il primo a principio del dominio su di essa. In tal senso la reificazione sociale per Horkheimer e Adorno ha le sue radici dietro l’estensione della forma merce ai tutti i rapporti sociali nella società capitalistica − cui l’aveva ricondotta invece Lukács in Storia e coscienza di classe − e si annida in uno strato antropologico più antico. La teoria della reificazione si connette così all’archeologia di un soggetto che si libera dalla pressione dell’ambiente riducendo la natura esterna a nuda vita da assoggettare, ma che, reprimendo così anche la propria natura pulsionale interna, finisce per introiettare il dominio. È come negazione dell’esistenza singolare ad opera del dominio, dunque, che la reificazione viene definita17; ed è all’esperienza sfigurante della riduzione cui è sottoposto e si sottopone l’«individuo ossificato» – e alla sua sofferenza muta – che la teoria deve dare voce18. Per altro verso la genealogia del soggetto svela anche che il dominio è costitutivo rispetto alla struttura auto-repressiva del soggetto, e in tal senso la reificazione si mostra anzitutto nell’angolatura dell’«autoalienazione dell’individuo». La reificazione interviene anzitutto nel rapporto con il corpo proprio, in una forma di auto-degradazione che, riducendo quest’ultimo a «oggetto, cosa morta, corpus», manifesta infine la vendetta della natura assoggettata e ridotta a materia prima19. Questa figura della nuda vita, intesa non come datità originaria20, bensì come esito di una deformazione regressiva ad opera delle forme storicamente succedutesi del dominio, fornisce una potente cifra interpretativa dell’esperienza di mutilazione subita attivamente dall’individuo, il cui esito estremo sarà rappresentata per Horkheimer ed Adorno dalla dottrina antisemita e dalla pratica dello sterminio21. I testi di Individuo e società, in particolare la Nota su psicologia e società, contribuiscono a caratterizzare il profilo biopoliti-

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co di tale diagnosi. La situazione attuale, infatti, può essere letta da Adorno nei termini di una crisi dell’antropologia dello zoon politikon, giacché in una società in cui saltano i cerchi primari di mediazione sociale, la forbice tra il soggetto come zoon politikon e come individuo psicologico tende ora ad allargarsi a dismisura: con la disgregazione della forma politica del bios individuale si fa largo una regressione alla mera animalità aggressiva dello stato di natura. Il conflitto tra razionalità e natura sociale, già latente ma addomesticato dalle agenzie della socializzazione, esplode in forma distruttiva. Tale crescita esponenziale del conflitto tra individuo e società, quale effetto della socializzazione totale e diretta propria delle società di massa, sarà più volte indicato da Adorno negli scritti dei primi anni Cinquanta come oggetto principale della teoria sociale. Qui conviene sottolineare come per Adorno il mutamento dell’esperienza della natura, in particolare del corpo, sia un momento decisivo per la costituzione del nuovo tipo umano. La centralità del corpo fisico come corpo nudo e desessualizzato in fenomeni diversi ma convergenti quali la nuova igiene sportiva di massa, l’estetica mortuaria del fascismo e la fisicità anestetizzata del cinema, è interpretata da Adorno come segno di una mutazione e automutilazione in cui viene operata una fondamentale riduzione del corpo alla nudità e allo schema anatomico del cadavere, e così del singolo – la cui aspirazione vitale alle felicità è offesa e mortificata – all’individuo ossificato. I Minima moralia aggiungeranno un ulteriore tratto a questo quadro biopolitico, precisandone il profilo economico-sociale. L’aforisma 147 proporrà in tal senso un’analisi della costituzione dell’esperienza intima dell’individuo in rapporto alla categoria marxiana della composizione organica del capitale. L’aumento di quest’ultima nell’evoluzione della società capitalistica per Marx comportava la crescita della massa dei mezzi di produzione a scapito della massa della forza lavoro. Ma ciò implica per Adorno anche l’aumento della composizione organica del-

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l’individuo socializzato in questa forma di vita capitalistica. L’individuo dunque si lascia afferrare sempre più direttamente nella sua struttura organica dalle esigenze tecnologiche del processo di produzione ed è determinato così direttamente sempre più quale strumento di produzione anziché quale fine vivente. In tal senso l’aumento della composizione organica dell’individuo è insieme un processo di «decomposizione» e «disgregazione» dell’esperienza individuale che incide direttamente nei «momenti del naturale», vale a dire nella nuda vita direttamente sottoposta agli imperativi della produzione. La soggettivazione dell’individuo è così sempre più un processo di assoggettamento biopolitico del vivente alle strutture del dominio che si opera nella forma della reificazione oggettivante22.

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5. Le meditazioni amare sulla vita individuale offesa e ridotta alla nudità animale che Adorno sviluppa nei suoi frammenti filosofici e quindi nei Minima moralia non devono però farci dimenticare che la crisi dell’individuo ha sempre un doppio senso23. Se per un lato essa consiste nella liquidazione della sua forma liberale e borghese, per altro verso essa è l’occasione per ripensare ex novo la categoria dell’individualità, che in tal senso non è solo una forma obsoleta del passato, ma qualcosa a venire24. Questa esigenza di ripensare ex novo, di riprendere e rinnovare il pensiero dell’individuale, è indicata da Adorno in apertura dei Minima moralia quale scopo della teoria critica25. Ma tale compito di rinnovamento può essere eseguito solo soffermandosi sull’esperienza che l’individuo ha di sé laddove avverte una lesione che minaccia di ridurlo a qualcosa di marginale ed inessenziale. Non solo da questa angolatura la teoria sociale può ricavare una miniera di indizi per decifrare la sostanza del processo sociale. È infatti scrutando gli ambiti più riposti dell’esistenza individuale, leggendo il tracciato delle iscrizioni del dominio sulla forma alienata della vita singola, che diviene possibile decifrare le

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potenze oggettive della storia, giacché «sub specie individuationis la contingenza assoluta, la sopravvivenza tollerata, e direi quasi abnorme, è l’essenziale»26. La fenomenologia della vita offesa è dunque la prospettiva da cui rinnovare, sub specie individuationis, la teoria critica, e criticamente la teoria dell’individualità. La ricostruzione genealogica della soggettività nella Dialettica dell’illuminismo viene ora integrata da una ricostruzione storica del processo di costituzione e successiva disgregazione della struttura individualistica del soggetto nella forma di vita capitalistica. Ma insieme i Minima moralia sono un trattato, in forma frammentaria, sulla individuazione morale: il modello idealtipico della teoria sociale, che emergeva dagli scritti degli anni Trenta e dal saggio su Simmel, trova così una nuova messa a punto, nel registro dialettico dei Minima moralia, nella figura di individuazione completa che si staglia in controluce negli aforismi e rende criticabili come patologiche le forme di vita attuali. Avremo modo di tornare in conclusione di questo saggio sui diversi aspetti del ripensamento dell’individualità cui la riflessione di Adorno conduce. Per ora conviene invece soffermarsi sul ruolo che la riflessione di Adorno sull’individuo ha giocato nell’apertura della seconda fase della teoria critica francofortese nel dopoguerra e sul rilievo in tale contesto degli scritti dei primi anni Cinquanta. 6. In una conferenza tenuta poco dopo la morte di Adorno (1969), Horkheimer, tracciando un bilancio del lavoro compiuto negli anni assieme all’amico, ha sostenuto che mentre la teoria critica degli esordi era orientata all’idea di una rivoluzione sociale che eliminasse l’ingiustizia radicalizzata dal fascismo, la teoria critica uscita dalla seconda guerra mondiale, vedendo infrangersi quella prospettiva, si sarebbe rivolta invece a «preservare ciò che ha un valore positivo, per esempio l’importanza del singolo»27. In ciò avrebbe giocato un ruolo decisivo l’osservazione che la società uscita dalla sconfitta del nazismo non solo non avreb-

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be prodotto una rivoluzione, ma avrebbe condotto altresì alla restaurazione dell’ordine capitalistico sotto l’egemonia delle grandi organizzazioni economiche, politiche e sociali:organizzazioni il cui predominio lega ad un’organizzazione totale di tutti i processi vitali che coinvolge la stessa sfera dell’interiorità e dei sentimenti umani. Centrali sarebbero così diventate le nozioni di «mondo amministrato» e «organizzazione»: e in tal senso la cesura storica verificatasi nella teoria critica, come osserva Werner Brede nella prefazione agli scritti di Horkheimer, sarebbe stata colta esattamente dalla conferenza di Adorno su «Individuo e organizzazione» (1953)28. Se la lettura degli abbozzi adorniani degli anni Quaranta corregge l’apparenza regressiva dell’argomentazione di Horkheimer, mettendo in luce che il riorientamento sub specie individuationis della teoria critica affondava le sue radici già nello sforzo di rinnovamento teorico del decennio precedente, resta tuttavia vero che gli scritti adorniani dei primi anni Cinquanta sul tema dell’individuo – Individuo e stato (1951), Individuo e organizzazione (1953) e la voce Società (1954)29 che Adorno mette a punto per il lavoro collettivo delle Lezioni di sociologia (1956) – sono paradigmatici della seconda fase della teoria critica e mettono al centro alcune figure idealtipiche che ne arricchiscono l’analisi. Non è un caso se, appena un anno dopo il rientro in Germania dall’esilio americano, Adorno e Horkheimer si intratterranno in una conversazione radiofonica con Eugen Kogon – pubblicista e pensatore cristiano già oppositore del nazismo – proprio sul tema de Il mondo amministrato, o la crisi dell’individuo (1950). Secondo Adorno, come si era visto, con la dissoluzione del soggetto liberale nell’epoca del totalitarismo non veniva meno quel principio costitutivo della concorrenza che dava forma alla sua figura monadica, e che ora, con l’indebolimento della forma di vita politica, «è passato, dall’oggettività del processo sociale, nella struttura interna degli atomi in urto e pressione reciproca, e cioè, per così dire, nell’antropologia»30. Il trapasso della

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concorrenza nell’antropologia segna appunto il momento in cui il conflitto tra individuo e società si generalizza al punto da mettere in crisi la forma di vita politica. La sventata minaccia del nazismo non modifica strutturalmente tale situazione, e per questo il compito più importante che le scienze sociali si trovano ad affrontare nel generale processo di ricostruzione postbellica diventa per Adorno – come egli sostiene in Individuo e stato – la comprensione in termini non istituzionali, bensì a partire dalla sua radice nel processo vitale della società, del rapporto problematico tra individuo e stato. Questi due termini non stanno solo in opposizione, ma si condizionano e costituiscono reciprocamente, e tale tensione è la matrice di una dialettica che percorre la storia della civiltà dalle sue radici greche. Così nella voce Individuo messa a punto per le Lezioni di sociologia il rapporto tra individuo e società è definito come il «tema centrale» della teoria sociale31, mentre nella voce Società Adorno può sostenere senza contraddizione che lo snodo centrale di interesse per la sociologia è la polarità tra momento istituzionale e momento naturale, dato che la socializzazione non si compie sino a che non si istituzionalizza, ma le istituzioni si sovrappongono sempre come reificazione statica di una forma di vita che le genera e le dinamizza. La teoria adorniana della reificazione si estende qui alle istituzioni, concepite quale seconda natura reificata. Di qui lo straordinario rilievo insieme antropologico e sociale della questione del conflitto tra individuo e società che Adorno già coglieva con le osservazioni sulla forbice crescente tra zoon politikon e individuo psicologico, e che nel dopoguerra si manifesta nella forma di una diffuso senso di estraneità allo stato. Il dialogo radiofonico tra Adorno, Horkheimer e Kogon dà ulteriore rilievo al profilo biopolitico di queste analisi: il mondo amministrato uscito dal dopoguerra è appunto quello in cui il processo di organizzazione della vita si prolunga direttamente negli individui e nelle loro forme di autogoverno. Così la socializzazione,

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con un effetto valanga, diventa un fenomeno totale, che non lascia scampo, ma che proprio perciò produce un incremento esponenziale del conflitto sotto forma di senso di estraneità alla vita pubblica. Anche in questo caso il fenomeno avviene al livello antropologico della forma di vita, giacché gli uomini sono oggetto dell’amministrazione in quanto ne sono insieme soggetti, e in tal senso si assiste insieme all’emergere di un nuovo tipo umano plasmato da tali dispositivi governamentali. Le nozioni idealtipiche di «organizzazione» e «amministrazione», che servono a raggruppare e a raffigurare questi fenomeni – come osserva Adorno in Individuo e organizzazione –, devono però essere tenute distinte tra di loro. L’organizzazione, in quanto associazione razionale di scopi che impone una certa dose di rinuncia ai suoi membri, è un momento necessario per la conservazione e la riproduzione della vita umana. Essa è però altra cosa dal mondo amministrato. Quest’ultimo è piuttosto una determinata forma contingente di organizzazione che investe la totalità sociale. Estendendosi capillarmente a tutti gli ambiti della società e dell’amministrazione della vita individuale, l’organizzazione si reifica in un complesso autonomo che non risponde più agli scopi e ai bisogni che l’avevano generata e mette così a repentaglio la propria base razionale. Ma l’individualità torna qui a giocare un ruolo chiave. Il motivo per cui la socializzazione totale è avvertita sempre più come non tollerabile è proprio il processo di individualizzazione moderno. Qui Adorno ridefinisce e delimita meglio i confini dell’ascesa dell’individuo. Il conflitto tra individuo e società aveva certo già radici greche, radicandosi nella necessità dell’organizzazione per l’autoconservazione della vita umana, ma trova un incremento qualitativo con l’emergere dell’individuo moderno, che in tal senso comporta una rivoluzione antropologica. Il profilo dell’individuo moderno che così si delinea – come dotato di indipendenza e autonomia personale, concepite però atomisticamente – è appunto quello di cui la rivolu-

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zione antropologica novecentesca fissa i limiti storici, minacciando di sostituirlo con un nuovo tipo umano. D’altra parte il potere amministrativo, quale amministrazione della soggettività, non sarebbe tale, come Adorno mostra della prima stesura della voce Società, se non prendendo ad oggetto l’individuo di cui dispone, ma insieme facendo leva sulla sua soggettività. Per questo l’individuo che ora è consegnato direttamente all’apparato è anche l’unica pietra d’inciampo e il motore di una reazione ad esso e della possibilità del suo annientamento. Questo perché l’organizzazione amministrativa, che si presenta come estranea agli uomini, non solo produce la natura umana attraverso i suoi dispositivi, ma insieme è un suo prodotto. La questione dell’autoalienazione dell’individuo, già emersa negli anni Quaranta, ottiene ora una configurazione più ricca e concettualmente potente. Da questo punto di vista l’analisi sociale, come Adorno sostiene in Individuo e organizzazione, ha l’obbiettivo di mettere in questione la necessità e la razionalità dell’organizzazione totale – il mondo amministrato –, risvegliando la coscienza dell’individuo quale punto cieco e elemento di resistenza di tale processo. Per Adorno, come egli sottolinea in chiusura di Individuo e stato, non è tuttavia una soluzione istituzionale a poter disegnare una via di fuga dalla situazione critica così diagnosticata, poiché è proprio attraverso i dispositivi istituzionali che si producono le patologie in esame. Si tratta invece di risvegliare non solo focolai di resistenza, ma insieme un senso di attiva partecipazione alla vita pubblica e ad una prassi condivisa. Il compito di «aiutare l’individuo», che la teoria critica si prefigge esplicitamente in Individuo e organizzazione, può sottrarsi al velleitarismo e alla mera conservazione museale – l’individuo, scrive Adorno, non può essere aiutato come si «annaffia un fiore» o come una «riserva naturale» (p. 139) – solo se si è in grado di riconoscere teoricamente, e di riattivare praticamente, «i veri legami che sussistono tra la dimensione pubblica e il destino individua-

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le» (p. 149). Si tratta di riconoscere che il destino individuale non è solo oggetto ma insieme soggetto di tali processi. Sebbene per Adorno il processo di autoriflessione della coscienza individuale, che la teoria critica intende attivare, dovrebbe risvegliare l’ idea di un «ordine razionale della sfera pubblica», di un «mondo più degno dell’uomo» (pp. 140-141) – ciò che nei Minima moralia era designato come l’«idea della società giusta e dei suoi cittadini»32 –, non è tuttavia sul piano di una teoria normativa della dignità morale né di una teoria normativa della giustizia o della democrazia politica che egli si muove. Quando Adorno scrive, nella voce Individuo, che «l’uomo come individuo giunge alla sua esistenza propria solo in una società giusta e umana», ordinata secondo ragione e in vista del «pieno svolgimento delle forze individuali»33; e quando Horkheimer gli fa eco nel dialogo radiofonico, sostenendo che l’organizzazione non dovrebbe essere abolita, bensì diventare il «presupposto per una condizione che consenta al potenziale del singolo individuo di realizzarsi […] molto più di quanto oggi sia possibile» (p. 121), è piuttosto alla dimensione critica ed emancipativa dei potenziali individuali, per come si sono storicamente sviluppati, che ci si richiama. Per questo, pur con tutte le sue ambiguità, il fatto che l’individuo sia diagnosticato come un fenomeno del passato borghese, ma nello stesso tempo come il punto di vista della teoria critica, non è semplicemente un paradosso34. Come osservava già Leo Löwenthal, infatti, i meccanismi del mondo amministrato e dell’industria culturale possono essere criticati proprio perché essi impediscono la maturazione di quei potenziali, tuttavia disponibili, il cui sviluppo renderebbe la «formazione di individui autonomi, indipendenti» – come Adorno scriverà nella Ricapitolazione sull’industria culturale (1963) – «il presupposto di una società democratica»35. È dunque su questa premessa che si gioca tutta la partita.

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7. Il ripensamento ex novo dell’individualità avviene su diversi piani negli scritti di Adorno. Da un lato si tratta di ripensare il punto di vista della teoria critica sub specie individuationis. Poiché tale punto di vista sembra essere fornito qui da una figura idealtipica o esemplare di individuazione compiuta, si potrebbe dire che si sia al cospetto non tanto di un punto di vista normativo modellato su regole morali, quanto piuttosto di una prospettiva utopica e assiologica – non riportabile a un qualche insieme dato di norme – sul valore dell’individualità compiuta. L’obsolescenza dell’individuo nella società massificata è l’occasione per comprendere che l’individuo – così come la modernità – non è una categoria cronologica, bensì qualitativa, e che in tal senso l’invecchiamento di una sua determinata forma non significa la fine del suo valore emancipativo36. In secondo luogo il ripensamento dell’individualità riguarda il problema della struttura ontologica dell’individuo. Il declino della società borghese che costituiva la base materiale dell’indipendenza individuale, se da un lato mette in pericolo l’autonomia personale, per altro verso è anche l’occasione per ripensare l’individuo al di là della falsa alternativa tra atomismo liberale e collettivismo. L’obsolescenza della forma borghese dell’individuo consente di ripensarlo non più come monade isolata o sostanza per sé sussistente, bensì in quanto socialmente costituito. Da questo punto di vista per Adorno l’individuazione si compie di fatto mediante socializzazione, tramite un processo di costituzione intersoggettiva, come si affermerà esplicitamente nella voce Individuo, riprendendo il modello hegeliano della persona come «autocoscienza sociale» che si costituisce nella sua individualità attraverso processi di riconoscimento reciproco37. Ma andare al di là del «principio di individuazione sociale mediante isolamento» che improntava di sé la forma concorrenziale dell’individuo borghese – e realizzare che l’individuazione si compie mediante socializzazione – non significa di per sé abdicare al valore dell’individuazione mo-

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rale e aderire al modello reificante di socializzazione che si perpetua nelle società massificata e nel collettivismo. Per evitare questo rischio, la cui minaccia è incombente, occorrerà trovare negli individui dei punti di resistenza alla reificazione e insieme pensare delle forme d’azione che rendano pensabile un’individuazione che sia insieme sociale e morale. È questo il chiasmo di resistenza e solidarietà in cui l’individualità deve essere ripensata con Adorno. Da un lato proprio nella marginalità cui l’individuo è confinato, nei punti ciechi della sua sofferenza, si manifesta una «resistenza alla pressione», un potenziale oppositivo che costituisce come tale l’individualità38. Proprio in quanto non è più la categoria dominante dal punto di vista strutturale – mentre le forme ideologiche dello «pseudoindividualismo» vorrebbero far credere che esso sia ancora tale –, è nell’individuo, e nella sua esperienza di lesione, che molta della «violenza della protesta» e della resistenza all’oppressione va a rifugiarsi per Adorno39. La dimensione critica e oppositiva dell’individuo è tale perché si collega a un suo potenziale emancipativo. È nella sfera dell’individualità, infatti, che per Adorno «qualcosa della forza sociale liberante» è andata a ritirarsi. Ciò può sembrare paradossale se si considera che nella genealogia e nella storia raccontata da Adorno l’individuo è costituito da quello stesso processo sociale che vorrebbe liquidarlo. Ma l’individuo subisce per così dire attivamente questo processo, perché l’assoggettamento alla strutture del dominio, attraverso cui si compie la sua soggettivazione individuante, è insieme un processo di auto-costrizione – Ulisse e le Sirene – che richiede la sua partecipazione e che non potrebbe compiersi senza far leva sulle sue facoltà, attivandole però in una forma unilaterale e sfigurante. Le strutture del dominio, subito o auto-inferto, sono tali e sono criticabili proprio perché ostacolano il dispiegamento ulteriore di tali capacità. Nella resistenza individuale si manifestano peraltro risorse che vanno al di là dell’individuo stesso. Adorno insiste sul fatto che tali

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potenziali di resistenza non vanno pensati come qualcosa di originario, bensì come qualcosa che ha a sua volta un momento sociale e storico40. Le energie sovra-individuali che si manifestano nella resistenza individuale sono pensate quindi come potenziali di azione. È qui posta esplicitamente la questione dell’interazione tra individui come di quella forma di azione che consisterebbe in una «libera e solidale collaborazione sotto comune responsabilità»41. Il ripensamento ex novo dell’individuo oltre l’ontologia atomistica del liberalismo può conservarne e rinnovarne l’eredità, evitando l’abisso collettivista, solo se il processo sociale di individuazione è mediato da forme di azione solidale: «la liquidazione della monade attraverso la solidarietà», scrive Adorno, «sarebbe nello stesso tempo la salvezza del singolo»42. A queste condizioni sarebbe possibile andare oltre la falsa opposizione tra socialità e egoismo che per Adorno inficiava la vecchia concezione dell’individuo e la cui impalcatura psicologica, ora in via di liquidazione, sarebbe stata teorizzata da Freud43. La nuova antropologia descritta in Individuo e società come ciò che sostituisce la vecchia struttura psicologica freudiana, è allora criticata dal punto di un’antropologia solidaristica. Salvare l’individuo significa allora andare oltre il «principium individuationis sociale» che pensa e produce l’individuazione come una forma di isolamento, e piuttosto ripensare una pratica dell’individuazione solidale44. L’azione dei “soggetti solidali” di cui si parla in Individuo e organizzazione (p. 136), in tal senso, potrebbe attivare la natura mimetica dell’uomo in forma non distruttiva, bensì liberandone i potenziali di umanità e simpatia45. Nella cifra della solidarietà, come di ciò che potrebbe combinare socializzazione e individuazione morale, anche il punto di vista utopico della individuazione compiuta come modello esemplare di vita buona assume un’inedita configurazione. Italo Testa Parigi, ottobre 2009

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Note 1. Rimasti inediti, ad eccezione del saggio Individuum und Organisation, pubblicato nel 1954, tali scritti si trovano ora sparsi nei volumi 8 e 20.1 delle Gesammelte Schriften di Adorno, nei Frankfürter Adorno Blätter VIII (2003), e nel volume 20 delle Gesammelte Schriften di Horkheimer. Per riferimenti più dettagliati cfr. la nota editoriale in fondo a questo volume. 2. Sugli anni Quaranta quali «decade produttiva» dell’esilio americano, cfr. R. Wiggershaus, Die Frankfurter Schule, Carl Hanser Verlag, Münich 1986, trad. it. La scuola di Francoforte, Bollati Boringhieri, Torino 1992, cap. 4. 3. Cfr. Th.W. Adorno, Die Aktualität der Philosophie (1931), in Id., Gesammelte Schriften [=GS], a cura di R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt am Main 19731986, vol. 1, pp. 328-330; Id., Thesen über die Sprache des Philosophen (non datato), GS 1, pp. 366-371. 4. Sull’«ermeneutica allegorica» del primo Adorno cfr. I. Testa, Doppia svolta. L’ontologia allegorica del primo Adorno e l’ombra di Heidegger, in L. Cortella, M. Ruggenini e A. Bellan (a cura di), Adorno e Heidegger. Soggettività, arte, esistenza, Donzelli, Roma 2005, pp. 159-179. 5. Cfr. A. Honneth, Eine Physiognomie der kapitalistischen Lebensform. Skizze der Gesellschaftstheorie Adornos, in A. Honneth (a cura di), Dialektik der Freiheit. Frankfurter Adorno Konferenz 2003, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2005, pp. 167-187, trad. it. Fisionomia della forma capitalistica di vita. Abbozzo della teoria della società di Adorno, in Adorno e Heidegger, cit., pp. 243-263. 6. Sull’individualità quale condizione di possibilità della critica cfr. I. Testa, Individualità e critica, «La società degli individui», 9, 3 (2000), pp. 113-118. 7. Sul carattere «abolizionista» della concezione adorniana dell’individuo, cfr. E. Renault, L’individualità come categoria critica, «La società degli individui», 35, 2 (2009), pp. 159-174. 8. Cfr. L. Löwenthal, Adorno und seine Kritiker (1978), ora in Id., Schriften, vol. 4, a cura di H. Dubiel, Judaica, Vorträge, Briefe, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1984, pp. 59-73, part. p. 63. 9. Il fatto che il programma non sia stato realizzato in comune potrebbe riflettere una differenza di posizioni tra Horkheimer, più radicalmente scettico nei confronti dell’individualità – si veda l’affermazione tranchant per cui «la nostra tesi è quella secondo la quale, nella società borghese, l’individuo non è realizzato, ma è un’ideologia» (Th.W. Adorno-M. Horkheimer, I seminari della scuola di Francoforte. Protocolli di discussione, a cura di F. Riccio, Franco Angeli, Milano 1999, pp. 82-83) – e Adorno, che ne individua da subito anche i potenziali emancipativi. Su questa differenza cfr. le interessanti considerazioni di A. Bel-

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lan, Trasformazioni della dialettica. Studi su Theodor W. Adorno e la teoria critica, il Poligrafo, Padova 2006, pp. 102 e sgg. 10. I testi, raccolti e editi da Rolf Tiedemann sotto il titolo redazionale di Individuum und Gesellschaft, includono anche due frammenti del 1964-1965 – espunti dalla versione definitiva della Negative Dialektik (1966) – che abbiamo qui deciso di riprodurre perché testimoniano la lunga durata dell’interesse adorniano per la fenomenologia dell’esperienza individuale. 11. Cfr. Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschichte (1932), GS 1, pp. 345-365. Per un’interpretazione del testo cfr. I. Testa, Storia naturale e seconda natura. Adorno e il problema di una conciliazione non fondativa, «La società degli individui», 28, 1 (2007), pp. 37-52. Sul rapporto di Adorno con l’antropologia filosofica cfr. Ch. Ties, Die Krise des Individuums. Zur Kritik der Moderne bei Adorno und Gehlen, Rowohlt, Reibeck bei Hamburg 1999. 12. Cfr. M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialektik der Aufklärung (1947), GS 3, trad. it. Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966 (nuova ed. 1997), p. 9. 13. Cfr. R. Tiedemanm, Premessa a Individuum und Gesellschaft, in Frankfurter Adorno Blätter VIII, a cura di R. Tiedemann, per conto del Theodor W. Adorno Archiv, edition text + kritik, München 2003, p. 60. 14. Horkheimer e Adorno scriveranno che il principio di individuazione è sempre stato contraddittorio, e l’individuazione promessa non è mai giunta ad essere vera: «ogni progresso nell’individuazione in questo senso è andato a discapito dell’individualità» (Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 167). 15. Cfr. ibidem, p. 275. Sulla potenza individuante e critica della sofferenza si veda A. Sartori, Patire l’individuale. Sofferenza come critica in Löwenthal, Zorn e Zizek, «La società degli individui», 34, 1 (2009), pp. 101-116. Sul tema dell’ammutolimento dell’individuo e dell’assurdo cfr. P. Lauro, Per il concreto. Saggio su Th.W. Adorno, Guerini, Milano 1994, p. 92; E. Cerasi, Le lepri di Adorno. A proposito dell’individuo e della modernità, «Giornale critico di storia delle idee», I, 1 (2009). 16. Sulla questione del contenuto cognitivo dell’esperienza preriflessiva della sofferenza individuale come rivelatrice di limitazioni dei nostri potenziali razionali, cfr. A. Honneth, Eine Physiognomie der kapitalistischen Lebensform, cit., p. 185. 17. Cfr. Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 35. 18. Cfr. ibidem, p. 259. 19. Cfr. ibidem, p. 252. 20. Come accade invece in G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995. 21. Sull’atomizzazione dell’individuo ad opera del terrore totalitario, e sulla regressione mimetica a mera naturalità, si veda anche l’importante saggio

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di Leo Löwenthal, The Crisis of the Individual. Terrors’ Atomization of Man (1946), ora in Id., Schriften, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1982, vol. III, pp. 161-174, trad. it. Individuo e terrore, «La società degli individui», 9, 3 (2000), pp. 141-151. 22. Cfr. Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben (1951), GS 4, trad. it. Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1979, (af. 147), pp. 279-280: «Da tempo, non si tratta più soltanto dello smercio del vivo. Sotto l’apriori della smerciabilità, il vivente in quanto vivente si è trasformato in cosa, in equipaggiamento». 23. Cfr. H. Schweppenhäuser, Das Individuum im Zeitalter seiner Liquidation. Über Adornos soziale Individuationstheorie, in Id., Vergegenwärtigungen zur Unzeit, zu Klampen, Lünenburg 1986, pp. 42-69. 24. Cfr. Minima moralia, cit., (af. 83), p. 150: «La questione dell’individualità, nell’epoca della sua liquidazione, deve essere impostata ex novo. Mentre l’individuo, come tutti i metodi individualistici di produzione, è storicamente invecchiato, esso rappresenta, condannato com’è, il vincitore. Poiché solo esso conserva, per quando deformata, traccia di ciò che conferisce valore alla tecnicizzazione, e di cui quest’ultima si vieta la coscienza». 25. Minima moralia, cit., p. 7. 26. Ibidem, (af. 72), p. 129. 27. Cfr. M. Horkheimer, Kritische Theorie gestern und heute (1969), ora in Id., Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1987, vol. 8, pp. 336-353, trad. it. La teoria critica ieri e oggi, in Id., La società di transizione. Individuo e organizzazione nel mondo attuale, Einaudi, Torino 1972, pp. 164-180. 28. Cfr. W. Brede, Prefazione del curatore, in La società di transizione, cit., p. VIII. 29. Della seconda voce è disponibile una prima stesura (1954) di pugno di Adorno, tradotta in questo volume, e precedente al lavoro collettivo di aggiustamento delle voci per la redazione definitiva, che nel suo carattere di abbozzo lascia ben trasparire la centralità della questione dell’individuo per la definizione della teoria sociale, connettendosi a diversi aspetti delle analisi svolte da Adorno negli altri testi qui raccolti. 30. Minima moralia, cit., (af. 6), pp. 18-19. 31 M. Horkheimer e Th.W. Adorno (a cura di), Soziologische Excurse, in «Frankfurter Beiträge zur Soziologie», vol. IV, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt am Main 1956, trad. it. Lezioni di sociologia, Einaudi, Torino 1966, p. 53. 32. Minima moralia, cit., (af. 8), p. 22. Sulla presenza nei Minima moralia di un’idea della società giusta come di quella che sarebbe condizione per la singolarità e la differenza degli individui, cfr. R. Jaeggi, ‘Kein Einzeln vermag etwas dagegen’. Adornos Minima Moralia als Kritik von Lebensformen, in Dialektik der Freiheit, cit., pp. 115-141.

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33. Lezioni di sociologia, cit., pp. 60-61. 34. Sull’«ambivalenza dell’individuo» in questo doppio ruolo cfr. L. Cortella, Una dialettica nella finitezza. Adorno e il programma di una dialettica negativa, Meltemi, Roma 2006, p. 88. Per una soluzione di tale paradosso in una direzione che punta sull’individuo quale luogo del conflitto si veda invece S. Petrucciani, Introduzione a Adorno, Laterza, Roma 2007, pp. 96-103. 35. Resumé über Kulturindustrie (1963), GS 10.1, pp. 60-70, trad. it. L’industria culturale, in La scuola di Francoforte. La storia e i testi, introduzione e cura di E. Donaggio, Einaudi, Torino 2005, pp. 224-233, part. p. 233. 36. Cfr. Minima moralia, cit., (af. 140), p. 264. 37. Cfr. Lezioni di sociologia, cit., pp. 58-59. 38. Cfr. Minima moralia, cit., (af. 97), pp. 175-176. 39. Ibidem, p. 6. 40. Cfr. Ibidem, (af. 95), p. 171. 41. Ibidem, (af. 83), p. 150. 42. Ibidem, (af. 88), p. 157. Sulla questione della «salvezza dell’individuo» in Marcuse e Horkheimer, oltre che in Adorno, si veda il capitolo «Solo un Io ci può salvare» in E. Donaggio, Introduzione, in La scuola di Francoforte, cit., pp. XXXIX-XLVIII. 43. Cfr. Minima moralia, cit., (af. 37). 44. Ibidem, (af. 97), p. 177. 45. Sul tema della natura mimetica dell’uomo cfr. ibidem, (af. 99), p. 133, ove Adorno, appellandosi alla natura imitativa dell’uomo e all’amore come al suo nucleo «utopico», critica l’etica dell’«autenticità». Per una lettura che oppone invece il modello della socializzazione ad una concezione mimetica dell’individuazione si vedano D. Kipfer, Individualität nach Adorno, Francke, Tübingen 1999; A. Bellan, Trasformazioni della dialettica, cit., pp. 111-112.

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Sul problema della causalità individuale in Simmel1

Per aiutarvi a comprendere l’inedita urgenza che il problema della causalità nelle scienze sociali ha acquisito con le analisi di Georg Simmel sulla teoria della conoscenza vorrei spendere qualche parola sulle tendenze della filosofia tedesca a cavallo tra XIX e XX secolo, cui Simmel di fatto appartiene. Secondo la vulgata Simmel è un filosofo della vita, generalmente accostato a Bergson. In effetti il suo pensiero è culminato in una metafisica della vita. Le origini di Simmel, però, sono molto diverse da quelle di Bergson. Simmel non proviene dalla biologia, ma da quel complesso di saperi che in Germania si chiamava allora scienze dello spirito. I suoi primi scritti erano dedicati a una riflessione morale di taglio psicologico, quelli successivi soprattutto alla sociologia, alla filosofia della storia, all’interpretazione delle filosofie storiche e all’estetica. Simmel è stato né più né meno quello che si dice un filosofo della cultura. La sua teoria della vita, inoltre, ha fin dall’inizio un tono diverso da quella di Bergson. Questa, si potrebbe dire, fu un prodotto delle scienze naturali e del loro specifico approccio, quella nacque dal tentativo di emanciparsi dal naturalismo che domina il XIX secolo e contrapporre sistematicamente a categorie come materia, quanto e legge universale i concetti di soggettività, differenza qualitativa e individualità. In Simmel il concetto di vita è essenzialmente il tentativo di fare di queste nozioni altrettante categorie fondamentali derivate dal concetto stesso della soggettività. Per queste ragioni, a dispetto dei molti contrasti, la filosofia della vita di Simmel è una forma di neokantismo, e lo stesso Simmel si è definito un neokantiano

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quando ha affermato che l’intento del suo libro su Kant era: «aggiungere all’inventario eterno delle nostre acquisizioni filosofiche i concetti centrali con cui Kant ha stabilito i fondamenti di una nuova visione dell’universo»2. Più specificamente, il posto di Simmel è accanto a filosofi sociali di stampo neokantiano come Windelband, Rickert e Max Weber, la cosiddetta Scuola di Baden. Il neokantismo tedesco, o perlomeno la sua ala sudoccidentale, quella con cui Simmel ebbe più analogie, era animato da un duplice impulso. Da un lato esso nasce dal bisogno di contenere il predominio delle scienze empiriche e della sua propaggine, l’etica utilitarista, contrapponendo loro l’autonomia della conoscenza come un principio a priori e largamente indipendente dai risultati della ricerca empirica. Dall’altro la contrapposizione tra a priori soggettivo e scienze naturali empiriche produce conseguenze per cui Kant non forniva neppure le premesse. Per Kant le scienze naturali, in particolare la matematica e la meccanica classica, erano esse stesse il medium dell’a priori. Il successivo sviluppo tecnico delle scienze naturali, soprattutto la chimica del XIX secolo, rigorosamente a posteriori, ha confinato le tendenze legate all’a priori al campo delle scienze sociali, che nella Critica della ragion pura di Kant non hanno alcun ruolo. Le cosiddette scienze della cultura si impongono tanto più come materiale per la filosofia a priori in quanto in esse l’autonomia della soggettività intesa come libertà sembra realizzarsi in misura molto maggiore che non nelle scienze naturali, dato che nelle scienze teoriche della natura tale autonomia poteva essere mantenuta solo in qualità di principio astratto della conoscenza. La concreta pienezza dell’umano, che costituisce l’oggetto delle scienze dello spirito, sembra testimoniare della sovranità dello spirito produttivo in modo assai più vincolante di una natura alla quale lo spirito prescrive certo le sue leggi, come scrive Kant, ma che resta agli occhi di quest’ultimo un che di estraneo e accidentale. Kant aveva sottratto l’autonomia dell’uomo come principio contenu-

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tistico all’ambito delle scienze esatte per assegnarlo alla ragione pratica. Dal momento che la filosofia neokantiana improntata alla critica della conoscenza voleva restare in qualche modo fedele alla metafisica hegeliana nella sua determinazione a eliminare la distinzione kantiana tra ragione pura e pratica, e al tempo stesso non voleva trarre le conseguenze della speculazione hegeliana, ma tenersi al livello delle scienze compiute, l’unica via percorribile era quella delle scienze dello spirito. Lo spirito inteso come fondamento di legittimità delle scienze si rivolge all’ambito delle scienze dello spirito come alla sua patria autentica. Questa mossa, però, presenta fin dall’inizio una straordinaria difficoltà. Non è un caso che Kant non si sia spinto al di là delle scienze naturali. L’oggetto della sua indagine era la possibilità della conoscenza a priori: la sua oggettività. Il rimando alla soggettività della costituzione non era che uno strumento per garantire il carattere oggettivo della conoscenza in contrasto con l’accidentalità del corso esteriore del mondo meglio di quanto avrebbe potuto farlo il realismo ingenuo. In Kant la soggettività è la precondizione di una conoscenza universale e necessaria, o per dirla a modo nostro una conoscenza secondo leggi: la stessa soggettività è la legge che costituisce l’unità dell’esperienza. Questa tendenza verso la soggettività come legalità, però, era sicura di sé e priva di complicazioni soltanto nel caso in cui le stesse conoscenze erano esenti da ogni dubbio, oggettive e conformi a leggi, o sembravano esserlo all’epoca di Kant, vale a dire nel campo delle scienze naturali di stampo matematico. Se si trasferisce la domanda kantiana «come sono possibili giudizi sintetici a priori?» dalle scienze naturali pure alle scienze dello spirito, essa finisce per assumere un carattere in qualche modo minaccioso. Non ci si può più accontentare di domandare come siano possibili tali giudizi, come se la loro possibilità fosse un dato acquisito, ma bisogna chiedersi se essi siano possibili. Le scienze umane sono certamente quelle in cui lo spirito ha maggiori possibilità di ritrova-

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re se stesso, di comprendere se stesso e di riscoprirsi come il principio innato di tutte le proprie elaborazioni. Proprio per questo, tuttavia, il carattere a priori, l’oggettività e la conformità a leggi delle sue osservazioni diventano tanto più improbabili. Gli oggetti umani al cui studio esso si consacra non solo soggiacciono alla transitorietà delle cose umane, ma sono per loro natura unici e irripetibili, o in ogni caso appaiono tali; la loro temporalità, inoltre, è addirittura un ingrediente della loro verità, in opposizione diametrale con l’astoricità dell’a priori kantiano. Il concetto di oggettività sembra avere un suono paradossale quando gli oggetti altro non sono che gli stessi soggetti. Soltanto il soggetto conosce davvero il soggetto. Il soggetto conoscente, però, non è un punto di riferimento astratto come nelle scienze naturali. Quanto maggiore è il suo contenuto, quanto più esso è “soggettivo”, tanto maggiore è la porzione di realtà spirituale – l’oggetto del suo lavoro – che esso getta a mare. In Kant il soggetto conoscente, che prescrive alla natura le sue regole, può per così dire dimenticare se stesso quando è impegnato nella conoscenza della natura; la conoscenza delle scienze dello spirito, invece, presuppone da ogni punto di vista proprio quella soggettività piena e ricca di contenuti che tende a dissolvere il concetto stesso di oggettività. Per usare una formula estrema: l’“oggettività” del tipo richiesto dalle scienze dello spirito si ottiene tanto meglio quanto più si è soggettivi: trasferendo il carattere dell’oggettività al contenuto della soggettività, però, il concetto stesso dell’oggettività si fa estremamente problematico. Per questo il concetto di legge pone i problemi più difficili da risolvere. La soggettività che è in gioco nelle scienze dello spirito – sia sul fronte di chi conosce che su quello di ciò che è conosciuto – non è più il principio trascendentale universale di Kant, e risulta suddivisa in singoli individui. Gli individui sono un oggetto essenziale per le scienze dello spirito, e lo strumento del loro conoscere non è la pura funzione pensiero, ma l’individuo stesso. Tutto questo

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rende però addirittura impossibile il concetto di legge nel senso kantiano della necessità e dell’universalità. Se il regno delle scienze dello spirito è il regno dell’individuo, allora esso è il regno della particolarità, e se si pone la particolarità come meta della conoscenza, il postulato kantiano dell’universalità sembra ridursi a un’arida astrazione; individui sono però anche coloro che conoscono, e il contenuto della loro conoscenza viene determinato dalla loro individualità. In questo modo la conoscenza verrebbe a esporsi a tutti i pericoli dell’arbitrio, della relatività e dell’assenza di legge. Una volta trasferita dall’ambito delle forme pure della conoscenza all’ambito dei suoi oggetti, la tendenza dell’approccio kantiano a gravitare verso la soggettività e lo spirito minaccia di rivoltarsi contro il postulato kantiano dell’a priori, dell’oggettività e della conformità a leggi, con il quale nell’ottica della concezione kantiana essa praticamente coincide. Come antinaturalismo, l’idealismo neokantiano porta in sé il germe della dissoluzione dell’idealismo trascendentale kantiano come teoria della necessità e dell’universalità. Questo complesso di problemi ha trovato un’espressione precoce nella riflessione del neokantismo di Baden. Windelband e Rickert si sono facilitati le cose dividendo la conoscenza in due sfere distinte per principio. Hanno distinto le scienze della natura dalle scienze della cultura come scienze “nomotetiche”, normative, e scienze “idiografiche”, il cui compito è descrivere il particolare3. La soggettività conoscente è il fondamento comune di entrambe, e la loro differenza consisterebbe semplicemente nella differenza degli interessi che la soggettività persegue servendosi dell’una o dell’altra. La differenza non dipende dagli oggetti come tali, ma dal tipo di indagine. Una pietra, per esempio, può rientrare nell’ambito delle scienze nomotetiche come sostrato di leggi geologiche, ma come prodotto storico dell’evoluzione della terra appartiene alle scienze idiografiche. In questo quadro le scienze nomotetiche della natura corri-

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spondono essenzialmente ai concetti kantiani di universalità e necessità. L’oggettività scientifica delle scienze idiografiche, invece, manca di un fondamento paragonabile. Il concetto di legge è ad esse estraneo ex definitione, e per conferire ai metodi idiografici delle scienze della cultura qualcosa di simile all’oggettività Windelband e Rickert, rifacendosi a Hugo Münsterberg4, si sono appellati al fatto che il principio oggettivo che regola la scelta dei singoli oggetti da descrivere altro non sarebbe che il riferimento a valori vigenti che in ultima istanza si costituiscono grazie allo stesso concetto di cultura. L’aspetto insoddisfacente di questa teoria, che rimuove il problema del neokantismo, come ho appena tentato di precisarlo, con misure burocratico-organizzative più di quanto non lo risolva, non poteva passare inosservato. Contro la divisione tra l’ambito della natura e quello della cultura si può obbiettare che essa assolutizza dal punto di vista gnoseologico la differenza tra natura umana e natura extraumana, che è essenzialmente un prodotto sociale, ma non solo: la distinzione tra nomotetico e idiografico non rende giustizia al modo in cui le scienze sono fatte davvero. Non è possibile, per esempio, che le scienze della natura si risolvano in pure leggi, perché a loro volta le leggi forniscono principi esplicativi per gettare luce sui singoli fatti, e la vita delle scienze si dà solo nel mutare dei rapporti tra fatti e leggi. La riduzione delle scienze dello spirito alla descrizione della pura datità locale, d’altra parte, finirebbe per impoverirle al punto che rispetto alla tanto lamentata aridità del mondo kantiano questo suo rovesciamento completo non segnerebbe alcun progresso apprezzabile. Il punto di vista idiografico perde di vista gli interessi essenziali che l’umanità persegue praticando le scienze dello spirito, e cioè strappare la storia alla cecità del caso e dirigerla coscientemente penetrando le tendenze storiche, le leggi di sviluppo della società e la possibilità oggettiva. Il riferimento a valori, però, può difficilmente compensare il venir meno del problema

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delle leggi storiche e sociali. Già soltanto per il fatto di non scaturire direttamente dall’autonomia del soggetto conoscente ma di venire attinti descrittivamente dall’effettivo corso della storia, secondo la concezione di Windelband e Rickert, i valori non hanno un carattere oggettivamente vincolante e capace di dare forma a leggi. I valori non sono altro che ciò che nel corso della storia è stato importante, e il problema della loro legittimazione non viene neppure posto. In questo modo, però, non solo si trasforma l’accidentalità dell’esistenza nell’unità di misura di quella che dovrebbe essere la legge: quando si parte dalla pura descrizione delle singolarità in assenza di una teoria di fondo anche la ricerca degli elementi davvero importanti della vita sociale viene abbandonata alla relatività dalla quale essa dovrebbe liberarci. È assurdo credere che il concetto di cultura, segnato a sua volta da tutte le contraddizioni irrisolte della vita sociale, basti da solo a dare un carattere di oggettività al riferimento a valori. Non c’è da stupirsi se esponenti più tenaci del neokantismo nelle scienze dello spirito, come Simmel, hanno lasciato da parte sia la pseudo-oggettività della dottrina dei valori che l’idea del carattere puramente descrittivo delle scienze dello spirito, per trarre le conseguenze dell’esasperato psicologismo che livella i valori liberamente oscillanti fino a portarli all’altezza degli individui, quegli stessi valori che il neokantismo di Baden aveva sovraordinato loro. Un pensatore di estrema coerenza come Simmel, però, non si è voluto accontentare della posizione del nominalismo puro e del relativismo. Anche Simmel ha continuato a essere animato dalla volontà di ricostruire l’a priori, e più concretamente dal desiderio di non limitare più le scienze della società alla giustapposizione di fatti ad altri fatti, per ricavare piuttosto da questi dei complessi oggettivamente vincolanti, i soli capaci di rendere comprensibile ciò che era stato meramente descritto. Simmel non si è nascosto le difficoltà del rapporto tra le scienze della natura e le scienze dello spirito, ma si è sforzato di fondere il concetto di legge secondo

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l’accezione invalsa nelle scienze teoriche della natura con la categoria dell’individuale, che ai suoi occhi, come a quelli di Windelband e Rickert, appariva decisiva ai fini delle scienze sociali, per fornire qualcosa come una gnoseologia delle scienze sociali capace di rispettare il loro carattere concreto e non formalizzabile, senza però abbandonarle alla casualità cieca del particolare, e senza rifugiarsi in soluzioni fasulle come i valori. È evidente, però, che un tentativo del genere riporta al centro dell’attenzione il problema della causalità nelle scienze sociali. Una conoscenza necessaria e oggettiva nel campo delle scienze sociali può essere soltanto quella che sappia determinare in senso causale l’accadere nel contesto di una civiltà, invece di considerarlo frutto del caso. La causalità classica nel senso delle scienze teoriche della natura, d’altra parte, non trova applicazione nelle scienze sociali. Nei Problemi di filosofia della storia, uno dei suoi massimi contributi alla teoria della conoscenza, Simmel la definisce così: «la legge di un evento in generale potrà essere definita senza contraddizione come quella proposizione secondo cui il verificarsi di certi fatti ha assolutamente – cioè sempre e dovunque – come conseguenza il verificarsi di certi altri»5. Subito dopo si affretta a precisare che nel campo della storia una simile universalità assoluta sarebbe impensabile. Infatti «l’individuazione [Aussonderung] di ciascuna sequenza di eventi governati da una legge unitaria è realizzata riscontrando se ogni elemento operante per sé considerato si trovi anche in altri complessi e se, inserito in combinazioni del tutto diverse, produca ogni volta lo stesso risultato»6. Simmel mette in campo tutta una serie di argomenti per dimostrare che una simile individuazione non è possibile. Il principale di questi argomenti, che non ripeterò per intero qui, è il fatto che non può darsi una identità assoluta tra singoli “elementi operanti” [Wirkungselemente] in contesti storici differenti. Questo sembrerebbe escludere la possibilità di applicare il concetto di legge causale alle scienze della cultura. La conclusione cui giunge Simmel è questa:

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«ma poiché nessuno dei casi ipotizzabili per una determinata legge coincide con gli altri in tutti i suoi fattori, ecco che la legge, ricavata dall’osservazione di una situazione e delle sue conseguenze, non vale in realtà se non appunto per questa situazione stessa, cioè per tutte le sue ripetizioni assolutamente identiche, non però per quelle altre situazioni in cui il nesso di causa ed effetto si presenta identico solo grazie alla rimozione di tutte le differenze. Ora, non conoscendo le causalità delle parti elementari, non conosciamo neppure il fattore la cui variazione in tutti i molteplici casi consentirebbe di calcolare l’evento successivo come funzione del precedente: la legge non può quindi riguardare che il caso singolo, al di là del quale essa non trova nessuna applicazione a casi futuri. Infatti, senza quella ricerca differenziante degli elementi ultimi, non possiamo mai sapere se la differenza in qualche modo esistente tra il caso precedente e il caso successivo non riguardi proprio quel fattore che nel primo caso ha determinato il nesso fra la causa complessiva e l’effetto complessivo»7. Di questo risultato Simmel non si accontenta, e tenta, seppure in una forma assai cauta e ipotetica, di riscattare il principio della causalità anche dove il concetto di causalità nel senso di una legalità universale sempre valida non trova applicazione. In altre parole, Simmel contesta l’idea che per una ineludibile necessità del pensiero la legge universale debba coincidere con la causalità agente, mentre da Kant in avanti la cosa sembrava del tutto scontata. Simmel riassume la concezione corrente con queste parole: «senza una legge causale non è possibile riconoscere alcuna causalità; ossia, la successione temporale tra A e B significa che A è la causa di B solo se esiste una legge secondo cui sempre e ovunque, cioè indipendentemente dal tempo, dove compare A si verifica B»8. Vincolare la causalità a una legge di questo tipo non è tuttavia indispensabile dal punto di vista logico. A Simmel appare «senz’altro pensabile che, in un determinato punto spazio-temporale, un A produca causalmente un B, mentre in

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un altro punto produca un C»9. La frase successiva precisa il senso che Simmel vuole dare a questa affermazione. «L’essenziale è che ciò non significa eliminare la relazione causale degli eventi per far posto a una mera successione casuale, ma solo che – pur continuando a rimanere tutti i fattori che distinguono la causalità dalla mera successione, ossia l’immanenza, la produttività e la necessità della connessione – la causalità viene ora riempita da un contenuto oggettivo variabile invece che da uno sempre identico»10. La scelta di circoscrivere di volta in volta la causalità a un solo e unico complesso di due elementi non equivale affatto, secondo Simmel, ad abbandonare questo complesso al caso. L’ipotesi di una simile causalità individuale non porterebbe affatto al regno dell’anarchia nella storia. «La causalità continuerebbe anzi a sussistere in tutta la sua oggettività e il suo rigore; solo che il suo contenuto restringerebbe la sua validità a un unico caso, anziché estenderla a tutti, e varierebbe con il caso successivo»11. Contro questa tesi, osserva subito Simmel, si potrebbe obbiettare che essa è senz’altro possibile sul piano logico, ma inutile dal punto di vista pratico. La ragione sarebbe che «di fronte all’evento unico e irripetibile, dal contenuto imparagonabile, non abbiamo alcun mezzo per distinguere fra il rapporto di vera e propria causalità esistente fra i suoi momenti e una successione temporale puramente casuale, priva di interna connessione»12. Anche volendo seguire Kant e considerando la causalità come una forma pura del pensiero non derivante dall’esperienza, la conoscenza per cause dà risultati soltanto laddove sia possibile confrontare tra loro eventi dal decorso analogo. Se viene a mancare la possibilità di operare un confronto, dove manca del tutto un universale con il quale misurare i singoli eventi, risulterà impossibile stabilire se il legame tra i due eventi è causale o “accidentale”. Chiarirò questo punto con un esempio tratto da eventi recenti. Quando la Germania ha occupato la Norvegia è immediatamente giunta da Bruxelles la notizia che sul lato tedesco del

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confine tra Germania e Belgio si era verificata un’esplosione, e che probabilmente una fabbrica di munizioni era saltata in aria. Qui non ci è dato stabilire se abbiamo a che fare con una serie causale o con il puro e semplice caso, sempre che la notizia sia vera, fino a quando i due eventi successivi, l’occupazione della Norvegia e l’esplosione, ci sono noti in totale isolamento. Concludere che l’esplosione della fabbrica di munizioni è stata la conseguenza di un atto di sabotaggio, che questo è stato un gesto di protesta dei lavoratori contro la conquista della Norvegia e che pertanto tale evento ne è stata la causa, è legittimo, e sotto riserva di dubbio, soltanto se ai due momenti isolati se ne aggiungono altri a essi legati e dai quali sia possibile dedurre un simile quadro complessivo dei fatti, per esempio se si scoprisse che la politica espansionistica di Hitler incontra la resistenza della maggior parte della popolazione; che questa resistenza è particolarmente spiccata tra gli operai; che nella situazione di potere in cui versa la Germania il sabotaggio è l’unico modo di esprimere questa resistenza e che altri eventi legati all’intervento tedesco in Norvegia, come il fatto che alcune granate tedesche lanciate sulle navi inglesi siano rimaste inesplose e certi appelli trasmessi dalle radio clandestine tedesche, sembrerebbero puntare in questa direzione. Se però consideriamo che tutti questi momenti aggiuntivi restano nell’ambito dell’illazione, dato che finora è così, risulterebbe assolutamente impossibile stabilire se davvero sussista un legame causale tra l’invasione tedesca e l’esplosione della fabbrica intese come due singoli eventi unici e irripetibili. La causalità individuale di cui parla Simmel appare in qualche modo analoga alla cosa in sé di Kant: una possibilità del pensiero che nella sua purezza si nega a qualunque esperienza, e nell’istante in cui viene esperita si sottomette a una specie di legalità universale. È Simmel stesso a pensarla così. A questo punto si potrebbe obbiettare: a che pro escogitare una possibilità logica come la causalità individuale quando si è i

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primi a escludere che essa sia empiricamente applicabile nelle scienze sociali? Senz’altro molti vorranno vedere in questa prodezza di Simmel un ennesimo esempio della famigerata propensione dei Tedeschi per le teorie lambiccate. Sebbene io personalmente non condivida in nulla la prospettiva filosofica di Simmel, vorrei pregarvi di esaminare un po’ più da vicino la possibilità che essa ci offre. Non è da escludere che teorie di questo tipo testimonino di esperienze che restano importanti anche quando riesce difficile tradurle in metodi di ricerca pratici e funzionanti13. Cerchiamo di individuare questo tipo di esperienza tornando alle formulazioni decisive di Simmel. Qualunque cosa vogliamo rappresentarci concretamente come causalità individuale, gli aspetti che devono restare fermi al venir meno del carattere di legge universale sono a detta di Simmel «l’immanenza, la produttività e la necessità della connessione». Se osserviamo più attentamente questi termini, notiamo subito che almeno due di essi appartengono alla sfera della nostra esperienza dell’individuo umano. L’immanenza, o interiorità, è un atteggiamento umano, ed è l’uomo a trasferirla sul complesso causale della storia, quasi che potessimo rappresentarci il susseguirsi di due eventi come due stadi della meditazione di un singolo essere umano, non vincolati da un rigido rapporto causale nel senso delle scienze naturali ma pur sempre legati da un nesso profondo e ricco di significato in quanto momenti di un decorso in sé compiuto e dotato di senso. Analogamente, anche il termine “produttività” ha un suono umano14. Il terzo attributo che Simmel assegna al “punto cieco” della causalità individuale è la necessità. È particolarmente difficile riuscire a comprendere che cosa possa significare concretamente una necessità di questo tipo una volta che si sia rinunciato a quella universalità che secondo i canoni del pensiero tradizionale è la definizione stessa di necessità. Eppure un simile tentativo non mi sembra del tutto disperato. Il modo più semplice per intraprenderlo15 è pensare a tutti quei ca-

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si in cui nella lingua filosofica del secolo scorso si diceva di un evento che esso era conforme al proprio “concetto”, o che obbediva alla legge della propria essenza. Fingiamo di dimenticare per un istante quanto c’è di problematico in questa nozione di “concetto” ed evitiamo di chiederci se sia in generale possibile determinare l’essenza di un determinato momento senza ricorrere ad altri momenti. Limitiamoci per ora a tenere presente che rappresentarsi la necessità non soggetta a leggi universali di cui parla Simmel è un po’ come dire: l’esplosione della fabbrica di munizioni dopo l’invasione della Norvegia è “necessaria” perché il fatto che in momenti di particolare rischio militare e politico si verifichino atti di sabotaggio corrisponde al concetto dell’attuale società tedesca, a prescindere dal fatto che i singoli “fattori” che consentirebbero di stabilire un nesso causale tra i due eventi nel senso tradizionale del termine siano noti oppure no. Oppure, per farvi un altro esempio in grado di chiarire il senso di questa necessità: Karl Kraus, lo scrittore austriaco, ha lottato per anni contro la sciatteria16 e la corruzione linguistica dei giornalisti. In questa guerra la segnalazione di errori di stampa ridicoli e ottusi, che denunciavano per così dire la dipendenza della produzione giornalistica dalle frasi fatte, aveva un ruolo piuttosto importante. Sarebbe certamente possibile stabilire connessioni causali tra lo stile dei singoli autori e gli errori di stampa. Nell’ottica di Kraus, però, gli errori di stampa sono necessari nella misura in cui essi derivano direttamente dal concetto della sciatteria giornalistica. Mi rendo ben conto che per fare di un giudizio simile qualcosa di più che un aperçu sarebbe necessario esplicitare tutti gli snodi causali intermedi e riportarli a un qualche genere di forma dotata di legalità universale. Credo però che un’operazione di questo tipo sarebbe lungi dall’esaurire la situazione. Intendo dire che anche laddove non sia possibile individuare questi snodi causali, tra la sciatteria dei giornalisti e la sciatteria tipografica esiste comunque un nesso, e lo si può dimo-

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strare facendo vedere come alcune figure di stile mutile usate dai giornalisti e alcuni degli errori di stampa presenti nei loro testi si assomigliano “a priori”. Per il momento non ci interessa affatto stabilire se siano entrambi da riportare a una terza causa comune, come per esempio le condizioni di lavoro della produzione giornalistica, o se invece i due fenomeni siano legati al giornalismo nel suo complesso da un rapporto simile a quello che siamo soliti chiamare rapporto tra manifestazione ed essenza. Decisivo è il fatto che ci troviamo di fronte a una necessità, anche se per il momento non siamo in possesso degli snodi causali intermedi; dirò di più: anche se il senso delle nostre affermazioni non ci impone affatto di andare alla ricerca di tutti questi snodi. A Karl Kraus non è mai venuto in mente di ricercare quali siano le connessioni fattuali che portano da un manoscritto giornalistico sciatto a un testo tipograficamente sciatto. Al contrario, nell’ottica del suo metodo la “necessità” o immanenza di quel legame, per usare i termini di Simmel, colpisce tanto più quanto meno ne sappiamo. Di certo Simmel non ha mai immaginato un esempio come questo per spiegare la causalità individuale, un esempio che per sua natura può essere compreso soltanto a partire dalla prospettiva ironica e polemica da cui è scaturito, e che non va inteso in un senso banalmente letterale. Eppure, nonostante tutto, il fatto che «l’immanenza, la produttività e la necessità della connessione» siano qui evidenti, pur escludendo in modo categorico il ricorso a elementi esterni alla connessione individuale come invece la legge causale esigerebbe17, mi sembra un indizio capace di lasciare intravedere quello che Simmel ha in mente. Che cosa abbiamo scoperto finora esaminando più da vicino la possibilità di una causalità individuale di questo tipo? Innanzitutto abbiamo appurato che i concetti di immanenza e produttività di una connessione sono evidentemente concetti che appartengono in modo specifico all’ambito dell’umano. Potremmo fare un altro passo avanti e aggiungere: l’una e l’altra so-

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no determinazioni che appartengono alla sfera della libertà. Postulare tra due o più eventi una connessione in sé coerente e dotata di senso ma non determinata dalla causalità universale equivale a ipotizzare un comportamento fondato sulla libertà, nel cui quadro i singoli momenti sono bensì correlati nella misura in cui formano un’unità logica e rappresentano la traduzione in atto della stessa coscienza e di atti di pensiero coerenti, ma non risultano legati in senso “causale”, perché scaturiscono dalla spontaneità del singolo individuo e sfuggono a quella conformità dell’universale a regole che siamo abituati a chiamare causalità. In effetti la possibilità elaborata da Simmel si avvicina molto a quella che Kant chiamava causalità secondo libertà. Alcune formulazioni di Simmel ricordano immediatamente questo concetto: «ogni singola anima umana rappresenta quindi, per così dire, un caso limite: è come se la nomologicità specifica di una di quelle categorie dell’essere si fosse concentrata in un unico esemplare. Mentre però tutte quelle altre molteplicità tendono almeno a forme superiori di comunanza, che consentirebbero di dedurre le loro differenze, in ogni anima individuale sarebbe invece riscontrabile un elemento ultimo e definitivo, i cui movimenti si svolgerebbero secondo una legge propria a lui soltanto»18. Questa legge può essere concepita soltanto come decisione autonoma della volontà del singolo individuo. Un decorso secondo causalità individuale è un decorso che obbedisce alla propria determinazione, e non a una determinazione universale, esteriore. Ciò che accade in virtù della propria determinazione, però, è libero. In questo decorso conforme alla propria determinazione, in quella che Simmel chiama la necessità, pur distinguendo al tempo stesso con la massima nettezza il necessario dall’universale, c’è però dell’altro. In precedenza avevamo tentato di farci un’idea più chiara di questa necessità evocando il concetto di essenza, ma abbiamo tralasciato di chiederci se possa avere senso servirsi di questa nozione prescindendo del tutto dal momento dell’universale.

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Forse possiamo spiegare meglio che cosa si intenda per «necessità secondo l’essenza» formulando il concetto in un altro modo: a consentirci di caratterizzare come necessaria la successione di due eventi storici, pur non potendo concepire il nesso che li lega come determinato da una legge universale, è propriamente il fatto che il susseguirsi dei due eventi diviene comprensibile soltanto in virtù di una teoria che sia adeguata ad essi e all’intero “sistema” cui essi appartengono. Avremmo ragione a parlare di necessità di fronte al susseguirsi dell’invasione militare tedesca e dell’esplosione o dello stile giornalistico e degli errori di stampa, pur ignorando gli snodi intermedi che consentirebbero di evocare leggi universali, soltanto se avessimo a disposizione una teoria in grado di ragguagliarci sulla condizione della società tedesca sotto il terrore e sulla sua tendenza a reagire in situazioni di particolare tensione, oppure una teoria del disfacimento del linguaggio nell’epoca della sua manipolazione commerciale. Quella che fin qui abbiamo chiamato necessità secondo l’essenza andrebbe indicata piuttosto come una necessità del pensiero. Mi spiego: se la nostra teoria è nel giusto, nella sua ottica siamo autorizzati a considerare necessari eventi come quelli di cui sopra perché il nostro pensiero è in grado di dedurli direttamente dallo stadio raggiunto dalla teoria stessa. Sarebbe insomma una teoria della società a fondare la legittimità di quei giudizi di necessità. Vorrei in effetti sostenere che qualunque affermazione intorno a nessi causali all’interno della società può legittimamente aspirare alla necessità soltanto nella misura in cui essa scaturisce dal pensiero rigoroso della teoria. Il fatto che questa teoria includa a sua volta infiniti momenti causali, e che forse tutte le sue determinazioni siano addirittura giustificate nel senso della causalità tradizionale, è un’altra questione. Dove parliamo di necessità secondo l’essenza, infatti, quelle causalità non entrano in ogni caso in gioco: l’unità della teoria funge per così dire da sostituto dell’universalità del teorema causale. È allora ovvio che tale teoria non è in alcun modo

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autonoma rispetto agli eventi che essa aiuta a comprendere, ma si costituisce e trasforma in continuazione in base all’esperienza dei singoli momenti. Possiamo tuttavia concludere che se mancasse del tutto un qualche genere di teoria in sé coerente, parlare di necessità in campo sociale non avrebbe alcun senso. Abbiamo dunque ricavato dalla teoria della causalità individuale di Simmel due elementi grazie ai quali ci è possibile assegnarle un contenuto più preciso che non quello di possibilità astratta che essa sembra avere in Simmel. Resta però da considerare la posizione dello stesso Simmel rispetto a questi due elementi, e ciò ci consentirà di comprendere e sottoporre a critica l’astrattezza delle sue formulazioni originali. Per quanto concerne innanzitutto il momento della teoria della società che ci permette di conferire un senso alla “necessità” di cui parla Simmel, e più precisamente il senso di una necessità del pensiero, in Simmel una simile teoria non compare affatto. Sotto questo riguardo è rimasto fedele alla teoria “idiografica” della conoscenza, tenendo fermo il concetto di individuo come unico oggetto e fondamento di ogni affermazione sulla società. Chi dissolve per principio ogni accadere sociale in agire individuale non è in condizione di fornire una teoria che consenta di determinare le condotte individuali come necessità del pensiero. Per questo in Simmel il concetto di necessità resta così vuoto. È come se qui, come in molte altre occasioni, Simmel avesse raggiunto il confine ultimo dell’individualismo e indicato problemi che non possono essere risolti con categorie individualistiche, ma senza riuscire a oltrepassare davvero le limitazioni del punto di vista dell’individualità accidentale. Per quanto riguarda l’altro momento della teoria, quello della libertà, Simmel l’ha preso in considerazione, sì, ma per disconoscerlo. «Il senso di ogni esistenza continuerebbe infatti a risiedere nella sua piena autonomia, non certo nel significato della libertà del volere – che qui non è affatto in questione –, bensì in quello di una legalità che appartiene alla singola esistenza come

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tale e solo da essa scaturisce, non da un sistema sovrastante»19. Devo confessare di non riuscire a comprendere del tutto la distinzione tra autonomia a libertà del volere che Simmel introduce in questo passo. Simmel ha escluso dal campo dell’autonomia ogni legalità che non appartenga direttamente all’individuo. Quella che siamo soliti chiamare libertà, però, altro non è che l’autonomia, cioè l’autonomia nel senso della legge che appartiene esclusivamente all’individuo stesso. La libertà, come Hegel ha sempre ripetuto a ragione, è l’esatto contrario del caso. Un individuo le cui azioni si susseguissero in modo del tutto accidentale e indipendente, tanto che le une implicassero l’esatto opposto delle precedenti, sarebbe tutt’altro che libero. Sarebbe per così dire esposto alla compassione di quei singoli momenti in contraddizione, e non avrebbe più alcun senso affermare che egli determina se stesso. Sarebbe libero soltanto se queste azioni e questi momenti isolati scaturissero da quell’unità che è per definizione il primo e irrinunciabile contrassegno dell’individuo come tale; in altre parole, se tutte le sue azioni fossero soggette a scelta e controllo per il tramite della coscienza individuale. Se questo nesso tra azione e coscienza non fosse necessario, il concetto di libertà sarebbe addirittura un insulto. Simmel si inganna quando tenta di scindere autonomia e libertà del volere, ammettendo la possibilità di un individuo autonomo ma non libero. Quella che a lui appare come illibertà – la immanenza, produttività e necessità del complesso delle condotte individuali – è addirittura l’unica possibile sostanza di quella che possiamo ragionevolmente chiamare libertà. Ciononostante vorrei nuovamente venire in soccorso di Simmel. Capita abbastanza spesso, in fondo, che dietro agli errori di pensiero e alle incoerenze dei filosofi si celino esperienze più profonde di quelle che l’affastellamento meccanico di deduzioni è in grado di comunicare. Se Simmel tenta di prendere le distanze dalla libertà del volere, pur senza riuscirci, un motivo c’è.

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Stante la nostra affermazione secondo cui la causalità individuale, vale a dire l’immanenza e la produttività di quel complesso di cui parla Simmel, è qualcosa che in verità presuppone la libertà dell’individuo, allora nella teoria di Simmel questa libertà risulta ipostatizzata a dispetto di tutti gli sforzi. In base a questo principio sarebbe possibile spiegare la storia e la società soltanto se in esse gli individui fossero realmente già liberi. Così non è, però, e Simmel lo sapeva bene. Per questo si è guardato bene dal trasformare il principio della causalità individuale in un vero e proprio principio esplicativo della storia e lo ha introdotto come semplice possibilità del pensiero – come una possibilità, verrebbe da dire, ancora tutta da realizzare. Le leggi che regolano l’andamento del mondo; il mondo con il quale gli uomini hanno avuto a che fare fino a oggi è in effetti un mondo che appare dominato dalla causalità universale delle scienze naturali molto più che dalla causalità secondo libertà. Se la causalità generale non basta a spiegare questo mondo, il fatto è che nel mondo c’è tanto caso quanta causalità. Soltanto nel momento in cui la libertà fosse realizzata il caso e la legge universale risulterebbero superate. Il concetto di causalità individuale, in effetti, si contrappone sia all’uno che all’altra. In termini kantiani, si tratta di un principio regolativo e non costitutivo. Per questo Simmel ha fatto bene a non applicarlo senza mediazioni alla realtà empirica, e a esprimere riserve proprio sul concetto di libertà. Ne risulta però un’ulteriore conseguenza per il rapporto tra individuale e universale. Simmel aveva affermato che la causalità individuale è una possibilità logica, ma una possibilità infruttuosa per la teoria della conoscenza. Infatti, «fermo restando che la causalità come forma non deriva dall’esperienza, essa raggiunge comunque la sua realizzazione solo quando è tratta induttivamente da eventi di contenuto analogo»20. Se il principio della causalità individuale, vale a dire l’autonomia e la libertà della persona, è davvero un’idea regolativa che non trova realizzazione nel mon-

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do in cui viviamo, mi sembra che le difficoltà gnoseologiche cui allude Simmel, che sono in verità anche problemi di contenuto, siano legate a questa circostanza. Altrove Simmel ha sostenuto che il contrasto tra ciò che obbedisce a una legalità universale e il particolare irripetibile nella storia coincide essenzialmente «con l’opposizione tra il gruppo sociale e l’individuo»21. È qui che ci imbattiamo nello spunto tematico cui miravo. Il fatto che siamo in grado di conoscere la causalità soltanto in quanto universale, mentre la causalità individuale si sottrae alla conoscenza, non è soltanto un problema delle nostre modeste facoltà conoscitive: il fatto è piuttosto che la libertà – nella quale consiste, come abbiamo visto, la causalità individuale – non può essere realizzata come principio universale conformemente al proprio concetto. Se essa si limitasse davvero alla singola monade come crede Simmel, essa resterebbe affetta da quell’accidentalità di cui Simmel parla come teorico della conoscenza. In quanto ambito della libertà la sfera individuale non può essere disgiunta tanto facilmente dalla sfera dell’universale come ambito della causalità, perché l’una e l’altra sono legate da un intimo rapporto di scambio. In un mondo completamente dominato dalle leggi universali l’individuale è in effetti qualcosa di accidentale. Se l’individuale deve assumere la forma della necessità produttiva, come vuole Simmel, si impone necessariamente una trasformazione dell’universale che al tempo stesso revochi la rigida legge meccanica dell’universale ed elimini l’accidentalità dell’individuo. Il vero individuo sarebbe il vero universale, così come l’individuo accidentale è il riflesso distorto della necessità astratta. Simmel ha ragione quando insiste sul fatto che per conoscere la necessità bisogna restare sul terreno dell’universale. Ha però più ragione di quanto lui stesso non creda, e in un modo più profondo: la libertà individuale può darsi soltanto in quanto universale e trasparente a se stessa, mentre in caso contrario essa resta incalcolabile perché accidentale e opaca, e a rigore non esiste neppure22.

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Note 1. Adorno dettò il testo alla moglie, che prese appunti stenografici e ne ricavò subito dopo una stesura a macchina che fu ulteriormente rielaborata a mano dall’autore. Il manoscritto reca inoltre diverse annotazioni di Max Horkheimer. Le ipotesi di traduzione aggiunte accanto a due parole lasciano supporre che il testo sia stato tradotto in inglese; un altro indizio in questo senso potrebbe essere il fatto che in un testo programmatico diffuso in copie ciclostilate (Institute of Social Research, Ten Years on Morningside Heights. A Report of the Institute’s History 1934-1944, p. 25) il titolo viene riportato in inglese: Simmel’s Theory of Individual Causality. L’unica altra allusione allo scritto che sia stata rintracciata finora si trova in una lettera di Gretel Adorno ai suoceri datata 21 aprile 1940: «la conferenza su Simmel che Teddie ha tenuto alla Columbia venerdì scorso ha avuto davvero un grande successo» (Th. W. Adorno, Briefe an die Eltern. 1939-1951, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2003, p. 72). 2. G. Simmel, Kant. Sechzehn Vorlesungen, gehalten an der Berliner Universität, Duncker & Humblot, Leipzig 19052, ora in Id., Gesamtausgabe, vol. 9, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1998, trad. it. Kant. Sedici lezioni tenute all’università di Berlino, Cedam, Padova 1953, p. 2 (modificata). 3. Si veda per esempio quanto Rickert scrive a proposito della prolusione che Wilhelm Windelband pronunciò come rettore dell’università di Strasburgo nel 1894, Geschichte und Naturwissenschaft [Storia e scienza naturale]: «egli vuole abbandonare la consueta suddivisione tra scienze della natura e scienze dello spirito, soprattutto perché non è possibile farvi rientrare la psicologia. Al suo posto deve subentrare la distinzione tra “scienze di eventi” [Eireigniswissenschaften] e “scienze nomologiche” [Gesetzwissenschaften], e il metodo delle une si chiamerà “idiografico”, quello delle altre “nomotetico”. In questo modo, se non altro, viene indicato con chiarezza almeno il primo, per ora il solo, dei requisiti per una ripartizione logica delle scienze che abbiamo discusso in precedenza. Anche l’espressione “scienza nomologica” è certamente appropriata, in quanto il supremo ideale della scienza della natura consiste nella formulazione di leggi; ma, presa alla lettera, è troppo ristretta, perché anche le scienze “descrittive” devono egualmente stare in opposizione a quelle “idiografiche”. Inoltre, il termine “idiografico” […] individua solo un problema, o comunque esprime solo unilateralmente l’essenza del metodo storico, di cui si limita a manifestare il lato negativo» (H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung. Eine logische Einleitung in die historischen Wissenschaften, Mohr, Tübingen 1921, p. 205 sg., trad. it. I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale. Un’introduzione logica alle scienze storiche, Liguori, Napoli 2002, p. 163, con integrazioni).

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4. Hugo Münsterberg (1893-1916), psicologo, professore a Harvard; fondatore della psicotecnica. 5. G. Simmel, Die Probleme der Geschichtsphilosophie. Eine Erkenntnistheoretische Studie, Duncker & Humblot, München-Leipzig 19224, ora in Id., Gesamtausgabe, vol. 9, cit., trad. it. I problemi della filosofia della storia, Marietti, Casale Monferrato 1982, p. 73. 6. Ibidem, p. 73 sg. 7. Ibidem, p. 75 sg. 8. Ibidem, p. 76. 9. Ibidem. 10. Ibidem. 11. Ibidem, p. 76 sg. 12. Ibidem, p. 77. 13. Nel dattiloscritto segue, tra parentesi, la traduzione inglese «workable». 14. Nel dettato originale di Adorno al posto dell’ultima frase si leggeva: «quello di produttività è un concetto preso direttamente a prestito dalla sfera dell’umano, o per essere precisi, nei termini delle scienze sociali, dalla sfera del lavoro umano. Il rapporto di “produttività” tra i due momenti connessi dalla causalità individuale sarebbe allora analogo a quello che lega il lavoro umano e il suo prodotto, anche se non sarebbe facile risolverlo in concetti generali come lo è nel caso della relazione lavorativa». 15. Nel dettato originale di Adorno segue: «è rinunciare a prendere le mosse dalla rappresentazione di singoli momenti interpretati in senso causale, e per ciò stesso trasformati in una generalità, per immaginare invece, al contrario, che esista fin dall’inizio un momento sovraordinato diverso da una generalità astratta che si limiti a indicare i tratti comuni di una serie di eventi isolati, ma piuttosto costituisca in generale l’individuale come tale prima che una simile estrapolazione risulti possibile. Una necessità di questo tipo sarebbe simile a quella che […]». 16. Nel dattiloscritto segue, tra parentesi, la traduzione inglese «sloppiness». 17. Nella redazione originale la frase proseguiva così, senza concludersi dal punto di vista sintattico: «perché dopotutto i “fattori individuali”, che possono venire accorpati con essi nel senso della generalità causale, qui risultano del tutto ignoti». 18. G. Simmel, I problemi della filosofia della storia, cit., p. 78. 19. Ibidem, p. 79. 20. Ibidem, p. 77. 21. Ibidem, p. 84. 22. Nel dattiloscritto si trova ancora una frase, chiusa tra parentesi ed evidentemente concepita per aprire la discussione seminariale: «se ho discusso così a fondo l’ipotesi problematica di Simmel la ragione è che ritengo che essa esprima, con tutte le sue difficoltà e contraddizioni, la situazione odierna dei concetti di causalità e libertà, casualità e necessità».

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Individuo e società. Abbozzi e frammenti

Problema del nuovo tipo umano1 I La psicologia come scienza presuppone una quasi assoluta costanza del suo oggetto, l’uomo. La conformazione di quest’ultimo viene fatta risalire a modelli di comportamento talmente inveterati e a necessità così profondamente naturali che i mutamenti storici prodottisi nella fase della vicenda umana che ci è dato abbracciare si riducono, in confronto, a un’obiezione ben modesta. La fame, l’amore, l’aggressività, l’invidia, l’ambizione, la concupiscenza: niente di tutto questo può essere cambiato granché dal tempo degli antichi Indoeuropei. Per la psicologia dell’illuminismo si trattava di un’ipotesi scontata. La psicologia sperimentale del XIX secolo non l’ha mai revocata in dubbio. In tempi recenti l’idea di una relativa costanza della natura umana è stata esplicitamente ribadita da Freud. Da questa ipotesi dipende l’intero sistema della pedagogia tradizionale. Ad essa si accompagna un secondo postulato, quello dell’illimitata perfettibilità dell’individuo. Da una parte troviamo insomma le pulsioni costanti, dall’altra i prodotti della loro sublimazione, i cosiddetti beni “culturali”. Quanto più si riesce a incoraggiare il processo di sublimazione, a rendere gli esseri umani permeabili alla “civiltà” e a lasciare che l’“illuminismo” si impadronisca di loro, tanto meglio è. Se la struttura pulsionale degli esseri umani conceda in ogni epoca lo stesso grado di presa alla “civiltà”, però, è un problema che nessuno si pone. Non ci si do-

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manda neppure se in talune situazioni questa civiltà non possa entrare in una tale contraddizione con le condizioni reali di vita da rendere impossibile il compito assegnatole, addomesticare le pulsioni. Neppure sull’intrinseco valore di questa civiltà e sui problemi che essa pone in una data situazione ci si è interrogati. Si continua a tenere in piedi la finzione per cui in qualunque epoca sarebbe cosa buona, “progressista” e umanista indurre gli uomini ad ascoltare le sinfonie di Beethoven, a leggere Milton e ad ammirare le madonne di Raffaello. Mentre nei singoli casi la possibilità di un rapporto vivo con i beni culturali e con il loro autentico valore si è fatta evidentemente problematica, in ambito pedagogico non si è mai seriamente messa in dubbio la possibilità dell’affinamento integrale dell’individuo nella situazione odierna, né tantomeno il suo valore assoluto. Non è questo il luogo per svolgere in tutti i suoi aspetti dialettici il problema dell’invarianza della natura umana – un’invarianza che probabilmente può valere soltanto all’interno di un una società basata sullo sfruttamento – e neppure quello, altrettanto dialettico, del valore e della possibilità della cultura. Siamo tuttavia dell’avviso che nell’attuale stadio della società perlomeno quegli strati dell’essere umano che risultano permeabili all’“educazione” stiano subendo modificazioni così radicali che né il presupposto tradizionale di un carattere di fondo essenzialmente costante né quello dell’eterna perfettibilità – paradossalmente legato al primo – possono continuare a valere. Siamo inoltre dell’avviso che la natura delle modificazioni che hanno interessato un’amplissima porzione degli uomini oggi viventi sia tale che l’imperativo pedagogico corrente – “coltivarli”, affinarli – non può più valere senz’altro, sia per quanto riguarda la capacità ricettiva degli uomini, sia per quanto concerne l’attualità dei beni culturali stessi. È indifferente quale sia l’atteggiamento valoriale dell’educatore nei confronti di problemi come la struttura pulsionale, la sublimazione, la civiltà: il suo lavoro può ave-

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re un senso soltanto se nelle sue riflessioni terrà conto in modo spassionato, senza farsi illusioni, dei mutamenti reali che hanno interessato gli uomini e il potere che la civiltà esercita su di loro. Le ricerche che abbiamo in programma2 vogliono essere un contributo a queste riflessioni. Non siamo affatto sicuri che i mutamenti di cui stiamo parlando possano in generale venire definiti come psicologici. Il concetto di psicologia è una categoria del liberalismo. Esso postula un individuo relativamente compiuto, costante e autonomo nella posizione dei propri scopi: in termini freudiani, un “io”. Se da un lato è ovvio che l’individuo come unità biologica continua a esistere, insieme a tutte quelle caratteristiche che servono alla sua riproduzione, dall’altro esso ha fatto il suo ingresso in una costellazione sociale al cui interno la riproduzione della sua vita non può più essere realizzata nel vecchio senso legato alla sua conformazione “monadologica”, cioè nel senso di un prelievo autonomo e antagonistico sull’ambiente. L’individuo sembra ormai condannato a potersi mantenere in vita soltanto a patto di abdicare alla sua individualità, di cancellare i confini dell’ambiente, di rinunciare a una parte consistente della propria autonomia e indipendenza. In ampi strati della popolazione non esiste più alcun “io” in senso tradizionale. Dal momento che l’intera cultura tradizionale nella quale l’educatore vuole integrare gli uomini presuppone l’io e si appella ad esso, però, la possibilità dell’educazione culturale diviene per ciò stesso estremamente problematica in partenza.

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II I mutamenti cui ci riferiamo sono trasformazioni della realtà sociale, dell’ambiente in cui viviamo. Essi ci sembrano agire così in profondità, e soprattutto interessare anche stadi talmente precoci dello sviluppo infantile, che la sublimazione, da sempre contrapposta alla realtà extramentale, non può più essere com-

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piuta alla vecchia maniera, sia perché la realtà non offre più all’io in formazione i necessari supporti, sia perché essa dispone ormai di uno strapotere tale da poter soffocare l’io e disgregarne le strutture interne per mezzo dell’angoscia. Nelle pagine seguenti accenneremo, senza alcuna pretesa di continuità nell’argomentazione, ad alcuni tratti caratteristici di questo mutamento strutturale dell’ambiente. (a) Il mondo non mette più immagini a disposizione del bambino, si trattasse pure di imagines tecniche di automobili e aeroplani. Il repertorio di immagini della religione è ormai in brandelli. Quello della cultura borghese non ha mai neppure raggiunto ampie fasce della popolazione, in particolare le masse industrializzate e rurali. I movimenti cresciuti sotto l’egida dell’illuminismo sono ostili alle immagini, e non possono che esserlo, mentre nella società di classe, che continua a sussistere, il bisogno di immagini, intese come uno dei supporti di qualunque sublimazione, non è affatto diminuito, forse è addirittura cresciuto. Oggi, però, le immagini vengono fornite soltanto da centrali monopolistiche come prodotto finito, con tutte le insegne della loro non-verità. Nessuno ha ancora studiato seriamente che cosa queste immagini significhino per gli uomini e quali siano gli effetti della loro non-verità. È in ogni caso possibile affermare che la contrazione della riserva oggettiva di immagini porta con sé una contrazione della fantasia soggettiva che sempre più confina gli uomini ai margini dell’esistente. (b) Gli oggetti che fungono da supporto per le nostre azioni si trasformano. La loro tecnicizzazione fa sì che nel rapporto con gli oggetti d’uso gli uomini debbano “adeguarsi” in una misura incomparabilmente maggiore rispetto a qualunque epoca passata. L’automobilista e il radioamatore sono tenuti a regolarsi sulla conformazione delle cose, che detta loro un percorso, in misura incomparabilmente maggiore, per esempio, dell’artigiano. Ma nell’era del capitalismo industriale del XIX secolo le fun-

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zioni dell’individuo, perlomeno per quanto riguardava il tempo libero, non erano neanche lontanamente dipendenti dai prodotti della tecnologia come lo sono oggi. Perfino il gioco viene investito da strutture tecniche. (c) La struttura del processo lavorativo è radicalmente mutata. Essa non tollera più l’“esercizio” e l’“esperienza” nel senso tradizionale, quello che potrebbe venire esemplificato dall’agricoltura. I mutamenti del processo lavorativo si irradiano dal vero e proprio lavoro industriale sulla macchina all’intera società, giungendo a intaccare perfino le cosiddette attività spirituali, dove il pensiero capace di esperienza comincia a essere rimpiazzato da manipolazioni tecniche di stampo logico-formale. Passando per il nastro trasportatore e per le macchine da ufficio si arriva al “sequestro” dei fenomeni mentali spontanei da parte di processi reificati, quantificabili. (d) La sociologia ha esaminato in ogni dettaglio la disgregazione dell’autorità familiare, in particolare sotto la pressione della disoccupazione strutturale. È tuttavia ragionevole presumere che la decadenza della famiglia si manifesti al livello più profondo dello sviluppo infantile. La famiglia ha cessato di essere l’agenzia di mediazione tra la società e l’individuo: la società, per così dire, si è impadronita direttamente dell’individuo stesso, e proprio dal momento che a quest’ultimo viene sottratto lo strato protettivo della famiglia, esso non diviene più individuo nel senso tradizionale del termine. Il fatto che si è potuto osservare in Germania, e cioè che i Nazionalsocialisti in una certa misura cospirano con i bambini contro la scuola e i genitori, è forse soltanto la forma istituzionale di tendenze sociali molto più profonde. Si può forse affermare che anche per il bambino americano l’automobile rappresenti oggi un’autorità superiore a quella del padre. Sarebbe d’altra parte avventato ipotizzare che la contrazione dell’autorità familiare all’interno della società attuale rappresenti di per se stessa un momento di progresso e di li-

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berazione. Da un lato è nel confronto vivo e concreto con la famiglia che maturano le migliori forze dell’individuo, a cui ora per così dire viene a mancare il concreto punto di innesto, dall’altro lo strapotere immediatamente percettibile che la società esercita sull’individuo, senza il concorso di istanze intermedie, è così forte che a un livello profondo il bambino che cresce “senza autorità” è forse preda di un’angoscia più grande di quella che il buon vecchio complesso di Edipo è mai stato capace di produrre. Gli educatori progressisti spesso trascurano proprio questo aspetto della situazione. (e) Un fenomeno analogo all’atrofia del mondo delle immagini è il deperire della riserva lessicale e della capacità di espressione verbale. La lingua popolare tradizionale, con la sua filigrana religiosa, ha ormai cessato di esistere. La lingua colta appare agli uomini estranea e fredda. Vengono nutriti dall’alto con una lingua sintetica, essenzialmente determinata dalla pubblicità, che non li sazia più. Non sono più loro stessi a parlare, ma parla per tramite loro la voce dell’annunciatore radiofonico. I mutamenti del corpo linguistico interessano in massima parte il monologue intérieur. Nessuno ha ancora provato a studiare l’influsso che questa incipiente afasia esercita sulla condizione globale dell’uomo privato di linguaggio. (f) Il rapporto dell’uomo con la propria fisicità sembra subire un mutamento peculiare ed estremamente profondo. Si potrebbe interpretare lo sport come tentativo di riconquistare al corpo una parte di quelle funzioni che la macchina gli ha sottratto. Il prezzo da pagare, però, è trasformarsi in una sorta di macchina virtuale. Entra in gioco una sorta di quantificazione tecnologica del corpo, nella quale concetti come fitness o training, ma alla fine soprattutto la pura e semplice forza fisica, rivestono un ruolo sempre più grande. È questo mutato rapporto con la propria corporeità, e in particolare con la forza fisica, cui non si contrappone più alcun tabù, a rendere davvero problematica la pos-

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sibilità dell’“affinamento” educativo. La strada che porta alla “barbarizzazione” è probabilmente legata a questo nuovo atteggiamento nei confronti della natura corporea. Neanche questo, a nessun prezzo, va interpretato come “liberazione” del corpo vivente che la cultura borghese aveva “represso”. La fisicità dei naturisti è quasi del tutto desessualizzata. È ormai radicata la tendenza a tradurre i cosiddetti beni culturali, per quanto ormai se ne può fare esperienza, in categorie di performatività fisiologica, o perlomeno a esperirli in analogia a questa. Si trasformano in competizioni, in test e in stimolanti fisici. Nei prodotti culturali il livello che in parole povere potremmo chiamare “spirituale” sembra recedere sempre di più.

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III La trasformazione dell’ambiente, di cui abbiamo estrapolato alcuni esempi che tenevano già conto delle rispettive implicazioni psicologiche, rimandano a un nuovo tipo umano in corso di formazione. La si è denominata con espressione felice “radiogeneration”, generazione radiofonica. È il tipo dell’uomo la cui essenza è definita dall’incapacità di compiere esperienze personali, un uomo che si lascia imbandire le esperienze dall’apparato sociale, fattosi strapotente e impenetrabile, e che proprio per questo non riesce a spingersi fino allo stadio della formazione dell’io, fino alla “persona”. Secondo le teorie della psicanalisi ortodossa un tipo umano che fallisce a tal punto nella formazione dell’io sarebbe da classificare come nevrotico. Il concetto di nevrosi, però, implica determinati conflitti con la realtà. Dal momento che però la generazione radiofonica si priva della possibilità di formarsi un io proprio adeguandosi passivamente alla realtà, e dal momento che proprio in virtù della mancanza di un io essa sembra integrarsi senza alcun conflitto nella realtà, il concetto di nevrosi non può essere applicato senza alcune riserve. Se

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tutti costoro sono malati – e ci sono ottimi motivi per crederlo – essi non sono in ogni caso più malati della società in cui vivono. Al tempo stesso è dalla loro conformazione che dobbiamo partire per tentare di cambiare le cose. Abbiamo ragione di credere che l’atrofizzazione si accompagni alla liberazione di alcune facoltà che mettono queste persone in grado di operare trasformazioni che i vecchi “individui” non avrebbero mai saputo realizzare. L’apertura di una breccia nella parete monadologica che nell’era liberale imprigionava ogni individuo in se stesso è motivo di grandi speranze. La generazione radiofonica è stata definita “bidimensionale”. La mancanza di continuità nell’esperienza rende loro quasi impossibile provare felicità e dolore. Nessuna felicità, perché essa si dà soltanto dove c’è il sogno, ed essi non sanno più sognare. Sono pressoché incapaci di concepire scopi che vadano al di là del loro ambito d’azione abituale, e tali da trascendere l’adattamento alle sue condizioni. Felicità significa per loro adeguarsi, poter fare quello che fanno tutti, fare ancora una volta quello che fanno tutti. Sono privi di illusioni. Vedono il mondo così com’è, ma a costo di non poterlo più vedere come potrebbe essere. Per questo sono carenti anche dal punto di vista del dolore. Sono “induriti” in senso fisico e psicologico. La freddezza è uno dei loro tratti più spiccati: sono freddi nei confronti del dolore altrui, ma anche nei confronti di se stessi. Il dolore ha così poco potere su di loro perché quasi non se ne ricordano: sono come il paziente che si risveglia dall’anestesia senza più sapere nulla delle sofferenze provate nel corso dell’operazione (il momento della freddezza è stato sottolineato in particolare da Ödön von Horvath). L’impiego della tortura nei regimi fascisti potrebbe avere rapporti molto stretti con questi aspetti. Se esso parte da individui assuefatti al dolore, si rivolge d’altro canto a individui che possono ancora essere raggiunti soltanto per mezzo di un eccesso di dolore. A questa freddezza risponde una complicità se-

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greta con le cose, alle quali si cerca di assimilarsi. Nella misura in cui esiste ancora una libido individuale, cioè nella misura in cui non tutta la libido è ancora incanalata nel collettivo, essa si rivolge a degli strumenti (il fenomeno della toolmindedness). Il mondo delle cose diventa il sostituto delle immagini. Professano la religione dell’automobile. Il rapporto con i prodotti della tecnologia mette capo a una quantomai curiosa mescolanza tra capacità di improvvisazione e obbedienza, tra “iniziativa” autonoma (mentalità da truppe di assalto) e rinuncia a un pensiero autonomo, una miscela che racchiude in sé la possibilità di entrambi gli estremi. Il problema principale è ai nostri occhi l’interdetto psicologico oggi in vigore. Pensare di più, cioè spingersi per mezzo del pensiero al di là delle esigenze immediate poste dall’ambiente circostante, equivale oggi per la maggior parte degli individui a turbare quel processo di adattamento che requisisce la totalità delle loro energie psichiche. Pensare di più significa ormai di per sé mettere a rischio le proprie chance di carriera, se non addirittura la propria immediata sicurezza. Al tempo spesso, però, la perdita di ogni illusione intorno alla realtà, la quantificazione dei processi lavorativi che in teoria può consentire a ciascuno di svolgere qualunque mansione, e la relativa immediatezza con la quale le forze della società si affermano fanno sì che proprio il mondo oggettivo delle cose venga incontro a quella conoscenza che esso contemporaneamente reprime. Quegli stessi uomini che si vietano il pensiero (e comportamenti affini come leggere libri, discutere di problemi teorici, ecc) si sono fatti “scaltriti” e non si lasciano più abbindolare da nessuno. Questa contraddizione ci sembra delimitare il problema veramente centrale di un’educazione riflessiva nell’attuale fase storica. Si tratta di sospingere questo “essere scaltriti” fino al punto in cui esso fa saltare la fissazione all’ambito di azione immediato e si trasforma in autentico pensiero. Se una simile operazione riuscisse, sarebbero proprio gli uomini “mutilati” a trovarsi nella condizione

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ideale per mettere fine alla mutilazione. La loro freddezza può diventare spirito di abnegazione per il vero, l’improvvisazione diventare astuzia nella lotta contro l’organizzazione colossale, la loro afasia diventare prontezza nel compiere atti decisivi, senza parlare o discutere. È a questo punto evidente che l’operazione richiesta in questo senso alla pedagogia non coincide con quella che spettava a un’educazione alla “cultura” tradizionale. 62

IV Vorremmo cominciare a lavorare sui problemi che abbiamo delineato, seppure solo per sommi capi, a partire dal campo della musica. Da un lato perché riteniamo di aver già svolto esaurienti lavori preparatori in questo settore, in secondo luogo per motivi di qualificazione personale e specialistica, ma infine anche perché crediamo che la musica offra oggettivamente un punto di partenza particolarmente vantaggioso. Il fatto che la musica sia dal punto di vista sociopsicologico una terra incognita significa che in questo campo sono state prodotte molte meno concezioni sofisticate, e che è possibile porre i problemi senza farsi troppo ostacolare dai cliché. Ci proponiamo di mettere a punto, per un terreno teoreticamente vergine alcuni piccoli modelli che sarebbe molto più difficile ottenere se fossero più vicini ai punti nevralgici della discussione, mentre resta possibile, una volta giunti a esiti precisi nel campo indicato, applicare questi risultati alle questioni veramente decisive, quelle sociopsicologiche e sociopedagogiche. La musica si presta particolarmente allo scopo perché condivide con il linguaggio alcuni caratteri fondamentali, e come il linguaggio si trova oggi integralmente dominata dalle centrali monopolistiche, mentre al contempo, in virtù del suo contenuto specifico, essa non intrattiene un rapporto immediato con il mondo oggettivo, e di conseguenza è possibile occuparsene in

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sede di ricerca senza soggiacere agli stessi tabù e alle stesse razionalizzazioni cui soggiacciono le conclusioni che riguardano immediatamente il mondo oggettivo. Al tempo stesso, d’altra parte, l’influsso di questo mondo oggettivo si lascia percepire in tutti gli elementi della sfera musicale. La musica è davvero, secondo le parole dell’estetica di Schopenhauer, «il mondo ancora una volta», ma un modello sul quale i tratti decisivi della realtà si possono studiare senza che sia necessario discutere direttamente il contenuto di questa realtà. Per un simile intento conoscitivo la neutralità politica della musica è un fattore importante. Al tempo stesso, però, la musica risente di gran parte dei mutamenti dell’ambiente presentati nella sezione II. Fenomeni come la toolmindedness, i test e la mentalità sportiva, la sostituzione dell’autorità familiare con l’autorità sociale (generazione del jazz), la recessione dell’elemento spirituale della cultura in favore di quello fisico, si lasciano studiare tutti nel modo più approfondito proprio in campo culturale. I singoli studi musicali che progettiamo di intraprendere sono indicati nel precedente memorandum3. Il loro rapporto con le considerazione generali accennate in questa sede sono in alcuni casi evidenti, mentre in altri emergeranno spontaneamente nel corso delle ricerche. In particolare nello svolgimento delle ricerche ci auguriamo di riuscire a determinare molto più concretamente che non in passato il farsi-problema dei “beni culturali” tradizionali e la loro rifunzionalizzazione. Lo scopo cui miriamo è duplice: la musica dovrà essere trattata come un modello neutrale dei problemi relativi al nuovo tipo umano, al suo rapporto con la cultura tradizionale e al farsi-problema della cultura stessa; bisognerà tentare di sviluppare, nel senso di una progressive education, cioè senza porsi scopi astratti, ma esclusivamente sulla base di quanto effettivamente sappiamo sullo stato attuale della coscienza e del suo rapporto con la conformazione complessiva della società, finalità e metodi per una pedagogia musicale che si

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dimostri all’altezza di questo stato di cose, senza mascherarlo con idee nebulose sul progresso e sulla civiltà, e al tempo stesso senza cadere vittima della barbarie e dell’ostilità distruttiva per la cultura che minaccia di rovesciarcisi addosso, ma afferrando le possibilità che secondo il criterio di un’umanità veramente emancipata si profilano, non importa se debolmente e in negativo, nella situazione attuale. Con ciò non pensiamo soltanto alla speranza che la cultura musicale possa riuscire a sopravvivere all’inverno della catastrofe imminente – anche se una simile preoccupazione non ci appare per nulla disprezzabile – ma intendiamo piuttosto mettere a punto nella zona neutrale della musica metodi che possano promettere risultati anche in ambiti che lo sono di meno.

Appunti per la nuova antropologia4 La nuova antropologia, vale a dire la teoria del nuovo tipo umano in formazione sotto le condizioni del capitalismo monopolistico e statale, si contrappone frontalmente alla psicologia. Il concetto centrale della psicologia è quello dell’individuo. Tale concetto si è fatto obsoleto, o quantomeno logoro, in molti dei suoi aspetti decisivi. Esso appartiene al liberalismo, e a un mondo che si muove tra i poli della libertà e della concorrenza. Né l’una né l’altra esistono più. I rappresentati del nuovo tipo non sono più individui: l’unitarietà, continuità e sostanzialità del singolo è andata perduta. Sono davvero come il behaviorismo, che non per nulla è sorto nel paese dove il capitalismo monopolistico è più avanzato, si immagina l’uomo. Forse i behavioristi hanno costruito la loro immagine dell’uomo primitivo sulla base dell’uomo attuale. Oppure quest’ultimo è davvero regressivo nel senso di una spersonalizzazione che rimanda a fasi di gran lunga anteriori allo stadio della storia occidentale. L’inadeguatezza della psicologia va dimostrata sotto due punti di vista: nel suo rapporto con la psicanalisi e in quello con la psicologia sociale.

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La psicanalisi è sotto ogni rispetto liberale e individualista. Il teorema di Freud secondo il quale «tutte le nostre esperienze hanno un senso», cioè appartengono tutte a un contesto chiuso definito dall’unità della persona, a partire dalle quali esse si costituiscono, fa di ogni individuo una piccola autarchia, una sorta di azienda concorrente. La società e la rinuncia alle pulsioni che essa comporta gli si contrappone come qualcosa di esteriore, come “emergenza vitale”. Si tratterà di mostrare come proprio questo confine non esista più, di mostrare cioè che le istanze sociali hanno requisito l’individuo stesso, che l’individuo è aperto, e che il concetto di un senso coerente e permanente del continuum dell’esperienza è ormai inadeguato. Anche il concetto di economia pulsionale è legato a presupposti liberali. Freud si rappresenta i processi pulsionali come una sorta di scambio di equivalenti. I modelli pulsionali di scambio elaborati da Freud non valgono più, nel momento in cui l’io ha perduto la facoltà di disporre delle masse pulsionali a lui sottoposte. Nel momento in cui si costituiscono soggetti collettivi, l’economia pulsionale e il meccanismo della libido risultano completamente destituiti. Nelle sue opere più avanzate, soprattutto in Al di là del principio di piacere, Freud ha avuto sentore di tutto questo, ma non ne ha tratto le dovute conseguenze. Il concetto di rimozione ha perduto la sua validità. Gli uomini massificati del nostro tempo rimuovono molto poco (esattamente come la decadenza della famiglia ha estinto i tabù sessuali). Manca l’istanza dell’io, che determina la rimozione. Ciononostante essi sono “abnormi” in un senso più profondo, perché la loro non-rimozione e la soddisfazione delle loro pulsioni si costituiscono in modo insolito e mutilato per il tramite del soggetto collettivo. Bisogna spiegare con esattezza perché l’attuale rifiuto della rimozione è ancora più preoccupante della vecchia rimozione. Neppure il concetto di inconscio ha più l’estensione di un tempo. A ben guardare tutti sanno perfettamente come stanno le cose, e al posto della censura suben-

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trano oggi il dispetto e l’ostilità universale. (Su questo punto vedi in particolare la conclusione di Likes and Dislikes e delle Musikalische Warenanalyse)5. Mutamenti nell’appercezione. Questioni di classe anagrafica. Imitazione delle immagini. Reificazione dell’uomo come imitazione delle cose. Il problema dell’astrologia. Non c’è più alcun influsso. Immagine del padre e della madre rimpiazzati dalla forza sociale immediata. La famiglia ha smesso di funzionare come agenzia. Vale per l’America come per il fascismo. Problema della psicologia del lavoro. I modi di comportamento imposti dalle attuali condizioni di produzione vengono estesi al resto. L’elemento astrologico del tipo così come esso viene efficacemente espresso nel romanzo di Horvath6, gli uomini imitano alcuni archetipi storici dell’epoca. Adjustement significa ancora imitazione. La sicurezza non ha niente a che vedere con il vecchio ideale borghese, ma consiste per lo più nell’organizzare la propria vita in modo tale che essa non sconfini mai dalle situazioni che di volta in volta si trovano già date. La discontinuità ripara dall’angoscia. Il concetto di carattere anale non ha più valore. Il feticista delle merci di nuovo conio preferisce di gran lunga assomigliare alle merci che non possederle nel tempo. La mancanza di relazioni caratterizza sia gli oggetti che i soggetti. La furia consumistica e il gettare via sono equivalenti. L’odio rivolto contro tutto ciò che non è up to date è il contrario dell’anale. Il modo in cui il nuovo tipo sostituisce la propria felicità con la partecipazione a manifestazione collettive, con l’astratto essere presente, è già di fatto equivalente al sacrificio degli aviatori e dei capitani dei sottomarini fascisti. Anche il concetto di “egoismo” non si applica al nuovo tipo, per via della mancanza di un ego.

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* Leggendo i romanzi americani più recenti non si può fare a meno di sentirsi frodati. La frode non ha a che fare con il contenuto, che può essere in perfetta buona fede. Essa sta piuttosto nella stessa pretesa di narrare. Tutti questi romanzi sembrano dire implicitamente: no, non è ancora tutto uguale, non tutto è dominato dal monopolio, ma soprattutto: è ancora possibile compiere esperienze. Persino nelle storie di Wright sulle atrocità compiute ai danni dei neri7 c’è qualcosa della pretesa di poter ancora raccontare in modo epico, come se uno fosse Johann Peter Hebel. Il concetto della pseudoindividualizzazione, vale a dire il mascheramento della standardizzazione per mezzo dell’apparenza del particolare, è caratteristico di tutta la prosa americana recente. Questa forma di inganno emerge con particolare chiarezza in certi prodotti della letteratura di consumo, come il romanzo giallo, dove è evidente che gli elementi concreti servono soltanto di facciata. Anche in generale, tuttavia, la miseria dei lavoratori sradicati in viaggio verso la California serve solo a nascondere quella dei drugstores, delle cafeterias e delle pompe di benzina di New York. Il concetto di esperienza di Benjamin8 si riferisce al particolare, e si potrebbe quasi definire lo sforzo che anima la sua intera filosofia come un tentativo di portare in salvo il particolare. Il tratto scandaloso dell’America è che proprio qui, dove l’universale ha completamente distrutto il particolare, e dove la ripetizione del sempre uguale prende il posto dell’esperienza, si tenta di rappresentare il particolare come qualcosa che sopravvive ancora. Fondamentalmente gli Americani non fanno che gridare ai quattro venti quello che poi obbiettano ai miei studi: non si può generalizzare. In verità, però, sono loro ad avere ampiamente generalizzato. La distruzione dell’esperienza da parte dell’universale, rispetto al quale il singolo funge da mero esemplare, non è altro che l’universalità del dominio sociale, intollerante di ogni residuo che non sia determinato dall’alto a partire dal suo

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concetto, cioè dalla sua categoria economica. I fenomeni che Benjamin chiamava decadenza dell’aura e distruzione dell’esperienza9 sono essenzialmente lo stesso che il principio sociale della totalità. Tale principio si è imposto nelle forme della coscienza molto prima che nella realtà politica, denunciando l’impotenza di ciò che è irripetibile e particolare, già prima che esso risultasse del tutto neutralizzato sul piano economico e politico. Benjamin ha sostenuto che l’aura fosse legata allo hic et nunc del particolare. Lo stesso vale però per ciò che può essere narrato. Dove lo hic et nunc è diventato fungibile il diritto di narrare è decaduto. Questo è il principale motivo per cui il linguaggio in sostanza non esiste più, e per cui non è più possibile dire nulla. Il fatto è che il linguaggio continua a far valere a partire da se stesso quella pretesa di narrare che il mondo non esaudisce più. Quello che non si può raccontare, però, non si può neanche esperire. L’esperienza è il sussistere della non-identità. Al giorno d’oggi, però, l’esperienza ferita è il rifugio dell’ideologia, che maschera con false apparenze qualcosa che sarebbe altrimenti impossibile sopportare, e in questo modo contribuisce a perpetuare l’esistenza dell’insopportabile. Forse è questa l’unica vera obiezione da muovere a Knut Hamsun: tiene fermo il gesto dell’esperienza di fronte a una realtà fattasi estranea all’esperienza. Hamsun è il padre di quegli infausti vecchi saggi della radio americana che distribuiscono consigli agli uomini del Far West pescando nel tesoro della loro lunga vita, ma solo allo scopo di indurre i bambini in ascolto a comprare una certa marca di fiocchi d’avena per la colazione. Se la pubblicità ha distrutto l’esperienza, al tempo stesso essa ha fatto dell’esperienza una mera trovata pubblicitaria. * La nuova antropologia non può essere svolta in concetti psicologici, e questa impossibilità va dedotta dalla società stessa. Nello stadio attuale la concorrenza è stata rimpiazzata dal dik-

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tat, e per il resto la fungibilità degli uomini si è fatta completa. Le migrazioni forzate disposte da Hitler realizzano una tendenza già latente nello sviluppo della tecnologia industriale: chiunque può essere assegnato a qualunque posto. Il fatto che la formazione dell’io non abbia più luogo, e che le esperienze vissute non ricevano più il loro senso a partire dall’unità della persona, va dedotto dalle condizioni sociali del processo lavorativo. Motivi: 1) L’indebolirsi della monade, che abbandona la lotta per la concorrenza, fattasi ormai disperata10. Il confine tra l’individuo e la realtà comincia a sfaldarsi. Questa è l’origine dei fenomeni nevrotici di massa, assolutamente decisivi per la nuova antropologia, come il caso Orson Welles11, il fatto di credere che il Ranger Solitario esista davvero, il culto degli eroi cinematografici, etc. Wagner come modello12. 2) La rinuncia alla continuità della persona come strumento di sussistenza. Soltanto chi è disposto ad “adeguarsi”, a prezzo di una totale spersonalizzazione, ha qualche possibilità di sopravvivere. Il modello di questo schema comportamentale è forse la scelta del lavoro da svolgere che moltissime persone compiono nell’epoca della pubertà. 3) Il mutamento prodottosi nella sfera erotica è legato alla rinuncia alla continuità. Il calore è ciò che permane. Il calore è una funzione della memoria13. La categoria fondamentale è quella della gratitudine, e proprio questa va scomparendo. Il partner erotico viene piuttosto disprezzato: il disprezzo è l’espressione del dispetto che nasce dalla coscienza dell’infelicità. Nei più tipici casi giudiziari che hanno dei giovani per protagonisti (processo Kranz14), così come in Horvath, è particolarmente significativo che i principali indiziati ripetano in continuazione che non amavano affatto il partner erotico in nome del quale hanno commesso il crimine. 4) Anche quella che mi piacerebbe chiamare un’atmosfera da scorticatoio mi sembra in qualche modo rivestire una funzione

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chiave per la nuova antropologia. Il cadavere, ma in generale anche il corpo, diventa una “porcheria” (lo si vede anche nel sadismo dei campi di concentramento, dove al corpo viene notificato che esso non è altro che spazzatura). Qui si ritrova un momento essenziale del disincivilimento. Il cumulo di immondizia, il cimitero delle automobili, il retro dello scorticatoio, i gatti annegati: tutti questi ambiti apocrifi ai margini della civiltà fanno improvvisamente irruzione al centro della scena15. 5) La distruzione dei tabù non significa liberazione, ma odio di sé. In effetti è come se i tabù, fino a questo momento rappresentati dal super-io, venissero trasferiti al potere sociale dichiarato. Un tratto comune a tutte le espressioni del desiderio e del godimento nel nuovo tipo umano è il fatto che in esse non c’è gioia. In questo concordano la spiccia promiscuità degli alloggi per operai, il ghigno dei jitterbug, la mancanza di piacere per la battaglia vinta. La felicità viene espropriata, essa viene immediatamente accreditata alla società senza che il singolo possa minimamente parteciparne. Il tipo di felicità di cui godono i rappresentanti del nuovo tipo, che passano per privi di inibizioni, sta alla felicità vera come la disoccupazione sta all’eliminazione del lavoro16. È necessario dimostrare nel dettaglio come gli uomini trasferiscano il modo di produzione alla loro vita, e come alla fine i rapporti di produzione prendano il posto della psicologia. In aggiunta a ciò il fatto che gli uomini, mentre aspirato a sottrarsi al processo produttivo meccanizzato, non fanno che riprodurlo nel loro tempo libero, un fatto impossibile da comprendere in termini psicologici17. Il nuovo tipo umano è quello per il quale tutti i proverbi risultano destituiti. Si tratterebbe di mettere a punto una lista di proverbi non più veri, come per esempio: «violenza non dura a lungo», «domani è la canzone degli oziosi», «la ricchezza comincia da zero».

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A proposito del nuovo tipo si potrebbe parlare di una riconquista dell’analfabetismo. La combinazione di scaltrezza e ottusità18 che un tempo si poteva osservare ai margini della società borghese, nelle prostitute e negli emarginati, è divenuta oggi la norma. Dalle donne si è propagata agli uomini passando per i cosiddetti giovani. Lo studio dell’inflazione tedesca. In quella fase, in un certo senso, si sono annunciati come in un lampo e dalla notte al giorno i tipi che più tardi avrebbero occupato il mondo. Gli studenti di ginnasio che nei primi anni del primo dopoguerra spacciavano farmaci contro la sifilide e cocaina19, gli omosessuali che si prostituivano e le domestiche decadute hanno funto in qualche modo da modello per le masse a venire.

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* Una delle ragioni che hanno favorito la formazione del nuovo tipo è il fatto che sempre più giovani borghesi si rendono conto di non poter più accumulare20. Quel lato del possesso che contribuiva alla creazione di una tradizione è andato perduto. Quello che un tempo valeva solo per il proletariato ora vale per tutti. Forse la trasformazione dell’uomo è dovuta anche al fatto che da un lato non esistono più quelle cose che si sperava di possedere in eterno, che si pensava di lasciare in eredità, mentre dall’altro, a causa della produzione di massa, nessuna cosa è più tale che valga la pena possederla per sempre. In generale il venire meno della stessa eredità, sia come qualcosa su cui si può contare in prima persona, sia come qualcosa che si possa trasmettere ai propri figli. * La nuova antropologia è chiamata ad analizzare nel suo complesso il problema dell’ordine della generazione. Il problema edipico come problema legato all’ordine del possesso tra le generazioni. Per la nuova antropologia il problema edipico non vale più.

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* Se in generale la classe borghese sia mai stata realmente in grado di compiere esperienze. Se la pseudomorfosi della borghesia con il modello feudale (la classe feudale non ha mai conosciuto pseudomorfosi analoghe) non abbia mirato fin dall’inizio a produrre surrogati dell’esperienza. Se lo specifico carattere di apparenza del XIX secolo, il problema dei passages21, non dipenda dal fatto che l’abitazione borghese e in generale il mondo borghese delle cose comunicano l’apparenza dell’esperienza, che in realtà è preclusa. Se mi si domandasse che cosa caratterizza il nuovo tipo, la sensazione più netta che esso mi ispira è questa: sono uomini venuti da abitazioni vuote, e la parola cultura è associata nella mia mente all’immagine di un intreccio di rampicanti poggiato a mo’ di tappeto sul pavimento di una serra, dal quale può essere facilmente rimosso. Forse la freddezza del nuovo tipo e l’intera Nuova Oggettività non sono altro che lo stesso fondo roccioso su cui poggia la classe borghese, travestito e coperto. Secondo il suo stesso senso, in sostanza, il modo di produzione capitalistico non ammette l’esperienza, e l’intera cultura borghese è il tentativo di dissimularlo. Forse già Don Chisciotte è l’espressione dell’impossibilità dell’esperienza. Anche da un punto di vista antropologico il nuovo di oggi è il vecchio della borghesia. Tutto questo, naturalmente, è vero soltanto a metà, perché ovviamente esiste un concetto borghese di esperienza, che comprende anche il momento della tradizione, così come lo si trova in Goethe e Schopenhauer. E tuttavia per la classe borghese l’esperienza è in qualche modo perturbata. Forse il fatto è che per il borghese la saggezza dell’“eternamente identico” prende il posto dei contenuti tramandabili. Il nocciolo della sua esperienza è questo: non può darsi nulla di nuovo sotto il sole. Il nuovo, però, è l’unico oggetto dell’esperienza. Forse la borghesia ha surrogato fin dall’inizio il nuovo con l’esperimento. Il nuovo tipo, come ha ben visto Horvath, si caratterizza proprio per lo sperimentare. Ai propri stessi

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occhi, come agli occhi degli altri, gli individui possono essere scambiati tra loro come gli ingranaggi di un esperimento seriale. La crudeltà, il non tirarsi indietro di fronte a nulla, nemmeno di fronte a se stessi, sono legati a questo aspetto. Vedere come un uomo si comporta in questa o quella condizione, per esempio quando lo si evira, quando lo si uccide, o anche vedere come si reagirebbe a propria volta. Il nuovo tipo è diventato sul piano del contenuto quello che prima era solo a livello di metodo: il soggetto delle scienze naturali. Cioè anche l’oggetto.

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* Quanto all’affermazione per cui la psicologia americana sarebbe il prodotto di un popolo ancora giovane, della vita di frontiera e cose del genere, bisogna dire che per quanto concerne la formazione del nuovo tipo l’America è molto più avanti dell’Europa, ma l’Europa ce la mette tutta per recuperare lo scarto. * Nel rapporto con la tecnologia il nuovo tipo si caratterizza per il fatto che non è la comprensione dei prodotti tecnologici a interessargli, ma l’identificazione con essi. I ragazzini che fanno capannello intorno a un’automobile particolarmente slanciata prendono la posa di esperti, ma sono ben lontani dall’esserlo. La loro gioia consiste piuttosto nel conoscere il nome di quell’auto e i termini tecnici che indicano alcune delle sue innovazioni. Esattamente come i lettori delle riviste di sport. La questione dell’origine del feticismo psicologico delle merci va riposta daccapo nel suo complesso. Essa non ha solo a che fare con i momenti indicati nel saggio sul Carattere di feticcio in musica22, e neppure con la sola imitazione dei prodotti meccanici da parte degli uomini, ma in parte anche con l’opacità dei processi altamente specializzati agli occhi dei profani. Anche qui, forse, fare breccia nell’opacità avrebbe un’importanza decisiva per cambiare le co-

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se. Un ragazzino che abbia davvero compreso il principio del motore a scoppio smetterebbe di venerare i dodici cilindri.

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* Per comprendere lo specifico tipo di miscredenza che caratterizza il nuovo tipo è forse necessario esaminare più attentamente la generazione dei genitori. L’ideologia dei genitori, infatti, si è sedimentata nei figli come realtà delle immagini o dell’assenza di immagini. I genitori erano “illuminati”. Questo tipo di illuminismo che caratterizza il XIX secolo, però, è radicalmente diverso da quello originario. Anche qui il concetto di natura è al centro, anche qui le scienze naturali sono l’organon. Questa natura, però, non è più il diritto innato di tutti gli esseri, quanto piuttosto la violenza e la costrizione che pesano su tutti loro. Il contenuto del concetto di natura non è più l’aspirazione della creatura alla felicità e alla vita, ma il fatto che le creature sono invischiate in una trama cui non è possibile sottrarsi. Il canone di questo concetto di natura è la biologia, e l’unica cosa che essa insegna è che non esiste via d’uscita. La biologia, per così dire, ha elevato a ontologia la teoria del salario di sussistenza. La legge di Mendel, che rifiuta la trasformazione per spontaneità, la teoria darwiniana della selezione naturale, della lotta per l’esistenza e del survival of the fittest sono i principali ingredienti di questa ontologia. Essa ha rovesciato il trono di Dio soltanto per incatenare l’uomo al destino in un modo ancora più cieco. È anche per questo che il Monismo tende alla venerazione magica in un modo del tutto diverso dal tanto vilipeso culto della Ragione. Era quello, però, il vero contenuto della borghesia, perlomeno in Germania lo era senz’altro. Hanno creduto al cosmo del quale hanno letto nei libri, a un ordine naturale delle cose a cui è necessario obbedire, e che elimina tutto ciò che va al di là della riproduzione del mero esistente. Tutti gli interessi della borghesia tedesca al di fuori della sfera lavorativa – vale a dire tutti quelli

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che i bambini erano in grado di cogliere – convergevano nell’immagine mostruosa del tutto naturale, alimentata dai socialdemocratici come dai nazisti. Nell’educazione da mastino del borghese tedesco si celano idee sulla selezione naturale, esattamente come l’idea del diritto del più forte nello sguardo coloniale del tedesco trapiantato all’estero. La natura, al tempo stesso sfrondata di ogni illusione e mitologizzata, si trasforma nel modello del comportamento degli uomini venuti dopo la generazione di Haeckel e di Bölsche. L’uno e l’altro erano nazisti virtuali. Il mutamento nella composizione dell’esperienza della natura nel XIX secolo è probabilmente uno dei presupposti indispensabili per la costituzione del tipo fascista, che mette in pratica nella propria stessa condotta quei tratti che i padri magnificavano nella natura. La violenza del nazismo, quell’aspetto del movimento che ha davvero conquistato la gente, sta nel fatto di credere che l’uomo può seguire l’esempio di quella natura. Questa possessione diabolica ha preso il posto della religione. L’inesorabilità delle sue leggi ha inebriato quegli stessi che hanno poi emanato le proprie leggi inesorabili. È evidente che gli uomini riescono a sopportare l’orrore del mondo-cosmo soltanto identificandosi in prima persona con quel potere. Il concetto di natura che sta dietro questa visione è a sua volta, come si potrebbe mostrare analizzando le opere di Darwin, una forma di riflesso della società, ma un riflesso estraniatosi da essa, e nel quale gli uomini non si riconoscevano più, e proprio per questo essi badavano ai propri affari con tanta maggiore ostilità. In questo contesto sarebbe della massima importanza analizzare fenomeni come la caccia, che racchiude in eguale misura dominio della natura e violenza, la medicina naturale, lo “scoutismo”, ma soprattutto quell’ideale umano della naturalezza che gli abitanti delle città hanno contrapposto al concetto di affettazione. Ogni volta che di un uomo viene lodata la speciale naturalezza si può stare certi che sia l’elogiatore che l’elogiato sono

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dei farabutti. Caratteristico di questo mondo naturale è il fatto di combinare sottomissione, brutalità e irrazionalità con una totale mancanza di immagini e un’assoluta povertà di fantasia. Tutti questi momenti della domenica borghese tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX sono diventati, sotto i fascisti, la triste realtà dei giorni feriali. Il nuovo tipo è quello che meglio di ogni altro corrisponde all’ideale darwiniano della “specie”, nel quale il collettivismo è già racchiuso tutto intero. * Un’indagine sulla nuova antropologia dovrebbe passare anche per un’analisi dei libri per ragazzi che la mia generazione, e anche quelli un po’ più giovani di me, hanno letto. È molto probabile, per esempio, che i racconti di fantascienza su guerre tecnologiche a venire, come quelli che uscivano in collane come «Das neue Universum», adombrino già con esattezza l’immagine della guerra meccanica e della guerra totale. Il mondo del «Neues Universum» è molto simile al mondo-cosmo. Universo e cosmo, del resto, significano la stessa cosa: ordine totale della natura. Già una ventina o una trentina di anni fa l’attuale capofila della propaganda nazista in America, Colin Ross23, ha avuto un ruolo di primo piano in questo tipo di letteratura per ragazzi. Se tale letteratura fosse apertamente nazionalista, come nel caso dello «Jungdeutschlandbuch»24, non ha alcuna importanza. Qui come altrove l’avvento del fascismo si nasconde nel mondo delle rappresentazioni piuttosto che nei tratti tendenziosi, e forse anche in questo caso pubblicazioni prive di ogni connotazione politica hanno avuto un effetto molto più devastante di quelle apertamente politicizzate. Un unico filo rosso porta dal «Neues Universum» ai rotocalchi illustrati. Le prime fotografie di attualità della «Berliner Illustrirte [!] Zeitung» e le fantasie del «Neues Universum» sono dello stesso conio. (Vedi l’annotazione su Freytag e Max Eyth nel quaderno azzurro25). È verosimile che

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quella letteratura per ragazzi prefigurasse non soltanto le linee generali della guerra in corso (non della prima guerra mondiale), ma anche quelle del capitalismo di stato. Tra l’altro è possibile che già a partire dall’unità tedesca nei libri per ragazzi le storie di indiani si alternassero con la biografia di industriali come Werner von Siemens. Il motivo tematico è probabilmente questo: educare la gioventù a un rapporto franco con la realtà contrabbandando materiali tratti dalla vita pratica, e convincerla che anche i magli a vapore e i laminatoi hanno la loro poesia. Il successo è stato molto più grande di quanto i padri non osassero neppure sperare. Non solo i figli hanno davvero incorporato i prodotti della tecnologia nel loro patrimonio di immagini, ma su di essi hanno trasferito in modo esclusivo quelle qualità oniriche che lo spirito di sobrietà aveva voluto confinare nel mondo della fantasia. Quelli che credono sul serio che i magli a vapore siano più poetici dei versi di Friedrich von Bodenstedt, però, sono gli stessi che ora si preparano a partire per Baghdad con i carri armati.

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* È necessario soffermarsi con particolare attenzione sul significato che il corpo fisico ha assunto per il nuovo tipo. A livello esteriore lo si deduce dalle innumerevoli immagini di corpi nudi e dalla sempre maggiore diffusione del naturismo. L’immagine del corpo coltivata dal nuovo tipo è essenzialmente desessualizzata, o per via del culto del funzionamento del corpo come tale o a causa di certo tipo di liberazione della sessualità che, sopprimendo la resistenza, sopprime anche il desiderio. Agli occhi del nuovo tipo, evidentemente, il corpo non viene più esperito che come una parte del corpo collettivo, come si vede bene negli spettacoli geometrico-sportivi. Un altro aspetto che riguarda il corpo è il nuovo rapporto con la forza fisica26. La forza fisica, il cui ambito di applicazione era stato ridotto dall’incivilimento (che in un certo senso si può in-

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tendere come un dispositivo fatto per ridurre l’incidenza della forza fisica dell’uomo), si arrischia ora a tornare alla luce, protetta da razionalizzazioni di ogni sorta. Del sadismo dei campi di concentramento fa parte anche il fatto che i tabù che pesavano sulla forza fisica sono ormai decaduti. Nei primi anni del Terzo Reich Hitler ha emanato una direttiva secondo la quale non doveva più essere consentito che nelle scuole si producesse in alcun modo l’impressione che i bambini ebrei fossero più dotati di quelli ariani. Una direttiva del genere nasconde in realtà la messa in libertà della forza fisica, che fino a quel momento l’incivilimento aveva tenuto a freno per mezzo dell’agenzia scolastica. Il ragazzino che per strada assale il compagno più debole viene promosso a primo della classe. Senza contare la dichiarazione della nostra vicina di casa a Oberrad27: «adesso finalmente tocca agli stupidi comandare». Certo che no, non sono stati gli stupidi a prendere il potere, ma quelli che non avevano più da vergognarsi della loro aggressività. Questo momento della formazione del nuovo tipo me lo ricordo molto bene dalla mia infanzia. A quei tempi accanto alla gerarchia ufficiale degli allievi ne esisteva una seconda, inconfessata, che faceva riferimento alla forza fisica, e ad essa si credeva in realtà molto più che alla prima. Il più forte della classe, il “Moppel”, come si diceva a Francoforte, regnava come un re senza corona. Questo tipo di gerarchia ha trovato la sua continuazione nella gerarchia nazista: è la dittatura del “Moppel”. Un particolare molto caratteristico della liberazione della forza fisica: la rinuncia a tutte le idee di “fairness” per mezzo delle quali la coscienza liberale teneva a bada il “nemico” arcaico, il “forte”. L’articolo di morale infantile per la quale non bisogna fare del male al più debole, e non sta bene attaccare uno solo in molti, l’ho sentito ripetere solo a casa, ma non l’ho mai visto messo in pratica tra i bambini tedeschi. (Forse per i bambini anglosassoni le cose stanno diversamente, anche se certe tradizioni studentesche di Oxford vanno nella stessa direzione). I

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miei compagni di classe non si sono mai fatti problemi ad assaltare in branchi un compagno solo o più debole, anzi esisteva addirittura un’espressione istituzionale: “legnate di classe”. La liberazione della forza fisica ha fin dal primo istante il momento del transfert sulla collettività. Più tardi la complicità dei rivoluzionari fascisti con chi era in ogni caso più forte, e il perseguimento della linea di minima resistenza nell’attaccare i più deboli tra gli stati confinanti, hanno coronato questo principio. Da un punto di vista psicologico il modello del bambino forte sarebbe naturalmente il padre manesco. Con la costituzione del corpo collettivo, però, questa funzione passa all’esercito, allo stato e alla società. – Il mutato rapporto con il corpo sembra valere altrettanto per l’URSS che per i paesi dichiaratamente fascisti. Un altro aspetto di questo rapporto con il corpo è il fatto che in generale il nuovo tipo non aspira realmente al benessere, ma piuttosto ad essere capace di reggere ai colpi, di sopportare immagini atroci, ecc – una tendenza che è alla base dello spirito di sacrificio sempre invocato da Hitler. (Osservato che la generazione dei giovani evita tutti i luoghi dove si sta fisicamente bene, e se solo potesse trascorrerebbe le ferie in riva al mare glaciale artico. A visitare i luoghi che piacciono a noi sono quasi solo i vecchi). Dubito fortemente che questo spirito, la passione del disagevole, in una parola lo spirito sportivo, possa essere del tutto esaurito dalla formula del sado-masochismo. Io sono convinto che i meccanismi di rimozione e di spostamento postulati dalla psicanalisi non funzionino più correttamente. Se posso fidarmi delle mie osservazioni, le cose stanno piuttosto così: gli appassionati di sport vengono per così dire divorati dal collettivo, come si trattasse di un mostro, e agiscono come membra di quel collettivo, ma non come se gli individui provassero un qualche tipo di felicità passando per l’identificazione con il potere. Due giovani che sul tram discutono animatamente di calcio assomigliano piuttosto a due ubriachi. Non si può dire che ne ricavino

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alcuna soddisfazione: sono posseduti, invasati. Questo essere posseduti e invasati dal collettivo, in una certa misura il prodotto del rovesciamento dialettico dell’ottusa vita tranquilla che ho caratterizzato nel saggio su George28, portando alla dissoluzione dell’individualità stessa; questo essere-divorati, questo essere-inghiottiti è quello che io intendo quando parlo dell’aspetto gregario che contraddistingue in modo del tutto peculiare il nuovo tipo. – La mancanza di curiosità. Non voler più conoscere nulla di nuovo, soprattutto nulla che non sia “coperto”; perfino la rivoluzione è coperta. Nei fascisti la cosa è evidente, nei comunisti è probabilmente lo stesso da tempo, per via del partito di massa. La rivoluzione non è altro che lo scoperto, e il partito di massa conferisce a ogni azione un carattere di copertura. A rigor di termini, non può esistere un partito rivoluzionario di massa29.

Su Chaplin e Hitler30 La rappresentazione dell’impotenza come potere. La rappresentazione dell’invecchiato come fosse di moda. La spersonalizzazione del borghese. Gli emblemi indicati da Benjamin31 sono anche quelli della virilità (baffi e bastone, l’impotenza come potenza, il soggetto jazz32). Concetto dello spazio vuoto, del buco (omosessualità?). Nelle più alte sfere della gerarchia nazista chiamano Hitler la diva da operetta. Nelle sue grandi scene a solo, come quella della danza con le forchette e i panini ne La febbre dell’oro e quella con il mappamondo nel Grande dittatore, Chaplin si avvicina alla ballerina. Hitler viene dall’asilo per i senzatetto, Chaplin è un vagabondo. Hitler è il negativo dell’ebreo errante, il reietto che conquista il mondo. In entrambi la mancanza di relazioni è la garanzia del successo. In Chaplin è lo stimolo del comico, in Hitler quello dell’autorità. Caratteristica in entrambi l’opacità della sfera della produzione

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come forma del mito. Hitler vive nella dimensione della propaganda, come Chaplin in Tempi moderni non riesce a orientarsi nel mondo della produzione. Chaplin svolge sempre professioni che non sono vero e proprio lavoro, ma sono legate alla facciata, come il cercatore d’oro, l’artista, il barbiere. La figura professionale che più di ogni altra assomiglia a entrambi è quella dell’oste che fa cadere il vassoio o compie con esso giochi di destrezza (parrucchiere?). Studio dell’abbigliamento di Hitler. Nessuno dei due sa parlare. La grammatica di Hitler è l’equivalente del mutismo di Chaplin nel cinema sonoro. Forse la canzone di Chaplin in Tempi moderni assomiglia ai discorsi di Hitler più ancora del discorso nel Grande dittatore. L’errore fondamentale del Grande dittatore è quello di vivere della somiglianza immediata, mentre questa somiglianza emerge solo dialetticamente, dal contrasto assoluto. Questo elemento è presente nel Dittatore, ma viene dimenticato. L’ideologia del Dittatore è rimasta indietro rispetto alla sua immagine. Chaplin e Hitler sfuggono alla psicologia. Vale a dire: il loro comportamento è interamente determinato dalla reazione all’ambiente circostante, e non dalla loro natura. Definire Hitler un nevrotico sarebbe altrettanto folle che chiamare Chaplin umano. Chaplin rappresenta l’umanità grazie all’assenza dell’umano. Hitler e Chaplin hanno in comune un tratto tipico dei sogni: l’equilibrio precario dell’angoscia, che vaga continuamente sull’orlo dell’abisso. Lo schema del comportamento di Hitler è quello del sognatore che nel sogno non può morire. Identico è il modo di agire di Chaplin. Il problema di Hitler e Chaplin è quel confine oltre il quale l’uomo smette di assomigliare all’uomo. La comicità di Chaplin dipende in gran parte dal fatto che il protagonista è una macchina, ma una macchina legata ai rudimenti della natura umana – in verità, solo ai suoi rudimenti –, e che pertanto non può funzionare del tutto. L’elemento che in Chaplin induce al riso è la cifra segreta del tramonto di Hitler. Ne fanno parte i gesti di Hitler e la mano protesa per ore in automobile.

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I tratti di Hitler che passano per storici, per esempio la comunicazione assolutamente disinvolta degli affetti e al tempo stesso la loro manipolabilità, da un lato rimandano a Wagner, dall’altro al sensale ebreo che geme «ahimè, andrò in rovina, pensi a mia moglie e ai miei figli!» quando gli offrono un prezzo basso. Hitler parla della Germania esattamente come il mediatore parla della sua famiglia. Per entrambi il problema di ciò che è vero o non vero, autentico o inautentico, serio o non serio è del tutto inconsistente. La cosiddetta stupidità di Hitler, l’incomprensione davanti all’argomentazione, prende la posa di ciò che è superiore agli argomenti, proprio come l’incomprensione di Chaplin nei confronti del mondo delle cose lo rende padrone di esso. L’utopia hitleriana è l’utopia di quelli che hanno visto giorni migliori. Analogamente in Chaplin. Da quando il declassato non appartiene più alla nuova classe di cui è entrato a far parte – come i contadini e gli artigiani espropriati fino a tutto il XIX secolo – ma resta aggrappato ai contrassegni della vecchia? A partire dalla modernità, cioè a partire dal momento in cui gli uomini hanno smesso di credere che esista una storia. Tratto in comune con l’eccentrico e con il mitologo, che insistono sull’immutabilità della natura. I contrassegni nel quale il declassato conserva la sua vecchia classe sono sempre quelli della moda, cioè del nuovo, malata del suo rapporto con il tempo. Questo è forse il vero punto di intersezione tra il problema del surrealismo e l’antropologia. Nel suo complesso il fascismo non è altro che il mancato riconoscimento del declassamento. Qual è la soglia tra l’educazione del proletariato e il mancato riconoscimento del declassamento? La nuova antropologia dipende da questo problema. Uno dei nuclei tematici è la disoccupazione. Il disoccupato, in un certo senso, ha maggiore affinità con il borghese che non con l’operaio. Un altro motivo è il concetto del signore distinto indicato da Benjamin, ovvero il fatto che in un certo senso, nel nome

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del liberalismo, tutti i declassati di oggi hanno percepito se stessi come membri della classe dominante, mentre per le professioni del contadino e dell’artigiano, legate al feudalesimo o al sistema delle corporazioni, non è stato così. I contadini e gli artigiani si sono sempre sentiti inferiori, ma i contabili no. Il concetto di proletario con il colletto inamidato è una categoria chiave dal punto di vista antropologico. Il borghese è l’uomo che non può cambiare classe. La sua classe è la sua individualità. Essa è per lui la vera garanzia del possesso. Qui è la vera chiave del fascismo in tutti i suoi aspetti. Chaplin e Hitler non hanno nulla del padre e tutto della società, cioè al tempo stesso dell’io proiettato e dell’altro introiettato.

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Sull’antisemitismo33 L’ipotesi che l’antisemitismo non sia una questione di psicologia individuale ma piuttosto un problema di “situazioni” va intesa a partire dal fatto che gli impulsi antisemiti sono legati alla coscienza del potere fattasi attuale. Le situazioni antisemite sono sempre situazioni in cui si tratta di esibire potere di fronte a qualcuno di più debole, ed esse a loro volta si producono sotto la pressione del potere. Da Hitler in avanti l’antisemitismo tedesco veicola in ogni suo aspetto il momento dell’istigazione, della minaccia dall’alto: se non sei antisemita quel potere si rivolgerà contro di te. Questo è il limite di ogni sedicente psicologia dell’antisemitismo, dal momento che nessuna situazione sperimentale può mobilitare la forza bruta come presupposto. * Osservato che l’oggetto dell’antisemitismo è in sostanza la paura dell’antisemitismo, e che in realtà non è per la sfacciataggine, l’invadenza, la rumorosità, ecc. che gli Ebrei saltano all’oc-

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chio e irritano i cristiani (queste sono tutte razionalizzazioni a posteriori), ma precisamente il loro opposto: espressioni di paura di una sottigliezza imponderabile. Agli Ebrei capita sempre quello che essi temono più di ogni altra cosa. Tutto questo si applica nello specifico a una situazione del tutto particolare: il senso dell’“essere a casa”. A causa del loro destino storico gli Ebrei hanno sempre avvertito in modo particolarmente pungente il bisogno di una patria, ed esso si esprime nel loro modo di comportarsi. (Da più parti è stato osservato che agli Ebrei emigrati la Germania manca molto di più che ai cristiani, capaci di assimilarsi con facilità e senza sviluppare resistenze). È proprio questo rapporto degli Ebrei con l’essere a casa a esacerbare chi è padrone in casa propria, e a indurlo a dimostrare all’Ebreo che non è affatto a casa sua. (Osservazione sull’isola di Rügen, estate 1933, dove in un luogo di escursione due maestre di scuola dicevano: «quelli sono Ebrei, quelli credono che sia tutto loro»). La semplice presenza di Ebrei nello spazio vitale dei gentili risveglia l’istinto del possesso e quell’antica legge dell’ospitalità nel nome della quale si divorava lo straniero. «Che cosa sono venuti a fare qui?». * Gli individui che reagiscono consapevolmente in modo aggressivamente antisemita sono spesso persone di un genere molto preciso che io conosco dai tempi della scuola. I due ragazzi che nella mia classe adottavano atteggiamenti antisemiti, uno apertamente, l’altro di nascosto, erano entrambi dotati di un talento sopra la media, uno dei due specialmente per le scienze naturali. Quest’ultimo, che si chiamava Eckhardt (tipico nome da antisemita ), era un ragazzo piccolo e bruttino con un viso invecchiato. Aveva l’abitudine di fissare la scriminatura dei capelli con il sapone, e per questo lo soprannominavano “zucca saponata”. Per tutto il ginnasio una certa sfiducia, l’incertezza nell’esprimersi e una scarsa padronanza della lingua gli hanno impe-

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dito di combinare alcunché di buono; soltanto negli ultimi anni di corso è emersa una straordinaria vocazione per la matematica. Era costantemente svantaggiato nei confronti del piccolo gruppo dei “migliori” della classe, tra i quali io, nonostante prendessi parte all’ora di religione protestante, facevo la parte dell’Ebreo. È probabile che percepisse la sua superiorità in matematica rispetto al mio talento linguistico già in un’epoca in cui, come primo della classe, io prendevo eo ipso i voti migliori anche in matematica. – Il tipo antisemita di cui sto parlando è fatto di persone che nella concorrenza subiscono un’ingiustizia, ma che per la loro stessa natura si identificano con la concorrenza. Sono dei darwinisti. Credono nel survival of the fittest e hanno sempre la sensazione di essere più “fit” degli Ebrei; questi ultimi, pertanto, sono destinati a soccombere praticamente per natura. Quando la natura non funziona così, le danno una mano. – Nella mia classe vigeva una gerarchia inconfessata che aveva qualcosa della cospirazione, ed essa conferiva a questi ragazzi, in contrasto con la gerarchia ufficiale dei “migliori”, il ruolo di piccoli “Führer”, un potere che si esprimeva in occasione delle elezioni per il consiglio degli studenti e in altre circostanze analoghe. Ho sempre avuto la sensazione che il ragazzo di cui parlavo rappresentasse un potere più grande di quello dei “migliori”, nonostante i loro successi nella concorrenza intellettuale.

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Nota su psicologia e società35 Il soggetto come zoon politikon e il soggetto come individuo psicologico non sono esattamente la stessa cosa. Le funzioni che esso è chiamato a espletare nella società e quelle che servono all’autodeterminazione sono nella maggior parte dei casi incompatibili, e forse lo stanno diventando sempre più. Il soggetto, per esprimersi con Sartre, è tenuto a impersonare dei ruoli che gli sono estranei, e questo non vale soltanto per l’ambito a proposito del

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quale la teoria dell’alienazione è stata messa a punto per la prima volta, e cioè il lavoro salariato, ma anche per posizioni elevate, su su fino ai cosiddetti posti di comando della società. Proprio qui la libertà di scelta, e quindi la possibilità di agire “a proprio nome”, si trova ridotta al minimo, e l’attività soggettiva è tutt’altro che spontanea e produttiva, ma si riduce in sostanza a una scelta razionale tra alternative socialmente definite. Certo, anche il “sé” che stenta ad affermarsi di contro al ruolo sociale è a propria volta, nella sua origine, un che di socialmente prodotto, ma nella sua forma sedimentata esso rappresenta al tempo stesso fasi precedenti della società, e non è mai all’altezza delle esigenze della società attuale. Anche se la coscienza che il soggetto ha di se stesso come di un che di assoluto è un abbaglio e un’ideologia, lo scarto tra questo soggetto e la funzione è tuttavia reale. Questa non identità, però, non è un semplice cultural lag, come ipotizza per esempio la dottrina americana dell’adattamento, ma dipende dal fatto che in una società basata sullo scambio, per potersi rendere scambiabile, cioè per trasformarsi in una merce, il soggetto è costretto a sviluppare e a enfatizzare proprio quei momenti che risultano commensurabili con altro e in questa misura sono il suo essere altro. In questo modo o la psicologia di ciascun individuo, dati i faux frais indicati da Freud, si trasforma in motivazione addizionale, in un lubrificante, o ci si passa sopra come fosse un mero impiccio, qualcosa di nullo e di vano. Questo rapporto si rispecchia sul piano spirituale nell’antinomia tra sociologia e psicologia. Tale contrasto, tuttavia, non è un dato assoluto. Come la società, anche nella sua forma alienata, è un rapporto tra esseri umani, e viceversa il singolo soggetto individuale è un che di socialmente mediato, così la forbice tra zoon politikon ed essenza psicologica è tenuta insieme dall’unità dell’io, che racchiude in sé il teatro del conflitto tra razionalità e natura sociale da un lato e irrazionalità e singolarità psicologica dall’altro. Dal momento che però, in virtù della loro stessa costituzione, tali forze divergono, nella società at-

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tuale qualunque unità è sempre precaria e minacciata, sia dal lato della psicosi e della nevrosi, sia da quello di una normalità fatta di passivo adattamento, e il cui prezzo è la rinuncia interiore a ogni unità, a tutto il pluralismo interno del soggetto. Ne consegue l’impossibilità di ricostruire teoreticamente la società dal basso verso l’alto, a partire da cellule o gruppi primari. Il passaggio da questi ultimi alla totalità sociale non è meramente quantitativo, non è un continuum, ma implica un salto di qualità. I gruppi primari, infatti, sono oggi essenzialmente riserve dell’immediatezza, del soggetto come esso è per se stesso. Dal punto di vista della società, tuttavia, questi rapporti non hanno più nessun ruolo sostanziale nel complesso della totalità sociale. La società non si compone, come potrebbe sembrare da una semplice descrizione, di innumerevoli raggruppamenti di questo tipo, ma è interamente dominata dalle funzioni sociali, che a loro volta risultano prescritte dalla totalità della società fondata sullo scambio, e anche i raggruppamenti primari oggi superstiti non fanno che rispecchiare, nei loro elementi decisivi, queste funzioni e la totalità sociale. Questo è il principale motivo per cui la psicologia sociale e lo studio dei singoli fattori sociali non sono in grado di spiegare la società. Un simile metodo, che peraltro è implicitamente alla base di tutta la social research e ne rappresenta il nucleo apologetico, si fonda su un ysteron proteron, ovvero considera l’aspetto realmente determinante, il complesso funzionale della società, come se esso fosse la risultante di quegli elementi che in realtà ne dipendono passivamente, vale a dire le condotte e le opinioni più o meno immediate degli esseri umani. Ne consegue che la sociologia empirica è sempre necessariamente psicologistica. Non basta per nulla affermare che la totalità sociale, come una specie di infinito, non le si dischiude mai del tutto: essa è non vera già solo per il taglio del suo approccio, nella misura in cui essa, all’interno di una società alienata, ipostatizza i soggetti a principi esplicativi immediati, mentre una simile imme-

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diatezza, ammesso che esista ancora, è nel migliore dei casi un mero strascico del tutto, vale a dire del complesso funzionale oggettivo della società, che contemporaneamente riproduce e distrugge se stessa. Lo sguardo empirico sulla società, che si illude di superare per contenuto di verità la metafisica della costruzione concettuale, è falso, è semplice autoinganno della società a proposito di se stessa, e dipende dal fatto che il soggetto trova infinitamente difficile concepirsi come qualcosa di non identico a se stesso, e ha quindi la tendenza a dedurre la società dalla coscienza che esso ha di sé, e che proprio come semplice identità non attinge affatto il complesso funzionale della società.

Morale e diritto del più forte36 Nella critica del super-io, come in molte altre cose, la psicanalisi tenta di tradurre alcuni motivi dell’illuminismo filosofico in acquisizioni scientifiche. Secondo il pensiero illuminista le norme morali sulle quali il singolo orienta il proprio agire e giudica quello degli altri sono prese a prestito da usi e costumi sociali; l’autonomia della legge morale, l’apparenza del bene e del male sono idoli che sembrano posti a priori soltanto per via dello strapotere dell’istanza sociale sul singolo. L’ideale viene visto in trasparenza come la sedimentazione di un’antica positività, di norme vigenti, di fattualità sociali, che assumono l’aspetto dell’incondizionato al servizio della preservazione dell’ordine: Nietzsche prima e la psicanalisi poi hanno strappato questa tesi alla sua ingenuità razionalistica. Secondo Freud la morale introietta l’istanza sociale di controllo per mezzo della dolorosa identificazione del bambino con il padre in quanto agente della società. In questo modo la sostanza di qualunque autonomia, la coscienza morale, giudice della mera fattualità, viene desunta a sua volta dagli effettivi rapporti di potere tra le generazioni, in ultima analisi dalla

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minaccia di castrazione. La contraddizione tra questo punto di vista e quello del sociale, però, viene alla luce nel fatto che il soggetto non ha alcun diritto di giudicare la società, perché l’illusione di questo diritto non fa che rispecchiare il potere delle società. Di conseguenza all’agire del soggetto viene disconosciuta ogni forma di autonomia e responsabilità. Qualunque sia la legge interiore cui il soggetto fa riferimento, essa sarebbe qualcosa di esteriore e non trasparente a sé, dunque di relativo, e degenera in ideologia non appena si erige a pretesa assoluta. Una critica di questo genere è sempre stata parte integrante della teoria dialettica della società. La dottrina hegeliana dell’eticità mantiene la moralità solo come un elemento architettonico, mentre da un punto di vista sostanziale essa si risolve nella nullità della coscienza individuale, nella prova che la dimensione morale è ben lontana dallo spiegarsi da sé, e che l’instaurazione radicale dell’istanza della coscienza si rovescerebbe inevitabilmente in arbitrio, nel caso e nell’amoralità. A tutto questo Hegel preferisce anteporre il modello sociale del comportamento etico portato a coscienza, «il concetto della libertà divenuto mondo sussistente». La tradizione marxista ha tenuto fermo questo punto per disprezzo nei confronti dell’etica privata e ha denunciato l’inganno del singolo, che consiste nel trovare scappatoie quando non si tratta della buona volontà ma della totalità oggettiva del sistema. Fin qui, in effetti, la psicanalisi e il marxismo si trovano d’accordo, un fatto che soltanto oggi, dopo che l’uno si è ridotto a religione di stato e l’altra a semplice igiene, viene negato da entrambe le parti. Nel frattempo, però, la storia ha dimostrato per mezzo della prassi totalitaria che quella critica, espressione dell’intenzione che mirava alla libertà, è sempre sul punto di rovesciarsi in compiuta illibertà. L’eliminazione della coscienza, sulla cui pretesa il punto di vista psicologico non è disposto a cedere di un pollice, si tramuta in repressione immediata, e di conseguenza nell’anarchia, intesa come nudo diritto del più forte. Tentativi di

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mediazione come quello che cerca di elevare a norma morale ciò che viene considerato condizione dell’esistenza e della riproduzione della società sono destinati a fallire. Quell’idea resta un phantasma fino a che non si produca nei fatti l’identità dell’interesse particolare e di quello collettivo: le esigenze che la società avanza allo stato attuale delle cose per mantenersi in vita come un che di ordinato richiedono all’individuo sacrifici che questi non è in grado di gestire in modo razionale all’interno della propria economia pulsionale, né di riconoscere per sé stesso come necessari. Finché questa irrazionalità oggettiva continua a sussistere, l’individuo sarà costretto ad agire in modo irrazionale. Ma anche dove non sono le norme della comunità a venire trasformate in istanza morale, come accade negli epigoni dell’idealismo, ma quelle di una politica mirante alla costruzione di una condizione migliore, i conti finiscono per non tornare, perché tale politica perpetua appunto nella forma del conto quel trattamento contabile degli esseri umani cui essa dovrebbe innanzitutto porre fine. Categorie morali come responsabilità, coscienza, compassione, fedeltà e amicizia, liquidate con malignità come piccoloborghesi, finiscono per venire rimpiazzate dalla disciplina di partito, storicamente estranea alla coscienza del singolo quanto qualunque etica ufficiale di stato. Al suo interno le categorie morali non scompaiono, ma conducono l’esistenza umbratile di spettri, neutralizzate come nella cultura borghese, vengono recuperate quando torna comodo, quando persino l’“umanesimo” si riduce a uno slogan.

Spirito del mondo e individuo37 L’esperienza dello spirito del mondo prolunga la sua influenza fin nella sfera della psicologia cosiddetta individuale. Gli uomini parlano spesso nel registro dell’individualità, dell’esperienza specifica, mentre in realtà non fanno che riecheggiare l’uni-

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versale, che trova in loro una cassa di risonanza. In momenti come questi saranno sempre pronti a tenere a bada il sospetto che non soltanto come attori economici, ma anche come persone private, essi non siano che maschere di personaggi, e si affrettano a sottolineare la loro adesione interiore a quanto hanno detto38. Scatta il meccanismo della negazione analizzato da Freud: come se il fatto di essere un’eco e la loro voce di spettri spaventassero i chiacchieroni, i più smaliziati tra loro prendono le distanze da quell’universale come agenti del quale parlavano, per meglio servire le proprie intenzioni e i propri motivi. Se al giorno d’oggi le persone di riguardo fanno pressione sulle coppie perché si sposino, si affretteranno comunque ad aggiungere che le idee convenzionali della borghesia sono loro del tutto estranee, che non pensavano ad altro che alle specifiche esigenze e ai bisogni di natura psicologica e pratica di coloro che richiamano all’ordine, oppure alla natura umana in generale, mentre in verità non fanno che agire in nome dell’istituzione. A essere borghese, assicureranno, è proprio il rapporto non sanzionato. In nome delle loro conseguenze economiche, processi che in apparenza derivano in modo esclusivo dalla sfera privata si adeguano come in virtù di un’armonia prestabilita alla tendenza generale, che nel conflitto di partenza restava del tutto invisibile. Il proprietario e il direttore di una grossa compagnia rompono ogni rapporto per questioni di competenza o per fatti puramente privati; tale rottura, tuttavia, mette in moto mutamenti nell’organizzazione e nel finanziamento tali da rafforzare la concentrazione di quel ramo di impresa. Le connessioni tra la tendenza e gli individui, o gli eventi individuali, non sono sempre facili da constatare, a dispetto dell’evidenza lampante degli effetti. È probabile che questa lacuna sia strutturale, a sua volta espressione dell’eccedenza dell’universale sul particolare, un’eccedenza che è impossibile ritradurre adeguatamente nei termini del particolare.

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Sul piano intellettuale, e nonostante la riconversione della società al capitalismo di stato, i marxisti dell’ultima ora hanno trasferito in blocco lo schema della struttura categoriale borghese al loro ambito, lasciandola intatta. Una simile astrattezza andrebbe dedotta dal perdurare di rapporti di dominio; applicare il materialismo dialettico a fenomeni che si mascherano con la sua terminologia, secondo il canone della critica immanente. La politica culturale reazionaria in Europa orientale deriva dalla scarsa produttività del lavoro, che in molti paesi è crollata al di sotto dei livelli raggiunti nella precedente fase industriale. I depositari del potere sono incessantemente costretti a incrementarla, a pungolare gli apatici e i ritrosi per farli tornare al lavoro, cui non li lega alcun interesse personale intelligibile. L’unico modo di farlo è l’allegria ostentata, una cultura affermativa, la più sbiadita positività. Lo spirito si trasforma in un pep talk permanente. Esso non può permettersi di irritare le sue vittime impotenti, imprigionate nel regno della libertà, con nulla che sia loro estraneo, inusuale; la regressione spirituale è una funzione dell’economia. Soltanto l’ideologia parla al popolo di quelle cose che esso, per ogni altro verso represso, desidera – e le desidera davvero. Anche i casi in cui il controllo culturale si allenta potrebbero avere una spiegazione economica. Agli intellettuali che condizioni disperate hanno ridotto sull’orlo della fame, e che insoddisfatti tentano di dare voce alla loro critica, si gettano bocconi di libertà spirituale come un surrogato; anche la minima concessione risalta sullo sfondo grigio, quasi fosse una promessa di umanità. Una libertà amministrata, concessa e preventivata dall’alto, non è libertà: essa è sempre revocabile, nonostante l’ottimismo euforico dei cittadini sotto tutela, che possono prendere respiro. La situazione precaria del modernismo artistico, che in alcuni stati satellite viene ancora tollerato, ci insegna una lezione che vale per tutto il resto del blocco: la categoria del nuovo non va impiegata in astrat-

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to – come facevano Poe e Baudelaire – come misura di tutte le cose. Il nuovo, l’“aperto”, è la forma negativa dell’utopia, celata a se stessa; se dal concetto si rescinde la negazione determinata, e il mutamento del tutto in essa implicito, il nuovo degenera in una categoria mercantile nel senso del vantaggio sulla concorrenza, secondo la massima che dice: al cliente va sempre offerto qualcosa di nuovo. Il nuovo isolato, fine a se stesso, escogitato come monopolio naturale sarebbe il sempre-uguale, la “novelty”. Nell’aporia del nuovo oggettualizzato e ridotto a uno scopo autoreferenziale è caduto lo Jugendstil. Un’autentica aporia. All’interno dell’attuale status quo, in effetti, è impossibile pensare o osservare qualcosa che sia nuovo e privo di questa indifferenza – il principio della borghesia è l’imitazione pedissequa. Il fatto che l’utopia si esprima solo nella configurazione di momenti dell’esistente, non in modo immediato, e che il pensiero, che potrebbe evaderne, lo possa soltanto in virtù di ciò che resta al suo interno, incatena qualunque concezione dell’altro come tale al suo antipodo, la merce. Questo è l’aspetto infernale dell’immanenza40: ogni cosa, anche ciò che è qualitativamente differente, al tempo stesso immancabilmente le appartiene. Tutto quello che non accettasse questa situazione e mettesse fuori delle radici aeree, come le ha chiamate Ernst Bloch quando quell’aspetto non era ancora prevedibile, si ridurrebbe a ornamento Jugendstil.

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Impotenza della teoria41 Mentre la filosofia accademica tedesca, che fa mostra di preoccuparsi dell’essere dell’ente, sopravvive alla fase acuta del fascismo, fenomeno ad essa apparentato e tuttora imbattuto in guerra, il punto di vista americano ammette soltanto quel pensiero teorico con il quale sia possibile combinare qualcosa di pratico. Il pensiero deve essere traducibile in operational terms, nei termini della produzione. Come i singoli atti economici, il cui ri-

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mando alla riproduzione del tutto, nel liberalismo, resta abbandonato al meccanismo cieco del mercato, si acconciano oggi a una sorta di direzione dall’alto, così il pensiero è tenuto a deporre le sue condizioni di produzione anarchiche e legittimarsi in modo convincente nella pratica. Quanto più la teoria si avvicina alla prassi dominante, però, a quella satura del capitalismo programmato o a quella barbarica dello pseudosocialismo, tanto più distorta si fa la relazione. La prassi che organizza in modo organico il proprio controllo sulla teoria si identifica con il trend che regna sulla società, e che la teoria non riesce più in alcun modo a trascendere. L’unità di teoria e prassi, che nel capitalismo alla fine si produce da sé, viene messa in pratica secondo un piano prestabilito dal partito che un tempo doveva incarnarla nel modo corretto. Una volta giunto al potere, il partito si è riconvertito in un apparato di dominio terroristico e ha messo il freno alla teoria. Di qua come di là, non appena la teoria tenta di sfuggire alla falsa unità viene rigettata indietro su quel piano di contemplazione radicale che essa ambiva a oltrepassare procedendo dal materialismo contemplativo alla trasformazione politica. E tuttavia se essa ritiene di potersi sottrarre, una volta caduto il partito, all’alternativa tra contemplazione e pragmatismo aspettando che giunga il suo momento storico, essa rifiuta quel vincolo con il presente che è il solo luogo dove si forma la verità, e si trasforma in un giudizio errato nei confronti dell’imprevedibile realtà, le cui imponenti fortificazioni non ritardano in modo assoluto la catastrofe. Se con abnegazione la teoria si trasformasse, sul modello dell’arte, nella forma culturale che aspira soltanto a esprimere senza riguardi un contenuto conoscitivo, la felicità soggettiva di quelli che forse potrebbero ancora permettersi di farlo sarebbe smentita dalla disperazione oggettiva. La teoria è divenuta del tutto impotente.

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Note 1. Quello che segue è il testo di un memorandum per Paul Lazarsfeld, datato 23 giugno 1941, e appartiene alle fasi preliminari del «Music Study» promosso dal Princeton Radio Research Project, cui Adorno collaborò a partire dal 1938. Conclusa la collaborazione al progetto, Adorno intendeva ricavare dai numerosi lavori preparatori un libro che si sarebbe intitolato Current of Music. A Radio Theory, ma che però non vide mai la luce. Robert Hullot-Kentor ha tentato di ricostruire il libro, pubblicato ora da Suhrkamp nella sezione delle Nachgelassene Schriften dedicata alle opere rimaste a uno stato frammentario. L’estratto che ne diamo qui segue l’esemplare autografo conservato presso il Theodor Adorno Archiv (Ts 52603-52614), ma non riporta le numerose annotazioni a margine. 2. Si allude naturalmente a ricerche da svolgere nel quadro del Princeton Radio Research Project, di cui alla nota precedente. 3. Si tratta di un memorandum datato 22 giugno 1941(cioè risalente al giorno precedente) relativo agli «studi in programma» (Theodor W. Adorno Archiv, Ts 51474 sgg.); in esso sono menzionati otto studi, tra cui Musica e comunicazione, Teoria del jazz e Tipologia dell’ascolto musicale. 4. Dattiloscritto con interventi a mano conservato presso il Theodor W. Adorno Archiv (Ts 51864-51874). Si è scelto di non riportare una serie di annotazioni a margine. 5. Likes and Dislikes è il titolo di uno dei capitoli del libro Current of Music, rimasto allo stato di frammenti. Per Musikalische Warenanalyse [Analisi di merci musicali] vedi Th. W. Adorno, Gesammelte Schriften [=GS], Suhrkamp, Frankfurt am Main 1970 e sgg., vol. 16, pp. 284 sgg. 6. Cfr. Ödön von Horvath, Jugend ohne Gott, A. De Lange, Amsterdam 1938, trad. it. Gioventù senza Dio, Bompiani, Milano 2003. 7. Richard Wright (1908-1960), narratore afroamericano, ha dedicato i suoi primi romanzi, come I figli dello zio Tom (1938) e Paura (1940), al tema del razzismo in America. 8. Walter Benjamin ha precisato il suo concetto di esperienza soprattutto nel saggio Über einige Motive bei Baudelaire, ora in Id., Gesammelte Schriften, vol. 1, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1974, p. 605 sgg., trad. it. Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962. 9. Vedi innanzitutto Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, ora in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, vol. 7, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1989, p. 353 sgg., trad. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966. 10. Annotazione manoscritta a margine: «NB in termini psicoanalitici questo è il problema dell’impotenza. Riuscire a farcela solo en masse».

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11. Si allude all’ondata di panico scatenata nel 1938 da Orson Welles (19151985) con il suo radiodramma pseudo-documentaristico Invasion from Mars, adattato da un romanzo di H. G. Wells. 12. Allusione alla monografia di Adorno Versuch über Wagner, in GS 13, p. 7 sgg., trad. it. Wagner, Einaudi, Torino 2008. 13. Annotazione a margine: «cautela». 14. Forse Adorno pensa a un processo che fu intentato nel 1928 contro un certo Paul Krantz, studente di quinta superiore, e di cui Karl Kraus parlò nella «Fackel», nn. 781-786, vedi per esempio Für Hildegard Scheller (ibidem, pp. 40 sgg.), ora in K. Kraus, Schriften, a cura di Ch. Wagenknecht, vol. 17, Die Stunde des Gerichts. Aufsätze 1925-1928, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1992, p. 353 sgg.. 15. Annotazioni manoscritte a margine: «orticelli domestici. Giardini di periferia. Sobborghi. / Il falso superamento della separazione tra città e campagna nel fascismo. “Centri residenziali periferici”». 16. Annotazione manoscritta a margine: «eccellente». 17. Annotazione manoscritta a lato del capoverso: «importante». 18. Annotazione manoscritta a margine: «scaltrezza non è la parola giusta. “Pelle dura [?]”». 19. Annotazione manoscritta a margine: «gli omosessuali». 20. Annotazione manoscritta a margine: «qui non c’è più nessuna eredità da riscuotere» ha detto la cameriera che ha lasciato la famiglia di ebrei in Germania. 21.Vale a dire il problema della fantasmagoria, o del feticismo delle merci culturali, trattato da Benjamin ne I “passages” di Parigi. 22. Il saggio di Adorno Über den Fetischcharakter in der Musik und die Regression des Hörens, ora in Gesammelte Schriften, cit., vol. 14, p. 14 sgg., trad. it. Il carattere di feticcio in musica e la regressione dell’ascolto, in Dissonanze, Feltrinelli, Milano 1990. 23. Lo scrittore di viaggio Colin Ross (1885-1945), nato in Austria e trasferitosi a Berlino dopo un lungo soggiorno negli Stati Uniti, è autore di oltre venti volumi nei quali difende la causa del colonialismo, e a partire dal 1933 anche quella del nazismo. 24. Lo Scherls Jungdeutschalndbuch [Il libro della giovane Germania dell’editore Scherl], un almanacco pubblicato prima e dopo la prima Guerra Mondiale dalla berlinese August Scherl Verlag. 25. Perduto, ma cfr. Das Schema der Massenkultur, frammento in appendice all’edizione tedesca della Dialettica dell’illuminismo, in GS 3, p. 300 [non riprodotto nell’edizione italiana]. 26. Nota manoscritta a margine: «lo stesso vale per il dolore. Idealmente Chaplin presuppone un fisico fit». 27. Adorno visse fino all’emigrazione nella casa dei genitori a Oberrad, un quartiere della Francoforte sud.

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28. Cfr. Th. W. Adorno, GS 10.1, pp. 195 sgg., trad. it. George e Hofmannsthal. A proposito del carteggio (1891-1906), in Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1972. 29. Nota manoscritta relativa alle ultime frasi: «NB come l’autorità si disinteressa della società immediata». 30. Dattiloscritto con conclusione aggiunta a mano conservato presso il Theodor W. Adorno Archiv (Ts 51888 sg.). 31. Si allude probabilmente a una citazione da un saggio di Philippe Soupault riportata da Benjamin in Rückblick auf Chaplin, in Id., Gesammelte Schriften, vol. 3, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980, p. 158. 32. Concetto coniato dallo stesso Adorno, cfr. Id., Über Jazz, ora in GS 17, p. 96. 33. Dattiloscritto conservato presso il Theodor W. Adorno Archiv (Ts 51897 sgg.), datato 12 aprile 1943. 34. Cfr. Th. W. Adorno, Minima Moralia, ora in GS 4, p. 219 sgg., trad. it. Il cattivo compagno, in Minima moralia, cit., p. 230 sgg. 35. Dattiloscritto conservato presso il Theodor W. Adorno Archiv (Ts 51986 sgg.). 36. Dattiloscritto privo di titolo conservato presso il Theodor W. Adorno Archiv (Ts 51989 sgg); il titolo è redazionale. 37. Questa annotazione (Ts 52019 sg.) faceva originariamente parte della Dialettica negativa, ma fu espunta dal dattiloscritto e lasciata da parte per il libro di filosofia morale che avrebbe dovuto intitolarsi Graeculus; il testo, redatto tra il 1964 e il 1965, è riportato qui senza tenere conto della data di composizione. 38. Nota dell’autore: «cfr. Th. W. Adorno, Einleitung in die Musiksoziologie, Frankfurt 1962, pp. 159 sgg. [ora in GS 14, p. 343 sgg., trad. it. Introduzione alla sociologia della musica, Einaudi, Torino 1971, p. 182 sgg.]». 39. Anche questa annotazione (Theodor W. Adorno Archiv, Ts 52013 sg.) fu espunta dal dattiloscritto della Dialettica negativa e tenuto da parte per il progettato Graeculus; anche in questo caso il testo, composto a sua volta tra il 1964 e il 1965, è riportato senza tenere conto della data di stesura. 40. Su questo punto vedi anche H. Schweppenhäuser, Ein Physiognom der Dinge. Aspekte des Benjaminschen Denkens, Klampen, Lüneburg 1992, pp. 153 sgg. 41. Dattiloscritto senza titolo conservato presso il Theodor W. Adorno Archiv (Ts 51982 sg.); il titolo è redazionale. La prima pagina del dattiloscritto porta la cifra romana I, dalla quale si deduce che il testo avrebbe dovuto avere un seguito. Risale probabilmente agli anni quaranta, è cioè molto anteriore ai frammenti Spirito del mondo e individuo e Il nuovo come sempre-uguale, che qui lo precedono.

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Il mondo amministrato, o la crisi dell’individuo*

EUGEN KOGON1: Gentile professor Horkheimer, gentile professor Adorno, vorrei aprire la nostra discussione sul mondo amministrato constatando che l’uomo moderno vaga senza meta, alla ricerca della sua libertà. Il modo in cui sono giunto alla discussione di oggi, e so che lo stesso vale per voi, mi fa pensare a questa condizione. Fino a mezz’ora fa in questo preciso momento sarei dovuto essere altrove, e quanto a lei, professor Horkheimer, so che tra meno di un quarto d’ora lei dovrebbe trovarsi a Bad Nauheim, eppure abbiamo intenzione di discutere in modo ampio, disteso e razionale su questo tema di così enorme rilevanza: “il mondo amministrato”. Siamo seduti qui, per così dire frementi, nervosi, perché ci attendono altre scadenze. Dobbiamo liberarci da questa condizione. Io, per quanto concerne la mia persona, per tutta la durata della discussione fingerò di avere a disposizione tutto il tempo del mondo. Credo del resto che questo “come se” sia in grado di produrre una realtà. Proprio questo, credo, è il tema della nostra conversazione: se sia possibile assumere un atteggiamento di questo tipo e ricavarne una nuova realtà. THEODOR W. ADORNO: Forse posso riallacciarmi a un’esperienza che mi capita in continuazione di compiere leggendo romanzi, sia quelli meno recenti che quelli di oggi. In quei momenti mi si impone una non-verità: il fatto non è che gli eventi riferiti siano frutto di invenzione, piuttosto mi appare quasi una men* Dialogo radiofonico tenutosi in occasione di una trasmissione dell’Hessischer Rundfunk (4 settembre 1950).

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zogna che gli uomini di cui si parla nei romanzi vengano descritti come se fossero ancora liberi, come se qualcosa dipendesse ancora dal loro agire individuale, dalle loro motivazioni, insomma da quello che ne fa degli individui; mentre invece si ha la netta sensazione che per la stragrande maggioranza gli uomini siano stati derubricati da tempo a mere funzioni all’interno del mostruoso macchinario sociale di cui tutti siamo prigionieri. Ci si potrebbe esprimere in modo estremo dicendo che in realtà la vita, nel senso peculiare che questa parola ha per tutti noi, non esiste più. Qualcosa di simile ha già scritto nel XIX secolo un prosatore significativo come Ferdinand Kürnberger: «la vita non vive». Il fenomeno che io cerco di caratterizzare servendomi di questa espressione mi sembra all’atto pratico l’effetto più tangibile del fenomeno di cui parleremo oggi, cioè della trasformazione del mondo e della vita nella loro interezza in un sistema di amministrazione, in un certo tipo di gestione dall’alto. MAX HORKHEIMER: Credo che la sua esperienza sia corretta, signor Adorno. Gli uomini hanno perduto la loro vita, la loro stessa vita. Vivono la vita che è prescritta loro dalla società. Al giorno d’oggi gli uomini dispongono, in teoria, di mezzi sufficienti per vivere in modo assai più libero, eppure soggiacciono a una pressione che non ha precedenti nella storia. E non parlo soltanto degli strati più bassi, ma di tutti gli strati sociali. Sartre ha tematizzato questo problema. Volendo essere esatti non dice che gli uomini hanno perduto la loro vita, ma afferma che sono diventati incapaci di decidere. È proprio questo che mi lascia perplesso: gli uomini continuano anche oggi a fare la storia, semplicemente non lo sanno. Sono ancora in grado di decidere, ma decidono di adeguarsi. Oggi gli uomini sono prigionieri dell’amministrazione, ma non c’è niente di necessario in questo. KOGON: Quando Sartre illustra questa condizione del mondo moderno, gentile professor Horkheimer, io mi trovo molto d’accordo. L’aspetto che criticherei è il fatto che nelle sue opere a volte Sartre ragiona come se di fatto continuassimo a disporre

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della libertà decisionale da lui postulata, quella libertà di scegliere che Sartre incoraggia e presuppone. Il mondo, come lei stesso ha appena mostrato, appare molto diverso. Anch’io ho l’impressione che disponiamo di una libertà interiore che ci consente di rispondere “sì” o “no” a quello che accade nel mondo intorno a noi, o nelle nostre famiglie, ma nella maggior parte di casi questi “sì” e questi “no” non hanno alcuna conseguenza – il mondo non cambia per causa loro –, o tutt’al più hanno conseguenze che non siamo quasi più in grado di controllare, di padroneggiare. Ci troviamo dunque rigettati nel profondo dell’interiorità, e il fatto che il mondo versi in questa condizione di amministrazione, come abbiamo stabilito di chiamarla, rischia quasi di dissolvere del tutto anche questo residuo di libertà interiore. Corriamo davvero un pericolo mortale. ADORNO: A me sembra che la vera disgrazia sia il fatto che oggi vige una sorta di armonia prestabilita tra i processi oggettivi da un lato, e parlo della sempre crescente amministrazione, e i processi soggettivi dall’altro… KOGON: Perché la chiama armonia, gentile professor Adorno? Non riesco a capire. ADORNO: Forse armonia non è la parola giusta… KOGON: Lo credo anch’io. ADORNO: …Una sorta di fatale convergenza… KOGON: Molto bene. ADORNO: …Una funesta concordia reciproca. Senza dubbio la pressione che in certe epoche passate gravava sull’umanità non era minore di quella che la opprime oggi. Quella che è cresciuta è la socializzazione. Per così dire, agli uomini è concesso un margine sempre più ridotto per sfuggire alle forme, le forme socialmente obbliganti all’interno delle quali essi conducono la loro esistenza. In questo modo la pressione, la coazione ad adeguarsi, è cresciuta sempre di più, e lo spazio all’interno del quale gli uomini possono vivere una vita indipendentemente da questo meccanismo sociale è diventato sempre più piccolo. Non c’è

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quasi più via di scampo, se posso dire così, e per questo gli uomini tendono a riprodurre in se stessi, di propria iniziativa, tutti quei processi amministrativi che vengono loro inflitti dall’esterno. Ogni individuo si trasforma per così dire nel funzionario della propria stessa amministrazione… KOGON: Se posso aggiungere… ADORNO: …Solo se teniamo conto di questo doppio momento possiamo farci un’idea dell’effetto valanga che si sta preparando. KOGON: Vorrei aggiungere solo un’osservazione, professor Adorno, e cioè che secoli e millenni fa esisteva la schiavitù, ed essa interessava milioni di persone, privandole di ogni libertà sociale. Noi abbiamo conquistato la libertà nel corso di duemila anni, e proprio per questo la prospettiva di ricadere in una condizione che assomiglia alla schiavitù all’interno del mondo amministrato ci appare tanto atroce… ADORNO: …Se la si confronta con quello che sarebbe possibile e in una certa misura era già stato realizzato… HORKHEIMER: Signor Kogon, lei sostiene che abbiamo conquistato la libertà, ma il problema è proprio questo: l’abbiamo conquistata? Chi ci sentisse parlare potrebbe credere che nel loro complesso gli sviluppi sociali ed economici radicatisi, diciamo, nel corso degli ultimi cinquant’anni, siano stati il frutto di uno sviamento, e che dovremmo risalire il corso del tempo per tornare all’epoca in cui esisteva, perlomeno in ambito economico, qualche cosa di simile alla libertà. In effetti io sono dell’idea che l’epoca in cui lo strato sociale che reggeva le sorti della storia era costituito dai piccoli imprenditori, abbia sviluppato, magari solo a beneficio di questo strato sociale relativamente ristretto, alcune qualità che sono intimamente legate alla libertà, perlomeno a quella individuale, in una misura molto maggiore di quella in cui esse valgono oggi per il grosso della società. Come abbiamo visto, però, è stata proprio quest’epoca di libera economia di

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mercato a condurre alla situazione attuale. È proprio grazie a questa libertà che si sono costituiti quei grandi cartelli che dal punto di vista economico sono i maggiori responsabili di quello che chiamiamo il mondo amministrato. Parlando di amministrazione, infatti, non alludiamo soltanto all’amministrazione da parte di un governo, ma piuttosto al fatto che tutte le branche dell’economia e della libera professione sono amministrate. E noi tutti sappiamo bene, signor Adorno, signor Kogon, che anche il giornalismo, anche la stessa scienza sono amministrati. KOGON: Sì, professor Horkheimer, gli apparati di governo, gli apparati amministrativi dei governi, mi sembrano addirittura un’espressione della necessità sorta dalla cosiddetta libertà economica dei primi anni del XIX secolo, che in parte è stata anche reale. Le cose, insomma, sono andate come dice lei: un strato ridotto ha conseguito una certa libertà da determinati vincoli sociali. Da questa libertà relativa è scaturito uno sviluppo travolgente che è andato a beneficio di strati più ampi, e non voglio certo negare che praticamente tutti gli strati sociali ne abbiano partecipato in qualche modo, perlomeno temporaneamente. I problemi che ne sono derivati per l’insieme della società, però, erano così violenti, e a tratti così crudeli, che fu necessario edificarvi sopra gli apparati di governo per tenere insieme il tutto con vincoli di qualche tipo. Quello che volevo dire, quando poco fa osservavo che nel corso di duemila anni abbiamo conseguito la libertà e ora l’abbiamo in parte nuovamente perduta e corriamo il rischio di perderla del tutto, si riferiva alla libertà della persona, non tanto e non solo intesa come libertà sociale. Riportando al centro la persona, la personalità dell’uomo, il cristianesimo ha trasformato di fatto la società, nel corso di un processo durato secoli. In un primo tempo, che corrisponde grossomodo al medioevo europeo, la singola persona viene a occupare un posto centrale all’interno di ordinamenti ancora rigidi che più tardi, nel corso dei secoli successivi, abbiamo finito per percepire come ostacoli, e so-

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lo allora ha avuto inizio quel processo di cui parlava lei, e di cui stiamo vivendo le fasi conclusive. Vorrei aggiungere soltanto che l’amministrazione in quanto tale è per sempre una necessità sociale. Non è cattiva di per sé. Il problema da porsi è se essa sia o meno adeguata alla realtà stratificata, a questa realtà in tutto e per tutto differenziata che è di volta in volta la società. Oppure se essa sia una camicia di forza, una vergine di Norimberga – dico bene? – al cui interno la vita, come diceva lei all’inizio, professor Adorno, risulta soffocata o avvelenata. La razionalità dell’amministrazione, insomma, deve essere adeguata alla realtà, ecco: deve essere al suo servizio, altrimenti… Non si può permettere, insomma, che si affermi un’illusoria dittatura della ragione libera e svincolata, come in parte è successo nel XVIII e nel XIX secolo in campo filosofico, se poi in realtà essa non fa che nascondere interessi vigenti, e mentre ciò accade tali interessi producono immani apparati amministrativi all’interno della società, come per esempio il sistema economico, come diceva lei poco fa, che poi all’atto pratico ci rendono impossibile respirare liberamente. ADORNO: Gentile signor Kogon, mi sembra che la sua ultima osservazione ci permetta di avanzare nella nostra analisi. Quando critichiamo l’amministrazione non stiamo criticando la razionalità. Il bersaglio della nostra critica non è il fatto che i rapporti umani come tali vengano pianificati per contenere la sofferenza inevitabilmente prodotta dal gioco incontrollato e cieco delle forze sociali. L’aspetto minaccioso degli sviluppi recenti, neanche più tanto recenti a dire il vero, mi sembra il fatto che è l’irrazionale a essere razionalizzato, che cioè la risultante del gioco incontrollato delle forze all’interno della società liberista, il signor Horkheimer ne ha parlato poco fa, viene ad essere fissata, e si agisce nel modo più avveduto, deliberato e scaltro per fare sì che queste condizioni fissate possano affermarsi e gli uomini si adattino loro con la minore resistenza possibile, senza che sia fatto nulla di concreto per oltrepassare il risultato di questo processo irrazionale e cieco…

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KOGON: Mi permetta di farle una domanda en passant, signor Adorno, in modo da comprenderla bene: sta dicendo che la libertà della persona viene presupposta e addirittura affermata, ma che poi in realtà questa libertà si è dissolta nell’ignoto, nell’irrazionale, mentre la verità è che certi interessi hanno creato apparati amministrativi altamente razionali? ADORNO: Sì, tra le altre cose sto dicendo che la libertà si è trasformata in un mero pretesto per poter meglio amministrare gli uomini. Al di là di questo, però, quello che intendo veramente affermare è che la stessa società che oggi attua la pianificazione ha in se stessa elementi di non-pianificazione, di anarchia, e che proprio per questo soltanto singoli interessi particolari riescono ad affermarsi, e che questa pianificazione in realtà non va a beneficio degli uomini, ma come si esprimeva lei poco fa è al servizio di determinati gruppi di interesse. Sì può dire insomma che il fondamento stesso della razionalizzazione nel suo complesso, come la viviamo oggi, è in tutto e per tutto irrazionale. HORKHEIMER: Quello che lei dice si vede anche dal fatto che in realtà ai giorni nostri la concorrenza non è affatto scomparsa. Ogni cosa è amministrata, ma all’interno di tale amministrazione ha luogo tra i singoli individui una concorrenza forse ancora più accanita che in passato per l’accesso a incarichi, posizioni, carriere. Persino in ambito sovietico, dove in apparenza la concorrenza è stata superata, le opinioni politiche mi sembrano fare da paravento a meschine lotte di fazione e questioni di concorrenza, e se le imprese non concorrono più, tanto più gli uomini si contrappongono gli uni agli altri. KOGON: Sta mettendo l’accento su un fenomeno di grandissima importanza, professor Horkheimer. Un fenomeno straordinariamente complesso, peraltro. È in pratica una confusione della realtà e dei concetti. Ci sono, poniamo, degli imprenditori, moltissimi imprenditori, che sostengono la libera concorrenza nel loro ambito e che all’interno di questa concorrenza, che in par-

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te rivendicano soltanto perché sono loro stessi a organizzarla, pianificano su larga scala e fanno esattamente il contrario di quello che affermano, vale a dire… HORKHEIMER: Senza dubbio. KOGON: …sviluppano una economia di piano, per così dire, sotto tutti i rispetti… HORKHEIMER: Senza dubbio. KOGON: …Si limitano a darle un altro nome. La chiamano libera concorrenza, perché è l’organizzazione, l’organizzazione razionale dei loro stessi interessi. Dal punto di vista della totalità sociale – non è vero? – si tratta di assenza di piano e al tempo stesso di superamento della libera concorrenza. Per questo parlavo di una confusione della stessa realtà. E in ambito sovietico, come lei fa notare, un ambito totalitario, anch’esso altamente razionale, si combattono lotte di interessi di natura elementare dove in molti casi ne va della stessa vita, e non più della carriera… HORKHEIMER: Giusto. KOGON: …E per giunta nel modo più barbaro e selvaggio. L’aspetto che mi colpisce è il fatto che questo processo sia in corso di svolgimento tanto nel mondo occidentale che nel mondo sovietico. La differenza mi sembra ridursi al fatto che laggiù si esplica in modo brutale, per mezzo della violenza e del terrore nelle loro forme peggiori, con l’aiuto di mezzi terroristici, mentre da noi non è un fenomeno così massicciamente osservabile, o diciamo pure che esso ha una certa qual apparenza di correttezza, perché è camuffato dalle ideologie che vi aleggiano intorno, ideologie che però rimandano ancora a un nucleo originariamente giusto, e mi sembra una buona cosa, perché almeno esso continua a sopravvivere da qualche parte nella nostra coscienza, anche se in forma di perbenismo ipocrita, perché è un punto di partenza migliore, a mio parere. La situazione di fondo, però, è la stessa per il mondo intero. HORKHEIMER: Da una delle due parti l’angoscia non è così violenta, perché non si ricorre al terrore.

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ADORNO: Mi viene ora da pensare che forse il tratto caratteristico della situazione non è tanto l’espansione degli apparati amministrativi come tale – apparati burocratici sono esistiti tra le altre cose anche in tutte le altre epoche –, ma piuttosto le trasformazioni per mezzo delle quali gli uomini stessi divengono oggetti di amministrazione. Si potrebbe dire che gli uomini conservano quelle caratteristiche che essi hanno conquistato nell’epoca della concorrenza e che oggi rendono più facile l’adeguamento a questa situazione, per esempio un certo tipo di destrezza, di rapidità dello sguardo, di prontezza nelle reazioni, di versatilità, tutta una serie di caratteristiche di questo genere, e anche una certa forma di durezza nei confronti degli altri e di se stessi. In cambio, però, perdono tutte quelle qualità che fanno da ostacolo, quelle che fino a oggi siamo stati abituati a considerare le qualità umane per eccellenza, quelle di cui il sistema non si è ancora impadronito. Insomma perdono i loro impulsi, perdono la passione. L’idea di un uomo appassionato, ormai, è già quasi anacronistica… KOGON: …Se si parla di una passione autentica … ADORNO: …Autentica, sì… KOGON: …Perché di passioni isteriche ne esistono eccome… ADORNO: …No, una passione vera, una passione come quella di Madame Bovary o di Anna Karenina. Si potrebbe quasi dire… KOGON: …O la passione per la giustizia… ADORNO: Per esempio. KOGON: …Come in Zola al tempo del caso Dreyfus. ADORNO: Esatto, quella non esiste più. HORKHEIMER: Al giorno d’oggi quando qualcuno prova un amore travolgente va dallo psicanalista e non ne muore più. ADORNO: Si potrebbe quasi dire: gli uomini perdono in generale quello che un tempo si chiamava carattere, l’impronta inconfondibile del loro io, raccolta dal passato e conservata nel futuro, perché in fondo questo io è una specie di zavorra che potrebbe solo ostacolare la loro carriera all’interno dell’immane

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macchinario sociale. Forse… potremmo spingerci fino ad affermare che nel corso di questo processo di adattamento gli uomini, che si adeguano a tutto questo soltanto in nome della sopravvivenza, perdono quello stesso io, quello stesso sé che stavano cercando di preservare, e qui sta la dialettica satanica di questo processo, nella misura in cui si tratta del suo versante umano. HORKHEIMER: Questo adattamento presenta però difficoltà gigantesche. La nostra epoca è l’epoca della psicologia, e in particolare, come ho già accennato, è l’epoca della psicanalisi. Nella psicanalisi il processo di amministrazione si prolunga nell’interiorità dell’uomo. L’uomo trasforma se stesso in oggetto, per così dire si reifica da sé. Non desidera più nient’altro che la carriera. Ambisce a quelle che la psicanalisi chiama capacità di godimento e capacità di lavoro, e questi termini – per quanto mi sia dato vedere, almeno al giorno d’oggi – non designano altro che l’adattamento alla realtà vigente. L’analisi, che un tempo aspirava a portarci fuori da questo mondo per mezzo della critica, resta prigioniera del mondo amministrato. I libri di psicologia che si pubblicano oggi sono quasi senza eccezione quelli che vendono di più. La gente cerca la pace, la pace interiore, e così si rivolge alla psicologia e le chiede cosa fare per raggiungerla. So per certo che in alcuni paesi ci sono individui che aspettano con ansia l’uscita dei giornali perché i giornali pubblicano ogni giorno consigli di psicologi sul modo di comportarsi in diverse situazioni. Ecco fin dove è arrivato lo smarrimento degli uomini. KOGON: Eppure, professor Horkheimer, nei procedimenti della psicanalisi e nella mania di rivolgersi allo psicanalista mi sembra di scorgere un tipo di smarrimento che non si può interpretare soltanto come adattamento. Dico “non solo”, anche se indubbiamente quello è il momento dominante… HORKHEIMER: Il fine ultimo è pur sempre l’adattamento. KOGON: Sì, il fine ultimo. Può trattarsi di un fine nascosto o consapevole. Quando dico nascosto voglio dire che concorrono

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altre cause efficienti. Io provo quasi compassione per i molti che credono di poter apprendere dallo psicanalista quali siano le cause riposte dei disagi individuali che essi provano in questa società moderna, in questa società amministrata. Ci vedo quasi un tentativo disperato di liberarsi dalle pastoie, dalle reti, da tutti i vincoli del mondo amministrato. Sono senz’altro d’accordo, così facendo restano all’interno del sistema del mondo amministrato, questo tentativo psicanalitico non abbatte le mura, non spezza le catene, non lacera le reti – dico bene? – perché quello che si ricerca è un punto del proprio passato a partire dal quale, per successive catene deduttive, ogni cosa trova la sua spiegazione. In questo modo non si ottiene certo la libertà di scelta, cioè la libertà della persona, anche se potrebbe trattarsi di uno strumento utile, dico potrebbe, se fossero in gioco dei valori, gli unici in grado di spezzare le catene. HORKHEIMER: Anzi, la psicanalisi è proprio il tentativo di impedire agli uomini di spezzare le catene esteriori insegnando loro a dominare le loro pulsioni e le loro passioni. KOGON: Sì, molto ben detto, certo. ADORNO: Io credo che la stessa psicanalisi offra un modello sul quale studiare lo sviluppo del mondo amministrato. Bisogna ricordare che la psicanalisi ha visto giorni migliori. In origine il suo intento era liberare gli uomini, se non altro interiormente, rendendoli coscienti delle loro pulsioni rimosse, e alleggerire la pressione che il prolungarsi della pressione esterna, sociale, produceva dentro di loro. Questo momento è completamente scomparso dalla psicanalisi di oggi, e proprio quella volontà di libertà, in nome della quale la disciplina si è costituita, passa oggi negli ambienti psicanalitici per estraniata, nevrotica o il cielo sa che altro. Nella forma praticata oggi la psicanalisi aspira piuttosto a far sì che gli uomini si sentano a loro agio sotto la pressione generale, e rafforza negli uomini la tendenza, peraltro già ampiamente diffusa, a non ribellarsi alle imposizioni. In particolare le attuali riduzioni divulgative che si sforzano di compendiare o semplificare la psicanalisi, per risparmiare agli uomini la pe-

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na e la fatica di meditare su se stessi, non mirano più che a neutralizzare coloro che per qualche ragione non si adattano senza attriti e resistenze, e a fare degli uomini anche sul piano soggettivo quello che essi sono già in ogni caso sul piano oggettivo, vale a dire impiegati potenziali di un’unica, mostruosa impresa di proporzioni gigantesche. KOGON: Proprio per questo vorrei nuovamente ribadire che le intenzioni originarie erano buone anche nel caso della psicanalisi, che sperava di mostrare la via che porta fuori da questo mondo amministrato. A produrla è stata una sorta di inconfessato bisogno di salvezza. L’intenzione originaria è poi stata sviluppata nella direzione sbagliata, e noi ci troviamo all’interno di un circolo maledetto. Il principale motivo di questa perturbazione mi sembra il fatto che i valori veri, quelli che producono il cambiamento, sono andati perduti, e non tanto al livello della coscienza, perché in senso tradizionale essi continuano a sussistere – da un capo all’altro dell’Europa, da un capo all’altro del mondo non si fa che parlare di valori come libertà e morale, dico bene?, o di bontà, o di quello che volete, cioè di tutti i valori alti –, ma nella vita dei singoli individui essi non sono una realtà concreta, o lo sono soltanto in modo frammentario, come ultimi residui, e di conseguenza non trasformano in nulla lo status quo. Un esempio: per rapportarsi in modo corretto alla realtà, al mondo esistente, ci vuole un certo tipo di ricettività benevola. Questo non vale solo per gli altri esseri umani. A questo riguardo, professor Horkheimer, in una delle nostre precedenti conversazioni lei ha fatto riferimento alla natura, dicendo che non possiamo guardare alla natura solo in senso cosale… HORKHEIMER: Esatto. KOGON: ...Ecco, è necessaria una sorta di ricettività benevola per essere disposti a rinunciare a se stessi in nome di altro, che si tratti di una persona o volendo addirittura di una cosa, anche se questo può suonare stranamente paradossale, dal momento

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che parliamo di un mondo amministrato e reificato, ma qui uso il termine in senso liberatorio: riuscire a instaurare questo rapporto con la cosa, consegnarsi, armonizzarsi con l’altro; e io credo che sia proprio perché questi valori esistono ormai soltanto nel cervello, ma non vivono nel cuore, che il cervello si ottunde. Un cuore ottuso produce un cervello ottuso. HORKHEIMER: Proprio per questo, io credo, la psicanalisi delle origini ha un grande merito, perché ha mostrato che dei cosiddetti valori possiamo essere consapevoli in moltissimi modi, ma che questi valori possono essere assimilati dalla coscienza morale, cioè dagli uomini, soltanto se nel corso di un’infanzia protetta essi hanno la possibilità di apprendere realmente questi valori da una persona amata. Io credo che nell’attuale situazione economica, con la dissoluzione della famiglia che essa comporta insieme alla dissoluzione di ogni forma di tranquillità e sicurezza, questo non sia già quasi più possibile. Per questo non si giunge più a quello che potremmo chiamare dispiegamento della coscienza morale. KOGON: Le sue spiegazioni mi fanno capire quanto sia oggi reificata la psicanalisi, quanto essa resti all’interno del cerchio. Essa è andata alla ricerca dei punti di determinazione. Ha cioè ricercato dei punti a partire dai quali lo sviluppo dell’essere umano, per così dire, potesse venire ripercorso nelle due direzioni in senso puramente causale e deduttivamente vincolante, in modo da renderlo cosciente. Essa però non rende liberi. Questo tipo di coscienza, l’individuazione di una catena causale, non porta ai valori di cui parlavo prima, quelli che possono produrre esplosioni, far saltare le mura. HORKHEIMER: No, quelli devono trovarsi nella società. L’analisi si limita a mostrare sotto quali condizioni questi valori possono divenire parte integrante di una personalità. ADORNO: La psicanalisi, in apparenza, si rivolge all’individuo come a qualcosa di ancora brado, di inconscio, di pulsionale, e

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quindi sembra contrapporsi al mondo amministrato. Abbiamo però già osservato che lo fa impadronendosi essa stessa di quei livelli che ancora sfuggivano alla presa, manipolandoli ancora una volta. Il celebre detto di Freud secondo il quale il soggetto cosciente deve sostituirsi all’inconscio («wo Es war, soll Ich werden») giunge quasi a denunciare questa intenzione. In questo momento di ambivalenza, nel fatto cioè che il penetrare nel fondo specifico dell’individuo sembra servire soltanto a sottometterlo in modo più efficace all’astratto e al reificato, si esprime una tendenza molto più generale che abbiamo battezzato «pseudo-individualismo». Per spiegare nel modo più semplice il significato che diamo a questa parola vorrei ricordare una caricatura apparsa tempo fa sul «New Yorker», un giornale umoristico americano. Nell’immagine si vedeva un tombino in mezzo a una strada che portava la targhetta “Mr. Smith”, un po’ come oggi gli sportelli pubblici hanno un cartellino con il nome dell’impiegato. Arriva un visitatore e chiede all’operaio nel tombino «è in casa il signor Smith?». Questa è pseudoindividualizzazione, ovvero: quanto più tutto si trova ad essere impastoiato, tanto più bisogna darcela a bere, facendoci credere che il signor Tal dei Tali sia ancora un essere umano del tutto singolare dotato di nome e cognome. Per sottrarsi alla presa del mondo amministrato una delle prime cose da fare è non cadere nel tranello della falsa individualizzazione. HORKHEIMER: Questo significa, potremmo dire, che l’individualità si trasforma in ideologia. La standardizzazione prende il posto dell’idea di uguaglianza promossa dall’Illuminismo. Quello che vale per le merci vale anche per gli uomini. La pubblicità annuncia ogni merce di nuova concezione come qualcosa di completamente nuovo. Chi produce queste merci sa bene che deve guardarsi dal produrre modelli nuovi che siano troppo diverso dalle altre merci, perché nessuno li comprerebbe. Ogni merce si presenta come qualcosa che è stato fatto apposta per te,

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quando in realtà è fatta per la massa. La categoria della “standardizzazione” mi sembra valere per gli uomini come per le merci. KOGON: Vorrei aggiungere però che perfino in ambito economico, professor Horkheimer, esiste ancora il modo di agire autentico, individuale, quello che conduce alla scelta appropriata e fa della propria realtà personale l’unità di misura. Purtroppo oggi è spesso legato alla ricchezza, dunque accessibile soltanto a certi strati piuttosto ristretti della popolazione. HORKHEIMER: Certamente. KOGON: Però da questi accenni all’economia io deduco molte altre cose. Vorrei dire tuttavia: anche in quest’epoca terribile l’esperienza ci insegna che la verità, quella autentica, dorme nel profondo del singolo individuo, dico “dorme” perché forse non si vede, forse non agisce, ma c’è. Non mi limito ad affermarlo su basi teologiche, poniamo, perché credo che il fatto che l’uomo sia rimasto aliquid a deo, qualcosa che procede da Dio, cioè che esso partecipa pur sempre del vero essente e della libertà di scegliere tra il bene e il male, sia un dato dell’esperienza reale di tutti i giorni, e che questo valga per tutti. Io dico che l’uomo, anche in questa condizione di totale assoggettamento, illibertà e indurimento, può ancora produrre qualcosa di diverso, a dispetto di tutti gli strati di cemento e asfalto che ricoprono la realtà. Anche se si trova nel fondo di un tombino che porta il suo nome, come spesso accade oggi, può sempre uscirne. Può sprofondare sempre di più, ma può anche uscirne. ADORNO: Io credo che questo spunto, nel quale ovviamente c’è qualcosa di vero, vada maneggiato con la massima cautela. Ricordo ancora fin troppo chiaramente che in occasione di una certa circostanza letteraria un tale che avevo conosciuto come uomo d’affari particolarmente scaltrito trovò il modo di iniziare un saggio citando la frase di Dostoevskij «in ogni creatura c’è una scintilla divina». Dubito proprio che quello specifico individuo potesse credere a questa scintilla. In ogni caso mi sembra decisa-

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mente che il tipo umano che sta nascendo in questi anni sia già quasi completamente adeguato in partenza al mondo amministrato, che per così dire nasca in esso come nel suo proprio habitat, o per usare un’espressione più esatta, i meccanismi di adattamento lavorano su uno strato estremamente profondo e primordiale. L’uomo di oggi è caratterizzato in partenza da due qualità contrastanti: rigidezza e mobilità. Gli uomini sono rigidi perché in realtà non hanno più niente di spontaneo, perché praticamente non vivono più, ma sono i primi a percepire se stessi come quelle cose, quegli automi nei quali il mondo li trasforma… KOGON: Se posso riferirmi ancora all’esempio che poco fa lei prendeva dal «New Yorker»: rigidi nel senso che restano prigionieri del tombino, ma mobili nel senso che sono liberi di cambiare tombino. ADORNO: …Liberi di cambiare tombino, sì, cioè devono essere disposti a svolgere in ogni momento qualunque mansione, e solo se danno continuamente prova di questa disponibilità sfuggono alla minaccia generalizzata, alla disoccupazione nel senso più ampio del termine, che ovviamente è molto di più della semplice minaccia di una mancanza di impiego come essa grava sull’operaio industriale. Questo miscuglio di mobilità esteriore e di totale rigidezza, cioè le caratteristiche di una vite che si può spostare da un luogo all’altro, mi sembra caratterizzare la configurazione antropologica di una parte consistente dell’umanità odierna. HORKHEIMER: Io credo che Kogon abbia ragione quando dice che l’uomo ha la possibilità di essere altrimenti. Proprio per questo, però, per ricordargli questa possibilità, è nostro dovere mostrare che cosa sta accadendo oggi all’uomo. Anche lei, signor Adorno, ha preso parte alle ricerche che abbiamo condotto in America per verificare se il pericolo dell’uomo amministrato, dell’uomo la cui stessa psicologia ha assimilato l’amministrazione, l’uomo legato all’autorità, sia effettivamente in crescita. Abbiamo

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scoperto – e l’abbiamo fatto sulla base di un materiale estremamente nutrito – che è proprio così. Di questi tempi gli uomini ciecamente legati all’autorità sono sempre di più. Come sono fatti questi uomini? Si caratterizzano per un pensiero stereotipato. Pensano sempre in termini di “sopra” e “sotto”. Assegnano immediatamente gli altri uomini a classi, come un partito politico, un paese, una razza. Pensano in termini di bianco e di nero. Nero è il gruppo a cui appartengono gli altri, bianco è il proprio, dove tutto è buono, ed è come dovrebbe essere. Provano un tremendo bisogno di fare parte del gruppo dei buoni. Il motivo è che il loro io, la loro spontaneità, persino la loro volontà si sono fatti deboli e fiacchi, e che riescono a concepire se stessi soltanto come membri di una comunità forte. Di qui la loro tendenza gregaria. ADORNO: Che a sua volta riflette una tendenza dell’amministrazione. Come l’impiegato con mansioni amministrative vede in partenza gli uomini come oggetti da valutare in base alla loro maggiore o minore utilizzabilità, o come un uomo d’affari, quando pensa alla propria carriera, divide gli uomini in amici e nemici, oggi gli uomini tendono a sussumere tutti i loro simili sotto le categoria del “pro” e del “contro”, come se fossero oggetti. Proprio per questo la vera interazione tra esseri umani, che consiste proprio nel compenetrarsi del pro e del contro, viene tagliata fuori, e proprio per questo, mi sembra, l’adempimento spontaneo dei rapporti umani è diventato impossibile in una misura così spaventosa. KOGON: Signori, spero che non abbiate nulla da obbiettare se mi rivolgo per un istante direttamente agli ascoltatori. Gentili ascoltatori, non sembra anche a voi che quello che i due ospiti di oggi hanno detto sia un pericolo reale? Non categorizzate anche voi? Non assegnate in continuazione cose e persone a gruppi distinti? Non regna anche nel vostro vicinato l’eterna distinzione tra amico e nemico, dove la coscienza del fatto che l’altro è un essere umano come voi o me va completamente perduta? Non sentite però al tempo stesso che potreste agire altrimenti, se solo lo vole-

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ste? Quanto a lei, professor Horkheimer: ho detto queste parole ai nostri ascoltatori anche per pungolarla un po’. Voglio dire che le cose funzionano, che la possibilità è più consistente di quanto lei crede in base alle sue conoscenze e alle sue analisi così approfondite del mondo amministrato. Forse lei tiene troppo poco conto di questa possibilità. Basta vigilare senza abbassare la guardia di fronte ai pericoli di questo mondo amministrato, intorno a noi e dentro di noi. Ancora più importante, a mio avviso, è rendere ogni volta conto a se stessi, assumere un atteggiamento critico e domandarsi se siamo davvero vittime croniche di questa condizione di amministrazione come l’abbiamo caratterizzata oggi. HORKHEIMER: Non voglio mettere in dubbio che tutto questo sia possibile, come dice lei. Come studioso, però, il mio compito è verificare se il tipo umano che lei ha descritto così bene sia tendenzialmente in aumento. Purtroppo non è questo il caso, e la storia dell’ultimo secolo ci insegna che malauguratamente gli uomini per cui esistono solo amici e nemici, gli uomini senza coscienza morale, sono ormai la maggioranza. KOGON: Sì, per quanto riguarda il rischio, voglio dire la situazione, le proporzioni massicce del rischio, io sono perfettamente d’accordo con lei. Voglio addirittura aggiungere un esempio che forse chiarirà ulteriormente le cose: guardi i cristiani del nostro tempo. Anche se continuano a portare con sé le grandi distinzioni tra il bene e il male, e addirittura continuano ad annunciarle al mondo – non facciamo che tenere prediche quotidiane al mondo cattivo, ovunque ne troviamo traccia, nel nostro vicinato, nella nostra città, in occidente come in oriente –, anche se portano in sé questi elementi di discriminazione, essi sono prigionieri di questo mondo amministrato come se non ne sapessero nulla. Proprio così. Se le cose non stessero in questo modo la trasformazione partirebbe proprio dai cristiani, che attingono le categorie giuste, quelle che permettono di fare distinzioni, dai Vangeli. ADORNO: Sì, non voglio mettere in dubbio che la possibilità ci sia. Credo però che si tratti di una relazione difficile. Quando ci si

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riferisce a qualcosa che tutto sommato esiste ancora si corre il rischio di fare il gioco del mondo così come esso è, di trasformarsi in suoi apologeti; io credo al contrario che la vera volontà, la volontà incrollabile di sfuggire alla presa delle cose di cui abbiamo parlato, esiga che si dicano le cose come stanno, senza cercare consolazioni, e sfuggendo alla tentazione di obbiettare: «sì, ma continua pur sempre a esistere questo e quello». Stavo per dire: non appena accettiamo di ricorrere al gesto del «sì, però…» di fronte alla drammaticità di queste cose, abbiamo già perso di vista la gravità del nostro oggetto e ci trasformiamo in un certo senso – anche se in modo inconsapevole – in difensori dello status quo. KOGON: Non mi fraintenda, io… ADORNO: Credo di averla capita bene… KOGON: …La consolazione di cui parlo io, innanzitutto non la chiamerei consolazione, e in secondo luogo non nasce dal mondo amministrato, ma dall’interiorità dell’uomo stesso, e si trova al di fuori del mondo amministrato. È il residuo a cui facevamo riferimento poco fa, descrivendo la situazione. HORKHEIMER: D’altra parte il mondo amministrato non fa che annunciare gioia, libertà e progresso. La difesa contribuisce a conservare il mondo amministrato. Il fatto di ripetere in continuazione che le cose non stanno così, che l’uomo ha la possibilità di fare tutto il bene che desidera, o addirittura che si avvale realmente di questa opportunità, ha una ruolo essenziale nella manipolazione di cui parlavamo. KOGON: Certo, se si resta alle devozioni domenicali e allo spiritualismo. HORKHEIMER: Se la nostra percezione è corretta resta il fatto che quegli uomini che pensano per stereotipi e dividono il mondo in amici e nemici sono davvero la maggioranza. Non può darsi allora che l’esperienza del negativo in quanto negativo sia la conoscenza del bene? KOGON: O meglio, può esserlo.

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HORKHEIMER: E l’annuncio immediato del bene, a sua volta, non può forse rappresentare un tremendo pericolo… KOGON: D’accordo, d’accordo. HORKHEIMER: …perché può contribuire a glorificare lo status quo? KOGON: Sono stato il primo a dire: come ideologie che mascherano interessi reali. La stessa verità, la verità oggettiva, può allora servire da maschera ideologica e diventare menzogna quando la si traduce in pratica, dal momento che tale applicazione, come il professor Adorno ha osservato molto a proposito, non incide sulla realtà, ma può arrivare addirittura a preservarla. ADORNO: Allora, in termini concreti, semplicemente, il rischio – e non è un problema che possiamo risolvere, ma mi sembra se non altro il caso di menzionarlo alla fine della nostra conversazione – è che quando si afferma che il singolo individuo può ancora essere buono e sottrarsi all’amministrazione si dica bensì qualcosa di formalmente corretto, ma che stando a quanto sappiamo delle leggi della nostra società, anche se un’infinità di uomini seguissero questa esortazione all’integrità personale nulla di essenziale cambierebbe nel mondo amministrato, a causa dello strapotere dei processi anonimi che operano al di sopra delle nostre teste…. KOGON: Qui devo contraddirla. ADORNO: …si tratta invece, per così dire, di uscire da se stessi e abbracciare una prassi oggettiva, non meramente personale, se vogliamo sperare di poter modificare in qualcosa il mondo amministrato. Per fare questo, però, bisogna necessariamente compromettersi in qualche misura con il diavolo del mondo amministrato, con questa reificazione, vale a dire si può combatterlo soltanto con l’aiuto di mezzi che in un certo senso hanno a loro volta la natura di cose e di oggetti… KOGON: Va bene, ma in questo modo… ADORNO: …è questo il tremendo dilemma nel quale ci troviamo.

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KOGON: …l’alternativa diventa troppo netta, professor Adorno. Esistono anche mezzi normali, non è vero? Lo dicevamo già all’inizio: l’amministrazione è una cosa necessaria – dico bene? – se una realtà, e una realtà differenziata… ADORNO: Necessaria è l’amministrazione delle cose, non degli uomini. KOGON: Sì, ma in una certa misura – dal momento che la società è un campo di forza – anche i rapporti tra gli uomini sono oggetto di organizzazione. E anche questo è amministrazione. Non bisogna però che l’uomo sia visto come un oggetto, e questo è il punto essenziale, né è legittimo comportarsi, e dunque non si può agire come se l’uomo fosse un oggetto, o “impiegarlo”, per usare la bella espressione di moda, dico bene?, in modo del tutto meccanico. Io continuo però a credere che sia possibile, sempre, ogni giorno, compiere il passo che conduce dalla sfera interiore della libertà di scelta tra il bene e il male alla realtà, la realtà oggettiva, e che se compiamo questo passo, se molti lo compiono insieme a noi, risulterà possibile cambiare il mondo esteriore in un modo che non è possibile controllare del tutto. In particolare se ci serviamo dei mezzi a nostra disposizione all’interno del sistema, il sistema politico della libertà individuale fondata sul diritto realizzato nella società, cioè la democrazia. HORKHEIMER: Per concludere credo che possiamo aggiungere una parola in favore del mondo amministrato. Non si può dire infatti che il mondo amministrato comporti solo conseguenze negative per gli uomini. La recessione di quella che abbiamo chiamato vita, la propria vita, cioè la recessione del livello qualitativo dell’esperienza, è legata alla diffusione dei beni di consumo. In effetti oggi la vita è diventata per molti versi più semplice di quanto in passato avremmo mai saputo immaginare. È vero, i bottoni e la tecnologia semplificano la vita e per ciò stesso sono fonte di molte esperienze, ma anche di molte sofferenze. L’esperienza è strettamente legata alla sofferenza. Le strade pulite, l’igiene, l’incivilimento trasformano l’uomo, lo standardiz-

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zano. Dobbiamo chiederci ora se vogliamo limitarci a negare le strade pulite, l’igiene, l’incivilimento e l’amministrazione. Può darsi che tutto questo sia il presupposto per una condizione che consenta al potenziale del singolo individuo di realizzarsi, come diceva lei, signor Kogon, molto più di quanto oggi sia possibile. KOGON: Sono straordinarie, queste conquiste della civiltà. Il problema è che il prezzo che abbiamo pagato per ottenerle, su questo siamo tutti d’accordo, è tremendo, e ha condotto in certi casi alla totale disumanizzazione. Noi che abbiamo conservato un residuo di cuore e di cervello siamo tutti concordi: non siamo disposti a continuare a pagare un prezzo simile, qualunque siano i benefici materiali che ci vengono offerti in cambio. Continueremo a sforzarci di conservare questi vantaggi della civiltà, di servircene nel modo giusto, ma anche di sviluppare la sostanza dell’uomo. E qui, signori, devo dire che per quanto le prospettive appaiano tetre, mi sembrano esserci molte più possibilità di quanto la nostra conversazione abbia lasciato intravedere. Ne vedo nella famiglia, nella vita quotidiana, negli uffici; non si tratta di etica astratta, professor Adorno; naturalmente l’etica e i valori veri sono l’origine, ma poi tutto questo entra nella grigia realtà e la trasforma un poco alla volta. L’elemento del bene, è questo che vorrei dire, continua a esistere e ad agire nonostante tutti i detriti, tutti gli strati che lo ricoprono, e perfino a dispetto del terrore. Se così non fosse non saprei davvero in nome di cosa dovremmo preoccuparci di prendere coscienza della situazione. Nota 1. Eugen Kogon (1903-1987), giornalista, sociologo e politologo tedesco, imprigionato a Buchenwald dal 1939 al 1945 in quanto oppositore politico del Nazionalsocialismo, è considerato tra i padri fondatori della Repubblica Federale Tedesca, ove fu attivo come pubblicista di ispirazione socialista e cristiana, promotore dell’europeismo federalista, e dal 1951 fu chiamato a ricoprire la prima cattedra di Politikwissenschaft istituita presso la Technische Hochschule di Darmstadt [n.d.c.].

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Individuo e organizzazione

Il mio compito non può essere quello di ripetere o di riassumere le opinioni diffuse intorno al rapporto fra gli uomini e l’organizzazione. Io piuttosto presuppongo che ci sia in voi un’inquietudine riguardo a tale rapporto, esattamente come voi desiderate di essere rassicurati sul fatto che ricadano su di me tutti i motivi di quella inquietudine. Ma non spetta a me farmi portavoce di ciò che è stabilito e di produrre quel piacevole clima di consenso nel quale ogni soddisfazione viene dal clamore suscitato. Compito della dialettica non è rafforzare le opinioni, ma, al contrario, liquidare l’opinione: riflettere su ciò che viene pensato senza riflessione. Questo è richiesto con particolare urgenza dall’oggetto che dev’essere qui trattato. È emerso ormai da tempo che, se si resta fermi all’orrore di fronte all’offuscamento organizzativo di sfere vitali sempre più numerose, e se per contro si protesta in nome dell’individuo o dell’uomo – come oggi tanto volentieri lo si chiama –, fin troppo facilmente si distoglie l’attenzione dalla minaccia che di fatto incombe. La dittatura di Hitler ha reso possibile in modo inaudito ciò che era noto da tempo alla comprensione critica della società – l’appello all’inconscio, al primigenio, alla natura non deturpata, alla personalità in stato di grazia; mentre quanto la propaganda irradiava continuamente in direzione delle forze irrazionali contribuì soltanto a rafforzare la supremazia di un apparato disumanizzato fino alla conseguenza di una compiuta disumanità. Chi oggi parla del pericolo dell’organizzazione deve innanzi tutto stare attento a non costruire una casa con concetti, la quale, secondo il detto di un architetto esperto, porta sul comignolo un accogliente nido di cicogne, ma è costruita sulle fondamenta di un rifugio antiaereo. Il

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Terzo Reich è stato sconfitto: continua tuttavia a sussistere l’inclinazione a lamentarsi del crescente radicamento dell’organizzazione e della tecnicizzazione – entrambi i concetti sono sostanzialmente uno –, un lamentarsi che contribuisce più a oscurare tale radicamento che a trasformarlo. Non mi pare un compito disprezzabile quello di opporre resistenza contro l’organizzazione e, nello stesso tempo, di metterla in questione. Io mi rifiuto di definire preliminarmente il concetto di organizzazione. Il suo contenuto sta sotto certi aspetti davanti agli occhi di tutti voi, e io vorrei evitare di restringerlo ulteriormente, vorrei cioè evitare che vengano troncati dei nessi che riguardano la questione, in quanto non rientrano nella definizione. Un fenomeno sociale come l’organizzazione moderna si lascia determinare senz’altro nella sua posizione soltanto all’interno del processo sociale complessivo, e cioè propriamente tramite una teoria sociale dettagliata. Sarebbe formalistico individuare un paio di note caratteristiche e attribuire arbitrariamente alla cosa stessa i tratti che corrispondono a tali note. Comunque, per orientarsi, va ricordato che l’organizzazione è un complesso di scopi coscientemente istituito e diretto. In quanto tale, esso si distingue tanto dai gruppi quasi-naturali, come la tribù o la famiglia, quanto, all’opposto, dalla totalità non pianificata del processo sociale. Si tratta essenzialmente della razionalità conforme allo scopo. Un gruppo che aspira al nome di organizzazione è formato allora in modo tale che lo scopo, in virtù del quale il gruppo esiste, si lascia il più possibile perfezionare e raggiungere con un dispendio di forze relativamente minimo. In quella concezione, la condizione di coloro a partire dai quali l’organizzazione si costituisce passa in secondo piano rispetto all’utilità finale del tutto. Il nome organizzazione ricorda l’organo, lo strumento. In ciò risuona il fatto che coloro che vengono compresi nell’organizzazione non le appartengono in primo luogo per se stessi, bensì come strumenti per la realizzazione di quello scopo che l’organizzazione persegue e che in modo innanzitutto mediato – daccapo, se volete, come “strumento” – si serve nuo-

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vamente di essi. In altre parole, nell’organizzazione le relazioni umane sono mediate dallo scopo, non sono immediate. Secondo la terminologia americana ogni organizzazione sarebbe un gruppo secondario. Tale mediatezza, cioè il carattere strumentale del singolo per l’organizzazione e dell’organizzazione per il singolo, pone momenti di rigidità, freddezza, esteriorità, violenza. Nel linguaggio della tradizione filosofica tedesca ciò viene delineato dalle parole alienazione e reificazione. Tale mediatezza si accresce con l’ampliamento delle organizzazioni – già Max Weber ha rilevato che una spinta in tal senso si trova in ogni organizzazione1. Questa spinta espansiva, tuttavia, fino a oggi procede unicamente lungo i binari del funzionamento. Sempre nuovi settori vengono inglobati nel meccanismo e resi controllabili. L’organizzazione, che fagocita quel che sempre le è dato di ottenere, persegue in ciò l’unificazione tecnica, dunque anche la propria potenza. Essa riflette tuttavia assai poco sul senso del suo esserci e della sua estensione nel tutto sociale. La separazione fra strumento e scopo, che definisce originariamente il principio dell’organizzazione, nella società moderna mette a repentaglio più che mai il rapporto dell’organizzazione con la sua base normativa. Separata dallo scopo al di fuori di lei, essa diviene scopo a se stessa. Quanto più ampia è la sua spinta alla totalità, tanto più essa – sistema degli strumenti – rafforza la parvenza di essere la cosa stessa. Essa si isola da ciò che non le è simile. Ma proprio nelle organizzazioni onniavvolgenti si trova paradossalmente la qualità di ciò che viene escluso, del particolare. Voi non solo sapete che le organizzazioni totalitarie individuano regolarmente e inesorabilmente i gruppi che non ne fanno parte, ma conoscete anche l’arbitrio di tale scelta. Quest’ultima però non domina affatto soltanto nella sfera della paura più profonda, ma accompagna come un’ombra l’oggettività organizzativa. Che si possa venir esclusi da un’organizzazione fa parte del concetto di organizzazione, così come il procedimento di esclusione porta tracce del dominio esercitato attraverso la mentalità di gruppo. Rispetto all’orrore verso il mondo amministrato, tale arbitrio

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nell’ordine normativo ha una responsabilità ancora più grande della razionalità, contro la quale comunemente si sollevano le lamentele. Dove ci si imbatte nella violenza organizzativa, si corre il rischio di fare degli interessi che alla fine non sono quelli propri di coloro che vengono inclusi nell’organizzazione. Questa caratteristica tangibile dell’organizzazione non vale soltanto per l’amministrazione moderna, bensì anche per quella romana o per la gerarchia feudale del Medioevo. L’organizzazione ha ottenuto la sua nuova e sconcertante connotazione soltanto attraverso il grado della sua estensione e del suo potere discrezionale: il potere onniavvolgente che struttura completamente la società. Anche questa tendenza non mancava affatto nelle grandi organizzazioni del passato: solo che ora, evidentemente, essa deve realizzarsi completamente con i mezzi della tecnica moderna. Tale dinamica storica fa però saltare determinazioni concettuali sociologico-formali, come quelle a cui si è accennato all’inizio. L’organizzazione è qualcosa di completamente storico. Essa deve la sua vita soltanto al movimento storico. Prescindendo da questo e riportando il suo concetto a ciò che si presume immodificabile, non si ottiene altro che una morta effigie. Pensate solo al fatto che la determinazione dell’organizzazione come associazione razionale di scopi vale in modo così universale che solo oggi è in generale divenuta evidente la minaccia in essa implicita. Sarebbe grottesco l’esperimento mentale di condurre, ad esempio all’epoca di uno dei regni altamente organizzati dell’Antico Egitto, una discussione sulla minaccia che l’organizzazione rappresenta per l’uomo. Sono tentato di dire che questa discussione presuppone di per sé uno stato incomparabilmente progredito dell’organizzazione e quindi il motivo della libertà individuale. Soltanto in un momento storico nel quale l’organizzazione come potenza onnipresente della vita si contrappone non solo in segreto, ma anche apertamente al potenziale visibile di quella libertà, gli uomini organizzati possono riflettere sul principio stesso che ha portato tale potenziale fino a quel punto.

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L’opinione oggi diffusa, che io vi propongo di considerare da vicino, si può riassumere in due tesi. La prima sarebbe che l’estensione dell’organizzazione a tutti gli ambiti della società e, inevitabilmente, a tutti gli ambiti dell’esistenza dei singoli uomini è una sorta di destino. La socializzazione conforme alla ragione non lascia inesplicato più alcun impulso, cattura tutto e viene percepita come potenza naturale, talvolta anche dai suoi stessi critici. La seconda tesi, che sta nell’aria, si potrebbe formulare così: lo stato presente dell’organizzazione, che sopporta sempre meno in fatto di libertà, immediatezza, spontaneità e riduce tendenzialmente a semplici atomi coloro che sono formati dalla società integrale, minaccia radicalmente gli uomini. Le utopie negative di Aldous Huxley e di George Orwell lo hanno rappresentato. Vi prego di non fraintendermi. Come non mi sfugge la forza della fantasia esatta e della resistenza umana che si annuncia in quei libri, allo stesso modo non intendo negare gli impulsi che si sono ripercossi su entrambe le tesi. Chi voglia parlare di ciò intorno a cui ci stiamo adoperando in questa sede deve innanzi tutto aver provato l’irrigidimento del mondo e lo shock di ciò che si compie sopra le nostre teste. Egli non può nemmeno nascondersi che noi siamo costretti, volenti o nolenti, a collaborare come ingranaggi del meccanismo e che la nostra individualità è ristretta sempre più alla nostra vita privata e alla nostra riflessione ed è perciò atrofizzata. Bisognerebbe costringersi a una superstizione testarda se si volesse tenere per certo che questa restrizione non tocca ciò che l’individuo è in sé. Se la nostra stessa individualità ci viene in certa misura concessa come un lusso, allora tale concessione si distingue al massimo grado da quella condizione al centro della quale la vita della società si aspettava di trovare l’indipendenza e l’iniziativa degli individui. Un tempo c’era una ricompensa per l’individualità, oggi essa è sospetta come deviazione: questo clima può a malapena giovarle. Tutto questo dev’essere detto apertamente e in prima istanza. Colui al quale è estranea la sofferenza, deve, a questo riguardo, elevare a religione l’adattamento e accontentarsi, letteralmente, del malcer-

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to sentimento della sicurezza sociale o dell’orgoglio per l’elevata produzione di automobili, frigoriferi e televisori. Se si vuole qualcos’altro, non si può restare schiavi della vuota paura. Vediamo, in primo luogo, la tesi dell’inesorabilità. Essa suona tanto più plausibile quanto più in lei il vero si intreccia con il falso. È vero che la società non si sarebbe affermata contro la natura, che non avrebbe potuto mantenersi in vita senza l’organizzazione e che oggi, meno che mai, ciò sarebbe possibile. Altrimenti non si sarebbe costruito nemmeno un ponticello primitivo e nessun fuoco da campo si sarebbe mai potuto tenere acceso. Ma questa necessità non è un semplice destino che si dispiega – in conclusione – per sotterrare sotto di sé gli uomini. La ragione vi una parte. Essa si mescola con i compiti dell’autoconservazione collettiva e del dominio della natura, e non deve pertanto venir posta in maniera assoluta, ma deve sempre essere subordinata alla questione se serva a quanto unicamente giustifica la sua esistenza. Parlare della inesorabilità dell’organizzazione fa dimenticare facilmente il punto decisivo, ovvero che l’organizzazione è una forma di socializzazione, qualche cosa che è creato dagli uomini per gli uomini. L’impotenza che ogni singolo prova oggi di fronte alle potenze istituzionali, la sua incapacità di arrestare con le sue proprie forze il progresso dell’organizzazione o di cambiarne la direzione, trasformano magicamente questo progresso nella parvenza di ciò che viene decretato metafisicamente. In questo decreto è impressa la tendenza universale di tutti i rapporti sociali, nella presente fase storica, a presentarsi come validi in modo evidente, assoluto: ciò che è diviene oggi l’ideologia stessa. Contro la tesi del carattere inesorabile dell’organizzazione bisogna insistere proprio su questo fatto: la necessità razionale di molti dei complessi di scopi che chiamiamo organizzazioni nasconde all’uomo attonito proprio il fatto che tale necessità è spesso estremamente problematica. Il pensiero della razionalità degli scopi e anzi della razionalità del tutto viene guastata dalla razionalità definitivamente contingente dei mezzi, fossero pure escogitati soltanto per la distruzione.

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La razionalità, dal cui concetto non può venir separato quello dell’organizzazione, cade nella sfera di potere dell’irrazionalità. La cecità del dominio della natura esterna, il quale pertanto non si chiede che cosa venga fatto a questa, si estende al di là dell’organizzazione intesa come dominio sugli uomini: e la cecità fa scomparire la coscienza del fatto che gli oggetti dell’organizzazione sono gli uomini stessi, i quali sono perciò identici ai presunti soggetti dell’organizzazione da essa riuniti. Nella misura in cui la società diviene sempre più razionale e sempre meglio funzionante nel dominio di campi isolati, porta alla luce sempre più il momento della sua insensatezza. Essa compromette il tutto, la sua stessa sopravvivenza. Vi prego perciò di comprendere la mia affermazione, la tesi che l’inesorabilità dell’organizzazione è al tempo stesso vera e falsa. Essa è vera nella misura in cui l’organizzazione è necessaria affinché l’umanità si riproduca, non vera nella misura in cui la minaccia che proviene dall’organizzazione non sta principalmente in questa stessa, ma negli scopi irrazionali dai quali dipende. Questi sono però scopi umani e devono in linea di massima essere cambiati dagli uomini, per quanto anche questa possibilità sia per lo più difficilmente realizzabile. Ciò che è fatale nell’organizzazione non è la sua ragione ma l’opposto, e la colpa viene scaricata sulla ragione soltanto. L’angoscia di fronte al mondo amministrato non avrebbe così il suo vero oggetto nella categoria isolata dell’organizzazione, ma dovrebbe risolversi nella conoscenza della posizione che l’organizzazione occupa nel processo sociale complessivo. L’organizzazione come tale non è né cattiva né buona: essa può essere entrambe le cose e il suo buon diritto e la sua essenza dipendono da quale disposizione essa assume. Mentre nel mondo occidentale, perlomeno, tutti sono propensi a contrastare l’organizzazione, la sventura, che si cela dietro l’angoscia, non è un eccesso ma un difetto di organizzazione: è la minaccia della guerra a distruzione totale e la consapevolezza, a ciò strettamente connessa, che ogni singolo individuo ha, quella di essere superfluo nell’ambito sociale dominante e di poter perdere la base dell’esistenza. Se il brivido di

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fronte all’organizzazione cessasse, se essa fosse formata secondo i bisogni di un’umanità libera e adulta, ci si potrebbe finalmente abbandonare alla speculazione. Ciò che è doloroso nel fatto che l’uomo venga conquistato dall’organizzazione ha il suo fondamento nell’obiettiva mancanza di ragione e trasparenza e non soltanto nelle persone che si trincerano dietro i controlli e li esercitano a loro proprio vantaggio. Quanto più la tentazione stessa a questo riguardo è oggi intrecciata con l’irrazionalità oggettiva, tanto più il lamento in voga si distoglie dai fatti determinanti per rivolgersi a burocrati e burocrazia. Presso l’opinione pubblica la burocrazia ha ereditato ciò che un tempo era patrimonio di professioni considerate parassitarie e improduttive, quelle dei mediatori e degli intermediari: la burocrazia è il peccato originale del mondo amministrato. Decisiva per lo stato presente è la concentrazione di unità economiche e sociali sempre più ampie rivolte a scopi particolari, opachi a se stessi e deperibili. Tuttavia, non c’è niente di più difficile per gli uomini che esperire e penetrare l’Anonimo, l’Oggettivo come tale. Come viventi essi possono farsi strada cercando la colpa del negativo sempre e comunque negli uomini e con ciò attribuendo in qualche modo un significato umano al pericolo della disumanizzazione. Sarebbero allora i burocrati, e non una certa disposizione del mondo, a richiedere la disumanizzazione e a costringere a diventare burocrati tutte le persone che hanno a che fare con cose pubbliche. Questa coazione come tale non è soltanto negativa. Il singolo, che si rivolge a una pubblica autorità e si attende aiuto da questa, in quanto si scontra con la differenza tra il proprio interesse individuale e quello comunque generale che l’autorità rappresenta, sarà incline a rimproverare l’impiegato, che gli accorda sempre meno di quanto lui si attende e che si comporta “come al solito”2. Perciò, chi si lamenta ha sempre più spesso ragione in base alla misura della soddisfazione oggi possibile dei bisogni. Ma il trattamento ordinario, al quale il singolo viene sottoposto, e quindi il comportamento astratto, che consente alle burocrazie di risolvere ogni singolo caso in modo automatico e

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“senza riguardo alla persona”, è al tempo stesso – come nel diritto formale – un elemento di giustizia e un frammento di garanzia affinché, grazie a tale relazione all’universale, l’arbitrio, il caso e il nepotismo non dominino il destino di un uomo. La spersonalizzazione e la reificazione, che per il singolo divengono tangibili nella figura del burocrate con cui ha a che fare, sono sia l’espressione dell’alienazione del tutto dai suoi scopi umani – un tutto che per questo è il negativo – sia, al contrario, la testimonianza di quella ragione che potrebbe tornare a vantaggio di tutti e che, sola, nasconde il peggio. Difficilmente il doppio carattere dell’organizzazione si potrebbe esprimere più chiaramente: non tanto perché qui siano in gioco le persone, come sempre manchevoli e assunte come pretesto dall’organizzazione, ma per quel che essa realizza nel tutto sociale. La falsa personalizzazione è l’ombra della disumanizzazione. Chi rifletta sull’organizzazione e sulla società si deve guardare dal dedurre immediatamente dagli individui l’elemento guasto dell’organizzazione: gli individui invece sono la sua appendice e debbono orientarsi in base ad essa fin nelle loro più intime modalità di reazione. Di conseguenza, si può ricavare qualcosa anche dalla seconda tesi, quella della minaccia dell’uomo. Nessuno negherà lo stato minaccioso che è in procinto di trasformare ogni singolo, che questi lo sappia o no, in una funzione del meccanismo. Per affrontare questa minaccia, essa va smascherata del pathos metafisico che paralizza la coscienza. Essa viene rispecchiata dal comodo concetto di angoscia, che è già un frammento di ideologia. Questo concetto trasfigura, infatti, una tendenza divenuta autonoma che entra in contrasto con gli uomini, ma che si fonda proprio sul loro processo di vita ed è perciò mutevole, quasi fosse una datità originaria o una “situazione affettiva”3 dell’esserci. Quanto c’è di profondo nel pensiero non consiste tuttavia nel giustificare il peggio come se fosse un’essenza. Ciò che nell’organizzazione costituisce l’elemento di minaccia non muove da un destino ereditato dal mito, il quale fece sì che l’umanità perdesse le sue radici e si consegnasse alla disumanizzazione. Ma gli uomini

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ormai non si riconoscono più nella sentenza, apparentemente segreta, decretata su di loro, e si mostrano quindi pronti ad accettare quel decreto, se non addirittura ad acconsentire a esso. Tale disponibilità maschera la tesi della cosiddetta minaccia dell’uomo. Questa tesi si contrappone tacitamente a un momento cieco ed estrinseco, proprio dell’organizzazione e della concentrazione della società, un qualcosa che riposa in sé, immutabile, ovvero l’essenza dell’uomo in quanto tale. Un’immagine statica dell’uomo viene strappata alla dinamica storica. Si proietta sul cielo stellato la frattura tra l’esistenza individuale e ciò che a lei accade nell’intreccio sociale, e si eleva tale frattura al dualismo assoluto fra un decorso oggettivato e una pura interiorità, in ogni caso con la correzione che l’uomo non è minacciato solo dall’esterno, ma anche dall’interno. Questa correzione distorce però, daccapo, la verità: essa nasconde il fatto che le trasformazioni, che già si verificano negli uomini nella società tecnica, stanno in una connessione conoscibile con lo sviluppo tecnico e sociale – i lavori dell’importante sociologo francese Georges Friedmann4 gettano luce proprio su questo stato di cose di centrale importanza. In primo luogo io vorrei però occuparmi di qualcos’altro, dell’inganno che sta alla base del concetto stesso di uomo, se lo si usa così come si è soliti fare nella tradizione di un’ontologia esistenziale, che non va assolta come essa vorrebbe dalla colpa di tali fraintendimenti. “L’uomo”: questo non è, come ben si intende, il fondamento esistenziale, a cui bisognerebbe accedere, per guadagnare un terreno solido sotto i piedi a fronte dell’intrico storico o per dischiudere l’accesso alla sfera dell’essenza. L’uomo è invece qualcosa che viene astratto per sottrazione dagli uomini determinati storicamente e dalle loro relazioni, qualcosa che si è reso indipendente per amore dell’ideale filosofico tradizionale della verità immutabile ovvero, come si diceva quando ancora la filosofia tentava di criticare, qualcosa che viene ipostatizzato. Questo concetto dell’uomo non è in alcun modo sacro e inalienabile. Esso non si lascia scongiurare e contrapporre all’ingiustizia dell’organizzazione. Esso è piuttosto la determinazione più povera e più

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vuota di tutte5, determinazione che in generale può venire guadagnata dalle cose umane. Solo una coscienza, che con la cultura ha smarrito anche il ricordo della grande filosofia, soprattutto di quella di Hegel, può lasciarsi saziare di un simile surrogato al posto delle concrete determinazioni di soggetto e oggetto della storia. Molto di ciò che l’ontologia esistenziale attribuì all’esserci – e l’esserci non è che una nuova parola per dire soggettività – come categoria eterna fondamentale, come angoscia, “si”, chiacchiera, “esser-gettato”, non è altro che il segno di una costituzione molto specifica, contraddittoria, della società. Perciò il concetto dell’esser-gettato è l’espressione pateticamente mascherata del fatto che ogni singolo è impotente contro il mondo amministrato e che può finire in ogni momento sotto gli ingranaggi; noi invece, a differenza delle epoche precedenti – che erano epoche di catene –, commisuriamo il nostro destino all’idea che potremmo anche governarlo e perciò ci disperiamo se veniamo convinti di un destino peggiore. Nessun gesto solenne permette di rinviare all’idea di uno stato possibile dell’uomo, nel quale gli uomini sarebbero liberi dall’angoscia, nel quale non si riconoscerebbero più come esseri ciecamente gettati, nel quale non sarebbero più rimessi all’anonimato e al linguaggio devastato: dove cioè essi, per una volta, sarebbero capaci di fondare un mondo giusto. Non si può perciò parlare della minaccia dell’uomo da parte dell’organizzazione, perché il processo oggettivo e i soggetti che lo subiscono non solo sono contrapposti l’uno all’altro, ma sono anche il medesimo. Come il temuto elemento oggettivo, cioè l’organizzazione crescente, è solo apparentemente oggettivo nella misura in cui l’organizzazione viene determinata da interessi che, per quanto camuffati, restano particolari, così al contrario gli uomini sono in ampia misura generati da quel processo oggettivo6. È proprio questo ciò che impedisce loro di comprenderlo e che rende il cambiamento da cosa della semplice ragione ad elemento di una difficoltà senza pari. Il processo tecnico del lavoro si è esteso all’intera esistenza a partire dal settore decisivo, quello industriale, secondo una modalità i cui elemen-

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ti di mediazione non sono ancora stati scoperti a sufficienza dalla ricerca. Esso modella i soggetti che lo servono e talvolta si è tentati di dire che li produce pure. Se si può seriamente parlare di minaccia dell’uomo, allora lo si può fare soltanto nel senso che l’assetto del mondo nasconde già il fatto che in esso si sviluppano coloro che sarebbero capaci di smascherarlo e di ricavare così la prassi giusta. Ciò che avvenne agli uomini all’inizio dell’età moderna si ripete oggi su un piano storico superiore, con accento invariato. In quanto la libera economia di mercato soppiantava il sistema feudale e richiedeva tanto l’imprenditore quanto il libero salariato, queste figure venivano formate non solo come tipi professionali ma al tempo stesso anche come tipi antropologici; non solo sorsero concetti come quelli della responsabilità personale, della capacità di previsione, del singolo autosufficiente, dell’adempimento del dovere, ma anche quello della rigida coscienza morale coattiva, interiorizzazione del vincolo all’autorità. L’individuo stesso, nel senso in cui il suo nome viene usato fino a oggi, risale secondo la sua sostanza specifica a non molto prima di Montaigne o di Amleto, tutt’al più al primo Rinascimento italiano. Oggi concorrenza e libera economia di mercato perdono sempre più peso di fronte alle grosse concentrazioni economiche e ai collettivi ad esse corrispondenti. Il concetto di individuo, sorto storicamente, raggiunge i suoi limiti storici. Nelle persone al servizio dell’economia avvengono mutamenti che, per ampiezza, non sono meno trascurabili di quelli che le scienze dello spirito celebrano come nascita dell’uomo moderno. Le abilità tecniche, e ciò che si potrebbe inoltre chiamare l’affinità antropologica alla tecnica, sono inaspettatamente incrementate. Con ciò cresce anche la fiducia nel dominio della natura come pura scepsi nei confronti di ogni pretesa mitologica. I contemporanei sono a tal punto in grado di trattare con un simile apparato che la sostituibilità dell’uno tramite l’altro è diventata prevedibile. Nessuno si lascia più convincere del fatto che i rapporti gerarchici sarebbero giustificati dalla con-

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dizione naturale dell’uomo o anche soltanto dalle differenze dell’istruzione. Certo, ovunque ci si lamenta della specializzazione, ma la suddivisione dei processi lavorativi, resa possibile dalla produzione di massa, virtualmente ha così dequalificato questi processi, li ha livellati a faccende così piccole e commensurabili, che lo specialista di una certa materia si può pensare senza fatica come specialista di una cert’altra. Ma questo processo che porta con sé il potenziale di un progresso decisivo nell’istituzione di economia e società, finora ha disincantato la coscienza, ma non l’ha in alcun modo illuminata. Non a caso gli stessi uomini pratici e smaliziati – che sono sorti ovunque e non soltanto nei paesi totalitari di entrambi i tipi – manifestano una disponibilità sconcertante a rinunciare al diritto di autodeterminazione di quella ragione che proprio in loro appare così potente, e a consegnarsi a un’irrazionalità nella quale si rispecchia la disposizione stessa del mondo nel suo aspetto pauroso. Essi stessi si sono assimilati all’apparato: solo così possono continuare ad esistere nelle condizioni attuali. Gli uomini non vengono soltanto modellati sempre più oggettivamente come pezzi di ricambio dell’ingranaggio, ma essi diventano anche per se stessi, in base alla loro propria coscienza, strumenti, mezzi, anziché fini. Il pensiero della ragione oggettiva del tutto scompare dal campo visivo della ragione, che al tempo stesso è rafforzata e rassegnata. Mettendo in guardia da una contrapposizione rigida e primitiva fra gli uomini e l’organizzazione, io pensavo innanzitutto a questo. Gli uomini non sono solo consegnati a qualcosa di esterno, di minaccioso, ma questo elemento ad essi esterno è diventato già una determinazione della loro essenza, sono diventati esteriori essi stessi. Perciò si lasciano cullare da conquiste che da lungo tempo non fanno più la loro felicità e la loro libertà. Essi si appagano della social security, del surrogato della sicurezza, di una cura assistenziale che si estende a tutti, anche a quelli cui nulla è ancora accaduto. Quelli che sin dal principio si sanno come possibili oggetti di tale assistenza e non come soggetti solidali, si vietano febbrilmente di pensare alla libertà realizzata – un pen-

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siero che, nonostante tutto, non può ancora essere bandito. Essi sono ovunque sul punto di trasformare lo sdegno verso lo stato falso e accecato in furore verso le sue vittime più deboli o verso quelli che volevano veramente uno stato di cose diverso. Questo atteggiamento non è però imputabile ad essi come loro colpa e loro peccato originale, ma è contrassegnato fin nei minimi particolari dalle condizioni nelle quali essi vivono. Gli sviluppi che io ho delineato vengono generalmente indicati attraverso termini quali massificazione. Indignarsi per queste cose ricorda il motto “al ladro!”. Ciò a cui l’adattamento li costringe viene imputato o alla semplice quantità o alla debolezza – misurata in base a un ideale astratto di autonomia – dei singoli presi nel loro insieme. Che il colpevole sia la vittima e non l’assassino7 – frase di protesta degli espressionisti –, è diventata oggi la scusa del conformismo, il quale rimprovera alle anime morte che la vita, nella quale sono state gettate, di fatto ormai non vive più. Ci si trova sempre di fronte all’assicurazione che ciò dipende soltanto dagli uomini. Se, sotto la pressione del mondo indurito, ci si pronuncia su ciò che ha a che fare con gli uomini, l’accusa viene rovesciata e l’inumanità viene imputata al critico medesimo. Che si tratti unicamente di uomini è tuttavia una di quelle proposizioni astratte, e perciò difficilmente afferrabili, nelle quali il vero e il non vero si mescolano pericolosamente. Vero è che la fatalità respinge gli uomini, la società umana, e si lascia cambiare dagli uomini. Non è vero, però, che tale fatalità dipenda immediatamente dagli uomini, dal fatto che questi debbano semplicemente cambiare idea, affinché il mondo, connesso in ogni sua parte e proprio per questo scompaginato, torni nuovamente in ordine. Quella per cui l’interno dell’uomo si dispiegherebbe a partire da sé, senza riguardo alla forma dell’esterno, è una vecchia illusione, già respinta da Hegel e da Goethe – in definitiva una forma di autoinganno della società individualistica. Sarebbe vano e inutile dire, ad esempio, che la minaccia rivolta agli uomini da parte dell’organizzazione si poteva superare grazie al fatto

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che gli uomini conservavano la libertà interiore di decidere o per il fatto che partecipavano all’elemento spirituale, oppure in virtù del fatto che conferivano da soli un senso all’insensatezza che subivano. Gli sforzi per umanizzare l’organizzazione, anche dettati dalle migliori intenzioni, riescono ad addolcire e a truccare la forma presente della contraddizione sociale, ma non a toglierla. A tutti voi è presente l’aspetto grottesco delle manifestazioni nazionalsocialiste, le quali scimmiottavano la comunità popolare portando negli uffici e nelle fabbriche stampe colorate e ceste di fiori. Tali manovre potevano venire ben inscenate fin tanto che la compensazione sentimentale poteva essere coadiuvata dalla paura. Ma la raccomandazione di superare il carattere strumentale dei soggetti all’interno dell’organizzazione, con misure orientate alle human relations sulla base di test psicologici, nella sostanza non è del tutto dissimile da quelle manovre. In America si è più progrediti non solo con l’assistenza basata sulle human relations, ma anche con la coscienza di ciò che questo significa. Per questo è diventato comune il termine Cow-Sociology, dopo che la pubblicità, nota in tutta la nazione, di un gruppo industriale del latte ha glorificato Elsie, la mucca felice. Ai clienti viene dimostrato di quali amorevoli cure gode questo animale eletto, in che condizioni fortunate vive, per convincere così tutti di come dev’essere buono il latte che Elsie e le sue simili forniscono. Secondo la battuta della Cow-Sociology, human relations ben curate tendono ad aumentare la capacità operativa di coloro che si affidano ad esse e di coloro che non vogliono limitarsi alla felicità della mucca. Certo, solo un’insensatezza ostinata potrebbe ostacolare il miglioramento delle condizioni lavorative nel mondo tecnicizzato e organizzato. Mentre il progresso della tecnica e dell’organizzazione – di cui oggi diventa un ramo il trattamento dell’uomo – si realizza in primo luogo a favore della produzione e della vendita, esso continua ad avere anche il suo lato buono per i soggetti dei quali si occupa. Ma sarebbe ingenuo aspettarsi che ciò consenta all’individuo di salvarsi o di ristabilirsi. La base sociale per il suo sviluppo si è ristretta, e al di là di questa base i miglioramenti di facciata nulla possono.

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Non si tratta di inserire l’umano, l’immediato o l’individuale nell’organizzazione. Con un tale inserimento l’umano medesimo verrebbe organizzato e spogliato delle qualità che si spera di preservare. La riserva naturale non salva la natura e anzi prima o poi la espone al meccanismo sociale soltanto come un intralcio al traffico. L’individuo non può venire aiutato così come si annaffia un fiore. Per gli uomini è meglio che essi divengano apertamente consapevoli della condizione alla quale li consegna la coazione dei rapporti, anziché venir confermati nell’illusione per cui essi sarebbero soggetti solo là dove, nel profondo, sappiano perfettamente che devono sottomettersi. Solo se essi riconoscono una tale situazione fino in fondo possono cambiarla. La caverna del linguaggio8, che conserva il vivente nel mondo amministrato attraverso i cliché − a cominciare da quello del partner sociale fino a quell’incontro, fino a quell’incarico, a quella richiesta e a quel dialogo al quale sempre vogliono o dovrebbero giungere quanti vengono ridotti al silenzio − tradisce la nullità del cominciare. Essi sono rimandati a un gergo dell’autenticità pseudoconcreto, solenne, che si presta al riflesso trascendente della teologia, senza potersi sostenere al livello dei contenuti teologici9. Alla luce della sproporzione fra potere dell’organizzazione e potere del singolo e alla luce della sproporzione, forse ancora più allarmante, fra la violenza di ciò che è e l’impotenza del pensiero che cerca di penetrarlo, c’è qualcosa di insensato e di ingenuo nel presentarsi con proposte su come si debba ora migliorare tale situazione. Chi crede che ci si possa riunire attorno a una tavola rotonda e, con buona volontà, scoprire in comune quale evento debba verificarsi per la salvezza dell’uomo, dell’interiorità, per ridare un’anima all’organizzazione o per simili scopi alti e lontani, si rapporta in modo estraneo al mondo. Costui assume che vi sia qualcosa come un soggetto comune della conformazione cosciente della società, proprio dove la realtà consiste nell’assenza di tale soggetto univoco della ragione, nel predominio delle contraddizioni. L’unica pretesa che può venire elevata senza vergogna sarebbe quella per cui il singolo impotente rimanga padrone di se stes-

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so attraverso la coscienza della propria impotenza. La coscienza individuale che conosce il tutto, in cui gli individui sono incapsulati, è anche oggi non ancora soltanto individuale, ma tiene fermo l’universale come conseguenza del pensiero. Di fronte alle potenze collettive che nel mondo presente usurpano lo spirito del mondo, l’universale e il razionale possono meglio svernare in singoli isolati anziché nei battaglioni più forti, i quali hanno giudiziosamente abbandonato l’universalità della ragione. Il detto che mille occhi vedono meglio di due è menzogna, e l’atteggiamento corretto di fronte a questa feticizzazione della collettività e dell’organizzazione – quello, cioè, di spezzarla – forma oggi l’obbligo supremo della conoscenza sociale. Se nel mondo amministrato resta qualche speranza, essa sta non nella mediazione ma negli estremi. C’è troppo poca organizzazione proprio dove l’organizzazione sarebbe necessaria – nella conformazione dei rapporti materiali di vita e delle relazioni tra gli uomini, che si basano su di essi –, mentre ve n’è troppa in quella sfera dei rapporti privati dove si forma la coscienza. Non che io desideri avallare la divisione fra una sfera pubblica professionale e una sfera privata: questa stessa divisione è espressione della società divisa, la cui frattura arriva in ogni singolo. Se è vero che una prassi rivolta al meglio non può negare la separazione posta storicamente fra il pubblico e il privato, essa dovrebbe tuttavia ricollegarsi a questo come a un elemento dato oggettivamente. L’ordine razionale della sfera pubblica è rappresentabile soltanto se all’altro estremo, cioè nella coscienza individuale, viene risvegliata la resistenza contro l’organizzazione, sovradimensionata e al tempo stesso incompleta. Solo negli ambiti per così dire superati della vita, lasciati ancora liberi dall’organizzazione, matura la comprensione fin dentro il negativo del mondo amministrato e con ciò l’idea di un mondo più degno dell’uomo. L’industria culturale si cura di incatenare e di oscurare la coscienza. Sarebbe necessaria l’emancipazione da quei meccanismi che, in modo cosciente, riproducono nuovamente la stupidità, prodotta ciecamente dalla società in ciascun singolo. È perciò urgente chiamare per no-

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me l’ideologia odierna, la quale consiste nella duplicazione della vita in tutti i rami dell’industria culturale. Una vaccinazione degli uomini contro l’idiozia acutizzata che esce da ogni film, da ogni programma televisivo, da ogni giornale illustrato, sarebbe già un frammento di prassi trasformatrice. Noi non vogliamo sapere che cosa sia l’uomo o la conformazione giusta delle cose umane; ma che cosa esso non deve essere, e quale conformazione delle cose umane sia quella falsa, noi lo sappiamo, e soltanto in questo sapere determinato e concreto ci è aperto l’altro, il positivo.

Note 1. Per questo riferimento a Max Weber, si veda il saggio Kultur und Verwaltung, ora in GS 8, p. 124, trad. it. Cultura e amministrazione, in Th. W. Adorno, Scritti sociologici, Einaudi, Torino 1976, p. 117 [n.d.t.]. 2. «Nach Schema F», espressione idiomatica per dire un trattamento standardizzato, prevedibile, secondo routine [n.d.t.]. 3. «Befindlichkeit». Chiaro il riferimento ai §§ 29-30 di Essere e tempo (1927) di M. Heidegger [n.d.t.]. 4. Cfr. G. Friedmann, Problèmes humains du machinisme industriel, Gallimard, Paris 1945, trad. it. Problemi umani del macchinismo industriale, Einaudi,Torino 1949 [n.d.t.]. 5. Adorno parafrasa qui la nota formulazione di Hegel sull’essere come cominciamento, l’essere come «definizione assolutamente iniziale, la più astratta e la più povera»: cfr. Th. W. Adorno, Drei Studien zu Hegel (1963), in GS 5, p. 279, trad. it. Tre studi su Hegel, il Mulino, Bologna 1971, p. 66) e la applica al concetto di “uomo” ipostatizzato dalla tradizione metafisica [n.d.t.]. 6. Ciò che è oggettivo – l’organizzazione – è mediato dal soggettivo – gli interessi particolari che si celano dietro un’apparente oggettività, mentre il soggettivo, gli uomini, risulta un prodotto di quel processo oggettivo: questo è ciò che impedisce agli uomini di appropriarsi e di rendere umano e razionale tale processo. Il processo “oggettivo” nasconde proprio quegli elementi che potrebbero condurre alla società giusta [n.d.t.]. 7. Riferimento al noto romanzo di Franz Werfel, Nicht der Mörder, der Ermordete ist schuldig (1920), trad. it. Il colpevole non è l’assassino ma la vittima, TEA, Milano 1996 [n.d.t.]. 8. Il riferimento a una Höhle der Sprache che conserva il vivente grazie a stereotipi e cliché, sembra qui alludere al mito platonico della caverna (Repubblica, 514a-518b) [n.d.t.]. 9. Cfr. Cultura e amministrazione, cit., p. 133 [n.d.t.].

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Individuo e stato

La società organizzata, da cui successivamente si formò lo stato, fu necessaria per consentire all’umanità la sopravvivenza contro le potenze naturali, tanto quelle esterne, quanto quelle interne dell’istinto. Ma essa fu anche, sin dall’inizio, unita a privilegi, all’irrigidimento di determinate funzioni degli organi sociali, al dominio. Per l’individuo era costantemente incerto se esso, come essere singolo, avesse più da guadagnare che da perdere dalla sua sottomissione all’organizzazione sociale. Dal punto di vista del soddisfacimento immediato del singolo, la rinuncia sembrò prevalere del tutto sul guadagno. Perciò gli uomini, sia quelli che avevano da trarne vantaggi, che gli altri, sono da sempre stati esortati ad adeguarsi a questa rinuncia, senza la quale nella realtà nulla prendeva avvio. Ma, nello stesso tempo, si è continuamente fatta sentire l’opposizione dell’individuo a tale rinuncia. Il rapporto tra individuo e stato fu uno dei temi fondamentali della filosofia politica sin dalla Repubblica platonica e dalla critica di essa da parte di Aristotele. Soprattutto quando nell’epoca moderna – la quale ha esplicitamente coniato il concetto di individuo – i legami teologici divennero più deboli, l’individualismo si fece valere in modo sempre più forte nelle teorie dello stato a partire da Hobbes, particolarmente in Locke. All’individualismo sono state avanzate riserve critiche a partire dai più diversi orientamenti, tanto con Rousseau quanto ad esempio con Hegel. Tuttavia esso dominò l’intera teoria liberale dello stato. Quest’ultima ha la sua origine nella coscienza della necessità di un compromesso tra le forze in reciproco contrasto dello stato e degli individui. Questo compromesso costituisce un problema da quando esiste qualcosa co-

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me una comunità cittadina di tipo borghese, dunque una forma di socializzazione in cui il tutto si mantiene in vita solo nel conflitto degli interessi dei singoli, come concorrenza sul mercato. O forse, in modo ancora più generale, si potrebbe sostenere che il problema del rapporto tra individuo e stato esiste da quando l’organizzazione degli uomini si è contrapposta alla loro immediata vita in comune come qualcosa di relativamente indipendente. Già nell’antichità si può poi trovare un modello della questione oggi più urgente per quanto riguarda il rapporto degli individui con lo stato, vale a dire la loro estraneità allo stato. A quanto mi risulta, Jacob Burckhardt ha per primo richiamato l’attenzione su ciò che, a partire dall’Ellenismo, accadde fondamentalmente tra le città-stato e i loro cittadini1. Dal momento storico in cui la coscienza greca pose al centro il concetto di individuo e determinò la felicità di questi come il bene più alto, l’individuo ha a poco a poco perso contatto con quegli affari pubblici che inevitabilmente, per il loro stesso significato, toccano la felicità individuale. Ma, proprio nel corso di questo processo, gli individui dell’antichità si sono mostrati disponibili a prestare ubbidienza a tirannie e dittature, purché fosse in qualche modo preservato lo spazio ristretto della loro precaria felicità. Questo sviluppo non vale solo a partire dai tempi di Epicuro e della Stoà, bensì si profila già in Aristotele. Con un buon senso che di tanto in tanto ricorda stili di pensiero tipici del XIX secolo, Aristotele ha contrapposto i bisogni reali dei singoli all’utopia statale totalitaria del suo maestro Platone. Tuttavia egli non scorge più, come nonostante tutto accadeva ancora in Platone, l’idea più elevata nella realizzazione di questi bisogni attraverso le istituzioni razionali dello stato. Al contrario, Aristotele considera il ritiro nel pensiero contemplativo come il più alto ideale. Con ciò si è già approdati ad una rassegnazione nei confronti della dimensione pubblica. Si delinea una profonda contraddizione nel rapporto tra individuo e stato: quanto più l’individuo persegue senza limiti i

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propri interessi, tanto più esso perde di vista una forma di organizzazione sociale in cui questi interessi sono protetti. Attraverso la sua emancipazione sfrenata l’individuo prepara in un certo qual modo il terreno alla sua stessa oppressione. Un tale sviluppo non ha un effetto positivo sulla costituzione interna dell’individuo, piuttosto quest’ultimo si impoverisce e deperisce sempre più, quanto più si limita a se stesso e alla sua cerchia intima e si dimentica dell’universale. Secondo Burckhardt il mondo greco, dopo Epicuro, non ha più prodotto alcun individuo storicomondiale2. Forse ciò è esagerato. Ad ogni modo già qui si mostra che l’individuo e lo stato non stanno solo in opposizione l’uno con l’altro, ma si condizionano reciprocamente. Il concetto greco dell’individuo, che di certo si distingue profondamente dal concetto moderno, può in generale essere difficilmente pensato in modo indipendente dalla forma delle antiche città-stato. L’indebolimento dello stato greco non può, inoltre, venire senz’altro attribuito all’affievolirsi delle forze individuali. Piuttosto le piccole città-stato, in cui v’era una sorta di unità trasparente tra gli interessi degli individui e quelli della comunità statale3, non corrispondevano più alle condizioni dello sviluppo economico. Sembrava che gli interessi materiali degli individui potessero essere meglio tutelati entro edifici statali più estesi, organizzati centralmente, anche se i cittadini non potevano più controllare questi edifici come controllavano l’Atene del V secolo. Persino nella tarda antichità, quando i destini dei grandi imperi si compivano sopra le teste della popolazione, i ceti più elevati della popolazione cittadina borghese furono per lunghi periodi toccati marginalmente dagli eventi, che spesso contrapponevano giunte militari, cricche abbastanza ristrette. Solo con le migrazioni dei popoli l’estraniazione degli individui dai loro stati fu effettivamente causa di sventura. Nell’antichità il rapporto tra stato e individuo non ha ancora fatto esperienza di quel mortale inasprimento, che solo oggi noi conosciamo. La società an-

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tica, infatti, era incomparabilmente meno socializzata di quella moderna in tutti i suoi sistemi. Al giorno d’oggi tutte le funzioni stanno in relazione reciproca e tutte le decisioni politiche statali toccano immediatamente il destino individuale. Se, d’altra parte, gli ordinamenti giuridici promettono all’individuo più protezione che nell’antichità, in compenso i governi totalitari di entrambe le varianti mirano tanto più fervidamente a cassare questi ordinamenti giuridici e a consegnare l’individuo, senza protezioni, all’onnipotenza dell’apparato statale. Questa possibilità, costantemente aperta anche dopo la sconfitta di Hitler – e che oggi giunge a consapevolezza in particolare attraverso la minaccia proveniente dall’Est4 – rappresenta la forma specifica entro cui noi ci affatichiamo su quel problema antichissimo. Con l’estraneità moderna allo stato si ha dunque a che fare, nonostante ogni analogia di tipo spengleriano, con una situazione completamente diversa rispetto a quella antica. Dell’estraneità moderna è responsabile non già un difetto di coesione sociale bensì, proprio al contrario, un eccesso: una condizione in cui il singolo è condotto al disinteresse verso lo stato, perché ha la sensazione di non poter nulla sul corso delle cose oggettivamente determinato. Soprattutto in Germania il rapporto tra individuo e stato ha connotazioni tragiche. La Germania non ha preso parte al liberalismo nella sua epoca classica, in cui si era realizzato qualcosa come un equilibrio tra lo stato e il tipo d’individuo caratteristico per quell’epoca. I tedeschi vivevano sotto uno stato autoritario che non comprendeva gli individui come suoi assi portanti, bensì come oggetti dell’amministrazione5. Ma oggi, essendo andato in pezzi lo stato autoritario che i nazionalsocialisti avevano esasperato sino alla follia, la stessa forma tradizionale dell’amministrazione statale – la quale non può certamente essere separata dal concetto di nazione – sembra obsoleta. Perciò, l’idea di determinare il proprio stato non ha più, da lungo tempo, quella forza in grado di muovere le masse che essa esercitava ancora nel XIX secolo. Gli individui sospettano, consapevolmente o ciecamente, che la loro vita non

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dipenda realmente dalla politica statale, bensì da quei processi in certo modo elementari che, al di sotto della forma d’organizzazione statale, si svolgono nel centro stesso della società. Il popolo tedesco non si è mai riconosciuto come identico con il proprio stato. Quest’ultimo fu costantemente percepito, nel migliore dei casi, come benevolo, ma per lo più come una potenza minacciosa che riscuote le tasse, prepara guerre, in ogni caso una potenza estranea. Nel periodo dello sviluppo industriale si ebbero certamente vantaggi di ogni sorta, però dallo stato c’era sempre da aspettarsi piuttosto qualcosa di negativo, persino se non si apparteneva a quelle classi che stavano in conflitto immediato con la potenza statale. Questo è forse l’ambito in cui la differenza tra il clima politico negli Stati Uniti e in Germania è più evidente. Lo stato americano, infatti, viene senza dubbio percepito dai suoi cittadini come una forma di organizzazione sociale, tuttavia mai come un’autorità che sta sospesa sopra la vita degli individui e impartisce loro ordini o come un’autorità assoluta. L’assenza di quella sfera dell’ufficialità, che è così caratteristica per gli stati europei, ma soprattutto la non esistenza dell’apparato dei funzionari pubblici di professione e di tutte le rappresentazioni connesse a tale apparato, fanno parte delle esperienze più forti cui viene sottoposto chi emigra in America. La mancanza di ogni feticismo statale negli stati anglosassoni, soprattutto in America, rende il rapporto tra l’individuo e lo stato molto più semplice. Se è possibile che anche in quei luoghi, come ovunque, parti rilevanti della popolazione si comportino con disinteresse verso lo stato, tuttavia esse non hanno la sensazione che lo stato sia qualcosa d’altro, qualcosa al di fuori di loro, un essere in sé da cui dover essere comandate dispoticamente. Questa sfumatura comporta una relazione più felice tra la suprema forma di organizzazione sociale e i suoi cittadini. In Germania le masse poterono tuttavia identificarsi a volte con lo stato come con un padre forte e tirannico. Ad esso non furono però mai identiche. Proprio la coscienza, mai superata, dell’estraneità allo stato ha successivamente condotto alla feroce

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esasperazione della fede nello stato sotto il regime autoritario. Con ciò il regime seppe approfittare tanto dell’estraneità allo stato della popolazione tedesca, quanto della sua disponibilità ad innalzare lo stato a una divinità per non doverlo odiare. Il Terzo Reich, non a caso, ha raddoppiato l’intero meccanismo dello stato e dei suoi funzionari attraverso la macchina del partito e dei suoi funzionari contrapposti a quelli statali. In tal modo si doveva sottrarre agli uomini la loro sensazione d’estraneità rispetto allo stato e, contemporaneamente, promuovere la loro subordinazione alla burocrazia del partito, la quale aveva il comando dello stato. L’estraneità allo stato venne dunque rafforzata realmente e, nello stesso tempo, occultata nell’ideologia. Dopo il disastro6, il rapporto tra individuo e stato solleva problemi che non possono essere padroneggiati con il ricorso a consigli benevoli e ad esortazioni a prendere parte più intensamente alle faccende politico-statali. Oggi il disgusto verso l’autorità incarnata dalla tradizione dello stato autoritario tedesco si mostra paradossalmente connesso con uno stato che viene accusato d’impotenza. Il pericolo è che, in questa situazione, cresca di nuovo la disponibilità degli uomini a cancellarsi e ad abbandonarsi a forze statali dispotiche – non importa di quale colore – dal momento che essi, in generale, solo dalla potenza e dalla grandezza dell’organizzazione si aspettano ancora qualcosa. Questa sarebbe una beffa per la conciliazione dello stato e dell’individuo, la mera negazione ed oppressione dell’individuale, in cui si perpetua l’antica opposizione. Pertanto, l’appello a prendere parte alle vicende dello stato non è in verità così vuoto come esso risuona alle orecchie degli uomini. In fin dei conti il proprio destino dipenderà effettivamente dalla coscienza della necessità di dare forma da se stessi al proprio stato. La letargia nei confronti dello stato non è una qualità naturale: al contrario essa viene meno non appena al popolo risulta chiaro che esso stesso è, in realtà, lo stato e che quest’ultimo non costituisce per nulla un dominio specialistico della politica, ammini-

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strato da alcuni esperti per il resto dell’umanità. Per rinforzare questa vivente consapevolezza, è soprattutto importante risvegliare l’attenzione verso i veri legami che sussistono tra la dimensione pubblica e il destino individuale. La cecità del destino individuale deriva, in gran misura, dal fatto che gli individui si misconoscono come meri oggetti e non si sanno come assi portanti della storia. È necessario togliere quest’apparenza. Tra i compiti delle scienze sociali, che oggi in Germania partecipano al processo della ricostruzione, il più importante consiste forse nel promuovere la conoscenza del problema – insolubile in termini puramente istituzionali – del rapporto tra l’individuo e lo stato, a partire dalla sua radice, dunque a partire dal processo vitale della società.

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Note 1. Le opere a cui Adorno fa probabilmente riferimento sono: J. Burckhardt, Griechische Kulturgeschichte, 1908, trad. it. Storia della civiltà greca, Sansoni, Firenze 1955; Id., Weltgeschichtliche Betrachtungen, 1905, trad. it. Meditazioni sulla storia universale, Sansoni, Firenze 1959 [n.d.t.]. 2. Ai «grandi individui» e al ruolo da essi giocato nella storia universale è dedicato il cap. V – intitolato L’individuo e l’universale (I grandi uomini nella storia, ossia della grandezza storica) – delle Weltgeschichtliche Betrachtungen di Burckhardt: cfr. Meditazioni sulla storia universale, cit., pp. 221-267 [n.d.t]. 3. Adorno sembra in questo punto subire l’influenza di Burckhardt, il quale riscontrava nell’Atene del V secolo il «paradigma» di un’umanità presso la quale v’erano influenze reciproche e fruttuose tra l’individuo e l’universale. Cfr. ibidem, p. 131 [n.d.t.]. 4. Si intende il blocco comunista est-europeo [n.d.t.]. 5. Si noti che la critica al «grande stato», cioè allo stato burocratico e centralizzato moderno, è un elemento caratterizzante della posizione di Burckhardt, il quale fu uno dei primi critici della politica di potenza dello stato unitario tedesco [n.d.t.]. 6. Si intende il crollo della Germania hitleriana [n.d.t.].

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Società. Prima stesura di una delle Lezioni di sociologia

È opportuno soffermarsi a riflettere sul concetto della “società”, l’oggetto di studio della sociologia. Un tempo il significato del termine “società” appariva piuttosto scontato: esso designava l’umanità, oltre che i gruppi delle più diverse proporzioni e dei più vari significati di cui essa si compone. Non è tuttavia difficile rendersi conto del fatto che in realtà il concetto di “società” non coincide senza residui con questo sostrato. Di quest’ultimo si occupano scienze come l’antropologia o l’etnologia, che tra i loro interessi abbracciano anche fenomeni sociali, ma senza promuovere quello che viene pensato come l’elemento specificamente sociale a oggetto primario di studio. Ad esso ci si avvicina un po’ di più se si mette a fuoco il concetto riferendolo all’unione e alla separazione delle singole unità biologiche che sono gli uomini, processi nel corso dei quali essi riproducono la loro vita, dominando la natura all’interno e all’esterno di sé, e dai quali discendono anche forme di dominio e conflitti che hanno per teatro la vita degli uomini stessi. Eppure anche questo modo di porre i problemi, tipico di una parte di quella che nei paesi anglosassoni si chiama cultural anthropology, stenta ancora ad afferrare quell’elemento specifico che risuona nella parola “società”, uno di quei concetti storici la cui prerogativa, stando a Nietzsche, è di resistere a ogni definizione: «tutte le nozioni in cui si condensa semioticamente un intero processo si sottraggono alla definizione; definibile è soltanto ciò che non ha storia»1. Con il termine “società” vogliamo alludere a una sorta di compagine integrata di esseri umani al cui interno tutto e tutti dipendono da tutti; in cui il tutto si ottiene soltanto dall’unità delle funzioni

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svolte da ciascuno dei membri e dove a ogni singolo individuo spetta in linea di principio una di queste funzioni, mentre al tempo stesso ciascun individuo viene determinato in larga parte dall’appartenenza alla struttura complessiva. Il concetto di società è in altri termini un concetto funzionale, e designa i rapporti che vigono tra gli elementi e le leggi che regolano questi rapporti piuttosto che gli elementi stessi, o la mera descrizione dei rapporti come tali. Soltanto in questo senso funzionale si può parlare in generale di società, e la sociologia è per definizione la scienza delle sue funzioni, della sua unità, delle sue leggi. Vale la pena sottolineare che da un lato il concetto di società giunge a piena consapevolezza soltanto adesso, nello stadio della socializzazione totale dell’umanità, ma che dall’altro l’idea di un complesso funzionale in sé conchiuso e onnicomprensivo è stato concepito come forma di riproduzione di un tutto regolato dalla divisione del lavoro già a uno stadio relativamente precoce come quello della Repubblica platonica2. In quanto tale, in ogni caso, il concetto di “società” appartiene a una fase molto più tarda della riflessione. Esso venne formulato per la prima volta soltanto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo da Saint-Simon e da Hegel, senza che l’uno fosse a conoscenza degli scritti dell’altro3. Questo ritardo non dipende da una mancata consapevolezza del fatto della socializzazione, intesa nel senso pregnante del termine, da parte degli uomini. Al contrario, nella tradizione occidentale le forme della socializzazione sono state oggetto di riflessione ancora prima dell’individuo, tanto che il pathos dell’individualità si è potuto dispiegare del tutto soltanto con l’Ellenismo e il cristianesimo. Ai primordi della riflessione sociologica, però, le forme della socializzazione – in primo luogo le forme di un apparato statale organizzato e controllato – avevano a tal punto il carattere di qualcosa di essente per sé, di sostanziale, di non problematico e di vigente in nome di un potere assoluto, che pensare la società equivaleva di fatto a pensare le sue istituzioni

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reificate. Il velo dell’apparenza sociale è antico quanto la filosofia politica. Le correnti dissidenti dell’Attica arcaica furono messe all’indice o dimenticate con il trionfo di Platone e Aristotele, e la contrapposizione, inizialmente sviluppata con intenti polemici, tra ciò che è per natura (physei) e ciò che è meramente posto (thesei) fu a tal punto indebolita dal concorso di costrutti giusnaturalistici che le forme dell’organizzazione, e lo stesso apparato statale, furono portate dal lato di ciò che esiste per natura, physei. Anche quando fu messo a punto per la prima volta un concetto dell’universalità sociale, nello stoicismo medio4, esso rimase legato all’idea di uno stato universale, e anche la teocrazia agostiniana riesce a immaginare il regno di Dio soltanto come una struttura statuale. Nella mente degli uomini che soggiacciono alle istituzioni l’elemento secondario, l’istituzione, si rovescia e diventa elemento primario, mentre il vero elemento primario, l’effettivo processo vitale che li vede protagonisti, viene quasi del tutto rimosso dalla loro coscienza. Non può essere stato privo di conseguenze, a questo riguardo, il fatto che per tutta l’Antichità il lavoro materiale da cui dipendeva la sussistenza degli uomini ricadesse sugli schiavi, che non ebbero mai un portavoce nella filosofia e nella scienza. Ancora in Aristotele gli schiavi sono esclusi per definizione dal novero degli uomini, e la lingua greca possiede per designarli il termine neutro andrapodon, “bipede umanoide”. Non stupisce, allora, che le dottrine di un Panezio o di un Posidonio, che abbracciavano l’intera umanità, servissero da ideologia all’universalismo romano, all’imperialismo integrale. Forse è soltanto in vista di questa utilità che i Romani, popolo di indole positiva, recepirono con tale prontezza la tetra dottrina degli stoici. La società e il potere dominante sono in combutta. Lo stesso termine “società” ne testimonia ancora. In tutte le lingue, accanto al significato generico, esso possiede una seconda accezione, più esclusiva: buona società, society, la somma di coloro che ne fanno parte e che si riconoscono a vicenda dal gesto della sovranità sociale, se un social regi-

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ster non li ha già codificati in modo meccanico, iniziando già a dissolvere almeno in linea tendenziale il concetto della society. Solo quando la contrapposizione tra le istituzioni feudal-assolutistiche ancora vigenti e lo strato di popolazione che già determina materialmente il processo vitale della società diviene eclatante, nella fase avanzata dell’epoca borghese, Rousseau ha criticato l’istituzione come qualcosa di negativo, nemico della felicità, e la filosofia della ragione ha dovuto assorbire l’idea di una vita umana originaria sulla quale si fonda qualunque istituzione per poter giungere a formulare il concetto di società. È in effetti molto difficile strappare questo concetto alla polarità tra istituzionale e naturale. Lo stadio della socializzazione, infatti, può dirsi raggiunto soltanto nel momento in cui la convivenza degli uomini risulta mediata, oggettivata, “istituzionalizzata”. A loro volta, però, le istituzione stesse non sono che un epifenomeno del vivo lavoro dell’umanità. Di conseguenza una sociologia come critica sociale può esistere soltanto a partire dal momento in cui non ci si limita più a descrivere e a valutare le strutture organizzative, ma ci si confronta con quello che sta sotto, con la vita alla quale le istituzioni si sovrappongono e della quale a loro volta, nei modi più diversi, sono fatte. Se però la riflessione sulla società perde di vista la tensione tra l’istituzionale e il vivente, e per esempio tenta di risolvere senza residui il sociale nel naturale, essa non contribuisce a liberare dal giogo delle istituzioni, ma nutre una nuova mitologia, la glorificazione di presunte qualità originarie alle quali viene ricondotto ciò che in verità entra in scena soltanto con le istituzioni sociali. Il modello di queste naturalizzazioni false e ideologiche della società è il delirio razziale nazionalsocialista. La prassi che ne è scaturita ha mostrato che la critica romantica delle istituzioni, una volta sradicata dalla dialettica interna della società, si rovescia nella dissoluzione di tutte le garanzie che tutelano l’umanità, nel caos e alla fine proprio nell’assolutizzazione della nuda istituzione, del puro e semplice dominio.

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Se il concetto di “società” è sostanzialmente un concetto funzionale, se cioè esso rimanda ai rapporti che vigono tra gli uomini in vista della preservazione della vita della collettività, al fare piuttosto che all’essere, allora esso è un concetto essenzialmente dinamico. Già soltanto il fatto che al termine di ogni ciclo di lavoro sociale si ottenga un prodotto sociale maggiore di quello dato all’inizio rappresenta un momento dinamico: questo “di più” e tutto quello che esso rappresenta in termini di nuove possibilità, nuovi bisogni e nuovi conflitti rimanda necessariamente a trasformazioni dello status quo, a prescindere dal fatto che gli uomini stessi o coloro che li governano le desiderino o meno. A rendere possibile l’incremento della ricchezza sociale è stato però il fatto che le istituzioni e le forme della socializzazione, vale a dire tutte le organizzazioni, si presentassero agli occhi degli uomini come una realtà autonoma, cessando di essere qualcosa di identico a loro stessi, ma anzi affermandosi e consolidandosi contro di loro. Il principio della socializzazione è stato al tempo stesso quello del conflitto sociale tra il lavoro vivo e i momenti “statici”, i dispositivi reificati della proprietà. La sociologia ne ha preso atto fin dai suoi primordi. Al tempo stesso, però, essa si è mossa secondo le regole del gioco di una scienza classificatoria, già radicata a sua volta nell’istituzionale: con Comte essa si è innanzitutto preoccupata di suddividere le leggi sociali in statiche e dinamiche5. La tentazione di trasfigurare il momento istituzionale in qualcosa di statico, di liquidare l’aspetto dinamico del processo sociale come capriccio, sembra quasi imporsi da sé. La suddivisione di Comte continua a operare perfino nel dialettico Marx, quando nei passi famosi di Per la critica dell’economia politica, dedicati all’esposizione della dialettica materialistica, questi contrappone le leggi invariabili di ogni società di classe a quelle specifiche del capitalismo moderno6. L’idea di Marx è che per tutta la fase da lui chiamata “preistoria”, cioè nel regno dell’illibertà, siano all’opera alcune categorie perenni che poi soltanto nella forma moderna e razionale della società di classe si specificano

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in formule come quelle depositate negli schemi del Capitale; per così dire una sorta di ontologia negativa, insomma, la profonda intuizione del fatto che gli esistenziali della storia sono il dominio e l’illibertà, e che nonostante il progresso della ratio e della tecnica niente di essenziale è mutato a questo riguardo. E tuttavia, a rigore, la divisione in invarianti e trasformazioni, in sociologia statica e sociologia dinamica, non risulta ammissibile. Essa contraddice il concetto stesso di società come inscindibile unità dei due momenti. Le leggi storiche di una fase non sono meri epifenomeni di leggi generali, ma le une e le altre sono esperimenti concettuali il cui scopo è venire a capo delle tensioni sociali in sede teorica. Per fare questo la scienza ricorre a diversi livelli di astrazione, ma non si può immaginare che la realtà stessa sia un montaggio di questi livelli. Uno dei principali desiderata della sociologia contemporanea è l’eliminazione dell’antitesi semplicistica tra statica e dinamica sociale, che oggi si manifesta sul piano scientifico nella contrapposizione tra teoria formalistica dei concetti sociologici da un lato ed empiria non concettuale dall’altro. La scienza della società non è un doppio gioco tra un “qui” ricco di contenuto ma amorfo e un “in generale” costante ma vuoto: la penetrazione nella struttura dinamica della società esige un instancabile impegno teoretico orientato all’unità dell’universale e del particolare. Ci si potrebbe domandare quali sarebbero propriamente le differenze tra una sociologia, che trattasse del concetto di società come un complesso di esseri umani orientato alla propria riproduzione, e l’economia; tanto più che uno dei suoi temi principali, quello delle istituzioni, potrebbe a sua volta venire dedotto in buona misura, anche se non in modo radicale, da presupposti economici. In linea di principio l’unica obiezione da far valere sarebbe osservare che l’economia e le sue leggi hanno a che fare con un calco già oggettivato, e oggi soprattutto con la meccanica di una società di scambio pienamente dispiegata. Nella realtà storica, però, le parti coinvolte nei rapporti di scambio non hanno af-

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fatto assunto le une rispetto alle altre quei rapporti che le leggi dello scambio prescrivono, piuttosto in quei rapporti si esprimono in modo decisivo differenze di potere reale e di controllo sociale delle risorse, e questo non accade soltanto nella fase tarda del capitalismo differenziato, ma in tutte le epoche per cui appare legittimo parlare di società nel senso indicato sopra. Il processo vitale portante, nel quale la sociologia trova il suo vero oggetto, è proprio il processo economico, ma le leggi dell’economia lo stilizzano già secondo un ideale che si afferma con tanto maggiore gratuità come schema esplicativo quanto meno esso si realizza nel mondo. La sociologia è economia soltanto nel senso dell’economia politica, ed esige quindi una teoria della società che deduca le forme consacrate dell’agire economico e le stesse istituzioni economiche a partire dal controllo sociale delle risorse. La dinamica della società come complesso funzionale di esseri umani si esprime principalmente nel fatto che la socializzazione degli esseri umani, per quanto è possibile gettare uno sguardo d’insieme sulla storia, è tendenzialmente in crescita; nel fatto che cioè, per esprimersi alla buona, nel mondo c’è sempre più “società”. La frase va intesa in due modi. In primo luogo nella sua accezione in qualche modo più semplice, il fatto che un numero sempre maggiore di uomini, gruppi umani e popoli viene risucchiato nel complesso funzionale della società e sempre più “socializzato”. Già nel XIX secolo questa tendenza alla socializzazione si è rafforzata a tal punto che anche i paesi rimasti indietro rispetto alla forma sociale del capitalismo avanzato, i cosiddetti spazi non capitalistici, appartenevano comunque al capitalismo nella misura in cui il loro non essere ancora o non del tutto inglobati rappresentava una delle sorgenti dell’accrescimento del capitale nei paesi dominanti, e proprio per questo era motivo di conflitti politici e sociali. Oggi, anche e soprattutto grazie ai progressi nelle tecniche di locomozione e alla decentralizzazione dell’industria che da un punto di vista tecnologico appare previsibile, la socializzazione dell’umanità si avvicina al suo culmine

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assoluto: tutto ciò che sembra ancora esserne “fuori” deve la sua extraterritorialità alla condiscendenza o a un calcolo pianificato piuttosto che alla vera e propria sussistenza di uno spazio rimasto genuinamente “esotico”. A questo proposito, però, è necessario sottolineare un aspetto evidente, e cioè che in nessun caso il progredire della socializzazione, che sembra costantemente accelerare, contribuisce direttamente alla causa della liberazione del mondo, al superamento degli antagonismi. Se il principio della socializzazione è in se stesso ambivalente, fino ad oggi il suo avanzamento non ha fatto che riprodurre le contraddizioni a livelli sempre superiori. Se la celebre formula «mondo unificato»7 coniata da Wendell Willkie coglie nel segno, questo mondo unificato si caratterizza precisamente per la divisione in due mostruosi “blocchi” contrapposti. Anzi, è evidente che all’interno delle forme sociali odierne la vita si perpetua solo grazie a questa contrapposizione e alla preparazione economica al conflitto. Non è neppure del tutto esagerato affermare che lo sviluppo che conduce alla società totale è inevitabilmente accompagnato dal pericolo dell’annientamento totale del genere umano. In secondo luogo c’è sempre più società anche nel senso che la rete dei rapporti sociali tra gli uomini si fa sempre più fitta. In ciascun singolo individuo vengono sempre meno tollerati quei lati che si sottraggono alla presa, indipendenti dal controllo sociale, al punto che è possibile chiedersi per quanto ancora il singolo riuscirà a costituirsi come tale. La distinzione tra sociologia e antropologia operata per mezzo del concetto di società inteso nella sua accezione enfatica va integrata osservando che l’oggetto stesso dell’antropologia è in larga parte un derivato della socializzazione; in altre parole, quella che la filosofia tradizionale si rappresentava come essenza dell’essere umano è integralmente determinata dall’essenza della società e dalla sua dinamica. Con questo non si vuole affermare che in epoche sociali anteriori alla nostra gli uomini fossero più liberi. Non è difficile sfatare l’illusione di chi misura la società sulla base del suo coef-

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ficiente di liberalismo e interpreta la tendenza alla socializzazione totale che caratterizza la fase postliberale come una forma completamente nuova di oppressione. Sarebbe ozioso domandarsi se in una società dello scambio portata alle estreme conseguenze il potere della società e il controllo che essa esercita siano maggiori o minori che in una società fondata sulla schiavitù, come gli antichi regni mesopotamici o l’Egitto dei faraoni. Si può tuttavia sostenere che proprio perché l’idea di individuo si è cristallizzata e ha acquisito potere reale in una fase tarda, e per la precisione in epoca borghese, la socializzazione totale ha assunto caratteri che in civiltà barbariche preindividuali essa non avrebbe mai potuto possedere. Essa non si limita più a contrastare la mera unità biologica uomo dall’esterno, ma prende possesso dell’interiorità degli individui, trasformandoli in monadi della totalità sociale; un processo in cui la razionalizzazione crescente, nella forma di una standardizzazione degli esseri umani, si lega a una crescente regressione. Gli uomini sono chiamati a esercitare su se stessi una violenza che un tempo, forse, veniva loro inflitta soltanto dall’esterno. Proprio per questo, tuttavia, neppure la “socializzazione interiore” degli uomini è un processo privo di attriti, ma scatena a sua volta conflitti che mettono a repentaglio il livello di civiltà raggiunto dall’umanità, mentre al tempo stesso puntano concretamente al di là di esso. Già soltanto il fatto che oggi la socializzazione non investa immediatamente gli uomini come esseri naturali, ma venga a sovrapporsi a una situazione in cui essi hanno imparato a concepire se stessi come qualcosa di più che semplici esemplari di una specie, implica il fatto che la socializzazione totale impone loro un sacrificio che essi non sono in grado di accordare come se niente fosse. Ancora più significativa è forse la tesi della sociologia freudiana, secondo la quale la progressiva rinuncia alle pulsioni non trova un corrispettivo adeguato nelle compensazioni in nome delle quali l’io ha accettato la rinuncia, tanto che gli istinti repressi si ribellano. La socializzazione, insomma, produce la possibilità

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del proprio stesso annientamento non solo sul piano oggettivo, ma anche in ambito soggettivo. Una sociologia che volesse disconoscere questi aspetti e rinunciasse in nome dell’idolo dei fatti controllabili alla sua categoria centrale, quella di società, che peraltro media tutti i cosiddetti fatti, quando addirittura non li costituisce, cesserebbe di essere all’altezza del proprio concetto, e si consegnerebbe docilmente a quella regressione dell’intelligenza che è a sua volta uno dei sintomi più minacciosi della socializzazione totale. – Resta da osservare che in virtù della sua natura dinamica il concetto di società di cui ci siamo serviti qui non è separabile dalla storia, come prospetta un certo uso linguistico che in realtà si limita a distinguere arbitrariamente tra situazioni, tendenze e forze sociali e situazioni, tendenze e forze storiche. Tale distinzione non fa che ricalcare la tradizionale divisione del lavoro scientifico secondo la quale la storia ha essenzialmente a che fare con eventi politici e istituzioni, mentre la sociologia tenta di comprendere quegli stessi fenomeni in relazione al processo vitale della società stessa. Una sociologia che facesse astrazione dall’elemento storico immanente alla stessa società per andare alla ricerca di strutture sovratemporali o limitarsi a registrare stati di fatto momentanei, però, mancherebbe a priori il proprio oggetto. Note 1. F. Nietzsche, Genealogia della morale, II, 13, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, t. 2, Aldelphi, Milano 1986, p. 279. 2. Il dattiloscritto prosegue con: «citazione dalla Repubblica», per cui cfr. Lezioni di sociologia, cit., p. 30 sg. 3. Nel dattiloscritto: «addurre prove». 4. Cfr. però Th. W. Adorno, Nachgelassene Schriften, pt. IV, vol. 13, Zur Lehre von der Geschichte und von der Freiheit (1964/65), Suhrkamp, Frankfurt am Main 2001, p. 427, n. 220. 5. Nel dattiloscritto: «addurre prove»; cfr. Lezioni di sociologia, cit., p. 37 sg. 6. Nel dattiloscritto: «citazioni»; cfr. Lezioni di sociologia, cit., p. 38 sg. 7. Wendell L. Willkie (1892-1944), uomo politico americano di parte repubblicana, avversario di F. D. Roosevelt alle elezioni presidenziali del 1940, da cui esce perdente; One world, il titolo del suo libro (1943), era all’epoca uno slogan politico.

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Questa raccolta

Über das Problem der individuellen Kausalität bei Simmel. Conferenza pronunciata nell’ambito del seminario sociologico di Robert MacIver alla Columbia University di New York il 19 aprile 1940. Pubblicata per la prima volta in Frankfurter Adorno Blätter VIII, a cura di Rolf Tiedemann, per conto del Theodor W. Adorno Archiv, edition text + kritik, München 2003, pp. 42-59. Le note ai testi tradotti dai Frankfurter Adorno Blätter, ove non indicato diversamente, riproducono l’apparato critico dell’edizione tedesca. Traduzione di Francesco Peri. Individuum und Gesellschaft. Entwürfe und Skizze. Si tratta di una serie di abbozzi e frammenti sul tema dell’individuo provenienti dai manoscritti di Adorno, raccolti tematicamente e editi per la prima volta da Rolf Tiedemann in Frankfurter Adorno Blätter VIII, cit., pp. 60-94. I testi risalgono agli anni Quaranta (del giugno 1941 e dell’aprile 1943 i due frammenti precisamente databili), con l’eccezione degli ultimi due, del 1964-1965, che costituiscono annotazioni facenti parte del manoscritto originario della Negative Dialektik e successivamente espunte (per datazione e notizie sui manoscritti si veda nel testo la nota apposta all’inizio di ogni frammento). Traduzione di Francesco Peri. Die verwaltete Welt oder: die Krise des Individuums. Dialogo radiofonico tra Theodor W. Adorno, Max Horkheimer e Eugen Kogon, tenutosi in occasione di una trasmissione dell’Hessischer Rundfunk (4 settembre 1950) e trascritto dagli editori delle Gesammelte Schriften di Max Horkheimer. Ora in M. Horkheimer, Gesammelte Schriften, vol. 13: Nachgelassene Scriften 1949-1972, a cura di Gunzelin Schmid Noerr, Fischer, Frankfurt am Main 1989, pp. 121-142. Traduzione di Francesco Peri.

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Individuum und Staat. Si tratta di un testo inedito del 1951, pubblicato per la prima volta in Th.W. Adorno, Gesammelte Schriften, vol. 20.1: Vermischte Schriften, a cura di Rolf Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986, pp. 287-292. La traduzione di Italo Testa è già apparsa in «La Società degli individui» 9, 3 (2000), pp. 119-124. 158

Individuum und Organisation. Si tratta dell’Einleitungsvortrag tenuto da Adorno in occasione del Darmstädter Gespräch del 1953. Pubblicato per la prima volta in F. Neumark (a cura di), Darmstädter Gespräch. Individuum und Organisation, Neue Darmstädter Verlagsanstalt, Darmstadt 1954, pp. 21-35; 2ª ediz. in H. W. Sabais (a cura di), Die Herausforderung. Darmstädter Gespräche, Paul List, München 1963, pp. 135-147, ora in Th. W. Adorno, Gesammelte Schriften, vol. 8: Soziologische Schriften I, a cura di R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1972, pp. 440-456. Il testo non compare nella scelta di scritti di Adorno pubblicata nel 1976 presso Einaudi con il titolo Scritti sociologici. La traduzione di Alessandro Bellan è già apparsa in «La Società degli individui» 9, 3 (2000), pp. 125-139. Gesellschaft. Erste Fassung eines Soziologischen Excurses. Il testo, databile al 1954, è stato pubblicato per la prima volta in Frankfurter Adorno Blätter VIII, cit., pp. 143-150. È parte del progetto dei Soziologische Exkurse che videro la luce nel 1956 come vol. 4 dei Frankfurter Beiträge zur Soziologie, e la cui paternità è attribuita «allo Institut für Sozialforschung collettivamente». Questo studio sul concetto di «società», così come il Beitrag zur Ideologienlehre raccolto nel vol. 8 delle Gesammelte Schriften, costituisce una delle redazioni preliminari del contributo di Adorno all’articolo dei Soziologische Excurse. Al tempo stesso, però, esso va inteso come prima stesura dell’omonimo saggio che Adorno redasse nel 1965 per lo Evangelisches Staatslexikon, anch’esso raccolto nel vol. 8 delle Gesammelte Schriften. Traduzione di Francesco Peri.

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LA GINESTRA Biblioteca per un individualismo solidale

Da due secoli, di fronte alla crisi delle rassicuranti comunità naturali e all’accelerazione dei processi di individualizzazione, filosofi e pensatori sociali si sono posti il compito di costruire teorie nelle quali la coesione della società non confligge ma va di pari passo con la cura di sé di individui emancipati. La collana La ginestra documenta l’esistenza di questa tradizione di individualismo solidale attraverso i testi di autori classici e contemporanei. Titoli pubblicati Georg Simmel Friedrich Nietzsche filosofo morale

Harry G. Frankfurt Catturati dall’amore

A cura di Ferruccio Andolfi

A cura di Gianfranco Pellegrino

Ralph Waldo Emerson Società e solitudine

Gustav Landauer La rivoluzione

A cura di Nadia Urbinati

A cura di Ferruccio Andolfi

Pierre Leroux Individualismo e socialismo

Theodor W. Adorno La crisi dell’individuo

A cura di Bruno Viard

A cura di Italo Testa

Zygmunt Bauman Individualmente insieme

Friedrich E.D. Schleiermacher Monologhi. Un dono di capodanno

A cura di Carmen Leccardi

A cura di Ferruccio Andolfi

Ágnes Heller La bellezza della persona buona

John Dewey Individualismo vecchio e nuovo

A cura di Brenda Biagiotti

A cura di Maria Rosa Calcaterra

Charles Taylor La democrazia e i suoi dilemmi A cura di Paolo Costa

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Questo libro

di Theodor W. Adorno ottavo della collana La Ginestra nata dall’amicizia e dal lavoro comune individuale e solidale tra l’Associazione omonima e le Edizioni Diabasis alla sua prima ristampa nel carattere Garamond a cura di PDE Spa presso lo stabilimento di LegoDigit Srl - Lavis (TN) nel marzo dell’anno duemila quattordici

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