La commedia, sul serio. Uno studio filosofico

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La commedia, sul serio. Uno studio filosofico

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Orni tri Nikulin La commedia, sul serio Uno studio filosofico Quodlibet Studio

Indice

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Introduzione

Prima parte Storia della commedia 19

1.

Il buono, il brutto e il cattivo: le antiche origini della commedia

51

2.

I moderni: la perdita romantica della commedia

Seconda parte La logica della commedia 89

3. Tutti si uniscono alla lotta: la dialettica dell'azione comica

125

4. Struttura e argomenti della commedia

161

5. La catastrofe del finale positivo

Terza parte Etica della commedia 191

221

6. Stolta sapien7..a. Il filosofo come figura comica

Conclusione

Introduzione

Alla filosofia piace pensarsi impegnata a far fronte alle sfide più urgenti della modernità e a trattare le questioni fondamentali dell'esistenza umana. Eppure, anche se il ruolo svolto dalla commedia nel plasmare le nostre vite è fondamentale, la filosofia ha trascurato per troppo tempo di dedicarle una trattazione di rilievo. Sebbene non siano mancati studi critici eccellenti sulla sua storia e sulla sua poetica, nonché sui suoi svariati aspetti e generi, la filosofia deve ancora prendere la commedia sul serio. L'obiettivo del presente testo non è solo quello di offrire un umile rimedio a questa omissione, ma anche di rivelare la relazione essenziale tra filosofia e commedia. Come dimostrerò, la commedia è in realtà la drammatizzazione del ragionamento filosofico, e come tale merita di occupare un posto centrale come materia d'indagine filosofica. Già nell'antichità, Platone e Aristotele guardavano alla commedia con sospetto, per via della sua raffigurazione del popolo come rozzo e volgare. Tuttavia, come ricorderanno i lettori de Il nome de/ltl rosa di Umberto Eco, pare che Aristotele abbia dedicato un libro intero della sua Poetica alla commedia. Ma poiché questo libro andò purtroppo perduto per la posterità, la filosofia ha ancora bisogno di produrre una sua versione di questo testo. La commedia non fu trascurata soltanto nell'antichità - anche la filosofia moderna, tendenzialmente, l'ha ignorata. Le ragioni hanno a che fare con la preferenza tutta moderna per la tragedia e per le sue radici profonde nella formazione della soggettività moderna. Il soggetto moderno cartesiano si pensa come autonomo e pienamente razionale. Esso costituisce sé stesso come il centro di tutti i significati, l'ombelico del proprio mondo spirituale. Eppure, a caratterizzare l'autosufficienza di cui il soggetto moderno apparentemente si bea

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INTRODUZIONI!

sono solitudine, monologismo e solipsismo 1 • L' «io» soffre inevitabilmente per il suo isolamento, anche se narcisisticamente considera questa solitudine come il marchio della propria nobiltà e sublimità. Perché, al di là della sua maestosa ed eroica simulazione, il soggetto isolato è patetico e meschino. Nel tribunale teatrale e tragico della sua vita quotidiana, il soggetto moderno figura al contempo come accusato, accusatore, difensore e giudice 2 • Analogamente, in quanto eroe, produttore e regista del suo stesso dramma tragico, il soggetto moderno ne è sia il protagonista, sia l'unico attore3. In questo contesto di solitudine, esso è in costante confronto con la propria fine ed è, di conseguenza, orientato verso la morte. Il soggetto moderno ha voglia, o finanche bisogno, di morire. E tuttavia non può sbarazzarsi di sé stesso. Come Amleto, l'eroe filosofico moderno desidera suicidarsi, ma è incapace di muovere un solo passo al di fuori di sé per portare a termine l'azione. Ancora succubi dell'incantesimo dei Romantici, anche noi tendiamo a definirci secondo i termini della finitudine e della morte. Il sortilegio lanciato dai Romantici annebbia il nostro punto di vista sulla commedia anche in altri modi. La concezione romantica della civiltà compendia ciò personalmente vedo come la nostra (in)comprensione sia della tragedia che della commedia. Non solo i Romantici compresero la civiltà nei termini di una «disputa tra gli antichi e i moderni», ma privilegiarono il mondo greco rispetto a quello romano. Figure come August Schlegel e G.W.F. Hegel, per esempio, sostenevano che la tragedia - attraverso la quale pensavano si rivelasse il modo greco - fosse sublime, ma che la commedia non arrivasse neanche a essere bella. Nella loro presa in considerazione della commedia, tanto Schlegel quanto Hegel ritennero la ' Emmanucl Lcvinas arriverà a dichiarare che il solipsismo è la struttura stessa della ragione: E. Lévinas, Le temps et l'autre, PUF, Paris 1983, p. 48: «le solipsisme n'cst ni une aberration, ni un sophisme: c'cst la structure mcme de la raison». ~ Come afferma con approvazione Hegel: «Don Cesare, nella Sposa di Messina di Schiller, può esclamare, a ragione: "Non vi è nessun giudice al di sopra di me"» (G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di F. Valagussa, Bompiani, Milano 2012, p. 587; G.W.F. Hegel, Vorlesungen aber die Astbetik, in Id., Werke, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986, voi. 13, p. 252). 3 Diverso è l'ammonimento di Epitteto: «Ricorda che sei attore di un dramma, il cui carattere è determinato dall'autore ... Perché, questo è il tuo compito, recitare nobilmente la parte che ti è stata assegnata; quanto alla scelta di essa, è compito di un altro» (Epitteto, Manuale, 5, in Id., Tutte le opere, tr. it. di C. Cassanmagnago, Bompiani, Milano 2014, p. 987).

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commedia antica superiore alla commedia nuova e la commedia greca superiore a quella romana. Io intendo sostenere, al contrario, che la commedia si rivolga in modo molto più acuto rispetto alla tragedia ai bisogni esistenziali, morali ed erotici dell'essere umano. Tuttavia, con il termine commedia faccio soprattutto riferimento alla commedia nuova e non alla commedia antica, la quale, tuttavia, non dovrebbe essere del tutto tralasciata, ma piuttosto radicalmente rivalutata. Come spero di riuscire a dimostrare, ad essere veramente moderni non sono né Sofocle, né tantomeno Aristofane. Sono piuttosto i principali rappresentanti della commedia nuova greca, come Menandro, e i drammaturghi romani Plauto e, soprattutto, Terenzio, coloro che istituirono quel genere comico che ancora adesso è significativo e vivo. La commedia nuova è sopravvissuta nel corso della storia, arrivando fino al Rinascimento e alla prima modernità con Shakespeare e Molière fino alla commedia esistenziale contemporanea e a Woody Alleo. In quanto segue, quando parlo di commedia, mi riferisco a quella particolare tipologia creata dalla commedia nuova, così come fu stabilita per la prima volta in Menandro e Terenzio, fiorì nella commedia moderna e ancora sopravvive nella commedia contemporanea. La commedia che analizzerò ha una dimensione descrittiva, dato che mette in mostra le molteplici complessità e disparità delle nostre vite. Ha anche una dimensione normativa, giacché diagnostica i problemi e le patologie, permette una correzione di queste problematiche e infine offre la possibilità di ottenere un benessere condiviso insieme agli altri. Dato che molte commedie fanno uso di una miscela di generi e mezzi di espressione diversi e continuano a sperimentare con essi, questa comprensione della commedia non troverà corrispondenza in tutte le commedie esistenti. La deviazione da una norma è tuttavia essa stessa una norma comica, di cui la commedia si serve spesso come espediente. La commedia è imperitura perché è la stessa condizione umana ad essere comica. Essa infatti è l'unico genere che prende in considerazione la realizzazione del benessere umano e della libertà, intesa come l'essere con gli altri. Tale libertà non è mai scontata, ma è sempre possibile - come compito che può essere conseguito insieme agli altri. La commedia è definita dalla sua struttura e dal suo finale - un finale positivo a cui si perviene solo attraverso un'azione condivisa diligente, insistente e spesso inaspettata di tutti i partecipanti. Il be-

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INTRODUZIONI!

nessere non è dunque un bene atemporale o trascendente che sta lì e aspetta solo di essere scoperto. Piuttosto, il benessere comico, che è realizzabile, è un'affermazione dell'amore e del buon vivere che arriva alla fine come risoluzione di un conflitto. Tuttavia, come la stessa vita, questo bene necessita di costante riproduzione, rinnovamento e riaffermazione. Pertanto, a differenza della tragedia, che è la celebrazione della morte, la commedia è la celebrazione della vita. Eppure il conseguimento del bene umano, la rinascita dell'amore e la riproduzione della vita necessitano di un ragionamento attento e consequenziale, «logico». Ecco perché nel mio resoconto la commedia risulta essere un'impresa profondamente filosofica e la filosofia un'impresa comica. Fin dai suoi inizi, infatti, la filosofia moderna fu costituita come il pensiero monologico di un io solitario, o come il discorso rivolto a sé stesso di un soggetto isolato la cui unica determinazione era quindi l'essere per la morte, di natura tragica. Nondimeno, come intendo dimostrare, la commedia è la riproduzione sul palcoscenico di una ragione filosofica pratica. Per via della sua affinità con la filosofia, che, essendo un'impresa socratica, è la realizzazione dialogica dell'essere con gli altri, la commedia riproduce la struttura dell'argomentazione filosofica fin dalla sua stessa trama. Prendendo avvio da un «problema» che si presenta come una violazione dell'iniziale stato delle cose, l'azione procede attraverso una serie di passaggi che sono interconnessi mediante movimenti complicati ma coerenti, risultanti nella «soluzione» del problema, la quale non è prodotta dall'intervento di un deus ex machina, ma dal calcolo attento e dall'azione cooperante dei partecipanti. Tuttavia tra tutti gli attori vi è una figura che diventa (spesso senza volerlo) il fulcro dell'azione: il commediante per antonomasia, il pensatore pratico cui spetta la responsabilità di tirare le fila e di fare avanzare l'azione nella direzione della risoluzione nel finale positivo. Paradigmaticamente rappresentato da uno schiavo, da un servo o da un'ancella, il personaggio comico centrale traduce in azione la «stolta saggezza», che trova un distinto rappresentante in Socrate, il quale con il suo costante sberleffo e il suo apparente non saper nulla fa avanzare l'argomentazione verso una risoluzione. Versando in una situazione di sottomissione sociale, il pensatore comico diventa colui che realizza l'avanzamento verso un finale positivo. Ancora una volta la commedia fa mostra di tutta la sua carica positiva nella realizzazione comica

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e pratica della giustizia, che prende la forma di una libertà raggiunta solo alla fine, quale risultato del dispiegarsi dell'azione comica e della trama, e che si traduce nell'ottenimento dell'amore, della vita e soprattutto, per quanto riguarda i diseredati, della libertà personale. Ho diviso il libro in tre parti principali 4 • La prima parte è «storica», in quanto presenta una panoramica degli approcci alla commedia. Comincio dall'antichità, spostandomi da Aristotele fino al grammatico del IV secolo d.C. Elio Donato, e poi tratto la modernità, dai dibattiti teorici italiani del sedicesimo secolo a quelli del diciannovesimo secolo e alla letteratura contemporanea. La seconda parte è «logica», in quanto analizza la struttura della trama (mythos) e dell'azione comica. Faccio mio e applico il concetto aristotelico di argomento retorico, e discuto il ruolo e il posto che ha l'amore nella commedia. La terza parte è «etica», giacché si occupa del personaggio (ethos) comico in quanto «pensatore», nel suo ruolo all'interno dell'avanzamento della trama e del raggiungimento del finale positivo, o lieto fine. La commedia non viene solo messa in scena, ma anche letta. Tuttavia il dramma comico pone l'enfasi sull'azione condivisa e orientata verso un finale positivo e verso la risoluzione di un dato conflitto. Per questa ragione, sono soprattutto interessato alla commedia come forma teatrale, non come letteratura. Inoltre, intendo dimostrare che la commedia può essere compresa come entità a sé stante, e non in quanto complementare o opposta alla tragedia. L'idea di un sistema e di una gerarchia dei generi ha le sue radici nell'antichità; in seguito trovò supporto nel poeta francese seicentesco Ronsard, e fu ulteriormente coltivata dai Romantici. Ma non dobbiamo comprendere la commedia all'interno di un sistema di relativi generi e suddivisioni - come tragicommedia, melodramma, commedia seria, ironica, domestica, dei costumi, dei caratteri, degli intrighi, alta, bassa, farsa, satira, burlesque, sarcasmo, grottesco, e così via. La voce della musa comica Talia può benissimo risuonare da sola, e non solo in concerto con le sue sorelle. In questo libro intendo fornire una difesa della ragione comica. Da un lato, la ragione tragica scaturisce dalla nozione specificamente moderna di soggettività autonoma - che è, ripeto, solitaria 4 Alcune delle idee sviluppate nel presente libro sono presenti in D. Nikulin, The Comedy of Phi/osophy, e in Id., Engaging Agnes Heller: a Criticai Companion, a cura di K. Tcrezakis, Lanham et al., Lcxington 2009, pp. 167-192.

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e autosufficiente. Dall'altro, la ragione comica riflette una vita insieme agli altri. Le persone praticano la ragione comica all'interno di una deliberazione riflessiva che coinvolge gli altri e per mezzo di un'azione drammatica ben ordinata. Vorrei dimostrare come questa azione drammatica sia in grado di conseguire un finale positivo, o lieto fine, che celebra la vita, l'amore e la libertà. Potremmo addirittura dire che la commedia dispone di una sola trama: le persone agiscono per realizzare il loro desiderio di stare insieme a coloro che amano; chi inizialmente si oppone a questa aspirazione si rassegna al benessere degli altri e, quindi, contribuisce alla loro felicità; e, alla fine, gli oppressi vengono liberati. In breve, la commedia è sempre la stessa per quanto riguarda il suo conseguimento del bene umano, eppure ogni commedia raggiunge questo bene in modo diverso. La commedia dunque illustra una vita che può essere condivisa e goduta nella reciprocità. La virtù della commedia consiste perciò nella sua capacità di portare gli eventi a un buon esito, cui si perviene mediante lo sforzo condiviso di un certo numero di attori. Filosoficamente parlando, possiamo osservare il lato comico della ragione nella vita della mente che stabilisce, con un dibattito condiviso, l' «esito positivo» di un'argomentazione ben costruita e giustificata. La complessa trama della commedia è, nella sua struttura, fondamentalmente razionale. Secondo il parere del grammatico Donato, in una trama comica cominciamo con delle premesse che stabiliscono un intrigo o un problema, da cui poi ci muoviamo verso una complicazione. Dopo un certo numero di ben giustificati passaggi deliberativi, arriviamo finalmente alla conclusione, alla risoluzione del problema iniziale e alla realizzazione dell' «esito positivo». Dobbiamo cioè constatare come una trama comica assomigli a una lunga e sofisticata argomentazione logica o dialettica. E quindi la trama comica è più il prodotto di una ragione dialogica attentamente ponderata e dimostrativa che di un'immaginazione produttiva; alla fine, l'azione dovrebbe approdare a uno stato delle cose reciprocamente accettabile e riconosciuto. Il finale comico è, dovremmo sperare, possibile. Ma non è mai garantito. Diversamente dalla morte fatale del finale tragico, il finale comico, come la vita, ha bisogno di essere rinnovato, riprodotto, e raggiunto più e più volte.

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L'analogia e la somiglianza strutturale tra una trama comica e una solida argomentazione filosofica è piuttosto eclatante. La commedia, potremmo dire, è la drammatizzazione di un ragionamento filosofico5. Le complicazioni di una trama comica appaiono inizialmente scoraggianti e irrisolvibili. Perché possa pervenire alla risoluzione di un conflitto, la trama comica richiede notevoli abilità drammatiche. Simile a un'argomentazione, che può servirsi di varie tecniche o inventarne di nuove, una buona trama può attingere da altre fonti o elaborare nuove mosse drammatiche. Inoltre, mentre la trama comica e l'argomentazione logica sono entrambe comprensibili ad ogni passaggio del loro sviluppo, se considerate nella loro interezza diventano difficili da memorizzare. Lo si deve alla loro generale complessità e alla sottigliezza dei loro passaggi da un punto a un altro. Infine, tanto la commedia quanto la filosofia fanno giustizia alla vita e al pensiero. Esse stabiliscono rispettivamente la trama o l'argomentazione attraverso una procedura riflessiva e argomentativa cui è necessaria la presenza di un attore o pensatore che renda possibile la risoluzione di un conflitto o la conclusione di un'argomentazione. In poche parole, si potrebbe dire che, servendosi dell'azione drammatica, la commedia porti a compimento ciò che la filosofia raggiunge con le argomentazioni. Potremmo affermare che l'argomentazione filosofica e la trama comica siano intenzionalmente isomorfiche nella loro struttura. In questo senso, la commedia è filosofica e la filosofia è comica. Potremmo anche arrivare a sostenere che la commedia sia nata da una costola dello spirito della filosofia, e che alcune delle sue caratteristiche siano spiegabili solo con la sua originaria prossimità alla filosofia 6• La commedia è, per coniare un'espressione, «filosodia», il canto del filosofo. La commedia è condivisa con gli altri, praticata «in conversazione» con essi in qualità di partecipanti. La commedia vede il benessere s Come osserva Walter Bcnjamin, la filosofia si presenta come etica nella tragedia e come logica nella commedia, dove la filosofia è «assoluta» e «raffinata»: «Was namlich fiir die Tragodie die Ethik, das ist fiir die Komodie die Logik, in beiden ist philosophische Substan1., abcr in der Komodie die absolute, gereinigte» (W. Bcnjamin, Molière: Der eingebildete Kranke, in Id., Gesammelte Scbrifte11, a cura di R. Tiedemann, H. Schweppehauscr, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1972, voi. Il, 2, p. 612). 6 Da un punto di vista storico, la commedia nuova emerge in un momento in cui la filosofia antica, dopo la morte di Aristotele, è nel pieno della sua maturità, l'Accademia e il Liceo sono già ben consolidati e lo stoicismo è a un passo dal fare la sua comparsa.

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- che Aristotele chiamava eudaimonia (felicità) - come essere con gli altri. Se a tratti può essere faticosa, la commedia tuttavia supera la sofferenza e ci conduce a un esito comune mediante uno sforzo congiunto e un'azione condivisa. Mentre la tragedia celebra la morte e la finitudine umana, la commedia celebra la vita e il suo rinnovamento. Nascosta dietro la maschera di una vitalità apparentemente sconveniente e di un divertimento ingiustificabile, la commedia contempla spesso al suo interno azioni assurde e decisioni irrazionali, che sono però di natura morale, e mai moralistica. La commedia dunque ritrae e riproduce una vita di benessere e, al contempo, funge da guida normativa per questa vita. La commedia è sempre coinvolgente e mai noiosa, dato che esercita e mette in mostra la vita della mente all'interno di un'azione drammatica. La noia, dopo tutto, è un tratto distintivo del soggetto tragico della modernità il quale, in quanto monologico e autonomo, nel suo stato di isolamento non può fare a meno di stancarsi di sé stesso. Non fa neanche caso al tedioso, monotono ripetersi degli eventi. Nella sua condizione di annoiata solitudine il soggetto assomiglia, così Friedrich Schleiermacher replica a Johann Gottlieb Fichte, all'immagine di un calzino che lavora a maglia sé stesso. Solo nell'essere e nel parlare con gli altri possiamo tenere alla larga il rischio della noia, sintomatica del soggetto isolato. La commedia è costruita su un'azione che coinvolge tutti, dentro e fuori il palcoscenico. È d'intrattenimento e ricorre spesso ai motti di spirito, ai giochi di parole e al riso. Ma a definire la commedia non sono questi espedienti. Piuttosto, a determinarla è la struttura indirizzata verso un finale positivo. Vale a dire, l'essere comico è orientato verso la felicità, un orientamento che è sempre ancora da raggiungere. Non è allora una contraddizione quella di parlare della commedia in modo serio. La commedia è una cosa seria. Essa è sempre morale: è portatrice di un messaggio che riguarda la possibilità dell'uguaglianza, della libertà e del benessere umani. Ma al contempo la commedia non è moralistica. È piuttosto anarchica e sovente ironica. Il moralismo cela sempre uno specifico interesse o un programma - di solito quello di affermare di stessi a spese degli altri - dietro l'apparenza di un messaggio morale. Invece, alla commedia piace ridere a squarciagola, essere indecente e, talvolta, non dire la verità per intero. Questi elementi non sono sempre vizi, ma possono essere espedienti comici che aiutano a dirigere l'azione verso un fine

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buono o lieto. In un'interpretazione morale ma non moralistica della commedia, i personaggi non sono raffigurazioni astratte di posizioni morali (o immorali) mascherate. Al contrario, l'interpretazione morale della commedia vede i personaggi come persone che a loro volta realizzano sé stesse insieme agli altri nell'azione comica. Uno dei personaggi più importanti della commedia, onnipresente nella commedia nuova, è lo schiavo (servus), il servo, il valletto o l'ancella intelligente. Lo schiavo intelligente compare in modo ricorrente in Menandro, Plauto e Terenzio, e successivamente in Shakespeare, Ben Jonson e Molière, fino alle sue trasformazioni contemporanee. Lo schiavo è una variante della figura universale e culturalmente ubiqua dello stolto e assume diverse forme: il giullare, l'imbroglione, il burlone, il buffone, il pagliaccio, l'alazon e l'eiron. Nella commedia è lo stolto ad essere saggio, spesso senza neanche saperlo. Attraverso una serie di azioni deliberate, che somigliano ai passaggi di ragionamento di un'argomentazione filosofica, lo schiavo salva gli altri da una situazione apparentemente irrisolvibile e conduce tutti a una risoluzione del conflitto. Lo schiavo è la testa pensante dietro allo sviluppo della trama comica, il «regista» dell'intrigo che pianifica e mette in scena una nuova cornice drammatica per ingannare chi è saggio solo in apparenza e guidare l'azione verso un esito soddisfacente. Prendendo in considerazione lo schiavo, possiamo osservare come questa figura comica sia quella di un filosofo. Lo schiavo è un «pensatore». In effetti, lo schiavo assolve nella commedia il ruolo svolto da Socrate nei dialoghi drammatizzati di Platone. Sia lo schiavo sia Socrate si presentano, forse in modo deliberato e ironico, come alquanto sempliciotti, degli «stolti». Tuttavia, presto scopriamo, dietro la loro ottusa e ironica parvenza, una mente poderosa e sofisticata. Pertanto, sia lo schiavo sia Socrate sono dei dialettici: lo schiavo è un pensatore pratico, colui che ci conduce nel labirinto di una trama; Socrate ci guida nel dedalo di un'argomentazione, anche se spesso verso un esito negativo. Entrambi si rendono altruistici promotori della felicità altrui: lo schiavo dirige gli altri personaggi verso un finale desiderato; Socrate conduce i suoi interlocutori alla libertà del e nel pensiero. E, aspetto fondamentale, aiutando gli altri, entrambi liberano sé stessi: le azioni dello schiavo spesso gli fanno ottenere il dono più grande, quello della libertà; la conoscenza che Socrate ha della sua stessa apparente ignoranza lo libera dal vincolo di una co-

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noscenza fissa, permettendogli di sforzarsi costantemente di scoprire il come e il cosa delle cose. Nella commedia solo lo schiavo è in grado di trasgredire le differenze sociali e di guidare l'azione verso la giustizia e l'uguaglianza. Solo la mente della commedia può dimostrare che simili distinzioni sono mere convenzioni e nulla hanno a che fare con la condizione umana nella sua essenza veramente comica e razionale. Lo schiavo è il padrone nella commedia della filosofia, nella commedia della vita; è il maestro dialettico e l'architetto della sua trama. D'altro canto, il padrone è lo schiavo della commedia, perché deve attenersi al dispiegarsi dell'azione comica e dell'argomentazione filosofica che lo tiene al traino. La commedia e la filosofia ripristinano dunque la giustizia sociale e dialettica. Potremmo affermare che la giustizia della commedia consista nel recupero dell'uguaglianza e della dignità umana, del benessere e della libertà raggiunta come fine della (spesso difficile) azione e del deliberare insieme agli altri. La commedia può essere vista come un'azione drammatica che si snoda in una trama, la quale intende risolvere una complicazione attraverso una prestazione reciprocamente condivisa in cui uno dei personaggi funge da mente, o da «filosofo» che muove l'azione verso la risoluzione di un conflitto e il compimento delle aspirazioni di tutti i partecipanti. Tutto questo solo per dire che la commedia può essere presa sul serio. Ringraziamenti Voglio ringraziare Agnese Di Riccio, Rainer Forst, Manfred Frank, Saulius Geniusas, Burke Gerstenschlagcr, Agnes Heller, Michael Iampolski,Joseph Lemelin, Andrcas Kalyvas, Paul Kottman, Duane Lacey, Mark Roche, Anna Strelis, Anastasiya Nikulina, Alex Nikulin e Elena Nikulina per i loro commenti comici e i loro interventi sagaci che sono stati di enorme aiuto e incoraggiamento. Il generoso sostegno della Kassel-Stiftung e del Forschungskolleg a Bad Homburg è stato indispensabile per la scrittura di questo libro. Sono grato ad Angelo Maria Grossi per una traduzione esemplare del testo originale.

Prima parte

Storia della commedia

I.

Il buono, il brutto e il cattivo: le origini antiche della commedia

Nell'antichità la commedia era uno dei generi del dramma. Trattandosi di un dramma, essa era un'attività condivisa con altre persone mediante l'azione e il dialogo. La commedia era dunque comunitaria e il suo senso era stabilito dall'interazione sia degli attori che degli spettatori. Come genere, la commedia presupponeva una serie di regole implicite ed esplicite. A prescindere dal fatto che queste regole fossero pure convenzioni o scaturissero dalle preoccupazioni comuni degli uomini, esse governavano l'azione comica a seconda del suo scopo. Quindi, vorrei iniziare tentando di chiarire quali siano queste regole, e quali siano la struttura, lo scopo e l'azione della commedia, per poi delinearne le implicazioni filosofiche. Volgere lo sguardo (indietro) all'origine di qualunque tipo di azione comporta sempre delle difficoltà. In fondo, tale origine ci arriva immancabilmente attraverso una narrazione, che è sempre di natura interpretativa, e per quanto costituisca un tentativo di comprendere il fenomeno nella sua interezza, non può non ometterne, inevitabilmente, molti aspettix. Cominciamo dalla parola stessa, «commedia». Benché alle spiegazioni etimologiche sfugga quasi sempre il punto d'origine, perché troppo concentrate a cercare il significato originario di una parola invece che la ragione dietro all'attività originariamente praticata, possono in ogni caso essere d'aiuto. Secondo la Poetica di Aristotele, il più noto testo «archeologico» sulla commedia 1 La narrazione distingue ciò che è importante da ciò che non lo è, dimentica qualcosa, e alla fine le è impossibile adattare la piene1.za di un evento vissuto a una progressione lineare. Tale incongruen1.a a volte dà luogo a una serie di storie diverse, spesso in competizione tra loro, che riguardano le origini della stessa cosa. Ciò nonostante, cerchiamo più e più volte di carpire un'origine (o /'origine), spesso lasciandocela sfuggire, anche se facendolo in modi interessanti e fruttuosi da un punto di vista filosofico.

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PRIMA PARTE. STORIA DELLA COMMEDIA

degli albori, la parola commedia deriva o dalla parola dorico-peloponnesiaca che indicava il villaggio (kome}2, o da quella che indicava i festeggiamenti (komos)3. La kome rurale allude a un'attività comunitaria durante la quale i contadini cantavano canzoni che sbeffeggiavano i loro concittadini per le loro malefatte. Si trattava dunque di uno scambio dialogico spontaneo all'interno di una comunità critica, riflessiva. Per esempio, durante la festa di Dioniso nell'Attica i contadini si riversavano verso la città e canzonavano i cittadini benestanti che avevano in qualche modo provocato il loro rancore4. Quest'attività ridimensionava l'antagonismo dal livello della guerra e dell'azione legale a quello del carnevale, dove la giustizia era raggiunta senza essere accompagnata da spargimento di sangue o da un eccessivo risentimento5. Una critica così aperta era strettamente connessa alla presenza di una democrazia, all'ideale di uguaglianza sociale promotrice della libertà di espressione critica (parrhesia} - che sarebbe stata rischiosa al cospetto di un tiranno 6• A ogni modo, lo sbeffeggiamento critico e l'attacco (o persino l'insulto} personale finirono col diventare ca2 Aristotele, Poetica, in Id., Retorica e Poetica, a cura di M. Zanatta, UfET, Torino 2004, 1448a, 35-36. 3 Cfr. Platone, Teeteto, a cura di F. Ferrari, Ri1.zoli, Milano 2011, 173d. Vedi anche S.I. Radzig. Storia della letteratura greco-antica (lstoriya drevnegrecheskay literatury, 1940), Vysshaya shkola, Mosca 1982s, p. 275. 4 Nella mitologia greca Dioniso era il dio del vino, della follia rituale e dell'estasi. s Le burle e gli schemi costituivano una parte importante di un rituale popolare che può essere inteso come carnevalesco: Demostene, Orazio11i: Filippiche, 0/intiche, Sulla pace, Sui fatti del Cheroneso, introduzione di Pierre Carlier, traduzione e note di Ilaria Sarini, Fabbri, Milano 1994, 18.122; Ateneo di Naucrati, I deip11osofisti. I dotti a ba11chetto, 4 voli., Salerno Editore, Roma 2001, 14.621e-f. Cfr. M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradiziotie medievale e rinascimentale, trad. it. a cura di M. Romano, Einaudi, Torino 2012. Tuttavia, lo sberleffo parodiava anche la battaglia eroica. Qui ci si burlava del mito, all'uccisione si sostituivano le schermaglie verbali e la gloria immortale nelle parole del poeta era rimpiazzata da una fama di carattere comunitario, in apparen1.a fugace, ma in realtà capace di rigenerare sé stessa. Alla battaglia si sostituiva la competizione (ago11), dove l'obiettivo era vincere una battaglia fatta di parole. Successivamente nell'Attica si trasformò in una gara letteraria che accompagnava una celebrazione della comunità; i nomi dei vincitori e delle loro opere sopravvivono ancora oggi. 6 Aristotele, Poeticacit., 1448a32. M. Foucault, Discorso e verità tiella Grecia a11tica, a cura di A. Galeotti, D0111.Clli, Roma 1998; D. Nikulin, Richard Rorty, Cynic: Phi/osophy i11 the Conversation of Humankitul, «Graduate Faculty Philosophy Joumal», 29, 2, 2008, pp. 85-1 I I.

I. IL BUONO, IL BRlTITO E IL CATTIVO: LI! ANTICHE ORIGINI DELLA COMMEDIA

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ratteristiche principali della commedia antica di Aristofane e di altri drammaturghi?. Sembra che il termine komos sia collegato a kome 8• Il komos era tradizionalmente una festa, celebrata in molte città e spesso accompagnata da una «celebrazione di Dioniso, durante la quale un fallo veniva trasportato in processione» (phallephoria) e dall'improvvisazione di canti fallici (ta phallika) 9 • Quest'azione erotica proseguiva fino al momento di completo logoramento fisico e dell'oblio etilico. Un simile «finale» costituisce di per sé comunque un modo di affermare e rinnovare la vita in opposizione alle convenzioni sociali e, quel che è più importante, alla morte. Per la filosofia, tuttavia, rinvenire l'origine della commedia in un banchetto e in una folla di gente ubriaca (che canta oscenità e alla fine collassa nell'oblio alcolico) risulta di per sé sospetto, licenzioso e indecente10 • L'esaltazione conclamata della vita, dell'amore e della sessualità, l'affermazione della «natalità» e della presenza dell'incontrollabile impulso dionisiaco fanno di quei bagordi un'attività di una certa rilevanza. Eppure, se la gozzoviglia comica ha sempre un sapore piuttosto indecente, tale è il sapore della vita ben vissuta e della messa in sospensione del nostro essere mortali. Perciò, spostata (o forse adeguatamente posizionata) in un ambiente carnevalesco e ritualistico, la gozzoviglia diventava perfettamente accettabile e, anzi, ben accetta tra i partecipanti. In seguito la commedia antica la riprese e imitò in chiave satirica. I.C. Storey, Eupolis: Poet of O/d Comedy, Oxford University Prcss, Oxford 2003, p. 41. Aristotele associa direttamente il komos agli inizi della commedia (Aristotele, Poetica cit., 1449a11-12; cfr. Aristofane, Le nuvole, testo gieco a fronte, a cura di Alessandro Grilli, Ri1.zoli, Milano 2001, 538-539). 9 Cfr. Plutarco, De Iside et Osiride, 355e, 365c, in Id., Tutti i Moralia, a cura di E. Lclli, G. Pisani, Bompiani, Milano 2017; Ateneo di Naucrati, I deip11osofisti. I dotti a banchetto cit., 14.621b-622c. Secondo Aristotele un aspetto importante dei pbal/ika è costituito dal loro basarsi sull'improvvisazione spontanea (autoschediastiké). Aristotele, Poetica cit., 1449a10-1 I. Anche l'improvvisazione svolgeva un ruolo importante nel mimo, così come in seguito nella commedia dell'arte, che influen7.ò lo Stegreiftheater tedesco. L'improvvisazione implica che l'azione sia definita da un lato dalla spontaneità e dall'appropriateu.a del momento, e dall'altro dall'uso di un linguaggio tradizionale fatto di formule, noto sia ai cantanti, sia ai partecipanti (M. Parry, Studies ili the Epic Tedmique of Ora/ Verse-Making, in Id., The Making of the Homeric Verse: The Collected Papers of Mi/man Parry, Clarendon Press, Oxford 1971, pp. 266-364). 1° Cfr. una parodia in Platone, Il simposio, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1979, 212d sgg. 7

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Poiché la commedia permetteva al popolo di esprimere liberamente le proprie opinioni nella forma di un'amara canzonatura, Aristotele individuò l'origine della commedia nel giambo che, insieme all'elegia, era una delle forme principali della poesia arcaica 11 • Secondo il resoconto di Aristotele, gli sbeffeggiamenti o «canti del biasimo» (psogoi) diedero origine al giambo, che a sua volta fu alla base della commedia (come l'epica lo fu della tragedia) 1 2.. Al cuore stesso della poesia giambica si trovavano agonistiche schermaglie verbali, attacchi personali e scherni, che comprendevano allusioni agli argomenti prediletti, come il mangiare, il bere e, in modo piuttosto esplicito, la sessualità. Il giambo era a tutti gli effetti un'esaltazione della vita in tutte le sue manifestazioni fisiche più esplicite 1 3. Queste caratteristiche furono in seguito raffinate e incorporate nella commedia antica. Mentre il giambo era originariamente usato solo per derisioni di carattere scurrile, veniva anche usato per rincuorare le persone (e persino gli dèi) pur ricorrendo a un sarcasmo apparentemente indecente, a gesti pungenti e a gesti molto aspri. Come valido esempio, nell'inno omerico a Demetra la pratica del motteggio è personificata dalla figura di Iambe, un'ancella di re Celeo 1 4. 11 Nei tempi antichi, fino a Proper7jo, il giambo non era un canto legato al lutto, ma un inno di guerra e, per questo motivo, lo si associa spesso alla poesia epica. Tanto il giambo quanto l'elegia compaiono ad es. nei componimenti di Archiloco (VII sec. a.C.) e in quelli di Simonide e lpponatte (VI sec. a.C.). u. Aristotele, Poetica cit., 1448b27, 1448b31-1449a6, 1449b4-5. Aristotele designa Omero come padre di entrambi i generi del dramma: designate dallo spirito sublime dcli' Iliade e dell'Odissea nasce la tragedia, e allo stesso modo dallo sberleffo terreno del Margite deriva la commedia. Il perduto Margite, impropriamente attribuito a Omero da Aristotele (ivi, 1448b30-1449a1 ), viene citato anche nel corpus platonico. È la parodia di un poema eroico, dove il personaggio principale, Margite, doveva figurare come una specie di matto o di giullare. Platone, Alcibiade primo-Alcibiade secondo, testo greco a fronte, Ri1.Z01i, Milano 199 5, Il, 147c-d: «Sapeva molte cose (polla), tutte male (kakos)». Il sapere molto (polymathia) cioè il sapere un poco di tutto sen7.a essere in grado di spiegarlo e riportarlo a qualche forma di unità - è, per Platone, molto peggiore di una conclamata ignoranza (Platone, Leggi, trad. it. S. Ferrari e S. Poli, Rizzoli, Milano 2005, 819a). L'ignoranza la si può riconoscere, ma il sapere socratico di non sapere, che è il principio di un'onesta investigazione di sé, è ben lontano dalla polymathia, che non permette di pensare criticamente e giudicare da sé. •J Cfr. Archiloco, fr. 41-44, 46 e ss., M.L. West (a cura di), lombi et elegi Graed ante Alexandrum cantati, Oxford University Press, Oxford 1989'-, voi. I, pp. 18-20. Vedi anche Id., Studies in Greek Elegy and lambus, De Gruyter, Berlin-New York 1974, pp. 22-39; J. Latacz, P. Reclam jr. (a cura di), Archaische Periode, in Die griechische Literatur in Text u,zd Darstellung, Reclam, Stuttgart 1991, voi. I, pp. 240-247. ' 4 Approssimativamente, del VI sec. a.e.

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Demetra si presenta nella casa di Celeo alla ricerca della figlia che le è stata sequestrata: «A nessuno rivolgeva parola o gesto, / ma senza sorridere, e senza gustare cibi o bevande, / sedeva, struggendosi per il rimpianto della figlia dalla vita sottile/ finché coi suoi motteggi l'operosa Iambe, / scherzando continuamente, indusse la dea veneranda a sorridere, a ridere, e a rasserenare il suo cuore: / Iambe che anche in seguito fu cara all'animo della dea» 1s. Contrapponendosi alle convenzioni sociali, queste azioni teatrali tipiche del giambo mirano a riportare una persona alla pienezza e alla gioia della vita, provvisoriamente perdute per via di una serie di circostanze difficili e infauste. Allo stesso tempo, il giambo attirava l'attenzione dei drammaturghi per via del suo carattere informale e della sua semplicità colloquiale16. Per questo motivo lo si può utilizzare nei dialoghi ed è particolarmente adatto a rappresentare un'interazione drammatica. Al di là di queste origini etimologiche, possiamo anche rintracciare la nascita della commedia a livello storico grazie ai nomi e alla narrativa scritta. La nascita della commedia come genere teatrale e letterario è stata ricondotta alla Sicilia 17. Tra il VI e il V secolo a.e. il drammaturgo siciliano Epicarmo fu uno dei primi inventori della trama comica (mythos), sia di carattere triviale che mitologico 18. È importante osservare che la tradizione lo vuole autore prolifico di una quarantina di opere (di cui si sono conservati solo pochi frammenti), nonché filosofo pitagorico, il che sancisce una connessione precoce tra la filosofia e la commedia 19. Anche Platone fa menzione di Epicarmo, definendolo il fondatore della commedia (come Omero sarebbe il fondatore della tragedia) e 1s M.L. West (a cura di), Homeric Hymns. Homeric Apocrypha. Lives of Homer, Harvard University Prcss, Cambridge (MA) 2003, pp. 46-47 (2.200-5); dr. commentario a p. 8. 16 Aristotele, Poetica cit., 1449a24-25. 17 Aristotele cita sia Mcgara sia la Sicilia come rivendicatrici delle origini della commedia, ivi, 1448a31-33. A Mcgara si diceva che il poeta del VI sec. a.e. Susarione fosse il creatore della commedia attica (Marmor Parium, 39); K. Zicgler, W. Sontheimer (a cura di), Der Klei11e Pauly. Lexikon der Antike, Deutscher Taschenbuch Verlag, Miinchen 1979, voi. 5, P· 437· 18 Aristotele, Poetica cit., 1449b6. Epicarmo ricostruì la commedia a partire dalle sue frammentate componenti, aggiungendovi anche del suo: Epicarmo fr. A5 DK = Anon. de com. 2.4 Kaibcl. Anche Aristotele cita i siciliani del V sec. a.e. Chionide e Magnete tra gli autori comici più antichi: Aristotele, Poetica 1448a34. 19 Diog. Laert. 8.78; fr. A4 DK = lamblichus. Vl'. 266; fr. B23 DK.

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notando che egli condivideva la posizione sostenuta anche da Protagora, Eraclito ed Empedocle - ovvero che nulla è o esiste, ma tutto è in divenire 20• L'associazione tra le origini della commedia e la Sicilia continua con due generi successivi ad essa connessi: il mimo, che presenta scene di vita quotidiana sotto forma di monologo o di dialogo; e il fl,yax, consistente in una rappresentazione teatrale altrettanto breve, che per lo più parodia i miti. Anche se del fl,yax non si è conservato molto, a parte alcuni dipinti su vaso, ci è pervenuta una lunga tradizione di mimi. Il più famoso scrittore di mimi fu il siciliano Sofrone, del V secolo a.C. 21 • Sofrone scriveva in prosa, e quindi i suoi mimi apparterrebbero alla prima letteratura comica. Ancora una volta, troviamo tracce di una connessione antica tra filosofia e commedia: la tradizione successiva ci tramanda l'ammirazione che Platone nutriva per Sofrone. Si dice che Platone, pur non citando Sofrone direttamente per nome, per perfezionare l'arte dell'imitazione dei personaggi - una competenza importante per ogni scrittore di dialoghi, sia nella commedia che nella filosofia - si sia rifatto proprio ai suoi (buffoneschi) mimi 22 •

Filosofia, tragedia e commedia È più semplice definire quando è nata la filosofia che perché. Prima che la filosofia diventasse, con Aristotele, un'impresa accademica, era praticata da Platone sotto forma di attività dialettica, letteraria, scritta e da Socrate come conversazione orale e dialogica. Attraverso queste due figure possiamo osservare come, sin dall'inizio, la commedia incutesse nella filosofia un certo timore, non solo da un punto di vista personale, nella figura del filosofo, ma anche dal punto di vista topico, relativo alla sua forma e al suo contenuto. 20 Platone, Teeteto cit., 152e; cfr. Gorgia, 505e. La tradizione successiva sostiene che Platone stesso avrebbe preso in prestito parecchio da Epicarrno, trascrivendo persino molti dei suoi testi (Diog. Laert., 3.9). ~• Anche il figlio di Sofrone, Senarco, fu autore di mimi. Cfr. Aristotele, Poetica, 1447b10-11. Ad essi seguirono i mimiambi popolari del poeta del terlo secolo Eroda (di cui abbiamo una serie di scenette comiche interamente preservate, per lo più di vita quotidiana, scritte in coliambi ipponattei). u L.G. Westerlink (a cura di), A1io11ymous Prolegomena to Platotiic Philosophy, North-Holland Pub. Co., Amsterdam 1962.

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Il filosofo vi compariva spesso come figura comica, oggetto di scherno - «fa ridere non solo le serve di Tracia, ma anche il resto della folla, dato che, per mancanza di esperienza, cade nei pozzi e in ogni tipo di difficoltà» 23. Socrate, per esempio, fu notoriamente oggetto di satira nelle Nuvole di Aristofane24 • A livello topico, la filosofia sembrava essere consapevole della sua scomoda prossimità alla commedia, sia in quanto genere che in virtù delle sue problematiche. Una delle tesi centrali di questo libro è che la prossimità della filosofia alla commedia sia in realtà una benedizione per la filosofia. Tuttavia, poiché la filosofia ha spesso mirato a essere puramente razionale, un pensiero a priori sull'immutabilità nel mutevole, ha mostrato una tendenza a percepire ogni associazione con la commedia come un fardello e un motivo di imbarazzo. In genere, quindi, la filosofia cerca di distinguersi da un'attività così irrisoria e indecente e di farsi prendere sul serio - dagli altri, ma soprattutto da sé stessa. Come conseguenza di questo disagio, già con Platone la filosofia riservò alla commedia diversi attacchi. In cosa consistevano? La filosofia si scagliava contro la commedia per la stessa ragione per cui attaccava la poesia in generale. Lo scorbutico Eraclito, per fare un esempio estremo, proponeva che Omero e Archiloco fossero scacciati dalle competizioni e flagellati - a quanto pare, perché considerati i maggiori rappresentanti della menzogna poetica all'interno, rispettivamente, della poesia eroica e di quella giambica 25. I celebri attacchi rivolti ai poeti da Platone risultano, in confronto, moderati. Per Platone, la filosofia aveva il compito di chiarire il senso dell'essere, mentre la poesia era vista solo come imitazione (mimesis) del divenire e quindi come un tradimento del «vero» (to alethes) 26 • Poiché la commedia apparteneva alla filosofia, anch'essa era vista come imitativa. Peggio, la commedia si occupava del faceto e del ridicolo, dunque non poteva contribuire al miglioramento della morale pubblica27. Senza dubbio, Platone sapeva del suo predecessore, Platone 13 14

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Platone, Teeteto cit., 174a. Cfr. Platone, Apologia di Socrate, a cura di E. Ave1.zù, Marsilio, Vcne7ja 1994, 19c. Eraclito, Frammenti, a cura di R Frontcrotta, Ri1.1.oli, Milano 2013, fr. b42. Platone, 1A Repubblica, a cura di M. Vegetti, Ri1.1.oli, Milano 2007, 607c. lvi, 6o6b sg.; Leg. 934 sgg.

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il Comico2. 8 , ed è possibile che Platone il Filosofo abbia voluto distanziarsi dal suo omonimo nei propri scritti e nel proprio genere. Come forma di poesia imitativa, la commedia può rappresentare un pericolo per una seria costituzione politica e non trova dunque posto all'interno di essa. Infatti, la commedia riproduce e imita l'agire umano più «basso», che può mettere in ridicolo e criticare le serie e sublimi fondamenta di un ordine politico. E tuttavia una totale serietà, tale da contemplare la perdita di un senso del comico risulta di per sé patetica. Anche se, a discolpa di Platone, e contrastando delle interpretazioni filologiche della sua opera emerse in epoca romantica, si potrebbe sostenere che molti dei suoi dialoghi siano caratterizzati da una comicità sottile, ravvisabile sia nella forma che nel contenuto. Per di più per Platone la poesia drammatica, e la commedia in particolare, rappresentava una spiacevole miscela di dolore (lype) e piacere (hedone), o di paura e amore2.9. La compresenza di queste sensazioni opposte non porta alla realizzazione della legge (nomos) e della ragione calcolatrice (logos), ma piuttosto la scongiura30 • Pertanto, mentre la commedia era adatta agli adolescenti, agli stranieri e agli schiavi31, secondo Platone era inappropriata per gli adulti seri e per i cittadini responsabili. Eppure, sul piano psicologico, la commedia, come la tragedia, aveva la capacità di suscitare nei suoi spettatori una purificazione o una catarsi32.. La purificazione comica scaturisce 211 Frammenti in A. Meineke (a cura di), Fragmenta Comicorum Graecorum, Reimer, Berlin 1840, voi. I, cit., pp. 160 sgg. e T. Kock (a cura di), Comicorum Atticorum Fragme,1ta, Teubner, Lcipzig 1880, voli. 1-111, 1884, 1887: voi. I, pp. 601-667. Vedi anche R.M. Roscn, Plato Comicus, in G.W. Dobrov (a cura di), Beyond Aristopha,ies: Transitio11 and Diversity in Greek Comedy, Scholars Press, Atlanta 1995, pp. 119-137. 2 9 Platone, Phil. 3 re, 48a, 5oa-d. 30 Platone, RP 607a. 3 ' Platone, Legg. 658d, 817e. 3 2 Rifacendosi alla famosa definizione aristotelica della tragedia (Aristotele, Poet. 1449b24-2.8), il Tractatus Coislinianus definisce la commedia come «l'imitazione di un'a7jo. ne ridicola e imperfetta, di sufficiente lunghe1.1.a [presentata] da individui che recitano, e non in forma narrativa; che realizza attraverso il piacere [hedoné) e il riso [ge/os] la purgazione di simili sentimenti» (Tractatus Coislinianus, IV); Platone ritiene la commedia analogamente capace di purificare le passioni (o le emozioni). Successivamente i neoplatonici, come Giamblico, Proclo (In Remp. I, 49.13 sgg. Kroll) e Olimpiodoro concorderanno con Platone. Or. R. Janko, From Catharsis to the Aristote/ia11 Mean, in A. Okscnbcrg Rorty (a cura di), Essays on Aristotle's Poetics, Princeton University Press, Princeton 1992., pp. 341-358, in particolare pp. 347-351 e R. Janko, Aristotle on Comedy. Towards a Reconstructio11 of Poeties 11, University of California Prcss, Berkeley 1984, pp. 143-149. A differenza della catarsi,

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da una miscela impura e sconveniente di piacere e dolore. Per Giraldi, teorico italiano del sedicesimo secolo, «come la Tragedia purga gli animi col terrore, e colla commiseratione, e induce gli huomini, ad astenersi dal mal operare, così il riso, e le beffe nelle Comedie [... ] chiama gli huomini alla honesta vita civile» 33 • Secondo il punto di vista di Northrop Frye, cucito sulla misura della percezione psicologica moderna, «(c]ome nella tragedia esiste la catarsi della pietà e della paura, così nella commedia antica esiste la catarsi delle emozioni comiche corrispondenti che sono la simpatia e il ridicolo» 34 • Per usare un fortunato refuso di Aldous Huxley, la commedia è dunque sempre «vomedy»35. La catarsi comica è ridicola, perché purifica tanto l'anima che il corpo; è sia «alta» sia bassa; quindi, corrisponde al significato originario di catarsi come purificazione del ventre, dell'interiore umano. Tuttavia, a differenza della catarsi tragica, che apparentemente comporta una restaurazione dell'equilibrio andato perduto nelle passioni dell'anima, la catarsi comica conduce a un rinnovamento della funzione vitale dell'anima e al godimento della vita nelle sue più varie ed esuberanti manifestazioni3 6 • Questa gioia di vivere di carattere comico è celebrata e tipicamente rappresentata dai banchetti nuziali con cui si conclude uno spettacolo, come nel caso de La pace e Gli uccelli di Aristofane. Anche Aristotele nella sua Poetica annoverò la commedia, insieme alla tragedia (sia epica sia ditirambica), come una forma di imita-

che si raggiunge come purificazione delle passioni (conservatrici) della paura e della pietà, la catarsi comica viene conseguita mediante le passioni anarchiche e comunitarie. 33 L.O. Giraldi, Ragio11amento i11 difesa di Terentio (1566), cit. in B. Weinbcrg, A History of Uterary Criticism i11 the ltalian Renaissa11ce, The University of Chicago Press, Chicago 1961, p. 289. 34 N. Frye, Anatomia della critica, Einaudi, Torino 1969, p. 60. 35 A. Huxley, Antic Hay (1923), cit. in M. Gurewitsch, From Pyrrbo11ic to Vomedic lrony, in M. Charney (a cura di), Comedy: New Perspectives, New York Literary Forum, New York 1978, pp. 45-57: 55: «the human «vomedy», Huxley's felicitous typographical error» («la «vomedy» umana, il fortunato errore tipografico di Huxley» ). 3 6 Come nota correttamente Corrigan, «questa esuberanza e vitalità quasi animalesca si evince forse soprattutto nell'uso spregiudicato del sesso nelle sue [di Aristofane] opere. Non percepiamo né lussuria nevroti7.zata, né senso di colpa puritano nell'uso che ne fa, e questo spiega probabilmente[ ... ] perché la sua sessualità così manifesta risulti oggi ancora così inoffensiva se letta o riprodotta sui nostri palcoscenici» (R.W. Corrigan, Aristophanic Comedy: The Co11science ofa Co11servative, in Id. [a cura di], Comedy, Meani11g a11d Form, Chandler Publishing Company, San Francisco 1965, pp. 353-362: 359).

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zione37. Vale a dire che la commedia è solo una tra le varie forme di imitazione. In questo contesto, la commedia era associata al ditirambo (che era connesso al culto di Dioniso e imparentato alla lontana con il giambo), così come la tragedia era associata all'epica. A questo punto, Aristotele si atteneva alla distinzione dicotomica che vedeva gli opposti come contrari: applicando questa divisione semplicistica alla poesia, per lui essa poteva imitare o ciò che è buono e serio (spoudaios), o ciò che è cattivo e di scarso valore (phaulos)3 8 • Secondo il parere di Aristotele, la tragedia era un'imitazione delle persone migliori, mentre la commedia imitava i peggiori3 9• La commedia rappresentava la gente buffa e grottesca che in genere apparteneva alla categoria delle persone brutte e volgari4°. E Aristotele vedeva il comico in sé come un errore, anche se perdonabile, in quanto non provocava né dolore, né danno4 1 • Senza la conoscenza del ridicolo - sostenevano questi antichi filosofi - non si può giungere a conoscere ciò che è serio. Senza la comprensione di cosa è cattivo, non si può capire cosa è buono42 • Prendiamo ad esempio la scena finale del Simposio di Platone: quando tutti gli alti partecipanti sono ubriachi e assopiti, solo Socrate, Agatone43 e Aristofane rimangono sobri. Il Simposio, di per sé un evento comico, termina con un dialogo tra un filosofo, un tragediografo e un commediografo. Lungo il corso della conversazione, Aristofane (che personifica la commedia) è il primo ad addormentarsi, seguito da Agatone (che personifica la tragedia). Solo Socrate, il filosofo del gruppo, rimane sveglio, senza mai cedere alla stanchezza o all'ubriachezza44 . Cosa potrebbe illustrare meglio l'analogia tra la subordinazione della commedia alla tragedia e quella della tragedia alla filosofia, che trascende i dolori e i piaceri dei sensi per starsene, sobria e vigile, nel regno del razionale? Aristotele, Poetica cit., 1447a17. Ivi, 1448a2. 3!1 Ivi, 1448a16-18. 4° Ivi, 1449a32-34. 4 ' lvi, 1449a34-37. 42. Platone, Legg. 816d--c. 43 Agatone fu preso di mira da Aristofane ne Le do1111e alle Tesmoforie e nelle Ratte. Le commedie di Agatone erano probabilmente più vicine alla commedia nuova: cfr. P. Léveque, Agathon, Les bcllcs lettrcs, Paris 1955. 44 Platone, Symposioti., 223c-d. 37 38

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Da quando la filosofia cominciò a prendere in considerazione il dramma, ha sempre inteso la commedia come opposta alla tragedia. Si riteneva che la commedia presentasse e mostrasse il negativo, l'irreale, lo sconveniente - in qualità di «altro» subordinato della tragedia - e quindi non la si prendeva in considerazione nel suo stesso campo. Va però anche ricordato che Socrate portava i suoi interlocutori a riconoscere che un autore avrebbe dovuto essere in grado di scrivere sia tragedie che commedie e che un poeta tragico è anche un poeta comico. O che Aristotele intendeva dedicare il secondo libro della sua Poetica alla commedia45. Questa considerazione della commedia come l'altro della tragedia persiste fino alla modernità ed è una caratteristica distintiva del trattamento riservato alla commedia dai romantici. In effetti, questa forma di pensiero oppositivo gioca un ruolo importante nel determinare il posto che la commedia ha finito per occupare nella nostra comprensione. Allo stesso tempo, una delle critiche principali che Aristotele mosse a Platone riguarda gli opposti non mediati. Per Aristotele il principio primario del pensiero umano e dell'essere era il principio di non-contraddizione, secondo cui «(è] impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e nella medesima relazione»4 6• Aristotele distingue ulteriormente tra opposti contrari e contraddittori, che sono quelli che rispettivamente permettono e non permettono la mediazione47. Considerare gli opposti - come buono e cattivo - senza mediazione è impossibile, perché implicherebbe la distruzione dell'essere e del pensare. Aristotele quindi criticava Platone per la sua idea che gli opposti potessero interagire senza mediazione4 8• Nella sua stessa filosofia, Aristotele andò alla ricerca di un terzo neutrale (ad es., Fisica, A7), un sostrato che mediasse gli opposti contraddittori e li rendesse contrari. E in ogni caso, in materia di dramma la situazione appare diversa. È Platone che sembra aver indicato la filosofia come la più elevata tra le arti drammatiche della dialettica. 4S Fr. 1 Kasscl = Poet. 1449b2.1. Per una ricostruzione globale della teoria della commedia di Aristotele, vedi A. Schmitt (a cura di), Kommentar zu: Aristate/es. Poetik. Werke itz deutscber Obersetzutzg, Akademie Verlag, Bcrlin 2.008, voi. 5, pp. 302.-32.1. 46 Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2.000, 1005b19-2.o. 47 Aristotele, A11alitici secotzdi, traduzione e commento di M. Mignucci, introduzione di J. Bamcs, Later,.a, Roma-Bari 2.007, 2.a12.-14; Cat. 13b36-14a2.5. 48 Cfr. Platone, Fedo,re, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2.000, 103c-c.

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Piuttosto che fare da mediatore tra tragedia e commedia, la filosofia va al di là di entrambe. Paradossalmente, per Platone la stessa filosofia diventò un'imitazione formale dell'arte imitativa del dramma. Fu dunque Aristotele colui che, malgrado la sua critica a Platone, portò la commedia a essere in immediata contrapposizione con la tragedia, il suo contraddittorio drammatico. È degno di nota che Aristotele sembra non essersi attenuto alle sue stesse osservazioni nella Poetica sui tre tipi di pittori: chi rappresenta le persone migliori (Polignoto ), chi i peggiori (Pausone) e chi le persone nostre simili (Dionisio), ovvero la gente comune◄9. La rappresentazione all'interno del dramma dell'ordinarietà umana (non divina) era sfuggita all'attenzione di Aristotele. Ricadendo in quello stesso schema che aveva criticato in Platone, Aristotele tracciò una distinzione dicotomica all'interno del dramma, facendosi sfuggire la successiva distinzione, molto più sottilmente ironica, dei personaggi in buoni, «brutti» e cattivi. In ogni caso pare che questo «terzo» tipo di dramma - quello del brutto, che media tra gli opposti del buono (tragedia) e del cattivo (la commedia antica), rendendoli «contrari» piuttosto che «contraddittori» - sia stato a malapena intravisto da Aristotele, prendendo piede solo in epoca successiva. Seguendo lo sviluppo storico della nascita della commedia, ci imbattiamo in una tensione creativa e in un'opposizione mediata tra commedia antica e commedia nuova (nea), e in seguito nelle successive trasformazioni di quest'ultima. Qui è importante tenere presente la divisione convenzionale della commedia attica in commedia antica, di cui i rappresentanti più famosi sono Cratino, Eupoli e Aristofane5°; commedia di mezzo, di cui conosciamo solo dei frammenti e alcuni titoli di opere; commedia nuova di Filemone, Menandro e Apollodoro, che coincide con la fine dell'antichità classica e con la diffusione a livello mondiale della cultura greca 5 1 • Aristotele, Poetica cit., 1448a5-6. so Per uno studio molto utile su Gratino, vedi E. Bakola, Cratinus and the Art of Comedy, Oxford University Prcss, Oxford 2.010. I frammenti di Euopoli in A. Meineke (a cura di), Fragme11ta Comicorum Graecorum, voi. I, cit., pp. 104 e sgg. e Comicorum Atticorum Fragme11ta, a cura di T. Kock, HES, Utrecht 1976, voi. I, pp. 2.58 sgg. Per uno studio delle commedie di Eupoli, vedi I.C. Storey, Eupo/is cit., pp. 67 sgg. s• «Delle commedie l'antica è quella piena di elemento scher1.0so; la nuova è quella che rigetta questo elemento cd è incline alla serietà; la media è quella mista di ambedue» Tractatus Coisili11ianus, XVIII. Vedi R. Janko, Aristotle on Comedy. Towards a Reco,i49

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Ma prima, un'ultima parola sulla commedia attica: la commedia attica è esistita per lungo tempo nella forma di un'azione improvvisata52. Avendo fatto la sua comparsa dopo la tragedia (qualche tempo dopo le guerre persiane), la commedia attica finì per essere trascritta, istituzionaliZ1.ata e inserita all'interno delle feste e delle competizioni associate al culto di DionisoB. Fin dall'inizio, la commedia antica attica si serviva in apparenza di storie mitologiche per produrre parodie di avvenimenti contemporanei. In questo modo impiegava il mito sotto forma di trama elaborata, dove tutto trovava convergenza nel finale, e una narrazione i cui eroi fungono da sostituti delle creature mitologiche familiari54. Dunque fin dalle sue origini la commedia presenta una struttura narrativa basata sul logos e sul mythos, anche se, fatta eccezione per le commedie di Aristofane, abbiamo a disposizione solo frammenti e titoli della commedia antecedente.

Alcune strutture e definizioni del comico I pensatori antichi ritenevano che il dramma riflettesse l'attività umana in tutte le sue componenti strutturali 55. Questo tipo di analisi in genere apparteneva al pensare logico. Per dirla come un logico, si riteneva che la commedia mirasse al discernimento di un sistema possibilmente completo composto di parti costituenti nelle loro reciproche relazioni e interazioni. Ora, non appena la filosofia costTUction of Poetics II cit., pp. 22-41 (il testo del trattato) e passim, e anche WJ.W. Koster (a cura di), Scho/ia in Aristophattem. Prolegomena de Comoedia, Bouma's Boekhuis, Groningen 1975, parte I, fascicolo ia. s>, Quando ci imbattiamo in una lista di autori della commedia antica, spesso questa comincia con Chionide e Magnete (cfr. ad es. Aristotele, Poetica cit., 1448a34); Magnete è citato anche da Aristofane, Equites 520-525, e in effetti, tra i titoli delle opere di Magnete troviamo Le rane, successivamente riproposto nella famosa opera di Aristofane. Un altro famoso commediografo attico è Eupoli, ridicoliu.ato da Aristofane nelle Nuvole cit., 553. 53 Per esempio, ci sono la Grande Dionisia e, più tardi, la Lcnaia. In generale, il culto dionisiaco sembra essere all'origine di tutto il dramma greco, tragedia inclusa. Vedi Aristotele, Poetica cit., 1449a10-11 e R. Scaford, Tragedy attd Dionysus, A Compa11ion to Tragedy. a cura di R. Bushnell, Blackwell, Oxford 2005, pp. 25-38. 54 Il poeta comico Cratere sarebbe stato il primo ad abbandonare il giambo e a iniziare a comporre narrazioni generali e trame (/ogous kai mythous): Aristotele, Poetica cit., 1449b7-8. ss Questa attività umana comprende l'azione-praxis nella sua interezza (Aristotele, Poetica cit., 1449b24-25), così come nei suoi atti concreti-pragmata.

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minciò, con Platone, ad assumere la forma di un'impresa dialettica scritta, prese in prestito la sua forma dal dramma, e in particolare, come sosterrò in seguito, dalla commedia. Tuttavia, non appena la filosofia diventò, con Aristotele, un'impresa sistematica, impose le sue categorie di analisi filosofica di carattere logico al dramma. E, poco dopo Aristotele, la filosofia interiorizzò queste categorie e se ne impossessò. Nella sua Poetica, Aristotele notoriamente identificò sei elementi qualitativi che costituiscono il dramma (nella tragedia, ma a quanto pare li si riscontra anche nella commedia). Questi sono: la trama (mythos), i caratteri (ethe), l'elocuzione (lexis), il pensiero (dianoia), lo spettacolo (opsis) e la melodia (melos o melopoiia)5 6• Ci si potrebbe chiedere perché Aristotele abbia scelto questi sei aspetti, ma egli non fornisce né una deduzione sistematica a partire da determinati principi, né una spiegazione della loro reciproca dipendenza. Tuttavia, Aristotele è esentato dall'obbligo di fornire tali spiegazioni, in quanto si attiene al suo programma di «distinguere i nomi», dove per ogni azione o fenomeno si tiene conto del modo in cui viene detto, usato nel linguaggio. Analogamente, per fornire le distinzioni utili a una considerazione comprensiva di un fenomeno si fa attenzione ai suoi elementi costitutivi, senza la garanzia della loro completezza o della loro ridondanza. In altre parole, queste categoriche distinzioni analitiche nell'ambito del dramma non sono né deduttive, né riduttive. Vale a dire che non è possibile dedurle a partire da un singolo principio secondo una serie di regole e procedure, né le si può ridurre a uno o a diversi principi fondanti che spieghino il funzionamento del dramma. Gli elementi costitutivi sono piuttosto di carattere pragmatico, in quanto descrivono l'attività esistente dell'interazione umana (una luce «solare») che si ri56 Aristotele, Poetica cit., 1449b31-145ob20. Di questi sei aspetti drammatici, la trama e i personaggi sono i fattori centrali di ogni opera teatrale. Il breve e anonimo Tractatus Coislinia1111s, scritto tra il IV e il Il sec. a.e., spiega la divisione aristotelica nel seguente modo: «La trama comica si struttura su eventi che muovono al riso. I personaggi [ethé] della commedia sono i buffoni, gli ironici e i fanfaroni. [Vi sono] due parti di pensiero [dianoia], opinione [g11ome] e dimostrazione [pistis] [ ••• ] La dizione comica è ordinaria e popolare. Il poeta comico deve dotare i personaggi del loro idioma nativo, e [usare] egli stesso l'[idioma] locale. La canzone [me/os] appartiene alla provincia della musica; per cui ci sarà bisogno di attingere da essa i suoi principi, di per sé completi. Lo spettacolo fornisce al dramma, in modo vantaggioso, ciò che ad essi meglio si accorda. La trama, la dizione e la canzone si trovano in tutte le commedie; esempi di pensiero, personaggi e spettacoli in non poche (Tractatus Coislinia11us, Xl-XVI, trad. it. Grossi da trad. ingl. Janko).

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flette nel dramma (una luce «lunare»). Tuttavia, la completezza stessa dell'elenco di «parti» enumerate, che sono i modi in cui è possibile parlare di un fenomeno - il dramma - non trova mai garanzia nell'enumerazione stessa. È sempre lasciata aperta, provvisoria e, in linea di principio, soggetta a revisione e cambiamento. In sintesi, ogni classificazione è sempre solo una classificazione. Inoltre, in quanto attività volgare e spettacolo licenzioso57, la commedia è esistita e si è sviluppata per molto tempo nell'ombra, celata all'occhio vigile della filosofia. Così neanche Aristotele riuscì a stabilire i nomi di chi aveva introdotto innovazioni significative nella commedia5 8• Tuttavia, abbiamo ancora la possibilità (per fortuna) di discutere alcuni aspetti fondamentali del genere della commedia nelle sue prime fasi. Le caratteristiche strutturali stabili della commedia antica, come Michael Silk le presenta nella sua analisi approfondita della commedia di Aristofane59, sono Una scena introduttiva parlata («prologo»), un canto con cui il coro entra in scena (parodos), un dibattito formale (agon), una sequenza sotto forma di appello del coro al pubblico (la parabasis o «l'approcciarsi») e una scena conclusiva («exodos») che spesso contiene o promette un komos (la «festa», da cui deriva il nome stesso di «commedia»). Ci possono essere ulteriori scene inclassificabili («episodi») e canti, specialmente nella seconda parte dello spettacolo [ •.. ] I:agon e la parabasis tendono ad avere strutture elaborate a sé stanti60• S7 Si notino le connessioni etimologiche tra popolare, volgo e «popolo». ss Penso soprattutto alle innovazioni costituite dall'introduzione delle maschere, dal prologo e dall'aumento del numero di attori. s9 Per un'analisi delle commedie di Aristofane, vedi L. Coopcr, An Aristoteliatt Theory of Comedy, Harcourt Brace, New York 192.2.; E. Olson, The Theory of Comedy, Indiana Univcrsity Prcss, Bloomington 1968, pp. 45-47; N. Fryc, The A,iatomy of Criticism: Four Essays. The Col/ected Works of Northrop Frye, a cura di R.D. Dcnham, Univcrsity of Toronto Prcss, Toronto-Buffalo-London 2.006, p. 49. 60 M.S. Silk, Aristophanes attd the Defitlition of Comedy, Oxford Univcrsity Prcss, New York 2000, p. 9. «Nella parabasi, quando l'azione drammatica viene sospesa, i coreuti fuoriescono dall'arca del mito drammatico -simboleggiato dal loro spostarsi di pochi passi verso gli spettatori, il parabaineitt - e si rivolgono a quest'ultimo, parlando in qualità di membri di un gruppo di artisti che tentano di influenzare il pubblico a loro favore, anche se a volte possono stare ancora parlando dalla prospettiva dei personaggi che avevano impersonato fino a quel momento, come dimostra il loro travestimento» (G.M. Sifakis, Parabasis and Animai Choruses: A Contributio11 to the History of Attic Comedy, Athlonc Prcss, London 1971, p. 25). Su una linea simile, il sopracitato Tractatus Coislinia11us identifica le seguenti quattro costituenti quantitative della commedia: «(1) Il prologo è (la) parte della commedia (che si estende) fino all'ingresso del coro. (2) L'elemento corale [chorikon] è il canto del coro, qualora è di lunghcz1.a sufficiente. (3) L'episodio è quella

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A questi si possono anche aggiungere gli abiti sgargianti ed esagerati dell'attore, e il personaggio del bomolochos, (un «buffone presso l'altare», di solito un sempliciotto o un contadino), che in seguito divenne una figura determinante della commedia. Il coro data fin dalle primissime forme del dramma. Alcuni studiosi sostengono che i canti della messa in scena dei matrimoni e dei funerali fossero eseguiti da due cori che cantavano uno dopo l'altro61 • A quanto pare, l'importanza del coro per il dramma è stata tale che la sua introduzione viene menzionata come evento storico nel Marmor Parium, la tavola cronologica greca62 • Originariamente il coro era composto di soli uomini. Era presente nella tragedia sin dall'inizio e aveva particolare importanza nei drammi satireschi. Il coro crebbe in dimensioni e diventò più elaborato nel contesto della commedia, dove è spesso rappresentato da animali63. Tuttavia, il ruolo del coro si ridimensiona già con il tragediografo del quinto secolo Euripide, per poi praticamente scomparire con Menandro64. Nella commedia nuova il coro è presente solo in modo non testuale (assente nel testo dell'autore), negli entr'actes e come parodia del coro classico. la scomparsa del coro simboleggia l'imporsi di una personalità molto meno dipendente dalla comunità, come spiegherò nella prossima sezione. Nell'esodo il coro cantava e danzava, e l'intera parabasi corale (a volte ve ne erano due nello stesso spettacolo), era costituita da sette parti. Alcune di esse erano accoppiate e metricamente corrispondenti (parte) che intrame1.za i due canti corali. (4) l:exodos è la (parte) parlata alla fine del coro» (Tractatus Coislinia,rus, XVII. Cfr. Aristotele, Poetica cit., 1452b15-17). È interessante notare che gli aspetti qualitativi del dramma sono in genere diversi tra loro, e, per così dire, incommensurabili (si immaginino, in questo senso, discipline diverse che descrivono ciascuno di essi), mentre gli aspetti quantitativi del dramma descrivono la struttura logica della giusta sequenza delle parti dell'azione, dall'ini1fo alla fine. L'azionc-praxis è un elemento centrale del dramma, in quanto a fornire la narrazione è la stessa azione e non il racconto di un autore. 61 S.I. Radzig, Storia della letteratura greco-antica cit., p. 161. 61 Mannor Parium: Cronaca di Pario, a cura di I. Concordia, Youcanprint, Tricase 2017, p. 46. 63 Vedi Ora1jo, Epistole - Ars poetica, a cura di U. Dotti, Fcltrinelli, Milano 2015, pp. 193-201; Trissino, Poetica, div. VI: nella tragedia il coro consta di 15 persone; nella commedia antica di 24. In Epicarmo, tuttavia, il coro non svolgeva probabilmente alcun ruolo. Cfr. G.M. Sifakis, Parabasis and Animai Cboruses cit., pp. 73 sgg. 6.t La cboregia fu eliminata dopo il 317, e la prima opera di Menandro fu messa in scena nel 321. K.R. Rothwell jr., The Co,rtinuity of the Cborus ili Fourtb-Cet1tury Attic Comedy, in G.W. Dobrov, Beyo11d Aristopha11es cit., pp. 99-118.

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tra di loro: all'ode (oide), un canto del semicoro, rispondeva l'antode (antoide); all'epirrhema, un discorso del corifeo, capo del semicoro, rispondeva l'antepirrhema. I canti si alternavano con i discorsi: a un'ode rispondeva un epirrhema a cui controbatteva un'antode, cui a sua volta replicava un epirrhema, dando così forma a una specie di dialogo interpersonale fatto di componenti calcolate al dettaglio6 5. Inoltre, la parte strutturale della parabasi presupponeva un'interazione dialogica tra spettatori, persone (i capi dei semicori) e due parti del coro. Curiosamente, l'analisi aristotelica della commedia presta attenzione soprattutto alla struttura dell'azione. Ciò si conforma all'argomentazione di Aristotele secondo cui la trama avrebbe precedenza sull'azione: gli eventi presentati e la trama (ta pragmata kai mythos) sono il fine (telos) del dramma - e il fine definisce il principio, così come l'essenza stessa, dell'azione umana. Così, per Aristotele il dramma era impossibile senza l'azione e la trama, ma poteva andare avanti senza personaggi ben delineati 66• Infatti, nel dramma antico la trama veniva presentata attraverso l'azione piuttosto che per mezzo di una narrazione affidata a un eroe. Questo rendeva il prologo comico molto importante, sebbene la cosa potrebbe sembrare strana per la coscienza letteraria moderna. Il prologo comico nella commedia antica delineava la storia e spiegava la trama, prima ancora che iniziasse l'azione. Inoltre, nella commedia nuova il prologo spesso - anche se non sempre - forniva, rivolgendosi al pubblico, la replica dell'autore ai suoi critici 67 • Ciò sarebbe 65 Originariamente, come ipotizza Sifakis, al posto della parabasi probabilmente esistevano «un canto e un epirrema che venivano arrangiati in sigizic analogamente a quanto avveniva con l'agone cpirrcmatico• (G.M. Sifakis, Parabasis and Animai Choruses cit., pp. 68-69). L'intera parabasi comincia con un kommatiotz (pochi versi introduttivi del coro), cui segue un anapesto (di solito, un discorso del corifeo che parla a nome dell'autore) e uno pnigos (un brevissimo discorso, declamato come «tutto d'un fiato»). 66 Aristotele, Poetica cit., 145oa22-25 67 Nel prologo dc La suocera (in Commedie di Publio Terenzio A{ro, a cura di O. Bianco, Utct, Torino 1993, pp. 46-47), Terenzio chiede al pubblico di non permettere «che l'attività teatrale (artem musicam) cada per vostra colpa nelle mani di pochi•, e di consentire alla commedia di parlare a tutti in tutta la sua onestà: cfr. Phormio, 15. Tuttavia, cinque commedie di Plauto - Curculio, Epidicus, Mostellaria, Persa e Stichus - sono prive di prologo. Vedi un'eccellente analisi della commedia nuova romana, che delinea le sottili ma fondamentali differcn1.e tra commedia romana e greca, così come l'evoluzione della commedia romana da Plauto all'Umanesimo e l'universalità di Teren1fo in K. Gaiser, Zur

Eigetrart der r(jmischeti Kom(jdie: Plautus u,id Tere,,z gegenaber ihren griechischen Vor-

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del tutto inconcepibile nel dramma o nel romanzo moderno, dove Io spettatore/lettore deve rimanere all'oscuro del finale, per evitare di rimanere deluso, perdere interesse, o semplicemente di astenersi dal guardare o leggere l'opera. Quindi, il prologo comico annuncia e anticipa - all'inizio - la fine in quanto scopo dell'azione.

La commedia, antica e nuova

Come comunemente si pensa, il declino della commedia antica e il successivo sviluppo della commedia nuova sono collegati al declino delle istituzioni democratiche ateniesi e alla perdita della libertà politica. Pertanto, la «mimesi alta» della grande commedia antica perde il suo potere di critica politica e religiosa, di pari passo alla sua capacità riflessiva, e degenera nella «mimesi bassa» della commedia nuova, concentrata sulla disamina della quotidianità e di temi banali come l'amore e il matrimonio 68 • Contrariamente a questo punto di vista denigratorio che vede la commedia nuova come secondaria rispetto alla sublime commedia antica, e quindi come nient'altro che un'espressione manierata, concreta e banale della sensibilità urbana (dunque borghese), vorrei puntualizzare che la commedia nuova eredita molto sia dalla tragedia tarda che dalla commedia antica, affinandone i personaggi e perfezionandone la trama. Intendo anche dimostrare che la tesi per cui dopo Aristofane si assisterebbe a un declino della commedia è una distorsione romantica sia della rilevanza storica, sia del significato filosofico della commedia nuova, che costituisce una forma drammatica molto più sofisticata e moderna. Tra i tratti distintivi della commedia antica (aristofanea), troviamo una riflessione critica su questioni politiche e sociali sotto forma di attacchi personali a persone concrete (Le nuvole, Le donne alle Tesmoforie) o a specifiche divinità (Gli uccelli, Le rane). In tal modo, sia il comico che il pubblico esercitano un'impressionante libertà di giudizio nei dibildern, Aufstieg u11d Niedergang der R{jmiscberi Welt: Gescbicbte u11d Kultur Roms im Spiege/ der tzeueren Forschung, De Gruyter, Berlin-New York 1972., I, 2., pp. 102.7-u 13; pp. 1047-1049, uo4-1109 e passim; e anche S.M. Goldberg, Utulersta11ding Terence, Princeton Univcrsity Prcss, Princeton 1986, pp.31-60. 68 Vedi N. Fryc, Anatomia della critica cit., p. 6o.

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scorsi e nell'azione, spesso accompagnati da crude invettive e motteggi osceni che si muovono in una trama ben strutturata (mythos). Tuttavia, in Aristofane tali attacchi sono più satirici che comici, in quanto i personaggi umani (come Eschilo, Euripide, Agatone) sono deliberatamente presentati in modo caricaturale ed esagerato, non realistico. La commedia antica è spesso associata al picco dello sviluppo delle istituzioni democratiche ateniesi. Tuttavia, le simpatie politiche di Aristofane non erano dalla parte della democrazia, dato che era piuttosto portato a idealizzare i valori tradizionali dell'aristocrazia69. Egli considerava la vita urbana, con la sua tendenza alla modernizzazione, come una fonte di corruzione morale e politica. La vena politica delle sue commedie è stata efficacemente colta da Corrigan: In ciascuna delle sue opere, Aristofane attacca le manifestazioni della corruzione politica, sociale e morale che egli credeva fossero il risultato diretto del passaggio degli ateniesi da un'economia agricola ad una artigianale e mercantile, della loro adozione di una «politica estera» e della loro disponibilità ad accettare la validità di nuove forme di pensiero e di arte. Per tutta la sua vita, Aristofane condivise gli atteggiamenti dell'aristocrazia terriera in rapida estinzione, la cui religione e moralità e i cui ideali e schemi dell'organizzazione sociale si basavano su un'economia agricola e su una visione chiusa, eroica, della società. Resisteva a tutto ciò che era moderno7°.

Aristofane «si rifiutava di rinunciare a ciò che era già perso. Invece che accogliere il nuovo, piangeva la perdita del vecchio [... ]. Il codice tradizionale non è mai l'unica morale; c'è sempre la possibilità di un'altra sanzione» 7 1 • La rappresentazione degli ateniesi personificata nel decrepito, scorbutico Demo negli Equites di Aristofane va a supportare ulteriormente questa visione. Tuttavia, dovremmo tenere a mente due fattori importanti: primo, che la commedia non è conservatrice per natura. Al contrario, la commedia è il luogo adibito alle critiche sociali e politiche nei confronti delle istituzioni oppressive e delle pratiche corrotte. E secondo, 69 Whionan sostiene che l'eroe della commedia antica è identico a quello della tragedia a giudicare dalla struttura interna che si manifesta nella sua «grande1.1.a» e «tendenza all'eccesso» (C.H. Whitman, Aristopbm,es atul the Conlic Hero, Harvard University Press, Cambridge 1964, pp. 21-58, in part. p. 25). 70 R. W. Corrigan, Aristopha,ùc Comedy: The Conscience of a Co,iservatiueeit., p. 3 54 ss. 7 ' lvi, p. 358.

PRIMA PARTI!. STORIA DELLA COMMEDIA

la democrazia in età classica era radicalmente diversa dalla democrazia liberale moderna. La democrazia ateniese si basava sull'egemonia imperialista di Atene sui suoi alleati, e i diritti politici erano garantiti solo a una minoranza degli abitanti di Atene: le donne, i meteci e gli schiavi non partecipavano al processo politico. La querelle des anciens et des modernes è un genere popolare della riflessione storica e filosofica nella modernità. Nasce quando noi, che ora comprendiamo noi stessi come moderni, ci poniamo in opposizione - e quindi stabiliamo la nostra identità in negativo - nei confronti di coloro che consideriamo antichi. Questa opposizione si è verificata spesso: nel tardo Medioevo (quando i «moderni» erano i nominalisti), nella prima modernità (con la scienza moderna, la filosofia e la storiografia) e nel modernismo del XX secolo (da Martin Heidegger ad Hannah Arendt). Tuttavia anche nell'antichità questa opposizione aveva il suo spazio tra i giovani sofisticati e illuminati, che acquisirono una certa consapevolezza [di sé] attraverso il rifiuto e la correzione degli «antichi», nella generazione successiva ad Aristotele. Tutto ciò avvenne non solo in ambito filosofico, dove lo stoicismo si appropriò in modo critico dei precedenti traguardi filosofici72., ma anche nel dramma. Con l'avvento della commedia «nuova», ci furono molti cambiamenti nell'arte scenica e drammatica. In particolare, Filemone, Apollodoro e specialmente Menandro73, tutti ben noti alla successiva commedia romana, mutarono per sempre il volto della coscienza drammatica74. I commediografi nuovi furono dei veri «moderni». In questo senso, la «disputa tra gli antichi e i moderni» caratterizza bene il rapporto tra Aristofane e Menandro. Tuttavia, quando oggi andiamo alla ricerca di un'identità «moderna», ci ostiniamo a non riconoscere la nostra affinità con i moderni antichi della commedia nuova, come Menandro. Noi moderni, per cui il desiderio di essere moderni trova la sua sintesi nei romantici, tendiamo a preferire Aristofane e la commedia antica. La nostra preferenza si fonda proprio sul fatto che essi sono antichi, e quindi possono convenientemente rappresentare un «altro» da noi. Per contraT• Lo stoicismo fu una tendenza filosofica predominante per tutta l'antichità, e la sua influen1.a arriva fino alla modernità. 73 Vissuto fra il 342.II e il 9·1.h a.e. 74 Vedi R.L. Hunter, New Comedy of Greece and Rome, Cambridge University Press, Cambridge 1985.

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sto, la commedia nuova viene vista come troppo moderna, o troppo simile a noi, e essere associati ad essa può condurre a una profonda crisi d'identità. Di conseguenza, l'originalità commedia nuova passa ampiamente inosservata. Tra i classici relativamente moderni che apprezzano Menandro c'è George Meredith, ma questo lo si deve soprattutto al fatto che egli riconobbe l'eccezionale importanza della commedia nuova per lo sviluppo della commedia moderna europea?s. Eppure, molti scrittori antichi, compresi Virgilio e Quintiliano, elogiarono molto Menandro. Alcuni, come Plutarco, riconobbero addirittura l'incondizionata superiorità di Menandro su Aristofane76• Nella più tarda antichità Menandro fu ammirato a tal punto da diventare proverbiale: «O Menandro, o Vita, chi di voi due imita l'altro?» 77• Non è strano, comunque, che i critici precedenti non potessero riservare a Menandro il giusto apprezzamento: del suo corpus ci è pervenuto poco. Di più di cento commedie, abbiamo solo un'opera (quasi) integralmente conservata, il Dyskolos; oltre a questa, rimangono solo una dozzina di commedie che possono essere adeguatamente lette e comprese78, insieme a una serie di fabu/ae e frammenti 7S G. Mcrcdith, An Essay on the Idea of Comedy, and of the Uses of the Comic Spirit, introduzione e commento arura di S. Bron1Jni, Adriatica Editrice, Bari 2001, p. 102: «Senza sottovalutare altri scrittori della Commedia, ritengo si possa affermare che Menandro e Molièrc hanno un posto a sé specialmente come poeti dei sentimenti e delle idee». 76 Il linguaggio di Aristofane è pieno di «clementi tragici e comici, solenni e banali, osruri e familiari, pompa cd clcvatc1.za, loquacità e stupidaggini nauseanti. [... ] È come se assegnasse a caso ai personaggi le prime parole che capitano». Menandro, invece, «ha mescolato la sua dizione in modo che fosse conforme a ogni natura, disposizione cd età». Plutarco arriva persino al punto di porre una domanda retorica: se non per vedere Menandro, «che senso ha che un uomo colto vada a teatro?» (trad. D. Di Salvo): Plutarco, Comparatio,us Aristophanis et Me,,a,uJri comperidium, in Id., Moralia, 853A-854D: 853 ~F, 8 54B. Vedi anche G.W. Dobrov, The Poet"s Voice in the Evolution of Dramatic Dialogism, in Id., Beyond Aristophanes cit., pp. 4 7-97 e E. Segai, The Death of Comedy, Harvard Univcrsity Press, Cambridgc-London 2001, pp. 153-182. Orazio menziona Menandro insieme a Platone, considerandoli come quegli scrittori che ci si trascina appresso (Satire 2. 3. 1 1). Anche Pausania testimonia che gli ateniesi del Il scc. d.C. veneravano Menandro, mentre Aristofane non riceve alcuna menzione: «Nel teatro di Atene vi sono statue di poeti tragici e comici, per lo più meno noti: infatti, a parte Menandro, non c'è poeta comico di quelli divenuti famosi» (Pausania, Guida della Grecia, a rura di D. Musti e L. Bcschi, Fondazione Lorenzo Valla-Amoldo Mondadori, Milano 2013, I.21.1, p. 107). n Aristofane di Bisanzio, cit. in Siriano, Hem,og., Il 23 = Mcnandcr, Test. 3 2 (Merrandri quae supersu11t, a rura di A. Kocrtc e A. Thicrfcldcr, Tcubncr, Lcipzig 19591, voi. li). 78 Fra queste, Aspis, Epitrepo,ites, Perikeiromene, Samia e altre.

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di opere non identificate. Infine, le traduzioni e le edizioni affidabili del corpus che ci è pervenuto sono solo molto recenti7 9 • Nonostante la quasi totale oscurità in cui sono relegate, le opere di Menandro rivestono un ruolo importante nello sviluppo del genere. Per la nostra comprensione della relazione tra commedia e filosofia, è anche essenziale osservare da vicino i cambiamenti introdotti nella commedia con la Nea. Pertanto, dovremmo sapere che Menandro, che aveva ricevuto un'eccellente istruzione ad Atene, era a conoscenza del celebre trattato di Aristotele sul dramma, la Poetica, la prima «teoria» della letteratura basata su un'eccezionale conoscenza delle fonti poetiche80 • E tuttavia in Aristotele vi è la consapevolezza di essere un filosofo e non un drammaturgo. In Menandro si assiste a un rovesciamento della relazione tra «teoria» e «pratica» letteraria: egli fa chiaramente attenzione alle istruzioni di Aristotele quando costruisce la trama, rappresenta i personaggi e implementa altri elementi del dramma riadattandoli ai nuovi compiti della commedia «nuova» 81 • Come ricordato in precedenza, una delle innovazioni principali della Nea è il deliberato rifiuto del coro. Si tratta di un passaggio rivoluzionario: la scomparsa del coro implica che l'azione collettiva, inizialmente monodica, che era controbilanciata da un attore nella tragedia, da due in Eschilo e da tre in Sofocle, diventi un'azione dialogica di carattere polifonico, dove ogni personaggio si libera della maschera e diventa una persona capace di definire, e non solo di seguire, l'azione della trama. In altre parole, il coro viene sostituito da una pluralità di individui unici, non riducibili l'uno all'altro o al compito che svolgono. Per questo motivo, i personaggi da fortemente tipicizzati diventano più umani e sottilmente sfaccettati. La caricatura personale, che i poeti giambici praticarono per primi, cede il passo a una rappresentazione 7'J Menander, 3 voli., a cura di W.G. Arnott, W. Heinemann-Harvard University Press, London-eambridge (MA) 1997-2001; Menander, The Plays and Fragments, a cura di M. Balme, introduzione di Peter Brown, Oxford University Press, Oxford 2001. 80 Mentre la prima opera di Menandro fu messa in scena per la prima volta intorno al 321 a.e., la Poetica di Aristotele fu pubblicata all'incirca dieci anni prima, intorno al 330 a.e. Quindi, mentre Aristotele non conosceva l'opera di Menandro, possiamo supporre con ccrte1.za che l'istruito Menandro fosse a conoscenza di quella di Aristotele. 81 Si deve allora convenire con Silk sul fatto che «[l]e norme drammatiche di Aristotele costituiscono una vera e propria ricetta per la commedia nuova menanrca» (M.S. Silk, Aristopha,ies and the De{i11itio11 of Comedy cit., p. 13).

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dei personaggi più verosimile e empatica82 • I personaggi-tipo soccombono a individui unici, gli dèi agli umani, e i partecipanti del coro, virtualmente indistinguibili tra loro, a personalità scolpite con finezza. Così, con la commedia nuova i personaggi e gli attori ritraggono persone umane e riconoscibili, capaci di onestà, gentilezza e generosità, con cui gli spettatori possono identificarsi o da cui possono dissociarsi. Invece che giocare con la volgarità (aischrologia) come la commedia antica, la commedia nuova ricorre all'allusione e alla congettura (hyponoia) 83 • Analogamente, nel linguaggio comico la volgarità cede il passo al decorum. Il linguaggio è spesso adattato agli individui in modo tale da ritrarre le loro «modalità e abitudini distintive del parlato» 84. In quest'ottica, la rappresentazione drammatica di Socrate da parte di Platone è a metà strada tra commedia antica e nuova. Da un lato Socrate è, specialmente nei primi dialoghi, un personaggio «rigido» e idiosincratico, più o meno la parodia di un pensatore, il paradigma del dialettico che sopraffà tutti gli altri personaggi nel dibattito filosofico. D'altro canto, in alcuni dialoghi successivi, come il Pedone e il Simposio, Socrate mostra tratti personali più raffinati e in lui si può più facilmente scorgere- anche se mai vedere pienamente - una persona. Con l'uscita del coro, arriva la parabasi, l'evento corale più importante della commedia antica 85. In generale il ruolo del coro si riduce a una scena comica che mostra una comitiva di giovani uomini in preda all'ebbrezza, e che fu parodiata da Platone nel Simposio, nella scena dove Alcibiade ubriaco irrompe nella scena del banchetto accompagnato da una banda di giovani 86 • Il dialogo si conclude con l'arrivo, ancora una volta, di un coro di giovani ubriachi 87. In Menandro, il coro fu ridotto a delle scene corali che intramezzavano gli atti, dividendo così l'opera in cinque atti 88 • Si tratta di «un coro Cfr. Aristotele, Etica 11icomachea, a cura di C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 2.000, 1451b14-15. 83 Aristotele, Etica 11icomachea cit., 112.8a2.2.-2.4. 8.4 W.G. Amott, lntroduction, in Metia,uier cit., p. xxxv; dr. pp. xxxv-xxxvm, con esempi appropriati tratti da Menandro. 85 Per esempio, vedi Aristofane, Le donne alle Tesmoforie, a cura di C. Prato, trad. di D. Del Como, Mondadori, Milano 2.001, 785-845. 86 Platone, Symposion, 2.12.d-e. 87 lvi, 2.2.3b. 88 Cfr. Orazio, Ars poetica, 1 89-190. 81

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convenzionale composto da festaioli brilli, caratterizzati [... ] come devoti di Pan, che inscenano gli entr'actes» 89. Una volta abbandonata la parabasi, il corso della commedia viene mutato drasticamente e per sempre. Le storie mitologiche e fantastiche vengono soppiantate da quelle di ogni giorno. La trama, che in Aristofane è relativamente semplice e diretta (ad esempio, nelle Nuvole), diventa più raffinata e sofisticata, più articolata e ben costruita.

Euripide e Menandro Quando i «nuovi» si ribellano agli antichi, di solito lo fanno riproducendo, seppure in una forma nuova e «sublimata», alcune delle caratteristiche «originali» di coloro contro i quali si stanno rivoltando. La commedia antica si era già impegnata a fondo non solo nel ritrarre i drammaturghi tragici, ma anche nell'appropriazione delle loro tecniche di costruzione della trama e dei personaggi9°. Sembra che una fonte «originaria» della poetica della commedia nuova fosse la tarda tragedia di Euripide, un «filosofo della scena»9 1 • In effetti, l'affinità tra Euripide e Menandro veniva sottolineata già nell'antichità9 2 • Si può riscontrare l'influenza di Euripide sulla Nea in vari aspetti della commedia nuova. Per cominciare, la commedia nuova riproduceva sì le storie sublimi e di carattere mitologico della tragedia e quelle di carattere fantastico della commedia antica, ma se in forma

Menandro, Dysko/os, dramatis personae, in Metiander cit., voi. I, p. 183. E. Bakola, CratitlUS a11d the Art of Comedy cit., pp. 177-179. 9' «Skenikos pbi/osophos», Ateneo 4.158e; 13.56ra. La curiosa ostilità di Aristofane nei confronti di Euripide è ben nota. La nemesi di Euripide non esitò a sbeffeggiarlo e a criticare i suoi metodi letterari, specialmente negli Acamesi, nelle TesmoforiaZuse e nelle Rane, dove Aristofane rappresenta una gara comica tra Eschilo e Euripide, dove il premio va ad Eschilo, anche se il vincitore avrebbe dovuto essere Sofocle. Cfr. Aristofan, Le rane, a cura di G. Paduano, Bur, Milano 2005, 830 sgg. 9 ~ Per esempio, il retore romano Quintiliano afferma che Menandro ammirava e prendeva ispira1fone da Euripide per le sue opere: M. Fabio Quintiliano, lstituzjo,ie Oratoria, a cura di R. Faranda e P. Pecchiura, lITET, Torino 1979, 10.1.69: «(Euripidem) admiratus maxime est, ut saepe testatur, et secutus, quamquam in opere diverso». Negli Epitrepo11tes, troviamo un riferimento diretto a una tragedia perduta di Euripide, Auge Menandro, Epitrepotites, 1123-1225; è inoltre probabile che una scena chiave degli Epitrepo11tes, quella dell'arbitrato (225 sgg.) fosse un prestito dalla Alope di Euripide, che pure non si è conservata. 89

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«ridimensionata», basata su eventi della vita quotidiana93. Già in Euripide spesso ci imbattiamo in scene che si possono leggere come volutamente «declassate». Per esempio, la disputa tra Medea e Giasone somiglia a un battibecco tra marito e moglie94. Ora, come in Euripide, in Menandro la trama è ben concepita, costruita con rigore e presuppone un intrigo complesso. Tuttavia, anche se Menandro adottò e usò ripetutamente scene drammatiche prese da tragedie precedenti, le «alleggerì»95. Queste scene familiari «secolarizzate» offrivano un repertorio utile, che poteva cioè essere riciclato96 . Poiché tali scene erano già note al pubblico, era possibile giocare con esse ricorrendo a sagaci allusioni comiche. L'appropriazione e il «riciclo» di scene tragiche e - all'epoca - comiche diventò una procedura abituale, per via di contaminazione, nella commedia romana. L'influenza di Euripide sulla Nea è ulteriormente rivelata dall'uso che Menandro fece delle sententiae (o massime), così come dalla tendenza a evitare la volgarità, non solo per quanto riguarda la trama ma anche nel linguaggio, che in Euripide si era fatto più semplice e vicino a quello della vita reale9 7• Per di più, in Euripide troviamo una serie di figure comiche - precorritrici del personaggio comico dello schiavo o del servo - che emigrano con facilità nella commedia nuova, come l'ubriacone (Eracle nell' A/cesti) e il crapulone, Sileno, nel dramma satiresco Il ciclope. Alcune scene di Euripide potrebbero facilmente essere incluse in una commedia, come il dialogo tra Oreste e un frigio9 8• Cosa interessante, il culto di Dioniso che diede avvio alla commedia è rappresentato nel Ciclope e nelle Baccanti, anche se con una morte tragica nel finale. In più, Euripide presta grande attenzione alla sottile rappresentazione psicologica dei personaggi, soprattutto quando sono afflitti dalla passione e dall'amore. Man mano che il ruolo dei personaggi Cfr. Aristofane, Le ratte cit., 959. Euripide, Medea, in Le tragedie, a cura di A. Tonelli, Marsilio, Venezia 2007, 539-757. 95 Amott chiama questo espediente «secolari1.1.azione delle scene tragiche famigliari» W.G. Amott, Introduction cit., pp. xxxvm-xun. Analogamente, l'incipit dello Pseudo/o di Plauto proviene dall'Ifìgetùa in Aulide di Euripide; vedi R.L. Huntcr, New Comedy of Greece and Rome cit., p. 116; cfr. anche p. 25 e passim. 96 Un procedimento analogo a quello della «dizione formulare» o delle «formulae» nella poesia epica. 97 Aristotele, Retorica, traduzione e commmento a cura di S. Gastaldi, Carocci, Roma 2014, 1404b24-26. 98 Euripide, Oreste, in Id., Le tragedie cit., 1506-1526. 93

94

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PRIMA PARTE. STORIA DELLA COMMEDIA

cresce nelle sue opere, il ruolo del coro si ridimensiona. Originariamente concepito come un contrappeso agli eroi, il coro diventa parte integrante dell'azione, ponendosi così praticamente sullo stesso piano di in Id., personaggio del dramma99. Perciò, in linea di massima, è possibile mettere in scena le tragedie di Euripide senza ricorrere al coro, come nelle commedie di Menandro, nelle quali, come si è già detto, il coro è un atavismo che svolge solo un ruolo superficiale. Infine, ad essere importante è il finale: come nella commedia nuova, alcuni drammi di Euripide (ad esempio A/cesti, Ione, Ifigenia in Tauride e Elena) hanno già dei finali positivi. Tuttavia, la commedia nuova non si rifà a Euripide nel suo uso del deus ex machina che, una volta dopo l'esposizione delle principali contrapposizioni, conclude bruscamente il dramma risolvendo la tensione e il conflitto. Una risoluzione così repentina può essere comica, anche se tende a non esserlo100 , e non è mai strettamente consequenziale alla trama, alle azioni e ai discorsi degli eroi. Le tracce di una risoluzione così ingiustificata sono tuttavia ancora presenti nell'occasionale intervento del fato nella commedia.

La,

commedia nuova: Plauto e Terenzio

Come genere, la commedia continua a svilupparsi quando il teatro latino riprende la commedia nuova greca. Questo avvenne con l'accesso di Roma a un potere mondiale, quando il mondo era già diventato cosmopolita e, in una certa misura, multiculturale. Il linguaggio della cultura era il greco, e quindi bisognava appropriarsene, insieme alla sua letteratura e al suo teatro. Nella commedia romana questa appropriazione fu introdotta dalle opere di Tito Maccio Plauto (254-184 a.C.) e trovò la sua piena realizzazione con Publio Terenzio Afro, «Terenzio» (195 o 185-159 a.C.), nato all'incirca al tempo della morte di Plauto. Molte caratteristiche della commedia nuova greca sopravvivono in quella romana. Troviamo personaggi identificabili (realistici) che sono sia tipi che individui, a volte grotteschi ma più spesso pieni di umanità. L'importanza dell'amore e degli amanti è conservata, così come quella del personaggio dello schiavo. Permane un linguaggio volutamente 99 100

e

Aristotele, Poetica cit., 1456a26-27. Come in Ippolito, A11dromaca, Supplici, Elettra, Jo11e, J(ige,1ia itl Tauride, Eletta

Oreste.

I. IL BUONO, IL BRUTTO E IL CATTIVO: LE ANTICHE ORIGINI DELLA COMMEDIA

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semplice ma raffinato, che evita la profanità e la volgarità ed esemplifica il decoro, molto ammirato dal filosofo romano Marco Tullio Cicerone. Rimangono anche gli scherzi apparentemente buffoneschi ma sottili, la confusione determinata dal quid pro quo che guida lo sviluppo dell'azione. Assistiamo anche al ridimensionamento della funzione del coro, compensata dalla crescita del ruolo del canto del personaggio, o canticum. Infine, la commedia romana conserva la quotidianità delle situazioni rappresentate, l'organizzazione del discorso attraverso il dialogo che rivela un personaggio e manda avanti la trama, una trama ben architettata e ponderata. I personaggi della commedia nuova, specialmente in Terenzio, erano ben lontani dalla volgarità grottesca e cercavano di preservare attentamente il decorum, e modi di parlare e di comportarsi adeguati e dignitosi. Mediante il decorum gli attori potevano apparire non come mere maschere ma come personaggi realistici e finemente modellati. Nella commedia nuova i personaggi non erano figure pubbliche ma per lo più membri di una famiglia. Fragili e terreni, erano benevoli, spesso pronti ad aiutare e ad essere aiutati dagli altri con disinteressata abnegazione 101 • Sia Plauto che lo stesso Terenzio erano di umili origini. Inoltre, per la cultura teatrale romana, Terenzio era, per usare un'espressione di Yirmiyahu Yovel, «l'altro dentro», essendo cartaginese di origine (da cui «Afer») ed essendo diventato in seguito, ancora schiavo, il più grande autore teatrale di Roma. La sua «alterità» da autore comico gli permise di mantenere una distanza critica rispetto alla cultura rappresentata, dispensando osservazioni e diagnosi che diventano evidenti a tutti, anche se solo dopo essere state trasformate in commedia. La capacità di raggiungere questa distanza riflessiva dipende spesso dall'appartenenza 101 Tali erano, per esempio, Sostrato nel Dyskolos di Menandro; la cortigiana di buon cuore (bo11a meretrix) Bacchide nella Suocera (Hecyra) e nel Pu11itore di sé stesso, e Taide nell'Eunuco (Terenzio, Eu11uco, 880-881 ); il giovane Panfilo nella Suocera, che viene lodato per il suo carattere decoroso e responsabile (pium acpudicum ingenium) (Teren1fo, La suocera cit., 152); lo schiavo Parmenone nella Suocera e, nei Due fratelli, Micione, il quale, in particolare, è un personaggio commovente, capace di scusare gli altri dicendo «questo è più umano» (haec magis sunt homi11is) (Terenzio, Adelphoe, 73 6) e di cambiare radicalmente l'atteggiamento verso gli altri esseri umani del suo rigido e rea1jonario fratello Demca, il quale arriva a riconoscere che «la realtà stessa mi ha insegnato che per l'uomo non vi è nulla di meglio della condisccnden1.a e della tolleran1.a» (re ipsa repperi facilitate 11il esse homini melius 11eque cleme11tia) (Terenzio, Adelphoe, 860-861; cfr. 967).

PRIMA PARTI!. STORIA DELLA COMMEDIA

del drammaturgo a due culture diverse, fatto che non gli consente di identificarsi pienamente in nessuna delle due. Per esempio, constatiamo l'appartenenza sia alla cultura, oppressa, della memoria, sia a quella dominante dell'imperialismo tanto in Terenzio (cartaginese e romano), quanto in Gogol' (ucraino e russo) e in Tom Stoppard (ceco e inglese). Anche se lo status sociale dello scrittore a Roma era piuttosto basso (a differenza di quanto avveniva in Grecia e avvenne più tardi in Francia), sia Plauto che Terenzio erano molto apprezzati dai contemporanei. Non sorprende che delle quasi centotrenta commedie di Plauto solo ventuno sopravvivano e che tutte e sei le opere di Terenzio, che morì giovane, siano state preservate102.. «Dopo la morte di Plauto», osserva il letterato romano Varrone, «la commedia era in lutto, il palco deserto, e il riso, lo scherzo, il motteggio, in numeri innumerevoli (numeri innumeri), tutti versavano lacrime di dolore» 103. Tuttavia, la «commedia in lutto» sembra un ossimoro, proprio come numeri innumeri. Questi ossimori sono intenzionalmente comici: contraddittori in modo concreto, si autosospendono affermando i propri opposti. Nella commedia, infatti, il lutto è sovrastato dalla gioia della vita che va avanti, e la rigidità di ciò che è numerabile e definitivo è sospesa e trasformata nel suo opposto dal folleggiare dell'attore comico, in nome dell'affermazione della vita. Sebbene la commedia romana segua le orme della Nea greca, il «sale attico» è condito dall' «aceto italiano» 104. La commedia romana si serviva senza problemi dei personaggi comici e delle trame del teatro greco, abbondantemente mescolati e continuamente riciclati, anche se collocati nel contesto della vita morale e politica romana. Più spesso che nella commedia greca, Terenzio e, specialmente, Plauto cambiavano il metro, il che permetteva loro di rendere l'opera più coinvolgente e di comunicare sfumature sottili per Eppure « Tere01jo non piaceva ai romani, ro1.zi e conservatori; preferivano Plauto, e la menzione ricorrente nei suoi prologhi del vetus poeta, che lo tormentava criticando aspramente le sue produzioni, produce alla fine un effetto comico sul lettore», G. Mercdith, A11 Essay on the Idea of Comedy cit., p. 101. Cfr. anche la visione critica di Orazio della commedia di Plauto in Epistole e Ars poetica, trad. e cura di U. Dotti, Feltrinelli, Milano 2008, 2.r.168-181. 103 Varrone, De Poetis cit. in R.W. Corrigan, Classica/ Comedy: Greek a,uJ Roman, Applause Theatre Book Publishers, New York 1987, cit. p. 241. 104 Cfr. Plutarco, Il co11fronto tra Aristofane e Menandro. Compendio, a cura di M. Di Florio, D' Auria, Napoli 2008. 102

I. IL BUONO, IL BRUTTO E IL CATTIVO: LE ANTICHE ORIGINI DELLA COMMEDIA

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quanto riguardava l'atmosfera e l'azione105. La commedia romana si sviluppò anche sotto l'influenza di varie tradizioni comiche locali, spesso folcloriche 106 • Infatti, il nomen stesso di Plauto, Maccio, derivava probabilmente dal personaggio di Macco, un giullare farsesco ricorrente nell'Atellana, che Plauto forse interpretò come attore. Tuttavia, più tardi alcuni dei filellenici - i romantici dell'antica Roma - presero a giudicare le commedie greche originali superiori alle loro successive imitazioni, il che spiega perché Cesare si rivolse a Terenzio con le parole «o dimidiate Menander» («Menandro dimezzato» )107.

Commedia nuova e commedia moderna

Infine, la commedia nuova esercitò un'influenza determinante sulla commedia moderna, sia sulla struttura della trama che sull'insieme dei personaggi. Plauto e Terenzio parlavano la lingua franca del continente europeo, il che permise alle loro opere di essere conservate, tramandate, lette con cura e reinterpretate in modo creativo, per tutto il Medioevo fino al Rinascimento e alla modernità. Ebbero un impatto notevole sul teatro italiano del Rinascimento (in particolare sulla commedia erudita), su La mandragola di Machiavelli, su Shakespeare, Ben Jonson, Molière, sulla commedia della Restaurazione di Wycherley, Etherege e Aphra Behn108 e su Fonvizin, fino alla commedia esistenziale contemporanea di Beckett. Questa influenza è stata discussa dettagliatamente dagli studiosi contemporanei1°9• Quanto all'obiettivo del presente studio, basterà citare pochi esempi. s R.W. Corrigan, Classica/ Comedy: Greek and Roman cit., pp. 241-242. Tra queste vi sono le atellane osche, le sature etrusche e i versi fescennini. Sebbene in modo trasformato, la satura etrusca è sopravvissuta fino alla commedia dell'arte. 10'/ Cit. in Ben ]011son cit., voi. x1, p. 289. 108 Vedi P. Holland, The Ornament of Action: Text a,ui Performa11ce ili Restoration Comedy, Cambridge University Press, Cambridge 1979. 109 N. Frye, A Natural Perspedive: Tbe Development of Sbakespearea11 Comedy a,ui Romance, Columbia University Press, New York 1965, p. 72; Id., The A,zatomy of Criticistn cit., pp. 151-152; E. Olson, The Theory of Comedy, Indiana University Press, Bloomington 1968; M. Gurewitch, Comedy: The Irrational Vision, Comell University Press, Ithaca 1975, pp. 43-44; R.W. Corrigan, Classica{ Comedy cit., p. 341; T.G.A. Nelson, Comedy: An 111troduction to Comedy in Literature, Drama, and Cinema, Oxford University Press, OxfordNew York 1990, pp. 19-20; E. Segai, The Death of Comedy cit., passim. 10

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Shakespeare chiamò due personaggi de La bisbetica domata come due della Mostellaria di Plauto: Grumione (lo schiavo buono di campagna) e Tranione (lo schiavo cattivo di città). Il Cordatus di Ben Jonson nell'introduzione di Ognuno fuori dal suo umore (Every Man Out of His Humour, 1599) fornisce un resoconto breve ma significativo dello sviluppo della «Comoedia» da Susarione a Epicarmo, passando per la commedia antica fino alla commedia nuova, notando con approvazione che la commedia è cambiata da allora, in Menandro, Filemone, Cecilio, Plauto e negli altri, i quali esclusero completamente il coro, modificarono le specificità dei personaggi, i loro nomi, la loro natura, e l'arricchirono di tutte le libertà, seguendo il buongusto e le disposizioni dei tempi in cui scrissero. Io dunque non vedo perché noi non dovremmo godere della stessa licenza, o degli stessi pieni poteri, di illustrare ed elevare la nostra intenzione come fecero loro; e non per rimanere legati a quelle forme rigide e restrittive che (pura forma) la cortesia di pochi ci imporrebbe 110• Chiaramente Jonson identifica il suo metodo di composizione con quello della Nea, anche quando cerca di sorpassarlo. E Molière, mentre studiava al Collège de Clermont, assistette alle commedie di Plauto e Terenzio, che conosceva molto bene, e forse vi recitò persino. Terenzio è esplicitamente menzionato da Molière come grande autore, alla stregua di Orazio, Virgilio e Catullo111 • Non sorprende che l'Arpagone di Molière ne L'avaro (L'avare) ricalchi il Cnemone di Menandro nel Dyskolos, che a sua volta si rifà a Plauto112 • Tra i filosofi e teorici letterari francesi, Denis Diderot era un grande ammiratore di Terenzio. La percezione di un'affinità profonda tra la commedia moderna e la commedia nuova, che è essa stessa «moderna» confrontata con la commedia antica, è sintetizzata da Charles Augustin Sainte-Beuve quando esclama, «Per amor mio, amate Terenzio»u 3• La commedia moderna dunque rimane «nuova» per via della continua trasmissione storica e del costante ripensamento della tradizione, 110 B. Jonson, Every Mail ill His Humour, in Ben Jonso11, a cura di C.H. Herford, P. Simpson, Clarendon, Oxford 192.7, voi. III, pp. 2.47-2.70, 437. 111 Molière, Le itllellettua/i cit., 1394. 111 D. Konstan, Greek Comedy a,uJ ldeo/ogy, Oxford University Press, New York 1995, pp. 156-164. '' 3 «Pour l'amour de moi, aimez Térence» (cit. in G. Meredith, An Essay on the Idea of Comedy cit., p. 99).

I. IL BUONO, IL BRUlTO E IL CAlTIVO: LE ANTICHE ORIGINI DELLA COMMEDIA

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che mantiene viva la commedia e, per usare le parole di Agnes Heller, la rende «immortale», ovvero sempre coinvolgente da un punto di vista psicologico e mai datata da uno filosofico.

Riflessioni sulla commedia Si può scrivere un'opera letteraria; si può riflettere su un'opera letteraria scritta; e si può scrivere un'opera letteraria che riflette su un'altra opera letteraria, su sé stessa, o sulle opere letterarie in generale. Già Aristofane rifletteva sul dramma - sulla tragedia per tramite della commedia - nella parte finale de Le rane, attraverso la parodia di un agone tra Eschilo e Euripide. Così facendo, Aristofane analizzava le norme di un'opera drammatica, le sue parti (ad esempio, il prologo) e il suo linguaggio, e allo stesso tempo ne illustrava l'uso. Platone, a sua volta, quando occasionalmente analizza la poesia e il dramma, fornisce un'analisi filosofica adoperando un ragionamento dialettico che spesso appare sconclusionato. Eppure la discussione di Platone è essa stessa un'opera letteraria di grande rilievo sotto forma di dialogo drammatico teatrale che può essere facilmente messo in scena. E quando Aristotele scrisse la sua Poetica, la intese esplicitamente non come un'opera letteraria, ma come opera accademica moderna che rifletteva sulla struttura del dramma teatrale e sulla disposizione delle sue parti. Nel mettere in atto queste manovre, si riflette su cosa è stato già fatto o, in rari casi, su ciò che si sta facendo al momento. Per lo più, la civetta di Minerva prende il volo al crepuscolo. La riflessione filosofica arriva tardi - forse troppo tardi - dopo che il pensiero ha già avuto luogo. La grande tradizione della tragedia greca è già lì presente quando Platone e specialmente Aristotele forniscono le loro sistematiche spiegazioni e discettazioni. Tuttavia, quando la commedia nuova trova in Terenzio il suo completamento, ci mette parecchio a offrire un chiarimento della sua azione, del suo significato e dei suoi componenti. Cicerone, che cita Terenzio all'incirca settanta volte nelle sue opere e occasionalmente parla della commedia, non dedica un solo trattato alla commedia. Né lo fa Orazio, che introduce il concetto di res comica nella sua Ars poeticaII4, dove si limita a fornire prescrizioni generali del tipo «devi tu osservare gli usi (mores) di 114

Orazio, Ars poetica, 89.

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PRIMA PARTE. STORIA DELLA COMMEDIA

ciascuna età, ed assegnare un carattere conveniente (decor) alle indoli cangianti e ai loro anni» e viene preso sul serio dai commediografi successivi, compreso Molière11 5. Alla Nea mancava un Aristotele che ne spiegasse tutta la portata filosofica. Almeno fino alla metà del quarto secolo d.C., quando Elio Donato compose uno dei più importanti commentari a Terenzio, la pietra di paragone dell'arte comicau 6• Il commentario contiene riferimenti a Livio Andronico, Cicerone e Orazio, e discute cinque delle sei commedie terenziane117• Seguendo lo schema delle distinzioni di Aristotele, Evanzio (in un frammento pervenutoci del De comoedia.) definì le varie componenti della commedia. Esse si riferiscono per lo più a Terenzio e Plauto, ma anche ad altri autori comici latiniu 8 • Evanzio introdusse la famosa distinzione, molto usata in seguito, delle quattro parti della commedia - prologo, prot:asi, epit:asi e catastrofe- che descrive la struttura e lo sviluppo della trama comica che esaminerò di seguito. Secondo Evanzio, la commedia è la rappresentazione scenica u9 che contiene differenti condizioni di stati d'animo pubblici e privati attraverso cui si apprende ciò che è utile nella vita e ciò che al contrario bisogna evitare. I Greci la definiscono così: «la commedia è una disposizione innocua delle azioni private e civili». Cicerone afferma che la commedia è imitazione della vita, specchio dei costumi, immagine della verità 1 20• La tradizione antica dunque vede la commedia come un genere popolare e concreto, atto a ritrarre la vita della gente comune rappresentandola attraverso personaggi plausibili, e a mostrare attraverso di essi ciò che è utile e ciò che andrebbe evitato. "S

lvi, pp. 156-157.

Comprendeva probabilmente alcune aggiunte, come il commentario del suo collega grammatico Evanzio. 117 Aelii Donati quod fertur comme11tum Teretùi: accedunt Eugraphi commentum et Scholia Bembi11a, voli. 1-111, Paulus Wcssner, Leipzig 1902.-1908 (rist. 1962.-1963). 118 Ovvero Tuipilio e Lucio Afranio, ma anche altri tipi di commedia, come la comoedia palliata (in salsa greca), togata (che trattava situazioni tipicamente romane), tabernaria (commedia bassa), Atellana (farsa), mimo, e Rhi1ù01ùca (tragedia travestita). Evanzio, De comoedia, in Aelii Donati quod fertur commentum Terenti cit., voi. I, pp. 2.2.-31; pp. 2.6-2.8 (tradotto come Donatus, A Fragment o,i Comedy a,uJ Tragedy, in P. Lautcr [a cura di], Tbeories of Comedy, Anchor Books-Doublcday, New York 1964, pp. 2.7-32.; pp. 2.8-2.9). .li Prima di Hegel, August Wilhelm Schlegel aveva elaborato esattamente la stessa divisione nella lezione III del Corso di letteratura drammatica (1808). 27 Se Hegel l'avesse scritto oggi, avrebbe probabilmente riservato questo ruolo all'arte cinematografica. 28 G.W.F. Hegel, Estetica, Bompiani, Milano 2012., pp.2909-2911.

2. I MODERNI: LA PERDITA ROMANTICA Dl!LLA COMMEDIA

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gel, nel riferirsi a Shakespeare, mancò di riconoscere in lui, sotto mentite spoglie, la commedia nuova di Menandro e Terenzio. La commedia quindi si posizionava alla fine dell'arte greca e quasi alla fine del dramma, la più alta forma di arte romantica. Tuttavia la commedia greca per Hegel terminava (da un punto di vista sia storico che teleologico) con la commedia antica, con Aristofane, che è «il comico per eccellenza»2.9_ Troviamo questo stesso atteggiamento in tutti i romantici, per i quali la commedia greca toccò il suo apice drammatico e filosofico con la commedia antica, e in particolare con Aristofane. Per questo S0ren Kierkegaard, critico ostinato di Hegel, trovò il ritratto di Socrate nelle Nuvole di Aristofane persino più convincente e preciso di quello che emerge dai dialoghi di Platone3°. I primi critici filosofici della commedia, Platone e Aristotele, ancora non conoscevano la commedia nuova, mentre i Romantici, critici moderni in piena regola, non la conoscevano già, o piuttosto scelsero di non conoscerla, dato che non si confaceva al loro sistema artistico e al loro tentativo di costruzione dell' «altro». Hegel praticamente ignorò la commedia nuova, in quanto non si adattava al suo schema storico-interpretativo sullo sviluppo dello spirito, della religione e dell'arte. La commedia nuova era troppo «nuova» e pericolosamente vicina alla commedia romana. Fu questo a renderla irrilevante e quasi invisibile agli occhi dei moderni. Per questa ragione, Hegel non ne riconobbe l'unicità quando analizzò il dramma nuovo. Di conseguenza, pur essendo un conoscitore piuttosto evoluto della letteratura antica, non menzionò mai Menandro nelle sue opere. Cosa di cui tuttavia non gli si può fare una colpa, giacché Menandro nella sua epoca non era adeguatamente pubblicato, essendo conosciuto solo per via di pochi frammenti. D'altra parte, Plauto e Terenzio erano sì conosciuti, ma anche fin troppo bene: erano gli autori scolastici, che si leggevano per imparare il latino. La loro commedia, che appariva troppo simile a quella a loro contemporanea, era considerata niente più che una «commedia di costu29 G.W.F. Hcgel, «Dcr echte Komiker», ibid.; Id., Werke cit., voi. 15, p. 569. Vedi anche K. de Boer, The Eternai Irony of the Community: Aristopha11ia11 Echoes in Hegel's Phenomenology of Spirit, «lnquiry», 52, 2009, pp.3II-3134. 30 S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia in riferimento a Socrate, Bur, Milano 2013. Cfr. anche Id., Appu,rti delle lezioni berlinesi di Schelling sulla «Filosofia della rive/azjone» ( 1841-1 842), Bompiani, Milano 2008.

PRIMA PARTI!. STORIA DELLA COMMEDIA

me», priva delle arditezze verbali e della vivacità dei grandi personaggi della cultura alta, come Socrate e Euripide. Il drammaturgo comico per eccellenza, Aristofane, viene menzionato diverse dozzine di volte nell'intero corpus di Hegel; il nome di Plauto ricorre solo tre volte nelle lezioni sull'estetica e una sola in un'opera precedente. Terenzio è citato solo due volte nelle lezioni, e soltanto per notare di sfuggita che lui e Terenzio sarebbero stati imitatori dei Greci31. Nella sua analisi della commedia Hegel accettava la familiare opposizione aristotelica tra tragedia e commedia 32 , secondo cui alla prima corrisponderebbe il sublime e alla seconda il volgare. Già il solo termine che in tedesco indicava la commedia, Lustspiel (dramma della lussuria), suonava offensivo a un orecchio raffinato. Per contrasto nella tragedia i personaggi erano prevalentemente aristocratici, perché per Hegel «la perfetta libertà di volere e produzione [... ] si trova realizzata nella rappresentazione della regalità». La commedia, al contrario, raffigurava i «ceti umili», privi di libertà e, sotto ogni aspetto, in balìa delle circostanze, dell'autorità e della loro posizione sociale e politica. La commedia era per coloro che non determinavano sé stessi nelle loro azioni - né potevano farlo - e per questo mancavano di autonomia. In altre parole, la tragedia era per gli aristocratici, la commedia per la plebe: [N]el comico infatti gli individui hanno il diritto di brontolare [aufzuspreizen] come vogliono e possono; possono assumere una certa autonomia [Selbststiindigkeit] nel volere, nel pensare e nell'idea che hanno di sé stessi, autonomia che viene a sua volta sottratta loro immediatamente da loro stessi e dalla loro dipendenza [Abhiingigkeit] interna ed esterna. Essenzialmente, però, in tali relazioni esterne e nell'errata posizione degli individui verso sé stessi, il fondarsi su di sé [Beruhen auf sich] del tutto apparente dilegua. La potenza di questi rapporti per i ceti umili esiste in un grado interamente diverso che per i signori e i principi33.

A tale proposito, Hegel si poneva in continuità con la tradizione conservatrice e antidemocratica di Aristofane. Potremmo chiederci a quale di queste classi Hegel, un borghese impiegato nel Servizio

G.W.F. Hegel, Werke cit., voi. 14, p. 12.4; voi. 15, p. 569; voi. 18, p. 34. Seguendo Hegel, anche Bohtz ha sostenuto che la commedia si pone in opposizione al tragico, in particolare per quanto riguarda la rappresentazione del bello: cfr. A.W. Bohtz, Die Idee des Tragiscben, Georg Kiibler, Gottingen 1836, pp. 48-51. 33 G.W.F. Hegel, Estetica cit., pp 585-587; Id., Werke cit., voi. 13, pp. 2.51-2.52.. 3'

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reale, immaginasse di appartenere34. Certamente, per lui ogni genere era storicamente condizionato in quanto stadio necessario all'interno della progressione dello spirito, e per questo a un certo punto doveva essere inevitabilmente superato. E tuttavia egli stesso pareva anelare all'eroico, al nobile e al sublime. La lezione che ne traiamo è che la commedia mostra ciò che è basso e volgare, che è insignificante e bizzarro, e che in sé stesso è privo di valore. In questo senso il comico è distinto dall'ironia, il cui bersaglio è ciò che è cattivo: «[I]I comico infatti deve limitarsi al fatto che tutto quel che si annulla è in sé stesso un nulla [ein an sich selbst Nichtiges], un'apparenza [Erscheinung] falsa e contraddittoria, per esempio una mania, una stramberia, un capriccio particolare di contro a una passione potente, oppure un principio che pretende d'essere sostenibile, o una massima che pretende di essere salda»35. Tuttavia, nella letteratura antica la denuncia dei vizi era la prerogativa della satira piuttosto che dell'ironia. Non sorprende che Hegel, nel trattare la tragedia, la commedia e il dramma nell'Estetica, riconoscesse la presenza nell'antichità di un terzo genere drammatico che non era definito chiaramente, ma di cui aveva bisogno per ragioni sistemiche, precisamente in quanto terzo. E comunque nell'antichità questo terzo genere veniva identificato, da un Iato come dramma satirico3 6, d'altro Iato come tragicommedia37. Per Hegel era di questo tipo la maggior parte delle commedie moderne: «hanno a cuore più l'effetto teatrale rispetto alla poesia e mirano non a una commozione veramente poetica, bensì a una commozione meramente umana, o hanno come scopo il semplice intrattenimento del pubblico o il perfezionamento morale di esso» 38 • In ogni caso il dramma satirico, come quello satiresco, era ben distinto dalla commedia greca e, contrariamente a quanto affermava Hegel, non fu imitato dalla commedia romana. Per di più, all'interno delle lezioni di estetica di Hegel questo terzo tipo di dramma veniva dopo la trattazione sulla tragedia e la commedia, anche se per lui essa inCfr. Plauto, Atz{itriotze, 52-61. G.W.F. Hcgcl, Estetica cit., p. 309; Id., Werke cit., voi. 13, p. 97. Vedi anche A. Paolucci, Hegel's Theory of Comedy, in M. Chamey (a cura di), Comedy: New Perspectives cit., pp. 89-108, p. 106. 36 Il dramma satirico si distingueva dalla satira romana, che si presentò come una dissoluzione della forma classica dell'arte, G.W.F. Hegel, Estetica cit. 37 Cfr. Plauto, Atz{itriotze, 52-61. 3 8 G.W.F. Hcgel, Estetica cit., p. 2841. 34 3S

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termedia, «al centro» tra le due. La commedia per Hegel era quindi

un'impresa poetica e drammatica il cui significato era stabilito nella ricostruzione dello sviluppo della religione. In particolare, questa ricostruzione aveva a che fare con la religione artistica, dove lo spirito si realizzava come autocoscienza (nella Fenomenologia} o come soggettività (nell'Estetica}. Il tema centrale della tragedia era il divino, e ciò nonostante la soggettività era comica: in quanto autocoscienza riflessiva, essa produceva una commedia, ma, al tempo stesso, nella commedia rappresentava sé stessa. L'autocoscienza è l'io che «si toglie la maschera» e osa divenire autosufficiente, in quanto «la coscienza singolare, nella certezza di sé stessa, si presenta come questa potenza assoluta»39. Per Hegel, questa inevitabilità conduceva alla distruzione delle divinità tradizionali: poiché l'autocoscienza individuale aveva fiducia in sé stessa, non aveva bisogno degli dèi come autorità indipendenti e definitorie nel mondo. Per cui gli dèi si limitarono a diventare immaginari, il prodotto di un'autocoscienza artistica indipendente e certa di sé. Di conseguenza, il fato, che nell'epica regnava sia sugli umani che sugli dèi, e nella tragedia solo sugli umani, fu interiorizzato dalla commedia. E giacché l'autocoscienza era indipendente, assunse il ruolo di fato, simile al fato degli dèi4°. Poiché in ogni caso l'autocoscienza era in grado di immaginare e costruire a proprio piacimento qualsiasi cosa, qualunque personaggio o trama, agli dèi toccò diventare qualsiasi cosa, «semplici pensieri» privi di qualsivoglia contenuto: le «nuvole» di Aristofane. L'autocoscienza comica era quindi una forza che definiva - e nella quale scomparivano e si dissolvevano - tanto la natura quanto gli dèi. Tuttavia per Hegel l'autodeterminazione della coscienza comica era arbitraria e insufficiente per la conoscenza autoriflessiva, fondamentalmente radicata: l'autocoscienza 39 «La presunzione dell'essen7.a universale è denunciata appunto nel Sé. L'csscn7.a si mostra imprigionata in una realtà e lascia cadere la maschera proprio quando vuol essere qualcosa di giusto. Il Sé, entrando in scena qui nel suo significato di entità reale, gioca con la maschera indossata per esserne il personaggio; fuori da questa parvenza, però, esso ritorna subito nella sua propria nudità e quotidianità, mostrando che tale condizione non è differente dal Sé autentico - dall'attore come dallo spettatore• (G. W.F. Hcgel, Fetzomeno/ogia cit., S 744). 4° lbid. Vedi anche P. Downey, Serious Comedy: Tbe Pbi/osopbical and Tbeo/ogical Sig11ifica11ce ofTragic and Comic Writi,zg in tbe Western Traditio,z, Lcxington Books, Lanham 2001, p. 234.

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aveva comunque bisogno di passare dall'in sé al per sé, di diventare pienamente responsabile - e riflessiva - di sé stessa, per raggiungere la meta del viaggio. Per giungervi, bisognava «superare» la volgarità della coscienza comica attraverso la nobiltà della sofferenza e della resurrezione nella religione rivelata. Hegel era dunque riluttante ad (e incapace di) accettare la commedia di per sé stessa: essa era solo una tappa, una mattonella, un momento all'interno del progetto chiamato «antichità», il nostro «altro» storico e culturale prefabbricato, che ci rifletteva e definiva in negativo nel progetto chiamato «modernità». Poiché l'io individuale è capace di produrre (ossia di immaginare) personaggi comici - tra cui figurano anche gli dèi, così come le situazioni in cui si invischiano - questo io è una forza negativa (die negative Kraft). Nella sua negatività, l'io è in grado di distruggere persino gli dèi4 1 • Questo io coincide con la persona (Person), che nella commedia è anche una maschera e può rappresentare chiunque a proprio piacimento. In questo senso, l'io comico si toglie la maschera, ma solo perché il suo volto non è distinguibile da essa: la maschera può assumere il volto che preferisce. E tuttavia questo io (o questa soggettività) di carattere demiurgico è anche contingente, in quanto è soggetto tanto alla contingenza (Zufiilligkeit) quanto al suo stesso volere e agire (Wol/en und Handeln)42. Per Hegel questa era solo una determinazione negativa, proprio perché la soggettività comica poteva essere qualsiasi cosa, assumere qualsiasi ruolo. Questo io, che determinava gli dèi come pure astrazioni, tuttavia mancava di definire realmente sé stesso. Questo perché ancora non comprendeva la non-contingenza in gioco nella coincidenza tra la «necessità» della progressione dello spirito e la libertà reale, dove «ciò che dovrebbe essere» si sarebbe finalmente riconciliato con «ciò che è». Lo stesso fato, quindi, diveniva in tal modo una mera astrazione arbitraria e si estingueva definitivamente, di pari passo al tramonto dell'arte greca, nella commedia - vale a dire, ancora una volta, in Aristofane. Giacché questo io comico determina sé stesso nel suo volere e nel suo agire, si configura come un io libero, affrancato dalla paura della •• G.W.F. Hegel, Fenomenologia cit., S 747; Id., Werke cit., voi. 3, p. 544. • 1 Ivi, voi. 15, p. 521.

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morte e del fato. Questa libertà è però soltanto negativa e arbitraria e pertanto non corrisponde alla libertà dell'autonomia, raggiunta razionalmente e meritata moralmente. Nella libertà comica l'autocoscienza artistica diventa una coscienza felice. Eppure questa «felicità» non allietava Hegel. Per lui, la coscienza comica era l'opposto della coscienza infelice (das ungluckliche Bewu/Jtsein) della morte degli dèi e di Dio43. L'insensatezza della felicità comica turbava Hegel, perché non era «meritata», non la si otteneva attraverso la sofferenza, la morte e resurrezione, attraverso un superamento impossibile della scissione tra il «dover essere» della legge e l' «essere» della sua violazione nell'arbitrarietà della volontà. Da un punto di vista storico, Hegel voleva che l' «altro» immaginario greco fosse assoggettato e negato dall'io luterano, oltre che riconciliato in esso. Come ha affermato Reiner Schiirmann, l'io moderno, o «ego», poté nascere solo attraverso una libera trasgressione della morale stabilita e delle norme storiche (e «divine» )44. L'io moderno era inevitabilmente scisso all'interno di sé stesso e doveva sopportare il suo stato di coscienza infelice. Per questo aveva bisogno della sua alterità, che l'io moderno trovò (o credette di aver trovato) nell'altro prefabbricato della Grecia antica. L'io moderno ripose tutte le sue speranze nel tentativo di sorpassare la lacerazione tra «essere» e «dover essere». Un'azione in cui l'io oltrepassa la sua finitezza al contempo agendo moralmente e sospendendo la moralità, mentre attende l'assistenza divina dello spirito che si rivela storicamente e artisticamente45 . Hegel desiderava che l'atto finale del suo personale dramma filosofico fosse la battaglia epica in cui l'io umano finito avrebbe finalmente superato la tragedia della morte di Dio e incarnato la divina commedia della liberazione ultima e definitiva. Hegel applicò a varie aree della sua filosofia, inclusa l'estetica, la dialettica, che non solo prevedeva una divisione triadica (tesi-antitesi-sintesi) della materia, ma anche presupponeva una ricerca costante 43 G.W.F. Hcgel, Fe,iomeno/ogia cit., S 752; Id., Estetica cit., p. xxx. In uno studio di rilievo sul teatro di Hegcl, Mark Roche nota che «[l]a grandezza della teoria hcgeliana sulla commedia risiede nella sua comprensione della soggettività e della particolarità quali tratti salienti del genere» (M.W. Roche, Tragedy and C.Omedy: A Syste,natic Study a,ui a Critique of Hegel, State University of New York Press, Albany 1998, p. 312). 44 R. Schiirmann, Broke,1 Hege,nonies, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 2003, pp. 408-420. 45 Cfr. G.W.F. Hcgel, Fe,iomeno/ogia cit., S 46 5; Id., Estetica cit., p. xxx.

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della contraddizione quale momento cruciale di ogni fenomeno. In particolare, per Hegel l'io individuale era comico, non solo per la su capacità di architettare la commedia, estendendo l'azione al regno dell'immaginario e manovrando gli dèi e gli altri personaggi, ma anche perché era di per sé intrinsecamente contraddittorio, quindi incapace di riconciliare l'ordine e l'ideale con la cruda realtà. Quindi, per Hegel, il comico in quanto tale trovava la sua incarnazione nel personaggio comico, il cui massimo esempio era Don Chisciotte, che personificava «la contraddizione comica tra un mondo ordinato in base alla ragione [verstlindigen] e da sé stesso, e un animo isolato che vuole crearsi questo ordine e questa stabilità soltanto per mezzo di sé stesso e della cavalleria, dalla quale un simile ordine potrebbe essere soltanto scompaginato» 46 . Siccome però la commedia poggia sempre sulle contingenze, essa inevitabilmente comporta le «antitesi contraddittorie tanto dei fini in sé stessi quanto dei loro contenuti di fronte all'accidentalità della soggettività e delle circostanza esterne»47. Inoltre, poiché i personaggi comici sono intrinsecamente contraddittori, non sono capaci di portare a termine alcunché4 8 • La commedia non è dunque capace di risolvere da sola nessun conflitto. Tuttavia, l'interpretazione hegeliana della commedia fa emergere un problema di primaria importanza: Hegel pone continuamente l'accento sulla centralità dell'io autocosciente, o della soggettività, nella costituzione della commedia - in quanto suo autore, spettatore e attore intrinsecamente contraddittorio. Pertanto, la commedia, nel suo tragitto tanto storico quanto logico verso una completa realizzazione, una chiarificazione riflessiva e una giustificazione ultima, è sempre stata giudicata attraverso il punto di vista del soggetto. La commedia era il trionfo della soggettività (Subjektivitlit) nella sua infinita assicurazione, sicurezza, o attendibilità (Sicherheit) 49• La soggettività è comica in quanto «pone in antinomia e risolve da sé medesima il proprio agire, restando ugualmente in quiete e sicura di

G.W.F. Hegel. Estetica cit., p. 1499. lvi, p. 283 5. La commedia è obbligata a «portare !'assolutamente razionale all'apparen1.a» (das a,i u,uJ far sich Venùl,ifrige als dasjenige zur Erscheinung zu bringen). 48 lvi, p. 2879. 49 lbid. 46 47

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PRIMA PARTE. STORIA DELLA COMMEDIA

sé»5°. Una certezza di sé che è comica precisamente nella misura in cui si fonda sulla contraddizione irrisolvibile tra i fini ideali e la loro inevitabile assenza dalla contingenza delle circostanze e dei personaggi comici. L'enfasi posta da Hegel sulla soggettività spiega come mai egli non dedicò praticamente nessuna attenzione alla struttura della commedia, né alla trama e allo sviluppo che porta a una risoluzione del conflitto. Inoltre, giacché l'opposizione tra tragedia e commedia era cruciale nella sua ricostruzione dell'arte, Hegel affermava che «[l]a commedia possiede quindi come propria base [fondamento, Grundlage] e punto di avvio ciò con cui può concludersi la tragedia: l'animo in sé stesso perfettamente conciliato, sereno». Eppure, in questo caso non è chiaro perché Hegel terminasse le sue lezioni con un animo «conciliato, sereno» e un accenno alla commedia. Nonostante le sue ripetute affermazioni secondo cui la commedia verrebbe dopo la tragedia, Hegel sembrava voler rimanere fermo alla sublime riconciliazione tragica della tragedia regale piuttosto che sprofondare nella grossolanità della commedia. Non c'è da stupirsi se alla fine dell'Estetica Hegel lamenti il fatto che la commedia, trovandosi all'apice dello sviluppo dell'arte, ne abbia sancito la completa disintegrazioneSI. Tragicamente per Hegel, la commedia seppellisce l'arte, quindi l'esito della lunga storia filosofica dell'arte non è la commedia, ma il lutto per la fine dell'arte nella sua autodistruzione comica. Eppure anche uno sguardo affrettato alla commedia nuova mostra che Hegel era in torto quando affermava che la commedia comincia con la riconciliazione e termina nel caos - perché il funzionamento della commedia è esattamente l'opposto, dato che risolve sempre il conflitto alla fine e quale suo fine. Riguardo alla commedia, Hegel intendeva attenersi al proprio schema, stabilito in modo ferreo: la soggettività comica, suprema padrona e destino del divino, si muove nella contingenza e termina con una liberatoria, anche se volgare, coscienza felice che ancora necessita di essere superata nella libertà dell'apokastasis. Tuttavia la commedia, costruendo la sua trama attorno a un'argomentazione filosofica (e anche affidando il movimento di tale tra-

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G.W.F., Estetica cit., p. 2875. Ibid.

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ma al personaggio comico modello: non Don Chisciotte, ma Sancho Panza) può (e di fatto lo fa) giungere alla risoluzione di un conflitto apparentemente insormontabileP·. Eppure ad Hegel non interessava una risoluzione definitiva nel quadro di un genere in particolare: Hegel voleva una risoluzione all'interno del gran dramma della sua stessa filosofia, che aveva intessuto in modo tale da non lasciarsi sfuggire nessun termine, genere o categoria e dove aveva trovato un posto degno per ogni possibile componente. Hegel rimase purtroppo ignaro di quanto questo sforzo fosse comico e di quanto egli stesso fosse un personaggio comico. Curiosamente, se la filosofia di Hegel è comica in un senso tutto suo, lo è anche nel senso della Nea: se si considera il suo tentativo finale di riconciliazione come un fallimento, allora essa è comica nel senso di Hegel; se lo si considera un successo, lo è nel senso della commedia nuova. Ma un tipo di commedia che sia capace di una risoluzione razionale al suo interno esiste già ed è la commedia nuova greca e romana, nonostante l'incapacità di Hegel di farla aderire al suo schema interpretativo

Libertà da ogni costrizione: la critica letteraria romantica A Vienna, nel 1808, August Wilhelm Schlegel tenne trenta lezioni sull'arte drammatica e sulla letteratura, che sono forse tra i testi che maggiormente hanno definito la critica letteraria moderna e sono ancora rappresentativi del meglio della letteratura comparatan. L'erudizione di Schlegel riguardo alla letteratura antica e moderna era impareggiabile (persino superiore a quella di Hegel) e il suo approccio all'analisi dei testi letterari e della loro storia e struttura fu esemplare in epoca romantica. Di conseguenza, particolarmente istruttivo risulta il suo modo di trattare la commedia - quattro delle sue lezioni erano dedicate alla commedia antica54. lbid. Nel discutere i vari tipi di finale nel dramma, Schmidt, tuttavia, omette di notare la somiglian1.a tra il finale positivo e la conclusione di un'argomenta1Jone filosofica: dr. H.J. Schmidt, How Dramas End: Essays on the Gem,a11 Stunn und Drang, BQchner, Hauptman11, a,ui Fleisser, The University of Michigan Press, Ann Arbor 1992, pp. 1-34 e passim. S-4 Schlcgel era senz'altro al correte delle tradizioni europee di critica letteraria allora esistenti, per lo più francesi. Ma in Germania (dal XVIII secolo fino all'inizio del XIX) si era sviluppata anche una riflessione teorica fruttuosa e interessante sulla commedia (una 52·

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Nel suo tentativo di comprendere la commedia, Schlegel accettò tre opposizioni storiche consolidate.

r. In prima analisi, Schlegel fece sua l'opposizione della commedia alla tragedia in quanto suo genere complementare 55 • Come accennato in precedenza, si tratta di una tradizione che risale ad Aristotele per poi continuare ininterrottamente fino alla modernità5 6 • Come già per Hegel, anche per Schlegel la commedia nell'antichità trovava la sua rappresentazione più paradigmatica nella commedia di Aristofane, che tuttavia era per lui «una parodia della forma tragica»57. L'ideale del dramma sublime ed edificante - serio - trovò la sua realizzazione nella tragedia - soprattutto in Eschilo e Sofocle. In questa linea di pensiero la tragedia è «ciò che si conosce di più serio nella poesia, e la commedia ciò che v'ha di più allegro assolutamente»5 8 • La tragedia è luttuosa, la commedia allegra. La stessa etimologia dei due generi suggerisce questa lettura: il Trauerspiel («dramma del dolore») contro il Lustspiel ( «dramma della lussuria»). La tragedia fa mostra di ciò che è «nobile ed elevato nella natura» e quindi corrisponde ad una «monarchia senza dispotismo». La commedia al contrario corrisponde alla democrazia e mostra «il predominio della parte animale» 59. Schlegel annotò anche che la tragedia «si compiace riflessione che fu influenzata dai teorici inglesi Gcorg Friedrich Meier, Moscs Mendelssohn, Justus Moscr, Gotthold Ephraim Lessing, Friedrich Just Riedel, Johann Gcorg Sulzcr, Johann Georg Heinrich Feder, Cari Friedrich Flogel, Kant, Kart Heinrich Heydenreich, e Jean Paul, August Wilhelm Bohtz, Amold Ruge, e altri. Vedi P.M. Haberland, The Development of Comic Theory in Germa11y During the Eighteenth Ce,1tury, Alfred Kuemmerle, Goppingen 1971, pp. 10 e passim. ss La lezione XI era dedicata alla commedia antica, la XII a Aristofane, la XIII alla commedia greca di mezzo e nuova, e la XIV a Terenzio e Plauto. A.W. Schlcgel, Sltmtliche Werke, a cura di E. Bocking, Weidmann'sche Buchhandlung, Leipzig 18463 (Vorlesunge,1 aber dramatische Ku11st u11d Literatur, parte I, voi. V; Vorlesungen aber dramatische Kunst u11d Literatur, parte Il, voi. VI); Id., Corso di letteratura drammatica, Giusti, Milano 1817, d'ora in avanti citato come CLD. 56 Alquanto in linea con Schlcgel, anche Schopcnhauer riconobbe l'opposizione tra tragedia e commedia e la superiorità della tragedia come il più elevato tra i generi poetici: A. Schopcnhauer, Die Welt a/s Wille und Vorstellu11g, Deutscher Taschenbuch Verlag, Miinchen 1998, voi. I, libro 3, S 51, pp. 335-338. 57 Nel suo famoso saggio Sulla poesia inge,1ua e sentimentale (1795), Friedrich Schiller ugualmente metteva la commedia in opposizione alla tragedia. 58 CLD, p. 245. 59 Ivi, p. 247.

2, I MODERNI: LA PERDITA ROMANTICA DELLA COMMEDIA

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nell'unità» mentre «la commedia vive nel caos» 60 , che la tragedia «presentandone quanto ci ha di più grandioso nell'uomo [... ], ci riempie di quelle profonde commozioni che vengono ispirate dagli oggetti sublimi» laddove «la commedia, mostrandoci gli uomini come ridicoli e il Fato come capriccioso, ne invita a quella viva e facile allegrezza, che s'innalza al di sopra di tutto e se ne fa giuoco» 61 • La commedia è quindi indisciplinata e come tale «non può esistere se non quando è rimosso qualunque scopo, ed ogni ostacolo è tolto di mezzo» 62 • Così intesa, la commedia ha come principale forza motrice lo spirito, nel senso di capriccio o di arbitrarietà (Willkur). Lo spirito - in questo caso inteso nel senso di arguzia - si concede una libertà svincolata da considerazioni di necessità oggettiva o da regole autoimposte (come le «tre unità» di azione, tempo e spazio), che in seguito governeranno la commedia classicista francese63. Il poeta comico era dunque libero di ideare qualsiasi personaggio o azione64. L'autore doveva solo rispettare il giusto equilibrio nello sviluppo sia dei personaggi, sia della trama, in modo da evitare di cadere nell'unilateralità della commedia dei caratteri o della commedia dell'intrigo 65. La gioiosa libertà anarchica della commedia implica, nel rapporto tra i sessi, una licenziosità che per Schlegel si legava in modo netto o alla passione del godimento sensuale o al dovere coniugale, in entrambi i casi nella totale ignoranza della galanteria moderna 66• La sessualità esplicita spaventava Schlegel, che si diceva «scandalizzato dalla sensualità che si mostra senza velo nelle commedie greche», perché apparentemente questa sensualità travalicava i limiti «stabiliti dalla natura stessa» al «trasporto dei sensi» 67. La commedia doveva raggiungere «l'unione delle due nature dell'uomo, o piuttosto l'armonica trasfusione dell'essere sensuale nell'essere morale» 68 • Solo la Ragione [ Verstand] poteva tenere sotto controllo 60

lvi, lvi, 62 lvi, 6 3 lvi, 64 lvi, 65 lvi, 66 lvi, 67 lvi, 68 lvi, 6'

p. 249. pp. 253-254. p. 245. pp. 249-250. p. 250. pp. 296-297. p.314. p. 197. p. 247.

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la sfrenatezza degli impulsi e trattenere gli umani dall'indulgere nei piaceri libertini. In questo senso, [l]a commedia mostra un'affinità molto stretta con la favola. Se nella favola [die Fabeij troviamo animali dotati di ragione, nella commedia ci sono uomini che mettono l'intelletto a servizio delle loro propensioni animali. Per propensioni animali intendo la sensualità, o, in senso ancora più generale, l'amore di sé [Selbstliebe]. Se l'eroismo e il sacrificio di sé elevano il personaggio ad una nobilitazione tragica [adelt], i veri personaggi comici sono dei completi egoisti [ausgemacbte Egoisten]. Questo va comunque compreso con le debite limitazioni: non intendiamo dire che la commedia non ritrae mai gli istinti sociali, solo che li rappresenta invariabilmente come loro essere originati dalla nostra naturale aspirazione ad una propria felicità [aus dem natiirlicben Streben nach unserm eignen G/uck ]69.

La libertà sfrenata della commedia implica, in fin dei conti, che ad essa non interessi la moralità intesa come «chiamata al dovere». Tuttavia, nella commedia la moralità non viene violata, ma piuttosto sospesa. Per descrivere questa situazione, Schlegel ricorse alla terminologia dell'etica kantiana: gli apoftegmi morali della commedia sono «massime dell'esperienza», la conoscenza del nostro dovere (Pf/ichten) non la otteniamo attraverso l'esperienza, che può solo portarci a distinguere «l'utile dal nocivo». Come afferma Schlegel, «[l]e lezioni della commedia [die Belehrung des Lustspie/s] non si volgono già intorno al merito dello scopo [die Wurdigkeit der Zwecke], ma intorno al valore dei mezzi. La commedia insegna, come ho già detto, le regole della prudenza [Klugheitslehre], la morale delle conseguenze e non dei principi [die Mora/ des Erfolgs und nicht die der Triebfedern]» 7°. Per Schlegel la commedia deve limitarsi a fare sì che «l'allegria degli spettatori si sostenga per tutto il [suo] corso» distanziandosi pertanto da «tutto quello che potrebbe dare una cotal dignità morale ai suoi personaggi» 71 . La moralità è quindi estranea alla commedia, il che spiega perché molti critici moderni, e tra questi Jean-Jacques Rousseau, la tacciarono di essere immorale72 • 69 CLD, lezione XIII, p. 301; A.W. Schlegel, Vorles,mgen Uber dramatische Kunst u,id Literatur, in Id., Sllmtliche Werke cit., voi. V, p. 2.30 (trad. di A.M. Grossi, rielaborata da A.W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, a cura di G. Gherardini, Stamperia di Paolo Emilio Giusti, Milano 1817, disponibile online: http://atena.beic.it/webclient/ StreamGatc?foldcr_id=o&dvs= 1667174464036-86). 70 lvi, p. 233. 7' CLD, p. 301. 71. J.-J. Rousseau, Lettera sugli spettacoli, a cura di F.W. Lupi, Aesthetica, Milano 2021.

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Di sicuro anche quella di Schlegel era una lettura moralistica della commedia. Infatti, secondo Schlegel il poeta comico doveva per forza essere un moralista73. Se vi è nella commedia un qualsiasi messaggio morale, esso è presente solo nella misura in cui la commedia «ha una parte usuale della dottrina morale che si potrebbe chiamare l'arte della vita»74. Per Schlegel l' «etica pura» del dovere era di gran lunga superiore a questa etica applicata, a questa «istruzione morale» esercitata attraverso apoftegmi ed esempi morali75. L'etica deontologica moderna era estranea all'ethos della commedia, anche quando i personaggi agivano mossi dal senso del dovere. L'etica della commedia antica aveva un carattere teleologico: era l'etica della felicità. Ma ciò che sfuggì a Schlegel fu che l'etica della commedia non è necessariamente egoistica, nella misura in cui le persone rendono possibile la felicità altrui senza sacrificare la propria. Nel suo approccio verso la commedia, Schlegel parteggiava chiaramente per gli schemi esplicativi totalizzanti del Rinascimento, nel quadro dell'opposizione antichimoderni, piuttosto che per la ricezione romantica della differenza. La commedia è immortale, non immorale. Sempre capace di esaminare qualcosa di più interessante della tediosa precettistica morale del dovere, essa la sospende, senza mai però violarla. L'attenzione della commedia si sofferma altrove rispetto a queste istruzioni troppo dirette: i suoi insegnamenti morali sono sottili e possono essere carpiti solo da un lettore o spettatore non moralista, che osi immergersi nella ricerca sensuale della felicità piuttosto che seguire rigide prescrizioni morali, a dispetto delle possibili conseguenze. 2. La seconda delle opposizioni storicamente consolidate che Schlegel accettò riguarda la commedia antica e la commedia nuova. Schlegel era fedele alla visione comunemente accettata secondo cui la commedia nuova era una «commedia antica raddolcita e addomesticata»76• Ma, diversamente da Hegel, Schlegel arrivò persino a elogiare Menandro, definendolo un «poeta filosofo», anche se

CLD, p. 172. lbid. 7s lvi, p. 215. Ovvero, in riferimento all'«esperienza» e all'«ingenua espressione dei 73

74

moti dell'anima che involontariamente si tradiscono» (ivi, p. 200). 7 6 lvi, p. 285. Schlcgcl menzionava i celebri «maestri greci» della commedia nuova Difilo, Filemone, Apollodoro e Menandro (ivi, p. 310).

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ne apprezzò solo il ruolo di creatore di massime morali e moralistiche77. Tuttavia la Nea sancì il declino della commedia e fu dunque ritenuta secondaria rispetto ali' Arcadia - non solo per ragioni cronologiche, ma anche di importanza, raffinatezza e persino di lingua7 8 • Per meglio sottolineare questo aspetto, Schlegel chiamava la commedia antica Komodie e la nuova Lustspiel. La legge adottata alla fine della guerra del Peloponneso, che proibiva nel teatro gli attacchi personali e la rappresentazione di persone reali, aveva significato per Schlegel, come per Orazio molto prima di lui, la perdita della libertà politica che nutriva la commedia antica ed era essenziale alla sua esistenza79. Per questo la commedia aveva perso il suo smalto, giacché, a differenza della tragedia, era una parodia di eventi facilmente riconoscibili e «freschi nella memoria» che, come tali, suscitavano una vivida risposta nel pubblico democratico 80• La commedia nuova quindi ebbe origine da «una proibizione» 81 • Con essa «si abbandonano le sublimi regioni della pura poesia, e si discende sulla terra» 8 \ nonché «alla prosa ed alla realtà» 8 3. Nella sua stessa forma, che nella commedia antica «era uno scherzo generale», nella commedia nuova assunse una serietà ereditata dalla tragedia84. La commedia nuova era «un misto di serio e d'allegro» 8 5, di tragedia e commedia. La Nea era dunque un genere misto. E ciò nonostante non era comica (nel senso della commedia antica), né tragica, ma un genere confinato alla pura «verosimiglianza del rappresentato» [Wahrscheinlichkeit des Dargestellten], che contemplava al suo interno «l'imitazione della realtà, il ritratto della vita [die portriitmiiPige Wahrheit]» nella rappresentazione della vita sociale e domestica, delIvi, p. 172.. Ivi, p. 2.01. 79 Ivi, pp. 251-252., 2.54; Orazio, Ars poetica, 2.81-284. 80 CLD, p. 2.44. 81 Ivi, p. 284. 82. Ivi, p. 323. 83 lvi, p. 2.42. 11.t Ivi, p. 2.46. La commedia nuova «presenta, per verità, dell'allegria nel contrasto dei caratteri e delle situazioni; ed essa è intanto più dilettevole, in quanto che l'arbitrario vi regna vie maggiormente e pare più libera nel suo cammino, ci ha maggior copia d'equivoci, d'errori, di sforLi inutili, di piccole passioni deluse, ed alla fine il tutto si riduce a nulla; Ma, in me1.zo alla piacevolc1.za che vi si sparge, la forma della composizione è seria [... ] tutto è in essa regolarmente diretto ad uno scopo che non si perde di vista» (ibid.). 85 lvi, p. 2.86. 77 78

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la moralità e dei costumi dell'epoca 86 • Da questo tipo di commedia potevamo imparare qualcosa: ci offriva dei quadri plausibili che si limitavano a sembrare veri. Nella commedia nuova la forma era comunque poetica, ma la sostanza diventò del tutto prosaica 87 • La Nea era costruita in modo affine alla tragedia, con una complicazione formale cui seguiva il dénouement della trama 88 • Però, invece che una verità sublime e irrevocabile sull'esistenza umana in quanto tale, che era accessibile solo alla tragedia, la commedia nuova si limitava a offrire convincenti ritratti di vita quotidiana, che avrebbero sempre potuto essere diversi. Schlegel dunque riconosceva che la commedia nuova era, in un certo senso, un genere nuovo (la qual cosa era sfuggita a Hegel). E comunque la Nea non segnava un progresso nello sviluppo dei generi letterari, ma piuttosto il definitivo declino del dramma antico. Schlegel quindi poneva la commedia nuova non solo in opposizione a quella antica, ma anche alla tragedia89. La tragedia e la commedia avevano in comune la serietà, o una gravità (Ernst) che le distanziava del tutto dalla commedia antica. Tuttavia, la serietà tragica proveniva dal conflitto o dalla lotta (Kampf) tra un'esistenza esterna finita (Dasein) e le aspirazioni, inclinazioni, o disposizioni interne e infinite (Anlage )9°. In altre parole, a essere tragico è il nostro aspirare a essere infiniti, il nostro lottare per superare la nostra finitezza e diventare dèi, che si manifesta nel nostro interfacciarci con la morte, e che ci è in ogni caso impossibile. Questo conflitto tragico è la fonte di tutta la serietà della vita. Esso è tradizionalmente rappresentato come fato, o destino (Schicksal). Il fato umano è di per sé tragico, perché conduce la persona a un conflitto inevitabile tra obbligazioni civili e morali opposte, che non pos86

lvi, p. 288.

87

Ibid. 88 Ibid. G. Bcll & Sons, 1876 89 A.W. Schlegel, Lectures on Dramatic Art arul Literature, G. Bcll & Sons, London 1876, Lccturc Xlii, p. 286; Id., Vorlesunger, aber dramatische Kunst und Literatur cit., p. 220. Analogamente, Kerr sostiene che la commedia è secondaria e del tutto dipendente nei confronti della tragedia, e degenera nella commedia «seria» (ovvero, si trasforma in Nca) con la scomparsa della tragedia: cfr. W. Kerr, Tragedy ar,d Comedy, The Bodley Head, London 1967, pp. 19-35, 146 e passim. 90 Per Kierkegaard l'ironia è espressione della nostra finitudine e segno della soggettività. S. Kierkegaard, Sul cor,cetto di iro11ia, Bur, Milano 1995: «quanto emerge dall'ironia è la libertà soggettiva, che tiene ad ogni istante in suo potere la possibilità di un cominciamento, sen1.a intralcio di legami anteriori» (p. 248).

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sono essere riconciliate in nessuna altra maniera, se non attraverso un'accettazione della sofferenza tragica immeritata e della morte. La morte è dunque una mera dissoluzione, una fine o un «superamento» della vita (die Aufhebung des Lebens). Tuttavia per Schlegel, che voleva comprendere la tragedia alla luce dell'etica moderna del dovere, il fato come necessità incondizionata poteva essere contrastato e superato dalla libertà morale (die sittliche Freiheit). Era questo, secondo Schlegel, l'aspetto tragico della vita: possiamo riconciliare la finitezza della nostra esistenza con l'infinità delle nostre realizzazioni potenziali desiderate, in tutti gli ambiti della vita, solo se ci abbassiamo a eseguire un dovere assoluto, in senso kantiano. Esso non cerca soddisfazione nel raggiungimento di uno scopo specifico: la libertà morale del dovere è il suo unico scopo ed è così che sembra sospendere l'opposizione tra il finito e l'infinito nel nostro Dasein. La «serietà» della commedia nuova risiede, viceversa, nel suo confinarsi all'interno del regno dell'esperienza (Erfahrung). In tal modo, le sublimi nozioni tragiche sono corrette in base alla loro concezione empirica (der empirische Begriff), ovvero in base all'animo con cui le rendiamo possibili nell'esperienza. In particolare, al fato si sostituisce il caso, o la contingenza. Assistiamo così all'inevitabile concretezza di ogni situazione come a qualcosa che non possiamo né cambiare, né controllare, un semplice factum brutum. Ci è però possibile volgere la contingenza a nostro beneficio se agiamo secondo lo spirito, secondo una razionalità orientata allo scopo, o per mezzo dell'intelletto calcolatore (verstiindlich ... lenken). Anche in questo senso la commedia nuova somigliava alla favola nella sua connotazione morale, in quanto costituiva una sorta di «teoria della prudenza» o dell'intelligenza pratica (Klugheitslehre). Ancora una volta, la comprensione moralistica che Schlegel aveva della commedia lo portò a considerare la commedia nuova come un'impresa coi piedi per terra ed essenzialmente opportunistica, che faceva affidamento su una moralità delle conseguenze. Come tale, la commedia nuova era per lui orientata ad un'azione situazionale e guidata dal desiderio di raggiungere uno scopo concreto. Tutto questo sfocia in una felicità umana «empirica» sospettosamente egoistica, piuttosto che nelle azioni di un dovere tragico disinteressato e sublime9 1 • 9' In base alla misura di riflessività di cui fa mostra, Schlegel suddivide ulteriormente la commedia nuova in comico d'osservazione (das Komische der Beobachtung) e comico autocosciente o confessato (das se/bstbewu/Jte und eingestandne Komische); il primo fa

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(3)La terza opposizione storica ereditata da Schlegel è quella tra la commedia greca e quella romana. La valutazione di Schlegel non fu esitante: riconobbe l'influenza dei commediografi romani sui moderni; tuttavia, considerò la commedia romana secondaria rispetto alla commedia nuova greca92 . La condiscendente rispetto alle «licenze metriche» dei poeti comici latini e alla loro presunta negligenza nella versificazione, che si contrapponeva nettamente all'eleganza, alla purezza e alla precisione degli originali greci93. Certo, la commedia nuova greca era nota ai tempi di Schlegel solo attraverso frammenti, come avveniva per i presocratici e la scultura greca. La bellezza e perfezione originaria attribuita ad essi non era altro che una ricostruzione romantica (o una «ritraduzione», per usare le parole di Schlegel), che può avere avuto ben poco a che spartire con l'originale perduto, giacché tale ricostruzione era puramente immaginaria e si rifaceva agli ideali normativi contemporanei di bellezza e decoro. Le commedie latine erano ritenute carenti di inventiva, niente più che «imitazioni», «prestiti» o «rifacimenti» (eufemismi per indicare «plagi») delle loro controparti elleniche e, come tali, esse «non avevano naturalmente lo spirito poetico»94. Il verdetto di Schlegel fu dunque categorico e definitivo, del tutto inappellabile. In tutte e tre le opposizioni di Schlegel - la tragedia contro la commedia, la commedia antica contro la nuova, la commedia greca contro quella latina - i termini dell'opposizione non sono equi: il primo termine risulta sempre più «elevato» e «di maggior valore» del riferimento alla commedia alta e raffinata, mentre il secondo a quella bassa, o alla farsa (Possenspiel), CLD, pp. 298-299; A.W. Schlegcl, Vorlesungen aber dramatische Kunst und Literatur cit., p. 228. Schlegel notava che Plauto e Terenzio avrebbero influen1.ato Molière e che i Medi Plauto sarebbero alla base della «Commedia degli errori» di Shakespeare. (l'altra fonte sarebbe l'Anfitrione). 93 Vorlesungen aber dramatische Kunst und Literatur cit., p. 306. !1-4 «Plauto allarga sempre il suo soggetto, e gli è forza riparare, per via di mutilazioni, l'eccessiva lunghez1.a che egli aveva data alle sue commedie;; a rincontro, la mancanza d'una vena feconda fa sovente apparire quelle di Teren1fo un po' grette, e si vede ch'egli ne riempiva le lacune per mezzo di giunte estranee. I suoi contemporanei gli davano già carico d'aver guasta o falsificata una grande quantità di commedie greche, per comporne un piccolissimo numero di latine. Parlasi in generale di Plauto e di Terenzio come di scrittori originali. I Romani sono in questo scusabili; non avevano naturalmente lo spirito poetico, e il loro teatro era composto in parte di traduzioni [Uebersetzung], e in parte d'imitazioni libere [Nachahmung] d'opere greche, ch'essi non tardarono poscia a rifondere ed a far proprie [Aneignung]» (CLD, pp. 308-309). 91

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secondo. Schlegel esibiva il solito campionario romantico di opinioni preconcette spacciate per buon gusto. Per i romantici, il romano era troppo familiare e noioso - troppo «identico» - a differenza del ben più interessante «altro» greco. La commedia antica si nutriva degli ideali classici ed estetici dell'Atene classica, ancora vicina alle grandi dramatis personae del mondo ateniese, mentre la Nea era soltanto una «commedia di costume». Per di più, la commedia, che guardava alle plebi, era volgare, mentre la tragedia, rivolta alle famiglie regali, era nobile e sublime. Eepure il soggetto moderno è esso stesso una costruzione romantica. E un soggetto autonomo, quindi è isolato, in una tensione costante, seppure fallimentare, verso il raggiungimento dell'altro; è finito, è «fatalmente» mortale, e si confronta incessantemente con la sua finitezza in un sofferto essere-per-la-morte (Sein zum Tode); è razionale, e in quanto tale sottomette la volontà razionale a ciò che egli stesso impone volontariamente a sé stesso come proprio dovere. Infine, il soggetto moderno è autocosciente - consapevole della propria finitezza, come della lotta tra l'esistenza finita e le aspirazioni infinite. In altre parole, la soggettività moderna è una soggettività tragica. La commedia, ad ogni modo, è un'attività, o una prassi, guidata dalla riflessione su come conseguire e vivere una vita buona e gioiosa. Tale è una vita condivisa con gli altri e non prestata al solitario confinamento in sé stessi.

Approcci moderni In larga misura, la commedia sfugge ancora all'attenzione dei filosofi e ben pochi sono gli studi filosofici a essa dedicati. Ciò nonostante, abbiamo a disposizione diversi studi recenti che potrebbero risultare fondamentali nel volgere l'attenzione della filosofia alla commedia95 • Per fare un nome, Agnes Heller ha scritto un libro davvero notevole sul significato filosofico della commedia. In esso, Heller discute 9S La critica letteraria contemporanea ha prodotto una serie di lavori encomiabili che trattano la commedia nei suoi vari aspetti. Vedi la discussione del fenomeno del comico in W. Preisedanz, R. Warning (a cura di), Das Komische, Poetik umi Hermeneutik, VII, Fink, Miinchen 1976, con contributi di H. Blumenberg, O. Marquard, J. Starobinski, D. Henrich et al. Vedi anche R. Warning, Komik/KomiJdie, in U. Ricklefs (a cura di), Das Fischer Lexikon: Literatur, Fischer Taschenbuch, Frankfurt am Main 1996, voi. 2., pp. 897-936.

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il multiforme fenomeno del comico, che si manifesta in molti modi diversi nel pensiero e nella cultura (il teatro comico, i romanzi, la commedia esistenziale, la narrativa in prosa e le arti visive) e pervade tutto l'agire umano pratico, politico e morale. Di conseguenza, come mostra Heller, la commedia dev'essere riconosciuta come eterogenea: nessuna definizione di commedia può stare in piedi e, in ultima analisi, non la si può definire o determinare. In altre parole, la commedia è «inaccessibile a qualsiasi approccio»9 6• Questa è, senza dubbio, un'affermazione piuttosto sorprendente. Eppure, sottolinea Heller, non possiamo esaurire tutte le espressioni e possibilità della commedia nell'arte e nella vita. Anche altri teorici letterari sembrano concordare con questa conclusione. Richard Keller Simon ha analizzato il comico tra letteratura (Henry Fielding, William Thackeray), filosofia (Kierkegaard) e psicoanalisi (Sigmund Freud), per dimostrare che la teoria comica è «un'incongrua miscela di approcci e un assortimento generico di dibattiti»97. Pertanto, è solo quando non prendiamo la commedia sul serio che ci troviamo nella posizione di comprendere e apprezzare tutte le sue complessità e finanche assurdità, e di rendere in questo modo la commedia interessante98 • Tuttavia, questa posizione, sebbene potenzialmente intrigante, è del tutto scettica, in quanto non lascia spazio alcuno alla possibilità di mettere in chiaro il significato della commedia. Piuttosto, ogni qual volta cerchiamo di interpretare la commedia, perdiamo inevitabilmente. L'approccio di Heller, al contrario, può essere considerato apofatico: nella vita e nel pensiero interpretiamo la commedia più e più volte, eppure ogni volta siamo capaci di conquistarci un significato nuovo e diverso. Le teorie sulla commedia sono dunque piuttosto eterogenee. Mark Roche ha proposto un'interpretazione affascinante della trattazione di Hegel su tragedia e commedia, che egli applica al teatro, alla letteratura e al cinema. Non diversamente da quanto fa Arnold Ruge,

96 A. Heller, Immortal Comedy: The Comic Phe11ome11on in Art, Literature, and Life, Lcxington, Lanham 2005, pp. 6, 8, 15, 204 e passim. Potts si rifiuta di fornire una definizione della commedia, non ritenendolo necessario: cfr. L.J. Potts, Comedy, Hutchinson's University Library, London 1948, p. 15. '» R. Keller Simon, The Labyri11th of the Comic: Theory ami Practice from Fieldi11g to Freud, Florida State University Press, Tallahassee 1985, p. 3. 98 lvi, p. 244.

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Roche rileva una connessione tra commedia e critica immanente99. Roche segue la traiettoria delle varie trasformazioni della soggettività dalla tragedia alla commedia fino al dramma della riconciliazione, ed escogita una valida classificazione sistematica delle varie tipologie. In questo percorso, la commedia svolge un ruolo di prim'ordine perché, sebbene i suoi scopi e i conflitti che presenta siano generalmente triviali e i suoi eroi fiacchi, la commedia supera la tragedia in quanto permette la possibilità del «positivo» all'interno della soggettività non distruggendola, ma stabilendo, per mezzo di una negazione della negazione, una vera e propria intersoggettività 100 • Alenka Zupancic ha cercato di cogliere l'elusiva «illogica della commedia» applicando la logica di Hegel a ciò che lei stessa definisce come la logica del «Reale», ovvero del desiderio umano. Il «realmente Reale» non può, d'altro canto, mai rientrare in ciò che comunemente si intende per realtà. Per questo la commedia si configura come «l'universale al lavoro», definita da un costante «movimento» causato da un'inevitabile incongruenza tra la realtà del desiderio e i modi in cui la «realtà realistica» si presenta e si organizza 101 • Giacché il desiderio è il momento definitorio di quello che una volta era il soggetto, l'attenzione principale del libro si sposta verso i modi in cui l'eroe comico sembra superare la finitezza umana all'interno delle strutture «infinite» del desiderio e della pulsione. Dalla trattazione sono state tuttavia ampiamente tralasciate le strutture della narrazione comica. Infatti, se esse sono pertinenti al desiderio, sono già dissolte nell'eroe comico e, nel caso in cui rientrino nel novero 99 A. Rugc, Neue Vorschule der Asthetik. Das Komische mit einem Komischen Anhange, Vcrlag dcr Buchhandlung des Waisenhauses, Hallc 1837, pp. 107-136. 100 M.W. Roche, Tragedy and Comedy: A Systematic Study atul a Critique of Hegel, State Univcrsity of New York Press, Albany 1998. Roche offre una classificazione (triadica) della commedia in commedia della (1) coincidenza, (2.a) della riduzione, (2b) della negazione, (2c) del recesso e (3) dell'intersoggcttività («l'eroe acquisisce l'intcrsoggcttività, e quindi una soggettività autentica, dopo essere passato attraverso una falsa soggettività o negatività», p. 330), a cui aggiunge la commedia dell'ironia assoluta. Ivi, pp. 327-330; cfr. pp. 135-246 e 281-283. Vedi anche M. Roche, Hege/'s Theory of Comedy in the Cotllext of Hegeliatz and Modem Reflections 011 Comedy, «Rcvuc lntemationale dc Philosophic», 56, 2002, pp.411-430. Contro l'interpretazione dominante secondo cui Hcgcl considererebbe la tragedia come la più alta forma drammatica, Roche sostiene che la commedia sia antitetica alla tragedia e dunque più avanzata: ivi, pp. 421-422. 101 Alenka Zupancic, Tbe Odd One In: 011 Comedy, MIT Prcss, Cambridge 2008, pp. 27, 218 e passim.

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della «realtà comune», è inevitabile che sfuggano, per via della loro incongruenza con il «Reale». Si potrebbe però affermare che tale interpretazione della commedia altro non sia che un'ennesima variante del plurisecolare resoconto filosofico dell'incongruenza tra ontologico («il vero essere») e ontico ( «la parvenza ingannevole»). Come ha sostenuto in modo convincente Paul Kottman in una riflessione critica sul saggio della Zupancic, se vogliamo raccontare una storia della commedia umana, il suo umanesimo deve risultare narrabile, ovvero spiegabile a sé stessi e agli altri 102• In altre parole, la commedia dovrebbe essere raccontabile, e, anche se noi stessi ci ritroviamo ad essere i personaggi comici, dovremmo essere in grado di fornire un resoconto della trama e dell'azione in cui siamo coinvolti mentre continuiamo a vivere la commedia della vita. Anja Gerigk propone un'interpretazione completamente diversa della commedia, che la studiosa tedesca sviluppa servendosi di una sofisticata analisi della «comicità alta» nella letteratura moderna (Heinrich von Kleist, Georg Biichner, Franz Kafka, Samuel Beckett, Thomas Bernhard) e nel cinema. La Gerigk sostiene che la commedia, o meglio il comico, sia «ambivalenza sotto forma di organizzazione del sociale» 103. Un'analisi della commedia così intesa trova opportuno fondamento nella teoria dei sistemi di Niklas Luhmann, che fornisce una spiegazione del sociale, e nella teoria del carnevale di Michail Bachtin, chiarificatrice del concetto di ambivalenza. La commedia è dunque innanzitutto un fenomeno sociale e come tale necessita di essere studiato nell'ambito di un sistema di relazioni e istituzioni sociali. Inoltre, la commedia può svolgere un ruolo critico come indicatore del funzionamento e delle patologie di un sistema. Eppure, in questo caso, la commedia non è compresa secondo i suoi stessi termini, ma in riferimento a qualcos'altro (ad esempio, l'organizzazione sociale), che in questo modo la definisce e di cui essa è un epifenomeno. Gli studiosi di letteratura hanno indicato svariati modi di intendere la commedia, le sue molteplici forme, le trame, i personaggi, gli stili, di cui Véronique Sternberg e Andrew Stott ci forniscono delle utili 101 P. Kottman, S/ipping on Banana Pee/s, Tumblitrg into Wel/s: Phi/osopl,y and Comedy, «Diacritics», 38, 4, 2010, pp. 3-14. 103 A. Gcrigk, Literarische Hochkomik in der Modenre: Theorie urul l11terpretatio1re,z, Franckc, Tiibingcn 2008, pp. 68-74, 101 e passim.

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panoramiche 104. Tuttavia, malgrado la fecondità di questi approcci, c'è qualcosa nella commedia che rimane restio alla tematizzazione, e che beffardamente sfugge ai tentativi dell'analisi filosofica e letteraria di definirla. Come ha scritto Richard Keller Simon: Praticamente tutto quello che può essere detto in merito è già stato detto - ogni sua posizione, contrapposizione, la loro sintesi... [I] critici hanno sostenuto che la commedia è una for.t.a della civiltà (Meredith) e una forza della natura contrapposta alle repressioni delle civiltà (Freud, Santayana); che il comico corregge il comportamento deviato (Bergson) e che non lo corregge (Smith); che la commedia celebra le cose come sono (Scott) e che celebra le cose come dovrebbero essere (Feibleman); che la commedia rappresenta un distacco dalla vita (Bergson) e che rappresenta un impegno con essa (Burke); che è un atteggiamento irrazionale (Sypher), un atteggiamento razionale (Swabcy), e una fou.a al contempo razionale e irrazionale (Gurewitsch); che è politicamente di sinistra (Feiblcman) e politicamente di destra (Cook); che mette in scena la vittoria dell'individuo (Torrence) e la vittoria della società sull'individuo (Bergson, Duncan); che il suo tema è il carnevale (Santayana) e che il suo tema è la vita di ogni giorno (Kaul); che richiede autocoscien1.a (Burke) e un'assenza di autocoscienza (Mack) 10s.

L'apparente intangibilità e indefinibilità della commedia finisce per giustificare l'affermazione secondo cui «la commedia è morta», che era la tesi di Erich Segal106 • La filosofia moderna ha fissato uno schema per risolvere questi problemi nel modo più radicale possibile: o li si accantona o li si uccide. Seguendo Martin Lutero, che ha stabilito il modello parlando di «morte di Dio», nella modernità si disquisisce spesso sulla «morte di X», laddove a X può corrispondere qualsiasi termine: l'autore, il soggetto, l'arte o la commedia. Eppure il concetto di «morte di X» è esso stesso espressione del soggetto moderno, che comprende sé stesso come pienamente autonomo e quindi incapace di accettare un fenomeno in quanto semplicemente trasmesso dalla tradizione. La tradizione tormenta il soggetto perché, pur reinterpretandola continuamente e negandole persino un'origine, 1"4 V. Stemberg, La poétique de la comédie, Scdes, Paris 1999; A. Stott, Comedy. Routlcdge, New York 2005. 105 R. Keller Simon, The Lal,yri11th of the Comic cit., pp. 239-240. Sui molteplici significati del comico, vedi anche B. Miiller-Kampcl, Komik und das Komische: Kriterien u11d Kategorie11, «LiThcS: Zcitschrift fiir Llteratur-und Thcatersoziologie», 7, 2012, pp. 5-39. 106 E. Segai, The Death of Comedy cit., p. 452.

2. I MODERNI: LA PERDITA ROMANTICA DELLA COMMEDIA

esso non ha comunque pieno controllo di essa, giacché la tradizione non è mai un'invenzione totale e deliberata. Pertanto, con «la morte di X» si manifesta la riluttanza del soggetto moderno a contenere la sua volontà razionale e universalmente legislativa. Infatti, la morte di qualsiasi cosa implica la «nascita del Soggetto», anche se esso prova sinceramente a cancellare o uccidere sé stesso proprio nella figura della «morte del Soggetto». Si potrebbe dire che i tentativi moderni di superare le limitazioni del soggetto - come punto focale nella produzione dei significati riguardanti il mondo, l'altro e sé stesso - falliscano inevitabilmente. Questo avviene perché si tratta di un soggetto archimedeo a cui manca un punto d'appoggio per capovolgersi nel suo stesso pensiero - e quindi suicidarsi. La tanto proclamata morte della commedia è solo un'altra manifestazione della fine del soggetto moderno, presumibilmente onnipotente. Il soggetto moderno vuole - e ha bisogno di - diventare Dio (God), ma giunge a una conclusione assurda: quella di attendere ma non incontrare mai sé stesso, di diventare Godot. Non è un caso, allora, che la commedia dell'assurdo o esistenziale nel teatro e nella letteratura sopravviva come prosecuzione della commedia classica, il che è ben analizzato nei lavori di T.G.A. Nelson, Andras Horn (su Beckett e Eugène Ionesco) e Agnes Heller (su Kafka) 107. La commedia sopravvive nonostante i continui annunci della sua fase terminale. Inoltre, a dispetto di una varietà parimenti ampia di significati e aspetti della commedia che sono considerati costitutivi di essa, è possibile identificare due gruppi principali di modi reciprocamente compatibili di descriverla. Il primo riguarda temi come l'incongruenza, l'assurdità, la trasgressione, l'irrazionalità, il nonsapere, l'ambiguità, il non adattarsi alla regola e infrangerla. L'altro ruota intorno a temi quali la vitalità, il rinnovarsi della vita, l'animalità, la sessualità, il godimento, il piacere e l'appagamento. Alla prima tipologia esplicativa appartiene la maggior parte delle teorie moderne sulla commedia in quanto sono, nelle parole di Maurice •01 T.G.A. Nelson, Comedy cit., pp. 159-170; A. Heller, Immortal Comedy cit., pp. 94-124; A. Horn, Das Komische im Spiegel der Uteratur. Versuch einer systematischetz Eitz{tlhrung, Konigshauscn und Neumann, Wiirzburg 1988, pp. 265-280. Horn tuttavia sostiene la necessità di distinguere tre fasi dello sviluppo della commedia: la commedia antica (Aristofane), la commedia nuova (da Menandro fino ai drammi del XX secolo), e la commedia dell'assurdo moderna.

PRIMA PARTE. STORIA DELLA COMMEDIA

Chemey, «espressione cli impulsi irrazionali, selvaggi, caotici, cli appagamento del desiderio» 108 • L'incongruenza si arrende all'ironia: secondo Chamey, la commedia è essenzialmente ironica, vale a dire, essa manipola con le apparenze ingannevoli, per mezzo delle quali i personaggi comici fingono di essere qualcosa di cliverso109• Per David Farley-Hills, il comico «scaturisce dalle incongruenze tra modi opposti cli considerare le stesse idee o immagini»n°. Per Brian Edwards, la commedia è «transattiva», e comporta un costante cambiamento del significato linguistico che scivola via e non può essere stabilito saldamente1 n. Per Elder Olson il comico si basa sul «disgusto», sull'uso scorretto e assurdo di tropi e figure familiari, che risulta nel mostrare l'assurdità della preoccupazione che ne può derivaren 2 • Secondo Sternberg la commedia non ha né una trama (sujet) né un significato particolare, in quanto non segue alcuna logica al cli là del semplice libero gioco11 3. Secondo Morton Gurewitch alla commedia interessano soprattutto «l'illogicità e l'irriveren1.a, nel disordine e nella disinibizione» u4. Per Friedrich Georg Jiinger la commedia implica sempre la presenza di una regola che inevitabilmente avversa e infrangen 5 • Allo stesso modo, secondo Umberto Eco, la commedia comporta la continua trasgressione di una regola che non ci preoccupa difendere. Per la nostra soddisfazione, quindi, la regola è violata da «un personaggio ignobile, inferiore e ripugnante (animalesco)», a cui ci sentiamo superiori1 16• Il secondo modo di comprendere la commedia, come esplorazione e affermazione della vita, traspare in lavori come quelli di Robert 108

M. Charncy, Comedy High a,ul Low, Oxford Univcrsity Prcss, New York 1978.

Cfr. J.W. Hokcnson, The Idea of OJmedy. History, Theory, Critique, Fairlcigh Dickinson University Prcss, Madison-Tcancck 2006, pp. 23, 120 e passim. '09 M. Charncy, OJmedy High and Low cit., pp. 10-18. 110 D. Farlcy-Hills, The OJmic i,z Renaissa,ue OJmedy, Barncs and Noblc, Totowa 1981, p. 20. 111 B. Edwards, Verbun, lude,,s, or the A11tic Disposition of Words: Toward a Theory of the OJmic, in P. Pctr, D. Robcrts, P. Thomson, Comic Relations: Studies ili the Comic, Satire, and Parody, P. Lang, Frankfurt am Main-Ncw York 1985, pp. 43-49. 111 E. Olson, The Theory of OJmedy cit., pp. 61, 65, 82-85. 11 J V. Stcrnbcrg, La poétique de la comédie cit., pp. 2 5, 74. '' 4 M. Gurcwitch, OJmedy: The lrratio,10/ Visio,z cit., p. 9. 115 F.G. Jiingcr, Uber das Komische (1936), Vittorio Klostcrmann, Frankfurt am Main 1948 3, p. 14. 116 U. Eco, The Frames of OJmic "Freedom", in T.A. Scbcok (a cura di), Oimivalt, Mouton Publishcrs, Bcrlin 1984, pp. 1-9: 2.

2. I MODERNI: LA PERDITA ROMANTICA DELLA COMMEDIA

Corrigan, per cui la commedia rimanda a una «avidità per la vita» e come tale ci sgrava dai nostri problemi e ci salva dalle pressioni della vita quotidiana 11 7. Per Christopher Fry, la commedia è una «fuga dalla disperazione» 118• Hannah Arendt, che notoriamente pone l'accento sulla «natalità» della nostra esistenza, afferma (seguendo Bertolt Brecht) che la commedia ha a che fare con le sofferenze e le catastrofi dell'umanità in un modo più serio ed efficace rispetto alla tragedia n9_ Infine, Northrop Frye, soprattutto attraverso i suoi studi sulla commedia shakespeariana, sostiene che la commedia «ci trasporta in un mondo più elevato e separa quel mondo da quello della stessa azione comica» 120• Come tale, la commedia è associata innanzitutto alla primavera, ver perpetuum, al potere rigenerativo che rende possibile il trionfo della vita e dell'amore. Molti studiosi moderni sottolineano la centralità del riso nella commedia, su cui mi soffermerò maggiormente in seguito. La commedia è spesso considerata un'azione che, da un lato, è buffa per via dell'uso dei motti di spirito e, dall'altro, ha un «lieto fine» 121 • In quanto segue, tuttavia, sosterrò che la commedia approda alla risoluzione di un conflitto per mezzo di una narrazione, o «argomentazione», ben strutturata e pianificata, che non deve necessariamente ricadere nello scherzo e nella risata, anche se può senz'altro farlo. Una narrazione comica è riuscita se giunge a un «esito positivo», ovvero a una conclusione giustificata. Una buona fine per una commedia ha in comune con il riso le stesse caratteristiche: la superiorità (rispetto ai malfattori), il sollievo (per essere riusciti a risolvere un problema o un caso) e l'ambiguità (di azioni, gesti e parole- che il più delle volte sono i mezzi per trovare una soluzione). Eppure la risoluzione di un conflitto per mezzo dell'azione comica può anche non essere buffa o '•7 cit., pp.

R.W. Corrigan, Comedy and the Co111ic Spirit, in Id., Comedy, Meaning and Form 1-11: 2.

118 C. Fry, Comedy, ivi, pp. 15-17. La commedia «crede che ci sia una causa universale del diletto, anche se la conoscenza di tale causa guizza via dal nostro appoggio, lasciandoci a contare sulla nostra capacità di stare a galla» (ivi, p. 15 ). 11 9 H. Arendt, lnterview, «New York Review of Books», 25, ottobre 1978, p. 18. 120 N. Frye, A Natural Perspective: The Development of Shakespearean Comedy and Romance, Columbia University Press, New York 1965, p. 133; vedi anche ivi, pp. 119, 13 9, 158 e passim, e N. Frye, The Anatomy of Criticism cit., pp. 158-18 2. m R.M. Polhemus, Co111ic Faith: The Great Traditio,i {rom Auste,i to Jayce, The University of Chicago Press, Chicago and London 1980, p. 20.

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PRIMA PARTE. STORIA DELLA COMMEDIA

non muovere affatto al riso. A questo si associa un complemento psicologico degno di nota: quando sogniamo non ridiamo mai, anche se spesso ci ritroviamo a provare paura - esistono sogni spaventosi, ma non sogni buffi. Se i sogni sono tentativi di risolvere i problemi che ci importunano, allora essi possono essere comici senza essere buffi. Si può considerare un motto di spirito come una na"azione condensata, una trama comica concentrata e sui generis, spesso caratterizzata da deliberate omissioni. Così intesa, essa somiglia a un entimema. In questo modo nella commedia nuova, la gnome, la sententia o l'aforisma spesso sostituiscono il motto di spirito. Il motto è, in un certo senso, l'intera storia di una commedia, riassunta in poche parole e presentata in modo spiritoso. Il genere della commedia, tuttavia, presuppone uno sviluppo dettagliato della trama nell'azione, per mezzo del dialogo dei personaggi. Giacché la narrazione si fa estesa e spesso piuttosto complessa, rischia di perdere la battuta culminante del motteggio e quindi di essere considerata una specie di scherzo tirato per le lunghe o «superato». Pertanto, abbiamo visto che gli approcci contemporanei alla commedia differiscono notevolmente e per lo più non sono convergenti. Come dimostrerò, non sono tanto il motto di spirito e il riso, ma l'insieme dei personaggi e la struttura della trama comica a diventare i tratti distintivi della commedia.

Seconda parte

La logica della commedia

3. Tutti si uniscono alla lotta: la dialettica dell'azione comica

La logica della commedia è rivelatrice di un'impresa razionale

tesa a promuovere il benessere umano. In questo capitolo esaminerò come la commedia stessa abbia raccontato i modi con cui lo si raggiunge. La commedia è un'(inter)azione ben organizzata che si svolge in mezzo a un certo numero di attori, in opposizione all'isolamento di un singolo soggetto. Si muove da una complicazione inevitabile a una risoluzione e a un lieto fine. Questa risoluzione è il risultato di un'azione comune intenzionale di persone che versano in situazioni incerte. Come vedremo, la commedia presuppone sia una narrazione «dialogica» sia una soluzione «dialettica». Grazie agli sforzi di sofisti, retori e filosofi, nell'antichità era comunemente accettato - quasi considerato ovvio - che, per avere successo, il logos (ovvero il discorso e il ragionamento) doveva poter esprimere un giudizio di cui sapesse persuadere gli altri, e quindi doveva essere propriamente ordinato e strutturato. Questo perché il logos ha una struttura intrinseca che deve essere esplicitamente specificata, per mezzo del ragionamento, nel discorso. Vi sono, nel logos, distinzioni e divisioni immanenti. O esse sono già presenti nel pensiero e sono quindi chiarite per mezzo di esso, o sono costruite e prodotte nel momento in cui si pensa. In entrambi i casi, il logos implicito (il logos endiathetos degli stoici) è reso esplicito (logos prophorikos) dal nostro sforzo «logico» di chiarirlo 1 • Tale sforzo è presente in diverse modalità nelle arti e nelle scienze: in particolare la nostra azione (drammatica) rivela una struttura logica implicita. Scoprire i tratti strutturali chiaramente distinguibili e identificabili degli ' Contro Eraclito, per cui il logos non era comprensibile agli umani, neanche dopo averlo udito, Eraclito, Frammenti, a cura di F. Fronterotta, Ri1.zoli, Milano 2013, fr. BI DK.

SECONDA PARTE, LA LOGICA DELLA COMMEDIA

oggetti che costituiscono la provincia di una particolare disciplina è un compito importante della filosofia teoretica e pratica 2 • Poiché nei suoi contorni generali la commedia è razionale, essa, di conseguenza, eredita e riproduce i tratti strutturali di un'argomentazione logica così come si è sviluppata nell'antichità- nell'argomentazione dialettica filosofica, nel discorso retorico e nella prova matematica. Nell'antichità l'ideale era quello del giovane uomo istruito, competente in letteratura, musica e atletica3. L'apprendimento avrebbe dovuto stabilire una connessione tra l'essere e la conoscenza (esse-discerescire). Menandro e i suoi colleghi commediografi erano istruiti nella tradizione inaugurata dall'Illuminismo greco della sofistica, e da giovani avevano ricevuto un rigoroso addestramento dialettico e retorico. Questo addestramento, così come l'istruzione matematica dell'epoca, era orientato allo studio e alla padronanza di alcune forme di argomentazione che scaturivano dalla pratica stessa delle dispute orali. Non sorprende che la trama della commedia nuova seguisse modelli di argomentazione consolidati, che trovavano la loro spiegazione e sistematizzazione nei trattati dell'epoca - in particolare nella Retorica di Aristotele. Di conseguenza, l'opera degli scrittori comici assomigliava a quella dei dialettici, dei retori e persino dei matematici. All'inizio si calcolavano e si bilanciavano meticolosamente tutte le parti della trama, concependo il suo flusso come quello di un'argomentazione. In seguito, si animava la trama con personaggi realistici che agivano e interagivano mediante scambi dialogici4.

L'azione «dialogica» In un certo senso, la commedia è dialogo. In quanto dramma, la commedia è un'azione che imita e riproduce, ma anche produce e plasma,

z Lo si evince nella dialettica, nella logica, così come in retorica, linguistica, matematica e nello studio della natura e delle sue leggi. Lo stesso vale per molte arti, comprese la poesia e il teatro, la pittura e l'architettura, e persino la cucina, dove ci si deve attenere a una proporzione ben calibrata e a un ordine. 3 Terenzio, Eunuchus, 476-478. 4 Secondo Plutarco, Menandro considerava un'opera praticamente completa una volta che aveva prodotto anche solo la struttura generale e i contorni della trama, con una catena («deduzione») di passaggi accuratamente ponderata che necessitava di essere completata aggiungendovi il dialogo; cfr. R.W. Corrigan, Classica/ Comedy cit., p. 79.

3. nrrn

SI UNISCONO ALLA LOTTA: LA DIALETflCA DELL'AZIONE COMICA

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le interazioni umane - con tutte le loro difficoltà e complicazioni. Come tale, l'azione della commedia narra una storia, senza rinarrarla o spiegarla, ma mostrandola, interpretandola. Di conseguenza, la commedia si guarda bene dal narrare l'azione con una prospettiva a volo d'uccello. L'azione viene invece presentata da personaggi che incarnano la vicenda man mano che va dipanandosi attraverso le loro conversazioni. La commedia è dunque un dramma che si compone di una serie di dialoghi. Ritengo infatti che il dialogo sia centrale nella costituzione della commedia, che, nella sua forma drammatica, altro non è che un dialogo impersonato.

Il dialogo presuppone uno scambio relativamente rapido di repliche e controrepliche basate su interruzioni reciproche5. Le persone devono agire, e agire rapidamente, per ottenere gli obiettivi a cui aspirano e impedire che l'azione diventi noiosa e si spenga. Quindi, gli interlocutori devono essere capaci di comprendersi, anche in mezzo a osservazioni brevi e apparentemente casuali, spesso incomplete e grammaticalmente scorrette. Ogni ritardo è percepito come un impedimento al flusso dell'azione e suscita irritazioné. Il dialogo serve dunque a mantenere l'azione in movimento. Eppure, il dramma fu il primo genere orale ad essere presentato sotto forma scritta 7• Mentre gli attori recitavano i dialoghi in forma parlata, l'autore li presentava in forma scritta 8• Di conseguenza, la commedia era orale a livello concettuale, dato che imitava le interazioni dialogiche dal vivo; eppure, da un punto di vista mediale, del modo in cui era concepita e eseguita, era prima scritta e poi orale. In quanto orale, la commedia era messa in scena o letta, o ad alta voce alla presenza di altri, una pratica comune nell'antichità, o in silenzio in compagnia di sé stessi e di significativi altri immaginari, come divenne abituale nella modemità9. Pertanto, il dialogo come lo si trova nella commedia imita il dialogo orale dal vivo, anche se senza rimpiazzarlo, così come l'azione s Cfr. Terenzio, Pbonnio, 191 sgg. D. Nikulin, Dialectic and Dialogue, Stanford University Press, Stanford 2.010, pp. 95-118. 7 W.J. Ong, Oralità e scrittura: le tecnologie della parola, il Mulino, Bologna 1986, pp. 197-2.18. 8 «Gli attori di solito conducono il dialogo» (Aclii Donati, Fragmentum de Tragoedia, et Comoedia; trad. di A.M. Grossi). 9 In Plauto l'atto di rivolgersi a sé stessi fu parodiato nella scena in cui Pscudolo, ubriaco, dialoga con le proprie gambe (Pseudo/o, a cura di M. Rubino, trad. di V. Faggi, Gan.anti, Milano 2.010, 12.46 sgg.). 6

SECONDA PARTE. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

comica imita le azioni dal vivo senza sostituirle. Eppure, tale imitazione non è una semplice riproduzione artistica dell'originale dal vivo. Ha anche un valore normativo: l'azione comica mostra la vita umana come dovrebbe e può essere. Questo riporta alla mente la famosa distinzione di Aristotele tra gli storici, che mostrano come le cose erano, e i poeti, che mostrano come le cose avrebbero potuto essere10. Seguendo questa linea di pensiero, la commedia non è storica, ma poetica. Dato che utilizza un linguaggio poetico, organizzato secondo una metrica, la commedia è imitativa del linguaggio parlato, ma in modo non diretto, bensì obliquo. Quindi, la commedia sospende l'oralità prosaica della lingua parlata di tutti i giorni. Costringendo la lingua in una forma e in uno stato innaturali, essa illustra lo sviluppo e il flusso ritmico dell'azione dialogica. Tuttavia, mette anche in mostra l'unicità e l'omogeneità dei personaggi. Il cambio di metro poetico e la sperimentazione metrica che ha luogo durante lo sviluppo della storia costituiscono una sorta di compromesso tra l'oralità e la scritturan. Poiché l'azione comica è dialogica, è anche comunitaria, giacché un dialogo solitario è una contradictio in adiecto. Ma l'azione comica comunitaria non è per questo corale. Nell'antichità, il coro produceva una canzone uniformemente monodica, in cui tutti i coreuti (membri del coro) diventavano indistinguibili l'uno dall'altro piuttosto che personaggi unicamente definiti. Prevedibilmente, il coro e la parabasi praticamente scomparvero già in Menandro. L'autore non aveva più bisogno che il coro si rivolgesse direttamente al pubblico per rilasciare una dichiarazione. Poteva lasciare che lo facessero i personaggi e gli attori attraverso l'azione e il dialogo. La posizione stessa dell'autore, in un certo senso, non era tanto importante quanto l'azione dialogica del dramma - che, in realtà, era la posizione dell'autore. La parabasi, a sua volta, era un dispositivo drammatiAristotele, Poetica cit., 145oa36-1451b10. Vi è una differenza sostan1jale tra commedia antica e nuova in quanto, come nota Giovanni Tzet7.es «la nuova impiega per lo più la misura giambica, e solo raramente altre misure, mentre nell'antica la molteplicità di metri costituiva il grande desideratum». Il metro era comunque molto vario sia in Plauto, sia in Terenzio, il che rendeva l'azione coinvolgente e interessante, stabilendo un ritmo di scambi fluido e variabile a seconda della situazione (G. Tzetzes, First Proem to Aristophattes, in P. Lauter (a cura di], Theories of Comedy cit., pp. 33-34: p. 33). 10 11

3. TUTII

SI UNISCONO ALLA LOTTA: LA DIALElTICA DELL'AZIONE COMICA

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co altamente artificioso, in cui il coro si rivolgeva al pubblico senza che questo potesse rispondereu. Nella commedia, al contrario, ogni personaggio è un individuo, anche se presenta un carattere «tipico». Questo personaggio non parla in un unisono corale ma contribuisce con una voce indipendente, non riducibile a nessun'altra o all'intera azione dialogica 1 3.

LA commedia come razionale e riflessiva Contro le interpretazioni sulla commedia che la considerano del tutto indefinibile, irrazionale, eterogenea e inconoscibile, ritengo che la commedia sia il più razionale tra tutti i generi drammatici. Quando la commedia racconta una storia, lo fa mostrando la sua narrazione attraverso un'azione imitativa. In primo luogo, questa azione è ben organizzata e congegnata, malgrado il suo apparente ingarbugliamento. La sua struttura può essere razionalmente ripristinata e riprodotta. In secondo luogo, vi è un giudizio implicito sulle azioni, sia dei personaggi attori che degli spettatori co-attori, man mano che progredisce lo sviluppo dell'azione. Il giudizio è dialogico, in quanto può essere emesso solo in un'interazione dialogica con gli altri attori e con gli spettatori. Il giudizio comico comporta inoltre un processo di pensiero, in quanto il suo significato viene stabilito e interamente chiarito solo alla fine. Infine, tale giudizio è riflessivo, dato che gli attori e i co-attori comici sono consapevoli non solo del fatto che, ma anche del perché sono coinvolti nell'azione comica, sebbene questo perché possa cambiare nel corso dell'azione. La commedia si serve spesso della parodia come espediente drammatico. A differenza della commedia antica, la commedia nuova non praticava una parodia virata sul personale, ma piuttosto parodiava ciò che era comune: un personaggio, una situazione, o anche un genere intero (come la tragedia). Ma in tal caso la commedia dovrebbe essere consapevole sia di cosa sta parodiando che del fatto che sta ,,. È possibile che la parabasi contenesse un tipo di dialogo, ma si trattava sempre di uno scambio tra un'ode (cantata dal coro) e un epirrhema (pronunciato dal corifeo) e poi tra un'ode e un'a11tode e tra un epirrema e un antepirrhema, che si corrispondono a vicenda nella struttura. ' 3 D. Nikulin, 011 Dialogue cit., pp. 72-93.

SECONDA PARTI!. LA LOGICA DELLA COMMl!OIA

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parodiando. Pertanto, la commedia deve essere rifiessiva. Come affermava la Heller, la commedia è sempre «mediata dalla riflessione, dalla comprensione, dal lavoro dell'intelletto» 1 4. In quanto riflessiva, la commedia medita sui limiti delle umane possibilità. In particolare, riflette sulla possibilità di raggiungere la felicità attraverso l'amore nella vita e non dopo di essa. Quindi, la commedia presuppone non solo che si pensi (a livello pratico e morale) a cosa è meglio per noi, ma anche un pensiero autoriflessivo sulla nostra situazione nella commedia della vita. Pertanto, di nuovo, la commedia implica sempre un giudizio. E il giudizio (libero) è propriamente possibile solo alla ragione riflessiva. Perciò, la commedia comporta sempre una forma di pensiero che è di per sé totalmente comico - ovvero giudizioso, riflessivo e, come tale, terapeutico. La commedia ci salva dalla morte e dall'assurdità nella vita, perché l'assurdità spesso si traveste da noia, ma nell'atto di pensare la vita non diventa mai noiosa. Inoltre, il pensiero riflessivo non è solitario, ma avviene in compagnia dell'altro, anche quel particolare tipo di altro che siamo noi stessi. Il pensiero riflessivo comico rende sia l'amore sia l'essere, in quanto essere-con-l'altro, possibili e, di fatto, inevitabili. Proviamo a parafrasare, e a modificare leggermente, l'affermazione di Hegel secondo cui ciò che è razionale è reale è ciò che è reale è razionale: ciò che è razionale è comico e ciò che è comico è razionale 1 5.

Commedia e dialettica La somiglianza strutturale tra la trama comica e l'argomentazione dialettica - per quanto riguarda le linee generali, l'arrangiamento e lo sviluppo - è piuttosto eclatante. La dialettica è una commedia travestita da filosofia, e la commedia è la drammatizzazione del ragionamento dialettico filosofico. La commedia è un modo di risolvere ' 4 A. Heller, lmmortal Comedy cit., p. n. Di conseguen1.a, affermare che la commedia è riflessiva implica che la commedia (il commediografo e gli attori, così come gli spettatori o i lettori) dovrebbe essere consapevole delle proprietà e delle caratteristiche (formali) di ciò che viene parodiato. Inoltre, la commedia dovrebbe imitare e riprodurre ciò che è parodiato in modo diverso, ovvero variandolo a seconda del suo compito e delle sue proprietà, di cui dovrebbe essere esplicitamente cosciente. Infine, la commedia dovrebbe sapere che quello che sta facendo è in realtà una parodia. •s G.W.F. Hcgcl, Cnaullinien der Phi/osophie des Rechts, in Id., Werke cit., voi. 7, p. 24.

3. TUITI

SI UNISCONO ALLA LOTTA: LA DIALE.lTICA DELL'AZIONE COMICA

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i conflitti della vita, tale che la soluzione sia soddisfacente e comunemente accettabile. Le sue soluzioni promuovono il benessere umano inteso come lo stare insieme alle altre persone. Alla commedia spetta risolvere un conflitto in corso, esattamente come un'argomentazione dialettica deve risolvere un problema. Quindi, nessuna delle due dà molta importanza all'originalità di una trama o di un'argomentazione, ma entrambe usano ogni mezzo a disposizione per avanzare verso la meta desiderata. Un'argomentazione filosofica dialettica è una prova che stabilisce la verità di un'affermazione teoretica tramite un'azione del pensiero che è messa in atto da chi parla. Analogamente, una commedia stabilisce la verità di una rivendicazione pratica attraverso la sua stessa azione, che è incarnata dagli attori1 6 • Sia nell'argomentazione dialettica, sia nella trama comica bisogna stabilire non solo cosa è vero e giusto, ma anche perché. Per mostrare come si raggiunge una conclusione, si deve fornire un movimento del pensiero e dell'azione ben calcolato e comprensibile passo dopo passo 1 7. È allora chiaro che la trama comica riproduce lo sviluppo dell'argomentazione dialettica. La commedia è dunque al contempo la realizzazione di una verità pratica e l'immagine di una verità teoretica 18 • Nella commedia, il conflitto all'inizio appare sempre irrisolvibile. La risoluzione finale del conflitto richiederà non solo grandi abilità attoriali, ma anche una raffinata abilità dialettica nella costruzione della trama. Pensiamo a quando leggiamo una storia o guardiamo un'opera teatrale in cui la trama non è immediatamente chiara, in cui la successione degli eventi non dà forma a una progressione evidente, lineare, «logica» 1 9. Invece che riconoscere semplicemente l'inconsistenza narrativa, cominciamo a costruire un'interpretazione soddisfacente, coerente, dove tutti i pezzi si incastrano e rivelano un disegno «na16 Come esempi di rivendicazioni pratiche, prendiamo l'uguaglian7.a delle persone e la possibilità della giustizia e della libertà. 11 Parafrasando Ben Jonson, l'arte comica ha un nemico chiamato ignoranza: «art hath an enemy cal'd lgnorancc» (B. Jonson, l11troductio11, in Id., F.very Man Out of His Humour, 219, Manchester University Press, Manchester 2001, voi. III, p. 436). 18 Al costo - e per il piacere - della ripetizione, cito un'altra volta Cicerone: «imitazione della vita, specchio dei costumi e immagine della realtà•. 1!1 Vedi, per esempio, Strade perdute (Lost Highway) o Mulholla11d Drive di David Lynch, le cui trame sono deliberatamente non comiche.

SECONDA PARTE. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

scosto». Ovviamente, tutto nella finzione è finzione, ma desideriamo sempre che la finzione sia qualcosa di più della finzione, non solo una sequenza arbitraria di eventi immaginari. Dovrebbe o riprodurre la vita così come può essere, o dirigerla verso ciò che non è mai stata, ma che per noi risulta vivibile. Dunque ci affanniamo costantemente a risolvere il problema di organizzare le azioni e le situazioni in cui siamo coinvolti. Non ci soddisfa mai la risposta «È solo una serie arbitraria di eventi sconnessi, quindi lascia perdere». La dialettica ha a sua disposizione una varietà di metodi sofisticati e consolidati, ancora oggi in uso. Eppure, la dialettica emerse da uno scambio dialogico apparentemente accidentale. Nel movimento dell'argomentazione dialettica, ogni passo nel ragionamento può essere inquadrato come una domanda che richiede una risposta, il che permette di procedere al passo successivo - e, alla fine, alla conclusione. Questo processo è facile da drammatizzare, cosa che fece Platone nei suoi dialoghi: le domande e le risposte erano assegnate a vari interlocutori. Tale dialettica era in origine orale e veniva praticata nei dibattiti 20• Lo scopo del dibattito dialettico orale, che all'epoca era organizzato in una serie di passi che potevano essere trascritti e codificati come una proposta logica astratta, era stabilire cosa fosse una particolare cosa o nozione (X). A tal fine, un interlocutore avanzava una tesi (X è Y), e l'altro, senza legarsi a nessuna posizione in particolare, poneva domande semplici che ammettevano solo una risposta diretta, sì o no. L'interrogante era il dialettico (paradigmaticamente rappresentato da Socrate), e l'interrogato era colui che inizialmente formulava la tesi dibattuta. In seguito, ponendo le giuste domande, o il dialettico richiedeva che l'interrogato stabilisse la veridicità della tesi X è Y (una dialettica positiva), o, altrimenti, il dialettico faceva riconoscere all'altro che l'affermazione originale produceva una contraddizione ed era pertanto errata (X non è Y), il che faceva ripartire daccapo l'intera procedura (una dialettica negativa). In entrambi i casi, il dialettico non si schierava con nessuna affermazione. Piuttosto, il suo compito era quello di testare criticamente la tesi iniziale della sua controparte in modo da scoprire se poteva reggersi in piedi. In una 20 Diogene Laerzio, Vite e dottri11e dei più celebri filosofi, Testo greco a fronte, a cura di G. Reale con la collab. di G. Girgenti e I. Ramelli, Bompiani, Milano 2005, lii, 48.

3.1111TJ

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dialettica positiva, il dialettico intesseva con maestria un'argomentazione che avrebbe permesso agli interlocutori di muoversi da un punto di partenza condiviso da entrambi verso l'ambita e accettata conclusione. Positivo o negativo che sia, il ragionamento dialettico rappresenta un movimento del pensierou. Presuppone una procedura razionale il cui successo - stabilire un punto attraverso un dato numero di passi del ragionamento - è possibile ma non garantito. Ritroviamo esattamente le stesse caratteristiche nella struttura e nella costruzione di una trama comica, che supporta l'affermazione che la commedia sarebbe un'impresa razionale, e la filosofia un'impresa comica. Nel dramma, solo la commedia, così come la dialettica positiva, raggiunge un fine «buono» nel ragionamento e nell'azione. E analogamente alla dialettica negativa, la commedia proibisce, distrugge (o al limite sospende) le domande, e ridicolizza le pratiche sociali errate e oppressive. Due versioni importanti della dialettica, nell'antichità, vengono da Platone e Aristotele, per i quali la dialettica costituiva uno strumento indispensabile per un retto ragionamento. Per Platone, l'argomentazione dialettica, se aveva successo, ci consentiva di sapere e riconoscere che cosa fosse una determinata cosa o nozione e come fosse collegata ad altre cose; e, se l'esito era negativo, il ragionamento dialettico distruggeva una tesi sbagliata. La dialettica ci permetteva quindi di acquisire un'adeguata conoscenza e perfino di conseguire il bene. La dialettica era strettamente associata alla matematica, che per Platone costituiva un modello per l'addestramento ad acquisire conoscenza tramite un ragionamento dialettico ordinato 22 • Aristotele, sviluppando la sua teoria del sillogismo - un discorso o un'argomentazione (logos) da cui, se qualcosa viene presupposta, qualcosa Si muove sempre (i) passaggio dopo passaggio, (ii) da un inizio che annuncia e presenta il caso, (iii) passando per un'argomentazione che (iv) può fare uso di vari metodi e (v) contenere parti identificabili o suddivisioni strutturali, (vi) fino a una conclusione che stabilisce un esito «positivo» (scoprire cosa è una data cosa), (vii) il tutto tramite domande e risposte che (viii) fanno riferimento agli opposti e permettono solo risposte semplici. Questo movimento del pensiero si reali1.1.a (ix) per me1.zo del dialogo che (x) coinvolge una comunità di persone (almeno due, ma solitamente di più, compresi gli uditori), uno dei quali - il dialettico - assolve il ruolo dell'interrogante che dirige, anche se non sempre tiene sotto controllo, il flusso dell'argomentazione. 11 Platone, Repubblica, 509b, 531d sgg. 11

SECONDA PARTE. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

di diverso necessariamente deriva - dedicò i suoi Topici allo studio dell'uso pratico della dialettica. In un certo senso, Aristotele tentò di appropriarsi di una serie di intuizioni platoniche e socratiche sulla dialettica piegandole al proprio fine: quello di fornire un quadro sistematico dei modi in cui la dialettica funzionava nei dialoghi di Platone. Eppure, per Aristotele la dialettica non offriva, come avveniva per Platone, una conoscenza stabile, la conoscenza dell'essere in quanto tale (ens per se or ens inquantum ens), ma piuttosto spiegava il funzionamento dei sillogismi dialettici basati su opinioni apparentemente corrette e premesse solo probabili2.3. Platone e Aristotele divergevano nella loro comprensione della dialettica in quanto, per Platone, essa era la forma dell'essere pensante, mentre per Aristotele era la forma dell'argomentazione logica. La commedia nasce dallo spirito del dialogo e della dialettica. Invita gli spettatori o i lettori a partecipare allo sviluppo dell' «argomentazione» della trama. Ll attira dentro permettendo loro di partecipare all'azione emozionalmente, attraverso l'empatia per i personaggi, e intellettualmente, anticipando lo sviluppo dell'azione. La commedia è dialettica, perché è una costruzione artificiale la cui trama è inventata e ponderata dall'autore. Eppure la commedia è anche dialogica, perché consente, o addirittura esige, una molteplicità di attori indipendenti - e non semplici interlocutori inventati - che, ognuno a modo suo, prendono parte ad un'azione comune. L'essere - il co-essere con gli altri, condiviso e dialogico - può essere raggiunto con la commedia, come in Platone. Inoltre, le «premesse», la situazione iniziale come punto di partenza per lo sviluppo dell'intrigo, può essere solo probabile, ovvero, concordata da tutti i partecipanti di una commedia, come in Aristotele. L'azione di una commedia è quindi «dialettica» in quanto richiede un'argomentazione ben strutturata (argumentum fabulae) che permetta all'azione di muoversi attraverso la complicazione e lo sviluppo della trama fino alla fine, quando si consegue il «bene» della commedia. Quindi, il bene della commedia non è trascendente all'essere (in quanto essere umano), come in Platone, ma è raggiungibile per mezzo degli sforzi comuni dei partecipanti. La commedia consente agli spettatori di riconoscere sia l'umanità dei personaggi, sia la razionalità 23

Aristotele, Top. roobr8 sgg., et al.; Met. ro6rb7-ro.

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ultima di un'azione apparentemente irrazionale e accidentale. Infine, il riconoscimento intellettuale (l'anamnesis di Platone), che si verifica quando si prova a ricostruire, capire e anticipare il corso di un'azione, si presenta come la gioia di essere inclusi nell'azione dialogica e nella realizzazione di un bene (e di un finale positivo) condiviso insieme alle altre persone.

Gli opposti

Il ragionamento dialettico si muove sempre attraverso e in riferimento agli opposti. Gli opposti che erano presenti nella messa in discussione della dialettica orale erano incarnati nella commedia dai personaggi doppi e dalle scene accoppiate, su cui mi soffermerò più avanti. Gli opposti tendono a escludersi a vicenda, a combattersi, e comunque alla fine a pervenire a una riconciliazione. Raggiungere una conclusione dialettica o un finale comico destreggiandosi tra gli opposti non è mai facile. È un processo complesso e talvolta doloroso, caratterizzato da lotte, inevitabili complicazioni, inganni, sofferenze e tradimenti. Vi è sempre presente una posizione diversa, rappresentata da un altro reale che ha interessi differenti, conflittuali e spesso opposti. Vi è un'intenzione opposta, una mossa contraria, che deve essere presa in considerazione. Ecco perché c'è bisogno di ascoltare l'altra parte, anche se non si condivide l'opinione altrui e anzi si intende prevalere su di essa 2 4. In altre parole, il movimento degli opposti comporta sempre una negatività. La negatività è fondamentale per il movimento - anche se mai per lo scopo - del pensiero o dell'azione. Eppure, alla fine, la negatività è - o per lo meno può essere - superata nella conclusione dimostrata o nella risoluzione del conflitto 25 • Nel ragionamento dialettico, opposti apparentemente incompatibili possono essere riuniti in una discordia concors: cessano di essere contraddittori tramite la mediazione di un terzo, o tramite un finale riconciliante. Lo si può fare senza «superare» gli opposti, né «audi nu,,c co11tra» (Terenzio, Phonnio, 699). s Per esempio, tanto l'amore che il conflitto tra figli e genitori si accompagna a soffcren7.a e fatica, a una «guerra» che, tuttavia, può finire in una riconciliazione: «bellum, pax rursum» (Terenzio, Eunuchus, 59-63; cfr. Id., Adelphoe, 899 sgg). 14 1

SECONDA PARTE. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

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in un puro consenso, né in un puro dissenso, ma in un «allosenso», in cui gli opposti vengono riconosciuti senza che ci sia un conflitto, ma anche senza che vengano distrutti.

L'agone e la battaglia: la parodia della dialettica nella commedia La dialettica somiglia a una lotta, a una battaglia, a una disputa, a una competizione - agon - condotta per vincere e stabilire un vincitore. Poiché la dialettica si muove tra gli opposti, presuppone un tragitto difficile verso la prova o la confutazione di una tesi. Così Platone paragonava il filosofo e il dialettico a guerrieri. La disputa dialettica è spesso una battaglia tra due posizioni opposte - della tesi originale contrapposta alla sua antitesi. Nella commedia questa battaglia fu spesso parodiata nella forma di una lite domestica, come quella tra marito e moglie26 , o di una vera e propria battaglia. Così si poteva assistere alla cattura della cortigiana Taide da parte di un' «armata» comica - formata da servi di palazzo, cuoco incluso - il cui condottiero era l'inetto ufficiale Trasone (ironicamente paragonato a Pirro) 2 7. Il dibattito dialettico è sempre portato avanti da almeno due persone: l'interrogante e l'interrogato. Può trasformarsi in una competizione tra loro. Chi vince la battaglia orale e confuta la posizione dell'altro è il vincitore. Nella dialettica, si combatte la guerra intellettuale per ottenere, alla fine, vincendo, la verità di un'affermazione. Nella sofistica, al contrario, usando tutti i mezzi a disposizione, anche quelli dialetticamente illeciti, per persuadere, la battaglia è condotta per amore della vittoria personale, per il desiderio di porsi in una posizione di autorità sopra l'altro. Di conseguenza, la contesa - o la battaglia - tra la dialettica filosofica (o la filosofia dialettica) e la sofistica cominciò con i loro rispettivi inizi 28 , il che le rende coeve, nonché l'una l'alterità necessaria dell'altra. Anche la commedia si serve dell'agon: affronta e imita una battaglia tra punti di vista e desideri opposti, o personaggi an-

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~1 18

Terenzio, Heautontimorume,ios, Terenzio, Eunuchus, 771 sgg.

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sgg.

O>sì come sono ritratte ncll'Eutidemo, nel Protagora e nel Gorgia di Platone e altrove.

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tagonisti 2 9. Il comico si manifesta nel modo che la commedia ha di completarsi nell'insieme, cioè di raggiungere il suo fine superando ostacoli apparentemente insormontabili in un'azione giudicata e giustificata razionalmente. Vi è tuttavia una distinzione importante tra guerra e sofistica, da un lato, e tra filosofia dialettica e commedia dall'altro. La guerra e la battaglia sofistica escludono gli altri, perché dove ci sono i vincitori, è inevitabile che ci siano i vinti - e chi vince si prende tutto (il potere, l'onore, il denaro). L'altro viene quindi sottomesso o, semplicemente, distrutto. La dialettica e la commedia, per converso, sono inclusive verso tutti. L'esclusione è impossibile nella commedia perché la trama comica impone l'interazione di tutti i personaggi. Si basa sul dialogo, a cui tutti possono prendere parte, contribuiendo al pensiero e all'azione comunemente partecipati, ed ottenendo per ciò un riconoscimento. In altre parole, tutti si uniscono alla lotta. Ognuno è, o può, o addirittura dovrebbe essere un vincitore: la conoscenza del bene e del benessere è universale, comunicabile e condivisibile con gli altri. Questa conoscenza comica (cognitio) è raggiunta attraverso uno sforzo comune. È la conoscenza di sé e della propria situazione così come è riconosciuta dagli altri che migliora il benessere e la felicità delle persone3°. Per cui, in un agan dialettico «vincere» significa stabilire un punto a livello teoretico, tramite il ragionamento, o raggiungere, comicamente, un esito positivo, tramite un'azione pratica. La commedia è quindi un'impresa dialettica, perché la dialettica è comica. Entrambe nascono dallo stesso spirito agonistico e razionale. Pertanto, fin dai suoi inizi, la commedia - in un'intenzionale parodia dell'agan dialettico- usa la dialettica coscientemente e appositamente, come riflessione sulla sua stessa costituzione, sui suoi modi di agire e di «mettere alla prova» il suo punto d'arrivo attraverso l'azione. Nella commedia, quindi, non troviamo solo un'analogia strutturale tra trama e argomentazione, ma anche l'imitazione ironica di un'argomentazione e dei modi di argomentare. La parodia della dialettica 1 9 Per ottenere il suo fine la commedia può anche ricorrere alla battaglia dei sessi, dove solitamente a vincere è la donna. Il parassita Gnatone affermava: .Conosco come sono fatte le donne: se tu vuoi, non vogliono, se tu non vuoi, loro non vogliono altro (novi i11get1ium mulierum: 110/uttt ubi velis, ubi 110/is cupiunt ultro)» (Terenzio, Euttuchus, 8 I 2-8 I 3). 30 Cfr. Teren1fo, Eunuchus, 921,940.

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è però anche una presa in giro della sofistica, una dialettica «ridicola», un pensiero fuorviato (e spesso arrogante), alla deriva. Vi sono numerosi esempi di commedie che parodiano la dialettica. Epicarmo proponeva la seguente «argomentazione»: un uomo che aveva preso del denaro in prestito rifiutò di restituirlo, perché sosteneva di essere un'altra persona (visto che tutto cambia e si trasforma). Ma il creditore lo picchiò e anche lui si rifiutò di assumersi la responsabilità della sua azione, affermando di essere un'altra persona3 1 • In Euripide, che fu un precursore della commedia nuova sotto molti, importanti aspetti che imitavano ugualmente la disputa dialettica, sono in questo senso esemplari i discorsi opposti di Medea e Giasone, dove Giasone fa uso di trucchi sofistici3 2 • A questa categoria appartengono anche i discorsi di Elena ed Ecuba nelle Troiane, che erano imitazioni delle orazioni immaginarie di Gorgia, scritte come esercizi retorici33. Nella commedia antica l'agon era spesso rappresentato dall'ode del coro, che, divisa in due parti, sosteneva la lotta di uno dei personaggi contro un altro, come negli Archanenses e negli Equites di Aristofane. È noto che Aristofane si prese gioco dei sofisti, suoi contemporanei, nelle Nuvole, dove parodiò una disputa dialettica tra le personificazioni della Verità e della FalsitàH. Nelle Rane, Aristofane ridicolizzò l'uso di espedienti erronei e fallaci nel ragionamento dialogico, come nell'agon tra Eschilo e Euripide, o nella disputa tra Euripide e Dioniso su come governare bene una

città 35. La commedia nuova, che germogliò dal suolo fertile delle dispute dialettiche e sofistiche delle generazioni precedenti ed era chiaramente consapevole - e critica - nei confronti di esse e dei loro pittoreschi esponenti, si prendeva costantemente gioco degli espedienti dialettici. Così, in Menandro troviamo una discussione tra Davo e Sirisco rappresentata come un'argomentazione giuridica, dove ogni oratore presenta argomentazioni a supporto della propria posizione3 6• Anonimo, In Plat. Theaet. 71.26. Euripide, Medea, in Id., Le tragedie cit., 465-519, 522-575. 33 Euripide, Troia11e, in Id., Le tragedie cit., 884-1051. 34 Aristofane, Le nuvole cit., 899 sgg. F. interessante notare come il monologo della Verità sia una presa in giro del tipico discorso moralistico e didascalico (ivi, 961 sgg.). 1s Aristofane, Ra110e, 1441-1450. 36 Menandro, 1/ misa11tropo - L'arbitrato, traduzione e cura di R. Savieri, La vita Felice, Milano 2020, 305 sgg. 3'

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Le commedie cli Terenzio erano piene cli dispute comiche, come quel-

la tra marito e moglie, Cremete e Sostrata, una parodia dell'impegno dialettico che in ogni caso seguiva le regole della clialettica37. Nel Dyskolos, Cnemone si esprime attraverso dichiarazioni piuttosto semplicistiche e avventate che fanno parecchio uso - o meglio, abuso - di quantificatori quali «tutto», «nessuno» e «niente»3 8• Nell'Eunuco, la cortigiana Taide rimprovera l'ancella Pitia cli parlare per enigmi39 che implicano risposte dialetticamente opposte: «Io so - Io non so»4°. Un'ulteriore, straordinaria parodia dell'abuso sofistico della dialettica viene offerta sempre nell'Eunuco, dove Gnatone, un parassita, fa riferimento agli opposti come tattica puramente opportunistica per fare i propri interessi: «Qualunque cosa dicono, l'approvo; se poi dicono il contrario, approvo anche questo. Uno dice di no? Io dico di no. Lui dice di sì? Io dico cli sì»4 1 • In Terenzio è dunque presente la parodia intenzionale dell'abuso sofistico della dialettica, anche se quest'ultima si dichiarava capace di dimostrare qualsiasi tesi - e la tesi opposta - a patto che fosse gradita all'oratore. Tale scambio era del tutto privo di scrupoli, giacché ogni oratore aiutava l'altro solo nella misura in cui entrambi erano interessati a vincere la causa, indipendentemente da quale potesse essere la realtà dei fatti. Questa «società di mutuo soccorso» di stampo sofistico veniva presa in giro nell' Eutidemo di Platone, così come nel Formione di Terenzio, dove due giovani si spalleggiano a vicenda negli inganni sofistici: «L'uno è colpevole, l'altro è pronto a difenderlo. Se capita al

Terenzio, Heauto11timorumenos, 1003 sgg. W.G. Amott, lntroductio11 cit., p. xxxv. 39 «In modo enigmatico» si traduce con «perplexe», come una Pizia, giocosamente richiamata dal nome dell'ancella. -4" «scio 11escio» (Terenzio, Eu11uchus, 817-818). •• «negat quis, 11ego; ait, aio» (Terenzio, Eu11. 2.51-2.52.). Lo scopo parodico è attestato da un altro scambio presente nell'Eunuco: Gnatonc confidava a un uomo impoverito, con cui aveva professato la sua arte di parassita, che egli (Gnatonc) sarebbe diventato il fondatore di una scuola simile a quelle filosofiche. «Gli ho detto di mettersi al mio seguito, e, se mi riesce, come le scuole filosofiche prendono il nome dai loro maestri, così i parassiti potrebbero chiamarsi "Gnatonici"» (Tcren1fo, Eunucbus, 262.-2.64). Vi era anche la parodia di una conversazione dialettica tra un sofista intelligente ma immorale (sempre Gnatone) e il suo vanaglorioso ma ottuso mecenate, il soldato Trasone (cfr. ivi, 391 sgg.), beffato dal suo abile interlocutore. Il giudizio ultimo su questo dibattito spettava allo schiavo Parmenone, che sapeva distinguere il giusto dallo sbagliato cd era dunque un vero dialettico: «Che miserabile e disgraziato [di Trasonc, l'"interrogato"]I E quell'altro, che farabutto [di Gnatonc, l'"interrogante"]I» (ivi, 418-419). 37 38

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secondo, il primo è pronto. È una società di mutuo soccorso»4 2 • Eppure, questa messa in discussione non fa che aggrovigliare questioni già complesse. Il padre, Demifone, chiede un'assistenza legale ai tre consiglieri, uno dei quali risponde «È permesso», l'altro «Non è permesso», e il terzo «Non lo so» 43 . Questa inconcludenza «concludente» è totalmente relativistica, in quanto si è costretti a concludere che «tante teste, tanti pareri»44. Demifone rimane perplesso e non può far altro che lamentarsi: «Sono molto più indeciso di prima». In altre parole, questo consiglio ottenuto «dialetticamente» di fatto paralizza ogni azione. Più avanti nella commedia, Formione ridicolizza l'inconsistenza delle attitudini e delle decisioni dei due padri, di cui, tuttavia, egli stesso è la causa principale, per cui la sua presa in giro è a doppio taglio e quindi profondamente ironica: «Non voglio, voglio; voglio, poi di nuovo non voglio; prendi, dammi; quel che si è detto, è disdetto; quello che un momento era stabilito, è sconfessato»45. Anche la commedia moderna, fino a Woody Allen, fa un uso deliberato, nonché un abuso parodico, della dialettica. In tal modo Shakespeare fa imitare al giullare Feste una disputa dialettica, «dimostrando» paradossalmente che i nemici sono meglio degli amici: «Diavolo, signore, loro mi lodano - e fanno di me un somaro. Ora, i miei nemici me lo dicono apertamente, che sono un somaro; cosicché per mezzo dei miei nemici, signore, io cresco nella conoscenza di me stesso, mentre dai miei amici vengo danneggiato. E dunque, essendo le conclusioni come i baci, se quattro negazioni fanno due affermazioni, allora tanto peggio a causa dei miei amici e tanto meglio a causa dei miei nemici»4 6• «tradutzt operas mutuas-- Cferenzio, Phormio, 2.66-2.67). Terenzio, Phormio 441-459. « «quot homitres, tot sente,ztiae» (ivi, 454). 45 «110/o, volo; volo, 110/o rursum; cape, cedo; quod dictum indictumst; quod modo erat ratum irritumst» (ivi, 950-951). 4 6 W. Shakespeare, La dodicesima ,rotte, atto V, se. I, 17-2.3 (trad. it. A. Lombardo). Or. un esempio di dialettica «negativa»: Viola: «Per quale ragione, runico?» Feste: «In verità, signore, non ve ne posso fornire nessuna senza usare le parole, e le parole sono diventate così false che odio usarle per ragionare» (ivi, atto lii, se. I, 2.3-2.6). In modo simile, Ben Jonson in Every Man Out of His Humour affidava a uno dei suoi personaggi il compito di inventare una «defini7jone» umoristica e dialettica dell'umorismo, che diventava umoristicamente riflessiva: «Why, Humour (as 'tis cns) we thus define it / To be a quality of aire or water,/... So in cuery humane body /The chollcr, the mclancholy, flcgme, and bloud, / By rcason that they flow continually / In some one part, and are not continent, I Rcceive the name of Humours. Now thus farre / It may, by Metaphore, apply it scifo/ Vnto the generali disposition: / As when some one pcculiar quality / Doth so posscsse a man, that it doth draw / Ali his affccts, his spirits, and his ·41•

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In questa maniera la commedia si prende gioco della dialettica, erroneamente usata nella Sofistica con il fine improprio di affermare non già la giusta comprensione di una cosa, bensì la supposta superiorità di qualcuno su qualcun altro con ogni mezzo di persuasione a disposizione. Eppure la stessa commedia fa uso della dialettica per raggiungere il suo scopo in un modo molto simile all'uso che ne fa la filosofia per stabilire un'argomentazione giustificata. Tanto la commedia che la filosofia imitano ironicamente, e quindi criticano, il ragionamento sofistico, che pare riprodurre le tappe formali di un'argomentazione, ma ricorre per lo più a fallacie (ad es., di ambiguità, ad hominem, ecc.) e ha per scopo principale la persuasione degli ascoltatori. In tal modo, il Socrate di Platone non solo si faceva beffe degli stessi sofisti, ma criticava anche Agatone perché scriveva tragedie rifacendosi al genere della «tragedia sofistica», imitativo del ragionamento sofista47_

LA commedia e la retorica Nella sua composizione e organizzazione, la commedia presenta anche una notevole somiglianza con il discorso retorico. Curiosamente, è ai siciliani del V sec. a.e. Corace e Tisia che sono stati attribuiti gli inizi della retorica48 . Come la commedia, la retorica ebbe origine in Sicilia ma si sviluppò e fiorì più tardi ad Atene. La retorica - insieme alla dialettica - era il fondamento stesso dell'istruzione nelle scuole antiche. Le due discipline erano strettamente connesse. Come afferma notoriamente Aristotele nell'incipit della sua Retorica, la retorica è la «controparte» (antistrophos) della dialettica, in quanto ciascuna di esse rientra nell'ambito della conoscenza di tutti49. Come la retorica, la dialettica ha la capacità di parlare «di tutto», e non solo di una scienza in particolare. In tal powcrs, / In their confluctions, ali to nume one way, / This may be truly said to be a Humour» (Ben Jonson, F.very Man Out of His Humour cit., ltuluctiotz, 88-109, pp. 431-432). 47 Le tragedie di Agatone sembrano prefigurare la commedia nuova; cfr. P. Lévcque, Agathotz, Les bellcs lettres, Paris 1955, pp.115-124. Cfr. Platone, Simposio, 175e, 198c. 4 8 Vedi il commento di G.A. Kcnncdy, Aristotle. On Rhetoric: A Theory of Civic Discourse, Oxford University Prcss, New York-Oxford wo7, pp. 293-306 e Id., 11,e Art of Rhetoric itz the Romatz Wor/d, 300 B.C-A.D. 300, Princcton Univcrsity Prcss, Princeton 1972. 49 Aristotele, Retorica cit., 1354a1-6; cfr. ivi, 1355b7-2r. Vedi anche G.A. Kennedy (a cura di), Aristotle. On Rhetoric. A Thcory of Civic Discoursc, Oxford University Press, New York-Oxford 2007, p. 63, pp. 27-30.

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modo, la dialettica può servirsi delle conclusioni e dei princìpi generali di tutte le scienze senza essere per questo una scienza dei princìpi generali, in quanto non tiene in conto affermazioni scontate e generiche del genere «di ogni cosa è vera o un'affermazione, o una negazione»5°. Tanto la dialettica che la retorica utilizzano il (e fanno riferimento al) logos, che tutti già possiedono e sanno quindi padroneggiare quando ragionano e parlano. Analogamente, la commedia parla di e a tutti, in quanto tutti partecipano alla vita pubblica e seguono il suo logos esplicito e implicito, tradotto in norme e strutture sociali. Inoltre, tanto la retorica che la dialettica sono capaci di confutare le argomentazioni false per mezzo del discorso e del ragionamento in riferimento agli opposti, supponendo che «verità e giustizia sono per natura superiori ai loro contrari»5 1 • Non per caso, dunque, il primo tra i topoi di Aristotele, o tra gli schemi generali dell'argomentazione retorica, aveva a che fare con gli opposti, dove «per affermare una tesi, [bisogna] argomentare che il predicato contrario appartiene al soggetto contrario» e «per negarla, argomentare che non vi appartiene», a cui in seguito aggiunse argomentazioni derivanti da contraddizioni e comparazioni tra contrari, anch'esse basate sugli opposti52·. Anche la commedia è interessata agli opposti e li incarna sul palco attraverso i personaggi antitetici, le doppie identità e le scene accoppiate, muovendoli all'interno della trama. Tanto la dialettica che la retorica sono dunque discipline logiche, in quanto entrambe fanno riferimento al logos e producono conclusioni logicamente giustificate. Ognuna di esse è un'arte (tékhne) del ragionamento e della persuasione, alla ricerca dei migliori mezzi a disposizione per conseguire i propri obiettivi. Si differenziano per la tipologia delle loro conclusioni e per il tipo di ragionamento logico che adoperano. In tal modo, per Platone, la retorica stabiliva una conclusione persuasiva, mentre la dialettica ne stabiliva una vera53 • Per Aristotele, tuttavia, la differenza tra retorica e dialettica consisteva nella struttura dei loro rispettivi sillogismi: a differenza del sillogismo dialettico, il sillogismo retorico è un entimema, un sillogismo «accorciato», che omette alcune premesse e subentra nel ragionamento so Aristotele, Metaphysica, 1004b20; Topica, 101a36 sgg.; cfr. anche Ana/ytica posteriora, 77a27 sgg.; Sophistici eletichi, 170a 38-39. s• Aristotele, Retorica e Poetica, a cura di M. Zanatta, lITET, Torino 2004, 13 55a21-22. s:r. Ivi, 1397a8-10; 14ooa14-16; 14oob4-5. s; Platone, Phaedrus, 266c sgg.

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come o evidente, facile da ipotizzare, o già noto, al solo scopo di abbreviare l'argomentazione, di renderla meno tediosa e più semplice da seguire per gli ascoltatori. Un entimema, dunque, può essere o dimostrativo o confutativo e va alla ricerca, in ciascuno dei casi specifici, dei mezzi di dimostrazione più idonei 54 • Al contrario, un sillogismo dialettico espone meticolosamente tutte le sue premesse, senza saltare una sola tappa nel ragionamento, in quanto mira a stabilire un'opinione corretta che possa riuscire universalmente accetta a ogni interlocutoress. Senza dubbio, non mancano differenze importanti tra retorica e dialettica: la retorica si occupa dei mezzi di persuasione in casi particolari, mentre la dialettica ha a che fare con i modi di raggiungere una conclusione giustificata in un sillogismo accettabile in tutti i casi. Inoltre, a differenza della dialettica, la retorica non persuade ricorrendo alle sole argomentazioni, ma anche tenendo conto del carattere «morale» (ethos) di un oratore e degli ascoltatori, delle loro passioni ed emozioni, così come dello stile (lexis) con cui si tiene un discorsos6. Come affermò notoriamente Cicerone, un oratore deve essere capace di conquistarsi la simpatia del pubblico, di dimostrare ciò che è vero, e di ridestare, nell'azione desiderata, le emozioni 57. In questo senso, la commedia rimane fedele alla dialettica, pur servendosi di espedienti retorici nel mettere alla luce la stupidità e la bontà umana tramite i discorsi. Queste qualità emergono attraverso la dizione e lo stile, e sono incarnate dai diversi personaggi. Il discorso retorico è una particolare resa del logos, che è già intrinsecamente strutturato. Pertanto, anch'esso dovrebbe avere una taxis, vale a dire, delle suddivisioni, misure, proporzioni, e componenti chiaramente identificabili e ordinate. Come minimo, un discorso dovrebbe constare di due parti: l'enunciazione da parte di un soggetto (prothesis) e la prova o argomentazione (pistis ). In a tre parole, oltre ad affermare cosa avviene, si deve dimostrare perché avviene: una cosa deve essere spiegata con la sua causa (o con le sue cause)5 8• 54 Gli entimemi confutativi sono apprC7.zati maggiormente dagli uditori, in quanto l'esposizione di un'inconsistenza fa un'impressione più profonda. 55 Aristotele, Retorica cit., 1355a3-18; 1395b20-1397a6; 1418a37-b4; Analytica priora 7oa10 sgg.; A1uzlytica posteriora 71a9-10. 56 Aristotele, Rhetorica cit., 1356a1-4; 1377b2.1-2.4; 1404b1 sqq. S7 Cicerone, Dell'oratore, BUR, Rizzoli, Milano 1994, 2..15-16. 58 In una versione più elaborata, che derivava dalla pratica della scrittura di discorsi (in Gorgia, Llsia, Isocrate, Platone e altri) e che divenne più o meno obbligatoria per gli scrittori

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La commedia e la matematica La commedia somiglia alla matematica, che costruisce con cura le sue dimostrazioni e usa le regole della deduzione per passare dalle premesse alla conclusione. Anche la trama del dramma comico è costruita accuratamente e verificata ad ogni suo passaggio prima che trovi la sua incarnazione nel logos messo in scena pubblicamente. La trama comica costituisce un problema59. In primo luogo, deve essere risolta tramite una costruzione razionale e immaginaria da successivi, compresi i commediografi, un discorso constava di cinque parti identificabili: (1) L'introduzione o prologo (prooimi011), che è l'inizio - e dunque l'origine - di ogni discorso, nonché il suo breve rÌ:1$unto e il suo annuncio; si tratta della «premessa» del discorso e, straordinariamente, Aristotele fu esplicito nel paragonare l'introdll7fone a un discorso giudiziario e il prologo a una tragedia o a una commedia (Aristotele, Ars rhetorica 1415a8-10); (2) la narrazione (diegesis), un'esposizione del materiale, dei fatti e delle azioni che costituiscono l'argomenta1ione (logos) del discorso; (3) la dimostr37ione (pistis), che fa un'osservazione servendosi di mezzi dimostrativi e apodittici (come esempi e cntimemi) in quanto logicamente validi; (4) l'interrogazione (erotesis), che è una pratica ben consolidata sia nell'interrogatorio giudiziario, sia in quello dialettico, che fa riferimento agli opposti e per me:1.1.0 della quale ciascuno di essi può dimostrare l'invalidità dell'affem137Jone dell'avversario mostrando le sue contraddizioni intrinseche; e (5) la conclusione (epi/ogos) che cerca l'accettazione favorevole da parte degli interlorutori di tutto il discorso e ricapitola i passaggi principali dell'argomentazione (ivi, 1414a30 sgg.). È possibile trovare e discernere queste cinque parti in vari tipi di discorso e ragionamento, compresi quelli di tipo giudi7iario, sofistico, retorico, filosofico e drammatico. S9 Nella matematica antica esisteva un'importante distinzione - conservatasi fino ad un certo grado nella matematica moderna - tra teorema e problema, il a.ti resoconto più famoso e dettagliato si trova nel commentario di Proclo su Euclide (Proclo accennò a varie spiegazioni di questa divisione; dr. In primum Euc/idis. Elementorum librum commentarli, a a.ira di G. Friedlein, Tcubner, Leipzig 1873, p. 77, v. 7 sgg.). In particolare, un teorema presuppone la dimostrazione che un oggetto abbia una proprietà particolare, ma l'esisten1.a stessa di questo oggetto non è messa in disrussione, perché la si considera come già postulata o come esistente. In un teorema, l'essere stesso dell'oggetto non viene messo in discussione ed è quindi messo tra parentesi. Per converso, un problema richiede la prodll7ione di un oggetto che non può essere considerato esistente fino a quando la sua costruzione non viene effettivamente mostrata e rcali1.1.ata passo dopo passo. In un problema, l'esistC111.a dell'oggetto deve ancora essere conseguita. A differen1.a di un teorema, un problema richiede quindi un'azione di prodll7ione di un oggetto, una sua implementazione. Per esempio, la prima proposizione nel Primo Libro di Euclide era un problema, perché per mostrare che su una determinata linea retta si può costruire un triangolo equilatero usando solo un compasso e un righello, si deve effettivamente creare una costruzione che mostri come il triangolo richiesto viene prodotto. Quindi, l'affermazione che tutti gli esseri umani sono uguali è un teorema, perché presuppone che ci siano esseri umani il cui essere si può descrivere per mezzo di un'argomentazione all'interno di una teoria politica. Ma l'affermazione secondo a.ti tutti gli esseri umani di fatto possono essere uguali è un problema, perché è necessario descrivere il modo esatto in cui è possibile raggiungere l'uguaglianza e attuarla normativamente attraverso varie istituzioni politiche e abitudini sociali.

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parte dell'autore, e quindi deve essere tradotta in azione sul palco. Analogamente a un problema, una commedia deve essere costruita e «risolta» passo dopo passo prima di essere riconosciuta come «valida», quando raggiunge il suo fine richiesto e desiderato e viene quindi resa pubblica e condivisa con gli altri. In ciascuno dei casi, la costruzione di un problema o di una trama è solo una soluzione e non esclude altri possibili modi di conseguire l'obiettivo richiesto. Tuttavia, una volta che il problema è stato risolto con la costruzione, c'è bisogno di un'analisi per dimostrare la sua validità. Secondo Proclo, tale analisi comprende sei suddivisioni, o parti, chiaramente distinguibili: l'enunciazione, l'esposizione, la determinazione, la costruzione, la dimostrazione e la conclusione60 • Nel suo assetto una proposizione matematica, se non è del tutto isomorfica, è simile a un'argomentazione dialettica e a un discorso retorico, perché, come già detto, tutte e tre si configurano come sviluppi e spiegazioni graduali di un logos di cui riflettono la struttura implicita nelle loro rispettive disposizioni e nelle loro varie suddivisioni. In tal modo, il numero di componenti di un'argomentazione, di un discorso, o di una dimostrazione possono variare a seconda della specifica disciplina, del compito o del principio scelto per una taxis. Troppe suddivisioni potrebbero diventare «vuote e ridicole», per dirla con Aristotele61. Eppure dovrebbero esservi distinzioni chiaramente identificabili, che siano sia descrittive, come indicazioni stradali per il movimento del pensiero e dell'azione, sia prescrittive, come i suggerimenti per la giusta rotta. Come ho già affermato, la commedia è un'impresa razionale e ben calcolata, simile alla filosofia per quanto riguarda il suo stesso lavoro, che produce argomentazioni abilmente congegnate le quali procedono 60 Proclo, Commento al I libro degli «Eleme11ti• di Eudide, a cura di M. Timpanaro Cardini, Giardini, Pisa 1978, 208.1-210.5. Vedi anche The Thirteen Books of Euc/id's Eleme11ts, a cura di T.L Heath, 3 voli., Dover, New York 19561, voi. I, pp. 129-131. L'enunciazione (in greco protasi, in latino propositio) espone cosa c'è di dato e cosa si cerca di raggiungere; l'esposizione (eklhesis, expositio) identifica il dato; la specificazione (diorismos, determinatio) definisce ciò che si cerca; la costruzione (kataskeue, co1,structio) produce ciò che è richiesto; la dimostrazione (apodeixis, demo1,stratio) espone e spiega come la costruzione arrivi effettivamente a reali1.1.are quanto afferma; e la conclusione (symperasma, co1,clusio) conferma esplicitamente che il fine è stato raggiunto e quindi ritorna all'inizio, un ini1Jo che è già implicitamente contenuto dalla fine. 6 ' Aristotele, Ars rhetorica, 1414b16.

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dalle premesse a una serie di passi deduttivi per affermare un'argomentazione dimostrata62.. Il /ogos della commedia e della matematica scaturisce da sé stesso in quanto è presente all'inizio, nelle premesse e nel finale (con la «sintesi»), in modo tale che l'inizio contenga implicitamente la fine. Ma allora di un simile logos si dovrebbe anche poter verificare se è raggiungibile «al contrario», dalla fine all'inizio (tramite «l'analisi»), nel qual caso la fine giustifica l'inizio. Entrambi i movimenti sono tesi a sviluppare e preservare un intero unificato dell'argomentazione dall'inizio al climax, fino alla sua fine.

La struttura della commedia La commedia ha quindi una struttura chiaramente definita, acquisita già in Menandro e diversa da quella della commedia antica, che faceva uso della parabasi rivolta allo spettatore e talvolta di episodi collegati in modo vago. Eppure non c'è una ricetta per scrivere una buona commedia. Essa è piuttosto il risultato dell'arte scrittoria del drammaturgo e delle abilità recitative degli attori. La narrazione comica segue la prescrizione aristotelica secondo cui un intero può esistere solo dove vi è un inizio (arche), una parte di mezzo e una fine63. Ma questa è la struttura stessa del logos, che, come spiega Aristotele, può essere o una definizione o una dimostrazione. La dimostrazione comincia dall'inizio, procede per il mezzo e i termini estremi, e ha una fine, che è il sillogismo (l'inferenza) o la conclusione64 • La dimostrazione logica è dunque isomorfica rispetto alla trama comica. Varche è il principio di un'azione: ne siamo accattivati e non siamo in grado di evitarla. La parte di mezzo presuppone una complicazione necessaria, insieme all'uso dei mezzi appropriati a conseguire il fine. La fine stessa - che si verifica attraverso l'azione - è l'obiettivo e la risoluzione dell'azione. In altre parole, l'inizio è già nella fine, e la fine è raggiungibile 6'- Le premesse costituiscono l'inizio, arche, dell'argomentazione, simile alla protasi, mentre i passaggi deduttivi sono analoghi all'epitasi. La dimostrazione, quindi, è il fine e lo scopo della dimostrazione, telos, simile alla catastrofe. 63 Aristotele, Poetica cit., 145ob2.5-34. &f Aristotele, De anima, 407a25-2.9 (logos de pas horismos e apodeixis: be me11 oun apodeixis kai ap· arches kai echousi pos telos, to11 syl/ogismo11 eto symperasma, 407a2.5-2.6).

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tramite la parte di mezzo solo a causa dell'inizio. Pertanto, I' «intero» dell'azione deve essere strutturato in modo tale da essere razionalmente costruibile e ricostruibile, e di riflesso riconoscibile come tale. Evanzio, del cui De comoedia ci rimangono solo alcuni estratti, seguì Aristotele distinguendo i componenti della commedia, con l'aggiunta del prologo. Per cui per Evanzio la commedia ha quattro parti: prologo, protasi, epitasi e catastrofés. Il prologo è un'introduzione della trama rivolta al pubblico; la protasi è il primo atto di un'opera che in parte spiega la storia e in parte lascia gli spettatori liberi di fare le loro previsioni; I'epitasi è una complicazione nello sviluppo, un «avvoltolarsi» della storia su sé stessa; la catastrofe è la risoluzione e la spiegazione della storié6 • Analogamente, la piramide di Gustav Freytag forniva una struttura dell'azione drammatica comprensiva di cinque momenti. Le cinque tappe sono: introduzione, crescita, climax, decrescita e risoluzione. La divisione dell'opera comica in cinque atti, una consuetudine tra gli studiosi del Rinascimento 67, potrebbe corrispondere all'ascesa e caduta dell'azione descritta dalla piramide di Freytag, quando l'azione drammatica è sottoposta a uno sviluppo preci6 s L'autore del commento del IV secolo su Terenzio (attribuito a Donato ma probabilmente scritto da Evanzio) spiegava: «La protasi è la prima azione e il principio del dramma, in cui una parte dell'argomentazione viene spiegata e un'altra parte viene tenuta nascosta per mantenere viva l'attesa del pubblico. L'epitasi è lo sviluppo e la progressione del turbamento e, come ho detto, il nodo della complicazione. La catastrofe è il punto di svolta della situazione che porta a un esito felice, un cambiamento che diventa chiaro a tutti mediante la conoscen1.a di ciò che è accaduto» (Donato, Fragme11tum de Tragoedia, et Comoedia cit., p. 30). Cfr. Evanzio, De fabula, IV, 5: «est prologus uelut praefatio quaedam fabulae, in quo solo licet praeter argumentum aliquid ad populum uel ex poetae uel ex ipsius fabulae uel auctoris commodo loqui; protasis primus actus initiumque est dramatis; epitasis incrementum processusque turbarum ac totius, ut ita dixerim, nodus erroris; catastrophe conuersio rerum ad iucundos cxitus patefacta cunctis cognitione gestorum». La spiegazione delle parti fornita da Evanzio differiva leggermente. 66 Evanzio, De comoedia, VII, 4: «protasis est primus actus fabulae, quo pars argumenti explicatur, pars reticetur ad populi expcctationem tenendam; epitasis inuolutio argumenti, cuius elcgantia conectitur; catastrophe explicatio fabulae, per quam euentus eius approbatur». 67 Questa partizione in cinque atti fu notata, per esempio, da Trissino e Pino. Se ne faceva già menzione in Orazio cd era nota alla Nea greca, anche se non era specificata in Plauto e Terenzio. Pino, in P. Lauter (a cura di), Theories of Comedy cit., p. 38 e Trissino, Poetica, ivi, pp. 42-47. Cfr. J. Barsby, Tere,ia, Phormio, the Mother-in-law, the Brothers, voi. 2, Harvard University Press, Cambridge-London 2001, p. 151, n. 9 e K. Gaiscr, Zur Eige,,art der r(Jmischen KomiJdie cit., pp. 103 8-1041.

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so tramite la complicazione e la risoluzione. La commedia segue dunque lo schema aristotelico di inizio-mezzo-fine, e la piramide di Freytag pare essere una versione particolare della struttura aristotelica «intera», dove la «parte di mezzo» è concepita come in progressione ascendente68 • La trama comica

Come ho già affermato, la razionalità della commedia può essere osservata nella somiglianza tra la struttura della sua trama, complessa e intensa, e un'argomentazione logicamente strutturata, lunga e sofisticata. Per raggiungere il suo fine, la commedia usa la trama (letteraria), mentre la commedia usa l'argomentazione (razionale). Nella sua complessità, la trama comica è come un gioco di scacchi: una combinazione vincente negli scacchi somiglia a un'argomentazione razionale che dimostra la sua tesi. Naturalmente, entrambe possono fallire, ma entrambe cercano attentamente di evitare un simile esito. Una trama comica è più il prodotto di una ragione meticolosamente calcolatrice e dimostrativa che di un'immaginazione produttiva, perché alla fine l'azione dovrebbe approdare a uno stato delle cose reciprocamente accettabiJé9. La trama comica e l'argomentazione filosofica sono entrambe strutturate bene e con cura, con componenti nettamente distinguibili7°. Entrambe comincia68 Walter Ong sosteneva che la struttura a piramide di Freytag fosse caratteristica della letteratura scritta, mentre la tradizione orale, che comprendeva al suo interno l'epica, cuciva insieme e «rapsodi1.1.ava» i vari canti o i vari episodi del vasto repertorio a disposizione del poeta orale: cfr. W. J. Ong, Oralità e scrittura, pp. 204-205. Come forma di dramma, la commedia è, a livello concettuale, un'impresa scritta, sebbene a livello mediale possa anche essere orale. Tuttavia, la struttura dell'azione comica non si limita a imitare un'azione reale: essa esibisce un fine che ha una dimensione non solo descrittiva, ma anche prescrittiva nei confronti dell'azione umana. li9 Tanto la trama comica quanto l'argomentazione logica sono comprensibili a ogni passaggio della loro progressione, ma è piuttosto difficile memori1.1.arle nella loro intereu.a per via della loro complessità e abbondan1.a di dettagli tanto minuziosi quanto importanti. Per questo motivo ad alcune commedie di Plauto e a tutte quelle di Teren1jo furono aggiunte delle brevi sinossi, tradizionalmente collocate all'inizio, con lo scopo di ricordare al pubblico I' «argomento» della commedia. 7° Il numero di queste componenti è variabile: oltre alle sei parti costituenti (qualitative) del dramma di Aristotele, alle tre componenti della trama comica e alle cinque parti «piramidali» dell'azione drammatica di Freytag, Frye identificò sei fasi della commedia (tra

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no con premesse accettate: la commedia ha un'esposizione o un prologo, mentre l'argomentazione presenta i suoi termini, che o sono postulati o sono dedotti da altre argomentazioni. Entrambe si sottopongono a uno sviluppo: quello della commedia passa per uno svelamento della sua trama, mentre l'argomentazione si sviluppa tramite la deduzione. E entrambe si concludono con una soluzione: la commedia con la risoluzione di un conflitto e la rettifica degli errori, mentre l'argomentazione termina con una conclusione. Tanto la trama comica quanto l'argomentazione filosofica sono «complete»: devono spostarsi «logicamente» attraverso ogni stadio del loro svelamento che porta a una risoluzione, facendo attenzione a evitare di perdere o confondere anche uno solo di questi passi nella loro deduzione. Sono entrambe libere invenzioni della mente, eppure devono essere ben concepite e ponderate per seguire le regole (spesso implicite) dell'inferenza logica e drammatica, per mezzo delle quali giustificano ogni atto, di modo che nulla rimanga ridondante o obsoleto nella loro composizione. Eppure entrambe godono di una relativa indipendenza dal loro autore (pensatore o narratore), perché seguono ed esibiscono regole immanenti. Le conclusioni tanto della trama comica che dell'argomentazione filosofica devono resistere ed essere indipendenti da tutti gli interessi particolari, dalle finalità e dagli sforzi. I modi per ottenere una conclusione possono variare notevolmente per entrambe: si può approdare allo stesso fine in molti modi diversi, tramite vari metodi e svariate trame. In tal modo, le commedie (buone) e le argomentazioni (giuste) possono essere molte e diverse, anche se entrambe sono relativamente rare. Ma entrambe devono avere un «lieto fine»: nella commedia con l'ottenimento dell'oggetto bramato che esaurisce il desiderio71 ; nell'argomentazione con il raggiungimento della conclusione logica desiderata. Eppure, malgrado la sua trama ben calcolata, la commedia permette anche la spontaneità e quindi la libertà. Nella commedia c'è i due poli dell'ironia e della satira (N. Frye, The Anatomy of Criticism cit., pp. 165-173), e Gurewitch individuò al suo interno quattro componenti principali (satira, umorismo, farsa e ironia (M. Gurewitch, Comedy: Tbe I"atiotzal Vision cit., p. 9 ). Sembra tuttavia che ogni particolare classifica1fone resti sempre solo utza classificazione, dipendente dai principi ad essa sottesi, che possono variare. 7• Come la consumazione di un matrimonio, l'appagamento sessuale o il guadagno di una somma di denaro che rinsalda una posizione sociale.

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sempre spazio per ciò che accade all'improvviso e che giunge come una novità, una sorpresa e una rottura nell'apparente stabilità del flusso dell'azione. La repentinità è spesso presente nel gioco di parole, che si manifesta nell'inaspettata conclusione di un entimema con un motto di spirito. Eppure, ben più di frequente la repentinità del comico scaturisce dall'attesa risoluzione di un groviglio nella trama, che, diversamente da quanto afferma Kant, non termina nel nulla, ma piuttosto in un esito positivo. Nonostante il suo corso d'azione, stabilito e previsto, che tende a sopprimere la sorpresa (a «sorprendere» il nuovo), la commedia è (fin dai tempi del mimo) capace di improvvisazione, nonché di infondere vera novità nei nodi di un'argomentazione complessa e nei dettagli che conducono al finale. Mentre l'azione comica tende a interrompersi e a essere lasciata in sospeso in ogni dato momento (contrassegnato dal fato), gli attori hanno la capacità di ricomporne i vari pezzi. Nell'elaborazione dei personaggi, la repentinità attesta la spontaneità della vita, che risplende costantemente mediante ogni azione e per farsi evidente e trionfare nel finale.

La trama e la fa buia La trama (mythos) e il personaggio (ethos) sono due componenti centrali del dramma, tra i sei che Aristotele menziona nella sua Poetica. La trama-mythos (fabula nella commedia romana) è la storia così come viene esposta dall'azione e narrata nel dialogo. Come già detto, non è l'autore a fornircela direttamente, ma gli scambi di battute dei personaggi. Tanto la tragedia che la commedia hanno al loro interno la complicazione e lo scioglimento, così come entrambe fanno uso della struttura protasi-epitasi-catastrofe; tuttavia, nella commedia l'azione deve essere tale da portare l'evento a una risoluzione soddisfacente e a uno stato delle cose vicendevolmente accettabile. Come tale, la trama comica deve essere fortemente ingegnosa nella sua costruzione: deve seguire la struttura stabilita e allo stesso tempo essere ogni volta diversa. Perché ogni vita umana somiglia ad ogni altra ed è allo stesso tempo diversa e unica. Un poeta comico crea una narrazione (logos) e una trama (mythos). Inoltre, produce una relazione (dialettica) debitamente ragionata tra le

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due. Mentre era in galera e attendeva la sua esecuzione, Socrate compose delle poesie per la prima volta in vita sua 72.. Mentre affrontava la morte, scrisse un inno ad Apollo, inteso come sacrificio espiatorio, e delle favole in versi, perché - come spiegò - il poeta produce miti, non ragionamenti o argomentazioni73• Secondo la stessa testimonianza di Socrate (come sempre, non priva di ironia), il filosofo, essendo carente di immaginazione, fu costretto a prendere in prestito le favole, o miti, di Esopo, che conosceva a memoria. In tal modo, il poeta per Socrate era (ironicamente) Esopo, che era (seriamente) un creatore di favole o miti. Eppure la trama della commedia è «mito» o favola. Nel prologo de I due fratelli, l' argumentum fabulae stava a indicare la «sintesi della trama» 74. Tuttavia, l' «argomento» drammatico non svela anticipatamente la trama di una commedia, come accade con la sinossi, di successiva aggiunta. L' «argomento» espone la sua «favola»; ovvero, rende il mito gradualmente più esplicito, man mano che la commedia progredisce. Ciò avviene in parte per mezzo del discorso dei personaggi (nelle loro spiegazioni e nei dialoghi) e in parte tramite l'azione e la trama. L' «argomento» in tal modo «mostra» o «dimostra» la commedia in due modi, tra loro complementari: la parola dialogica, che rende chiara la trama e la dischiude, e l'azione interattiva, che al contempo muove e segue la trama 75 • La commedia dunque impiega ciò che Cicerone chiamava «argomento narrativo», che rende possibile un resoconto della storia inventato ma plausibile, e in tal modo stabilisce un modello che può essere imitato, seguito e riprodotto nella vita reale76 • Platone, Fedro, a cura di R. Vclardi, BUR, Rizzoli, Milano 2006, 6oc-61b. «poiein mythousa/1' ou /ogous» (ivi, 61b4). 74 Terenzio, Andria, 22. In latino,argumentum ha molti e diversi significati, che comprendono storia, argomento o contenuto; opera teatrale; dipinto o immagine; argomentazione o dimostrazione; segno; verità o veridicità; e conclusione. Il termine deriva dal verbo arguo - «mostrare, chiarire», ma anche «accusare, incolpare». Mentre fabula significa diceria; conversazione; storia o trama; o dramma teatrale. Quindi la traduzione migliore di argumeritum fabulae è probabilmente quella sopracitata, ma in realtà l'espressione può anche rimandare alla degna conclusione di una conversazione o della (intera) storia di un dramma (comico). Inoltre la rete semantica delle parole argume,ztum e fabula si interseca con «opera teatrale» o «dramma», dove i due termini sono quasi sinonimi, anche se il primo mostra o presenta (in quanto «forma») il secondo (che è il «contenuto»). 75 Terenzio, Andria, 2-24. 76 Cicerone fornì un'utile spiegazione del termine na"azione: «La narrazione [narratio] è l'esposizione [expositio] dei fatti realmente accaduti o presunti tali». L'esposizione di un fatto si verifica in tre modi: fabula, historia, e argumentum. La fabula (favola) «narra 71.

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Come un' «argomentazione», una trama comica è una minuziosa costruzione del pensiero. Il Dyskolos di Menandro, così come Epicoene, or The Silent Woman di Ben Jonson sono esemplari per la perfezione della loro costruzione, la complessità e la sottigliezza della trama: essa è esente da ridondanze, e le sue varie parti contribuiscono all'intera azione che dall'inizio, passando attraverso una complicazione, giunge alla fine. La trama comica è composta in base a uno schema, nonché alle regole della sua produzione: è sempre la stessa nella forma, anche se varia ogni volta nell'elaborazione concreta. La trama è dunque fittizia (totalmente inventata), ma allo stesso tempo normativa, il che spiega perché dovrebbe essere priva di eventi storici e mitologici, come hanno notato sia Diderot, sia Heller77. La trama è dunque semplice nella sua struttura, ma complessa nella sua realizzazione concreta. Si conosce già la struttura generale della trama, ma la trama intera la si conosce solo alla fine. Si dovrebbe raggiungere il punto di vista, la «sommità» da cui possiamo comprendere in maniera non discorsiva l'azione nella sua interezza, seguendo e «raccogliendo» l'azione in modo attento e discorsivo. Di conseguenza, mentre la fabula è presente a ogni momento nella sua interezza, la si conosce solo parzialmente e deve essere costantemente ripensata e rivalutata. Se seguiamo i Formalisti, la fabula è l'ordine degli eventi così come sono riordinati e ricostruiti dagli spettatori, mentre il syuzhet (c10)Ker) è il modo in cui questi eventi sono stati narrati e presentati in un dramma78 • La nostra capacità di tenere insieme l'intera trama e ricostruirla a partire dai dettagli quando leggiamo o guardiamo una commedia è limitata. Ci stanchiamo quando la trama diventa inutilmente complessa, palesemente incoerente, o ridondantemente episodica, il che - quando non conosciamo già l'esito -viene facilmente a noia. Come nota Plau-

cose né vere, né verosimili, come». I:historia (storia) «racconta un fatto veramente accaduto, ma lontano dal nostro tempo». Infine, l'argume11tum (trama) «è la narra1fone d'un fatto inventato, che però potrebbe essere successo». «Narratio est rerum gcstarum aut ut gestarum expositio. Fabula est in qua nec verae nec veri similes rcs continentur. Historia est gesta res, ab aetatis nostrae memoria remota. Argumentum est ficta rcs, quae tamen fieri potuit» (Cicerone, De i11ve11tio11e, 1.19.27). 77 A. Heller, lmmortal Comedy cit., p. 39. 78 B. Toma~vskij, Teorija literatury: poetika, Aspckt, Moskva 1996,pp. 75-77. Vedi anche D. Bordwell, Narratio11 i11 the Fictio11 Film, Methuen, London 1985, pp. 30, 49-50.

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to, «i lombi dolgono a star seduto, gli occhi a sbirciare»79. Anche qui, la distinzione tra scritto e orale è solo apparente: la parte scritta può essere estesa indefinitamente, mentre la parte orale deve avere le giuste dimensioni. Dovremmo essere in grado di capirla comodamente senza confondere i vari passaggi dello sviluppo della trama. La commedia, così come il ragionamento filosofico, deve essere trascritta per non essere perduta o dimenticata, a beneficio di attori e lettori. Tanto la trama drammatica (comica) che l'argomentazione filosofica possono presentare una formulazione semplice e chiara, ma anche piuttosto contorta, prolissa e talvolta di una complessità estenuante, nella loro progressione dalle premesse alla conclusione e dall'inizio alla fine 80• Una trama riuscita non è quindi troppo lunga, è intellegibile nella sua interezza, comprensibile in ognuno dei suoi passaggi, la si può narrare all'altro e questi la può riprodurre. Ad essere implicato è il principio classico dell'unità di tempo, spazio e azione: l'azione della commedia dovrebbe essere concisa e, come tale, rientrare nello spazio di una giornata 81 • La commedia deve essere prudente nella sua economia e struttura, dove niente dovrebbe essere di troppo. La semplicità e la complessità della trama La commedia nuova, la cui forma è mantenuta intatta nella commedia moderna, era quindi piuttosto semplice nelle sue linee generali, ma allo stesso tempo estremamente complessa e infinitamente variegata nei suoi dettagli. I critici posteriori le hanno affibbiato il nome, indebito e spregiativo, di «commedia di costume», che rappresenterebbe poco più di una semplice variazione sullo stesso tema. Eppure

Cit. in A. Riccoboni, Ars comica cit. Tali sono, ad esempio, la deduzione trascendentale di Kant e la trama del Formiotie di Terenzio. Eppure bisogna arrivare fino in fondo per raggiungere la fine. Si deve effettivamente arrivare n. Scrivere, quindi, è necessario per non dimenticare ogni minimo dettaglio, in modo da conservare un resoconto completo di quanto viene pensato e detto, e da evitare di confondere l'ordine esatto dei passaggi: altrimenti l'intera argomentazione o trama non può essere attraversata o portata a termine. 81 È il caso del Pluto di Aristofane, del Misa11tropo di Menandro, dell' A11fitrio11e di Plauto e del Fom,ione di Terenzio. Cfr. Menandro, Dyskolos 864-865; cfr. W.G. Amott, Introductio11 cit., p. xxxvii; A. Minturno, L'arte poetica cit., p. 83; A. Riccoboni, Ars comica cit., pp. 103-105; L. Bishop, Comic Literature ili France cit., p. 102.. 79

Bo

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SECONDA PARTE. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

la commedia rassomiglia alla vita, da un punto di vista sia descrittivo, sia prescrittivo. Questo faceva sì che già gli antichi si chiedessero chi imitasse chi - Menandro o la vita? In un certo senso, la vita è sempre la sola e unica vita che tutti viviamo - ma è anche sempre diversa. È questa la commedia della vita: ha un prologo, la preistoria in cui nasciamo, un ambiente sociale e linguistico concreto, carico di pratiche istituzionali e abitudini familiari; ha una protasi, una nascita e edificazione; un'epitasi, le varie vite concrete che viviamo; e una catastrofe, la fine della vita. La fine è un evento «catastrofico», che tuttavia può e dovrebbe essere comico: la vita finisce bene perché è compiuta. Questo significa che è una vita vissuta bene, riconosciuta come tale, apprezzata e conservata nella memoria degli altri. Analogamente, vi è sempre la stessa commedia, che è sempre diversa, una sola e unica storia palesemente riadattata, vissuta sul palco82 • I giovani si innamorano, questo sortisce una serie di tormenti e angosce (acerba ex amore), perché la loro unione è impedita da vecchi irascibili e scorbutici 83. Ma tutti finiscono per essere coinvolti nelle azioni e ad aiutarli c'è il personaggio comico (che è oppresso e ancora non libero). In questo modo, alla fine, il conflitto giunge a una risoluzione soddisfacente, dove ciascuno ottiene ciò che vuole: i giovani l'amore; i vecchi la pacificazione della loro rabbia, così come la sicurezza, il potere e il riconoscimento, simboleggiati dal denaro; gli oppressi la libertà. Viktor Sklovskij, uno dei fondatori del Formalismo, notava che «le trame non hanno mai fissa dimora» 84. Non sono solo le trame letterarie a essere «nomadi», ma anche i pensieri. Il «nomadismo delle trame e dei pensieri» può significare che essi appartengono a tutti, che migrano ed è possibile appropriarsene in vari modi e circostanze. Chiunque racconti la stessa storia, e pensi lo stesso pensiero,

b Vedi R.W. Corrigan, Classic,a/ Comedy cit., pp. 69-70; N. Frye, Anatomia della critic,a cit., p. 56; D. Konstan, Greek Comedy and Ideo/ogy, Oxford University Press, New

York 1995, p. 15 (somiglian1.a dei racconti in Aristofane). 83 Terenzio, La suocera cit., 281. Il senex iratus dive11tò un vero e proprio archetipo della commedia nuova (ad es., Terenzio, Phormio, 350). Come affermò Epicuro, «[s]e l'ira dei genitori verso i figli è giustificata, è veramente sciocco se i figli oppongono resisten1.a e non chiedono scusa. Se l'ira non è giustificata, ma sen1.a ragione, è una cosa veramente ridicola prendere atteggiamenti di sfida esasperandone col proprio risentimento l'irragionevole1.1.a, e non cercare di mitigarla in altri modi mostrando buona volontà» (Se11tenze Vatimne, 62. 84 V. Sklovskij, La mossa del c,aval/o, tr. it. M. Olsoufieva, De Donato, Bari 1967.

3. TU1TI

SI UNISCONO ALLA LOITA: LA DIALElTICA DELL'AZIONE COMICA

II9

coincide dunque con l'altro, che pertanto sospende, senza cancellarli, lo spazio, il tempo e il linguaggio. L'altro rimane spesso anonimo, eppure si tratta pur sempre dell'altro reale che ha agito tramite lo stesso pensiero, anche se in un contesto interamente alieno. Il «nomadismo delle trame e dei pensieri» potrebbe anche significare che le trame sono, in quanto forme particolari di pensiero e azione, universali, che tutte le trame (comiche) sono in un certo senso varianti di una sola e unica. Pertanto, anche se gli spettatori conoscono già la trama, sono comunque interessati ai dettagli e al loro sviluppo. Tutte le vite sono diverse e, in quanto tali, significative e interessanti, perché variano nei dettagli, che possono essere (re)interpretati un numero indefinito di volte. Allo stesso modo, tutte le trame comiche variano, e tutte le commedie sono dunque diverse. Di conseguenza vogliamo sempre interfacciarci con una commedia nuova, ma sempre con la stessa.

La contaminazione La soggettività moderna ha costruito sé stessa sul presupposto di

essere unica e originale, al centro della produzione di tutti i significati, e pertanto come la più importante tra le cose degne di attenzione. Ma questa soggettività ha voluto che la novità prevalesse sempre, perché ciò che è unico è nuovo, e il nuovo è unico solo momentaneamente. Pertanto, la soggettività moderna ha percepito la ripetizione dello stesso come noiosa, meccanica, e (in Henri Bergson) come una violazione della sua spontaneità e libertà. Il nuovo è tuttavia o una scoperta, o una costruzione di una forma nuova, di un nuovo genere, o di una nuova specie, presenti mediante una molteplicità di prescrizioni, o un sistema di regole. In quanto forma, è identica a sé stessa, e sempre la stessa, eppure è variabile all'infinito nelle sue rappresentazioni concrete, ed è quindi altra e sempre diversa. Si può osservare questo fenomeno nella serie di dipinti di Monet dedicati alla stessa cattedrale di Rouen, ritratta ogni volta sotto una luce diversa. La commedia nuova greca scoprì una forma drammatica nuova, anticipata dal teatro che l'aveva preceduta, ma distillata e propriamente formulata solo con Menandro. Una volta che fu stabilito il genere della commedia, lo si poté riprodurre in nuove versioni e con nuovi dettagli. Questo portò i commediografi romani a prendere tranquillamente in

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SECONDA PARTI!. U. LOGICA DELU. COMMEDIA

prestito le trame da commedie già esistenti, per lo più greche, talvolta mescolandole. Tale pratica era nota come «contaminazione». Per il soggetto moderno, si trattava di una pratica umiliante, perché non riconosceva l'autonomia e l'originalità del soggetto, rendendolo eteronomamente subordinato a ciò che altri avevano già detto e pensato. Ogni prestito avrebbe dovuto essere inserito tra virgolette esaltate o spocchiose: era questo un modo di riconoscere il vecchio, con un tocco di ammirazione o di disprezzo, e di indicare che si era in procinto di fare una mossa migliore, nuova. Non riuscire a riconoscere il vecchio pensiero o detto - di qualcun altro - era una violazione della proprietà (intellettuale) altrui quale estensione dell'io, ed era dunque ritenuta una forma di plagio o di furto. Tuttavia, vi è in realtà una sola forma di commedia, e poche trame già note, che realizzano il suo scopo. E un soggetto autonomo, unico e isolato non è propriamente il centro della commedia, che piuttosto si gioca su un'interazione dialogica all'interno di una comunità di attori. Pertanto, il prestito gratuito delle trame è pienamente giustificato e non ha bisogno di nessuna scusa. Le trame migrano liberamente nello spazio della commedia. Essendo «nomadi», vengono riciclate, e in questo modo purificano e distillano la commedia per mezzo della «contaminazione». Anche la filosofia è, in larga misura, contaminata, dato che per lo più prende in prestito, reinventa, o resuscita i pensieri antichi per affrontare problemi nuovi. I commediografi romani prendevano liberamente in prestito dagli originali greci e latini. La contaminatio fu ampiamente usata da Plauto e Terenzio. Se lo spartiacque tra gli «antichi» e i «moderni» poteva essere tranquillamente delineato come quello tra commedia antica e nuova, allora l'orgogliosa e autonoma soggettività moderna vi era già presente sotto forma del critico, lettore e spettatore della commedia nuova romana, che storicamente fu successiva alla Nea greca. È ben noto che Apollodoro di Caristo fu alla base della Suocera e del Formione di Terenzio; i drammi di Difilo furono adottati tanto da Plauto che da Terenzio; e Menandro fu la fonte più frequente di trame per Plauto, Terenzio85 e altri commediografi romani 86• Come in A11dria, Eumuhus, Heautontimorume11us, Ade/pboe. E. Lefcvre, Der Pbormio des Terenz und der Epidikazomenos des Apollodor voti Karystos, Bcck, Miinchen 1978, pp. 5-7, 92-96 e passim. Vedi anche: K. Gaiscr, Zur Eigenart derriJmischen KomiJdie cit., pp. 1058-1066. 85

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3. 1UTTI

SI UNISCONO ALIA LOTTA: I.A DIALETTICA DELL'AZIONE COMICA

12.1

Terenzio confessò fin da subito di aver preso in prestito e mescolato le opere teatrali antiche, ammettendo non solo che non se ne pentiva, ma che l'avrebbe rifatto, come rimedio contro l'uggiosa pedanteria (obscura diligentia) 87. Lo scopo del dramma comico non era per Terenzio una buona traduzione degli originali (bene vertere), ma una buona scrittura (bene scribere). Nel prologo ai Due fratelli riconobbe anche di aver preso prestiti da due abili costruttori di trame, Difilo e Menandro; nondimeno, affermò che questo non andava considerato un furto (furtum) ma piuttosto un prestito 88 , che non escludeva qualche riarrangiamento della trama (o delle trame) e l'introduzione di personaggi nuovi. Terenzio doveva difendersi dai critici che gli rimproveravano di aver usato l'Eunuco di Menandro e L'adulatore, come anche altre trame di Nevio e di Plauto: non bisognava lottare per l'originalità, perché era difficile dire cose che non erano già state dette 89. Piuttosto, si dovevano scrivere opere valide. Per converso, il critico purista di Terenzio, che traduceva bene ma scriveva male, trasse pessime opere latine dalle ottime greche9°. Lo stesso Terenzio preferiva mantenere un atteggiamento liberale nei confronti degli originali greci, non nutrendo alcun attaccamento verso il letteralismo che una traduzione non falsata avrebbe imposto. Per questo, egli prese le difese dell'incuranza di Nevio, Plauto e Ennio nel rapportarsi agli originali, preferendo la loro libertà «negligente» a una pedante intransigenza. Solo in questo modo è possibile salvare lo spirito della «commedia immortale», senza che venga smorzato da un puntiglioso attaccamento alla lettera. Solo un atteggiamento libero nei confronti dell'originale può rinnovare uno sguardo comico sulle cose e sugli eventi contemporanei. Un bravo commediografo è dunque colui che si colloca nel solco di una tradizione già sviluppata e affinata senza contenere la propria spontanea creatività. Nel far questo, un bravo drammaturgo si attiene ad una «aurea mediocritas», una «via di mezzo» tra la copiatura meticolosa dell'originale e l'arbitrarietà dell'immaginario. In altre parole, un bravo scrittore (comico) non è né un filologo, né un matematico, ma ha un po' di entrambi. 87 A11dria, :z.1; Heautontimorumenus, 16-19. 88 Adelphoe, 13-14. 89 Eunuchus, :z.3-34, 41-4:z.; Ade/phoe, 6-14. 90 «qui bene vortendo et easdem scribendo male cx / Graecis bonis Latinas fecit non bonas» (Terenzio, Eu1,uchus, 7-8).

122

SECONDA PARTI!. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

La commedia romana non fu un semplice adattamento della commedia greca, come la comoedia palliata e proprio come, più tardi, la filosofia neoplatonica romana non fu un mero rimaneggiamento della filosofia greca classica. La commedia romana era già un genere letterario moderno e lo rimase anche nella modernità. La commedia nuova era una forma nuova di commedia, che attingeva liberamente da un originale e lo faceva in modo originale. Questa forma di commedia nuova si configurò nel solco di una relazione particolare con la tradizione, sempre coronata da una certa originalità di commento e di invenzione. Questa originalità era inequivocabile, eppure priva di enfasi e inevitabile, il che la distingueva dall'eclettismo. Entrambi i componenti sono importanti in questo caso: non solo la rottura operata dall'originalità (che Terenzio cercava umilmente di nascondere), ma anche la continuità della tradizione. Il parallelo con la filosofia è piuttosto lampante: un'opera filosofica prende liberamente in prestito, combina e contamina argomentazioni, nozioni e idee di una tradizione esistente, che non si prende neanche la briga di ammettere, dato che, apparentemente, i lettori già conoscono la fonte e sono capaci di riconoscerla. Così l'argomentazione di Platone contro la scrittura, alla fine del Fedro, in larga misura coincideva con quella di Alcidamante nel suo saggio contro i sofisti, di modo che ciascuno dei due può aver «preso in prestito» dall'altro9 1 • Eppure, l'opera filosofica non plagia l'originale, dato che non si limita a ripetere semplicemente un pensiero senza citarlo, ma cerca sempre di apportare alla discussione un modo nuovo di vedere un problema vecchio. In tal senso, in una genuina disputa filosofica il plagio è impossibile, ma la contaminazione è necessaria

La commedia e il racconto giallo

Nei suoi contorni e nella sua struttura, la commedia è molto simile al racconto giall9 2 • Se la commedia (nuova) è uno dei più anti9' Platone, Phaedrus, 274b; Alcidamante, Peri Sophisto,z, 27-28. Cfr. Antiphontis orationes et fragmenta, adiu,rctis Gorgiae A,rtisthenis Alcidamantis declamatiotùbus, a cura di F. Blass, Teubner, Leipzig 1908 2, pp. 193-2.05. 91. A. Heller, lmmorta/ Contedy cit., p. 14. Vedi anche W.j. Ong, Oralità e scrittura cit., pp. 2.07-2. I I.

3. nrITI

SI UNISCONO ALLA LOTTA: LA DIALETnCA DELL'AZIONE COMICA

12.3

chi generi letterari sopravvissuti, il racconto giallo è molto recente e moderno: il primo giallo mai scritto fu Gli omicidi della Rue Morgue (The Murders in the Rue Morgue, 1841), a cui seguirono numerosi capolavori, tra cui Delitto e castigo di Dostoevskij, i romanzi di G.K. Chesterton, e altri. Le somiglianze tra i due generi sono comunque impressionanti. Di buone trame nella commedia non ce ne sono troppe. La commedia può persino ricorrere a una sola e unica trama auto-replicante: è definita dal suo inizio, vi è presente un conflitto, raggiunge un climax, e alla fine si muove verso una risoluzione. L'attrattiva di una buona commedia risiede nell'uso innovativo dei suoi espedienti, nel dettagliato riarrangiamento della trama, e nella sottigliezza delle sfumature nel ritrarre i personaggi. Lo stesso avviene con il racconto giallo, che pure si serve delle variazioni su una stessa trama ripetuta: un omicidio all'inizio, una complessa ricerca (razionale) della verità del caso e un lieto fine - la scoperta e l'arresto del criminale e dunque la restaurazione della giustizia. Tanto la commedia che il giallo finiscono bene (la commedia con un finale desiderato e il giallo con la restaurazione della giustizia). In Alba di gloria (Young Mr. Lincoln, 1939), un giovane avvocato risolve un caso complesso e, ponendo le giuste domande («dialettiche»), contribuisce all'assoluzione di due ragazzi innocenti accusati di omicidio. Quindi egli svolge il ruolo del dialettico, della mente dietro un corretto agire. Eppure, malgrado l'apparente ripetitività della storia - che i lettori conoscono in anticipo, conoscendo già la storia nella commedia il romanzo giallo gode invariabilmente di grande popolarità. Questo perché mentre nell'elaborazione della storia ogni romanzo si distingue per la sua concreta costellazione di dettagli, un giallo permette al lettore di partecipare emozionalmente e intellettualmente al tentativo di tracciare lo sviluppo della trama seguendo gli indizi e i dettagli più minuti e cercando di prevedere il malfattore. Infine, indovinare il corso dell'azione nella commedia comporta una gioia o una soddisfazione nella comprensione e nel riconoscimento di come stanno le cose, come invariabilmente avviene anche con il romanzo giallo. Sia la commedia il racconto giallo sono profondamente coinvolgenti e, di conseguenza, mai noiosi: catturano l'attenzione del lettore o ascoltatore. Inoltre, entrambi sono razionali e fortemente riflessivi: implicano una riflessione attenta e un calcolo razionale (che,

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SECONDA PARTI!. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

tuttavia, è spesso sfidato dal calcolo dell'autore )93. Ancora una volta, entrambi si servono di una trama unitaria, sottilmente costruita, e definita dalla struttura protasi-epitasi-catastrofe. Tanto la commedia quanto il giallo si presentano da un punto di vista concettuale come forme scritte, ma a livello mediale possono essere scritte e orali (un racconto giallo può essere facilmente trasformato in un'opera teatrale). Entrambi si basano sull'interazione dialogica tra persone. Infine, in entrambi c'è una mente che permette all'azione di andare avanti. Pertanto, il racconto giallo è una versione specificamente moderna della commedia nuova, pensata per un lettore a cui viene dato di credere che la tragedia (omicidio e crimine) sia la condizione umana. La commedia fa di nuovo la sua comparsa, anche se sotto un'altra veste.

!Il Frye era dunque in errore nel considerare il racconto giallo come una forma del melodramma: N. Frye, Anatomia della critica cit., pp. 64-65.

4. Struttura e argomenti della commedia

Elementi costitutivi della trama comica Nel trattare la struttura della commedia mi rifaccio per lo più alle distinzioni di Evanzio 1 • Le ho già menzionate tutte e quattro: prologo, protasi, epitasi e catastrofe. Nel presente capitolo rivelo come funzionano le prime tre (sulla catastrofe mi soffermo nel capitolo successivo) facendo riferimento a diverse commedie ben note. Questo comprende anche una trattazione di diversi topoi comici, o «argomenti» - le strategie di un' «argomentazione» centrali per ogni commedia che muova all'ilarità, alla confusione e ad abbondanti risate, ma che si assicuri anche di risolversi in un lieto fine. Queste strategie rivelano che spesso nella commedia vige il principio per cui «basta che funzioni», e tuttavia non proprio tutto è permesso.

Il prologo La parte introduttiva di una commedia, il prologo, che esisteva

già nel dramma antico, si mantiene in qualche modo alla larga dalla struttura protasi-epitasi-catastrofe. Secondo Evanzio, il prologo è il «primo discorso» che apre l'opera teatrale e precede lo sviluppo vero e proprio della trama 2 • Nel dramma antico si sperimentava un bel ' Queste rientrano chiaramente nella tradizione del fare distinzioni in un discorso o in un'argomentazione. 1 Evanzio, De comoedia VII, 2: «prologus est prima dictio, a Graccis dieta protos /ogos, uel antcccdens ueram fabulae compositionem elocutio». Evanzio aggiunse anche che «alcuni hanno voluto vedere una differenza tra il "prologo" e il "prologium": il "prologo" è un tipo di prefazione alla commedia, in cui al pubblico viene detto qualcosa di più rispetto all'argomento, o dal poeta o per via delle necessità della stessa commedia: o

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SECONDA PARTE. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

po' con il prologo. Eschilo non lo utilizzava, e il prologo di Sofocle introduceva gli spettatori all'opera teatrale piuttosto che raccontarne la storia. Tuttavia, Euripide cominciava le sue opere con un prologo che spiegava la trama e in tal modo anticipava l'intera evoluzione della storia 3 • In questo senso, un prologo somiglia a un'argomentazione filosofica: esso annuncia fin dall'inizio ciò che intende raggiungere alla fine. Aristofane fece uso del prologo, anche se non alla maniera di Euripide4. Nella commedia nuova, così come in Plauto e in Terenzio, il prologo rappresentava una critica letteraria sui generis, una riflessione fuori trama sull'opera letteraria in quanto tale, così come su quella specifica che ci si accingeva a rappresentare. Il prologo di Terenzio presentava tratti di riflessività. In tal modo, la seconda parte del prologo a La suocera veniva presentata come un avvocato (orator) vestito da prologos. Era un prologo che si configurava come un discorso e si concepiva come rivolto a un pubblico. Il ruolo del prologo esplicativo ed espositivo di Euripide fu ripreso dall'hypothesis del Misantropo di Menandro, forse scritta da Aristofane di Bisanzio, e dalla Sinossi delle opere di Terenzio6• Nella commedia moderna, a volte il prologo era usato come un'allocuzione extra-drammatica rivolta dall'autore ai suoi lettori per fornire una giustificazione dell'opera. Il lettore o spettatore moderno trova sconcertante che l'intero intrigo venga già spiegato all'inizio dell'opera teatrale o del romanzo. Se già si conosce il finale, che senso ha sorbirsi un romanzo intero, o esercitare la propria arguzia nell'indovinarne l'esito? La differenza risiede nella nostra percezione del ruolo che la trama ha o dovrebbe avere in un'opera teatrale scritta o portata in scena. Come suggerisce Gregory Sifakis, il dramma moderno, contrariamente al dramma antico, funziona nel contesto del «teatro dell'illusione», dove la trama, simile a una storia vera, è sempre nuova e sfugge a ogni schema prestabilito. Sempre lui scrive,

dell'attore. Ma nel "prologium" si parla solo dell'argomento». ([Donatus,] Fragme,rtum de Tragoedia, et Comoedia cit., pp. 29-30) («intcr prologum et prologium quidam hoc interesse uolucrunt, quod prologus est, ubi aut poeta cxcusatur aut fabula commcndatur, prologium autcm est, cum tantum dc argumcnto dicitur», Evanzio, De comoedia VII 3). 3 Vedi, per esempio, Ippolito 1-68, dove a spiegare la trama è Afrodite. 4 Aristofane si prese gioco del prologo di Euripide nelle Rane (Le ra,,e cit., 946). s Terenzio, La suocera cit., 9 sgg. 6 Queste erano tuttavia aggiunte successive da parte di Gaio Sulpicio Apollinare.

4. STRUTTURA

I! ARGOMENTI Dl!LLA COMMEDIA

12.7

Quando l'opera comincia, non sappiamo nulla di questi individui, e le loro azioni ci appaiono del tutto imprevedibili; ma non appena l'opera si conclude, ogni personaggio deve esserne emerso, mediante ciò che ha fatto e detto sul palco, come una personalità a tutto tondo. Gli clementi essenziali del dramma realistico potrebbero essere definiti in base a quanto segue: (a) la storia è originale e il suo esito è imprevedibile; (b) le situazioni drammatiche imitano in modo veritiero le situazioni della vita quotidiana; (c) i personaggi sono individui definiti psicologicamente dal modo in cui agiscono e reagiscono sul palco ... Nessuna delle caratteristiche del dramma realistico moderno sono presenti nel dramma greco (o romano). Le storie erano antiche - nella tragedia si credeva perfino che fossero vere - o conformi a un modello tradizionale; la loro fine era dunque nota (nella tragedia) o imprevedibile (nella commedia antica), o effettivamente predetta nel prologo (in Euripide, nella commedia nuova)?.

Questo metodo di rivelare in anticipo la trama è in pieno contrasto con le intenzioni del dramma moderno. Dal dramma moderno ci si attende che una storia raccontata vada oltre le nostre aspettative e catturi la nostra attenzione muovendosi in un territorio sconosciuto. L' «antico» è un noioso déjà vu; il «nuovo» dovrebbe essere originale e accattivante, e mantenere desto il nostro interesse man mano che l'azione si evolve verso il finale. Al contrario, nel dramma antico il finale era già noto: morte e sofferenza nella tragedia e prosperità nella commedia. Pertanto, l'interesse del pubblico era rivolto alle sottili variazioni su un tema già risaputo 8• Ciò nonostante, la commedia nuova di Terenzio era moderna in un altro senso. Per lui, il prologo non serviva a spiegare l'intera trama in anticipo, ma era piuttosto come un espediente per rivolgersi direttamente al pubblico, esporre le proprie posizioni e rispondere ai critici, nonché riconoscere le fonti (greche) dell'opera teatrale9. Come spettatori e lettori, noi stessi ci accingiamo a - e forse abbiamo il dovere di - imparare dall'opera. Vi è dunque sempre qualcosa di inatteso in ogni opera, che dobbiamo indovinare e prevedere - pur nella continua riproduzione della struttura e dei contorni generali G.M. Sifakis, Parabasis and Animai Choruses cit., pp. 7-9. Classica/ Comedy cit., p. 245: «[D]i solito la trama veniva rivelata nel prologo. Questo non preoccupava il pubblico: a interessarlo era il modo in cui le cose funzionavano, la forma stessa dell'csecu1Jone». 9 Alla fine del prologo dei Due fratelli, Terenzio notava: «Ora non aspettatevi (in questo prologo] la trama della commedia [argume11tum fabulae]. l due vecchi che verranno in scena per primi [i due protagonisti della commedia], in parte la racconteranno, in parte ve la indicheranno nel corso dell'a1Jone [in agendo]» (Tere,z;;io, Commedie cit., 22-24). 7

8 R.W. Corrigan,

128

SECONDA PARTE. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

dell'opera comica. E tuttavia per noi è sempre possibile comprendere e interpretare l'opera in modo personale, con una certa larghezza di vedute. Protasi. La struttura protasi-epitasi-catastrofe organizza l'azione ed espone la trama comica. All'inizio di una commedia vi è un'infrazione. Un atto trasgressivo - spesso, un amore illecito - sconvolge l'ordine delle relazioni umane, che dunque deve essere ristabilito, non per via legale, ma mediante lo sforzo concertato dei partecipanti. Analogamente alla fiaba in Vladimir Jakovlevic Propp, dove l'azione era innescata dalla violazione di un'interdizione o dalla malvagità, la trama della commedia è alimentata da un danno o da una mancanw10 • Come dice Cherea nell'Eunuco di Terenzio, «Spesso una grande amicizia è sorta da una vicenda di questo genere [un amore illecito] e da un cattivo inizio» 11 • Senza un danno iniziale ad opera dell'uomo nei confronti di una persona innocente (amata) o un'assenza di giustificazione morale di un atto (d'amore), non può esserci nessuna commedia. Perché, in questo caso, non ci sarebbe alcun problema da «risolvere» mediante l'azione comica. Allo stesso modo oggi, nei media, solo le news che riportano un danno nei confronti degli altri o una mancanza cronica di risorse vitali di base diventano breaking news. La storia di una commedia, che spesso era già stata raccontata nel prologo, cominciava a svilupparsi nella protasi, l'esposizione che introduceva l'intrigo, in parte spiegandolo e in parte lasciando agli spettatori la possibilità di fare le loro previsioni. Tuttavia, in Terenzio il prologo tendeva a essere un'autodifesa da «critico letterario», una spiegazione delle motivazioni dell'autore in quanto scrittore. In tal modo, un'ulteriore esposizione - dei preliminari, per intenderci - diventò un elemento costituente necessario di ogni opera. In Terenzio, e spesso nelle commedie successive, l'esposizione era sempre una scena d'apertura separata, spesso un dialogo tra due interlocutori. Questi introducevano il problema e delineavano le «premesse» per l'azione, dando spesso voce alle visioni opposte o alle tesi che si sarebbero scontrate per tutto il resto della commedia per poi riconciliarsi alla fine. Un esempio notevole di dialogo introduttivo (in questo caso ironico) lo si trova nella scena d'apertura de Les femmes savantes di '0 V.J. Propp, Morpho/ogy of the Folktale, a cura di S. Pirkova-Jakobson, Indiana University Press, Bloomington 1958, pp. 68-71, 130-131. 11 Terenzio, Eunuchus, 873-875.

4. STRtnTURA

E ARGOMENTI DELLA COMMEDIA

Molière: due sorelle, Armande e Henriette, espongono visioni opposte sul matrimonio in quanto istituzione sociale oppressiva, con la possibilità di rifiutarlo a favore della filosofia, vista come la vita della mente. L'esposizione può anche essere un lungo monologo. Tuttavia, si trattava sempre di fatto di un dialogo, dove qualcuno introduceva l'azione parlando con sé stesso, impersonando così, in modo talvolta alquanto schizofrenico, l'altro (in un dialogo «con sé stesso»), come Argan nel Ma/ade imaginaire di Molière. Però, come sempre, il monologo non si reggeva in piedi né nella commedia né nella vita, e cedette quindi passo al dialogo. I due fratelli è l'unica opera di Terenzio che si apra con un lungo monologo 12• Nel Misantropo di Menandro la scena espositiva era un monologo di Pan - dove spiegava il contesto in cui si trovavano i personaggi e abbozzava una descrizione dell'intrigo-, che però poi non svolgeva nessun altro ruolo nello sviluppo degli eventi. Talvolta, l'esposizione era la combinazione di un monologo, rivolto a un personaggio silenzioso o assente, e un dialogo immediatamente successivo, come nelle due scene d'apertura dei Due fratelli di Terenzio, che occupano l'intero primo atto 1 3. Prima Micione, e in seguito i due fratelli, Micione e Demea, delineano l'inizio della trama e introducono i due approcci contrastanti all'educazione e alla vita, uno progressista e l'altro conservatore, che anche in questo caso si sarebbero riconciliati nel finale, dove ad averla vinta sarebbe stato il progressista. A volte nel dialogo d'apertura uno degli interlocutori non veniva poi più coinvolto nel successivo sviluppo dell'argomentazione della trama, fungendo da semplice destinatario per l'altro oratore, che spiegava l'azione 1 4. L'unico ruolo di questo prosopon protatikon era quello di ascoltare e comprendere l'esposizione, e in tal modo di rappresentare collettivamente, sul palco, gli spettatori e gli ascoltatori,15 • Il termine protatikon significa letteralmente «capace di formulare una proposizione» e si riferisce alla protasi, il termine logico generale usato da Aristotele per indicare una proposizione: un discorso o Terenzio, Adelphoe, 26-80. Ibid. 14 È il caso degli Adelphoc di Terenzio (vv. 2.6 sgg.). 1s See M. von Albrecht, A History of Roma11 Literature: From Livius A11dro11icus to Boethius, with Special Regard to Its I11flue11ee on World Literature, Brill, Leiden 1997, voi. 1, p. 2.19. 1 2.

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SECONDA PARTE. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

un'argomentazione (/ogos) che afferma o nega qualcosa a proposito di qualcosa 16 • Poteva anche designare la premessa in un sillogismo o semplicemente riferirsi alla proposizione di un problema. Tutti questi significati erano presenti nella protasi comica. Nell'uso matematico, la protasi comica corrispondeva piuttosto a tre delle parti in cui Prodo aveva diviso la dimostrazione: l'enunciazione, l'esposizione e la determinazione, in quanto la protasi identificava il punto di partenza «dato» per lo sviluppo della trama e determinava cosa la commedia mirava a raggiungere. La protasi era dunque l'inizio «logico» e I' «origine» comica dell'azione, per mezzo della quale la storia comica procedeva verso una risoluzione, implicita nell'esposizione ma pienamente esplicita solo alla fine. Pertanto, una protasi era giustificata solo mediante l'azione intera e completa, che - attraverso l'azione congiunta e comune dei suoi attori e spettatori - si evolveva verso un finale che, a sua volta, giustificava l'inizio.

Argomenti dell'epitasi

All'esposizione, o protasi, faceva seguito l'epitasi, ovvero la complicazione, lo sviluppo e il climax della trama. Letteralmente, epitasi significa «intensità» o «aumento di intensità». Aristotele ricorreva a questo termine tecnico nelle sue trattazioni di fisica per descrivere l'intensificazione del movimento 1 7. l:epitasi era dunque la parte centrale, più lunga, e più complessa di un'opera comica. Tradotta ancora una volta in termini logici, corrisponde al movimento di un sillogismo dalle premesse al termine medio. Nella dialettica, indica il movimento ordinato passo dopo passo di un ragionamento o di un'argomentazione. E in matematica, l'epitasi corrisponde alla costruzione e alla dimostrazione, in quanto produce il risultato desiderato, spiegando che e come è stato raggiunto. Nella Retorica di Aristotele, la trattazione del sillogismo retorico, o entimema, era immediatamente seguita da una descrizione 16 Aristotele, A11alitid primi, in Id., Organo11. Categorie - Del/'interpretaZione - Analitici primi, a cura di M. Zanatta, lITET, Torino 1996, 24a16-17. 1 7 Aristotele, De caelo, introduzione, testo critico, traduzione e note di O. hLongo,

Sansoni, Firen1.c 1961, 288a19.

4.

STRUTTURA I! ARGOMENTI Dl!LLA COMMEDIA

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di 28 diversi topoi, o «luoghi». Vi erano le «strategie dell'argomentazione», come le chiama Kennedy, o le forme più generali di ragionamento, persuasione, azione deliberativa e conclusione 18 • Questi «luoghi comuni» potevano applicarsi non solo al ragionamento retorico, ma a ogni forma valida di ragionamento, compresi quello logico, dialettico, matematico e drammatico. Per esempio, era possibile ragionare a partire da opposti contrastanti, (questo era l'argomento 14) quando ci si confrontava con un dilemma dove si doveva formulare un giudizio e agire (o non agire) in una situazione dove entrambe le posizioni opposte comportavano un certo svantaggio 1 9. Vepitasi comica era complessa: i suoi metodi, espedienti e modi di procedere erano svariati. Per questo qui mi soffermo solo su tre tra i topoi comuni della commedia, cui seguiva una trattazione dei luoghi comuni «fallaci»2.0 •

La gnome, o sententia

La gnome, sententia, o massima è un primo topos, o «luogo comune» della commedia. Una gnome è la formulazione breve, condensata, di un pensiero che può essere facilmente memorizzata e declamata alla giuoccasione. La gnome - letteralmente, pensiero o giudizio, tradotta in latino come sententia- era un espediente letterario greco, già ravvisabile nei poemi di Omero, per lo meno da parte dei suoi lettori posteriori, che

sta

Aristotele, Rethorica cit., 1397a7 sgg. Un esempio di applicazione di questo topos è il seguente: «(U]na sacerdotessa non permetteva che il figlio parlasse davanti al popolo. "In effetti, qualora tu proferisca le cose giuste - disse - gli uomini ti odieranno, qualora invece tu proferisca quelle ingiuste, ti odieranno gli dèi". Pertanto, davanti al popolo si deve dire: "in effetti, qualora tu proferisca le cose giuste, gli déi ti ameranno, qualora invece tu proferisca quelle ingiuste, ti ameranno gli uomini"» (ivi 1399a20-2.5). 20 Fornire una classificazione esauriente di tutti gli argomenti comici implicherebbe la necessità di dimostrare la possibilità di una tale classificazione. Platone non offre una classificazione generale dei metodi dialettici che usa nei suoi dialoghi, né Aristotele spiega perché ci siano esattamente 2.8 topoi retorici e se possano tutti derivare da un principio di clasmficazionc unico e semplice. La filosofia moderna indugia ancora su questa domanda, che qui lascio aperta, supponendo che la vita e l'azione umane assumano forme universalmente applicabili, sebbene siano sempre possibili modi di pensare e di agire nuovi, inutilix,.ati e ancora da scoprire. 18 19

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non si stancarono mai di estrarre citazioni dalla sua opera 21 • Tra il VI e il V secolo a.C. questo genere si consolidò pienamente non solo nell'elegia, ma anche in filosofia 22 • Epicarmo, il probabile inventore della commedia, lasciò un numero sostanzioso di gnomai2 3. Inoltre, affermò esplicitamente che «tutti gli esseri viventi hanno giudizio [gnome]» 24 • Questo è un caso interessante di gnome sulla gnome, autoriflessiva e autoreferenziale, che mostra non solo che la tradizione gnomica era in uso a quei tempi, ma che lo era in modo consapevole e deliberato. Il dramma, e in particolare la commedia, già abbondava di sententiae, o massime, che venivano spesso citate in altri drammi e testi letterari, e ci sono giunte sotto forma di «frammenti» di scrittori antichi, accuratamente selezionati, ordinati e editi da filologi coscienziosi. Euripide, Menandro e Terenzio si servivano tutti di massime, tessendole abilmente nel tessuto della trama. In questa maniera, una massima all'interno di un dramma non si riduceva a un detto isolato, ma comunicava ed esponeva un pensiero di una certa importanza, spesso centrale per l'opera. Terenzio fu particolarmente prolifico nel campo delle sententiae, aspetto per cui era già celebre nell'antichità. Alcune erano vecchi proverbi, come la famosa massima pitagorica «Gli amici condividono tutte le cose» 2 5. Molti altri, inventati da Terenzio, divennero proverbiali e comunemente citati, come «Il loro silenzio è una lode sufficiente» 26 , e «Se stai zitto sentirai tutto subito» 2 7. Nella sua E.stetica, Alexander Baumgarten fece riferimento a Terenzio per la sua «lodevole, assoluta brevità» 28 • In realtà, molte massime divennero tali solo una volta che furono citate da altri autori al di fuori del loro contesto. Così, il famoso «homo 21

Hcgel ritiene che la gnome appartenga principalmente all'epica: G.W.F. Hcgel. Vor-

lesungen aber die Asthetik, in Id., Werke cit., voi. 15, p. 326. u Lo si trova, per esempio, in Tcognide, Elegie, a cura di F. Ferraci, BUR, Ri1.zoli, Milano 1989, pp. 174 sgg. La prima dottrina pitagorica fu preservata e trasmessa oralmente sono forma di apoftegmi. 23 «g,zomo/ogei», fr. B 8-46 DK, fr. A3 DK, in Diog. Laert. 8.78; cf. A5 DK=Anon. de com. 2.4. 2.t Fr. B4 DK. 2 s «communia esse amicorum inter se omnia» (Terenzio, Adelphoe, 804). 26 «taccnt: satis laudanb (Teren1jo, Eunuchus, 476). 2 7 «tacituscitius audics» (ivi, 571). zll «brevitas laudabilis absoluta» (A.G. Baumgarten, Asthetik, a cura di Dagmar Mirbach, Felix Meiner Verlag, Hamburg 2007: voi. 1, S 158, pp. 134-135; vedi anche, ivi, SS 158-166, pp. 134-145, Absoluta brevitas. Baumgarten cita Terenzio, La suocera cit., 848).

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sum; humani nihil a me alienum puto» è stato spesso usato con il significato che, in quanto umano, condivido in tutto e per tutto le debolezze umane, e dunque una particolare debolezza è perdonabile perché nessuno ne è privo 29. Nell'opera di Terenzio, in realtà, il personaggio che pronuncia la frase (Cremete) intende giustificare la sua curiosità nei confronti di Menedemo, che si faceva carico del lavoro e degli affari di altre persone, spinto da un senso di umanesimo e solidarietà, potendo inoltre aiutare economicamente suo figlio. La brevità di Terenzio, e quindi l'indeterminatezza della massima, ne fece un oggetto allettante per la reinterpretazione e la citazione in un nuovo contesto. Perfino san Paolo citò la Taide di Menandro: «le cattive compagnie corrompono i buoni costumi» - senza prestare molta attenzione alla fonte o al contesto origina)e3°. Alcune massime diventarono tanto popolari da trasformarsi in proverbi (molte provenienti dalla Bibbia), di cui facciamo uso ancora oggi, senza comprenderne la genealogia. Una gnome poteva assumere la forma di un aforisma o di un apoftegma, un «detto breve e sentenzioso», spesso prodotto di proposito per rafforzare l'effetto di ciò che veniva detto, come nei celebri detti laconici3 1 • Una gnome era dunque un pensiero concentrato e condensato. Si trattava di un pensiero distillato e appositamente frammentato con lo scopo di riflettere l'interezza di un'argomentazione in una breve massima. Per questa ragione, come già detto, la gnome assomigliava a un motto di spirito e spesso, nella commedia più tarda, lo sostituiva, giacché anche il motto era una narrazione coagulata. Una gnome poteva dunque essere usata sia per la narrazione, sia per la dimostrazione32. La gnome era un'argomentazione «zippata», destinata ad essere decompressa dagli spettatori, dai lettori, o dagli ascoltatori. Questi esercitavano in tal modo le loro abilità ermeneutiche e investigative. Man mano che si lasciavano coinvolgere nell'azione, la commedia diventava interattiva. Alcune massime celebri (come «conosci te stesso») non erano affatto ovvie ed erano contrarie alla saggezza popolare. In quanto paradossali, invitavano la gente a pensare con la propria testa, spesso insieme agli altri. C'era dunque una forte affinità tra la gnome e il sillogismo logico o retorico. 29 Terenzio, Heauto11timorumenos, 77. 3o «cp8efpol>OlV ii&rt XJ)llotàòµO..icu 1Caicai», r Cor r 5, 33. 3' LSJ (Liddell, Scon, Joncs Ancient Grcck Lcxicon]. 32 Aristotele, Retorica cit., r418ar5-16.

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Nella sua Retorica, Aristotele dedicò alle massime un intero capitolo33, che arriva subito prima della trattazione dell'entimema o del sillogismo retorico34. Una gnome era un espediente comico particolarmente adatto, in quanto poteva parlare in termini universali di ciò che universale non era. Servendosi dell'incongruenza (ad es., quando «tutti gli esseri viventi sono dotati di ragione» era riferito a uno sciocco), una massima poteva produrre un effetto comico. Eppure il pensiero contenuto nella massima poteva anche suscitare forti emozioni, un aspetto che si prestava particolarmente al dramma, commedia inclusa. Poiché una massima esprimeva un pensiero, il parlare per massime era adatto a coloro che erano più avvezzi a emettere giudizi35. Forse la massima era uno strumento arcaico «preilluministico», che impartiva saggezza affermando che qualcosa stava in un certo modo senza darne un perché, ovvero senza un'esplicita argomentazione o spiegazione. Tuttavia, come sosteneva Aristotele, una massima era in realtà simile a un sillogismo, dal momento che era un'affermazione di natura generica, e quindi una sorta di entimema ridotto ai minimi termini. In altre parole, una massima era più condensata rispetto a un entimema, che per lo meno dichiarava alcune premesse in modo esplicito, mentre essa si limitava a fornire la conclusione, presumendo che la presupposizione, le premesse e l'argomentazione fossero evidenti o potessero essere facilmente ripristinate. La gnome o massima era, dunque, un topos comico di grande importanza, in quanto compendiava una specifica argomentazione esponendola mediante il pensiero di un personaggio, e dunque rifletteva anche la struttura argomentativa, razionale e «logica» della trama nella sua interezza.

Aforisma e frammento Una gnome «riepilogava» un pensiero, lo trasformava in un aforisma, che letteralmente comportava una delimitazione, un'assegnazione di confini. Un aforisma conferiva al pensiero una forma compatta e gradevole: poteva essere così memorizzato e resistere al tempo. Una volta elaborato a fondo, un pensiero poteva diventare un aforisma. 33 34 35

Ivi, I, 21. Ivi, 1394a19-1395b19. Cfr. ivi, 1395a3.

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Veniva trasposto in questa forma per impedire di dimenticarne, se non il lungo e complesso ragionamento, per lo meno la conclusione. Autori moderni tanto diversi quanto il marchese di Vauvenargues, Ludwig Wittgenstein e Nicolas G6mez Davila si sono spesso serviti del genere aforismatico. Nella filosofia e nella commedia antica, la gnome era il risultato del lavoro della ragione, destinata ad essere fatta propria da tutti, universalizzabile nel pensiero (filosofico) e nell'azione (comica). La soggettività moderna, tuttavia, tese a preferirle l'aforisma come forma di «pensée» scritta e pubblicata, per una ragione del tutto diversa. L'aforisma è l'attestazione dell'unicità di qualcuno: è mio; sono io che l'ho prodotto. E per quanto il pensiero moderno, solitario e monologico, aspirasse ancora alla saggezza, contrassegnò questa svolta con l'autorialità: la saggezza non veniva più dal detto anonimo di una Pizia delfica, ma testimoniava - e dunque glorificava - lo spirito sagace di quel t:ale individuo. Come notò aforisticamente Pascal, «Così grande è la dolcezza della gloria che, a qualunque oggetto si riferisca, fosse pure la morte, la desideriamo»3 6 • Inoltre, nella modernità l'aforisma fu trasformato in un frammento - letteralmente, in una «scheggia» -, il che era un modo di rompere con il pensiero monocosciente che si distillava in un sistema logico verificato. Un frammento era, dunque, il brandello di un intero sistematico in frantumi, che non era stato preservato, perché il raggiungimento dell'intero era stato considerato impossibile. La frammentazione divenne, in particolare, la cifra attraverso cui ripensare l'arte e il pensiero del passato. Molti testi di filosofi presocratici sopravvissero nelle citazioni di altri autori, diventando così frammenti, per cui oggi sono solo frammenti. L'intero «frantumato» e frammentato di un pensiero, di un sistema filosofico o di un'opera letteraria è solo lasciato intendere, ma rimane inaccessibile. Un frammento, che può configurarsi come una forma estesa di aforisma o perfino come un entimema, può diventare l'argomento di stesso. Tuttavia, Epicarmo parlò della in una gnome: per cui, una riflessione sul ruolo del frammento potrebbe risultare opportuna se condotta in frammenti, precisamente in quanto riflesso di un tutto irraggiungibile. E, qualora un frammento contenga un pensiero e dica qualcosa che può essere condivisa con altri, si tratterà di un 36

B. Pascal, Pensieri, a cura di B. Nacci, lITET, Torino

2014,

fr.

500.

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SECONDA PARTI!. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

frammento comico, in quanto consegue il suo scopo e perviene a un «esito positivo». - È possibile scrivere filosofia in frammenti? Un frammento è isolato, tuttavia è un intero, anche se incompleto. - La frammentazione nella scrittura corrisponde alla frammentazione nel pensiero: se un pensiero discorsivo implica che si passi continuamente da un pensiero all'altro, allora ogni pensiero, anche se è solo una tappa nel ragionamento, è distinto. Se un pensiero non discorsivo si manifesta come una comprensione, un'intuizione che talvolta ci sorprende, allora distinto è anche il pensiero, o I' «idea», che tale comprensione contiene. Forse, allora, un frammento rappresenta e riflette un pensiero indipendente, anche se non isolato, o nel discorso discorsivo o in quello non discorsivo. - Dato che nessun pensiero è isolato, ogni pensiero è implicitamente collegato ad altri pensieri (forse addirittura a tutti i pensieri?) attraverso cui ci si muove. Pensare e scrivere in frammenti è, in questo senso, pienamente giustificabile. Tuttavia, questa connessione «implicita» tra frammenti può derivare da una certa sistematicità nell'atto stesso di pensare- o da una coerenza del personaggio del pensatore, che è determinata non solo culturalmente, ma anche individualmente, come suo «altro personale». Sembra, dunque, che una connessione intrinseca tra frammenti sia stabilita in modo diverso in questi due casi. - Un frammento differisce da un aforisma, dato che un aforisma è un bon mot affilato e pungente, destinato a essere servito nella giusta occasione, mentre un frammento può anche (e forse dovrebbe} essere lasciato così com'è, stilisticamente imperfetto e allo stato grezzo, quale traccia di un pensiero che si è manifestato una volta e non si ripeterà mai più esattamente nella stessa maniera e nella stessa circostanza. - Un frammento è un compromesso minimale tra un pensiero ininterrotto e il suo modellamento scritto in una forma accettabile. I pensieri sono molteplici, e pertanto è facile dimenticarli; i frammenti li salvano dall'oblio. - Un frammento è anche un atto minimale di gentilezza nei confronti del lettore: ci sono molti libri voluminosi e pieni di spunti preziosi, ma estrarne i pensieri non è facile, perché ci si lascia intimorire dall'eccessiva quantità di lavoro richiesta. Grazie alla sua concisione, il frammento è in grado di spiegarsi in «due o tre parole». Certa men-

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te, può anche rivelarsi del tutto privo di spunti di riflessione, ma per lo meno ci risparmiamo l'irritazione di spenderci sopra una vita. - Ma allo stesso modo, un frammento può catturare l'attenzione. Nel caso, può essere o un incentivo al pensiero, quando a un tratto ci si rende conto che c'è qualcosa n dentro (il y a quelque chose là dedans), anche se non si capisce esattamente cosa. O un frammento può improvvisamente chiarire ciò che si era pensato a lungo, ma non si era stati capaci di riunire in una forma coerente: un frammento può essere una «pietra di coronamento», l'ultimo pezzo di un puzzle senza il quale ci sarebbe preclusa l'intera immagine. - Un pensiero rappresentato in un frammento può apparire diverso in un secondo momento, o per lo meno se ne può percepire una connessione diversa con altri pensieri. Ciò che qualcuno aveva detto in un dato momento può apparire opposto a ciò che afferma ora: può essersi sbagliato o allora o adesso. In tal caso, uno dei pensieri dovrebbe essere respinto in quanto errato, dato che due affermazioni reciprocamente contraddittorie possono essere anche dette allo stesso tempo, ma non pensate. E tuttavia, lo stesso atto di pensare-di avere avuto un pensiero - è indubbiamente presente in entrambi i pensieri. Si fai/or, sum.

Il monologo Il monologo è un altro topos della commedia. La commedia è monologica nella sua trama, che è una costruzione, o «argomentazione», artificiale dell'autore. Ma la commedia ha anche bisogno di una pluralità di voci e personaggi indipendenti che, attraverso i loro dialoghi, prendano parte atrazione comunemente condivisa. La commedia abbonda di monologhi, ma essi in realtà non sono monologici. Un monologo puro, un soliloquio distillato, un discorso che sembra essere privo di un destinatario, fu un'invenzione della soggettività moderna, che bastava a sé stessa ed era dunque solipsistica, non aveva bisogno dell'altro. Ma nell'azione della commedia, come nella vita, tutti sono coinvolti in un'azione comune e pertanto hanno sempre bisogno di un altro. Un puro monologo è pertanto una contradictio in adiecto, è impossibile. Il monologo è dunque già implicitamente dialogico. Il monologo comico è significativo solo quando presuppone un implicito dialogo

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interiore - un dialogo del personaggio con sé stesso, tra diversi personaggi, o tra i personaggi e gli spettatori. Una commedia, come si è già detto, spesso si apriva nel prologo con un monologo che, tuttavia, era dialogico, perché non si rivolgeva solo a un prosopon protatikon, ma anche agli ascoltatori. Inoltre, un monologo poteva corrispondere al racconto di un dialogo precedente all'interno della conversazione con un'altra persona37 • Era un espediente diffuso in molti dialoghi platonici, come nel Parmenide, dove un personaggio raccontava un dialogo che era avvenuto tra altre persone e che aveva presumibilmente ascoltato o udito per caso. La commedia mostrava una certa predilezione per questi monologhi incentrati su eventi origliati come mezzo di costruzione della trama. Assumeva, però, un significato più profondo solo quando il personaggio origliante reagiva con un monologo alla presenza di una risposta implicita dei suoi ascoltatori. Un monologo è lungo e lento, mentre un dialogo consiste in scambi concisi di battute ed è dunque rapido. Il monologo corrisponde a ciò che Socrate chiamava «lungo discorso» (makrologia), che o ignora gli altri oppure, con fare altezzoso, permette loro di ascoltare ma non di prendere parte3 8 • Un monologo eccessivamente lungo è autolesionista, non solo perché è noioso, ma anche perché impedisce di esprimere il significato che intende trasmettere - dato che a un certo punto nessuno lo ascolta. È così che il lungo discorso di Chrysale ne Les femmes savantes di Molière era pensato come una risposta all'interno di un dialogo con la sorella, ed era di per sé contraddittorio fin dalle premesse, dato che la lunghezza di una simile «risposta» non avrebbe permesso all'altra persona di replicare e prendere adeguatamente parte al dialogo. Il discorso, una filippica contro l'istruzione delle donne, ipotetica fonte di danni all'ambiente domestico, rivelava tutta la sua infondatezza nell'atto stesso di essere pronunciato di fronte a delle donne istruite 39 • Man mano che il discorso prosegue, il suo carattere autoconfutante si fa sempre più marcato. Paradossalmente, lo stesso Molière voleva che la filippica significasse esattamente quello che affermava, ma, ironicamente, essa non solo sfuggiva di mano a sé stessa, ma anche Terenzio, Eunuchus, 335-339. Platone, Gorgia, 449b---c. 3!1 Molière, Le intellettuali, trad. di C. Garbali, Einaudi, Torino 1978, 559-614, atto Il, scena VII. 37 38

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all'intenzione dell'autore. Tale doppia ironia può essere considerata un ulteriore espediente comico - un discorso che, ironicamente, sfida e cancella la stessa ironia che l'autore originariamente intendeva infondervi. Il dialogo, al contrario, è energico, conciso e fulmineo 40. I dialoghi rapidi, fatti di brevi scambi di botta e risposta, erano uno degli strumenti prediletti della commedia. Shakespeare e Molière se ne servivano spesso. Dato che è breve e coinvolge gli altri, il dialogo consiste sempre in una serie di repliche e controrepliche che si interrompono a vicenda. Il Formione di Terenzio presentava un dialogo fra tre persone che consisteva praticamente in un'unica parola (vendidit, «l'ha venduta») ripetuta quattro volte4 1 ; e, nell'Andria, una sola riga contiene ben sette scambi di battute4 2 !

Il riconoscimento Il riconoscimento è un importante topos comico. Il motivo del riconoscimento è comune a tutte le culture e a tutti i miti43. Si tratta di una forma di cognizione, di un atto cognitivo che conferma la vera identità di un'altra persona, mostrando chi lei o lui sia veramente. L'altra persona diventa pienamente «reale» e umana solo come risultato dell'essere stata riconosciuta come tale dagli altri. A rendere il riconoscimento tanto possibile quanto necessario è sempre un iniziale disconoscimento. Pertanto, il riconoscimento si fonda su una negatività, su un'erronea accettazione di «cosa» o «chi» l'altro è. È ciò che succede ne La suocera di Terenzio, dove il giovane Panfilo sposa una donna che dapprima non riconosce come la persona da lui amata 44. Inoltre, il riconoscimento è un atto riflessivo, perché per riconoscere adeguatamente l'altro si deve, in primo luogo, prendere coscienza del proprio iniziale disconoscimento, o del proprio errore; in secondo luogo, si riconosce la necessità di correggerlo; e, in terza istanza, si arriva a comprendere chi sia l'altro. Pertanto,



Vedi, per esempio, Terenzio, Eu11uchus, 345 sgg. Terenzio, Phormio, 510-511. 41 Terenzio, A11dria, 184. -43 V.J. Propp, Morphology of the Folktale cit., pp. 133-134. 44 Cfr. W. Shakespeare, La bisbetica domata, a cura di A.L. Zazo, traduzione di M. D'Amico, Mondadori, Milano 2019. 4'

SECONDA PARTE. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

il riconoscimento ha inizio con un riconoscimento del disconoscimento; prosegue con il riconoscimento dell'importanza e della necessità del riconoscimento; e si conclude (o dovrebbe concludersi) con il riconoscimento dell'identità dell'altro, che ora anche l'altro riconosce come il risultato di un'azione riflessiva di riconoscimento. Il riconoscimento comporta dunque una specie di «pentimento», che prende forma come riconoscimento del disconoscimento. Nella tradizione greca, questo è il caso del pentimento dell'autore, del poeta colpevole di avere tramandato il mito fondativo di un'intera cultura in modo erroneo: come con lo stupro di Elena e il suo rapimento a Troia. Come da tradizione, Elena in realtà non fu condotta a Troia - lo fu solo la sua immagine, o il suo «simulacro» - bensì passò tutto il tempo in Egitto, in attesa della fine della guerra. Il castigo per i poeti che avevano riferito il falso sul suo rapimento a Troia fu la cecità. Tuttavia, Stesicoro seppe riconoscere il suo errore, componendo un canto di pentimento (palinoidia) e, di conseguenza, gli fu possibile vedere di nuovo la luce, mentre Omero, che persisteva ostinatamente nel suo disconoscimento, rimase cieco45 . Il «pentimento» porta a un cambiamento repentino e inaspettato, benché necessario e dunque prevedibile, nella comprensione delle altre persone46• L'ultimo stadio del riconoscimento del «chi è» dell'altro richiede degli specifici espedienti e, nella società moderna, anche specifiche istituzioni pratiche e procedure democratiche47. Soprattutto, richiede che si riconosca il proprio riconoscimento di un'altra persona e, quindi, il suo riconoscimento di tale riconoscimento: a quel punto l'atto del riconoscimento diviene completo e pienamente riflessivo. In questo modo, con il riconoscimento è possibile comprendere non solo il «chi è» unico dell'altro, ma anche la sua umanità, che ora può condividere paritariamente, in un riconoscimento reciproco stabilito su base dialogica. La commedia stabilisce dunque un'identità comica reciprocamente riconosciuta che non è un dato di fatto, ma un compito da conseguire. Tale compito è comico perché lo sforzo volto al riconoscimento risulta riuscito, o «va a finire bene» - il che non è affatto garantito a priori - soprattutto perché si tratta di un atto complesso. Platone, Repubblica 586c; Phaedrus, 243a-b. «repente», «all'improvviso» Terenzio, Adelphoe, 984. 47 Vedi A. Honneth, Kampf um Anerkennung. Zur moralische,1 Grammatik sozialer Ko11flikte, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1992, pp. 274-287. 4s

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Nella commedia nuova, a innescare il processo di riconoscimento era solitamente un «segno», o l'attestazione di un testimone, che rivelava l'identità di un personaggio4 8 • Questa procedura è frequente anche nella commedia moderna, come ne La dodicesima notte di Shakespeare, dove sono le «maiden weeds» (vesti di fanciulla) ad assicurare Sebastian di avere davvero ritrovato sua sorella Viola, da lui creduta morta 49. La commedia condivide questa caratteristica con il suo consanguineo moderno, il racconto giallo, dove è una prova a permettere la scoperta del criminale. Il riconoscimento per mezzo di un contrassegno o di una testimonianza era molto frequente nella tragedia tarda, in particolare in Euripide, in cui, tuttavia, serviva a uno scopo diverso: i personaggi soffrivano o affrontavano la morte come risultato delle loro stesse azioni. Allo stesso modo, nell'Ifigenia in Tauride di Euripide, Ifigenia riconosceva suo fratello chiamandolo per nome; e nell'Elettra, Oreste veniva riconosciuto da un vecchio nella tenuta di campagna di Elettra. In Euripide era anche spesso presente un trovatello la cui identità veniva poi rivelata nel corso d'azione. Nello Ione, il riconoscimento di Ione quale figlio di Creusa avveniva con l'ausilio degli oggetti insieme a cui era stato trovato (una cesta e delle fasce infantili)5°. Un contrassegno era un «simbolo» (in greco symbolon) o un «segno» (in latino signum) che rendeva possibile il riconoscimento. «Symbolon» in origine indicava la metà di un oggetto che due soggetti avevano conservato e presentavano all'occasione come riprova di un'identità, che in tal modo riconoscevano vicendevolmente 51 • Un «simbolo» è quindi una «password» sui generis, che consente agli altri e a sé stessi di riconoscere chi si è: non so davvero chi sono fino a quando il mio «simbolo» non 48 Un segno può manifestarsi attraverso una prova materiale, come un contrassegno, un anello (anulus), una collana, un corredo da neonato o una lettera. A fornire la testimonianza può essere, per esempio, una balia o un estraneo. Cfr. Menandro, Epitrepontes, 387-388; Perikeirome,,e, 742 sgg.; Terenzio, Heautontimorumenus, 614; Eu1111chus, 808; La suocera cit., 574, 811, 821-832, 846; Adelphoe, 348. Il segno può essere anche una caratteristica del corpo associata a un evento, come una cicatrice dell'infanzia, espediente già usato da Euripide (Electra 573-574). 49 W. Shakespeare, La dodicesima notte, trad. di A. Lombardo, Feltrinelli, Milano 2013, atto V, se. I, 270. so Euripide si servì di questo stesso espediente nelle sue tragedie perdute (Alessandro, Alope, Auge, Melanippe saggia e Jpipsile), pervenuteci solo in frammenti. s• Un contrassegno potrebbe essere, per esempio, un aliosso, una moneta o l'impronta di un sigillo su cera.

SECONDA PARTI!. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

combacia con l'altra metà e finché non sono gli altri a riconoscermi. L'oggetto del riconoscimento è quindi anch'esso un «signum», un segno o un marchio, che è al contempo una dimostrazi,ane, ancora una volta, di chi si è, nella dinamica di un riconoscimento reciproco. Negli Epitreponte di Menandro, un bambino veniva riconosciuto grazie ai contrassegni con i quali era stato trovato;5 2 in Terenzio, una scatola piena di simili indizi veniva presentata come riprova dell'identità di una giovane53. Il contrassegno è, in questi casi, un «monumentum», una memoria o ricordo, un segno o un «monumento» memorabile, una testimonianza di quanto è accaduto nel passato che permette di capire sé stessi nel presente e così di giungere a una risoluzione futura di un conflitto in corso. L'atto del riconoscimento è quindi necessario per la commedia. Tuttavia, riuscire a scovare il «simbolo» in un oggetto o in una testimonianza, come prova definitiva che stabilisca la propria identità, è qualcosa in sé di accidentale e contingente. Eppure, tale contingenza dovrebbe necessariamente accadere, di modo che la sua apparizione nella trama non sia di per sé contingente. Nel dramma, l'apparente contraddizione tra la necessità e la contingenza del riconoscimento si risolve mediante un appello al fato, su cui mi soffermerò in seguito. Il destino è responsabile degli eventi contingenti che sono al contempo necessari, e che sono quindi guidati sia dal caso che dalla necessità.

Gli argomenti fallaci Nella Retorica, dopo aver trattato i vari topoi, Aristotele prosegue esponendo le argomentazioni «fallaci» (ad es., quelle che si basano su un risultato accidentale), che rendono un'argomentazione o un entimema logicamente non validi 54 • Nella commedia, tuttavia, la situazione è diversa. Anche se, come ho già sostenuto, la commedia si serve di strategie dialettiche sofisticate, nonché di un certo tipo di scene e di scambi di battute, per strutturare la sua trama o la sua «argomentazione» generale, essa dà scarsa importanza alla validità logica o alla veridicità delle sue premesse come punto di partenza per l'azione. La commedia è pragmatica: ciò che le interessa è assiP•

s; 54

Menandro, Epitrepontes, 294 sgg. «cistella cum monumentis» (Terenzio, Eu,,uchus, 753). Aristotele, Retorica cit., 14oob34 sgg.; dr. Id., Sophistici elenchi, 165b23 sgg.

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curarsi che la sua azione funzioni e approdi a un esito positivo. Di certo, questo non significa che sia permessa una totale licenziosità o che qualsiasi cosa possa andare bene. La commedia nuova prese inequivocabilmente le distanze dall'offensiva sconsideratezza della commedia antica, sulla base del presupposto che adottare misure immorali per porre rimedio a un iniziale danno fisico e morale avrebbe trasformato il lieto fine in una contraddizione in termini. Tuttavia, la commedia accettò alcune strategie d'azione che apparivano fortemente sospette e «fallaci» agli occhi della monologica coscienza morale moderna. La loro «fallacia» si manifestava nell'uso comico dell'illusione - così come nella rottura dell'illusione scenica - e in tutto ciò che non poteva sottostare al controllo della volontà razionale dell'attore, ovvero il fato. La commedia si serviva perfino di un inganno apparente, con l'impiego di doppi e di vari stratagemmi, che a volte dava vita a un doppio inganno, che ingannava l'ingannatore. È in questo modo che Pizia si vendicava di Parmenone, che l'aveva raggirata, ingannandolo a sua volta con il racconto di una storia inventata 55 • In questa maniera, ella raggrovigliava l'azione che Parmenone aveva cercato di districare, anche se alla fine gli rivelava la verità: «Non ce la faccio più a ridere di te!»5 6• La verità veniva così ripristinata mediante il doppio inganno. Tuttavia, che un'azione morale potesse servirsi anche dell'inganno era assolutamente inaccettabile per il soggetto moderno deontologico kantiano: tale azione era moralmente sospetta, in quanto violava l'autonomia della sua attività razionale. E tuttavia, questo soggetto era di per sé comicamente sospetto e compromesso nella sua autosoddisfazione, con la sua rettitudine rivolta principalmente a sé stesso e non all'altra persona. Quando i personaggi comici e l'autore usavano «l'imbroglio», lo si doveva al fatto che agivano sempre in una situazione di incertezza. L'unica cosa di cui erano certi era la certezza dell'esito, ovvero che le difficoltà in cui versavano poteva e avrebbe dovuto essere risolta. L'apparente «fallacia» dei topoi comici quindi non aveva tanto a che fare con la falsità logica delle premesse, da cui poteva scaturire una conclusione veritiera, ma consisteva in una risposta comica alla conss Terenzio, E,muchus, 92.3 sgg. 56 «defessa sum iam misera te ridendo» (ivi, 1008 ).

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tingenza che necessariamente convergeva in una conclusione accettabile da entrambe le parti o in un lieto fine.

I doppi: sincerità e inganno La commedia era il forum drammatico adibito al ragionamento dialettico: era portata a compimento dai dialoghi e azionata dagli opposti, rappresentati da accoppiamenti di battute, abbinamenti di personaggi e dalle scene doppie. In tali coppie, una controreplica, un personaggio o una scena si opponevano a un'altra e al contempo le rispondevano, la completavano e la presupponevano. In Aristofane gli accoppiamenti di scene e di personaggi (ad es., Eschilo e Euripide) erano rari; al contrario, nella commedia nuova erano piuttosto tipici, necessari allo sviluppo «dialettico» dell'azione per mezzo dell' «argomentazione» della trama. Due era il numero minimo di personaggi per un dialogo e un'interazione: per mostrare uno sviluppo del pensiero o per mettere in scena una disputa, il drammaturgo aveva bisogno di un personaggio che poneva una domanda e di uno che rispondeva. Nella commedia antica la minima dualità logica era rappresentata dal corpo e dalla personalità collettiva del coro, di solito diviso in due parti. Per questo i personaggi doppi sono rari e per lo più secondari in Aristofane57. La commedia nuova abbondava di duetti, di personaggi appaiati che incarnavano due opposti dialettici a cui conferivano una colonna sonora5 8 • I personaggi doppi erano frequenti in Plauto: due vecchi, Nicobulo e Filosseno; due giovani, Mnesiloco e Pistoclero; e due cortigiane con lo stesso nome, Bacchide, nelle Bacchidi. E una profusione di personaggi doppi è presente in tutte le opere di Terenzio: due vecchi, due matrone, due giovani, due ragazze (silenziose), due schiavi, due fratelli, due cortigiane e, naturalmente, due aman57 Tuttavia nelle Tesmoforiazuse comparivano due donne il cui aspetto identico era giustificato dalla loro intera1fone con il coro in una serie di filippiche parodiche contro Euripide. 58 Vi erano, per esempio, due donne, due giovani, due vecchi, una raga1.za e il suo servo, due servi (un bonario schiavo di campagna e uno scaltro schiavo di città, nei Metzecmi e nella Mostellaria di Plauto), due amanti (amante e amata), figlio e padre, figlia e madre, marito e moglie, schiava e padrone, due fratelli, ecc. Negli Epitrepontes di Menandro troviamo due schiavi dalla retorica sofisticata che si disputano e si interrompono a vicenda in continua1fone (:2.18 sgg.).

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ti59. Duetti di personaggi e voci che sono slegati ma si rispondono vicendevolmente sono anche il marchio di fabbrica della commedia moderna, abbondantemente presenti in Shakespeare e Molière, in Beckett (Aspettando Godot) e Ionesco (Le sedie). Diversi mesi prima della sua morte a Stoccolma, René Descartes stava scrivendo una commedia in francese (lasciata incompiuta), che, a giudicare da una breve nota di Leibniz, doveva essere una nuova commedia che celebrava la vita e l'amore dei due personaggi principali, Alixan e Parthenia, celati dietro doppie identità 6°. È importante sottolineare che il doppio comico era una persona reale, non un'immagine speculare del sé, come nel caso del Doppio dostoevskiano ne Le memorie del sottosuolo, che era il doppio dello stesso, di un soggetto moderno che invano cercava l'altro in sé stesso, facendone il proprio specchio. La commedia riguardava, implicava e provocava costantemente sentimenti, passioni ed emozioni di carattere opposto. Per esempio, se prima c'era scetticismo, in seguito c'era fiducia: «Vuoi che io ci creda, quando quello che dici è inverosimile? Allora ti credo» 61 • In seguito arrivava la catarsi comica, la «purificazione» delle passioni per mezzo di passioni opposte. Come diceva Panfilo, quando nell'Andria di Terenzio esultava nel ricevere le inaspettate notizie che risolvevano parzialmente un complesso intrigo, «Sono un miscuglio di emozioni, ho il cuore tutto sconvolto dalla paura, dalla speranza, dalla felicità» 62.. O, come lamentava Parmenone, «Chi vuol bene a chi lo odia, credo che si comporti da stupido due volte» 63. Eppure, era questa la strada scelta dalla commedia. La commedia permetteva sempre la risoluzione di un conflitto all'apparenza irrisolvibile: mediante l'esposizione di due possibilità equivalenti (nelle emozioni e nell'azione), la cui compresenza le rendeva apparentemente impossibili - come quando Panfilo ordinava a Parmenone di rimanere e di correre via allo stesso tempo64 • La risoluzione S!1 Vedi W. Gorler, Doppelha,uJ/urzg, lrztrige u,uJ Anag,zorismos bei Terenz, «Poetica», 5, 3-4, luglio-ottobre 1972., pp. 164-182.. 60 R. Descartes, Oeuvres de Descartes, 12. volt., a cura di C. Adam e P. Tannery, Vrin, Paris 1996, voi. XI, pp. 661-662.; cfr. ivi, voi. V, p. 459. 61 Terenzio, Heautorztimorumenos, 62.4-62.5. O ancora, prima c'era l'imbroglio e poi la fiducia; prima l'odio e poi l'amore; prima la disperazione e poi la speranza; prima paura e poi gioia; prima biasimo e poi lode; cfr. ivi, 810-Sn, 82.5 sgg. 62 «ita animus commotust metu, spe, gaudio» (Teren1jo, Andria, 937-938) 63 Terenzio, La suoceracit., 343. 64 «maneto, curre» (ivi, 443).

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comica, tuttavia, differiva da quella tragica o da quella elegiaca, dove si era costretti ad accettare l'inaccettabile, in un gesto di sfida eroico o disperato, come nell' «odi et amo» di Catullo65. La soluzione comica di un problema umano drammatico riguardante gli opposti non «superava» gli opposti in una presunta riconciliazione. Piuttosto offriva una costruzione razionale e drammatica sofisticata, simile a un'argomentazione dialettica. In questa sede si passava per l'interazione degli opposti, che consentiva la risoluzione ben congegnata di un conflitto e una riconciliazione degli opposti di carattere non speculativo, ma drammatico. La commedia, come già detto, era agonistica: presupponeva sempre la presenza di una lotta. I personaggi doppi, opposti, erano in disaccordo e si battevano in duelli e schermaglie, spesso articolate come scene doppie e perfino intrighi doppi. Dato che la trama comica contempla un'intensificazione dell'azione, una complicazione e una lotta, le scene doppie erano un efficace stratagemma per rappresentare il conflitto comico. Le scene doppie e i doppi intrighi che correvano paralleli e si richiamavano a vicenda abbondavano nella commedia. Per esempio, sia il Misantropo di Menandro sia La bisbetica domata di Shakespeare si concludono con due matrimoni 66• Il Miles gloriosus di Plauto mette in campo un intrigo basato su due gemelle e una finta moglie, mentre Terenzio fa un uso magistrale di una scena doppia nell' Andria, dove due personaggi parlano tra di loro e altri due origliano67, il che dà vita a una complessa interazione dinamica tra i due duetti e a un'azione vorticosa, dove gli spettatori si ritrovano ad essere inevitabilmente coinvolti come ascoltatori e origliatori involontari. Una scena doppia rappresentava un momento importante nello sviluppo della trama: conduceva a una risoluzione della complicazione per mezzo di una complicazione ancora maggiore. Le scene doppie spesso contemplavano un inganno apparente, che era, in ogni caso, un modo di dire la verità e di guidare l'azione nella direzione desiderata. Così, lo stesso nome dello Pseudo/o di Plauto suggeriva la presenza di un doppio inganno: pseudos - falsità, inganno, fallacia, o falsa conclusione - e dolos - esca per i pesci - per cui, un astuto stra6S

«Odi et amo», Catullo, Carm. 85. Riguardo all'uso delle scene doppie in Menandro, vedi l'analisi del «parallelismo» in W.G. Amott, I11trodudion, in Mena11der cit., voi. I, pp. XXXIX-XLI. 67 Terenzio, Andria, 412.-431. 66

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tagemma per ingannare o catturare. Pseudolo giungeva alla verità facendo in modo che la falsità si mettesse in mostra e si ridicolizzasse da sola, smascherando il falso mediante il falso. Un tipico espediente comico era quello di far leggere una lettera contraffatta riguardante il presunto crollo finanziario di una famiglia per mettere alla prova due aspiranti sposi: uno voleva sposare la figlia nella speranza di una ricca dote ma, saputa la notizia, si ritirava in men che non si dica; l'altro offriva tutto l'aiuto di cui era capace e, grazie a questo, una volta rivelato l'inganno, convolava felicemente a nozze con la figlia. In una scena doppia dell'Andria di Terenzio, Davo parla con la serva Miside in modo da permettere al vecchio Cremete di ascoltare la conversazione, senza che Cremete sappia di averla origliata 68 . In questo modo, attraverso un'imitazione del ragionamento dialettico69, Davo rivela la vera identità di una donna e di un bambino, cosa che non avrebbe potuto fare direttamente, perché Cremete non gli avrebbe creduto: «Non c'era altro modo, per fargli capire quello che vogliamo» 7°. Questo perché crediamo a una conclusione solo se ci arriviamo da soli. Per accettare la soluzione di un problema, bisogna poterne riprodurre ogni singolo passaggio lungo il percorso della sua costruzione, nel ragionamento o (nel caso della commedia) nell'azione. Pertanto, per dire una verità, impresa ardua che richiede coraggio, a volte non si dovrebbe parlare in modo sincero e disinteressato, ma piuttosto recitando una parte, o con un'intenzione premeditata7 1 • Allo stesso modo, Davo non mente, anche se si esprime in modo volutamente ambiguo: «Se trovi che ho mentito in qualcosa, ammazzami» 72 . Eppure questa ambiguità veniva interpretata dall'ascoltatore (o origliatore) in modo per nulla equivoco. Il dialogo ambiguo, ironico e dialetticamente strutturato, produsse una risposta unica nell'arte del ragionamento comico. A volte nella commedia si può raggiungere la verità solo apparentemente evitandola, indossando una maschera e recitando un ruo(on. È il caso di Cremete che, nel Punitore di sé stesso, dice al 68 lvi, 764-795. 69 «Lascia perdere quello che so io: rispondi a quello che ti chiedo» (ivi, 764). 70

lvi, 791..-793. «de industria» (ivi, 795). 71 lvi, 863. 73 Come dice Formione, parassita e imbroglione, «Ora però devo assumere un atteggiamento ed una espressione nuova» (Terenzio, Phonnio, 890). 7'

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suo schiavo Siro che un altro schiavo avrebbe dovuto «inventarsi qualcosa, escogitare un trucco per cui avesse di che dare alla sua amante, e per salvare questo vecchio intrattabile, a dispetto suo» 74. Alquanto confuso dal suggerimento di una simile «strategia», Siro chiede: «Ehi, scusa, tu apprezzi quelli che ingannano i padroni? Quando è il caso giusto, certo che li lodo, perché spesso questo è il rimedio per i grandi dispiaceri» 75. Al che Siro riconosce: «Sono abbastanza esperto e so come si fa di solito in questi casi», ma aggiunge: «Non sono il tipo che racconta frottole» 76 . Siro sembra intendere la cosa sia ironicamente sia sul serio, perché, pur essendo capace di usare il topos «fallace» dell'agire doppio, nel farlo non mente, dato che la sua azione, apparentemente ingannevole, cancella un'altra azione altrettanto ingannevole e così aiuta gli altri - e non sé stesso - a uscire da una situazione complicata, da un'apparente impassen. Tuttavia, alla fine aiuta anche sé stesso: per avere aiutato gli altri, ottiene la libertà, anche se questo non era il suo scopo durante l'azione. Quando Siro suggerisce a un ragazzo: «lo non voglio che tu dica bugie» 78 , questo non dire bugie è a sua volta parte di un piano astuto. Il dire la verità implicava un'apparente finzione che annullava sé stessa: in questo caso, un ritrarsi della verità che rivelava la verità. Come concludeva Siro: «Mi sento così entusiasta di avere in me tanto potere e la capacità di una così grande trovata: imbrogliarli tutt'e due, dicendo la verità»79. La scaltrezza di Siro, però, suscitava solo il riso 80, così come l'astuzia di Panurge in François Rabelais, che in quel caso Terenzio, Heautontimorumenos, 533-535. lvi, 537-542. «non est mentiri meum» (ivi, 547-549) 77 Così agisce anche la cortigiana intelligente e di buon cuore della commedia nuova, rappresentata dalla Bacchide della Suocera, che aiuta gli altri in modo disinteressato e assume i tratti del pensatore comico - quelli dell'ancella astuta (cfr. Terenzio, La suocera cit., 816-840). Nella sua qualità di amante che si trasforma in amica, ella (e non, come sostiene Cavell, i personaggi di Shakespeare) sembra prefigurare il personaggio femminile principale della commedia hollywoodiana delle seconde noz1.e, che rende l'amore (ancora) possibile quale risultato delle sue macchinazioni. Cfr. S. Cavell, Pursuits of Happiness: The Hollywood Comedy of Remarriage, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1981, pp. 19-20, 48-50 e passim. 78 Terenzio, Heautontimorumenos, 701. 79 lvi, 709-711. 80 lvi, 886-887. 7-4

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era un segno di sollievo e apprezzamento per l'ambiguità adoperata ai fini della risoluzione di un conflitto.

Doppie identi'tà, disconoscimento e fraintendimento L'arte di ottenere la verità apparentemente evitandola fu praticata dalla commedia sino alla raffinatezza. Arrivare a una verità da una falsità era possibile e, in un certo senso, necessario nella commedia, perché la commedia cominciava sempre con un danno che in un primo momento veniva coperto da una menzogna. Inoltre, la comprensione della verità a cui si perveniva alla fine partiva sempre da un fraintendimento. Tuttavia, a differenza della comprensione, che chiudeva una discussione e significava la fine di un'azione, il fraintendimento era fruttuoso e produttivo, e permetteva agli interlocutori di riflettere ulteriormente, e di progredire nella loro ricerca di un lieto fine. Poiché la comprensione è un atto personale, perfino intimo nessuno può capire al posto mio; devo farlo da solo - l'azione comica è avvincente, non è mai noiosa. Ma è anche il costante tentativo di risolvere problemi e mettere insieme i pezzi di un puzzle. La comprensione nella commedia non era arbitraria, dato che, in quanto atto libero, era implicata nel movimento dell'insieme della trama, così come in un determinato problema o in una data situazione dialogica che, pur se in apparenza ambigua e incomprensibile8 1 , suggeriva una risposta priva di ambiguità. Un 'identità ambigua poteva anche essere attribuita da vari personaggi a un'azione o a un oggetto (come un vaso, o un pitale). Questo non mancava mai di suscitare il riso e di complicare una situazione. La comprensione comica aveva dunque come punto di partenza un'ambiguità e un equivoco necessari, atten'tamente ponderati dall'autore e affidati a uno dei personaggi, il quale diventava la mente che muoveva i fili dell'azione. Questa struttura ermeneutica comica è analoga alla struttura del riconoscimento che, come ho già detto, ha sempre origine in un disconoscimento. Per questo motivo la commedia aveva bisogno dell'inganno e di un'identità doppia - fraintesa - come strategia per affrontare l'incertezza di una situazione. Eppure, ciò che era certo era 8'

Un caso analogo è il «doublc-talk» del comico Sid Cacsar.

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che l'incertezza sarebbe stata risolta: alla fine la commedia rivelava il malinteso e - spesso con il contributo di un contrassegno, «simbolo» del riconoscimento - il disconoscimento cedeva il passo a un adeguato riconoscimento. Lo sdoppiamento di un personaggio, ponderato con cura e spesso posizionato in una scena doppia, era uno dei topoi «fallaci» prediletti della commedia. Fingere di essere l'altro è filosoficamente ironico, perché l'ironia è un modo di fingere di tradurre in azione una dichiarazione falsa, mettendo in mostra ciò che è mediante ciò che non è, o mediante ciò che sembra essere altro da ciò che è. Lo sdoppiamento è necessariamente riflessivo, perché consente di distanziarsi e quindi di specchiarsi in un altro reale e scoprire «l'altro all'interno», così come «lo stesso all'esterno» nell'altra persona. L'impiego dei doppi nella commedia permetteva all'autore di mettere in discussione l'idea di un'identità stabile e monolitica, per quanto riguardava sia i personaggi del dramma, sia le persone reali. Diventando - o fingendo di essere - il proprio altro fisico, si rendeva possibile un'identità non identica, che era dunque turbata e fluida, disconosciuta, fraintesa e travisata. L'identità confusa - personale, sessuale o sociale - diventava fonte di errori e incongruenze, che permettevano Io sviluppo dell'intrigo. Lo sdoppiamento comico di sé stessi nel confronto con l'altro mette in dubbio la saldezza dell'identità. Per citare Terenzio, «Come ciascuno dei due somiglia a sé stesso!» 8:z.. Vale a dire, ciascun disputante somigliava a sé stesso e riproduceva sé stesso come personaggio, eppure non coincideva pienamente con sé stesso. Perché, man mano che procedeva l'azione comica, era costretto a riconoscere questa non-coincidenza. Nella commedia, ognuno tentava di rimanere identico a sé stesso, all'immagine che ciascuno ha di tale sé. E tuttavia, ironicamente, ognuno diventava non identico al proprio sé, di modo che ogni personaggio comico era un sé doppio. Il riconoscimento iniziale di sé si rivelava così essere un disconoscimento, uno scambio «carnevalesco» di ruoli 83. Eppure era questo a permettere, alla fine, un adeguato riconoscimento di chi si è- universal82. 83

«quam uterque est similis sui!» (Terenzio, Pbonnio, 501 ). Lo stolto diventa saggio e il saggio stolto; il servo diventa padrone e il padrone servo.

4•

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mente, come esseri umani, e individualmente, riguardo a uno specifico aspetto: sociale, sessuale o temperamentale. La possibilità di un simile riconoscimento, realizzato alla fine in un'azione e di uno sforzo collettivo, conferma, ancora una volta, la giustizia e la bontà della commedia. Sdoppiare un personaggio è anche fonte di intrigo, specialmente quando ad apparire è il proprio altro fisico, un gemello (falso o immaginario). Nel Miles gloriosus di Plauto, uno dei personaggi, la giovane Filocomasio, si presenta nelle vesti della propria sorella gemella, diventando una doppia amante in modo da dare deliberatamente vita a una confusione che si sarebbe risolta nel conflitto drammatico. L'intrigo con un falso adulterio e la risultante nascita di gemelli nell'Anfitrione di Plauto è scatenata da Giove, che assume le sembianze di Anfitrione, apparendo al cospetto della moglie dell'uomo, Alcmene, accompagnato da Mercurio, che è travestito da Sosia, lo schiavo di Anfitrione. Il cambio di abito era un espediente consueto dell'attore, che gli permetteva di assumere ogni tipo di identità provvisoria84. La doppia identità era spesso presentata come una farsa, che, mediante un iniziale disconoscimento, riconduceva un personaggio a sé stesso. Così, per esempio, in Terenzio troviamo un ragazzo, Cherea, che si traveste da eunuco per poi rivestire i panni precedenti o «mutare» 85 . Ne La Qz/andria di Bernardo Dovizi, Lidio e Santilla, fratello e sorella gemelli, venivano a conoscenza della reciproca identità solo alla fine, nonostante la loro notevole somiglianza - dal momento che Santilla vestiva i panni di Lidio86. Nella Dodicesima notte di Shakespeare, Olivia si veste da uomo per poter parlare a Viola dell'amore di Orsino. Di conseguenza, Viola si innamora di Olivia, mentre Olivia ama Orsino e Orsino ama Viola. L'intera opera era una commedia di identità doppie e disconosciute, una «commedia degli errori»: viene ordita una beffa87 ai danni di Malvolio, che è dichiarato matto; il buffone Feste si traveste da prete; e Sebastian, 84 Dione di Prusa, OraZioni I, Il, lll, IV. Sulla Regalità, OraZiotte LXII Sulla Regalità e sulla Tiran11ide, edizione critica, trad. e commento di G. Vagnone, introdu1fone di P. Desideri, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2012, 4.108. 8 s Terenzio, Eumubus, 612: mutare, «cambiare» (le vesti). 86 La Calandria fu scritta sotto l'influsso dei Menecmi di Plauto. B. Dovizi da Bibbiena, Tbe Follies of Calandro, in E. Bcntley (a cura di), Tbe Genius of tbe ltaliatt Tbeatre, Mentor Books, New York 1964, pp. 34-98. 87 «Malizia festosa» («A sportful mal ice»), W. Shakespeare, La dodicesima notte, atto V, se. I, 392.

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fratello di Viola, viene scambiato per Viola, che a sua volta si presenta nelle vesti di un uomo. Quando finalmente, nell'ultimo atto, Sebastian fa la sua entrata e Orsino lo vede insieme a sua sorella Olivia, travestita da giovane uomo (con il nome di Cesario), Orsino non può che esclamare, sgomento, « Un viso, una voce, un abito / E due persone!» 88 . L'identità comica era dunque sempre un'identità doppia. Lo stesso commediografo, come già detto, apparteneva spesso a due culture diverse, il che gli permetteva di distanziarsi da ciascuna delle due e di lavorare proficuamente a cavallo di esse. Questo permetteva all'autore di far emergere quel qualcosa di umano che è comune a tutti noi, che, tuttavia, era mostrato ogni volta in modo diverso a seconda dello specifico contesto culturale. L'attore comico possedeva, in un certo senso, un'identità doppiamente doppia, dato che, da umano in carne e ossa, impersonava un personaggio fittizio - un personaggio che a sua volta spesso si raddoppiava sul palco. Infine, anche lo spettatore, ascoltatore o lettore aveva una doppia identità, perché pur capendo l'ambiguità di una situazione che non era comprensibile ai personaggi in scena, era anche trascinato nell'azione, di cui aveva previsto un esito che ancora non conosceva precisamente. In questo senso, lo spettatore è un doppio del personaggio. Ma, cosa più importante, a differenza dei personaggi comici, lo spettatore capiva che l'azione comica era fittizia, e tuttavia la accettava come significativa e rivelatrice di una verità che riguardava la vita di tutti, e dunque anche la propria.

Un caso di studio Sganarello di Molière. La commedia giovanile di Molière Sganarello, o il cornuto immaginario è un fine esempio di funzionamento delle scene e dei personaggi doppi, così come dell'identità fraintesa e disconosciuta89. L'intrigo si basa sull'imputazione di un'infedeltà, la cui risoluzione arriva alla fine, quando si dimostra essere un mero equivoco e un inganno teso a rivelare il vero amore. La trama della commedia, che aveva la meglio sui personaggi (accoppiati con i nomi di Célie e Lélie), era ben concepita, ben ponderata e ben costruita: rivelava 88

Ivi, 229-230. J.-B. Molière, Sganarelle ou le cocu imagi1,aire, in Id., CEuvres comp/ètes, prefazione di Pierrc-Aimé Touchard, Scuil, Paris 1962, pp. 112-121. 89

4. STRUTI1JRA

I! ARGOMl!NTI Dl!LLA COMMl!DIA

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un'argomentazione strutturata nei minimi particolari, che si articolava in una serie di passaggi presentati attraverso il dialogo: (1) Gorgibus, un padre scontroso, vuole che sua figlia Célie sposi Valère, un uomo ricco che non appare mai in scena; ma Célie ama Lélie. (2) Célie si lamenta del suo destino, lascia cadere un ritratto di Lélie (il contrassegno che porta al fraintendimento e al successivo riconoscimento della giusta identità), e sviene. (3) Sganarelle vede Célie e, con l'intenzione di aiutarla, la prende tra le braccia. (4) La moglie di Sganarello lo vede con Célie, senza che lui se ne accorga. (5) Di conseguenza, la moglie diventa sospettosa di Sganarelle, convinta che abbia una relazione con Célie. (6) La moglie trova il ritratto di Lélie e loda la bellezza dell'uomo raffigurato; Sganarelle vede sua moglie con in mano il ritratto di un altro uomo, senza essere da lei visto. Sganarelle si fa avanti e dichiara il suo sospetto alla moglie, che, tuttavia, non capisce di cosa stia parlando. (7) Torna in scena Lélie, che ha sentito parlare del fidanzamento di Célie con un altro uomo. (8) Lélie, di conseguenza, è geloso. (9) Sganarelle, che toglie alla moglie il ritratto di Lélie, guarda il ritratto e comincia a offendere la persona raffigurata. Lélie, non visto da Sganarelle, lo scambia per il nuovo fidanzato di Célie, che avrebbe donato il ritratto a Sganarelle come pegno d'amore. Sganarelle dice a Lélie che la donna che gli ha dato il ritratto (la moglie di Sganarelle) è sua moglie, e Lélie pensa che si tratti di Célie. (1 o) Lélie, di conseguenza, soffre. (11) La moglie di Sganarelle vede Lélie, che sta quasi per svenire, e si decide ad aiutarlo. (12) Sganarelle si lamenta con un parente di aver visto sua moglie con il ritratto di un altro uomo, fatto che Sganarelle ha preso per un segno di infedeltà. (13) Sganarelle, di conseguenza, soffre. (14) Sganarelle, sua moglie e Lélie pensano tutti di essere stati traditi. (1 5) Lélie è geloso e invidioso di Sganarelle, nuovo marito immaginario di Célie. (16) Sganarelle dice a Célie che Lélie sta avendo una storia con sua moglie. Célie, di conseguenza, soffre. (17) Anche Sganarelle soffre, e si lamenta della presunta infedeltà di sua moglie, che ne fa un cornuto immaginario. (18) Célie, desolata, accetta di sposare Valère, l'uomo che suo padre vuole che sposi. (19) Célie racconta alla sua domestica la presunta infedeltà di Lélie. (20) Célie e Lélie si rinfacciano a vicenda le rispettive infedeltà, ma nessuno dei due capisce il rimprovero dell'altro. (21) Sganarelle vuole vendicarsi ed è intenzionato a uccidere Lélie, ma ne è al contempo (in modo comicamente ambiguo) intimorito. (22) Célie rimprovera Lélie un'altra volta, il che viene preso da Sganarelle

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SECONDA PARTI!. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

come un segno di supporto in merito alla sua intenzione di punire Lélie, mentre Lélie lo prende per un segno della benevolenza di Célie verso Sganarelle. È l'apice della complicazione della trama. Regna una totale confusione: ogni personaggio assume la falsa identità di traditore agli occhi di un altro. (22) Quattro personaggi accoppiati, Célie, Lélie, Sganarelle e sua moglie, sono dunque tutti convinti di essere stati traditi da moglie, marito, fidanzato e fidanzata. La risoluzione del conflitto non è data da una casualità, ma è attuata dalla serva, che funge da maestro dialettico che scopre la verità e rimette le cose in ordine ponendo le giuste domande. Di conseguenza, Célie, Lélie, Sganarelle e sua moglie capiscono tutti di essersi sbagliati. (23) Célie si pente della sua decisione di sposare un altro uomo. Gorgibus, il padre di Célie, si indigna quando scopre che Célie e Lélie rifiutano il matrimonio di Célie con Valère, ormai organizzato. (24) Compare il padre di Valère e informa tutti che Valère si è sposato in segreto, il che elimina l'ostacolo alle nozze di Célie e Lélie. Tutti sono dunque felici e ben nessi. Un lieto fine, c.v.d.

Abbattere la quarta parete

L'azione comica dunque presuppone un iniziale disconoscimento, un'identità fraintesa e quindi un'illusione e una finzione che necessita di essere ugualmente superata dall'illusione e dalla finzione dell'azione drammatica. La commedia dice una verità ritrattandola o sospendendola in un atto di deliberato equivoco e disconoscimento, con lo scopo di rivelare successivamente la verità dell'essere umano e la vera identità di una persona, stabilite da uno sforzo comico collettivo. L'errore genera un'illusione, e occorre che l'illusione sia rivelata e corretta. Pertanto, l'errore è necessario alla trama comica90. Quando, nel Punitore di se stesso di Terenzio, Menedemo decide risolutamente di aiutare il suo figliol prodigo - elargendogli denaro - e chiede: «Cosa dovrei fare?», Cremete risponde: «Qualunque cosa, tranne quello che pensi: che tu glieli dia per mezzo di un altro qualsiasi, che ti lasci raggirare da un servo qualunque»9 1 • E Mene90 9'

A. Heller, Immortal Comedy cit., pp. 44, 49-51, 65. Terenzio, Heautontimorume,ios, 469-471.

4. STRUTTURA

E ARGOMENTI DELLA COMMEDIA

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demo concorda: «[T]i sei accorto che stavano organizzando per imbrogliarmi: che si sbrighino a farlo» 92. Ma suo figlio e i suoi complici vogliono imbrogliarlo in un modo diverso da quello che egli pensa. Menedemo sa che sarà raggirato, ma viene ingannato sulla modalità con cui si sarebbe presentato l'imbroglio. Egli quindi progetta una contromisura a cui sfugge di mano l'inganno pianificato, ma che proprio per questa ragione si rivela funzionale. La doppia azione comica è riflessiva ma manca sé stessa nel suo riflesso, precisamente perché è doppia, e dunque sempre e inevitabilmente un «riflesso deformato». Una doppia azione implica dunque una contromisura pianificata per essere una non-azione, I' «altra» azione, concepita in modo da tenere in considerazione l'azione ordita contro di essa. Tuttavia, nella commedia non tutto può andare bene. Essa si serve dei mezzi e degli espedienti più svariati per promuovere il benessere umano. Tuttavia evita la falsità assoluta. Ciò nonostante, spesso dice e mostra la verità ritrattandola o sospendendola, per rendere alla portata di tutti, anche di chi apparentemente non la merita, una vita degna di essere vissuta. Così, alla fine dell'Eunuco di Terenzio tutti si ritrovano a essere messi bene, anche il soldato balordo e il suo parassita, che in apparenza ha tradito il suo cliente, ma in realtà l'ha reso felice93. La verità nella commedia non viene mai detta in modo diretto, ma viene dimostrata nel corso dell'intera azione comica sia mediante il racconto e la messa in pratica della verità, sia attraverso un apparente evitamento della verità che, così facendo, la rivela. Sia il personaggio che rivela la verità, sia gli spettatori, anche se non necessariamente gli altri attori, sono al corrente di questo trattenimento della verità mirato al suo svelamento. Ma la verità, che all'inizio era inestricabile, alla fine risulta evidente a tutti. In quanto invenzione di un autore, l'azione comica è fittizia. Eppure ci aiuta a sbarazzarci di illusioni che ostacolano la vita e da pratiche ossessive, promuovendo il benessere umano. Un'oppressione illusoria è pur sempre un'oppressione94. E la lotta contro l'oppressione, anche se questa è illusoria, richiede coraggio, che è sempre reale nella sua risolutezza. La libertà di parola è pericolosa, perché l'atto di dire la verità irrita gli altri, dal momento che si scontra con le 91 93 9 (Menandro, Aspis 147-148).

SECONDA PARTE. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

que «inaffidabili» 103. Pur essendo cieca, ella è capace di vedere, la qual cosa non ci è immediatamente nota, ma si chiarisce alla luce delle azioni del fato. Il fato può rendere schiavi, ma anche liberare, il che spiega perché la vita assomiglia a un gioco di dadi. La sorte può essere crudele, ma anche benevola, il che può apparire frutto di indiscriminata casualità, nonostante, diversamente da quanto capita con la tragedia, l'indulgenza del fato rende giustizia a coloro che la meritano. Come affermava Terenzio in una gnomeoe diventata poi proverbiale: «La fortuna favorisce [aiuta] gli audaci» 104 • Questa prevedibile imprevedibilità del fato, che comprende anche la sua eventuale positività, è tipica della commedia 105. Alcuni critici hanno visto un segno di fiacchezza della commedia nuova nel fatto che a guidare la trama sono spesso eventi contingenti - come il riconoscimento dell'identità di una persona grazie all'improvvisa apparizione di un contrassegno, prova che porta alla risoluzione «catastrofica» del conflitto. Ciò nonostante, è proprio la contingenza ad attestare l'universalità della commedia, in quanto la commedia rivela l'universale mediante il particolare, il che include la contingenza legata ai personaggi, agli eventi e al fato. Nella commedia, come nella vita, ogni azione e personaggio è guidato tanto dal fato che dalla necessità. Il fato comico degli umani si manifesta sia come caso, sia come necessità, perché il fato aiuta a stabilire ciò che è già previsto nella trama. Come diceva Cremete, «Quante volte succede per puro caso ciò che non oseresti desiderare!» 1 o6. Il caso dunque esprime l'indecisione e la necessaria concretezza di situazioni in cui i personaggi comici sono costretti ad agire e a prendere decisioni volte alla risoluzione di un conflitto. Questa indeterminatezza genera paura, ma la si può superare con la risolutezza, il coraggio e la fiducia negli altri, nell'ambito di un'azione condivisa 107. «apista», «poli' esti11 erg' apista ...tyches» (Menandro, Perikeiromene, 372). «fortis fortuna adiuvat», pronunciato dallo schiavo Geta. Terenzio, Phormio, 203. 10s Come affermava un giovane nelle Don11e che bevono la dcuta di Menandro, «A torto [ho insultato] la Fortuna. L'ho accusata [di essere cicca, ma ora mi ha salvato,) dimostrando, parrebbe, di vederci almeno un po'. [Mi davo da fare,] ma con i miei sforzi [non] progredivo [di un passo.] Non avrei ottenuto questo risultato [senza il suo ausilio.] Nessuno pertanto, in nome degli dèi, si scoraggi mai troppo se le cose gli vanno storte: questo può diventare causa di un bene» (Kot,eiazomenai, 13-15). 106 Terenzio, Phormio, 757-759. ia, Cfr.: «Non temere: saremo con te nella buona e nella cattiva sorte» (noli metuere: u11a tecum bo11a mala tolerabimus), dice Antifone a Geta, che sta per tessere un complesso intrigo ma ha timore delle conseguenze impreviste. Terenzio, Phormio, 556. 103 1"4

4. STRUTI1JRA

H ARGOMENTI DELLA COMMEDIA

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Inoltre, mentre la commedia permette un adeguato riconoscimento cli distinzioni quali nascita, genere, rango sociale e lingua, consente anche la loro sospensione a favore del benessere umano, che si configura già non come contingente, ma come necessario. La necessità del fato comico corrisponde a quella del finale positivo: ovvero, il benessere nella forma dell'essere insieme agli altri. La commedia giunge allora ad una risoluzione che è parimenti determinata dagli uomini in quanto uguali - un riconoscimento che avviene mediante l'azione comica, dialogica e «dialettica». Pertanto, nella commedia la presenza del fato è contingente e necessaria. L'azione comune è sempre possibile, anche sotto il «sortilegio» del fato. Questo perché è sostenuta dagli altri, che pure devono agire in una situazione di contingenza e necessità. Ma nella commedia c'è bisogno che ci sia almeno un personaggio comico esperto e abile, che accetti di assumersi la responsabilità della contingenza di questa azione comune e cerchi di cambiarla. Come affermava Terenzio, «La vita degli uomini è come un gioco di dadi: se col tratto non ti viene proprio quello che ti ci vuole, quello che ti è capitato, cerca di correggerlo con la tua abilità» 108 • Il fine della commedia è il superamento della pura contingenza e della cieca necessità. Ogni persona, malgrado la sua mancanza di predeterminazione, dovrebbe essere libera. Ognuno nella commedia dovrebbe diventare uno stoico: capace di riconoscere ciò che si può e non si può cambiare e dunque accettare e sopportare il proprio fato, cercando allo stesso tempo di migliorare la propria situazione nella misura in cui è possibile discernerla e cambiarla. E, in questo modo, la commedia permette sempre la libertà, in quanto fornisce uno spazio all'improvvisazione e alla partecipazione, alla comprensione e all'interpretazione, e, dunque, alla vita, in un dialogo aperto (sul palco) che include gli altri.

108

Terenzio, A11dria, 739-741.

5. La catastrofe del finale positivo

L'epilogo è la «catastrofe» della commedia. Apparentemente ossimorico, il lieto fine catastrofico è il tratto distintivo fondamentale della commedia e riposa sul principio del «tutto è bene quel che finisce bene», che fu formulato dalla commedia nuova molto prima di Shakespeare. Occorre dunque chiarire il significato delle parole «finale» e «positivo».

Tutto è bene quel che finisce bene

I conflitti più aspri possono essere risolti nella commedia, che, attraverso la sua struttura e i suoi espedienti, offre modalità sempre nuove per trovare soluzioni efficaci alle controversie e ai malintesi umani. Nella commedia, come sosteneva Aristotele, i nemici lasciano il palcoscenico come amici e, a differenza di quanto avviene nella tragedia, nessuno muore a causa dell'azione di altre persone 1 • Euripide aveva già prefigurato il finale positivo tipico della commedia in alcune sue tragedie. Nondimeno, nel suo percorso di emancipazione dalla morte tragica quale punto terminale dell'azione, la commedia conservava le tracce del «finale negativo» tipico della tragedia. Pertanto, quando il prete de La dodicesima notte shakespeariana vuole indicare che erano passate due ore, afferma: «Da allora il mio orologio dice / che ho viaggiato appena due ore verso la morte»2.. ' Aristotele, Poetica cit., 1453a36-39. ,. W. Shakespeare, La dodicesima 11otte, atto V, se. I, 174-175. Nella commedia di Shakespeare, il geloso Orsino è pronto a uccidere Cesario (ivi, 123), l'impostore di cui Olivia si innamora e che è in realtà Viola nelle vesti di un giovane uomo. Shakespeare si sta riferendo alle Etiopiche di Eliodoro (lii scc. d.C.), popolare nel Rinascimento; lì, Teagene

SECONDA PARTI!. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

Eppure nella sua interezza la commedia non può che finire bene, con autentici riconoscimenti, sposalizi e la celebrazione dell'amore. La commedia ha un inizio infausto, ma un buon finale. Nonostante il pessimo trattamento che gli esseri umani si riservano tra loro - che è all'origine del dramma umano- essi possono pervenire a una coesistenza pacifica. È qualcosa che richiede uno sforzo collettivo e l'utilizzo di espedienti comici. La commedia comincia sempre (nella protasi) con una complicazione generata dagli uomini: un conflitto di interessi, un atto illecito, una violazione delle norme o un crimine3. In seguito giunge a una risoluzione che è ugualmente frutto dell'azione umana, e tuttavia non spunta fuori dal nulla quale intervento di un deus ex machina: pur essendo sostenuta dal caso, si tratta di una soluzione accuratamente ponderata a un problema che si inserisce in una complessa «argomentazione» comica. Come afferma Corrigan, «L'ostilità, la frustrazione, la malizia, la lussuria, il pregiudizio e l'avidità possono abitare il mondo della commedia, e lo abitano, ma queste forze divisive vengono sempre superate»4. L'epilogo comico è un atto «catastrofico»: opera un letterale «rovesciamento» della commedia, «ritornando» all'inizio nel finale con la risoluzione di un conflitto. La commedia dunque risolve un apparente paradosso riguardo all'incessante e disperata tensione umana verso la felicità: che se uno desidera disperatamente di essere felice, non potrà mai diventarlo5. La commedia permette di raggiungere la felicità alla fine, proprio come risultato di quella tensione disperata. Il finale comico è già implicitamente presente all'inizio, nelle «premesse» della protasi. In questo senso, di nuovo, il finale comico somiglia a una conclusione matematica o logica, che è già implicitamente (analiticamente) contenuta nelle premesse ed è raggiungibile attraverso i passaggi della dimostrazione o della costruzione. Inoltre, è sempre possibile tornare indietro all'inizio, al conflitto originario, e reinterpretarlo dalla prospettiva della fine. L'inizio e la fine di una commedia sono dunque reciprocamente raggiungibili in un doppio tenta di uccidere la sua amata Cariclea, piuttosto che permettere che sia catturata. Tuttavia, Le Etiopiche hanno un finale comico: l'inevitabile matrimonio dei due protagonisti. 3 Un esempio nel Perikeironze,ie di Menandro era la tosatura della testa di una donna, che era un'umiliazione e un'offesa grave. 4 R.W. Corrigan, Classica/ Conzedy cit., p. 70. 5 Cfr. Ctesifonte in Terenzio: «Ho un gran desiderio di passarmi questo giorno in perpetua allegria, così come ho cominciato» (Andria, 52.1-52.:z.).

5•

LA CATASTROFI! DEL FINALE POSITIVO

movimento dove la fine sospende e trasforma l'inizio in modo esplicito, mentre l'inizio contiene e determina la fine implicitamente. La possibilità del benessere

Ma come e perché è possibile un finale positivo? Il «come» lo fornisce la struttura dell'argomentazione comica. L'affermazione secondo cui nella commedia si può raggiungere un (buon) finale può essere letta almeno in due modi: o come una dichiarazione la cui validità va dimostrata per mezzo di un'argomentazione filosofica, o come una situazione che viene concretamente realizzata grazie a una serie di azioni ed eventi, dove alla fine si consegue il benessere umano con l'aiuto di mezzi comici. È nel secondo senso che si ottiene il finale comico: la commedia determina il benessere umano alla finé, e ci arriva attraverso dei passaggi ben ponderati, servendosi dei topoi che ho analizzato. Anche se gli espedienti comici sono nel giusto ordine, ciò non garantisce che un finale positivo sarà effettivamente raggiunto. Eppure, nella commedia un finale positivo c'è sempre. Ma questo finale appare paradossale, perché conosciamo già l'esito della commedia, e ciò nonostante la seguiamo con interesse. Sappiamo che la commedia dovrebbe finire bene, e che così andrà, ma non sappiamo come approderà a un buon finale. Come in una vita ben vissuta, la commedia non è mai noiosa - poiché, sebbene la sua fine sia sempre la stessa, l'azione è sempre diversa. Il finale positivo ha dunque un carattere ossimorico di «repentinità anticipata» - è un segreto ben noto, una sorpresa che ci si aspetta sempre?. Il «come» di un finale positivo si fonda sull'abilità dei personaggi nel collaborare, non solo per il proprio bene ma anche per quello degli altri, e quindi per quello comune. A differenza delle loro controparti tragiche, i personaggi comici non sono eroi sublimi che agiscono al Il benessere o la felicità dovrebbero essere considerati dalla prospettiva dell'interezEtnica Nicomachea 1098a15-20. 7 Come sottolineò Antonio Sebastiano Minturno nell'Arte poetica cit., p. 118: «(È) proprio di questo Poeta [il poeta comico] il dar lieto e piacevole fine alla Favola; il che mai non farebbe, se meraviglia non inducesse, meravigliose stimi le cose, che fuori di ogni nostra opcnione avvengono». 6

1.a di una vita. Vedi Aristotele,

SECONDA PARTE. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

limite delle possibilità umane, ma gente comune di ogni ceto sociale. Insieme ai consueti limiti umani - come la stupidità e l'incapacità di elevarsi al di sopra del più immediato tornaconto personale, oltre a manchevolezze come avidità, invidia e vanità - i personaggi comici dimostrano sempre - soprattutto alla fine - di essere capaci di umanità, gentilezza ed empatia 8• Questo umanesimo duraturo è dunque un segno distintivo della commedia nuova e di quella moderna. Di conseguenza, il lieto fine della commedia, che supera, o almeno sospende, la sofferenza umana, è possibile in virtù della benevolenza reciproca delle altre persone. I personaggi nella commedia si adoperano per raggiungere il lieto fine, anche se spesso manca loro una comprensione delle proprie azioni. Attraverso l'azione comune nella prospettiva di un lieto fine, la commedia permette la realizzazione dell'essere umano come co-essere comico, ovvero come essere in dialogo con gli altri. La bontà umana non è tuttavia un dato (Gegeben, per usare un termine caro a Kant). In realtà, all'inizio della commedia, la bontà umana appare piuttosto improbabile: è dunque un compito che va eseguito (Aufgegeben). La bontà non è parte integrante di una «natura umana» sempre uguale a sé stessa, ma deve essere realizzata e elaborata insieme agli altri, migliorata dallo sforzo comune e guidata da un personaggio comico. Un lieto fine si verifica per mezzo della bontà umana, che nella commedia non è né garantita né data per assunta, ma è possibile. La bontà della commedia consiste, allora, nella sua capacità di superare la sofferenza e di fornire spunti su come farlo. AI grado minimo, Io scopo dell'azione comica dovrebbe essere quello di fare in modo che nessuno si faccia male o faccia del male agli altri. Tuttavia, la commedia ottiene risultati ben più soddisfacenti. La bontà intrinseca della commedia consiste nella sua capacità di generare una completa apokattistasis: la ricostituzione, la restaurazione e il recupero da un misfatto originario, che consente il benessere anche agli scontrosi e agli ignoranti; è così che giunge, spesso senza neanche saperlo, a un lieto fine apparentemente immeritato, che è una grazia che proviene dagli altri. Arrivati a questo punto - alla fine - si ottiene e si celebra il «presente assoluto» (per usare un termine della Heller)9 dell'altra persona, allo stesso modo in cui l'epica celebra e ripete all'infinito il racconto del «passato assoluto».

8

9

Un esempio sono i Due fratelli di Terenzio. A. Heller, lmmortal Comedy cit., pp. 13-14.

5.

LA CATASTROFI!. DRL FINAI.R POSITIVO

Questo «presente assoluto» tuttavia non si realina una volta per tutte, ma solo momentaneamente, e per questo deve essere costantemente preservato e rinnovato, come se si trattasse di un compito da assolvere. I momenti di benessere (un amore andato a buon fine, una libertà ottenuta, un'aspirazione concretizzata) non durano a lungo e bisogna riconquistarli e rinnovarli a più riprese, come avviene con la stessa vita umana. Perché il bene, nella commedia come nella vita, si presenta sempre come un bene, raggiungibile non mediante la fortuna, ma per mezzo di uno sforzo ragionato e condiviso. La stessa transitorietà del «presente assoluto», apparentemente un segno dei nostri limiti, è un tratto favorevole della commedia. Essa ci permette di vivere senza annoiarci per il continuo ripetersi dello stesso sotto forma di finale positivo.

La normativi"tà della commedia La commedia finisce bene e deve per forza finire bene, perché il lieto fine è implicito nella nozione stessa di commedia. Ma la commedia non è un meccanismo edonistico di soddisfazione dei desideri, aprioristicamente programmato per risolversi in un appagamento di sogni e smanie. La commedia rappresenta, riproduce e descrive («imita») le vicende umane. Ma opera anche una «distillazione» della vita, rappresentandola sul palco. Essa è dunque anche normativa: prescrive l'esito da raggiungere e suggerisce una linea d'azione che porti al benessere umano. Tuttavia, ancora una volta, anche se il finale comico conferisce significato all'insieme dell'azione della commedia, la fine non è inevitabile, ma è un compito normativo a cui adempiere. Nulla garantisce che l'esito sarà davvero raggiunto, anche se la «giustizia» della commedia, la parità tra le persone e il loro benessere con gli altri sono sempre possibili come conseguenza di un'interazione dialogica imparziale 10 e di un'azione (politica) comune. Nella commedia siamo mossi da un senso di giustizia, ovvero dal senso che noi e gli altri dovremmo stare beneII. Nemmeno all'autore è permesso di violare il requisito dell'esito positivo. Per esempio, nel Volpone di Ben Jonson il personaggio principale tenta di «aequo animo", Terenzio, Andria, 503. «La commedia procede di solito verso un lieto fine al quale generalmente il pubblico reagisce dicendo "così dovrebbe essere",. (N. Frye. Anatomia della critica cit., p. 2.22). 10 11

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SECONDA PARTI!. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

estorcere denaro agli altri fingendo di essere gravemente malato e promettendo di lasciare la sua fortuna a ciascuno di loro dopo la sua dipartita. Alla fine, la truffa veniva smascherata e l'autore punisce Volpone spedendolo in prigione e facendolo soffrire di quegli stessi malanni che si era inventato. Tuttavia, con sua grande sorpresa, Jonson scoprì che gli spettatori consideravano questa punizione eccessivamente crudele e disgustosa - era infatti incompatibile con l'idea stessa di commedia 12•

Riflessione: il finale positivo e la conoscenza La commedia non si limita a offrire i mezzi per raggiungere un finale comico; essa comporta anche una presa di coscienza della possibilità di realizzarlo. Pertanto, ne La suocera di Terenzio, il giovane Panfilo non osa rivelare a suo padre tutta la storia del suo amore per Filomena, con cui nel frattempo si è felicemente sposato. Come afferma Panfilo: «Non vorrei che succedesse qui come nelle commedie, dove tutti risanno tutto. Qui, quelli che devono saperlo, lo sanno; quelli che non devono, né lo scopriranno, né lo sapranno» 1 3. Prescindendo dal suo significato oggettivo, questa battuta è un'allusione comica, doppiamente autoriflessiva, al genere stesso della commedia, dove si riflette sulla sua capacità di risolvere un iniziale conflitto (amoroso) servendosi dell'intera trama, in cui un errore originario alla fine viene svelato, esposto e rimediato. Era proprio a questo punto, nel finale, che uno degli eroi principali descriveva la commedia come un dispositivo che permette alle persone - sia i personaggi, sia gli spettatori-lettori - di conoscere. Si tratta di conoscere il modo in cui gli altri agiscono nel corso della commedia, ma anche di una conoscenza di sé stessi. È dunque una conoscenza riflessiva, o una autocoscienza, ottenuta per mezzo della conoscenza degli altri 11 T.G.A. Nelson, Comedy cit., p. 97; B. Jonson, Volpone, or the Foxe, atto V, se. Xli, in Ben Jonso11, voi. V, cit., pp. 130-136. Volpone è un esempio di una tipologia di commedia dove chi commette malefatte viene escluso dalla condivisione con gli altri del benessere, che è il senso del suo castigo. Altri esempi sono Tartuffe, L'Avare, Le Misanthrope di Molière, The Double Dealer di Congreve, The School for Scatuial di Sheridan, li bugiardo di Goldoni, Der zerbroche11e Krug di Kleist, Der Biberpelz di Haupttnann e Anatol di Schnitzler. Sono grato a Mark Roche per avermi segnalato questa distinzione. 1 3 Terenzio, La suocera cit., 866-868.

5.

LA CATASTROFE DEL FINALE POSITIVO

e della comunicazione con essi. In altre parole, chi ha bisogno di sapere corrisponde a chi ha voglia di sapere - ovvero di scoprire o arrivare a conoscere come le cose andranno a risolversi per mezzo di azioni di umana bontà, anche se tali azioni sono inizialmente ingarbugliate dalla presenza di qualche errore o atto illecito. Fin dal principio, come e cosa siano le cose umane è qualcosa che si conosce già. Ciò che spesso manca è proprio la consapevolezza del fatto che le si conosce, ed è possibile scoprirlo in un'interazione (comica) con altre persone che procede verso una risoluzione e un lieto fine. In questo senso, lo sviluppo della trama comica offre, nel suo complesso, la possibilità quasi platonica - o socratica - di un'anamnesis, o «reminiscenza», di come sono le cose sono, nonché di come possono e dovrebbero essere: nella commedia della vita tutti dovrebbero arrivare a stare bene, e le cose dovrebbero finire per essere semplici e intellegibili. Nella sua giustizia e bontà, la commedia scioglie i nodi, in apparenza irrevocabilmente aggrovigliati, delle vicende umane. Ma cosa significa «positivo» nel finale positivo della commedia? Come sosteneva Aristotele, a definire i diversi tipi di discorso retorico sono i loro specifici finP4. Analogamente, ogni forma di dramma e di azione è definita dal suo scopo preciso. Ogni azione può avere un fine, ma solo la commedia ha come scopo il ben-essere umano e la celebrazione della bontà. Come nella vita, la risoluzione di un conflitto alla fine di una commedia appare ogni volta diversa e provvisoria, anche se registra sempre un momentaneo trionfo, quando le persone giungono al loro essere (comico), che si manifesta come un co-essere insieme agli altri.

Amore e vita: l'essere per la vita Autonomo, monologico e singolare, il soggetto moderno è condannato alla solitudine e va incontro a una fine inevitabilmente tragica. Il suo modo di essere è l'essere-per-la-morte15 • Al contrario, l'essere •• Il fine del discorso giudiziario è il giusto (dikaion ); il fine del discorso deliberativo è il bene (agatho11); e il fine del discorso epidittico, o declamatorio, è il bello (kalon ). Aristotele, Retoricacit., 1358a36-1359a2; 1391b18-1392a. •s Sul Sei,i zum Tode, cfr. M. Heidegger, Sei,i und Zeit, Max Niemeyer, Tiibingen 1993 (17. Aufl.), pp. 235-267 (sect. 46-53). Ad es. «Der Tod ist eigenste Moglichkeit des Daseins» p. 263, ccc.

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comico è condiviso da tutti i partecipanti della commedia. Anche se non è semplice da realizzare, l'essere comico è lo stare bene a cui si può accedere solo attraverso uno sforzo congiunto. Se la tragedia celebra la morte e la finitudine umana con il pretesto della mortalità, la commedia celebra la vita nelle sue varie forme e promuove il benessere insieme agli altri con il pretesto di un rinnovamento vitale16• Nella commedia ciò che è apparentemente irreversibile può essere invertito. Facendo mostra di ciò che di buono c'è nell'umano, la commedia ci insegna a vivere. Quando, nel Punitore di se stesso di Terenzio, il giovane Clitifone soffre - o crede di soffrire - per «the slings and arrows of otrageous fortune», ossia per un amore apparentemente non corrisposto e per una perdita dei mezzi di sussistenza, suo padre, Cremete, gli dice: «Prima impara cosa significa vivere. Quando l'avrai imparato, se la vita non ti piacerà, allora prova l'altra soluzione [la morte]» 1 7. E tuttavia, quando si impara a vivere attraverso la commedia, ci si accorge che vale la pena vivere la vita. Perché rende la morte superflua e, di fatto, impossibile. La morte sembra essere irrevocabile, fino a quando non è rovesciata dal rinnovamento della vita, che ne fa niente più che un evento comico all'insegna del «come se». È per questo che la commedia fa spesso uso di false morti e resurrezioni, così come di finte malattie e improvvise guarigioni (vedi Il malato immaginario di Molière), che sono varianti del topos fallace della doppia azione 18• Il modo di essere comico è dunque vivo, in quanto è un essere-per-lavita. Perché possa continuare, la vita deve essere comica. Il riso, il motto, lo spirito e l'umorismo Molti studiosi sottolineano la centralità del riso nella commedia19. Il riso è piacevole e scontato, anche se non facile da afferrare. Inoltre, è una chiara indicazione del fatto che si sta bene e si è vivi. Per questo il riso condivide e connette i tratti che generalmente con16 O, nei tennini di Schopcnhauer, la commedia è l'affermazione della volontà di vivere, mentre la tragedia ne è la negazione: A. Schopcnhauer, Die Welt als Wille u,rd Vorstelhmg cit. 17 «prius (... ) disce quid sit vivere» (Terenzio, Heautontimorume,ios, 971-972.). 18 A. Heller, lmmortal Comedycit., pp. 3, 38. 19 Vedi F.G. Jiinger, Ober das Komische cit., pp. 68 sgg.

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traddistinguono la commedia, ovvero la sua propensione all'assurdità e alla trasgressione, nonché alla vitalità e al rinnovamento vitale. Come con la commedia, sono stati fatti molti tentativi di capire e definire il riso. Per esempio, il Tractatus Coislinianus considerava il riso (gelos) come la «madre» della commedia zo. Anche Giovanni Tzetzes, un commentatore bizantino del dodicesimo secolo, sottolineò come la commedia fosse «plasmata dal riso e dal piacere» 21 . Per Giraldi il riso era il mezzo, al contempo purgativo e istruttivo, a cui la commedia si affidava per migliorare le vite delle persone. Tra gli scrittori moderni l'essenzialità del riso per comprendere la commedia è spesso stata data per scontata 22. D.H. Monro ha fornito una calzante classificazione dei vari tipi di teorie del riso: superiorità, sollievo e incongruenza, o una loro combinazione23. Come è noto, Thomas Hobbes sosteneva che il riso si

20 Tractatus Coislinia11us, IV. Vedi W. Watson, The Lost Seco,ul Book of Aristotle's Poetics, The University of Chicago Press, Chicago 2012, pp. 183 sgg. :u G. T:r.etzes, Primo proemio ad Aristofane, in P. Lauter (a cura di), Theories of Comedy cit., pp. 33-34; p. 33: «La commedia è l'imitazione di un'azione [che è risibile] ... purgante delle emozioni, costruttiva della vita, modellata dalle risate e dal piacere. La tragedia differisce dalla commedia nella misura in cui la tragedia contiene una storia e un resoconto di cose [o di "fatti") che sono passate,sebbcne le rappresenti come avvenimenti del presente, ma la commedia abbraccia le rappresentazioni degli affari della vita quotidiana; e questo in quanto lo scopo della tragedia è muovere gli ascoltatori al lamento, mentre lo scopo della commedia è quello di muoverli al riso». Vedi anche S. Halliwell, Greek Laugbter. A Study of Cultura/ Psycbo/ogy {rom Homer to Early Cbristianity, Cambridge University Prcss, Cambridge 2008, pp. 243-263. u Vedi, per esempio, W.H. Auden, Notes 011 tbe Comic, in R.W. Corrigan, Comedy, Mea11i11g a,ul Form cit., pp. 61-72; H. Plessner, Pbi/osopbiscbe Anthropologie. Lacben und Weinetz; Utcheln; Anthropo/ogie der Sinne, a cura di G. Dix, S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1970, pp. 88-101; V. Stembcrg, Lapoétiquede la comédiecit., p. 140; M. Meyer, Le comique et le tragique. Penser le théatre et son histoire, PUF, Paris 2003, pp. 71 sgg. Vedi anche R. Waming e W. Preisendanz (a cura di), Das Komiscbe, Fink, Miinchen 1976. "3 Monro elenca (1) la superiorità, (2) la liberazione da una costrizione (il sollievo), (3) l'incongruen:r.a e (4) l'ambivalen:r.a. L'incongruen:r.a e l'ambivalenza sono concetti piuttosto vicini, come sosteneva Morreall, e quindi possiamo considerarli sotto la stessa categoria. D.H. Monro, Argument of Laughter, Melbourne University Press, Melbourne 1951, pp. 83-231. Vedi anche J. Morreall, Taking Laugbter Seriously, State University of New York Press, Albany 1983, pp. 15-19. Manfred Frank ha mostrato come per Ticck il comico nasca da una contraddizione nella perce:rione che il soggetto ha dei propri scopi o delle proprie intenzioni: M. Frank, Vom Lacbe11. Uber Komik, Witz und Ironie. Uberlegungen im Ausgang vo11 der Frllhroma11tik, in T. Vogcl, Vom Lacben. Einem Phll11omen auf der Spur, Attempto, Tiibingen 1992, pp.2n-231.

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accompagna sempre a un senso di presunta superiorità2.4. E tuttavia tanto la superiorità quanto il piacere che ne deriva devono essere riconosciuti come tali, e possono essere riconosciuti in modo del tutto diverso da chi si sente superiore, da chi viene denigrato, e dagli spettatori (se ce ne sono). Perché la superiorità è presunta, e può essere percepita in modi reciprocamente incompatibili dalle diverse parti in causa. E, se c'è questa incompatibilità, il riso diventa ambiguo e può non avere alcun oggetto. Come espressione di (presunta) superiorità, il riso è denigratorio e maschera un'implicita aggressione. È a questo proposito che Gotthold Lessing distingue tra riso simpatetico e derisione, Lachen e Ver/achen 2 s. Il riso che si fonda sulla superiorità può dunque esprimere o la gioia per un risultato (il riso «divino» del «ce l'ho fatta!»; ad es., quando si scala una montagna) o il ghigno (la risata «diabolica» per la Schadenfreude; ad es., quando si assiste a un oppositore che perde in un'argomentazione, o che scivola su una buccia di banana). La derisione può fare dell'altro un bersaglio, come nelle caricature politiche di Aristofane, o essere diretta contro sé stessi, nel qual caso ha un effetto liberatorio, terapeutico. Ma questo tipo di riso non dovrebbe mai avere per bersaglio l'altra persona, perché in tal caso scade nell'offesa. Cirano può ridere della lunghezza del suo naso, ma guai a chi osa fare lo stesso. Il riso che esprime superiorità è comunitario, in quanto deve essere diretto agli altri e da loro riconosciuto. Tale riso è sia con, sia contro gli altri. Nel momento in cui si pensa o si ride, il riso può sembrare qualcosa di solitario, ma vi è sempre implicita una dimensione comunitaria, anche quando la comunità è puramente immaginaria. In questo senso, il riso trasgredisce la distinzione tra individuo e comunità, perché ha un carattere personale: tutti ridono, ma possiamo riconoscere qualcuno dal modo che ha di ridere, perché ciascuno ride in modo diverso. Il porre l'accento sulla natura sovversiva del riso è ciò che accomuna la teoria della superiorità e quella del sollievo, perché implica una lotta (anarchica) contro l'autorità e dunque sia affranca dall'op2.4 D.H. Monro, Argume11t of Laugbter cit., pp. 83-84. Come è noto, Hobbcs definì il riso come «una specie di gloria improvvisa», ovvero di vanagloria. Per approfondire la teoria del sollievo, vedi S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione co,r l'itzconscio, BUR, Ri7.zoli, Milano 2010. ~s Lessing, il ventottesimo pezzo del suo Hamburgiscbe Dramaturgie (August 4, 1767). Vedi P.M. Haberland, Tbe Deue/opme11t of Comic Tbeory itz Gennany duri,rg tbe Eigbtee11tb C1mtury, Verlag Alfred Kuemmerle, Goppingen 1971, pp. 84-85.

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pressione, sia stabilisce una gerarchia valoriale che contrappone giusto e sbagliato. Nel suo libro su Rabelais, Bachtin sottolinea il carattere antiautoritario del riso. Egli giunge alla conclusione che nella storia universale ogni azione è accompagnata da un coro di risa, perché il riso è capace di infrangere le regole repressive in un'azione politica collettiva contro l'oppressione26 • Per questo i giusti guardano al riso con sospetto. Non sorprende che i Puritani, per cui il riso era un peccato, abbiano proibito la commedia: «Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete» 27• E comunque questa comprensione del riso manca completamente il punto, perché il riso ci libera proprio dalle proibizioni irrazionali, compresa la proibizione del riso stesso. Inoltre, è possibile leggere l'affermazione presente in Luca ponendo l'accento non sul «riso», ma su «ora», ovvero, coloro che ora ridono poi inevitabilmente piangeranno, perché la gioia del presente sarà controbilanciata da un'afflizione futura, e se la si vuole del tutto evitare, occorre sforzarsi di raggiungere uno stato di atarassia, di pace dell'animo. La celebre trattazione di Bergson in Le rire raffigura il riso come una «correzione», «una rivolta alla superficie» contro le violazioni improprie sulla vita sociale, una derisione delle incrostazioni di meccanica rigidità e della loro incongruenza con qualsiasi afflato vitale 28 • Inteso come incongruenza, il riso può assumere svariate forme. Il riso, come sostiene Agnes Heller, può dunque essere compreso come una reazione razionale all'impossibilità di colmare il divario tra il sociale e il naturale dentro di noi. Tutto questo è liberatorio, perché è una celebrazione della vita che supera la morte, o per lo meno la paura della morte 29 • In quanto razionale, il riso comico è anche riflessivo e giudicante, dato che, sebbene quando si ride non si possa parlare, il perché della risata può sempre essere spiegato dopo. (Per contro, il ben più elementare pianto non è riflessivo )3°. 26 La lotta comica per la libertà contro l'oppressione politica e sociale viene spesso delegata alla satira. Cfr. C. Willett, Iro,ry in the Age of Empire: Comic Perspectives on Democracy a,uJ Freedom, Indiana University Press, Bloomington 2009; A. Cutrofello, It Takes a Village Idiot: a,uJ Other Lessons Cynthia Wi/Jett Teaches Us, « Joumal of Speculative Philosophy•, 24, 2010, pp. 87-95. 17 «ouai boi gelontes ,ryn, boti pe11tbesete kai klausethe,. (Le 6, 25). 18 H. Bcrgson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Feltrinelli, Milano 2011. 1 9 A. Heller, Immortal Comedy cit., pp. 201, 206, 213-214. 30 lvi, pp. 11, 14, 24-26, 65.

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In quanto incongruo, il riso può apparire assurdo, il che secondo Elder Olson produce «un rilassamento della preoccupazione», ed è dunque ugualmente liberante3 1 • L'incongruenza indica la distanza tra chi un personaggio è e cosa il suo aspetto e le sue azioni lasciano intendere. Può riferirsi a un'ambiguità che scaturisce da una situazione, da un'azione, o da un'identità equivocata - di persone come di cose (nel caso dei doppi e dei travestimenti). Si può riscontrare un'incongruenza nell'ambiguo riferimento a due cose tramite una sola (alla vacca e alla sposa nel Violinista sul tetto), o nell'ambiguità di significato - per esempio, in un gioco di parole. Ne Les femmes savantes di Molière lo scambio tra Bélise e Martine- «Veux-tu toute la vie offenser la grammaire? / Qui parie d'offenser grand'mère ni grand père?»gioca con la somiglianza fonetica tra grammaire e grand'mère, grammatica e nonna, enfatizzata ulteriormente dall'offesa che la frase, con il suo uso improprio, arreca alla grammatica3 2 • Il riso come incongruenza può indicare una totale contraddizione nel nostro essere, come nel caso di Charles Baudelaire, per cui il riso era «segno di una grandezza infinita e di una miseria infinita, miseria infinita in rapporto all'Essere assoluto di cui possiede il concetto, grandezza infinita in rapporto agli animali»B. Per dirla senza mezzi termini, il riso è espressione dell'assurdo più totale, una perdita o assenza di ogni significato nelle nostre parole e nelle nostre azioni. Secondo Georges Bataille ciò che è risibile potrebbe essere in origine l'inconoscibile, dal momento che è l'ignoto, il non-savoir, a indurci a ridere, proprio perché ci è sconosciuto34. Il riso è dunque provocato dalla assurda inaccessibilità del suo oggetto. Seguendo questa logica dell' «il-logico», Simon Critchley considera il riso un riconoscimento della finitudine umana, che inevitabilmente comporta una contraddizione performativa, in quanto non è possibile affermare la finitudine, perché non la si può afferrare 35 . Tuttavia, diversamente da Bataille, 3' E. Olson, The Theory of Comedy cit., p. 61. 32 Molière, Le intellettuali cit., atto II, se. VI, 64-65. B Ch. Baudelaire, De/l"esse1WJ del riso e i11 ge11erale del comico tielle arti plastiche, a cura di E. Violo, Unicopli, Milano 2.017. 34 G. Bataille, No11-sapere, riso e lacrime, in Id., Conferenu sul 11on-sapere e altri saggi, a cura di C. Grassi, Costa & Nolan, Milano 1998. «C'è in noi e nel mondo, qualcosa che si rivela, qualcosa che la conoscenza non ci aveva dato, qualcosa che non può essere raggiunto dalla conosccn1.a. A mio parere è di ciò che ridiamo» (p. 37). 3s S. Critchley, 011 Humour, Routlcdge, London 2.002..

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in questo caso dovremmo sapere di cosa stiamo ridendo, anche se non sappiamo perché stiamo ridendo. Anche il riso provocato da qualcosa di vergognoso o di sgradevole è incongruo3 6 • Riccoboni afferma che noi ridiamo di «una certa colpa o bruttura senza dolore, priva di forza distruttiva» 37 • Il riso è dunque il riconoscimento di ciò che è giusto e corretto, reso manifesto attraverso una rappresentazione visiva di ciò che è sbagliato nella messa in ridicolo di ciò che è brutto in modo indolore. In questo senso, si dovrebbe vedere la commedia come un'esagerazione incongrua di una proprietà ben costituita, dove il decorum viene vilipeso in modo intenzionale, ma non repellente. Questo tipo di commedia è spesso all'origine della farsa e dello slapstick3 8 • La deformità distorce o il carattere morale di una persona, o la sua apparenza fisica, il che spiega perché venga spesso percepita come vergognosa, ma perdonabile39. Un volto che ride è sempre sfigurato, a volte al punto da diventare indecoroso. Come tale, il riso è un'espressione delle passioni (lo spanciarsi dal ridere - l'opposizione tra «natura» e «convenzione»4°), ma non è gioioso. Il volto deforme di Marsia appare come un insulto alla serena bellezza di quello di Apollo, ed è per questo che, benché vicino al riso, il sorriso ha un carattere piuttosto diverso. Perché, come sosteneva Plessner, più sottilmente sfumato e molto meno alterante, un sorriso illumina il viso e gli dà risalto, esprime amicizia e serenità d'animo4 1 • L'incongruenza contorta del riso è resa ulteriormente visibile dal fatto che, quando si ride, si perde la più umana di tutte le capacità, il «logos», o la capacità di parlare, mentre si può sorridere e parlare allo stesso tempo42. Vaiscbron di Aristotele, la turpitudo di Cicerone (De oratore, 2.236). A. Riccoboni, Ars Comica (1585), in P. Lauter (a cura di), Theories of Comedy cit., p. 106. Come sostenne Ben Jonson, «the moving of laughter is a fault of comedy» (muovere al riso è un difetto della commedia), Discoveries, 2625-2677, dr. Ben Jonso11 cit., voi. Xl, p. 289. 38 L. Trahair, The Comedy of Phi/osophy: Setise and Non-Setise in F..arly Ci11etnatic S/apstick, State University of New York Press, Albany 2007, p. 13 e passim. Nei Due fratelli di Terenzio un pappone, Sannione, dopo essere stato malmenato da un giovane, sospira: «Eravamo sfiniti [defessi] tutt'e due: io a prenderle, lui, a darle» (Adclphoe, 213). 39 È la deformitas di cui parla Cicerone. 4° Cfr. Teren1io, Adelphoe, 126. 4' H. Plessncr, Das Uicbe/11, in Id., Phi/osophiscbe Anthropo/ogie. Lacben und Weitien; LJJche/11; Anthropo/ogiederSi1me,a cura di G. Dix,Fischcr, Frankfurt 1970, pp. 175-186. 4 ~ A. Heller, Immortal Comedy cit., p. 26. 36

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Spesso il riso è la risposta a un motto di spirito - e motteggiare significa provocare il riso. Per questa ragione, i motti sono stati considerati il tratto saliente della commedia43. Come il riso, il motto può esprimere superiorità, liberazione dalle costrizioni, incongruenza e ambivalenza o tutte queste cose insieme. Esso costituisce «una narrazione molto breve», raccontata in poche parole o perfino messa in mostra con un solo gesto. La sua attrattiva consiste nella sua capacità di coinvolgere attivamente gli ascoltatori, lettori o spettatori nell'attività di completamento degli spazi bianchi di una sua storia. In questo modo, gli ascoltatori diventano parti attive, attori e co-creatori dell'azione comica. Perché sia spassoso e sottile, un motto deve essere spiritoso: un motteggiatore spiritoso è chi ha la capacità di formulare velocemente e spontaneamente un motto sofisticato e di buon gusto, come se si trattasse del compendio di un'opera teatrale o di un contorto entimema. Un'epitome di questo spirito è Tre uomini in barca (per non parlare del cane) di Jerome K. Jerome. A motteggiare è spesso il buffone o il fool (lo stolto), il che implica che non può essere veramente stolto, dato che ci vuole un certo acume per lanciare motti di spirito e addirittura fingersi idioti. Lo comprende bene Viola ne La dodicesima notte, quando descrive il giullare: Costui è abbastanza saggio per recitare / La parte del buffone: e per farla bene / Ci vuole arguzia. Lui deve / Osservare l'umore di chi prende in giro, / La qualità delle persone, e il tempo, e, / Come il falco, gettarsi su ogni piuma / Che gli viene davanti agli occhi. Questa / È una pratica tanto faticosa quanto / L'arte dell'uomo saggio. E infatti/ La follia ch'egli mostra saggiamente è buona: / Ma il saggio, in preda alla follia, sragiona44.

Nella sua serietà, la saggezza può essere ingannevole, dato che non riesce ad assumere una distanza ironica e riflessiva nei confronti di sé stessa, mentre un'apparente stoltezza può rivelarsi realmente saggia, giacché sa di fingersi stolta. Il motto di spirito è dunque un segnale di arguzia, di intelletto illuminato e civilizzato, e divenne una norma sociale indispensabile a partire dal Rinascimento 45 . Per questo, per Ben Jonson a costituire lo 43 T.G.A. Nelson, Comedy cit., p. 123: «La più ovvia e distintiva tra le caratteristiche del dialogo comico e della narrazione comica è, senz'altro, il motto di spirito». 44 W. Shakespeare, La dodicesima notte cit., atto III, se. I, 62-70. 4S Così si presenta ne Il cortegiano di Baldassarre Castiglione. A. Stott, OJmedy cit., pp. 56-57.

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scopo della commedia era lo spirito, non il riso4 6 e nella commedia della Restaurazione e del diciottesimo secolo lo spirito era valutato al di sopra del decoro. Lo spirito è quindi espressione di prominenza intellettuale47, anche se sovente è un modo di mettersi in mostra. L'espressione dello spirito è l'umorismo, che è spesso visto come il momento cruciale della commedia, alla pari del riso e del motto. Meredith esprime chiaramente questa posizione quando afferma che la commedia «ride con la mente, perché la mente la dirige; e si potrebbe chiamarla umorismo della mente» 48 . La nozione moderna di umorismo fu introdotta nella commedia da Robert Jonson come una «disposizione generale» che traeva origine dalla filosofia naturale e dalla medicina dell'antichità49. L'umorismo può essere volgare, osceno e brusco, come Broad Grins di George Coleman. Può anche essere carnevalesco, mettere tutto sottosopra, come nel resoconto di Bachtin. In entrambi i casi, l'umorismo è un'espressione della vita dell'intelletto comico, o dello spirito. Critchley, seguendo Shaftesbury, considera l'umorismo una forma di buon senso 50• Ma il buon senso è una facoltà razionale che implica un (corretto) giudizio; in quanto applicazione della ragione alla risoluzione di un dato problema, potrebbe non essere spassoso o risibile, o semplicemente non implicare un motto di spirito, nel qual caso non avrebbe nulla a che spartire con la commedia, intesa come impresa spiritosa SI. In realtà, la commedia potrebbe non riguardare affatto il riso, ma piuttosto, come ho sostenuto, la struttura dell'azione comune. Il riso non è fondamentale per Terenzio, che si rifà all'antica tradizione dello spoudogelaion, il seriocomico; così come Donato omette di offrire una teoria del ridicolo nel suo trattato sulla commedia. Certo, la commedia B. Jonson, Epistola dedicatoria del Volpone, in Ben Jonson, voi. V cit., pp. 17-21. E. Olson, The Theory of Comedy cit., p. 21. -48 G. Mercdith,AnEssay on the Idea of Comedycit., p. 125; «to touchand kindlethe mind through laughter, demands more than sprightlincss, a most subtle delicacy («toccare e accendere la mente attraverso il riso richiede ben più della vivacità, una sottile delicatcz1.a», ivi, p. 74). -4!1 Compariva in Ippocrate e Galeno e fu superata da Paracelso. so S. Critchley, On Humour cit., p. 79. Cfr. A.A.e., conte di Shaftcsbury, Sensus Commurùs: An E.ssay on the Freedom of Wit and Humour, in Id., Characteristicks of Men, Man1,ers, Opinions, Times, a cura di P. Ayers, Clarendon Prcss, Oxford 1999, voi. 1, pp. 37-81. s• Per Hcgel l'umorismo è solo soggettivo e come tale non ha nulla a che vedere con la commedia: G.W.F. Hcgel, Esteticacit., pp. 1523-1527. 46

-47

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non è agelasta, né misogelasta, ovvero non si impone di essere seria o di astenersi per foa.a dai motti di spirito. Sa essere spassosa e può anche ridere di sé stessa. Il riso può essere liberatorio (qualcosa che ci libera del controllo e della tensione, un'imitazione dell'orgasmo), e comunque la commedia può essere liberatoria anche senza il riso. Come sosteneva L.J. Potts, cui poi fece eco David Farley-Hills, molte commedie contengono poche o nessuna traccia di riso o di umorismo; per questo, si deve definire la commedia secondo altri parametri 52 •

Amore e eros Se la commedia rinnova la vita e supera la morte, non può fare a meno dell'amore, dato che solo l'amore produce e riproduce la vita nel suo costante autorinnovamento. In quanto imitativa, la commedia riproduce la vita. Tuttavia, in quanto normativa, la commedia produce la vita nelle sue svariate manifestazioni - come nascita, amore e vita della mente. Con maestria essa crea situazioni artificiali, che non si verificano nella vita, ma che la mostrano come distillata e separata dal tedio della ripetizione e dall'inconcludenza dell'azione quotidiana. Un amore affermativo della vita è tuttavia presente in modi diversi nel corso dell'intera azione della commedia. Nella protasi, l'amore si presenta sotto la forma del desiderio e della sua apparente impossibilità; nell'epitasi, diventa una tensione verso l'oggetto amato che complica l'azione; e, nella catastrofe, assume i contorni del compimento e appagamento finale. Nella commedia l'amore ha una duplice funzione: da un lato, è la foa.a motrice che fornisce l'impulso per l'azione comica, complica la situazione iniziale, crea scompiglio strada facendo, fa sì che chi ama aneli all'oggetto amato, e in seguito aiuta i personaggi a muoversi verso una risoluzione, una liberazione e un appagamento finale delle loro aspirazioni. Dall'altro Iato, l'amore è anche la consumazione e il compimento della commedia come suo stesso fine. In quanto foa.a motrice e fine della commedia, l'amore è ambiguo. La filosofia è ben consapevole di questa ambiguità, e già con Platone tenta di esplorarla e spiegarla. La filosofia è

5:. L.J. Potts. Comedy eit., pp. Comedy eit., p. 3.

19-20;

D. Farley-Hills, The Comic iti Renaissatice

5.

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di per sé un'impresa erotica (un amore o una saggezza elusiva che sfugge a ogni speranza di tematizzazione), e pertanto anche la sua autoriflessione è erotica - e spesso comica - quando contempla la risoluzione di un problema trattato in un dialogo filosofico con gli altri. Eros è una forza insormontabile e imprevedibile - divina - che svolge un ruolo centrale nella Nea. Nel Dyskolos di Menandro un giovane agricoltore dice di non essere mai stato innamorato perché il solo pensare alle avversità che ciò implica glielo ha impedito. Il suo interlocutore, che è innamorato, rispondeva che questo non dipende da lui, ma da un dio (in questo caso, Pan)B. Ambiguo e a doppio taglio, l'eros può schiavizzarci, rendendoci incapaci di formulare un giudizio su cosa è giusto e cosa sbagliato, ma può anche liberarci, aiutandoci, nel suo costante autorinnovamento, a muoverci verso una vita migliore. Tuttavia, lo stesso progetto della commedia e della filosofia presuppone non l'eliminazione di eros, ma la ricerca dei modi per tenerlo sotto controllo con mezzi comici e filosofici, facendolo agire per il nostro bene, perché altrimenti può manifestarsi come una forza totalmente distruttiva. La filosofia e la commedia hanno in comune la stessa forza motrice, che tende a un fine e si estingue non appena raggiunge una risoluzione (un buon esito o la conclusione di un'argomentazione) - ma non giunge mai a un capolinea. Perché la vita deve andare avanti, ripartendo continuamente da zero, incontrando un'altra complicazione e cercando di risolvere un altro problema, per giungere a un nuovo, seppur provvisorio, esito. È possibile raggiungere il fine dell'amore, ma mai una volta per tutte, giacché, così come la vita rinnova sé stessa, anche l'amore dovrebbe essere costantemente rinnovato. Pertanto, la vita ha sempre un fine nel suo autorinnovamento e nella sua riproduzione, negli altri (nella vita nuova) e in ogni singolo individuo (nella misura in cui continua a vivere). In quanto tentativi di afferrare tanto l'amore che la vita, la filosofia è comica, e la commedia è filosofica. Entrambi sono eseguiti come se fossero simposi costantemente rinnovati e ripetuti, sempre uguali nella struttura della loro azione e nelle loro forze motrici, ma sempre diversi nei problemi concreti che affrontano e cercano di risolvere. Nella commedia, l'amore termina in un (ben)essere delle persone, 53 Menandro, Dyskolos. Il misantropo, testo greco a fronte, a cura di N. Russcllo, BUR, Rizzoli, Milano 2001, 341-347.

SECONDA PARTE, LA LOGICA DELLA COMMEDIA

condiviso e riconosciuto come tale, la cui realizzazione assume di solito la forma del matrimonio o di un'unione collettiva tra persone54. Confrontato con la sublime sofferenza degli eroi nel finale di una tragedia, questo consorzio di persone che vivono insieme può apparire banale e volgare; tuttavia si tratta dell'adempimento della possibilità di un essere-insieme all'altro (o agli altri), della realizzazione del benessere nella sua dimensione più puramente comunitaria e quotidiana, disponibile e accessibile a tutti.

Le passioni

È la capacità dell'amore di suscitare passioni diverse e spesso con-

flittuali a renderlo ambiguo. Talvolta le persone si comportano da esseri razionali, ma sono sempre esseri passionali. E anche se non riescono a sbarazzarsi delle loro passioni, possono guidarle, governarle e «purificarle». La commedia è appunto un meccanismo che consente di contenere e bilanciare le passioni, servendosi tanto dell'aiuto degli altri che della resistenza nei loro confronti. Inizialmente insoddisfatto, l'amore dovrebbe apportare l'appagamento più pieno che la vita permette. Dal momento in cui l'amore giunge al suo completamento e alla sua consumazione, i suoi affanni ricominciano da capo. In questo senso, l'amore funziona esattamente come la vita e la commedia: può raggiungere il suo fine, ma solo in via provvisoria, e per questo il suo fine deve ogni volta rinnovarsi. La «conditio humana» comica consiste nell'essere vivi e perennemente innamorati, ovvero capaci di essere ben messi, ma al contempo insoddisfatti della propria situazione: «Quasi tutti siamo fatti così: nessuno è soddisfatto di sé stesso»H. Come ho sostenuto, l'identità personale comica è sempre doppia, 54 L'antichità greca distingueva tra la cortigiana (hetaira), la concubina (pal/ake), e la moglie (akoitis). «Nella commeida nuova [...] la concubina è associata alla etera dalla preclusione di ogni possibilità di sposarsi, fondata sul suo statuto civico; cd è associata alla moglie per la sua partecipazione al focolare domestico, rappresentata come una combinazione unica, scevra da motivazioni mercenarie» (D. Konstan, Greek Comedy and ldeo/ogy cit., p. 121. Vedi anche L.A. Post, Woman's Piace in Menmuier's Athtms, « Transactions of the American Philological Association», 71, 1941, pp. 420-459; pp. 443-446). H «ita plerique ingenio sumus omnes: nostri nosmet paenitet» (Terenzio, Phormio, 172).

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implica il disconoscimento e presuppone la non-identità: si è «fuori di sé» 56 e alla fine ci si deve riconciliare con sé stessi - anche se mai in modo mirato - mediante il riconoscimento, proprio e altrui, di chi si è. Nella commedia l'amore è dunque accompagnato, ostacolato e temporaneamente sospeso dall'odio, dalla rabbia e dall'irritazione57. Come afferma Terenzio nel prologo dell'Eunuco, le passioni e le emozioni proprie della commedia sono «amori, odii, sospetti»S 8 • Anche se la lista potrebbe estendersi (per es., includere emozioni darwiniane), ciascuna delle passioni di Terenzio è presente in ogni fase della commedia; la protasi è dominata dall'odio, l'epitasi dal sospetto e la catastrofe dall'amore.

Il sesso comico Una delle incarnazioni più feconde e produttive dell'amore nella commedia è il sessos9. Il modello di questa azione apparentemente contorta che giunge a un esito positivo è infatti proprio l'atto sessuale, che è una risoluzione dell'amore e l'origine della vita. In Aristofane c'era sesso in abbondanza, ma non c'era amore6; in Menandro, Terenzio e nella commedia più tarda c'era invece parecchio amore, ma solo qualche accenno di sesso. Il sesso è sempre una provocazione, in quanto stuzzica, risveglia, alletta e invita (tutti significati del latino «provocare») i partecipanti, sia attori sia spettatori, a spartirsi l'azione mettendosi in gioco in un modo o nell'altro. Il sesso è inoltre volgare nella sua apparenza esteriore. È tuttavia questo che lo accomuna alla commedia, che si fa sempre portatrice di un tocco di volgarità quale espressione della sua «popolarità», «ordinarietà» e «inclusività», del suo esserci per ciascuno e per tutti. La volgarità del sesso è anche associata alla sua ambiguità, che rappresenta un'attrattiva per i suoi partecipanti, dato che può essere fonte tanto di risate che di nuove e 56 «Non sono in mc [no,isum apud me)», riconosceva Antifone, giovane innamorato, ivi, 204. S7 Dcmifonc, un vecchio irritato dal fatto che suo figlio si è sposato senza avergli chiesto il permesso, afferma: «Son così arrabbiato [irritato] che non riesco a mettermi a pensare [ita sum irritatus a11imum ut ,zequeam ad cogitandum instituere)» (ivi, 240). ss «amare, odissc, suspicari» (Terenzio, Eunuchus, 40). S9 Vedi D. Farley-Hills, The Comic in RenaissatlCe Comedy cit., p. 12. 60 R.W. Corrigan, Classica/ Comedy cit., p. 70.

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avvincenti interpretazioni ermeneutiche della situazione attuale. L'ambiguità o ambivalenza del sesso nella commedia è sinonimo di un'inevitabile negatività implicita nell'atto sessuale. Nella sua connotazione negativa all'inizio della commedia, il sesso non è solo volgare ma anche illecito, una forza che porta scompiglio nelle relazioni umane e genera un caos insolubile. Il sesso dà pertanto il via a un'azione che inizialmente è proibita, infamante, pericolosa, dannosa e violenta, non di rado alimentata da odio, violenza e irritazione. Se lo astraiamo dalla congettura razionale, dalla conquista dell'altro e dalla giustificazione delle proprie azioni, il sesso non è molto diverso dallo stupro (per es., ne La suocera di Terenzio). L'unicità della commedia consiste nella sua ineguagliabile capacità di affrontare, incorporare e risolvere l'iniziale negatività dell'atto di dominazione e aggressione che sconvolge il corso degli eventi. Solo la commedia è in grado di trasformare (attraverso una mutazione complessa e, all'inizio, piuttosto improbabile) in cura reciproca la violenza. Ma non lo fa con mezzi legalistici o moralistici, bensì comunicativi e dialogici, costruendo la trama e l'azione in modo ragionato. Per questo motivo le persone alla fine possono amarsi, assistersi a vicenda, stare insieme e alla fine capire - e riconoscere - gli atti sessuali come appaganti e godibili in un'ottica di reciprocità. Nella commedia il sesso è dunque una celebrazione della vita e della libertà. La commedia non solo libera l'anima, aiutandola a superare, liberare e bilanciare gli effetti negativi delle passioni; alla fine libera anche il corpo soddisfacendo i desideri corporali e riconoscendoli come legittimi. Nondimeno, questo riconoscimento ha dei limiti, dato che il sesso è inclusivo di un altro o di altri, ma non di tutti, il che costituisce il senso del matrimonio e della libera unione delle persone. In questo senso, a differenza della comunicazione e dell'interazione dialogica, il sesso non può fare a meno di escludere la maggioranza degli altri. Per tale ragione, è l'eros e non il sesso la forza motrice universale della commedia, perché l'eros può manifestarsi sotto forme svariate, spesso alquanto sorprendenti e non banalmente sessuali, e può funzionare come principio non esclusivo, ma inclusivo dell'interazione umana. Tuttavia, la struttura complessiva della commedia coincide, in un certo senso, con quella dell'atto sessuale: cominciando con lo scopo che intende raggiungere e attraversando negatività, complicazioni e persuasioni, la commedia raggiunge la sua meta con un senso di sol-

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lievo e appagamento il cui apprezzamento è individuale, ma che, nelle sue molteplici espressioni, viene condiviso con gli altri. Analogamente, l'atto sessuale è un sollievo dalla tensione, è liberante, e dovrebbe avere un buon esito, dopo una lunga e travagliata storia di iniziale (e talvolta subdola) aggressione, cui fa seguito il corteggiamento. Comunque, come ho sostenuto, l'assetto della trama comica coincide con quello dell'argomentazione logica o filosofica, il che significa che l'argomentazione (dialettica) e l'atto sessuale, in quanto particolari incarnazioni dell'eros, sono isomorfiche e hanno la stessa struttura. O, ancora una volta, che la filosofia e il pensiero sono profondamente erotici, e che l'eros è filosofico. Veros e il pensiero (dimostrativo) si susseguono sempre a vicenda. Lascio aperta la questione su quale dei due venga prima; come minimo, si può affermare che tanto l'eros quanto il pensiero siano inequivocabilmente comici.

Il denaro comico

Il denaro svolge un ruolo importante nella commedia nuova e nella commedia moderna. Il denaro comico non deve essere posseduto da tutti, ma solo da pochi. Chi spende denaro di solito lo prende in prestito da altri e chi ce l'ha se lo tiene per sé. Gli archetipi comici degli spendaccioni e degli avari sono il figliol prodigo e il padre avido: «a padre avaro, figliol prodigo» 61 • Tuttavia, è sempre il figliol prodigo a contribuire all'avarizia del padre, il che suggerisce che il denaro comico è, nella sua funzione, doppio e ambivalente. Da un lato il denaro permette di essere al sicuro dalla miseria, ma, proprio per questo, genera avidità, sospetto, inganno (che, in un certo senso, sono speculari alle passioni «negative» associate con il sesso - odio, rabbia, gelosia e irritazione). Per questo, il denaro è una compensazione del piacere che si desidera ma non si ha - o non si può avere. D'altro canto, il denaro comico viene usato per le feste, il divertimento e il piacere, ed è per questo associato alla lussuria. Pertanto, nella commedia padre e figlio rappresentano i poli opposti nella dualità del funzionamento del denaro. Questo cambia man mano che la com61 «Il difetto comune (vitium commune) a tutti è che nella vecchiaia siamo un po' troppo attaccati al denaro» (Terenzio, Adelphoe, 953-954).

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media progredisce e la trama si dispiega: all'inizio della commedia il denaro, nel suo aspetto negativo, è sia trattenuto, sia speso per sé stessi; in seguito, viene elargito agli altri e speso per loro - un segno del raggiungimento del finale positivo e dunque del prendersi adeguatamente cura non solo degli altri, ma anche di sé stessi62.. In entrambi questi aspetti il denaro è un'incarnazione della capacità di agire come si preferisce e ottenere ciò che si vuole - sebbene, ovviamente, non tutto. Spendere, risparmiare e guadagnare denaro conferisce al momento di felicità la significazione del coronamento del desiderio - anche se non di ogni desiderio. Con i soldi si può ottenere il sesso ma non l'amore; si può guadagnare la servilità ma non la libertà; si può acquistare la proprietà, ma non il riconoscimento degli altri. La capacità che ha il denaro di ottenere ciò che si desidera è limitata, dal momento che non può comprare la vita, l'amore e la libertà, che dovrebbero essere accessibili a tutti. Il denaro comico è pertanto l'equivalente del possesso e della proprietà 63, ma non l'equivalente universale del benessere, come lo è nella modernità, dove il denaro diviene la possibilità e capacità generale di acquistare qualsiasi cosa, un segno dell'autonomia del soggetto, indicativo della sua libertà di spendere e aumentare (investire) il capitale come vuole. Il denaro comico non è il risultato del lavoro duro, ma più che altro un dono. La sua accumulazione non è di per sé un fine: il denaro dovrebbe essere (ri-)distribuito e speso per donare piacere e una vita felice. Nella sua capacità di appagare i desideri, il denaro comico è simile al cibo, che può essere comprato, consumato e distribuito agli altri. In questo senso, il denaro comico è premoderno: non è pensato per essere aumentato, investito, o incrementato in nome della crescita. Non è capitalista, calvinista o weberiano. In effetti, le figure del padre avaro e del figliol prodigo sono parodie del capitalista. Mentre il denaro moderno finisce per imporre la razionalizzazione, la parsimonia e l'abilità di calcolo, il denaro comico è associato all'esuberan«ipse est sibi» (Terenzio, Adelphoe, 35-39). Nella sua celebre affermazione secondo cui l'uomo è la misura di tutte le cose (in Platone, Teeteto cit., 152a), panton chrematon metro,z, Protagora avrebbe potuto non intendere le cose che giungiamo a conoscere, bensì il possesso del denaro, che è l'effettivo significato di chremata. Pertanto, l'uomo sarebbe la misura di tutto ciò che arriviamo a riconoscere come proprietà e che può essere posseduto, valutato e scambiato, ovvero, nel caso dello stesso Protagora, la conoscenza che poteva divenire merce. 62.

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za, alla stravaganza e alla spensieratezza di chi lo spende (spesso un giovane o un borioso crapulone). Come ha notato David Konstan, in Molière la passione erotica e la fissazione per la ricchezza sono speculari; tuttavia, se nell'Avaro l'attrazione di Arpagone per una certa donna è analoga all'interesse per un tesoro sepolto, nel Dom Juan la passione dell'eroe per le donne corrisponde alla sua evasione dal debito. In questo modo, Dom Juan riduce «tutte le donne all'unica valuta del sesso, che fa della sua passione una raffigurazione del nascente interesse indiscriminato del capitalista per le merci e per il loro comune denominatore, il denaro» 64. Mentre il denaro comico è concreto e spesso volgare, il denaro moderno diviene astratto e anonimo. Trovando uno scopo generale in sé stesso, il denaro moderno trascura gli esseri umani. Esso è una misura universale per avere qualsiasi cosa, piuttosto che per essere felici con quello che si possiede realmente.

Libertà L'umile liber'tà della commedia La libertà umana si realizza nella commedia - e, dunque, la libertà umana è comica. La libertà comica permea la commedia fin dall'i-

nizio - persino quando la libertà dell'autore nel costruire la trama la limita - in quanto libertà di agire e di pensare. In quanto scopo della commedia, la libertà dovrebbe essere ottenuta alla fine. Nel suo Sul valore estetico della commedia greca, Friedrich Schlegel afferma che l'ideale della commedia greca è «la libertà sublime» 65. Questa libertà sublime è però l'appropriazione della libertà tragica da parte del soggetto moderno, mentre la libertà della commedia è umile e immanente all'azione comica - al pensare all'azione e nell'azione in una situazione condivisa da tutti i suoi partecipanti. In quanto libertà-con-gli-altri, la libertà comica è spesso ridicola e goffa, talvolta indecente, ma sempre umana. Tale libertà non è sublime e divina, bensì prosaica e umana, inscritta nella quotidianità. 64 D. Konstan, Greek Comedy atul Ideo/ogy cit., p. 161. F. Schlcgcl, Vom ilsthetischen Werte der griechischen Kom6die, in Id., Dichtu11gen und Aufsiitze, a cura di W. Rasch, Hanscr, Miinchcn 1984, pp. 2.56-2.67, p. 2.59. 6S

SECONDA PARTE. LA LOGICA DELLA COMMEDIA

Eppure secondo Jiinger, la commedia mostra una lotta tra due parti diseguali. Questo costituisce un paradosso proprio in virtù della loro disparità: non c'è motivo di lottare, dal momento che una parte è già stata riconosciuta come più forte e superiore all'altra66• Dunque la commedia sembra implicare una contraddizione di natura pragmatica. Jiinger riconobbe tale conflitto come comico ma lo lasciò aperto, privo di risoluzione. La commedia dispone in ogni caso di mezzi potenti per risolverlo strutturando la sua trama come un' «argomentazione»: o le parti discordanti alla fine si riconciliano, o la parte che inizialmente occupa la posizione inferiore viene riconosciuta come pari alle altre. La commedia ha dunque la capacità di offrire ai suoi attori libertà e giustizia, adoperando mezzi comici razionali e argomentativi. Inoltre, la libertà sconfina nell'amore, essendo motivata dal desiderio di liberazione, che è una forma di tensione erotica. E tuttavia l'amore è di per sé paradossale nel suo rapporto con la libertà: è una specie di ossimorica «libertà non libera», dato che non si sceglie chi amare e cosa desiderare. Comunque, l'amore connette una persona a un'altra, o ad altre, e dunque la libera da sé stessa, dalla solitudine. Esso consente, in un'azione condivisa, di sospendere e verificare le decisioni e le azioni immotivate, guidate dalla capacità del tutto negativa di rifiutare ogni buona ragioné7. Per essere libero, un personaggio comico deve agire per gli altri e in questo modo (e solo in questo modo) ottenere la propria - in tal caso meritata - libertà. La libertà comica è dunque per tutti (nel qual caso differisce dal sesso e dal denaro). L'universalità della libertà comica rettifica la potenziale ingiustizia della distribuzione iniziale dei ruoli nella vita, con tutte le sue disparità sociali, di genere, familiari, economiche, politiche e quant'altro. A differenza di Cristina di Svezia, di cui si tramanda che, in punto di morte nella sua stanza nel Palazzo Corsini a Roma, abbia detto «Sono nata libera, vissi libera, morirò libera» 68 , nella commedia non tutti hanno la fortuna di nascere liberi, ma - dato che la commedia è un'impresa formativa - si può e si dovrebbe diventare liberi come fine dell'azione umana condivisa, liberati e aiutati dagli altri a ottenere e realizzare la propria libertà.

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F. G. Jiinger, Uber das Komische cit., pp. 16-17. Vedi D. Nikulin, Oti Dialogue cit., pp. 111-119. «Jag foddes fri, levde fri ock skall do frigjord».

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Libertà-da e Libertà-per come Libertà-con La dualità della libertà è presente nella commedia, dato che ognuno è soggetto al fato, ma anche libero di agire e di prendere decisioni. Nondimeno, questa non è la libertà del soggetto autonomo e isolato, che prende decisioni indipendentemente dagli altri. Piuttosto, mentre si raggiunge la libertà comica - malgrado la contingenza della situazione in cui si può versare - mediante uno sforzo individuale, lo si compie sempre insieme agli altri, in un ambito di interazione e di dialogo. La libertà comica è innanzitutto una libertà-da: la libertà dall'oppressione, dalla coercizione e dalla compulsione. In questo senso, la commedia è sovversiva: distrugge gli stereotipi di un'intera società e così ci libera a livello politico e sociale, mettendo in ridicolo e in discussione le pratiche oppressive e i pregiudizi patriarcali e stabilendo pertanto il diritto di ogni persona alla dignità, al buon nome e alla buona reputazione, nonché il diritto a possedere una (non eccessiva) proprietà 69 • Tale libertà non è mai semplicemente posta all'inizio come un dato, ma è un compito da assolvere. La lotta per la liberazione è pericolosa: richiede che si ponderi e si trami abbondantemente, che si compia il lavoro della commedia. Pur di ottenere la libertà, il personaggio comico che dà voce alla verità spesso compromette la propria libertà e agisce a sue spese, in modo apparentemente contrario al suo interesse: rivela la verità sull'oppressione e l'ingiustizia (spesso generate dal trattenimento della verità), e rischia di esporsi al ridicolo, se non proprio alla repressione e al castigo. Il comico rivoluzionario non solo ha il coraggio di pronunciarsi, ma libera anche spazio per la parola degli altri, di coloro che erano muti, silenti e messi a tacere70 , aiutandoli a riacquistare la loro voce. Il personaggio che dice la verità è dunque sia imperdonabilmente ironico, sia sincero, e va in direzione contraria rispetto al gusto della società e per questo si ricopre di ridicolo7 1 • La libertà-da comica è, pertanto, pericolosa7 2 • 69 Terenzio,

Phormio, 271.

Nella Suocera di Terenzio la ragazza non pronunciava una parola. 7' Come succedeva a Parmenone nell'Eunuco di Terenzio e ad Alceste nel Misantropo di Molière (considerato «fort singulier»), 1163. 71 Vedi A. Hellcr, Immortal Comedy cit., p. 41. 70

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Eppure la commedia guarisce anche la psiche individuale in una catarsi «vomica» . .&sa libera e riconosce il desiderio - bilanciando, e non abolendo, le passioni - in quanto legittimo. La liberazione psicologica personale è quindi un'importante componente terapeutica della commedia: aiuta anche a superare la morte, seppure non la morte in quanto tale - dato che la morte non è parte della nostra esperienza personale e come tale non può essere messa in condivisione con gli altri. Di conseguenza, la rappresentazione della morte è rara nella commedia; per lo meno, i personaggi principali non muoiono. La commedia aiuta a superare la paura della morte e il sapore amaro della solitaria finitudine mediante la celebrazione dell'amore e della vita con gli altri. Nella commedia non c'è bisogno di morire per capire che nella commedia della vita - fintantoché si è vivi - la morte non esiste. La commedia dunque mette in scena l'amore e la vita, ma non il bello. Le belle apparenze dei personaggi sono ingannevoli e le loro azioni maliziose sono spesso orrende. La dimensione sociale della libertà comica si rivela nella capacità degli spettatori e dei lettori di indentificarsi con i sentimenti e le situazioni dei personaggi, nonché con la richiesta normativa della commedia. Questa identificazione è ciò che rende possibile la nostra capacità di dire «noi», in quanto siamo tutti noi a prendere parte allo stesso liberante movimento comico. La liberazione personale, sociale e politica è sempre stata presente nella trama comica come pregiato obiettivo nei finali positivi della commedia nuova. Tutti coloro che all'inizio erano oppressi - uno schiavo, una donna maltrattata e messa a tacere, qualcuno costretto in una situazione di dipendenza - sognavano la liberazione come massimo traguardo nella vita 73 . Eppure la libertà comica è anche una libertà-per il benessere, raggiunto per mezzo del vivo e spontaneo essere-(in-dialogo)-con-glialtri. È un senso della libertà diverso da quello che Schiller associava alla commedia: dal suo punto di vista essa ci liberava dalle passioni una volta che avevamo accettato l'assurdità e l'assoluta contingenza della vita, scrollandocela di dosso con un sorriso74. La libertà comica è piuttosto una libertà-con gli altri in quanto essi si riconoscono reci73 Così la cortigiana Abrotono negli Epitrepontes di Menandro (538 sgg.) e gli schiavi Doride nella Perikeirome11e di Menandro (982.-983) e Siro nei Due fratelli di Terenzio (960). 7-4 F. Schiller, Narve and Se11time11tal Poetry (cap. «Satirical Poetry» ), in Id., Narve and Sentimental Poetry: On the Sublime, a cura di J.A. Elias, Frcderick Ungar Publishing Co., New York 1966, p. 122.

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procamente nel fine sempre rinnovabile e rinnovato della commedia della vita. La libertà di agire nella commedia presuppone la libertà di pensare e di giudicare. L'azione comica è dunque mediata dalla riflessione e dalla comprensione, il che, di nuovo, supporta l'affermazione secondo cui la commedia è un'impresa collettiva, razionale e riflessiva. La comprensione riflessiva del fatto che non si è liberi permette di capire perché non lo si è, cosa fare per sbarazzarsi di una pratica oppressiva, e come progredire verso la libertà e il benessere. La riflessione permette di ottenere la giusta distanza da sé stessi per potersi riconoscere nella propria situazione. Ma lo stesso vale per gli spettatori che compiono uno sforzo ermeneutico verso la comprensione della commedia e l'identificazione con essa, che richiede anche una distanza riflessiva tra l'interprete e l'interpretandum. Ciò può corrispondere a un atto di autocognizione comica, pur conservando la differenza tra personaggi comici e spettatori, ascoltatori o lettori comici, nella commedia. In altre parole, senza la distanza non è possibile né ottenere, né preservare la libertà. Attraverso un'azione riflessiva e interpretativa si può raggiungere la libertà, intesa come essere con gli altri: solo allora si viene a conoscenza non solo del fatto che si è liberi, ma anche del perché lo si è. L'effetto liberante della commedia non è immediato, ma è il risultato di un'azione congiunta eseguita con gli (e in presenza degli) altri. La piena presa di coscienza della libertà come libertà-per e libertà-con arriva solo alla fine. La libertà dunque non è mai un dato, ma la si deve raggiungere nuovamente all'interno di un processo riflessivo: ci si muove da un disconoscimento iniziale ali' «argomentazione» della trama, fino alla comprensione di chi si è in quanto reciprocamente riconosciuti dagli altri. Liberando i suoi personaggi e i suoi spettatori, che a loro volta riproducono quella libertà nelle loro vite partecipando alla commedia in scena, questa rende la vita significativa e le conferisce benessere. La commedia è dunque il luogo adibito alla realizzazione della libertà umana.

Tena parte

Etica della commedia

6. Stolta sapienza. Il filosofo come figura comica

La trama e il personaggio

Qual è il ruolo del personaggio nell'universo comico? I personaggi comici sono solo funzioni della trama, o sono indipendenti da essa? O, forse, a definire la trama sono la «logica» individuale di ciascun personaggio o la «logica» dell'insieme delle interazioni tra i personaggi? Secondo Aristotele la trama (mythos) ha la precedenza sui personaggi (ethe), dato che il dramma esibisce un'azione (praxis) che da sola può condurre al benessere, e non una qualità (poiotes) che determina un personaggio in uno specifico modo di agire 1 • Forse, allora, la trama comica si serve dei suoi vari marchingegni per organizzare e orientare l'azione umana verso l'obiettivo del finale positivo. Ma questo farebbe dei personaggi comici niente più che rivetti saldati nel grandioso meccanismo della trama comica, che la tengono insieme e ne permettono il funzionamento ai fini dell'esito prestabilito. In tal caso, i personaggi comici sarebbero soltanto bozzettistici, rappresentazioni superficiali e stereotipate di alcuni tipi psicologici (di alcune «qualità»), del tutto prevedibili nelle loro reazioni all'interno di situazioni preimpostate2..

' Aristotele, Poetica, 145oa15-23, 145ob9-10. Farsi sostenitori del forte primato della trama porta ad affermazioni di questo tipo: «L'eroe e l'eroina tecnici spesso non sono gente molto interessante: gli adulescentes di Plauto e Terenzio sono tutti uguali ... » (N. Frye, Anatomia della critica cit., p. 221). O come questa: «l personaggi tipo sono così rigidamente definiti che i loro comportamenti all'interno di date situazioni sono del tutto prevedibili ... l'identità umana è spogliata della sua finezza e ambiguità, mantenendo solo il suo agire più mostruoso» (A. Stott, Comedy cit., p. 44). 2

TF.RZA PARTI!. ETICA OP.LI.A COMMF.DIA

Altri ritengono che i personaggi comici sarebbero del tutto indipendenti l'uno dall'altro, individui unici alla stregua degli umani. Ne consegue che tutta l'azione della trama sarebbe una derivazione lineare e univoca dell'interazione dei personaggi tra di loro. Otto Ludwig, Leonid Grossman e Bachtin proposero il concetto di «polifonia» come prisma per comprendere l'interazione tra personaggi totalmente indipendenti3. Secondo questa lettura, l'evoluzione della trama e il suo raggiungimento dello scopo finale sono esclusivamente il risultato della coerenza interna dei personaggi4• La trama è dunque interamente inscritta nel e determinata dal personaggio in quanto individuo. Contro gli estremismi rappresentati da queste due posizioni, ritengo che la trama e il personaggio, pur avendo funzioni diverse, abbiano nella commedia la stessa importanza e lo stesso peso. La trama è monologica e fittizia; è un'invenzione e una costruzione dell'autore. Ma sebbene alcuni personaggi possano apparire abbozzati e a volte troppo dipendenti dalla necessità dello sviluppo della trama, i personaggi comici principali sono fedeli alla realtà: imitano la vita e al tempo stesso ci offrono dei modelli normativi di comportamento (da questo punto di vista, i personaggi sono a volte anche «più veri» che nella vita reale). Dei personaggi di questo tipo, ciascuno ha la propria voce ed è in grado di entrare in una interazione dialogica reale con gli altri personaggi e con gli spettatori. È interessante notare che gli spettatori hanno il vantaggio di conoscere già l'evoluzione della trama, che ogni personaggio conosce solo parzialmente. Tuttavia, all'interno dell'interazione comica i personaggi sono attivi, mentre gli spettatori non prendono parte all'azione diretta, ma piuttosto seguono i personaggi e esercitano un'attività di comprensione e interpretazione dell'azione. Per cui gli spettatori vivono nella commedia una vita «teorica», quella dell'osservazione e possibilmente dell'apprendimento da ciò che ne ricavano, mentre gli attori vivono una vita «pratica», quella dell'azione. Una relativa autonomia della trama nella commedia è dunque sempre bilanciata dalla veridicità dei personaggi, anche quando si 3 Per Ludwig lo si poteva osservare nel dialogo drammatico, mentre Grossman e Bachtin non lo riscontravano nella commedia, ma nei romanzi di Dostoevskij, che presentano al loro interno un'originale variante psicologica del racconto poliziesco (comico). 4 M. Bachtin, Problemi dell'opera di Dostoevskii (1929), a cura di M. De Michiel, A. Ponzio, Edizioni del Sud, Bari 1997.

6. STOI.TA SAPIENZA. IL FILOSOFO COME FIGURA COMICA

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portano addosso e riproducono un'identità equivocata o fraintesas. L'essere dei personaggi comici si configura come un essere «come se», perché essi possiedono solo un «che cosa» (un'essenza) verosimile, ma non un reale «è» (o un' «esistenza»). Però il «che che cosa» dei personaggi è pienamente umano in quanto è - o per lo meno, in una buona commedia è capace di essere - significativo per noi, spettatori o ascoltatori, che abbiamo un'esistenza realé. Possiamo comunicare con i personaggi comici, imitarli e trovarci in disaccordo con loro, come con gli altri esseri umani. In quanto interazione tra personaggi, l'azione della trama comica testimonia il loro essere dialogico - ossia, il loro essere insieme agli altri - a cui gli altri personaggi e spettatori possono prendere parte. Per questo, l'essere dialogico è sempre presente in ogni momento della commedia: implicito all'inizio, si dispiega nel corso dello sviluppo della trama e si realizza interamente come benessere con gli altri alla fine. La rivelazione dei personaggi avviene per mezzo dell'azione comica, intesa come interazione dialogica, e non attraverso una descrizione oggettiva del loro aspetto o dei tratti del loro «carattere» - nel senso di tipo psicologico - che porterebbe a definirli troppo e oggettificarli. La commedia non si basa unicamente sulla trama, e i suoi personaggi sono spesso approfonditi nella loro caratterizzazione, con svariate sottigliezze e sfumature psicologiche, come esseri pienamente umani.

Il personaggio comico: individuale o universale? Il personaggio comico rappresenta un tipo universale o un individuo? Questa domanda, come nota Silk, «è altamente discutibile se rapportata a Menandro» 7, così come se rapportata a tutta la commedia successiva. La stessa evoluzione del personaggio comico sembra Vedi A. Heller, lmmortal Comedy cit., pp. 49-50. Giusto per essere sicuri, gli spettatori guardano un dramma, mentre gli ascoltatori ascolta110 una commedia letta da altri (e i lettori ascoltano sé stessi). Gli spettatori vedo110 di più, perché hanno accesso non solo alla sfera uditiva ma anche a quella visiva, che non rientra nel testo (come gesti, smorfie, costumi, decorazioni, ccc.). Ma gli ascoltatori sentono di più, perché ascoltano la voce degli altri e quindi possono davvero essere con loro, visto che essere significa essere in dialogo. 7 M.S. Silk, Aristopbanes a11d the Definition of Comedy cit., p. 2 3 2. 5

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suggerire un movimento che parte dalla rappresentazione (e canzonatura) di un individuo concreto nella commedia antica, passa per il personaggio aristotelico, piuttosto schematico seppure universale, per arrivare poi, con la commedia nuova, al ritratto accurato di un individuo reale che si fa carico di tratti universali 8 • I tratti distintivi del personaggio comico sono suggeriti dal suo nome, che è spesso indicativo della sua posizione sociale e del suo comportamento. Diversamente da quanto accade nella tragedia, dove molti personaggi si dividono in personaggi mitologici ben noti o individui inventati, nella commedia incontriamo spesso o nomi tipici (come Davo per lo schiavo) o «nomi parlanti» {come Onesimo il nome del servo «utile» negli Epitrepontes di Menandro)9. Qualche volta la tipicità di un personaggio si presenta sotto la forma di una funzione o di una relazione familiare {figlio o figlia), di una caratteristica sociale {il paggio), o di un tratto psicologico (l'avaro). È tuttavia raro trovare un tipo che sia chiaramente e totalmente semplicistico tra i personaggi principali, solitamente sfumati a livello psicologico. Come nei dipinti a più figure, alcune figure sono ritratte in modo più dettagliato, altre rimangono abbozzate. Un'importante fonte di conoscenza delle varie tipologie di personaggio fin dagli inizi della commedia nuova è costituita dal breve trattato di Teofrasto I caratteri10 , che presenta trenta diversi tipi di caratteri, seppure in modo molto meno sofisticato rispetto a quanto aveva fatto Aristotele nei suoi brevi trattati sull'etica. Teofrasto non fornisce alcun indizio riguardo alla sequenza o al principio (o princi8 E. Olson, Tbe Tbeory of Comedy cit., p. 85. Cfr. A.W. Schlegel, Lectures 011 Dramatic Art atul Literature cit., p. 174. 9 Altri esempi comprendono Eu11omia, «buon governo» nell'Aula/aria di Plauto; Glykeria, «dolce,» nell'Andria di Terenzio; Lisatulro, «liberatore dell'uomo» in Sog110 di Utlll 11otte di mezz'estate di Shakespeare; e Arpagone, «saccheggiatore» neWAvaro di Molière, che deriva dallo Pseudo/o di Plauto. È importante sottolineare che molti nomi parlanti sono greci, il che suggerisce che la commedia romana ci teneva a sottolineare la

sua continuità con la tradizione drammatica greca. Sotto questo aspetto, la commedia moderna ha seguito le orme della commedia romana, sebbene i suoi nomi provengano anche da altre lingue, fra cui il latino, lo spagnolo, l'italiano, l'arabo e le lingue madri degli stessi drammaturghi, come nel caso del pittoresco Sir Toby Be/eh (rutto) nella Dodicesima notte di Shakespeare. Inoltre, la tradizione dei «nomi parlanti» testimonia il fatto che i romani, così come gli spettatori e i lettori successivi, erano sufficientemente istruiti da capire il significato, o per lo meno qualche accenno di significato, di questi nomi. 10 Teofrasto, Caratteri, a cura di L. Torraca, Garzanti, Milano 1994. Vedi anche R.L. Hunter, New Comedy of Greece a,uJ Rome cit., pp. 148-149.

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pi) per la classificazione dei personaggi; per ciascuno dei casi trattati si limita a dare una breve definizione di un tipo e poi a elencarne una serie di esempi. L'ironia, con cui si apre il trattato, viene definita come finzione e affettazione, che implica una autosvalutazione nelle parole e nelle azioni. L'ironia è, certamente, il tratto più saliente di Socrate, e l'esempio menzionato da Teofrasto tipicizza il filosofo come qualcuno che faceva continuamente uso di espressioni come «non posso crederci» o «questo non riesco a capirlo» 11 • Tra gli altri tipi caratteriali troviamo l'adulazione, il ciarlare, la zotichezza, la cerimoniosità, la diffidenza, l'inopportunità, la spilorceria, la millanteria e la codardia. Il trattato fu composto dopo il 319 a.C. e, dato che Menandro aveva studiato con Teofrasto, è del tutto plausibile che fosse a conoscenza di quest'opera. Ciascuno dei tipi di Teofrasto è presente in Menandro, così come nei personaggi comici successivi (per esempio, nelle Anime morte di Gogol'), anche se raramente in una forma «pura» e isolata: di solito si presentano come un tratto caratteristico di un personaggio che emerge nella sua interazione con gli altri. Per questo motivo la diffusa traduzione dell'opera di Teofrasto con titolo c:aratteri morali12 è piuttosto fuorviante, visto che in Teofrasto e in Menandro il personaggio «morale» presenta una tipologia, o una propensione psicologica che raffigura delle specifiche forme di azione appartenenti tanto agli umani che ai personaggi del dramma. Ciascuno dei caratteri esemplari di Teofrasto può essere facilmente incarnato e rappresentato sul palco, in un mimo o in una commedia. E, diversamente dal sé comico hegeliano, i personaggi di Menandro non si tolgono la maschera 13 • Tuttavia, i personaggi comici sono universali e unici ma non astratti, dato che da un lato dispongono di tratti tipici o universali e dall'altro sono riconoscibili solo per mezzo delle loro azioni e della loro voce. Questo è specialmente vero per Terenzio, i cui personaggi sono ben distanti dalla grottesca volgarità della commedia antica e tentano sempre accuratamente di preservare il decorum, ovvero le maniere decorose e appropriate di parlare e di comportarsi. La loro parvenza non è dunque quella di mere maschere, ma di figure e voci modellate in modo sottile Teofrasto, I caratteri, a cura di G. Pasquali, BUR, Rizzoli, Milano 1979, 1.6. «Caratteri morali» è una resa letterale del greco Èthikoi charakteres. '3 Lo si riscontra dai mosaici nella casa di Menandro a Mitilene, così come dai costumi che segnalavano un personaggio tipico. 11

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e veritiero. I tratti universali non fanno però dei personaggi comici dei tipi astratti, dato che ogni figura (per lo meno tra i personaggi principali) è anche un'individualità unica, non interamente coperta o esaurita da nessun tipo psicologico, né da nessuna combinazione di tipi. Giacché non si può dire che un personaggio di un dramma o una persona reale possano essere interamente rappresentati dalle caratteristiche 2, 3, 17 e 21 della lista di caratteri di Teofrasto, o da qualsiasi classificazione. Ciascuno, ogni personaggio e ogni essere umano, incarna svariati personaggi diversi, che trapelano nell'(inter)azione dialogica. Però nessuno di essi può essere pienamente tematizzato, oggettificato o ridotto a un particolare personaggio o anche a diversi tipi. Ogni essere umano si ritrova sempre a confrontarsi con un altro che non è mai tematizzabile nella sua interezza, anche se ha pienamente significato in ogni singolo momento. Tale è l'altro di un'altra persona e anche l'altro personale di sé stessi, che non può essere reso oggettivo, definito, o descritto mediante un numero finito di tratti, ma piuttosto si rivela solo in un dialogo che si svolga in un dramma o dal vivo 1 4. Pertanto, i personaggi comici sono «universali concreti», che tuttavia non rappresentano una situazione immaginaria di sublime sofferenza, ma sono capaci di interagire, nonché di condividere il benessere con altri personaggi e persone.

Lo schiavo intelligente Lo schiavo o l'ancella perspicace era una figura centrale nella commedia: faceva la sua comparsa già nella commedia antica, ma crebbe in importanza nella commedia nuova, fino a diventare onnipresente1 s, e sopravvisse fino alla commedia moderna nella figura dell'ancella 16, o del servitore, compendiata dal Sancho Panza di Miguel de Cervantes per poi arrivare fino al Lurcio della sit-com Up Pompeiil Lo schiavo si distingue per il suo essere «l'altro» per ogni altro. Lo schiavo comico differiva vistosamente dagli altri personaggi, anche 1• Come ha efficacemente osservato Sheila D' Atri, «Menandro era particolarmente abile nel rivelare un personaggio attraverso il dialogo» (S. D' Atri, Itztroductiott to Menatuler's Grouch, in R.W. Corrigan, Classica/ Comedycit., pp. 161-166: p. 161). 15 Per esempio, in Menandro (ad es., Parmenone nella Don,,a di Samo), Plauto (Crisalo nelle Bacchidi e Epidico nell' Epidicus), e Terenzio (Davo e Miside nell'Andria, Pizia nell'Eunuco, e altri). 16 Come Toinette in Le ma/ade imagitiaire o Dorine in Tartuffe.

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solo per il suo aspetto: era rosso di capelli17; aveva un ventre prominente18; ed era una figura quasi epica, pittoresca, «grave» e bizzarra. Lo schiavo recava un nome tipico che segnalava immediatamente la sua alterità: spesso, si trattava semplicemente dell'indicazione del suo luogo di origine 19 , che obliterava efficacemente tutte le tracce della sua identità di persona. In ogni caso, l'aspetto esteriore dello schiavo era sempre rivestito di connotazioni peggiorative, che pertanto lo escludevano dall'essere accettato come pari e lo relegavano ai margini della società. Per questo la testimonianza di uno schiavo in una corte di giustizia non aveva valore legale 20; e, rappresentato da un giullare in Shakespeare, egli si esprimeva in prosa, un marchio tipico dei personaggi appartenenti a un rango sociale inferiore. Come sostiene Platone nelle sue Leggi, la commedia ritrae cose ignobili e ridicole, e dovrebbe per questo essere lasciata agli schiavi e agli stranieri 21 . Uno schiavo era uno straniero e un estraneo. Era strano: esotico e marginale, era una figura comica, perché parlava, agiva e si presentava in modo diverso, in netto contrasto con la morale omologata di una comunità uniforme per mentalità e aspetto. Tuttavia, di uno straniero o di uno schiavo non ci si stanca mai, proprio perché è in grado di capire - e di dire - le cose in modo diverso. In questo senso, il filosofo è una figura comica, uno straniero nella sua stessa patria, come hanno notato sia Hans Blumenberg, sia Agnes Heller 22 , perché disprezza il senso comune che gli fa difetto ed è (o dovrebbe essere) pronto e capace di pensare al di là delle divisioni sociali e politiche e dei pregiudizi culturali. L'intellighenzia che va al di là delle classi è sempre costituita da questo tipo di personaggi comici dissidenti.

17 «rufus» (Terenzio, Phonnio, 51; cfr. Plautus, Pseudo/o, 1218). Il rosso era di solito il colore dei capelli dello schiavo nella commedia; J. Barsby, Terence cit., voi. 2, p. 17,

nota 14. 18 Plauto, Pseudo/o, 1218-1220. 19 Per esempio, Geta, Siro, Miside, Doria, e Pizia. 20 Terenzio, Phonnio, 291-293. 2.1 «dou/ois ... kai xetzois» (Platone, Leggi cit., 8r6e). 22 H. Blumenberg, Das I.achen der Tbrakerin. Ei11e Urgeschichte der Theorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1987, pp. 3 3-41 e passim; A. Heller, Immortal Comedy cit., p. 65.

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L'alterità irritante e insolente dello schiavo è provocatoria agli occhi degli altri che, nel guardarlo, prendono coscienza della loro stessa diversità che non hanno né la capacità, né la prontezza di fronteggiare. La società tradizionale richiede a uno schiavo lealtà e discrezione23, e quando gli altri scoprono dietro lo schiavo una personalità ben più complessa, tendono a ridurlo a un essere su cui esercitare potere. L'omologata classe oziosa, che ripete e riproduce sé stessa godendo immeritatamente dei vantaggi della vita, si sente frustrata se coloro che dovrebbero dipendere dai loro padroni danno prova di indipendenza con il loro modo di essere e pensare diversamente. Questo scontento - che di fatto è una frustrazione verso sé stessi e la propria vita disattesa -ci porta a stabilire dei cliché negativi sugli schiavi, che diventano apparentemente pigri, ciarlieri, fraudolenti e completamente imbecilli. Così è l'ozioso, malevolo imbroglione Xantia ne Le rane di Aristofane24, come anche il ciarliero Parmenone di Terenzio, che ironicamente «riconosce» la loquacità come suo principale punto debole 2 s. Tutte le descrizioni prevenute dimostrano una profonda frustrazione nei confronti dell'alterità dello schiavo. Ciò sembrerebbe eludere l'immediatezza della sua appropriazione come strumento utile piuttosto che come persona con una sua dignità. Eppure i padroni non possono vivere senza schiavo, non solo perché si affidano a lui per la sussistenza quotidiana, ma ancor più perché non possono sopravvivere senza la sua alterità, che incessantemente rifiutano. Senza l'altro non è possibile nessuna comunicazione, nessuna conversazione, né può avere luogo alcuna azione: la vita si ferma e l'amore è impossibile all'interno della ripetizione eternamente tediosa e soffocante dello stesso.

Identità scisse, ambiguità e ambivalenza: lo stolto L'emarginazione di uno schiavo è destinata a un inevitabile fallimento. Nella sua apparente alterità rispetto ai personaggi «normali», lo schiavo è uno dei personaggi più umani in tutti i sensi, pronto alla compassione, al perdono26, e persino al sacrificio di sé. Non sorprende, poi, che il pubblico mentre ride a squarciagola degli schiavi e del«fides et tacitumitas» (Terenzio, Andria, 34). Vedi, per esempio, Aristofane, Ra11ae, 738-813. 2 s «il/ud mibi vitiumst maxumum» (Terenzio, La suocera cit., 112.). 26 Come Doride nella Perikeiromene di Menandro (1004-1008 e passim). 23

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le ancelle, parteggi sempre per loro, e non per i padroni. Perché, pur con un tocco di Schadenfreude ( «non è successo a me»), gli spettatori, che diventano co-attori, sono sempre dalla parte degli oppressi. Nella commedia lo schiavo non era solo una figura di una certa importanza: era la figura centrale, che metteva tutti in salvo da una situazione apparentemente inestricabile, guidandoli fuori dall'impasse nel mezzo dei rivolgimenti della trama. Lo schiavo era il «direttore» di un'orchestra indisciplinata di personaggi comici; era il «regista» dell'intrigo, e inscenava un intero dramma all'interno del dramma in corso, orientandolo verso la risoluzione e il giusto fine. Egli conduceva l'azione e dirigeva un'orchestra di comici indisciplinati, risolvendosi talvolta a ingannare gli attori e altre volte a differire il piano d'azione rimanendo in silenzio, il che diventò il prerequisito per ottenere la conoscenza che porta avanti l'azione: «Se stai zitto, sentirai tutto subito» 2 7. Lo schiavo era dunque la mente, il «capo» dell'intrigo 28, colui che dettava il piano d'azione 2 9, come Siro nei Due fratelli e Parmenone nell'Eunuco. Era quell'unico misconosciuto che permetteva alla comunità dialogica dei molti attori di raggiungere il benessere. Ma, come ho già detto, a differenza dell'autonomia tragica del solipsistico soggetto moderno, l'autonomia comica è collettiva, di uno e di molti, la qual cosa può sembrare ossimorica al soggetto moderno, che è un uno escludente i molti. L'autonomia comica si realizza in un'azione comica comunitaria, guidata verso un esito positivo da uno specifico personaggio comico- il «commediagogo». Di conseguenza, lo schiavo non solo fu riconosciuto come pari agli altri, ma diventò l'incarnazione della ragion pratica: organizzando l'azione, era capace di risolvere problemi apparentemente irrisolvibili. Come sottolinea Agnes Heller, «i ruoli sociali nelle commedie sono spesso invertiti. L'ancella dice alla padrona che si comporta da sciocca. Servi e schiavi non sottostanno ai pregiudizi sociali. Spesso i matti sono i più intelligenti perché sanno guardare al di là della "nebbia" socialmente costruita dei sapienti». Lo schiavo era, dunque, qualcuno che sapeva trovare un remedium, una soluzione al

1 «scies, modo ut tacere possis» (Tere01fo, Phormio, 58-59). 28 «caput» (Terenzio, Adelphoe, 568). 29 «dedit co11silium» (Terenzio, Eunuchus, 1045). 2

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problema3°. Questo porta immediatamente alla mente il pharmakon greco, famoso (o, secondo alcuni, famigerato) per la sua ambiguità, poiché significa sia cura, rimedio, che veleno, sortilegio e pozione magica3 1 • Nella commedia lo schiavo non era più discreto e silenzioso, ma aveva il diritto - e finanche l'obbligo - di parlare. Lo schiavo diventò la fonte di ispirazione dietro lo sviluppo della trama comica. Lo schiavo era anche un personaggio carnevalesco: era sia sciocco (come comunemente lo si percepiva), dal momento che doveva eseguire i suoi piani senza dare nell'occhio, sia intelligentissimo (e lo era realmente), dato che aveva bisogno di far finta di essere sciocco mentre portava a compimento il suo piano (che tendeva ad andare storto). Inoltre, per poter attuare il piano, doveva essere paziente e doveva sperare che tutto si ricomponesse alla fine. Doveva avere abbastanza prontezza di spirito da poter lanciare una battuta o improvvisare un aforisma, il che costituiva la sua prerogativa nella commedia. Di conseguenza, lo schiavo era una figura profondamente ambigua e ambivalente. Non solo si esprimeva in modo ambiguo, ma la sua identità era sempre un'identità scissa, che poteva riconciliarsi solo alla fine dell'azione comica. Scaltro e stolto allo stesso tempo, recava tratti sia apollinei che dionisiaci, nessuno dei quali poteva rinnegare. Non era riconosciuto dagli altri (come pari), ma era pur sempre riconosciuto come la persona di cui c'era più bisogno (per l'azione): senza di lui la trama rimaneva ferma, e la complicazione non si risolveva mai nell'epilogo. Lo schiavo era dunque quasi impossibile da discernere, ma era anche la figura più importante della commedia 32• Terenzio, Phormio, 616. Eppure «in Aristofane la parola phannakos significa semplicemente furfante» (N. Frye, Anatomia della critica cit., p. 62). 32. Di esempi di personaggi comici al contempo stolti e intelligenti cc ne sono a profusione, dilaganti in tutte le culture e in tutte le epoche. Come figura u11iversale, lo stolto di genio appare sotto forma, tra le altre, di giullare, imbroglione, burlone, buffone, pagliaccio, a/azoti cd eiron. Vedi V. Stembcrg, La poétique de la comédie cit., p. 182.-185 e T.G.A. Nelson, Comedy: An lntroductioti to Comedy iti Literature, Drama, and Citiema, Oxford University Press, Oxford-New York 1990, pp. 89-102., 112-122; «anche se vi è una differen1.a tra una canaglia e un imbroglione, la linea che li separa non può mai essere sottile» ibid., p. 93). Tali erano il leale ladro Carione nel Pluto di Aristofane, Palestrione nel Mi/es gloriosus di Plauto, l'ingegnoso Siro nel Punitore di se stesso e nei Due fratelli di Terenzio, il truffaldino Geta e l'insolente Formione (homo confidens, Phormio, 123), i giullari e buffoni medievali (D. Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri 3° 3'

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Lo schiavo era una figura profondamente ironica. Mentre molti personaggi comici si accontentavano di un'identità finalizzante, radicata nei loro ruoli sociali e familiari, lo schiavo era veramente complesso, ma sembrava - e fingeva di essere - un sempliciotto. Non era mai capace di «ricomporsi» pienamente. Non era possibile tematizzarlo del tutto con un «che cosa» stabile e definibile; infatti, esisteva solo nel momento dell'interazione e del dialogo con gli altri33. Inoltre, doveva sia nascondersi, sia rivelarsi attraverso ciò che non era: le sue azioni e le sue battute erano intenzionalmente ambigueH. Appariva sia come un personaggio intenzionalmente umile e tendente a sottostimarsi (eiron ), sia come deliberatamente vanaglorioso, propenso a sopravvalutarsi (alazon). Inevitabilmente ironico, questa mente pensante della commedia voleva celare la sua intelligenza ed esibirla: voleva al contempo aiutare gli altri trasgressori del setiso comune, Einaudi, Torino 1997 e J.W. Hokenson, The Idea of Comedy cit., pp. 150-162 [«Tbc Mcdicval Fool Tradition• J), Till Eulcnspiegcl, lvan-durak (Ivan lo scemo) delle fiabe russe, Hoja Nasrcddin di Bukhara, Karagoz del teatro delle ombre turco, Andare della letteratura cingalese, Hanswurst («Gian Salsiccia•) dello Stcgreifthcater tedesco, Pietro Gonnella, famoso buffone fiorentino del quindicesimo secolo (di cui si fa menzione anche nel Doti Chisciotte), Callimaco nella Ma11dragola di Machiavelli, Puck in Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, il clown Feste nella Dodicesima notte (chiamato «stupido d'un greco• [foolish Greek]), una chiara reminiscenza dell'origine greca della commedia [nuova], l'intelligente ma subdolo picaro del romanzo picaresco, i graciosos spagnoli del diciassettesimo e diciottesimo secolo, i bufo11es di corte argutamente raffigurati da Vclb.qucz, i beceri ubriaconi Jodelct, Guillot e Ragotin, gli zanni italiani, i furfanti senza scrupoli Philipin, Arlecchino, Sganarcllc, Mascarille, Scapin, Crispin, Merlin e Frontin, la /ustige Person di Goethe, il conte My§kin in Dostoevskij, il buon soldato Svcjk in Jaroslav Ha~k, il Clov di Bcckett e molti altri. 33 Ancora una volta la commedia si dimostra simile al racconto giallo. Il detective è intelligente in modo non appariscente cd è capace di risolvere problemi complessi che coinvolgono tanto il ragionamento quanto l'agire pratico. Eppure al contempo appare spesso strano, eccentrico, stravagante al punto da sembrare stolto - ovvero incomprensibile da una prospettiva ordinaria -, mentre in realtà è una figura profondamente commovente e piena di umanità, come nei casi di padre Brown e del tenente Colombo. 34 Prima di leggere una lettera di Malvolio, che tutti avevano creduto pazzo ma che in realtà era stato raggirato da altri (e che nella lettera si era firmato The madly used Malvo/io [il maltrattatissimo Malvolio]l, un giullare affermava: «Badate a essere altamente edificata quando il buffone legge il pazzo (Look, then, to be we/1 edi{ied wheti the fool delivers the madman)• (W. Shakespeare, Dodicesima notte cit., atto V, se. I, 287). La parola deliver in questo caso contiene un gioco di parole in quanto indica sia presentare il messaggio di, sia liberare il povero matto. Se ho ragione a sostenere che i Olratteri di Tcofrasto descrivevano dei tipi comici, allora non è casuale che l'elenco si aprisse con la definizione dell'ironia come tipo fondamentale di carattere.

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a conseguire i loro scopi e soddisfare le loro brame (erotiche) e aiutare sé stesso a raggiungere la sua liberazione personale e il riconoscimento della sua parità. L'ironia della sua stoltezza, allora, consisteva nel suo fingere di essere stolto, quando in realtà era il personaggio più scaltro della commedia, cosa di cui non solo gli altri, ma anche lo stesso schiavo non poteva avere coscienza. La situazione dello schiavo implicava dunque un paradosso. Sembrava personificare la congiunzione logicamente impossibile di vari opposti: era uno stolto scaltro e per questo incarnava tanto la sapienza, intesa come conoscenza nella sua interezza, che la sua totale mancanza. Tuttavia, a differenza dell'inconscio freudiano, che è «il regno dell'illogico», l'ambiguità dello schiavo non violava le leggi della logica, compresa la legge di non contraddizione - perché la contraddizione implicata era solo apparente, dato che lo schiavo personificava ed esibiva queste qualità opposte sotto diversi aspetti. Lo schiavo sapeva di non sapere (quale fosse il corso dell'intera azione). Nella commedia la saggezza consisteva nella consapevolezza che per agire bene (a beneficio degli altri), si dovrebbe - ma non si può - agire con la piena cognizione di tutto ciò che dovrebbe accadere nel tragitto verso l'esito positivo. La saggezza comica era dunque, paradossalmente, un'abdicazione della conoscenza che sospende sé stessa - e quindi permette un'azione sia ragionata, sia spontanea. Pertanto nella commedia per essere stolti bisogna essere pensatori acuti e attori sofisticati35. Soltanto lo stolto era una persona saggia, mentre la persona (in apparenza) saggia era stolta3 6 • Come fare a 3S Per Hcgcl, tuttavia, lo stolto della commedia era solo un semplicione e un ingenuo: «Gli ottusi sono dei semplicioni... [Dic Toreo sind so unbcfangene Torco]" (G.W.F. Hegcl. Estetica cit., p. 2879; Id., Werke cit., voi. 15, p. 554). In questo caso Hcgcl, altrove un acuto dialettico, si dimostrava egli stesso alquanto ingenuo. 36 Viola sul clown: «Costui è abbastanza saggio per recitare /La parte del buffone: e per farla bene / Ci vuole una speciale arguzia. Lui deve / Osservare l'umore di chi prende in giro, / La qualità delle persone, e il tempo, e, / Come il falco, gettarsi su ogni piuma / che gli viene davanti agli occhi. Questa I È una pratica tanto faticosa quanto/ L'arte d'un uomo saggio. E infatti/ La follia ch'egli mostra saggiamente è buona: / Ma il saggio, in preda alla follia, sragiona (This fellow is wisc enough to play the fool, / And to do that wcll craves a kind of wit. I He must observe thcir mood on whom he jests, /Tue quality of persons, and the time;/ Not, like the haggard, check at every feather / That comes bcfore his eye. This is a practicc / As full of labor as a wise man's art; / For folly that he wisely shows, is fit; / But wise men, folly-fall'n, quite taint their wit») (W. Shakespeare, La dodicesima notte, Feltrinelli, Milano 2015, atto lii, se. I, 62-70, tr. it. A. Lombardo).

6. STOI.TA

SAPIENZA. IL FILOSOFO COME FIGURA COMICA

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essere stolti è qualcosa che uno dovrebbe sapere. Perché lo stolto era colui che riusciva a superare tutti gli altri in scaltrezza, senza che neanche se ne accorgessero, e non per il proprio tornaconto, ma per quello altrui. Anche a livello della prevenuta percezione del pubblico lo schiavo era considerato sia stupido, sia scaltro e astuto37. Tuttavia, l'astuzia spesso non era insolenza, bensì un travestimento per una persona pavida e timida che tuttavia si assumeva il rischio di raccontare e inscenare la verità. E la stupidità rappresentava il sapere di non sapere, che è già in un certo senso una conoscenza. Per questo quando Menedemo dice di non essere particolarmente intelligente e di poter essere considerato uno sciocco3 8, mostra di non essere affatto stolto; così, egli agisce da schiavo. Perché la capacità di riflettere su sé stessi in modo giudizioso e critico è già di per sé segno di intelligenza. L'ipocrita presuntuoso è, in realtà, uno stolto, perché, incapace di autentico dialogo con l'altro, non è in grado di opporre a sé stesso una distanza riflessiva e dunque di conoscere la sua non-conoscenza di sé. Come giustamente osserva il giullare in Shakespeare, «Spirito mio, se vuoi, mettimi in vena di buone buffonate! Gli spiritosi che credono di possederti, molto spesso si dimostrano matti. E io, che sono sicuro di non averti, posso passare per savio. Che cosa dice Quinapalus? "Meglio un matto spiritoso che uno spiritoso scemo" »39. È difficile mantenere un delicato equilibrio tra polarità opposte. Così, lo stolto talvolta scivolava nella furfanteria e nell'imbroglio; ma, nella veste di imbroglione, cospiratore e intrigante, mancava di furbizia. Dato che lo stolto aiutava in primo luogo gli altri - e solo in questo modo finiva per aiutare sé stesso - era altruista e si sminuiva. Rinnegando e (spesso malvolentieri) sacrificando sé stesso per gli altri, incarnava ciò che gli altri non avevano - una stolta saggezza - e alla fine riguadagnava sé stesso, insieme agli altri. Poiché, in un dato momento, egli non coincideva con sé stesso, era sempre più e sempre meno di ciò che era. Questa identità scissa (ma non «illogica») - l'essere sia un eroe sublime, sia un astuto antieroe - la si trova anche nella figura di Odisseo. Pertanto, lo stolto combinava in sé qualcosa «stultus• e «callidus» (Terenzio, Phormio, 591 ); cfr. astutia (Id., A11dria, 723 ). Terenzio, Heauto11timorumenos, 874-878. 39 W. Shakespeare, La dodicesima notte cit., atto I, se. V, 32-36. Quinapalus è un'autorità ironicamente inventata. 37 38

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di divino (il «folle santo» della tradizione bizantina) e qualcosa di animale. Per questo veniva rappresentato come un animale scaltro e arguto4°. Il matto era essenzialmente buono, anche se la sua bontà umana, situata tra il divino e l'animale, non fu ben compresa dal soggetto moderno, solitario e moralista4 x. Solo uno stolto intelligente poteva guidare una trama, recitandoci e giocandoci - con pensieri, azioni, gesti e parole. Lo stolto intelligente è dunque una figura opportuna e indispensabile in un'opera teatrale comica.

Libertà per uno, libertà per tutti: il paradosso della libertà

Il senso complessivo della commedia è quello di affermare e stabilire - alla fine - l'umanità e l'uguaglianza di tutte le persone coinvolte nell'azione, soprattutto degli oppressi. La commedia è una procedura drammatica che permette il riconoscimento e l'accettazione dell'altro e di sé stessi. Consente la liberazione dall'oppressione nelle sue varie forme: personale, psicologica, famigliare, sociale e politica. In questo modo, il fine della commedia è l'abolizione della schiavitù in tutte le sue espressioni. Eppure la libertà non è qualcosa che semplicemente accade o si verifica da sola, come un colpo di fortuna o un dono del fato: bisogna battersi, tramare, agire, lavorare e lottare per la liberazione insieme agli altri. Anche in questa lotta era possibile notare l'ambiguità dello schiavo: era al contempo la mente dietro l'azione che conduceva alla libertà e la figura più oppressa. Lottando per la liberazione degli altri, combatteva anche per la propria. In quanto regista-attore della com-

4° Questo tipo di animale era anche uno dei personaggi favoriti delle favole, come Frate! Coniglietto (B'rer Rabbit) o la Volpe, il che ancora una volta mostra la prossimità della commedia alla favola. 4 ' Secondo Schlegel, «Lo schiavo astuto era pure d'ordinario il buffone titolato, o vogliam dire quel personaggio che si compiace nel confessare, con una sorta d'esagerazione, i suoi appetiti sensuali e la sua poca coscienza, che mette in can1.one tutti gli altri, e volentieri si volge coi suoi detti agli spettatori. Questo personaggio servì di modello ai moderni servitori di commedia; ma dubito che sia stato trasferito nei costumi nostri con tanta convenevole1.1.a e verità, quanta ne aveva altre volte,. (A.W. Schlegel, CLD, pp. 317-3 18 ). Vedi anche P. Berger, Redeeming Laughter: The Comic Dimension of Human Experience, De Gruyter, Berlin-New York 1997, pp. 190-196.

6.

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media, lo schiavo è anche pigro: come si tramanda che abbia detto Socrate, la pigrizia è sorella della libertà 42. Lo schiavo comunque non stabiliva quasi mai esplicitamente la libertà personale come scopo delle sue azioni, anche se sperava sempre nella libertà come il più ambito e più caro dei suoi obiettivi, specialmente per qualcuno che, come lui, non l'aveva. Non è possibile essere ben sistemati se non si è liberi. Questo è, tuttavia, il minore dei successi. Lo schiavo aiutava gli altri a risolvere una situazione apparentemente irrisolvibile, e solo allora poteva ricevere il riconoscimento e la liberazione. Ma il risultato minimale è quello di capire che non si può essere liberi se non si è liberi tutti. È il caso del padre irascibile e spilorcio, che si scopriva felice e libero (anche se forse per un solo momento) quando capiva che gli altri erano liberi e felici: il figlio perché era insieme alla donna che amava e lo schiavo perché era stato liberato. La commedia implicava l'universalità dell'uguaglianza umana, in quanto rappresentava la contingenza delle distinzioni sociali e di classe. La libertà del più oppresso nella commedia comportava un paradosso. In quanto filosofo «pratico» e pensatore-in-azione, lo schiavo comico era in grado di trasgredire le differenze sociali, dimostrando che sono solo una questione di convenzioni che nulla hanno a che fare con la condizione umana. Questo era mirato all'ottenimento dell'esito positivo per mezzo dell'azione comica e della deliberazione. Come affermava Euripide, l'infamia dello schiavo esisteva a livello nominale, era cioè solo una convenzione, ma uno schiavo assennato e probo nelle azioni non era diverso da un uomo libero43. La contingenza delle distinzioni sociali e di classe era evidente già in Aristofane: nella sua visione politica utopica, gli uccelli non portavano borse44 e quindi non vi erano corruzione e distinzioni basate sul denaro; solo gli uccelli che in precedenza erano stati umani ingaggiavano dei servi45 ed erano quindi già corrotti; e gli schiavi, gli stranieri e i diseredati erano i benvenuti nella loro comunità4 6• Nella commedia nuova greca e specialmente nella successiva commedia romana, che riflettevano un mondo in crescita, cosmopolita e multiculturale, c'era una chiara comprensione del42 43 44

4S 46

Claudio Eliano, Varia historia, X, 14. Euripide, Ione, in Id., Le tragedie cit., 854-856. Aristofane, Aves 157. Ivi, 70-75. Ivi, 764-765.

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la totale arbitrarietà delle differenze di classe47. Nella commedia era lo schiavo a essere saggio, e il padrone appariva o avido e stupido (se vecchio), o megalomane e inesperto (se giovane). Era lo schiavo ad aiutare il padrone a uscire da una situazione difficile e ad allietarlo di tanto in tanto con motti di spirito (spesso volgari e osceni) 48 . Nell'accoppiata oppositiva di schiavo brillante e padrone ottuso, il primo «illuminava» il secondo e gli permetteva di diventare più umano. Il paradosso della liberazione nella commedia è tutto qui: lo schiavo, che necessitava della liberazione più di chiunque altro, era già. libero. Perché, mentre aiutava gli altri a diventare liberi prima che fosse liberato egli stesso, era anche un pensatore -il pensatore della commedia. Come tale, era in grado di avere libertà di pensiero e di parola49, anche se spesso in una forma camuffata. E i pensieri e le parole in libertà sono rischiosi e pericolosi, giacché sono provocatori e vanno contro le convenzioni morali, sociali e politiche del tempo, specie se pronunciati al cospetto di qualcuno che detiene una posizione di poteres0 • Il momento della liberazione dello schiavo, nella conclusione della commedia, risolveva il paradosso della coesistenza tra l'essere già liberi (in quanto esseri umani dotati di ragione e dignità) e il non esserlo ancora (per via del mancato riconoscimento della propria libertà da parte degli altri). Molto prima di Hegel, la dialettica comica comprendeva e incarnava sul palco le relazioni tra schiavi e padroniSI. Conducendo e dirigendo la commedia, lo schiavo dimostrava 47 Terenzio doveva saperlo meglio degli altri, essendo egli stesso uno schiavo liberato. Come affermava Moschione nella Donna di Samo di Menandro, «lo non credo che vi sia alcuna differen1.a tra una condizione di nascita ed un'altra; però, se si vuole formulare un giudizio equo, allora l'uomo onesto è legittimo, mentre il disonesto è anche bastardo e schiavo» (Menandro, Samia, 140-143). 48 Plauto, Pseudo/o, 23-24. 49 In seguito questo diventò il privilegio del giullare: «Non c'è offesa in un buffone patentato, anche se non fa altro che ingiuriare; né c'è ingiuria in un uomo contegnoso, anche se non fa altro che rimbrottare (There is no slander in an allowed fool, though be do nothing but rail; nor no railing in a known discreet man, though be do nothing but reprove)» {W. Shakespeare, La dodicesima notte cit., atto I, se. V, 95-98). so Come fece Diogene, che possedeva meno di tutti, al cospetto di Alessandro Magno: Dione Crisostomo, Disc., 4.1-35. s• G.W.F. Hegel, Fenomenologia cit., SS 190 sgg.; Id., Werke cit., voi. 3, pp. 150 sgg.; vedi anche A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hege/. Lezioni sulla Fenomenologia dello spirito tenute dal 1933 al 1939 all'Éco/e pratique des Hautes Études, raccolte e pubblicate da Raymond Queneau, edizione italiana a cura di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996, pp. 45-67.

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di esserne il padrone - il maestro dialettico, la testa pensante e l'architetto della trama. E il padrone si rivelava essere lo schiavo della commedia, in quanto doveva subire i rivolgimenti, le trappole e le risoluzioni che spesso lo trascinavano nel corso dell'azione e della «argomentazione» della trama.

Strutture di dominazione e strategie di liberazione Il personaggio comico veniva ritratto come un individuo, ma aveva anche dei tratti tipici. Le tre tipologie cospicue di figure comiche erano i genitori (padri e madri), la prole (figli e figlie) e i servi (maschi e femmine). Questi tre tipi di personaggi erano i tre punti focali che definivano la commedia e la sua azione. La triade comica stabiliva tre coppie, ognuna delle quali era caratterizzata da un particolare tipo di interazione. Gli esempi comici più comuni di queste tre coppie erano padre-figlio, figlio-schiavo e schiavo-padre. In ciascuna delle coppie vi era una chiara opposizione basata su un rapporto di dominazione, dell'oppressore sull'oppresso. Al contrario, l'idea moderna di dominio si è basata su un'opposizione dualistica alquanto semplicistica: Hegel la descrisse con la famosa opposizione schiavo-padrone, che definiva un momento all'interno di uno sviluppo lineare (dello spirito), seppure intricato, che presupponeva che gli opposti fossero in grado di interagire (o «lottare») senza una mediazione. Un'interazione basata su tre, e non due, agenti presentava un tipo di distribuzione del potere del tutto differente. Tre punti definiscono un piano. La progressione della trama poteva essere sempre ricostruita (ma solo retrospettivamente) come un'argomentazione lineare che muoveva attraverso una serie di passi, fatta eccezione per quei casi in cui era deliberatamente frammentata o interrotta. Tale progressione è, tuttavia, in realtà molto più contorta, in quanto contempla una serie di movimenti collaterali piuttosto che di passaggi espliciti o di relazioni obsolete: più che di una linea retta, si tratta di un meandro. In una struttura triadica ogni elemento è indipendente e tuttavia di pari importanza rispetto agli altri: non è né incorporato negli altri due, né derivato da essi. Pertanto, il terzo personaggio nella commedia non era un mediatore tra gli altri due o un «superamento» della loro scomoda relazione, né rappresentava una «sintesi» della «tesi» e dell' «antitesi».

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La struttura triadica della commedia impediva un completo dominio di uno qualunque dei tre componenti. Ciascuno dei tre «sopraffaceva» un altro ed era a sua volta «sopraffatto» da quello restante. La struttura di potere triadica della commedia era simile a quella del gioco sasso-carta-forbice, anche detto rochambeau o morra cinese, dove, a seconda della specifica combinazione, ciascuno dei tre può avere la meglio (il sasso sulle forbici, le forbici sulla carta, la carta sul sasso). Questo tipo di interazione, che stabilisce un equilibrio tra il dominare e l'essere dominati, e dunque allo stesso tempo fissa una struttura di oppressione e una strategia di liberazione, era onnipresente nella commedia nuova. Il padre ha la meglio sul figlio (servendosi della famiglia e delle sue relazioni economiche), il figlio prevale sullo schiavo (grazie alla gerarchia sociale), ma lo schiavo riesce a sopraffare il padre (battendolo in astuzia). La liberazione, come ho già detto, arrivava solo alla fine della commedia, come risultato di un'azione concertata, il cui direttore d'orchestra era lo schiavo. Pertanto, il ruolo dello schiavo, il personaggio più oppresso in una gerarchia di dominazione che andava dall'alto verso il basso, era di estrema importanza: in primo luogo, perché trasformava la malsana gerarchia verticale nella figura triangolare (o circolare) della morra cinese; e in secondo luogo perché i suoi raggiri astuti ma non malvagi permettevano la liberazione di tutti nella apokatdstasis comica. Da un punto di vista numerico, la tripartizione permette anche una migliore e più ricca distribuzione delle possibili relazioni in un'azione drammatica: nel caso di un duo si ha una sola relazione, che può facilmente diventare troppo rigida e logorata. Nel caso di un quartetto, le possibili relazioni tra gli attori sono sei, e sono anche troppe: alcune finiranno per essere inevitabilmente sommarie, abbozzate e difficili da seguire. Ma nel caso di una triade vi sono tre relazioni, ognuna delle quali può essere attivamente esplorata e assumere un'importanza pari a quella delle altre, contribuendo a determinare una distribuzione del potere più equilibrata. Non è forse un caso, allora, se la divisione di Montesquieu del governo in tre rami -legislativo, esecutivo e giudiziario - si sia dimostrata il più stabile ordinamento del potereP·. P• Sorprendentemente, una distribuzione di potere simile alla struttura sasso-cartaforbice non è presente solo nella commedia, ma anche in natura, in particolare nel fenomeno del trimorfismo sessuale maschile, che è stato osservato in diverse specie di coleotteri, isopodi, pesci, lucertole e uccelli (come il combattente). I coleotteri hanno coma di tre forme e dimensioni distinte, i combattenti hanno tre diverse sta1.zc e colorazioni del piu-

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Dianoia

Lo schiavo è dunque lo stolto, che è più intelligente di ogni altro ma ragiona sotto copertura, sovente costretto a pensare entro i confini delle circostanze in cui si trova. Ma sembra anche che pensare gli piaccia, perché pensare porta soddisfazione tanto come attività fine a sé stessa che nella misura in cui conduce a un buon esito che riguarda tutti. Perché il benessere degli altri è una ricompensa molto più grande del benessere solo di qualcuno, giacché un benessere isolato e «autonomo» è una contraddizione in termini: il benessere è benessere con gli altri, perché essere è essere (in dialogo) con gli altri. In Terenzio, un personaggio talvolta si rivelava per mezzo dei suoi mores (i principi morali), talvolta mediante l'ingenium (il modo di pensare), e altre volte attraverso una combinazione dei due. Il pensiero o l'intelligenza di uno schiavo ingegnoso era il pensare sempre parziale di una mente discorsiva in azione (dianoia), che agiva per calcoli e dimostrazioni e necessitava di una serie di passaggi per capire alla fine qualcosa o stabilire una conclusione. Non si trattava affatto di un intelletto onnicomprensivo (nous) in grado di cogliere qualsiasi punto facendo a meno del ragionamento, col semplice atto del pensiero (qualcosa di incomprensibile a un pensiero ricorsivo). In Platone, e specialmente nella tradizione neoplatonica, la dianoia era la «facoltà» della filosofia e della dialettica. Era dunque anche la facoltà dello schiavo in quanto pensatore della commedia. Il «pensiero»-dianoia, una delle componenti strutturali del dramma, era una delle due parti costituenti (insieme al «personaggio»ethos) che distinguevano un personaggio drammatico. Nel già citato Tractatus Coislinianus, la dianoia corrispondeva all'opinione o alla

maggio e le lucertole del tipo Uta sta11sburiana, diffuse nell'ovest degli Stati Uniti, hanno tre tipi diversi di colorazione della gola. Le lucertole arancioni dominano e controllano un vasto territorio, quelle blu un territorio ristretto e le gialle nessun territorio. In altre parole, le arancioni hanno molto, le blu poco e le gialle non hanno niente. Tuttavia, in un gioco di pesi e contrappesi di potere a forma di rochambeau triangolare, gli arancioni sopraffanno i blu; i blu hanno la meglio sui gialli; e i gialli vincono sugli arancioni battendoli in astuzia, dato che usano parte del loro territorio quando gli arancioni sono occupati a difenderne altre parti. In questo modo, nessuno ha il coltello dalla parte del manico in modo assoluto.

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dimostrazioneB. Tuttavia gli autori rinascimentali, che per lo più avevano difficoltà a spiegare il termine, lo tradussero con sententia54 • Come ha sostenuto Arbogast Schmitt, il «pensiero» dovrebbe essere compreso nel quadro della distinzione aristotelica tra virtù morali o «etiche» - le abitudini che permettevano di fare la scelta giusta e di agire secondo misura - e virtù «dianoetiche», basate sul pensieross. Dunque l'abitudine morale-ethos trova sempre il suo completamento nel pensiero-dianoia, non solo nell'etica, ma anche nel dramma, nella misura in cui un simile pensiero è un riflesso, un'imitazione e un modello normativo dell'attività umanas 6 • Se la trama comica nel suo complesso, come ho sostenuto, rappresenta una «macro-argomentazione» che rende possibili l'amore, la vita, la libertà e il benessere umano, il pensiero-dianoia permette l'esistenza di una «micro-argomentazione» creata dai personaggi nello sviluppo dell'argomentazione principale della trama. La dianoia è, dunque, quella capacità di pensare in modo discorsivo che fa sì che sia possibile procedere dalle premesse alla conclusione attraverso una serie di passaggi ragionati. L'intelletto non-discorsivo-nous rende presumibilmente possibile l'intuizione della giusta conclusione in modo immediato, come se fosse già contenuta nelle premesse, senza che sia necessario un «discorso» o una «gestione» del ragionamento: in questo modo, può fare a meno del dramma del pensiero. Ma per quanto riguarda la dianoia, il processo del pensiero e del ragionamento è indispensabile. Tale pensiero è di per sé dramma e diventa commedia se riesce a suscitare e a guidare gli affetti, le passioni e le emozioni e a giungere al fine desiderato o alla conclusione 57• Questo tipo di pensiero è pratico e «poetico», in quanto dirige l'azione e conduce la produzione del dramma con mezzi pratici: i personaggi comici non si perdono in teorie, ma agiscono con concreS3 G,wme o pistis. La dimostrazione comprendeva anche giuramenti, accordi, testimonianze e traversie. Cfr. Tractatus Cois/i11ia1111s, XIII. 54 B. Weinbcrg, A History of Literary Criticism in the Ita/ia,i Renaissa,zcecit., p. 804. 55 A. Schmitt (a cura di), Kommentarzu: Aristotelescit., pp. 354-360, 581-585. Vedi anche M. Whitlock Blundell, Ethos a,zd Diatzoia Reconsidered, in A. Oksenbcrg Rorty (a cura di), Essays on Aristot/e's Poetics cit. pp. 156-157, 166-168), che sottolinea il ruolo della scelta deliberata (proairesis), che richiede sia ethos, sia diatzoia e diventa centrale nella costituzione dell'azione. 56 Aristotele, Poetica cit., 1149b38; EN 1107a1, 1138b18 sgg. 57 Aristotele, Poetica cit., 145ob5-12., 1456a34-37; EN 1139a2.1-36, 1142.b12..

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tezza, spinti da situazioni difficili e seguendo un piano, guidati dallo schiavo intelligente che tuttavia spesso non comprende pienamente ciò che sta accadendo, fino a quando non viene rivelato alla fines 8 • I personaggi comici quindi pensano in azione, spesso senza neanche sapere, fino alla fine, di pensare attraverso l'azione, proprio per mezzo di quello che fanno. Per questo la commedia ha bisogno di un pensiero ragionato, espresso nel parlato (legein) che riveli un atto di ragionamento (logos) tradotto in azione insieme ad altre persone. Questo pensare-in-azione rivela cosa è e cosa non è, e stabilisce ciò che è universalmente valido e possibile in un caso particolare -quello del pensiero in un'argomentazione, della vita e della libertà di una persona. Procedendo per mezzo dell'affermazione e della negazione (kataphasis kai apophasis), il pensiero discorsivo-dianoia è capace di provare, di confutare e di formulare un giudizio appropriato, spesso sedimentato in una massima-gnome. Il pensiero comico ha quindi a che fare con ciò che può essere raggiunto e organizzato da un discorso e da un ragionamento incarnato: è dunque logico e dialettico. Il dialettico in una situazione di incertezza

Come ho già detto, la struttura generale della commedia imita, riproduce e assimila la struttura dell'argomentazione dialettica, ovvero di una costruzione razionale che si realizza per mezzo del movimento del pensiero discorsivo-dianoia dalle premesse alla conclusione. Il flusso dell'argomentazione dialettica drammatica è azionato da domande e risposte che fanno riferimento agli opposti, si servono di mezzi dialettici e sono portate avanti da almeno due interlocutori all'interno di uno scambio agonistico: c'è chi chiede e chi risponde. Ma gli interlocutori non sono simmetrici: il dialettico è colui che pone le domande e si accolla il rischio di suggerire, mediante apposite azioni e quesiti, la direzione dello sviluppo della trama. Chi risponde, d'altro canto, è inizialmente responsabile della tesi o dell'affermazione dibattuta, e fornisce le risposte alle domande. 58 E.A. Havelock, The Muse Leams to Write, Yale University Press, Yale 1986, p. 95: «Un personaggio del dramma greco non si tira fuori da una situazione spiacevole attraverso la teoria. Piuttosto vi si addentra con motiva1Joni specifiche e, se proprio deve, in seguito l'accetta dopo aver riconosciuto cosa è effettivamente accaduto».

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Il pensiero umano, e in particolare quello comico, è sempre parziale e incompleto, e pertanto presuppone il processo di ricerca e di azione, e solo di rado l'atto della comprensione. Tale pensiero ha perciò bisogno del sostegno di una competenza - arte, talento, o techne, la capacità di agire e costruire una trama - che è dialettica, ed è l'arte del ragionamento in filosofia e quella dell'azione ragionata nella commedia. Fin dagli albori di questa tecnica di ragionamento, con l'illuminismo sofistico greco, il dialettico sapeva quale domanda porre in un determinato snodo della disputa; sapeva cioè formulare una domanda attentamente preparata che avrebbe ottenuto una risposta che faceva avanzare il ragionamento nella direzione del fine desiderato. Tuttavia, il dialettico era all'oscuro del perché sapeva, a ogni snodo del ragionamento, quale domanda fosse quella giusta e quale sarebbe stata, a quel punto, la giusta mossa logica che ne sarebbe seguita. Di conseguenza, quella delle domande dialettiche non è una disciplina o una scienza, ma un'arte, simile nella struttura all'arte di far avanzare la trama comica mediante il dialogo. I personaggi dei dialoghi dialettici o comici non sapevano perché stavano ponendo le domande che sarebbero risultate giuste dalla prospettiva della fine. Solo l'autore dell'opera poteva saperlo, ma di solito non lo rivelava, di modo che gli stessi lettori o spettatori fossero costretti a indovinare e a ripristinare la «logica» di una trama dialettica o drammatica. Come arte, la dialettica antica differiva da quella moderna, che, pur ispirandosi al suo modello antico, intendeva sé stessa come scienza e come metodo universale di ragionamento corretto e preciso. Il dialettico era, quindi, un artigiano logico e l'abile testa pensante dietro la costruzione o distruzione della complessa argomentazione dialettica e della trama dialogica (comica). Ma lo schiavo nella commedia era anche il pensatore, e il suo pensiero, come già detto, era comunque parziale, così come la sua conoscenza era incompleta: l'interezza dcli' «argomentazione» drammatica sul momento gli sfuggiva sempre. Anche se sperava di raggiungere l'esito (positivo) con un ragionamento comico, nulla garantiva in anticipo che la conclusione sperata si sarebbe potuta raggiungere. La sua saggezza era la conoscenza del suo socratico non-sapere: lo schiavo era il filosofo della commedia. Egli sapeva che stava (involontariamente) pensando, ma non sapeva se il suo pensiero sarebbe andato a buon fine, la qual cosa poteva essere colta solo sul finale. Lo schiavo era dunque il dialettico della commedia. Trattandosi di qual-

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cuno che ragionava, aveva però un'identità inevitabilmente scissa, perché il pensiero discorsivo è profondamente ambivalente, e spesso opera attraverso errori e digressioni, non disponendo sul momento di ciò di cui va alla ricerca. Inoltre, spesso nessuna delle strategie e degli espedienti che ha a disposizione sembra funzionare, cosa di cui si accorgeva Geta quando pensava a come placare la rabbia del vecchio ingannandolo: «Glielo dico? Lo aizzo. Sto zitto? Lo esaspero»S9. Quando l'azione comica è diretta in modo dialettico, ogni atto è definito (spesso in modo implicito) facendo riferimento a degli opposti (dei contraddittori), che sono l'uno la negazione dell'altro: fai questo e non farlo. Come ha sottolineato Roman Jakobson, in questa opposizione privativa (A e non A), la parte privativa, «più debole» (non A) ha un volume maggiore («non rosso» in «rosso e non rosso» )60 • Pertanto, nell'azione il «non fare» o il «non accadere nel modo in cui era stato pianificato e concepito», che è la parte privativa dell'opposizione (logica), dovrebbe sempre essere ulteriormente specificato. Per questa ragione, la pianificazione di un'azione è sempre una lotta con l'indefinitezza della situazione, che si esprime nell'opposto privativo. Portare avanti una determinata azione significa quindi trasformarla in un opposto contraddittorio definito e definitivo, ovvero non solo in un'altra azione, ma nell'altra azione. Nondimeno, nella vita c'è sempre l'indeterminazione, un «surplus» che non può essere del tutto dissolto e risolto tramite un'azione e una decisione razionale. Nella commedia il più delle volte il dialettico-schiavo arguto pianificava un'azione, anche se non era mai sicuro che avrebbe funzionato. Il resto era lasciato alla tyche (il topos della [buona] fortuna), che era di fatto un funzionamento comune delle persone che agivano nell'ottica dell'esito positivo, spesso senza neanche farci caso. In questo modo, la bontà della commedia era affidata alla fiducia vicendevole delle persone che, alla fine, superavano (o per lo meno sospendevano temporaneamente) la divisione, l'esclusione, l'oppressione e la mancanza di libertà dell'inizio. Il dialettico dunque sa di non sapere (come comportarsi) ma agisce comunque, giacché possiede l'intelligenza per pianificare l'azione, «loquame? ltzce11dam. taceam? ltzstigem» [ferenzio, Phormio, 185-186). R. Jakobson, Beitrag zur al/gemeineti Kasuslehre, « Travaux du cerclc linguistiquc dc Prague», 6, 1936, pp. 240-2.88. S9

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pur non essendo in grado di vederne, nel momento specifico, tutte le conseguenze. Il dialettico non conosce il corso preciso dell'argomentazione o di una trama che potrebbe anche temporaneamente avvitarsi su sé stessa o imbattersi in provvisori vicoli ciechi. Tutto quello che può fare è indovinare, mettere in pratica le sue capacità, e provare a calcolare e anticipare gli eventi futuri, qualcosa che, ad ogni modo, è possibile solo fino a un certo punto. È esattamente così che un dialettico dimostra un'argomentazione, che è significativa in ogni suo passaggio, ma non è ancora stabilita fino a quando non si raggiunge la conclusione. Come Siro dice a Demea: «Questa sì che è saggezza (sapere) ... non vedere soltanto ciò che sta davanti ai piedi, ma anche prevedere quello che succederà» 61 • Siro però lo dice in tono ironico, giacché non può essere certo della buona riuscita dell'intrigo fino all'ultimo, quando tutto si sistemerà e giustificherà post factum l'azione comica dialettica. Non essendo mai sicuro dell'esito nel momento in cui è dedito a ragionare e a procedere lungo i vari passaggi di domande e risposte, lo schiavo dialettico evita di rendere la sua «arte» ben visibile persino a sé stesso. È dunque una figura profondamente ironica, che deve nascondere sé stesso e la propria abilità in modo da far funzionare il suo sapere che-ancora-non-sa. È così che lo schiavo intelligente dimostra di essere il maestro dialettico della commedia. Un vivido esempio di quest'azione comica dialettica lo fornisce la Suocera di Terenzio. Al termine della commedia Panfilo osserva con gratitudine che Parmenone lo ha aiutato senza saperlo, ma quest'ultimo risponde che sapeva perfettamente cosa aveva fatto, anche se l'aveva fatto involontariamente e non di proposito 62 • In altre parole, Parmenone ha fatto ciò che intendeva fare, sebbene non fosse affatto sicuro che il suo piano avrebbe avuto successo. Ovvero, il «dialettico» Parmenone è al corrente di ciò che non sa - e che non può sapere (qualsiasi cosa in anticipo), mentre il padrone Panfilo, il cui benessere finale è debitore delle azioni di Parmenone, non conosce neanche questa non-conoscenza. Agendo, Parmenone usa le sue abilità in maniera ottimale, affidando alla necessità del caso il resto accidentale del suo agire, in un'azione concertata eseguita insieme agli altri, che 61 «istuc est sapere, non quod ante pedes modost videre sed etiam i/la quae futura sunt prospicere» (feren1fo, Ade/phoe, 386-368). Un altro aforisma coniato da uno schiavo. 6 ~ «{ed imprudens quam scie,,s,. (Terenzio, La suocera cit., 875-880).

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consente all'intera «argomentazione della trama» di risolversi positivamente alla fine.

Il cuoco

In una parodia di una vera argomentazione dialettica, Platone fa dire al sofista Dionisodoro che poiché è bene che ogni maestro faccia ciò che ci si aspetta che faccia - in particolare, per un cuoco, che cucini -, se qualcuno dovesse cucinare un cuoco, farebbe la cosa giusta 63. Questa argomentazione è ovviamente ironica, visto che è immediatamente riscontrabile come fallace e che il lettore nel frattempo è al corrente di brillanti esempi di dialettica vera, spesso praticati da Socrate, il quale era anche l'ironico interlocutore di Dionisodoro. I cuochi famosi erano delle celebrità della loro epoca, e il cibo rappresentava un aspetto fondamentale nella commedia64. Spesso nella commedia antica lo spettacolo era accompagnato da un lancio di cibo sul pubblico, ed era frequente che le commedie si concludessero con un banchetto, come nel caso delle Ecclesiazuse di Aristofane, dove le protagoniste femminili mangiano /a pietanza, un piatto che incorpora tutte le possibili prelibatezze di carne e di pesce, il cui nome composto è il più lungo vocabolo mai scritto in greco antico6 5. La pittoresca figura del cuoco (mageiros) era anche comune nelle favole6 6 • Nella commedia dell'età di mezzo il cibo abbondava, e il personaggio buffonesco di maggiore rilevanza era il cuoco 67. Il cuoco appariva regolarmente sul palco nella commedia nuova, come anche in quella moderna 68• 63 «ta proseko,ita» (Platone, F.utbydemus, 301 c-d). Cfr. anche Gorgia, 462a-466a, dove Platone propone W1 parallelismo sfavorevole tra il ragionamento sofistico e l'arte della rucina. 64 Claudio Eliano, Storie varie, a rura di N. Wilson, trad. di C. Bcvcgni, Adelphi, Milano 1996, IV 16. 65 Aristofane, Ecclesiazuse, 1169-75. 66 Come in Il ca11e e il macellaio di Esopo, I buoi e il macellaio e Il congedo dell'ospite saZio di Ba brio, I mo11to11i, i castrati e il beccaio di Fedro e Il gatto e il cuoco di Krylov. Esopo, Favole, introduzione di G. Manganelli, trad. di E. Ceva Valla, Ri1.zoli, Milano 1976, 256, 295; G. Giurdanellà Pusci (a cura di), Babrio. Le sue Favole e il loro rapporto con le Esopia1,e e con quelle di Fedro edi Avia,io, Tip. Editrice Carlo Papa, Modica 1901, 21,42. 67 N. Frye, Anatomia della critica cit., pp. 232-233. 68 Come ad esempio il cuoco Sicone nel Misantropo di Menandro e il cuisinier maitre Jacque nell'Avaro di Molière.

Tl!RZA PARTI!. ETICA DELLA COMMEDIA

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L'importanza della figura del cuoco risiede nella sua beffarda somiglianza con quelle dello schiavo e del dialettico. Sia lo schiavo sia il dialettico sono (indebitamente) curiosi 69. Inoltre, il cuoco (il padrone della cucina) e lo schiavo (il padrone della commedia) sono simili nel loro appartenere entrambi al ceto sociale meno abbiente e nel loro essere tuttavia assolutamente indispensabili al raggiungimento della felicità altrui. Inoltre, sia il cuoco che il dialettico producono qualcosa di valido, utile e memorabile che sostiene e promuove la vita: il primo la vita della mente, il secondo quella del corpo 70• Una ricetta culinaria ha la stessa struttura di un'argomentazione dialettica e di una trama comica (nonché di una dimostrazione retorica e matematica): parte con gli ingredienti necessari, li miscela e li trasforma con vari metodi, e si risolve in un finale all'insegna del gusto. Molto simile alla cucina è dunque la tessitura comica di discorsi belli quanto efficienti: si dovrebbe aggiungere un numero esatto di componenti e elaborarle secondo un ordine ben preciso, ma anche dimostrare le proprie abilità nel superare l'incertezza e la necessaria contingenza di una situazione concreta, per produrre alla fine un alimento buono per il corpo e per l'anima. Socrate e la figura dello schiavo

Sin dagli inizi della filosofia intesa come pensiero che raggiunge e giustifica una conclusione per mezzo di un'argomentazione, Socrate è stato l'incarnazione della figura del dialettico. Socrate è la figura comica della filosofia, il cuoco delle sue argomentazioni e l'orchestratore delle sue trame. Nella commedia lo schiavo svolgeva lo stesso ruolo che aveva Socrate nei suoi dialoghi drammatizzati: quello di liberare gli altri. Il primo dirigeva la trama, il secondo conduceva l'argomentazione dialettica. Tanto lo schiavo che Socrate apparivano leggermente semplicistici; entrambi si ammantavano di una veste 69 «[U)n tratto tipico del cuoco comico è la curiosità» (R.L. Hunter, New Comedy of Greece and Rome cit., p. 54). 70 Il cibo è un potente afrodisiaco comico, che fu esplorato da Archcstrato nel suo poema gastronomico (andato perduto), citato da Ateneo (Archestratus. The Life of Luxury: Europe's 0/dest OJokery Book, a cura di J. Wilkins e S. Hill, Prospcct Books, Totncs 1994, 8.335b-e) e da Rabelais in Gargantua e Pantagruel.

6. STOLTA SAPIENZA. IL FILOSOFO COME FIGURA COMICA

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ironica e sempre ambigua, dietro la quale ben presto scorgiamo una mente poderosa e sofisticata. Erano quindi entrambi dei dialettici: lo schiavo era un pensatore pragmatico, che ci guidava nel labirinto della trama; e Socrate ci conduceva nel labirinto di una discussione, anche se spesso verso un esito negativo. Entrambi promuovevano altruisticamente la libertà e il benessere degli altri: lo schiavo conducendoli a una risoluzione del conflitto, e Socrate guidandoli verso la libertà del pensiero e nel pensiero. Ambedue liberavano sé stessi aiutando gli altri (o, piuttosto, essendo già liberi, erano riconosciuti come tali dagli altri come risultato del loro agire): lo schiavo veniva spesso premiato per le sue azioni con il dono più prezioso, quello della libertà7 1 ; e Socrate era libero nella conoscenza della sua apparente non-conoscenza: senza essere limitato da nessuna conoscenza stabilizzata, continuava a lottare per scoprire il come e il che delle cose. Nondimeno, la dialettica socratica era solitamente (ma non sempre) teoricamente negativa - ovvero, demoliva un'affermazione o un'argomentazione scorretta - mentre la dialettica comica era sempre praticamente positiva, in quanto una buona commedia giungeva alla risoluzione di un conflitto drammatico e a un buon esito. Tuttavia, il risultato positivo della dialettica negativa era di apprendere l'abilità del ragionamento dialettico che consentiva a chi lo metteva in pratica di arrivare alla conclusione desiderata attraverso un'interazione dialogica con gli altri. Socrate raggiungeva le varie classi in modo trasversale. Come sappiamo da Platone e da Senofonte, preferiva parlare con la gente comune senza badare al loro rango sociale o alla loro età. Suoi apprezzati interlocutori erano sia i concittadini che gli schiavi, come dimostra il famoso esempio della conversazione con un giovane schiavo, dove la discussione dialettica era comica, dato che Socrate guidava il suo interlocutore da una totale impasse a un «esito positivo»: la risoluzione di un problema matematico72.. La dialettica di Socrate si realizza pienamente nella commedia degli errori (messi in evidenza da Socrate alla fine), come, per esempio, nell'Eutidemo, dove due sofisti, i fratelli Eutidemo e Dionisodoro, producono argomentazioni apparentemente 7 1 O, per lo meno, alla fine la testa pensante della trama avrebbe ottenuto la reali1.1.azione dei suoi desideri: Terenzio, Phormio, 1050-1051.

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Platone, Meno11e 82b sgg.

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Tl!RZA PARTE. l!TICA Dl!LLA COMMEDIA

valide ma in realtà profondamente sbagliate e confuse, tutte basate su un qualche errore, solitamente su un equivoco. Per tutta la sua vita, nella sua implacabile critica e sottile irrisione dei sofisti, Socrate mette continuamente alla berlina le argomentazioni «serie» (sovente errate), riproducendole e riducendole spesso in farsa. Persino sul suo letto di morte, Socrate rimase un figura comica che rifiutava di considerare la sua situazione come tragica: la sua morte fu chiaramente per lui un evento comico, dato che, come apprendiamo dal Fedone di Platone, egli sperava -ed esigeva - il meglio come fine ultimo della commedia della sua vita73. Per di più, Socrate era una sagoma piuttosto pittoresca, un personaggio indispensabile in ogni collezione di aneddoti dell'antichità, sovente paragonato a Sileno, un «alieno» di non immediata intellegibilità in quel luminoso universo apollineo. Più tardi, Diogene di Sinope, un allievo di Antistene, che era a sua volta un discepolo di Socrate, fu assimilato alla figura dello schiavo comico e prontamente parodiato nella commedia74. Diogene criticava le convenzioni accettate facendosi sostenitore della vita secondo natura, eppure viveva ai margini della vita cittadina di cui era convintamente e «comicamente» critico a livello politico, filosofico e culturale. Come Socrate, il suo era un pensare critico insieme agli (e al cospetto degli) altri, tuttavia, a differenza di Socrate, che fu un filosofo puramente «orale», Diogene scrisse dei libri. Non solo adoperò la deliberazione teorica, ma sostenne che una vita ben vissuta insieme agli altri fosse ottenibile per mezzo di un'azione pratica e comica75 . Tanto Diogene che lo schiavo comico erano dei diseredati: si tramanda che Diogene rimproverò persino Socrate, che era notoriamente indigente, di indulgere nel lusso, perché possedeva una casa, un letto e un paio di sandali76• Nella sua fama di eccentrico, Socrate somigliava a Esopo, un esuberante pensatore prefilosofico che trasponeva le sue deliberazioni morali sotto forma di favole??. Forse non è un caso che, poco prima della sua morte, volendo portare la sua vita a una conclusione sin Platone, Phaedo 7oc sgg. Per esempio, nella figura di Formione in Terenzio. 75 Diogene opponeva tale vita a tre tipi di vita «inautentica": intemperanza, avarizia e onore. Dione Crisostomo, Disc. 4.83-138. Cfr. Diogene Laerzio VI, 20-81. 76 Eliano, Varia historia, Il 43, IV II, dr. Il 13. 77 I personaggi di Esopo assomigliavano moltissimo ai coreuti di Aristofane. 74

6.

STOLTA SAPIENZA. IL FILOSOFO COME FIGURA COMICA

2.19

gnificativa, Socrate si sia dedicato non solo alle argomentazioni, ma anche alla poesia, creatrice di miti e di favole 78 . Giunto il momento di far fronte al finire della sua vita, egli fece ritorno alla filosofia e alla dialettica: si era catarticamente purificato attraverso la poesia e l'arte creativa, tramutandosi, in un certo senso, in Esopo. Non sorprende dunque che Socrate sia diventato un personaggio comico già nella commedia antica: per Aristofane Socrate era il paradigma dell'abile pensatore dialettico. Nella commedia successiva, Socrate fu trasformato nella figura dello schiavo intelligente e arguto. Nello Pseudo/o di Plauto, il maestro Simone paragona in modo esplicito l'astuto schiavo Pseudolo, noto per le sue abilità argomentative, a Socrate79. La discussione tra il maestro e lo schiavo che ne segue parodia una disputa dialettica, all'inizio della quale Pseudolo si paragona addirittura all'oracolo di Delfi, che dice solo la verità 80. Questa «auto-descrizione» è, comunque, profondamente ironica, giacché l'oracolo non ragiona né specula per giungere alla verità: la conosce già. Simone è convinto di aver battuto in astuzia Pseudolo nel dibattito, ma in realtà è lo schiavo ad avere abilmente raggirato il padrone, senza che quest'ultimo se ne sia minimamente accorto. Più tardi, in un monologo esplicitamente diretto a sé stesso, ma implicitamente rivolto agli spettatori, Pseudolo figura come un raisonneurtragicomico adialettico, che discetta sull'illusorio affannarsi nella vita verso uno scopo desiderato, sulla sofferenza e sulla morte. A un certo punto, si interrompe bruscamente e afferma: «Basta con la filosofia!» 81 , perché invece che darsi alle chiacchiere bisogna tornare all'azione. La filosofia ha quindi avuto origine in un'azione comica dialettica, guidata da una figura comica: Socrate, il maestro dialettico della filosofia, tramutatosi nello schiavo che dà alla commedia la direzione di un'impresa filosofica, in grado di dar vita all'azione ragionata, alla libertà di espressione e a un finale positivo per tutti.

78 Platone. Phaedo 6od-61 b. Esopo, il più immaginifico tra i favolisti, fu anche autore di gnomai e di un abbondante numero di sententiae. 79 Plauto, Pseudo/o, 464-465. 80 lvi, 480. 8 ' lvi, 687.

Conclusione

In un libro sulla commedia, con la parola conclusione si dovrebbe naturalmente intendere un finale positivo. Da un punto di vista filosofico, si raggiunge un «finale positivo» quando l'argomentazione approda all'ambita conclusione, spesso con una modalità diversa dalla maniera in cui la si era intesa all'origine. Improvvisamente, e in modo spesso inaspettato, tutto ciò che è stato detto acquisisce un significato e una giustificazione; lo sforzo è ripagato, e il pensiero si ricompone, in modo tale che nulla vi sia lasciato di obsoleto o di ridondante. Nelle commedie succede la stessa cosa. Come abbiamo visto, sin dai suoi primi passi la commedia nuova aveva assorbito la totalità del pensiero filosofico, degli approcci, delle argomentazioni e delle tecniche che aveva a disposizione. Se ne era appropriata per i propri scopi e aveva riflettuto su di esse (spesso facendo uso della parodia) attraverso la sua azione comica. Il platonismo, l'aristotelismo, lo scetticismo contaminato da elementi di cinismo, e soprattutto lo stoicismo e l'epicureismo erano stati tutti, bene o male, presenti sul palcoscenico per tutta l'epoca moderna. Spesso non li notiamo, rappresentati e incarnati nei personaggi comici e nelle loro azioni, anche se in ogni caso impariamo da loro. In realtà, la commedia era consapevole della sua affinità con la filosofia nelle sue varie vesti. Lo dimostra Les femmes savantes di Molière, dove le donne menzionano tutte le scuole filosofiche allora esistenti: quelle di Aristotele, Platone, Epicuro, gli atomisti, gli stoici e anche - dato che erano aggiornate sugli sviluppi filosofici moderni - Cartesio. E Cartesio stesso era un conoscitore dell'antichità e cercò sistematicamente di sviluppare la sua filosofia alla stregua di

CONCLUSIONE

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un'impresa comica, guidata dalle regole del ragionamento e basata sul metodo del raggiungimento dello scopo desiderato 1 • Da quello che ho detto riguardo al personaggio della commedia e alla struttura della trama comica, consegue che la commedia è platonica nella sua espressione e nel dialogo, nell'uso e nell'appropriazione della dialettica e dei metodi di ragionamento, nonché nell'idea che il bene sia il suo fine. Ma la commedia è aristotelica nella sua impostazione «logica» e «retorica» delle parti costitutive della trama e nell'uso dei «temi» comici. E, come abbiamo visto, la commedia presenta anche delle somiglianze con lo stoicismo e l'epicureismo, le più importanti scuole filosofiche postclassiche che avevano cercato di fare propri e sintetizzare i vocabolari filosofici dell'epoca. Erano entrambi contemporanei della commedia nuova, entrambi fiorirono nella tarda antichità e sopravvissero fino alla modernità; anche l'epicureismo sopravvisse in una forma più implicita e soffocata. Soprattutto, gli stoici furono i primi filosofi ad enfatizzare in modo sistematico la fondamentale uguaglianza tra gli umani in quanto esseri razionali in possesso del «logos», rendendo tutte le distinzioni sociali soltanto accidentali. In questo senso, l'etica stoica è particolarmente moderna. La modernità della commedia può essere vista anche in questo posizionamento etico, che potremmo ragionevolmente caratterizzare come stoico. Nella commedia ogni personaggio era libero di fare qualsiasi cosa ritenesse migliore, ma ogni azione era sempre inscritta in una situazione concreta, che a sua volta si sviluppava insieme all'azione. Lo stoico accettava e sopportava il suo fato, ma cercava anche di migliorare la sua situazione mediante l'interazione con gli altri - al punto che gli era possibile comprenderla, cambiarla e trasformarla. Geta è uno stoico quando afferma: «Quale che sia il mio destino, lo sopporterò serenamente"2.. La conoscenza morale «comica» umana consiste, dunque, nell'abilità di deliberare bene, per essere capaci di distinguere e accettare cosa è possibile e cosa non è possibile cambiare e per lavorare insieme agli altri su ciò che è in nostro potere. Epitteto, egli stesso schiavo di nascita, espresse questo atteggiamento stoico nella massima secondo cui non dovremmo temere ciò che non dipende da noi, e dovremmo andarci ' Molière. Le intellettuali cit., atto III, se. Il. «quod fors feret feremus aequo animo» (Teren1io, Phormio, 138).

2

CONCLUSIONE

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cauti con ciò che è in nostro potere3. Sulla base di questa conoscenza, un personaggio comico morale può decidere come condurre una situazione a una risoluzione e a un esito positivo - alla conclusione desiderabile e alla chiusura soddisfacente. La commedia e la filosofia non sono dunque solo capaci di capire come sono fatte le cose - ma anche di cambiarle per il meglio. I cinici, che furono un'influenza e una fonte di ispirazione per gli stoici, sottolinearono il lato pratico della filosofia come modo di vivere. Più tardi, gli scettici svilupparono delle strategie sistematiche di messa in discussione della fattibilità di una ricerca e di un'argomentazione puramente teoriche. La commedia si serve del dubbio scettico, ma sempre come strumento per agevolare una situazione. Gli scettici accademici4 tentarono di giustificare il loro dubbio sulla possibilità di un accesso razionale alla verità, che insorge ogni qual volta si prende troppo sul serio l'abuso comico della dialettica. Puramente negativo, il ragionamento dialettico scettico presuppone che se qualcuno ha abbastanza talento, può teoricamente dimostrare qualsiasi tesi, come anche il suo opposto. Per contrasto, la commedia continua a farsi beffe della dialettica speculativa, servendosene allo stesso tempo per la costruzione della tramas. Inoltre, i cinici mettevano in risalto l'uguaglianza universale di tutte le persone e quindi la libertà che si può acquisire se si vive una 3 pros ta aproaireta tharrein, eulabeisthai ta proairetika (Epitteto, Tutte le opere. Diatribe - Framme,iti - Manuale - Gnomologio, a cura di G. Reale e R. Radice, G. Gir-

genti, Bompiani, Milano 2009, II.1.30; cfr. 40). Quindi, «è veramente bello tenersi dentro un certo tipo di desideri, a cui, se le cose vanno male, puoi rimediare con poco!» (..quam

scitumst eius modi in animo parare cupiditates quas, quom res advorsae sie,ù, paullo mederi possisl») (Terenzio, Phormio, 821-22) è una chiara parodia dell'atteggiamento morale stoico (cfr. anche ivi, 247-252). 4 Ovvero Arccsilao nell'Accademia di mezw, la generazione immediatamente successiva a Menandro e Carneade nella Nuova Accademia. s Dovrei dunque dissentire da Gurewitsch, che considerava lo scetticismo una risposta ironica all'inevitabile assurdità della vita: «Un ironista pirroniano [... ] può essere descritto come uno scettico radicale la cui consapevole1.1.a dell'assurdo lo spinge, sotto l'egida della commedia, a distruggere il rispetto, desantificare i valori e far collassare gli ideali, i quali sono tutti, ovviamente, piuttosto marcescenti» (M. Gurewitsch, From Pyrrhonic to Vomedic lrony, in M. Chamey [a cura di], Comedy: New Perspectives cit., pp. 45-57: 47). E: «Nell'esposizione a una disincantata fattualità - la natura è mutevole; l'uomo corruttibile; l'universo caotico - non restava di meglio che imparare a ridere; perché, di fronte a calamità inevitabili, è più assennato essere irriverenti che furiosi, più saggio essere beffardi che abbattuti» (ivi, p. 55). Tale risposta non è comica, ma piuttosto tragica e sarcastica.

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CONCLUSIONE

vita semplice («secondo natura»), che diventa accessibile come fine dello sforzo di ottenerla insieme agli (e al cospetto degli altri. Una vita simile, priva di paura e di vergogna", si colloca alla periferia dell'ormai corrotta esistenza della polis ed è quindi al riparo dal danno che possono arrecare coloro che vivono secondo i canoni delle distinzioni e delle disuguaglianze sociali, politiche e economiche?. Si può - e si dovrebbe - diventare autosufficienti, come Diogene ha continuato a sostenere e a mostrare per tutta la commedia della sua vita. Questa autosufficienza non è l'autonomia del soggetto moderno chiuso in sé stesso, ma l'autonomia secondo natura, accessibile a tutti quale risultato delle loro azioni in un'interazione dialogica (spesso inquieta e allosensuale) con gli altri, che implica una libertà di parola pericolosa ma liberante. Solo in questo modo è possibile guadagnarsi la libertà di una vita semplice ma ricca. Ma forse l'atteggiamento filosofico più congeniale alla commedia è quello del «Giardino». La tradizione vuole che Menandro ed Epicuro fossero amici e ad Atene si conoscessero fin dai tempi della loro giovinezza8• In uno dei suoi epigrammi Menandro avrebbe affermato che se Temistocle aveva salvato la sua terra dalla schiavitù, Epicuro l'aveva liberata dall'irrazionalità9. Nei testi a noi pervenuti di Epicuro troviamo un costante ritorno a due temi ben distinti, entrambi comici: la libertà come libertà dalla paura della morte e la vita come vita del piacere secondo ragione. Perché, come sostenne Epicuro in una celebre affermazione, quando ci siamo noi, la morte non c'è e quando la morte si presenta noi non ci siamo più; per cui la morte per noi non è niente, e non dovremmo averne paura 10• È il piacere il fine più alto della vita: una vita piacevole è una vita bella e giusta, basata sulla misura, che può essere raggiunta solo attraverso la condivisione con gli altri di una vita ragionata 11. Queste due tematiche epicuree sono, come abbiamo visto, 6 Diogene, cit. in Stobeo IX 49 (mete pboboumeno,z mete aiscbynomeno11). 7 Questo motivo è stato ripreso anche da Epicuro (KD 13, 14). 8 Si conoscevano in quanto erano stati compagni di efebia: K. Ziegler, W. Sontheimer (a cura di), Der Kleine Pauly cit., voi. 2, coli. 314-318. 9 CLD, p. 312. 10 Epicuro, Opere, Frammenti, Testimonianze sulla sua vita, introdu;done di G. Giannantoni, trad. di E. Bignone, Laterza, Roma-Bari 2003, 124-126; Massime capitali, 2. 11 «symphilosophein»: Epicuro, Massime capitali, 20; cfr. 2, 3, 5; Lettera a Meneceo, 132.

CONCLUSIONI!

le tematiche comiche, distintamente presenti e sviluppate per tutta la storia della commedia. Forse, da un punto di vista prettamente filosofico, la commedia potrebbe sembrare un'imitazione sincretica ed eclettica delle tecniche di ragionamento della filosofia. Ma la commedia non è un'appropriazione teorica, bensì una riproduzione pratica della ragione, che procede da una complicazione iniziale, attraverso una serie di passaggi sia accuratamente pianificati, sia imprevisti, fino alla risoluzione del conflitto per mezzo del dialogo con gli altri. La commedia dunque si presenta come una filosofia in azione, che aiuta la filosofia a realizzarsi e la commedia a pensare. Essa diventa così il paradigma dell'interazione, intesa come agire insieme agli altri per il conseguimento di un esito positivo che non è mai definitivo ma arriva sempre come una liberante affermazione della bontà umana, riscontrabile in un benessere condiviso e nel rinnovamento della vita.