L’ eredità di Annibale. Vol. 2: Roma e il Mediterraneo dopo Annibale. 9788806532239

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L’ eredità di Annibale. Vol. 2: Roma e il Mediterraneo dopo Annibale.
 9788806532239

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L'eredità di Annibale Le conseguenze della guerra annibalica nella vita romana I

Roma e l'Italia prima di Annibale II

Roma e il Mediterraneo dopo Annibale

Arnold J. Toynbee

L'eredità di Annibale II

Roma e il Mediterraneo dopo Annibale

Giulio Einaudi editore

Traduzione italiana dall'edizione originale Hannibal's Legacy. The Hannibalic War's Ef!ects on Roman Li/e. Il: Rome and Her Neighbours Alter Hannibal's Exit Copyright©

1965

Oxford University Press, London

Copyright© 1983 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Edizione italiana a cusa di Ugo Fantasia; bibliografia e aggiornamenti bibliografici a cusa di Giorgio Camassa. Traduzione di Fausto Codino per le pp. xnr-XIV, 3-225, rivista da Giorgio Camassa, Ugo Fantasia e Mario Lombardo; di Ugo Fantasia per le pp. 226-4.57; di Andrea Zambrini per le pp. 4,8-,9,; di Mario Lombardo per le pp, ,96-905. ISBN 88-06-05322-1

Indice

p. xm

Prefazione dell'autore al secondo volume

Roma e il Mediterraneo dopo Annibale

3

I.

Gli effetti disgregatori della duplice guerra del 264-201 nell'Italia peninsulare e in Sicilia

14

II.

La devastazione dell'Italia sud-orientale e della Sicilia nella seconda fase della duplice guerra

III.

Sradicamento del ceto rurale dell'Italia peninsulare per effetto del servizio militare nella seconda fase della duplice guerra e nelle operazioni che la seguirono

44 51

63 68 75 83 89 102

126

1. Attendibilità delle cifre cli Livio 2. Cifre complessive delle truppe romane e alleate sotto le armi nel periodo 218-133 a. C. 3. Le rispettive esigenze di ciascun fronte militare 4, Le perdite umane 'j. Periodi cli servizio 6. Malcontento e insubordinazione tra le truppe 7. Le crescenti difficoltà nel reclutamento delle truppe romane 8. Le conseguenze economiche, per la penisola, dello sradicamento della classe rurale italica

IV. Il peggioramento dei rapporti tra Roma e i suoi alleati italici come risultato della seconda fase della duplice guerra e dei suoi postumi I. IL MUTAMENTO DEL CLIMA PSICOLOGICO II.

I 35

IL TRATTAMENTO INFLITTO DA ROMA AI RECALCITRANTI E AI SECESSIONISTI

1. Il trattamento delle colonie latine recalcitranti

Vili

Indice

p. 137

Il trattamento, dopo la nuova sottomissione, degli alleati secessionisti nel1'Italla sud-orientale 3. Il trattamento dei tre municipi romani secessionisti: Capua, Calazia e Atella 2.

139

III.

144

RIPARTIZIONE DELL'ONERE DEL SERVIZIO MILITARE TRA ROMANI E ALLEATI DOPO LA GUERRA ANNIBALICA

151 152

IV. LA CONTESA PER IL POTENZIALE MILITARE UMANO TRA ROMA E I SUOI ALLEATI I. Effetti politici della contesa per il potenziale umano 2. Le restrizioni imposte all'emigrazione dei cittadini degli Stati latini e degli altri Stati alleati 3. Il governo romano abbandona la pratica di fondare colonie latine

157 184

v. Le nuove opportunità ed esigenze economiche, nell'Italia peninsulare e nella sua appendice cisalpina, in età postannibalica VI.

226 228

245

259 260 264 267 270 277

La politica agraria del governo romano (211-134 a. C.) I. LA DISTORSIONE DELLA PROSPETTIVA NELLE NOSTRE PONTI DI INFORMAZIONI II.

UNA NUOVA POLITICA E UN VICOLO CIECO III.

LA RIPRESA DELLA PRODUZIONE GRANARIA IN SICILIA

IV. L'UTILIZZAZIONE DEI NUOVI TRATTI DI AGER PU1!LICUS NELL' ITALIA SUD-ORIENTALE 1. Differenze locali nella politica del governo romano 2. La ripresa della cerealicoltura nell'Ager Campanus romano 3. La parziale restaurazione dell'economia rurale sull'altopiano sannitico 4. L'esiguità delle assegnazioni operate dal governo nelle sue colonie latine dell'Ager Thurinus e nel Bruzio 5. Laisser-faire per l'impresa capitalistica privata in Apulia e in Lucania V. LA MANCATA RESTAURAZIONE DELL'ECONOMIA RURALE TRADIZIONALE NELLE PIANURE DELL'ITALIA CENTRALE

VI. LA CONQUISTA DEL NORD-OVEST 1. Le condizioni della Gallia Cisalpina e della Liguria Cisalpina prima della conquista romana 2. La conquista romana della Gallia Cisalpina e della Ligu ria Cisalpina a) La strategia romana b) La conquista (224-222 a. C.) e la riconquista (203-191 a. C.) romana del­ la Gallia Cisalpina

Indice

c) Le difese naturali della Liguria Cisalpina d) La conquista romana della Liguria Cisalpina e) Il varco nella frontiera nord-orientale della regione cisalpina

345

VII. Il nuovo allevamento nomade nell'Italia peninsulare

382

IX.

Le insurrezioni di schiavi nell'età postannibalica

407

x.

Urbanizzazione e industria nell'Italia peninsulare in età postannibalica

418

XI.

I nuovi uomini d'affari romani

359

d'età postannibalica

vm. La nuova agricoltura a piantagione nell'Italia peninsulare d'età postannibalica

458

XII. Risposte religiose a dure prove spirituali XIII.

La creazione di una letteratura latina sul modello della letteratura greca

534

XIV.

L'impatto di Roma sul mondo ellenico

510

596

608

639 645 647

652 654 659

670

675

677

IX

xv. La sfida alla classe di governo romana dall'interno dei suoi stessi ranghi 1. Delitto e castigo 2. Il corso della storia

Appendici al capitolo primo 1. I « soci navales » di Roma li. Le perdite navali nella prima fase della duplice guerra

Appendici al capitolo terzo 1. Il numero delle legioni sotto le armi negli anni 212-211 a. C. li. La legio classica del 216 a. C. 111. Le legioni urbane durante la guerra annibalica Appendice al capitolo quarto Le colonie di Lucca e Luni !

Appendice al capitolo quinto Gli antecedenti preannibalici della rivoluzione agraria in Etruria

Appendici al capitolo sesto I. La descrizione dionigiana dell'industria forestale sulla Sila II. Gli interessi degli alleati di Roma nell'ager publicus romano in epoca post­ annibalica

x

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Indice

III. La data e i termini della legge vigente nel 133 a. C., che poneva dei limiti al-

l'utilizzazione dell'ager publicus romano da parte di singoli individui IV. La descrizione della Riviera ligure in Strabone e quella dei Liguri in Diodoro v. La documentazione archeologica relativa alla politica agraria postannibalica del governo romano nell'Italia peninsulare

Appendici al capitolo settimo I. La descrizione varroniana della vita di uno schiavo pastore II. L'allevamento nomade nella parte continentale del Regno delle due Sicilie

Appendici al capitolo ottavo I. Le funzioni di un vilicus secondo Catone, Varrone e Colwnella II. La rivoluzione romana dal punto di vista della flora Appendice al capitolo nono Il tentativo di Aristonico di assicurarsi la successione attalide

Appendice al capitolo quindicesimo Un elenco in ordine cronologico delle azioni compiute da magistrati romani tra il 2II e il 123 a. C., che costituirono delle trasgressioni a giudizio della classe di governo romana 1. L'esecuzione di cinquantatre membri del Senato capuano 2. L'inchiesta senatoria del 204 a. C. sull'operato di Scipione in Sicilia 3. Il saccheggio del tempio della Persefone locrese 4. L'assassinio del beotarca Brachilla, nel 196 a. C. 5. L'assassinio di un esponente della nobiltà boia I\ 6. Il saccheggio di Ambracia da parte di M. Fulvio Nobiliore nel 189 a. C. 7. I saccheggi compiuti da Cn. Manlio Vulsone nella sua scorreria in Asia minore nel 189 a. C. 8. La decisione del pretore M; Furio Crassipede di disarmare i Cenomani nel 187 a. C. 9. La distruzione nel 183 a. C. ad opera di M. Claudio Marcello di una città costruita sin dal 186 a. C. ro. L'estorsione ad opera di Ti. Sempronio Gracco, nel 182 a. C., di donativi da parte di alleati italici e dl sudditi non italici di Roma r r. La corvée imposta al governo di Preneste dal console romano L. Postumio Albino nel 173 a. C. 12. La spoliazione del tempio di Era Lacinia nel 173 a. C. ad opera di Q. Ful­ vio F1acco, durante la sua censura 13. Le ostilità provocate da M. Popilio Lenate con gli Stazielli nel 173-172 a.e. 14. I superficiali processi intentati a Roma nel 171 a. C. contro tre ex governatori della Spagna 15. I maltrattamenti inflitti a Coronea e Tisbe nel 171 a. C. 16. Le requisizioni di grano fatte ad Atene nel 171 a. C. da P. Licinio Crasso 17. I maltrattamenti inflitti a Calcide nel 171 a. C. dal comandante della flot­ ta romana in Grecia, C. Lucrezio Gallo

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XI

18. I maltrattamenti inflitti ad Abdera nel 170 a. C. dal comandante della flot­ ta romana in Grecia, L. Ortensio 19. Gli abusi commessi nell'Illirico da C. Cassio Longino, uno dei consoli del 171 a. C. 20. Il senatus consultum del 169 a. C. 21. Il tentativo non autorizzato, compiuto nel 167 a. C. dal praetor peregrinus M'. luvenzioTalna, di istigare il Popolo romano a dichiarare guerra a Rodi 22. Il prestito di truppe romane nel 167 a. C., da parte del comandante della guarnigione romana in Etolia, M. Bebio 23. « AJiquot praetores a provinciis avaritiae nomine accusati damnati sunt » 24. L'ingiustificata e non autorizzata aggressione ai Vaccei da parte di L. Li­ cinio Lucullo 25. Il proditorio massacro, nel 150 a. C., da parte del governatore romano del­ la Spagna Ulteriore, Servio Sulpicio Galba, di alcuni gruppi di Lusitani che gli si erano arresi 26. L'assoluzione, nel 138 a. C., di L. Aurelio Cotta 27. L'aggressione ai Salassi da parte di Appio Oaudio Fulcro 28. Il suicidio di D. Giunio Silano, governatore romano della Macedonia nel 141 a. C. 29. L'ingiustificata aggressione ai Vaccei nel 136 a. C. 30. La fustigazione, poco prima del 123 a. C., di M. Mario 31. La fustigazione, poco prima del 123 a. C., per le stesse ragioni, di uno dei questori di Ferentino 32. La fustigazione a morte, poco prima del 123 a. C., di un inoffensivo citta­ dino della colonia latina di Venosa

Bibliografia Glossario Tavola cronologica Carte Indice analitico

Prefazione dell'autore al secondo volume

Gli ultimi cinque capitoli di questo volume sono stati scritti a Grin­ nell, nell'Iowa, nel corso del secondo semestre dell'anno accademico 1962-63 mentre avevo l'onore e il piacere di essere Heath Visiting Pro­ fessor al Grinnell College. Volando, come facevo, da Londra all'Iowa attraverso il Venezuela, potevo portarmi appresso solo i miei appunti per questi capitoli. Li ave­ vo presi nella speranza che, al Grinnell College, avrei trovato le opere di consultazione senza le quali non potevo trasformare le mie annotazio­ ni in un testo compiuto. Per mia fortuna, questa speranza si è piena­ mente realizzata. Il Grinnell College fu fondato nel decennio che va dal 18 50 al 1860; in quel periodo, le lingue e le letterature greca e latina costituivano il cardine dell'educazione superiore in tutte le comunità occidentali del vecchio e del nuovo mondo. La biblioteca del Grinnell College era dunque ben fornita, dall'inizio, dei testi di scrittori greci e latini e delle basilari opere moderne di storia, diritto, letteratura e arte greca e romana. Questa sezione - come pure la restante parte - della bi­ blioteca del Grinnell College sono state costantemente aggiornate. Al Grinnell College, perciò, ho provato il piacere di usufruire di un'eccellen­ te biblioteca classica a dieci minuti di cammino dal luogo in cui vivevo, mentre a Londra devo spostarmi da Kensington a Bloomsbury per poter lavorare nella sala di lettura del British Museum e nella annessa bibliote­ ca della Società per la Promozione degli Studi greci e romani. Fu, questa, una delle molte attrattive che mia moglie ed io abbiamo trovato al Grin­ nell College durante un felice soggiorno. Sono vissuto tanto da terminare quest'opera all'età di settantacin­ que anni. Nel concluderla, penso - e lo faccio spesso - a tre giovani le cui vite sono state stroncate quando essi ancora erano non meno di cinquant'anni piu giovani di quanto io ora non sia. Uno di loro era mem­ bro del Balliol College di Oxford: Arnold Toynbee. lo ne sono il nipote e ne ho preso il nome. Gli altri due erano membri del New College di Oxford: Leslie Whitaker Hunter e Guy Leonard Cheesman. lo ero con-

xxv

Prefazione

discepolo ed amico di entrambi. Mio zio fu ucciso in tempo di pace da un bacillo; Cheesman e Hunter furono vittime dell'istituzione umana del sacrificio umano. Furono uccisi da altri esseri umani durante la prima guerra mondiale. Mio zio era già famoso; nel troncarne la carriera al suo primo fiorire, gli dei gli usarono forse lo stesso favore che si pensa abbia­ no usato a Cleobi e Bitone. A Hunter e a Cheesman è mancato il tempo di dare il loro contributo allo sviluppo del sapere e del conoscere. Se fos­ sero vissuti fino all'età che io ora ho raggiunto avrebbero lasciato il se­ gno, molto tempo fa, nel settore di studio che già fu il loro. La guerra concede una vendetta postuma ai morti sui sopravvissuti, e ai vinti sui vincitori. La nemesi è intrinseca alla guerra. Non era neces­ saria l'invenzione delle armi atomiche perché ciò divenisse chiaro. L'e­ redità lasciata da Annibale a Roma, che costituisce l'argomento di que­ st'opera, l'aveva dimostrato piu di duemila anni fa. ARNOLD TOYNBEE

Roma e il Mediterraneo dopo Annibale

Ad confligendum venientibus undique Poenis, Omnia cum belli trepido concussa tumultu Horrida contremuere sub altis aetheris oris. [« Venendo d'ogni dove a guerreggiare i Cartagi­ nesi, quando tutta la terra fu scossa da un conflitto violento e tremò orrendamente sotto le alte plaghe del cielo »]. LUCREZIO, De Rerum Natura, III 833-35

«Era perito [Annibale] nello sconforto d'avere speso indarno la vita, difendendo contro l'imperia­ lismo romano la libertà della patria e del mondo. Non l'aveva speso indarno, sebbene gli effetti del­ l'opera sua fossero ben altri da quelli cui egli mira­ va... Per le piaghe profonde e difficilmente sanabili che il terribile conflitto ebbe a lasciare... furono fe­ condati e moltiplicati i germi di rovina per la civiltà di cui era il frutto maturo che il nascente impero di Roma portava nel suo seno». GAETANO DE SANCTIS, Storia dei Romani, IV, p. 260

Capitolo primo Gli effetti disgregatori della duplice guerra del 264-201 nell'Italia peninsulare e in Sicilia

Nel volume precedente abbiamo esaminato la struttura della Fede­ razione romana dell'Italia peninsulare quale era nel 266 a.C., anno in cui fu completata la sottomissione della penisola da parte di Roma. In quel momento ciò che soprattutto occorreva alla Federazione era la pace. La guerra è sempre e dovunque una calamità per i vincitori come per i vinti. Nel 266 a. C. allo Stato romano, uscito vittorioso dal conflitto, la pace era indispensabile per almeno tre ordini di ragioni. In primo luogo la penisola aveva bisogno di tempo per riprendersi dalle devastazioni subite nella grande guerra romano-sannitica. La lot­ ta per la conquista dell'egemonia sull'intera penisola si era protratta, con alcune pause, dal 343 (340 o 339) a.C. al 272 a.C. e la sua quinta fase- quella della guerra contro Pirro- era stata la piu dura. A patire le maggiori distruzioni furono gli avversari che Roma aveva sconfitto nel­ l'Italia sud-orientale: qui gli effetti furono tanto piu gravi in quanto rap­ presentavano il culmine e la conclusione di una lunga serie di calamità cominciata in Magna Grecia fin dal VI secolo a.C. con la distruzione di Siri ad opera di Sibari verso il 540 (?) a.C.' e quella di Sibari ad opera di Crotone verso il 5 r r a.C. In secondo luogo la penisola aveva bisogno di tempo per raccogliere i potenziali benefici economici dell'unificazione politica e della pace in­ terna che ne era il corollario. Anche i danni accumulatisi durante un quarto di millennio di guerre devastatrici sarebbero stati piu che risarciti se la penisola fosse stata organizzata, da allora in poi, come una singola unità economica. Fino al momento dell'unificazione imposta dalle armi romane, il suo frazionamento politico in parecchie centinaia di Stati so­ vrani separati e indipendenti aveva avuto la sua contropartita sul pia­ no economico: ogni singola unità statuale era in pari tempo un compar­ timento economico virtualmente chiuso e ognuno di questi comparti­ menti era costretto, per il suo isolamento politico, a vivere quasi esclu­ sivamente delle proprie risorse, per inadeguate o mal distribuite che fos­ sero. I benefici economici potenziali dell'unificazione potevano essere

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Capitolo primo

enormemente accresciuti se, in pari tempo, la pratica antiquata di un'a­ gricoltura di sussistenza fosse stata sostituita in Italia dai metodi scienti­ fici dell'agricoltura di mercato e dell'allevamento del bestiame su vasta scala, che nell'arco dei due secoli precedenti si erano sviluppati in Sici­ lia, nei possedimenti cartaginesi dell'Africa nord-occidentale e, piu di re­ cente e secondo criteri piu sistematici, nell'Egitto tolemaico '. Se vi fos­ sero state applicate, queste innovazioni economiche sarebbero state van­ taggiose per l'Italia. Ma il progresso economico non implica necessaria­ mente il benessere e la felicità sociale. Anzi, i suoi effetti sodali possono essere sfavorevoli se non si ha cura di agevolare il conseguente e inevi­ tabile assestamento degli istituti sociali tradizionali. Nell'Italia del 266 a. C. questo sarebbe stato un compito delicato e difficile; e, per condur­ lo a termine senza traumi, era indispensabile un lungo periodo di pace. In terzo luogo, nel 266 a. C. la Federazione romana aveva bisogno di pace per poter sostenere l'impatto con l'ellenismo. L'ellenizzazione, co­ me le guerre devastatrici, non era un'esperienzà nuova per la penisola: questo processo aveva avuto inizio già nel periodo anteriore alla fonda­ zione delle prime colonie greche sulle coste sud-orientali d'Italia e in Si­ cilia, se non addirittura negli anni precedenti l'insediamento dei primi coloni tirreni lungo le coste nord-occidentali della penisola, sempre che gli Etruschi, come i Greci, siano venuti in Italia via mare dal Levante 3 . Ma, ad accrescere la violenza dell'impatto con l'ellenismo fin quasi a far­ lo mutare di segno, fu l'impresa dell'unificazione politica della Magna Grecia e dell'Etruria col resto della penisola. Estendendo le frontiere della Federazione sino a farle coincidere con quelle dell'Italia peninsu­ lare, Roma l'aveva resa parte integrante del mondo ellenico che cosf, nel 266 a. C., si estendeva, in direzione est, da Napoli e da Ancona fino al­ l'Iran orientale e all'Asia centrale, e non era soltanto un mondo vasto ma anche una società raffinata e sofisticata. In quel momento la cultura ellenica era maturata sotto l'effetto cumulativo delle esperienze stori­ che e delle conquiste realizzate durante i cinque secoli trascorsi da quan­ do essa era emersa dall'evo oscuro postmiceneo. Venire a contatto e as­ sorbire il potente soffio di questa grande forza spirituale costituiva for­ se il piu arduo dei compiti che attendevano Roma in quel frangente; an­ che sotto questo profilo, la pace rappresentava la condizione necessaria per il successo dell'impresa. Nella diffusione dell'ellenismo il mare era stato un mezzo di condu­ zione, non un fattore di isolamento: attraverso il mare infatti l'ellenismo aveva raggiunto le coste dell'Italia peninsulare e da allora si era spinto verso l'interno con forza sempre maggiore. La vittoriosa avanzata del­ la cultura ellenica in Italia, in direzione opposta a quella della conquista

Gli effetti disgregatori della duplice guerra del 264-201

5

romana, dimostra come in realtà la linea costiera italiana non costituisse la « frontiera naturale» che sembra essere sulla carta e che presumeva­ no fosse gli uomini di Stato i quali avevano stabilito per Roma il traguar­ do della sottomissione dell'intera penisola '. E se miravano a raggiungere questo obiettivo, essi non si propone­ vano di spingersi oltre, a giudicare almeno dalla politica navale cui si attennero durante il cinquantennio conclusosi nel 26r a. C. L'allestimen­ to di una piccola squadra navale romana nel 3 r r ( 3 ro-309 o 309) a. C. 5 costituiva probabilmente solo una garanzia contro il rischio che i San­ niti potessero interrompere di nuovo le comunicazioni via terra tra Roma e la Campania, come già erano riusciti a fare nel 3 r 5 (3r4-3 r 3 o 3 r 3 ) a . C . occupando Lautule. Anche quando, forse nel 267 a. C. •, questa squadra romana fu integrata o sostituita da contingenti di navi da guer­ ra forniti a seguito di un trattato da alcuni alleati marittimi italici 7 , il nu­ mero di queste ultime era assai basso e, comunque, esse erano, come le navi della stessa Roma prima del 260 a. C., di dimensioni piu piccole del­ la quinquereme, ormai divenuta la classica nave di linea delle potenze mediterranee dell'epoca: Cartagine, Siracusa, i Tolomei, gli Antigonidi. Le navi fornite dagli alleati marittimi di Roma erano, invece, soltanto triremi e pentecontori •. Neppure Taranto possedette mai quinqueremi •, benché per popolazione e per ricchezza eguagliasse probabilmente tutti gli altri Stati italioti messi insieme. Inoltre le navi fornite da questi Stati non superarono mai tali modeste dimensioni, neppure dopo che Roma, nel 260, creò una grande flotta di quinqueremi. Nel 19r, ad esempio, le navi fornite dagli alleati romani del tratto sud-orientale della costa tirre­ nica erano naves apertae ••. Nel r 72 a. C. l'unica nave fornita da Reggio, le due fornite da Locri e le quattro fornite da Uria erano tutte triremi 11 • La modestia delle forze navali romane, rispetto alle grandi marine da guerra del mondo mediterraneo contemporaneo, indica che esse erano destinate unicamente alla difesa costiera, non a sfidare una potenza na­ vale nel suo elemento. È vero che nel 264 a. C. fu Roma a condurre l'of­ fensiva contro Cartagine; ma è chiaro dal seguito che quando presero questa grave decisione i Romani si aspettavano di combattere una guer­ ra terrestre, non navale. Essi credevano che, se avessero potuto pren­ dere possesso della sponda siciliana dello stretto di Messina, sarebbero riusciti a conquistare la Sicilia esclusivamente con operazioni sulla terra­ ferma, come avevano fatto per conquistare la penisola. Infatti considera­ vano la Sicilia un prolungamento dell'Italia continentale, e il loro obiet­ tivo continuava ad essere quello di completare la sottomissione della pe­ nisola fino alle sue « frontiere naturali». Nel 264 a. C., come già nel 343 (340 o 339), i Romani non erano

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Capitolo primo

unanimi nel volere la guerra, e la decisione non fu incontrastata; anche nel secondo caso, come nel primo, il partito della guerra, che era predo­ minante, non riusci a prevedere le dimensioni dell'impresa in cui impe­ gnava il paese. Nel 343 (340 o 339) si impegnarono involontariamen­ te nella sottomissione dell'intera Italia peninsulare. Nel 264 si volsero invece alla conquista di tutto il bacino del Mediterraneo; e questa volta il prezzo fu l'irrimediabile disgregazione della struttura sapiente ma fra­ gile di quella Federazione che Roma aveva costituito a partire dal 338 (335 o 334) a. C. Gli effetti disgregatori della duplice guerra del 264-201 si accumu­ larono col ritmo di un movimento in crescendo. Per la Federazione ro­ mana la seconda fase del conflitto fu di gran lunga piu disastrosa della prima. Nella prima fase, teatro degli scontri sulla terraferma era stata la Si­ cilia, che ne aveva sofferto in proporzione, ma in questa occasione l'Ita­ lia continentale era rimasta immune da danni, per la prima volta nella sto­ ria già lunga delle guerre combattute da Roma. Durante quegli anni l'uni­ co scontro combattuto nell'Italia continentale avvenne in occasione del1'attacco di Roma a Falerii, nel 2 4 r , quando le ostilità tra Roma e Carta­ gine si erano ormai concluse. Si trattò di un atto di scoperta aggressione e di grave ingiustizia da parte di Roma ma la disparità di forze tra i bel­ ligeranti di questa «guerra » era tale che la campagna fu breve e le perdite in vite umane nonché i danni materiali trascurabili. I Falisci furono co­ stretti a cedere a Roma circa metà del loro territorio e a trasferire la città dalla sede originaria 13 in un sito nuovo e meno facilmente difendibile 14 • Ma la ferita inferta all'Italia continentale si rivelò di lieve entità. Nella seconda fase della duplice guerra, la Sicilia fu di nuovo teatro di opera­ zioni belliche sulla terraferma e benché questa volta i combattimenti vi durassero solo quattro o cinque anni (2 14 o 21 3-2 ro a. C.) 15 , rispetto ai ventiquattro della prima fase (264-241 a. C.), i danni arrecati in questo periodo piu breve dovettero essere non meno ingenti 1' . Senza dubbio nella prima fase della guerra parecchie città siciliane avevano subito vere e proprie catastrofi: Agrigento, la seconda città dell'isola per grandezza, era stata saccheggiata dai Romani nel 262 a. C. e piu di 25 ooo suoi abi­ tanti erano stati venduti schiavi 11 ; Mitistrato e Camarina erano state rase al suolo nel 258 a. C. e gli abitanti che erano sfuggiti al massacro erano stati ridotti in schiavitu "; la stessa sorte era toccata a circa metà della popolazione di Panormo quando la città era stata conquistata dai Roma­ la po­ ni, nel 254 a. C. ". I Cartaginesi da parte loro avevano deportato 2 polazione di Selinunte a Lilibeo '0 e quella di Erice a Drepano 1 • Nel pe­ riodo in cui circondavano d'assedio Lilibeo, i Romani dovettero rifornir12

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Gli effetti disgregatori della duplice guerra del 264-201

7

si di vettovaglie per l'esercito nel territorio di Siracusa, e ciò fa pensare che la Sicilia occidentale non fosse piu coltivata 21 ; infatti la parte occi­ dentale e quella meridionale dell'isola erano state devastate. Negli ulti­ mi anni della prima fase, tuttavia, i combattimenti avevano interessato quasi esclusivamente l'area nord-occidentale della Sicilia, assumendo prevalentemente la forma di vane operazioni d'assedio da parte dei Ro­ mani. Intanto, per ventitre anni su ventiquattro, la costa orientale, a par­ tire da Messina verso sud, non era stata toccata dal conflitto; questa zona intatta comprendeva Siracusa, la maggiore di tutte le città siciliane. Nella seconda fase Agrigento cambiò padrone due volte e Siracusa fu saccheg­ giata. Quanto ai danni arrecati all'Italia continentale durante la seconda fase, naturalmente non erano in alcun modo paragonabili a quelli pro­ vocati dal conflitto romano-falisco del 2 4 1 a. C. : in questa fase l'eserci­ to di Annibale restò nella penisola per quindici anni ( 2 1 7-203 a. C.), con­ sumandone le energie vitali. Se si considerano le perdite di vite umane, in campo cartaginese esse furono certamente maggiori nella prima fase che nella seconda e in cam­ po romano probabilmente di uguale entità nelle due fasi. Anche se il nu­ mero delle navi impiegate nella prima fase è stato forse sopravvalutato, e anche se una notevole percentuale di esse - per lo meno nello schiera­ mento romano - erano di tipi piu piccoli della quinquereme le perdite fra gli equipaggi, nella prima fase, furono certo molto pesanti per en­ trambi i contendenti. Fra i Romani, però, nelle due fasi del conflitto, il peso delle perdite ricadde su classi sociali diverse. Non solo i rematori, ma anche i marinai che costituivano gli equipaggi della flotta romana era­ no arruolati, almeno per la maggior parte, fra i proletarii italici (romani e alleati); fu questa la classe che nella prima fase della guerra sopportò le enormi perdite subite dai Romani nel corso delle battaglie e durante le tempeste. Invece gli assidui (romani e alleati) da cui erano tratte le forze di terra della Federazione romana, in questa fase subirono perdite relati­ vamente lievi: in tutti quei ventiquattro anni le legioni tenute contempo­ raneamente sotto le armi furono al massimo quattro. In Sicilia le truppe non erano molto piu lontane da casa di quanto non lo fossero durante la guerra contro Pirro. L'importante è che i soldati erano ancora abbastanza vici ni da poter tornare a casa ogni anno, anche se venivano richiamati per successive stagioni operative. L'unica eccezione fu costituita nel 2 56-2 5 5 dal corpo di spedizione d'oltremare di Regolo, composto da due legioni: la disastrosa sconfitta subita da quest'esercito nell'Africa nord-occidenta­ le fu l'unica, durante la prima fase del conflitto, paragonabile per propor­ zioni a quelle subite, ad esempio, nella seconda fase, dai due Scipioni in Spagna nel 2 1 2 e dai due Fulvii vicino a Ordona nel 2 1 2 e 2 1 o a. C. 24 , per 73

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Capitolo primo

non parlare delle gravissime sconfitte romane della Trebbia, del lago Tra­ simeno e di Canne. In Sicilia, nella prima fase della guerra romano-carta­ ginese i combattimenti furono meno aspri di quanto non fossero stati nel­ la terza e quinta fase della guerra romano-sannitica, e incomparabilmen­ te meno violenti di quelli ingaggiati nell'Italia peninsulare durante i quindici anni della presenza di Annibale. Agli occhi dei membri della classe di governo romana ( e senza dubbio il loro punto di vista era con­ diviso dai loro colleghi degli Stati italici alleati di Roma) i proletarii pote­ vano essere tranquillamente « consumati». D'altra parte, i contadini li­ beri proprietari erano indiscutibilmente il sostegno principale della Fe­ derazione. Per conseguenza, la diversa incidenza delle perdite umane nel­ le due fasi della guerra comportò una notevole differenza negli effetti eco­ nomici e sociali. Sotto questo aspetto, piu che il numero delle perdite è significativa la classe che nella prima e nella seconda fase, rispettivamen­ te, dovette pagare il tributo principale. Eccettuata la spedizione di Regolo, nella prima fase le operazioni ro­ mane sulla terraferma furono limitate a un teatro circoscritto e relativa­ mente ristretto, la Sicilia, e la sorte toccata alla spedizione di Regolo dis­ suase i Romani, in questa fase, dall'imbarcarsi in un'altra lontana impre­ sa oltremare. È vero che nel periodo intercorso fra le due guerre, verso il 238 a. C., essi si impegnarono nella conquista della Sardegna, un'isola i cui abitanti, a differenza di quelli della Sicilia, erano per lo piu barbari montanari e bellicosi. Di fatto la Sardegna era una Spagna in miniatura. In pari tempo, rispetto alla Spagna era tanto piccola che, per quanto an­ che qui la conquista si protraesse a lungo, non imponeva tuttavia a Roma un eccessivo dispendio di forze militari. Invece la seconda fase della guer­ ra romano-cartaginese vide aprirsi un teatro di operazioni in Spagna già nella prima stagione operativa. Conquistando a Cartagine un nuovo im­ pero in Spagna, per compensarla della perdita dell'epikrateia in Sicilia, Amilcare Barca aveva allargato l'area delle future ostilità romano-carta­ ginesi dalle isole del Tirreno all'intero bacino occidentale del Mediter­ raneo. Quindi Annibale, stringendo con la Macedonia un'alleanza in fun­ zione antiromana, dopo la vittoria di Canne, riusd ad estendere l'a­ rea del conflitto anche ad un altro teatro, cioè la Grecia continentale eu­ ropea con le acque e le isole dell'Egeo. Nella fase finale della guerra l'A­ frica nord-occidentale fu di nuovo zona di operazioni dal 204 al 2 0 2 a. C. Un'area che si estendeva dallo stretto di Gibilterra ai.la Grecia e dal bacino del Po alla valle del Bagrada era un teatro davvero assai vasto ri­ spetto a quello siciliano della prima fase del conflitto ". Al contrario della Sicilia, l'area interessata dalla fase annibalica della guerra non conobbe virtualmente limiti, né geografici né temporali. Per-

Gli effetti disgregatori della duplice guerra del 264-2or

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Roma, la prima fase era terminata con l'evacuazione da parte di Amilcare delle sue fortezze della Sicilia occidentale che non erano state espugnate. (L'apertura di un nuovo fronte in Sardegna non era un retaggio della guerra in Sicilia: fu un impegno che Roma si era assunto con leggerezza). D'altra parte, la conclusione della pace del 2or con Cartagine lasciò in eredità a Roma una serie di impegni militari, permanenti o periodici, che il governo non voleva, e che pertanto il popolo non poteva, rifiutare di as­ sumersi 20• Questa eredità impose ai contadini dell'Italia peninsulare, ro­ mani e alleati, l'onere costante del servizio militare, proprio negli anni in cui avevano un gran bisogno che si allentasse la tensione alla quale era­ no stati sottoposti sin dallo scoppio della guerra annibalica n. Tra gli impegni militari permanenti cui Roma doveva far fronte, il maggiore e piu gravoso si rivelò la sottomissione della Spagna. Roma sco­ pri, a proprie spese, che in questo caso la scelta era cruciale: o ritirarsi dalla Spagna lasciando la porta aperta per l'eventuale ingresso di un nuo­ vo Amilcare Barca, o sottomettere quest'altra penisola, molto piu grande e meno civilizzata di quella italiana fino alle sponde dell'Atlantico-una vera « frontiera naturale» nell'età precolombiana dell'arte della naviga­ zione. Il compimento dell'impresa spagnola richiese non meno di 200 anni, dallo sbarco di Cn. Scipione a Emporie nel 2 r 8 a. C. fino alla sotto­ missione finale dei Cantabri e degli Astuti da parte di Augusto nel r 9 a. C. 29 • Anche allora, Augusto lasciò ai suoi successori il problema, desti­ nato a rimanere parzialmente irrisolto, di stabilire una testa di sbarco ro­ mana nel Marocco nord-occidentale ( dove era difficile trovare una « fron­ tiera naturale ») per proteggere la Betica da attacchi provenienti dall'A­ frica attraverso lo stretto di Gibilterra. Un altro teatro di operazioni belliche, anch'esse impegnative e perma­ nenti, era costituito dal tratto nord-occidentale della catena appennini­ ca con le pianure del bacino del Po al di là di essa. I tre Barcidi, Annibale, Asdrubale e Magone, si erano serviti l'uno dopo l'altro di questa regio­ ne come base operativa e come fonte cui attingere forze militari fieramen­ te antiromane immediatamente a ridosso dell'Italia peninsulare. Emis­ sari cartaginesi seguitarono ad operare in questa zona anche dopo che Cartagine ebbe accettato le condizioni di pace imposte da Roma nel 2or a. C. L'implacabile ostilità dei Galli cisalpini e dei Liguri nei confronti di Roma era giustificata dal fatto che essi avevano già sperimentato il suo tentativo premeditato di sottometterli nel ventennio immediatamente precedente il valico delle Alpi da parte di Annibale. Questa regione pose a Roma, dopo la guerra, gli stessi problemi della Spagna; sebbene il baci­ no del Po fosse piu vicino e meno ampio del territorio spagnolo 3CI, i Ligu­ ri che vi abitavano, a differenza dei Galli, resistettero ai tentativi romani 21

,

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di conquista con ostinazione pari a quella delle popolazioni ispaniche. Per sottometterli, furono necessari ventinove anni ( 203-175 a. C.); ma an­ che qui, come in Spagna, rimanevano aperti spinosi problemi che, in par­ te, dovevano essere risolti solo da Augusto ". A confronto con l'ininterrotta attività bellica nella valle padana e in Spagna, il retaggio della guerra annibalica in Oriente era relativamente meno oneroso ". L'intervento macedone contro Roma, dopo la battaglia di Canne, indusse il governo romano a saldare i conti con la Macedonia non appena Cartagine fu costretta a concludere la pace alle condizioni im­ poste dal vincitore. Nella prima guerra romano-macedone, i Romani ave­ vano potuto misurare la forza del nemico; nella seconda lo ridussero sen­ za grande sforzo al rango di potenza secondaria. Questo secondo conflitto in Oriente ne provocò un terzo, allorché la sconfitta macedone, che crea­ va un vuoto politico in Grecia e nell'Egeo, spinse la monarchia seleuci­ dica a scontrarsi a sua volta con Roma. La sopravvalutazione della forza di Antioco III da parte del governo romano fu grande, ma ancor piu grande fu la facilità con cui egli venne sconfitto ". I Romani incontrarono maggiori difficoltà a sottomettere la piccola Confederazione etolica che a imporre la loro volontà al sovrano del vasto Impero seleucidico " Un so­ lo scontro con Roma bastò a rendere sottomessi per il futuro i fieri Etoli e i piu docili Seleucidi. Alla fine la Macedonia oppose una resistenza piu vivace e ostinata di tutte le altre passate potenze del Levante: Roma do­ vette combattere ben quattro guerre per piegare definitivamente la vo­ lontà del popolo macedone, mentre bastarono tre guerre per annientare Cartagine. I contadini-soldati macedoni uguagliavano per vigore quelli italici; se li avessero uguagliati per numero, equipaggiamento militare e organizzazione tattica, Roma avrebbe trovato un degno avversario. A causa della loro netta inferiorità in questi due punti vitali, l'assoggetta­ mento finale a Roma era una conclusione scontata; e le ripetute prove di forza contro i Romani furono poche e sporadiche, se confrontate con la lotta continua, punteggiata solo di pause momentanee, che Roma dovet­ te sostenere contro le sue vittime barbare, i Liguri e gli Spagnoli. Tutta­ via la Macedonia, come Cartagine, si prese una rivincita postuma sui con­ quistatori romani. La sua sottomissione nel r48 e quella di Cartagine nel r46 a. C. gravarono Roma di un onere supplementare, mantenere cioè al­ tri due fronti contro i barbari, uno nella penisola balcanica e l'altro nel­ l'Africa nord-occidentale, che, a differenza di quelli aperti in Spagna e in Liguria, esaurirono incessantemente le forze di Roma per tutta la durata dell'Impero. Il progressivo dilatarsi, nello spazio e nel tempo, degli impegni mi­ litari di Roma fu pagato con un tributo complessivo di perdite in vite

Gli effetti disgregatori della duplice guerra del

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umane, che si riflette nelle cifre dei censimenti romani ". Ma non furono tali perdite, per quanto pesanti, il danno piu grave inflitto alle popo­ lazioni rurali italiche dalla guerra annibalica e dai suoi strascichi militari. Alle disastrose sconfitte subite in Italia dagli eserciti romani nel corso di questa guerra, numerose e terribili, seguirono accidentali rovesci di mi­ nori proporzioni nei teatri ligure e spagnolo. D'altro canto, l'enorme contingente tenuto sotto le armi dal governo romano a partire dal 2 1 6 fìno a l 2 0 1 a . C. f u impiegato in larga parte con funzioni di presidio, allo scopo di assicurare la fedeltà degli alleati romani in regioni che non era­ no a diretto contatto col fronte militare. Inoltre, a partire dalla seconda metà della stagione operativa del 2 1 7 a. C. - cioè dopo la disastrosa sconfitta romana del Trasimeno 36 - fino al 2 0 1 incluso (eccezion fatta per il 2 1 5 e il 204), ogni anno due legiones urbanae appena arruolate svolgevano servizio di guarnigione nella stessa Roma. Secondo Klotz ,, , le legiones urbanae trascorrevano di solito il secondo anno di servizio nei Castra Claudiana, sulle alture sovrastanti Suessula, in Campania ,a. Di regola non venivano fatte scendere in campo se non alla fine di tale servizio. Nel corso di questi primi due anni, le legioni appena arruolate non dovrebbero quindi aver subito quasi nessuna perdita. Il danno piu grave inflitto ai contadini italici dalle guerre condotte dal 2 1 6 a. C. in poi non fu costituito dalle perdite di vite umane, bensf dallo sradicamen­ to. Il fatto che un soldato fosse trattenuto in una lontana provincia, inin­ terrottamente per anni e anni, aveva quasi le stesse nocive conseguenze, dal punto di visto economico e sociale, sia che egli non svolgesse alcun servizio attivo, sia che perisse in battaglia. Nell'un caso come nell'altro, il servizio che egli prestava in qualità di soldato gli impediva di adem­ piere le sue funzioni di coltivatore del suolo italico e di padre di una fa­ miglia italica. In effetti, le conseguenze della fase annibalica della duplice guerra ro­ mano-cartaginese non furono solo militari, ma anche economiche, socia­ li e religiose. La vita della Federazione romana ne rimase sconvolta in tutti i suoi aspetti ". Fu questo il prezzo della conquista romana delle estreme regioni occidentali dell'antica ecumene, un prezzo che condannò in anticipo l'Impero romano a una breve esistenza.

1

N o t e al c a p i t o l o p r i m o .

Questa è la data proposta i n via ipotetica da T . J. DUNBABIN, The Western Greeks, Ox., ford 1948 [rist. Chicago 1979), p. 486. L. PARETI, Storia di Roma, I, Torino 1952, pp. 180-8 1, pensa agli anni 530-520 a. C.

12 2

3

Capitolo primo

Per un sintetico esame dell'economia dell'Egitto tolemaico, vedi supra, vol. I, cap. II,

h-

La questione dell'origine degli Etruschi è discussa supra, vol. I, cap. III, appendice I,

§ i.

• Questo aspetto è stato rilevato supra, vol. I, cap. v, § 1. 5 Cfr. LIVIO, IX 38. 6 Secondo J. H. THIEL, A History of Roman Sea-Power before the Second Punic War, Amsterdam 1954, p. 33, questa è la data dell'istituzione dei quattro quaestores classici. Thiel pensa che l'istituzione di questo nuovo gruppo di pubblici ufficiali romani possa esser messa in rapporto con l'organizzazione dei socii navales di Roma. Egli ritiene inol­ tre (ibid., p. 133) che possa essersi trattato di un atto di ritorsione contro l'occupazio­ ne cartaginese di Messina. 7 Quanto ai socii navales dr. supra, vol. I, cap. III, appendice XI, e il presente volume, infra, cap. I, appendice I. ' Cfr. THIEL, A History cit., p. 33 (con la nota 89) e pp. 64 e 97. Cfr. T. FRANK, An Eco­ nomie History of Rome, I, Baltimore 1920 [2• ed. 1927, rist. 1962; trad. it. Storia eco­ nomica di Roma dalle origini alla fine della Repubblica, Vallecchi, Firenze 1924], p. 55. • THIEL, A History cit., p. 67. IO LIVIO, XXXVI 42. 1 1 LIVIO, XLII 48. 11 Cfr. supra, vol. I, cap. III, § 3. 13 L'odierna Civita Castellana. 14 L'odierna Santa Maria di Falleri, oggi disabitata. 15 G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, III 2, Torino 1918 [2• ed. Firenze 1 968), pp. 281-83, e G. TUZI, Ricerche cronologiche sulla seconda guerra punica in Sicilia, in BELOCH, « Stud. Stor. Ant.», I, 189 1 , pp. 81-97, concordano nel datare al 2 1 3 a. C. lo scoppio della guerra fra Siracusa e Roma, pur non concordando sullo stato del calendario ro­ mano in quel periodo. 16 Cfr. v. M. SCRAMUZZA in T. FRANK, An Economie Survey of Ancient Rome, III, Balti­ more 1937, p. 232. 17 P0LIBIO, I 19.15; DIODORO, XXIII 9 . 1 . 1 8 Per la sorte di Mitistrato dr. POLIBIO, I 24.u, e DIODORO, XXIII, fr. 9.4; per quella di Camarina dr. POLIBIO, I 24. 12, e DIODORO, XXIII, fr. 9.5. 19 POLIBIO, I 38.6-10, e DIODORO, XXIII, fr. 18.5. 22 DIODORO, XXIV, fr. I. 21 DIODORO, XXIV, fr. 8. 22 Cfr. R. SCALAIS, La restauration de l'agriculture sicilienne par les Romains, in «Mus. Belg. », XXVII, 1923, p. 245. 23 Cfr. infra, cap. I, appendice IL 24 Cfr. supra, vol. I, cap. nr, appendice X, con la nota 208, e in questo volume, infra, pp. 71-72 e cap. III, appendice I. 25 POLIBIO, IV 28, osserva che la seconda fase della guerra romano-cartaginese CC?minc!Ò come una guerra indipendente da quelle scoppiate all'incirca nello stesso periodo m Grecia e in Asia, ma che, a partire dal terzo anno della 140• Olimpiade, cio_è Ep6v,:wv, El'ltÉ CTq>LOW 6,:L O"a.q>wc; li; a.vi:ijc; ,:ijc; xwpa.c; 6pcj}1] 6crov ,:wv Pwµa.lwv 6La.q>ÉpouCTL. T-i)v µÈv yàp Èxdvwv vTtT)xoov xa.L 6Év6pa. 1ta.vi:06a.1tà xa.L aµ1tEÀ.oupy(a.c; xa.L yEwpy(a.c; xa.i:a.­ o-�Euac; i:E i:wv a;ypwv 'ltOÀ.Ui:EÀ.E� fXEW, ,:(Ì 6È 6-i) ,:wv la.u,:ou q>(À.wv oil,:w 'ltE'lt0p1H]o-l}aL wo-i:E µ116'Et xa.i:(ilxiJlhi 1toi:È "(L"(VWO"xEcrl}aL (moNE CASSIO, IX, fr. 40.27). " Supposto che questa Satrico fosse la famosa città nell'entroterra di Anzio e non l'oscu­ ro villaggio omonimo nel territorio di Arpino (dr. supra, voi. I, cap. m, § 2.2, nota 28).

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Capitolo secondo

Beloch fa decorrere la progressiva decadenza dell'Italia sud-orientale approssimativa• mente dal 400 al 200 a. C. (Bevolkerung cit., p. 42.5). n Cfr. supra, voi. I, cap. m, § 6 . 1 . 28 Cfr. supra, voi. I, cap. I , nota 3 1 , cap. IV, nota .5 , e la Nota sulla cronologia romana per le date anteriori al 300 a. C. 29 LIVIO, XXIV 3. "' LIVIO, XXIII 30. Ciò contrasta con la popolosità di Crotone nel 389-388 a. C., attestata da DIODORO, XIV rn3. 31 Cfr. LIVIO, XXIII 30, e XXIV 3. Livio racconta la storia dell'evacuazione di Crotone altre due volte, prima sotto l'anno 216 a. C. e poi sotto il 21.5 a. C. Quale che sia la vera data, sembra probabile che l'evacuazione di Crotone abbia seguito a breve distanza la caduta di Petelia, come si evince dal primo dei due passi liviani qui citati. Petelia (oggi Strongoli) controlla il territorio di Crotone. Dopo che Petelia cadde in mano al luogo­ tenente di Annibale, Imilcone, Crotone aveva poche possibilità di resistere contro le forze combinate della parte secessionista dei Bruzi e di un altro luogotenente di Anni­ bale, Annone. Datando la caduta di Petelia nel 2 1 6 a. C., LIVIO, XXIII 30, segue POLI· BIO, VII I. 32 Cfr. infra, pp. 13.5-36. 33 Polibio era attento a questi fatti. Quando enumera le forze militari di cui Roma dispo­ neva per fronteggiare l'invasione gallica dell'Italia peninsulare nel 22.5 a. C., Polibio dice ai suoi lettori che una delle ragioni per cui entra in dettagli è l'intento di richia­ mare l'attenzione sull'audacia con cui Annibale sfidò una potenza militare cosi grande con un corpo di spedizione cosi ridotto (II 24). Valutando la situazione militare nel 217 a. C., dopo la schiacciante vittoria di Annibale al lago Trasimeno, Polibio osserva (Ili 89.9) che «gli elementi di superiorità dei Romani [su Annibale] erano i riforni­ menti inesauribili e l'abbondanza di uomini» (-ijv Bi -.à. 1tpo-.Erniµa-.a. 'Pwµa.lwv àxa.-.a.-.pL1t'ta )(OPTJ"(La xa.L )(ELpwv 1tÀi'iD0,;). In una trattazione delle cause che per­ misero ai Romani di conquistare prima l'Italia e poi « il mondo», Polibio nota (VI .50.6) che « una delle cose che li aiutarono in non scarsa misura nel compimento di questa impresa fu la loro ricchezza e la pronta disponibilità di rifornimenti » (où µLxpà. 1tpb,; -.b xa.DLxÉc;l)a.L -.ii,; 1tpa.l;Ew,; -.a.u-.11,; O'Uµ�a'ì,.'ì,.oµÉV1],; a.ù-.oi:,; -.ii,; EÙ1topla,; xaL È't0Lµ6-.11-.0,; xa-.à. -.à.,; xop11yla.,;). A proposito della disparità di potenziale uma­ no tra Annibale e Roma Polibio osserva (IX 26.4) che, mentre Annibale poteva tro­ varsi solo in un posto alla volta, i Romani potevano mettere in campo contro di lui numerosi eserciti. 34 Questo punto è illustrato dallo stato di cose a Nola nel 216 a. C. (cfr. LIVIO, XXIII 14 e 17). 35 Per esempio, Annibale deportò nel Bruzio la popolazione di Atella (APPIANO, Hann. 49), presumibilmente quando gli era apparso chiaro che non avrebbe potuto impedire che i tre municipi romani della Campania ricadessero in mani romane. Nel 2rn a. C. deportò tutta la popolazione di Ordona a Metaponto e Turi perché sospettava che essa intendesse fare la pace con Roma quando lui si fosse ritirato dalle vicinanze. Egli mise a morte alcuni notabili che si riteneva avessero avuto piu incontri con Cn. Fulvio, il comandante locale romano di cui poco prima Annibale aveva distrutto l'esercito ( LIVIO, XXVII 1). Nell'ultima fase della guerra nell'Italia sud-orientale, quando non riusciva piu neppure a conservare tutta la fortezza del Bruzio, Annibale distrusse Terina (STRA· BONE, VI 1..5 (C. 2.56)). Secondo Appiano (Lib. 63 ) P. Cornelio Lentulo, nel dibattito al Senato sulle condizio­ ni di pace alla fine della guerra annibalica, accusò i Cartaginesi di avere commesso atro­ cità. A Nuceria, dopo la capitolazione, avevano bruciato vivi i senatori nei bagni pubbli­ ci e avevano massacrato il demos mentre evacuava la città come convenuto. Avevano gettato i senatori di Acerra nelle cisterne e li avevano bruciati vivi. Lentulo dichiarò

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che il numero totale delle città italiche distrutte da Annibale era di 400 (Lib. 63; dr. ibid., 134, e Syr. 10). 36 Durante la seconda fase della sua campagna del 217 a. C., per esempio, Annibale deva­ stò i territori della colonia latina di Benevento (POLIBIO, III 90.7-9; LIVIO, XXII 13) e della tribu romana Falerna e della colonia di Sinuessa (LIVIO, loc. cit.). 37 Per Napoli, cfr. LIVIO, XXIII I e 15. 38 Per Reggio, cfr. LIVIO, XXIII 30. 3 ' POLIBIO, VII 1 ; LIVIO, XXIII 30. "' LIVIO, XXIII 20. Cfr. anche APPIANO, Hann. 29. 4 1 APPIANO, /oc. cit. " LIVIO, loc. cit. '3 LIVIO, XXIII 15 . .. LIVIO, XXIII 17. " Cfr. DE SANCTIS, op. cit., III 2, pp. 251-53. Per Locri, dr. LIVIO, XXIII 30, e XXIV 1-3. La capitolazione di Locri e di Crotone è ricordata da Livio due volte. " Cfr. supra, pp. 20-21. 47 POLIBIO, III 90. " Cfr. LIVIO, XXIII 39, e XXIV 20. " POLIBIO, /oc. cit. 50 Compulteria e Treglia erano state temporaneamente rioccupate da forze romane nel 216 a. C. (LIVIO, XXIII 39). 1 5 LIVIO, XXIV 20. 52 LIVIO, XXIII 39. 53 LIVIO, XXIII 41. 54 LIVIO, XXIII 37. 55 LIVIO, XXIX 6-9. " Cfr. infra, pp. 762-71. 57 LIVIO, XXVII 3. In precedenza gli sfortunati Atellani erano stati deportati da Annibale nel Bruzio (APPIANO, Hann. 49, già citato a p. 38, nota 35). 58 Cfr. supra, p. 24. 59 LIVIO, XXIII 17. '° Cfr. LIVIO, XXIV 37-39. 61 LIVIO, XXIV 36. " Si confronti il massacro di civili compiuto nel Jalianwallahbagh, a Lahore, il 13 aprile 1919, su ordine impartito dal generale inglese R. E. H. Dyer alle sue truppe. " LIVIO, XXVII 21. 64 Cfr. supra, voi. I, cap. III, § 9. " LIVIO, XXVII 24. " LIVIO, XXVII 38. " LIVIO, XXVIII IO. " LIVIO, XXIX 36. " Queste due inchieste gettano forse qualche luce sulla generosità con cui nel 205 a. C. gli Stati etruschi e umbri risposero all'appello di Scipione, che chiedeva loro aiuti volontari (cfr. supra, p. 15). Essendo sospettati di slealtà, essi avranno cercato un'opportunità per placare la potenza sovrana con una dimostrazione pratica di pentimento. Scipione offri loro questa opportunità. Egli avrà saputo che potevano permetterselo e forse con­ tava sul fatto che avrebbero colto a volo l'occasione.

Capitolo secondo

70 Ciò è osservato da LIVIO, XXII 61. 71 LIVIO, XXIII 7. Se questo gesto di Annibale ebbe un effetto politico, esso dovette es­ sere largamente superato immediatamente dopo dal massacro di tutti i maschi in età militare da lui catturati nella marcia dal lago Trasimeno all'Apulia (dr. supra, p. 17). Forse Annibale commise questa barbarie solo su territorio romano e non nei territori delle comunità alleate che traversava. 72 POLIBIO, III 85; LIVIO, XXII 58. 73 POLIBIO, III 100. Non sembra esserci ragione di dubitare del resoconto di Polibio, ben­ ché, secondo LIVIO, XXII 18, Annibale avesse trovato Gereonio già abbandonata da­ gli abitanti, poiché il crollo di un tratto delle mura ne aveva reso impossibile la difesa. 74 LIVIO, XXV I I .

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Non meno significativo è l'elenco degli Stati italici alleati e dei municipi romani sud­ orientali che non disertarono. Nell'Apulia nord-occidentale, per esempio, Canosa, la città piu vicina al campo di battaglia di Canne, non solo restò fedele ma offri asilo e assi­ stenza, al pari della colonia latina di Venosa (LIVIO, XXII 54), ai Romani superstiti che avevano cercato rifugio tra le sue mura (LIVIO, XXII 50 e 52). I soli Stati salentini che a nostra notizia disertarono furono Ugento (LIVIO, XXII 61) e Manduria (LIVIO, XXVII 15). Nella Campania romana, mentre Capua, Calazia e Atella disertarono, altri tre mu­ nicipi - Cuma, Suessula e Acerra - restarono fedeli a Roma, e Acerra pagò la sua fedel­ tà con la distruzione (dr. supra, p. 24). Gli Stati bruzl erano nettamente divisi. I Bruzt secessionisti presero le armi contro Petelia unitamente ai Cartaginesi (LIVIO, XXIII 20). Fra tutti gli alleati dell'Italia sud-orientale che restarono fedeli, Petelia si comportò piu eroicamente. Dall'altra parte, un certo numero di combattenti bruzt, senza dubbio re­ clutati negli Stati che disertarono, restarono fedeli ad Annibale fino alla sua partenza dall'Italia e lo seguirono in Africa, dove poi combatterono nella battaglia di Naraggara. Evidentemente è possibile che essi lo avessero seguito non solo per fedeltà, ma anche per disperazione. In quel momento erano cosf gravemente compromessi che avevano poche speranze di ottenere pietà dai Romani. Sembra che i Bruzi secessionisti fossero quelli che, a partire dalla metà circa del IV secolo a. C., avevano occupato le antiche sedi coloniali greche lungo la costa tirrenica della « punta » dello Stivale, da Clampezia a Tauriana comprese. Livio osserva (XXIV 1) che le superstiti comunità greche della « punta » furono dissuase dal disertare, dopo la diserzione dei Bruzt, a causa dell'odio e della paura che nutrivano nei loro confronti. La lista di Livio (XXII 61) delle comunità secessioniste è inesatta. Qui egli dice, in contraddizione con la sua stessa narrazione successiva, che tutti i Bruzt disertarono, e anche tutti i Sanniti tranne i Pentri. Questa formula include implicitamente i Caudi­ ni, ma abbiamo visto alle pp. 24-25 di questo capitolo che né i Caudini né Crotone e Lo­ cri, che pure figurano nella lista di Livio, erano materialmente in grado di opporre re­ sistenza, e quindi essi non dovrebbero essere compresi tra gli Stati che disertarono de­ liberatamente pur avendo la possibilità di resistere. 76 Cfr. supra, p. 38, nota 33. 77 LIVIO, XXIV 35-36. 78 Cfr. supra, p. 26. 79 Abbiamo già citato questo passo a p. 38, nota 33. 80 POLIBIO, IX 26.2-8. " Cfr. supra, p. 38, nota 35. 82 DE SANCTIS, op. cit., III 2, pp. 220 e 22483 Cfr. supra, p. 25. 84 LIVIO, XXIV 47• 85 La sola vitti.ma di Arpi fu Dasius Altinius, che aveva consegnato la città ad Annibale. Quando egli si recò nel campo di Fabio per consegnare la città a lui, alcuni membri del consiglio di guerra di Fabio volevano farlo giustiziare, ma prevalse l'autorità di Fabio,

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il quale osservò che sarebbe stato contrario al pubblico interesse scoraggiare quelli che volevano compiere un « controtradimento ». Invece di essere mandato a morte, Dasius fu semplicemente internato a Cales (LIVIO, XXIV 45). " LIVIO, XXIV 47. " Non tutti i Lucani, dato che la nuova sottomissione della Lucania non fu completata fino al 200 a. C. (LIVIO, XXVIII u). Forse i Lucani che capitolarono nel 209 a. C. erano soltanto i Volcenti, che Livio menziona esplicitamente in questo contesto. " LIVIO, XXVII 15. " LIVIO, XXVI 14-16; XXVII 3. 90 LIVIO, XXVII 15. 91 Livio registra questa capitolazione due volte, sotto l'anno 204 a. C. in XXIX 38, e sot­ to l'anno 203 a. C. in XXX 19 (in entrambi i passi c'è la stessa formula: « et ignobiles aliae civitates » [« e altre oscure città »]; « multique ignobiles populi » [« molte oscure popolazioni»]). Nel primo passo egli dice che Clampezia fu presa con la forza, a diffe­ renza di Cosenza, di Pandosia e delle comunità minori che avrebbero capitolato. Nel se­ condo passo egli dice che tutte, compresa Clampezia, avrebbero capitolato. Una capito­ lazione di Cosenza, e anche di Tauriana, lo Stato bruzio piu a sud-ovest, vicino a Reggio e a Locri, è ancora attestata da LIVIO, XXV 1, per l'anno 2 1 3 a. C.; secondo questo pas­ so di Livio, in questa occasione piu Stati bruzi ne avrebbero seguito l'esempio se non fossero stati intimiditi, in quel momento, dalla distruzione di un corpo di irregolari ro­ mani nel Bruzio ad opera del locale comandante cartaginese Annone (dr. infra, pp. 7273). Probabilmente Tauriana si arrese realmente quell'anno e poi restò fedele a Roma, dato che essa non figura in nessuno dei due elenchi di Livio per l'anno 204 o 203 a. C. I Romani poterono proteggere efficacemente Tauriana, poiché essa era immediatamente vicina allo Stato italiota di Reggio, e Reggio restò fedele a Roma dal principio alla fine (DE SANCTIS, op. cit., III 2, p. 223). Quanto a Cosenza, in questo caso Livio può aver commesso l'errore di triplicare un'unica capitolazione. D'altra parte è credibile che Co­ senza si arrendesse realmente a Roma sia nel 213, sia una seconda volta nel 204 o 203 a. C. Nel 216 a. C. essa aveva cominciato col resistere, e si era arresa ai Cartaginesi solo dopo che essi ebbero espugnato Petelia (LIVIO, XXIII 30). In seguito, è possibile che i Cosentini abbiano colto ogni buona occasione per tornare dalla parte di Roma. Tuttavia Cosenza era in una posizione piu esposta di Tauriana, cosi che è possibile che si sia arresa a Roma nel 2 1 3 a. C. e poi sia stata costretta a sottomettersi nuovamente ai Car­ taginesi tra il 2 1 3 e il 204 o 203 a. C. LIVIO, XXVI 38. 93 POLIBIO, X 15.

XXXIX 2 . 1 3 . X 15. Confronta in LIVIO, XXVIII 16, il racconto del massacro indiscriminato in occasione della riconquista di Taranto nel 209 a. C. " In X 16. " Un esempio è il saccheggio, seguito dalla distruzione, della città siciliana di Megara ad opera di M. Claudio Marcello nel 214 a. C. (LIVIO, XXIV 35). " Le conseguenze economiche di ciò sono considerate infra, pp. 188, 1 95-96 e 345-406. In generale, cfr. H. VOLKMANN, Die Massenversklavungen der Einwohner eroberter Stadte in der hellenistisch-romischen Zeit, Abhandlungen der Mainzer Akad. der Wissensch. und Liter., Wiesbaden 196 1 . " LIVIO, XXVI 40. 100 LIVIO, XXIV 47, attesta che quando Atrino fu riconquistata con la forza, nel 213 a. C., fu rono catturate piu di 7000 persone, oltre a monete di bronzo e d'argento. Livio non riferisce quale fu la sorte degli abitanti di Acuca in Apulia presso Ardaneae (? Ordona), che fu espugnata nel 214 a. C. dalle forze romane con base a Lucera (LIVIO, XXIV 30). " POLIBIO,

9 5 POLIBIO,

42 10 1

Capitolo secondo

Cfr. supra, vol. I, cap. III, appendice Xl, con la nota 76, dove la questione è discus­ sa con riferimento all'altra, connessa con questa, della popolazione di Taranto a questa data. In base a ciò che dice Livio, non possiamo esser certi che i 30 ooo non fos­ sero già schiavi, e che non fossero sequestrati in questa occasione dai Romani come parte della preda di guerra. (Nella notizia in XXVII 16, le parole di Livio sono: « milia triginta servilium capitum dicuntur capta» [« si dice che siano stati catturati trentamila schiavi »]). La notizia, in altre fonti, secondo cui i 30 ooo erano cittadini tarentini ora resi schiavi, sembra in contrasto con una risoluzione che, secondo LIVIO, XXVII 25, fu approvata dal Senato romano nel 208 a. C. e che stabiliva che tutta la popolazione di Taranto restasse confinata entro le mura della città, in attesa di una decisione definiti­ va sulla sua sorte. Volkmann (op. cit., p. 43 ) sospetta che Livio abbia falsificato la no­ tizia per scagionare i Romani. Tuttavia egli cita altri casi in cui solo gli schiavi di una città conquistata furono trattati come preda di guerra, mentre la popolazione libera non fu asservita. Esempi di questa prassi, citati da Volkmann, sono l'occupazione di Mega­ ra nel 307 a. C. da parte di Demetrio Poliorcete (PLUTARCO, Demetr. 9); la conquista di Fenice nel 229 a. C. da parte degli Illiri (POLIBIO, II 6.6); e la conquista di Pelion nel 200 a. C. ad opera di P. Sulpicio Galba (LIVIO, XXXI 40). Nel 2n a. C. Marcello ri­ sparmiò l'asservimento alla popolazione libera di Siracusa (LIVIO, XXV 25; PLUTARCO, Mare. 19; cfr. VOLKMANN, op. cit., pp. 56, 79-80, 85-86). IO! LIVIO, XXVI 14. IOJ LIVIO, foc. cit. 104 LIVIO, XXVI 14-16. 1115 LIVIO, XXVII 3. 106 LIVIO, XXVI 40. 107 In XXV 8 e 15. 1 06 LIVIO, XXXIV 50. 109 DE SANCTIS, op. cit., III 2, p. 226. 110 APPIANO, Lib. 15. lii Cfr. LIVIO, XXXIV 48-50. 112 LIVIO, XXXVII 60. "' LIVIO, loc. cit. 114 A p. 26. 115 LIVIO, XXVI 2 1 ; cfr. infra, p. 170, nota 2, e p. 246. 116 Cfr. supra, p. 26. 117

I li

APPIANO,

Lib.

134.

A p. 16. 119 LIVIO, XXII 14. 120 A p. 24. 121 Dopo la vittoria di Annibale a Canne, Compsa si era arresa a lui senza combattere e aveva accettato una guarnigione cartaginese. Tuttavia la decisione di disertare non era stata unanime; essa era stata presa dopo che la fazione filoromana di Compsa aveva eva­ cuato la città (LIVIO, XXIII 1 ) . 122 LIVIO, XXVII 15-16. m « Reginis usui futuri erant, ad populandum Bruttium agrum adsuetam latrociniis quaerentibus manum » (LIVIO, XXVI 40; cfr. POLIBIO, IX 27). 124 LIVIO, XXVII 12 e 15. 125 Cfr. supra, p. 27. 126 « Reliquum anni cum M. Servilio magistro equitum circumeundis Italiae urbibus quae

La devastazione dell'Italia sud-orientale e della Sicilia

43

bello alienatae fuerant, noscendisque singularwn causis, conswnpsit [dictator P. Sul­ picius Galba] » ( LIVIO, XXX 24). 127 « Consules duas urbanas legiones scribere iussi quae, si quo res posceret, multis in Ita­ lia contactis gentibus Punici belli societate, iraque inde tumentibus, mittercntur» [« I consoli ricevettero l'ordine di reclutare due legioni urbane da inviare là dove la situa­ zione lo richiedeva, visto che molte popolazioni italiche avevano collaborato col nemico durante la guerra e per questo erano gonfie di collera »] ( LIVIO, XXXI 8). 1 28 Alle pp. 19-21. 129 Il giudizio di G. Tibiletti che « certamente le condizioni dell'Italia meridionale furono peggiorate dalla guerra annibalica », è un esempio della figura retorica che i grammati­ ci chiamano « mefosis » (Il latifondo dall'epoca graccana all'impero, in « Relazioni del X Congresso Internazionale di Scienze Storiche, Roma 4-u settembre 19.5.5 », 11, Roma 19.5.5, p. 249, nota 3 ). 0 " « La grande depressione [in Magna Grecia] si colloca approssimativamente tra Anniba­ le e Cicerone. In seguito, la Magna Grecia nel suo complesso si sviluppò secondo una ripida curva ascendente che restò costante fino alla fine della tarda antichità [der Spii­ tantike]. L'unica triste eccezione era la Lucania orientale » (u. KAHRSTEDT, Die wirt­ schaftliche l.Age Grossgriechenlands in der Kaiserzeit, Wiesbaden 1960, p. 124). A Reg­ gio il periodo di eclissi fu di brevissima durata (ibid., pp. 122-23). rn Per esempio a Pesto (KAHRSTEDT, ibid., pp. 6-12 e 3.5). m Ibid., p. 121. m STRABONE, VI 1 . 1 (C. 2.52); KAHRSTEDT, op. cit., pp. 16-20. 1 34 Loc. cit. m KAHRSTEDT, op. cit., p. 2,5, 1 36 Ibid., p. 3.5. 1 37 STRABONE, VI 1 .10 (C. 261 ) ; KAHRSTEDT, op. cit., p. 66. 138 STRABONE, VI I.II (C. 262). "' KAHRSTEDT, /oc. cit. 140 Ibid., pp. 61 e 74-7.5. 141 /bid., p. IOO. 42 1 Cfr. PAUSANIA, VI 19.u. IO KAHRSTEDT, op. cit., pp. 102 e I22. '" Ibid., p. 123. '" Ibid., pp. 97-98 e 123. '"' Ibid., p. 124. 141 Ibid., pp. 61 e 122. 1 48 Ibid., p. 124; per Crotone, dr. pp. Bo e 122. 9 1 4 STRABONE, VI I.2 (C. 2.54). "° Cfr. STRABONE, V 4.n (C. 249-2.50): come risultato della devastazione del Sannio ad opera di Silla, vuvL xwµaL yEy6vaaw ai "Jt6)..EL,;· fvLa.L 6'Éx)..E'ì..ol"Jta.cn -rE)..Éw,;, BoLa­ v6v, AlcrEpvla [cfr. 3.10 (C. 238)], Ila.vva, TEMcrla [« ormai le città son diventate vil­ laggi, e alcune sono scomparse del tutto, come Boiano, Isernia, Panna, Telesia»].

Capitolo terzo Sradicamento del ceto rurale dell'Italia peninsulare per effetto del servizio militare nella seconda fase della duplice guerra e nelle operazioni che la seguirono

1.

Attendibilità delle cifre di Livio.

Nella terza e quarta deca e nel frammento superstite della quinta de­ ca, che nel loro insieme coprono gli anni 2 1 8 - 1 6 7 a. C., Livio ci fornisce una massa di notizie e cifre concernenti il numero delle unità militari ro­ mane e alleate chiamate in servizio dal governo romano, la forza dei loro effettivi, la forza dei successivi complementi da esse ricevuti, la durata dei loro periodi di servizio, la zona o le zone successive in cui esse servi­ rono, le perdite che subirono. Livio osserva anche la difficoltà - a volte seria - di reclutare truppe cosi numerose e testimonia di episodi di mal­ contento e insubordinazione che scoppiarono tra le truppe in servizio. Sono credibili le cifre e le affermazioni di Livio relative a questo pe­ riodo? Se possono essere accettate come autentiche, sono istruttive. Es­ se contribuiscono molto a spiegare gli ampi mutamenti economici e socia­ li avvenuti nell'Italia peninsulare durante questo periodo cruciale. Se invece arriviamo a concludere che questi dati di Livio devono essere da noi ignorati perché sospetti, se non dimostrabilmente falsi, allora restia­ mo assai all'oscuro sul rapporto tra il lato militare e il lato sociale ed eco­ nomico della vita italiana nel mezzo secolo 2 1 8- 1 67 a. C., cosi come sia­ mo all'oscuro sul periodo immediatamente precedente e su quello imme­ diatamente successivo. Certo non possiamo prendere senz'altro alla lettera le affermazioni e le cifre sulle questioni militari offerte da queste deche dell'opera liviana. I difetti di Livio come storico sono ben noti. Il compito da lui assunto di narrare l'intera storia dello Stato romano era cosi enorme, rispetto alla vita di un solo individuo, che dal principio alla fine Livio lavorò sempre in fretta; ed egli usava ogni momento che poteva risparmiare non per cercare i testi originali dei documenti ma per abbellire la narrazione che costruiva, di seconda mano, sulle opere dei suoi predecessori. Anche quando Livio osserva che un documento da lui citato esiste tuttora in qualche edificio pubblico romano facilmente accessibile, ciò non implica che lo stesso Livio abbia visitato gli archivi e vi abbia studiato il docu1

,

Sradicamento del ceto rurale dell'Italia peninsulare

45

mento. In tali casi pare che egli riprenda dal suo predecessore, la cui esposizione egli parafrasa in questo dato passo, non solo l'informazione sul contenuto del documento, ma anche l'informazione sul luogo in cui esso è reperibile 2 • Quindi Livio non fa quello che dovrebbe fare quando trascura di consultare i documenti originali, mentre fa quel che non do­ vrebbe quando abbellisce il racconto. « Livio è disposto a sacrif.care l'e­ sattezza dei particolari per ottenere migliori effetti letterari » 3 • «Egli ha falsificato la storia non per errore ma di proposito» •. Allora nel nostro verdetto su Livio non c'è scampo per lui? Studiosi moderni di storia romana sono arrivati quasi a pronunciare questa con­ danna ' nel corso del XIX secolo, quando nel loro atteggiamento verso le superstiti fonti d'informazione letterarie cresceva sempre piu la marea dello scetticismo. Questo scetticismo era una reazione salutare contro la precedente accettazione acritica dei dati forniti dalle fonti; ma, a partire dal volgere del secolo, si è riconosciuto che la sfiducia indiscriminata è, nella ricerca della verità, una guida altrettanto cieca quanto l'indiscrimi­ nata credulità Un recente studioso del metodo di lavoro liviano ha osservato 7 che in realtà Livio riproduce fedelmente il contenuto delle sue fonti anche quando abbellisce la forma. « Il valore di Livio per la storia romana va­ ria a seconda della fonte seguita» •. Due delle migliori fonti di Livio sono Polibio e Celio Antipatro, un annalista romano che è imparziale ' quan­ to Polibio e che ha inoltre il merito di attingere a fonti diversificate 10• Una delle fonti peggiori di Livio è Valerio Anziate. La sua disonestà in­ tellettuale è provata da molti passi dell'opera liviana in cui Livio lo cita come sua fonte. Anziate distorce volentieri la verità per la maggior glo­ ria della gens Valeria o di Roma o semplicemente per ottenere effetti let­ terari. Nei suoi racconti, riprodotti da Livio, di battaglie combattute in un'epoca in cui è praticamente certo che a Roma non si redigevano docu­ menti esatti e dettagliati, Anziate fornisce cifre ostentatamente precise, ma spesso incredibilmente elevate, delle forze impegnate e delle perdite in campo non romano. Secondo Walsh 11 , anche Anziate fondava la sua esposizione su testimonianze documentarie, quando erano disponibili. Tuttavia la sua generale inclinazione alla disonestà intellettuale sembra sufficientemente accertata e quindi è un peccato che nella narrazione li­ viana della guerra annibalica egli sostituisca gradualmente Celio Anti­ patro come fonte principale per gli avvenimenti italiani e che nella quarta e quinta deca, quando Livio non attinge a Polibio, Anziate sia di n uovo una delle sue due fonti principali 13 • Supponiamo per un momento il peggio: supponiamo cioè che Anzia­ te sia la fonte immediata di Livio per tutte le affermazioni concernenti 6



12

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Capitolo terzo

fatti militari contenute nella terza, quarta e quinta deca 14 • Se è vero che Anziate attingeva a documenti genuini quando erano reperibili, dobbia­ mo chiederci: primo, se è probabile o no che documenti degni di fede, contenenti le informazioni in questione, venissero compilati a Roma du­ rante gli anni 2 1 8- 1 6 7 a. C.; e, secondo, supposto che l'opera di Anziate fosse il canale da cui Livio derivava queste informazioni, se Anziate ab­ bia ceduto alla tentazione di falsificare i documenti di cui si serviva. I documenti in questione saranno stati i Fasti (cioè liste di magistra­ ti romani) e gli Annales Maximi (una cronaca tenuta dal pontefice mas­ simo). I Fasti, come ci sono pervenuti, decorrono dall'inizio del periodo repubblicano della storia romana, e nel nostro secolo si tende sempre piu a credere nella loro autenticità ". Quanto agli Annales Maximi, sembra che fossero compilati su una serie annuale di tavole imbiancate, esposte al pubblico, su cui il pontefice massimo registrava quelli che a suo giu­ dizio o forse, piuttosto, secondo criteri tradizionali, erano gli avveni­ menti importanti dell'anno. \'v'alsh ritiene 1• che la serie genuina non co­ minciasse prima dell'anno 300 circa a. C. De Sanctis ritiene che essa cominciasse all'inizio del III secolo a. C. De Sanctis ha indubbiamente ra­ gione anche nell'affermare " che per suo conto Livio non consultò mai gli Annales Maximi, e meno che mai le tavole originali. Se egli ha ripreso da Anziate le affermazioni e le cifre che derivano da essi, è probabile che questi le avesse alterate incorporandole nella sua opera? Non ci sono evidenti motivi per credere che Anziate abbia ceduto alla tentazione di farlo. Senza dubbio egli era sempre tentato di attribuire a ogni membro della gens Valeria un credito indebito o di liberarlo dal di­ scredito. Ma nel perpetrare simili falsificazioni della storia Anziate cor­ reva piu facilmente il rischio di essere scoperto quando trattava di un pe­ riodo di storia romana per cui esisteva una documentazione autentica, meno facilmente quando trattava un periodo piu antico per cui tale do­ cumentazione non esisteva. Anziate, come la maggior parte degli altri sto­ rici romani, era anche tentato di continuo di glorificare il suo paese; ma non sembra che le affermazioni e le cifre qui in questione, come ci sono pervenute nell'opera di Livio, siano state falsificate neppure per questo scopo. Un esaltatore di Roma privo di scrupoli avrebbe certamente ma­ nipolato le cifre per far credere che il valore di Roma aveva sconfitto il genio di Annibale con forze numericamente inferiori, o almeno non su­ periori a quelle di Annibale. Invece, uno dei fatti che le notizie e le cifre di Livio mettono in luce è il fatto prosaico che Roma poté mobilitare e mobilitò contro Annibale forze che per numero erano di una superiorità schiacciante, anche se erano inferiori per qualità. Dato che ciò non tor­ na a gloria di Roma, è da pensare che le cifre possano essere autentiche; 11

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e non è il caso di pensare che Anziate possa averle alterate in vista di effetti letterari. Informazioni statistiche di questo genere resistono anche all'arte letteraria piu ricercata; non è questo il materiale su cui uno sto­ rico con ambizioni letterarie possa essere tentato di esercitare il suo gu­ sto artistico a spese della verità. Il materiale che potrebbe ispirare que­ sta tentazione sarebbe il racconto di una battaglia nello stile di quelli del­ la prima deca di Livio, o una peripezia tragica come il processo e la cadu­ ta degli Scipioni 1•, o un racconto romantico come quello della storia d'a­ more che avrebbe portato alla scoperta e alla repressione di una suppo­ sta cospirazione dei Baccanali "'. Queste considerazioni ci fanno credere che le notizie e le cifre in que­ stione siano probabilmente autentiche e che quindi sia lecito che noi ce ne serviamo cercando di ricostruire la storia economica e sociale della Federazione romana durante il mezzo secolo per cui queste informazioni esistono: il mezzo secolo che ha inizio nel 2 1 8 a. C. con lo scoppio della seconda fase della guerra romano-cartaginese. In ogni caso, questa è la conclusione cui sono arrivati parecchi dei piu recenti autorevoli studiosi di questo periodo della storia romana. Cantalupi afferma 21 che le notizie annuali di Livio, per gli anni 2 1 5- 2 0 1 a. C., relative ai nomi dei magistra­ ti, ai comandi militari e navali, al numero e alla posizione delle legioni e delle navi da guerra, siano derivate, sia pure di seconda mano, dagli An­ nales Maximi. De Sanctis afferma " che le notizie di Livio, «nel tutt'insie­ me, son documenti d'importanza massima» e che in particolare le sue statistiche relative alle legioni «dànno un quadro a pieno omogeneo ed 25 unitario » ". Afzelius afferma che queste notizie di Livio derivano in ul­ tima istanza dai senatus consulta originali. Walsh sostiene 2• che deriva­ no da documenti autentici. Klotz afferma n che le cifre di Livio sono de­ gne di fede. La sua conclusione ", dopo l'esame del materiale presentato da Livio, è che «dobbiamo ... riconoscere come materiale documentario la tradizione sulle truppe chiamate in servizio [da parte romana] nella seconda guerra punica ... Per l'utilizzazione e la conseguente preservazio­ ne di questo materiale dobbiamo ringraziare la molto vilipesa [scuola storica romana] annalistica». Una posizione intermedia è stata assunta da Gelzer ", sulla base di una minuta analisi delle cifre contenute nelle nostre fonti per il periodo della guerra annibalica. Egli rifiuta 30 lo scetticismo estremo dei critici ot­ tocenteschi, com'è rappresentato da Ulrich Kahrstedt '1 • Egli ricorda che, nel caso del senatus consultum de Bacchanalibus, la versione liviana di questo documento può essere controllata su un esemplare superstite di una circolare ufficiale emessa dai consoli dell'anno 1 8 6 a. C., compren­ dente un riassunto di questo senatus consultum; e osserva che la «tarda Zl'

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Capitolo terzo

annalistica», da cui deriva la versione liviana del documento, esce con onore da questa particolare verifica. (Anzi, la versione annalistica sem­ bra piu vicina del riassunto dei consoli al testo originale) 32 • Tuttavia Gel­ zer afferma anche che non sono numerosi i casi in cui le informazioni del­ le nostre fonti, quando pretendono di riportare testi ufficiali, sono state copiate - e copiate fedelmente - dai documenti originali conservati negli archivi pubblici. A giudizio di Gelzer il caso del senatus consultum de Bacchanalibus è eccezionale. Egli ci ammonisce a non lasciarci ingannare da un'appa­ renza di esattezza e precisione. E ci ricorda 33 che la « plausibilità» ( mi>a­ 'J6'tTJc;) è una delle tre virtu che dovrebbero essere coltivate dai narra­ tori secondo le prescrizioni dell'arte retorica greca; che Polibio biasima Timeo 34 per la sua bravura nel suscitare un'impressione ingiustificata di veracità; e che Timeo sembra essere stato accettato come modello dagli annalisti romani della scuola cosf del II come del I secolo a. C. Gelzer so­ spetta che gli annalisti romani ( come i moderni scrittori di storia greca e romana) ricostruissero il corso degli avvenimenti combinando tutte le notizie frammentarie che potevano raccogliere, ma che (a differenza dei piu responsabili tra gli studiosi moderni loro successori) non distingues­ sero criticamente tra i materiali piu autorevoli e i meno autorevoli e, peg­ gio ancora, non si facessero scrupolo di ricamare su questi materiali per ottenere la desiderata impressione di autenticità. A giudizio di Gelzer ", questo procedimento da lui attribuito agli annalisti rende dubbie tutte le cifre cui essi hanno dato origine, non escluse quelle militari annuali. Riportiamo l'impressione che la tabella delle legioni non sia il prodotto, né di libera invenzione da parte della tarda annalistica, né di ricerca documen­ taria. La nostra impressione è che questa tabella si sia sviluppata in relazione strettissima con la crescente «precisione » della storiografia romana ... "". Io concludo che l'annalistica del II secolo a. C. - qui la figura chiave è Cn. Gellio - cercava già di completare le sue notizie sulle elezioni dei consoli e dei pretori e sull'assegnazione delle province fornendo una cronaca completa delle legioni mobilitate ogni anno. In seguito la tarda annalistica, che era dominata dagli ideali della retorica, cercò di ravvivare queste aride tavole integrando i senatus consulta con tutti i possibili particolari sul trasferimento di comandi e l'entità delle forze militari. Se questo è vero, non abbiamo il diritto di con­ dannare sommariamente questi senatus consulta come invenzioni della tarda annalistica ... Dobbiamo supporre che, nella produzione di queste presunte ta­ vole delle legioni nello strato piu antico, i dati rinvenuti nella storiografia se­ natoria siano stati completati combinando informazioni frammentarie: senza però escludere che, in questo processo d'integrazione, si attingesse occasional­ mente a qualche fonte autentica... 37• Mi trovo a dissentire da Kahrstedt ... in quanto non ritengo che le liste delle legioni siano pure invenzioni risalenti agli ultimi decenni della Repubblica. Ri-

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tengo che siano un'elaborazione, mediante un lavoro di combinazione, di ma­ teriale piu antico contenente notizie che sono in parte autentiche ... 38 • Il risultato generale [della mia presente ricerca] è la convinzione che i dati dei senatus consulta sulla mobilitazione di truppe romane riferiti nelle ultime tre deche di Livio non riescono a dimostrarsi fededegni ogni volta che possia­ mo metterli a confronto con una tradizione piu antica. La mia analisi dovrebbe avere tuttavia dimostrato anche che il corpo di tradizione liviano cela un con­ tenuto di stratificazione storiografica piu ricco di quanto di solito si ammetteva negli studi passati sulle fonti: studi che spesso sono stati condotti troppo mec­ canicamente ".

Le conclusioni di Gelzer sono ragionevoli e degne di attenzione. In ogni caso, sia che, nel dar credito alle cifre riportate da Livio, non andia­ mo oltre Gelzer sia che arriviamo, per esempio, fin dove arriva De Sanc­ tis, ciò non significa che possiamo semplicemente prendere le informazio­ ni di Livio cosI come stanno. In esse vi sono lacune. Per esempio Livio non dà notizie di questo genere per i due anni importantissimi 2 1 7 e 2 1 6 a. C., e queste due non sono le uniche omissioni '°. Vi sono anche discre­ panze. Per esempio in alcuni casi ( cioè per gli anni 2 1 4 e 2 1 3 a. C.) la ci­ fra totale di Livio per il numero di legioni in servizio in un dato anno 41 è chiaramente inferiore alla somma delle voci parziali da lui indicate, espli­ citamente o implicitamente, per lo stesso anno 42 • Cantalupi O e Klotz .. ne inferiscono che Livio deve essere arrivato ai suoi totali non sommando le sue stesse voci, ma trovando i totali, cosI come li riporta, nella sua fonte ". Se questa conclusione è giustificata, il fatto che nella maggior parte dei casi la somma delle voci indicate è identica alla cifra totale ri­ portata fa pensare che entrambe le serie di cifre siano corrette. Altrimen­ ti, è possibile che entrambe le serie di cifre vengano da una sola fonte, ma che occasionalmente questa fonte, o Livio nel copiarla, possa casualmen­ te avere omesso, o duplicato, qualche voce; oppure che gli errori possa­ no essere stati commessi, prima o poi, in qualche fase del processo di copiatura e ricopiatura delle cifre, o anche nella compilazione del do­ cumento originale. Si sa bene che i numeri, sia romani che arabi, e i no­ mi propri, specie se sono abbreviati, sono soggetti a venire alterati nel corso della trasmissione. Ciò accade ancora persino all'epoca della stam­ pa e della dattilografia. Anche piu facilmente poteva accadere al tempo della trasmissione manoscritta. Tuttavia il margine di errore dovuto a sviste involontarie di questo genere è piccolo rispetto alla massa di preziose informazioni che le noti­ zie di Livio ci forniscono se contengono almeno un nucleo di dati auten­ tici. Un punto negativo a loro favore è che esse non sono in contrasto con nessuna delle testimonianze corrispondenti di altro tipo. Per esempio le cifre di Polibio, probabilmente derivate da Fabio Pittore .., per il poten-

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ziale militare umano della Federazione romana e le superstiti cifre dei censimenti romani - alcune delle quali provengono da fonti indipenden­ ti da Livio " - sono compatibili con le cifre, implicite nelle notizie di Livio, sugli effettivi realmente mobilitati durante gli anni 2 1 8- 2 0 1 a. C. Klotz, che a differenza di Cantalupi e De Sanctis ritiene che all'inizio della stagione operativa del 2 1 6 a. C. Roma avesse sotto le armi 1 7 e non 1 3 legioni, osserva .. che questa forza, consistente di 8 5 ooo fanti e 5 1 oo cavalieri se queste legioni contavano 5000 fanti e 3 0 0 cavalieri ciascu­ na, sarebbe ammontata solo a un terzo circa del potenziale umano totale di Roma nel 2 2 5 a. C. ( 2 5 0 ooo fanti e 23 ooo cavalieri). Il numero mas­ simo di legioni che si calcola siano mai state in servizio contemporanea­ mente durante la guerra annibalica è di 25 (calcolo di Cantalupi e De Sanctis per ciascuno degli anni 2 1 2 e 2 u a. C.; Klotz accetta per questi due anni il totale di Livio, di sole 2 3 legioni). Anche se esse avessero avuto tutte il massimo degli effettivi, 5000 fanti e 3 0 0 cavalieri, il tota­ le, cioè 1 3 2 500, sarebbe ammontato soltanto a metà del potenziale uma­ no del 2 2 5 a. C. per la fanteria e a meno di un terzo per la cavalleria. De Sanctis osserva •• che a quel tempo la popolazione dell'Ager Romanus a nord-ovest del Volturno era abbastanza numerosa da fornire due nuove legioni ogni anno. Nel 2 1 8 a. C. i cittadini romani maschi adulti saranno stati circa 2 8 0 ooo. Metà di essi potevano costituire 2 8 legioni di 5000 fanti ciascuna. De Sanctis \raluta 50 che a quel tempo la popolazione tota­ le dell'Italia peninsulare fosse di circa tre milioni e che ogni anno essa avrebbe fornito circa 27 ooo reclute tra i diciassette e i diciotto anni di età. Dopo la battaglia di Canne, naturalmente, Roma non poteva piu at­ tingere uomini né dai suoi municipi campani secessionisti né dagli al­ leati secessionisti dell'Italia sud-orientale. D'altra parte, però, dobbiamo ammettere la probabilità che nel 2 1 2-2 1 1 a. C. la maggior parte delle le­ gioni fossero ormai scese al di sotto della forza ufficiale, specialmente quelle di guarnigione o su linee di comunicazione ". De Sanctis osserva s, che talvolta le legioni combattenti erano rafforzate da complementi che non erano di nuova leva ma erano presi da unità non combattenti già in servizio ". Egli stima che nel 2 1 1 a. C. circa il 1 o per cento della popola­ zione di quanto restava della Federazione romana in Italia fosse sotto le armi, di contro al 5 per cento circa della Prussia nel 1 8 1 3 . Egli suppo­ ne 54 che dopo la battaglia di Canne il governo romano avesse reclutato volontari schiavi non perché mancavano riserve umane, ma perché per prudenza non voleva trarre nuove leve di cives sine suffragio romani e di alleati :finché il movimento secessionista non fosse stato arginato. Obiet­ tivo che venne raggiunto nella campagna del 2 1 5 a. C. Quindi il governo romano, che nel 2 1 5 aveva reclutato una sola nuova legione, per il 2 1 4

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a . C. (secondo i calcoli sia di De Sanctis che di Klotz) reclutò sei nuove legioni (con le loro quote di cives sine suffragio e le loro alae di alleati). Le cifre che ci sono pervenute - in questo caso la serie delle cifre dei censimenti - si conciliano meno facilmente con le stime implicite di Po­ libio per la consistenza numerica delle forze navali romane mobilitate durante la prima fase della guerra romano-cartaginese e per l'entità delle perdite riportate dalla flotta romana in questa stessa fase. Queste alte stime sono implicite nelle cifre, date da Polibio, delle quinqueremi arma­ te e di quelle perdute da parte romana nel corso degli anni 2 60-2 4 1 a. C. È difficile credere che Polibio non abbia esagerato il numero delle navi varate e perdute, e inoltre credere che egli non abbia supposto erronea­ mente che tutte le navi delle sue liste fossero quinqueremi, mentre in realtà alcune di esse erano triremi e pentecontori 55 • Che si accettino o no come giuste le notizie di Livio, il corso e l'esito della guerra in Italia durante quegli anni dimostrano con evidenza che il numero di truppe mobilitate da parte romana dovette essere altissimo. Sembra anche che il governo romano, mobilitando su cosi larga scala e aprendo nuovi fronti, prima in Spagna e poi nella Grecia continentale europea, seguisse una politica deliberata. Seguendo queste due linee Ro­ ma faceva valere la sua superiorità numerica. Questo, di fatto, fu uno dei mezzi con cui alla fine vinse la guerra, e sembra improbabile che il ricor­ so a questi mezzi non fosse intenzionale: anche se, indubbiamente, il go­ verno romano non previde che, una volta aperti questi fronti lontani, sa­ rebbe stato impossibile liquidarli dopo la fine della guerra con Cartagine. Queste considerazioni negative, sommate agli argomenti positivi, de­ pongono a favore della tesi che l'informazione statistica liviana per gli anni 2 1 8- 1 6 7 a. C. può legittimamente esser considerata corretta nel suo insieme, anche se la maggior parte di essa non deriva direttamente dalle fonti ufficiali citate. 2.

Cifre complessive delle truppe romane e alleate sotto le armi nel periodo 2r8-I33 a. C.

Cercando di arrivare al numero totale degli uomini sotto le armi, ci converrà considerare separatamente le cifre per gli anni 2 1 8- 2 0 1 a. C. e quelle per gli anni 200- 1 3 3 a. C. Il primo di questi fu un periodo di emer­ genza temporanea in cui Roma compiva, sui fronti terrestri, il massimo sforzo militare di cui era capace a quel tempo. In questa crisi le alterna­ tive erano o di perire o di riprendersi infine dallo sforzo vincendo la guer­ ra. Roma vinse la guerra; ma poi il sollievo non fu quale essa, senza dub-

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bio, aveva sperato. Dopo che Cartagine ebbe fatto la pace alle condizioni imposte da Roma, i restanti impegni bellici di quest'ultima continuarono ad essere pesanti, in rapporto alla quantità delle sue risorse correnti in fatto di forze militari. Essi non erano piu pesanti di quelli, temporanei, sostenuti durante la guerra annibalica. Ma erano piu minacciosi perché non se ne poteva prevedere la fine. Abbiamo le informazioni di Livio per tutto il primo dei due periodi, e anche per il secondo fino al 1 67 a. C. Poi le nostre informazioni sono frammentarie fino al 133 a. C., data della caduta di Numanzia e dello scoppio della rivoluzione romana dei cent'anni, che resta fuori del tema della presente opera. Dobbiamo tener conto di due serie di cifre. Da una parte ci sono le cifre trasmesse dalle nostre fonti, dall'altra i vari calcoli fatti sulla base di queste informazioni dagli studiosi moderni. Per arrivare a nostre con­ clusioni, dobbiamo anzitutto confrontare tra loro queste serie di cifre; e il modo migliore di ottenere una visione sinottica è di disporre in forma tabulare tutte le cifre che c'interessano. Quattro tabelle sono annesse al presente capitolo. La tabella 1 presenta il numero totale delle legioni sot­ to le armi negli anni 2 1 8 - 2 0 1 a. C. secondo sei diversi calcoli. La tabel­ la 2 presenta le legioni sotto le armi negli anni 2 1 8-2 0 1 a. C. secondo il calcolo di De Sanctis, distribuite secondo le regioni in cui servivano '. La tabella 3 è una versione riveduta della tabella 2 (chi rivede l'opera del De Sanctis lo fa a proprio rischio); la tabella 4 presenta le legioni sotto le armi negli anni 2 00- 1 6 8 a. C. secondo il calcolo di Afzelius, distribuite secondo le regioni in cui servivano. Le prime quattro delle sei colonne della tabella 1 sono in ordine cro­ nologico, da sinistra a destra, e nel loro insieme illustrano la tendenza, manifestatasi dal volgere del secolo, a prestare maggior credito alle cifre che ci sono state tramandate. L'atteggiamento del Beloch, nel suo com­ mento alle conclusioni del Cantalupi, è caratteristico della sua generazio­ ne, in cui la marea dello scetticismo era al sommo. Egli qui presuppone 2 , quasi per principio e certo a priori, che le cifre di Livio devono essere esa­ gerate, e disapprova il maggior rispetto con cui le tratta Cantalupi. Nel commentare i risultati di Cantalupi, Beloch cerca di ridurre il numero delle legioni sfruttando al massimo i disastri militari 3 e i congedi per questo periodo e andando in cerca di reduplicazioni ' . Quando tutti gli al­ tri espedienti non bastano a ridurre il numero a 20 5 , che egli si è scelto come massimo, Beloch rifiuta semplicemente i fatti e le cifre di Livio per esempio le sei nuove legioni del 2 1 4 a. C. d - con l'argomento sogget­ tivo che a suo giudizio questo numero è inverosimilmente elevato. Tut­ tavia anche le cifre arbitrariamente ridotte di Beloch restano in qual-

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che rapporto con quelle di Livio. Egli non arriva a rifiutare del tutto le ci­ fre di Livio per il fatto che, secondo Polibio, il numero massimo di legio­ ni in servizio fu di otto nel 2 16 a. C. e di quattro negli altri anni di guerra Naturalmente Beloch non respinge l'opinione di Cantalupi secondo cui a Canne c'erano soltanto quattro legioni romane e non otto '. Né con­ traddice l'altra opinione di Cantalupi secondo cui nelle vicinanze di Or­ dona furono distrutte solo due legioni, e non quattro •. Le opinioni di Cantalupi su questi due punti sono fatte proprie anche da De Sanctis 10 • Non credendo-nell'autenticità della notizia di Livio sulla distruzione di due legioni a Ordona nel 2 r 2 a. C., Cantalupi e De Sanctis sono anche co­ stretti a rifiutare il totale di 2 3 legioni attestato da Livio per il 2 r r a. C. Calcolando, come essi fanno, che le due legioni di cui è riferita la distru­ zione a Ordona nel 2 r 2 a. C. esistevano ancora, essi necessariamente fan­ no ammontare non a 2 3 ma a 2 5 il totale per il 2 r r a. C. In contrasto con i suoi predecessori De Sanctis, Cantalupi e Beloch, Klotz segue le nostre fonti ritenendo che a Canne vi fossero otto legioni e che a Ordo­ na andassero perdute per due volte due legioni; su entrambi i punti, i risultati conservatori di Klotz sono convicenti. Le legioni presenti a Canne erano otto secondo tre delle quattro sti­ me a noi pervenute: Polibio Appiano e un gruppo delle fonti di Li­ vio ". L'altro gruppo riferiva che le truppe complementari richiamate per integrare i due eserciti consolari regolari per l'anno 2 1 6 a. C. ammonta­ vano non a quattro legioni ma soltanto a r o ooo uomini 14, ciò che dareb­ be in tutto non otto ma sei legioni per l'esercito campale: a meno che i ro ooo reclutati non fossero supplementa nel senso tecnico di rinforzi as­ segnati a legioni esistenti per riportarle agli effettivi completi, e non de­ stinati a formare nuove legioni. Cantalupi ritiene che quattro sia un nu­ mero piu credibile di otto perché l'esercito di Annibale non sarebbe sta­ to abbastanza numeroso da accerchiare l'esercito romano, come fece, se quest'ultimo fosse stato forte di otto legioni Allo scopo di dimostrare che l'esercito di Annibale era insufficiente per questa manovra, egli rifiu­ ta le cifre - riportate sia da Polibio 1• che da Livio 11 - delle forze di Anni­ bale a Canne. Ambedue queste fonti dicono che a Canne Annibale aveva 40 ooo fanti e ro ooo cavalieri. Cantalupi 1' giudica queste cifre incompa­ tibili con l'affermazione di Polibio 1•, fondata a sua volta sull'affermazio­ ne dello stesso Annibale nella sua iscrizione nel tempio di Era Lacinia, secondo cui egli, quando arrivò al piede orientale delle Alpi nell'autun­ no del 2 1 8 a. C., aveva solo 20 ooo fanti e 6000 cavalieri. Tuttavia la spiegazione della differenza tra le due cifre di Polibio è semplice. Nell'in­ tervallo tra l'autunno del 2 1 8 e la primavera del 2 1 6 a. C. all'esercito di 7

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Annibale si era aggiunto in rinforzo un gran numero di volontari gallici. Ignorando questo semplice fatto, Cantalupi ,. riduce da 50 ooo, la cifra attestata, a 35 ooo le forze totali di Annibale, di tutte le armi, presenti a Canne. Tuttavia, anche se per amor di discussione volessimo accettare questa riduzione arbitraria, ciò non escluderebbe la possibilità che l'eser­ cito romano a Canne contasse otto legioni, considerando i numerosi casi ben attestati in cui un esercito efficiente ha superato nella manovra, sconfitto e distrutto un esercito meno efficiente dotato di forze numeriche piu che doppie. Come si vede, gli argomenti di Cantalupi contro la tra­ dizione secondo cui a Canne i Romani avevano otto legioni non sono convincenti. Né vi sono cogenti motivi per rifiutare la tradizione secondo cui due legioni romane furono distrutte presso Ordona sia nel 212 che nel 2 10 a. C. Ordona era uno degli stati secessionisti dell'Apulia nord-occi­ dentale. Essa occupava un'importante posizione strategica sulla strada tra Brindisi e Benevento, che seguiva la costa apula e che poi divenne la via Traiana. La città sorge su un colle isolato nell'ampia pianura; da essa si domina con lo sguardo la pianura e il margine nord-orientale dell'alti­ piano del Sannio. Se i Romani fossero riusciti a sottomettere di nuovo Ordona in questa fase della guerra, avrebbero tagliato le comunicazioni di Annibale con un altro Stato dissidente, Ece, e avrebbero reso difficili le sue comunicazioni con altri due, Arpi e gli Irpini. Quindi Ordona ave­ va molta importanza per entrambi i belligeranti; ma per i Romani un at­ tacco contro Ordona costituiva un'impresa rischiosa, oltre che allettante. Essa li costringeva ad esporsi in una vasta pianura dove Annibale pote­ va trarre pieno vantaggio dalla superiorità della sua cavalleria, superio­ rità qualitativa e numerica. Di fatto l'operazione violava apertamente le norme fabiane della strategia romana nella lotta contro Annibale. Ciò fu dimostrato due volte dai fatti. Ma, considerato il valore della posta in gioco, non è incredibile che i Romani abbiano rischiato due volte un paio di legioni e le abbiano puntualmente perdute. Né è dimostrato che qui Livio abbia duplicato un avvenimento per il fatto che i nomi dei due comandanti romani che subirono successivamen­ te un disastro a Ordona sono in parte identici. Entrambi si chiamavano Cn. Fulvio; ma i prenomi che i genitori romani potevano dare ai loro :figli offrivano una scelta molto ristretta, ed era anche ristretto il numero delle gentes nobili tra cui i votanti romani potevano eleggere i magistrati. Quindi non è affatto una coincidenza incredibile che due Gnei Fulvii ab­ biano subito un disastro militare a Ordona in due diverse occasioni. Si deve piuttosto osservare che la tradizione assegna ai due un cognome di­ verso e una sorte diversa. Il cognome dello sfortunato pretore del 2 I 2 21

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a. C. era Fiacco quello dello sfortunato proconsole del 2 I o a. C. era Centumalo ", e per un Romano il cognome era il segno di riconoscimen­ to meno ambiguo. Nel 2 IO a. C. il proconsole Centumalo fu ucciso nell'a­ zione in cui il suo esercito fu distrutto; nel 2r2 a. C. il pretore Fiacco so­ pravvisse, non per combattere un'altra volta, ma per essere processato nel 2 I I a. C. per aver perduto l'esercito l'anno precedente ". Cantalupi, non credendo che Fiacco avesse realmente perduto il suo esercito, sup­ pone che Livio possa avere torto anche su questo punto e che Fiacco pos­ sa essere stato processato per qualche altra imputazione 2• . Come si vede, la notizia di Livio sul processo di Fiacco per la perdita dell'esercito concorda con la sua notizia sulla sconfitta di Fiacco. Quindi sembra probabile che Klotz abbia ragione di accettare come corrette en­ trambe le informazioni di Livio. E in generale, oltre che rispetto a que­ sti punti particolari, la ricostruzione di Klotz, che è la piu conservatrice tra le quattro da noi prese in considerazione in questo capitolo, è nel complesso la piu convincente " Le differenze d'opinione tra gli studiosi moderni riguardo al numero delle legioni in servizio nella serie di anni 2 r 8-20 r a. C. non sarebbero sorte se in Livio le enumerazioni di gruppi di voci annuali e le cifre to­ tali da lui dichiarate fossero state complete e concordanti tra loro. Di fat­ to egli fornisce totali solo per nove anni sui diciotto, e le sue singole voci per gli anni fra il 2r8 e il 2 u a. C. compresi e per gli anni 205-204 a. C. sono cosi incomplete e ambigue che in ciascun caso devono essere com­ pletate tenendo conto delle notizie relative ad anni precedenti e succes­ sivi. In questo lavoro di ricostruzione c'è spazio per divergenze d'inter­ pretazione, che hanno dato origine ai diversi risultati ottenuti dagli stu­ diosi nei loro calcoli. De Sanctis calcola che, durante i diciotto anni 2 18-2or a. C., furono chiamate alle armi in tutto 46 legioni, senza contare né le due legioni de­ boli ( 4000 uomini ciascuna) di volones che furono in servizio dalla secon­ da metà del 2 r 7 al 2 r 2 a. C. né i volones che furono richiamati e incor­ porati in due legioni esistenti nel 207 a. C., nel momento critico prece­ dente l'ingresso di Asdrubale nell'Italia peninsulare ". De Sanctis esclu­ de giustamente dal suo calcolo anche tutte le unità costituite non da nuo­ vi richiamati ma da unità già esistenti che erano state sgominate da un'a­ zione nemica o sciolte dalle stesse autorità romane. Egli esclude altresi, inevitabilmente, i complementi (supplementa) di nuove reclute assegna­ ti a legioni esistenti per integrarne gli effettivi. Le notizie di Livio sui supplementa sono frammentarie, ma il loro reclutamento doveva a sua volta incidere in misura sensibile sulle riserve umane di Roma ,.. Se Klotz avesse calcolato in modo analogo, sulla base della sua ricostruzione, il to;

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tale delle nuove legioni chiamate alle armi in questi diciotto anni, egli lo avrebbe forse valutato a 5 1 , dato che considera presenti a Canne quattro legioni in piu rispetto a De Sanctis e tiene conto anche della legio classi­ ca, costituita dopo la battaglia di Canne, che De Sanctis sembra ignorare. Se, come pare probabile ' De Sanctis ha ragione d'ignorare la legio clas­ sica, e Klotz ha ragione di ritenere che le legioni di Canne fossero otto, il numero totale delle legioni chiamate alle armi nei diciotto anni sarebbe stato di 5 0 . Per i trentatre anni dal 200 al 1 68 a. C. compresi Afzelius presenta nella tabella 4 un prospetto delle legioni distribuite, come nel prospetto di De Sanctis della tabella 2, secondo le regioni in cui servivano e nume­ rate, come le serie di De Sanctis, nel probabile ordine cronologico di re­ clutamento. Secondo i calcoli di Afzelius, come si vede, nel corso di que­ sti trentatre anni il governo romano reclutò in tutto 8 7 nuove legioni '1 • Se facciamo la media del numero di legioni reclutate per anno rispettiva­ mente nel periodo 2 1 8-201 a. C. e nel periodo 2 00- 1 68 a. C., il confronto è istruttivo. Per il secondo di questi periodi, in base alla stima di Afzelius del numero totale, la media è di poco piu di 2 16 legioni l'anno. Per il pri" mo periodo, in base alla nostra stima del numero totale, la media ammon­ ta a poco meno di 2 18 legioni l'anno, mentre in base alla stima di De Sanc­ tis risulta un po' inferiore a 2 5 legioni l'anno. Quindi, anche se si ac­ cetta la piu alta delle stime sopra indicate per il numero totale delle legio­ ni reclutate nel periodo 2 1 8-20 1 a. C., l'ammontare medio dei recluta­ menti annuali in questo periodo è appena superiore a quello del periodo 2 00- 1 68 a. C., mentre secondo la stima piu bassa esso è di fatto inferio­ re. Queste cifre sono sorprendenti. Esse rivelano che in sostanza la con­ clusione della pace tra Roma e Cartagine nel 2 0 1 a. C. non portò alcuna riduzione del tributo umano imposto alla popolazione rurale romana, tri­ buto che era stato tanto pesante nei diciotto anni precedenti. Afzelius calcola " che la forza complessiva delle 87 t,çgioni reclutate negli anni 200- 1 6 8 a. C. ammontasse a 598 ooo fanti romani e 3 5 ooo cavalieri romani, cifre comprendenti sia i complementi che le unità origi­ narie ". Secondo la sua valutazione, la forza complessiva delle unità ori­ ginarie era di 442 ooo fanti e 26 r oo cavalieri, quella dei complementi di 1 44 ooo fanti e 9200 cavalieri. Per due delle 87 legioni reclutate in questo periodo (n. 76 e 77 di Afzelius, reclutate per servire in Macedonia nel 1 7 1 a. C.) 34 è attestato che contavano 6000 fanti e 300 cavalieri. Af­ zelius suppone che le altre 8 5 contassero tutte 5 200 fanti e 300 cavalieri. Questa è però una cifra estrema. Polibio afferma " che al suo tempo una legione normale contava 4200 fanti, aumentati a 5 000 solo in casi di emergenza. 0

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Nelle informazioni di Livio per il periodo 200- 1 6 8 a. C. ci sono sol­ tanto sei menzioni esplicite di legioni « forti», a parte le due super-legio­ ni del 1 7 1 a. C. Negli anni 1 8 2 e 1 8 1 a. C., in ciascuno dei quali a en­ trambi i consoli fu assegnata come provincia la frontiera nord-occidenta­ le, le quattro legioni loro assegnate contavano tutte 5 2 00 fanti romani e 300 cavalieri romani Negli anni 1 8 4 e 1 8 0 a. C. il Senato decise che le legioni delle due province spagnole, nel primo caso, e della Spagna Cite­ riore nel secondo caso, non potessero scendere al di sotto di una forza stabilita. Per il 1 8 0 a. C. la forza prescritta era di 5 200 fanti e 3 0 0 cava­ lieri ", cioè la stessa delle legioni reclutate per servire sulla frontiera nord-occidentale dell'Italia nei due anni immediatamente precedenti. Per il 1 8 4 a. C., invece, secondo il testo di Livio quale ci è pervenuto ,. le forze prescritte erano di 5000 (non 5 200) fanti e 300 cavalieri. O Livio o un copista può avere omesso per distrazione le parole « ducenos» o « et ducenos »; ma ciò sembra improbabile perché in questo passo la formula di Livio è « quina milia peditum » ( al genitivo) mentre negli altri tre passi, in cui oltre alle migliaia sono citate le centinaia, la formula è « quina milia et ducenos pedites» ", « quina milia ducenos Romanos pedites» '°, « de­ cem milia et quadringenti pedites » 41 ( quest'ultima cifra si riferisce a due legioni, non ad una sola) . Sembra quindi che in questo periodo la forza di una legione non fosse invariabile. Né Livio ci dice se nel 1 8 4 e 1 8 0 a. C. il Senato stabiH semplicemente che le legioni in questione doves­ sero essere mantenute al livello degli effettivi precedenti o se esso colse l'occasione, offerta dall'invio di complementi, per fissare un livello nuovo. Per l'anno 1 69 a. C. il Senato decretò che i contingenti romani nelle due legioni del fronte macedone mantenessero la forza originaria di 6000 fanti e 3 00 cavalieri, e che le legioni della Spagna e le due nuove legioni allora reclutate per servire sulla frontiera italiana nord-occiden­ tale fossero composte ciascuna di 5 2 0 0 fanti e 300 cavalieri •z_ Livio non ci dice se queste prescrizioni per i teatri d'operazione ligure e spagnolo dovessero restare valide in permanenza o se valessero per quell'anno sol­ tanto, come sarà stato per la prescrizione riguardante le legioni del fron­ te macedone. È attestato che i contingenti romani nelle legioni che combatterono a Canne contavano 5000 fanti e 300 cavalieri, e che questo fu un aumento senza precedenti rispetto alle cifre normali di 4000 fanti e 200 cavalie­ ri .,. Ma non è attestato che questo nuovo livello fosse sempre mantenu­ to in tutte le legioni reclutate in seguito. Sembra improbabile che ciò si sia verificato nella leva di emergenza dopo la perdita del grande esercito romano a Canne; ed è attestato che le due legioni di schiavi-volontari 36



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( volones), allora reclutate, contavano in tutto non piu di 8000 uomini ". Livio calcola a 1 8 ooo uomini la forza complessiva delle due legioni di­ strutte a Ordona nel 2 1 2 a. C. "; e questa cifra totale, comprendente sen­ za dubbio Romani e alleati, indica che Livio suppone che queste due le­ gioni non superassero gli effettivi normali. Le legioni reclutate nel 2 1 8 a. C., prima che per Roma cominciasse la serie dei clamorosi disastri militari, avevano tutte effettivi normali ". Le informazioni che ci sono pervenute non permettono di calcolare con altrettanta precisione la forza complessiva dei contingenti alleati re­ clutati nello stesso periodo, compresi i complementi Dalle cifre che abbiamo appare però evidente che il rapporto di cinque fanti alleati per quattro romani, e di tre cavalieri alleati per ogni cavaliere romano, che sembra fosse il rapporto normale ", in questo periodo fu largamente su­ perato. Non saremo forse molto lontani dal vero supponendo che il totale fosse di circa 8 2 5 ooo fanti e 47 ooo cavalieri alleati ". In tutto, quindi, nel corso di questi trentatre anni nell'Italia peninsulare furono reclutati circa 1 423 ooo fanti e 92 ooo cavalieri. Calcolando in termini di anni di servizio individuale (Dienstjahre), Afzelius valuta 50 che, durante i tren­ tatre anni 200- 1 6 8 a. C., i soli cittadini romani servirono per 1 566 400 anni-fanteria e 90 ooo anni-cavalleria, senza contare il gran numero di anni di servizio prestati dai cittadini degli Stati alleati. Afzelius rileva " che il numero dei richiami alle armi sarà stato molto superiore al numero degli individui che prestarono servizio. Nel corso degli anni di servizio attivo uno iunior poteva essere richiamato sedici volte - e venti volte in casi di emergenza - se apparteneva alla fanteria, dieci volte se apparteneva alla cavalleria e Livio cita " il caso di un ve­ terano, Sp. Ligustino, il quale nel 1 7 1 a. C. avrebbe dichiarato di avere già prestato ventidue anni di servizio, in cinque unità come coscritto e in due come volontario. L'aspetto insolito nel servizio di Ligustino era evidentemente la sua lunghezza complessiva, non il numero delle volte che era stato richiamato. Dei suoi cinque periodi di coscrizione soltanto due, secondo quanto gli fa dire Livio, erano durati solo un anno. Tutta­ via, tenuto conto di ciò, il numero di agricoltori italici, romani e allea­ ti, chiamati alle armi, il numero medio degli anni di servizio prestati in­ dividualmente, e il numero medio degli uomini annualmente in servizio nel periodo 200- 1 6 8 a. C., dànno cifre sorprendentemente elevate in rapporto a quelle pervenuteci per i censimenti romani relativi allo stesso periodo ". Kromayer calcola che in tutto questo periodo gli uomini an­ nualmente in servizio furono in media circa 1 00 ooo. Secondo Afzelius nel 1 90 a. C., che secondo i suoi calcoli fu l'anno culminante del periodo 200- 1 6 8 a. C., le truppe alleate da sole contavano I I O 900 uomini. In47

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sieme con 1 3 legioni « forti » di truppe romane, che avrebbero conta­ to 7 1 500 uomini, si ha un totale di 1 82 400 Italici sotto le armi nel 1 90 a. C. Dopo la distruzione del regno di Macedonia nel 1 68 a. C., con la bat­ taglia di Pidna, poteva sembrare che l'eredità di guerre supplementari la­ sciata a Roma dalla grande guerra romano-cartaginese fosse stata infine liquidata. In Spagna il cronico stato di guerra era cessato dopo il 1 7 9 a. C., grazie ai provvedimenti politici presi là quell'anno da Ti. Sempro­ nio Gracco. Il cronico stato di guerra sugli Appennini nord-occidentali e nella valle padana era anch'esso cessato dopo il conflitto di opinioni del 1 73- 1 7 2 a. C. tra il Senato e il console M. Popilio Lenate. Dopo l'an­ nientamento della Macedonia la Federazione romana restava nel bacino del Mediterraneo l'unico Stato del rango di grande potenza. Nel 1 68 a. C. dovette sembrare che la Pax Romana fosse ormai stabilita, e durevol­ mente, nell'estremità occidentale dell'ecumene del vecchio mondo. Questa prospettiva apparente era però illusoria. La guerra in Spagna scoppiò di nuovo nel 1 5 4 a. C. e nei successivi ventun anni essa costò a Roma piu che in qualsiasi altro periodo, da quando gli ultimi Cartaginesi avevano lasciato la Spagna, nel 207 a. C., e Cadice aveva capitolato nel 2 0 6. Anche dopo la caduta di Numanzia, nel 1 3 3 a. C., Roma dovette continuare a sostenere un fronte militare nella Spagna nord-occidentale, e soltanto dopo la fine della rivoluzione romana dei cent'anni, scoppiata lo stesso anno, questo residuo fronte spagnolo fu finalmente eliminato da Augusto. La recrudescenza della guerra in Spagna nel 1 54 a. C. fu segui­ ta dalla recrudescenza della guerra nella Grecia continentale europea e nell'Africa nord-occidentale nel 1 49 a. C. Su questi due fronti le nuove fasi di guerra furono, come prima, relativamente brevi. Su entrambi i combattimenti cessarono nel 146 a. C. Ma, come abbiamo già osserva­ to ", Roma poté trasformare la Macedonia e l'Africa cartaginese in pro­ vince romane solo alla condizione di assumersi la responsabilità di soste­ nere due fronti ulteriori. In breve, « il destino di Roma, dopo la guerra annibalica, era di montare la guardia a tutto il Mediterraneo » E questi non furono gli ultimi fronti supplementari che, a causa della politica del governo romano, i ceti rurali italici furono condannati a so­ stenere prima che le frontiere dell'Impero romano fossero consolidate, razionalizzate e stabilizzate da Augusto. Nel 1 3 3 a. C. il testamento di Attalo III di Pergamo s, apri per Roma un fronte asiatico; e ciò la trasci­ nò immediatamente nella guerra con Aristonico e nelle guerre, molto piu onerose e devastatrici, con la Cappadocia pontica durante il regno di Mi­ tridate VI Eupatore (durato dal 1 2 1 - 1 2 0 al 63 a. C.). Nel 1 25 a. C. il con­ sole graccano M. Fulvio Fiacco - in cerca, come il suo predecessore M. 51



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Popilio Lenate, di nuove terre nel Nord-Ovest barbarico da assegnare a coloni dell'Italia peninsulare - non si contentò di arrotondare con l'an­ nessione del Monferrato i possedimenti romani ad est delle Alpi Marit­ time. Con la conquista della nuova provincia della Gallia Narbonense egli apri un nuovo vasto fronte che nessuno dei suoi successori riusci a stabilizzare su una linea posta al di qua della riva sinistra del Reno. Cosf i postumi della duplice guerra romano-cartaginese provocarono a loro volta postumi che pesarono ulteriormente su Roma; e l'intervallo di pace che seguf la caduta di Numanzia fu anche piu breve di quello che se­ guf la distruzione del regno di Macedonia a Pidna. Tenney Frank calcola che, nel periodo 1 5 0-90 a. C., Roma ebbe ogni anno sotto le armi, in "' media, otto legioni . S'intende che l'onere imposto da una guerra non può essere misurato esclusivamente in riferimento al numero medio degli uomini in servizio. Un indizio piu rivelatore è il numero degli uomini tenuti in servizio con­ temporaneamente; e, nel periodo 2 00- 1 6 8 a. C., il massimo fu di 1 3 le­ gioni (nel solo anno 1 9 0 a. C.). Vi furono altri sette anni ( 1 9 1 , 1 8 9 , 1 8 8 , 1 7 6 , 1 7 1 , 1 70 e 1 6 8 a. C.) in ciascuno dei quali furono in servizio 1 2 legioni. In due anni ( 1 9 9 e 1 9 7 a. C.) furono in servizio solo sei legioni ••. Queste cifre sono in netto contrasto con le cifre corrispondenti per il pe­ riodo 2 1 8 -2 0 1 a. C., in cui il numero massimo di legioni sotto le armi contemporaneamente fu di 25 (nel 2 1 2 a. C.), mentre in due anni ( 2 1 1 e 2 0 7 a. C.) fu di 23 e in uno ( 2 1 3 a. C.) di 2 2 . Considerazioni psicologiche sono anche piu illuminanti di qualsiasi statistica. Nei 3 3 anni 200- 1 6 8 a. C., durante i quali furono reclutate forse 87 nuove legioni ", il Popolo romano non fu minacciato neppure una volta dalla prospettiva di vedere la Federazione distrutta, lo Stato soggiogato, i campi e le case devastati, mentre durante gli anni 2 1 7-207 a. C. queste prospettive non solo erano evidenti, ma sembravano prossi­ me ad avverarsi. Dal 2 1 7 al 2 0 3 a. C. compresi i Romani avevano dovuto combattere su terra italiana e per salvare la vita: una situazione in cui, a parte l'invasione gallica della penisola nel 2 2 5 a. C., non si erano piu tro­ vati dal 275 a. C. e cioè dalla fine dell'episodio pirrica della grande guer­ ra romano-sannitica. La forza e la persistenza dell'impressione prodotta negli animi roma­ ni dalla presenza di Annibale nella penisola durante i quindici anni 2 1 7203 a. C. sono rivelati dall'intensità della reazione emotiva che scuoteva i Romani, nel venticinquennio successivo, ogni volta che immaginavano che la penisola fosse minacciata da una nuova invasione. Quando Annibale, costretto all'esilio in seguito alle pressioni roma­ ne sul governo cartaginese, andò al servizio di Antioco III, i Romani fu-

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rono subito ossessionati dalla visione di Annibale che invadeva d i nuovo l'Italia sud-orientale, questa volta venendo dal mare, lungo la rotta che aveva seguito per andarsene nel 203 a. C. Abbiamo visto nel volume pre­ cedente le massicce precauzioni prese dal governo romano dal 1 94 a. C. in poi per prevenire questa minaccia immaginaria 63 • Queste misure pre­ ventive non furono attenuate fino a quando, nel 1 8 8 a. C., la flotta seleu­ cidica non si arrese alle autorità navali romane e fu distrutta 04 ; e i Ro­ mani non tirarono un sospiro di sollievo fino a quando, nel 1 8 3 a. C., non ebbero spinto Annibale al suicidio. Il pensiero che le ampie risorse del­ l'Impero seleucidico, in denaro, uomini e forze navali 65 , fossero messe a disposizione del genio militare di Annibale, indusse il governo romano a sopravvalutare ampiamente i pericoli che presentava, per la Federazio­ ne romana, la guerra col re Antioco III (combattuta dal 1 9 2 al 1 9 0 a. C.). In questa occasione la sua ansietà, benché ingiustificata, non era irra­ gionevole. Il governo romano si comportò meno razionalmente quando, all'inizio del 1 93 a. C., ricevette la notizia inattesa che le tribu liguri degli Appennini nord-occidentali avevano concordato una leva generale de­ gli uomini atti alle armi e compivano incursioni nel territorio di Piacen­ za, nell'interno, e nei territori di Luni e Pisa lungo la costa tirrenica. Non risulta che i 20 ooo combattenti liguri impegnati in questa seconda incur­ sione abbiano oltrepassato l'Arno, e le loro possibilità di riuscire a mar­ ciare su Roma erano minori di quelle dei montanari scozzesi di marciare su Londra nel 1 745 . Eppure uno dei consoli del 1 93 a. C. ordinò una leva speciale nello stile di quelle fatte dopo i disastri del Trasimeno e di Canne - due legiones urbanae di truppe romane e 10 5 00 alleati - e il Senato proclamò un «tumultus», termine tecnico romano per lo stato d'emergenza di fronte a un'invasione barbarica dell'Italia 06 • Nel 1 8 1 a. C. il Senato fu trascinato a prendere simili misure d'emer­ genza dalla notizia che in un angolo remoto della regione cisalpina un proconsole, L. Emilio Paolo, si era messo in difficoltà invadendo il terri­ torio degli Ingauni. I due consoli dell'anno furono autorizzati a recluta­ re subitarii milites durante la marcia da Roma al fronte ligure; furono raccolte due legiones subitariae; per questa occasione l'età massima fu elevata dal limite statutario di quarantasei anni a cinquant'anni; e in pari tempo fu chiamato alle armi un complemento di 1 5 ooo fanti alleati e 800 cavalieri alleati. Prendendo queste misure, il Senato operava sotto l'influenza del vero e proprio panico ( «magham trepidationem») che la notizia della situazione di Paolo aveva creato a Roma. Mentre questi provvedimenti erano ancora in corso di esecuzione, il Senato dovette an­ nullarli tutti avendo ricevuto l'ulteriore notizia che nel frattempo Paolo si era messo in salvo con i suoi mezzi. Egli aveva inflitto agli Ingauni una

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sconfitta schiacciante alla quale aveva fatto seguito la loro capitola­ zione Nel 178 a. C. fu proclamato un nuovo « tumultus», e fu ordinata una leva di emergenza delle stesse proporzioni, in segu ito a una notizia non ufficiale secondo cui uno dei due eserciti consolari dell'anno era stato di­ strutto in Istria ••. Ora l'altro console ricevette istruzione di marciare verso Aquileia e, strada facendo, di reclutare il maggior numero possi­ bile di soldati tra le comunità transappenniniche sottomesse a Roma. In pari tempo fu mandata a Pisa una legione, col suo complemento di trup­ pe alleate, nel timore che i montanari liguri fossero tentati di prendere qualche iniziativa. Arrivato ad Aquileia, il console apprese, e riferi a Ro­ ma, che l'esercito del suo collega esisteva ancora. A questa notizia lo sta­ to d'animo dei Romani passò d'un tratto dal panico all'esultanza, e le truppe appena reclutate furono congedate immediatamente ... L'aspetto significativo di questi incidenti è l'instabilità emotiva che essi rivelano. A Roma c'erano stati scoppi di emozione popolare dopo le gravi sconfitte dei primi anni della guerra annibalica, ed altri provocati dalla paura che potessero accadere altri disastri anche piu terribili Ma, durante tutta quella crisi suprema, la classe dirigente e il governo roma­ no avevano conservato il sangue freddo ed erano riusciti a risollevare il morale popolare. Nel 193, nel 181 e nel 1 78 a. C. sembra che, oltre al popolo, anche le autorità perdessero la testa. Nelle deboli ed effimere unioni di clan liguri ed istriani esse non videro ritorsioni pateticamente inefficaci all'aggressione romana - di altro non si trattava -, ma la fosca minaccia di una nuova invasione annibalica dell'Italia peninsulare attra­ verso gli Appennini. In realtà la penisola non sarebbe stata in pericolo neppure se la notizia della distruzione di un esercito consolare in Istria fosse stata vera. Nella guerra annibalica, Roma e la sua Federazione era­ no sopravvissute alla distruzione di un esercito consolare al lago Trasi­ meno e, l'anno dopo, di due doppi eserciti consolari a Canne. Tuttavia, pur avendo superato questi immensi disastri, i Romani non sapevano fronteggiare la prospettiva di subire di nuovo le stesse tribolazioni. Nel 1 78 a. C. Annibale era nella tomba; ma il suo spirito continuava a pesare sugli animi di una generazione di Romani che avevano vissuto la terribile esperienza della presenza di Annibale in Italia e non l'avevano mai di­ menticata. Ovviamente il regolo istriano che per un momento aveva oc­ cupato un accampamento romano non era un Annibale. Nel 1 78 a. C. gli Istri non sarebbero stati neppure capaci di conquistare la colonia latina da poco fondata ad Aquileia. Il peggio che Roma poteva aspettarsi da parte loro era che potessero continuare a dar fastidio praticando la pira­ teria lungo la costa adriatica dell'Italia 11. I Romani non avrebbero dato 67



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troppa importanza agli Istri se non fossero stati ossessionati dallo spet­ tro di Annibale. 3 . Le rispettive esigenze di ciascun fronte militare. Per valutare il peso del servizio militare sopportato dai contadini dell'Italia peninsulare durante gli anni 2 1 8-1 3 3 a. C. (gli anni di cui ci occupiamo in questo libro) è inoltre necessario esaminare come questo onere fosse frazionato a seconda dei vari teatri di guerra, e come di volta in volta le varie quote fossero successivamente ridistribuite. Nel periodo 2 1 8- 2 0 1 a. C. vi fu una concentrazione di forze romane nei tre teatri d'operazioni dell'Italia sud-orientale - Campania, Apulia e Bruzio - in contrasto con la relativa esiguità delle forze che nello stesso periodo stazionavano nell'Italia peninsulare nord-occidentale, a Rimini sul limitare della valle padana, in Sicilia, in Sardegna, in Spagna e nel­ l'effimera zona d'operazioni ad est del Canale d'Otranto. Inoltre gli effettivi di queste forze minori stanziate in zone seconda­ rie furono mantenuti a livelli abbastanza costanti. Persino lo scoppio del­ la guerra tra Roma e Siracusa e lo sbarco in Sicilia di un primo corpo di spedizione cartaginese, poi di un secondo, non indussero il governo ro­ mano ad aumentare le forze siciliane di piu che due legioni, cioè da due legioni a quattro, e questa forza fu mantenuta in Sicilia solo per i quat­ tro anni 2 1 3 -2 1 0 a. C. Negli altri quattordici anni i Romani tennero in Sicilia sempre due legioni. Anche in Spagna le legioni erano due, tranne nei cinque anni 2 1 0-206 a. C. ( cioè quelli successivi al disastro subito nel 2 1 1 dai due Scipioni) quando le forze in Spagna furono aumentate tem­ poraneamente a quattro legioni e furono mantenute a questo livello fin­ ché le ultime truppe cartaginesi non vennero ritirate dalla Spagna. In Sardegna furono tenute una legione in otto anni e due legioni in nove. Sui cinque anni in cui i Romani tennero truppe terrestri ad est del Canale d'Otranto, in quattro di essi ( 2 1 4-2 1 1 a. C.) la loro forza fu costituita da una sola legione, in uno ( 2 05 a. C.) da due legioni. Nella Gallia Cisalpi­ na, dopo che nel 2 1 8 a. C. vi erano state concentrate quattro legioni, la forza normale fu di due legioni, tranne che nei tre anni 205-203 a. C., quando fu temporaneamente aumentata a quattro. Nell'Italia sud-orientale, invece, dai giorni della marcia di Annibale dal lago Trasimeno all'Apulia nel 2 1 7 a. C. fino alla sua partenza dall'I­ talia nel 203 a. C., le legioni non furono mai meno di quattro - furono quattro negli anni 2 1 7 (dopo la battaglia del Trasimeno) e 203 a. C. - e la media annuale in questa regione durante queste diciassette stagioni

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operative I fu superiore a 7 ,5 legioni. Queste massicce forze romane nel­ l'Italia sud-orientale furono concentrate successivamente in questa o quella zona d'operazioni per fronteggiare la situazione militare del mo­ mento. Dopo la battaglia del lago Trasimeno esse furono concentrate in Campania. Dopo che Roma ebbe arrischiato e perduto otto legioni in Apulia a Canne, la concentrazione fu di nuovo in Campania, dove rimase fin dopo la capitolazione di Capua nel 2 1 1 a. C. Nella seconda metà del 2 1 6 , e poi ancora nel 2 1 5 , 2 1 2 e 2 1 1 a. C., in Campania vi furono sei le­ gioni. Tenuto conto dei complementi alleati, questo fu uno dei maggiori concentramenti di forze romane in tutta la storia di Roma. Dopo la capi­ tolazione di Capua le forze romane in Campania furono ridotte da sei le­ gioni ad una, e anche questa legione fu spostata nel 204 a. C., benché a quella data Annibale fosse ancora in terra italiana, nel Bruzio. Nel 2 1 0 a. C . il concentramento fu nuovamente spostato dalla Campania all'Apu­ lia, per contenere Annibale, e in Apulia nei due anni 2 0 8-207 a. C. le le­ gioni furono portate da quattro a sei, per sicurezza contro il rischio che Annibale potesse cercare di aprirsi un varco allo scopo di congiungersi con Asdrubale. Dopo la distruzione dell'esercito di Asdrubale nel 2 0 7 a. C., come risultato di un temporaneo concentramento romano sul fiu­ me Metauro nel Piceno, le truppe di stanza nell'Italia sud-orientale furo­ no spostate nel Bruzio e ivi mantenute, con la loro forza di quattro legio­ ni, nei quattro anni 206-203 a. C., fino alla partenza di Annibale. La tabella 4, che mostra il numero e la distribuzione delle legioni sot­ to le armi nel periodo 200- 1 6 8 a. C., mette in luce diversi aspetti signifi­ cativi di questa serie di anni. A"))al 1 9 8 al 1 7 2 a. C. compresi le forze romane furono concentrate in netta prevalenza sugli Appennini nord-occidentali e nella valle padana. Su questi ventisette anni ve ne furono solo due, il 1 8 9 e il 1 7 7 a. C., in cui il numero delle legioni in questa zona operativa fu di appena due. In entrambi questi anni i Romani dovettero fronteggiare impegni insolita­ mente onerosi in altre zone. Nei tre anni 1 9 0- 1 8 8 a. C. Roma dovette te­ nere quattro legioni nel Levante per sostenere contemporaneamente of­ fensive contro l'Etolia e contro la monarchia seleucidica. Nel 1 7 7 a. C. essa dovette mandare due legioni in Sardegna 2 • Afzelius osserva ' che in tutti i trentatre anni 200- 1 6 8 a. C., tranne il 1 8 9 , uno dei due consoli fu sempre assegnato alla zona padana, e di solito vi erano assegnati entram­ bi. Su questi trentatre anni ve ne furono solo dieci in cui in quella zona non si trovavano in permanenza due consoli o proconsoli '. Sui 68 consoli che furono in carica nei trentaquattro anni 200- 1 67 a. C., solo 1 3 furono assegnati a teatri d'operazioni d'oltremare 5 • Nel 1 9 2 , 1 8 2 e 1 7 6 a. C. nel­ la zona cisalpina c'erano non meno di tre eserciti consolari •; e nel 1 9 0-

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1 89 , e di nuovo nel 1 78 - 1 7 7 a. C., era stanziato in Etruria un esercito pretoriano, forte di due legioni, destinato (possiamo congetturare) a ser­ vire di riserva all'esercito della Liguria piu che a fronteggiare eventuali disordini nell'Etruria stessa. Se quindi è legittimo calcolare che le forze stanziate per due volte in Etruria nel corso di questo periodo facessero virtualmente parte delle forze dislocate sulla frontiera nord-occidentale, risulta che nei 29 anni 200- 1 72 a. C. in questa zona operativa si trovava­ no in media un po' piu di quattro legioni. Questi fatti e cifre confermano l'affermazione di Afzelius 7 che in questo periodo la conquista della valle padana - che richiedeva anche la conquista degli Appennini nord-occidentali - fu il principale obiettivo militare di Roma. Di queste due regioni, naturalmente, l'obiettivo di gran lunga piu prezioso era la valle padana. L'area delle terre già coltiva­ te e di quelle ancora paludose e boscose che potevano essere destinate alla coltivazione era molto piu vasta nelle pianure che sulle montagne, e i margini nord-occidentali della Gallia Cisalpina contenevano anche mi­ nerali. L'obiettivo piu prezioso fu raggiunto anche piu facilmente. Ro­ ma soggiogò definitivamente gli Insubri nel 1 94 e i piu combattivi Boi nel 1 9 1 a. C. Ma dovette arrivare fino al 175 a. C. per ottenere risultati altrettanto decisivi nella Liguria Cisalpina. Ciò non accadde soltanto perché le pianure presentavano ostacoli naturali meno difficili delle montagne: le une e le altre erano coperte di foreste, e le pianure, se non avevano le rocce e i dirupi, avevano però le paludi. C'era anche la diffe­ renza di carattere delle due popolazioni: i Liguri erano superiori ai Gal­ li per capacità di resistenza '. Mentre attuava la conquista premeditata della Gallia Cisalpina e della Liguria, in Spagna, nello stesso periodo, Roma conduceva operazioni militari per lo piu difensive. Qui il suo obiettivo era non di completare la conquista della penisola iberica, ma di mantenere il possesso di quei territori di cui si era impadronita in seguito al vittorioso conflitto com­ battuto per dodici anni ( 2 1 8-207 a. C.) con i Cartaginesi nel teatro d'ope­ razioni spagnolo della seconda fase della duplice guerra romano-cartagi­ nese •. Roma si contentava di conservare in Spagna la situazione che Ti. Sempronio Gracco sembrava avere fissato stabilmente nel 1 7 8 a. C. Senza dubbio la violenza e la persistenza della guerra in Spagna, scop­ piata di nuovo nel 1 54 a. C. 11 , erano dovute in parte a flagranti abusi di governatori romani che non seguirono il buon esempio di Gracco nel loro comportamento verso i nativi Ma qui la recrudescenza della lotta era forse dovuta soprattutto alla difficoltà intrinseca di mantenere stabilmen­ te la pace lungo una frontiera tra barbari e una potenza relativamente ci­ vile. È vero che la situazione della Spagna dopo il 1 79 a. C. era la stessa 10

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della Gallia Cisalpina e della Liguria dopo il 175 a. C.; e nella regione ci­ salpina le successive riprese di ostilità furono rare e mai serie ". Qui, tut­ tavia, nel 175 a. C. la frontiera romana era stata portata a breve distanza dal piede delle Alpi, e le comunità subalpine adiacenti alla frontiera era­ no piccole popolazioni che, come gli Stazielli, non avevano alcuna inten­ zione di provocare Roma prendendo l'offensiva contro di essa. Tra i vi­ cini immediati dei possedimenti romani in Spagna c'erano invece due confederazioni bellicose e potenti, i Celtiberi e i Lusitani, che non ave­ vano paura di misurarsi con Roma ed erano tentate di farle la guerra dal­ la speranza di fare bottino e forse anche dal timore di finire col soccom­ bere a Roma se non avessero preso l'iniziativa e sferrato il primo colpo. In ogni caso le operazioni militari in Spagna, a differenza della guerra nella regione cisalpina, si rivelarono interminabili, e per questo, a lun­ go andare, nello sradicamento dei contadini romani coscritti ebbero ef­ fetti complessivi piu gravi di quelli provocati dalle operazioni condotte su qualsiasi altro fronte postannibalico ••. Rispetto ai massimi concentra­ menti di truppe romane in Campania, in Apulia e nella regione cisalpi­ na, il concentramento in Spagna non fu mai grande. Negli anni dal 2 1 8 al 1 3 3 a. C. non superò mai le quattro legioni, e nei diciotto anni 2 1 8- 2 0 1 a. C. raggiunse le quattro legioni solo nel quinquennio 2 1 0-206 a. C. 15 Dal 2 1 8 al 2 1 1 a. C. le forze romane in Spagna contavano due legioni, e ancora due dal 205 al 1 8 8 a. C. Ma all'inizio del 200 a. C. risultò impos­ sibile ridurle alla sola legione che, secondo le intenzioni del Senato, a partire da quell'anno avrebbe dovuto costituire la guarnigione romana in Spagna "; e nel 1 87 a. C., o verso questa data ", la guarnigione fu ri­ portata a quattro legioni per rimanere a questo livello durante il resto del periodo 2 1 8- 1 6 8 a. C. A differenza degli impegni militari su tutti gli altri fronti, l'impegno di Roma sul fronte spagnolo si rivelò non solo in­ terminabile ma anche irriducibile. «Di fronte alle difficoltà della guerra spagnola, l'esercito cittadino, con cui Roma aveva unificato l'Italia e aveva sconfitto Annibale, cominciò a diventare un'istituzione che non avrebbe piu funzionato» 18 • La preoccupazione minore di Roma, durante questo periodo, era co­ stituita dai suoi scontri con le potenze del Levante. Quando, dopo la di­ sfatta romana di Canne, il re Filippo V di Macedonia concluse un'allean­ za militare con Annibale ed entrò in guerra con Roma, egli si dimostrò incapace d'intervenire nel conflitto contro Roma in Italia, mentre Roma, da parte sua, nel 2 1 4 a. C. poté assumere l'offensiva contro di lui e con­ tro i suoi alleati ad est del Canale d'Otranto; ciò, sebbene in quel periodo la guerra ad ovest del Canale si avvicinasse al massimo della sua intensi­ tà, e Roma potesse destinare quindi al compito di tenere a bada la Mace-

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donia solo forze irrisoriamente inadeguate a sfidare una grande potenza. La prima guerra romano-macedone e l'unica guerra romano-seleucidica furono i due soli conflitti tra Roma e potenze del Levante in cui l'inizia­ tiva non fosse stata presa da Roma. Solo quando si svolse l'ultimo atto del dramma levantino, in un momento in cui Roma era diventata mani­ festamente invincibile, i Macedoni fecero la loro disperata insurrezione nel 1 49 a. C., e gli Achei la loro nel 146 a. C., dopo aver visto stroncata quella macedone. La seconda e la terza guerra con la Macedonia furono decise da Roma, che scelse anche le date che le convenivano. Essa regolò i conti con Filippo V subito dopo avere costretto Cartagine a chiedere la pace, e per muovere guerra a Perseo aspettò di avere le mani libere in Spagna e nella regione cisalpina. Il 1 9 2 a. C., l'anno in cui Roma tenne tre eserciti consolari nella zona di guerra cisalpina, non era il momento che essa avrebbe scelto per rego­ lare i conti con Antioco III. Tuttavia, col suo precedente intervento di­ plomatico inteso a impedirgli di raggiungere i suoi obiettivi in Tracia e lungo le coste anatoliche della Propontide e dell'Egeo, essa stessa aveva provocato l'alleanza antiromana di Antioco con gli Etoli e il suo ingres­ so nella Grecia continentale europea. Antioco non prese le armi contro Roma finché non fu convinto che non poteva raggiungere i suoi obiettivi senza trovarsi in guerra con essa. Abbiamo già osservato che Roma, prima di fare la guerra a Filippo V nel 200 a. C., ne aveva valutato esattamente la consistenza delle forze mi­ litari 1'. Essa sopravvalutò le forze di Antioco III 20 e sottovalutò quelle di Perseo. Rispetto ai continui prelievi di uomini imposti all'Italia pe­ ninsulare per le guerre cisalpine e spagnole, il costo occasionale di un conflitto con una grande potenza del Levante era relativamente basso. In tutto il periodo 2 1 8- 1 3 3 a. C. vi furono solo quattro anni - 1 90, 1 89 , 1 8 8 e 1 6 8 a. C. - in cui ad est del Canale d'Otranto furono in servizio quattro legioni. Per undici anni - 2 0 5 , 200- 1 9 5 , 1 9 1 , 1 7 1 - 1 69 a. C. - in quel teatro d'operazioni si trovarono due legioni, e per quattro anni 2 1 4-2 1 1 a. C. - ve ne fu una sola. D'altra parte vi furono trentadue anni in cui là non si trovavano forze terrestri romane. Tuttavia queste cifre non dànno l'esatta misura delle forze mobilitate da Roma per le guerre nel Levante in questo periodo. Durante i cinque anni 1 9 2-1 8 8 a. C. cioè prima, durante e anche dopo la guerra romano-seleucidica - il gover­ no romano tenne di riserva due legioni dalla sua parte del Canale, nel Bruzio e in Apulia. Nel 1 9 1 a. C. esso tenne a Roma stessa due legiones urbanae, mentre nel 1 89 a. C. tenne una legione in Sicilia. Analogamen­ te, durante la terza guerra romano-macedone, il governo romano tenne a Roma non meno di quattro legioni nel 1 7 1 a. C. 21 , probabilmente le 4

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stesse quattro nel 1 70 , e due nel 1 69 e nel 1 6 8 a. C. In entrambe queste occasioni Roma poté vincere la guerra senza che dovesse far en­ trare in azione neppure la metà delle riserve; e, cominciando la seconda guerra romano-macedone, essa ritenne - giustamente, come si vide che le riserve non fossero necessarie e che le due legioni in campo fos­ sero capaci di vincere la guerra senza rinforzi. Tuttavia i soldati mobili­ tati nelle unità di riserva, pur non correndo il pericolo di essere feriti o uccisi, soffrivano gli stessi danni economici dei commilitoni al fronte. An­ ch'essi erano tenuti lontani dal lavoro agricolo nei loro poderi, lavoro che era indispensabile se i poderi dovevano restare in attività. La mobilitazione di proletarii per il servizio navale non produceva conseguenze economiche cosi gravi. Tuttavia occorre tener presente che in' tutte le tre guerre del Levante Roma mobilitò forze navali oltre a quelle terrestri. Nella guerra romano-seleucidica la mobilitazione navale romana fu massiccia (benché non paragonabile all'enorme mobilitazione navale della prima fase della grande guerra romano-cartaginese) 24, e le operazioni navali furono importanti come quelle terrestri. Anche gli equipaggi delle navi, come i soldati delle forze terrestri, nella maggior parte saranno stati sottratti al lavoro produttivo, anche se il lavoro da essi perduto sarà stato per lo piu industriale, non agricolo. In piu, oltre al peso economico, le guerre del Levante imposero al go­ verno e al Popolo romano un peso psicologico. Nel 200 a. C. il governo incontrò difficoltà nel persuadere i comitia a votare per una nuova guer­ ra, appena un anno dopo la fine di una guerra durata diciott'anni e cosi devastatrice zs. In questa occasione il governo agi con un 'insistenza che dà la misura della sua ansietà, diventata peraltro molto piu acuta quando, dopo la sconfitta di Filippo, si affacciò la prospettiva di una guerra con Antioco. Quanto alla riluttanza del Popolo romano di fronte alla coscri­ zione per il servizio nel Levante, essa è indicata dalla chiamata di volon­ tari nel 200 a. C. ", e ancora nel 1 9 077 e nel 1 7 1 a. C. 21 , e dalla resistenza alla coscrizione nel 1 7 1 29 e nel 1 69 a. C. 30 • Come si vede, le guerre di Roma con le potenze del Levante, che sotto l'aspetto militare furono un gioco da ragazzi, portarono però un sensibile contributo ai disgraziati effetti economici dei postumi militari lasciati dalla guerra annibalica. 4 . Le perdite umane '

Il numero dei contadini-soldati dell'Italia peninsulare che persero la vita in battaglia o per i disagi o per malattia durante gli ottantasei anni

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2 1 8-133 a. C. ammontò forse a una percentuale non molto elevata del rotale degli uomini mobilitati in questo periodo. Ma questo totale era cosi elevato che il tributo pagato in vite umane dovette essere pesante, se considerato in rapporto al totale probabile degli iuniores e al totale probabile della popolazione non servile. Considerando le notizie sulle perdite umane nelle nostre fonti dob­ biamo tenere presente una considerazione generale, avanzata da Cantalu­ pi ', che ci consiglia di prendere con qualche riserva queste cifre. Canta­ lupi osserva che le cifre sono soggette a due possibilità di errore. In pri­ mo luogo è probabile che esse siano state ottenute non contando diretta­ mente gli uccisi e i feriti, ciò che sarebbe stato impossibile per un esercito che era stato sconfitto e spazzato via dal campo, ma, indirettamente, sot­ traendo il numero attestato dei sopravvissuti dagli effettivi che si rite­ neva avessero costituito, prima della battaglia, le forze sconfitte. La se­ conda osservazione di Cantalupi è che in molti casi anche quest'ultima cifra dev'essere stata ottenuta indirettamente. Egli ritiene, per esempio 3, che la fonte di Polibio, Fabio Pittore, indicasse non il numero degli effet­ tivi degli eserciti romani, ma solo il numero delle legioni; Polibio avreb­ be convertito quest'ultimo nel numero di effettivi che indica, sulla base della sua nozione della forza normale di una legione o della sua forza ec­ cezionale in qualche occasione particolare. Tuttavia, anche se dobbiamo prendere con queste serie riserve le ci­ fre delle perdite a noi tramandate, esse ci dànno ancora almeno un'idea del loro ordine di grandezza. Se per esempio De Sanctis ha ragione nel ritenere 4 che i due eserciti consolari scesi in campo all'inizio del 2 1 7 a. C. fossero gli stessi che erano stati sconfitti alla Trebbia l'inverno precedente, ciò indica che le perdite romane alla Trebbia non possono essere state tanto gravi da im­ pedire che si potesse reintegrare qualcuna di quelle quattro legioni. Que­ sta conclusione è confermata dalle notizie di Polibio e Livio ' sugli avve­ nimenti che seguirono. Esse attestano che, sebbene l'esercito romano fos­ se stato sbaragliato, un corpo forte di diecimila uomini - cioè una legione col suo complemento di truppe alleate - raggiunse in formazione Piacen­ za; esse dànno inoltre l'impressione che anche gli altri si fossero messi in salvo in grande maggioranza, sia pure in disordine. D'altra parte, di que­ ste quattro legioni successivamente reintegrate, le due che furono scon­ fitte al lago Trasimeno nella primavera del 2 1 7 a. C. sembra che in que­ sta occasione siano state distrutte senza rimedio. Di queste due legioni non si parla piu, e non c'è notizia che resti di es se siano stati riuniti in nuove unità, come fu fatto l'anno seguente con i resti delle legioni distrutte a Canne. Livio afferma ' che IO ooo soldati

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di Flaminio fuggirono dal campo di battaglia del Trasimeno e presero in disordine la strada di Roma. Questa informazione deriva a quanto pare da Fabio Pittore, che Livio cita espressamente come sua fonte per i fatti e le cifre relativi alle perdite del Trasimeno. Presumibilmente anche Po­ libio 7 qui usa come fonte Fabio, dato che di solito attinge a lui fatti e ci­ fre relativi alle operazioni militari romane. In ogni caso Polibio e Livio concordano nell'affermare che al lago Trasimeno furono uccisi almeno 1 5 ooo soldati romani ' e che un corpo di 6000 uomini che aveva cercato di aprirsi una via di scampo si arrese piu tardi. Polibio afferma che il nu­ mero totale dei prigionieri romani e alleati fu di oltre 1 5 ooo. Possiamo forse congetturare che anche i IO ooo scampati di Livio fossero in real­ tà caduti prigionieri, e che la cifra di Livio per questa voce rappresenti la differenza tra il totale di Polibio, oltre 15 ooo prigionieri, che presumi­ bilmente Polibio deriva da Fabio, e la cifra di 6000 riferita sia da Polibio che da Livio - di nuovo, presumibilmente, sulla scorta di Fabio - per il corpo romano che si arrese in blocco. Anche in questo caso il totale di Li­ vio per l'esercito di Flaminio prima della battaglia ammonterebbe a 3 1 ooo uomini e quello di Polibio a oltre 30 ooo : quindi l'esercito di Flaminio avrebbe contato tre legioni « forti » con i complementi di trup­ pe alleate, oppure quattro legioni se si accettano i I O ooo scampati di Li­ vio come una voce separata autentica. Tuttavia nulla dimostra che al lago Trasimeno Flaminio avesse con sé forze superiori a un normale esercito consolare di due legioni o che lui e il suo collega Servilio avessero tra tut­ ti e due altre truppe oltre alle quattro legioni che erano state salvate alla Trebbia. Dobbiamo quindi concludere che al lago Trasimeno i Romani persero non piu di due legioni, ma che qui, a differenza di ciò che era ac­ caduto alla Trebbia e che sarebbe accaduto di nuovo a Canne, la mag­ gior parte dei soldati romani furono uccisi o presi prigionieri. Questa differenza, nella percentuale delle perdite, tra la sconfitta romana al Tra­ simeno e le sconfitte precedente e seguente, non ci sorprende se conside­ riamo che al Trasimeno Annibale aveva trovato nella conformazione del terreno una trappola su misura per sorprendere un esercito romano e far trionfare le proprie magistrali manovre tattiche '. Dopo la disfatta romana di Canne 10 si radunarono infine tanti soprav­ vissuti romani e alleati da poter costituire due legioni di nuova formazio­ ne - le disgraziate legiones Cannenses - con gli uomini che Marcello ri­ portò sulla linea del basso Volturno, nonché un exercitus Terentianus che restò in Apulia sotto il comando di C. Terenzio Varrone fino all'ini­ zio del 2 1 5 a. C . , quando fu trasferito nel distretto Taranto-Brindisi e organizzato in una legione regolare Il numero dei sopravvissuti sarà 11



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quindi stato di circa 30 ooo, corrispondente agli effettivi di tre legioni «forti» con i loro complementi di truppe alleate. In realtà, secondo le cifre di Livio, essi furono 3 2 500, in base al pre­ supposto che a Canne si trovassero otto legioni «forti», come affermava un gruppo delle sue fonti. Secondo queste fonti ognuna di quelle otto le­ gioni, inclusi i complementi di truppe alleate, contava IO ooo fanti e 900 cavalieri, cosf che la forza totale dell'esercito era di 8 7 ooo uomini Se­ condo Livio, di essi 48 200 furono uccisi a Canne 4500 furono fatti prigionieri sul campo di battaglia e altri 2000 furono successivamente accerchiati dalla cavalleria cartaginese u. Restano quindi 3 2 500 uomini vivi e in libertà, dato che i 1 2 800 che si erano rifugiati nei due campi ro­ mani e poi si erano arresi erano stati rimessi in libertà dopo avere con­ segnato i cavalli, le armi e gli altri beni 11 • Polibio, come Livio, afferma 11 che prima della battaglia l'esercito romano era composto di otto legioni, ciascuna delle quali contava I O ooo fanti e, secondo Polibio, 1 2 00 ca­ valieri. Non del tutto in armonia con queste cifre, Polibio fissa a poco piu di 8 6 ooo uomini la forza totale dell'esercito Nelle sue notizie sulle perdite romane, Polibio dice che furono uccisi 70 ooo fanti e 5630 ca­ valieri romani, che furono presi prigionieri I O ooo fanti e che fuggirono 3 000 fanti e 3 70 cavalieri. La somma di queste cifre è 89 ooo; e, per quanto superiore di tremila alla cifra indicata da Polibio per il totale del­ le forze romane prima della battaglia, essa è inferiore di seicento al totale che si ricaverebbe dalle cifre da lui indicate per ciascuna delle sei legioni. Tuttavia la cifra di 3 3 70 per i sopravvissuti è del tutto incompatibile col fatto incontrovertibile che i sopravvissuti furono abbastanza numerosi da poter formare tre legioni: le due legiones Cannenses e l'exercitus Te­ rentianus. Possiamo concludere che prima della battaglia l'esercito con­ tava bensf 80 ooo fanti e 6400 o 7200 o 9600 cavalieri, ma la cifra vera delle perdite, tra uccisi e prigionieri non riscattati, non è data dagli 8 5 6 3 0 di Polibio, ma dai 54 700 di Livio Oltre alle tre principali disfatte dei primi tre anni della guerra anniba­ lica, nel seguito della guerra vi furono altre cinque gravi sconfitte, in cia­ scuna delle quali andarono perse un paio di legioni. Esse furono: la di­ struzione delle due legioni di L. Postumio nella Silva Litana, nel territo­ rio dei Boi, a cavallo tra il 2 1 6 e il 2 1 5 a. C. la dispersione delle due le­ gioni di volones di Ti. Sempronio Gracco in Lucania o nell'Ager Bene­ ventanus nel 2 1 2 a. C. la distruzione delle due legioni di Cn. Fulvio Placco presso Ordona nello stesso anno "; la distruzione degli eserciti dei due Scipioni in Spagna nel 2 1 1 a. C. e la distruzione delle legioni di Cn. Fulvio Centumalo presso Ordona nel 2 I O a. C. Benché in tutti questi 12

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casi le legioni coinvolte fossero ridotte troppo male perché si potesse reintegrarle, la sconfitta della Silva Litana è l'unica in cui sembra che le perdite umane fossero quasi totali, come era accaduto al Trasimeno. I volones non morirono combattendo, ma si dispersero n; questi dis�rtori furono accerchiati e riportati sotto le insegne ,. , ma sembra che poi le loro unità fossero sciolte. In ogni caso, di questo gruppo di volones non si parla piu; quelli che cinque anni dopo, nel 207 a. C., furono inquadra­ ti nelle due nuove legioni arruolate alla vigilia dell'invasione della peni­ sola da parte di Asdrubale ", sembra che fossero nuove reclute. Per Or­ dona, si riferiva che nella disfatta del 2 r 2 a. C. i sopravvissuti erano stati non piu di 2000 su r 8 ooo "'; in quella del 2 r o a. C. sarebbero sta­ ti r 3 ooo o 7000 31 • Almeno per il 2 r o, evidentemente, le cifre esatte non erano note. Sappiamo però che tanto delle due legioni di Fiacco quanto di quelle di Centumalo restarono abbastanza sopravvissuti da for­ nire complementi per le legiones Cannenses in Sicilia 32 • I superstiti delle due legioni distrutte in Spagna nel 2 r r a. C. furono abbastanza numero­ si, e non troppo disorganizzati o demoralizzati, tanto da poter resistere fino all'anno seguente, quando arrivarono in Spagna due unità di rinfor­ zo, costituite da 22 ooo fanti e 2 r oo cavalieri in tutto, che furono distac­ cati dall'esercito della Campania dopo la caduta di Capua 33 • Questi rin­ forzi, insieme con i superstiti, furono organizzati in quattro legioni e, dato che per costituirne due si sarà dovuta impiegare la maggior parte dei rinforzi di fanteria, i superstiti delle due legioni scipioniche non do­ vevano essere di molto inferiori agli effettivi di due legioni. Ciò significa che le perdite subite l'anno precedente da queste due legioni non pote­ rono essere cosf gravi come si potrebbe dedurre dal fatto che entrambi i due ufficiali comandanti persero la vita e che la loro sconfitta e la loro morte furono seguite da grandi perdite di territorio. In questa guerra i Romani subirono anche altri rovesci che sarebbe­ ro stati considerati disastrosi se non fossero stati eclissati da catastrofi di maggiori proporzioni. Per esempio nei primi giorni della guerra, nella primavera del 2 r 8 a. C., un esercito pretoriano forte di due legioni cadde in un'imboscata dei Boi 35 • Evidentemente il morale delle truppe fu mol­ to scosso; tuttavia le perdite riportate dai Romani in questa occasione non furono gravi se confrontate a quelle subite nel 2 r 6-2 r 5 a. C., nello stesso territorio dei Bai, da un altro esercito romano all'incirca altrettan­ to numeroso Secondo quanto ci è riferito, nella sconfitta del 2 r 8 a. C. perdettero la vita non piu di r200 Romani 31 • Nel 2 r 7 a. C. una forza di 4000 uomini, che era stata distaccata dal console Cn. Servilio per rin­ forzare l'esercito del collega Flaminio, fu intercettata da Annibale dopo che egli aveva distrutto l'esercito di Flaminio al Trasimeno. Questi 4000 34

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uomini furono per metà uccisi e per metà fatti prigionieri ". Nel 2 1 3 a. C . u n ex appaltatore, T . Pomponio Veientano, aveva reclutato tra i Bruzi filoromani - a quanto pare non per iniziativa del governo romano e sen­ za la sua approvazione - un corpo irregolare di partigiani. Il comandante cartaginese locale, Annone, distrusse questo reparto. I partigiani di Veientano che non furono uccisi vennero fatti prigionieri; tra questi c'era lo stesso Veientano Nel 2 1 2 a. C. un simile capo di guerriglieri, M. Centenio Penula, portò alla rovina in Lucania un corpo di 8 000 rego­ lari, metà romani e metà alleati, affidatigli dal Senato, insieme con volon­ tari da lui raccolti. Il corpo di Centenio fu fatto a pezzi da Annibale; lo stesso Centenio fu ucciso, e vi furono appena 1 000 superstiti ... Un comandante romano di stampo ben diverso, Marcello, per due volte si gettò in azioni sconsiderate per un'eccessiva sicurezza in se stesso che fu la nemesi dei vistosi successi militari da lui piu volte riportati. Nel 209 a. C., nell'Apulia nord-occidentale, che nel 2 1 2 e di nuovo nel 2 1 0 a. C. era stata la tomba di un esercito romano, Marcello impose ad Anni­ bale una battaglia di due giorni da cui il suo esercito usd con la perdita di oltre :5 700 morti e numerosi feriti ". In quest'occasione Marcello ebbe fortuna. Si era sottratto alla perdita completa di un esercito romano, sor­ te che era toccata, nella stessa pericolosa regione, ai suoi predecessori Placco e Centumalo. Tuttavia egli non imparò la lezione fabiana di que­ sta battaglia e l'anno seguente pagò con la vita la sua ostinazione. Come console del 2 0 8 a. C. Marcello aveva un collega, T. Quinzio Crispino, che sembra fosse sicuro di sé e ambizioso di successi militari non meno dello stesso Marcello. Dopo avere posto l'assedio a Locri ed essere stato co­ stretto, dall'arrivo di Annibale a capo Lacinio, a togliere l'assedio e ad evacuare il Bruzio, Crispino si unf a Marcello in Apulia dove Annibale lo seguL Allora i due consoli cercarono di riprendere l'assedio di Locri or­ dinando a un distaccamento della guarnigione romana di Sicilia e a un altro della guarnigione di Taranto di marciare su Locri con movimento convergente, mentre essi avrebbero tenuto impegnato Annibale. Que­ st'ordine portò alla distruzione del distaccamento romano proveniente da Taranto in un'imboscata tesagli da Annibale sotto il colle di Petelia. Duemila uomini furono uccisi e circa 1 5 00 presi prigionieri; i superstiti tornarono a Taranto in disordine. Annibale completò poi questo succes­ so nel Bruzio sorprendendo i due consoli in un'imboscata mentre, per iniziativa di Marcello, essi compivano insieme un'imprudente ricognizio­ ne senza scorta adeguata. In questa occasione entrambi i consoli furono feriti: Marcello mortalmente. Roma perdette cosf uno dei comandanti piu abili e piu audaci che fìn allora la guerra aveva messo in luce; ma, per sua fortuna, in questa circostanza le perdite numeriche furono piccole. 39



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Nella scorta furono uccisi due ufficiali superiori, quarantatre altri ufficiali e soldati (su duecentoventi) e alcuni dei ventiquattro littori consolari; furono catturati un ufficiale superiore, diciotto altri ufficiali e soldati, e cinque littori 42 • Le ultime azioni della guerra annibalica che costarono gravi perdite ai Romani ebbero per teatro la Gallia Cisalpina dove Roma, dopo la distru­ zione dell'esercito di Asdrubale al Metauro, aveva ripreso l'offensiva sen­ za aspettare che Annibale avesse evacuato il Bruzio. Nel 203 a. C. un esercito romano, forte di quattro legioni, che si era avventurato fino al territorio degli Insubri, fu ridotto a mal partito in una battaglia campa­ le con Magone. In questo scontro i Romani persero piu di 2300 uomini, fra cui tre ufficiali superiori, alcuni centurioni e alcuni valenti cavalieri. In campo cartaginese, per fortuna di Roma, lo stesso Magone riportò fe­ rite delle quali mori durante il viaggio verso Cartagine, dove era stato richiamato dal governo, come il fratello Annibale, per rinforzare l'eser­ cito cartaginese dell'Africa 0 • Nel 201 a. C., ultimo anno della guerra an­ nibalica, un esercito reclutato d'emergenza, composto da due legioni rin­ forzate da quattro coorti di regolari alleati, fu sbaragliato dai Boi sulle pendici nord-orientali degli Appennini nord-occidentali 44 ed ebbe 7000 morti compreso il comandante I rovesci romani, grandi e piccoli, che ora abbiamo elencato dànno qualche idea dell'ordine di grandezza delle perdite romane nella guerra annibalica, ma, ovviamente, con essi l'argomento non è affatto esaurito. Ci sarà stato anche un tributo costante di vite umane in altri scontri, me­ no impressionanti ma piu numerosi; e inoltre ci saranno state le perdite dovute a disagi, malattie e ferite. Alla battaglia della Trebbia, che fu com­ battuta d'inverno in una regione dove il clima invernale è duro, molti morirono di disagi da entrambe le parti, e la mortalità fu particolarmente elevata nell'esercito cartaginese dato che né i soldati né gli elefanti erano abituati a restare inzuppati nel nevischio e nei fiumi gelati La stessa sorte sarà toccata a molti fuggiaschi superstiti degli eserciti romani scon­ fitti in seguito. Quanto alla mortalità per malattia e per ferite, di soiito, nella maggior parte delle guerre precedenti l'ultima guerra mondiale, essa era superiore alla mortalità sul campo di battaglia. È chiaro che una valutazione delle perdite totali di vite umane da par­ te romana nella guerra annibalica non può essere altro che congetturale. A suo tempo ", in base alle cifre dei censimenti romani a noi conservate, abbiamo stimato che le perdite totali di vite umane in questa guerra, nei quindici anni 218-204 a. C., fossero comprese tra un massimo di poco superiore a 90 ooo e a un minimo di circa 66 600 per i soli cittadini ro­ mani, senza contare le perdite dei cittadini degli Stati italici alleati. Ap45



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piano ., valuta che nei �oli due anni 2 1 7-216 a. C. i morti, alleati e citta­ dini, fossero stati 10.0' ooo. Anche piu difficile è valutare le perdite nelle guerre successive, du­ rante i sessantotto anni 200-133 a. C. In questo periodo l'unica disfat­ ta militare romana in qualche modo paragonabile a quelle del 2 18, 2 1 7 e 2 1 6 a. C . fu la capitolazione dell'esercito di Mancino ai Numantini nel 1 3 7 a. C. Polibio richiama l'attenzione ' sulla ferocia e l'ostinazione con cui fu condotta la guerra romano-lusitana ( 1 54-138 a. C.) e la mette a contrasto con la relativa mitezza delle guerre combattute nello stesso tempo in Grecia e in Asia. Tenney Frank ha compilato un elenco di di­ ciotto notizie, fornite da Livio e Appiano, su perdite romane eccezional­ mente gravi: otto casi nella regione cisalpina, altri otto in Spagna, due casi in Tessaglia e in Illiria durante la terza guerra romano-macedone Le cifre attestate dànno un totale di circa 95 ooo. Tuttavia in questo pe­ riodo le perdite minori, meno vistose ma incessanti, avranno costituito rispetto al totale una percentuale maggiore che nella guerra annibalica. Per questo periodo ci sono anche testimonianze sulla mortalità dovu­ ta alla pestilenza che, oltre alle truppe, colpi il resto della popolazione della Federazione romana 51 • A Roma e nell'Ager Romanus vi furono scoppi di pestilenza nel 187 ", 182-180 53, 1 78 56, 1 74 a. C. 55 • Nel 178 a. C. la pestilenza colpi a Rimini le truppe di emergenza che erano state chia­ mate alle armi in seguito al falso allarme che gli Istri erano in marcia ver­ so Roma Il congedo di questo esercito e la dispersione dei congedati che tornavano a casa si avranno diffuso il contagio in tutta l'Italia. 9

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5 . Periodi di servizio 1 • I quindici anni 2 1 7-203 a. C. furono terribili per il ceto rurale itali­ co. La guerra era nel loro paese e lo devastava. In pari tempo avevano una consolazione. Quando la guerra era nel loro paese, anche i contadini­ soldati italici in servizio si trovavano in grande maggioranza nel loro paese 2 ; e, se erano tra la maggioranza fortunata che non perdeva la vita e non vedeva i suoi casolari incendiati e i suoi poderi devastati, probabil­ mente erano abbastanza vicini a casa - almeno alcuni di essi - da potervi andare qualche volta in licenza durante le pause annuali tra una campa­ gna e l'altra. Questo era un beneficio economico e insieme psicologico. Essi potevano fare qualche cosa per tenere in attività i poderi e rivede­ vano le famiglie. Ciò alleviava la durezza di un servizio militare che si prolungava ininterrottamente per anni. Dello stesso beneficio potevano godere i contadini-soldati che nei

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successivi trent'anni servivano nella valle padana e sugli Appennini nord-occidentali. In questo teatro di guerra non si trovavano molto piu distanti da casa, e non ne erano separati neppure da uno stretto tratto di mare. Anch'essi potevano andare a casa a piedi in licenza; e per la mag­ gior parte di loro il cammino non richiedeva un periodo di tempo parago­ nabile ai quaranta giorni che nel 2 1 8 a. C. il console Ti. Sempronio Lon­ go avrebbe accordato ai suoi soldati per andare da Lilibeo a Rimini '. Tutto l'Ager Romanus, tranne i municipi campani e le aree devastate che dopo la guerra annibalica erano state espropriate ad alcuni alleati già se­ cessionisti nell'Italia sud-orientale, si trovava a nord-ovest del Voltur­ no; e cosf pure, dopo quelle annessioni, circa la metà di tutto il territorio alleato. Dalla fine della guerra annibalica fino al 1 7 2 a. C. il maggior con­ centramento di truppe romane si trovava quasi invariabilmente sulla frontiera nord-occidentale della penisola italiana o non molto al di là •. Cosf anche in questo periodo una parte sostanziale dei soldati sottoposti a lungo servizio aveva la possibilità di far visita a casa '. D'altra parte, durante questo periodo quasi metà delle truppe, in me­ dia, prestava servizio oltremare, mentre durante la guerra annibalica le truppe operanti in zone transmarine, a parte la Sicilia, ammontavano a non molto piu di un terzo. In una lontana zona d'oltremare un soldato mobilitato da un anno all'altro non poteva andare a casa in licenza negli intervalli tra i periodi di campagna. Non poteva permettersi di pagare di tasca sua il viaggio di ritorno per mare, e il governo non si sarebbe mai sognato di pagare per lui. A quel tempo la stagione chiusa per le opera­ zioni militari coincideva con la stagione chiusa per la navigazione nel Me­ diterraneo. Cosf un periodo di servizio prolungato, che era una sofferen­ za in ogni caso, per soldati dislocati in zone distanti d'oltremare era una sofferenza che non poteva essere alleviata. Per loro le stagioni operati­ ve erano intercalate non dalle visite a casa, ma da soggiorni in quartieri invernali in un paese straniero i cui abitanti erano di solito ostili. Per va­ lutare che cosa fossero i periodi di servizio occorre tenere presente que­ sta differenza nella durezza relativa del servizio prolungato a seconda del­ le diverse zone d'operazioni. Nel periodo 2 1 8- 1 3 3 a. C., tra coloro che prestarono uno dei servizi piu lunghi - non il piu lungo di tutti - ci furono quei soldati delle legio­ nes Cannenses che in origine avevano fatto parte di una delle legioni mo­ bilitate nel 2 1 8 a. C. •. Essi avranno svolto diciott'anni di servizio conti­ nuo prima di essere congedati dopo la conclusione della pace nel 2 0 1 a. C. Durante questi diciott'anni una parte di essi saranno diventati seniores, e parte di questi, a loro volta, avranno superato l'età di sessant'anni, età in cui di regola sarebbero stati persino esonerati dal servizio di guarnigio-

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ne in patria. Intanto essi erano stati marchiati d'infamia e deliberatamen­ te umiliati. Era loro vietato di cercarsi alloggio nelle città per i quar­ tieri invernali e persino di erigere a meno di dieci miglia da qualsiasi cit­ tà le baracche che dovevano costruirsi da soli '. Sembra improbabile che ottenessero mai una licenza per andare a casa, anche se ciò sarebbe stato facile durante gli undici anni da essi trascorsi in Sicilia, tranne i quattro anni in cui in Sicilia si combatteva. All'inizio del 205 a. C., quando fu­ rono assegnati a Scipione, questi vecchi soldati avranno avuto poco piu vigore fisico, e molto meno ardore, di quello che avevano avuto nel 3 0 1 a. C. i superstiti veterani di Alessandro quando si batterono, ancora con furore, a Ipso. II Cunctator e i suoi amici senatori antiscipionici avranno sorriso tra loro quando affibbiarono le legiones Cannenses al loro spauracchio e, con la stessa risoluzione, gli dettero facoltà di condurle in Africa se a suo giu­ dizio ciò era nel pubblico interesse '. Portarle in Africa cosi com'erano avrebbe significato cercare il destino di Regolo e di Agatocle. Senza dub­ bio gli oppositori di Scipione credevano di avergli imposto la scelta tra rinunciare alla possibilità di conquistare altra gloria e cancellare, con un fallimento ignominioso, la gloria già conquistata. Quando il Senato gli rifiutò il potere di chiamare alle armi una leva di coscritti, ma gli accor­ dò la libertà di reclutare volontari e di costruire una flotta con i contri­ buti volontari degli alleati di Roma, esso non poteva prevedere che egli avrebbe presto imbarcato circa 7000 volontari su una flotta di nuova co­ struzione, forte di trenta navi, per la quale il Tesoro romano non aveva pagato un soldo •. Senza dubbio, inoltre, nel reclutare i suoi volontari Sci­ pione intendeva eliminare e sostituire nelle legiones Cannenses gli ele­ menti meno efficienti, come fece 10 prima di portare il corpo di spedizione in Africa nel 204 a. C. Egli ringiovani le legiones Cannenses con risultati cosi buoni che nel 2 0 2 a. C. furono esse che dettero a Roma - e a Scipio­ ne - la sua vittoria finale. Le legiones Cannenses, prima che Scipione le prendesse in mano, era­ no state naturalmente un caso eccezionale. Piu di queste legioni pena­ lizzate è significativo il caso degli eserciti dimenticati che, anch'essi per periodi lunghi e ininterroti, furono abbandonati in due zone lontane do­ ve si combattevano guerre interminabili, cioè la Sardegna e la Spagna. Le due legioni che erano state mandate in Spagna nel 2 I 8 a. C. furono te nute là otto anni finché furono entrambe fatte a pezzi nel 2 I I a. C.; quindi, le due legioni formate nel 2 r o a. C. con i sopravvissuti, rafforzate da rincalzi provenienti dalla Campania furono tenute sotto le armi altri cinque anni prima di essere finalmente congedate nel 206 a. C. Alcuni degli uomini delle altre due legioni formate in Spagna lo stesso anno, con 11

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la maggior parte di quei rincalzi, servirono anche piu a lungo. Due delle quattro legioni disciolte da cui essi provenivano erano state reclutate nel 2 16 a. C. 13 ; le altre due nel 214 ". Le due legioni formate in Spagna nel 2 r o a. C. con questi elementi " non furono congedate fino alla fine del 198 a. C. Quindi alcuni degli uomini di queste due legioni avranno servi­ to per diciannove anni consecutivi : cioè un anno piu dei loro commilitoni tenuti per punizione nelle legiones Cannenses. Quanto alla Sardegna, la legione mandata là nel 2 1 7 a. C. " vi fu tenuta undici anni, e quella com­ plementare, mandata nel 2 1 5 a. C. 11 , nove anni, prima che fosse sciolta. Nel periodo 200-168 a. C. vi furono solo cinque anni ( 1 77-173 a. C.) in cui la presenza di truppe romane in Sardegna era necessaria. Ma, come abbiamo già osservato 8, l'esercito di Spagna imponeva un tributo inces­ sante di uomini al ceto rurale italico; e questo tributo continuava ad es­ sere aggravato dalla lunghezza smodata dei periodi di servizio in quella zona. Le unità dislocate nella piu lontana delle due province spagnole era­ no condannate al servizio piu lungo. Sembra che la legione mandata nella Spagna Ulteriore nel 196 a. C. ,. e quella mandata a raggiungerla nel 187 a. C. siano rimaste in servizio fino al 168 a. C., benché a quella data la seconda di esse avesse servito nella provincia senza interruzione per ven­ t'anni, e la prima per ventinove. La legione mandata nella Spagna Cite­ riore nel 196 a. C. vi fu tenuta per sedici anni prima di essere sciolta, e quella che la raggiunse nel 187 a. C. vi rimase dieci anni. Le legioni mandate in sostituzione in questa provincia rispettivamente nel 180 23 e nel 1 77 a. C. 24 sembra che fossero ancora in servizio là nel 168 a. C. Dato che i libri superstiti di Livio non vanno oltre questa data, non sappiamo quanti altri anni di servizio continuo aspettassero le quattro legioni che furono abbandonate in Spagna nel 168 a. C. A differenza delle legiones Cannenses in Sicilia, le legioni stanziate in Spagna e in Sardegna non erano state condannate per punizione a un servizio prolungato; era stata semplicemente la sfortuna che le aveva as­ segnate al servizio perpetuo in queste lontane zone d'oltremare invece che al servizio nel Levante, che era sempre di breve durata, o al servizio perpetuo, ma in zona non lontana, sulla frontiera nord-occidentale del­ l'Italia peninsulare. Tuttavia il trattamento delle legioni relegate in Sar­ degna o in Spagna aveva in comune con quello delle legiones Cannenses un aspetto esasperante. In entrambi i casi era un trattamento deliberato. Le legiones Cannenses erano state umiliate di proposito dal governo ro­ mano perché si erano disonorate; le legioni della Sardegna e della Spa­ gna erano dimenticate di proposito dal governo pur senza avere fatto nul­ la per meritare questo abbandono. Erano dimenticate di proposito perché il governo, dando ad esse le1

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gittimi motivi di lagnanza, provocava conseguenze spiacevoli, ma che si sarebbero fatte sentire meno rapidamente di quelle derivanti dal richia­ mo di nuove leve destinate a sostituirle. Naturalmente il servizio perpe­ tuo in paesi lontani d'oltremare era subito diventato quanto mai impopo­ lare, e i coscritti - compresi quelli già arruolati nelle legiones urbanae " che erano condannati a questa sorte o ne erano minacciati, se erano citta­ dini romani e non cittadini di Stati alleati potevano intraprendere azioni politiche anche imbarazzanti per il governo. Potevano indurre tribuni della plebe a intervenire in loro aiuto; e, se riuscivano a persuadere un tri­ buno a convocare il concilium plebis o un pubblico ufficiale a convocare i comizi tributi, potevano esprimere il loro malcontento facendo approva­ re un voto decisivo contro il governo. Quindi per il governo, quando do­ veva scegliere se prolungare il servizio delle truppe in Spagna o sostituir­ le con nuove leve, la linea di minore resistenza stava nell'eludere l'alter­ nativa che avrebbe avuto conseguenze spiacevoli piu immediate. Per esempio nel 19 3 a. C. il Senato respinse una richiesta del governatore eletto della Spagna Citeriore che voleva essere autorizzato a condurre con sé nella provincia una super-legione di 6 2 00 fanti e 200 cavalieri, che egli proponeva di raccogliere prendendo reparti delle due legiones urbanae dell'anno, completati da una leva supplementare. Il suo argomento era che l'esercito del governatore uscente nella provincia era praticamente fuori combattimento, e che laggiu la situazione militare era critica. Il Se­ nato decise d'ignorare l'informazione del governatore eletto col pretesto che essa era non ufficiale e tendenziosa. Gli fu permesso soltanto di reclu­ tare milites tumultuarii 20 • Nel 1 7 2 a. C., quando si profilava la terza guer­ ra romano-macedone, il Senato dapprima rifiutò di concedere qualsiasi rinforzo ai governatori eletti delle due province spagnole n. I due gover­ natori eletti incontrarono le piu grandi difficoltà nel persuadere final­ mente il Senato ad assegnare loro rinforzi per un totale di 8450 uomini 28 • Almeno in un'occasione 29 la prova dei fatti dimostrò che le truppe d'oltremare non avevano la possibilità di competere con i loro concitta­ dini rimasti in patria quando si trattava di esercitare una pressione poli­ tica sul governo di Roma. Mentre il Senato prendeva le disposizioni mi­ litari per il 184 a. C., due ufficiali superiori, rappresentanti rispettiva­ mente i due governatori uscenti delle province spagnole, sottoposero al Senato la loro richiesta di autorizzazione a riportare con loro in patria gli eserciti al completo, poiché essi avevano dato buona prova di sé in ope­ razioni importanti che ora erano state portate a conclusione con succes­ so. Il Senato votò subito una celebrazione religiosa di due giorni (sup­ plicatio) in onore di questo felice evento, ma rinviò la decisione sulla richiesta del rimpatrio e del congedo delle truppe, e quindi ci fu una

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prova di forza politica tra i due nuovi governatori eletti e i sostenitori dei governatori uscenti. Ognuna delle due parti si assicurò i buoni uf­ fici di uno dei consoli e di alcuni tribuni della plebe. Un gruppo di tri­ buni annunciò che, se il Senato avesse votato per il rimpatrio, essi avrebbero opposto il veto. L'altro gruppo annunciò che, se i colleghi avessero opposto questo veto, esso avrebbe risposto opponendo il veto al disbrigo di altri affari pubblici. Il conflitto terminò con una sconfitta dei governatori assenti e delle loro truppe assenti '° , che fu appena ma­ scherata da compromesso. Per venire incontro alle loro richieste il Se­ nato non fece altro che votare il reclutamento di 4300 soldati romani e di 5 500 nuovi soldati alleati, e insisté nell'affermare che con l'aiuto di questi complementi le legioni spagnole dovevano intanto essere mante­ nute, o portate, alla forza completa di legioni « forti» (cioè 5 300 uomini per ciascuno dei contingenti formati da cittadini romani) . Solo i vetera­ ni in eccedenza rispetto a questa cifra sarebbero stati poi congedati e rim­ patriati. Avrebbero avuto la precedenza i veterani che avevano comple­ tato ( o superato) il massimo richiesto di anni di servizio. Gli altri abili­ tati al congedo, a queste condizioni, sarebbero stati scelti individualmen­ te, a titolo di premio per meriti di servizio, su raccomandazione dei go­ vernatori uscenti. Come si vede, al massimo 9800 veterani avranno otte­ nuto il congedo, anche se le quattro legioni in Spagna a quella data si tro­ vavano già tutte al livello degli effettivi ufficiali delle legioni «forti» pre­ visti per la Spagna 31 ; e, in tal caso, il numero dei congedati sarebbe am­ montato a meno del 20,6 per cento del totale richiesto dai loro ufficiali comandanti. Se a quella data le quattro legioni di Spagna contavano effet­ tivi non superiori a quelli normali, solo 2600 uomini - cioè poco piu del 6,6 per cento - avranno ottenuto il congedo. In questo caso il ricambio accordato dal Senato sarebbe stato irrisorio rispetto alla richiesta; e la richiesta era ragionevole, considerato che alla fine del r 8 5 a. C. due delle quattro legioni di Spagna avevano servito là per dodici anni consecutivi ". Questo episodio indica come fosse legittimo il malcontento delle trup­ pe trattenute per periodi interminabili in lontane zone d'operazioni d'ol­ tremare. In pari tempo mette in luce una consistente attenuazione della durezza di tale servizio. Non tutti gli uomini originariamente arruolati in una legione che era stata inviata in Spagna saranno stati trattenuti in essa per l'intero periodo in cui questa legione esisteva 33 • Alcuni saranno stati congedati prima che la legione fosse sciolta; e, quale che potesse es­ sere la durata media del servizio individuale, essa sarà stata comunque inferiore all'esistenza della legione stessa. Il 1 84 a. C. non fu l'unico anno in cui veterani furono congedati da legioni stanziate in lontane zone d'oltremare senza che esse fossero state

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sciolte. Per esempio all'inizio del 1 9 3 a. C. furono sostituiti in Spagna "' 6200 soldati romani e I O 400 alleati ; poiché a quella data l'esercito ro­ mano in Spagna comprendeva solo due legioni, non quattro, in questo caso la sostituzione avrà avuto proporzioni sostanziali. Saranno stati con­ gedati 1 6 600 uomini su un probabile totale di 26 400 ", cioè oltre il 6 0 , 6 per cento. Ancora, all'inizio del 1 8 0 a. C. furono congedati senza condi­ zioni tutti i soldati in servizio nella Spagna Citeriore che vi erano stati inviati prima del 1 8 6 a. C.; inoltre, tra quelli che avevano servito con me­ rito ne furono congedati quanti era possibile senza ridurre gli effettivi delle due legioni della Spagna Citeriore, dopo l'arrivo dei complementi allora in viaggio, al di sotto di I O 400 fanti romani, 600 cavalieri roma­ ni, 1 2 ooo fanti alleati e 600 cavalieri alleati 36 • Se questi erano gli effetti­ vi ufficiali precedenti, senza che fossero stati aumentati, e se a quella data gli effettivi delle due legioni non erano molto al di sotto di questo livello ufficiale, il totale dei congedati sarà stato quasi pari al totale dei nuovi arrivati: cioè, 6200 fanti romani, 450 cavalieri romani, 7000 fanti al­ leati e 300 cavalieri alleati 37 • Le percentuali degli uomini già in servizio e congedati in ciascuna delle quattro armi saranno state rispettivamente di circa 59,6, 75, 5 8 , 3 e 50. Questo fu un sollievo sostanziale, ma non soddisfece del tutto le ri­ chieste delle truppe della provincia. Come la decisione presa dal Senato nel 1 84 a. C., esso rappresentò un compromesso. Anche in questa occa­ sione il governatore uscente aveva chiesto il congedo di tutto l'esercito allora in servizio nella provincia. Tre ufficiali superiori, mandati in sua rappresentanza, avevano sottoposto questa richiesta al Senato. Essi ave­ vano riferito che quell'esercito, come risultato delle operazioni compiu­ te l'anno precedente, aveva definitivamente pacificato la provincia co­ stringendo i Celtiberi a capitolare, e che ora le truppe erano estrema­ mente esasperate per il prolungarsi del servizio, al punto che se non fos­ sero state congedate in blocco c'era il pericolo di un ammutinamento. In Senato questa richiesta incontrò l'opposizione del governatore eletto. Egli aveva fatto la controrichiesta che si concedesse il congedo solo agli uomini che avevano completato il periodo di servizio, e aveva annuncia­ to che, se tutto l'esercito allora nella provincia fosse stato rimpatriato e gli avessero chiesto di tenere la provincia con un nuovo esercito compo­ sto esclusivamente di reclute inesperte, egli avrebbe rinunciato all'inca­ rico Anche questa volta il Senato risolse il contrasto con un compro­ messo, pur andando incontro alle richieste dell'esercito trascurato piu di quanto avesse voluto fare la volta precedente, nel 1 8 4 a. C. Solo nel 1 5 1 a. C., quando il governo romano rifiutò di ratificare la pace che il console M. Claudio Marcello aveva negoziato con Numanzia, 38



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esso si trovò infine costretto a limitare a un massimo di sei anni il perio­ do del servizio militare in Spagna 3' . Un caso sorprendente è il congedo e la sostituzione, in condizioni ana­ loghe, di uomini dislocati sul fronte macedone all'inizio del 1 69 a. C. 40• Questa concessione fu notevole se si considera che queste truppe avevano servito per soli due anni e che in questi due anni - i primi della terza guerra romano-macedone - l'esercito romano aveva avuto la peggio, in modo inaspettato e umiliante, nel conflitto con un nemico che, come tutti sapevano, per potenziale militare non era all'altezza di Roma. Un altro punto da non dimenticare è che le singole legioni erano te­ nute in servizio per periodi estremamente variabili. I periodi di servizio continuo cui erano condannate le legioni penalizzate e quelle dislocate in Sardegna e in Spagna erano eccezionalmente lunghi. Se lasciamo da parte queste legioni singolarmente sfortunate, e quelle anche piu sfortu­ nate la cui esistenza fu prematuramente troncata da azione nemica, tro­ viamo che sulle altre ventinove legioni chiamate alle armi nel corso della guerra annibalica tre restarono in servizio per 1 2 anni 41 , una per 1 0 an­ ni ", quattro per 9 anni ", una per 8 o 6 o 4 anni .. , due per 7 anni ", sei per 6 anni .. , quattro per 4 anni ", due per 2 anni ", e due per un anno ., . Le legioni reclutate negli anni finali della guerra ebbero una durata sem­ pre piu breve perché alla fine del 2 0 1 a. C. furono sciolte tredici delle quindici legioni allora in servizio - cioè tutte tranne le due in Spagna -, e nel 200 a. C. si ricominciò reclutando otto legioni nuove. Le legioni piu fortunate della guerra annibalica furono le due legiones urbanae del 208 a. C. "°. Nel primo anno di servizio attivo esse vinsero la battaglia del Metauro e in premio furono sciolte; cosi servirono per soli due anni men­ tre avrebbero potuto essere trattenute per otto. La tabella 4 mostra '1 che nel periodo 2 00- 1 6 8 a. C., a parte le legioni dislocate in Spagna, sei legioni servirono per 6 anni ", quattro per 5 anni ", undici per 4 anni 54 , tredici per 3 anni ", ventidue per 2 anni ,. e venticinque per un solo anno 57 . Come si vede, il servizio prolungato e ininterrotto in lontane zone d'operazione d'oltremare era eccezionale. Queste assenze smodatamente lunghe - che duravano, come accadde, 2 9 , 2 0 , 1 9 , 1 6 anni senza interru­ zione - non potevano non essere rovinose per i poderi e le famiglie dei contadini-soldati cosi completamente sradicati dalle loro terre. Ma an­ che i periodi di servizio piu brevi - specialmente quando erano imposti piu volte allo stesso soldato - avranno gravato per la loro parte sulle spalle dei contadini in armi. Anche se in questi casi il senso di angu­ stia poteva essere meno acuto, il danno economico e sociale complessivo non doveva essere minore.

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6. Malcontento e insubordinazione tra le truppe. L'esercito romano, come quello prussiano, era addestrato alla pazien­ za e alla docilità da una disciplina dura e anche feroce '. Inibizioni tradi­ zionali profondamente inculcate e psicologicamente difficili da superare lo trattenevano di solito dal reagire con violenza quando era provocato. Quindi era un miracolo quando soldati romani in armi mostravano segni d'irrequietezza, e un miracolo anche piu grande quando commetteva­ no atti positivi d'insubordinazione o scoppiavano nell'ammutinamento aperto. Miracoli simili accaddero durante la guerra annibalica e i suoi po­ stumi, preannunciando i futuri sollevamenti rivoluzionari nel corpo po­ litico romano. Sembra che durante questo periodo le truppe fossero soprattutto esasperate dal protrarsi del servizio militare, piu che dalle perdite uma­ ne. La gravità di queste perdite, come la lunghezza media del servizio, raggiunse proporzioni senza precedenti. Tuttavia le perdite umane in guerra erano state un aspetto costante della vita romana fino dalle fasi piu antiche di cui si conservasse il ricordo; ed erano considerate quasi un fatto di natura normale come la morte non violenta. D'altra parte, l'assenza prolungata e continua per servizio militare era una tribolazio­ ne nuova e non abituale per i contadini-soldati romani. È significativo che, nell'età postleggendaria della storia romana, il piu antico ammuti­ namento attestato nell'esercito romano fosse scoppiato nell'inverno 34 3342 (340-339 o 339-338) a. C. in un'unità che in quel momento affron­ tava l'insolita esperienza di essere trattenuta in quartieri invernali, lon­ tano da casa, in Campania. Questo primo ammutinamento degenerò in una rivoluzione politica che nel quadro convenzionale della storia roma­ na fu dissimulata, ma senza poter essere cancellata 2. Alla.luce di questo episodio piu antico è meno sorprendente che le lunghe assenze per ser­ vizio, che cominciarono nel 218 a. C. e non cessarono piu, indebolissero persino una disciplina che era stata sempre fatta osservare oculatamente e che fino a quel momento era stata mantenuta con successo. Abbiamo già parlato delle richieste di congedo avanzate alla fine degli anni r 85 e r 8 r a. C. dalle truppe di Spagna e appoggiate dai loro comandanti, i go­ vernatori uscenti delle province spagnole •. Nella seconda occasione il co­ mandante uscente avverti il Senato che le truppe mordevano il freno e che a suo parere avrebbero disertato se non fossero state congedate, e avrebbero anche potuto insorgere in un ammutinamento disastroso se le autorità non avessero prestato ascolto alle loro richieste •. Persino durante la guerra annibalica, quando Roma lottava per so-

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pravvivere, ci furono almeno due casi d'indisciplina. Entrambi fecero seguito a un brillante successo militare che tra l'altro si dimostrò reddi­ tizio per le truppe vittoriose, rendendo loro un apprezzabile bottino. In entrambi i casi sembra che la causa fondamentale del malcontento fosse la lunghezza del servizio. Ora che la guerra era stata vinta nella zona in cui erano dislocati, i soldati non vedevano perché non si permettesse loro di andare a casa a godersi i loro guadagni. La prima manifestazione docu­ mentata di questo stato d'animo fra le truppe fu in Sicilia nel 2 1 1 a. C., l'anno successivo alla conquista di Siracusa. I soldati espressero il loro malcontento praticando l'« ostruzionismo » e permettendo alla cavalleria di Muttines di devastare i territori degli Stati siciliani che erano rimasti fedeli a Roma. Uno dei motivi di lagnanza era il divieto di cercare allog­ giamenti nelle città, per i quartieri invernali '; ma il motivo principale era che non erano stati rimpatriati in Italia col loro comandante vittorio­ so, Marcello •. Nel 2 1 1 a. C. due delle legioni dislocate in Sicilia 7 erano al loro sesto anno di servizio continuo. Le altre due erano le legiones Can­ nenses, nelle quali alcuni soldati erano all'ottavo anno di servizio conti­ nuo. Alla fine dell'anno il governo, prudentemente, sciolse le due legioni non penalizzate. Nel 206 a. C., in circostanze simili, in Spagna scoppiò un serio ammutinamento nell'esercito sempre vittorioso di Scipione '. Poco prima, in una battaglia decisiva, questo esercito aveva sconfitto le forze cartaginesi e le aveva costrette a rifugiarsi dentro le mura di Cadi­ ce; e, dato che i cittadini di Cadice stavano già progettando di accor­ darsi con i Romani, ora si profilava l'espulsione completa dei Cartagine­ si dalla Spagna '. Anche in questo caso la lagnanza delle truppe era che, essendo finita la guerra, e con essa la possibilità di fare bottino, erano an­ cora trattenute in Spagna invece di essere rimpatriate in Italia 10 • Scipione dovette fronteggiare un altro caso serio d'insubordinazione durante la sua prima campagna in Africa. Dopo che una città chiamata Locha ebbe capitolato, a certe condizioni, le truppe romane all'assalto ignorarono il segnale di ritirata dato da Scipione e procedettero a massa­ crare donne e bambini e a fare bottino. Scipione confiscò il bottino e mandò a morte tre tribuni estratti a sorte tra tutti i colpevoli 1 1 • Dopo che la guerra annibalica fu finita con la completa vittoria roma­ na, Roma fece le altre guerre non per aver salva l'esistenza, ora assicu­ rata, ma per conservare ed estendere l'impero conquistato oltre i confini dell'Italia peninsulare. In queste nuove circostanze era naturale che l'im­ posizione di un continuo tributo umano alla popolazione rurale italica per lunghi periodi di servizio militare provocasse un'irrequietezza anche maggiore, benché il peso del tributo fosse stato ridotto. Quando nel 200 a. C., cioè l'anno successivo alla conclusione della

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pace con Cartagine, il governo sottopose ai comitia una mozione per fare la guerra alla Macedonia, i comitia la respinsero alla prima votazione L'esasperazione del Popolo romano, chiamato a riprendere le armi sen­ za un attimo di respiro, trovò un portavoce in un tribuno della plebe, e il governo ebbe difficoltà a far passare il voto sulla guerra in un secondo tentativo ". Non sorprende che, in una nuova guerra accettata cosi con­ trovoglia dall'elettorato romano, le truppe reclutate per combatterla si mostrassero recalcitranti. Nel 1 9 9 a. C., prima che si fosse riportata qual­ che vittoria decisiva, i duemila « volontari » provenienti dall'esercito che aveva vinto con Scipione in Africa, che erano stati immessi nel nuovo esercito della Macedonia per completare gli effettivi e, si sperava, per rafforzare il morale dei coscritti, chiesero di essere rimandati a casa in quanto non erano veri volontari ma erano stati inviati in Macedonia con­ tro la loro volontà 1'. Nel 1 9.5 a. C., quando Catone iniziò le operazioni in Spagna, vide che prima di potersi cimentare in una battaglia campale do­ veva addestrare e disciplinare le truppe, e quando si azzardò a venire alle mani col nemico un'ala della cavalleria si comportò in modo cosi co­ dardo da demoralizzare la fanteria, e Catone dovette salvare la situazio­ ne facendo una diversione con due coorti di truppe alleate Nel 190 a. C., quando Focea capitolò alla flotta romana dietro garan­ zia che la città non sarebbe stata saccheggiata, i soldati romani la sac­ cheggiarono a dispetto degli ordini ricevuti. Il comandante cercò di fer­ marli ma non vi riuscf 1'. L'esercito terrestre romano in Asia si compor­ tò con particolare crudeltà dopo la vittoria riportata nel 1 90 a. C. su An­ tioco III sotto il comando di L. e P. Scipione: nel 1 89 a. C. esso passò sotto il comando di Cn. Manlio Vulsone, successore di L. Scipione, che lo guidò in una spedizione non autorizzata a terrorizzare e saccheggiare l'in­ terno dell'Anatolia Dopo la conquista della roccaforte dei Tolistobogi sull'Olimpo dLG...alazia, il corpo d'occupazione che prése -il postè> delle truppe d'assalto si appropriò per suo conto di tutto il bottino in viola­ zione del giuramento regolamentare che impegnava i soldati a consegna­ re tutto il bottino perché fosse diviso in parti uguali tra tutti e a non sot­ trarne alcuna parte Era un'infrazione flagrante del codice d'onore vi­ gente nell'esercito romano. L'abbondanza del bottino che infine gli uo­ mini di Vulsone portarono a casa apparve stupefacente Il peggior bri­ gante, in questa spedizione, fu il console stesso 21 ; ma i suoi pari lo biasi­ marono piu che altro perché egli non aveva saputo o voluto mantenere il livello tradizionale di disciplina che era stato mantenuto strettamente persino dal suo predecessore L. Scipione, che pure sotto certi aspetti era un carattere debole. All'inizio del 1 8 2 a. C. fu riferito che la disciplina era stata calpestata anche nell'esercito della Spagna Ulteriore 22 • All'ini12

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zio del 180 a. C. quattro legioni erano concentrate a Pisa, in attesa che i consoli dell'anno assumessero il comando e le conducessero in una cam­ pagna contro i Liguri. Prima dell'arrivo dei consoli il fratello di uno di es­ si, M. Fulvio Nobiliore, che aveva il comando temporaneo di una di queste legioni, si assunse la responsabilità di licenziare i suoi uomini sen­ za autorizzazione. Il collega del fratello radunò i soldati con la forza e li pun{ privandoli della paga per sei mesi. Per tutta punizione, all'ufficiale colpevole fu imposto di portare dispacci al governatore della Spagna Ulteriore Undici anni dopo lo stesso reato fu commesso non da un tribunus mi­ litum ma da un console. Nel 1 69 a. C., prima che si aprisse la terza sta­ gione operativa della terza guerra romano-macedone, due commissari inviati dal Senato per indagare sulla situazione insoddisfacente del fron­ te macedone riferirono che l'esercito di Macedonia era seriamente al di sotto della forza prescritta perché le autorità militari erano prodighe nel concedere licenze cercando di acquistare popolarità. Il console coman­ dante e i suoi tribuni militari si gettarono addosso a vicenda la responsa­ bilità 24 • Quindi i censori del 169 a. C. ordinarono che gli uomini reclu­ tati per il servizio in Macedonia a partire dal 172, e che in quel momento si trovavano in Italia, tornassero nella loro provincia entro trenta gior­ ni, dopo essersi iscritti presso i censori, o essersi fatti iscrivere se erano ancora nella potestas del padre o del nonno. Essi annunciarono anche che avrebbero esaminato i casi dei soldati congedati e che avrebbero ordina­ to l'arruolamento nell'esercito di tutti coloro che, congedati prima di ave­ re completato l'intero periodo di servizio, a giudizio dei censori avevano ottenuto il congedo attraverso atti ingiustificati di favoritismo ". La dira­ mazione di quest'ordine in tutto l'Ager Romanus fece affluire a Roma una folla di falsi malati che si presentavano per prendere servizio 2• . Scene straordinarie si svolsero nel campo dei due eserciti proconsolari che operavano in Istria nella primavera del 1 77 a. C. I proconsoli ave­ vano ripreso le operazioni senza aspettare che il nuovo console dell'anno, cui l'Istria era stata assegnata come sua provincia, assumesse il coman­ do. Il nuovo console, C. Claudio Pulcro, arrivò in fretta, convocò un'as­ semblea generale delle truppe, accusò pubblicamente di codardia di fron­ te al nemico i due predecessori e ordinò loro di lasciare la provincia. I proconsoli rifiutarono affermando che il nuovo console era arrivato sen­ za avere adempiuto nel modo dovuto e prescritto dalla legge le formalità necessarie per assumere il comando. Allora l'impaziente console chiese a un proquestore di portare le catene, per rimandare a Roma i proconsoli in ceppi; ma anche quell'ufficiale rifiutò di obbedire per la stessa ragione. L'esercito era quanto mai divertito da questa commedia e, come gli uffi23



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ciali, si dimostrava poco disposto a obbedire agli ordini del nuovo conso­ le. Anche i soldati infatti non avevano ragione di amarlo, dato che era arrivato di corsa per impedire loro di appropriarsi di altro bottino istria­ no. Quindi il console tornò in fretta a Roma, adempi le formalità prima trascurate e ancora in fretta fece ritorno in Istria appena in tempo per sorprendere i proconsoli mentre assediavano la città di Nesazio. Licen­ ziati i suoi predecessori e le loro truppe, egli continuò l'assedio col pro­ prio esercito, espugnò Nesazio e altre due città istriane e permise ai sol­ dati di tenersi il bottino 28 (in ciò, senza dubbio, egli si considerò uno di loro). La precipitazione indecorosa e il comportamento oltraggioso del console erano stati giustificati dal successo. Con i loro cavilli non piu edi­ ficanti, i suoi predecessori non erano riusciti a sbarazzarsi di lui. Come il nuovo console aveva temuto, essi avevano cercato di appropriarsi del bot­ tino della sua stagione operativa oltre che di quello della loro, ma egli li aveva battuti. Questa gara tra due eserciti romani e i loro rispettivi co­ mandanti per spogliare un povero popolo barbaro fu il maggiore conflitto che quell'anno si combatté in Istria. Questo solo incidente avrà awto effetti disastrosi sulla disciplina e sul morale dell'esercito. Da Vulsone in poi, come si vede, vi furono nobili romani, detentori dei piu alti uffici pubblici, che si comportarono malamente come le trup­ pe al loro comando. Non sorprende che ora il livello delle azioni militari romane declinasse rapidamente. Nella duplice guerra romano-cartaginese i Romani avevano diviso gli onori con gli avversari sconfitti; anche se es­ si non produssero un solo eroe della statura di Annibale, il loro eroismo collettivo e il suo eroismo individuale furono degni l'uno dell'altro. Al tempo della terza guerra romano-macedone il beau role era passato da Ro­ ma alle sue vittime. Essa poteva ancora vincere le guerre; ma dalla guerra contro Perseo in poi, fino alla guerra giugurtina compresa, le sue vittorie furono ingloriose. Furono precedute da frustrazioni umilianti e da rove­ sci completi. La terza guerra romano-macedone non fu vinta da Roma pri­ ma della quarta ripresa annua delle ostilità, benché la superiorità del po­ tenziale militare romano su quello macedone fosse schiacciante per arma­ menti, tattica e numero. Prima di poter sferrare il colpo decisivo, L. Emi­ lio Paolo dovette riportare la disciplina nelle truppe, come già Catone in Spagna nel r 9 5 a. C. I soldati non perdonarono mai a Paolo di aver fatto di loro dei buoni combattenti, benché la loro successiva vittoria sotto il suo comando fosse dovuta a questo trattamento indispensabile che ave­ vano ricevuto da lui. Essi mostrarono il loro risentimento dopo il rimpa­ trio, quando il Senato chiese ai comitia di votare che a Paolo e agli altri due comandanti vittoriosi cui era stato accordato il trionfo fosse permes­ so di conservare l'imperium il giorno in cui facevano il loro ingresso

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trionfale entro il pomerio. Nel caso di Paolo il voto non passò facilmen­ te, e le sue truppe marciarono nel corteo con atteggiamento ostile ". Ri­ stabilendo la disciplina a costo di mettersi in urto con le truppe Paolo era andato contro corrente; e nella generazione successiva suo figlio, Sci­ pione Emiliano, dovette rifare tutto per rendere capace un esercito ro­ mano di assolvere il compito meno difficile di conquistare Numanzia '°. L'esercito sconfitto di Mancino, che l'Emiliano ereditò nella Spagna Cite­ riore nel 1 3 4 a. C., era uno strumento militare mediocre come le legio­ nes Cannenses che il nonno adottivo dell'Emiliano, il primo Africano, aveva ereditato in Sicilia nel 20 5 a. C. Prima di tentare di riprendere l'as­ sedio di Numanzia, l'Emiliano impiegò una stagione operativa addestran­ do le truppe in Carpetania 35 , ma non riusci a risollevare il morale delle le­ giones Mancinianae 32 , Come il padre, egli raccolse la sua messe di anti­ patia; e si sospettò che la sua morte misteriosa, dopo il ritorno vittorio­ so in patria, fosse dovuta a mano omicida. Gli effetti morali negativi prodotti dalla serie degli odiosi successi di Roma furono aumentati, non cancellati, dalla « spaventosità » fredda­ mente calcolata con cui essa distrusse Corinto, Cartagine e Numanzia. Ciò che i contemporanei applaudirono e i posteri ricordarono fu l'eroi­ smo con cui i Macedoni, i Cartaginesi e i Numantini resisterono alla schiacciante superiorità delle forze romane, senza speranza di scampare alla distruzione. Durante e dopo la seconda guerra romano-macedone il sentimento pubblico era tale che il mondo ellenico sarebbe stato dispo­ sto ad accogliere i Romani come liberatori. Dopo la facile vittoria di Ro­ ma sulla monarchia dei Seleucidi e la meno facile vittoria sull'Etolia nella guerra del 1 9 2- 1 8 9 a. C., lo stesso sentimento pubblico si rivolse contro Roma e, nel complesso, restò alienato da essa per i tre secoli successivi. Questa conversione dell'opinione pubblica greca è stata descritta e acu­ tamente interpretata da Polibio in un passo famoso ", a proposito della vittoria macedone nella battaglia di cavalleria con cui si apd nel 1 7 1 a. C. la terza guerra romano-macedone. Quando la notizia della vittoria dei Macedoni nella battaglia di cavalleria si diffuse in Grecia, la latente simpatia della maggioranza per Perseo divampò come una fiamma. La mia analisi della disposizione [del pubblico greco] verso i due belligeranti è la seguente. Il movimento fu non dissimile da ciò che accade nelle gare atletiche. Quando in queste qualche campione ritenuto invincibile è messo di fronte a un antagonista oscuro e molto piu debole, la folla riversa im­ mediatamente tutta la sua simpatia sul competitore piu debole. Lo incoraggia e s'identifica emotivamente con lui; e, se egli tocca appena il viso del campione e vi lascia anche il segno piu leggero del colpo, ogni spettatore risponde pronta­ mente con un fremito. Talvolta gli spettatori arrivano a gridare contro il cam­ pione, non per odio o disprezzo verso di lui, ma per quella strana peculiarità

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psicologica che li rende ben disposti verso la parte piu debole per natura, cosi che essi rivolgono a questa la loro simpatia. Se, tuttavia, qualcuno li frena di col­ po, essi subito si trasformano e passano a biasimare se stessi per la loro scioc­ chezza... Qualche cosa di simile accadde alle masse nel caso di Perseo. Se qualcuno le avesse frenate di colpo e avesse chiesto loro apertamente: « Allora voi volete veramente che il potere di un individuo diventi assolutamente supremo? Vole­ te provare che cosa significa essere alla mercé di un potere monarchico del tut­ to irresponsabile? », in tal caso, io credo, esse avrebbero subito visto chiaro, si sarebbero ricredute e sarebbero balzate all'estremo opposto ... In questa occasio­ ne, tuttavia, dapprima vi fu una esplosione emotiva che rese inequivocabilmen­ te chiara la popolarità della notizia. La gente era entusiasta del fatto - proprio perché era cosi inaspettato - che qualcuno potesse avere dimostrato la capacità di resistere a Roma. Mi sono permesso di addentrarmi in questa lunga disquisizione sull'inciden­ te perché non voglio che i miei lettori considerino una prova d'ingratitudine [verso Roma] l'atteggiamento assunto dai Greci in questa occasione. Arrivare a questa conclusione avventata sarebbe ignorare i fatti della psicologia umana, e ciò sarebbe ingenuo.

Nel corso del II secolo a. C. i Greci avevano perduto il potere politi­ co, soprattutto per loro propria colpa, ma il loro giudizio sui Romani era tacitamente accettato dai Romani stessi, e ciò con una convinzione inti­ ma tanto piu profonda quanto piu avanzavano sulla strada dell'elleniz­ zazione. I Romani potevano affettare disprezzo per il carattere dei Greci, ma non potevano trascurare l'opinione che i Greci avevano di loro. Pro­ nunciando il suo giudizio su Roma il mondo ellenico, di fatto, pronun­ ciava il giudizio della storia. 7. Le crescenti difficoltà nel reclutamento delle truppe romane.

La conquista romana dell'estremità occidentale dell'ecumene del vec­ chio mondo fu dovuta anzitutto al possesso di un'immensa riserva di potenziale umano di prim'ordine. Nessuna delle potenze contemporanee che potevano entrare in contatto con Roma era in grado di mettere in campo grossi battaglioni che potessero competere con i suoi. Alla pari di Roma, nel possesso di questo materiale indispensabile alla costruzione di un impero, era soltanto lo Stato di Ch'in, all'estremità opposta del con­ tinente eurasiatico. A differenza di Roma, Ch'in, prima di abbattere i suoi avversari, aveva gettato le basi economiche e amministrative, oltre che militari, necessarie per la costruzione di una potenza mondiale 1 ; e quindi l'edifìcio costruito da Ch'in e Han era ancora in piedi quando que­ sto libro è stato scritto, mentre l'Impero romano da lungo tempo non era piu che il ricordo di un periodo della storia antica.

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La riserva romana di potenziale umano di prim'ordine era certamen­ te enorme nel 2 6 6 a. C., l'anno che vide il completamento della conqui­ sta dell'Italia peninsulare. Ma, per quanto enorme, essa non era né ine­ sauribile né immune da deterioramento qualitativo; e, mentre veniva impiegata, il suo valore decresceva sotto entrambi gli aspetti. Il primo grande salasso fu richiesto per equipaggiare e mandare allo sbaraglio le grandi flotte con cui infine Roma vinse la prima fase della duplice guer­ ra romano-cartaginese. In questa fase, come abbiamo osservato ', il peso delle perdite fu sostenuto dai proletarii romani e italici alleati. Il turno dei contadini-soldati romani e alleati venne con l'inizio della seconda fase, nel 2 1 8 a. C. Il conseguente deterioramento della disciplina e del morale dell'esercito contadino romano diventò evidente nel 1 7 1 a. C., quando il governo romano cominciò la terza guerra romano-macedone. Il decadimento delle riserve umane, sotto l'aspetto sia quantitativo che qualitativo, è denunciato da testimonianze indicanti che era sempre piu difficile reclutare le truppe richieste per attuare la politica del governo. Questa difficoltà si manifestò dapprima dopo la disastrosa sconfitta di Canne, e in quelle circostanze ciò non poteva sorprendere e non costi­ tuiva perciò una palese minaccia per il futuro. In quel momento le riser­ ve umane di Roma erano schiacciate dal peso di un duplice tributo. In due disfatte successive, subite in due anni consecutivi, Roma aveva per­ duto prima due legioni e poi l'equivalente di cinque; e, alla luce di que­ ste disfatte ripetute, ora il governo romano cambiava strategia militare. Dopo avere tentato per tre volte, sempre con esito disastroso, di distrug­ gere l'esercito invasore di Annibale in una battaglia campale, il governo romano decise ora di cercare di ostacolarlo evitando altre battaglie e di­ slocando grosse guarnigioni in tutte le regioni dell'Italia peninsulare che si trovavano ancora sotto il controllo romano. Questa politica fabiana imponeva di reclutare forze terrestri di proporzioni inusitate da una po­ polazione rurale italica, le cui riserve umane erano state appena deci­ mate, avendo subito in battaglia perdite senza precedenti. In queste cir­ costanze l'arruolamento di alcuni ragazzi non ancora diciassettenni 3, di 8000 schiavi • e di 6000 uomini condannati per reati capitali o per debiti ' poté essere considerato un provvedimento di emergenza indispensabile, anche se spiacevole, e soltanto temporaneo • . Nel 2 1 4 a. C. i censori dell'anno compilarono, dai loro registri degli iuniores, una lista nera di coloro che non avevano prestato servizio negli ultimi quattro anni senza essere stati iscritti nell'elenco dei malati e senza avere avuto altri motivi legittimi di esonero. Erano piu di 2000, e i cen­ sori li fecero tutti aerarii e inoltre li espulsero dalle rispettive tribu '. Il Senato dette seguito all'azione dei censori inviando tutti gli uomini com-

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presi nella lista a raggiungere le legiones Cannenses in Sicilia per rima­ nervi per tutta la durata della guerra '. All'inizio del 2 1 2 a. C. i consoli informarono il Senato che non potevano trovare abbastanza iuniores per fornire due nuove legiones urbanae e i complementi per le legioni esi­ stenti. Il Senato ordinò ai consoli di perseverare e, per aiutarli, nominò due comitati di tre commissari ciascuno, uno per le parti dell'Ager Ro­ manus comprese entro un raggio di cinquanta miglia da Roma, l'altro per le parti piu distanti. Questi commissari furono incaricati di controllare tutti i maschi non schiavi dei pagi, fora e conciliabula e di reclutare tutti quelli giudicati fisicamente capaci di portare le armi, anche se non erano ancora in età di leva. Essi invitarono i tribuni della plebe a presentare al concilium plebis • una mozione di base alla quale i minorenni che aveva­ no prestato giuramento ai commissari dovevano servire per il numero ri­ chiesto di campagne, alle stesse condizioni che se avessero prestato giu­ ramento all'età di diciott'anni o piu 10 • Queste difficoltà estreme incontrate nel reclutare di continuo nuove leve spiegano come mai, in una data anteriore al 2 1 4 a. C., il censo mini­ mo richiesto per servire nelle forze terrestri fu abbassato - come sem­ bra - da 1 1 ooo assi a 4000 assi Vedremo piu avanti gli effetti econo­ mici e sociali a lungo termine di questo provvedimento Intanto questo espediente destinato ad aumentare le disponibilità umane per le forze terrestri ebbe un effetto negativo, sul piano militare, prima della fine del­ la guerra annibalica. Ogni ex proletario che ora era considerato assiduus e quindi arruolato nelle forze terrestri era un potenziale coscritto che an­ dava perduto per il servizio navale; e durante tutta la guerra Roma man­ tenne in funzione una grossa flotta. È vero che nella seconda fase della duplice guerra le sue squadre navali non avevano le proporzioni di quelle armate ed equipaggiate nella prima fase. Tuttavia il governo romano mantenne la sua potenza navale a un livello che gli permetteva di conser­ vare sul mare una superiorità che Cartagine non poteva sfidare, anche se in questa fase Cartagine poté mandare in Sicilia, come nella fase prece­ dente, e in Ligu ria diversi corpi di spedizione che la flotta romana non ebbe la forza d'intercettare. Anche a questo livello, inadeguato per assi­ curare a Roma il controllo completo dei mari, il reclutamento per la flot­ ta rappresentava un grosso peso per la popolazione italica; e ancora in questa fase, come nella precedente, Roma dovette attingere alle proprie riserve umane per reclutare la maggior parte degli equipaggi, senza poter contare sugli alleati marittimi. Ma ora Roma cominciava a incontrare difficoltà nell'equipaggiare le flotte con i propri mezzi, dopo avere esau­ rito le riserve di potenziali marinai a beneficio delle forze terrestri. Nel 2 1 4 a. C. il Senato autorizzò i consoli a rimediare alla scarsità di 11



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coscritti per la flotta imponendo una soprattassa proporzionale ai citta­ dini della classe di censo piu elevato, dai senatori in giu. La soprattassa era pagata soprattutto sotto forma di schiavi. In base ai rispettivi impo­ nibili patrimoniali, i contribuenti dovevano fornire, armare ed equipag­ giare un dato numero dei loro schiavi privati, destinati alla flotta, e do­ vevano anche fornire loro la paga per un dato numero di mesi, oltre alle razioni per i primi trenta giorni ". Nel reclutamento per il 2 r o a. C. scar­ seggiarono di nuovo gli uomini per integrare gli equipaggi ", e quindi i consoli imposero la stessa soprattassa introdotta nel 2r4 a. C. In quel momento però il pubblico romano si lamentava apertamente delle conti­ nue leve di nuove truppe, ordinate per ripianare le continue perdite in guerra "; in questo stato d'animo, la reimposizione della soprattassa na­ vale provocò un tumulto. Per suggerimento di uno dei consoli, M. Vale­ rio Levino, gli stessi senatori dettero l'esempio offrendo come contribu­ to volontario schiavi per la flotta e denaro e gioielli per la paga 1•. Nel corso della guerra annibalica l'ultimo momento critico per Ro­ ma, ma non il meno grave, fu la primavera del 207 a. C., quando Asdru­ bale calò sull'Italia peninsulare da nord-ovest, dopo aver percorso sulle tracce del fratello la lunga strada via terra dalla Spagna. In questa crisi il governo reclutò gli iuniores di tutte le colonie romane di difesa costiera, tranne Anzio e Ostia, per impiegarli nelle forze campali 11 , benché una delle disposizioni dello statuto delle colonie di questa categoria preve­ desse, come sembra, che essi fossero esonerati dal servizio campale es­ sendo destinati a prestare in sede servizio permanente di guarnigione 18 • Considerato che queste colonie comprendevano non piu di trecento fa­ miglie ciascuna, il ricorso del governo a una riserva umana cos1 esigua ­ per di piu a costo di violare i diritti costituzionali delle colonie - indica quanto fossero scarse a questa data le disponibilità romane. Intanto le disponibilità militari degli alleati non dovevano essersi esaurite fino a un limite cosi estremo, se è vero che all'inizio della guerra annibalica la proporzione tra alleati e Romani, nella popolazione dell'Ita­ lia peninsulare, era di circa due e un dodicesimo a uno 1', e se è anche vero che in un esercito romano il rapporto abituale tra fanteria alleata e fante­ ria romana era di cinque a quattro 20• Le disponibilità degli alleati furono naturalmente esaurite in seguito alle disfatte della Trebbia, del Trasime­ no, di Canne e della Silva Litana e, dopo Canne, dalla secessione di diver­ si Stati alleati dell'Italia sud-orientale. Ma nel corpo dei cittadini roma­ ni quei disastri militari e la secessione di tre municipi campani avranno provocato, in proporzione, un esaurimento non meno grave. La percentuale consueta delle forze dei contingenti alleati restava probabilmente nei limiti del massimo prescritto per ciascun caso nella

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Formula Togatorum, e questo stesso massimo restava probabilmente nei limiti dell'effettiva disponibilità di iuniores di ogni singolo Stato allea­ to 21 • Non è attestato che le autorità militari romane abbiano mai chiesto agli Stati alleati, prima della fine della guerra annibalica, di fornire con­ tingenti superiori al massimo legale 22 • Tuttavia lo sforzo sarà stato di­ stribuito inegualmente tra gli Stati alleati o tra gruppi di essi; e non c'è ragione di supporre che i governi di dodici colonie latine, sulle trenta al­ lora esistenti, affermassero il falso quando, all'inizio del 209 a. C., infor­ marono il governo romano che non erano piu in grado di reclutare o pa­ gare nuove leve 23 • In questa occasione il portavoce fregellate delle altre diciotto colonie latine dichiarò a loro nome che esse, da parte loro, ave­ vano pronti tutti i soldati dei complementi dovuti secondo i termini del­ la Formula Togatorum e che erano disposte a fornirne altri se ne occor­ revano di piu 24 • Ma non si può dire che la loro testimonianza sulle proprie risorse e le proprie intenzioni invalidasse quella delle altre dodici conso­ relle, poiché a quella data queste ultime potevano realmente trovarsi in difficoltà piu serie ". Il racconto dell'episodio in Livio induce a supporre che i superstiti del contingente alleato dell'esercito di Cn. Fulvio Centumalo, che erano stati incorporati nelle legiones Cannenses, provenissero in gran parte da questi dodici Stati 20 ; e, se furono privati di quei loro cittadini per tutta la durata della guerra, oltre ad aver subito in precedenza la loro parte di perdite a Ordona nel 2 1 0 a. C., questi Stati avranno certamente trovato difficoltà a fornire ancora i contingenti richiesti, anche se in proporzione la richiesta non toccava limiti estremi come quella imposta ai cittadini ro­ mani. In questi Stati la scarsità di uomini poteva dipendere anche da una seconda causa che, se operò realmente, dovette agire prima del 216 a. C., ma probabilmente ebbe effetti sempre piu sensibili a partire da quella data. Rispetto a tutte le colonie latine non recalcitranti ad eccezione di Segni e Norma - e anzi, rispetto anche alla maggioranza degli alleati non latini di Roma - tutti questi dodici Stati, tranne Cales, erano situati re­ lativamente vicino a Roma n, e sembra probabile che nel 209 a. C. la loro consistenza demografica si fosse esaurita, oltre che per le perdite in guer­ ra, anche in seguito all'emigrazione verso la città sovrana ". Roma era sta­ ta la capitale politica di tutta l'Italia peninsulare a partire dal 266 a. C., quando era stata completata l'unificazione politica della penisola sotto l'egemonia romana. Roma era stata la capitale economica oltre che poli­ tica dell'Italia centrale a partire dal 216 a. C., quando Capua aveva di­ sertato ed era stata quindi isolata dall'Italia centrale mediante un fron­ te militare. Da allora, la popolazione era stata attirata verso Roma dal­ l'industria degli armamenti sviluppatasi in tempo di guerra "; e a quella

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data un cittadino di qualsiasi città latina poteva diventare cittadino ro­ mano se emigrava a Roma o in qualche altra parte dell' Ager Romanus con l'intenzione di stabilirvi il suo domicilio permanente, e se poi si fa­ ceva iscrivere come cittadino romano in occasione del censimento suc­ cessivo Almeno una delle dodici recalcitranti colonie latine suburbicarie, cioè Narni, nel 1 99 a. C. era evidentemente spopolata. Quell'anno Narni chie­ se e ottenne che il governo romano rinforzasse la sua cittadinanza, poiché i suoi cittadini erano in numero inferiore a quello statutario Una richie­ sta contemporanea di Cosa, una delle colonie latine non recalcitranti, fu respinta 32, e venne accolta solo quando fu ripresentata due anni dopo 33 • Possiamo dedurne che nel 1 9 9 a. C. le ragioni di Narni erano palesemen­ te irrefutabili, mentre non lo erano quelle di Cosa; da ciò possiamo inol­ tre arguire che già nel 209 a. C. esisteva un'analoga differenza fra le situa­ zioni delle due colonie. Possiamo dedurne, di fatto, che nel 1 99 a. C. il governo romano ammise implicitamente che l'atteggiamento recalcitran­ te delle dodici colonie nel 209 a. C., dopo tutto, non era stato irragione­ vole o biasimevole come allora era sembrato al giudizio romano 34 • Non sorprende che Roma si trovasse in simili difficoltà nel raccoglie­ re tra i suoi cittadini e tra gli alleati le enormi forze militari e navali di cui ebbe bisogno finché durò la guerra annibalica. Nei successivi tren­ tatre anni la perdurante scarsezza di risorse umane per l'esercito e per la flotta era il sintomo di una malattia demografica e sociale piu seria e piu profonda; infatti, benché la leva media annuale restasse quasi altrettan­ to numerosa di prima ", ora il numero medio dei soldati e degli equipaggi tenuti contemporaneamente in servizio era soltanto la metà circa del nu­ mero medio degli uomini che erano stati in servizio negli anni 2 1 8-20 1 a. C. Un indizio della difficoltà di reclutare leve regolari è il ricorso alla co­ scrizione di milites tumultuarii, ovvero subitarii. È vero che in questo contesto non si può attribuire alcun significato alla coscrizione di 2000 milites tumultuarii nel 1 8 9 a. C., in seguito alla notizia che a Sezze schiavi africani stavano per fare un putsch 37 • In questo caso si pensò giustamen­ te che la tempestività fosse la cosa piu importante. Anche se fossero sta­ te disponibili riserve umane illimitate per una leva regolare, le forze rac­ colte con questa procedura sarebbero arrivate troppo tardi. La stessa considerazione vale per i milites tumultuarii reclutati per fronteggiare supposte situazioni d'emergenza in alcuni punti della frontiera terrestre italiana nel 2 0 1 34 , nel 1 9 3 , nel 1 8 1 e nel 1 7 8 a. C. ". In questi quattro casi, a differenza che nel caso di Sezze nel 1 98 a. C., la gravità della si­ tuazione fu evidentemente sopravvalutata; ma, se i fatti fossero stati in 30 .

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realtà come s'immaginava, anche qui la tempestività sarebbe stata l'a­ spetto essenziale del problema militare; anche qui, dunque, il recluta­ mento di milites tumultuarii non dimostra che sarebbe stato impossibile raccogliere leve regolari adeguate se si fosse pensato di avere tempo suf­ ficiente a disposizione. Inoltre, nel 1 8 1 a. C., c'era qualche giustificazio­ ne speciale per prendere misure d'emergenza onde poter correre in aiu­ to dell'esercito consolare di L. Emilio Paolo, quando fu riferito che esso si trovava in difficoltà nelle sue operazioni contro gli Ingauni. Degli altri due eserciti consolari sotto le armi in quel momento, uno era stato con­ cesso al governatore eletto della Sardegna e della Corsica, mentre l'altro era andato a logorarsi in una campagna in Istria. Non esisteva quindi un esercito regolare da mandare in soccorso a Paolo, e intanto i consoli del corrente anno 1 8 1 a. C. avevano riferito d'incontrare difficoltà nel reclu­ '° tamento dei due nuovi eserciti consolari a causa di un'epidemia . Nel 1 74 a. C., ancora, un'epidemia rese difficile reclutare il numero di trup­ pe autorizzate dal Senato per quell'anno ••. Quindi delle difficoltà degli anni 1 8 1 e 1 74 a. C. non possiamo tener conto, dato che furono ecce­ zionali. Né è lecito considerare una prova della mancanza di riserve umane l'azione che, come è riferito, fu compiuta dal governatore eletto della Spagna Citeriore per il 1 9 3 a. C. Secondo Valerio Anziate nel viaggio di andata questo ufficiale fece una deviazione per reclutare in Sicilia sud­ diti provinciali di Roma e per arruolare nuovamente sbandati dell'eser­ cito africano di Scipione che erano ancora liberi in territorio cartaginese; inoltre, dopo essere arrivato nella sua provincia, egli vi fece un ulteriore reclutamento tra la popolazione locale assoggettata. A quanto ci è rife­ rito, il governatore eletto era stato ridotto a questi espedienti da una de­ cisione del Senato. Egli aveva chiesto di poter condurre con sé una super­ legione di forze regolari; il Senato aveva respinto la richiesta, non consi­ derandola sufficientemente motivata dalla situazione della sua provincia, ma per contentarlo lo aveva autorizzato a reclutare milites tumultuarii .,. Pertanto le leve non ortodosse arruolate da questo ufficiale non provano che gli sarebbe stato impossibile raccogliere truppe regolari se la sua pri­ mitiva richiesta fosse apparsa ragionevole ai senatori. Piu significativo è che nel 1 9 2 a. C. una voce infondata, secondo cui la flotta seleucidica si preparava a calare sulla Sicilia, spaventò il Senato in­ ducendolo a prendere alcune misure di emergenza, una delle quali consi­ steva nell'autorizzare il governatore della Sicilia a rafforzare le sue trup­ pe romane chiamando alle armi una forza di difesa costiera formata da milites tumultuarii siciliani, fino alla cifra di 1 2 ooo fanti e 400 cavalie­ ri Un'altra leva di 2000 fanti e 1 00 cavalieri siciliani fu autorizzata nel 42

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1 9 0 a. C. ". Quando la Sicilia era stata realmente invasa dai Cartaginesi durante la guerra annibalica, il governo romano aveva cacciato gli inva­ sori con truppe italiche, e finché le ostilità nell'isola non furono cessate esso non pensò di arruolare Siciliani Questi provvedimenti forse indi­ cano veramente che in Italia le riserve umane scarseggiavano, dato che in questo caso non ci fu sorpresa repentina né epidemia. Nel 1 9 1 a. C. il console che doveva assumere il comando in Grecia contro il corpo di spedizione seleucidico che si trovava là e contro gli Etoli fu autorizzato dal Senato a integrare le truppe romane e le trup­ pe degli alleati italici già dislocate ad est del Canale d'Otranto « accet­ tando » (eufemismo per « esigendo») truppe dagli alleati di Roma, fino a un massimo di 5000 uomini se ciò fosse stato necessario Nel 1 8 9 a. C. nella Spagna Ulteriore il governatore uscente, L. Emilio Paolo, rimediò alle perdite da lui subite in precedenza nelle operazioni contro i Lusita­ ni reclutando nella sua provincia di propria iniziativa, senza chiedere il permesso al Senato, un exercitus tumultuarius ". Nel 1 70 a. C., nell'Illi­ rico, allo stesso espediente fece ricorso con opposti risultati Appio Clau­ dio, comandante di un corpo di spedizione locale. Claudio aumentò il suo distaccamento di 4000 regolari italici reclutando un numero doppio di soldati illirici; questa forza mista subi poi una grave sconfitta quando at­ taccò la guarnigione di Perseo a Uscana ". Nel 1 9 1 a. C. i cittadini romani delle colonie di difesa costiera, i cui iuniores erano stati costretti a prestare servizio di terra nel 207 a. C. "', fu­ rono requisiti per il servizio navale. Quando i coloni si appellarono con­ tro le autorità navali ai tribuni della plebe, questi riferirono la loro pro­ testa al Senato, che la respinse all'unanimità ". Nel prendere questa de­ cisione il Senato non imponeva soltanto ai coloni una corvée addizionale che, oltre ad essere onerosa, probabilmente era anche incostituzionale; tra l'altro esso abbassava anche lo status dei coloni. Il servizio nelle for­ ze di terra, per quanto gravoso, era almeno considerato sempre onore­ vole. Era un privilegio degli assidui, ai quali naturalmente appartenevano i Romani delle colonie di difesa costiera. Invece il reclutamento per le forze navali era come un marchio che faceva dei coscritti cittadini di se­ conda categoria. In origine questo servizio era stato limitato ai cittadini romani che erano proletarii nati liberi; durante la guerra annibalica era stato esteso, almeno in due occasioni, a schiavi che i loro padroni erano stati obbligati a fornire o avevano messo volontariamente a disposizione; e proprio in quest'anno 1 9 1 a. C., quando fu imposto a coloni romani, esso veniva esteso ai liberti romani 52 • Il servizio navale era pertanto cosi impopolare che, durante la seconda guerra romano-macedone, coscritti della flotta arrivarono a passare al nemico, sperando che nel suo esercito 46



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avrebbero trovato un impiego piu onorevole • Ignorando tutte queste considerazioni, il Senato romano, quando prese la sua decisione sui co­ loni della guardia costiera, o ammetteva di essere in preda al panico o confessava che Roma scarseggiava di nuovo di personale per la flotta. Non occorre che in questo capitolo ci soffermiamo ancora sulle fonti di reclutamento del personale navale nella guerra romano-seleucidica e nella terza guerra romano-macedone, dato che ne riparleremo altrove in questo volume Un segno anche piu chiaro della situazione postanniba­ lica delle riserve umane e del morale dei Romani è costituito dalle diffi­ coltà che il governo incontrò durante la terza guerra romano-macedone sia nel reclutare truppe, sia nel tenerle sotto le armi dopo averle recluta­ te. Nel 1 98 a. C., durante la seconda guerra romano-macedone, Flami­ nino aveva arruolato veterani delle campagne spagnole e africane della guerra annibalica senza che ciò provocasse proteste, per quanto ne sap­ piamo ". Anche nella leva per il 1 7 1 a. C. uno dei consoli volle arruolare veterani oltre che tirones per affrontare il suo temibile rivale. Ventitre primi centurioni (primi pili) veterani da lui richiamati si appellarono ai tribuni della plebe contro la chiamata, e la questione fu discussa in una contio davanti ai tribuni. Secondo il racconto riferito da Livio ", uno de­ gli appellanti, Sp. Ligustino, fece allora un voltafaccia, e con un discorso cosf eloquente da trascinare con sé i suoi camerati. Essi ritirarono la ri­ chiesta di esonero 57 e anche la successiva richiesta modilicata secondo cui, se arruolati, non dovevano ricevere un grado inferiore a quello occu­ pato nei periodi di servizio precedenti. Senza che occorra accertare se la questione si concluse o no con questo lieto fine liviano, possiamo ritenere certo che i ventitre primi centurioni si appellarono, e un atto simile, da parte di uomini del loro rango, fu qualche cosa di straordinario ". All'inizio del 169 a. C., dopo due campagne in cui Roma non aveva fatto progressi verso la vittoria, il Senato dovette togliere ai nuovi con­ soli il compito di arruolare nuove leve e affidarlo a due dei nuovi pretori, dato che i consoli rilasciavano i recalcitranti per timore di cadere nell'im­ popolarità 50 • In undici giorni i pretori riuscirono ad arruolare i comple­ menti richiesti per le legioni esistenti, oltre a quattro legioni nuove. Anche se si tiene conto dell'usura cui a questa data erano state sotto­ poste per quasi mezzo secolo le riserve umane della popolazione rurale italica, non sorprende che nel 169 a. C. un ufficiale reclutatore onesto e deciso potesse raccogliere truppe cosf numerose. Nel 169 a. C. i fronti spagnoli erano tranquilli ormai da dieci anni, e un periodo uguale era pas­ sato da quando Roma aveva spezzato la resistenza nell'Appennino ligu­ re. Ora la maggiore difficoltà era costituita dalla diffusa renitenza al ser­ vizio militare, e questo stato d'animo non era né irragionevole né biasi54

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mevole. I contadini italici, romani e alleati, si opponevano agli inces­ santi richiami alle armi che impedivano loro di continuare a trarre so­ stentamento dalla loro occupazione tradizionale, l'agricoltura di sussi­ stenza praticata su piccola scala. Essi erano tanto piu recalcitranti in quanto, dopo la conclusione vittoriosa della guerra annibalica nel 201 a. C., il governo romano continuava a chiamarli alle armi non per difen­ dere le loro case e i loro paesi, né per salvare lo Stato romano e la Fede­ razione romana, ma per conservare ed ampliare un impero. Non sor­ prende che queste reclute svogliate dessero prove mediocri quando era­ no trascinate in azione; o che fossero demoralizzate, vedendo i cattivi esempi offerti adesso da ufficiali e comandanti provenienti da una nobil­ tà di cui un tempo i contadini avevano accettato volentieri la guida perché le sue virtu caratteristiche imponevano loro il rispetto. Nel 1 5 1 a. C. la popolazione rurale non considerava soltanto insoste­ nibile il peso del servizio militare: essa aveva anche cessato di credere all'imparzialità e all'onestà degli ufficiali reclutatori. I consoli erano ac­ cusati di condurre il reclutamento in modo scorretto e di riservare ai loro amici i servizi meno pesanti. Quindi nel 1 5 1 a. C., quando il governo re­ spinse le condizioni di pace con Numanzia fissate dal console M. Claudio Marcello, esso si trovò costretto a introdurre un'innovazione. Le reclu­ te furono prese per sorteggio invece di essere scelte "°. Tuttavia la leva del 1 40 a. C. incontrò di nuovo resistenza ". A questa data il numero, già elevatissimo, di contadini-proprietari romani e alleati legalmente obbligati a servire nelle forze terrestri era in diminuzione a causa del servizio a lungo termine che si doveva prestare in zone operative lontane. Il primo uomo politico romano che affrontò questo problema demografico, con i suoi critici effetti politici, e intro­ dusse leggi per risolverlo, fu Tiberio Gracco; e nell'intraprendere questa azione, nel 133 a. C., Gracco fece precipitare una rivoluzione di cento anni. Uno dei censori del 1 3 1 a. C., Q. Cecilio Metello, presentò una mozione che obbligava tutti i cittadini romani maschi a sposarsi per procreare figli •2 • A questa data la sempre piu sensibile scarsità di riserve umane e la crescente riluttanza della ridotta popolazione rurale a presta­ re servizio oltremare contribuivano insieme a provocare un crollo delle istituzioni militari che avevano permesso a Roma di costruire e mante­ nere la Federazione in Italia e l'impero fuori d'Italia. Anche la crescente importanza della funzione dei volontari indica che le istituzioni militari tradizionali di Roma erano sempre meno adeguate a fronteggiare gli impegni militari correnti. Al tempo di Polibio, negli accampamenti un alloggio speciale era riservato a volontari che serviva­ no l'ufficiale comandante, dietro suo invito Accettare i servizi di sol01



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dati volontari e, a maggior ragione, dipendere da essi era qualche cosa di estraneo all'ideologia delle città-stato. In sistemi di questo tipo il servi­ zio militare era considerato un dovere che i cittadini delle classi piu agia­ te erano obbligati a compiere, e un privilegio al quale i loro concittadini piu indigenti non erano ammessi. Questo modo di vedere escludeva che vi fossero volontari cittadini; e, di fatto, la prima schiera di volontari che risulta reclutata dal governo romano .. fu quella dei volontari-schiavi (volones) che lo Stato romano comprò da proprietari privati ed arruolò nel momento critico dopo la disfatta di Canne 65 • Il contingente successi­ vo fu però quello costituito dai 6000 cittadini romani scarcerati nella stessa occasione per completare gli effettivi delle quattro nuove legioni che in quel momento si reclutavano con grande difficoltà. Questi primi due contingenti di volontari nell'esercito romano furo­ no spinti a presentarsi da un motivo semplice e immediato. Con ciò essi diventavano soldati romani invece di essere schiavi e carcerati; e il sol­ dato schiavo, essendo ora proprietà pubblica e non privata, se si compor­ tava bene sul campo si aspettava di essere emancipato dallo Stato e quin­ di di diventare automaticamente cittadino romano. Nel 2 1 4 a. C. il co­ mandante dei volones, Ti. Sempronio Gracco, ricevette dal Senato l'au­ torità di emanciparli a sua discrezione; e, dopo un successo militare, egli li liberò tutti, compresi 4000 che in battaglia avevano fornito una prova talmente mediocre che dapprima non osarono tornare all'accampamen­ to ... Tutto il contingente si disperse nel 2 1 2 a. C., dopo essere caduto in un'imboscata e avere subito una grave sconfitta Gli uomini furono poi rastrellati .. e, a quanto pare, congedati (delle due legioni in cui avevano prestato servizio non si sente piu parlare) .. Tuttavia, all'espediente di reclutare volontari schiavi si fece nuovamente ricorso nel 207 a. C., alla vigilia dell'invasione della penisola da parte di Asdrubale Il primo contingente a noi noto di volontari liberi non colpiti da con­ danne è quello formato dai 7000 e piu Romani e alleati raccolti nel 20 5 a. C. da Scipione nelle regioni montuose dell'Umbria, della Sabina e del­ l'Italia centrale 11 • Questi non avevano da guadagnare la libertà persona­ le; dato che provenivano tutti da distretti poveri, possiamo supporre che Scipione li avesse attirati con la prospettiva di fare bottino. Egli pro­ poneva di condurli a invadere il territorio cartaginese in Africa, un pae­ se con un'agricoltura ricca, allora coltivato con metodi moderni che ne incrementavano la produttività. La prospettiva di fare bottino sarà stata anche l'incentivo che indusse vecchi soldati ad offrirsi volontari per le guerre postannibaliche condotte da Roma nel Levante: per esempio nel nel 1 90 a. C. per 200 a. C. per la seconda guerra romano-macedone la guerra in Asia contro Antioco III "; nel 1 7 1 a. C. per la terza guerra 67



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romano-macedone 75 • In quest'ultima occasione i volontari furono nu­ merosi. Essi si presentarono perché avevano visto tornare ricchi gli uo­ mini che avevano combattuto nelle due precedenti guerre del Levante ". Essi non prevedevano che questa guerra sarebbe stata meno piacevole della guerra asiatica e che stavolta sarebbero stati fermati per tre anni al­ le porte della Macedonia prima di avvicinarsi al bottino che cercavano. I volontari che erano veterani di Scipione - anche quelli inviati in Macedonia nel 200 a. C., che erano «volontari » solo ufficialmente - era­ no senza dubbio combattenti migliori dei volones loro predecessori. C'era tuttavia un aspetto che distingueva tutti i volontari, quale che fos­ se la loro origine, dai coscritti di vecchio tipo, che essi cominciavano a so­ stituire come centro motore della macchina militare romana. I coscritti erano fedeli alla patria, i volontari al capo. I volontari si aspettavano che il capo facesse la loro fortuna; e la speranza di fare fortuna era l'attratti­ va che li aveva indotti a rischiare la vita ". Quando, nel 2 r 4 a. C., i vo­ lones furono emancipati da Gracco su autorizzazione del Senato, sem­ bra che essi si considerassero liberti e clienti personali di Gracco, non del­ lo Stato romano, benché naturalmente Gracco, nell'emanciparli, avesse agito non da individuo privato ma nelle sue funzioni pubbliche di uffi.­ ciale dello Stato, eletto dal Popolo romano. Quando Gracco fu ucciso, nella battaglia che vide la sua sconfitta, «il suo esercito di volones, che aveva servito fedelmente finché egli era stato vivo, ora disertò come se la sua morte lo avesse automaticamente esonerato dai suoi obblighi mi­ litari» ". In altre parole, esso si considerava e si comportava come se fos­ se stato un esercito privato di Gracco. I volontari di Scipione, da parte loro, potevano essere scusati se si consideravano un suo esercito priva­ to, dato che il Senato aveva lasciato all'iniziativa di Scipione il recluta­ mento di un corpo di spedizione da condurre in Africa, dopo che esso si era lavato le mani dalla responsabilità di trovare le truppe necessarie. I 5 000 uomini, romani e alleati, che avevano già servito sotto di lui e che nel r 90 a. C. ,. si offrirono di servire nuovamente con lui erano certamen­ te volontari autentici, e non coscritti camuffati come i volontari scipionici che nel 200 a. C. erano stati inviati in Macedonia a prestare servizio sot­ to un oscuro comandante col quale non avevano rapporti personali. Nel vecchio esercito romano di coscritti-contadini l'unico requisito di un comandante era che fosse membro di una gens nobile e che non mancasse delle virtu caratteristiche della sua classe. Nel nuovo esercito romano il requisito essenziale di un comandante era che fosse un capo « carismatico». Sembra che Scipione cercasse deliberatamente di crearsi una reputazione in questo senso '°; e in realtà essa era necessaria per un comandante che voleva mantenere la sua autorità anche su truppe rego-

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lari, quando esse erano distaccate per un periodo lungo e ininterrotto in zone d'operazioni d'oltremare, lontano dai legami domestici e dai rap­ porti di fedeltà e dalle inibizioni che vi erano connessi. Come un doma­ tore di leoni, il comandante di un esercito di déracinés non poteva per­ mettersi neppure per un momento d'interrompere la corrente del suo «magnetismo personale». Appena Gracco fu ucciso, il suo esercito di­ ventò una massa tumultuante; appena Scipione cadde seriamente amma­ lato e si sparse la falsa notizia della sua morte, come accadde in Spagna nel 206 a. C. 81 , i suoi soldati sempre vittoriosi si ammutinarono e i suoi fedeli alleati spagnoli si ribellarono, benché tre anni prima lo avessero imbarazzato acclamandolo re '2 • Appena si seppe che Scipione guariva, gli ammutinati e i ribelli tornarono all'obbedienza. Il suo omonimo della seconda generazione dopo di lui, l'Emiliano, era un uomo di carattere piu forte. Aveva una personalità meno appariscente e mancava del fa­ scino del nonno adottivo. In lui di fatto si riconosceva il figlio del padre vero, Paolo. Eppure anche Scipione Emiliano non avrebbe potuto ren­ dere a Roma servigi militari cosi: eminenti se non avesse stabilito un rap­ porto personale scipionico con i compagni d'arme. Nel 151 a. C., quan­ do il pubblico in Italia, come l'esercito sul campo, era scoraggiato dai cat­ tivi risultati ottenuti dalle forze romane in Spagna, e il servizio in questa regione era sfuggito dai Romani di tutte le classi, compresa quella i cui giovani un tempo si disputavano ardentemente il tribunato militare, l'Emiliano risollevò il morale dei Romani scegliendo volontariamente di servire in quel settore quanto mai spiacevole e inducendo cosi: amici ed ammiratori a seguire il suo esempio Nel 147 a. C., quando l'Emiliano era stato eletto console per assumere il comando in Africa, e ancora nel 1 34 a. C., quando era stato eletto console per assumere il comando nella Spagna Citeriore, nel nono anno della guerra romano-numantina e tre anni dopo l'ignominiosa capitolazione di un esercito romano comandato dal famigerato Mancino "', egli si ispirò alla condotta seguita dal primo Africano nel 2 0 5 a. C. Anche Scipione Emiliano fece ricorso ai volontari e anche lui vinse, con essi, le guerre che era stato incaricato di conclu­ dere 15 . Il primo Africano non pensava affatto a sfruttare la sua popolarità per crearsi un potere autocratico personale. Egli non coltivò la sua reputa­ zione di capo « carismatico » oltre il punto in cui ciò gli alienò i suoi pari e provocò infine la sua rovina politica ,.. In sostanza Scipione fu un vero figlio della sua classe e del suo tempo, e le sue opinioni e ambizioni resta­ rono limitate nell'orizzonte della nobiltà romana contemporanea. Inoltre la sua abilità militare e il suo « magnetismo personale», come quelli di Pompeo, non erano accompagnati dall'intuito politico; egli si lasciava 13



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sfuggire di mano anche opportunità politiche legittime, quando gli si presentavano "'. Scipione Emiliano visse in un'epoca dalle vedute meno ristrette e piu rivoluzionaria; era contemporaneo e cognato di Tiberio Gracco. Nel suo caso l'integrità del carattere era per la classe di governo romana una garanzia che egli non nutriva ambizioni politiche illegitti­ me ,., e il Senato ebbe meno giustificazioni per trattarlo altrettanto male, come fece ••. Tuttavia al tempo del secondo Catone, quando la rivoluzione romana dei cento anni - involontariamente precipitata dal cognato del­ l'Emiliano - arrivò infine a una conclusione, la persecuzione implacabile del primo Catone contro il primo Africano si era legittimata retrospetti­ vamente. Catone Maggiore aveva giustamente presagito che per la clas­ se cli governo romana la carriera del primo Africano era minacciosa; e, prima che la carriera del secondo Africano trovasse la sua fine prematura, era già cominciata la carriera di Gaio Mario 90• Se il contadino-soldato ita­ lico fu la vittima dell'incessante espansione del dominio di Roma ", il volontario italico déraciné fu il vendicatore di questa vittima. La serie cli tribolazioni che aveva afflitto il ceto rurale italico aveva preparato i suoi campi abbandonati per la semina dei denti del drago. 8. Le conseguenze economiche, per la penisola, dello sradicamento della classe rurale italica.

Nel capitolo precedente abbiamo dato qualche notizia sulla devasta­ zione dell'Italia sud-orientale e sulla politica della « terra bruciata» per­ seguita dalle autorità militari romane nell'Italia centro-meridionale du­ rante la seconda fase della duplice guerra romano-cartaginese. Nei prece­ denti paragrafi di questo capitolo ci siamo occupati del logoramento del­ le riserve umane della popolazione rurale dell'Italia peninsulare, non solo durante la stessa guerra annibalica 1 , ma anche in seguito; questo peso si faceva sentire non solo nelle gravi perdite umane, ma anche nella lunghezza dei periodi di servizio che i superstiti erano costretti a presta­ re quando erano assegnati a lontani settori d'oltremare. Queste moltepli­ ci tribolazioni differivano per qualità e per gravità, ma ricadevano tut­ te sulla popolazione rurale italica. È evidente che, sommandosi, rappre­ sentavano un onere schiacciante '. Questo logoramento della classe rurale non poteva non avere effetti distruttivi su tutto l'insieme del regime economico e sociale esistente nel­ la penisola, dato che fin allora la classe rurale vi aveva avuto una funzio­ ne essenziale. La popolazione umana di un paese, come la sua popolazio­ ne animale non umana e la sua flora, fa parte della «veste vivente» 3 che

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]a vita, fin dal suo primo apparire sulla faccia del nostro pianeta, ha in­ tessuto attorno alla superficie del globo. Nelle campagne dell'Italia pe­ n insulare durante gli anni 2 18-133 a. C., i tessuti umani nel contesto di questa « veste vivente» furono lacerati; e, poiché l'uomo ha esercitato un ampio e crescente controllo sul resto della fauna e sulla flora terrestre a partire da un'età remota che risale almeno al Paleolitico superiore, era inevitabile che questa drastica alterazione delle condizioni tradizionali della locale vita umana producesse effetti altrettanto drastici sulle condi­ zioni della vita non umana nella stessa area. Nell'Italia peninsulare, du­ rante e dopo la guerra annibalica, l'uomo preannibalico e le sue opere furono sradicati. Con un'immagine presa dalla flora terrestre, fu come se la penisola italiana fosse stata devastata da un uragano che avesse divel­ to gli alberi, e poi da un incendio che avesse bruciato gli arbusti e le erbe. Il sostrato inanimato del paesaggio, al quale normalmente la vita aderi­ sce, era stato messo a nudo. E siccome la vita, come il resto della natura, ha orrore del vuoto, questa desolazione invitava un'altra o altre forme di vita a prendere possesso del suolo che era stato temporaneamente messo a nudo dalla spietata spoliazione della particolare « veste viven­ te » che prima aveva ricoperto la penisola. Nel riempire i vuoti fa natura sembra disporre di risorse inesauribili; e la sua riserva di « vesti viventi» di ricambio per coprire la nudità della terra è tanto varia quanto vasta. Al livello umano la trama della vita economica e sociale è intrecciata in numerosi modelli e tessuti diversi; e la vita agricola è soltanto una tra le numerose alternative possibili. Guardando retrospettivamente, nel ventesimo secolo dell'era cristia­ na questa economia e società contadina appare antica nelle parti del mon­ do in cui ancora sussiste ( ed essa rappresenta tuttora la vita e il mezzo di sostentamento per la maggioranza della razza umana). Non appariva meno antica nell'Italia peninsulare tra la fine del III e l'inizio del II se­ colo a. C., quando era in procinto di esservi liquidata. In realtà nel vec­ chio mondo il sistema rurale risale al tempo della rivoluzione neolitica che trasformò le condizioni della vita umana mediante l'addomestica­ mento di piante e animali. Rispetto allo spazio di una singola generazio­ ne umana, o anche a tutto il periodo della civiltà, gli inizi della cultura neolitica appaiono antichi : e non solo nell'Asia sud-occidentale e in Egit­ to, dove sembra che questo tipo di cultura umana abbia avuto origine, ma anche in Italia, dove essa si stabili almeno nel terzo millennio a. C. D'al­ tra parte, se commisurata all'età della razza umana o all'età della vita sulla terra, la cultura introdotta dalla rivoluzione neolitica sembra una cosa di ieri; e, in questa prospettiva, non sorprende che una struttura cosf recente si sia rivelata effimera. Nel ventesimo secolo dell'era cristiana

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questo modo di vita e questo mezzo di sussistenza sono in declino, e ven­ gono superati in tutto il mondo cosi ampiamente e rapidamente che se ne può già prevedere l'estinzione. Nell'Italia peninsulare essi declinarono e furono superati nel secolo che cominciò con lo scoppio della seconda fase della guerra romano-cartaginese, nel 218 a. C. '; e tutti gli sforzi com­ piuti dai riformatori graccani per restaurarli furono inefficaci. Le componenti chiave dell'economia rurale sono ben note. In essa l'a­ gricoltura e l'allevamento sono i mezzi principali di sussistenza. L'unità normale di lavoro è la singola famiglia, e l'unità normale di gestione è quindi la quantità di terra coltivabile e di bestiame che una singola fami­ glia può curare. Il prodotto è consumato dalla stessa famiglia produttri­ ce, non scambiato con beni prodotti da altri. In questo tipo misto di pro­ duzione l'equilibrio tra agricoltura e allevamento oscilla a seconda del carattere del terreno e del clima locale e anche a seconda del tempera­ mento e delle abitudini della comunità locale. Si può supporre che delle due componenti l'agricoltura sia la piu antica. Per lo meno è difficile ve­ dere come l'uomo del Neolitico potesse addomesticare ungulati selvati­ ci, piu di quanto il suo predecessore nel Paleolitico potesse avere addo­ mesticato cani selvatici, senza prima disporre di cibi con cui potesse in­ durre un animale selvatico a sottomettersi a lui; ed è difficile che si po­ tesse disporre della necessaria eccedenza dei cereali di cui il contadino si ciba insieme al suo bestiame prima che l'uomo avesse imparato a colti­ varli invece di raccoglierli semplicemente allo stato selvatico. Questa congettura resterà meramente ipotetica a meno che e finché il progresso dell'archeologia non getti nuova luce sui rapporti originari tra alleva­ mento e agricoltura. Nel periodo su cui attualmente l'archeologia e la documentazione scritta possono gettare luce, i due rami dell'economia rurale sono già praticati insieme. Quanto all'equilibrio esistente tra essi nell'Italia peninsulare, pos­ siamo supporre che nelle zone montuose l'allevamento avesse sempre avuto una parte maggiore di quella che aveva nelle pianure; e che nelle pianure col passare del tempo esso avesse gradualmente ceduto il pri­ mato all'agricoltura, di pari passo con l'aumento della densità della po­ polazione, aumento che a quanto pare era stato continuo fino all'inizio della duplice guerra romano-cartaginese, secondo i dati che abbiamo cer­ cato di ricavare interpretando le cifre superstiti dei censimenti romani 5 • Per l'essenziale, tuttavia, in tutta l'Italia peninsulare l'economia rurale fu uniforme fino all'inizio della fase annibalica della duplice guerra. Fino a questa data, nelle zone montuose e nelle pianure l'economia rappresen­ tava una combinazione di agricoltura e allevamento, praticati da piccole unità familiari e producenti per la sussistenza, non per la vendita.

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Questa generale versione italica della struttura tradizionale compor� rava due ovvi fattori di debolezza. In primo luogo non rappresentava l'uso piu produttivo del territorio preso nel suo insieme. In secondo luo­ go rendeva in misura diversa agli abitanti di regioni diverse. In confron­ to agli agricoltori delle pianure, quelli delle montagne vivevano povera­ mente. Nell'età anteriore alla conquista romana questa diseguaglianza economica provocava la continua discesa dei montanari verso le pianure. Questi scorridori, invasori, conquistatori e coloni provenienti dalle mon­ tagne cercavano di risolvere con mezzi militari un loro problema econo­ mico; e senza dubbio gli emigrati lo risolvevano, per loro conto, quando le loro imprese militari avevano successo. Ma questa non era una solu­ zione per la popolazione rurale che restava sulle montagne, il cui proble­ ma non fu neppure risolto dalla conquista romana e dalla pacificazio­ ne della penisola. L'unificazione politica della penisola sotto gli auspici di Roma creò sf, per la prima volta nella storia del paese, la possibilità di riorganizzarne l'economia su linee economicamente razionali, cioè intese ad elevare la produttività di tutto il paese al piu alto livello raggiungibi­ le mediante l'uso delle tecniche allora piu efficaci; all'inizio, tuttavia, questa restò soltanto una possibilità teorica. Gli effetti esercitati dalla conquista romana sul sistema economico e sociale tradizionale della penisola furono troppo deboli per distruggerlo e preparare quindi il terreno per qualche sistema diverso. Gli effetti eco­ nomici e sociali della conquista romana furono in realtà piu conservatori che rivoluzionari. Naturalmente questa conquista non fu compiuta senza convulsioni e sconvolgimenti. Numerosi mutamenti furono introdotti nello status politico delle varie centinaia di Stati già indipendenti e so­ vrani in cui la penisola era suddivisa. Vi furono anche espropriazioni di territori • e, in seguito ad esse, la popolazione precedente fu espulsa o an­ che parzialmente o completamente sterminata. Il trattamento inflitto agli Aurunci e agli Equi, per esempio ha lasciato macchie oscure nelle memorie di Roma. Tuttavia gli atti arbitrari e violenti compiuti dai Ro­ mani qua e là nella penisola non rovesciarono il regime economico e so­ ciale vigente. Quando un territorio cambiava possesso, il suo regime eco­ nomico e sociale restava quello di prima. I precedenti possessori veniva­ no sostituiti da un numero all'incirca uguale di nuovi agricoltori, instal­ lati là per formare una tribu supplementare romana o una colonia latina; e questi nuovi occupanti usavano la terra piu o meno allo stesso modo dei predecessori, in appezzamenti piu o meno uguali. Quanto alle comunità rurali non romane che i Romani soggiogarono ma per il resto lasciarono indisturbate - ed erano la grande maggioranza -, per esse la conquista ebbe l'effetto di perpetuare la situazione economica e sociale esistente. 7

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L'unificazione politica della penisola da parte di Roma portò con sé l'im­ posizione della pace. Entro le frontiere della sua Federazione, Roma non tollerava attacchi o guerre tra gli Stati né rivoluzioni interne '. Se avve­ nivano disordini di questo genere, Roma li reprimeva prontamente e vi­ gorosamente. Per conseguenza, a partire dalla conquista romana, le fron­ tiere tra gli Stati e le classi di governo all'interno di essi furono stabiliz­ zate dalla tutela ineluttabile di Roma; e in tal modo, oltre alla situazio­ ne politica della penisola, fu stabilizzata anche la situazione economica e sociale. Nel 266 a. C., l'anno in cui fu completata la costruzione della Federazione romana dell'Italia peninsulare, gli interessi acquisiti ivi esi­ stenti dovevano apparire piu sicuri di quanto fossero mai stati; tra que­ sti interessi, quello di gran lunga piu diffuso e piu importante era il pos­ sesso di un piccolo appezzamento di terra da parte della famiglia conta­ dina che ne ricavava un sostentamento piu o meno autosufficiente prati­ cando l'agricoltura e l'allevamento per il proprio consumo. Questo sistema preromano, che era cosi sopravvissuto alla conquista romana, sarebbe forse potuto durare per generazioni o secoli se Roma, dopo avere costruito la sua Federazione in Italia, avesse potuto o voluto chiudere le porte del tempio di Giano e tenerle chiuse in permanenza. Invece l'edificazione della Federazione romana nella penisola fu segui­ ta, senza alcuna pausa, dalla grande guerra romano-cartaginese; e la fase annibalica di questa guerra, con i suoi postumi, assestò all'economia e alla società rurale dell'Italia peninsulare un colpo incomparabilmente piu grave di quello, relativamente blando, che esse a suo tempo avevano subito in seguito alla conquista romana. Nel 201 a. C., l'anno in cui la guerra annibalica ebbe termine con l'accettazione da parte di Cartagine delle condizioni di pace imposte da Roma, le basi della tradizionale strut­ tura economica e sociale della penisola vacillavano; e le guerre ulteriori condotte da Roma nel corso di oltre sessant'anni completarono la rovina della vecchia struttura rendendola irreparabile, come i fatti dimostra­ rono. Cosi. si apriva la strada per dare effetti pratici a nuove possibilità eco­ nomiche che erano esistite nella penisola allo stato potenziale, senza mai essere state sfruttate, a partire dal 266 a. C., anno in cui l'unificazione politica della penisola era stata completata Ora l'economia agricola di sussistenza su piccola scala, che si era conservata nella penisola per alme­ no duemila anni, era diventata precaria. Non era piu in grado di resistere a qualunque assalto che le venisse portato. Se si fosse presentato un si­ stema economico alternativo, o un complesso di sistemi, la cui introdu­ zione apparisse vantaggiosa alla vecchia nobiltà o alla nuova classe com­ merciale e industriale romana che doveva la sua fortuna alle guerre che 9



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avevano portato alla rovina il ceto rurale italico, questo ceto, rovinato e sradicato, non avrebbe piu avuto la forza di proteggere e conservare il suo modo di vita ancestrale.

N o t e al c a p i t ol o t e r z o .

§ I (pp. 44-51). Cfr. P. G. WALSH, Livy: His Historical Aims and Methods, Cambridge 1961, p. n4. De Sanctis (op. cit., I, p. 21) afferma che Livio non consultò direttamente gli Annales Maximi. 2 Cfr. PARETI, op. cit., I, p. 45. I limiti della concezione liviana sui requisiti di uno stori­ co sono rivelati da Livio stesso nel libro IV, cap. 20, quando discute la questione se A. Cornelio Cosso fosse console o soltanto tribunus militum al tempo in cui prese gli spolia opima al re di Veio, Larth Tolumnius. Livio nota che, affermando che a quel tem­ po Cosso era soltanto tribunus militum, segue tutte le fonti storiche precedenti. Egli nota poi che Augusto aveva dichiarato di avere letto con i suoi occhi un'iscrizione (scrit­ ta da Cosso) sul rivestimento della corazza di Larth Tolumnius, che era parte delle spo­ glie che Cosso aveva dedicato nel tempio di Giove Feretrio a Roma. Secondo Augusto, a quanto riferisce Livio, in questa iscrizione Cosso affermava di essere stato console quando conquistò queste spoglie. Livio prosegue osservando che è difficile datare all'anno in cui Cosso era console la bat­ taglia nella quale egli conquistò le spoglie. Non solo l'anno del consolato di Cosso cade­ va nove anni dopo la data tradizionale della battaglia in cui egli uccise Tolomnius; esso cadeva anche in un periodo di carestia, di pestilenza e di pace, se questo consolato era giustamente datato nelle liste di magistrati romani che erano costantemente ci­ tate dal predecessore di Livio, Licinio Macro, in base ai libri lintei conservati a Roma nel tempio di Giunone Moneta. Questa difficoltà storica che si incontra nell'accettare la testimonianza di Augusto rende quest'ultima doppiamente sospetta, dato che Augu­ sto aveva un motivo politico per attestare che Cosso, come provava l'iscrizione sulla corazza, a quella data era stato console. Se uno storico moderno si trovasse di fronte al problema che Livio discute in questo capitolo, il suo primo passo sarebbe di andare al tempio di Giove Feretrio e leggere di persona l'iscrizione sulla corazza. Il suo secondo passo sarebbe di andare al tempio di Giunone Moneta e controllare sui libri lintei la lettura di Licinio Macro per la data del consolato di Cosso. È evidente che Livio scrisse e pubblicò il capitolo 20 del suo libro IV senza compiere nessuno di questi passi preliminari che per noi sarebbero non solo ovvi ma imperativi. Si può supporre che Livio evitasse di proposito di compiere queste due piccole e facili ricerche per timore di mettersi in contrasto con Augusto rivelando la sua deliberata de­ formazione della testimonianza epigrafica. L'ipotesi sarebbe convincente se Livio aves­ se avuto l'abitudine di controllare i riferimenti. Non l'aveva, e in ciò Livio è un tipi­ co storico romano (WALSH, op. cit., p. no). 3 WALSH, ibid., p. 218. ' Ibid., p. 109. 5 Si pensava che questa condanna fosse confermata dalle cifre di Polibio per il numero delle legioni mobilitate nel 216 a. C. e per il numero normale. S'intendeva che Polibio (III 107) volesse dire che il numero totale delle legioni mobilitate nel 216 a. C. era di otto, e il totale normale di quattro. Questa interpretazione è stata smentita in modo convincente da KLOTZ, art. cit., pp. 42-44. 1

Capitolo terzo

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I passi che c'interessano in questo capitolo cli Polibio sono rcpoÉl>E'J't'O 6È CT't'pa't'01CÉ60Lç 6x't'w 6Laxw6uvEuEw, 6 rcpo't'Epov ov6É7Co't'" ÉyEyovEL rcapà. 'PwµaloLç ... 6x't'W 6è. CT't'pa't'0rcÉ60L,; 'Pwµa�xo�i; 6µoii rcpoiJPTJV't'o 614xw6u-.iEuEw ... 'Pwµa�oL ya.p, xaM­ TCEP xaL rcpo't'Epov EtpnxaµEv, th:l TCO't'E 't'É't''t'apa CT't'pa't'6rcE6a TCPOXELpll;ov't'aL [« deci­ sero cli scendere in campo con otto legioni, cosa che in precedenza non si era mai veri­ ficata presso i Romani ... decisero tuttavia cli scendere in campo con otto legioni roma­ ne... i Romani infatti, come abbiamo detto anche prima, arruolano sempre quattro le­ gioni »]. Klotz osserva che in questi passi Polibio parla cli eserciti da campo destinati a combattere battaglie campali, e che le cifre da lui date a questo proposito non inclu­ dono le truppe di guarnigione. In realtà le otto legioni polibiane mobilitate nel 216 a. C., ciascuna comprendente 5000 fanti romani e 300 cavalieri romani, e ciascuna af­ fiancata da un'ala cli truppe alleate comprendente 5000 fanti e 900 cavalieri (III 107), sono evidentemente tutt'uno con i suoi 80 ooo fanti e 6000 cavalieri dell'esercito roma­ no a Canne. (Di fatto le voci per la cavalleria riportate nel cap. 107 assommano a piu del totale indicato nel cap. n3). Tuttavia sappiamo che questa non era tutta la forza romana sotto le armi nel 216 a. C. (cap. n3). Per esempio in Italia c'era anche un se­ condo esercito campale, composto di due legioni, che fu distrutto dai Boi nella Silva Litana alcuni giorni dopo la battaglia di Canne (POLIBIO, III n8; LIVIO, XXIII 24); e c'erano anche le quattro legioni in Sicilia, in Sardegna e in Spagna. Klotz ha quindi ragione di concludere (art. cit., p. 44) che le cifre di Polibio non sono incompatibili con quelle di Livio. • Vedi per esempio FRACCAR0, La storia romana arcaica [in «Rend. Ist. Lomb. Se. Lett., Classe Lett. Se. Mor. St.», LXXXV (s. III, XVI), 1952, pp. 85-n8; rist. in Opuscula, I cit., pp. 1-23), Milano 1952, p. n ; EUNDEM, Opuscula, I cit., pp. 394-96, a proposito di B. Niese; SCULLARD, Scipio Africanus and the Second Punic War, Cambridge 1930, p. 23. 7 WALSH, op cit., p. 275. ' Ibid., p. 273. ' Ibid., pp. 1 30-3 1 . 0 ' Loc. cit. 1 1 Ibid., p. 122. 12 Ibid., p. 128. 13 L'altra è Claudio Quadrigario, altro annalista romano. Anziate sembra emergere piu nei libri XXXI-XXXVIII di Livio, Oaudio nei libri XXXIX-XLV (WALSH, ibid., pp. 14

133-34).

Klotz (art. cit., pp. 85 e 89) ritiene che di fatto la fonte immediata delle notizie di Li­ vio sia Anziate. 15 Vedi per esempio DE SANCTIS, op. cit., I, p. 2, e BEL0CH, Romische Geschichte bis zum Beginn der Punischen Kriege, Berlin-Leipzig 1926, pp. x-62. Beloch avanza delle riser­ ve; tuttavia il suo giudizio, favorevole nel complesso, è notevole perché egli è un rap­ presentante della generazione ipercritica degli studiosi moderni. 16 Op. cit., pp. uo-u e 275. " Op. cit., I, pp. 17-18. " Ibid., p. 21. Questa è anche l'opinione di P. CANTALUPI, Le legioni romane nella guerra d'Annibale, in BELOCH, « Stud. Stor. Ant.», r, 1891, p. 4. '' Cfr. infra, cap. xv, § 2, pp. 61 8-20. 20 Cfr. infra, cap. xu, pp. 468-78. 21 Art. cit., p. 3· 22 Op. cit., III 2.

Sradicamento del ceto rurale dell'Italia peninsulare

109

" Ibid., p. 185. " Ibid., p. 317. " Die Romische Kriegsmacht wiihrend der Auseinandersetzung mit den hellenistischen Grossmiichten, Copenhagen 1944, p. 9. " Op. cit., p. 282. 21 Art. cit. " Ibid., p. 89. 29 M. GELZER, Die Glaubwiirdigkeit der bei Livius iiberlieferten Senatsbeschliisse iiber romische Truppenaufgebote, in «HermeS », LXX, 1935, pp. 269-300. Questo importan­ te articolo mi era sfuggito finché molto cortesemente il dr. A. H. McDonald ha richia­ mato su di esso la mia attenzione. 30 Ibid., p. 269. 31 Geschichte der Karthager von 218-146, Berlin 1913 [rist. New York 1975). 32 Cfr. infra, p. 503, nota 200. 33 GELZER, Die Glaubwiirdigkeit cit., pp. 270--72. 34 POLIBIO, XII 26d.1-3. 35 Die Glaubwiirdigkeit cit., p. 272. 36 Ibid., p. 294. 31 Ibid., p. 297. 3 ' Ibid., p. 299. 3' Ibid., p. 300. '° CANTALUPI, art. cit., p. 4. Klotz (art. cit., pp. 70 e 75-76) osserva che le notizie di Livio sui rinforzi (supplementa), destinati a integrare le formazioni esistenti, sono ovviamen­ te tutt'altro che complete. " Livio indica una cifra per il numero totale delle legioni sotto le armi in nove dei di­ ciotto anni della guerra annibalica. Gli anni e le cifre sono: 214 a. C. 18 legioni (XXIV 11); 212 a. C. 23 legioni (XXV 3); 211 a. C. 23 legioni (XXVI 1); 210 a. C. 21 legioni (XXVI 29); 208 a. C. 21 legioni (XXVII 22); 207 a. C. 23 legioni (XXVII_.36); 203 a. C. 20 legioni (XXX 2); 202 a. C. 16 legioni (XXX 27); 201 a. C. 14 legioni (XXX 41). " Cfr. infra, appendice I al presente capitolo. 43 Art. cit., p. 4 . .. Art. cit., p. 89. 45 Beloch (apud CANTALUPI, art. cit. , pp. 42-43) suppone che, se per gli anni 214, 212 e 211 a. C. la cifra di Livio per il numero totale delle legioni sotto le anni supera ogni volta, di due legioni, la somma delle voci da lui menzionate, ciò dipenda dal fatto che le due legiones volonum, reclutate dopo Canne (LIVIO, XXII 57), non erano contate dal compilatore del registro dei totali. Secondo Beloch, i totali di Livio corrispondono alle somme delle sue voci dopo che le due legiones volonum furono scomparse essendo sta• te distrutte (LIVIO, XXV 16-17). Questo tentativo del Beloch di spiegare la discrepanza è insoddisfacente. Egli suppone che i volones non venissero inclusi nei totali perché non erano cittadini romani. Tuttavia egli nota che ricevettero la libertà ( ottenendo quindi automaticamente la cittadinanza romana) nel 214 a. C. (LIVIO, XXIV 16). Inol­ tre, l'anno in cui i volones scomparvero è il 212 a. C.; eppure per l'anno successivo, il 2 1 1 a. C., Livio dà ancora un totale che supera di due legioni la somma delle sue voci per quell'anno. Klotz (art. cit., p. 66 con nota 49) sostiene che i volones sono compresi in tutte le ci­ fre di Livio per gli anni in cui essi furono in servizio. " Cfr. supra, voi. I, cap. III, appendice XL

1 10

Capitolo terzo

" Cfr. supra, voi. I, cap. III, appendice X. 48 Art. cit., p. 6 1 . 49 Op. cit., III 2, p. 322. 511 Loc. cit. 51 Cfr. KLOTZ, art. cit., pp. 85 e 86; DE SANCTIS, op. cit., III 2, p. 322; BELOCH, Bevolke­ rung cit., p. 383, e «Stud. Stor. Ant. », I, 1891, p. 46. 52 Loc. cit. 53 Un esempio di questa pratica, in Sicilia all'inizio del 2 1 1 a. C., è riferito da LIVIO, XXVI 1. 54 Op. cit., III 2, p. 319. 55 Su questi problemi dr. infra, cap. r, appendice II.

§ 2 (pp. 51-63) . 1 Questa tabella di De Sanctis sostituisce le corrispondenti tabelle compilate da Beloch e Cantalupi, che sono stampate in BELOCH, « Stud. Stor. Ant. », r, 1891, rispettivamente a pp. 48 e 42, nonché le precedenti conclusioni tratte da Beloch nel suo esame delle cifre, in Bevolkerung cit., pp. 380-82. Klotz ha compiuto un'analisi particolareggiata e prege­ vole della distribuzione regionale delle legioni durante lo stesso periodo, ma non l'ha tradotta in forma tabulare, e sarebbe rischioso per chiunque altro tentare di farlo al suo posto, dato che sarebbe difficile essere certi di valutare con esattezza e su tutti i punti la sua interpretazione delle testimonianze. Inoltre ci sono punti sui quali Klotz suggeri­ sce alternative possibili, lasciando indecisa la scelta tra di esse (per esempio nella di­ scussione sulle cifre per l'anno 212 a. C.). 2 Mentre prima, in Bevolkerung cit., pp. 380-82, era piu disposto ad accettare le cifre di Livio. 3 Beloch deve sacrificare una perdita di un paio di legioni, quella di Ordona del 212 a. C. Egli ritiene ovvio che questa sia una falsa duplicazione della perdita dello stesso nume­ ro di legioni nella stessa località nel 2 IO a. C., sotto il comando di un ufficiale che ave­ va lo stesso nome e prenome (ma non lo stesso cognome e lo stesso grado) del coman­ dante del 212 a. C. 4 Per esempio Beloch suppone (in Bevolkerung cit., p. 382, e in «Stud. Stor. Ant.», I, 1891, p. 47) che Livio, nelle sue liste delle forze romane sotto le armi nel 214 e 213 a. C. (XXIV 10 e 44), abbia contato due volte un'unità militare. Egli ritiene che la singola legione registrata da Livio nel Piceno per questi due anni sia tutt'uno col paio di legioni in Agro Gallico, ossia a Rimini. 5 De Sanctis calcola che nel 212 e nel 2 1 1 a. C. fossero in servizio 25 legioni. Cfr. TmEL, A History cit., p. 95. 6 Cfr. BELOCH, «Stud. Stor. Ant. », I, 1891, p. 48. 7 Per questo moderno fraintendimento delle parole di Polibio dr. supra, p. 107, nota 5. I CANTALUPI, art. cit., pp. 13-16. • Cfr. supra, nota 3. 10 Op. cit., III 2, pp. 131 e 459, con la nota 28. Pareti (op. cit., II, pp. 33 1-32) concorda con De Sanctis, Beloch e Cantalupi nel ritenere che a Canne vi fossero solo quattro le­ gioni, ma non accetta (p. 397 e p. 398, nota 1) la loro opinione che la distruzione di due legioni a Ordona nel 21 2 a. C. sia semplicemente una duplicazione della noti2ia analoga, e autentica, riferita al 210 a. C. 11 III 107 e 1 1 3 . 12 Hann. 17. u XXII 36.

Sradicamento del ceto rurale dell'Italia peninsulare 14 LIVIO,

15

III

loc. cit. art. cit., pp. 14-15. 1 6 III n4. 11 XXII 46. " Art. cit., p. 16. 19 POLIBIO, III 56. 2D Loc. cit. 21 Per esempio tutte le vittorie di Alessandro M agno sugli eserciti di Dario. 22 Cfr. LIVIO, XXV 20-2 1 , e XXVII 1-2. Appiano, d'altra parte, menziona solo la seconda delle due sconfitte di Ordona (Hann. 48). 23 LIVIO, XXV 3• 24 LIVIO, XXV 41. 25 LIVIO, XXVI 2 . 26 CANTALUPI, art. cit., p. 33· 27 Cfr. infra, appendice I al presente capitolo. 28 Cfr. LIVIO, XXVII 38. Nella sua enumerazione delle forze romane in servizio nel 206 a. C. (XXVIII 10) Livio dice che questi volones richiamati costituivano per loro conto due legioni complete. 29 Cfr. supra, p. 109, nota 40. 30 Cfr. infra, cap. III, appendice IL 31 Afzelius (Die romische Kriegsmacht cit., p. 46) calcola che in questo periodo furono in servizio 89 legioni in tutto, ma che due di esse, cioè le sue n. 1 e n. 2, stanziate nel 200 a. C. rispettivamente nella Spagna Citeriore e Ulteriore, non erano state reclutate quel­ l'anno ma erano identiche alle due legioni NA di De Sanctis (cfr. tabella 2, con note), che avevano servito in Spagna dal 210 a. C. compreso. De Sanctis, sulla base di LIVIO, XXX 41, ritiene che all'inizio del 201 a. C. queste due legioni fossero state sciolte e che con gli uomini che in questa occasione non avevano ottenuto il congedo fosse stata for­ mata una sola legione, la sua legione H. Tuttavia Afzelius (ibid., p. 34) osserva che in Spagna continuarono ad esservi due comandanti benché, secondo Livio (loc. cit.), il Se­ nato avesse avuto l'intenzione di ridurre da due a uno il numero dei comandanti in Spagna, oltre che il numero delle legioni. Afzelius ne inferisce che infine furono man­ tenuti non solo i due comandanti ma anche le loro due legioni, perché, quando arrivò il momento, si vide che era impossibile tenere la Spagna con una forza inferiore. La sua argomentazione è convincente. 32 lbid., p. 60. 3 ' lbid., pp. 48-49 e 60. 38 LIVIO, XLII 31. 35 XI 19.8. " LIVIO, XL I e 18. 37 LIVIO, XL 36. 38 LIVIO, XXXIX 38. " XL I. '° XL 18. " XL 36. 42 LIVIO, XLIII 12. " POLIBIO, III 107; LIVIO, XXII 36. 44 LIVIO, XXII 57. CANTALUPI,

112

Capitolo terzo

45 XXV 21. 46 Cfr. LIVIO, XXI 17, e supra, voi. I, appendice IX. " Vedi la discussione in AFZELIUS, Die romische Kriegsmacht cit., pp. 62-77, con le ta­ belle a pp. 62-63 e 78-79. 48 Cfr. POLIBIO, VI 26.7-8 e 30.2, con la discussione di questi passi nella presente opera, supra, voi. I, cap. III, appendice IX, con la nota 34. " Queste congetture sul numero complessivo delle truppe alleate mobilitate si fondano sulle ricostruzioni cli Afzelius secondo cui, negli Appennini nord-occidentali e nella valle padana, la forza normale del complemento alleato di una legione era cli 7500 fanti e 600 cavalieri durante gli anni 200-179 a. C., e cli 5000 fanti e 600 cavalieri dal 178 a. C. in poi (dr. Die romische Kriegsmacht cit., p. 63), e in Spagna essa era cli 7500 fan­ ti e 400 cavalieri fino all'anno 188 a. C., e di 6000 fanti e 300 cavalieri dal 187 a. C. in poi, essendo probabilmente questo l'anno in cui la forza dell'esercito romano in Spagna fu aumentata da due legioni a quattro (dr. ibid., pp. 73-74). Naturalmente si devono includere nel calcolo le forze operanti di volta in volta nel Levante e in Sardegna e an­ che i contingenti alleati nelle legiones urbanae; ma le notizie che abbiamo su cli esse sono ancora piu scarse di quelle che abbiamo sulle forze alla frontiera nord-occidentale e in Spagna. Le piu antiche super-legioni di cui abbiamo notizia sono le due - forti ciascuna cli 6200 fanti romani e 300 cavalieri romani, con complementi cli truppe alleate presumibilmen­ te numerosi in proporzione - che Scipione formò rafforzando il nucleo delle legiones Cannenses con i suoi volontari prima d'invadere l'Africa nel 204 a. C. (LIVIO, XXIX 24). Afzelius (ibid., p. 49) prende queste cifre come testimonianza che nel 205 a. C. la le­ gione «forte » comprendente 5200 fanti e 300 cavalieri era già diventata l'unità nor­ male. 50 I bid., p. 61. 51 Loc. cit. 51 POLIBIO, VI 19. 2-3. " XLII 34. 54 Cfr. supra, voi. I, cap. m, appendice X. 55 KROMAYER, art. cit., p. 154. Scalais (La politique agraire cit., p. 216) valuta che il nu­ mero medio annuale dei cittadini romani sotto le armi durante questo periodo fosse di « almeno 20 ooo ». Questa cifra è certamente al cli sotto del vero. La cifra cli 20 ooo rap­ presenta il complemento cli cittadini romani in quattro legioni forti o in cinque legioni normali, e Afzelius, nella tabella 4, calcola che il numero piu basso cli legioni in armi in questi anni fu di sei (nel 197 a. C.). La media ammonta a poco meno cli 9,4 per l'in­ tero periodo. 56 Cfr. la tabella in Die romische Kriegsmacht cit., p. 47 (riprodotta nel presente volume come tabella 4) nonché quella a pp. 78-79. ., Cfr. supra, p. IO. 51 FRACCARO, Livio e Roma, in Opuscula, I cit., p. 95. " Il suo testamento arrivò a Roma all'inizio dell'estate del 133 a. C., subito dopo l'ap­ provazione della legge agraria cli Ti. Gracco (dr. E. v. HANSEN, The Atta/,ids of Perga­ mum, lthaca, N.Y., 1947, p. 141). '° An Economie Survey, I cit., p. 224. Frank calcola che nel corso cli questi 61 anni la po­ polazione rurale italica dovette fornire almeno 470 legioni-anno (che darebbero una media annua cli circa 7,7 legioni). Le sue voci principali (ibid., pp. 222-24), in termini cli legioni-anno, sono: 40 per la terza guerra romano-cartaginese; 22 per la guerra roma­ no-numidica (la giugurtina); 150 per le operazioni in Spagna in tutto il periodo _1;0-90 a. C.; 40 per le guerre servili in Sicilia; 55 per le operazioni nella Gallia Narbo­ nense in tutto il periodo 125-90 a. C.; 60 per le operazioni nella Gallia Cisalpina in tut-

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I I3

to il periodo 150-90 a. C. (incluse le truppe romane impegnate, in questo settore, con­ tro i Cimbri); 75 per la Macedonia e la Grecia meridionale nel periodo 149-90 a. C.; 12 per l'Asia nel periodo 132-90 a. C. " Cfr. AFZELIUS, Die romische Kriegsmacht cit., p. 47. 2 • Cfr. supra, p. 56. " Cfr. supra, vol. I, cap. II, § 4, e il presente volume, supra, p. 10, e infra, pp. 67, 95-96 64

e 393·

LIVIO, XXXVIII 39. ,s Da quando, nel 198 a. C., Antioco III strappò la Fenicia all'Impero tolemaico. 66 LIVIO, XXXIV 56. " LIVIO, XL 25-26 e 27-28. " Ciò che realmente era accaduto comportava per Roma discredito, ma non pericolo, sul piano militare. Un console aveva invaso l'Istria senza avere ottenuto la sanzione del Senato per questo atto di aggressione. Fiduciosi nell'invincibilità delle armi romane in una « piccola guerra » contro un piccolo popolo barbaro, il comandante romano e i suoi ufliciali avevano dato disposizioni cosi inefficaci che gli Istri, con un attacco di sorpre­ sa, erano riusciti a gettare nel panico tutto l'esercito romano, a spazzar via tre manipo­ li romani che avevano tenuto le posizioni e a occupare il campo romano abbandonato. Poche ore dopo l'esercito romano si era riordinato, aveva rioccupato il campo e aveva inflitto agli Istri perdite notevolmente piu gravi di quelle subite dagli stessi Romani (LIVIO, XLI 2-4). La sconfitta romana in Istria, quale che fosse, era stata cosi riparata prima che l'esagerata notizia non ufliciale in proposito avesse cominciato a viaggiare da Aquileia a Roma. Nel 178 a. C. il comando romano in Istria aveva agito con la stessa incompetenza di cui diede prova il comando inglese in Afghanistan nel 1841. In en­ trambi i casi la causa psicologica dell'incapacità professionale fu la presunzione. (Il rac­ conto di Livio potrebbe derivare direttamente dal diario di Lady Sale). Ma l'incapacità del comando costò molto meno cara all'esercito romano che all'esercito britannico. •• Questi fatti sono narrati da LIVIO, XLI 1-5. 70 Le espressioni religiose di questa tensione emotiva sono esaminate nel capitolo XII del presente volume. li Cfr. LIVIO, XLI 1 . 1

§ 3 (pp. 63-68).

Qui consideriamo stagioni operative distinte quelle rispettivamente anteriori e poste­ riori alla battaglia del Trasimeno, nel 217, e alla battaglia di Canne nel 216 a. C. 2 Nel 181 a. C. due delle sei legioni che avevano servito sulla frontiera nord-occidentale dell'Italia nel 182 erano state mandate in Sardegna (LIVIO, XL 25). Questa fu una delle cause delle difficoltà incontrate dalle autorità militari romane sulla frontiera nord-occi­ dentale all'inizio del 181 a. C. (LIVIO, XL 26). 3 Die romische Kriegsmacht cit., p. 17. • Ibid., p. 1 8 . Kromayer (art. cit., p. 155, nota 1) cita venti singoli anni in cui in questa zona di operazioni servirono due eserciti consolari. Egli omette gli anni 195, 192, 191, 186, 178, 174 a. C., in cui Afzelius calcola che vi fosse piu di un paio di legioni. Presu­ mibilmente Kromayer non conta gli anni in cui uno dei comandanti dei due eserciti consolari locali aveva la carica di proconsole. Afzelius naturalmente ha ragione d'in­ cludere questi anni, dato che la carica dei comandanti non ha influenza sul numero dei soldati in servizio. Kromayer ha osservato che nel 192, 182 e 176 a. C. ben tre paia di legioni erano in servizio nella regione cisalpina. D'altra parte, egli cita il 177 a. C. come uno degli anni in cui le legioni in servizio erano quattro, mentre Afzelius calcola che quell'anno erano solo due. La cifra di Afzelius sembra derivare da LIVIO, XLI 9.

1 14

5 AFZELius,

Capitolo terzo

Die romische Kriegsmacht cit., p. 17. ar. A. SOLARI, Delle gue"e dei Ro­ mani coi Liguri per la conquista del territorio lunese-pisano, in « Stud. Stor. Ant. Class.», I, 1908, pp. 58-84, a p. 62; E. PAIS, Dalle guerre puniche a Cesare Augusto, Roma 1918, p. 479, nota 2. 6 AFZELIUS, Die romische Kriegsmacht cit., p. 1 8 . Qui Afzelius afferma che nel 182 a. C. in questa zona c'erano quattro eserciti consolari, citando LIVIO, XL 1; ma nella tabel­ la 4, per la stessa zona e lo stesso anno, egli enumera non piu di tre paia di legioni, e Livio (loc. cit.) menziona solo un esercito consolare, già sul posto, che sarebbe sta­ to trattenuto accanto ai due nuovi eserciti consolari allora inviati a quella destina­ zione. 7 Die romische Kriegsmacht cit., p. 1 3 . I fatti e le cifre smentiscono l'affermazione di L. Homo (L'Italie primitive et les débuts de l'impérialisme romain, Paris 1925 [2• ed. 1 953), p. 417), secondo cui nella distribuzione dello sforzo militare il governo roma­ no, in questo periodo, dava la priorità alla Spagna e alla Macedonia rispetto alla Gal­ lia Cisalpina e alla Liguria. D'altra parte Homo ha ragione quando osserva (ibid., p. 416) che Roma fece conquiste nelle isole e in Illiria prima di farne nella valle padana. '- Secondo DIODORO, V 39, «In generale, in questa parte del mondo [cioè in Liguria], le donne hanno la muscolatura e il vigore fisico degli uomini, mentre gli uomini hanno la forza delle bestie feroci. Si dice infatti che, sul campo di battaglia, se il Gallo piu vigo­ roso è sfidato a duello da un Ligure piccolo e smilzo, il Gallo ci lascia la vita». Cfr. in­ fra, pp. 697-98. 9 Ciò osserva Afzelius (Die romische Kriegsmacht cit., p. 13). 10 Secondo Appiano (!ber. 43), Gracco -.oùc; ... a.1t6p0uc; O"Uv allorquando il sovra­ no aveva concluso un accordo con Roma, egli si era venuto a trovare in una posizione ben protetta > nonostante fosse in conflitto con Cartagine a causa del suo voltafaccia. Egli era nelle buone grazie del governo romano; e se per il 2 2 7 a. C. la Lex Hieronica si fosse già rivelata un successo nei domini di lerone, sarebbe stato naturale che il governo romano la adot­ tasse nel momento in cui organizzava l'amministrazione del contiguo ter­ ritorio siciliano sotto il suo dominio. Ovviamente si tratta solo di un'ipo­ tesi. Pareti è dell'avviso 109 che la Lex Hieronica sia stata estesa all'intera Sicilia da Levino nel 2 1 0 a. C., mentre Carcopino pensa che ciò sia av­ venuto nel r 3 2 a. C. grazie alla Lex Rupilia di quell'anno. Non possiamo neanche affermare con certezza che la Lex Hieronica risale a Ierone II e non a Ierone I. Ma sia il carattere raffinato di que­ sta legge, sia le analogie che essa presenta con la legislazione fiscale di Tolemeo II Filadelfo, contemporaneo di Ierone II, rendono estrema­ mente improbabile l'ipotesi che la Lex Hieronica fosse stata elaborata già nel v secolo a. C. Carcopino suppone 1 1 1 che la decima fosse una istitu­ zione fiscale comune a tutta la Sicilia e 111 che la sua introduzione nell' epi106

,

110

La politica agraria del governo romano ( 2 1 1-134 a. C.)

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krateia siracusana risalisse al regno di Gelone il Dinomenide, che fu il primo tiranno siceliota a organizzare le città-stato greche e sicule della Sicilia orientale in un principato con capitale Siracusa. Al tempo stesso Carcopino ritiene 113 che lerone II abbia riformato da cima a fondo il si­ stema fiscale di Gelone. Non è chiaro il rapporto che intercorre fra la Lex Hieronica e la legge sulle entrate di Tolemeo II Filadelfo del 265-264 a. C. È verosimile che la prima sia posteriore alla seconda, dal momento che lerone II avrà po­ tuto concentrare la sua attenzione su una riforma amministrativa interna di cosi grande portata solo dopo aver concluso un accordo con Roma, co­ sa che non avvenne prima del 263 a. C. 11' . Carcopino mette in luce alcu­ ne impressionanti affinità tra i due sistemi fiscali. In Egitto come in Si­ cilia la riscossione delle tasse era messa all'asta separatamente per i di­ versi distretti (che in Egitto erano i nomi) e, all'interno di ogni distretto, per le diverse colture 1 1'. In Egitto come in Sicilia le pene per violazioni della legge erano piu severe per l'esattore che per il coltivatore 116 . In Egitto come in Sicilia il coltivatore doveva pagare all'esattore una per­ centuale a beneficio dello stesso esattore ( 10 per cento del valore della decima in Egitto; 6 per cento in natura, piu un piccolo supplemento in denaro, in Sicilia), oltre alla tassa che l'esattore riscuoteva in nome del governo 1 17 In base a queste affinità e alle date rispettive, Carcopino 111 e la Préaux 1 1' ritengono che la Lex Hieronica sia stata ispirata dalla legge 20 di Tolemeo II e modellata su quest'ultima. Ciò è contestato da Frank 1 e 121 da Schenk von Stauffenberg • Carcopino cerca di sostenere le sue ragio­ ni facendo notare quanto fossero stretti i rapporti commerciali fra Regno ieronico e tolemaico nel III secolo a. C.; per esempio, i due Stati avevano monetazioni intercambiabili 122 • Ma questo è un argomento a doppio ta­ glio: se esso induce a credere in effetti che la reciproca imitazione sareb­ be stata agevole e naturale, può anche far pensare che il clima di pratiche d'affari comune ai due regni avrebbe verosimilmente prodotto istituzioni fiscali affini, anche se non vi fosse stata imitazione consapevole e delibe­ rata di un governo da parte dell'altro. La Lex Hieronica prevedeva un'unica imposta su tutti i terreni agri­ coli "' della provincia m, incluso l'ager publicus agricolo che si trovava­ no in coltivazione nell'anno per il quale l'imposta veniva riscossa. Essa era percepita sul singolo coltivatore (arator), sia che egli fosse il proprie­ 21 tario della terra sia che fosse solo un fittavolo 1 e indipendentemente dal fatto che fosse cittadino di quel particolare Stato o di un altro Stato, sici­ liano o italico. I cittadini romani erano anch'essi soggetti all'imposta Nel territorio delle civitates censoriae e decumanae non vi erano esenzio­ ni; invece nel territorio delle cinque civitates liberae et immunes l'impo123

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Capitolo sesto 12• :

sta doveva esser pagata solo dai coltivatori non indigeni in questi cin­ que Stati, oltre che nelle tre civitates foederatae, gli indigeni erano esen­ ti. La tassa, pagabile in natura " era una percentuale del valore del rac­ colto di quell'anno "1. Per i cereali l'aliquota era un decimo m; per il vino, l'olio e gli ortaggi un quinto m Le disposizioni amministrative per la riscossione della tassa erano in teoria eque, e non c'è dubbio che l'ideatore del sistema, nonché il gover­ no centrale romano che lo aveva mutuato, intendevano sinceramente che anche in pratica esso funzionasse in modo equo. Ma proprio la com­ plessità del sistema, resa necessaria dalla preoccupazione del legislatore di salvaguardare i legittimi interessi del contribuente e insieme quelli del governo, creava le opportunità per frustrarne l'intento, e queste op­ portunità si presentavano in modo particolare sotto il dominio romano. I poteri discrezionali di un magistrato romano erano molto ampi; nei suoi rapporti con i sudditi di una provincia essi non trovavano alcuna restrizione nei diritti costituzionali, come avveniva nei rapporti con i cittadini romani, o in diritti sanciti da un trattato, come nelle relazioni con alleati di Roma. L'unica restrizione ai suoi poteri era rappresentata dal rischio di subire un processo a Roma allo spirare del periodo di cari­ ca; e in effetti Verre fu colpito da una tardiva punizione per la sua cat­ tiva amministrazione degli anni 73-71 a. C. Ma se Verre pagò per ave­ re oltrepassato il segno, la prassi abituale impunemente seguita dalla maggior parte dei governatori dell'isola sarà stata di indulgere con mag­ giore moderazione alle malversazioni per cui Verre fu citato in giudi­ zio '". Questa possibilità va tenuta presente ogniqualvolta si tenti di de­ terminare il concreto funzionamento di un sistema che sulla carta non è ingiusto. La riscossione dell'imposta era venduta all'asta dal governo provin­ ciale romano agli appaltatori. 0

,

Il privilegio di concorrere all'asta era in pratica riservato ai Siciliani dalla norma in base alla quale l'offerta e l'aggiudicazione continuavano ad aver luo­ 35 go in Sicilia, di fronte al governatore o ai suoi rappresentanti, cioè i questori 1 •

Le aste si svolgevano a Siracusa '", ma le decime dell'intera provincia non venivano aggiudicate tutte insieme né per un periodo superiore al­ l'anno in corso. Vi erano aste annuali distinte per ciascuno dei territori di città-stato in cui la Sicilia era ripartita; all'interno di ogni territorio vi erano poi aste distinte per ciascun tipo di coltura m. La decima del raccol­ to di orzo, per esempio, era messa all'incanto ad un gruppo di appaltatori diverso da quello che concorreva per la decima del raccolto di frumen­ to 1", e un gruppo ancora diverso concorreva per l'imposta del venti per

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cento sul vino, l'olio e gli ortaggi. Le piccole dimensioni e il limitato va­ lore delle singole unità cosf create concedevano una possibilità anche a concorrenti non provvisti di grandi capitali; dal momento che in Sicilia, unica fra le province romane del tempo, la partecipazione all'asta per l 'appalto delle imposte sulla produzione agricola non era limitata ai cit­ tadini romani 11' , gli offerenti erano di tutte le categorie 1'° e fra loro, ac­ canto ai residenti romani e italici non romani, figuravano indigeni dell'i­ sola provvisti di mezzi economici relativamente modesti. «Le stesse cit­ tà potevano concorrere all'asta per le decime dei loro territori » ,..; anzi, secondo Frank 142 , esse erano incoraggiate a farlo. In Sicilia, pertanto, le compagnie di esattori romane potevano aggiu­ dicarsi solo l'appalto della tassa sul bestiame pascolato sull'ager publicus romano (la scriptura) e dei dazi portuali del cinque per cento (portoria), che venivano messi all'asta nell'Urbe m. Nel corso del periodo 2 I O-I 35 a. C. l'appalto della scriptura in Sicilia sarà diventato piu lucrativo man mano che si diffondeva l'allevamento nomade su vasta scala; ma non ci sono prove di un parallelo declino nel volume delle esportazioni granarie della Sicilia 144 , sicché il giro d'affari che ruotava intorno all'appalto delle tasse in Sicilia sarà sempre rimasto fuori della portata dei pubblicani romam ., Sembra che la Lex Hieronica contenesse norme eque circa i rapporti fra l'agricoltore siciliano e l'appaltatore che era riuscito ad aggiudicarsi la riscossione della decima o della tassa del venti per cento sul raccolto. Annualmente era condotto un censimento dei coltivatori (subscriptio aratorum) 146 e ciascuno di loro compilava un rapporto relativo alla spe­ cie e alla quantità di semenza che egli aveva seminato 1" e all'estensione dell'area che egli coltivava nell'anno in corso (professio iugerum) 141 • Tali rapporti erano destinati ai magistrati dello Stato nel cui territorio si tro­ vava la terra ed erano sottoposti alla loro verifica 149 • Essi venivano poi inviati al governo provinciale romano prima della data fissata per le aste a Siracusa e costituivano la base sulla quale erano avanzate le offerte 150• Il vincitore dell'asta stipulava con il coltivatore un contratto (pactio) in cui le parti si accordavano su una cifra relativa alla quantità di prodotto su cui veniva pagata la tassa 1'1 • Il contratto era redatto in base ad una for­ m ula specificata per legge 152 ed in triplice copia : una per il coltivatore e le altre due per l'esattore (decumanus) e per il governo dello Stato nel cui territorio si trova la proprietà del coltivatore 153 • Vi erano clausole relative alle contestazioni sulla pactio, che erano fre quenti 1" . Un coltivatore colpevole di aver dato all'esattore meno di quanto era stato concordato nella pactio doveva pagare un'ammenda equivalente a quattro volte l'ammontare del deficit; l'esattore colpevole

..

Capitolo sesto

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di aver estorto al coltivatore piu del dovuto era condannato a pagare otto volte l'ammontare della differenza Le controversie erano giudi­ cate secondo il diritto civile nel tribunale dell'imputato I giudici era­ no presi fra i cittadini romani residenti in Sicilia non impegnati nell'agri­ coltura essi non erano sorteggiati ma scelti dal governatore romano della provincia Le sentenze erano eseguite dalle autorità pubbliche dello Stato siciliano in cui si trovavano i terreni del coltivatore '". Ma se il decumanus intentava un processo contro il coltivatore non perché que­ sti si fosse rifiutato di pagargli quanto dovuto in base alla pactio, ma con l'accusa penale di frode, il governatore poteva intimare all'accusato di comparire di fronte a un tribunale di sua scelta, e, in caso di condanna, non vi erano limiti all'ammontare dell'ammenda che il governatore po­ teva imporgli " Per i nostri scopi non occorre entrare in maggiori dettagli per quanto riguarda il diritto e la prassi della tassazione nella provincia di Sicilia La sommaria trattazione presentata in questo capitolo basta probabil­ mente a mettere in evidenza quale fosse la politica del governo romano. Lo scopo del governo era di procurarsi dalla Sicilia, e anche dalla Sarde­ gna, una adeguata esportazione annuale di cereali con cui approvvigio­ nare gli eserciti romani in campo e permettere alla popolazione dell'Urbe di acquistare grano a buon mercato. Il governo fu abbastanza lungimiran­ te da capire che, per far sf che l'isola continuasse a produrre la necessaria quantità di cereali, esso doveva provvedere alla soddisfazione delle pro­ prie esigenze senza imporre condizioni tali da impedire al coltivatore si­ ciliano di continuare il suo lavoro o da rendergli la vita impossibile. In ciò il governo dimostrò maggiore lungimiranza e umanità che nella politica attuata in quello stesso periodo nei confronti del ceto rurale del­ l'Italia peninsulare legato all'agricoltura di sussistenza. I contadini itali­ ci costituivano per il governo romano una risorsa piu preziosa di quelli siciliani. Se il governo li avesse lasciati soccombere sotto l'onere del ser­ vizio militare a lungo termine, permettendo che le loro fattorie fossero acquistate dai capitalisti che investivano nell'agricoltura a piantagione fondata sul lavoro servile, esso avrebbe lasciato prosciugare la sua fonte di approvvigionamento di forze militari; e se non c'erano piu contadini­ soldati italici da sfamare, l'eccedenza della produzione di cereali dell'iso­ la non poteva piu servire come mezzo per la conservazione del potere militare di Roma. Nell'Italia peninsulare il governo romano fu tentato di tradire gli interessi economici dei contadini e i propri interessi militari sacrificando l'economia contadina agli interessi economici dei pioneri dell'agricoltura a piantagione e dell'allevamento nomade su vasta scala. In Sicilia una tale motivazione per attuare una politica di laisser-faire 1 55 •

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economico non esisteva e quindi il governo romano non fu distolto dal1 'obiettivo, relativamente illuminato, che si era posto. Il governo aveva la fortuna di disporre, con la Lex Hieronica, di uno strumento ammirevole per raggiungere tale obiettivo, e non c'è dubbio che questo fosse ciò che il governo desiderava sinceramente. Ma in Sici­ lia la sua iniziativa fu in parte frustrata dal comportamento dei gover­ natori della provincia. In età postannibalica, alcuni fra i membri della classe di governo romana procedevano sempre piu innanzi nell'abuso del potere che il virtuale monopolio delle magistrature aveva accumula­ to nelle loro mani. Il comportamento dei rappresentanti della classe di governo che detenevano le cariche non era, di norma, all'altezza dei mo­ delli della classe in quanto tale, e il contrasto fra modelli e prassi appar­ ve talmente preoccupante al governo da spronarlo, di quando in quando, a chieder conto ad alcuni suoi rappresentanti le cui malefatte erano parti­ colarmente scandalose. Ma anche in questi casi il governo si astenne dal punire in modo esemplare i criminali che erano membri del circolo privi­ legiato de « gli unti del Signore». Perciò, nei limiti in cui il governo ro­ mano consentiva ai suoi rappresentanti ufficiali di frustrare le sue inten­ zioni, era lo stesso governo a portare la responsabilità delle tragiche con­ seguenze che ne derivarono. IV. L ' UTILIZZAZIONE DEI NUOVI TRATTI DI AGER PUBLICUS NELL ' ITALIA SUD-ORIENTALE.

1.

Differenze locali nella politica del governo romano.

L'Italia sud-orientale non è solo un'area molto piu vasta della Sici­ lia; la sua geografia fisica presenta una differenziazione molto maggiore ed esistono corrispondenti differenze fra le potenzialità economiche delle sue varie zone fisiche. L'ager publicus che Roma si era assicurato nella Campania nord-oc­ cidentale espropriando il territorio dei tre municipi già secessionisti Capua, Calazia e Atella - era idoneo quanto la Sicilia alla produzione gra­ naria e il governo romano lo destinò a questo scopo, cosf come aveva fat­ to con la Sicilia, non appena ne rientrò in possesso '. Ma la Campania ro­ mana avrebbe anche garantito un profitto ai privati che vi avessero inve­ stito i loro capitali, se costoro fossero riusciti a impadronirsene: il suolo,

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Capitolo sesto

il clima e la posizione erano tali che l'agricoltura a piantagione, destinata alla produzione di vino e olio per il mercato dell'Urbe, sarebbe diventata in Campania un'impresa lucrativa. Le pianure campane avrebbero inol­ tre offerto comodi pascoli invernali per il bestiame che doveva trascor­ rere l'estate sul nuovo ager publicus romano ricavato sulle montagne sud-occidentali della Lucania da poco espropriate. Di conseguenza gli im­ prenditori privati romani guardavano con cupidigia al nuovo ager pu­ blicus in Campania, con l'intenzione di destinarlo ad uno di questi usi alternativi, e il governo romano vide pertanto la sua politica economica nella Campania romana ostacolata da una costante offensiva di questi po­ tenti interessi privati. Sull'altopiano sannitico i tentativi da parte del governo di restaurare l'economia rurale tradizionale non incontrarono un'opposizione altret­ tanto vigorosa. L'altopiano era troppo elevato per offrire pascoli inver­ nali o per ospitare vigneti e uliveti; nel contempo non era abbastanza ele­ vato da poter essere utilizzato come pascolo estivo 2 • L'altopiano sanniti­ co non era dunque una regione attraente per gli imprenditori privati, il che rese politicamente piu agevole al governo romano il compito di rein­ sediarvi coloni contadini. Invece le pianure dell'Apulia nord-occiden­ tale rappresentavano, dal punto di vista della grande industria dell'alle­ vamento, un complemento ideale, per posizione ed estensione, alle mon­ tagne degli Abruzzi e della Lucania. Se l'industria pastorale nomade fos­ se riuscita ad assicurarsi i pascoli invernali offerti dal nuovo ager publi­ cus romano nelle pianure dell'Apulia nord-occidentale, avrebbe avuto la possibilità di svilupparsi su scala molto ampia. In Apulia, a quanto sembra, il governo romano non oppose alla pressione dell'impresa capi­ talistica una resistenza altrettanto risoluta quanto quella opposta in Campania. 2. La ripresa della cerealicoltura nell'Ager Campanus romano. Nell'Italia peninsulare d'età postannibalica la pianura campana, al pari dell'altopiano sannitico, rimase una regione produttrice di cereali, coltivata in piccoli appezzamenti da una popolazione rurale relativamen­ te fitta ' - in contrasto con quasi tutta la parte restante della penisola, dove, nello stesso periodo, ciò che dell'economia rurale tradizionale era scampato alla guerra annibalica perdeva terreno per l'offensiva dell'agri­ coltura a piantagione o dell'allevamento nomade. Questa rimarchevole sopravvivenza, nella Campania romana, della cerealicoltura e di una nu­ merosa popolazione di liberi agricoltori era dovuta alla politica del go-

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verno romano, e tale politica era la risposta del governo al problema al quale era stato posto di fronte dalla nuova sottomissione dei tre municipi 2 campani secessionisti nel 2 1 1 a. C. • Finché la penisola continuava ad essere teatro di ostilità, sarebbe sta­ to materialmente impossibile mandare ad effetto il senatus consultum approvato immediat�mente _dopo la �apit?lazione dei tre municipi - che ordinava la deportazione dei loro abitanti; ma, se e quando la sua esecu­ zione fosse diventata realizzabile, le conseguenze economiche sarebbero state terrificanti. La piu fertile regione della penisola, la cui riconquista era costata tanti sforzi al Popolo romano, sarebbe rimasta incolta in un momento in cui Roma aveva piu che mai bisogno dei suoi prodotti. Fin­ ché durava la guerra annibalica, il governo romano non avrebbe potuto reperire altrove la manodopera con cui rimpiazzare i coltivatori indige­ ni deportati. Inoltre sarebbe stato troppo rischioso arruolare questi cit­ tadini romani ribelli, domati ma non ancora riconciliati, in un esercito romano impegnato in una guerra di Roma contro quei Cartaginesi che avevano fatto del loro meglio per liberare i Campani. Sarebbe stata pura follia costringere all'inattività la Campania e i suoi abitanti separando questi da quella. L'unica soluzione realistica al problema campano di Roma era di lasciare che i Campani se ne restassero in patria e continuas­ sero a coltivare la loro terra, e questa fu la soluzione adottata da Roma. Per i Campani la politica del governo romano si rivelò inaspettata­ mente favorevole. Le loro comunità erano state private della personalità giuridica, ed essi stessi avevano perduto la proprietà dei loro beni immo­ bili aviti. Ora si trovavano a coltivare la loro terra in qualità di fittavoli dello Stato romano o, peggio ancora, come lavoratori salariati al servi­ zio di affittuari « profittatori » 3 provenienti da altre parti dell'Ager Roma­ nus. Ma questo fu il prezzo pagato dai Campani per assicurarsi due van­ taggi: in primo luogo, essi erano ancora in vita e lavoravano in patria; in secondo luogo, per ventun anni - dal 2 1 0 al 189 a. C. - la Campania restò in pace, mentre il resto del Popolo romano, i suoi alleati italici e la maggior parte degli altri popoli sulle coste del Mediterraneo erano anco­ ra in guerra. Reintegrare i Campani nel loro status d'anteguerra di cit­ tadini romani sine suffragio significava renderli di nuovo soggetti all'ob­ bligo di servire nell'esercito romano, e il governo romano non si arrischiò a compiere questo passo fìno a quando la sconfitta della monarchia seleu­ cidica a Magnesia, nel 190 a. C., non lo liberò dalla paura che Annibale potesse tornare a invadere, questa volta per mare, l'Italia sud-orientale alla testa di un corpo di spedizione seleucidico. Ora che Roma si era sba­ razzata della immaginaria minaccia seleucidica, oltre che della fin troppo concreta minaccia cartaginese, la maggioranza non campana del corpo ci-

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Capitolo sesto

vico romano non avrà piu visto nessuna ragione per cui i Campani non dovessero svolgere la loro giusta parte di servizio sugli impegnativi fron­ ti ligure e spagnolo. Questo servizio non sarà stato gradito ai Campani piu che a chiun­ que altro; ma il recupero della cittadinanza romana dovette procurar lo­ ro una preziosa contropartita. Lo status transitorio di dediticii, che ave­ va garantito loro una temporanea esenzione dal servizio militare, li aveva però lasciati privi di difese sul piano politico sottoponendoli al go­ verno dei praefecti Capuam Cumas nominati da Roma. Nell'età postan­ nibalica il valore protettivo della cittadinanza romana, anche sine suffra­ gio, cresceva in misura proporzionale al peggioramento della condotta dei magistrati romani. Per i Campani il recupero di questa protezione valeva forse il prezzo pagato tornando ad essere soggetti al servizio mili­ tare. Nel frattempo sia i Campani che la Campania avevan tratto benefi­ cio dal fatto che per un periodo di ventun anni la regione non era stata spogliata dei suoi abitanti e la popolazione non era stata decimata dalle perdite di guerra: vantaggi, questi, di cui in quegli stessi anni non aveva goduto nessun'altra regione o popolazione dell'Italia peninsulare. Il nuovo corso apertosi nella Campania romana dopo la capitolazione di Capua e delle sue due associate nel 2 1 1 a. C. non fu per il governo ro­ mano cosi favorevole come per i Campani di nuovo sottomessi. Il gover­ no aveva bisogno del grano della Campania, oltre che di quello della Sici­ lia e della Sardegna; ma aveva anche bisogno di denaro, e per tutta la du­ rata della guerra annibalica la maggior parte del denaro circolante nel1'Ager Romanus rimase o ritornò in mani private, nonostante l'imposi­ zione della tassa sul patrimonio (tributum), nell'aliquota del 2 per mil­ le, dal 2 1 7 al 2 0 3 a. C. incluso '. Nel 2 1 0 a. C. il proconsole Q. Fulvio Flacco, che per due volte cedette ai suoi impulsi vendicativi nei confronti dei notabili campani ', fu impegnato a dare in affitto l'Ager Campanus espropriato, e lo affittò tutto perché fosse seminato a grano '. Questo at­ to avveduto del proconsole ricevette sanzione formale nel 209 a. C. gra­ zie ad un plebiscito, approvato su richiesta del Senato, con cui si dava istruzione ai censori di quell'anno di dare in locazione l'Ager Campanus '. Ma nel 205 a. C., poiché il Tesoro mancava di denaro per la continuazio­ ne della guerra, il Senato fu costretto a impartire ai questori l'ordine di vendere una striscia di Ager Campanus lungo il bordo sud-occidentale, tra la Fossa Greca ' e la costa '; i censori del 1 9 9 a. C. ne vendettero un altro tratto all'estremità settentrionale del territorio, ai piedi del Monte Tifata 10 • Procedendo a queste vendite di ager publicus campano, il governo ro­ mano, senza dubbio, cedeva malvolentieri ad un urgente bisogno di de-

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naro contante: cosf facendo esso riduceva il volume sia del regolare ap­ provvigionamento granario dalla Campania sia delle regolari entrate in denaro provenienti dagli affìtti della terra campana espropriata. Nel cor­ so dei dodici anni seguenti il Tesoro romano fu rimpinguato dai paga­ menti delle indennità di guerra cartaginese e seleucidica, dal bottino pro­ veniente dall'Asia Minore e dal metallo che affiuiva dalla Spagna 11 • Per­ ciò il governo non si trovò nella necessità di procedere ad ulteriori vendi­ te di ager publicus campano, tanto svantaggiose per lo Stato romano quanto convenienti per i privati che acquistavano. Il valore che rivestiva per il governo l'ager publicus campano rimasto in suo possesso aumentò quando la tassa annuale sul patrimonio - che probabilmente fu ancora riscossa in base all'aliquota dell'un per mille dal 202 al 1 6 7 a. C. inclu­ so 12 - venne abolita una volta per tutte dopo la vittoria romana nella ter­ za guerra romano-macedone 13 • A partire da quel momento e fino alla ri­ organizzazione delle finanze pubbliche romane ad opera di Augusto, il Tesoro non ebbe nessun'altra entrata del genere, regolare e sicura, su cui poter contare 14, e fu questo uno degli argomenti usati dagli oppositori del progetto che prevedeva la fondazione di una colonia sul territorio di Capua e che fu infine realizzato nel 59 a. C. 15• Nel frattempo il Tesoro ro­ mano si era sforzato di mantenere integro il suo registro delle proprietà immobiliari campane, il che aveva richiesto continua vigilanza e ripetuti interventi da parte del governo. Infatti, una volta attenuatasi la pressio­ ne delle difficoltà finanziarie, il governo dovette ancora difendere il suo ager publicus campano dalle continue e decise usurpazioni ad opera di privati cittadini. Nel 2 1 6 a. C., anno in cui i tre municipi campani si staccarono da Ro­ ma, i municipes campani erano cittadini romani sine suffragio da circa 1 1 8 anni. Sotto questo regime essi avevano goduto del commercium e del connubium con il resto del corpo civico romano, per cui diverse proprie­ tà immobiliari nella Campania romana saranno passate nelle mani di cit­ tadini romani non campani e nel contempo cittadini romani campani sa­ ranno entrati in possesso di beni fondiari nell'Ager Romanus situato a nord-ovest del corso inferiore del Volturno. Gli effetti economici del commercium, praticato per n 8 anni, introdussero una imbarazzante complicazione quando, dopo la capitolazione dei tre municipi nel 2 1 1 a . C., i beni immobili appartenenti ai loro cittadini furono espropriati dal governo romano. La nazionalizzazione dell'intero territorio dei tre municipi che ora venivano disciolti, un atto semplice dal punto di vista a?1ministrativo, non avrebbe potuto essere compiuta senza privare alcuni ctttadini romani non campani rimasti fedeli della terra che apparteneva loro legittimamente. I loro beni dovettero essere esentati dall'espropria-

Capitolo sesto

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zione, e ciò diede l'opportunità a un certo numero di proprietari terrieri campani, che agivano in collusione con proprietari non campani, di sfug­ gire all'esproprio intestando il loro patrimonio ad un vicino non campa­ no. Quindi il governo non poteva vendere un tratto di ager publicus cam­ pano nel 20 5 a. C. senza prima verificare i titoli di proprietà, e il controllo si rivelò cosi difficile che in quell'occasione il governo offri una ricompen­ sa agli informatori che lo avessero messo sulle tracce di terra non dichia­ rata, in quella regione, di proprietà di Campani. La ricompensa ammon­ tava al 1 o per cento del valore in denaro della terra recuperata dal gover­ no grazie ai servigi dell'informatore ••. Dopo di allora vi furono continui tentativi, da parte degli affittuari di ager publicus nella Campania romana, di far passare le loro tenute per proprietà privata. Nel 1 73 a. C. il governo aveva ormai ragione di credere che i privati avevano messo le mani su una grande quantità di ager publi­ cus campano mediante una strategia di graduali usurpazioni, e uno dei consoli di quell'anno, L. Postumio Albino, fu inviato sul posto con l'or­ dine di accertare i confini fra terra privata e agro pubblico Per assolve­ re questo compito il console impiegò un'intera estate 11 • Egli riusci a re­ cuperare allo Stato una gran parte della sua proprietà, e ciò rese possibile l'approvazione, nel 1 72 a. C., di un plebiscito che dava istruzione ai cen­ sori di affittare l'ager publicus campano 19 • Evidentemente si era lasciato che l'analogo plebiscito approvato nel 209 a. C. restasse lettera morta, e la notizia annalistica lascia intendere che la negligenza delle autorità era stata deliberata e che lo scopo era stato di concedere libertà d'azio­ ne agli usurpatori privati 20 • Le iniziative del 1 7 3 - 1 7 2 a. C. non segna­ rono la fine della questione. Nel 165 a. C. 21 l'opera di L. Postumio Albi­ no dovette essere ripresa dal pretore P. Cornelio Lentulo e questa volta lo Stato recuperò dagli occupanti abusivi una notevole quantità di ager publicus Lentulo tentò anche, ma senza successo, di accrescere l'area dell'ager publicus campano acquistando terra privata legittimamente de­ tenuta dai proprietari ". Nella speranza di porre termine alle usurpazio­ ni, egli fece disegnare una carta della Campania romana su cui erano ri­ portati i confini fra i vari poderi e i nomi dei legittimi proprietari di cia­ scuno di essi 11 •

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3. La parziale restaurazione dell'economia rurale sull'altopiano san­ nitico. L'insediamento di veterani di Scipione sul territorio caudino ed irpi­ no espropriato, che si rese disponibile nel 2 0 1 a. C. ', era chiaramente

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concepito come un'operazione su vasta scala. In questo progetto la mas­ sima estensione possibile di un lotto era di 36 iugeri 2 ; la commissione chiamata ad effettuare la distribuzione, al pari di quella nominata nel 1 7 3 a. C., comprendeva dieci membri invece di tre, che era il numero abi­ tuale quando si trattava di fondare una colonia. Non c'è ragione di sup­ porre che la commissione abbia deliberatamente adottato una politica di compromesso 3. Essa lasciò una parte della terra disponibile non as­ segnata, come prova il fatto che quattro cippi, che registrano assegnazio­ ni ad opera di commissari graccani, siano venuti alla luce nel triangolo di territorio irpino compreso fra Avellino, Eclano e Compsa '; ma ciò rien­ trava nella prassi comune '. Anche l'insediamento di 47 ooo • Apuani cisappenninici sull'Ager Taurasinus irpino nel 180 a. C. ' fu un'operazione su vasta scala '. Essa fu condotta con umanità: il trasferimento dei deportati avvenne a spese del governo romano e almeno il primo scaglione (comprendente quaran­ tamila Apuani su un totale di quarantasettemila) ricevette 1 5 0 ooo de­ nari per l'acquisto del materiale indispensabile per la loro sistemazione nella nuova sede. Questi Ligures Corneliani et Baebiani et Fulviani misero radice, co­ me sappiamo da un documento ' redatto nel regno di Traiano, che forni­ sce una lista completa delle proprietà site nel territorio di questa comu­ nità ligure e registra la dimensione di ognuna, in iugeri e frazioni di iu­ geri, sia per la data di compilazione che per il periodo repubblicano. Del­ le 92 proprietà individuali che si trovavano in questo territorio nella piu antica di queste due date 10, la piu piccola era di 6 iugeri, poi ve ne erano r 6 in tutto di non piu di I O iugeri, 40 fra I O e 20 iugeri, 28 fra 20 e 40 iugeri, e 8 oltre i 40 iugeri; la piu grande misurava 56 iugeri 11 • La scala delle misure è comparabile a quella delle assegnazioni nelle colonie lati­ ne di Copia e Valentia, fondate nel 193 e nel 192 a. C., mentre è piu bas­ sa di quella di Bologna, fondata nel 189 a. C. e, a fortiori, di quella di Aquileia, fondata nel 181 a. C. D'altro canto essa è considerevolmente piu alta della scala adottata in una qualsiasi colonia romana le cui cifre ci sian o note, con l'eccezione di Luni, fondata nel 1 77 a. C. nel territorio che il secondo scaglione di Apuani deportati era stato costretto ad eva­ cuare ". Fortunatamente possediamo una corrispondente coppia di liste u per il territorio di Velleia ", la città-stato (inizialmente con lo status di colonia latina) originata dal sinecismo, nell'89 a. C., del territorio degli Eleati (Ilvati) ", popolazione ligu re transappenninica stanziata nelle im­ mediate adiacenze del territorio degli Apuani cisappenninici prima della loro deportazione. Nel territorio di Velleia, nella prima delle due date, vi erano 89 proprietà individuali: la piu piccola misurava meno di 5 iu-

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geti, mentre ve ne erano 2 1 in tutto che non superavano i I O iugeri, 36 superiori a I O e inferiori a 20 iugeri, 24 superiori a 20 e inferiori a 4 0 iugeri, e 8 superiori a 4 0 iugeri, la piu grande delle quali misurava 105 iugeri Come si vede, esiste una corrispondenza notevolmente stretta fra le condizioni agrarie, pressappoco contemporanee, di due comunità rurali liguri, delle quali l'una era rimasta nelle sue sedi avite, sulle propaggini nord-orientali degli Appennini nord-occidentali, e l'altra era stata tra­ piantata dalle propaggini sud-occidentali della stessa sezione della cate­ na appenninica sull'altopiano sannitico. Sia nell'Ager Veleias che nell'A­ ger Taurasinus si manifestava una tendenza secolare, rivelata in entram­ bi i casi dal confronto fra le due serie di cifre 17 , alla diminuzione del nu­ mero delle proprietà e all'aumento della loro grandezza media. Al tempo di Traiano il numero era sceso da 92 a 50 nell'Ager Taurasinus, da 8 9 a 50 nell'Ager Veleias . Nell'Ager Taurasinus si contavano ora 1 7 pro­ prietà comprese fra 7 e 20 iugeri, 1 8 fra 2 1 e 40 iugeri, e 1 5 fra 42 e 2 50½ iugeri. Nell'Ager Veleias si contavano alla stessa data 6 proprietà com­ prese fra 7½ e 1 8 iugeri, 1 9 fra 25 e 3 8½ iugeri, e 25 fra 40 e 540½ iugeri. Mettendo assieme le due aree, il numero delle proprietà inferiori a 20 iugeri era sceso dal 63 per cento al 24 per cento del numero totale, men­ tre il numero delle proprietà superiori a 40 iugeri era salito dal 9 per cento al 24 per cento. Tuttavia nessuna di queste due regioni aveva vi­ sto lo sviluppo del latifondo, nemmeno al tempo di Traiano. In quel periodo la tenuta piu grande dell'Ager Taurasinus superava di soli I O½ iugeri l'estensione della fattoria modello, destinata alla produzione di olio, illustrata da Catone nel II secolo a. C. e la tenuta piu grande del1'Ager Veleias superava di soli 40½ iugeri la massima estensione di ager publicus che al tempo di Catone era consentito ad un privato di occu­ pare. L'Ager Veleias faceva parte di quel nuovo mondo di contadini legati all'agricoltura di sussistenza che il governo romano aveva creato nel II secolo a. C. per controbilanciare la regressione dell'economia rurale nel­ la penisola italiana. Tuttavia, se è vero che dopo la guerra annibalica l'I­ talia peninsulare diventò, come la maggior parte del mondo ellenico con­ temporaneo, una regione produttrice di beni destinati al mercato 1' , è pur vero che la cerealicoltura sopravvisse qui e là nella penisola fino alle ge­ nerazioni di Varrone e Virgilio La documentazione letteraria è suffra­ gata, per quanto riguarda l'Ager Taurasinus, dalla duplice lista traianea. 16



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4. L'esiguità delle assegnazioni operate dal governo nelle sue colonie latine dell'Ager Thurinus e nel Bruzio. Quando, sul finire del 194 a. C., la plebe romana votò su richiesta del Senato la fondazione di due colonie latine nel territorio da poco annesso nel « collo» dello Stivale, una in territorio già appartenuto a Turi e l'altra in territorio già bruzio ', essa si uniformava al metodo, tradizionalmente seguito dal governo romano, di fondare insediamenti di cittadini romani in regioni lontane dall'Urbe. Il piano votato nel 1 94 a. C. fu in seguito at­ tuato. Nel 193 a. C. una colonia latina di nome Copia fu fondata a Ca­ strum Frentinum, nel territorio già appartenuto a Turi 2 • Nel 1 92 a. C. una colonia di nome Valentia fu fondata a Vibo (Ipponio), nel territorio già appartenuto ai Bruzi. Dando notizia del primo di questi due atti, il re­ soconto annalistico romano critica l'esiguità della misura applicata dai commissari nell'assegnazione della terra disponibile. Essi arruolarono non piu di 3000 fanti e 300 cavalieri, cifre molto basse « considerando la quantità di terra a disposizione». Su questa base avrebbero potuto esse­ re assegnati 30 iugeri a ogni fante e 60 a ogni cavaliere; ma su proposta di uno dei tre commissari, L. Apustio Follone, la commissione accantonò un terzo della terra che era autorizzata a distribuire e assegnò solo 20 iu­ geri a testa per i fanti e 40 per i cavalieri 3 • A Valentia la misura delle as­ segnazioni fu ancora piu scarsa: i fanti ebbero solo 15 iugeri a testa e 30 i cavalieri '. Queste cifre sono in stridente contrasto con quelle relative alle assegnazioni nelle colonie latine fondate, nello stesso periodo postanni­ balico, sull'ager publicus di recente annessione situato fra l'Arno e l'U­ tens: a Bologna, nel 189 a. C., i fanti ricevettero 50 iugeri a testa e i ca­ valieri 70 '; ad Aquileia, nel 181 a. C., i soldati semplici ricevettero 50 iugeri a testa, i centurioni 100, i cavalieri 140 •. La ragione addotta dai commissari di Copia per spiegare la loro deci­ sione di accantonare un terzo della terra già bruzia a loro disposizione era che ciò avrebbe loro permesso di arruolare in seguito altri coloni, se lo avessero trovato opportuno. Ma, se in questo caso ha valore l'argumen­ tum ex silentio annalium, tale opportunità non si presentò mai 1 • Livio n_on registra alcun successivo rinforzo per Copia, sebbene egli dia noti­ zia del rinforzo di colonie del periodo postannibalico in diversi casi - per esempio ad Aquileia 8. L'accantonamento di una parte della terra dispo­ nibile era indubbiamente prassi comune per le commissioni incaricate �ella_ fondazione di colonie, ma la quantità di terra messa da parte nel ter­ tltono già appartenuto a Turi nel 193 a. C. doveva essere enorme, giudi-

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cando in base ai canoni tradizionali, tanto da suscitare quelle critiche di cui troviamo un'eco nella documentazione. La spilorceria delle assegnazioni operate nel «collo» dello Stivale, in confronto alla generosità usata nelle distribuzioni nelle pianure transap­ penniniche, è tanto piu degna di nota se si pensa che, nel momento in cui Copia e Valentia furono votate e fondate, vi erano cogenti motivazioni strategiche perché il governo romano rafforzasse il piu possibile queste due colonie latine. In quel periodo il governo nutriva il sincero timore che Annibale, con la potenza navale della monarchia seleucidica a sua di­ sposizione, potesse ridiscendere, questa volta per mare, nell'Italia sud­ orientale. Copia e Valentia rientravano in quello stesso sistema di difese costiere di cui facevano parte le otto colonie romane che erano state fon­ date lungo le coste dell'Italia sud-orientale nel 1 94 a. C., l'anno in cui fu votata la fondazione di Copia e Valentia. Quando si trattava di impian­ tare colonie, il governo si lasciava guidare anche da considerazioni di or­ dine strategico; le colonie di C. Gracco furono forse le prime la cui posi­ zione era scelta senza alcuna finalità strategica. Copia e Valentia veniva­ no fondate, alla vigilia della guerra romano-seleucidica, in quella «For­ tezza Bruzio » che era stata l'ultimo caposaldo di Annibale su suolo ita­ liano. Sarebbe stato logico attendersi che la loro dotazione di uomini e terre fosse pari a quella delle colonie latine di Piacenza e Cremona, le due fortezze chiave di Roma nella pianura padana, ciascuna delle quali era stata fornita di 6000 coloni nel 2 1 8 a. C. 9 • Nel 1 90 a. C. una loro ri­ chiesta di rinforzi ricevette una generosa risposta da parte del Senato 10: per le due colonie insieme fu votato l'invio di 6000 uomini, pari alla me­ tà del contingente complessivo originario. Alla luce di queste circostan­ ze, la ragione data dai commissari di Copia per la loro parsimonia è poco convincente: c'è il sospetto che essi fossero maggiormente preoccupati di sostenere interessi privati che di curare, come sarebbe stato lecito atten­ dersi da funzionari chiamati a fondare una colonia, gli interessi dei con­ tadini romani . La terra messa a disposizione della commissione dal governo romano era particolarmente adatta alla cerealicoltura. Varrone la cita 1 1 , accanto al territorio di Gadara nella Decapoli di Transgiordania e alla Bizacena nell'Africa nord-occidentale, come suolo che assicura una resa di cento volte. Un uso non agricolo di questa fertile pianura sarebbe stato decisa­ mente antieconomico finché l'Ager Thurinus fosse stato sfruttato come unità separata dalle vicine montagne. Ma le montagne sovrastavano sia l'Ager Thurinus che le pianure lungo la costa tirrenica del Bruzio meri­ dionale, dove, su un fertile pianoro alla quota di 5 56 metri, fu fondata Valentia-Vibo. Queste distese pianeggianti si trovano ai piedi della Sila,

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un massiccio corrugato da crinali ondulati 1 2, la cui altitudine varia fra 1 1 oo e I 700 metri. A tale quota la Sila è un'enclave di territorio alpino nel cuore del Me­ diterraneo. Abitarvi tutto l'anno e procurarsi di che vivere sfruttandola come un'area economica in sé conchiusa è un'impresa al limite delle ca­ pacità umane, anche disponendo delle opportunità e degli agi dei tempi nostri. Un simile tour de force è stato affrontato solo nel xx secolo, e sta ora ottenendo un certo successo grazie all'assistenza di un ente pubblico ( l'Ente Valorizzazione Sila), sostenuto dalle risorse di uno Stato italiano che comprende tutta l'Italia continentale, oltre a quella peninsulare, non­ ché la Sicilia e la Sardegna ". Fino alla fine del secolo scorso la Sila era di norma disabitata e veniva utilizzata soltanto per una parte dell'anno 14 • Essa ha ospitato un'industria forestale stagionale, per l'estrazione della pece e il taglio degli alberi d'alto fusto ed è stata utilizzata anche come pascolo estivo. Ma questo uso stagionale della Sila per l'allevamento no­ made è possibile solo se si dispone, nelle vicine pianure, di un'area suffi­ cientemente ampia da fornire pascoli invernali ai capi di bestiame che la Sila può nutrire nel periodo estivo. L'uso piu produttivo che si possa fa­ re di questo massiccio, e forse dell'intero Bruzio in connessione con l'A­ ger Thurinus, è di sfruttare la Sila, l'Ager Thurinus e le pianure tirreni­ che del Bruzio meridionale come una sola unità economica per l'industria pastorale nomade, anche se ciò determina un calo della produttività in quelle aree pianeggianti che devono essere trasformate da terreni colti­ vati a grano in pascoli invernali. L'economia pastorale nomade era attiva in questa regione nel secolo scorso 1•. Sfruttati in tal modo unitariamente per l'industria dell'alleva­ mento nomade, il Bruzio e l'Ager Thurinus sono una replica, su scala ri­ dotta, dell'unità pastorale nomade costituita dalle montagne abruzzesi combinate con le pianure dell'Apulia nord-occidentale. Condizione indi­ spensabile per la pratica dell'allevamento nomade era la disponibilità di pascoli estivi e invernali raggiungibili gli uni dagli altri e di capacità ap­ prossimativamente uguale. In età postannibalica, i capitalisti romani che �nvestivano in questa industria sull'ager publicus romano saranno stati impazienti di assicurarsi che i tratti pianeggianti di ager publicus, idonei a essere utilizzati come pascoli invernali, fossero riservati a questo uso in quantità sufficiente ad accogliere il piu alto numero di capi che poteva es­ sere sostentato dalle montagne adiacenti nella stagione estiva. Essi avran­ n? puntato gli occhi anche sulla preda di valore inferiore costituita dalle pianure già appartenute a Turi e al Bruzio, oltre che su quella, di maggior valore, della grande pianura daunia nell'Apulia nord-occidentale. Possia­ mo sospettare che essi abbiano trovato udienza presso L. Apustio Fullo15 ,

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ne e che proprio per sostenere i loro interessi questi abbia persuaso i suoi colleghi ad accantonare come riserva un terzo della pertica della nuova colonia latina di Copia, sottraendola all'assegnazione e alla nuova messa a coltura da parte dei coloni. Simili pressioni private, cui i commissari per Copia sono sospettati di aver ceduto, non intralciavano invece l'atti­ vità dei loro colleghi, i commissari per Bologna e Aquileia, in quanto nel­ la regione cisalpina d'età postannibalica le forme commerciali dell'agri­ coltura e dell'allevamento non erano in concorrenza con l'economia ru­ rale basata sull'agricoltura di sussistenza. 5. « Laisser-faire » per l'impresa capitalistica privata in Apulia e in Lucania. Nell'Ager Thurinus e nel Bruzio era ancora seguita, nel 193-192 a. C., la politica tradizionale di impiantare colonie di contadini legati all'agri­ coltura di sussistenza, ma i coloni ricevevano quantità esigue di terra. Comunque, che la restrizione imposta alla colonizzazione rurale in questa regione fosse o no dovuta alla pressione degli interessi privati, che mira­ vano a usare questo nuovo ager publicus romano per i propri scopi, non c'è dubbio che all'impresa capitalistica privata fu concessa una completa libertà d'azione sul nuovo ager publicus dell'Apulia nord-occidentale e della Lucania sud-occidentale. Erano, queste, le due regioni dell'Italia sud-orientale in cui piu ampie erano state le espropriazioni di terre at­ tuate da Roma a danno degli Stati alleati già secessionisti '; e anche qui i territori espropriati furono trasformati in ager publicus romano. L'imponente passaggio di proprietà e di sovranità andò ad assommar­ si al lungo e ininterrotto processo di spopolamento dell'Italia sud-orien­ tale che, fatta eccezione per la Campania romana, gli effetti devastanti della guerra annibalica avevano portato alle estreme conseguenze 2 • Que­ sti due mutamenti combinati fra loro diedero ai capitalisti romani, in età postannibalica, l'opportunità di metter piede in tutta l'Italia sud-orien­ tale, e in particolare nei settori dell'Apulia e della Lucania che erano stati annessi. Cicerone scrive che l'Apulia era ai suoi tempi l'«inanissima pars Italiae » '; un secolo dopo, Seneca fa riferimento ai «deserta Apuliae» 4 • La fonte di Strabone nota 5 che nelle aree delle città di Arpi e Canosa il calo demografico poteva esser misurato dalla quantità di suolo non edi­ ficato che allora si trovava all'interno della cerchia di mura. È chiaro che le colonie rurali fondate dal governo romano nell'Italia sud-orientale do­ po la guerra annibalica non giunsero assolutamente a ripopolare la regio­ ne e nemmeno a riportarla alla densità di popolazione, invero non molto

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alta, del 2 I 8 a. C. - per non parlare della densità che essa aveva regi­ strato due secoli prima, quando non era ancora iniziato il lungo proces­ so di decadenza •. Non disponiamo dei dati statistici necessari per cal­ colare quanta parte del territorio da poco annesso in questa regione fu 1 las ciato non assegnato e rimase perciò ager publicus, ma non mancano ind izi che essa fosse molto estesa '. Per esempio, sei degli otto cippi su­ perstiti, che segnavano i confini delle assegnazioni fatte dai commissari graccani in ottemperanza alla legge agraria di Ti. Gracco del 13 3 a. C., sono venuti alla luce in località dell'Italia sud-orientale '. (Gli altri due sono stati ritrovati presso Fano e nei dintorni di Amandola, nell'Ager Gallicus et Picenus) 10 • Inoltre i nove decimi delle colonie fondate in Ita­ lia da C. Gracco, secondo il Liber Coloniarum, erano situati nell'Italia sud-orientale 1 1 • Questi fatti indicano che i commissari graccani trovarono qui una quantità di ager publicus non assegnato molto maggiore che in qualun­ que altra regione d'Italia e che, ultimata la distribuzione dei lotti, in que­ sta regione restava ancora tanto ager publicus non assegnato che C. Grac­ co concentrò qui, nel I 2 2- 1 2 I a. C., le sue iniziative di fondazioni colo­ niali. L'ager publicus non assegnato dell'Italia sud-orientale su cui mise­ ro le mani i riformatori graccani doveva essere lo stesso ager publicus di cui si erano impadroniti gli occupatores romani. Una testimonianza indi­ retta della loro occupazione dell'ager publicus di questa regione viene da un frammento della Suasio in Senatu di Catone: «Accessit ager quem pri­ vatim habent Gallicus, Samnitis, Apulus, Bruttius» [«Si aggiunse il ter­ ritorio che posseggono privatamente i Galli, i Sanniti, gli Apuli e i Bru­ zi »l Le prime due regioni cui qui si fa riferimento hanno restituito cippi graccani. C'è il sospetto che gli imprenditori capitalisti abbiano occupato ager publicus anche in Apulia, oltre che nel Bruzio e nell'Ager Thuri­ nus 12, mentre il ritrovamento di cippi graccani nell'Ager Gallicus " e nel­ l'Ager Hirpinus " fa pensare che essi si siano installati anche in queste re­ gioni. L'elenco riportato da Catone suffraga l'affermazione di Appiano secondo cui gli occupanti dell'ager publicus aggiunsero campo a campo e ampliarono i loro possedimenti di ager publicus acquistando piccole pro­ prietà contadine, preferibilmente nelle vicinanze 15 L'opportunità che in tal modo gli imprenditori capitalistici romani in­ travidero e colsero dopo la guerra rappresentava la ricompensa della loro efficienza. Annettendo e nazionalizzando grandi aree devastate dell'Italia sud-orientale, il governo romano si era sobbarcato a un'onere cui non po­ teva far fronte perché privo dell'attrezzatura e delle risorse necessarie. Il s uo personale di funzionari civili in servizio permanente era troppo esi­ guo e troppo servile per consentirgli di eseguire regolari ispezioni perfino

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di porzioni di ager publicus cosi ridotte come i territori dei tre disciolti municipi campani o i territori, ancora piu piccoli, delle colonie di difesa costiera. Il governo non riusci a impedire agli occupanti abusivi di por­ targli via di soppiatto un quarto della sua proprietà terriera in Campa­ nia, e non riusci nemmeno a scoprire, se non qualche tempo dopo che il fatto era accaduto, che le guardie costiere di Siponto e Bussento avevano abbandonato i loro posti. Il governo non aveva né l'organizzazione né il capitale necessari per rimettere in sesto e colonizzare le aree devastate che aveva annesso in Apulia e in Lucania ". Forse non riusci nemmeno a tracciarne la mappa ". Ma un acquisto che per il governo rappresenta­ va un onere e una complicazione si rivelò una miniera d'oro per i capita­ listi privati, perché costoro disponevano dei mezzi per valorizzarlo. I capitalisti romani, infatti, padroneggiavano i metodi commerciali allora praticati nel resto del mondo mediterraneo. Era perciò inevitabile che essi cogliessero al volo l'occasione là dove il governo si mostrava esi­ tante. Forse il governo non tentò neppure di imporre tasse sull'agro pub­ blico romano coltivato da privati, e se mai tentò di farlo lo scopo sarà stato non tanto quello di procurarsi entrate quanto quello di conservare il suo diritto di fondo alla proprietà ". Secondo Appiano 1', sul prodotto del­ l'ager publicus che l'occupante metteva o rimetteva in coltura il governo impose una tassa che ammontava a un decimo del raccolto di cereali e a un quinto del prodotto delle piantagioni. Senza dubbio gli allevatori era­ no tassati in base alla quantità di bestiame, grosso o minuto, che essi man­ tenevano sui pascoli pubblici 20 • Fu posto anche un limite legale alla su­ perficie di ager publicus che un individuo poteva coltivare cosi come al numero dei capi di bestiame, grosso o minuto, che un privato poteva mantenere su pascolo pubblico 21 • A queste condizioni il governo conces­ se ai capitalisti romani piena libertà d'azione nelle parti non assegnate del nuovo ager publicus che lo Stato romano aveva acquistato, dopo la guer­ ra annibalica, nell'Italia sud-orientale e specialmente in Apulia e in Lu­ cania. Gli imprenditori romani diventarono ben presto i principali, anche se non i soli utenti di questo ager publicus. Quando il governo annetteva un territorio straniero e lo trasformava in ager publicus romano, ne ri­ sultava un mutamento sia dello status legale della superstite popolazio­ ne preromana sia delle modalità di sfruttamento della terra, senza che ciò implicasse necessariamente un cambiamento immediato delle condizioni materiali. La prassi seguita dal governo era di lasciare che gli indigeni continuassero a vivere e a lavorare sul territorio espropriato in qualità di dediticii 22 , a meno che e finché questo territorio, tutto o in parte, non venisse usato come pertica di una nuova colonia latina o romana o

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dis tribuito in lotti a cittadini romani viritim. Un classico esempio di tale prassi è fornito dal trattamento riservato ai Senoni. Il loro territorio, l'Ager Gallicus all'estremità nord-occidentale della costa adriatica dell'I­ talia peninsulare, era stato annesso da Roma e trasformato in ager publi­ cus romano nel 284 o 2 8 3 a. C. Ai Senoni era stato però concesso di continuare a vivere e a lavorare nella regione che era stata la loro patria fino a quando, nel 232 a. C., essi non furono espulsi per consentire l'at­ tuazione della Lex Flaminia di quell'anno, che disponeva la distribuzione 24 a coloni romani viritim dell'Ager Picenus et Gallicus • L'effetto giuridico della trasformazione di un territorio straniero in ager publicus romano era di convertire i suoi abitanti in occupanti con diritto di possesso precario ". Ma è presumibile che tale possesso non fos­ se piu precario di quello degli occupanti romani che vi si insediavano. Tutti gli occupanti di entrambe le categorie avranno pagato al governo romano le stesse decime e le stesse quinte parti della loro produzione agri­ cola (se queste tasse furono davvero imposte), e la stessa tassa sul be­ stiame, come quid pro quo per l'autorizzazione a far uso dell'agro pub­ blico del Popolo romano fino a quando ciò fosse convenuto allo stesso Popolo romano. I diritti degli occupanti romani non annullavano i di­ ritti degli altri occupanti. Il governo non era disposto ad espellere gli occupanti indigeni per far posto a nuovi venuti che erano anch'essi nien­ t'altro che occupanti, almeno fino a quando, com'è ovvio, gli indigeni avessero pagato il loro tributo (se un tributo era stato loro imposto). Il governo non avrebbe scacciato occupanti di nessun tipo se non per far posto a una colonia latina o romana, o a un insediamento di Romani o La­ tini viritim, in esecuzione di un voto formalmente espresso dal Senato o dal Senato e dal Popolo. Nel qual caso, gli occupanti romani non avreb­ bero avuto maggior diritto di quelli indigeni a continuare ad occupare terra ormai destinata a essere assegnata in piena proprietà a coloni. Questa tolleranza, in via provvisoria, dell'ininterrotta presenza degli abitanti indigeni nel ruolo di occupanti non era dettata da un sentimento umanitario; essa era il banale riflesso, nella politica pubblica romana, di due ovvie verità economiche: un tratto di ager publicus privo di occu­ panti non avrebbe avuto alcun valore per lo Stato romano, e i soli oc­ cupanti immediatamente disponibili erano quelli che già vi si trovavano. L'aspetto imbarazzante di questa politica stava nell'ignorare gli inevita­ bili effetti psicologici indotti dal protrarsi nel tempo di una certa situa­ zione. L'espulsione finale dei Senoni nel 2 3 2 a. C. era apparsa un'atroci­ tà agli stessi Senoni e ad altri Galli d'oltreconfine, nonché ad alcuni Ro­ mani di quel tempo, perché erano ormai piu di cinquant'anni che era loro consentito di vivere in patria Questa situazione psicologica si ricreò, 23

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su scala piu ampia e con effetti piu esplosivi, nel 1 3 3 a. C., allorché l'ap­ provazione della legge agraria di Ti. Gracco minacciò di espulsione gli oc­ cupanti, indigeni e stranieri, che da due terzi di secolo vivevano e lavo­ ravano sull'ager publicus romano dell'Italia sud-orientale che era stato espropriato subito dopo la fine della guerra annibalica, ma che in seguito il governo romano non si era affrettato al alienare. Certo, una parte delle terre espropriate nel territorio già appartenu­ to ai Caudini e agli Irpini era stata alienata nel 2 0 1 -200 a. C. a beneficio dei veterani di Scipione, e alcuni settori del territorio un tempo turino e bruzio erano stati alienati nel 1 9 3 - 1 9 2 a. C. per i coloni di Copia e Va­ lentia. Inoltre vi erano state alienazioni di terra su scala ridotta, nel 1 99 e nel 1 94 a. C., per dotare le nove colonie romane di difesa costiera. Tut­ tavia l'area complessiva interessata da tali assegnazioni era trascurabile in confronto a quella che rimaneva ancora da assegnare, anche dopo l'in­ sediamento degli Apuani nell'Ager Taurasinus nel 1 80 a. C. Per la legge romana il semplice trascorrere del tempo non dava agli occupanti alcun diritto di proprietà, per quanto a lungo si fosse protratto il loro possesso precario, e laddove erano interessati soltanto gli occupanti indigeni - co­ me sembra essere avvenuto nell'Ager Gallicus nel 2 3 2 a. C. - le loro ri­ vendicazioni fondate sull'equità avrebbero avuto ben poche possibilità di impedire che la legge, per quanto tardivamente applicata, seguisse il suo implacabile corso. Nel 2 3 2 a. C. i Senoni furono scacciati dalle loro sedi avite, e sebbene questo duro provvedimento non sia stato adottato da Roma impunemente, essi non ottennero riparazione. La loro espulsio­ ne fu forse uno degli atti di provocazione, da parte romana, che determi­ narono l'invasione gallica dell'Italia peninsulare nel 2 2 5 a. C. "', ma l'at­ tacco fu respinto e i Senoni non rientrarono piu. Nel 1 3 3 a. C. gli occu­ panti indigeni turini, bruzi, lucani, irpini e apuli non avrebbero forse avuto miglior sorte dei Senoni un secolo prima se, al pari di questi ul­ timi, non avessero avuto nessuno al loro fianco. Fortunatamente per loro, essi disponevano di potenti alleati nelle persone degli occupanti romani che si erano insediati accanto a loro nel corso dei sessantasette anni pre­ cedenti, e questi occupanti romani non si sarebbero lasciati espellere sen­ za far sentire la loro voce. Essi non sarebbero rimasti muti come pecore alla tosatura: non erano solo cittadini romani, ma anche membri della classe di governo o della nuova classe di affaristi romani che aveva co­ struito la propria fortuna nelle due fasi della guerra romano-cartaginese. L'espulsione di questi influenti occupanti romani, il cui possesso dura­ va da due generazioni, provocò la rivoluzione romana dei cent'anni che mandò in frantumi la struttura politica cosi abilmente edificata dalla no­ biltà romana.

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Ma anche se gli occupanti indigeni dell'ager publicus dell'Italia sud­ orientale non avessero avuto al loro fianco, nel 1 3 3 a. C., gli occupanti romani, si sarebbero comunque trovati in una posizione piu salda di quel­ la dei Senoni nel 2 3 2 a. C. Gli occupanti indigeni il cui domicilio si tro­ vava in territorio espropriato probabilmente godevano, nel diritto roma­ no, dello status di dediticii. Si trattava di persone che si erano rimesse alla mercé dei Romani e cosi facendo avevano perduto tutti i diritti, eccetto il diritto inalienabile del supplice È tuttavia possibile che quelli domi­ ciliati in loco non fossero i soli occupanti indigeni sull'ager publicus del­ l'Italia sud-orientale. Potevano esserci anche occupanti indigeni che svol­ gevano il loro lavoro giornaliero e si guadagnavano da vivere su un tratto di questo ager publicus romano, ma avevano il domicilio legale in uno de­ gli Stati alleati, fuori dell'Ager Romanus, da cui l'ager publicus dell'Ita­ lia sud-orientale era stato staccato dopo la guerra annibalica. Tale possibilità è suggerita dalla posizione del cippo graccano ritro­ vato nella valle del Tanagro (il Val di Diano), non lontano dalla città di Atina ( l'odierna Atena). Essa sorgeva, e sorge tuttora, su una collina che domina l'estremità inferiore del Val di Diano, e il suo territorio include­ va certamente questa estremità della valle prima che, nel 200 a. C. o do­ po questa data, la carta politica dell'Italia sud-orientale subisse radicali cambiamenti. In base a questa revisione punitiva, l'intero fondovalle, che era l'unica superficie coltivabile di una qualche estensione o impor­ tanza di tutta la Lucania sud-occidentale, fu annesso all'Ager Romanus con l'inclusione di quelle che erano state in precedenza le città-stato lu­ cane di Teggiano e Consilino, che occupavano il territorio immediata­ mente a monte di Atina. Al pari di Grumento e Blanda, questi due Stati lucani sembrano essere stati interamente annessi da Roma. Atina conser­ vò si la sua personalità giuridica come Stato sovrano alleato di Roma, ma in cambio si vide privata di quella parte di territorio da cui traeva il suo sostentamento. La posizione del cippo graccano dimostra che i campi del­ l'Ager Atinas nel fondovalle erano stati annessi all'Ager Romanus, e tra­ sformati in ager publicus romano, proprio fin sotto la collina su cui sorge la città. L'Ager Atinas era ora confinato alle montagne che sorgevano nel1'entroterra della città. Ma una città-stato non poteva vivere soltanto di pascoli per capre; è perciò da ritenere che, nel corso dei due terzi di se­ colo che separano la riorganizzazione politica attuata alla fine della guerra annibalica dall'approvazione della legge agraria di Ti. Gracco nel 1 3 3 a. C., gli Atinati continuassero a scendere ogni giorno nei campi del fon­ dovalle e a fare ritorno ogni sera in città per trascorrervi la notte. Era ciò che essi e i loro antenati facevano da tempo immemorabile, e per que21



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sto modo di vivere e di lavorare Atina era una tipica città agricola di col­ lina dell'Italia peninsulare. Cosi erano sempre vissuti e avevano sempre lavorato a memoria d'uomo gli abitanti di innumerevoli città collinari dell'Italia peninsulare. È solo ai nostri giorni che questo antico modo di vivere ha iniziato a scomparire. Tra il 200 e il 133 a. C. gli Atinati avranno sempre condotto questa vita, e in pratica, durante quei sessantasette anni non dovette fare mol­ ta differenza per loro l'esser costretti, per il lavoro quotidiano, ad attra­ versare una frontiera politica due volte al giorno. L'approvazione nel I 3 3 a. C. della legge agraria di Ti. Gracco dovette essere un duro colpo per gli Atinati cosi come per i loro vicini di Teggiano e Consilino, che coltiva­ vano i loro campi aviti con lo status di dediticii 29 ; ma gli Atinati saranno stati in grado molto piu dei loro vicini di far sentire le loro proteste e di opporre resistenza. Atina era ancora una città-stato sovrana con un pro­ prio governo, che poteva trattare da pari a pari col governo romano e inoltre unirsi ai governi di altri Stati alleati, ugualmente minacciati dalla legge graccana, per elevare una protesta collettiva contro il governo romano. Nel settimo decennio del II secolo a. C., la paura di spingere i suoi al­ leati italici a far fronte comune contro di lei metteva ancora un freno al comportamento ingiusto e arbitrario cui Roma si era lasciata andare nei confronti degli alleati a partire dalla grande secessione nell'Italia sud-o­ rientale nel 2 1 6 a. C. '°. Questa paura era profondamente radicata nell'e­ sperienza politica di Roma; essa risaliva alla generazione precedente alla guerra romano-latina del 340-338 (337-335 o 336-334) a. C., quando Roma era stata sfidata dal fronte unito della Confederazione latina. Roma si valse della vittoria in quella guerra innanzitutto per frantumare la Con­ federazione latina nelle città-stato che ne facevano parte e per agganciar­ le a sé, una per una, come municipi o come alleati separati. Ma aveva sempre paventato che il fronte alleato potesse un giorno ricostituirsi, e questo timore era stato l'incubo del suo governo quando, nel 209 a. C., dodici colonie latine si erano di fatto rifiutate, collettivamente, di conti­ nuare ad assolvere gli obblighi militari nei confronti di Roma 31 • L'incubo doveva diventare realtà nel 90 a. C.: sebbene anche allora gli alleati non si fossero ribellati en bloc, la parziale secessione di quell'anno si rivelò ab­ bastanza temibile da indurre Roma a cedere alle richieste dei ribelli. Con questa minacciosa prospettiva che oscurava l'orizzonte politico, il gover­ no romano doveva riflettere attentamente prima di compiere un passo che poteva danneggiare gli interessi, non solo di questo o quell'alleato ma dei suoi alleati in generale; e gli interessi di molti suoi alleati nell'I­ talia sud-orientale furono danneggiati dalla legge agraria del 1 3 3 a. C.

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Nella riorganizzazione politica dell'Italia sud-orientale, attuata con rito di vendetta dopo la guerra annibalica, il governo romano aveva spi seminato vento. Ed esso raccolse tempesta nella rivoluzione dei cento anni cui Tiberio-Eolo diede libero corso nel 133 a. C.

V.

LA MANCATA RES TAURAZIONE DELL ' ECONOMIA RURALE TRADIZIONALE NELLE PIANURE DELL ' ITALIA CENTRALE.

La regione a nord e a nord-ovest del Volturno era il cuore della Fede­ razione romana. Essa comprendeva tutto l'Ager Romanus preannibalico, fatta eccezione per la sua estremità sud-orientale nella Campania nord-oc­ cidentale. Entro questa regione di importanza vitale, le pianure tirre­ niche costituivano la parte piu vitale: qui si trovavano le piu estese e fertili terre agricole dell'Italia centrale e le sue città piu grandi e impor­ tanti. Lo sviluppo urbano in questa regione era stato stimolato dalla guerra annibalica, e non solo a Roma ma anche nelle città di provincia 1 • Nel contempo l'agricoltura era stata messa fuori combattimento dalla politica della « terra bruciata» adottata da Fabio, cui la marcia di Anni­ bale su Roma, nel 2 1 1 a. C., aveva dato il tocco finale 2 . Questo colpo, che in sostanza Roma aveva inferto al suo stesso nucleo vitale, era stato terribile; ma non si poteva far niente per neutralizzarne, o anche ridur­ ne, gli effetti fino a quando Annibale godeva di libertà di movimenti nella penisola, e questa situazione si protrasse fino al 207 a. C., quando la for­ za di spedizione di Asdrubale fu annientata al Metauro. Annibale si ritirò allora nella sua « Fortezza Bruzio » e il governo romano tornò a essere realmente padrone dell'intera penisola, fatta eccezione per questa remo­ ta enclave. All'inizio del 206 a. C., il primo atto del governo fu quello di tentare di far rinascere l'agricoltura nell'Ager Romanus, e particolar­ mente, senza dubbio, nelle pianure dell'Italia centrale. Il Senato diede disposizione ai consoli di non partire in guerra se non dopo aver provveduto a ricondurre la popolazione nei campi. Il Senato notò che, grazie al favore degli dei, la guerra era stata allontanata dai dintorni dell'Urbe e dal Lazio. La popolazione poteva ora vivere nei campi senza alcun timore. Non conveniva al governo mostrare minore sollecitudine per la ripresa della coltivazione in Italia di quanto avesse fatto in Sicilia. Ma l'attuazione della po­ litica del governo non era affatto facile per il Popolo romano. I contadini li­ beri erano stati annientati dalla guerra; non c'erano piu schiavi; il bestiame era stato predato e le fattorie distrutte o bruciate 3 •

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Capitolo sesto

La prospettiva di ricominciare la vita e il lavoro in una campagna de­ vastata era in realtà desolante; in piu occorreva sradicare le abitudini in­ valse negli ultimi undici anni. A partire dal 2 1 7 a. C. la popolazione ru­ rale del territorio compreso fra il basso Volturno e Roma era vissuta ammucchiata nelle città, e ciò non solo per una ricerca spontanea di pro­ tezione dalle incursioni cartaginesi, ma anche per l'ordine espresso del proprio governo, accompagnato dalla minaccia di crudeli sanzioni in ca­ so di inadempienza. Costretti in tal modo nelle città da una duplice pres­ sione, i profughi della campagna avevano trovato un nuovo mezzo di sussistenza nelle industrie belliche urbane e avevano imparato ad apprez­ zare i piaceri che la vita cittadina offriva nel mondo ellenico di allora. In realtà erano stati strappati a quella vita contadina che essi stessi e i loro antenati erano andati conducendo da tempo immemorabile. Stava perciò diventando molto piu difficile rigenerare il suolo romano di quan­ to non fosse stato il metterlo a ferro e a fuoco. In queste circostanze, quanto meno poco propizie, le speranze di una vigorosa ripresa dell'economia rurale tradizionale nelle pianure dell'Ita­ lia centrale furono seriamente frustrate, a soli sei anni di distanza dalla direttiva emanata dal governo nel 206 a. C., dalla sua decisione di pagare in terre, invece che in denaro, la terza e ultima rata a saldo del debito di guerra contratto dallo Stato romano con privati cittadini. L'agro pubbli­ co usato per questo scopo si trovava interamente nel raggio di cinquanta miglia romane dall'Urbe. Esso fu ripartito fra i creditori del governo in base a una stima, e rimase soggetto al canone nominale di un asse per iu­ gero come prova che il governo conservava il suo dominio eminente 4 • Ma in realtà i trientabula - questo il nome dato alle terre in questione - da allora in poi furono proprietà privata, e i fortunati beneficiari, diversa­ mente dagli occupanti di altro ager publicus agricolo, erano in grado di trasmettere ai loro eredi un patrimonio sicuro. Le terre dei trientabula non furono toccate dalla legislazione agraria graccana, e la legge agraria del r r r a. C. confermò il virtuale diritto di proprietà di cui godevano i loro possessori '. Nel resoconto annalistico le due parti escono con onore da questo ac­ cordo. L'offerta del governo, dice Livio •, era « medium inter aequum et utile », e i suoi creditori privati « laeti eam condicionem ... accepere ». L'i­ dea che Livio intende comunicare è che l'offerta era «un compromesso fra ciò che era giusto per i creditori e ciò che conveniva al governo», e che « i creditori accettarono con soddisfazione le condizioni del governo». Tuttavia le stesse parole possono anche essere interpretate in un senso, forse piu vicino alla verità storica, che non è quello voluto da Livio. L'of­ ferta era, in realtà, « un compromesso tra ciò che era giusto per il gover-

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no e ciò che conveniva ai creditori», e « i creditori accettarono con giu­ bilo le condizioni del governo». Chiunque fra i creditori avesse dimestichezza con gli affari dovette ndersi conto che veniva ripagato con una merce destinata a crescer di re valore, invece che con una moneta il cui valore futuro era imprevedibile. B difficile credere che nel 200 a. C. tutti i senatori e i magistrati fossero cosi poco versati negli affari da non tener conto, da parte loro, di queste ovvie considerazioni. Anzi, essi non potevano non rendersene conto se ne erano consapevoli i creditori, in quanto senatori e creditori erano membri della stessa classe di governo e in molti casi, probabilmente, era­ no le stesse persone. Sembrerebbe quasi che l'affare fosse stato preordi­ nato e che i creditori avessero accertato, prima di insistere per una rapida restituzione di ciò che era loro dovuto, che il governo avrebbe soddisfat­ to le loro richieste offrendo un qualcosa il cui valore potenziale era ben maggiore del valore monetario corrente. I creditori avevano fatto coin­ cidere la loro richiesta con il momento in cui il governo si accingeva a entrare in guerra con la Macedonia e sarebbe perciò stato difficile per il Tesoro privarsi anche di una parte del contante di cui disponeva. Il mo­ mento scelto per la richiesta creava dei problemi al governo; ma i nobili che erano messi in difficoltà come senatori sapevano bene quali erano i loro interessi di speculatori sul valore dei teneni; e se qualcuno di loro avesse sentito rimorsi di coscienza, li avrebbe calmati dicendo a se stesso che anche ai nobili, oltre che ai nuovi ricchi, doveva essere riconosciuto il diritto di curare i propri interessi privati e che, fin da quando, nel 2 18 a. C., era entrata in vigore la Lex Claudia a tutto vantaggio della nuova classe di affaristi, l'unica occupazione lucrosa che un senatore era ancora libero di esercitare era l'acquisto e lo sfruttamento della terra. Fra tutti i beni immobili non urbani d'Italia, i trientabula erano il trofeo piu ambito nelle condizioni economiche e tecnologiche dell'epo­ ca. Era ormai chiaro che, dopo la fine della guerra annibalica, il potere d'acquisto della città di Roma cominciava a salire. Com'era facile preve­ dere, l'incremento della popolazione dell'Urbe, già stimolato dalla guer­ ra, era destinato a continuare, e la ricchezza del mondo mediterraneo sa­ rebbe affluita a Roma in quantità sempre maggiori. Una volta soddisfatta la sua esigenza di beni di prima necessità, importando il grano del tributo proveniente da Sicilia e Sardegna, Roma avrebbe offerto un mercato in continua espansione per prodotti relativamente di lusso come l'olio e il vino. Se si voleva sfruttare convenientemente questo promettente mer­ cato, non bastava acquisire il possesso della necessaria quantità di terra su cui piantare viti e ulivi: il fatto decisivo era la posizione dei vigneti e degli uliveti. L'Italia era si attrezzata, quanto a mezzi di comunicazione,

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meglio di quasi tutti gli altri paesi mediterranei, ma anche in Italia il li­ vello medio era cosi basso, e perciò i costi di trasporto cosi alti ', che col­ locare la produzione a una certa distanza dal futuro mercato significava assicurare all'impresa non un profitto ma una perdita. In tali circostanze, l'acquisto di terra idonea in un raggio di cinquanta miglia da Roma avreb­ be dato ai fortunati che la ricevevano un vantaggio schiacciante, nel mer­ cato dell'Urbe, sui concorrenti piu lontani. In realtà, trincerandosi in una posizione chiave dell'economia rurale dell'Italia peninsulare, coloro ai quali erano stati assegnati i trientabula avevano dato prova di grande abilità strategica. Il rimborso, nel 200 a. C., di ciò che restava del debito di guerra con ager publicus situato entro cinquanta miglia da Roma decise cosi, in un sol colpo, il futuro economico e sociale delle pianure dell'Italia centrale. Un cerchio con centro a Roma e con un raggio di cinquanta miglia dove­ va includere, per esempio, tutta la parte non ancora assegnata del fertile Ager Veientanus '. Se nel 200 a. C. il governo romano avesse deciso di assegnar terre in questa regione ai veterani della guerra annibalica, in una misura analoga a quella delle assegnazioni fatte nel 393 (3 90-385 ca.) a. C. per dotare le quattro tribu romane supplementari, l'economia contadina delle pianure dell'Italia centrale si sarebbe forse ripresa dai colpi inferti da Fabio e da Annibale. Invece, cedendo queste terre a im­ prenditori capitalisti, il governo romano perpetuava gli effetti dell'opera di Annibale e di Fabio e lasciava che le sue stesse direttive, impartite nel 206 a. C., rimanessero lettera morta. La decisione presa nel 200 a. C. non solo escluse la classe rurale dell'I­ talia centrale dal godimento di queste terre remunerative. Rimettendole ai pionieri dell'agricoltura commerciale su vasta scala, il governo poneva costoro in una posizione da cui avrebbero potuto ampliare la loro attivi­ tà • I trientabula avranno ben presto fruttato considerevoli profitti e i loro possessori avranno investito tali profitti nell'acquisto di proprietà contadine abbandonate in quella regione di importanza strategica. Nel 1 206 a. C. la « mancanza di schiavi» 0 aveva impedito l'introduzione del­ l'agricoltura a piantagione fondata sul lavoro servile, ma l'inconveniente era stato subito rimediato. Nel 1 98 a. C. i cittadini della colonia latina di Sezze, sui Monti Lepini, possedevano già un numero di schiavi africani, acquistati dal bottino di guerra di Roma, sufficiente a formare, insieme agli schiavi domestici degli ostaggi cartaginesi, la base di reclutamento di una progettata rivolta servile 11 • Le pianure dell'Italia centrale erano sta­ te condannate a diventare prevalentemente un paese di piantagioni lavo­ rate da schiavi scarsamente popolate 12 e di città industriali sovrappopo­ late 13. Qui si trovavano i territori, già appartenuti ai Volsci, che al tem-

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po di Livio « avevano quasi smesso di produrre anche il piu magro raccol­ to di soldati e che solo la presenza delle squadre di schiavi romane salva­ va dalla completa desolazione » 14 • Circa un secolo prima, la fonte di Stra­ bone aveva notato " che le pianure fra i colli Albani e la costa tirrenica erano malsane; già allora, dunque, spopolamento e malaria si rincorre­ vano a vicenda in un circolo vizioso. La produzione era stata subordinata al profitto a sacrificio della vita. Anche a quella data, tuttavia, il quadro della situazione non era anco­ ra del tutto negativo. Nelle pianure dell'Italia centrale, cosi come nel­ l'Italia sud-orientale, vi erano sacche di territorio in cui ancora resiste­ va l'economia rurale tradizionale. Una era il tratto di Ager Romanus abi­ tato un tempo da Volsci e Sanniti, nell'angolo nord-orientale del bacino del Liri e nell'alta valle del Volturno. Nell'orazione Pro Plancia Cice­ rone descrive a tinte vivaci la florida condizione di questa regione nel 54 a. C. La prefettura di Atina, città un tempo sannitica, è « piena di uo­ mini valorosi. In tutta l'Italia non c'è un'altra regione che possa vantare una popolazione cosi numerosa». E c'è anche «quel territorio densamen­ te abitato di Venafro e Alife» ". La testimonianza di Cicerone merita considerazione. Egli sta parlando di una regione di cui ha conoscenza di­ retta, in quanto essa confinava col municipio di Arpino, sua città natale. Venafro, inoltre, già famosa per l'eccellenza del suo olio d'oliva 7, sembra fosse la sede della fattoria-modello destinata alla produzione olearia di cui parla Catone ". L'Ager Venafranus aveva certamente attirato i capi­ talisti che usavano la tecnica della piantagione lavorata da schiavi, eppu­ re non si era spopolato. Le parti montuose dell'Italia centrale, sia romane che alleate, non at­ tiravano i cultori dell'agricoltura commerciale, e quindi avevano conser­ vato in larga misura la loro tradizionale economia contadina. Al tempo della fonte di Strabone, la regione sabina veniva già invasa da vigneti e uliveti, oltre che dall'allevamento su vasta scala D'altro canto, essa non era stata ancora toccata dallo sviluppo urbano: perfino nella pianura sa­ bina località ben note quali Curi, Ereto e Trebula Mutuesca erano ancora solo dei villaggi "'. Quanto al Piceno, nonostante fosse per la maggior par­ te piu adatto agli alberi da frutto che ai cereali, continuò ad essere un « militum seminarium» [« vivaio di soldati »] fino alla fine del periodo re­ pubblicano della storia romana Nel 23 d. C., nell'età del Principato, le tre cohortes urbanae e le nove cohortes praetorianae erano ancora reclu­ tate dall'Etruria, dall'Umbria, dal Latium Vetus e dalle colonie romane di antica fondazione 22 • Ma anche riconoscendo tutto ciò, rimane nel complesso vero che nel 200 a. C. le pianure dell'Italia centrale furono guadagnate all'agricoltura 1

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commerciale basata sulle piantagioni lavorate da schiavi e andarono quin­ di perdute per l'economia rurale tradizionale. VI. LA CONQUISTA DEL NORD-OVEST.

1.

Le condizioni della Gallia Cisalpina e della Liguria Cisalpina pri­ ma della conquista romana.

Dovunque abbia toccato il volto della natura, l'uomo ne ha modifica­ to in qualche misura l'aspetto; ma la portata di questo mutamento è sta­ ta differente a secondo di quelle che erano le condizioni locali dell'am­ biente naturale prima dell'intervento dell'uomo. Le piu imponenti tra­ sformazioni sinora realizzate dall'uomo riguardano i bacini fluviali allu­ vionali che la sua opera è riuscita a domare. Chiunque osservi oggi l'E­ gitto o l'Italia nord-occidentale deve fare un notevole sforzo mentale per riuscire a immaginare come si presentava la regione prima che l'uomo vi imprimesse il suo prepotente sigillo Questi bacini alluvionali, che oggi assicurano all'uomo un prodotto molto piu abbondante di qualsiasi al­ tra regione che egli abbia messo a coltura, sono proprio le regioni che piu a lungo, in origine, lo hanno tenuto in scacco. Al posto di un elegante giardino bisogna immaginare una selvaggia giungla acquitrinosa: un ter­ reno che l'uomo primitivo trovava particolarmente duro e inospitale. La sua vita sarebbe stata piu facile nel deserto libico che nella regione corri­ spondente all'attuale Egitto, o sulle Alpi piuttosto che nella regione del­ l'odierna Lombardia. Questi che ora conosciamo come paesi-giardino non sono un dono della natura : essi sono opera dell'uomo, che li ha crea­ ti col sudore della fronte attraverso le fatiche complessive di successive generazioni. I campi fertili sono il prodotto del controllo delle acque 2 • Per render feconde le lande desolate, è stato necessario prosciugare le pa­ ludi, arginare i fiumi ' e ricreare l'unione tra il suolo cosi recuperato e le acque ormai imbrigliate mediante una rete di canali d'irrigazione. Sono ancor oggi visibili le vestigia delle paludi che un tempo si divi­ devano il bacino del Po con le foreste ora completamente distrutte '. Le paludi sopravvivono sul lato alpino della pianura, proprio sotto la linea dei fontanili 6, e inoltre nelle immediate vicinanze dei fiumi ', diventando piu estese presso le loro foci. Ma lo stato di natura originario, che non è stato ancora completamente cancellato, aveva già subito modifiche per 1

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mano dell'uomo, e per un lungo arco di tempo, alla data in cui i Romani, subito dopo aver respinto la grande invasione gallica dell'Italia peninsu­ lare nel 2 2 5 a. C., intrapresero il primo, sistematico tentativo di conqui­ sta della Gallia Cisalpina. L'uomo del Neolitico aveva rosicchiato i mar­ gini del bacino; l'uomo del Calcolitico si era rannicchiato in una sacca di clima mite intorno alle rive dei laghi subalpini '; l'uomo dell'Età del Bronzo si era attestato in Emilia, dove le sue terremare sembrano perpe­ tuare, sulla terraferma, il ricordo delle abitazioni dell'uomo del Calcoliti­ co intorno ai laghi subalpini. L'uomo dell'Età del Ferro, muovendo pro­ babilmente dal versante tirrenico degli Appennini e in origine, forse, dal Levante •, aveva introdotto la sua civiltà villanoviana in Romagna. Nel VI secolo a. C. gli Etruschi stanziati al di qua degli Appennini, che si erano avvantaggiati sui Villanoviani transappenninici abbeverandosi alle nuo­ ve fonti di civiltà dei mondi cananeo ed ellenico allora in piena espansio­ ne, superarono a loro volta la catena appenninica e avviarono il primo dei tre tentativi compiuti in ordine di tempo per bonificare in modo si­ stematico la pianura padana. Gli Etruschi non solo sottomisero i Villa­ noviani transappenninici e vi si sovrapposero nella città di Felsina (an­ tenata della colonia latina di Bologna). Essi si spinsero oltre il Po, in di­ rezione nord-occidentale, e fondarono una città etrusca a Melpo (forse l'antenata della Mediolano gallica) 10• Cosi, nel momento in cui i Romani si affacciarono sulla scena transappenninica, l'opera di bonifica della pia­ nura padana da parte dell'uomo era già in corso da almeno millecinque­ cento anni. I Romani furono impressionati non tanto dal secolare progresso rea­ lizzato dall'uomo nel bacino del Po, quanto dal regresso culturale che aveva colpito la regione prima della loro avanzata. Tra la fine del v e l'i­ nizio del IV secolo a. C. una valanga di Galli invasori provenienti d'ol­ tralpe aveva sommerso le colonie etrusche della pianura padana con l'eccezione di Mantova, che era sopravvissuta al riparo di una cintura di terreni paludosi non ancora bonificati. I Galli si erano spinti fin sulle rive dell'Adriatico, a nord e a sud delle città costiere, rispettivamente greca, etrusca e umbra, di Adria, Spina e Ravenna '2. In direzione sud­ orientale, essi avevano occupato la costa adriatica dell'Italia peninsulare fino alla foce dell'Esino, quasi in vista di Ancona. Non c'è dubbio che la venuta dei Galli significò un arretramento cul­ turale nel bacino padano e che il successivo avvento dei Romani rimise in moto il processo di civilizzazione. Al tempo stesso è probabile che la versione di questo episodio di storia cisalpina, cosi come ci è pervenuta, sia troppo generosa con i Romani e troppo severa con i Galli. La narra­ zione dell'episodio fu monopolizzata dai Romani; perciò questa versione 11

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romana dà un quadro della situazione cosi come la vedevano i Romani, non i Galli; e non si può dire che i Romani siano testimoni non prevenuti quando vengono chiamati a deporre sui Galli. I Romani non potevano e non volevano vedere alcuna virtu nei barbari che un tempo aveva­ no preso e saccheggiato Roma e che piu di una volta, in seguito, avevano minacciato di ripetere l'impresa. I Romani hanno dipinto i Galli come selvaggi nomadi, fermi a uno stadio di civiltà preagricolo. I Galli non avevano mai avuto una sede stabile né desideravano diventare un popolo sedentario. La loro ricchezza consisteva esclusivamente in beni mobili - di preferenza bestiame od oro ". Quando, intorno al 1 50 a. C., Polibio visitò gli insediamenti romani situati nel territorio già appartenuto ai Boi, lungo il tracciato qella via Emilia, i suoi informatori romani gli fecero credere che a quel tempo i Galli cisalpini fossero ormai una razza in estinzione. Essi erano stati scacciati, cosi gli fu detto, dalla pianura padana, salvo alcune località ai piedi delle Alpi ". Ne conseguiva che questi barbari si sarebbero ben pre­ sto estinti e che perciò lo storico era tenuto a fare un'indagine su di essi, e a metterla per iscritto, finché ciò era ancora possibile 15 • Sebbene in un altro punto della sua descrizione della Gallia cisalpina Polibio enumeri accuratamente le popolazioni galliche stanziate sui due lati del Po ••, nel passo in questione egli presuppone evidentemente che tutte le popolazio­ ni galliche cisalpine avessero subito la stessa sorte che Roma aveva in realtà riservato soltanto ai Senoni e ai Boi. Egli non si è accorto che, oltre ai Cenomani, anche gli Insubri e, piu a ovest, le popolazioni galliche mi­ nori sotto il loro dominio, si erano sottomesse a Roma a condizioni che non intaccavano l'integrità dei loro territori, e che questi territori galli­ ci transpadani non espropriati coprivano nell'insieme non solo il margi­ ne subalpino ma la maggior parte della pianura padana. Come in tanti altri casi, anche in quello della Gallia cisalpina la testi­ monianza prevenuta di una delle parti interessate è stata corretta, entro certi limiti, dalla capricciosa ma imparziale documentazione archeologi­ ca. Tale documentazione ci dice che i Galli, al tempo in cui attraversarono le Alpi, erano un popolo agricolo dell'età del ferro al pari di altri popoli barbari contemporanei dell'Europa nord-occidentale. Intorno al 400 a. C., essi si saranno trovati nello stesso stadio di evoluzione economica in cui si trovavano i Romani prima che gli Etruschi occupassero Roma intorno al 5 5 0 a. C. Probabilmente essi praticavano un'economia di sus­ sistenza di tipo tradizionale, nella quale l'agricoltura doveva esser combi­ nata con l'allevamento; in questa fase l'allevamento era forse preponde­ rante, ma l'agricoltura doveva fornire una parte essenziale dei loro mez­ zi di sostentamento. Gli Etruschi, che erano stati i conquistatori di Ro-

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ma, nel bacino del Po ebbero la peggio nei confronti dei Galli; ma in que­ sti loro scontri sia con i Romani che con i Galli essi esercitarono un po­ tente influsso civilizzatore. Pur avendo inferto un duro colpo alla civiltà che gli Etruschi avevano introdotto nella pianura padana, gli invasori gallici non riuscirono a cancellarla, anzi in una certa misura la assimilaro­ no ". Dunque, la Gallia cisalpina che i Romani finirono per conquistare nel primo decennio del n secolo a. C. non era affatto una landa vergine, infestata da un'orda di selvaggi che nulla avevano fatto per la sua rigeneraz1one . La Gallia cisalpina e la Liguria cisalpina, cosi come le trovarono i Ro­ mani, erano paesi agricoli, e lo erano ormai da diversi secoli; ma in que­ ste regiopi l'agricoltura doveva ancora conquistare una vittoria comple­ ta e definitiva sulle paludi che ricoprivano le terre piu basse e sulle fore­ ste che in origine ricoprivano non solo le montagne, ma anche le parti della pianura non sature d'acqua. Durante i sei secoli che decorrono dal 200 a. C. i Romani riuscirono a far progredire l'opera di bonifica ben piu di quanto fosse riuscito agli Etruschi nel corso di un secolo e mezzo cir­ ca ". Ma al pari dei loro predecessori etruschi, anche i Romani furono sor­ presi da un'invasione di barbari prima che l'opera fosse stata portata a compimento. Nell'età buia che segui alla caduta dell'Impero romano d'Occidente, cosi come nell'età buia che segui alla scomparsa degli inse­ diamenti etruschi transappenninici sotto la marea dei Galli invasori, pa­ ludi e foreste riguadagnarono, nel bacino del Po, una parte del terreno che in precedenza avevano ceduto all'uomo 20• La condizione attuale del­ la regione, ormai quasi completamente bonificata, è il risultato di un ter­ zo sforzo che ha avuto inizio nell'x1 secolo dell'era cristiana e che è conti­ nuato ininterrottamente per non meno di mille anni; ma anche ora, il trionfo dell'uomo sulla natura nella pianura padana non può dirsi de­ finitivamente assicurato. Una raffinatezza tecnologica dei giorni nostri, che è in grado di smuovere le montagne, può anche distruggere la civiltà e perfino la vita stessa. L'arma atomica può riportare la Lombardia e l'E­ gitto nello stato di desolazione in cui si trovavano prima che il primo utensile neolitico intaccasse i loro depositi alluvionali intrisi d'acqua. Le paludi ancora esistenti costituivano il piu tremendo degli ostacoli naturali con cui si trovarono a dover lottare i pionieri romani nel bacino padano. Le paludi attraverso le quali l'esercito di Annibale dovette ar­ rancare per quattro giorni e tre notti senza poter mai sostare 21 sembra si trovassero non nel bacino del Po ma in quello dell'Arno "; ma anche le paludi dell'Emilia erano molto estese. Quelle intorno a Parma furono prosciugate da M. Emilio Scauro nel 109 a. C., quando egli era censore. Scauro scavò un canale navigabile da Parma fino al Po 2' . Ancora al tempo •

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di Cicerone, la strada fra Bologna e Modena correva lungo un argine in mezzo alle paludi 25 , e la via Emilia, costruita nel 1 8 7 a. C. 20, doveva es­ sere in origine nelle stesse condizioni per gran parte del suo percorso L'argine sarà stato innalzato con il materiale di riporto proveniente dal canale, e anche qui, come lungo la sezione pontina della via Appia, sarà stato piu comodo viaggiare su chiatta che a piedi o a cavallo. Il beneficio assicurato dal prosciugamento delle palu