La crisi. Può la politica salvare il mondo? 8842815713, 9788842815716

Di fronte alla crisi internazionale, alle banche che dagli Stati Uniti all'Europa cadono come pezzi di un domino e

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La crisi. Può la politica salvare il mondo?
 8842815713, 9788842815716

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Alberto Alesina Francesco Gavazzi

LA CRISI Può la politica salvare il mondo?

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il Saggiatore

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Si ringraziano Dorian Carloni e Giampaolo Lecce per l'eccellente aiuto nel reperire i dati.

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Sommario

Introduzione Problemi difficili non hanno soluzioni facili

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1.La crisi finanziaria: che cosa è successo

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2.A cosa serve la finanza

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3.I vantaggi della globalizzazione

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4.L'euro non è il diavolo

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5.Non ci sono miracoli

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6.Il mondo salvato dalla politica?

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Introduzione Problemi difficili non hanno soluzioni —4—

facili

Lo ripeteva spesso Rudiger Dornbusch, uno dei più grandi economisti del dopoguerra, prematuramente scomparso: i problemi difficili hanno soluzioni facili. Peccato siano quasi sempre sbagliate. Lo stiamo sperimentando oggi. Di fronte alla grave crisi finanziaria che ha travolto l'America e poi l'Europa, si sono subito fatte largo analisi e soluzioni semplicistiche: il capitalismo è finito, lo stato deve tornare a guidare l'economia, la finanza va imbrigliata, la globalizzazione frenata. In altre parole, rimettiamo le cose in mano ai politici e affidiamoci alla loro benevolenza, onestà e chiaroveggenza. Sembra all'improvviso irrilevante che in molti paesi - e certamente in Italia - i politici spesso rispondano a pressioni di specifiche lobby e a interessi economici particolari, ragionino sul breve periodo a scapito delle future generazioni, in qualche caso siano perfino corrotti, che il settore pubblico sia spesso inefficiente e sperperi il denaro dei contribuenti, che più

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stato significhi anche più tasse. «Restituiamo allo stato un ruolo egemone perché il capitalismo è finito.» Ecco una soluzione semplice, peccato che, appunto, sia sbagliata. Una delle pochissime modernizzazioni avvenute in Italia dal dopoguerra a oggi risale agli anni novanta, e consiste nell'aver reso l'economia autonoma dalla politica. Dopo decenni di intervento pubblico nell'economia, oggi Iri, Efim, casse di risparmio e il Ministero delle partecipazioni statali ci sembrano istituzioni di un altro secolo. Dall'inizio degli anni novanta imprese e banche sono state sottratte all'influenza diretta della politica e lo stato ha affidato la regolazione dei mercati ad autorità indipendenti, così come avviene in ogni economia di mercato: Antitrust, Banca d'Italia, Consob, Autorità per l'energia. Oggi l'autonomia dell'economia dalla politica è di nuovo in pericolo. La crisi finanziaria attuale è più grave del previsto. Sui rischi del mercato immobiliare americano moltissimi economisti avevano lanciato campanelli d'allarme già nel 2005-2006; per rendersene conto basta sfogliare le pagine dell'Economist o del Financial Times di quel periodo. Da tempo economisti e organizzazioni internazionali come il Fondo monetario internazionale e la Banca dei regolamenti di Basilea - avevano individuato nello scarsissimo risparmio delle famiglie americane e nell'accumulo di risparmio in Cina e in altri paesi asiatici un potenziale pericolo per il sistema finanziario globale. Ogni anno infatti una quantità enorme

La crisi

di risparmio asiatico doveva essere investita negli Stati Uniti: il 6 per cento del reddito totale americano. E ci si interrogava sulla possibilità che questi trasferimenti potessero continuare in modo ordinato. Non è certo la prima volta nella storia che alcuni paesi risparmino poco, altri molto, ovvero che il risparmio si concentri in una parte del mondo, gli investimenti in un'altra. Come vedremo, risparmio e investimenti sono parte del meccanismo di crescita: se tutte le economie fossero chiuse, il risparmio non potrebbe dirigersi verso le possibilità di investimento più produttive. Quando risparmio e investimento sono distanti, il sistema finanziario assume un ruolo di fondamentale importanza: deve raccogliere risparmio in un paese e utilizzarlo per finanziare investimenti in un altro. In altri periodi storici - negli anni cinquanta tra Europa e Stati Uniti, negli anni ottanta tra Stati Uniti e Giappone -un grande divario a livello internazionale tra risparmi e investimenti non ha creato problemi; oggi invece, a causa di una serie di fattori concomitanti che analizzeremo, il sistema finanziario non è riuscito a riciclare il risparmio in modo ordinato. Di fronte a quello che succede, la domanda che assilla l'opinione pubblica è: che cosa accadrà in Italia e nel mondo? Allo stato attuale le risposte purtroppo possono muoversi solo nel campo del probabile, perché è impossibile prevedere le evoluzioni di una situazione tanto complessa. E probabile che questa crisi venga superata a prezzo di una recessione americana, forse mondiale, al massimo di qualche punto di Pil; di una ristrutturazione (non eliminazione) della finanza; di un aumento del debito pubblico in Europa e negli Stati Uniti. E anche molto probabile che nel giro di qualche anno l'economia americana riprenderà a crescere a gonfie vele grazie a un sistema finanziario meglio organizzato, dopo aver perso in tutto tre o quattro punti di Pil. Se si pensa che dai primi anni ottanta l'economia americana è cresciuta di quasi il 3,5 per cento all'anno, non è poi un dramma. Tuttavia un rischio c'è e consiste nel fatto che errori di politica economica trasformino questa crisi in qualcosa di paragonabile a quella del 1929. Come vedremo, è un

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Introduzione

rischio remoto ma bisogna mantenere alta la guardia perché la retorica statalista che circola di questi tempi e la difesa a oltranza della superiorità della politica ricordano molto da vicino le logiche che negli anni trenta portarono il presidente Herbert Hoover a far degenerare una crisi finanziaria nella Grande depressione. La crisi del '29 è spesso invocata oggi come esempio dei danni che il libero mercato può arrecare all'economia reale. Ma in realtà, oggi come allora, è vero il contrario, e cioè che sono gli errori della politica a portare al collasso. Oggi il nazionalismo economico sembra tornato di moda; sono rinate tendenze protezionistiche, come spesso accade nei periodi difficili. E una concezione che va a colpire le funzioni vitali dei mercati finanziari, ignorando le leggi dell'economia. Sono soluzioni facili appunto, alcune populiste e in gran parte sbagliate. L'obiezione che sorge spontanea è che persino gli Stati Uniti, patria del libero mercato, stanno nazionalizzando e salvando con denaro pubblico banche e istituti finanziari; in parte è così ma, nonostante la retorica un po' grossolana utilizzata da Nicolas Sarkozy alle Nazioni Unite nel settembre 2008, questo non significa che stiamo assistendo alla fine del capitalismo. Mentre scriviamo (metà ottobre 2008) non è ancora del tutto chiara la natura complessiva dell'intervento pubblico americano; per ora basti dire che sarà temporaneo. Lo stato inizialmente si indebiterà per acquistare azioni di alcune banche in difficoltà e titoli svalutati derivanti dal mercato immobiliare. Superata la crisi li rivenderà: il contribuente potrebbe anche guadagnarci, come avvenne in Svezia negli anni novanta in seguito a un'operazione analoga. Si tratterà di un intervento temporaneo dello stato, che in un certo senso diverrà l'«assicuratore» del sistema. Non c'è dubbio che se avessimo potuto fare a meno di questo intervento massiccio, ne avremmo giovato tutti. Lo stato interviene anche perché è in qualche misura corresponsabile del problema. Infatti, buona parte della responsabilità di questa crisi ricade sul settore pubblico, su regola-

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mentazioni errate che hanno favorito eccessivamente i prestiti edilizi, per realizzare forse il più ambizioso dei sogni americani: una casa di proprietà per tutti. Un obiettivo politico, per sventolare in campagna elettorale la percentuale di americani proprietari di case. La crisi americana è dovuta principalmente alla commistione tra mercato e stato, tra regolatori e regolati. Scagliarsi contro il mercato e il capitalismo è inutile, oltre che pericoloso. Crisi altrettanto gravi si sono verificate anche in paesi che non si possono certo definire «capitalisti selvaggi», come la Svezia, che all'inizio degli anni novanta vide fallire tutte le sue banche. Un'osservazione sull'Europa. Spesso gli europei si vantano della loro governance che giudicano migliore di quella americana. Si compiacciono della loro «economia sociale di mercato» (che cosa si intenda con questa espressione non ci è mai stato spiegato) che giudicano superiore al «capitalismo di stato». Può essere. Questa governance sarà anche migliore, ma non ha protetto l'Europa dalla crisi.

L'Italia e la crisi La crisi internazionale si somma alle difficoltà specifiche del nostro paese. L'economia italiana soffre infatti di due malattie concomitanti ma indipendenti: una crescita inferiore alla media europea che dura ormai da più di vent'anni e un periodo di difficoltà, ciclico, dovuto alla crisi finanziaria internazionale e al prezzo di alcune materie prime. La seconda è una malattia comune a molti paesi Ocse; la prima è un malessere tutto italiano, quindi le sue cause vanno ricercate solo ed esclusivamente all'interno del nostro paese. E importante sottolinearlo, perché nel dibattito economico-politico contemporaneo spesso le due malattie si confondono, offuscando sia la diagnosi della malattia sia la cura. Il perché è chiaro: è comodo per i politici incolpare speculatori americani e produttori cinesi per nascondere le mancanze della politica economica italiana. Da tempo, la vulgata che va per la maggiore è questa:

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Introduzione

l'Italia è in crisi a causa della sua esposizione al processo di globalizzazione dell'economia mondiale e, in particolare, per l'emergere di nuove potenze industriali come Cina e India. Inoltre, la crescente sofisticazione dei mercati finanziari ha causato grande instabilità e ha contribuito a creare le condizioni per una crisi grave. L'adozione dell'euro non ha aiutato l'economia italiana, anzi, ha complicato e ostacolato ulteriormente le esportazioni. La Banca centrale europea, ossessionata dal controllo dell'inflazione, ha frenato la crescita dei paesi europei. Di fronte a questo stato di cose la risposta è difensiva. Bisogna cioè difendersi dal mercato, restituendo allo stato la funzione di motore dell'economia. Il liberismo economico fondato sulla centralità del mercato ha fallito. Pertanto, le ricette per uscire dalla crisi sono il protezionismo commerciale e il nazionalismo economico. Questo significa difendere le imprese nazionali dalla competizione internazionale anche a spese dei consumatori e dei contribuenti, e tener fuori, almeno temporaneamente, i paesi emergenti dal processo di globalizzazione. Significa la fine delle privatizzazioni; di più, ristatalizzazione. Lo stato deve far valere la sua forza politica, anche militare se necessario, per imporre i propri interessi economici. Globalizzazione, mercati finanziari, speculatori, privatizzazioni, l'euro e la Bce sarebbero i «diavoli» responsabili della crisi. Noi crediamo che siano finti diavoli, che questa analisi sia profondamente errata e che possa avere conseguenze molto pericolose per l'Italia. Se si procedesse sulla scorta di queste convinzioni, la situazione dell'economia italiana peggiorerebbe e se le si applicasse globalmente, nel mondo si scatenerebbero guerre commerciali; e, come è noto, da lì alle guerre tout court il passo è breve (per fortuna all'infuori dell'Italia e della Francia non sono in molti a pensarla così). L'Italia è ormai da anni il fanalino di coda dei paesi Ocse sia nei momenti di recessione globale che in quelli di boom. Ha quindi bisogno di una cura particolare per le sue specifiche difficoltà, senza scorciatoie né miracoli. Innanzitutto bisogna lavorare di più, ma è difficile per un politico sostenerlo senza diventare immediatamente

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impopolare; meglio incolpare la Cina. La verità è che bisogna lavorare meglio, che più persone lavorino e che aumenti la produttività. In secondo luogo non vanno adottate misure protezionistiche: il protezionismo si ritorcerebbe contro le esportazioni, che sono un traino fondamentale della nostra economia. In terzo luogo il ritorno dello stato come imprenditore non farebbe certo aumentare la produttività. Non è sèmpre vero, ma in linea generale il settore pubblico è meno efficiente di quello privato. Il motivo è semplice: se l'azienda appartiene allo stato, la certezza che eventuali perdite vengano assorbite dai contribuenti dà forza ai sindacati e non incentiva adeguatamente i manager a massimizzare l'efficienza e la produttività. E questo è un mix esplosivo. E ciò che ha fatto crollare l'economia pianificata sovietica e da noi ha portato al fallimento dell'Iri. Il capitalismo di stato in Italia (e nel resto d'Europa) ha fatto il suo corso. Ha funzionato relativamente bene negli anni cinquanta e sessanta, in un periodo di ricostruzione dopo la devastazione bellica in cui le grandi imprese operanti in settori tradizionali si limitavano ad adottare tecnologie importate dall'estero, soprattutto dagli Usa. E in cui concorrenza e innovazione non erano cruciali come lo sono ora. Ma dagli anni ottanta in poi l'Italia e l'Europa sono cresciute solo innovando, espandendo il settore dei servizi e dell'alta tecnologia (e il migliore «made in Italy» certamente appartiene all'alta tecnologia). Le grandi industrie pesanti pubbliche (per fare un esempio) non servono più. Non si può tornare indietro: in tutti i paesi Ocse dai due terzi ai tre quarti dell'economia è concentrato nel settore dei servizi. Rispetto agli altri paesi l'Italia fa fatica ad abbracciare questa trasformazione e ciò ha contribuito alla scarsa crescita del nostro paese negli ultimi due decenni. Le economie «industrializzate» saranno sempre più paesi come Messico, Cina, India, Cile; è un dato di fatto che non si può ignorare, piaccia o meno. Stando alla concezione «statalista», l'Italia dovrebbe tornare a poggiare sull'industria, proteggendosi dalla concorrenza di quei paesi. E impossibile, è una battaglia

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Introduzione

donchisciottesca contro una realtà che non si può cambiare e ricorda un po' la diatriba tra settore agricolo e industriale dopo la Rivoluzione industriale in Gran Bretagna. A quel tempo era in atto un grande processo di spostamento del baricentro economico verso l'industria pesante. Un secolo dopo, chi aveva sostenuto la supremazia dell'agricoltura tradizionale aveva perso il treno della storia; ben prima di cent'anni succederà lo stesso a chi oggi sostiene la supremazia dell'industria tradizionale e si scaglia contro servizi e finanza. La superiorità della politica sull'economia è un refrain molto in voga oggi in Italia. L'economia deve sottostare alla politica e le scelte economiche si devono conformare alle esigenze politiche. Cosa significhi questo non è ben chiaro. E ovvio che spetta ai rappresentanti politici democraticamente eletti prendere le decisioni per il paese. Ma in realtà con l'espressione «superiorità della politica» spesso si intende il ritorno dello stato al centro del sistema economico; e questo è un punto nodale su cui non siamo affatto d'accordo, come avremo modo di spiegare. La politica ha il diritto e il dovere di fissare le regole, ma come ogni croupier imparziale, non deve mai sedersi al tavolo da gioco. Un altro aspetto di questo nuovo statalismo, basato sulla «superiorità della politica», è la visione secondo cui i rapporti di forza tra paesi detterebbero la supremazia economico-politica in un gioco in gran parte a somma zero: la ricchezza di un paese a scapito di quella di un altro. Paesi Ocse contro Cina, paesi cristiani contro paesi di religione diversa, l'italianità di certe aziende contro acquisizioni internazionali. Che cosa c'è di nuovo in questo approccio? Nulla; tutto già visto. Nei periodi di crisi è tipico ricorrere al desiderio di «protezione» statale, di fuga dal mercato. La domanda di protezionismo commerciale aumenta sempre durante le recessioni, e le rende solo più gravi. L'economia di mercato non è un gioco a somma zero. L'idea del commercio come lotta tra nazioni per accaparrarsi le risorse disponibili è tutt'altro che nuova. E un'idea vecchissima, che risale al mercantilismo pre Adam Smith secondo cui commercio significava soggiogare con la forza il concorrente e conquista-

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re una fetta della ricchezza del pianeta. Una visione anacronistica di questo tipo non può che portare a scelte economiche errate e a un approccio bellicoso dei rapporti internazionali, anche tra potenze che dovrebbero essere amiche, con conseguenze potenzialmente drammatiche. Non a caso la risposta protezionistica alla crisi del 1929 sfociò nella Seconda guerra mondiale. E innegabile che a partire dal secondo dopoguerra il clima internazionale sia particolarmente teso. Gli esempi sono numerosi: negli anni cinquanta abbiamo assistito alla guerra di Corea, alla guerra fredda, alla crisi di Suez nel 1956. Poi ci sono state le rivolte indipendentiste dei paesi africani, la guerra d'Algeria, la guerra del Vietnam, la crisi missilistica di Cuba, la Cina comunista in conflitto con la Russia sovietica. Nonostante ciò, il processo di globalizzazione è continuato, anzi, ha aiutato a trasformare la Cina in un paese a tutti gli effetti ex comunista e meno minaccioso perché troppo integrato economicamente con il resto del mondo; ha contribuito a far crollare il blocco sovietico e a spostare paesi del centro Europa verso l'Occidente, attirati proprio dal libero scambio e dal mercato. Commercio e globalizzazione contribuiscono al mantenimento di relazioni pacifiche tra i paesi. La centralità del mercato però non significa che lo stato non debba giocare alcun ruolo nell'economia. Del resto, il capitalismo europeo di oggi non è certo quello spietato della Londra della Rivoluzione industriale. Oggi lo stato ha un ruolo molto esteso. La pressione fiscale in Europa sfiora il 50 per cento del Pil e non crediamo ci sia bisogno di aumentarla. E difficile far crescere il ruolo dello stato in economia senza far crescere parallelamente le sue sostanze, ovvero senza aumentare le imposte. Lo stato ha compiti e doveri numerosi e importanti. La domanda di sicurezza economica è sacrosanta ed è dovere dello stato fornirla con vari meccanismi di assicurazione sociale. E dovere dello stato evitare che le fluttuazioni dell'economia di mercato si trasformino in tragedie private di chi perde il lavoro o vede fallire la

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Introduzione

propria impresa. E dovere dello stato regolamentare l'immigrazione così che il mercato del lavoro possa assorbire in modo adeguato chi arriva dall'estero. È dovere dello stato combattere l'immigrazione di clandestini e criminali. E dovere dello stato cercare il consenso intorno ad alcune misure vantaggiose per la collettività. E dovere dello stato aiutare entro certi limiti le categorie che nel breve periodo siano svantaggiate da riforme che aumentino il benessere generale. E dovere dello stato accertarsi che il mercato non crei eccessiva disuguaglianza e correggerla con l'imposizione fiscale, cercando di minimizzare le distorsioni fiscali (vale a dire: si tolga pure ai ricchi per dare ai poveri, ma con un sistema fiscale che non sia punitivo per chi produce ricchezza). E dovere dello stato garantire che il mercato funzioni, che le imprese non abusino della loro posizione nel mercato per tenere lontani concorrenti o per colludere a danno dei consumatori. E dovere dello stato fornire un'educazione scolastica adeguata a chi non se la può permettere. E dovere dello stato evitare che una crisi finanziaria si trasformi in una profonda recessione. Molti economisti hanno sicuramente perso di vista i doveri dello stato e sono rimasti intrappolati in una visione troppo semplicistica dell'economia di mercato. Non c'è dubbio che qualche eccesso della scuola di Chicago abbia sottovalutato il ruolo dell'intervento pubblico. Sicuramente molti economisti hanno dimenticato come la politica economica sia impregnata di politica tout court e hanno dimenticato che è dovere dello stato ridurre povertà e disuguaglianza. Ma non si può rifiutare in toto l'economia liberale di mercato

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per correggere qualche eccesso di zelo e rifugiarsi nello stato «padre padrone». Vi sono almeno due declinazioni differenti dell'idea di stato. Una è quella di uno stato che è parte integrante del sistema produttivo, dell'offerta di beni e servizi, uno stato cioè che agisce estensivamente nell'economia di mercato, nazionalizzando e operando come monopolista in vari settori, come nel caso del trasporto aereo e ferroviario, o in certi rami dell'energia. L'altra è quella liberale e socialdemocratica di uno stato che rimane il più possibile fuori, ma protegge i deboli e regola con mano leggera («con un colpo di pollice», avrebbe detto Talleyrand) i mercati per garantirne la concorrenza, la trasparenza e le concentrazioni monopolistiche che danneggiano il consumatore. Questo in definitiva è ciò di cui si discute oggi: il ruolo dello stato. C'è chi vuole tornare al capitalismo di stato e chi crede che voltarsi indietro non sia né possibile né, tantomeno, auspicabile.

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1. La crisi finanziaria: che cosa è successo

Di fronte alla crisi finanziaria che ha sconvolto gli Stati Uniti e poi si è riversata sull'Europa, i messaggi che vengono trasmessi ai cittadini da politici e organi di stampa sono sostanzialmente due: stiamo assistendo a un altro 1929; e questa crisi segna la fine del capitalismo fondato su liberismo e concorrenza. Entrambi i messaggi sono sbagliati.

Un altro 1929? Innanzitutto è errato paragonare la situazione attuale a quella degli anni trenta. La crisi del 1929 si tramutò in una tremenda recessione dell'economia reale per una serie di clamorosi errori di politica economica: nulla lascia pensare che simili errori vengano ripetuti oggi (o almeno ce lo auguriamo). La crisi finanziaria attuale avrà sicuramente conseguenze reali per l'economia, ma nulla di paragonabile a quello che accadde dopo il 1929, quando il Pil americano scese del 30 per cento e un cittadino su quattro perse il posto di lavoro. Anche le previsioni più pessimistiche sull'economia americana parlano di qualche trimestre di crescita negativa dell'I o 2 per cento. L'ordine di grandezza è totalmente diverso da quello del 1929.

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Molti furono gli errori di politica economica che seguirono il crac del 1929, da cui bisogna guardarsi anche oggi. Il primo, e più direttamente collegato al sistema finanziario, fu compiuto dalla Federal Reserve che, anziché fornire liquidità alle banche, la tolse. La Fed, relativamente giovane e inesperta (era stata creata nel 1913, solo quindici anni prima della crisi), scambiò la causa con l'effetto: poiché vedeva che le banche avevano smesso di erogare prestiti, pensò che non avessero più bisogno di liquidità. Un grave errore di teoria economica che la Fed di oggi e la Bce (nonostante la sua altrettanto giovane età) sono ben lontane dal ripetere. Oggi le banche centrali hanno fornito abbondante liquidità alle banche perché potessero continuare le loro operazioni creditizie: questo non ha risolto la crisi, ma ha certamente evitato il collasso immediato del sistema del credito. Il secondo fu un clamoroso errore dei politici: nel 1930 il presidente Herbert Hoover non pose il veto alla legge proposta dal deputato Willis C. Hawley e dal senatore Reed Smoot che, nel vano tentativo di proteggere i produttori americani, introduceva dazi sulle importazioni e scatenò così una guerra commerciale tra gli Usa e il resto del mondo, soprattutto l'Europa. Hoover ignorò una raccolta di firme di ben 1.028 economisti, compresi tutti i più famosi dell'epoca, che lo scongiuravano di impedire un ritorno al protezionismo. Industriali come Henry Ford e banchieri come Thomas Lamont, capo della J.P. Morgan, lo pregarono di mettere il veto, ma la politica prevalse sull'economia. Il risultato fu il collasso delle esportazioni americane con pesanti conseguenze sulla crescita e sull'occupazione. La guerra commerciale estese la crisi al resto del mondo, in particolare all'Europa, che adottò politiche protezionistiche in risposta a quelle statunitensi. Proprio per questo adesso può essere molto perico— 17 —

loso appellarsi al «nazionalismo economico», ovvero all'idea che in un momento di crisi lo stato debba proteggere la proprietà nazionale delle aziende indipendentemente dalla loro efficienza: meglio un'azienda di proprietà italiana anche se inefficiente che un'azienda italiana posseduta da uno «straniero» ma produttiva. Un errore gravissimo, sia politico che economico. Hoover commise un altro errore: adottò una strategia punitiva contro gli «speculatori» di Wall Street. Introdusse regole pesanti che limitavano le operazioni finanziarie, con il risultato di ostacolare, invece che facilitare, la stabilizzazione dei mercati finanziari. Anche oggi si respira un'aria simile. Alle critiche - più che legittime - verso chi ha contribuito alla crisi dei subprime, si sommano slogan un po' superficiali su speculatori e regolamentazione dei mercati finanziari tout court. Anziché sfruttare la crisi come un'occasione per capire come migliorare il funzionamento dei mercati, la si utilizza come scusa per aggredire l'economia di mercato. Hoover intervenne poi nelle contrattazioni salariali, impedendo alle imprese di tagliare le retribuzioni. In un periodo di recessione e di deflazione, cioè di diminuzione dei prezzi, molte imprese non riuscirono a mantenere costanti i salari e fallirono. L'interventismo nel mercato del lavoro finì per rivelarsi controproducente: invece di mantenere il potere d'acquisto dei salari e così sostenere la domanda, la ridusse, aumentando disoccupazione e miseria. Infine Hoover non capì che in periodi di recessione è necessario consentire che il deficit pubblico salga: cercò al contrario di evitarlo, aumentando in modo consistente le imposte e dando così un altro duro colpo all'economia. I paesi che in passato sono stati più virtuosi oggi hanno lo spazio per far salire il deficit e dovrebbero consentirlo, come stanno facendo gli Stati Uniti; quelli come l'Italia, che hanno già un debito elevato, sono più in difficoltà. Una cosa comunque è — 18 —

certa: non è il momento di alzare le tasse; è il momento di ridurle controllando la spesa. La crisi del 1929 ci insegna che furono politiche economiche errate a trasformare una crisi finanziaria in una profonda depressione. Oggi si cita spesso Franklin Delano Roosevelt, il presidente che fece uscire l'America dalla Grande depressione grazie al programma di intervento statale noto come New Deal. A questo proposito vanno però chiariti due punti. Primo, senza gli errori interventisti di Hoover e il suo protezionismo, la Grande depressione non ci sarebbe stata. Secondo, le dimensioni del settore pubblico americano ai tempi di Roosevelt erano minime rispetto a quelle dello stato sociale odierno. Prima del New Deal non esisteva sostanzialmente alcun sistema di sicurezza sociale e, al di fuori del settore militare, in America lo stato era pressoché inesistente. Oggi siamo in una situazione ben diversa, lo stato ha già un ruolo rilevante. Invocare un maggior intervento statale rifacendosi a Roosevelt denota scarsa conoscenza della storia.

I consumi degli americani pagati dai cinesi Da almeno quindici anni gli Stati Uniti spendono più di quanto non producano. Questo è possibile perché altri paesi, in primis la Cina, hanno un surplus di risparmio. Non è una novità e non va cercata qui la radice della crisi. In qualunque paese del mondo vi sono debitori e creditori. C'è chi spende più di quanto guadagna (almeno per un po' di tempo) e chi fa l'opposto. In un'economia chiusa tutti questi flussi si compensano e il paese nel suo complesso è in pareggio con il resto del mondo. Anche in un'economia chiusa ovviamente il sistema finanziario è al centro di questi trasferimenti di risparmio, e collega i debitori e i creditori. A maggior ragione svolge questa funzione quando le economie non — 19 —

sono chiuse: alcuni paesi spendono più di quanto producono e lo fanno indebitandosi nei confronti di altri paesi che invece risparmiano. Le nazioni che si indebitano sono quelle che riescono a convincere le altre a investire nei loro progetti con la , promessa che ripagheranno i debiti. Trasferire risparmio da un paese all'altro è sempre stato uno dei motori della crescita perché fa sì che il risparmio non venga sprecato in progetti poco redditizi, ma finanzi quelli più interessanti che non sempre sono localizzati là dove il risparmio si crea. E esattamente ciò che è accaduto negli anni recenti tra Stati Uniti e Cina. I cinesi, grazie alle esportazioni che crescevano a ritmo vertiginoso, accumulavano risparmi e li investivano in America e in parte in Europa. Questo è accaduto perché non avevano sufficienti opportunità di investimento a casa loro: in Cina, cioè, nonostante una crescita vorticosa, non vi erano occasioni di investimento sufficientemente ampie e interessanti da esaurire il risparmio delle famiglie cinesi. Non c'è nulla di male nel fatto che alcuni paesi si indebitino con altri. Come abbiamo già accennato, la possibilità di sganciare il risparmio dall'investimento è uno dei motori della crescita. Ovviamente nessuna persona e nessun paese si può indebitare all'infinto. Anche un paese che ha grandi possibilità di investimento prima o poi esaurisce la propria «scorta». Prima o poi una persona, così come un paese, deve spendere meno e ridurre i propri debiti. Ecco perché dopo periodi di forte indebitamento, un paese deve ridurre i consumi, rallentare l'investimento e la crescita. In questi frangenti una svalutazione della moneta, facilitando le esportazioni, aiuta a ridurre l'accumulo di debiti esteri. Succede da secoli nella storia di molti paesi. Accadde negli Stati Uniti negli anni cinquanta e poi ancora negli anni ottanta. In quel decennio l'America si indebitò, soprattutto nei confronti di Giappone e Germania. I — 20 —

deficit commerciali americani erano un po' più bassi di quelli degli anni più recenti in rapporto al Pil, ma l'ordine di grandezza era simile. In quel caso in America a indebitarsi non furono tanto le famiglie - che comunque non hanno mai risparmiato molto, almeno da qualche decennio in qua - quanto soprattutto il settore pubblico. Erano gli anni in cui la spesa militare cresceva rapidamente e in cui l'America vinse definitivamente la Guerra fredda. I meno giovani ricorderanno che in quel periodo sembrava che i giapponesi volessero comprare tutta Manhattan. Erano anche i tempi del grande successo delle esportazioni tedesche. Come andò a finire? All'inizio degli anni novanta l'economia americana rallentò un po', il dollaro si svalutò e gli squilibri si aggiustarono. Negli ultimi anni stavamo assistendo a un aggiustamento simile. Il dollaro aveva cominciato a svalutarsi dalla primavera del 2001, il deficit della bilancia commerciale americana si stava riducendo, i cinesi avevano iniziato a consumare un po' di più. Tutto pareva funzionare come «da libro di testo», l'eccesso di risparmio cinese si riduceva e diminuiva anche la forbice tra risparmi e spese negli Stati Uniti. Quindi, visto che la separazione tra paesi risparmiatori e paesi investitori non è affatto nuova, non può essere da sola la causa della crisi. Qualcos'altro deve essere andato storto, qualcosa si è inceppato. Quello che non ha funzionato, diversamente dal passato, è il mercato finanziario che a un certo punto non è più riuscito a riciclare il risparmio in modo ordinato. O meglio, lo ha fatto, ma gettando le basi dei disastri finanziari che sono scoppiati in questi due anni. Per capirlo occorre partire dalle banche e vedere come sono cambiate le banche americane negli ultimi trent'anni.

La trasformazione delle banche americane — 21 —

Cerchiamo innanzitutto di capire come siamo arrivati alla crisi dei subprime. Dall'inizio della crisi finanziaria fino al settembre 2008, le perdite subite dalle banche americane ammontano a circa 600 miliardi di dollari, il che equivale a una caduta del 4 per cento dei prezzi delle azioni quotate a Wall Street. Una caduta della Borsa del 4 per cento non è particolarmente grave né rara: nel famoso lunedì nero, il 19 ottobre 1987, Wall Street cadde del 20,4 per cento, ma il crollo non ebbe praticamente alcun effetto sull'economia americana. Anzi, l'anno successivo, la crescita del reddito accelerò, avvicinandosi al 4 per cento, un punto in più dell'anno precedente. Perché allora perdite tutto sommato modeste hanno innescato una crisi tanto grave? Per capire che cosa abbia amplificato uno shock di proporzioni contenute occorre fare un passo indietro. Fino agli anni settanta le banche americane avevano vita facile. Le banche di investimento detenevano il monopolio dell'acquisto e della vendita di titoli: commissioni fisse, nessuna concorrenza. Le banche commerciali non potevano muoversi oltre i confini dello stato, alcune addirittura non potevano aprire più di uno sportello, quindi anche per loro la concorrenza era scarsa: raccoglievano i depositi dei clienti e facevano prestiti alle famiglie e alle imprese dello stato. A pagare evidentemente erano i consumatori, famiglie e imprese: l'assenza di concorrenza rendeva i servizi delle banche molto costosi. Le banche erano anche fragili non solo a causa della loro dimensione lillipuziana (tranne qualcuna di New York): non potendo espandersi al di là di un singolo stato, erano particolarmente esposte al rischio di eventuali shock negativi nella regione in cui operavano. Per esempio, quando a metà anni ottanta il prezzo del petrolio crollò, in Texas - uno stato la cui economia vive soprattutto dell'industria petrolifera - ci fu una recessione. Poiché le banche texane facevano prestiti — 22 —

solo a clienti texani, quando questi si trovarono in difficoltà e cominciarono a non restituire i prestiti, tutte le casse di risparmio dello stato fallirono. Negli anni ottanta e novanta il mercato finanziario fu aperto: l'abrogazione del Glass-Steagall Act nel 1999 fece definitivamente cadere il divieto di spingersi oltre i confini dello stato e venne meno la separazione fra banche commerciali e banche di investimento. L'apertura del mercato fu in parte una scelta politica dell'amministrazione Reagan, in parte l'inevitabile risposta ai progressi della tecnologia. Innanzitutto la riduzione dei costi di comunicazione e la loro crescente rapidità consentiva alle banche di aggirare le barriere geografiche. Inoltre lo sviluppo di nuovi strumenti finanziari consentiva loro di diversificare il rischio senza bisogno di espandersi al di là della propria regione. La liberalizzazione ebbe diversi effetti positivi. Il mercato si concentrò: molte banche minuscole scomparvero e vennero acquistate da banche che ora potevano espandersi oltre il loro stato. Più grandi e meno esposte ai rischi li una particolare regione, le banche divennero presto più stabili. La liberalizzazione e la tecnologia, consentendo loro di diversificare il rischio, resero più solido, non più fragile, il mercato finanziario americano. Il risultato fu un'accelerazione della crescita, e questo avvenne per due motivi. Innanzitutto la frequenza e l'entità delle fluttuazioni dell'economia si attenuarono. Dagli anni cinquanta fino alla metà degli anni ottanta ogni quattro o cinque anni si assisteva a una recessione in cui il Pil americano scendeva tra l'I e il 2 per cento in un anno. Allora sembrava normale; oggi una recessione del genere sarebbe il segno di una crisi profonda. Studi sull'evoluzione del ciclo economico americano mostrano che questa maggior stabilità è anche il risultato di un sistema finanziario che funziona meglio.

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Inoltre la liberalizzazione dei mercati finanziari è uno dei fattori che spiega l'aumento della produttività negli Stati Uniti a cominciare dagli anni novanta. Per esempio, essa consentì a investitori audaci («barbari» li definirono Bryan Burrough e John Helyar in I barbari alle porte, Sperling & Kupfer 1991) di comprare aziende a debito, smontarle come i pezzi di un meccano e poi rivenderle lasciando che il mercato le rimontasse in modo più efficiente. Senza i leveraged buyouts degli anni ottanta — ovvero operazioni tramite le quali un imprenditore si indebita per acquistare un'azienda - i guadagni straordinari di produttività degli anni novanta non si sarebbero mai realizzati: tra i due decenni la crescita negli Stati Uniti accelerò di un punto, dal 3 al 4 per cento, mentre l'Europa continentale rallentava dal 2,5 al 2,2 per cento. Si trasformarono anche le banche di investimento: perduto il monopolio sulla compravendita di titoli e la comoda rendita delle commissioni fisse, dovettero inventarsi mestieri nuovi, come finanziare le aziende che sfruttavano internet. Fenomeni come Google o Yahoo difficilmente sarebbero nati senza le banche di investimento e i venture capitalists, che scommisero su queste aziende quando ancora non facevano alcun profitto. Banche fragili corrotte dalla politica Ciò che ha determinato la crisi del 2008 non è stata la liberalizzazione del mercato, né la tecnologia, ma una regolamentazione assente o sbagliata. Le regole, anzi che essere studiate per rendere più stabili i mercati, a un certo punto sono passate in mano a politici finanziati, e quindi influenzati, dalla lobby dell'industria finanziaria. E la Sec (Securities and Exchange Commission), l'agenzia alla quale il Congresso aveva assegnato la responsabilità di vigilare sul mercato - una sorta di Consob americana - non vigilò. Tutti i settori industriali fanno pressioni sui politici per ottenere normative fa— 24 —

vorevoli, non vi è nulla di nuovo o di particolare. Lo fa anche l'industria finanziaria, ma data la sua dimensione e il suo impatto sull'economia, nel suo caso le relazioni fra politici e regolatori possono avere effetti dirompenti sull'intero sistema. Un esempio chiarissimo dell'influenza dell'industria finanziaria americana sulla politica è rappresentato dalle regole che determinano quanto capitale proprio deve avere una banca per poter fare alcune operazioni finanziarie. Come abbiamo visto, quando le banche di investimento persero il monopolio sulla compravendita di titoli per i loro clienti, si resero conto che per guadagnare dovevano cambiare mestiere e che quello più redditizio era investire in proprio. Continuavano a vendere servizi ai loro clienti (assistenza alle aziende nelle operazioni sui mercati finanziari, assistenza agli stati nelle privatizzazioni e nel collocamento di titoli pubblici ecc.), ma i profitti venivano sempre più da quel settore della banca che si era trasformato in un fondo hedge, cioè che investiva in proprio. Questi investimenti sono tanto più redditizi quanto inferiore è il capitale che deve essere impiegato per farl i , cioè tanto più elevata è la leva finanziaria. Se per acquistare titoli non devo usare il capitale della banca, ma posso semplicemente indebitarmi a brevissimo termine, guadagnare è facile. Infatti, usare il capitale della banca è costoso perché gli azionisti pretendono rendimenti elevati; invece indebitarsi a breve termine costa poco, soprattutto se la banca centrale, come fece Alan Greenspan, governatore della Fed per oltre un decennio, tiene basso il costo del denaro. Se le cose vanno bene, un guadagno di 100 dollari su un capitale investito di 1 solo dollaro produce un rendimento straordinario. Ma quando le cose vanno male, se l'investimento perde più di 1 dollaro, significa essere nei — 25 —

guai perché la banca può non avere abbastanza capitale per assorbire la perdita. Questo è esattamente ciò che è successo in America. I rischi anzi erano ancora più alti perché le banche di investimento, diversamente da quelle commerciali, non potevano prendere a prestito liquidità dalla banca centrale: se le cose andavano male dovevano cavarsela da sole. Per quasi un ventennio, i mercati sono andati bene, le banche di investimento e i loro dipendenti hanno guadagnato cifre da capogiro e nessuna è fallita. Due leggi proposte all'inizio di questo decennio dal senatore repubblicano Phil Gramm - che negli anni è stato ricompensato dall'industria finanziaria con 4,6 milioni di dollari di contributi elettorali - furono determinanti nel consentire che le banche ricorressero con tanta audacia alla leva finanziaria: il Gramm-LeachBliley Act del 1999, che eliminò la separazione fra banche commerciali e banche di investimento, e assegnò molte responsabilità per la sorveglianza delle banche alla Sec, e una seconda legge che liberalizzò i prodotti derivati, consentendo che le banche investissero in derivati anche se non avevano un capitale sufficiente per assorbire eventuali perdite. La responsabilità però non fu solo del senatore Gramm: entrambe le leggi passarono con il voto favorevole di molti democratici e la prima fu firmata dal presidente Clinton. Da sei, sette anni a questa parte, il Comitato di Basilea e il Financial Stability Forum ripetono che le banche di investimento sono fragili perché hanno troppo poco capitale in rapporto ai rischi cui si sono esposte. Ma questi allarmi sono caduti nel vuoto o sono stati ignorati di proposito. Con il passare del tempo e con il silenzio della Sec, l'esempio delle banche si diffuse sul mercato. Altre istituzioni, come le compagnie di assicurazioni e anche Fannie Mae e Freddie Mac su cui torneremo, cominciarono a esporsi a grandi rischi con poco capitale, sperando che i prezzi continuassero a salire. Il mercato fi— 26 —

nanziario americano cominciò ad assomigliare a una piramide rovesciata: un volume incredibile di investimenti rischiosi si reggeva su un piedistallo di capitale troppo esiguo perché banche e altre istituzioni potessero sopravvivere a una caduta dei prezzi di mercato. Non è sorprendente quindi che quando il mercato ha smesso d i crescere si siano dimostrate istituzioni molto fragili; nel momento in cui il mercato immobiliare è crollato e i l valore dei mutui in cui avevano investito è sceso, hanno cominciato a perdere senza avere però capitale sufficiente per farvi fronte. La responsabilità di tutto questo, è bene non scordarlo, è di chi ha concesso di correre rischi così elevati con un capitale tanto scarso. Perché a un certo punto il mercato ha cambiato direzione, evidenziando la fragilità dei bilanci delle banche? Per capirlo dobbiamo partire da un dato: su uno stock di circa 26.000 miliardi di dollari di obbligazioni in circolazione negli Stati Uniti, un po' più della metà, circa 13.000 miliardi, sono mutui immobiliari. Di questi, circa 6.000 sono detenuti da istituzioni che hanno finanziato questo investimento indebitandosi. Poiché il valore di un mutuo dipende dal valore della casa che è stata acquistata grazie ad esso, si capisce perché i prezzi delle case siano tanto importanti nel mercato finanziario americano. Non tutti i mutui sono uguali. Una piccola parte, per un valore di circa 1.400 miliardi, cioè poco più del 10 per cento, sono stati concessi a famiglie che avevano una probabilità relativamente elevata di non riuscire a pagare le rate: si tratta dei famosi mutui subprime. Questi mutui non sono rimasti nelle banche che li avevano erogati ma sono stati venduti ad altri investitori: una metà, per un valore di 600 miliardi, è poi finita nei bilanci di banche che li hanno acquistati a leva, cioè indebitandosi. La perdita cui abbiamo accennato all'inizio è concentrata soprattutto qui. Risulta quindi chiaro come mai una perdita relati— 27 —

vamente piccola possa aver provocato un danno di queste proporzioni. Se 6.000 miliardi di mutui sono stati comparati con una leva di 30, il capitale è di soli 200 miliardi, troppo poco per assorbire una perdita di 600 miliardi. Ecco perché tante banche di investimento sono fallite.

mutui subprime, una scintilla nel fienile Un professore un po' burlone del Boston College, un'ottima università del Massachusetts, un giorno volle capire fino a che punto si era spinto il mercato dei mutui americani. Egli possedeva una casa che aveva comprato con i suoi soldi. Per questo era un cliente particolarmente attraente per chi vendeva mutui sulla casa anche a persone che, come lui, non ne avrebbero avuto bisogno. Accendendo un mutuo sulla sua casa infatti il professore avrebbe potuto per esempio comprarsi un'auto nuova o andare in vacanza. Non appena ricevuta la telefonata di un promotore finanziario che gli offriva un prestito a fronte del valore della sua casa rispose di essere molto interessato, ma di temere che la sua casa non valesse granché. Raccontò infatti di vivere in una miniera: la casa era confortevole e abbastanza grande, ma il sole raramente arrivava laggiù, e nei giorni di pioggia tornare a casa era complicato. Quante stanze? chiede il promotore. Sei e tre bagni. Ottimo, risponde il promotore, penso di poterle offrirle un prestito di 300.000 dollari a un tasso molto interessante. Il collega del Boston College, che non è nuovo a simili imprese e si diverte a registrare queste telefonate, ringrazia e chiede alcuni giorni per riflettere sull'interessante offerta. C'è un ultimo dettaglio, chiede il promotore, dovrei sapere che lavoro fa e quanto guadagna. Sono un piccolo — 28 —

imprenditore, fabbrico cerniere di ottone per le porte. Gli affari non vanno benissimo, il mese scorso ho venduto solo due cerniere, ma confido che le cose migliorino. Nelle settimane successive il promotore telefonò più volte all'incerto cliente, dicendo che le condizioni del mutuo forse sarebbero potute migliorare. Il collega lasciò cadere l'offerta, pago di aver collezionato alcune strabilianti registrazioni. Se ci fossero ancora dubbi sugli eccessi del mercato dei mutui americani, questo esempio documentato e registrato dovrebbe bastare a fugarli. Ci sono diverse spiegazioni del perché si sia arrivati a questi eccessi. Come abbiamo visto, la possibilità per le banche di diversificare il rischio vendendo i prestiti è una buona cosa, ma se la banca vende tutti i prestiti, poi non ha alcun incentivo a selezionare i clienti. Inoltre se una banca vende un prestito deve venderlo davvero. Quando è scoppiata la crisi si è scoperto che molti di questi contratti contenevano una clausola che obbligava la banca a riacquistare il prestito se le cose fossero andate male. Cioè molte banche si erano illuse di essersi protette dal rischio mentre in realtà erano rimaste esposte. Aumentare il numero di americani proprietari di casa era anche un obiettivo politico (per realizzare l'«american dream», come ha spesso ripetuto il presidente George Bush) e per raggiungerlo le banche sono state indotte a chiedere anticipi molto bassi. Durante l'amministrazione Clinton fu anche approvata una legge che obbligava le banche a destinare una certa percentuale di prestiti a cittadini poveri e a minoranze etniche. Non bisogna però dimenticare un punto importante. I mutui subprime hanno provocato gravi danni, ma hanno anche consentito a moltissime famiglie, soprattutto immigrati recenti che prima non avevano accesso al credito, di acquistare una casa. Comprare una casa — 29 —

significa entrare a far parte del tessuto sociale, integrarsi, e questo non può che essere positivo per una società come quella americana basata sulla progressiva assimilazione di ondate di immigrati. Come ben sappiamo, anche le società europee stanno affrontando problematiche relative all'immigrazione. In questo senso il mercato immobiliare possiede valenze che vanno ben al di là dell'economia pura e semplice. Essere proprietari di una casa significa diventare più sensibili al problema del crimine, dell'ordine e della pulizia del proprio quartiere, per esempio, significa cioè diventare cittadini attenti e non rimanere ai margini. Va detto poi che l'ipotetico inquilino della miniera non era assolutamente obbligato ad accettare il prestito, soprattutto a tassi variabili, sapendo che il reddito derivante dalla vendita di improbabili cerniere di ot-1 tone non sarebbe stato poi così alto. Insomma, la mancanza di educazione finanziaria ha fatto i suoi danni. Va anche ricordato che spesso queste case sono state comprate versando un anticipo bassissimo, talvolta addirittura senza alcun anticipo: perderle equivale a perdere molto poco, come mostra anche il sito www.youwalkaway.com, in cui si spiega come lasciare una casa semplicemente andandosene. Nel frattempo però si è vissuti in una casa gratis o al più pagando l'affitto alla banca sotto forma di mutuo. Questo non significa che non vi siano state molte situazioni drammatiche, ma spesso si dimentica che la perdita della casa azzera un grosso debito con la banca. Il danno psicologico è forte, ma a conti fatti, la perdita economica non è così grande. Vale la pena ripeterlo: il vero danno non è stato provocato dai mutui subprime che, data la loro entità, non avrebbero dovuto causare una crisi così colossale. Il problema è stata l'eccessiva leva finanziaria con la quale sono stati acquistati, ovvero la bassa capitalizzazione delle banche. La colpa più grave è dei regolatori e. dei — 30 —

politici che hanno permesso alle banche di investimento di operare senza il capitale sufficiente. II fiasco di Fannie Mae e Freddie Mac Per sostenere lo sviluppo del mercato immobiliare il governo americano garantiva la maggior parte dei mutui attraverso due istituzioni dal nome curioso, Fannie Mae e Freddie Mac, acronimi delle rispettive sigle. Questa non è una novità, accade dagli anni trenta ed è una delle ragioni per cui negli Stati Uniti la proprietà delle case si è diffusa tanto rapidamente con i benefici sociali di cui abbiamo parlato. Se però lo stato si accolla un rischio, deve essere anche consapevole degli effetti che questo comporta: la ragione per cui le banche concedevano prestiti con tanta facilità non consisteva solo nel poterli vendere sul mercato dopo poche ore, ma nella convinzione che, nell'eventualità di una crisi, sarebbero state protette dalla garanzia dello stato. Evidentemente il governo degli Stati Uniti riteneva che assumersi questo rischio fosse giustificato dal beneficio di un mercato immobiliare in rapidissima espansione. E fin qui nulla di male. Purtroppo però furono commessi due errori gravi. Il primo riguarda il modo in cui le due istituzioni vennero «privatizzate», cosa che accadde durante l'amministrazione Johnson negli anni sessanta: invece di controllarle direttamente, lo stato le abbandonò a manager che si comportarono come se gestissero istituzioni private combinando un mucchio di guai. Innanzitutto gestirono il bilancio delle aziende come se queste fossero fondi hedge, alzando la leva finanziaria fino a 25-30, cioè assumendosi enormi rischi. Poi si arricchirono con il consenso di buona parte dei politici di Washington. Le «amicizie» nel Congresso di Fannie Mae e Freddie Mac infatti erano proverbiali e servivano per far chiudere un occhio a chi avrebbe dovuto vigilare. Il secondo errore fu dimenticare che, nell'eventualità di — 31 —

una crisi, la garanzia offerta dalle due istituzioni avrebbe comportato un aumento del debito pubblico. Un'eventualità che non fu mai presa in considerazione; il Congresso si illuse che l'entità del debito pubblico fosse relativamente modesta; questo non lo incentivava particolarmente a controllare la spesa pubblica. Da questa vicenda l'Europa può imparare una lezione. Il vecchio continente è pieno di istituzioni simili a Fannie e Freddie: lo sono per esempio le Casse Depositi e Prestiti presenti in molti paesi, le cui quote di maggioranza sono di proprietà pubblica ma il cui bilancio non è consolidato nel bilancio dello stato. Ciò consente ai governi di usarle per finanziare spese (soprattutto investimenti in infrastrutture) senza influire sul bilancio dello stato. Le Casse si finanziano indebitandosi e costruiscono opere pubbliche. Finché tutto va bene, non ci sono problemi, ma quando un investimento va male - per esempio perché si è costruita un'opera pubblica per accontentare alcuni elettori e vincere le elezioni - la Cassa perde e la perdita finisce sul bilancio dello stato proprietario della Cassa. Alcuni politici europei che considerano il fallimento di Fannie Mae e Freddie Mac un esempio del «fallimento del capitalismo americano», sono gli stessi che poi propongono di usare le Casse Depositi e Prestiti per finanziare investimenti in infrastrutture, proprio perché in tal modo queste spese non peserebbero sul bilancio dello stato.

Le colpe delle agenzie di rating Un altro aspetto di questa vicenda, che in ultima analisi rappresenta una perdita di vista collettiva del rischio finanziario, riguarda le agenzie di rating. Alcuni investitori istituzionali, per esempio i fondi

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pensione, per regolamento potevano investire solo in attività finanziarie con un rating AAA (la tripla A è espressione della massima qualità creditizia). Immaginatevi quindi la pressione sulle agenzie di rating per essere generose. Questo ha portato a concedere troppi rating AAA, e di conseguenza gli investitori istituzionali non si sono più sentiti in dovere di esaminare il rischio legato a ciò che stavano comprando. Anche in questo caso, un regolamento dei mercati finanziari, che sulla carta dovrebbe indurre alla prudenza, sortisce l'effetto opposto. Non è facile regolare le agenzie di rating. Forse senza questi rating gli investitori avrebbero fatto più attenzione. Gli stipendi da favola dei banchieri Negli anni settanta i banchieri ricevevano uno stipendio fisso e il loro mestiere era considerato piuttosto noioso. Dopo la liberalizzazione gestire una banca diventò molto più complicato e per essere sicuri che i banchieri si impegnassero al meglio, gli azionisti cominciarono a remunerarli in funzione dei risultati raggiunti. Ma gli incentivi associati alla remunerazione dei banchieri non hanno funzionato. E interessante osservare come invece abbiano funzionato piuttosto bene gli incentivi dei gestori di fondi hedge, che spesso guadagnano anche più dei banchieri. La differenza rispetto ai manager delle banche è che i gestori dei fondi hedge possiedono una quota rilevante del fondo che gestiscono (per i fondi che lo dichiarano, non sono tutti, la media dell'investimento dei manager è il 16 per cento, una percentuale alta, considerando che questi fondi spesso sono molto grandi). Questo è uno dei motivi per cui, durante la crisi, i fondi hedge si sono comportati molto meglio delle banche: i casi di fallimento sono rari. Invece la retribuzione dei banchieri, essendo legata al rendimento di breve periodo, e spesso anche al — 33 —

rendimento di un particolare dipartimento della banca, non teneva conto del fatto che i rischi legati agli investimenti di quel dipartimento si potessero trasferire sulla banca nel suo complesso. Le colpe di Greenspan Dalla metà degli anni novanta in poi, la Federai Reserve di Alan Greenspan mantenne i tassi di interesse particolarmente bassi. Per continuare a guadagnare, gli investitori si spostarono verso strumenti finanziari più rischiosi proprio perché i rendimenti sui titoli sicuri erano scesi. L'aumento della domanda di titoli rischiosi ne ha fatto scendere i rendimenti. Come abbiamo visto questo è un fattore che ha indotto le banche ad alzare la leva finanziaria assumendosi più rischi. Greenspan si è anche sempre opposto a regolare i mutui subprime, in particolare ha sottovalutato il rischio che comportava concedere mutui con tasso di interesse variabile - in pratica mutui su cui non si paga nulla per i primi tre anni, ma poi le rate salgono vertiginosamente. E ciò, nonostante un altro membro del consiglio della Fed, Edward Gramlich, avesse messo in guardia i suoi colleghi (almeno stando a quanto riportò il Wall Street Journal'A 9 giugno 2007, prima che scoppiasse la crisi) contro i rischi che si stavano accumulando nei bilanci delle banche per effetto della vendita aggressiva di mutui subprime, e avesse chiesto che la Fed inviasse i suoi ispettori per controllare i contratti con i quali questi mutui venivano prima concessi e poi venduti ad altri investitori sul mercato. Alcuni politici e commentatori tendono ad avere la memoria corta. Qualche anno fa Greenspan era descritto come un eroe perché, tenendo così bassi i tassi di interesse, aveva fatto crescere l'economia americana. A confronto, dicevano molti politici europei, la Bce era una sciagura: mantenendo tassi eccessivamente elevati

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strozzava la crescita dell'area euro. I politici che allora osannavano Greenspan sono gli stessi che oggi predicano contro gli eccessi del mercato finanziario americano.

Profitti privati, perdite pubbliche Per ricapitolare, sono stati compiuti numerosi errori gravi, dai politici, dai regolatori, dagli operatori finanziari e anche dai cittadini, alcuni dei quali si sono indebitati troppo. I guai di oggi li dobbiamo all'insieme di questi fattori. E allora, è stato un errore salvare alcune banche private e Fannie e Freddie con il denaro pubblico? La domanda è lecita, soprattutto perché di salvataggi si parla tanto anche in Italia e perché non tutti sono buoni. Un pilastro dell'economia di mercato è il principio secondo cui chi sbaglia paga. Manager che fanno errori - o che semplicemente sono meno abili dei concorrenti - è giusto che perdano il posto; solo così si giustificano i loro stipendi stratosferici. E gli azionisti che hanno investito male è giusto che perdano: la Borsa non è una gallina dalle uova d'oro. Per le imprese inefficienti non c'è spazio sul mercato; devono far posto a chi sa produrre meglio e generare più reddito. E stato questo darwinismo economico a creare la ricchezza di cui tutti godiamo, dalla Rivoluzione industriale in poi. Certo, i fallimenti fanno perdere posti di lavoro e creano disoccupati: ma lo stato deve difendere i lavoratori, non i posti di lavoro. Ciò che è indispensabile (e che in Italia non esiste: chissà quando il sindacato si sveglierà e si impegnerà in questa battaglia!) è un'efficace assicurazione contro la disoccupazione, non la protezione di imprese che non riescono più a stare sul mercato. Difendendo i posti anziché i lavoratori si finisce per creare un problema infinitamente più costoso. Si — 35 —

preferisce mantenere in vita aziende in perdita, manager incapaci in un sistema da vecchio capitalismo di stato, spedendo poi il conto al contribuente. In un mondo ideale i salvataggi non esisterebbero, esisterebbero buone assicurazioni pubbliche. Tuttavia c'è salvataggio e salvataggio. Se fallisce un'impresa che produce automobili, poco male: i consumatori possono acquistare una marca diversa, i lavoratori sono protetti (almeno per un po' di tempo) dall'assicurazione pubblica e a perderci sono solo manager e azionisti, i responsabili del fallimento. Ma se un'istituzione finanziaria fallisse, potrebbe trainare con sé imprese perfettamente sane e dar luogo a un credit crunch ovvero a un crollo dell'offerta di credito. In un caso simile, un intervento dello stato (e della Banca centrale) è nell'interesse nazionale perché evita che gli effetti del fallimento vengano amplificati provocando una recessione. E appunto il rischio di un'amplificazione degli effetti del fallimento ciò che rende efficiente salvare una banca, ma non un'impresa automobilistica o una linea aerea. Ovviamente il rischio è quello di creare incentivi sbagliati: confidando nei salvataggi, le banche sviluppano la tendenza ad assumersi troppi rischi. Ecco perché ai salvataggi non si dovrebbe mai arrivare e se ci si arriva, significa che qualcosa è andato storto. Dopo il salvataggio di Fannie e Freddie, e il fallimento di Lehman Brothers (che ex post è probabilmente stato un errore non salvare), e visto che la crisi non accenna ad attenuarsi, anzi si aggrava di settimana in settimana, il Congresso degli Stati Uniti ha deciso di affrontare il problema alla radice intervenendo con un aiuto pubblico alle banche pari al 6 per cento del prodotto interno lordo. Questa «rete di protezione» verrà in parte usata per ricapitalizzare le banche, in parte per togliere dai loro bilanci un po' di mutui e sostituirli con titoli garantiti dallo stato, in parte per garantire i prestiti fra banche, un mercato che è scomparso perché — 36 —

è venuta meno la fiducia di una banca nell'altra. Si pensa anche di sussidiare in qualche modo le famiglie che si sono indebitate eccessivamente per comprare una casa, e lo hanno fatto a tassi variabili, prima molto bassi ma che poi sono saliti. Interventi di questo tipo sono stati introdotti in Italia e sicuramente aiuteranno, mentre negli Stati Uniti sono in discussione. Va ricordato che in tutti e tre i casi si tratta di interventi temporanei dello stato. Sia i sussidi alle famiglie indebitate, sia gli acquisti di titoli, sia la ricapitalizzazione delle banche sarebbero operazioni che utilizzerebbero denaro pubblico solo per un certo numero di anni allo scopo di far riprendere il regolare funzionamento dei mercati finanziari. Parte di questa spesa di denaro pubblico, se non tutta, potrebbe essere recuperata quando i mercati si calmeranno. Al momento (metà ottobre 2008) non è ancora chiaro se questo intervento straordinario riuscirà a porre fine alla crisi. E possibile che ne servano altri. Sono scelte necessarie ma tristi, giornate nere del capitalismo americano recente. Ma non si dica che la crisi finanziaria americana è imputabile all'assenza di regole, cioè a un eccesso di mercato; questa è un'altra delle favole che ci raccontano gli «statalisti» europei. E vero il contrario e lo ripetiamo: le colpe vanno attribuite a regole sbagliate, a politici influenzati dalle lobby, alle amicizie politiche di Fannie e Freddie, alle pressioni sulle agenzie di rating e ai loro errori. Un eccesso di cattiva politica, non un eccesso di mercato. Ma è vero anche che regole perfette non esistono e che crisi cicliche sono una delle caratteristiche del capitalismo. Il beneficio è una crescita più elevata. La crisi del 2007-8 costerà sì alcuni punti di Pil, ma è avvenuta dopo quindici anni di crescita ininterrotta, la più lunga nella storia degli Stati Uniti d'America. Un solo punto di crescita in più per un quindicennio significa guadagnare quasi 20 punti di Pil, più che sufficienti per compensare le perdite che provocherà questa crisi. E alla fine il — 37 —

salvataggio delle banche potrebbe anche essere un buon affare per i contribuenti. In Svezia all'inizio degli anni novanta tutte le banche fallirono. Lo stato le nazionalizzò e per salvarle spese una cifra simile: il 6 per cento del Pil. Ma dopo alcuni anni, quando il governo rivendette le banche a privati, incassò più o meno quanto aveva speso. E, come abbiamo detto, le migliori regole di cui l'Europa spesso si vanta quando pone sotto accusa gli Stati Uniti, non hanno impedito che le banche europee finissero nei guai. Né va dimenticato che il sistema finanziario americano negli ultimi quindici anni ha sostenuto un compito quasi immane: «riciclare» e gestire gli enormi flussi finanziari determinati dalla separazione tra risparmio (accumulato in Cina e altri paesi emergenti) e investimento finanziario sulla piazza americana. Se questo non fosse avvenuto, imprese come Google non sarebbero mai nate. Inoltre, nel momento in cui si è verificata la crisi di liquidità che ha colpito il mercato americano l'accumulo di risparmio asiatico è servito: i flussi non si sono prosciugati. Allora è stata la Cina a salvare il sistema finanziario americano? l'orse sarà questa la conclusione che trarremo quando la crisi si sarà risolta. Sbaglia anche chi pensa che sarebbe meglio tornare indietro, a un sistema finanziario non liberalizzato. Il vecchio mondo antico non era poi così ideale. Prima che nascesse il mercato dei prestiti bancari, quando le banche tenevano in bilancio i prestiti fino a scadenza e lontano dagli Stati Uniti d'America, le crisi bancarie sono state frequenti e molto costose: una caduta (cumulata) del 4 per cento del Pil e un aumento del deficit pubblico del 6,5 per cento del Pil in Svezia fra il 1991 e il 1994; una caduta del 3,2 per cento del Pil e un aumento del deficit del 5,4 per cento del Pil negli Stati Uniti negli anni ottanta, quando fallirono molte vecchie casse di risparmio; una caduta del 20 per cento del Pil e — 38 —

un aumento del deficit del 27,7 per cento del Pil in Giappone fra il 1992 e il 2000. Se ne deduce che le vecchie banche tradizionali come le conoscevamo fino alla metà degli anni novanta non erano poi tanto sicure. Oggi in Italia si tessono le lodi della politica che ha salvato la finanza «cattiva». Ma quanto è costata in passato ai contribuenti italiani l'interferenza della politica nelle «solide vecchie banche»? Un punto di Pil solo il salvataggio del Banco di Napoli negli anni novanta, e poi c'è stato il Banco di Sicilia, la Cassa di Risparmio della Calabria... E un po' presto per concludere che la vecchia finanza era migliore.

Idee buone e proposte pericolose Cominciamo da quanto abbiamo scritto nel paragrafo precedente: la crisi è certamente il risultato di cattive regole, corrotte da interessi particolari. Ma regole ideali, capaci di evitare qualunque crisi, non esistono. Esistono solo nella mente di burocrati che hanno una visione un po' semplicistica dei mercati. Se esistessero, non consentirebbero ai mercati di operare, perché capitalismo significa assumersi rischi; regole che rendono impossibile, o troppo costoso, assumersi rischi sarebbero la negazione del capitalismo, e potrebbero funzionare solo in un sistema sovietico, che non ha prodotto buoni risultati. Paradossalmente la crisi in corso è scoppiata mentre i regolatori sperimentavano nuovi sistemi, Basilea 2 e regole contabili che obbligano le banche a valutare i titoli che posseggono ai prezzi di mercato (il cosiddetto «mark-to-market»). Queste regole erano state pensate per rendere più solide le istituzioni finanziarie, e invece hanno finito per indebolirle. La prima cosa quindi è l'umiltà: accettare che regole perfette, capaci di eliminare le crisi non esistono e che ogni regola, come Basilea 2 e — 39 —

le nuove regole contabili, può rivelarsi controproducente. Fatta questa premessa non scontata (la maggior parte dei regolatori e molti politici non l'accetterebbero), vi sono certamente alcune iniziative che possono migliorare il sistema ed evitare che simili guai si ripetano. 1. Obbligare le banche a detenere più capitale. Ha cominciato a farlo lo stato ricapitalizzando le banche; prima o poi è necessario che allo stato si sostituiscano di nuovo privati là dove già non è avvenuto. In qualche modo la trasformazione dell'industria finanziaria innescata dalla crisi lo sta già facendo: la fine delle banche ili investimento e la loro trasformazione in banche commerciali fa sì che alcune operazioni che prima svolgevano e oggi non potranno più svolgere, si stiano spostando ai fondi hedge, i quali, pur non essendo regolati, sono più cauti perché, come abbiamo visto, i gestori ne possiedono quote rilevanti e sono motivati a fare attenzione. 2. Impedire che la diversificazione arrivi al punto che la banca perda ogni incentivo a controllare la qualità dei suoi prestiti. Il motivo per cui esistono le banche è proprio questo: essere incentivate a selezionare le imprese cui concedono i prestiti. Se l'incentivo viene meno, cade la ragione della loro esistenza: le imprese potrebbero finanziarsi rivolgendosi direttamente ai singoli risparmiatori. 3. Allineare gli incentivi dei manager (ovvero la loro remunerazione) ai rischi che fanno assumere alla banca. Cioè: se faccio assumere un rischio decennale, la mia remunerazione deve dipendere dai risultati della banca su un orizzonte decennale, non dai risultati del prossimo trimestre. Non è facile, ma si potrebbe pensare a regole fiscali capaci di allineare rischi e incentivi. Altre proposte sono semplicemente sbagliate: una X regolamentazione eccessiva che finisce per impedire al — 40 —

mercato di funzionare, l'errore in cui cascò Hoover. X Proibire le vendite di titoli allo scoperto e solo per alcune aziende: le vendite allo scoperto sono un modo per ridurre la possibilità che si creino bolle speculative, e la proibizione selettiva è un invito alla corruzione, cosa che sta già accadendo. Limitare per legge lo stipendio dei manager: così i migliori andranno via o sposteranno la sede della banca in paesi che non impongono questi limiti. Chiudere i mercati e quindi impedire che si formino i prezzi. I prezzi, per quanto volatili, contengono informazione importante. Ostacolare, come il presidente della Consob si è affrettato a proporre, le scalate ostili, che sono il mezzo attraverso il quale il mercato sostituisce manager e azionisti inefficienti con altri più efficienti. L'elenco delle proposte pericolose potrebbe essere molto lungo. Infine, per quanto riguarda l'Europa vi è un aspetto politico importante. Molte banche europee hanno dimensioni enormi rispetto al Pil del loro paese, come per esempio la banca Svizzera Ubs che ha attività pari a 4 volte il Pil della Svizzera. Quindi interventi di aiuti alle banche potrebbero non essere alla portata di un singolo paese. In ottobre l'Europa ha coordinato gli interventi di salvataggio delle banche e di garanzia dei prestiti fra banche, e questo è bene. Meglio sarebbe se in futuro eventuali salvataggi avvenissero attraverso un fondo europeo sovranazionale, anziché mediante interventi nazionali: questo infatti ridurrebbe il rischio che un singolo salvataggio sia troppo costoso per un singolo paese; ridurrebbe anche il rischio di interferenze politiche nazionali sulle banche ricapitalizzate con denaro pubblico.

u n po' di ottimismo Come abbiamo detto, le crisi sono una caratteristica endemica del capitalismo. Ma alla fine i benefici sono — 41 —

più dei costi: il benessere generato dal capitalismo è superiore a qualsiasi altro sia stato prodotto da sistemi diversi fin qui sperimentati. Nella storia degli Stati Uniti le crisi sono state ricorrenti: negli anni cinquanta, ai tempi dello Sputnik, la paura di essere superati dall'Urss, negli anni ottanta dai giapponesi; nel 1975 il Watergate e la sconfitta in Vietnam; nel 2002 lo scandalo di Enron, oggi lo smarrimento di un paese preoccupato per l'economia e per il valore delle proprie case. Ma ogni volta l'America reagisce, supera la crisi e ricomincia a crescere, ad attrarre le migliori intelligenze dal resto del mondo, a creare aziende che cambiano il mondo (abbiamo già ricordato Google che senza la bolla del Nasdaq probabilmente non esisterebbe). Ha osservato l’Economist nel luglio 2008: Così come il capitalismo americano favorisce il fallimento delle aziende decotte e la loro pronta sostituzione con imprese nuove, con altrettanta rapidità reagisce il sistema politico. In Europa i leader emergono a fatica e durano a lungo; negli Stati Uniti le primarie consentono a faville sorte quasi dal nulla di trasformarsi in men che non si dica in coscienza collettiva e talvolta in presidenti.

2. A cosa serve la finanza

La finanza è sotto assedio, accusata non solo di aver provocato la crisi economica più grave dagli anni trenta, ma anche di aver spinto alle stelle il prezzo delle materie — 42 —

prime e in particolare del petrolio, una fiammata durata peraltro poche settimane. In parte queste critiche sono giustificate: come abbiamo visto, la finanza e chi ha il compito di regolarla hanno commesso molti errori. Alcune autorità preposte alla sorveglianza dei mercati sono state «catturate» da interessi politici o dalle stesse istituzioni sulle quali dovevano vigilare, troppi operatori hanno assunto rischi eccessivi, spesso a causa di sistemi di remunerazione distorti o per troppo ottimismo. Ma accusare la finanza con slogan grossolani, predicando con evidente soddisfazione la fine del capitalismo finanziario, se non del capitalismo tout court, non è solo populista, è anche sbagliato e molto pericoloso. La finanza serve. Innanzitutto consente di trasformare le buone idee in imprese, posti di lavoro, occasioni di sviluppo e di crescita. Un tempo le banche finanziavano solo chi offriva garanzie reali, un giovane con una buona idea ma senza qualche bene al sole rimaneva a spasso. Basta visitare i sobborghi di Cambridge in Gran Bretagna o percorrere la strada 128 che circonda Boston, sede di Harvard e del Mit, o la Silicon Valley sorta accanto all'università di Stanford per rendersi conto di come la buona finanza abbia trasformato le idee nate nei laboratori delle università in brevetti e poi in imprese. Una delle ragioni per cui in Europa spesso c'è meno innovazione rispetto al mondo anglosassone è la presenza di un sistema finanziario fino a poco fa dominato da banche tradizionali meno adatte a finanziare le idee. Una seconda importante funzione della finanza è redistribuire il rischio, cioè evitare che il rischio rimanga concentrato in pochi individui o istituzioni. La finanza permette anche che ciascuno di noi si esponga al rischio a seconda delle proprie condizioni e delle proprie preferenze. Il risultato è che la buona finanza consente di investire e di crescere di più. Lo dimostrano — 43 —

numerose ricerche empiriche che rivelano come l'economia di un paese cresca in relazione allo sviluppo e al funzionamento del suo sistema finanziario. Mercati finanziari che funzionano bene non sono un buon affare solo per i ricchi: aiutano anche i più poveri, perché sono i poveri le persone più esposte alle fluttuazioni dell'economia. E la buona finanza stabilizza l'economia. Ci rendiamo conto che a questo punto nel lettore possa nascere qualche perplessità: ciò che è successo in questi mesi sembrerebbe contraddire quanto detto. Per questo ci preme chiarire alcuni punti fondamentali: perché la finanza aiuta i poveri; perché diversificare il rischio consente di crescere di più; perché la finanza consente di risolvere il problema politico che si pone quando un paese vuole evitare che le sue aziende siano «vendute allo straniero», ma allo stesso tempo non vuole subire il costo del possibile fallimento di un'azienda nazionale; perché la «speculazione» non è un diavolo, ma spesso aiuta proprio a evitare che il mercato sbandi e si sviluppino bolle speculative; infine perché per il buon funzionamento dei mercati finanziari - non servono solo trasparenza, buone regole, autorità che non dormono, o peggio, si fanno blandire da coloro sui quali dovrebbero vigilare, ma serve soprattutto una conoscenza finanziaria ili base da parte dei cittadini. Come vedremo, in Italia è scarsissima e, anziché tuonare contro la finanza, si potrebbe partire da qui.

La finanza aiuta anche ipoveri Pensate per un momento agli agricoltori nei paesi poveri del mondo, in Africa o in India. Questi agricoltori non riescono a risparmiare: vivono del raccolto dell'anno. Se il raccolto va bene, la loro famiglia ha cibo sufficiente, avanza anche un po' di denaro per far con— 44 —

tinuare a studiare i figli, e soprattutto può acquistare le sementi più adatte per preparare il raccolto dell'anno successivo. Se il raccolto va male, diventa un problema arrivare alla fine dell'anno. Ma si aggiunge un'aggravante: poiché il reddito di questi agricoltori è molto incerto, cioè fluttua da un anno all'altro, le banche non li finanziano perché li considerano (giustamente) clienti pericolosi. E così gli agricoltori raramente riescono ad acquistare sementi diverse, e se anche vi riuscissero, non riuscirebbero ad acquistare il fertilizzante, e così a un cattivo raccolto ne segue spesso uno peggiore, che li inchioda a una vera e propria «trappola di povertà». Per risolvere i loro problemi, questi agricoltori avrebbero bisogno di tre diversi «prodotti finanziari». Innanzitutto un'assicurazione contro le fluttuazioni nella produzione, dovute a eventi verificabili, come una pioggia torrenziale o una siccità. Poi un mercato a termine sul quale vendere al momento della semina una quantità certa (grazie all'assicurazione) e a un prezzo certo. A questo punto, conoscendo con sicurezza il reddito di cui disporranno al momento del raccolto, possono presentarsi alla banca locale e chiedere un finanziamento per acquistare la semente che ritengono più adatta. Questi tre strumenti finanziari (l'assicurazione, il mercato a termine e la banca) consentono all'agricoltore di separare il reddito di un anno da quello dell'anno precedente e quindi di evitare la «trappola della povertà». Gli agricoltori ricchi non hanno di questi problemi: possono contare sempre su un ampio credito, anche se la produzione e i prezzi sono incerti, perché la loro ricchezza è una garanzia sufficiente per la banca che fa loro credito per acquistare sementi e fertilizzanti. Per gli agricoltori ricchi assicurazioni e mercati a termine non sono essenziali. In India, fino al 1990 i mercati finanziari erano sostanzialmente proibiti. La liberalizzazione finanziaria, — 45 —

iniziata negli anni novanta, è stata uno dei fattori che ha contribuito alla crescita dell'India negli ultimi dieci, vent'anni.

benefici della diversificazione del rischio Per una famiglia comune, utilizzare strumenti finanziari che le consentano di diversificare il rischio è spesso mol-lo difficile. Per moltissime famiglie la casa rappresenta la quasi totalità della ricchezza di cui dispongono. Pensate a che cosa accade durante una recessione che colpisce in modo particolare la regione in cui una famiglia vive, per esempio una crisi del porto di Genova o dei mercati agricoli a Mantova. In simili frangenti, non solo il capofamiglia rischia di perdere il posto di lavoro, ma si riduce anche il valore della sua casa perché durante una recessione i prezzi delle abitazioni scendono. Se per superare il momento di difficoltà, il capofamiglia chiede un prestito alla banca, questa gli lesinerà il credito, sostenendo che il valore delle sue garanzie, cioè della sua casa, è sceso. Quindi, affinché la ricchezza di una famiglia possa funzionare come un'assicurazione che protegge il reddito durante una recessione, è necessario che non sia investita in beni il cui valore scende proprio durante la recessione. Questo però è esattamente ciò che succede alla casa. Quando il porto di Genova va male e il valore degli immobili a Genova scende, i lavoratori del porto dovrebbero possedere case non a Genova ma, per esempio, a Milano, dove invece l'economia va bene e il valore delle case tiene. Una soluzione sarebbe affittare la casa, anziché acquistarla. Ma non è necessariamente una buona soluzione. E vero che l'affitto non espone al rischio di fluttuazioni nel prezzo delle case, ma non consente neppure di investire in un bene che a lungo termine spesso si è rivelato un buon investimento. — 46 —

Inoltre possedere una casa dà una sicurezza alla quale molte famiglie non sono disposte a rinunciare. Nonostante il grande sviluppo dei mercati finanziari, non esistono ancora strumenti che consentano alle famiglie di diversificare il rischio concentrato nella propria casa. Il primo tentativo di aprire un mercato che permetta la diversificazione del rischio immobiliare è stato fatto da Robert J. Shiller, un economista dell'università di Yale, autore di libri di grande successo come Euforia irrazionale. Analisi dei boom di Borsa (il Mulino 2000). Shiller ha aperto un mercato online che consente di vendere la propria casa «a termine». Il ricavato può essere investito, per esempio, in un fondo immobiliare che possiede pacchetti di abitazioni localizzate in regioni o paesi diversi. Evidentemente questi mercati devono essere molto ben regolati: per una famiglia perdere la casa è molto più grave che perdere un po' dei propri risparmi investiti in Borsa. Ma il punto rimane: diversificare il rischio immobiliare consentirebbe di attenuare il costo di una recessione. Ecco un esempio di come un contratto finanziario relativamente sofisticato potrebbe aiutare persone comuni.

Finanza e confini politici Pensate ora al Cile. La gran parte del reddito nazionale cileno è legato a una singola attività economica: l'estrazione del rame. Non vi è dunque da sorprendersi se in Cile esiste una fortissima correlazione fra l'andamento del reddito nazionale e il prezzo del rame: quando il p rezzo del rame è alto i cileni sono ricchi, ma quando scende, diminuisce anche il loro reddito. Per stabilizzarlo occorre svincolarlo dalle fluttuazioni del prezzo del rame. Una soluzione sarebbe vendere una buona parte delle miniere cilene a stranieri e investire il ricavato nell'acquisto di aziende in altre parti del mondo: — 47 —

imprese elettroniche a Taiwan, o case automobilistiche tedesche, attività il cui valore non cambia quando il prezzo del rame oscilla. Ma questa soluzione si scontra con un potente ostacolo politico, perché il parlamento cileno si è sempre opposto alla vendita delle proprie miniere di rame a stranieri. Il risultato, anche in questo caso, è che la diversificazione non avviene e i cileni rimangono esposti alle fluttuazioni del prezzo del rame. E qui che la finanza può venire in soccorso consentendo di aggirare l'ostacolo politico. Per proteggere il reddito cileno dalle fluttuazioni del prezzo del rame non è necessario vendere le miniere: basta che il governo cileno, che le possiede, usi i mercati finanziari sottoscrivendo un contratto cosiddetto di «swap», cioè di scambio. Ecco come potrebbe funzionare. Il Cile continua a possedere le proprie miniere, ma sottoscrive un contratto, per esempio con grandi fondi pensione inglesi, che lo libera dal rischio di fluttuazioni nel prezzo del rame. Ogni anno il Cile paga al fondo pensione un rendimento che dipende da come va il prezzo del rame; in cambio riceve un rendimento che dipende, per esempio, dall'andamento della Borsa di New York. La proprietà delle miniere non cambia, ma il Cile si è protetto dalle fluttuazioni nel prezzo del rame. Contratti simili possono essere usati per diversificare anche i rischi delle banche, senza venderle. Dieci anni fa il governo di Lisbona cercò di bloccare l'acquisto da parte di una banca spagnola, Santander, di una banca portoghese, Champalimaud. Il governo portoghese sentenziò che il paese non poteva perdere le proprie banche, perché gli spagnoli avrebbero raccolto il risparmio delle famiglie di Lisbona e lo avrebbero impiegato per finanziare imprese spagnole. Anche qui la finanza aiuta: i prodotti derivati consentono infatti a una banca di diversificare i propri rischi «impacchettando» i prestiti che ha fatto e vendendoli. Per esempio la banca di Lisbona avrebbe potuto vendere i prestiti erogati alle — 48 —

famiglie portoghesi a investitori finlandesi e con il ricavato acquistare prestiti erogati da banche finlandesi. La proprietà nazionale delle banche è salva, ma anche i benefici della diversificazione (come abbiamo già visto, la diversificazione non deve arrivare al punto che la banca portoghese perda ogni incentivo a controllare la qualità dei suoi prestiti). Ricapitolando: diversificare il rischio è sempre una buona cosa, ma la diversificazione spesso si scontra contro potenti ostacoli politici. E qui che la finanza può aiutare: consente di diversificare il rischio senza perdere la proprietà delle risorse nazionali, come il rame cileno, o delle banche nazionali - se per qualche motivo un paese non intende venderle. Chi più dovrebbe sostenere i prodotti finanziari derivati sono proprio quei politici che non accettano che le aziende della nazione siano vendute allo straniero.

L’ importanza dell'educazione finanziaria Abbiamo più volte sottolineato che le cose funzionano quando in campo c'è la «buona» finanza. I prodotti finanziari sono spesso complessi e non è facile per le famiglie, oltre che per molte imprese - che pure trarrebbero un gran beneficio dalla diversificazione - capire che cosa acquistano. Una buona regolamentazione deve innanzitutto imporre trasparenza, ma la trasparenza serve se gli investitori hanno una solida conoscenza di base dei principi che regolano gli investimenti. L'educazione finanziaria è molto scarsa sia in Italia sia nel resto d'Europa sia negli Stati Uniti. Uno studio di Tito Boeri e Luigi Zingales rivela che più della metà degli italiani non conosce la differenza tra un'obbligazione e un'azione. Più della metà crede che sia meno rischioso investire in un solo titolo invece che in un fondo comune, e la maggior parte ignora che cosa sia — 49 —

un tasso di interesse composto. Come evidenzia la ricerca di Annamaria Lusardi, problemi simili esistono anche negli Stati Uniti e in Danimarca, paese con un tasso di istruzione elevato. Una maggiore informazione è fondamentale, e un investimento pubblico in questa direzione, a cominciare dalle scuole, ma non solo, sarebbe assolutamente necessario. Infatti, chi è più soggetto ai rischi che derivano da una scarsa informazione sono i meno ricchi, coloro per i quali un cattivo investimento può essere fatale. Per capire come muoversi molte volte gli italiani si ! rivolgono alla loro banca; spesso purtroppo i consigli che ricevono non sono adeguati o, nei casi peggiori, sono orientati unicamente verso l'interesse della banca. Non dimentichiamo quando le banche italiane invogliavano ad acquistare titoli Cirio e Parmalat pochi mesi prima del loro tracollo. Lo stesso è accaduto per i titoli argentini. Vietare la speculazione? Da qualche tempo a questa parte non si parla d'altro che di «speculatori», ma chi siano e che cosa facciano è spesso piuttosto oscuro. Chiaramente sono i cattivi: nell'opinione comune il loro nome ha una decisa connotazione negativa. Ma chi è uno speculatore? Il cittadino che compra titoli in Borsa - direttamente o indirettamente attraverso un fondo comune - in base alle sue aspettative sull'andamento della Borsa è uno speculatore? Tutti (o quasi) direbbero di no. Ma allora che differenza c'è tra il cittadino investitore (il buono) e lo speculatore (il cattivo)? La domanda non ha una risposta facile, se non vogliamo accontentarci di slogan un po' moralistici sulla sete di denaro. Una categoria particolare di «speculatori cattivi» comprenderebbe coloro che vendono «allo scoperto», cioè senza possedere i titoli che vendono e contando di — 50 —

acquistarli un minuto prima della consegna a un prezzo più basso. Vietare le vendite allo scoperto renderebbe i mercati più instabili, non più stabili. Pensate a ciò che accade quando gli investitori, come talvolta succede, si invaghiscono di un'azienda o di un prodotto o di un paese e cominciano a investire in modo irrazionale, acquistando azioni di quell'azienda o di quel paese senza chiedersi - anche quando il prezzo ha raggiunto livelli insensati - se continuino a riflettere realistiche prospettive di guadagno. Spesso i soli investitori che riportano un po' di ragionevolezza in quei mercati sono proprio i cosiddetti speculatori: vendendo allo scoperto dimostrano che, a differenza della maggioranza, c'è chi pensa che quei prezzi folli non dureranno a lungo. Svolgono quindi un ruolo importante, quello di ridurre la possibilità che si sviluppino bolle ingiustificate. Se si proibiscono vendite allo scoperto - come è accaduto nell'ottobre del 2008 in molti paesi tra cui l'Italia nell'illusione che questo serva a stabilizzare i mercati, si finisce per ottenere l'effetto opposto, cioè introdurre più volatilità nei prezzi.

L'aumento del prezzo del petrolio: colpa della speculazione? Un'altra accusa che si muove alla finanza è di aver spinto alle stelle, peraltro solo per qualche settimana, il prezzo di molte materie prime. Per comprendere se si tratti di un'accusa fondata, dobbiamo stabilire che cosa determina il prezzo delle materie prime. Lo faremo con l'esempio di cui si è più discusso, vale a dire quello del petrolio. > Che cosa determina il prezzo del petrolio? Innanzitutto la quantità estratta e cioè le decisioni dei produttori e in particolare del loro cartello, l'Opec (l'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio). Certo, se — 51 —

ci fosse più concorrenza nell'offerta, sarebbe tanto di guadagnato, ma così non è. Se l'Opec decide di tagliare la produzione, si crea un eccesso di domanda e il prezzo sale. La politica dell'Opec è probabilmente ciò che più condiziona il ciclo del petrolio. Tenendo conto dell'inflazione, e cioè misurandolo con i prezzi attuali, il petrolio fino al 1973 costava 20 dollari il barile. Nel 1973, dopo la guerra del Kippur, balzò a 50 dollari e nel 1979 fece un altro salto arrivando a 100 dollari. Da allora scese senza interruzione: nel 1986 un barile era tornato a costare 20 dollari e nei vent'anni successivi, fino al 2005, oscillò tra i 20 e i 30 dollari. Perché negli anni settanta l'Opec abbia spinto in su i prezzi è comprensibile: il cambiamento dei rapporti di forza in Medioriente sfociato nel conflitto tra Israele e i paesi arabi. Perché poi abbia consentito che per vent'anni rimanessero tanto bassi rimane (almeno per noi) un mistero. Ma il punto è che oggi siamo tornati a un livello in qualche modo normale. Sulle decisioni dell'Opec influiscono certamente le stime di quanto petrolio si potrà estrarre nei prossimi mesi o anni. Fino a poco tempo fa vi era un diffuso ottimismo sulla rapidità con la quale la produzione sarebbe potuta aumentare. A 140 dollari il barile diventa conveniente estrarre anche petrolio che a 70 dollari viene lasciato sotto terra perché estrarlo è troppo costoso. Ma aumentare la produzione prende tempo: il petrolio che diviene via via più conveniente estrarre richiede che siano scavati nuovi pozzi e allungati oleodotti, talvolta in zone pericolose. Un esempio sono i giacimenti del Kazakistan, forse i più ricchi al mondo: la data in cui si prevede potranno cominciare a produrre viene rinviata di continuo, non perché non siano convenienti, ma perché metterli in produzione si è rivelato molto più complicato del previsto - a cominciare dalle trattative con il governo del Kazakistan che a metà strada ha cambiato il contratto che aveva firmato con le imprese impegnate — 52 —

nell'estrazione. A 200 dollari il barile diverrebbe conveniente anche trivellare il Polo Nord - ammesso che decidessimo di farlo, e non pensiamo sia una buona idea - ma di qui al giorno in cui quei pozzi sarebbero attivi trascorrerebbero molti anni, forse decenni. Poco prima dell'estate 2008, quando il prezzo salì a 145 dollari, è successo che i pozzi messicani di Cantarell, uno dei più grandi giacimenti di greggio al mondo, hanno ridotto inaspettatamente la produzione del 36 per cento perché il giacimento, attivo dagli anni settanta, si sta esaurendo e il governo messicano ha probabilmente deciso di farlo durare più a lungo, almeno fin quando non entreranno in produzione altri pozzi. L'aumento improvviso del prezzo è dunque dipeso anche da una serie di notizie negative sull'offerta - incluse le preoccupazioni che si erano diffuse nell'estate 2008 sulla possibilità di una guerra fra Israele e Iran. E poi c'è la domanda. Una prova convincente che il prezzo sia mosso dalla domanda è arrivata nell'agosto del 2008: non appena sono usciti i primi dati sull'aggravamento della crisi finanziaria e sulle prospettive negative di crescita mondiale, il prezzo è sceso. In definitiva, se si vuole comprendere che cosa determini il prezzo del petrolio, è meglio cercare di capire quello che succederà alla domanda e all'offerta, piuttosto che prendersela con la finanza e gli speculatori. Eppure, non appena il prezzo del petrolio sale, i politici, non solo in Italia, anche nel Congresso degli Stati Uniti, accusano la speculazione. Ripetono che a muovere il prezzo sono gli speculatori che operano sul mercato a termine, ovvero coloro che acquistano e vendono contratti che prevedono la consegna di una data quantità di petrolio fra tre o sei mesi. E sulla base di questa convinzione propongono leggi che proibiscono acquisti e vendite su questi mercati. Non è la prima volta che la politica interviene erroneamente per impedire simili operazioni. Nell'estate del — 53 —

1958 negli Stati Uniti il prezzo delle cipolle salì da 50 a 300 dollari per un sacco di 23 chili. Interrogato da una commissione del Congresso, Everette Harris, presidente del Chicago Mercantile Exchange (Cme), disse che chiudere il mercato a termine per le cipolle era come rompere il termometro sperando che servisse ad abbassare la febbre. Non servì a nulla. In agosto il Congresso varò una legge che proibiva gli scambi a termine sulle cipolle. Il prezzo rimase elevato. Non solo, ma la volatilità dei prezzi aumentò, segno che forse i mercati a termine un ruolo positivo lo svolgono. Il prezzo scese solo l'anno successivo, quando gli effetti della gelata, che evidentemente era la ragione degli straordinari aumenti, scomparvero. Chi opera sui mercati a termine fa una scommessa, non influenza né la domanda né l'offerta,di petrolio. Ogni contratto «future» è costituito da due parti: chi scommette che il prezzo salirà e chi scommette che scenderà. Quando, come nell'estate scorsa, il prezzo saliva, c'erano investitori («lunghi») che prevedevano che questo trend sarebbe continuato e il prezzo sarebbe arrivato a 200 dollari; e investitori («corti») che prevedevano (e hanno avuto ragione) che il prezzo sarebbe ritornato sotto i 100. I prezzi sul mercato a termine sono determinati da queste due forze che si compensano stabilendo il prezzo di equilibrio. Ma questi speculatori non corrono mai il rischio di dover ricevere una partita di petrolio, o di doverla effettivamente consegnare: vendono i contratti prima della loro scadenza. Quindi non possono avere alcun effetto sulla domanda né sull'offerta. Pensare che chi acquista posizioni «lunghe» aumenti la domanda di petrolio è sbagliato, così come lo è pensare che chi acquista posizioni «corte» ne faccia salire l'offerta. Certo, ci potrebbero essere speculatori che influenzano la domanda accumulando grandi quantità di petrolio nella speranza che il prezzo salga. Cisterne piene — 54 —

di petrolio parcheggiate nell'oceano. Ma i dati a disposizione non lo indicano: se mai, nei mesi in cui il prezzo del petrolio sfiorava i 140 dollari, le scorte diminuivano, non aumentavano. Pensare che la speculazione sui mercati a termine determini il prezzo delle materie prime è come pensare che scommettere sui cavalli possa determinare il risultato della gara. Scommettere sui cavalli è lecito, anche se forse sconsigliabile. Chi scommette sui cavalli si ritiene un profondo conoscitore delle razze, della bravura dei fantini - e proprio per questo motivo solitamente perde molti soldi. Ma nessun giocatore è così matto da pensare che la sua scommessa possa influire sul risultato della gara, cioè che puntando su Varenne si possano migliorare le chances che Varenne vinca la corsa. Eppure è proprio quel che pensa chi ritiene che la speculazione sul mercato a termine del petrolio sia la ragione per cui il prezzo è andato alle stelle. Perché allora è tanto comune incolpare la speculazione? Una spiegazione si può rintracciare nel fatto che a muovere i prezzi sui mercati a termine sono gli stessi fattori che muovono i prezzi correnti: le previsioni circa la domanda e l'offerta di petrolio. Il fatto che i due prezzi, quello corrente e quello a termine, si muovano insieme può trarre in errore: qualcuno interpreta questa correlazione come se i mercati a termine determinassero i prezzi correnti. Ma potrebbe anche valere l'interpretazione opposta. La realtà è che i due prezzi si muovono insieme perché entrambi reagiscono alle medesime informazioni: fenomeni reali, come domanda e offerta, non fenomeni finanziari. Per verificarlo, alcuni ricercatori della Commodity Futures Trading Commission hanno effettuato un test statistico sull'ipotesi che i flussi di investimenti nel mercato a termine del petrolio influenzino il prezzo spot. Utilizzando dati sulle posizioni giornaliere di operatori commerciali e finanziari, questi test (test di Gran-ger) — 55 —

non individuano alcuna relazione di causalità tra flussi e prezzi. Risultati confermati anche da ricercatori indipendenti. Perfino il Nobel Paul Krugman, attento critico del liberismo, si è pronunciato contro l'ipotesi che il prezzo del petrolio sia stato manipolato da speculatori invece che da domanda e offerta. Un'ultima osservazione. Nei mesi scorsi tutte le materie prime sono aumentate, sia quelle che possono essere scambiate su mercati a termine, sia quelle che non lo sono. Anzi, in alcuni casi il prezzo di minerali che non sono trattati al mercato a termine di Chicago, per esempio ferrocromo e cobalto, è aumentato più del prezzo del petrolio. La verità è che molti politici non sanno come funziona un mercato a termine né come possa essere utile. Armati della loro ignoranza, cercano di tranquillizzare gli elettori accusando gli speculatori: è molto più facile che tentare di ridurre la domanda o, per esempio, adottare provvedimenti che inducano i cittadini a consumare meno energia.

Eliminare le «bolle speculative»? L'opinione comune è che le bolle speculative, cioè aumenti apparentemente non giustificati di un prezzo, siano fenomeni da evitare. In generale questo è vero. Abbiamo visto che se l'obiettivo è eliminarle, chiudere i mercati a termine e impedire le vendite allo scoperto non è una buona idea. Ma è proprio vero che tutte le bolle sono fenomeni irrazionali da impedire? Non necessariamente. In realtà alcune possono avere effetti positivi, come già aveva notato Keynes nel 1931 analizzando la bolla azionaria che era poi esplosa nel '29: «gli ampi investimenti negli anni fra il 1925 e il 1929 erano certamente l'effetto di un eccesso di ottimismo, ma ebbero anche effetti positivi». — 56 —

Una bolla azionaria può avere effetti positivi per esempio perché attira, verso le imprese quotate, una gran quantità di capitali e questo consente loro di investire, soprattutto in ricerca e sviluppo. Un esempio recente è la cosiddetta «bolla di internet», che si creò a partire dalla metà degli anni ottanta e scoppiò nella primavera del 2001. E vero che esplose perché la crescita stratosferica dei valori di alcune aziende - anche di quelle che non avevano mai chiuso un bilancio senza perdite - era del tutto ingiustificata. Ma fu proprio l'enorme afflusso di risparmio verso le cosiddette che consentì a internet di svilupparsi e di cambiare il mondo. Senza questa bolla, internet si sarebbe sviluppato molto più lentamente e, anche se molti investitori persero una parte dei loro risparmi, il mondo era cambiato in modo ormai irreversibile. 4.I vantaggi della globalizzazione

La globalizzazione, ovvero la forte crescita del commercio internazionale, è stata condannata in due tribunali. Quello dei no global di estrema sinistra, che la accusa di creare povertà nei paesi in via di sviluppo a vantaggio dei paesi ricchi. E quello dei no global conservatori, cioè di qualche leader europeo come Nicolas Sarkozy e alcuni politici americani, che la accusa di avvantaggiare i paesi in via di sviluppo (Cina in testa a tut-

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ti) a scapito dei paesi ricchi. Gli argomenti di cui si avvalgono i due tribunali sono simmetrici. I primi puntano il dito contro le condizioni di lavoro nei paesi in via di sviluppo: «Facciamo lavorare i bambini del Bangladesh, affinché i nostri possano giocare con palloni a buon mercato». I secondi giudicano lo stesso fenomeno - cioè il fatto che la globalizzazione abbassi i prezzi in maniera opposta: «I beni importati dai paesi in via di sviluppo costano poco e quindi spiazzano le nostre imprese e fanno sparire posti di lavoro». Quando un imputato è accusato di una cosa e del suo contrario, spesso è innocente.

Che cos'è la globalizzazione Il termine abusato «globalizzazione» sta perdendo nel linguaggio comune il suo significato preciso. Cominciamo dunque con il chiarirlo. Per globalizzazione intendiamo l'integrazione economica basata su una progressiva liberalizzazione del commercio internazionale di beni e servizi, attività finanziarie, capitale e lavoro. Ci concentriamo in particolare sul commercio internazionale, forse il cardine della globalizzazione stessa. Diversamente dagli anni trenta, quando singoli paesi potevano arbitrariamente imporre dazi e tariffe, oggi fortunatamente esistono organizzazioni sovranazionali che hanno il potere di impedire ai singoli paesi di abbandonare il libero scambio. Una è l'Organizzazione mondiale del commercio (il Wto, World Trade Organization). Nel 2003, per esempio, gli Stati Uniti imposero un dazio sulle importazioni d'acciaio che colpiva in particolar modo i produttori europei. Il Wto si oppose e dopo pochi mesi gli Stati Uniti furono costretti a cancellarlo. Un'altra organizzazione che difende il commercio

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internazionale è l'Unione europea, al cui interno imporre dazi e tariffe non è possibile. La punizione sarebbe severissima: l'espulsione dall'Unione. Ma vi sono modi più subdoli e altrettanto efficaci per proteggere le proprie produzioni a danno dei concorrenti di altri paesi. Per esempio, salvare dal fallimento o sussidiare imprese nazionali poco produttive significa impedire che imprese estere con costi inferiori possano fornirci servizi più economici e spesso di miglior qualità. E una strategia che abbiamo visto applicata in molti settori, da quello industriale a quello bancario a quello del trasporto aereo. Si chiama protezionismo perché avvantaggia i produttori nazionali contro quelli esteri a danno dei consumatori, ma soprattutto, come accadde negli anni trenta, induce altri paesi a rispondere con misure analoghe, a svantaggio delle nostre imprese in un gioco a somma negativa in cui tutti perdono. Il rischio maggiore di questo periodo di difficoltà dell'economia mondiale è proprio questo: una risposta protezionistica, un rimedio peggiore del male. Per comprendere il dibattito in corso sulla globalizzazione, sono d'aiuto la storia, la teoria economica e l'analisi della situazione attuale. Cominciamo da quello che insegna la storia.

La prima globalizzazione e la sua fine Quella di oggi non è la prima, ma la seconda grande fase di globalizzazione. La prima cominciò all'inizio del XIX secolo, dopo che il Congresso di Vienna aveva ristabilito un equilibrio pacifico nell'Europa post napoleonica. Innovazioni tecnologiche che abbatterono i costi di comunicazione fra paesi e continenti diversi, come l'invenzione del telegrafo e la caduta dei noli marittimi, furono alcuni dei fattori che innescarono la prima globalizzazione. L'impatto che l'apertura delle fron— 59 —

tiere economiche e una fortissima riduzione dei costi di trasporto delle merci esercitarono allora è paragonabile a quello cui abbiamo assistito nella seconda metà del XX secolo. Un dato per tutti: nel 1870 gli investimenti internazionali erano il 7 per cento del Pil mondiale, salirono al 20 per cento nel 1912, valore mai più raggiunto fino al 1980. Questa prima globalizzazione contribuì a un balzo enorme del livello di reddito mondiale, non per nulla l'inizio del XX secolo è ricordato come la Belle epoque. Tra il 1820 e il 1913 l'Europa occidentale triplicò il livello di reddito prò capite, l'America Latina lo raddoppiò e gli Stati Uniti quasi lo quintuplicarono. E vero che aumentò anche la disuguaglianza tra paesi ricchi e meno ricchi, i primi produttori di beni industriali e i secondi produttori di materie prime. Nello stesso periodo, infatti, il reddito prò capite africano si stima sia aumentato «solo» del 50 per cento. La prima globalizzazione terminò bruscamente poco dopo la Prima guerra mondiale. Come ogni conflitto, la guerra prosciugò i canali del commercio internazionale; il costo di questa decommercializzazione fu enorme per i paesi belligeranti e si aggiunse al costo della devastazione bellica. La combinazione di protezionismo postbellico, errori di politica monetaria e fiscale, instabilità politica confluirono nella crisi del 1929 che segnò l'inizio della Grande depressione di cui tanto si parla oggi (spesso a sproposito, come abbiamo avuto modo di spiegare). La crisi del '29 non si sarebbe trasformata nella Grande depressione se i paesi avanzati non si fossero chiusi nel protezionismo. La famigerata tariffa Smoot-Hawley, introdotta nel 1930 dagli Stati Uniti, segnò l'inizio di una chiusura commerciale globale che fece precipitare l'economia nella sua crisi peggiore dalla nascita del capitalismo. / La riduzione delle importazioni di un paese che adottava misure protezionistiche faceva — 60 —

crollare le espor-: tazioni di un altro, il quale rispondeva proteggendosi, 1 innescando così un circolo vizioso catastrofico. La Germania nazista, poi, vedeva nell'autosufficienza economica - ovvero la versione estrema del protezionismo -una condizione necessaria per preparare la propria azione bellica; un esempio del rapporto fra protezionismo e militarismo, su cui ritorneremo.

La seconda globalizzazione e i suoi accusatori Alla fine della Seconda guerra mondiale non era affatto scontato che il mondo si avviasse verso una seconda globalizzazione. Anzi. Il blocco sovietico si chiudeva al resto del mondo, così fece la Cina dopo la rivoluzione di Mao e l'America Latina scelse negli anni cinquanta politiche protezionistiche - che poi si rivelarono fatalmente errate - per difendere industrie nascenti. Dal punto di vista economico, i paesi asiatici rimanevano relativamente isolati e poveri. Solo i paesi industriali occidentali si orientarono presto verso la liberalizzazione del commercio, riducendo le tariffe e le altre misure di protezione. Con il Piano Marshall del 1947, il programma di aiuti per l'Europa, gli Stati Uniti non solo favorirono il recupero, ma indussero anche la cooperazione tra le economie europee evitando di ripetere gli errori del primo dopoguerra. Dal Trattato di Roma del 1957 in poi, i paesi dell'Europa occidentale intrapresero un lungo cammino di cooperazione e apertura economica che è sfociato oggi in un'Unione europea con ventisette paesi membri. I politici che negli anni cinquanta lavorarono per la creazione delle prime istituzioni europee sovranazio-nali (in particolare Schuman, Adenauer e De Gaspe-ri) avevano ben presente l'esperienza degli anni trenta. — 61 —

Erano convinti che inflazione e crisi del sistema di libero scambio fossero stati responsabili della crisi delle democrazie europee e della nascita di regimi autoritari nel periodo fra le due guerre. Ritenevano quindi che uno dei compiti principali delle nuove istituzioni sarebbe stato quello di mantenere aperte le vie del commercio internazionale. Fu una scelta lungimirante che evitò gli errori del periodo interbellico, dall'atteggiamento punitivo verso la Germania alle guerre commerciali tra le potenze vincitrici. In un certo senso il lungo cammino verso la moneta unica fu uno strumento per favorire l'integrazione economica e, attraverso la stabilità del cambio, un commercio internazionale più facile. Fino agli anni ottanta la globalizzazione è stata un fenomeno che ha coinvolto solo i paesi industriali, mentre la stragrande maggioranza della popolazione mondiale ne era esclusa. Da circa vent'anni a questa parte, invece, i paesi in via di sviluppo hanno fatto il loro ingresso nella rete del libero scambio internazionale. La partecipazione dei paesi più poveri e dei paesi ex comunisti (di diritto, come i paesi dell'ex blocco sovietico, o di fatto, come la Cina) sono stati shock enormi per la struttura del commercio internazionale e hanno scatenato reazioni no global.

I tribunali no global Come in tutti i periodi di grande trasformazione, la tentazione è quella di vedere nel nuovo una minaccia. L'avversione al rischio talvolta prevale a svantaggio di tutti i fattori positivi che il nuovo può riservarci e la paura offusca la visione delle opportunità che la globalizzazione offre. A questo atteggiamento concorre anche un fattore demografico: i giovani tendono a essere più aperti al nuovo, non hanno ancora una pro— 62 —

fessionalità strutturata, sono pronti a cambiare città, paese, mestiere, a adattarsi. Chi è meno giovane fa più fatica. In un paese che invecchia, la globalizzazione è vista come qualcosa che sovverte l'ordine tradizionale delle cose e viene accusata di molti mali, sia dai no global di sinistra sia da quelli di destra. Cominciamo dalle accuse del tribunale della sinistra, secondo cui la globalizzazione sarebbe un male per i poveri del mondo. Qualche fatto. A parte le centinaia e centinaia di milioni di cinesi e indiani che la globalizzazione ha fatto uscire dalla povertà e denutrizione, dal 1990 in poi la povertà si è ridotta praticamente in tutte le parti del mondo. Oltre all'Asia, anche Africa e America Latina sono cresciute molto di più in questi due decenni. Il tasso di crescita in America Latina per esempio è stato negativo negli anni ottanta, mentre dal 1990 a oggi questa parte del mondo ha raddoppiato la sua quota di commercio internazionale e il reddito pro capite si mantiene in crescita di un buon 1,6 punti all'anno, una crescita naturale considerando il rapido aumento della popolazione in questa regione. In vent'anni ciò significa un aumento del livello di reddito pro capite del 40 per cento circa. Negli anni settanta il Messico era un paese povero, ma grazie all'apertura al commercio internazionale e alle liberalizzazioni, è ora un paese Ocse. Anche l'Africa subsahariana ha avuto una crescita zero negli anni ottanta, mentre dal 1990 al 2004 il reddito pro capite è salito e dal 2000 cresce a un ritmo superiore all'I per cento annuo. Alcuni paesi africani come la Tanzania e l'Uganda stanno sperimentando tassi di crescita non lontani da quelli cinesi. Il numero delle persone che vivono in condizioni di estrema povertà, cioè con meno di un dollaro al giorno di reddito, è sceso dal 17 per cento della popolazione mondiale nel 1970 al 6,7 per cento alla fine del millennio. Nello stesso periodo la percentuale di persone che vivono con meno di due dollari al giorno si — 63 —

è dimezzata. Certo, tutti desidereremmo che la povertà si riducesse ancora più in fretta, ma è falso sostenere che la globalizzazione l'abbia aumentata. E nei casi in cui non ha funzionato è stato a causa di governi corrotti o incompetenti, cioè per colpa della politica. Per una descrizione agghiacciante degli errori commessi nelle politiche per lo sviluppo in alcuni paesi, soprattutto africani, rimandiamo al bel libro di William Easterly, I disastri dell'uomo bianco (Bruno Mondadori 2007). " Un'altra accusa che i tribunali no global di sinistra muovono alla globalizzazione è che essa avrebbe aumentato il divario tra i ricchi e i poveri del mondo. Ovvero: forse i poveri sono diventati un po' meno poveri, ma i ricchi si sono arricchiti più in fretta. Neanche questo è vero. In un saggio pubblicato sul prestigioso Quarterly Journal of Economics, Xavier Sala-i-Martin, della Columbia University, ha dimostrato che il reddito dei poveri di tutto il mondo sta crescendo più del reddito dei ricchi e che la globalizzazione sta riducendo la disuguaglianza fra i paesi del mondo. In altre parole, se guardiamo all'umanità nel suo insieme la disuguaglianza è scesa. Si dice inoltre che la globalizzazione abbia fatto aumentare la disuguaglianza all'interno dei paesi ricchi.

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La crisi

Se a livello mondiale la disuguaglianza è diminuita perché molti paesi poveri stanno uscendo dalla povertà, all'interno di alcuni paesi ricchi aumenta. Che in alcuni paesi Ocse, Stati Uniti in testa - non sembra il caso dell'Italia - questo sia vero è fuor di dubbio. Ma quanto ciò sia dipeso dal commercio internazionale è altamente dibattuto. La tesi più accreditata è che il commercio internazionale c'entri relativamente poco, almeno nel caso degli Stati Uniti. E la conclusione di parecchi studi sulla disuguaglianza in America, e perfino Paul Krugman giunge a considerazioni simili nel suo recente saggio «Trade and Wages, Reconsidered», pubblicato sui Brookings Papers on Economie Activity (2008). Ci sono altri fattori che hanno a che fare con l'aumento della disuguaglianza negli Stati Uniti, come la specializzazione dell'economia in settori ad alto capitale umano e ad alta tecnologia e un aumento del differenziale salariale per chi possiede un'educazione terziaria. Claudia Goldin e Lawrence Katz nel libro appena pubblicato per l'università di Harvard, The Race between Education and Technology, mostrano che negli Usa l'ampliamento del differenziale salariale fra lavoratori istruiti dipende soprattutto dal fatto che le scuole non hanno tenuto il passo con i progressi della tecnologia e hanno confinato un numero crescente di giovani a lavori non specializzati e sottopagati. Per ridurre la disuguaglianza occorre innanzitutto migliorare il sistema scolastico. Ma allora hanno ragione i no global conservatori se

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3. I vantaggi della globalizzazione

condo cui la globalizzazione ha danneggiato i paesi ricchi? No, la globalizzazione non è un gioco a somma zero e i paesi ricchi non hanno perso. Dal 1990 in poi i paesi Ocse sono cresciuti un po' di più che negli anni ottanta. Alcuni sono in difficoltà, come Giappone e Italia, altri sono letteralmente esplosi, come Irlanda e Spagna che ha recentemente raggiunto l'Italia per reddito prò capite crescendo a ritmi molto sostenuti (anche se ora rallenterà). L'Inghilterra negli anni ottanta aveva un reddito prò capite simile a quello italiano. Oggi ci ha di nuovo ampiamente superato. Altre nazioni, come i paesi nordici, hanno attraversato periodi di crisi (gli anni novanta) e periodi di crescita sostenuta (la decade più recente). La Germania ha accresciuto negli ultimi anni la sua quota di commercio internazionale esportando in modo competitivo. Considerando la situazione diversa in cui versano i paesi Ocse, tutti coinvolti nel processo di globalizzazione, evidentemente chi è in difficoltà, come l'Italia, lo deve a ben altri motivi. Scambiare la crescita zero italiana con un declino complessivo dei paesi Ocse è miope, o peggio, politicamente strategico. Uno dei ritornelli più sconcertanti che circolano di questi tempi è che la globalizzazione faccia lievitare i prezzi e che il modo per ridurli sia il protezionismo. L'idea stessa di globalizzazione implica al contrario che ogni contadino del mondo possa acquistare qualsiasi bene al prezzo più conveniente. Protezionismo commerciale significa proibire che gli stranieri vendano agli italiani i loro prodotti a prezzi più bassi di quelli dei produttori nazionali. Il protezionismo aumenta i prezzi dei beni per definizione. E interessante come, nel dibattito su globalizzazione e Cina, in Italia si affermi sempre e solo - e spesso a sproposito - che la Cina sottrae lavoro ai produttori italiani. Ma nessuno pare accorgersi che i beni prodotti in Cina costano poco e questo va a vantaggio dei

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3. I vantaggi della globalizzazione

consumatori italiani. Christian Broda, economista dell'università di Chicago, ha dimostrato che negli Stati Uniti l'effetto delle importazioni cinesi sui prezzi dei beni di largo consumo e di qualità relativamente meno elevata è stato un fattore che ha accresciuto il potere d'acquisto dei lavoratori con i salari più bassi. Il motivo è che i beni di qualità inferiore sono aumentati molto meno (o sono scesi) rispetto a quelli di alta qualità. In definitiva, se è vero che le importazioni cinesi costano poco, deve essere vero per definizione che i consumatori ci guadagnano. Purtroppo in Italia i prezzi spesso riflettono le distorsioni del sistema distributivo e il suo nanismo, ma questo non ha nulla a che fare con la Cina. I prezzi bassissimi di Wal-Mart, il colosso americano del low cost, ce lo insegnano. E piuttosto paradossale che in un periodo in cui i prezzi alti sono un vero problema in Italia, si parli di protezionismo come rimedio. Ci si deve sempre ricordare che protezionismo significa prezzi più alti per i consumatori. Vediamo ora se la globalizzazione, come si dice, danneggia i produttori. II diavolo Cina La Cina è uno dei diavoli più comunemente invocati per giustificare il declino italiano. Gran parte dei paesi Ocse importa beni dalla Cina, eppure non vive la crisi che sta attraversando l'Italia. La Cina è incolpata di avere costi di manodopera più bassi dei nostri e questo rende la competizione impossibile, perché è più conveniente produrre direttamente tutto là. Non è vero. Uno degli insegnamenti fondamentali della teoria del commercio internazionale è il principio dei vantaggi comparati. Il premio Nobel per l'economia Paul Samuelson, il più grande economista vivente, lo ha definito con un pizzico d'ironia uno dei

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3. I vantaggi della globalizzazione

pochi teoremi economici che sono veri e non ovvi. Il principio dei vantaggi comparati implica questo: supponiamo che vi siano due beni in commercio e che un paese li possa produrre entrambi a un costo più basso. Il paese che ha costi più bassi avrà interesse a produrre solo il bene in cui il suo vantaggio di competitività è maggiore e lascerà all'altro la produzione del bene in cui i suoi vantaggi sono minori. Il motivo è che il primo paese guadagna di più se si concentra sul bene in cui è relativamente più efficiente. Quindi i due paesi si specializzeranno nella produzione di un bene solo e commerceranno tra loro. In questo modo il reddito dei due paesi sarà più alto di quanto non lo sarebbe se si chiudessero, non commerciassero tra loro e producessero entrambi i beni. Il medesimo principio vale quando vi sono in commercio migliaia e migliaia di beni. Non solo, ma spesso due paesi commerciano nello stesso bene: l'Italia importa automobili tedesche e la Germania importa automobili italiane. Infatti, per larga parte, il commercio fra paesi ricchi è di questo tipo, avviene cioè all'interno dello stesso settore. Al contrario, i paesi meno sviluppati commerciano spesso in settori diversi. Nel XIX secolo, per esempio, durante la prima globalizzazione, i paesi più ricchi esportavano prodotti industriali mentre i paesi più poveri materie prime e prodotti agricoli locali. Oggi questo tipo di specializzazione è in gran parte superato. Il termine «economia industrializzata», usato per indicare i sistemi capitalistici più avanzati, è anacronistico: l'industria rappresenta dal 20 al 30 per cento del Pil in Europa e Nord America. A parte la minuscola fetta dell'agricoltura (che sparirebbe quasi del tutto se non fosse protetta per motivi politici che nulla hanno a che fare con l'efficienza economica), il resto sono servizi: finanza, educazione, sanità, comunicazioni,

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3. I vantaggi della globalizzazione

consulenza, ricerca, innovazione. I veri paesi «industrializzati» sono sempre più Cina, India, Corea del Sud, Messico; vale a dire i paesi emergenti. Questo significa che se non è possibile competere con la Cina nell'industria pesante e nel produrre magliette a basso costo, è altrettanto vero che si può convivere tranquillamente spostandosi sui servizi, sull'alta tecnologia, senza contare i beni tipicamente italiani come il design, la moda, la meccanica di precisione eccetera. L'Italia, così come gli altri paesi avanzati, non solo può convivere con i paesi emergenti, ma può beneficiare del fatto che questi producano beni industriali tradizionali. Italia a parte, gli Stati Uniti sono stati i più veloci ad abbracciare questa trasformazione e a specializzarsi in altri settori. Il 76 per cento del Pil statunitense infatti è costituito dai servizi mentre la media europea si aggira intorno ai due terzi del Pil (l'Italia, con il 64 per cento, è sotto la media europea). In Europa invece sopravvivono troppe barriere che difendono interessi nazionali. L'Europa non ha ancora sviluppato un vero mercato unico per il settore dei servizi, dalle banche all'istruzione, dalla sanità ai trasporti. E questo è uno dei punti più importanti che vanno affrontati da Bruxelles. Infine chiudersi alla Cina, magari escludendola dal Wto, come qualcuno mormora, significa provocarne la reazione di chiusura verso di noi. I nostri produttori perderebbero un mercato enorme: più di un miliardo di potenziali consumatori dei nostri beni. Per il momento i cinesi stanno ancora risparmiando una grandissima parte dei loro redditi, ma presto cominceranno a consumare. E fondamentale per la nostra economia essere pronti a sfruttare questa opportunità storica.

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3. I vantaggi della globalizzazione

Proteggere i lavoratori non i posti di lavoro

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3. I vantaggi della globalizzazione

Tutto ciò non significa che in questi anni il processo di trasformazione dei flussi del commercio internazionale non abbia creato difficoltà e non induca la gente a chiedere - giustamente - protezione. Per esempio il settore dei servizi più avanzati è ad alto capitale umano, quindi la trasformazione delle economie in questa direzione implica due cose. Una è il cambiamento della struttura organizzativa delle imprese: spariscono le tute blu delle catene di montaggio e aumentano una serie di lavori ad alto capitale umano diversificato, che deve essere pronto a adattarsi a esigenze di mercato in evoluzione e a tipi di lavoro sempre diversi. Secondo, aumentano le differenze salariali, cioè crescono le retribuzioni relative del capitale umano; in altre parole, il reddito relativo di chi ha un'istruzione terziaria aumenta rispetto a quello di chi non ce l'ha. Scompaiono l'operaio specializzato in tuta blu e la segretaria, sostituiti da macchine i primi (se la fabbrica non chiude) e da computer le seconde. Aumentano gli stock broker, gli scienziati impegnati in ricerca e sviluppo, ma anche i lavoratori a bassa qualifica, i camerieri nei ristoranti usati dagli stock broker, i pony express per velocizzare gli scambi, i trasportatori a domicilio di merci acquistate via internet. Le disparità salariali infatti sono cresciute molto negli ultimi due decenni negli Stati Uniti proprio perché il capitale umano è pagato relativamente sempre di più (e questo, al di là dei supersti-pendi dei manager, spesso dovuti a un sistema di incentivi sbagliati di governance). I paesi europei occidentali nutrono una profonda avversione verso ogni aumento della disuguaglianza;

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La crisi

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3. I vantaggi della globalizzazione

ma se l'obiettivo è ridurla, la strada del protezionismo commerciale non è quella giusta. Meglio lasciare che le retribuzioni e i prezzi siano decisi dal mercato in funzione delle sue esigenze organizzative di efficienza. Poi, con l'intervento fiscale si può evitare la caduta relativa dei redditi dei meno abbienti. Si possono anche intraprendere decise politiche redistributive con il sistema fiscale, mantenendo i mercati liberi. I paesi nordici per esempio hanno mercati molto liberi sia nei confronti della concorrenza domestica sia internazionale e hanno abbracciato in pieno la globalizzazione, ma possiedono sistemi di redistribuzione molto efficaci. L'Italia invece, come ben sappiamo, ha un sistema di sicurezza sociale costoso e inefficace. Lo hanno scritto in tanti, cominciando dall'ottimo rapporto della Commissione Onofri su previdenza, sanità e assistenza del 1997. Lo hanno ripetuto numerosi economisti come Tito Boeri e Roberto Perotti nel loro saggio Meno pensioni, più welfare (il Mulino 2002); ne abbiamo parlato anche noi in Goodbye Europa e nel Liberismo è di sinistra. Ne ha parlato il ministro Renato Brunetta nel suo libro con Giuliano Cazzola, Riformare il welfare è possibile (Ideazione 2003). Non è il caso quindi di ripetere queste argomentazioni. Vale solo la pena ricordare che l'inefficienza del sistema di welfare italia^ no non favorisce la dinamica di riaggiustamento settoriale ovvero rende difficile spostare forza lavoro eia un settore all'altro dell'economia a seconda delle opportunità offerte dalla globalizzazione. E difficile accettare che un settore in declino a causa della competizione estera debba sparire perché non esistono sussidi alla disoccupazione ben congegnati per favorire il passaggio del lavoratore da un'impresa a un'altra. O perché una miriade di costi burocratici e lacci e lacciuoli impediscono agli imprenditori di chiudere e aprire nuove imprese. O perché la scuola o l'università in declino non formano capitale umano adeguato. — 73 —

3. I vantaggi della globalizzazione

E chiaro che non si può chiedere a un lavoratore che ha visto sparire il suo posto di lavoro in fabbrica di diventare un assistente informatico. In questi casi sarebbe più sano introdurre sussidi alla disoccupazione e pensionamenti anticipati invece di tenere in vita imprese e settori non competitivi che vanno protetti, con costi altissimi per fisco e consumatori. Occorre proteggere i lavoratori, non i posti di lavoro. Ma allora perché il diavolo Cina fa così comodo ad alcuni dei nostri politici? Perché è molto più facile scaricare le colpe all'esterno che darsi da fare per ricostruire un sistema sociale che non protegge chi ne ha davvero bisogno, per riformare sul serio scuola e università e per ridurre il peso dello stato sia in termini fiscali che di costi burocratici.

Protezionismo uguale guerra Protezionismo e bellicosità sono sempre andati di pari passo. Nella fase mercantilistica del commercio internazionale, diciamo dal 1550 all'inizio della prima vera globalizzazione, il commercio era visto come un gioco a somma zero in cui le potenze europee cercavano di accaparrarsi il monopolio di certe rotte commerciali. Spesso lo fecero con compagnie nazionali, come la Compagnia delle Indie, che divennero una testa di ponte per la costruzione di veri e propri imperi. Non sorprende quindi che in quel periodo la bellicosità indotta da conflitti commerciali fosse molto alta. Il consolidamento e le espansioni di imperi coloniali culminò alla fine del XIX secolo, durante un'altra fase di ritorno al protezionismo. Allora gli imperi erano un modo per garantire il commercio al loro interno (ovviamente a vantaggio dei colonizzatori). Quando allo scambio pacifico si sostituisce la chiusura, la protezione del proprio monopolio su certe rotte commerciali, o, — 74 —

3. I vantaggi della globalizzazione

ancora, si limitano le importazioni, la storia insegna che presto ci sarà una guerra. D'altro lato, le guerre spesso implicano la chiusura di alcuni canali di scambio e una tendenza all'autarchia. Al contrario, paesi che commerciano liberamente e che traggono vantaggio dalla cooperazione economica non hanno alcun interesse a entrare in conflitto. Non a caso, una delle ragioni principali che portarono alla costituzione di istituzioni comunitarie europee di cooperazione economica fu, almeno inizialmente, il mantenimento della pace tra paesi che fino a pochi anni prima erano belligeranti. Gli accordi commerciali del 1957 tra Germania ed ex alleati non furono un fatto scontato. Essi sono un esempio di come il commercio sia spesso un antidoto contro la guerra. Quando le economie di due paesi sono interdipendenti, i costi di un conflitto salgono e la probabilità di scontri scende. Anche i sondaggi di opinione rilevano che protezionismo economico, nazionalismo e xenofobia vanno di pari passo. Un recente lavoro di ricerca di Kevin H. O'Rourke e Richard Sinnott, mostra che chi è favorevole al protezionismo tende a essere nazionalista (anche in senso aggressivo), sciovinista e prova avversione verso gli stranieri. Una correlazione di fattori che si riscontra in tutti i numerosi paesi esaminati in questo studio. E un risultato importante perché rivela che, al di là degli interessi economici di questo o quel settore dell'economia, le tendenze protezionistiche possiedono forti componenti culturali che nulla hanno a che fare con l'economia. Schematizzando, questi sondaggi sembrano dirci che esistono due tipi di persone: chi vuole chiudersi nella sua identità nazionale e vede il resto del mondo come un potenziale nemico e chi si sente un cittadino del mondo, aperto allo scambio sia economico sia culturale. La storia del capitalismo e dell'umanità nel suo complesso ci insegna che quando il secondo tipo di atteggiamento prevale, nel mondo ci sono meno guerre e — 75 —

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l'economia prospera. Pace e prosperità, come si suol dire. Globalizzazione e cultura nazionale Un'obiezione più sottile vuole che la globalizzazione distrugga la cultura locale in favore di una cultura globalizzata. Non è vero: una cultura accresce il proprio valore soprattutto attraverso il confronto con culture diverse; non chiudendosi in se stessa, ma aprendosi. Non è questo il luogo per affrontare il discorso dell'immigrazione dai paesi più poveri in Europa; lo abbiamo fatto in Goodbye Europa. Ma cavalcare il problema dell'immigrazione clandestina per screditare l'integrazione finanziaria, il libero commercio internazionale e per invocare l'espulsione della Cina dal Wto è pura e pericolosa demagogia. In realtà la globalizzazione finanziaria e commerciale potrebbe potenziare le culture locali, anziché eliminarle. Un paese autarchico deve produrre tutto ciò che gli serve, comprese merci che sono aliene dalle sue tradizioni e dalle sue risorse fisiche, umane e geografiche. E proprio grazie al libero scambio che un paese può specializzarsi nei settori più vicini alla propria cultura. Se l'Italia può importare acciaio dall'estero, si può specializzare nella moda, nel design, nel turismo, in certe nicchie di alta tecnologia, nei servizi e in tutte quelle attività che rendono particolarmente attraente il nostro paese o che più sono radicate nella nostra storia e nella nostra cultura. Una tariffa sull'acciaio ci costringerebbe a produrlo da noi, magari distruggendo chilometri e chilometri di magnifiche coste che potremmo utilizzare per il turismo (e per noi stessi). Nel capitolo sulla finanza abbiamo fatto esempi analoghi: la presenza di certi contratti finanziari relativamente sofisticati permette di mantenere la proprietà nazionale di alcune attività economiche, attraverso una vitale diversificazione del rischio. — 76 —

3. I vantaggi della globalizzazione

Infine, un regime di libero scambio può in un certo senso limitare il fenomeno migratorio. Un ritorno al protezionismo che danneggiasse il commercio dei paesi poveri ne aggraverebbe ulteriormente le condizioni e spingerebbe la gente a emigrare, molto più di quanto accada ora. In qualche misura, il libero commercio dei beni sostituisce lo spostamento delle persone. C'è una linea sottile che separa la sacrosanta difesa della propria cultura dal nazionalismo, dal protezionismo e da un atteggiamento aggressivo e violento verso il resto del mondo. E estremamente importante continuare a camminare dalla parte giusta di questa linea, anche quando qualcuno ha scelto la parte sbagliata.

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La crisi

4. L'euro non è il diavolo

L'euro è entrato in circolazione il primo gennaio 2002. Il periodo che intercorre da quella data a oggi non è stato positivo per l'economia italiana e per questo la moneta unica è ritenuta da molti uno dei maggiori responsabili del declino del nostro paese. Non è così. Il declino relativo dell'Italia rispetto ad altri paesi Ocse è iniziato ben prima del 2002 e non è imputabile alla moneta unica. La caduta della produttività, una riforma solo parziale del mercato del lavoro, una pressione fiscale e una spesa pubblica a livelli quasi «svedesi» - senza però servizi di qualità «svedese» -, l'i: nefficienza dell'amministrazione pubblica e della giustizia civile, scuole gestite nell'interesse degli insegnanti più che degli alunni e la scarsa concorrenza nei mercati dei servizi e delle professioni sono i veri responsabili della situazione in cui siamo oggi. L'euro ha solo evidenziato problemi che esistevano già, lo dimostrano altri paesi che hanno adottato la moneta unica e che, a differenza del nostro, sono cresciuti a tassi sostenuti. È il caso per esempio dell'Irlanda, della Finlandia e della Spagna (almeno finora). La Germania ha tenuto bene mentre il Portogallo, come l'Italia, è in difficoltà. L'adozione della moneta unica ha sicuramente comportato costi oltre che benefici, ma incolpare l'euro del declino italiano di questo decennio è un errore. L'euro è

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un altro di quei finti diavoli, come la Cina, dietro cui si nascondono i veri problemi che non siamo capaci di risolvere. Le principali accuse al «diavolo euro» sono tre. Primo: la sua adozione ha generato un'aumento dei prezzi di tutti i beni di consumo; secondo: l'adozione dell'euro " non permette svalutazioni della moneta nazionale per favorire le esportazioni; terzo: la Banca centrale europea ha seguito una "politica monetaria restrittiva preoccupandosi solo dell'inflazione e strozzando la crescita. Ai lettori non dovrebbe sfuggire che queste tre accuse, spesso snocciolate una accanto all'altra nei discorsi di certa politica e certa stampa, in realtà si contraddicono. Le prime due sottintendono in qualche modo che l'inflazione è troppo alta. La terza invece, che è troppo bassa. Esaminiamole.

Il carovita non è colpa dell'euro Vi sono due aspetti legati ma distinti che generano nell'opinione pubblica la percezione che l'euro influenzi i prezzi. Il primo riguarda il rincaro generale del costo della vita che si è registrato non appena la moneta unica è stata introdotta; al momento della conversione cioè, i commercianti avrebbero alzato una tantum i prezzi approfittando della «confusione» del cambio di moneta. Un secondo aspetto invece riguarda la percezione dell'andamento dell'inflazione. Dal 2002, l'inflazione percepita dai consumatori è più alta di quella misurata dalle statistiche ufficiali. L'inflazione percepita è importante perché influenza le richieste salariali dei lavoratori e dei sindacati che li rappresentano, gli aggiustamenti delle pensioni e così via. Quindi una differenza tra inflazione percepita e inflazione reale ha un impatto economico significativo. — 79 —

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Cominciamo dal primo punto, ovvero l'aumento dei prezzi una tantum che si sarebbe registrato nel passaggio dalla lira all'euro. Nell'inverno 2002 le statistiche ufficiali non hanno registrato alcun balzo dell'indice aggregato dei prezzi al consumo. I cittadini però lo hanno avvertito, in Italia così come in molti altri paesi che hanno adottato l'euro, per esempio la Germania. Com'è possibile? C'è addirittura chi ha accusato l'Istat di mentire, un'ipotesi da scartare. L’istat ha seri problemi di efficienza, ma i controlli internazionali non permetterebbero di falsificare i dati delle statistiche nazionali anche ammesso che l'Istat lo volesse fare. Ma allora che cosa è successo? Occorre prima di tutto ricordare che l'inflazione si misura sull'aggregato di un ampio campione di prezzi al consumo: più precisamente, il tasso di inflazione è una media dell'aumento dei prezzi di un paniere di beni. Una spiegazione plausibile è che la percezione della maggior parte dei consumatori sia stata influenzata non dalla media dei prezzi, ma dai prezzi dei beni che acquistiamo più spesso: giornale, caffè al bar, spesa nel negozio sotto casa. In effetti ristoranti, bar, generi alimentari e servizi bancari sono le categorie che con l'introduzione dell'euro hanno subito i maggiori rincari. Un'indagine campionaria della Banca d'Italia, svolta da Eugenio Gaiotti e Francesco Lippi su 2.500 esercizi (bar e ristoranti), mostra che nel periodo dal 1998 al 2004 i prezzi di queste categorie sono saliti, e di tanto: molto più dell'inflazione media. Tuttavia, osservando con attenzione la tempistica degli aumenti, si vede che solo una parte si può attribuire al cambio della moneta. Con ciò non vogliamo dire che parecchi commercianti al dettaglio non abbiano approfittato dell'introduzione dell'euro per aumentare i prezzi. Sicuramente è accaduto, ma la dimensione macroeconomica di questo fenomeno, cioè se si considera l'insieme di tutti i prezzi,

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sembra limitata. Va anche aggiunto che probabilmente ne hanno approfittato più i piccoli negozi che i grandi centri commerciali. Sul nanismo del nostro sistema distributivo torneremo più avanti. Inoltre, i prezzi di altri prodotti, soprattutto beni durevoli - automobili, elettrodomestici, computer, telefonia - sono aumentati molto meno o per nulla. Infatti va anche considerato l'aumento della qualità di questi beni. Un apparecchio telefonico che oggi costa 100 euro ha molte più funzioni di uno che costava la medesima cifra cinque anni fa. Lo stesso vale per un'automobile «media»: la qualità e la sicurezza delle automobili sono aumentate notevolmente rispetto al passato. Un secondo studio, sempre della Banca d'Italia, suggerisce un altro motivo per cui i consumatori hanno sopravvalutato l'impatto dell'euro sui prezzi: la cattiva memoria. Tre ricercatori della Banca d'Italia Vincenzo Cestari, Paolo Del Giovane e Clelia Rossi-Arnaud, hanno intervistato un campione statisticamente significativo di italiani chiedendo loro se ricordassero il prezzo di un biglietto del cinema prima e dopo l'introduzione dell'euro. I risultati sono molto interessanti: gli intervistati rispondono che i prezzi dei cinema nel 2001, cioè appena prima dell'euro, erano molto più bassi di quelli reali. Più del 50 per cento ricorda un costo inferiore del 30 o 40 per cento: 9.000 lire per un cinema di prima visione invece che 13.000. Veniamo ora al problema della differenza tra l'inflazione percepita dagli italiani negli ultimi anni e quella misurata dalle statistiche ufficiali. Un'altra indagine della Banca d'Italia (condotta da Paolo Del Giovane, Silvia Fabiani e Roberto Sabbatini) dimostra che nel 2006, anno relativamente tranquillo sul fronte inflazionistico (il tasso medio fu intorno al 2 per cento), gli italiani percepivano un'inflazione molto superiore a quella reale. La discrepanza era più evidente nel caso di famiglie

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meno abbienti. Il motivo è simile a quello esaminato sopra: ciò che aumenta di più sono i beni che i consumatori acquistano più frequentemente, come i generi alimentari. Questo studio rivela infatti come l'inflazione percepita dalle donne fosse molto più alta di quella percepita dagli uomini: le donne fanno la spesa più spesso, mentre gli uomini acquistano beni durevoli, per esempio automobili, che in proporzione sono aumentate molto meno. Inoltre i cittadini sono tanto più preoccupati dell'inflazione quanto meno i loro stipendi tengono il passo dei prezzi. Un esempio: se i prezzi aumentano del 5 per cento, mentre salari e stipendi sono fermi, il tenore di vita scende. Per comprendere le distorsioni nella percezione dell'inflazione, va quindi valutato anche l'andamento dei redditi e il loro recente ristagno. I consumatori intervistati rispondono che l'inflazione è alta perché confrontano l'andamento dei prezzi con i loro redditi. Se in passato prezzi e stipendi aumentavano allo stesso ritmo, diciamo il 5 per cento ciascuno, le famiglie non erano in allarme, perché il loro tenore di vita rimaneva immutato. Se ora invece i prezzi continuano a crescere del 5 per cento ma salari e stipendi restano fermi, le famiglie percepiscono un'inflazione elevata: non perché lo sia - i prezzi continuano a crescere allo stesso ritmo - ma perché il potere d'acquisto degli italiani è sceso del 5 per cento. Purtroppo, come vedremo meglio, di fronte a questa situazione non vi sono scorciatoie: i redditi aumentano se si lavora più ore, o se più persone lavorano, o se la produttività sale. Vedremo anche come riduzioni in questo senso delle tasse e delle spese correnti possano aiutare. Ma allora perché nel mondo, non solo in Italia, energia e generi alimentari sono aumentati tanto? La risposta va cercata nella crescita della domanda mondiale, soprattutto da parte di paesi che fino a poco tem: po fa

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erano molto poveri e quindi consumavano poco,. Il fatto che centinaia di milioni di cinesi, indiani e sudamericani siano usciti dalla povertà ha un impatto enorme sulla domanda. Vogliamo impedire ai cinesi di mangiare per tener bassi nei nostri negozi i prezzi del riso e della pasta? Non è possibile, oltre che immorale. L'euro non c'entra. Semmai il rafforzamento dell'euro sul dollaro - passato da 85 centesimi di euro per dollaro nel giugno 2001 a quasi 1,6 nell'estate del 2008 - ci ha aiutato. Mentre il prezzo in dollari del petrolio saliva da 50 a 145 dollari per barile (tra il 2004 e il 2008), l'euro si rivalutava sul dollaro del 40 per cento, quindi il prezzo in euro del petrolio saliva molto meno che in dollari. Il prezzo del petrolio è poi nuovamente sceso a 100 dollari al barile. Per quanto riguarda i prezzi dei beni agricoli, invece, succederà che con il passare del tempo l'offerta reagirà all'aumento della domanda mondiale, ponendo un freno all'inflazione di questi beni. Se poi l'Unione europea, gli Stati Uniti e gli altri paesi Ocse smettessero di proteggere i loro agricoltori scaricandone i costi sui consumatori, i cittadini ne trarrebbero un gran benefido. Politiche protezionistiche che avvantaggiano gli agricoltori dei paesi Ocse tengono alti i prezzi dei generi alimentari e impediscono la concorrenza dei paesi poveri che li abbasserebbero. Questo è stato il punto di maggiore scontro nei negoziati del Doha Round per la liberalizzazione del commercio mondiale, che si sono svolti a Ginevra nell'estate del 2008.1 paesi agricoli più poveri chiedevano ai paesi ricchi di aprire le frontiere ai loro prodotti. E poiché questi rifiutavano, per ripicca i paesi poveri si sono opposti alla richiesta di ridurre le tariffe che essi impongono sull'importazione di prodotti industriali dai paesi ricchi. Un classico esempio in cui a perderci sono i cittadini, sia dei paesi ricchi sia di quelli poveri.

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Se si vogliono proteggere le campagne europee, bisogna farlo in modo trasparente, approvando in Parlamento una legge che devolva parte del gettito fiscale a finanziare sussidi agli agricoltori, come faceva la Gran Bretagna prima di entrare nell'Ue. Non in modo surrettizio, facendo pagare la protezione ai consumatori attraverso prezzi più elevati, sperando che non se ne accorgano, e magari dando la colpa all'euro. La cosa sconcertante è che chi tuona contro i costi della spesa sia poi favorevole al protezionismo. Un ritornello ricorrente è quello secondo cui costa di più fare la spesa che volare a Londra; la colpa sarebbe di liberalizzazioni e globalizzazione. E vero il contrario: se non ci fosse stata la liberalizzazione del settore aereo, andare a Londra costerebbe il triplo e fare la spesa costerebbe uguale; se ci fossero meno dazi sull'agricoltura, fare la spesa costerebbe di meno. L'economia italiana però non soffre solo di protezionismo; un altro grave problema è l'eccessiva regolamentazione. Per esempio, mettendo freni e paletti alla distribuzione, si contribuisce al nanismo del settore commerciale; lo scarso sviluppo di centri commerciali a basso prezzo - i «discount» come Wal-Mart negli Stati Uniti per intenderci - è solo un esempio. Il nanismo del nostro sistema distributivo impedisce che economie di scala in questo settore riducano i prezzi. E molto più economico per un grande supermercato vendere grandi quantità di merci per unità di prodotto di quanto non lo sia per un piccolo negozietto sotto casa. In Italia di negozietti sotto casa ce ne sono troppi, molto più che in Francia o in Spagna, paesi che, come il nostro, non hanno certo tradito la loro tradizione. Da noi le attività commerciali al dettaglio con meno di nove dipendenti sono più del doppio che in Francia, nonostante anche la Francia si distingua per la forte regolamentazione di questo settore. Invece, sempre rispetto alla Francia, le

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nostre attività commerciali con più di 250 dipendenti sono meno della metà. Anche rispetto alla Spagna, le dimensioni del nostro commercio al dettaglio sono in media molto inferiori. Il confronto con paesi anglosassoni è ancora più sbilanciato: le attività commerciali italiane con più di 250 dipendenti sono poco più di un quarto rispetto alla Gran Bretagna. Non si cresce a colpi di svalutazione L'Italia, come del resto gli altri paesi dell'area euro, non può più svalutare la propria moneta per dar fiato alle esportazioni. Questo non è un male. Un paese alla lunga non può crescere a colpi di svalutazioni competitive, che per l'economia rappresentano solo una droga temporanea. Svalutazioni della moneta renderebbero le nostre esportazioni più a buon mercato per gli acquirenti stranieri e quindi stimolerebbero la domanda estera di beni nazionali. Tuttavia farebbero anche aumentare i prezzi dei beni importati in Italia in moneta nazionale e ciò finirebbe per riflettersi in un aumento dell'inflazione domestica. In altre parole, prima dell'introduzione dell'euro, una svalutazione della lira rendeva per un certo periodo le esportazioni italiane più competitive. Poi però l'inflazione aumentava perché i prezzi in lire di tutti i beni importati crescevano. E cosi, dopo una temporanea spinta alle esportazioni dovuta alla svalutazione, il paese finiva con un'inflazione più elevata, in un circolo vizioso senza fine. Non solo, ma dato che l'Italia faceva e fa parte di una Comunità economica europea, svalutazioni competitive erano considerate sempre più dannose per gli altri paesi membri, perché favorivano le esportazioni italiane a danno di quelle, per esempio, francesi. E stato proprio per evitare questi giochi a somma negativa che l'Europa si è prima mossa verso un sistema di cambi fissi, e poi ha adottato una moneta uni-

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ca. E infatti, nella primavera del 1995, quando la lira si svalutò, la Francia chiese alla Commissione europea di giudicare se la svalutazione costituisse un caso di violazione delle regole della concorrenza tale da giustificare un intervento di Bruxelles. Inoltre, all'interno di questo sistema, alcuni settori obsoleti dell'economia rimanevano a galla grazie a queste iniezioni di «droga svalutativa» che ritardavano le ristrutturazioni settoriali dell'economia italiana. Uno studio recente, condotto da Matteo Bugamelli, Fabiano Schivardi e Roberta Zizza ha mostrato che proprio i settori che in passato avevano tratto maggiori vantaggi dalle svalutazioni sono quelli che dopo l'ingresso nell'Unione monetaria si sono maggiormente ristrutturati aumentando la loro produttività. Inoltre, l'introduzione dell'euro ha spostato le risorse verso settori dove è più importante il capitale umano. Concentriamoci ora sui pericoli che l'inflazione provocata da svalutazioni competitive porta con sé; sono rischi che non scompaiono nemmeno dopo la diminuzione dell'inflazione. Fino alla metà degli anni ottanta, l'Italia è stata un paese ad alta inflazione. Del resto, prima dell'ingresso nell'euro, l'Italia aveva tassi di interesse molto alti sul suo debito pubblico proprio per il timore di una svalutazione della lira. A metà degli anni novanta, il costo degli interessi sul debito era circa il 10 per cento del Pil. Non appena l'Italia entrò a far parte dell'area della moneta unica i tassi sul debito pubblico scesero al livello di quelli tedeschi. Quindi il nostro deficit si dimezzò, senza che fosse stata tagliata una sola spesa o che fossero aumentate in modo significativo le imposte. Ma come spesso avviene, i benefici di una scelta (in questo caso la scelta di entrare nell'Unione monetaria) non sono gratuiti: comportano costi, o meglio, l'adattamento a una situazione economica e istituzionale di-

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versa. In particolare, non poter svalutare la moneta pone vincoli precisi all'andamento di prezzi e salari. Se esso non è in linea con la scelta di abbandonare le svalutazioni, le conseguenze per l'economia sono gravi. Con l'euro diventa quindi particolarmente importante legare l'andamento dei salari reali all'aumento della produttività. Aumentare la produttività significa lavorare meglio, investire di più, accrescere la flessibilità della forza lavoro, ridurre i vincoli che impediscono agli imprenditori di fare il loro lavoro, migliorare i servizi e il sistema giudiziario. Sono tutte cose difficili e impegnative. Quando manca il coraggio o la forza politica per farle, la cosa più semplice è creare fantasmi. E i fantasmi forse sono utili per giustificare i governi in carica, ma non risolvono i problemi: li buttano sulle spalle del governo successivo, moltiplicati.

Il capro espiatorio: la Banca centrale europea Oltre che contro l'euro, i governi europei, incapaci di affrontare i veri problemi, si scagliano spesso contro le scelte della Bce. Nel 2002 la accusavano di non fare abbastanza per rafforzare l'euro, allora deprezzato fino a 85 centesimi di dollaro. Quando poi, nell'estate del2008 ha sfiorato 1,6 dollari, la accusavano dell'opposto, ovvero di non far nulla per evitare la sua eccessiva valutazione. La critica più frequente rivolta alla Bce, almeno fino a poco tempo fa, era di essere più concentrata a tenere a bada l'inflazione che a favorire la crescita. La politica relativamente cauta della Bce sui tassi andava nella direzione contraria rispetto a quella della Fed, che ha tenuto i tassi molto bassi troppo a lungo. E mentre i politici criticavano la Bce perché manteneva i tassi di interesse troppo alti, molti economisti la difendevano. — 87 —

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Nel 2001 per esempio, in un momento di particolare fervore politico contro la Bce, pubblicammo un articolo sul Corriere della Sera (23 aprile) intitolato «E se Greenspan avesse torto?», in cui suggerivamo che i tassi americani erano troppo bassi e che la Bce faceva bene a tenerli più alti. E curioso osservare come alcuni di coloro che criticavano la politica «eccessivamente restrittiva» della Bce e auspicavano che Francoforte seguisse l'esempio di Greenspan, siano gli stessi che oggi puntano il dito contro la crisi finanziaria americana, dimenticando che proprio Greenspan ha avuto un ruolo non marginale nel gettarne le basi. Avere una Banca centrale europea anziché tante banche centrali nazionali, come prima dell'euro, comporta un costo. La politica monetaria della Bce deve guardare all'area dell'euro nel suo complesso e non a quella del singolo paese. Entrando nell'euro, l'Italia ha legato la sua politica monetaria a quella di altri undici paesi (oggi quindici), nessuno dei quali può chiedere la politica che preferisce perché la Bce deve considerare le esigenze medie di tutta l'area. Ma non è un costo poi così alto, perché i cicli economici dei paesi europei, almeno dei maggiori, non sono tanto dissimili. E si può concludere che il costo derivante dall'inevitabile uniformità della politica monetaria non è superiore ai benefici, almeno nel caso dell'Italia. Ma allora perché la Bce è uno dei diavoli spesso accusati dei mali dell'euro e dell'Italia in particolare? Biasimare la Bce fa guadagnare voti ed evita di assumersi la responsabilità dei fallimenti della politica interna. Lo hanno fatto vari politici italiani, francesi, spagnoli. La reazione della Bce è stata, comprensibilmente, quella di chiudersi a riccio e rifiutare il dialogo con i politici. E più i politici insistono meno la Bce ascolta. In generale, da parte della Bce rivendicare la propria indipendenza è giusto. Il problema è che spesso non è

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stata capace di comunicare con chiarezza le sue scelte. Ripete in continuazione che l'obiettivo principale è la stabilità dei prezzi, ma si dimentica di dire che questo significa tenere la domanda al livello della crescita potenziale di produttività dell'economia. Ogni tanto dovrebbe ricorrere all'arte retorica e ricordare che il suo obiettivo è proprio sorvegliare la crescita europea, almeno indirettamente, attraverso l'andamento dell'inflazione. 5.

Non ci sono miracoli

Gli italiani, o almeno una buona parte, si sentono più poveri oggi di un decennio o due or sono. È davvero così? Bisogna rispondere con precisione a questa domanda per evitare di cadere da un lato nel catastrofismo che impera sulla stampa, dall'altro nella retorica del «in qualche modo ce la caveremo». Il reddito medio prò capite degli italiani non è sceso nell'ultimo decennio, ma è cresciuto meno rispetto a quello di quasi tutti gli altri paesi Ocse. Quindi, in termini relativi, oggi l'italiano medio è più povero. Un decennio o due di crescita modesta si avvertono. Tutti noi siamo abituati al fatto che il nostro reddito aumenti col passare del tempo; i consumi che fino a ieri ci appagavano, oggi ci paiono insufficienti. Gli psicologi dicono che la felicità è spesso legata non solo al reddito — 89 —

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in sé, ma al reddito relativo rispetto a quello altrui e rispetto al nostro di ieri. Vent'anni fa, sembrava normale avere un solo telefono nel corridoio di casa, attendere sei mesi per l'installazione e magari dividerlo con l'inquilino del piano di sotto con il «duplex». Pensate a come ci sentiremmo oggi avendo a disposizione un unico telefono fisso, o a una vita senza internet e senza computer. O ricordate quando viaggiare in aereo era un lusso per pochi, mentre oggi qualsiasi ragazzo può raggiungere le mete più disparate con le compagnie loto cosi. Detto questo, è sicuramente vero che l'economia italiana è in difficoltà e per la prima volta da anni molte famiglie della classe media fanno fatica ad arrivare a fine mese. Tuttavia, predicare miracoli non aiuta. In Italia circolano false ricette per sanare le difficoltà. Tutte hanno in comune qualche deus ex machina che risolva la situazione, come il protezionismo, mettere fuori legge gli speculatori, riduzioni fiscali e aumenti di spesa, un ruolo esteso dello stato nel dirigere il sistema produttivo. Misure che, stando a chi le propone, non costerebbero nulla ai cittadini e salverebbero l'economia. Sono ricette false e populiste secondo le quali, senza colpo ferire, ovvero senza che aumentino le ore lavorate e la produttività, senza posticipare l'età della pensione, senza premiare i migliori e penalizzare i peggiori, si possa produrre più reddito. Nel breve periodo queste ricette possono anche portare qualche voto, ma nel medio e lungo termine non premiano, perché non fanno che peggiorare lo stato della nostra economia. Vediamo ora di affrontare per sommi capi alcuni nodi fondamentali che ci consentono di comprendere perché le ricette che circolano non possono funzionare. Per un'analisi più dettagliata, rimandiamo il lettore al nostro libro Goodbye Europa.

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Gli italiani sono più ricchi o più poveri che in passato? In Italia il reddito medio prò capite annuo in termini reali (cioè depurato dall'inflazione) era di 3.500 euro nel 1950, 9.700 nel 1970, 13.100 nel 1980, 16.313 nel 1990 e 19.800 nel 2006 (Fonte: Madison). Ma in termini relativi, rispetto ad altri paesi, il quadro che ne esce è un po' diverso. Il reddito prò capite italiano era pari a circa il 40 per cento di quello americano nel 1950, 72 per cento nel 1970, quasi 80 nel 1990 e meno di 70 il dato più recente. Irlanda e Spagna, che negli anni settanta erano due paesi molto più poveri dell'Italia, ci hanno superato, la prima di gran lunga, con un reddito prò capite di circa 27.000 euro in termini reali, mentre con la seconda è un testa a testa. La Gran Bretagna, che avevamo raggiunto, negli anni ottanta ci ha di nuovo ampiamente superato. La Grecia si sta avvicinando al nostro livello di Pil prò capite. Ora siamo sotto la media dei paesi dell'area euro. Quindi il reddito medio italiano è continuato a salire, ma, a partire da circa la metà degli anni ottanta, il nostro paese ha smesso di recuperare rispetto ad altri paesi Ocse e ha perso posizione in termini relativi. E importante sottolineare che questo trend data ormai quasi vent'anni. E quindi ben precedente ai fenomeni di globalizzazione iniziati dalla metà degli anni novanta in poi. Senza contare che ovviamente Cina e globalizzazione esistono anche per tutti quei paesi Ocse che stanno crescendo più dell'Italia - ovvero quasi tutti. Sappiamo bene che in Italia vi è una notevole dose di economia sommersa, probabilmente più estesa che in altri paesi europei. Per ovvi motivi è difficile misurarla, ma stime del 10-15 per cento del Pil non sembrano eccessive, secondo dati Istat. Quindi in un certo senso gli italiani sono un po' più ricchi di quanto non stimino le statistiche ufficiali. Se però l'economia sommersa può

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alzare il livello medio del Pil effettivo, non può certo spiegarne l'andamento nel tempo, ovvero il relativo declino degli ultimi due decenni. Ciò accadrebbe se l'economia sommersa fosse aumentata nel tempo e quindi compensasse la perdita relativa dell'economia misurata dalle statistiche. Non pare questo il caso, anzi, dati i recenti sforzi di recupero dell'evasione fiscale è possibile che l'economia sommersa si sia ridotta. Se così fosse, le statistiche ufficiali sottostimerebbero un po' la perdita di reddito totale. Questo significa che la perdita di reddito, relativamente ad altri paesi Ocse, è reale. Naturalmente il reddito medio non è rappresentativo del reddito dei cittadini di un paese; ci ricordiamo bene l'aneddoto di Trilussa sulla media: un pollo a testa significa che una persona ne mangia due e un'altra salta il pasto. L'altro aspetto cruciale è quindi la distribuzione del reddito. Un aumento della disuguaglianza può aumentare la povertà e l'insoddisfazione della maggioranza anche se il reddito medio cresce. E infatti la disuguaglianza è aumentata in molti paesi, soprattutto negli Stati Uniti nell'ultimo decennio, ma non nel nostro, come dimostrano vari studi della Banca d'Italia e, in particolare le elaborazioni di Andrea Brandolini. La disuguaglianza in Italia rispetto ad altri paesi Ocse era ed è rimasta relativamente alta, ragione di più per cui una riforma seria del welfare è improrogabile. Di recente poi in Italia si è aperta una battaglia feroce tra Cgil e Confindustria sull'andamento dei salari. La Cgil sostiene che i salari reali siano stagnanti dal 1993 e in discesa dal 2000, mentre i profitti salgono; Confindustria sostiene invece che i salari reali siano aumentati seppur di poco e comunque più della produttività. Chi ha ragione e come è possibile sostenere a suon di statistiche due realtà così diverse fra loro? Ce lo hanno spiegato bene tre economisti del lavoro, Valentina Adorno, Andrea Ichino e Giovanni Pica in uno studio

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di prossima pubblicazione. Oltre ad attribuire la responsabilità all'Istat per la confusione dei dati, i tre economisti sostengono che la situazione non è buona né dal punto di vista dei salari né dei profitti, cosa non sorprendente, visto che il paese non cresce. E concludono: il declino non ha colpito tutti in egual misura. Da un lato le grandi imprese, che sono soprattutto grandi imprese di servizi che operano in mercati protetti, sembrano aver accresciuto i loro margini di profìtto, invece nel settore manifatturiero i profìtti sono diminuiti. D'altra parte, i lavoratori sia uomini che donne, e soprattutto quelli con lavori a tempo pieno, a partire dai primi anni 2000 hanno recuperato parte del potere d'acquisto perso negli anni novanta con una crescita salariale che, per quanto modesta, è stata superiore alla crescita della produttività del lavoro. Per gli stranieri invece è stato un bagno di sangue. Il loro suggerimento a Confindustria e sindacati è molto saggio. Scrivono: «E bene che la tavola della contrattazione si focalizzi prima di tutto sul perché la dimensione della torta si riduce, lasciando per quanto possibile a dopo il problema della sua spartizione. Altrimenti. .. rimarrà ben poco da spartire».

Perché l'Italia ha smesso di crescere L'Italia, così come il resto dell'Europa occidentale, ha sperimentato un vero e proprio miracolo economico nei primi trent'anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Ma da un paio di decenni a questa parte, il meccanismo si è inceppato. In Goodbye Europa spiegavamo questo arresto con due motivazioni:

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La prima punta il dito sulla politica, la seconda sugli effetti delle innovazioni tecnologiche. Cominciamo con la politica. Negli anni cinquanta e sessanta gli europei lavoravano moltissimo [...]. Alla fine degli anni sessanta il loro sforzo fu premiato, e poterono così permettersi di cominciare a pensare alla qualità della loro vita. Ma la fine degli anni sessanta fu anche un'epoca di turbolenza politica. Dalle università alle fabbriche, gli europei cominciarono a chiedere meno lavoro per gli stessi salari, una legislazione che impedisse i licenziamenti, un'istruzione e un'assistenza sanitaria gratuite per tutti, pensioni più generose e anticipate, l'abolizione della meritocrazia nello studio. I governi concessero tutto quello che la gente chiedeva. L'economia dei paesi europei era cresciuta rapidamente e sembrava che ci fossero risorse sufficienti per soddisfare tutte le rivendicazioni. Poi venne la crisi del petrolio e allo stesso tempo, almeno in alcuni paesi europei come la Germania e l'Italia, la lotta politica si fece aspra. Per evitare che gli studenti e gli operai cedessero alle lusinghe dell'estrema sinistra i governi continuarono a concedere loro ciò che chiedevano anche quando fu chiaro che non c'erano più le risorse. Negli anni sessanta si pagò il welfare state con l'inflazione, negli anni ottanta con il debito pubblico. Da quegli anni l'Europa ha ereditato un'ampia spesa pubblica e le tasse elevate che sono necessarie per finanziarla. [...] L'incremento delle aliquote fiscali che ne è conseguito è uno dei fattori che hanno rallentato la crescita economica. Se l'Europa avesse continuato a crescere allo stesso ritmo degli anni cinquanta e sessanta, le richieste degli anni settanta sarebbero potute essere accolte senza eccessivi aumenti di tasse. Ma [negli anni settanta] il motore che fino a quel momento aveva sostenuto la crescita economica si fermò, ed è qui che entra in gioco la tecnologia. Come sostengono Daron Acemoglu, Philippe Aghion e Fabrizio Zilibotti in un loro saggio, la — 94 —

crescita europea degli anni sessanta [...] fu generata in gran parte da una rincorsa tecnologica. Gli europei erano partiti, dopo la Seconda guerra mondiale, con un ampio ritardo tecnologico: l'imitazione delle migliori tecnologie americane era quindi sufficiente a garantire una crescita rapida. L'imitazione funziona bene con aziende grandi e consolidate, un sistema finanziario incentrato sulle banche, relazioni a lungo termine, basso avvicendamento manageriale e un forte intervento dello stato nell'economia. In Europa, negli anni sessanta, la politica industriale funzionava. [...] Ma più tardi, quando l'Europa si è avvicinata alla frontiera tecnologica e per continuare a crescere non bastava più copiare, occorreva saper innovare, ci siamo trovati impreparati. Le stesse istituzioni che erano state responsabili del successo degli anni sessanta, dopo i settanta divennero un ostacolo per la crescita. Invece di accelerare la distruzione delle vecchie aziende e favorire la creazione di imprese nuove e innovative, gli europei continuarono a proteggere quelle esistenti e a sognare una politica industriale dirigista. Accanto a fenomeni più generali, vi sono poi fattori più specificamente italiani che hanno frenato il boom economico e hanno fatto stagnare l'economia. Il principale è la scarsa partecipazione alla forza lavoro di tre importanti gruppi: i giovani, i cosiddetti «anziani» - le persone cioè dai cinquant'anni in su - e le donne. L'unica categoria di italiani che lavora quanto altri europei e americani sono gli uomini tra i trenta e i cinquant'anni. Qualche dato: la partecipazione alla forza lavoro per le persone tra 15 e 64 anni è di circa il 63 per cento in Italia contro il 74 per cento della media del G7. La partecipazione degli anziani dai 55 ai 64 anni è pari al 35 per cento in Italia contro il 59 per cento del G7, un dato davvero impressionante. La partecipazione femminile è pari al 50 per cento in Italia contro il 66 per cento del G7. La partecipazione giovanile, dai 15 ai 24 anni, è pari — 95 —

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al 31 per cento in Italia contro il 53 per cento del G7, nonostante di studenti universitari ve ne siano meno in Italia che nel G7. Risultato: lavoriamo in troppo pochi e la percentuale sempre maggiore di persone che non lavorano viene mantenuta da altri: o direttamente, dalla famiglia, o indirettamente, dallo stato. Molte (troppe) famiglie italiane sono composte da un genitore, generalmente il padre, in pensione a sessant'anni o meno, da una madre casalinga e due figli tra i venti e trent'anni non ancora inseriti nella forza lavoro. Si è scritto molto sulle ragioni di questo fenomeno, e non è il caso qui di ribadirle. Basti dire che, per quanto riguarda gli anziani, sciagurate politiche pensionistiche introdotte dagli anni settanta in poi hanno costituito una categoria di persone che trascorre trent'anni o più della propria vita in pensione, cioè fuori dalla forza lavoro; un fascia finanziata da una popolazione lavorativa sempre più ridotta rispetto alla popolazione totale. Per quanto riguarda i giovani, invece, le rigidità del mercato del lavoro - in cui i più tutelati (dai sindacati) sono i lavoratori con più anni di anzianità - hanno per molto tempo impedito loro un facile ingresso. Varie riforme recenti, in parte incomplete, hanno poi generato un esercito di precari. Un discorso un po' diverso va fatto per le donne. Per una serie di motivi anche culturali, l'Italia ha una bassa partecipazione femminile alla forza lavoro, soprattutto al Sud; anche il Nord però è al di sotto della media europea. Il lavoro delle casalinghe non è misurato dalle statistiche, ma sicuramente i loro servizi sono fondamentali: la preparazione dei pasti, la pulizia della casa, la cura di bambini e anziani. Il reddito misurato non ne tiene conto. Facciamo un esempio. Supponiamo che una signora svedese A (scegliamo la Svezia perché lì la partecipazione alla forza lavoro femminile è altissima) faccia la baby sitter per la signora B la quale fa la baby

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sitter per la signora A. Il reddito percepito per le due signore entra nel conteggio del reddito nazionale. Supponiamo invece che in Italia le signore C e D accudiscano i propri bambini a casa propria. I loro servizi non entrano nel conteggio del reddito nazionale ma in pratica in Italia e in Svezia i bambini vengono accuditi. Che cosa significa questo? Due cose: primo, che in un certo senso gli italiani sono un po' più ricchi di quanto misurino le statistiche perché non devono comprare dal mercato i servizi delle casalinghe, che non vengono mai calcolati, non solo dalle statistiche, ma spesso anche da mariti poco riconoscenti. Secondo, è che servizi migliori o incentivi al lavoro femminile potrebbero accrescere l'efficienza del sistema e il reddito complessivo. Per esempio, se una madre accudisce cinque bambini e le altre quattro madri lavorano, il reddito complessivo aumenta, perché le cinque madri nel loro complesso sono più produttive che se ognuna accudisse un solo bambino. Ovviamente lo stesso discorso vale per altri servizi domestici come le pulizie, la cura degli anziani eccetera. L'altro fattore che ha rallentato la crescita italiana è il crollo della produttività oraria. Da metà degli anni novanta in poi la produttività del lavoro in Italia è cresciuta pochissimo, molto meno della media europea. Cosa determini l'andamento della produttività in un'economia è una delle questioni più importanti e dibattute dagli studiosi del settore. Un'analisi approfondita di questa domanda richiederebbe un lungo trattato. Ma una cosa è certa: non ci sono miracoli. Un fattore determinante è la qualità della mano d'opera e del capitale umano ed è per questo che scuola e università sono tanto importanti, e tanto più in un periodo, come l'ultimo decennio, ricco di innovazioni tecnologiche. Una maggiore flessibilità nell'utilizzo della manodopera

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facilita l'efficienza, e ne consegue che certe rigidità imposte dai sindacati non aiutano. L'efficienza si ottiene quando i migliori sono premiati, sia nel settore privato sia in quello pubblico, sia nella scuola che nell'università. E necessario pertanto reintrodurre subito il criterio meritocratico, come spiega bene Roger Abravanel nel suo recente libro Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto (Garzanti 2008). Inoltre, ricerca e innovazione aprono a nuove fonti di efficienza; ecco perché gli imprenditori devono intraprendere questa strada e non sfruttare rendite di posizione offerte dal settore pubblico o semipubblico. Maggiori privatizzazioni e maggiore concorrenza, quindi. Lo stato serve, eccome; ma non per produrre quei beni e quei servizi che i privati possono fornire meglio, bensì per offrire servizi che il mercato non può produrre, o non altrettanto bene (giustizia e sicurezza per esempio), servizi che funzionino e che costino meno in termini di tasse, come per esempio un sistema giudiziario che non richieda anni e anni per risolvere una causa. Nulla di tutto ciò è semplice da realizzare. E vero che nascondere la gravità della malattia può aiutare psicologicamente un malato terminale. Ma se l'Italia non è un malato terminale (e noi pensiamo non lo sia), allora una cura efficace deve partire dalla consapevolezza della gravità della sua situazione. Dare l'aspirina a un depresso non serve a nulla, anzi, ritarda l'inizio della vera cura. Le ricette no global e antimercato che si respirano oggi in Italia, sono come l'aspirina a un depresso.

Le vere ricette per aumentare produttività ed efficienza Ma allora quali sono le vere ricette? Partiamo con il la-

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voro femminile. Di tanto in tanto, soprattutto in campagna elettorale e nella giornata dell'8 marzo, torna a spirare una ventata di interesse su questo argomento che subito svanisce nel nulla. Andrea Ichino e uno di noi (Alesina) hanno proposto una politica molto semplice che favorirebbe l'occupazione femminile: ridurre le imi, poste sul reddito delle donne,. Costerebbe relativamente poco al fisco: molti studi dimostrano che la risposta dell'occupazione femminile, e quindi della base imponibile, compenserebbe gran parte della caduta di gettito dovuta alla riduzione delle aliquote. Sarebbe una politica flessibile che aumenterebbe il reddito delle famiglie, che faciliterebbe il lavoro femminile stesso, dalla cura dei bambini a quella degli anziani eccetera. Dando più reddito disponibile alle famiglie, starebbe poi a loro decidere come meglio spenderlo. E questa è una politica più sensata rispetto a quella generalmente proposta di aumentare le tasse per costruire più asili nido pubblici, che servono sì a madri con figli piccoli ma non, per esempio, a lavoratrici con altri problemi domestici (come i genitori anziani). Alesina e Ichino hanno illustrato in dettaglio i meriti di questa proposta in una serie di articoli sul Sole 24 Ore della scorsa primavera. Va poi ricordato che una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro non comporta un calo della natalità. Nulla conferma questa tesi nei paesi Ocse, e del resto l'Italia ne è la prova. Abbiamo una delle natalità più basse e la più bassa partecipazione delle donne alla forza lavoro. La Svezia, con una partecipazione femminile al lavoro del 90 per cento o quasi, ha una natalità più alta della nostra. Negli Stati Uniti, anche in assenza dei servizi pubblici gratuiti che caratterizzano la Svezia (ma con tasse ben inferiori), le donne lavorano quasi al 70 per cento e hanno una natalità ben più alta della nostra. Tutti gli studi statistici che conosciamo non mostrano alcuna correlazione tra

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natalità e partecipazione alla forza lavoro femminile nei paesi Ocse. E vi è un motivo ovvio: se da un lato la partecipazione al lavoro riduce il tempo della donna per la famiglia, dall'altro aumenta il reddito, cosicché certe funzioni svolte dalle casalinghe possono essere acquistate sul mercato. Passiamo a considerare il problema degli «over cinquanta», fuori dalla forza lavoro. L'unica ricetta indispensabile è un aumento dell'età pensionabile che riduca il peso fiscale delle pensioni. Se si andasse in pensione più tardi, si potrebbero abbassare le aliquote per chi lavora proprio perché il peso delle pensioni sul fisco si ridurrebbe. Questo consentirebbe di ridurre la differenza fra il costo del lavoro per le imprese e il reddito netto percepito dalle famiglie dopo le tasse, il famoso «cuneo fiscale», favorendo l'occupazione e la produzione di reddito. Tutti i paesi Ocse si stanno muovendo in questa direzione. Le lunghissime discussioni sullo «scalone» che hanno bloccato per mesi il precedente governo sono invece un esempio della lentezza con cui stiamo procedendo in Italia. E i giovani? Innanzitutto nelle nostre università ci sono troppi studenti fuori corso. Anche per questo, il costo delle rette andrebbe caricato più sugli utenti che sui contribuenti. Ciò creerebbe gli incentivi giusti in due sensi: primo, renderebbe costoso per chi è fuori corso «parcheggiarsi» all'università; secondo, gli studenti, dovendo pagare di tasca propria, richiederebbero un servizio migliore. Rimandiamo al libro di Roberto Perotti, L'università truccata (Einaudi 2008), per una spietata analisi del fallimento dell'università italiana. Vi sono poi i cosiddetti precari. Sappiamo ormai fin troppo bene dove nasca questa piaga e ne abbiamo parlato più diffusamente nel nostro libro II liberismo è di sinistra. Il problema dei precari è legato a riforme del mercato del lavoro - le riforme Treu e Biagi - che hanno

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creato un mercato dicotomico: da un lato i precari, che vengono impiegati con contratti temporanei e con scarsissime garanzie, e dall'altro i lavoratori del mercato tradizionale, praticamente illicenziabili. L'incentivo per gli imprenditori, compreso il settore pubblico, è chiaro: assumere a rotazione precari da non far entrare nel mercato più rigido. La conseguenza è che gli imprenditori non sono in alcun modo incentivati a investire nella formazione della manodopera con effetti negativi sulla produttività, per non contare la frustrazione e la demotivazione dei precari. L'unica soluzione è quella di creare un mercato del lavoro unico. Come abbiamo spiegato, ci vuole un mercato meno dicotomico e con adeguate garanzie per tutti, ma senza le rigidità di quello attuale. Dare un posto fisso a tutti i precari è un altro falso miracolo. Farebbe regredire il mercato del lavoro italiano agli anni ottanta, quando la disoccupazione superava di molto il 10 per cento, mentre oggi è intorno al 6. Non è certo quello che vogliamo.

Il settore pubblico serve Il settore pubblico, finanziato dal fisco, ha tre funzioni: la produzione di beni e servizi pubblici non producibili dai privati; la redistribuzione dai più ricchi ai meno ricchi; e l'assicurazione contro eventi negativi, tipo malattia o disoccupazione. Lo stato italiano fa male tutte e tre le cose e ciò si manifesta in sprechi e perdite di reddito disponibile per il cittadino medio. L'inefficienza di gran parte dei nostri servizi pubblici (non di tutti intendiamoci) è nota. Non è il caso qui di insistere su questo punto. Ma vale la pena sottolineare che perdite di tempo del cittadino, ritardi, code, rinvìi sono riduzioni nette di produttività del sistema

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economico e quindi di Prodotto interno lordo. Si pensi solo alla lentezza e al malfunzionamento della giustizia civile: essa costituisce non solo un costo enorme in termini di perdita di produttività, ma anche, come abbiamo spiegato nel Liberismo è di sinistra, una vera e propria barriera all'ingresso nel mercato di aziende giovani, dinamiche, che però non si sono ancora costruite una reputazione. Non sono parole vuote: per le imprese, le perdite dovute a un sistema giudiziario che non funziona si traducono nell'impossibilità di pagare stipendi più alti, distribuire dividendi o investire di più. Anche il sistema redistributivo è molto inefficiente:, per data pressione fiscale, il welfare italiano muove relativamente poche risorse dai ricchi ai poveri. Le cosiddette spese redistributive si disperdono in una serie di rigagnoli che finiscono per pesare sul contribuente medio e non aiutare i veri poveri. Se si aggiunge il fenomeno dell'evasione fiscale, il quadro che ne esce è davvero deprimente. Chi invece le imposte le paga ha aliquote relativamente alte che però non aiutano a sufficienza i meno abbienti. Per risanare questa situazione va messa a punto una riforma dello stato sociale di ampio respiro che sposti risorse dalle pensioni di chi non è povero ai veri poveri. Molte indicazioni le aveva già fornite la commissione Onofri voluta nel 1997 da Romano Prodi per riformare lo stato sociale. La commissione aveva giustamente individuato l'inadeguatezza del nostro sistema di welfare nell'eccessivo sbilanciamento verso le pensioni. Poco o nulla è stato fatto per seguire quei consigli. Oggi quello delle pensioni sembra un capitolo chiuso (sia dalla maggioranza che dall'opposizione); sul fronte lavoro ci si ostina a intervenire marginalmente sulla situazione dei precari senza affrontare il problema vero, vale a dire le dicotomie del mercato. Anche il sistema di assicurazione sociale è insuffi-

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ciente. A differenza di quasi tutti i paesi Ocse, in Italia non c'è un sistema ben congegnato di sussidi alla disoccupazione. I sindacati preferiscono gestire caso per caso la cassa integrazione, e spesso solo per le grandi aziende (vedi il caso Alitalia). Perché? Evidentemente per rendersi indispensabili e per esser sempre presenti a tutti i tavoli di contrattazione, invece che affidarsi a meccanismi automatici e più equi. Tutto ciò fra l'altro rende difficile e socialmente costosa la riallocazione della manodopera in settori e imprese. Manca infatti una rete di protezione per il periodo di disoccupazione che intercorre tra un lavoro e un altro. Un mondo che cambia richiede aggiustamenti nella struttura produttiva. I paesi nordici, Danimarca in testa, hanno dato una lezione a tutti su come far convivere sistemi di sicurezza sociale generosi e libertà dei mercati in un sistema globale. Lo stato è importante, ma in Italia non facilita la crescita del paese, anzi, la ostacola. Sappiamo tutti come le imposte riducano (per chi le paga) il proprio reddito disponibile. Ma ciò sarebbe un costo sopportabile, anzi produttivo, se il settore pubblico assolvesse con efficienza alle tre funzioni cui abbiamo accennato. Invece in Italia spesso il peso è «doppio» perché, oltre alle imposte, si aggiunge un settore pubblico malfunzionante.

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6. Il mondo salvato dalla politica?

Uno degli argomenti in voga oggi in Italia è la superiorità della politica sull'economia. Ma che cosa significa esattamente? E evidente che le scelte politiche, anche in campo economico, competono ai rappresentanti democraticamente eletti: questo non è in discussione. Ma se significa che i politici debbano prendere decisioni senza alcun controllo istituzionale (quello che gli anglosassoni chiamano checks and balances), o ignorando i suggerimenti dei «tecnici», diventa molto pericoloso. Se significa un ritorno massiccio dello stato nell'economia per regolare, imbrigliare i mercati e per ricreare imprese pubbliche in svariati settori, allora ha un nome, si chiama «statalismo antiliberista», e dei suoi mali abbiamo parlato sin qui. Non è forse un certo tipo di politica che ci ha portato a crescere meno di quasi tutti i paesi Ocse? Non è la politica che ci ha portato ad avere uno stato inefficiente, che non riduce la disuguaglianza? Non è la politica che non riesce a svincolarsi da interessi particolaristici? Il dialogo tra politici ed economisti non è mai stato dei più facili. Quando però queste due categorie smettono di capirsi, significa che qualcosa di molto serio non va. E un segnale d'allarme, che richiede da entrambe le parti più disponibilità nell'ascoltare le ragioni contrarie.

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E l'allarme che avvertiamo oggi in Italia. La grave crisi finanziaria in corso potrebbe essere un'ottima occasione per riflettere e cercare di capire come evitare che eventi simili si ripetano. Non è il momento di slogan. Che il nostro paese sia in un momento critico della sua storia recente è fuori discussione. La combinazione di molti anni di crescita quasi zero e di una fase ciclica negativa rende la situazione particolarmente pericolosa. Il precedente governo Prodi, debole numericamente e condizionato da una sinistra massimalista e non lungimirante, non è riuscito a fare molto, se non alzare le tasse e liberalizzare - con troppa cautela - alcuni settori commerciali. L'attuale governo di centrodestra ha ereditato una situazione fiscale migliore e si avvale di una solida maggioranza. Tuttavia, molti economisti di tradizione liberale sono preoccupati per l'impostazione della sua politica economica che pare orientata verso una direzione statalista. Il cortocircuito tra politici ed economisti è a doppio binario: gli economisti rimproverano i politici di perdere di vista i vincoli di bilancio e di altro genere che devono limitare l'azione di governo. O di non perseguire obiettivi a lungo termine, intenti a favorire questa o quella lobby utile a spostare voti; o di non sapersi opporre ai burocrati di carriera che hanno accumulato un enorme potere nei corridoi ministeriali e si oppongono a ogni cambiamento. I politici rimproverano agli economisti di non tener conto delle difficoltà che si incontrano quando si tenta di realizzare le riforme che gli economisti propongono. Secondo i politici, gli economisti predicano teorie irrealizzabili, o per lo meno, non spiegano come attivarle nella pratica. In parte questo è vero. Talvolta gli economisti non considerano la necessità che certe riforme incontrino un consenso di massa. Altre volte man-

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cano di fantasia, non si rendono conto che un obiettivo politico in un determinato momento può necessitare di politiche economiche distorte; non vedono cioè che qualche volta il fine può anche giustificare i mezzi. L'accusa comune che oggi viene rivolta agli economisti, soprattutto a quelli liberisti, è di non aver capito che il mercato finanziario americano stava per crollare, addirittura di essersi opposti a qualunque regola lo facesse funzionare meglio. Abbiamo visto come in realtà la colpa della crisi sia in gran parte della politica e non della mancanza di regole. Inoltre, se è vero che ora il mercato finanziario è in grave difficoltà, è anche vero che per un ventennio ha contribuito in modo determinante alla crescita dell'economia americana. Non è neppure vero che gli economisti non avessero lanciato segnali di allarme. Basta leggere il Financial Times o YEconomist degli ultimi anni, per non parlare dei documenti del Fondo monetario o della Banca dei regolamenti internazionali di Basilea. L'eccessivo indebitamento delle famiglie americane e l'andamento del mercato immobiliare erano da molti indicati come fattori ad alto rischio. Tanto per fare qualche esempio, Robert Shiller di Yale ha pubblicato diversi articoli e libri sull'esuberanza dei mercati finanziari che qualche volta diventa eccessiva. Kenneth Ro-goff di Harvard aveva spesso indicato nell'indebitamento estero americano un fattore di rischio. Tutti sapevano che il cumulo di risparmi in certe parti del mondo (Asia), reinvestito in altre parti del mondo (mercati americani ed europei), stava creando forti tensioni su questi mercati. Senza parlare di Nouriel Roubini, della New York University, che da tempo mandava segnali di grande pessimismo sulla finanza. Ma non è la prima volta che gli allarmi degli economisti vengono ignorati dalla politica. Sono tanti gli esempi di rotta di collisione fra politici ed economisti. — 107 —

Uno, famoso, risale al periodo interbellico ma ha molte risonanze attuali, perché ha a che fare con il rapporto fra potenza militare e relazioni commerciali. In quel caso la diatriba vide nientemeno che il grande economista John Maynard Keynes scontrarsi con molti politici dei paesi che avevano vinto la Grande guerra, soprattutto francesi. L'argomento di discussione erano le riparazioni belliche tedesche. I francesi volevano far valere la forza politica dei vincitori e imporre sanzioni severissime alla Germania. Se fossero state pagate interamente o anche solo in buona parte, avrebbero messo in ginocchio l'economia di quel paese. I tedeschi ritardarono i pagamenti appellandosi (con buone ragioni) alla loro assurdità. Per tutta risposta i francesi nel 1923 occuparono una regione industrializzata, la Ruhr, e tentarono di isolare commercialmente ed economicamente la Germania. Il risultato lo conosciamo: il tracollo economico tedesco, l'iperinflazione, e il collasso della democrazia di Weimar. Tutto ciò sfociò nel nazismo isolazionista, nell'odio tedesco verso le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale e nella Seconda guerra mondiale. Nella sua lungimiranza, Keynes aveva capito che la soluzione migliore non era la forza delle armi ma la forza dell'economia. Proponeva quindi di reinserire la Germania nella rete delle relazioni economiche pacifiche tra le potenze dell'epoca. Aveva intuito che umiliare un paese non poteva che portare alla catastrofe e sapeva che la comunanza di interessi economici basati sul commercio rende le guerre più costose e quindi meno probabili. Keynes perse questa battaglia e quando al commercio si sostituì la forza bruta, il risultato fu una guerra devastante. Passiamo a esempi più recenti. Negli anni ottanta l'America Latina stava attraversando un periodo difficile, risultato, tra l'altro, delle politiche protezionistiche dei — 108 —

decenni precedenti. I deficit pubblici erano in aumento, l'inflazione cresceva. Era chiaro che l'unica soluzione era riprendere il controllo della finanza pubblica e controllare l'offerta di moneta, che veniva stampata a rotta di collo per coprire i deficit. L'indecisione e l'incapacità politica di agire furono responsabili di una serie di iperinflazioni disastrose. Alcuni politici, in testa a tutti il peruviano Alan Garcia, seguirono politiche eterodosse, divergenti da quelle sostenute dagli economisti. Invece di una buona dose di rigore fiscale, adottarono controlli amministrativi sui prezzi, nazionalizzazioni, interventi pubblici estesi in questo o quel settore, ignorando la prescrizione degli economisti (almeno quelli seri) di smettere di stampare moneta, che come unico risultato aveva quello di scatenare l'inflazione. Ne derivò un periodo di iperinflazioni, seguite da fortissime recessioni. Anche in questo caso, paradossalmente, i politici si descrivevano come difensori dei poveri, sebbene l'iperinflazione (per non parlare delle recessioni) non fece che peggiorare le condizioni dei più deboli, aumentando povertà e disuguaglianza. Mentre i poveri venivano pagati con moneta nazionale che valeva sempre meno, i ricchi esportavano capitali. L'America Latina uscì da anni di disastrose politiche populiste con una distribuzione del reddito ancora più disuguale. Anche in quel caso furono due economisti, Rudiger Dornbusch e Sebastian Edwards a mettere in guardia contro i danni di una politica economica guidata dal populismo. Naturalmente gli economisti non hanno sempre ragione e qualche volta commettono errori di valutazione e di visione globale. Per restare in Sudamerica, per esempio, hanno sottovalutato la difficoltà con cui economie di mercato si sarebbero imposte all'opinione pubblica. Dopo i forti disequilibri macroeconomici degli anni ottanta, molti paesi sudamericani hanno seguito — 109 —

politiche di liberalizzazione dei mercati con notevole successo, ma in qualche caso vi è stata una reazione antimercato non prevista. La corruzione, la commistione tra politica, ricchi rentiers e capitalisti era vista con grande antipatia dalla maggioranza dei cittadini. Il liberismo sembrava una scusa a vantaggio di pochi per arricchirsi con mezzi più o meno leciti. Inoltre, le riforme per migliorare i sistemi di sicurezza sociale sono state troppo lente. In questo caso gli economisti hanno sottovalutato l'importanza di alcuni fattori politici e della transizione necessaria per arrivare a un'economia di mercato funzionante. E non è un errore da poco. Il consenso politico è fondamentale per cementare alcune riforme e se viene meno, è a rischio il loro futuro. Anche in Italia ci sono stati momenti di grande disaccordo tra politici ed economisti. Nella sua casa di Belmont, nel Massachusetts, il 26 gennaio 1975 Franco Modigliani leggeva una copia del Corriere della Sera. Si soffermò su un breve articolo in cui si descriveva l'accordo tra Confindustria e sindacati sulla nuova scala mobile: «Importante accordo Confindustria-Sindacati apre nuove prospettive al rilancio produttivo» era il titolo. Era l'accordo che aumentava i salari non proporzionaimente all'inflazione ma di un tanto fisso per ogni punto di inflazione. L'effetto sulla spirale dei salari e sulla loro compressione sarebbe dovuto risultare evidente a chiunque. Nessuno, o quasi, in Italia vi aveva fatto caso. «Il silenzio dei miei colleghi italiani sull'accordo e soprattutto sulle conseguenze della contingenza unificata, mi stupisce veramente» scriverà Modigliani a Paolo Baffi, governatore della Banca d'Italia, un mese dopo. Economisti e imprenditori impiegarono molto tempo a rendersi conto degli effetti di quell'accordo, e solo grazie a un Modigliani esterrefatto, che non smise mai di scrivere, ribattere, fare conti ed esempi. Ma ormai il danno era fatto e l'Italia — 110 —

impiegò un decennio per rimediare. Quello è l'esempio di un accordo dettato da esigenze politiche - tenere insieme Confindustria, sindacati e governo - che diede un colpo gravissimo all'economia italiana. Quando queste tre parti si siedono a un tavolo, quasi sempre i contribuenti sono chiamati a saldare il conto. Anche sulle pensioni Modigliani fu lungimirante. Scriveva a metà anni novanta: «L'Italia eroga pensioni assai maggiori di quelle giustificate dai contributi pagati. La differenza è saldata dallo stato e ciò ha contribuito al grande deficit e al suo aumento nel tempo». Sarebbe dovuto saltare agli occhi che la politica pensionistica degli anni settanta e ottanta aveva innescato una bomba a orologeria. E questo è un altro esempio in cui la politica prevarica sulle leggi basilari dell'economia, anzi, sulle leggi basilari dell'aritmetica! I politiri fecero finta di non accorgersene e poi, quando la situazione era compromessa, si mossero con troppa cautela, ignorando l'esortazione degli economisti a intervenire con più decisione. Anche in Italia vi sono state occasioni in cui gli economisti hanno sbagliato. Alla fine degli anni settanta, per esempio, si opposero all'ingresso nello Sme. Perché lo fecero? Per due motivi. Il primo fu un errore di teoria economica. Non capirono che continuare a sostenere le esportazioni a colpi di svalutazione non avrebbe portato lontano. Erano rimasti ancorati a una impostazione keynesiana molto «scolastica», si illudevano che una politica monetaria e fiscale aggressiva potesse correggere i cicli economici. Inoltre, non capirono che doveva finire la dipendenza della Banca d'Italia dalle esigenze del finanziamento del deficit pubblico, un altro focolaio d'inflazione. Il secondo errore fu ancora più grave. Non capirono che entrare nello Sme era un modo per ancorare politicamente l'Italia al resto d'Europa. Se non fosse accaduto, probabilmente l'Italia sarebbe precipitata — 111 —

in una spirale di inflazione e svalutazione che l'avrebbe resa un paese di secondo ordine. Ecco un caso in cui precise esigenze politiche devono condizionare le scelte economiche. Per fortuna i politici (almeno i più lungimiranti) in questa occasione non li ascoltarono. Questi esempi ci dicono che spesso quando il dialogo tra politici ed economisti è difficile e teso, si sta attraversando una fase delicata, in cui sono in campo questioni cruciali. A noi pare che un momento simile si stia riproponendo oggi in Italia. La supremazia della politica viene invocata contro il mercato che gli economisti invece difendono. Questo non è il momento di slogan contro il capitalismo, la finanza e il mercato. Questo è il momento di capire che cosa non ha funzionato, e che cosa si può fare innanzitutto per evitare errori che potrebbero rendere questa crisi ancor più grave. Senza perdere di vista che il capitalismo può produrre crisi gravi, ma rimane il sistema economico migliore che il genere umano sia stato in grado di creare.

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