L’ eredità di Annibale. Vol. 1: Roma e l’italia prima di Annibale. 9788806530587

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L’ eredità di Annibale. Vol. 1: Roma e l’italia prima di Annibale.
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L'eredità di Annibale

Le conseguenze della guerra annibalica nella vita romana I

Roma e l'Italia prima di Annibale Il

Roma e il Mediterraneo dopo Annibale

Amold J. Toynbee

L'eredità di Annibale I

Roma e l'Italia prima di Annibale

Giulio Einaudi editore

Traduzione italiana dall'edizione originale Hannibal's Legacy. The Hannibalic War's Elfects on Roman Li/e. 1: Rome and Her Neighbours Be/ore Hannibal's Entry Copyright © 196' Oxford University Press, London Copyright © 1981 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino Edizione italiana,

con

aggiornamenti bibliografici, a cura di Giorgio Camassa

Traduzione di Anna Bassan Levi per le pp. XI-XIII , 3-,9, rivista da Giorgio Camassa e Ugo Fantasia; di Mario Lombardo per le pp. ,60-612; di Ugo Fantasia per le pp. 6r3-6I; di Giorgio Camassa e Mario Lombardo per le pp. 662-760.

Indice

p. XI XIV xv

Prefazione dell'autore al primo volume Ringraziamenti Avvertenza all'edizione italiana di Giorgio Camassa

Roma e l'Italia prima di Annibale 3

26 33

r.

Il quadro storico della seconda guerra romano-cartaginese

11.

Le grandi potenze a occidente dell'India nel266 a. C. r. I mancati precursori della Federazione romana in Italia

2. L'Impero cartaginese

44

3· La monarchia tolemaica

55

4· La monarchia seleucidica

72

5· Il Regno di Macedonia

78

6. La Confederazione etolica

87

7. La Confederazione achea e il principato di Pergamo III. La Federazione romana dell'Italia peninsulare nel266 a.

ro6

C.

I. L'ITALIA PENINSULARE NEL MONDO MEDITERRANEO II. LE FASI PRINCIPALI DELL'ESPANSIONE ROMANA FINO AL COMPLETAMENTO DELL'UNIFICAZIONE POLITICA DELL'INTERA PENISOLA

133 153

1. L'espansione di Roma sino al327 (325-324 o324) a. C. (_�.'L'espansione di Roma dal327 (325-324 o 324) al266 a. C.

171

III. IL BILANCIO UMANO DELL'UNIFICAZIONE DELL'ITALIA PENINSULARE AD OPERA DI ROMA

181

IV. l DISTRETTI DELLE TRIBU ROMANE

186

v. LE COLONIAE CIVIUM ROMANORU M

Indice

VIII

VI. I MUNIClPI

I. I «mtmia» romani spettanti ai municipi

p. 197

215

2. Le autonomie locali possedute dai municipi

244

VII. LE PREFfTTURE

255

VIII. IL NOMEN LATINUM

263

IX. GLI STAn ITALICI NON LATINI ALLEATI DI ROMA

335

IV. Le cause del successo di Roma nell'unificazione dell'Italia

peninsulare entro la Federazione romana

v.

Le debolezze della Federazione romana nel266 a. C.

353

I. DEBOLEZZE GEOGRAFICHE

362

II. DEBOLEZZE ECONOMICHE III. DEBOLEZZE AMMINISTRATIVE E POLITICHE x.

379

2. 3· 4·

399

5· 6. 7.

417

8.

Le conseguenze amministrative dell'espansione territoriale dello Stato ro­ mano Consegueme politiche interne dell'espansione territoriale dello Stato ro­ mano L'interesse dell'oligarchia romana a conservare la forma di città-stato pro­ pria dell'organismo politico romano La formazione della classe di governo romana e la conseguente vanifica:zio­ ne della democrazia Gli Arcana Imperii della classe di governo romana: il metodo di indagine «prosopografico » Gli Arcana Imperii della classe di governo romana: «amicitia» e « hospi­ tium» Gli Arcana Imperii della classe di governo romana: «patronatus »e« clien­ tela» Precarietà dell'equilibrio interno del potere a Roma

Appendici al capitolo terzo 449

@) 479 493 499

I.

u.

Gli Etruschi

Inattendibilità della versione tradizionale della storia di Roma in campo internazionale nei trent'anni successivi alla catastrofe gallica m. Le tribu Quirina e Velina IV. Lo status di Ostia v. Sulle antiche origini attribuite ad alcune coloniae civium Romanorum non di difesa costiera VI. Municipia foederata

Indice vu. vm. IX. x. XI. XII.

Possibili datazioni del conferimento della piena cittadinanza romana alla serie centrale e settentrionale dei municipi romani sine suffragio La storia dei rapporti fra Cere e Roma La Formula Togatorum L'interpretazione delle cifre dei censimenti romani a noi pervenute

Le forze militari della Federazione romana nel22.5 a. C. L'evoluzione della legione romana

Appendice al capitolo quinto 662

I trattati fra Roma e Cartagine

709

Nota sulla cronologia romana per le date anteriori al Joo

719

Bibliografia

751

Carte

737

IX

Tavola cronologica (431-264 a. C.)

a.

C.

Prefazione dell'autore al primo volume

Questo libro è nato da un corso di lezioni da me tenute presso l'uni­ versità di Oxford, per la scuola di Literae Humaniores, negli anni I9I3I9I4. Il mio interesse per l'argomento era nato, quando ero ancora stu­ dente universitario, dalla lettura di ciò che ci è restato delle Storie di Polibio e di Livio e, fra le opere moderne, soprattutto di quella di Julius Beloch: Der italische Bund unter Roms Hegemonie. Piu tardi, nell'au­ tunno del I9 I I, avevo trascorso sette settimane percorrendo a piedi e in bicicletta la campagna intorno a Roma, dove frequentavo la British Archaeological School. Sarebbe stata mia intenzione dare un seguito alle lezioni che avevo ap­ pena tenuto scrivendo questo libro, ma dall'agosto del I9I4 a quello del 1957 altri impegni me lo hanno impedito. È stata una fortuna che io abbia tardato tanto a scriverlo: se avessi potuto redigere l'opera senza indugio, l'avrei certamente data alle stampe giusto in tempo per vederla del tutto superata dalla Romische Geschichte di Beloch, apparsa nel 1926. È naturale che ogni lavoro scientifico, qualunque sia il momento in cui vede la luce, finisca sempre con l'essere poi superato dall'opera di altri studiosi; il ritardo con cui è stato redatto il mio libro non basterà certo a sottrarlo a un destino cosi consueto e auspicabile. Durante gli ultimi cinquant'anni, d'altronde, hanno visto la luce alcune opere di prim'ordine dedicate allo stesso argomento da me qui affrontato e che ho avuto la fortuna di poter leggere e assimilare. Oltre alla Romische Geschichte di Beloch, altri libri che ho trovato molto utili sono stati Die romische Eroberung Italiens ( 340-264 V. Chr.) di Adam Afzelius, The Voting Districts of the Roman Republic di Lily Ross Taylor e un gran numero di articoli pubblicati su « Athenaeum » e in altre sedi da Plinio Fraccaro e dai piu giovani esponenti della scuola di storia romana da lui fondata presso l'università di Pavia: Aurelio Bernardi, Gianfranco Tibi­ letti, Giovanni Forni ed Emilio Gabba. Solo di quando in quando si vedrà citato in nota un nome famoso, proprio perché sottinteso in ogni pagina tanto di quest'opera quanto di

XII

Arnold Toynbee

qtlelle di altri studiosi da me consultate: Theodor Mommsen si è occu­ pato, infatti, di tutti i problemi di storia romana che ho qui discusso; qualsiasi tema che egli abbia toccato reca, da allora, l'indelebile impron­ ta della sua magistrale trattazione. Mommsen aveva il dono di stimo­ lare le menti, e la sua opera è stata bahnbrechend * . Per misurare la gran­ dezza cosi dell'uomo come della sua opera basti considerare la rapidità con cui essa è stata continuata, sotto l'impulso che egli trasmise a quanti lavorarono poi nello stesso campo. Su quasi ogni problema di storia ro­ mana che si prenda in esame si può essere d'accordo o in disaccordo ( a proprio rischio e pericolo) con Mommsen; ma, in ogni caso, la sua opera resta alla base della nostra: quel problema sarà stato avvertito e formu­ lato per la prima volta da lui, e dovremo riconoscere che, se egli non fosse stato il primo a cimentarsi in quel campo, la questione che ci in­ teressa sarebbe forse, ancor oggi, al di là dei nostri orizzonti. Oltre ad approfittare delle ricerche compiute dai continuatori di Mommsen, comprese quelle degli ultimi cinquant'anni , mi è stato anche possibile giungere a conoscere di persona, a parte la regione che circonda la stessa Roma, le altre località italiane che furono teatro di eventi della storia romana. Ai fini della redazione di quest'opera, il piu utile fra i miei soggiorni in I talla si è rivelato un viaggio di cinque settimane nel Mez­ zogiorno, da me compiuto durante la primavera del 196 2. In quell'occa­ sione ho visitato per la prima volta un'area situata a nord-ovest di Na­ poli, intorno a Cales (Calvi), Teano Sidicino e Suessa Aurunca, la zona­ chiave della conquista dell'Italia peninsulare da parte di Roma in gara con il Sannio. Ho proseguito, poi, attraverso la Puglia e la Calabria, cosf di ieri come di oggi, fino alla Sicilia. Questo mio viaggio si è svolto in condizioni quanto mai favorevoli grazie alla cortesia e alla liberalità di numerosi amici italiani: il professar Rossi-Doria e il professar Platzer della Facoltà di Agraria dell'Università di Napoli-Portici, il dottor Johannowsky del Museo Nazionale di Napoli, i funzionari dell'Ente Ri­ forma Agraria per la Puglia, la Lucania e il Matese e quelli dell'Opera per la valorizzazione della Sila, il professar Schifani dell'Istituto Agra­ rio dell'Università di Palermo e il professar Tusa, direttore delle ricer­ che archeologiche nella provincia di Palermo. Valendomi di un cosf autorevole appoggio, ho visitato la regione che, a partire dal 2r6 a. C., fu teatro della guerra annibalica e dove si fecero poi piu acutamente sentire le rivoluzionarie conseguenze, sia sul piano economico che su quello sociale, di quel tremendo conflitto. L'odierna storia del Mezzogiorno è altrettanto interessante: oggi si ricominciano di *

[Ha, cioè, aperto strade nuove].

Prefazione

XIII

nuovo a popolare e a coltivare le pianure della Magna Grecia, dopo un'eclissi che ha avuto inizio piu di due millenni or sono e che era dive­ nuta quasi totale nel corso degli ultimi mille anni; anche la Sila- un altopiano alpino situato nel cuore del bacino del Mediterraneo - viene resa una terra ospitale per l'uomo, forse per la prima volta nella sua lun­ ga storia. Quest'opera benefica è incoraggiante e, al tempo stesso, istrut­ tiva, non solo per chi voglia comprendere meglio la storia dei nostri giorni. Infatti, la riforma agraria promossa nell'Italia contemporanea getta luce su quella promossa dai Gracchi nel n secolo a. C. Ancora una volta si tenta di cambiare il volto del Mezzogiorno e di migliorare le condizioni di vita della sua popolazione frantumando i latifondi in pie· cole proprietà fondiarie. L'odierna riforma si vale dell'impiego di ingen­ ti mezzi tecnici, ignoti ai suoi precursori di duemila anni fa. L'applicazio­ ne dei moderni metodi scientifici accresce la produttività del suolo e l'isti­ tuzione di cooperative fa sperare che i vantaggi sociali insiti in un regime di proprietà contadina si possano unire ai benefici economici che deri­ vano da interventi su vasta scala. Ma, se mu'tano le tecniche e le istitu­ zioni, non muta la natura dell'uomo: i problemi umani con cui si devo­ no confrontare le autorità preposte alla riforma agraria nell'Italia dei nostri giorni hanno molti punti in comune con quelli che si presentaro­ no, in passato, ai commissari dei Gracchi. A questo volume, che tratta della Federazione romana in Italia pri­ ma che Annibale apparisse all'orizzonte, ne segue un secondo che si spinge, dopo l'uscita di scena del Cartaginese, fino allo scoppio della ri­ voluzione dei cent'anni ( 1 3 3 a. C.). Il tema dell'opera nel suo insieme è la vittoria postuma di Annibale su Roma, che egli non aveva potuto sconfiggere con le armi. Nemmeno il suo genio militare era riuscito a trionfare sull'enorme potenziale umano che Roma era in grado di met­ tere in campo e sulle salde strutture della Federazione romana, ma egli riusd ad aprire nell'organismo sociale ed economico della Federazione ferite gravissime, tanto gravi da provocare, quando suppurarono, quella rivoluzione che fu accelerata da Tiberio Gracco e che non ebbe termine sino al momento in cui fu arrestata da Augusto, cento anni piu tardi. A mio parere, quella rivoluzione rappresentò la nemesi del corso, in appa­ renza trionfale, delle conquiste militari di Roma. Nemesi è una dea po­ tente: in tale circostanza ella trovò in Annibale uno strumento umano docile e della sua stessa statura. ARNOLD TOYNBEE

Ringraziamenti. Quest'opera è stata letta in dattiloscritto dal dottor A. H. McDonald, cui sono profondamente grato per le sue critiche ed i suoi suggerimenti. Egli, che notoria­ mente è in materia una delle massime autorità viventi, è stato tanto cortese da ve­ nirmi in aiuto, senza risparmio di tempo e di fatica, con tutta la sua dottrina, la sua esperienza, il suo discernimento; in particolare, mi ha dato consigli preziosi per al­ leggerire il libro - specialmente il primo volume - eliminando dettagli superflui e riportando nel testo e nelle appendici il succo di talune note eccessivamente prolisse. Prima di dare il libro alle stampe, l'ho interamente rielaborato e rivisto, tenendo conto delle osservazioni del dottor McDonald. Grazie a lui sono certo di averlo mi­ gliorato; ma se il lettore vi troverà ancora i difetti segnalatimi a suo tempo dal dot­ tor McDonald, dovrò imputare solo a me la colpa di non aver seguito fino in fondo i suoi saggi consigli. La responsabilità del testo publicato resta dunque tutta mia. Sono inoltre molto grato al dottor G. D. B. Jones per avermi gentilmente fornito dati illuminanti circa la sua opera sulle zone centuriate del Tavoliere di Puglia, rive­ late dall'aerofotografia. Ancora una volta ho avuto la fortuna di poter contare sull'aiuto della signora Phyllis Gomme, che ha dato una veste specialistica alle note e agli schizzi dilettante­ schi che avevo eseguito per le carte geografiche *. Molti sono gli esperti nella tecnica della cartografia, ma non tutti hanno, come la signora Gomme, l'intuito e la fantasia necessari per tradurre in forma visiva il pensiero e la parola di un autore. Ho potuto giovarmi anche del prezioso ausilio della signorina Norah Williams, che ha copiato a macchina il mio tormentato manoscritto. Il suo compito sarebbe stato forse meno faticoso se le correzioni che ho poi apportato al dattiloscritto die­ tro suggerimento del dottor McDonald fossero state introdotte quando il libro era ancora manoscritto, e dunque prima di consegnarlo alla signorina Williams. Mia moglie, come tante altre volte, ha compilato un indice che non è solo un catalogo di nomi, ma anche una guida agli argomenti. Sono infine molto riconoscente alla Oxford University Press e ai suoi delegati che hanno curato la pubblicazione del libro, per l'interesse personale dimostrato al­ l'opera e per l'aiuto che mi hanno prodigato in prima persona. Non è certo un'espe­ rienza nuova, ma ogni volta che si ripete la mia gratitudine aumenta. A.]. T.

* [Nell'edizione italiana dell'opera, le carte geografiche sono state parzialmente modificate).

Avvertenza all'edizione italiana. Chiunque abbia avuto fra le mani un libro di Arnold Toynbee sa per esperienza come assolutamente personale sia in lui non solo l'argomentare e l'architettura del periodo, ma anche l'uso di espressioni o formule che documentano in modo inequi­ vocabile lo stile di pensiero dell'autore. Per quanto singolari o inconsuete esse pos­ sano sembrare, è parso opportuno riprodurle integralmente e fedelmente, poiché sfumare la pregnanza radicale di taluni vocaboli o sfoltire la selva di aggettivi in ap­ parenza ridondanti significherebbe anche alterare il rapporto fra il tutto e le parti, fra l'impianto storiografico e le cellule che ne costituiscono la minuscola ma sensi­ bilissima cassa di risonanza. Persino la scelta di una grafia piuttosto che di un'altra non appare casuale: il lettore si troverà dunque dinanzi ad un numero di maiuscole forse eccessivo rispetto a quello che sarebbe logico attendersi, ma che corrisponde quasi sempre alle scelte di Toynbee; del resto, nel caso delle entità politiche e statua­ li, il ricorso alle maiuscole può servire a dare un'evidenza piu immediata al proble­ ma trattato e alle > ver­ so il 150 a. C. e « inviolabile» prima del 1 3 8 a. C.; Epifania-Hamath ot· tenne entrambi i titoli nel corso del II secolo a. C. Sidone fu dichiarata « divina » nel 1 3 3 a. C. ( al piu tardi), « sacra » nel 1 2 2- 1 2 1 a. C., « sacra e inviolabile » durante e dopo il 1 2 1- 1 20 a. C . ; Tolemaide di Palestina fu proclamata « sacra » durante e dopo il 1 2 6-1 25 a. C.; Laodicea di Fenicia durante e dopo il 1 22-1 2 1 a. C.; Susa durante e dopo il 1 03 - 1 02 a. C. (probabilmente per concessione del governo arsacide) ; Roso intorno al 1 00 a. C.; Damasco durante il regno di Demetrio III ( 95 - 8 8-87 a. C.) ". Arado, oltre a diventare praticamente indipendente fra la fine del II e l'inizio del 1 secolo a. C., riacquistò anche per qualche tempo alcuni fram­ menti del suo antico dominio sul continente m . A differenza del ]. L'osservazione è di BADIAN,

op. cit., p. 64. LIVIO, XXXIV 4.5; dr. infra, vol. Il, tavola V. LIVIO, XXXIV 53; cfr. infra, vol. Il, cap. VI, § 4+

Le grandi potenze a occidente dell'India nel 266 a. C.

101

" LIVIO, XXXV 9; cfr. infra, vol. II, loc. cit. LIVIO, XXXV 40; dr. infra, vol. II, loc. cit. 66 La valutazione romana della potenza navale di Antioco si dimostrò eccessiva; tuttavia non era forse irragionevole, tenuto conto del fatto che egli aveva da poco conquistato la Celesiria. Dopo la distruzione della potenza navale di Cartagine ad opera di Roma nella prima guerra romano-cartaginese, il gruppo delle città-stato sirofenicie - Tiro, Sidone e le loro sorelle - era divenuto forse il maggior arsenale, quanto a potemiale bellico, del Mediterraneo dopo l'Italia. Tale osservazione è contenuta nel discorso che Livio fa pronunziare al messo inviato da Antioco alla Confederazione achea nel 192 a. C.: « Navalium vero copiarum, quas nulli portus capere in Graecia possent, dextrum cornu Sidonios et Tyrios, sinistrum Aradios et ex Pamphilia Sidetas tenere; quas gentes nullae unquam nec arte nec virtute navali aequassent & [« E inoltre, quanto alle forze navali, che non avtebbe potuto accogliere nessun porto in Grecia, l'ala destra era tenuta da Sidonii e Tirii, la sinistra da Aradii e da Sideti di Panfilia, uomini con cui mai nessuno avrebbe potuto rivaleggiare né per abilità né per coraggio nel combat­ timento navale�>] (LIVIO, XXXV 48). Nel 190 a. C. Antioco chiamò rinforzi navali dalla Fenicia (LIVIO, XXXVII 8). 67 LIVIO, XXXV 20. 68 LIVIO, [oc. cit. 69 LIVIO, XXXV 21. 70 LIVIO, XXXV 23, 71 LIVIO, XXXV 24. n LIVIO, XXXV 41. 73 LIVIO, [oc. cit. 74 LIVIO, XXXVI I . 75 LIVIO, XXXVI 3 · 76 LIVIO, [oc. cit. 77 LIVIO, XXXVI 2. 78 LIVIO, [oc. cit. 79 LIVIO, [oc. cit. IO LIVIO, XXXVI 3· 81 LIVIO, XXXVII 2. 82 LIVIO, [oc. cit. 83 LIVIO, loc. cit. 84 LIVIO, [oc. cit. " Cfr. AFZELIUS, Die romische Kriegsmacht cit., pp. 26 e 37· .. lbid., p. 47· 65

§ 5 (pp. 72-78). 1 Cfr.

supra, cap. I, pp. 9- 14.

2 Cfr. supra, cap. 1 , p. 2 1 . 3 Cfr. infra, cap. IV, pp. 344-47· •

All'equipaggiamento dei soldati contadini macedoni aveva provveduto il governo sin dai tempi di Filippo II (DIODORO, XVI 3). Secondo BELOCH, Die Bevolkerung der griechisch-romischen Welt, Leipzig 1886, p. 19, Filippo si attenne ad un precedente introdotto da Dionisio I di Siracusa nel 398 a. C. Altrettanto fecero Alessandro (DIO­ DORO, XVII 95 ; CURZIO RUFO, IX 3.21) e Perseo (LIVIO, XLII 52). 5 » [« mille cavalieri campani scelti, inviati a combattere quella guer­ ra»]; egli inoltre usa la stessa formula - " e il suo coman­ dante viene definito da Diodoro XLÀ.ta.pxoc; 77, vale a dire tribuna militare; secondo Polibio 71 essa era formata di 4000 uomini. Questi dati fanno pensare che, sebbene composta esclusivamente di Campani, essa costi­ tuisse uno dei reparti regolari dell'esercito romano. Secondo Dionigi ", però, il suo effettivo non era di 4000, bensi di soli 1 200 uomini (8oo Campani e 400 Sidicini) ; Heurgon 80 , inoltre, avanza l'ipotesi che si trat­ tasse di un corpo di franchi tiratori assoldato dal governo romano e lo pa­ ragona ad altri corpi di mercenari campani dell'epoca, come i Mamertini. Bernardi " afferma che questo è l'unico caso documentato dell'esistenza di un'unità di fanteria campana al servizio dei Romani e accenna alla possibilità che Roma si sia astenuta dal mobilitare la fanteria campana perché non se ne fidava. Egli dimentica, a questo proposito, che Dionigi, nel resoconto della battaglia di Ascoli Apulo, parla di un contingente campano. L'assenza di qualsiasi riferimento alla fanteria campana, tran­ ne che in questi due casi, si può spiegare in un altro modo piu convin­ cente: essa non veniva menzionata perché incorporata nei reparti della fanteria legionaria romana. Nel suo resoconto della battaglia di Ascoli Apulo (279 a. C.), Dioni­ gi " elenca i contingenti inviati da almeno alcuni degli Stati allora trasfor­ mati in municipi. Egli afferma che i Volsci, i Campani e i Sabini erano in-

2ro

Capitolo terzo

elusi, insieme con i Latini, gli Umbri, i Marrucini, i Peligni, i Frentani e via dicendo, nelle quattro alae di truppe inviate dagli Stati soggetti ( Ù1tTJX6ou�), ciascuna delle quali era associata ad una delle quattro legioni romane. Sempre che questa descrizione dello schieramento tenuto dai Ro­ mani in quella battaglia sia esatta, se ne deduce che a quell'epoca i muni­ cipes non prestavano servizio nelle legioni romane. Se è vero che i mu­ nicipes non vennero incorporati ex officio nelle legioni a mano a mano che le loro comunità venivano ridotte allo status municipale, possiamo sol­ tanto avanzare delle ipotesi circa la data in cui venne introdotta questa pratica. Beloch " ipotizza che l'innovazione sia stata introdotta verso la fine della prima guerra romano-cartaginese, ma, qualunque sia il momen­ to in cui entrò in vigore, tale prassi dovette valere sia per i Campani che per gli altri municipes romani. Festo, nella sua definizione del termine « municeps » in cui è detto che gli abitanti dei municipi « in legione me­ rebant» [« militavano nella legione »] '', porta quali esempi le tre comu­ nità campane dei Cumani, degli Acerrani e degli Atellani. Bernardi so­ stiene ., che, sotto questo aspetto, i Campani venivano trattati come gli altri municipes romani e ciò doveva senz'altro essere vero, almeno per quanto riguardava la loro fanteria. Tuttavia Livio nomina 16 dei « praefec­ tos socium» fra i cittadini romani presenti a Capua al momento della se­ cessione del 2 r 6 a. C. ( « praefectos socium civesque Romanos alios, par­ tim aliquo militiae munere occupatos, partim privatis negotiis implici­ tos » [«i prefetti degli alleati ed altri cittadini romani, in parte impegnati in un qualche compito militare, in parte dediti ad occupazioni private »] ); da ciò si potrebbe dedurre che, fino a tale data, i Campani non erano anco­ ra cittadini romani ma socii che prestavano servizio nelle alae sociorum dell'esercito di Roma, al comando di praefecti sociorum romani 87• Stando a tale interpretazione del passo, Livio si sarebbe reso colpevole di un grossolano anacronismo : infatti, se i fanti campani avessero davvero mi­ litato nelle alae sociorum, essi avrebbero dovuto essere trasferiti alle le­ gioni molto tempo prima del 2 r 6 a. C. Si può comunque forse spiegare la presenza dei praefecti sociorum a Capua in quell'anno : probabilmen­ te nella città aveva sede il quartier generale, in territorio romano, di una delle regioni in cui dovevano essere stati raggruppati, per motivi orga­ nizzativi, gli alleati italici di Roma, e precisamente la regione compren­ dente gli Stati alleati della Campania (Nola, la pentapoli nucerina e i Pi­ centini) oltre che il Sannio ... Il pagamento del tributum era un corollario del servizio militare nel­ l'esercito romano. I soldati ricevevano la paga dallo Stato '9 ; i municipes in servizio dovevano indubbiamente percepire la stessa paga dei comuni cittadini romani e il tributum era il fondo dal quale proveniva il denaro

La Federazione romana dell'Italia peninsulare nel 266

a.

C.

211

necessario. Di conseguenza, il pagamento del tributum a Roma era un secondo munus imposto ai municipes e anch'esso, oltre ad essere oneroso, non aveva carattere di reciprocità: i comuni cittadini romani non versa­ vano alcun tributum nelle casse di Capua o di Cere. I due munia onerosi che ricadevano sui cittadini romani erano impo­ sti anche ai cittadini di tutti i municipi ma, fatti salvi questi due oneri, sussisteva una distinzione fra due diverse categorie di municipi: quelli i cui cittadini acquisivano i munia gratificanti dei cittadini romani, come pure quelli onerosi, per aver ottenuto la piena cittadinanza romana 90, e quelli i cui cittadini erano unicamente soggetti ai munia onerosi, mentre restavano sine suffragio nei loro rapporti con lo Stato romano 91 • In appa­ renza il resoconto liviano 92 del trattato del 3 3 8 ( 3 3 5 o 3 34) a. C. sembra indicare che in quella occasione era stata istituita una serie di municipi della prima categoria ed un'altra formata di municipi della seconda. In questo passo, Livio sembra istituire una distinzione fra la «civitas » resa agli abitanti di Tuscolo e conferita a quelli di Lanuvio 93, di Ariccia, di Nomento e di Pedo "' e la « civitas sine suffragio» imposta agli abitanti di Fondi, di Formia, della Campania, di Suessula e di Cuma ". Se dal lin­ guaggio di Livio si può correttamente arguire che vi fu una differenza di trattamento, ciò corrisponderebbe certo alle nostre aspettative. Nel pas­ so in questione, la «civitas » romana conferita a quattro Stati già appar­ tenenti alla ormai disciolta Confederazione latina viene considerata da Livio identica alla «civitas» resa a Tuscolo e, per le ragioni suddette ", è difficile che si trattasse della civitas sine suffragio. Inoltre la distinzione che Livio sembra istituire in questo passo fra le comunità cui venne al­ lora concessa la piena cittadinanza romana e quelle che ricevettero la cit­ tadinanza sine suffragio corrisponde ad una differenza di nazionalità: le comunità del primo gruppo erano tutte di lingua latina, mentre quelle del secondo erano in parte di lingua volsca e in parte di lingua osca. Sa­ rebbe stato naturale per Roma accordare la piena cittadinanza a comu­ nità i cui cittadini parlavano la stessa lingua dei suoi e potevano quindi facilmente fondersi con loro ". Altrettanto logico sarebbe stato per Ro­ ma imporre gli oneri della cittadinanza, senza diritti attivi, a comunità che essa desiderava ormai unire a sé con vincoli piu stretti dell'alleanza, m a che non si sentiva ancora in grado di assimilare completamente. Tutti o quasi tutti i municipi della categoria inferiore furono poi ele­ vati a quella superiore nel corso degli anni che precedettero lo scoppio della seconda guerra di secessione del 9o-89 a. C . .. ; tuttavia, dal momen­ to che la documentazione in nostro possesso è incompleta e la terminolo­ gia delle fonti imprecisa ", non possiamo sapere con sicurezza se qualche municipio ricevette la piena cittadinanza romana sin dall'inizio. È possi-

212

Capitolo terzo

bile, ma forse improbabile, che le comunità latine trasformate in muni­ 100 cipi nel 3 3 8 ( 3 35 o 3 34) a. C. fossero in un primo tempo sine suffragio , come lo erano, secondo quanto ci viene esplicitamente tramandato, le consorelle volsche e osche. Se cosi era, ognuno dei municipi che finirono poi con l'ottenere la piena cittadinanza romana dovette « aprirsi il varco » dalla categoria inferiore a quella superiore. Indubbiamente molti di essi seguirono questa strada, ma tale circostanza non prova che lo status di municipio sine suffragio sia stato in origine concepito come una base di partenza per accedere allo status di municipio optimo iure. È piu pro­ babile che lo status inferiore fosse destinato in origine a restare invariato e che in seguito esso sia stato eliminato dal repertorio degli espedienti co­ stituzionali in quanto rivelatosi, alla prova dei fatti, insoddisfacente ••• . La realtà storica non lascia dubbi al riguardo : dopo il 268 a. C. ,., non fu piu istituito nessun municipio sine suffragio e tutte le comunità cui in precedenza era stato imposto quello status ricevettero in seguito la piena cittadinanza romana. Quali che siano la data e le circostanze in cui fu istituita la differenza fra le due categorie di municipi, i fatti dimostrano che, fra le due va­ rianti dell'istituzione, la piu magnanima dette ottimi frutti in campo po­ litico, mentre la meno liberale si risolse in un deplorevole insuccesso. Non ci consta che un municipio dotato di piena cittadinanza abbia mai tentato di staccarsi da Roma dopo aver ricevuto quello status '"\ mentre i municipi sine suffragio si ribellarono spesso non appena intravedevano la possibilità di riconquistare la loro indipendenza , ... Satrico, pur essen­ do vicina a Roma e lontana dal Sannio, insorse ed apri le porte ad una guarnigione di Sanniti quando questi ultimi costrinsero Roma a conclu­ dere l'ignominiosa pace caudina nel 3 2 I ( 3 20-3 I 9 o 3 I 9) a. C. ,., . I muni­ cipi aurunci si ribellarono dopo che i Sanniti ebbero sconfitto i Romani a Lautule nel 3 I 5 ( 3 I4·3 I 3 o 3 I 3 ) a. C. e i Campani stavano per imitarli quando ne furono dissuasi all'ultimo momento dalla notizia della succes­ siva vittoria romana a Terracina ""', o li avevano imitati prima che giun­ gesse loro questa seconda notizia ,., ; i Campani defezionarono poi da Ro­ ma nel 2 I 6 a. C. dopo la disastrosa sconfitta di Canne. I tre Stati emici, che nel 307 (307-306 o 306) a. C. non avevano voluto unirsi ad Anagni nella rivolta contro Roma, rifiutarono nel 3 06 ( 3 06-3 05 o 305) a. C. la civitas sine suffragio offerta loro dai Romani : essi preferirono rimanere loro alleati indipendenti, conservando cioè lo status di cui avevano godu­ to come Stati membri dell'antica Confederazione ernica, che Roma stava allora sciogliendo •••. Nel 3o4 ( 3 04-303 o 303) a. C. gli Equi sfidarono Roma con conseguenze che furono per loro catastrofiche poiché ( a quan­ to riferisce Livio) erano stati influenzati dalla scelta compiuta due anni

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prima dai tre Stati ernici. Essi avevano i l sospetto che il governo romano intendesse imporre loro il medesimo status che i loro vicini ernici aveva­ no rifiutato quando erano stati lasciati liberi di scegliere. La sorte che gli Equi sembrano aver presagito fu effettivamente quella che Roma inflisse alla parte superstite di quel popolo, dopo averlo aggredito e massacrato senza pietà. A questo proposito, Sherwin-White richiama la nostra attenzione 109 110 sui termini del trattato che, secondo Livio , venne concluso dai Campa­ ni con Annibale nel 2 r 6 a. C. · Cfr. infra, p. 640, nota 69. La data esatta è il 282 e non il 280 a. C., secondo DE SANCTIS, op. cit., II, p. 379, e BELOCH, Romische Geschichte cit., p. 461 ; J. w. SPAETH jr, A Study of the Causes of

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Rome's Wars /rom 343 to 265 B.C., Princeton I926, pp. 58-59, ritiene, basandosi su PLINIO, Nat. Hist. XXXIV 6 ( I5).32, che Roma venne in soccorso di Turi in due oc­ casioni, e cioè tanto nel 288 quanto nel 282 a. C.

'"' Cfr.

infra, pp. 209, 265 e cap. v, p. 362. I gruppi politici romani nel III secolo a. C., Trieste I962, pp. I7I-78. '"' Cfr. BELOCH, Campanien2 cit., pp. II e I50-5 I , e supra, p. 92, nota 5· Sembra pe­ '06

rò che la componente greca di Cuma non sia stata completamente annientata (cfr.

PSEUDO-SCILACE, Io : xa.! ELcn 1tOÀE�c; a.u'ta.� 'E).).'IlvUìEc; lv 'tTI Ka.p.1ta.v!a.· Kup.11, NEti1toÀ.�c; [« e queste sono le città elleniche in Campania: Cuma, Napoli »] e STRA­ BONE, V 4·4 (C. 243): lSp.wc; o'ouv �'tL C'W�E'ta.� 1tOÀÀtX LXV'Il 'tOU 'E).).'Ilv�x.ou x6ap.ou

xa.t 'tWV tEpwv xa.L 'tWV vop.�W\1 [« tuttavia qui si sono ancora conservate molte tracce dd contegno, dei templi e dei costumi ellenici »].

108 Cfr. STRABONE, V 4·7 (C. 246). DE SANCTIS, op. cit., III, 2, p. 472, ritiene che, allo scoppio della guerra annibalica, Ta-'

Io9

ranto fosse la prima città d'Italia per cultura e la terza per numero di abitanti.

SCATURRO, op. cit., I, p. 289, citato supra, cap. n, p. 93, nota I I . 1 11 WUILLEUMIER, op. cit., pp. 240-4I e 242. 112 DE SANCTIS, op. cit., II, p. 494; AFZELIUS, Die romiscbe Eroberung cit., p. I07 e 128. 1 1 1 BELOCH, Romische Geschichte cit., p. 2I5. 114 WUILLEUMIER, op. cit., p. 250. Per quanto riguarda le superfici delle città della regione

' " Cfr.

m

mediterranea nell'età ellenica, si possono consultare le seguenti tavole di confronto: per il mondo mediterraneo nel suo complesso (ma specialmente per l'Italia e per la Si­ cilia), BELOCH, Bevolkerung cit., pp. 486-87; per l'Italia (sono riportati anche i peri­ metri), NISSEN, op. cit., II, pp. 36-37; per il Lazio, BELOCH, Romische Geschichte cit., p. 2 1 5 ; per l'Etruria, DE SANCTIS, op. cit., II, p. 494; per la Campania, BELOCH, Cam­ panien 2 cit., pp. 458-59.

BELOCH, Romiscbe Geschichte cit., p. 215. 116 DE SANCTIS, op. cit., I, p. I82.

"' Ibid., pp. 152 e 392. 113 DE SANCTIS, op. cit., Il , p. 494· 119 WARMINGTON, op. cit., p. n6. "' BELOCH, Bevolkerung cit., p. 486. 1 21 Op. cit., I, p. 355· "' L'osservazione è di G. E. F. CHILVER, Cisalpine Gaul: Social and Economie History /rom 49 B.C. to the Death of Trajan, Oxford I941 [rist. New York 1975], p. 52. 121 NISSEN, loc. cit. "' WARMINGTON, loc. cit. m G. e C. CHARLES-PICARD, Op. cit., p. 59· 126 LIVIO, XXIV 3· 127

I IO . "' Cfr., ad esempio, PLINIO, Nat. Hist. XVIII 3 (4).1 8 ; VALERIO MASSIMO, IV 3·5i TINO, Strateg. IV 3.12; COLUMELLA, I, Praefatio, 14; Vir. Ill. , 33·

FRON-

1 29 Cfr. PULGRAM, op. cit., pp. 28, 45, 265. "' Cfr. LIVIO, XL 42. 131 FRACCARO, L'organizzazione politica dell'Italia romana, in « Atti _del Congresso Inter­ m

nazionale di Diritto Romano (Roma, 22-29 aprile I933 ) », l, Pavia I934, p. 208.

Ma già allora, a partire circa dalla metà dd III secolo a .. C., �sc�izioni latine venivano dipinte sulla ceramica dell'Etruria sud-orientale e persmo mcise su bronzi etruschi

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Capitolo terzo

(H. GUMMERUS, s. v. Industrie u. Handel, B: Bei den Romern, II: Die republikanische Zeit bis auf ca. IJO v. Chr., in PW, IX, 1916, col. 1449). m Cfr. supra, pp. I I5-16. 134 NISSEN, op. cit., I, p. 538. Cfr. P. GRIMAL, Le siècle des Scipions, Paris 1953 [19752], p. 23. 135 NISSEN, op. cit., II, p. 7· Nissen avanza l'ipotesi (ibid., p. 15), che l'attuale concentra­ zione urbana della popolazione agricola italiana, specialmente nelle regioni sud-orien­ tali, sia un'eredità dell'antica istituzione della città-stato. 136 Cfr. supra, cap. n, p. 91, nota x . m I n quella parte d'Italia (ed era di gr an lunga la maggiore) non colonizzata dagli Etru­ schi e dai Greci, la città-stato costituiva un'istituzione esotica, venuta a sovrapporsi a quella indigena della comunità di villaggio rurale (pagus). Cfr. E. KORNEMANN, Polis und Urbs, in « Klio », v, 1905, pp. 72-92; HEURGON, Capoue préromaine cit., pp. n6-17. NISSEN, op. cit., II, pp. xB-19 fa risalire gli inizi del sinecismo fra le popolazioni indi­ gene dell'Italia al VI secolo a. C. 138 STRAliONE, V 2.10 (C. 227). 139 NISSEN, op. cit., l, p. 507. Nissen (op. cit., II, p. 7) osserva che l'Umbria e il Lazio erano le due regioni dell'Italia che presentavano la maggiore densità di città-stato. Egli ritiene che in tali zone, quando il processo sinecistico giunse a compimento, vi fosse in media una città-stato ogni 200 kmq. 140 Cfr. supra, p. 92, nota 5· 141 Roma affrontò il problema degli invasori sabini in parte respingendoli e in parte as­ sorbendoli. Secondo la tradizione romana, la patrizia gens Claudia era di origine sabina e aveva come capostipite il capo di una banda di guerrieri, Atto Clauso, che nei primi tempi dell'era repubblicana aveva ricevuto delle terre per il suo popolo nel­ l'Ager Romanus, in quel distretto che divenne in seguito la tribu Claudia ( L1VlO, II 16). Tale distretto costituiva in realtà l'estremità settentrionale del territorio romano prima dell'annessione di Fidene e Crustumerio, avvenuta verso la fine del v secolo a. C. Ancora nel 460 (457-452 ca.) a. C., il capo di un'altra banda di guerrieri sabini, Appio Erdonio, sarebbe riuscito a impadronirsi del Campidoglio e dell'Arce con un vittorioso attacco notturno. Secondo la tradizione, Tuscolo, una delle città-stato latine allora alleate di Roma, aveva aiutato i Romani a riconquistare la loro cittadella e a cac­ ciare gli invasori sabini (LIVIO, III 15-18). 142 Gli Equi erano sicuramente montanari provenienti dalle alte valli dell'Aniene, del Turano e dell'Imelle. Sembra però che il loro nome latino - « Aequi >) o « Aequicoli » significhi il « popolo delle pianure>), a differenza dei loro vicini Ernici che sarebbero il « popolo delle rocce >) e dei loro alleati volsci, il « popolo delle paludi >) (il nome « Volsci » deriva presumibilmente dalla stessa radice da cui provengono i nomi del di­ stretto della Velia nella città di Roma e del lago Velino nell'alta Sabina ed è l'equi­ valente latino (cfr. infra, cap. III, appendice III, p. 490, nota 24) della radice .fEÀ.­ che compare nella parola greca E) oc;). II nome « Aequi >) fu forse dato in origine dai Latini alla parte di questo popolo di montanari che nel v secolo a. C. era riuscita a occupare per qualche tempo un tratto di pianura fra Preneste e i colli Albani. Dopo che i Romani, verso la fine del IV secolo a. C., ebbero schiacciato gli Equi sulle loro montagne, il nome « Aequicoli » venne usato per designare il piu settentrionale dei due tronconi superstiti del popolo equo. Mentre gli Equi, come i Sabini, erano ancora fer­ mi allo stadio anteriore alla città-stato sin dopo la conquista romana, tutti i Volsci, come pure gli Ernici, avevano già fondato per sinecismo città-stato che, a quanto ci consta, erano probabilmente antiche come quelle latine e come la stessa Roma. 10 La storia abbonda di casi del genere. Ad esempio i cristiani ortodossi d'Oriente, sud­ diti dell'Impero ottomano, cominciarono a giudicarne intollerabile il dominio soltanto negli ultimi decenni del XVII secolo; il mutamento del loro atteggiamento politico fu determinato in quell'epoca da ragioni culturali. Fino a quel momento essi avevano ri..

La Federazione romana dell'Italia peninsulare nel 2 6 6 a. C.

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spettato la civiltà dei dominatori Osmanli, in quanto superiore alla loro; alla fine del XVII secolo si resero conto che la moderna civiltà occidentale era superiore a quella ottomana e, a mano a mano che essi stessi si occidentalizzavano, cominciarono a consi­ derarsi superiori ai loro padroni ottomani sul piano culturale. Questo nuovo senso di superiorità culturale fece si che da allora in poi essi giudicassero intollerabile la loro soggezione politica. L'insofferenza che i popoli dell'Europa orientale, soggetti all'Unio­ ne Sovietica, provavano nel 1964 verso la dominazione russa dipendeva in parte dalla stessa causa. Questi popoli, sia ortodossi orientali che cattolici romani, si sentivano superiori ai Russi per civiltà; nel caso di quelli la cui lingua nazionale apparteneva (come quella russa) alla famiglia slava, l'affinità linguistica non contava affatto rispetto alla differenza culturale. Polacchi, Cechi, Slovacchi e Bulgari si sarebbero volentieri scrollati di dosso il giogo dei Russi, slavi come loro, se ne avessero awto la possibilità. Alla dominazione russa si era sottratto, sempre nell'Europa orientale, un altro popolo di lingua slava, quello jugoslavo. '" Cfr. GRIMAL, loc. cit. (supra, p. 278, nota 134). '" AFZELIUS, Die romische Eroberung cit., pp. 137-38, concorda con

BELOCH, Riimische Geschichte cit., pp. 368-69, nella valutazione del territorio controllato dai Sanniti al

principio del conflitto con Roma. A quell'epoca la Federazione sannitica abbracciava il futuro Ager Picentinus sulla costa tirrenica, a sud-est della penisola sorrentina; i ter­ ritori dei Frentani e degli Apuli a nord-ovest di Arpi, sulla costa adriatica; Ece, Asco­ li Apulo, Lucera e Venosa nell'entroterra dell'Apulia nord-occidentale; Banzia, Fo­ rento e Silvio all'estremità settentrionale della Lucania e Cassino e Atina sul margi­ ne nord-orientale del bacino del Liri (cfr. supra, p. 272, nota 27). Secondo Afzelius (Die romische Eroberung ci t., p. 138), la superficie complessiva di questi territori era di 21 595 kmq, ossia circa un sesto della superficie totale dell'Italia peninsulare, e la su­ perficie del Sannio propriamente detto era di 12 970 kmq. Afzelius (ibid., p. 140) calcola che nel 346 ( 343 o 342) a. C. la superficie dell'Ager Romanus misurasse 2005 kmq, che quella della Confederazione latina fosse di pari di­ mensione e che quella dell'alleanza romano-latino-em ica, compresi gli Stati volsci as­ soggettati, si estendesse per 6095 kmq. Egli ritiene che la popolazione libera fosse di 317 400 anime in tutto (p. 141), in confronto alle 650 ooo della Federazione sannitica (p. 138). A quell'epoca la densità della popolazione dell'Ager Romanus era, secondo i suoi calcoli, di 63 abitanti per kmq (p. 141) di fronte ai 30,1 della Federazione sanni­ tica nel suo complesso (p. 138). ,.. Da parte di A PZELIUS ,

ibid., p. 172.

147 Sulla data del passaggio di Nocera dal campo sannitico a quello romano, cfr. ibid. , p. 161.

'" Cfr.

ibid., pp. 163-66.

'" Il vantaggio politico di cui Roma godeva in quanto rappresentante del sistema di vita della città-stato ebbe il suo rovescio nella storia dei rapporti fra le città-stato greche dell'Italia e della Sicilia e i difensori che esse fecero venire dalla Grecia continentale europea per attenerne l'aiuto durante le lotte contro Cartaginesi, Osci e infine Romani. Cinque di questi sei campioni della grecità occidentale erano sovrani o membri di fa­ miglie reali: Archidamo era re di Sparta, Acrotato e Oeonimo appartenevano ad una delle due famiglie reali spartane, Alessandro e Pirro erano sovrani molassi. Fra i sei, solo Timoleonte era cittadino di una città-stato repubblicana ed egli solo, infatti, com­ pi la sua missione senza entrare in collisione con lo spirito repubblicano dei Greci d'Occidente. Tutti gli altri, prima o poi, entrarono in contrasto con esso e in tutti e cinque i casi fu questo uno dei motivi che determinarono l'insuccesso dei campioni monarchici. La tradizione greca ( ad esempio APPIANO, Sam. 8) addossa a Pirro, non a Roma, l'odioso ruolo di affossatore della libertà tarantina (w. HOFFMANN, Der Kampf :r.wischen Rom und Tarent im Urteil der antiken Oherlieferung, in « Hermes », LXXI, 1936, p. 21).

2 80

Capitolo terzo

Le sei sfortunate spedizioni militari venute in Occidente dalla Grecia continentale europea coprono un periodo che va dal 344 al 272 a. C., cioè dallo sbarco di Timo­ leonte in Sicilia alla resa di Milone e della cittadella di Taranto ai Romani. La conqui­ sta romana dell'Italia peninsulare abbraccia un periodo che va dal 340 o 339 (quale che sia, di questi due, l'anno corrispondente al varroniano 4 1 1 A.U.C.) e il 272 a. C. I due periodi coincidono quasi esattamente. Se il movimento che mirava a risollevare le sorti greche in Occidente non fosse stato ostacolato da una frattura ideologica, gli Elleni d'Occidente avrebbero forse potuto opporre una valida resistenza all'espansione romana, attuata a loro spese. 150 Cfr. NISSEN, op. cit., II, p. 20. "' È indubbio che l'ondata del sinecismo avanzava anche indipendentemente da quella della conquista romana e la precedeva senza alcun intervento da parte di Roma. Nel territorio dei Vestini, ad esempio, erano sorte accanto ai pagi di Furfo e di Fificulanus le città-stato di Peltuino e Aveia; nel territorio dei Peligni, Sulmona e Corfinio erano già divenute città-stato ( H. RUDOLPH, Stadt und Staat im romischen ltalien, Leipzig 1935, p. 56). Nel Sannio il cantone dei Caudini, lungo la frontiera campana, si stava forse già cristallizzando nelle città-stato di Caudio, Caiazia, Telesia, Compulteria e Tre­ glia (cfr. AFZELIUS, Vie romische Eroberung cit., p. 59). Non è neppure provato che Roma abbia influito in qualche modo sul sinecismo di Ascoli, la prima città-stato indi­ gena (vale a dire né greca né romana) formatasi nel Piceno. Nel territorio dei Sidicini, invece, il sinecismo che diede origine alla città-stato di Teano Sidicino sembra esser avvenuto dopo che i Sidicini furono incorporati nella Federazione romana come alleati di Roma. ISl A. N. SHERWIN-WHITE, The Roman Citiz.enship, Oxford 1939, p. 90. 1" Cfr. infra, p. 295, nota 54, e p. 298, nota 76. "' Cfr. infra, p. 169. "1 Cfr. supra, p. 272, nota 25, e infra, p. 293, nota 22, e p. 169. 156 Il Sannio settentrionale non imitò gli lrpini e i Caudini quando questi si staccarono dalla Federazione romana nel 2 1 6 a. C., dopo la disfatta di Canne, ma lo fece poi nel 90 a. C. per svolgere una parte di primo piano fra i confederati nella seconda guerra di secessione. Una delle prime operazioni militari dei confederati consistette nell'at­ taccare ed espugnare Isernia; il fatto che essi ne avessero compreso l'importanza atte­ sta l'abilità con cui Roma aveva istituito questa fortezza latina in vista dei suoi interessi strategici. m Cfr. supra, nota 151. 158 Op. cit., Il, p. 461. Cfr. anche supra, p. 272, nota 25. m BELOCH, Romische Geschichte cit., pp. 367-68, e AFZELIUS , Die romische Eroberung cit., p. 86, affermano che Cassino, come Atina, era appartenuta al Sannio. Secondo AFZELIUS, loc. cit., Aquino era invece uno Stato volsco indipendente. 100 Cfr. AFZELIUS, Die romische Eroberung cit., p. 90i BELOCH, Romische Geschichte cit., pp. 472 e 509. BELOCH, locc. citt., avanza l'ipotesi che anche Alfedena possa essere stata una di queste antiche comunità sannitiche annesse da Roma. Non vi sono dubbi per quanto riguarda Venafro, Alife e Atina: le prime due sono indicate come prefetture da Festa e la terza da Cicerone (Pro Planc. 8.21 ). Nel caso di Cassino e Alfedena ci si deve basare su iscrizioni (CIL X, nn. 5193 e 5194 per Cassino; CIL IX, n. 2802 per Alfedena) che non costituiscono prove decisive. Quanto ad Alfedena, l'opinione di Beloch viene accolta, a titolo di ipotesi, da L. R. TAYLOR, The Voting Districts of the Roman Republic, Roma 1960, p. 92, nota 39· 161 Cfr. SHERWIN-WHITE, op. cit., p. 122. 162 Cfr. infra, in questo capitolo, § 7· "' I Romani, guardando a tale guerra dal loro punto di vista, la definirono « guerra con­ tro gli alleati » (Bellum Sociale), oppure « guerra contro gli Italici » (Belltlm Italicum).

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Una piu adeguata descrizione visiva del conflitto forniscono l e monete coniate dal governo della Confederazione secessionista italica le quali mostrano il toro italico che colpisce con le coma la lupa romana. La « guerra sociale», usuale traduzione di uno dei due nomi romani di questa guerra, è una denominazione che oggi, nell'età postmar­ xiana, è particolarmente fuorviante in quanto suggerisce inevitabilmente il concetto improprio di lotta di classe. La prima guerra di secessione dall'alleanza con Roma fu quella combattuta nel 34o-338 (337-335 o 336-334) a. C., ossia la « guerra contro i La­ tini » (Bellum Latinum) come la chlarnarono i Romani. Cfr.

BELOCH, Der italische Bund cit., pp. 18, 19, 22 ( lrpini, Lucania, Piceno).

Ad esempio la Respublica Aequicolorum, il territorio dei Marrucini (trasformato nel municipium Teate) e il territorio dei Vestini (trasformato nel municipium Pinna; ibid., pp. 21 e 166-67). Ad esempio Alba Longa, Boville, Cabo, Castrimenio, l'Ager Latiniensis (già tribu Poi· lia), l'Ager Clustuminus (già tribu Clustumina), Fidene, Ficulea, il municipium Veiens (già tribU Trementina), i Novem Pagi, tutti compresi nel territorio dei piu antichl distretti delle tribu rustiche (ciCERONE, Pro Planc. 9.23 ; De Harusp. Resp. 10.20; BE· LOCH, Der italische Bund cit., p. 105; TAYLOR, op. cit. , p. 106, nota 16); Foroappi e Ulubre nel territorio della tribu Fontina; Urbana e Forum Popilii in quello della Falerna (BELOCH, Der italische Bund eit., p. 106); l'Ager Ernicus (già tribu Publilia)

(TAYLOR, loc. cit. ).

Per le prefetture cfr.

in/ra, in questo capitolo, § 7·

Cfr. SHERWIN·WHITE, op. cit., pp. 141-42. Secondo Rudolph (op. cit., passim, ma spe­ cialmente alle pp. 216-41), non vi era alcuna organizzazione generale o sistematica e i poteri giudiziari non vennero delegati alle autorità municipali sinché Cesare non fece approvare la lex lulia municipalis, che Rudolph (p. 223) data al 47 a. C. basandosi su CICERONE, Ad Fam. XIII u.3.

169 GRIMAL, op. cit., p. 51. "" Ibid., p. 36.

§ 1

2

3

2.1 (pp. 133•53).

A. ALFOLDI, Ager Romanus Antiquus, in « Hermes », xc, 1962, pp. 187-213, sostiene che i confini battuti durante la festa degli Ambarvalia non fossero i piu antichl e avanza

l'ipotesi che il primitivo Ager Romanus non si estendesse oltre la riva destra del Te­ vere e che in origine l'Ager Veientanus corresse lungo la sponda sinistra del fiume fino alla costa, fra l'Ager Romanus e l'Ager Caeritis (dr. ibid., pp. 187, 190-93). Sempre se­ condo Alfoldi (ibid., pp. 193, 206 e 213), la tribu Romilia fu creata non prima del 450 a. C. ca. e l'Ager Romanus si estese fino alla quinta pietra miliare della via Clodia soltanto dopo l'annessione di Fidene (pp. 197-99).

infra, cap. v , § 3 . 1, pp. 369-70. PARETI, op. cit., l, p. 306; BELOCH, Der italische Bund cit., p. 181. Tuttavia BE· LOCH, Romische Geschichte cit., p. 170, calcola che la superficie dell'Ager Romanus

Cfr.

Cfr.

delimitata da questi confini fosse già piu estesa della media dei territori degli Stati la­ tini coevi.

' l'RANK, An Economie Survey of Ancient Rome, I, Rome and Italy of the Republic, Baltimore 1933, pp. 2-3, data il sinecismo di Roma al 650 a. C. ca., epoca in cui - stan­

do alle testimonianze archeologiche - si cessò di usare come necropoli quello che sa­ rebbe poi divenuto il Foro Romano. LAST, in « CAH », VII, 1928, fa risalire il sinecismo di Roma alla stessa data (p. 359), ma ritiene che ancora per un secolo il Foro fu ado­ perato per sepolture (p. 354). BLOCH, The Origins of Rome cit., pp. 86 e 90, osser­ va che nel Foro v'erano già abitazioni e tombe nel 67o a. C. e che (p. 88} vasi del Tardo Protocorinzio sono stati rinvenuti in tombe romane della seconda metà del VII secolo a. C. In alcune sepolture del Foro, secondo FELL, op. cit., p. 63, nota 3, sono state trovate ceramiche del VI secolo a. C. PARETI, op. cit., l, p. 230, avanza l'ipotesi che il

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Capitolo terzo

sinecismo, nel Lazio, abbia rappresentato una reazione alla pressione delle città-stato greche ed etrusche già sorte per sinecismo. HOMO, op. cit., pp. I I 2 e 137, e FELL, op. cit., pp. 41, 70 e 73, ritengono che esso sia stato una conseguenza della conquista etrusca del Lazio. H. STUART JONES, in « CAH �>, VII, 1928, p. 346, e SHERWIN-WHITE, op. dt., pp. I7·I8, fanno risalire il sinecismo nel Lazio al VI secolo a. C.; SAFLUND, art. cit., p. 21, lo colloca intorno al 575 a. C. Un'analisi esaustiva di tutto il materiale archeologico relativo alle origini di Roma sinora venuto alla luce è fornito da E. GJER­ STAD, Early Rome, I, Lund 1953; II, 1956; III, 1960; IV-VI, ancora inediti [vedi ora la bibliografia finale con i relativi aggiornamenti]. Cfr. anche A. MOMIGLIANO, An In­ terim Report on tbe Origins of Rome, in « Journ. Rom. Stud. », LIII, 1963, pp. 95-121. ' Cfr. FRACCARO, L'organizzazione politica cit., p. 196. Secondo BELOCH, Romische Ge­ schichte cit., p. 209, e F. TAMBORINI, La vita economica nella Roma degli ultimi re, in « Athenaeum », XVIII (n.s. VIII ) 1930, pp. 476-77, Ardea era, subito dopo Roma, la piu importante fra le città-stato latine. 6 Cfr. BELOCH, Der italische Bund cit., pp. 43-44; EUNDEM, Romische Geschichte cit., pp. q8, 216 e 62o; infra, p. I54· 7 BELOCH, Romische Geschichte cit., p. 178. 1 Cfr. la tavola di BELOCH, loc. cit. Ecco, sempre di Beloch, l'elenco delle città-stato del Lazio dell'epoca e il computo della superficie dei loro territori in chilometri quadrati: Roma 822, Tivoli 351, Preneste 262,5, Ardea (- Rutuli) 198,5, Lavinio (- Laurentini) 164, Lanuvio 84, Labico 72, Nomento 72, Gabii 54, Fidene 50,5, TuscoJo 50, Ariccia 44,5, Pedo 42,5, Crustumerio 39,5, Ficulea 37· ' Cfr. infra, cap. v, § 3, pp. 369-70. 10 La tribu Rornilia, la piu antica tribu rustica, era situata sulla riva destra (nord-occi­ dentale) del Tevere ( BELOCH, Der italische Bund cit., p. 29), come la Galeria ( TAYLOR, op. cit., p. 39) e probabilmente anche la Fabia (ibid., pp. 40-41). 11 Cfr. BELOCH, Romische Geschichte cit., pp. 179-80; WERNER, op. cit., p. 339 con la nota x . u Cfr. infra, cap. nr, appendice l, § 3· ALFOLDI, art. cit., pp. I87-213, ritiene invece che questi ampliamenti siano posteriori al 450 a. C. u LIVIO, I 49·52. 14 LIVIO, I 53· 15 LIVIO, I 53-55· 16 LIVIO, I 56. 17 LIVIO, I 57· 11 BLOCH, Tbe Origins of Rome cit., p. 104, fa notare che Roma assunse importanza stra­ tegica agli occhi degli Etruschi dopo che essi ebbero occupato la Campania. Egli avama l'ipotesi che sia questo il motivo che spinse in ordine successivo alla conquista di Ro­ ma condottieri come Aule e Calle Vipinas e Macstrna di Vulci o Larth Porsenna di Chiusi. Cfr. PELL, op. cit., p. 83, nota I che cita TACITO, Hist. III 72. Cfr. infra, cap. m, appendice I, § 3· WERNER, op. cit., pp. 381-83, respinge in quanto leggendaria la storia della spedizione di Porsenna contro Roma. 1 WERNER, op. cit. , pp. 9 3 88-96, ha raccolto testimonianze a conferma dell'uso del rito etrusco nel sinecismo di Roma e di altre città laziali. ZD La tradizione è però accettata da F. MÌiNZER, Romische Adelsparteien und Adelsfa­ milien, Stuttgart 1920, p. 52; PRACCARO, L'organizzazione politica cit., p. 197; FRANK, An Economie Survey, I cit., p. 3· Cfr. infra, cap. III, appendice l, § 3· 21 Tuttavia, « l'influenza culturale dell'Etruria sul Lazio non costituisce di per sé una prova del dominio etrusco » ( FELL, op. cit., p. 68). 22 Lucus Ferentinae: LIVIO, I 50 e 52; VII 25 ; o fonte di Ferentina (caput Ferentinae: LIVIO II 38; CINCIO, citato da PESTO, s. v. praetor sub monte, p. 241 M. ; caput aquae

La Federazione romana dell'Italia peninsulare nel 266 a. C.

283

Ferentinae: LIVIO, I 51); o Ferentinum (forma in cui il nome compare sempre in Dio­

23 "

25

nigi).

In « CAH », Vll, 1928, pp. 487-88. Op. cit., p. 13. Cfr. BELOCH, Romische Geschichte cit., pp. 1 82-86,

la nota 2.

e

WERNER, op.

cit., p. 405, con

"' l 45· n

2.!

De Ling. Lat. V 43· WERNER, op. cit., pp. 396-400, ritiene che il santuario di Diana sull'Aventino sia stato fondato sotto il regime etrusco, dopo che i dominatori etruschi di Roma ebbero este­

so la propria egemonia a tutto il resto del Lazio. A quell'epoca essi trasferirono da Ariccia a Roma il santuario federale della Confederazione latina. Sempre secondo Wemer (ibid., pp. 408 e 463), che si attiene a DIONIGI, III 34, questa Confederazione era stata fondata (e aveva scelto come proprio santuario federale il boschetto di Dia­ na ad Ariccia) dopo che Roma si era annessa l'Ager Albanus, in cui sorgeva il san­ tuario nazionale latino di Giove Laziare. A parere di Wemer (op. cit., pp. 404-5 e 442), il testo tramandato da Catone costituisce il documento della riconsacrazione del san­ tuario di Ariccia, avvenuta quando la Confederazione latina si fu liberata dall'ege­ monia romana, dopo la caduta del regime etrusco. " Fr. 58 Peter. 30

Cfr.

infra, p. 256. Questa lezione è rifiutata da WERNER, op. cit., p. 403, nota 2.

31 Vl 2r.

32

II x8. T. SALMON, Roma and the Latins, I, in c The Phoenix >l>, vu, 1953, p. 98; WERNER, op. cit., pp. 413-14. ,. PRJSCIANO, IV 21, p. 129 Hertz. 3' WERNER, op. cit., pp. 420-21, avanza l'ipotesi secondo cui le comunità che finirono per

3 3 E.

partecipare alla Confederazione latina dopo il dominio dei Tarquini sarebbero quelle comprese nell'elenco fornito da DIONIGI, V 6r.3.

3' Cfr. PRACCARO, L'organizzazione politica

cit., p. 196.

" Cfr.

ibid., p. 197, e WERNER, op. cit., p. 462, che cita LIVIO, II 22 e 24, nonché Dio­ NIGI, VI 25 e 27. DE SANCTIS, op. cit., II, p. 100, ipotizza che la distruzione di Po­

mezia ad opera dei Volsci sia stato l'episodio che indusse la Confederazione latina a venire a patti con Roma.

38 È anche possibile che la zona paludosa compresa fra i monti Lepini e la costa, da Velletri e Anzio a Terracina e Circei incluse, fosse abitata in origine da una popo­ lazione latina e che i Volsci siano calati dai contrafforti appenninici a occupare la re­ gione pontina soltanto dopo il crollo della monarchia a Roma e la conseguente di­ sgregazione del minuscolo impero di Tarquinia Il. Questa tesi è sostenuta da Wer­ ner (dr. op. cit., p. 333, con la nota 3, p. 368 e pp. 396-97). '' Cfr. supra, p. 278, con la nota 141.



op. cit., p. 20. WERNER, op. cit., pp. 455-56, sostiene che il testo del trattato tramandato fino ai tempi di Cicerone ( CICERONE, Pro Balbo 23.53) non recava data e designava il nego­ ziatore romano col solo nome di Cassio. Werner identifica inoltre ( op . cit. , p. 455) il trattato citato da CICERONE, loc. cit., con quello menzionato da DIONIGI, VI 95, e da PESTO, p. 166 M. " WERNER, op. cit., p. 454, sostiene l'autenticità del trattato ma (p. 462) lo fa risalire al 465-460 ca. a. C. Cfr. ibid., p. 358, nota r e p. 370. o DIONIGI, IV 49· 41

Cfr. SHERWIN-WIDTE,

284 "

Capitolo terzo

DIONIGI, VIII 69; LIVIO, II 41. Secondo Dionigi, gli Emici furono ammessi nell'al­ leanza su un piano di parità. DE SANCTIS, op. cit., II, p. 98, nota 2 e pp. 103-4, e SALMON, Rome and the Latins, II, in « The Phoenix », vn, 1953, p. 125, sostengono che tale tradizione è autentica, mentre BELOCH, Romische Geschichte cit., p. 198, e WERNER, op. cit., pp. 128 e 468-69, la rifiutano, giudicandola l'anticipazione spuria di un trattato concluso durante o dopo il 358 (355 o 354) a. C. " La svolta decisiva del conflitto fu probabilmente segnata dalla battaglia del monte Algido, combattuta nel 432 o 431 (429-424 o 428-423 ca.) a. C. ( LIVIO, IV 26-29; DIODORO, XII 64).. DE SANCTIS, op. cit., Il, pp. 134 e I40. " DIONIGI, VI 95· Sempre secondo Dionigi (VIII 69, 71 e 77) gli Emici ricevettero un terzo del territorio conquistato e una parte del bottino. " Cfr. FRANK, On Rome's Conquest of Sabinum, Picenum and Etruria, in « Klio », XI, 19 II1 p. 369. " Cfr. SALMON, Rome and the Latins, II cit., pp. 125 e 126 ; SPAETH, op. cit., p. 30. 50 Cfr. SALMON, Rome and the Latins, II cit., p. 130. 5 1 Cfr. infra, cap. m, appendice V, pp. 501-2. 52 J.IVIO, IV 51, che riporta la data tradizionale: 413 (410-405 ca.) a. C. (cfr. SALMON, Rome and the Latins, II cit., p. 126). 53 I Latini e gli Emici prestarono man forte ai Romani nella conquista di Fidene ( LIVIO, II 19; IV 17 e 21; DIONIGI, V 43, 52, 58 e 6o) e di Veio ( LIVIO, V 19). Cfr. SALMON, Rome and the Latins, II cit., p. 123, e, infra, l'appendice V a questo capitolo, p. 501. 54 Cfr. in/ra, p. 189 e l'appendice V a questo capitolo . .., Cfr. SALMON, Rome and the Latins, II cit., p. 127. 56 L'anno 396 ( 393-388 ca.) a. C. è la data tradizionale della caduta di Veio e l'anno 386 (383-378 ca.) a. C. è quella del riordinamento dell'antico Ager Veientanus in quat­ tro distretti di tribu supplementari (uvw, VI 5). S7 Le date tradizionali di fondazione di queste quattro colonie latine non rientrano tutte nel periodo compreso fra la data tradizionale della stipulazione del Foedus Cassia­ num e quella della disfatta gallica. Secondo la tradizione, il Foedus Cassianum fu concluso nel 493 (490-485 ca.) a. C. e i Galli si abbatterono su Roma nel 390 ( 387382 ca.) a. C. Le date tradizionali di fondazione delle colonie latine in questione sono: Segni, 495 (492-487 ca.) a. C. ; Norma , 492 (489-484 ca.) a. C. ; Circei, 393 (390-385 ca.) a. C.; Sezze, 382 (379-374 ca.) a. C., secondo VELLEIO, I 14. WERNER, op. cit., p. 471, rifiuta le date tradizionali di fondazione di Segni e Nor­ ma. Sembra inoltre improbabile, in contrasto con alcune date tradizionali, che la Confederazione latina sia stata tanto forte da conquistare e colonizzare i territori vol­ sci in questione senza l'aiuto di Roma ed è quindi lecito supporre che nessuna delle quattro colonie di cui sopra, già in territorio volsco, sia stata fondata prima della sti­ pulazione del Foedus Cassianum o nel corso dei trent'anni successivi alla disfatta gallica, quando l'alleanza romano-latina non era piu in vigore (cfr. POLIBIO, II r8; LIVIO, VI 2). Varie considerazioni di indole geografica fanno inoltre ritenere assai improbabile che la colonia latina di Circei sia stata fondata undici anni prima di quella di Sezze. Attaccando i Volsci, la Confederazione latina mirava evidentemente a tagliare fuori i loro avamposti pontini (Anzio, Satrico, Velletri e Terracina) dal grosso del popolo volsco, insediato piu ad est (Priverno, Fabrateria, Fondi, Formia, Aquino, Fregelle, Frosinone, Arpino e Sora). La strategia dei Latini consisteva nel prolungare la propria catena di colonie verso sud-est, lungo le alture facilmente di­ fendibili dei monti Lepini, e la saggezza di quella strategia venne confermata dal suc­ cessivo corso degli eventi: la colonia di pianura, Pomezia, venne spazzata via, mentre le quattro colonie costruite sulle alture resistettero tutte, come la loro sorella maggiore Cori. I Latini dovettero però attraversare l'insidiosa pianura pontina per creare l'ul-

La Federazione romana dell'Italia peninsulare nel 266 a. C.

285

timo anello della loro catena di colonie collinari, Circei. Sembra poco probabile che essi siano riusciti a portarsi con un balzo solo da Circei a Norma, senza aver prima fondato un caposaldo intermedio a Sezze. Sarebbe perciò difficile accettare l'afferma­ zione di Velleio secondo cui Sezze fu fondata nel 382 (379-374 ca.) a. C. Egli o la sua fonte debbono aver confuso la fondazione di Sezze col suo successivo rafforzamento che LIVIO, VI 30, fa risalire all'anno 380 (377-372 ca.) a. C. 58 Per Sutri e Nepi dr. infra, p. 299, nota 106, p. 190 e l'appendice II a questo ca­ pitolo, pp. 474-75. 59 Nel cruciale anno 340 (337 o 336) a. C., i due principali magistrati della Confedera­ zione latina erano entrambi cittadini di colonie facenti parte della Confederazione: uno di essi era di Sezze e l'altro di Circei. Secondo la tradizione romana, furono questi due magistrati latini provenienti dalle colonie ad istigare le genti latine spin­ gendole a scendere in lotta contro Roma e ad incitare i Volsci Pontini a unirsi a loro ( LIVIO, VIII 3-6).

.. LIVIO, VII 9·

61

La fondazione di una colonia latina a Circei nel 393 (390-385 ca.) a. C. presuppone che in precedenza fosse stata soggiogata Anxur (ovvero Terracina). Secondo la tra­ dizione romana, quest'ultima fu espugnata dai Romani (cioè dalla triplice alleanza) nel 406 (403-398 ca.) a. C. ( LIVIO, IV 59; DIODORO, XIV 16); riconquistò l'indipen­ denza nel 402 ( 399-394 ca.) a. C. ( LIVIO, V 8 e 10) e venne riassoggettata nel 400 ( 397-392 ca.) a. C. ( LIVIO, V 12-13). Anche Anzio dovette essere temooraneamente sottomessa intorno alla stessa data, perché la tradizione narra ( LIVIO, VI 6) che essa insorse nel 386 (383-378 ca.) a. C., vale a dire dopo la catastrofe gallica. La tradizione riferisce inoltre ( LIVIO, V 45) che nel 390 ( 387-382 ca.) a. C. gli Anziati combatterono a fianco dei Romani contro un'orda di Galli, il che fa pensare che Anzio fosse stata co­ stretta ad allearsi con la Lega romano-latino-ernica prima di tale data. "' LIVIO, VI 2. Cfr. anche VI 21-24. 63 Cfr. infra, l'appendice II a questo capitolo. "' LIVIO, VII 6-9 e 15. 65 « Pax Latinis petentibus data et magna vis militum ab iis ex foedere vetusto, quod multis intermiserant annis, accepta » [«Dietro loro richiesta fu concessa la pace ai Latini, ed essi fornirono un gran numero di soldati secondo l'antico trattato di al­ leanza, che da molti anni non era stato piu osservato »] ( LIVIO, VII 12). Malgrado questa chiara affermazione liviana, WERNER, op. cit., pp. 357-58 e 369-70, sostiene che nel 358 (355-354) a. C. Roma impose ai Latini un nuovo trattato, le cui condizioni erano diverse e meno favorevoli di quelle del Foedus Cassianum. SALMON, Rome and the Latins, II cit., pp. 131-32, osserva che in tale occasione il Foedus Cassianum fu ri­ pristinato per iniziativa dei Latini. Egli ipotizza che i Latini vi furono indotti dalla paura dei Sann iti e che con questi ultimi Roma concluse il trattato dd 354 (351 o 350) a. C. per placare le apprensioni suscitate in loro dal rinnovo del Foedus Cassia­ num. Egli fa notare che ciò nonostante i Latini riuscirono a trascinare Roma nella guerra contro il Sannio del 343 (340 o 339) a. C., ma che i Romani conclusero poi con i Sanniti una pace separata nel 341 (338 o 337) a. C .

..

LIVIO, VII 25-

67 LIVIO, VII

38. I territori della Confederazione latina dominavano i percorsi delle due strade - la via Appia e la via Latina - che il governo romano costruf in seguito per collegare Roma a Capua. 69 SALMON, Rome and the Latins, II cit., p. 131, osserva che nel 358 ( 355 o 354) a. C. il Foedus Cassianum venne ancora rinnovato come foedus aequum. 70 Secondo i calcoli di Mzelius, l'Ager Romanus aveva nel 343 (340 o 339) a. C. una superficie di 2005 kmq e una popolazione di 126 400 anime, contro la superficie com-

68

286

Capitolo terzo plessiva eli 6940 kmq e la popolazione di 375 ooo anime degli alleati eli Roma ( AFZE· LWS, Die romische Eroberung cit., pp. 144 e 147).

71 Questa osservazione è formulata da SALMON, Rome and the Latins, II cit., p. 129. 12

73

74 73

Il numero dipende dalla data in cui Tuscolo fu accolta nell'organismo politico romano (dr. in/ra, p . 141).

AFZELIUS, Die romische Eroberung cit., p. 150, calcola che, durante tale guerra,

Roma e gli alleati a lei rimasti fedeli dominavano una superficie complessiva eli soli 3530 kmq, con una popolazione eli 193 500 anime, contro una superficie complessiva di 5315 k.mq, con una popolazione eli 304 300 anime, controllata dai secessionisti.

Cfr. supra, p. 138.

Cfr. infra, l'appendice II a questo capitolo, p. 476.

76 Cfr. infra, l'appendice Il a questo capitolo, p. 475· 77

Per Gabii, dr. DIONIGI, IV 58; per Lavinio, dr. LIVIO, I 14. 71 La data tradizionale del trattato fra Roma e Ardea è il 444 (441-436 ca.) a. C. ( Dio­ NIGI, XI 62; LIVIO, IV 7, che cita Licinio Macro - il quale, secondo WERNER, op. cit. , pp. I I I e 465, nota I, inventò tale trattato); la data tradizionale della stipulazione del Foedus Cassianum fra Roma e la già costituita Confederazione latina è il 493 (49o-485 ca.) a. C. Ma lo stesso Livio sottintende, in questo capitolo, che nel 444 (44I-436 ca.) a. C. il trattato fra Roma e Ardea venne soltanto rinnovato. Se ciò ri­ sponde al vero, la data in cui il trattato fu concluso per la prima volta è forse ante­ riore a quella della creazione della Confederazione latina. Cfr. WERNER, op. cit., p. 465, nota x. 79

Cfr. LIVIO, VIII 14 e, per Tivoli in particolare, VII sub anno 360 (357 o 356) a. C.

u,

oltre ai Fasti Triumphales

Cfr. LIVIO, VII I9; i Fasti Triumphales sub anno 354 (351 o 350) a. C.; la Cronaca eli Ossirinco sub. 01. xo6,3 - 354·353 a. C. 11 Cfr. DIODORO, XVI 45· Questa è forse la data esatta della vittoria decisiva di Roma su Preneste, vittoria che DIODORO, XV 47, fa risalire al 382 (379-374 ca.) a. C. e che LI· VIO, VI 27-29, situa nel 380 (377-372 ca.) a. C. •

a

Il 14 115

LIVIO, VI 25-26. DE SANCTIS, op. cit., Il, pp. 152-53, fa osservare che, a seguito della vittoria riportata a monte Algido dalla Lega romano-latino-ernica, Roma si era annes­ sa Labico nel 4I8 (4I5·4IO ca.) a. C., stando a LIVIO, IV 45·47· Da allora in poi Tu­ scolo dovette essere quasi completamente circondata dall'Ager Romanus se la colo­ nia che - come afferma Livio in questo passo - fu fondata a Labico, quando quest'ul­ tima venne strappata agli Equi era davvero romana, come la definisce lo storico, e non latina. Se si trattava invece, come appare piu probabile, di una colonia latina (dr. infra, cap: m, appendice V, pp. 50I·2), l'anno esatto dell'annessione di Labico al­ l'Ager Romanus non dovette essere il 418 (4I5·4IO ca.) a. C., ma il 338 (335 o 334) a. C. LIVIO, VI 33· LIVIO, VI 36. LIVIO, VI 25-26, 33 e 36 li fa risalire al 38I (3 78-373 ca.), al 377 ( 374-369) e al 376

(373·368) a. C. Se è vero che, dopo la disfatta gallica, la Confederazione latina aveva denunciato il Foedus Cassianum o che, pur non denunciandolo, essa aveva smesso eli rispettarne i patti, può darsi che Roma si sia sentita moralmente libera, dal canto suo, di annettersi uno degli Stati membri della Confederazione quando se ne fosse presentata l'occasione. D'altra parte è forse improbabile che Roma abbia avuto la forza di staccare Tuscolo dalla Confederazione latina e che Tuscolo abbia deciso di cambiare partito, proprio quando Roma era ancora prostrata dalla disfatta gallica. Nel caso in cui abbia ragione Beloch (dr. Romische Geschichte cit., pp. x82-86) quan­ do colloca nel territorio toscolano il bosco e la fonte di Ferentina, dove si tenevano le assemblee della Confederazione latina, Tuscolo ne dovette uscire dopo il 349 (346

La Federazione romana dell'Italia peninsulare nel 2 6 6 a. C.

287

o 345) a. C. perché allora, stando a LIVIO, VII 25, 1'assemblea si riunf proprio in quel luogo. Altrimenti sembra piu probabile che Tuscolo abbia lasciato la Confederazione latina per unirsi a Roma fra il 358 (355 o 354) e il 349 (346 o 345) a. C. e che sia stato questo a provocare la decisione latina di rompere nuovamente con Roma nel 349 (346 o 345) a. C. " Su questo punto, di importanza cruciale per la storia della Federazione romana, dr. in/ra, cap. v, § 3.1, pp. 368-71.

87

Secondo l'ipotesi avanzata da SALMON, Rome and the Latins, II cit., p. 132, 1 Latini pensavano forse che i Sanniti sarebbero stati preoccupati e paralizzati dal timore loro ispirato da Archidamo e che Roma, da sola, non avrebbe potuto tener testa agli eser­ citi riuniti dei Latini, dei Volsci, degli Aurunci e dei Campani.

.. LIVIO, VII 15. " LIVIO, VII x6. L'espressione liviana « in deditionem urbem acceperunt » [· Per Tarquinia e Vulci il prezzo della LIVIO,

Capitolo terzo pace conclusa con Roma nel 280 a. C. fu forse la cessione di quei territori che in ori­ gine appartenevano a loro e che in seguito troviamo inclusi nell'Ager Romanus (ibid., pp. 69 e 183-84). Una colonia latina fu fondata a Cosa, sul territorio tolto a Vulci, nel 273 a. C. HEURGON, L'état étrusque, in « Historia », VI, 1957, p. 73, nota 3, sostiene però che nel 280 a. C. Roma confiscò soltanto territori appartenenti a Vulci e non a Tar­ quinia. Secondo lo studioso, nulla prova che vi siano stati conflitti fra Roma e Tarqui­ nia dopo il rinnovo, per altri quarant'anni, nel 308 (308-307 o 307) a. C. della prece­ dente tregua di quarant'anni. Egli osserva inoltre che il nome di Tarquinia non figura fra quelli degli Stati etruschi che fecero pace con Roma nel 280 a. C. Le annessioni compiute da Roma in date diverse a spese di Tarquinia erano cospicue. ! possibile che, per effettuarle, Roma abbia atteso fino al 267 o 266 a. C. (anno in cui scadeva la seconda tregua di quarant'anni), come suppone FRANK, On Rome's Conquest cit., p. 379? Questa data non sarebbe in contrasto con una osserva2ione incidentale di Livio il quale rileva che l'annessione del tratto di costa già appartenuto a Tarquinia non era piu un avvenimento recente (il termine da lui usato è quondam) nel 181 a. C., anno in cui venne fondata a Gravisca una colonia di tipo latino i cui abitanti erano cit­ tadini romani ( LIVIO, XL 29). BELOCH, Romische Geschicbte cit., p. 565, osserva che nel territorio già appartenuto a Tarquinia venne fondata, oltre a Gravisca, anche Fo­ rum Cassii; ma questo non ci aiuta a datare con esattezza l'annessione di tale terri­ torio all'Ager Romanus, dal momento che ignoriamo l'epoca di costruzione della via Cassia (dr. infra, vol. Il, note alla tavola V, 8 ). 56 APPIANO, Sam. 10.3; PLUTARCO, Pyrrh. 17. Secondo Plutarco (loc. cit.), Pirro avanzò fino a meno di trecento stadi da Roma. Stando a FLORO, I 1 3 ( 18).24, ed EUTROPIO, Il 12.1, egli giunse fino a Preneste. 57 Cfr. supra, p. 295, nota 52. 51 DE SANCTIS, op. cit., Il, p. 351, ritiene che l'attacco congiunto degli Etruschi e dei Galli contro Roma nel 299 a. C. (dr. supra, p. 16o) segni l'inizio di un'azione con­ certata contto Roma da parte degli Stati italici ancora indipendenti. 5° Cfr. BERNARDI, I cives sine suffragio cit., p. 271. 60 LIVIO, VII 38. Cfr. supra, p. 139. 61 Cfr. supra, p. 157. AFZELIUS, Die romiscbe Eroberung cit., p. 161, e BURGER, op. cit., p. 45, affermano entrambi che questo accerchiamento strategico del Sannio fu la mossa che diede a Roma la vittoria finale. 61 L'importanza strategica di tale via per Roma viene messa in rilievo da BELOCH, Der italische Bund cit., p. 52. Il punto-chiave era la gola situata al confine fra i territori dei Peligni e dei Marrucini attraverso la quale il fiume Aterno scorre verso nord-est, in direzione dell'Adriatico, dopo aver descritto una curva ad angolo retto nei pressi della città peligna di Corfinio (dr. NISSEN, op. cit., l, p. 340). 6J Cfr. AFZELIUS , Die romische Eroberung cit., p. 164; BELOCH, Romische Geschichte cit., pp. 403-4. DIODORO, XX 44, narra che nel 3o8 (308-307 o 307) a. C. i Romani ven­ nero in aiuto dei Marsi che erano stati attaccati dai Sanniti. LIVIO, IX 41 riferisce che in quello stesso anno i Marsi e i Peligni si batterono a fianco dei Sanniti �ontro Roma. Beloch rifiuta il racconto liviano ed accetta quello di Diodoro. Era prevedibile che i Sanniti attaccassero i cantoni montani per tagliare agli eserciti romani la strada del­ l'Apulia dove questi avevano condotto le loro operazioni cosi efficacemente contro il Sannio. Ci è inoltre documentato ( APPIANO, Bell. Civ. I 46) che Roma non aveva celebrato alcun trionfo sui Marsi prima della guerra di secessione del 90-89 a. C. DE SANCTIS, op. cit., Il, p. 333, nota 2, e p. 341 , accetta invece con qualche riserva la versione liviana e in questo è seguito da F. E. ADCOCK in « CAH )), vn, 1928, pp. 6o6-7. De Sanctis ritiene che nel 308 (308-307 o 307) a. C. tutte le popola2ioni delle zone montuose dell'Italia centrale (Marsi, Peligni, Marrucini, Frentani, Equi e Anagnini) si sollevarono contemporaneamente e che gli ultimi focolai della rivolta furono domati dai Romani soltanto nel 3o2 (302-301 o 301) a. C. Gli abitanti di Anagni furono assog­ gettati nel 306 (306-305 o 305) a. C. ( LIVIO, IX 43) ; i Peligni furono forse riassogget-

La Federazione romana dell'Italia peninsulare nel 266 a. C.

297

tati nel 305 ( 305-304 o 304) a. C. ( DIODORO, XX 90); gli Equi, i Marsi e forse anche i Peligni furono nuovamente assoggettati nel 304 (304-303 o 303) a. C. ( LIVIO, IX 45; DIODORO, XX ror); i Marrucini e i Frentani in quello stesso anno (DIODORo, loc. cit.) ; i Vestini nel 302 (302-301 o 301) a . C . ( LIVIO, X 3 ) . I n quello stesso anno, i Marsi sarebbero insorti di nuovo e di nuovo sarebbero stati ridotti all'obbedienza ( LIVIO, loc. cit.); ma, dato che la causa occasionale di tale ribellione sembra esser stata la fon­ dazione di una colonia latina a Carsoli, e dato che questa località non si trovava in territorio marsico ma in territorio equo, è piu probabile che il popolo ribelle fosse quello degli Equi. Viene riferito che questi ultimi insorsero nuovamente nel 302 ( 302-301 o 301) a. C. e nel 300 a. C. (dr. AFZELIUS, Die romische Eroberung cit., p. 174, e BELOCH, Romische Geschichte cit., p. 422; Beloch (loc. cit.) sostiene che la notizia di questa seconda ribellione non è autentica). 64

Cfr. supra, p. 296, nota 63.

65 In Die romische Eroberung cit., pp. I7D-7I. 66

Afzelius accetta la ricostruzione proposta da Beloch (e non quella di De Sanctis) per questo capitolo della storia dell'Italia peninsulare. Cfr. supra, p. 296, nota 63. 67 Cfr. supra, p. 296, nota 63. 68 LIVIO, X 9· 69

70

71

72

73

Cfr.

LIVIO,

X 1 .3 e 1 3 ;

VELLEIO,

Romische Geschichte cit., p. 422.

loc. cit. ;

BELOCH,

Der italische Bund cit., p. 144;

Forse gli Equi superstiti della valle dell'Aniene vennero subito parzialmente incor­ porati nell'organismo politico romano (ibid., p. 422), mentre gli Equicoli della valle dell'lmelle lo furono soltanto nel 290 a. C. (ibid., p. 427).

LIVIO, X r, riferisce che nel 303 (303-302 o 302) a. C. venne attribuita la cittadinanza romana a Trebula e ad Arpino. BELOCH, Romische Geschicbte cit., p. 425, asserisce che questa Trebula fosse la Trebula Mutuesca sabina, basandosi sul fatto che la Tre­ buia Suffenas equa e la Trebula Balliensis sannitica non sembrano aver ricevuto la cittadinanza romana prima della guerra di secessione del 90-89 a. C. Se si accetta il ragionamento di Beloch ne consegue che Trebula Mutuesca deve essere stata conqui­ stata da Roma prima del 303 (303-302 o 302) a. C. DE SANCTIS, op. cit., Il, p. 338, nota 4, ritiene invece che la Trebula cui venne allora concessa la cittadinanza romana fosse la Trebula Balliensis sannitica. Egli emenda Ila.À.w(ou� in Ba.À.w(ou� in Dio­ DORO, XX 90. Piu logico sarebbe invece l'emendamento Ila.tÀ.(yvou�. ADCOCK, in « CAH)), vn, 1928, p. 6o8, afferma che la Trebula in questione era la Trebula Suffenas ed è seguito dalla TAYLOR, op. cit., p. 56, nota 35· LIVIO, X ro. TAYLOR, op. cit., p. 62, concorda con BELOCH, La conquista romana cit., p. 270, nel ritenere che Curi dovette essere stata conquistata al piu tardi prima del 290 a. C., anno in cui M'. Curio Dentato sottomise l'alta Sabina. FRACCARO, L'organiz­ zazione politica cit., p. 201, fa risalire tale conquista a prima del 300 a. C. e BELOCH, Romische Geschichte cit., pp. 424-26, la fa risalire piu precisamente al 304-303 (304-303 - 303-302 o 303-302) a. C.

Cfr. BELOCH, Romische Geschichte cit., pp. 443 e 604.

" Le comunità vestine sud-occidentali di Aveia e Peltuino, che confinavano con l'alta

Sabina nella valle dell'Aterno, furono forse annesse nel 303 (303-302 o 302) a. C., dopo l'annientamento degli Equi avvenuto nel 304 ( 304-303 o 303) a. C. (cfr. infra, p. r8o) e l'annessione della comunità peligna di Superequo (dr. BERNARDI, I cives sine suffragio cit., pp. 26o-63). Ma LIVIO, X 3, riferisce soltanto che in quell'anno venne concluso un trattato con i Vestini, senza dire se in tale occasione essi furono dichiarati da Roma municipes sine suffragio. 75 FRACCARO, L'organizzazione politica cit., p. 202, avanza l'ipotesi che la conquista e l'annessione di questa parte settentrionale del compartimento stagno transpeninsu­ lare creato da Roma non rientrasse nei piani del governo senatoriale romano. Secondo

29 8

Capitolo terzo

l'autore tale operazione fu attuata da M'. Curio Dentato contro il volere del Senato, con l'apPoggio del popolo. Della stessa opinione è G. FORNI, Manio Curio Dentato, in « Athenaeum » XLI {n.s. XXXI ), 1953, pp. I99-203. Fraccaro e Forni mettono in ri­ lievo che la n'otev�le espansione dell'Ager Romanus rese praticamente impossibile il mantenimento della struttura della città-stato nell'organismo politico romano. Essi ritengono che il Senato ne fosse ben consapevole e che questo fosse il motivo della sua opposizione alla politica di M'. Curio Dentato. Cfr. infra, cap. v, pp. 384-85 e l'appendice III a questo capitolo, pp. 484-85. 76 DE SANCTIS, op. cit., II, p. 358, nota I, e p. 366, afferma che Roma si annetté Senigallia subito dopo la battaglia di Sentina e che la fondazione della locale colonia di cittadini romani può risalire {come si evince da LIVIO, Epit. Xl) al 289 a. C. FORNI, art. cit., pp. 213-I4, data la fondazione di Senigallia al 284 a. C. e Salmon al 283 a. C. (cfr. supra, p. 295, nota 54). 77 I Picenti si erano alleati con Roma nel 299 a. C. ( LIVIO, X Io), anno in cui i Senoni, loro vicini e nemici, avevano attaccato l'Ager Romanus. Nel 269 a. C. i Picenti ave­ vano tentato di liberarsi dalla dominazione romana e ciò forn{ a Roma l'occasione propizia per conquistare ed annettersi nel 268 a. C. l'intero Piceno, eccetto un'en· clave intorno ad Ascoli che continuò ad essere sua alleata { LIVIO, Epit. XV; OROSIO, IV 4; EUTROPIO, II I6; FLORO, I I4 { I 9 ) ; Fasti Triumphales). 78 Cfr. supra, nota 76. 79 Cfr. supra, p. 108, infra, pp. 174 e I77 e vol. II, cap. VI, § 5· 80 Vedi i rimandi alle fonti citate supra a p. 277, nota 128, e inoltre l'appendice III al cap. III. Secondo la tradizione romana, queste assegnazioni venivano fatte ai singoli (viritim). Come già era avvenuto in passato, gli appezzamenti di terreno tolti ai Sa­ bini e ai Prctuzt furono poi raggruppati in modo da formare tribu supplementari; ma questa volta le due nuove tribu, la Quirina e la Velina, vennero istituite soltanto nel 241 a. C. con un ritardo eccezionalmente lungo di quasi mezzo secolo. Cfr. in/ra, cap. m, appendice III, pp. 48o-8x. FRACCARO, L'organizzazione politica cit., pp. 202-3, ipotizza che la politica di assegnare terre a cittadini romani in zone relativamente lon· tane da Roma fosse stata attuata da M'. Curio Dentato malgrado l'opposizione della classe di governo senatoriale. 81 Cfr. infra, l'appendice III al cap. m, pp. 48I-82. 82 Cfr. infra, p. 481 per l'interpretazione di VELLEIO, loc. cit. 11 Cfr. ZONARA, VIII 18. 14 Art. cit., pp. 234-35.

85 Sulle trattative dei Romani con Pirro, in « Athenaeum », XXXI (n. s. XXI), 1943, p. uo. .. Cfr. infra, cap. v, pp. 407-Io. 87 PASSERINI, art. cit., pp. 106-7. 11 Secondo PASSERINI, ibid., p. I09 . .. Cfr. infra, cap. v, appendice, p. 705, nota I37· 90 Op. cit., pp. 155-66, I59-67, 211, 218 e alibi. •• Ibid., p. 270. n Ibid., pp. 156-57 e 218. '1 Cfr. infra, p. 705, nota 137· .. Op. cit., p. 2I8. •s Ibid., pp. 259•75· •• Ibid., p. 268. 97 LIVIO, XXXI I 2. " Cfr. supra, pp. 149-51. " Cfr. D E SANCTIS , op. cit., IJ, p. 327.

La Federazione 100

romana dell'Italia peninsulare nel 266 a. C.

>, ad eccezione della Lemonia (ibid., p. 96). Territori particolarmente estesi vennero aggiunti alla Cornelia, alla Falerna, all'Ufentina, alla Pollia, alla Quirina, alla Sergia, alla Teretina, alla Velina e forse anche alla Voturia. " Cfr. BELOCH, Der italische Bund cit., p. 29, e Romische Geschichte cit., pp. 1 81-82; dr. inoltre infra, vol. Il, cap. IV, § 2 . 1 1 .

La Federazione romana dell ' Italia peninsulare nel 266 a. C.

307

Jl

LIVIO, Epit. XIX. " Ad esempio in Der italische Bund cit., p. 32. " I problemi relativi alle tribu Velina e Quirina sono acutamente dibattuti in APZELIUs, Die romische Eroberung cit., pp. 21-23, e in TAYWR, op. cit., pp. 59-66; sono inoltre discussi in/ra, nell'appendice III a questo capitolo. § 5 (pp. 186-97). 1

CICERONE, Pro Balbo n .28: « Duarum civitatum civis noster esse iure civili nemo potest )) [« Secondo il diritto civile nessun nostro cittadino può avere doppia cittadi­ nanza ))), Ibid., 1 2.29 : « Nos non possumus et huius esse civitatis et cuiusvis praeterea. Ceteris consessum est )) [« Noi non possiamo al tempo stesso avere la cittadinanza ro­ mana e una qualsiasi altra. Ad altri invece è concesso »]. ' De Leg. II 2.5. 3 « Omnibus municipibus duas esse censeo patrias: una naturae, alteram civitatis. Ut ille Cato cum esset Tusculi natus in Populi Romani civitatem susceptus est, itaque, cum ortu Tusculanus esset, civitate Romanus, habuit alteram loci patriam, alteram iuris » [«Ritengo che tutti i municipes abbiano due patrie: una per natura e l'altra per cittadinanza. Ad esempio Catone, pur essendo nato a Tuscolo, ricevette la citta· dinanza romana; pertanto, essendo Tuscolano per nascita e Romano per cittadinanza, ebbe una patria d'origine e un'altra di diritto »]. ' I titoli delle magistrature di un municipio durante il periodo posteriore alla guerra di secessione del 90-89 a. C. presentano un certo interesse storico in quanto forniscono un'indicazione circa lo status posseduto da quella comunità all'interno della Federa­ zione romana nell'epoca precedente. Un municipio che dopo la guerra di secessione aveva come magistrati dei quattuorviri era stato probabilmente un antico alleato di Roma, latino o non latino; uno i cui magistrati erano duumviri doveva probabilmente essere un'antica colonia di cittadini romani; un altro in cui i magistrati non recavano nessuno di questi due titoli usuali era probabilmente un municipio già prima della guerra del 90-89 a. C. Queste deduzioni sono però semplici congetture, non sempre confermate dalle testimonianze pervenute fino a noi. Dopo la guerra di secessione, ad esempio, le magistrature erano tenute da quattuorviri a Gabii (dr. infra, p. 203), Cuma, Acerra ed Atella (dr. BERNARDI, I cives sine suffragio cit., p. 252, nota 2). Può darsi che Gabii avesse uno status particolare (dr. infra, p. 203); ma Cuma e Atella erano diventate municipi nel 338 ( 335 o 334) a. C. e Acerra nel 332 ( 330-329 o 329) a. C. � ovvio che la titolatura delle cariche pubbliche non costituisce affatto un'indi­ cazione sicura circa lo status del municipio prima della guerra di secessione, ma in molti casi costituisce l'unico indizio in nostro possesso; a questo scopo è di grande utilità studiarla. Essa costituisce invece una guida piu infida quando si cerca di accer­ tare il grado e l'entità dell'autonomia di cui le coloniae civium Romanorum e i muni­ cipi godevano prima della guerra di secessione del 90-89 a. C. ' forse nel 47 a. C. Cfr. in/ra, p. 225. ' Cfr. il passo del De Legibus di Cicerone citato supra, nota 3· 7 Cfr. infra, l'appendice V al cap. III. ' Ciò è messo in rilievo da SALMON, Rome and the Latins, I cit., pp. 94-95, e Roman Expansion cit., p. 63. Cfr. inoltre infra, l'appendice V a questo capitolo. • « Prima del 338 a. C. era la Lega latina che fondava colonie, mentre i Romani si limi­ tavano ad effettuare assegnazioni viritane )) (sALMON, Rome and the Latins, I cit., p. !04). 10 Cfr. supra, p. 138. Il LIVIO, VII !5. 12 uvro, IV 26-29. L'importan2a di questa battaglia è discussa da LAST, in « CAH �>, vu, 1928, pp. 502·4·

308

13 14

15

Capitolo terzo Cfr. Cfr.

supra, p. 138, con la nota 57· supra, pp. 149-5 1 .

Quella minaccia potenziale aveva spinto Roma a rivendicare, nel primo trattato con­ cluso con Cartagine, il controllo di Anzio e di quattro altre località lungo la costa volsca pontina e latina (cfr. infra, l'appendice al cap. v, pp. 663 e 676). La gravità di quella minaccia è illustrata dall'esito favorevole che, nel corso della seconda guerra mondiale, ebbe l'occupazione della testa di sbarco di Anzio da parte delle forze anglo­ americane le quali invasero l'Italia dal Mediterraneo.

16 Cfr. supra, pp. I7

179 e 1 8 1 .

LIVIO, VIII 2 1 . 11 VELLEIO, loc. cit. 19 LIVIO, X 2 I j VELLEIO, foc. cit. li> VELLEIO, loc. cit. zl VELLEIO, loc. cit.; LIVIO, XXVII 38. zz VELLEIO, loc. cit.; LIVIO, Epit. XIX. D Per Senigallia dr. POLIBIO, II 1 9 ; per Castrum Novum dr. LIVIO, Epit. XI. SALMON, Rome's Battles cit., pp. 23, 29 e 31, rigetta la data liviana della fondazione di Senigal­ lia, 290-282 a. C. (Epit. Xl), a favore del 283 a. C. supra, p. 295, nota 54, e p. 298, 24

15

111

27

za

ZP JJJ

nota 76.

VELLEIO, loc. cit. Se Aesium (ovvero Aesis) era situata dove oggi sorge Jesi, essa costi­ tuiva un caso eccezionale in quanto fondata nell'entroterra. Forse la colonia civium Romanorum non si trovava in quella località, ma alla foce del fiume Aesis o Aesinus (l'odierno Esino), sulla costa subito a nord-ovest di Ancona. Potenza Picena e Pesaro nel x 84

Cfr.

lJ

34

l>

C.

supra, p. 1 8 1 . x ; DIONIGI, I X 5 9 · In questi passi entrambi parlano della leggendaria colo­

uvxo, I I I

nia che sarebbe stata fondata ad Anzio nel 467 (464-459 ca.) a. C.; ma è lecito suppor­ re che quello che essi riferiscono sia un episodio genuino del racconto relativo alla fon­ dazione della colonia storica, sorta nel 338 (335 o 334) a. C. Nel dar notizia di que­ st'ultimo evento, Livio afferma semplicemente che agli abitanti indigeni di Anzio fu consentito di iscriversi come coloni, se lo desideravano (VIII 14).

Ai Latini e agli Emici, secondo Dionigi; agli stessi Volsci della regione, secondo Li­ vio (VIII 14 e III I ).

Tale è, a quanto ci è stato tramandato, la consistenza numerica della colonia civium Romanorum di Terracina, la seconda in ordine di tempo ( LIVIO, VIII 2 1 ). Questo è il numero degli effettivi che a noi risulta anche per quattro delle undici colonie di di­ fesa costiera del periodo posteriore ad Annibale (le cifre sono indicate solo in questi cinque casi). Sembra che per una colonia di quel tipo gli effettivi ammontassero di norma a trecento.

31 LIVIO, X 32

a.

Casttum Hannibalis nel 199 a. C.; Volturno, Literno, Pozzuoli, Salerno, Bussento, Tempsa, Crotone e Siponto nel 194 a. C. Cfr. infra, vol. II, tavola V. Di questo grup­ po di colonie di difesa costiera fondate nell'Italia meridionale dopo la guerra anniba­ lica si è già fatto cenno supra, a p. 69.

21.

LIVIO, XXXIX 23. LIVIO, XXXIX 44·

A meno che Gravisca, fondata nel x8r a. C. costiera romana e non di tipo latino.

( LIVIO, XL 29), fosse una colonia di difesa

« Nec qui nomina darent facile inveniebantur, quia in stationem se prope perpetuam infestae regionis, non in agros, mitti rebantur » ( LIVIO X 2 1 ) . La funzione militare

La Federazione romana dell'Italia peninsulare nel 266 a. C.

36

assolta dalle coloniae civium Romanorum di contro a quella agricola delle assegna­ zioni strutturate come tribu romane supplementari è messa in rilievo da RUDOLPH, op. cit., p. 129. Cfr. infra, p. 603, nota 55·

" « Sacrosantam vacationem dicebantur habere » [« si diceva che avessero un'esenzione

che non poteva esser messa in discussione ») ( LIVIO, XXVII 38). Questa esenzione ven­ ne temporaneamente sospesa per i cittadini di tutte le colonie di difesa costiera (tranne Anzio e Ostia) nel 207 a. C., quando Asdrubale invase la penisola. I cittadini di Anzio e Ostia erano tenuti per giuramento a non trascorrere piu di trenta giorni fuori dalle mura delle loro piazzeforti finché il nemico fosse rimasto in Italia ( LIVIO, loc. cit.). Nel 191 a. C. i cittadini di tutte le colonie di difesa costiera videro aumentare in modo permanente gli oneri loro imposti: atterrito dalla minaccia di un attacco che, secondo quanto si paventava, Antioco III avrebbe portato contro l'Italia dal mare, il Senato respinse la richiesta avanzata da otto di queste colonie, le quali chiedevano l'esenzione dal servizio militare navale e sulla terraferma ( LIVIO, XXXVI 3 ; cfr. supra, p. 70). La minaccia si rivelò poi immaginaria, ma a quanto ci consta il Senato non ritornò sulla propria decisione.

" RUDOLPH, op. cit., p. 130, sostiene che nessuna colonia civium Romanorum venne mai ·"

••

'1

fondata in un sito che non facesse parte o non confinasse immediatamente con la su­ perficie occupata senza soluzione di continuità dall'Ager Romanus.

LIVIO, VIII 2 1 ; cfr. supra, p. 291, nota 139. Terracina è l'unica colonia di difesa costiera d'età anteriore ad Annibale per la quale ci venga indicata l'estensione dei lotti. Ci consta che a Potenza Picena e a Pesaro, nel 184 a. C., vennero assegnati sei iugeri di terreno a testa; è quindi possibile che questa fosse l'assegnazione normale nelle colonie di difesa costiera d'età posteriore ad An­ nibale. Cfr. c. E. GOODFELLOW, Roman Citizenship. A Study of its Territorial and Numerical Expansion from the Earliest Times to the Death of Augustus, Lancaster (Pa.) 1935, p. 13. [« un trattato che si ritiene quasi unico »]. 39

DIONIGI, VI 95·

"' I Macc. 9·23-30. " CIG, n. 2485. IGRR IV, n. 1028. '2 Der italische Bund cit., pp. 196-97. Cfr. WERNER, op. cit., pp. 444-45. " Werner lo considera autentico (ibid. , p. 454) e lo fa risalire al 465-460 a. C. circa. .. Cfr. il sommario di questo trattato in POLIBIO, III 25. ] ( LIVIO, XXIV 2, a proposito degli avvenimenti di Crotone del 215 a. C.). Altrettanto si poteva dire non soltanto di Nola, ma anche di Capua. A Crotone, tuttavia, il capo del partito democratico preferf far causa comune con i nobili a02iché esser corresponsabile della resa della città ai Bruz1 ( LIVIO, loc. cit.). Nel 2 1 3 a. C., il popolo di Arpi si difese sostenendo che la città era stata consegnata ad Annibale dagli oligarchici ( LIVIO, XXIV 47). A Taranto la plebe era al potere nel 214 a. C., ma i Tarantini che intavolarono negoziati con An­ nibale erano « nobiles » ( LIVIO, XXIV 13). A Locri, nel 215 a. C., le autorità si arre­ sero ai Cartaginesi d'accordo con la plebe (XXIV x). La generalizzazione di Livio non trova quindi piena conferma nella documentazione che egli stesso adduce. LIVIO, XXIII 14·

55 Cfr. supra, p. 56

221.

DIODORO, XXXVII, fr. 15. De Sanctis sostiene invece (op. cit. , Il, p. 458) che i trattati non conferivano automaticamente agli alleati il commercium e il connubium.

Capitolo quarto Le cause del successo di Roma nell'unificazione dell'Italia peninsulare entro la Federazione romana

Realizzando l'unificazione politica dell'Italia peninsulare, Roma ave­ va portato a termine un'impresa che nessun altro Stato, le cui basi si trovassero dentro o fuori i confini d'Italia, era mai riuscito a compiere nella penisola '. L'impresa era difficile per motivi intrinseci. Nell'epoca precedente la conquista romana e la successiva diffusione del latino, la penisola italiana era un mosaico di popoli che parlavano una moltitudine di idiomi differenti. La Grecia europea, per contro, era già linguistica­ mente omogenea prima che sorgesse la civiltà ellenica; sulla terraferma, quanto meno, i dialetti greci avevano soppiantato tutte le precedenti lingue locali nel corso del secondo millennio a. C. Non di rado l'unità linguistica è stata il fondamento di quella politica; ciò nonostante, la Grecia europea rimase divisa sul piano politico finché non venne incor­ porata nell'Impero romano. Il contrasto fra le vicende linguistiche e po­ litiche delle due penisole 1 fa risaltare ancor di piu l'eccezionale impresa compiuta da Roma in Italia. La fase finale di questa impresa fu strettamente connessa al fallimen­ to del piu importante fra tutti i tentativi di unificare l'Italia compiuti da potenze straniere. Pirro aveva avuto a sua disposizione le risorse di un Epiro ormai unificato e ingrandito; inoltre, i generali che si conten­ devano la Grecia continentale europea - Tolomeo Cerauno e Antigono Gonata - gli avevano fornito altre navi e altri uomini, pagando in tal modo un prezzo modesto per liberarsi, almeno temporaneamente, del­ Ia sua presenza. Persino il lontano Antioco I, che pure si trovava allora in difficoltà, gli aveva dato un aiuto in denaro. Pirro era stato invitato in Italia da Taranto, allora seconda per grandezza soltanto a Roma fra le città-stato della penisola. Oltre a Taranto e alle altre città-stato italiote sue satelliti, Pirro aveva avuto come alleate le limitrofe popolazioni non greche dell'Italia meridionale - i Calabri, i Lucani, i Bruzi e i Sanniti ­ le quali avevano fatto causa comune con lui e con Taranto contro la mi­ naccia che Roma rappresentava per tutti gli Stati italici ancora indipen­ denti. Tuttavia questa coalizione, di una portata e di una potenza senza

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precedenti, non era stata unificata sf da diventare una contro-federazio­ ne, nonostante l'unione permanente fosse l'unica arma che avrebbe of­ ferto una possibilità di sopravvivenza agli Stati dell'Italia meridionale ancora indipendenti. Circa duecento anni prima era ugualmente fallito il tentativo compiuto dagli Etruschi, piu casuale e disorganico, di unifi­ care l'Italia dall'interno '. Quanto a Siracusa, essa non era mai J.ndata oltre la conquista, sempre rimessa in discussione, delle altre colonie gre­ che poste sulla punta dello Stivale e una momentanea acquisizione della supremazia navale sull'Adriatico •. Sullo sfondo di questi tentativi falliti l'impresa compiuta da Roma acquista un risalto ancora maggiore; se an­ diamo in cerca delle cause del suo successo, vedremo che in buona parte esso è dovuto al concorso dell'abilità politica e di una fortunata posi­ zione geografica. Una ragione per cui il tentativo di Roma non fu stroncato sul na­ scere - come· era avvenuto a quello dei Calcidesi per mano di Sparta - va ricercata in una circostanza di ordine geografico. Roma e la sua origina­ ria sfera d'espansione, situata nella regione pianeggiante dell'Italia cen­ trale, si trovavano appena fuori del raggio d'azione entro il quale, nelle condizioni logistiche dell'era preindustriale, una potenza situata nel cuo­ re del mondo ellenico - nella Grecia continentale europea o nell'Egeo ­ avrebbe potuto impiegare tutte le sue forze contro Roma 5 • Ma la felice posizione geografica non sarebbe bastata se non fosse stata soccorsa da Wla fortunata circostanza politica. Nel 334 a. C. - l'anno in cui Alessan­ dro il Macedone attraversò l'Ellesponto - il tentativo romano di costrui­ re Wla Federazione era proceduto tanto innanzi, nelle pianure dell'Italia centrale, quanto l'analoga impresa dei Calcidesi sulle coste settentrionali dell'Egeo nel momento in cui, nel 3 8 2 a. C., intervenne Sparta. Suppo­ niamo che, invece di :volgersi ad est, Alessandro si fosse diretto a occi­ dente, avesse traversato il Canale d'Otranto invece dei Dardanelli e avesse unito le sue forze a quelle del suo omonimo, zio e cognato Ales­ sandro di Epiro, il cui sbarco in Italia coincise quasi con quello del Ma: cedone in Asia '; ebbene, nemmeno Livio, secondo il quale ' Roma sa­ rebbe stata in grado di tener vittoriosamente testa ad Alessandro Ma­ gno, avrebbe potuto sostenere che essa non avrebbe ceduto di fronte al­ l'attacco simultaneo dd due Alessandri, che disponevano insieme di quasi tutto il potenziale bellico della Grecia continentale europea. È in­ dubbio che Alessandro il Macedone avrebbe trovato in Italia una resi­ stenza piu valida di quella che in realtà incontrò, nel corso della spedi­ zione orientale, in tutto il territorio ad ovest delle Porte Caspie; ma è difficile credere che la rudimentale Federazione romana non sarebbe stata schiacciata, se si pensa che piu di mezzo secolo dopo essa fu quasi

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schiacciata da Pirro. Le risorse di cui disponeva Pirro non erano assolu­ tamente paragonabili a quelle di Alessandro il Grande; inoltre Roma aveva impiegato i trentatre anni precedenti il suo sbarco in Italia ( 2 80 a. C.) a logorare la potenza del Sannio e ad assurgere cosf al rango di Stato egemone della penisola italica. Se nel 334 a. C. i due Alessandri fossero riusciti nell'impresa in cui Pirro falli nel 2 80-275 a. C., tutta l 'Italia avrebbe forse finito col diventare un paese di lingua greca, co­ me lo divenne l'Anatolia in seguito alle conquiste storicamente avve­ nute di Alessandro in Asia, e il greco, non il latino, si sarebbe diffuso fino alle coste atlantiche del vecchio mondo. Roma fu doppiamente favorita dalla sorte, sia per la distanza che la separava da Pella ' che per l'orientamento preso dalle ambizioni di Ales­ sandro. Ma la sorte può rivendicare solo una parte del merito; essa gra­ tificò Roma di un dono puramente negativo, lasciando che questa pro­ cedesse liberamente per la sua strada senza essere ostacolata da inter­ venti di potenze non italiche ostili finché Pirro non entrò in scena al­ l 'ultima ora, quando era ormai troppo tardi. Lo stesso vantaggio, una posizione geografica appartata, era stato concesso agli Etruschi, ma non era stato sufficiente a fare di loro i precursori dei Romani nell'unifica­ zione politica dell'Italia. Un ulteriore vantaggio geografico era che Roma si trovava al confine fra il mondo marittimo delle città-stato mediterranee e il loro entroterra, popolato di comunità di villaggio relativamente arretrate. I colli su cui sorge Roma sono ubicati nelle pianure nord-occidentali della penisola; a sud-ovest si può quasi scorgere la costa tirrenica e a nord-est si ve­ dono distintamente le ultime propaggini dei monti della Sabina. I mon­ tanari, arretrati sia sul piano culturale che su quello politico, non erano soltanto destinati a cadere sotto il dominio di una comunità cittadina organizzata come Roma, ma anche a lasciarsi plasmare e assimilare; non serbando il ricordo di glorie trascorse, essi erano in pratica « popoli sen­ za storia». Per loro - contrariamente alle città-stato dell'Etruria, del Lazio e della Campania, per non parlare della Magna Grecia - la per­ ùita della propria, autonoma identità politica non fu molto dolorosa, mentre l'iocorporazione nell'organismo politico di una fiorente città­ stato, qual era Roma, consenti loro di accedere al' vasto mondo della ci­ viltà mediterranea. Come si è osservato nel capitolo precedente, i Ro­ mani sfruttarono al massimo questa situazione; dapprima conquistarono le simpatie e il sostegno delle comunità di pianura, presentandosi come i campioni della civiltà della città-stato contro le popolazioni montanare, culturalmente arretrate •, poi ampliarono il loro organismo politico in12

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corporandovi in massa alcune di queste popolazioni di montagna: i Sa­ bini, i Vestini di sud-ovest, i Pretuz1 e i Picenti '". I Calcidesi stavano facendo altrettanto coi Macedoni, quando Spar­ ta intervenne, stroncando sul nascere il loro tentativo di dar vita ad una Federazione. C'erano però altri Stati, piu vicini a Roma della Calcidica, i quali, pur condividendo con Roma e con la Calcidica la fortuna di tro­ varsi su una linea di confine ugualmente propizia, non riuscirono a trar vantaggio dalle favorevoli circostanze. Nell'entroterra di Siracusa, ad esempio, vivevano le popolazioni montanare sicule, che erano aperte all'influsso della civiltà ellenica, anche se resistettero accanitamente a tutti i tentativi di assoggettarle politicamente compiuti da Siracusa e da altre città-stato siceliote. Si è già osservato" che fra il 344 e il 3 3 6 a. C. - vale a dire nel periodo immediatamente precedente l a riorga­ nizzazione del Lazio ad opera di Roma - Timoleonte aveva ristabilito l'unione fra Siracusa e le comunità sicule dell'interno in base a condi­ zioni che, questa volta, avrebbero dovuto rendere tale unione duratura. I Siculi ricevettero la cittadinanza siracusana pur conservando quella delle rispettive comunità d'origine. L'accordo era improntato alla stessa generosità che contraddistingue gli accordi conclusi da Roma con le co­ munità latine, annesse durante e dopo il 3 3 8 ( 3 3 5 o 334) a. C., e con i montanari sabini e pretuz1, annessi nel 290 a. C. ed elevati in seguito, dopo il 2 4 1 a. C., dalla condizione di cives sine suffragio a quella di cit­ tadini romani di pieno diritto. Ma nella Sicilia orientale l'epilogo fu differente: alcuni anni dopo il ritiro di Timoleonte, la federazione si­ racusana da lui creata tornò a disgregarsi e fra le comunità che ne ave­ vano fatto parte si riaccesero le consuete guerre fratricide. A Roma, in­ vece, i provvedimenti adottati dal governo romano durante e dopo il 3 3 8 ( 3 35 o 3 34) a. C. non solo si rivelarono duraturi, ma consentirono il progressivo ampliamento di una solida struttura, finché la Federa­ zione romana non arrivò a comprendere dapprima tutta l'Italia e poi l'intero perimetro del Mediterraneo. Roma e Siracusa, d'altronde, non erano le uniche città-stato ad occi­ dente dell'Adriatico che avessero il vantaggio di trovarsi sul limitare del mondo, permeabile alle influenze esterne, che ignorava l'istituto della città-stato. Nell'entroterra appenninico delle città-stato etrusche viveva­ no i montanari di stirpe umbra e ligure; Capua e le altre città-stato cam­ pane avevano gli Osci sui monti del Sannio; Taranto aveva i Calabri ( i «Messapi») nel « tacco» e i Coni - forse di lingua greca- nel « collo» dello Stivale. Tuttavia nessuna di queste città-stato italiche riusd a trarre dalla propria favorevole situazione geografica lo stesso profitto che ne trasse Roma. I Calabri si ribellarono a Taranto, che aveva loro

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imposto la propria egemonia, come i Latini insorsero contro Roma nel 340 ( 3 3 7 o 336) a. C.; ma la sfida lanciata a Taranto significò per la città greca la sconfitta (473 a. C.) 12 e di conseguenza il crollo della sua nascente federazione, mentre la ribellione contro Roma si risolse nella vittoria di quest'wtima e nella successiva incorporazione del Lazio nel­ la Federazione romana, su basi che dovevano rivelarsi durature. Quanto a Capua e alle altre città-stato delle pianure campane, era sempre stato fuor di questione che esse riuscissero a soggiogare i montanari dell'en­ troterra nord-orientale. Nel v secolo a. C., anzi, esse erano state invase e da allora in poi permanentemente occupate da orde di Osci calati dalle montagne, mentre i montanari della Sabina che avevano tentato di oc­ cupare il territorio controllato da Roma nella bassa valle del Tevere erano stati respinti oppure, una volta incorporati nell'organismo politico romano, erano stati completamente assimilati. Due delle propizie circostanze geografiche che Roma seppe sfrut­ tare a proprio vantaggio non costituivano dunque una sua peculiarità esclusiva, e le va riconosciuto il merito di essere stata l'unica ad appro­ fittarne .. C'era però un'altra risorsa, anch'essa di natura geografica, di cui Roma era l'unica a disporre fra tutte le città-stato dell'Italia penin­ sulare. I colli su cui essa sorge sono bagnati da un fiume che è il piu grande dell'Italia peninsulare e che, nell'ultima parte del suo corso, da­ gli Appennini al Tirreno, taglia a metà la pianura che si stende lungo il tratto mediano della costa sud-occidentale della penisola 13• Questa pia­ nura conteneva la maggior parte delle risorse agricole e minerarie della penisola e Roma dominava il ponte piu a valle sul Tevere ". Cosi, sulla costa sud-occidentale d'Italia, Roma-sul-Tevere occupava la stessa posi­ zione dominante che Anfipoli-sullo-Strimone occupava sulla riva set­ tentrionale dell'Egeo". Tale posizione la metteva in grado di isolare o di mettere in contatto fra di loro le regioni poste sclle due rive del fiu­ me, che fungeva da confine, e di controllare il traffico fra il mare e l'in­ terno del continente 16• Da quest'ultimo punto di vista la posizione di Roma era piu favorevole di quella di Anfipoli, e appariva piuttosto paragonabile a quella di Tessalonica nei pressi dell'Assia (Vardar) e di Marsiglia nei pressi del Rodano. La valle dello Strimone, interrotta da gole e chiusa in fondo da monti che sono fra i piu alti della penisola balcanica, è in pratica un vicolo cieco. Dalla valle del Tevere, come da quella dell'Assia (Vardar) e del Rodano, si diramano strade che con­ ducono, attraverso valichi agevoli, alle regioni situate oltre le sorgenti. Dallo spartiacque settentrionale del bacino ·dell'Assia si può seguire la Morava verso nord fino alla sua confluenza col Danubio, mentre dallo spartiacque settentrionale del bacino del Rodano è facile passare nelle

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valli della Senna e del Reno; allo stesso modo, il bacino del Tevere dà accesso alla costa nord-orientale dell'Italia peninsulare e di là alla pia­ nura padana. Forse la piu antica fra tutte le vie romane - esistente an­ cor prima che il governo progettasse una rete stradale - era la via Sala­ ria, lungo la quale il sale prodotto nelle saline della foce del Tevere veniva trasportato nelle regioni montuose della Sabina". La via Flami­ nia, costruita durante e dopo il 220 a. C., fu tracciata non tanto per facilitare i traffici nella valle del Tevere quanto per uno scopo politico e militare: consentire a Roma di esercitare la propria supremazia al di là dello spartiacque appenninico del Tevere ". Roma occupava quindi una posizione geografica centrale sia rispetto alle pianure del versante tirrenico che rispetto all'intera penisola; in piu, essa era situata nel cuore del bacino mediterraneo 19, Nell'ambito di questo piu vasto campo d'azione, le uniche città che occupassero posizioni piu centrali di Roma erano Reggio, Messina e Siracusa, ma nessuna delle tre univa, come Roma, il vantaggio della centralità a quello complementare della facilità d'accesso ad un retroterra continentale. Si può affermare con sicurezza che Alessandro, se avesse conquistato l'Italia, avrebbe costruito nel punto in cui sorgeva Roma una nuova città greca, che avrebbe portato il suo nome e sarebbe stata la capitale dei suoi domini in Italia, cosi come la vera Alessandria-sul-Nilo divenne la capitale dell'Egitto sotto i Tolomei, succeduti ad Alessandro. Se ciò fosse accaduto, Alessandria-sul-Tevere sarebbe oggi una città famosa in tutto il mondo e il suo nome originario, « Roma», sarebbe caduto nel­ l'oblio al pari del nome originario di Alessandria-sul-Nilo, «Rhacotis ». La posizione occupata rispetto al Tevere, al suo bacino e al suo en­ troterra era l'unica caratteristica geografica propizia che Roma non con­ dividesse con altre città. In piu, essa aveva la fortuna di sorgere in una zona relativamente fertile, quella delle pianure nord-occidentali della penisola italiana; ma altre comunità italiche, da questo punto di vista, erano state ancor piu favorite dalla sorte. Il territorio delle città-stato dell'Etruria sud-orientale era ubicato nella stessa fascia di terreno vul­ canico in cui si trovava il nucleo originario dell'Ager Romanus, mentre l'Etruria nord-occidentale comprendeva le grandi distese di arativo che circondano Siena, nonché i giacimenti di ferro nel territorio di Popu­ lonia, sulla terraferma, e nella vicina isola d'Elba'". Ma né il Lazio né l'Etruria avevano terreni paragonabili per fertilità al suolo. vulcanico e alluvionale della pianura campana - la terra migliore, dal punto di vista agricolo, di tutta la penisola, ad eccezione forse di un tratto piu pic­ colo di terreno alluvionale situato nella bassa valle del Crati, nella parte inferiore del «collo » dello Stivale.

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Questa rapida rassegna delle favorevoli condizioni geografiche di cui godeva Roma porta a concludere che, una volta riconosciuta tutta la loro importanza, dobbiamo guardare oltre e prendere in considera­ zione i fattori umani, se vogliamo comprendere le cause del successo po­ litico della città. Il merito maggiore va attribuito alla lungimirante poli­ tica del governo romano; essa fu coronata dal successo perché era ispi­ rata, in misura eccezionale, ai due ideali della magnanimità e della per­ severanza. Una prova della magnanimità di Roma fu fornita dalle condizioni finanziarie e costituzionali alle quali incorporò nella sua Federazione i popoli dell'Italia peninsulare assoggettati nel corso dei settantacin­ que anni·: che si conclusero nel 266 a. C. - quanti ne occorsero perché essa estendesse il suo dominio dalla bassa valle del Tevere a tutto il re­ sto della penisola. Roma non ridusse in servitu nessuno dei nemici vin­ ti in guerra, come talora aveva fatto Sparta; talvolta confiscò loro dei territori, in parte per fondarvi tribu romane supplementari o nuove co­ lonie latine e romane e in parte per aprirvi nuove arterie di comuni­ cazione. Nella maggioranza dei casi, però, le condizioni poste alle co­ munità con cui Roma stringeva alleanze permanenti erano che esse le affidassero la conduzione degli affari esteri e le fornissero, quando Roma era impegnata in un conflitto, contributi militari e/o navali, in quan­ tità determinate, da affiancare alle forze armate romane. Al pari di Spar­ ta, e diversamente da Atene, Rodi e forse anche Cartagine, Roma si astenne dall'imporre tributi alle comunità satelliti. Inoltre - e in ciò si distinse da tutte e quattro le città-stato mediterranee che abbiamo menzionato, anch'esse animate da ambizioni imperiali - Roma praticò una politica di massiccio ampliamento della cittadinanza mediante l'in­ corporazione parziale delle comunità assoggettate. Talora i popoli vinti si videro imporre contro la propria volontà tutti o parte dei munia legati alla cittadinanza romana e ciò fu allora considerato da entrambe le parti piu una precauzione presa da Roma per assicurarsi la sottomissione delle comunità parzialmente incorpo­ rate che l'estensione di un privilegio. La cittadinanza romana, anche quella di categoria inferiore, implicava determinati diritti personali, che assunsero però un particolare valore soltanto in un secondo tempo, quando Roma diventò signora di tutto il mondo mediterraneo e la cit­ tadinanza romana fini col costituire l'unica protezione efficace contro gli arbitri e gli abusi di certi magistrati romani dell'epoca. Nel perio­ do che precedette la duplice guerra romano-cartaginese del 264-201 a. C., il fatto di esser soggetti ai doveri e agli oneri impliciti nella cit­ tadinanza romana, senza conseguire al tempo stesso il diritto di vo-

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tare nelle assemblee nazionali e di porre la propria candidatura alle ca­ riche pubbliche di Roma, non era considerato un privilegio. Tuttavia, come si è già osservato, l'imposizione della cittadinanza romana, anche alle condizioni meno favorevoli, non fu affatto una vera e propria per­ dita per popoli arretrati come i montanari della Sabina; costoro, anzi, ne ricavarono un beneficio: l'ingresso nel mondo civile. D'altronde l'incorporazione parziale delle comunità straniere nel cor­ po civico romano non era sempre regolata da condizioni sfavorevoli. Se la comunità incorporata era una città-stato, le si consentiva generalmente di conservare la propria autonomia civica, in qualità di municipalità non sovrana inquadrata nella struttura dello Stato sovrano di Roma 22; inol­ tre, la doppia cittadinanza di cui godevano coloro che diventavano mu­ nicipes romani a queste condizioni non si riduceva sempre, per quanto riguarda la parte romana, ad una «cittadinanza senza diritto di voto». In certi casi, come abbiamo visto nel capitolo precedente, le comunità incorporate nello Stato romano non soltanto furono autorizzate a con­ servare la propria autonomia civica, come Capua nel 3 3 8 ( 335 o 3 34) a. C., ma ricevettero anche (Ariccia, ad esempio, forse nello stesso anno) il diritto di voto attivo oltre ai diritti e ai doveri passivi che comportava la cittadinanza senza suffragio. In terzo luogo, l'incorporazione parziale nella comunità civica romana non era sempre imposta con la forza. Vi fu almeno un caso in cui comunità straniere, verso le quali Roma era par­ ticolarmente ben disposta, furono lasciate libere di scegliere se conser­ vare la propria identità comunale in piena autonomia, come Stati so­ vrani alleati di Roma, o venire parzialmente incorporate nella cittadi­ nanza romana. Tale facoltà di scelta fu concessa a tre città-stato degli Ernici - Alatri, Veroli e Ferentino - che erano rimaste fedeli a Roma quando le altre comunità di quella popolazione avevano rotto i patti che le vincolavano a Roma, muovendole guerra nel 307 (307-306 o 306) a. C. 23• È tuttavia significativo il fatto che, in quel caso, le tre co­ munità cui era stata offerta la possibilità di scegliere decidessero tutte di conservare la propria posizione di alleate sovrane di Roma 24• La seconda virtu politica di Roma, la perseveranza, rifulse, in con­ trasto con la volubilità di Pirro, durante l'ultima fase dell'unificazione dell'Italia peninsulare. Il sovrano epirota non riusd mai ad imporsi il principio di portare a compimento un'impresa prima di destinare le proprie energie ad un altro scopo. Dopo aver lasciato l'Italia per imbar­ carsi in un'impresa in Sicilia, egli tornò dalla Sicilia in Italia per passare poi in Macedonia e di li ancora nel Peloponneso, senza ottenere risul­ tati decisivi in nessuna di queste successive campagne; la conseguenza fu che, quando la morte lo colse per le strade di Argo, egli non lasciò

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dietro di sé nessuna conquista duratura. In contrasto con la volubilità di un Pirro e di un Demetrio Poliorcete, l'oligarchia romana esercitò la stessa perseveranza di un Filippo II, di un Tolomeo I e di un Antigono Gonata, con in piu l'inestimabile vantaggio che la continuità della sua politica non dipendeva dalla durata della precaria esistenza di un indi­ viduo né dall'incontrastata successione alla guida di un regno. Come Filippo II e Tolomeo I, l'oligarchia romana contemporanea avanzava di un passo alla volta, preoccupandosi di consolidare il terreno appena conquistato prima di riprendere la marcia. Una delle caratteristiche piu nobili e ammirevoli della storia interna di Roma è il suo corso, per lo piu placido e uniforme. Essa rifugge da vani mu­ tamenti e da rivoluzioni violente; la sua evoluzione è costante, ragionata e organica 15•

Ciò vale non soltanto per la storia interna di Roma, ma anche per la sua politica estera. I Romani conservarono e consolidarono le loro successive conquiste ricorrendo anche a misure di sicurezz�·�Nei territori tolti ai popoli vinti essi fondarono tribu romane supplementari"" e nuove città-stato colo­ niali, latine e romane T7, tracciandovi nuove arterie per assicurare in av­ venire il transito dei loro eserciti. Ma forse essi fecero soprattutto asse­ gnamento sull'azione combinata del tempo e della propria tradizionale magnanimità, ben comprendendo che nemmeno le difese materiali piu solide e imponenti sarebbero bastate da sole a tenere in piedi la Federa­ zione che stavano edificando. Essi capirono che era necessario assicurare in qualche misura al nuovo sistema di governo la benevolenza delle co­ munità prima indipendenti, che, in una forma o nell'altra, erano state via via vincolate a Roma. Nel v secolo a. C. gli Ateniesi avevano perduto il loro impero perché si erano inimicati gli alleati, riducendoli de facto allo stato di sudditi oppressi; a proteggere quell'impero dall'odio delle comunità asservite non erano bastate le cleruchie - equivalenti dei di­ stretti tribali supplementari e delle colonie costiere romane - che gli Ateniesi avevano avuto la precauzione di fondare. Alessandro, al contra­ rio, aveva precorso la chiaroveggenza politica dell'oligarchia romana nel rendersi conto che le misure di sicurezza non erano sufficienti. Egli non si era limitato a disseminare i piu ribelli fra i paesi conquistati di comunità macedoni e di città-stato coloniali greche, alla maniera dei Romani, ma era stato un loro precursore anche nel tentativo di ricon­ ciliarsi i popoli vinti associandoli in qualche modo agli interessi dei vin­ citori. Malgrado la crescente opposizione dei Macedoni, Alessandro avrebbe probabilmente dato uno sviluppo molto maggiore a questa po­ litica di magnanimità se non fosse morto prematuramente. D'altra parte

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egli non aveva ancora appreso - e forse non avrebbe appreso mai, data la sua naturale impulsività - un'arte tipicamente romana, che era stata anche di suo padre Filippo: quella di affrettarsi lentamente. Alessandro non si attardò mai a consolidare le sue conquiste e nem­ meno le precedenti conquiste di Filippo. Da ciò ebbe origine un episo­ dio paradossale, cui si è già fatto cenno": mentre Alessandro, dopo aver conquistato a caro prezzo il bacino dell'Osso-Iassarte, iniziava, sen­ za por tempo in mezzo, l'ardua spedizione in India, Zopirione, da lui nominato governatore della Tracia, emulava il suo sovrano ormai lon­ tano traversando il Danubio per andare incontro ad una disfatta nella steppa eurasiatica. Il risultato fu che gli Odrisi - una popolazione tracia stanziata a brevissima distanza dalla Macedonia - poterono scrollarsi di dosso il giogo macedone. Cosf ai Macedoni sfuggiva il controllo dei lo­ ro stessi confini proprio mentre il loro sovrano stava conquistando il Punjab. Nella generazione successiva ad Alessandro, anche il piu moderato Antigono Gonata, non appena si fu assicurato il trono di Macedonia, tentò - come si è già detto 29- di restaurare l'egemonia macedone sulla Grecia meridionale negli stessi termini in cui essa vi era stata instaurata ai tempi di Filippo e di Alessandro. Abbiamo inoltre osservato 30 che, diversamente da Filippo, Antigono non si preoccupò di mettersi le spal­ le al sicuro, prima di impegnarsi in quella direiione, col sottomettere i barbari che abitavano l'entroterra balcanico della Macedonia e che ave­ vano riacquistato l'indipendenza durante gli anni di anarchia in cui la Macedonia era stata sconvolta dall'invasione gallica e dalle guerre civili (280-276 a. C.) . Da ciò nacque una situazione paradossale: il secondo successore di Antigono Gonata, Antigono Dosane, venne richiamato in patria dalla Laconia (subito dopo quella battaglia di Sellasia che avrebbe potuto essere per i Macedoni una vittoria decisiva) per difendere la stessa Macedonia dall'invasione dei Dardani, una popolazione barbara stanzia­ ta a ridosso dei suoi confini settentrionali. Meno numerosi e meno forti dei Dardani erano i Medi, il cui territorio confinava con la parte orientale della Macedonia; eppure questa piccola ma pugnace popolazione tracia non soltanto conservò la sua indipendenza, ma continuò ad attaccare la Macedonia finché questa non perse la propria. Gli indomiti Medi erano uno degli spinosi problemi che il Regno di Macedonia lasciò in eredità ai suoi conquistatori romani. Questi aspetti paradossali della storia del­ l'imperialismo macedone non hanno equivalenti in quella di Roma. La federazione macedone nell'Europa sud-orientale era in realtà un edificio costruito sulla sabbia, che crollò piu volte per un nonnulla. An­ tigono Gonata visse abbastanza per veder franare la chiave di volta del-

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l'edificio che era parzialmente riuscito a ricostruire nella Grecia conti­ nentale europea. Nel 243 a. C., quando egli era ancora in vita, la Con­ federazione achea si impadroni dell'istmo di Corinto e nemmeno gli in­ guaribili odi reciproci delle città-stato greche servirono a restaurare le fortune della Macedonia, per quanto Antigono Dosane desse prova di risolutezza e di abilità politica nell'afferrare l'occasione offertagli dalla contesa fra Sparta e la Confederazione achea. Egli riconquistò bens1 l'Acrocorinto, la fortezza chiave perduta da Antigono Gonata, e rico­ stitui la Lega panellenica di Filippo II benché questa volta non vi aderissero né Sparta né la potente Confederazione etolica. Ma la rinata alleanza, pur essendo cementata dall'unanime ostilità dei suoi membri verso queste due potenze dissidenti, non resistette alla prova della se­ conda guerra romano-macedone. L'inglorioso ritorno alla neutralità del­ la Confederazione achea, nel 197 a. C., è in stridente contrasto con la tenacia con cui la maggioranza degli alleati di Roma tenne fede ai patti per tutta la durata della guerra annibalica, malgrado le gravi perdite umane ed economiche che essi subirono in quel terribile conflitto. Forse era prevedibile che i cittadini delle città-stato greche non avrebbero fatto nessun vero sacrificio per una monarchia macedone cul­ turalmente arretrata, che per piu di mezzo secolo, fino al 197 a. C., si era sforzata di imporre e conservare l'egemonia politica su di loro. Piu sorprendente è il fatto che non fossero attratte dalla Macedonia le genti barbare che la circondavano sugli altri tre lati, tenuto conto che la ci­ viltà di quel paese era tanto superiore alla loro quanto era inferiore a quella dei Greci delle città-stato. Ma la cosa piu sorprendente di tutte è che una delle sue province di montagna, l'Orestide, si sia staccata dalla Macedonia non appena i Romani gliene offrirono la possibilità, pene­ trando nelle regioni settentrionali del paese nel 199 a. C. Gli Oresti era­ no un popolo greco-macedone e il loro principato era stato gleich­ geschaltet" da Filippo II. Per centocinquant'anni l'Orestide era stata parte integrante del Regno Unito di Macedonia e i suoi soldati avevano prestato servizio nel corpo di spedizione di Alessandro; ma nel 199 a. C. il particolarismo era ancora tanto vivo in quello Stato da indurlo a rivendicare la propria indipendenza anche a costo di diventare un pro­ tettorato romano. Per trovare nella storia romana un parallelo alla secessione dell'O­ restide dal Regno di Macedonia nel 199 a. C., dovremmo immaginare che nel2 r r a. C. Ariccia o Tuscolo approfittassero dell'avanzata di Anni­ bale verso Roma per ripudiare la cittadinanza romana concessa ai loro antenati nel 3 3 8 ( 3 3 5 o 334) a. C. Per trovare un parallelo romano al­ l'irriducibile indipendenza dei Medi, centosettant'anni dopo che Filip-

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po II aveva instaurato la sua egemonia sulla penisola balcanica, dovrem­ mo immaginare che i Friniati, gli Apuani o altre popolazioni liguri del­ l' Appennino centrale continuassero a compiere temerarie scorrerie in Etruria ancora al tempo dell'imperatore Augusto. L'edificio imperiale macedone si rivelò effimero. La federazione crea­ ta dalla Macedonia nella sua penisola dovette esser ricostruita piu vol­ te quasi dalle fondamenta e nessuna di queste successive restaurazioni raggiunse mai la grandiosità e la solidità della struttura originaria di Filippo Il. Per contro, l'edificio imperiale di Roma fu durevole e per­ ciò sempre piu imponente. Il contrasto salta agli occhi se si conside­ rano in un quadro sinottico le due vicende storiche e se ne segue sin­ cronicamente lo svolgimento. Filippo II aveva completato il suo edi­ ficio tre o quattro anni prima che Roma gettasse le fondamenta del proprio, incorporando parzialmente nel suo organismo politico Latini e Campani, dopo essere uscita vittoriosa dalla prima guerra di seces­ sione". Nel 266 a. C., anno in cui Roma portò a compimento l'unifi­ cazione politica dell'Italia cisappenninica, la Federazione macedone creata da Filippo II nella penisola balcanica era in rovina e Antigono Gonata si accingeva a tentarne la ricostruzione. Cent'anni dopo non soltanto la federazione macedone, ma lo stesso Regno di Macedonia era stato cancellato dalla carta politica ad opera di una Federazione romana sopravvissuta alla duplice guerra romano-cartaginese del 26 4-201 a. C. Nel r66 a. C. sia la penisola italiana che quella balcanica erano nelle mani dei Romani. Questo epilogo si era delineato fin dal 230-229 a. C., quando la costa occidentale della Grecia e la costa orientale dell'Italia erano state teatro delle scorrerie degli Ardiei d'Illiria, un popolo di barbari che si era af­ fermato come potenza navale sulla sponda nord-orientale dell'Adriatico. In quella situazione di comune pericolo, mentre la Macedonia era rima­ sta passiva e le Confederazioni etolica ed achea avevano dimostrato di non essere all'altezza della situazione, gli Stati minori della costa occi­ dentale greca erano caduti in balia dei pirati illirici. La Grecia aveva superato quel momento critico grazie all'intervento di Roma, che era scesa in campo con forze imponenti e aveva ottenuto una schiacciante vittoria. La campagna condotta nell'Adriatico nel 229 a. C. preannun­ ciava la futura conquista della penisola balcanica ad opera di Roma, che si avvaleva come base di operazioni di un'Italia peninsulare stabilmente unificata sotto il suo dominio. Una penisola balcanica unificata in modo non effimero avrebbe retto il confronto con la Federazione romana del­ l'Italla peninsulare in fatto di popolazione 33 e sarebbe stata ad essa supe-

Cause del successo di Roma

347

riore quanto a progresso civile; ma la Macedonia non era riuscita ad at­ tuarvi un'impresa politica analoga a quella compiuta da Roma nelle regioni al di là del Canale d'Otranto. Il re Filippo V di Macedonia, pupillo e successore di Antigono Do­ sane, indicò con estrema chiarezza alcuni dei fatti che determinarono il successo di Roma in un documento ufficiale redatto nello stesso anno in cui egli entrò per la prima volta in guerra con la Federazione romana. In un rescritto inviato nel 2 I 5 a. C. ,. alla città-stato di Larissa in Tes­ saglia, una delle comunità greche controllate dalla Macedonia, per ordi­ narie di reintegrare nei loro diritti alcuni cittadini naturalizzati che erano stati privati della cittadinanza, Filippo cita, a edificazione dei destinatari, l'esempio dato dai Romani in due distinti campi. Se i cittadini di pieno diritto saranno nel numero piu alto possibile, il vo­ stro Stato sarà forte e i vostri campi non rimarranno incolti, come sono ora per vostra vergogna. Questa è la meta cui dovete mirare, e io penso che nem­ meno fra voi si udrà una sola voce in contrario. Voi avete agio di osservare al­ tre comunità che seguono una politica liberale nell'estensione dei diritti civili. Un buon esempio è quello di Roma: quando i Romani affrancano i loro schiavi li ammettono in seno alla loro cittadinanza e consentono loro di accedere a parte delle cariche pubbliche. Grazie a questa politica, essi non hanno sol­ tanto reso piu grande la patria, ma sono anche riusciti a inviare colonie in po­ co meno di settanta località 31•

Nell'additare questo esempio alla comunità satellite di Larissa, l'os­ servatore macedone esagerava alquanto i meriti di Roma. Era vero che i liberti romani acquisivano automaticamente la cittadinanza, ma era al­ tres! vero che l'ala conservatrice dell'oligarchia allora al potere tentò ostinatamente di annullare gli effetti pratici della concessione della cit­ tadinanza, stabilendo che i liberti dovessero iscriversi soltanto in quat­ tro- o addirittura in una sola - delle trentacinque circoscrizioni eletto­ rali dello Stato romano; nel 215 a. C. l'esito di questa lotta costituzio­ nale era ancora incerto,.. Per quanto riguarda l'accesso alle cariche pub­ bliche, è indubbio che esso era consentito in teoria ai liberti come a tut­ ti gli altri cittadini romani; ma in pratica accadeva raramente che a ta­ li cariche pervenissero persone non imparentate con l'una o con l'altra di quelle poche famiglie privilegiate. Era vero, inoltre, che le colonie di Roma erano numerose quanto quelle della coeva Monarchia seleucidica, ma noi sappiamo che nel 2 I 5 a. C. le colonie latine non erano piu di trenta, mentre quelle romane erano allora, a quanto ci consta, non piu di ventisei - anche tenendo conto dei quindici distretti tribali supple­ mentari e delle undici basi di difesa costiera fondate entro quella data 37, Tuttavia, malgrado queste esagerazioni", Filippo V aveva pienamente

348

Capitolo quarto

ragione di affermare che due fra le cause principali del successo di Roma erano la sua energica politica di fondazioni coloniali e la sua magnani­ mità nel concedere la cittadinanza ai forestieri. Disgraziatamente questa liberale politica di estensione dei diritti politici, che era stata inaugurata da Roma nel 338 (335 o 334) a. C. e le aveva successivamente fornito la base demografica necessaria per im­ porre la propria supremazia in Italia e in Sicilia, fu abbandonata nel momento in cui una parte - compresa forse fra i cinque settimi e i due terzi -della popolazione italica della Federazione romana non era ancora stata inclusa nel corpo civico romano", mentre una notevole percen­ tuale della minoranza romana aveva ricevuto la cittadinanza ma non il diritto di voto. A quanto ci consta, le quattro o cinque comunità già la­ tine che, come sembra, avevano ricevuto nel 338 ( 335 o 3 34) a. C. la piena cittadinanza, e non soltanto la civitas sine suffragio, furono le uniche comunità straniere incorporate nella cittadinanza romana a que­ ste condizioni particolarmente favorevoli prima dell'approvazione della Lex Iulia, votata per cause di forza maggiore nel 90 a. C., al termine della prima campagna della seconda guerra di secessione. Tutte le altre comunità cui Roma concesse la piena cittadinanza nel periodo com­ preso fra i1 338 (335 o 3 34) a. C. e il9o a. C. erano comunità un tempo straniere, che Roma aveva successivamente trasformato in municipi sine suffragio; a quanto ci risulta, l'ultimo Stato straniero assoggettato che si vide imporre tale condizione fu quello dei Picenti nel 268 a. C. In uno dei capitoli precedenti .. è stata avanzata l'ipotesi che il go­ verno di Roma abbia abbandonato l'uso di imporre la civitas sine suf­ fragio a comunità straniere perché l'esperienza aveva dimostrato che tale status suscitava, nelle collettività alle quali era stato imposto, una disaffezione e un malcontento tali da renderle politicamente infide. Se ciò risponde a verità, se ne può allora dedurre che il motivo principale della successiva concessione della piena cittadinanza alle comunità cui era già stata imposta la civitas sine suffragio, dovette essere il desiderio di eliminare dalla struttura della Federazione romana un elemento che, alla prova dei fatti, si era rivelato negativo. È probabile che nel 338 (335 o 3 34) a. C., quando venne introdotto l'uso di incorporare par­ zialmente comunità straniere nella Federazione romana, i politici roma­ ni non considerassero la cittadinanza senza diritto di voto una fase di transizione da cui si sarebbe passati, dopo un periodo di prova, alla concessione dei pieni diritti 41• La trasformazione finale dei municipes sine suffragio in cittadini romani di pieno diritto dovette essere l'acci­ dentale conseguenza di un ripensamento romano, e non una tappa nella realizzazione di un lungimirante programma politico, volto a equipa-

Cause del successo di Roma

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rare gradualmente gli ltalici assoggettati ai vincitori romani, trasforman­ doli in veri e propri concittadini di questi ultimi. Questa interpretazione dei motivi che ispirarono i successivi com­ portamenti di Roma spiegherebbe perché venne abbandonato l'uso di creare municipes sine suffragio e perché la conseguente estensione del diritto di voto ai municipes sine suffragio già esistenti non fu coronata dalla concessione dello stesso diritto agli alleati italici - latini e non latini - di Roma, fino a quando la maggior parte degli alleati non latini non decise di comune accordo di forzare la mano a Roma, sollevandosi in armi contro di lei nella seconda guerra di secessione. Tuttavia, la concessione della piena cittadinanza ai municipes sine suffragio delle regioni di montagna - i Sabini nord-orientali, i Vestini sud-occidentali, i Pretuzi e i Picenti - fu in effetti un provvedimento generoso applicato su vasta scala, anche se non rappresentava l'attuazione di una politica deliberatamente magnanima. Non possediamo documenti di sicura in­ terpretazione che ci indichino la data, o le varie date, in cui fu realiz­ zato questo imponente ampliamento della comunità civica. Sappiamo soltanto che esso dovette avvenire dopo l'istituzione, nel 241 a. C., del­ le tribu Quirina e Velina; è lecito supporre che almeno i Picenti non abbiano ricevuto i pieni diritti prima del 232 a. C., anno in cui i territori loro confiscati vennero assegnati a coloni romani •z. Possiamo inoltre for­ mulare l'ipotesi che anche un processo di minore portata, quale era l'e­ stensione del diritto di voto ai rimanenti cives sine suffragio, sia stato rallentato - sebbene, come sappiamo, non completamente interrot­ to" - dall'effetto psicologico che la guerra annibalica produsse sull'o­ ligarchia romana. Per buona parte del secolo che precedette la guerra di secessione del 90-89 a. C., abbattutasi su Roma come una nemesi, gli statisti romani seguirono la politica miope e gretta che era stata pra­ ticata non solo da Larissa, ma da quasi tutte le città-stato elleniche in quasi tutte le epoche della storia greca. Ricadendo nella tipica menta­ lità ellenica, l'oligarchia romana tradiva lo spirito di Roma. Questo er­ rore fu si una delle reazioni romane all'esperienza rappresentata da un grande conflitto, ma fu anche fra le cause della disastrosa situazione se­ guita alla duplice guerra. Note al c a p i t o l o qu a r t o . '

PARETI, op. cit., II, pp. 63-64, fornisce u n elenco di precede nti te ntativi and ati to . Cfr. anche supra, pp . 26-33. ' Il contrasto è stato già sottoline ato a p . II3. 3 Cfr . supra, pp. 26-27.

a vuo­

350 •

Capitolo quarto Cfr. supra, pp. 26-33.

5 I vantaggi che derivavano a Roma dalla favorevole posizione geografica erano rad­

doppiati dal fatto che di tali vantaggi non godeva il Sannio, con cui essa era in lotta per la conquista della suprema2ia sull'Italia peninsulare. Il Sannio, infatti, rientrava nel raggio d'azione di una possente offensiva che muovesse dalla Grecia continen­ tale europea; in effetti, due formidabili corpi di spedizione provenienti dalla Grecia continentale - prima quello del re Archidamo di Sparta e poi quello del re Alessandro il Molosso - operavano in Italia durante la critica fase iniziale, decisiva per i suoi svi­ luppi, dei rapporti fra Roma e il Sannio. La loro presenza nella Penisola in quel mo­ mento può spiegare in parte perché il Sannio reagisse con una moderazione altrimenti inspiegabile al provocatorio intervento di Roma in Campania. Cfr. w. HOFPMANN, in « Philologus », Supplementband XXVII, I934, pp. I 7·2 I . ' Per l a data, che potrebbe essere i l 335, il 334 o i l 3 3 3 a. C . , cfr. supra, cap. I, p. 25, nota 3I. 1 LIVIO, IX I7-I9. • Roma, che si trovava fuori dell'effettiva portata di una aggressione militare da parte di Pella, Sparta o Atene, ricadeva però nel campo d'a2ione dell'imperialismo siiacu­ sano. Cfr. supra, pp. 26-33. 9 Cfr. supra, pp. I27-28. 1° Cfr. supra, pp. 163-64 e in/ra, cap. m, appendice III. 11 Cfr. supra, p. 205. 12 Questa è la data tradizionale. WUILLEUMIER, op. cit., pp. 56-57 e 177, avanza l'ipotesi che la data esatta sia il 467 a. C. u Cfr. BLOCH, Tbe Origins of Rome cit., p. 64: «l vantaggi offerti dalla posizione �tessa di Roma furono riconosciuti ed enumerati sin dall'epoca classica. Cicerone (De Rep. II 3-5 [3.5- 5-Io]), Livio (V 54) e Strabone (V 3-7 (C. 234-35)) mettono tutti in ri­ lievo l'eccellenza della posizione di Roma». Cfr. BLO H ibid., pp. I04·5· 14 Roma « doveva qualcosa alla sua posizione sul Tevere; ma essa era molto piu impor­ tante ai fini di un controllo dell'attraversamento del fiume che per l'accesso al ruare che il fiume poteva fornire» (LAST, in «CAH », VII, I928, p. 465; cfr. pp. 378 e 402, e inoltre si veda infra, cap. III, appendice IV, p. 496 e nota IO). u HEURGON, Capoue préromaine cit., p. IO, fa osservare che la città che occupava la posi­ zione corrispondente a quella di Roma sul Tevere e di Anfipoli sullo Strimone non era Capua, bensf Casilino-sul-Volturno. 16 Tuttavia Roma non monopolizzò né il controllo del transito sul corso inferiore dd Tevere né quello della strada che collegava la costa tiirenica all'interno lungo la valle del Tevere, fintanto che Fidene - distante da Roma otto miglia [12,8 km] di strada e situata sulla stessa riva del fiume, diiimpetto alla sua confluenza col Cremera - ri­ mase uno Stato indipendente, alleato di una Veio pure indipendente. A quanto sem­ bra, la via che gli Etruschi percorsero per raggiungere la Campania nel VII secolo a. C. superava il Tevere a Fidene (non a Roma), passava per Gabii e Preneste e scendeva lungo la valle del Sacco (cfr. TAMBORINI, art. cit., p. 479; PULGRAM, op. cit., p. 253). Le strade che univano Roma alla Campania dovevano aggirare da una parte o dall'al­ tra i colli Albani, oppure aprirsi un varco attraverso di essi. 17 Cfr. supra, pp. I63-64, e infra, cap. III, appendice IV, pp. 493-94. 18 Cfr. supra, p. I65. 19 La posizione di Roma, centrale sotto questi tre aspetti, viene messa in rilievo da PI· SCHER, op. cit., pp. 452·53 · 2° Cfr. infra, pp. 354-56, e cap. III, appendice l, p. 459· 21 Calcolati a partire dal 343 (340 o 339) a. C., il primo anno della prima fase della gran­ de guerra romano-sannitica.

C

,

Cause del successo di Roma 21 2l

351

Cfr. supra, cap. III, § 6.2. LIVIO, IX 44·

" Cfr. supra, p. 212. '-' MUNZER, op. cit., p. 409. " Cfr. supra, pp. 181-86. 11 Cfr. supra, pp. 167-70; 186-97; 255-63. 24 Supra, cap. I, p. 21 e cap. n, p. 73· 29 Supra, cap. n, pp. 76-77. "' Supra, cap. n, p. 74· " [«assimilato, annesso»]. :u Filippo aveva sconfitto gli eserciti riuniti d i Tebe e Atene e fondato la Lega d i Co­ rinto nel 338 a. C. L'anno della vittoria di Roma sui Confederati fu il 335 o il 334, e seconda del metodo che si sceglie per correggere la data tradizionale del 338 a. C. n Cfr. HOMO, op. cit. , p. 305. DE SANCTIS, op. cit., III, 2, p. 375, calcola che dopo la battaglia di Sellasia (combattuta nel 222 a. C.) la Federazione macedone aveva una popolazione di circa quattro milioni di anime, pressoché pari a quella della Federa­ zione romana coeva. Per altri particolari, vedi la tavola di BELOCH, Bevolkerung cit., ad fin., relativa alla superficie e alla popolazione dell'Impero romano alla morte di Augusto (14 d. C.). BELOCH, ibid., pp. 494-500, calcola che la popolazione dell'Italia romana preannibalica, vale a dire dell'Italia peninsulare, si aggirava sui tre milioni di uomini, compresi gli schiavi. Egli ritiene inoltre che la Grecia europea, compresa la Macedonia e includendo nel conteggio anche gli schiavi e i servi della gleba, avesse circa tre milioni di abitanti nel 432 a. C., circa quattro milioni nel 338 a. C. e circa quattro milioni e trecentosettantamila nel r68 a. C. 34 Cfr. F. w. WALBANK, Philip V of Macedon, Cambridge 1940 [rist. Hamden (Conn.), 1967], pp. 297-99, quanto alle ragioni per cui questa lettera andrebbe datata al 215 e non al214 a. C. "DITTENBERGER, Syll. 3, n. 543 - SylZ.Z, n. 239: «11-r� -yà.p 1ta:v-rwv xci;)..).�cr-r6v tcr-rw wç 1tÀE�CT'tWV (.lE'tEX6V'tWV 'tOV 1tOÀ�'tEV(.lC1'tOç 'tTJV 'tE 1t6Àw LcrxvELV xaL 'tfJV xwpav (.lTJ �CT1tEP vvv alcrxpwç XEPCTEÙErna�. VO(.l��w (.lÈV oUli' V(.lWV oMÉva li"IJ av-rEmEi:"ll, E�ECT't� OÈ xaL -roùç Ào�-roùç -roùç -rai:ç Ò(.lO�Cl�ç 1tOÀ�n-ypacp�a�ç xpw(.lÉvouç DEwpEi:v, wv xaL ot 'Pw(.lai:o� der�v, ot xaL -roùç otxÉ-raç 8-ta'll ÉÀEuDEpwcrwcrw 1tpocrOEX6(.lE'IIO� dç -rò 1tOÀ�'tEU(.lC1 xaL "'t"W"\1 tlPXE�V (.lE'tC10�06'11"tEç xaL O� 'tOV "t0�01hou "tp61tou ou (.16'110"11 "tfJV to�av 1tC1"tp�oa È1t1)ul;1)xacrw, aÀ.À.CÌ xaL É1to�x�aç CTXEOÒ"\1 Elç t�OO(.lTJ· XO'II"t"Cl "t61tOUç ÉX1tE1t6(.lcpC1CTLV ». 36 Cfr. infra, vol. II, cap. XI. 37 Cfr. l'elenco dato supra, pp. 191-92. Alle dieci località ivi enumerate si deve aggiun­ gere Ostia, che divenne una colonia costiera prima del 207 a. C. (cfr. infra, cap. m, appendice IV). " TIBILETTI, Ricerche cit., p. 241, nota 6, avanza l'ipotesi che Filippo abbia tenuto con­ to dei «pro coloniis », e cioè dei conciliabula istituiti di propria iniziativa dai coloni romani insediatisi viritim, per esempio, nell'Ager Picenus et Gallicus. Nel215 a. C. le «colonie» romane potevano forse raggiungere il numero di settanta indicato da Filippo se questi, oltre alle comunità ufficialmente denominate «coloniae», vi includeva non soltanto i distretti tribali romani supplementari ma anche i fora, situati a metà strada lungo le grandi vie romane, e i conciliabula, che raggruppavano i coloni romani i cui insediamenti non erano stati aggregati ai distretti delle tribu supplementari. " Cfr. supra, pp. 155 e 261-62; infra, pp. 543-44, con la nota 4· "' Cfr. supra, cap. III, p. 212. " Cfr. supra, loc. cit.

3.52

Capitolo quarto

'2 Cfr. infra, cap. 43

appendice III, pp. 486-87; cap. appendice VII, p. 516. Nella parte a noi pervenuta delle storie liviane abbiamo notizia della concessione della piena cittadinan2a a Fondi, Formia e Arpino nel 188 a . C. (XXXVIII 36) e di alcuni provvedimenti presi nel 18o a . C. (XL 42), forse con l'intento di estendere il diritto di voto anche a Cuma in un prossimo futuro.

III,

III,

Capitolo quinto

Le debolezze della Federazione romana nel

266

a . C.

I. DEBOLEZZE GEOGRAFICHE.

Come ogni istituzione umana, anche la Federazione romana, malgrado sua solida struttura, presentava diverse debolezze, le quali emersero la quando essa fu sottoposta alla severa prova della duplice guerra del 264201 a. C. e delle conseguenze che ne derivarono. Tali debolezze erano di tre tipi : geografico, economico e politico-amministrativo. Sul piano geografico, la principale debolezza della Federazione ro­ mana, nel 266 a. C., era costituita dalla mancanza di confini naturali nel­ l'Italia peninsulare. Uno sguardo alla carta geografica farebbe pensare il contrario, ma l'apparenza è ingannevole. In realtà l'Italia non fa ecce­ zione alla regola generale che si riscontra nell'ecumene a ovest della fron­ tiera occidentale dell'India: di là fino all'Atlantico, come si è già osser­ vato', l'unico paese che può essere isolato dal punto di vista strategico, e quindi anche politico, è l'Egitto. Il confine terrestre naturale dell'Italia peninsulare' rappresenta, se non altro, una barriera piu efficace dei confini marittimi. Nel 266 a. C. gli Appennini - almeno, in direzione sud-orientale, fino al valico che col­ legava Faesulae (Fiesole) a Bononia (Bologna) - erano ancora allo stato naturale; le alture erano coperte di foreste, le valli di paludi e gli abitanti erano popolazioni liguri, barbare e politicamente indipendenti. Una via alternativa per penetrare in I talla dalla valle padana era lungo la costa adriatica; ma qui gli Appennini toccano e costeggiano il mare e gli inva­ sori che sceglievano questa strada dovevano prima superare un passag­ gio angusto e di facile difesa, al pari delle Termopoli, poi valicare ancora le montagne per raggiungere le pianure occidentali'. Alle Termopili d'Italia montava la guardia, sin dal 268 a. C., la piazzaforte di Ariminum (Rimini) ', colonia latina; ciò nonostante l'Italia peninsulare era stata ripetutamente invasa, per l'una o per l'altra strada, dai barbari di stirpe gallica che abitavano nella pianura padana. La piu tremenda, ma anche l'ultima di tali invasioni, succedutesi in un arco di circa centoventi anni, doveva aver luogo nel 225 a. C.; come si è già osservato', i fatti dimo-

354

Capitolo quinto

strarono che i Romani non potevano arrestarsi alla linea di confine ter­ restre che delimitava la loro Federazione nel 266 a. C. Ma la catena appenninica, a differenza delle coste, isolava natural­ mente la penisola; tranne lungo le sponde adriatiche, le acque costiere della penisola italiana erano state infatti frequentatissime vie di grande comunicazione almeno sin dall'viii secolo a. C. - epoca in cui Greci, Fenici ed Etruschi avevano cominciato a contendersi il controllo del Me­ diterraneo occidentale. L'Italia, pur essendo saldata al torso del continente [europeo] mediante la valle del Po, protende le sue regioni meridionali per assorbire appieno l'in­ flusso straniero. La costa messapico-lucano-bruzia, insieme a quella orientale della Sicilia, fronteggia direttamente le rive dell'Epiro, dell'Acarnania e del Peloponneso. La natura favori l'immigrazione greca [nell'Italia meridionale]; per ben mezzo millennio queste regioni furono ininterrottamente sottoposte al dominio della civiltà ellenica e furono partecipi tanto della sua fioritura quanto della sua decadenza 6•

Tutta la parte inferiore del « piede» dello Stivale, dal « tacco» alla « punta», era stata occupata da una catena di colonie elleniche, che col­ legava la Grecia continentale europea ai centri greci di Sicilia. La famosa colonia spartana di Taranto non era forse l'unica comunità ellenica che sorgesse sul « tacco»; oltre ad essa, potrebbe esserci stata un'oscura città rodia, identificabile con Rudiae (Rhodiae), la patria di Ennio'. Ognuna delle comunità coloniali greche insediate sulla costa orientale del « collo» e della « punta» si era infine aperta una strada per il trasporto delle merci via terra verso la costa occidentale, dove aveva fondato una o piu subco­ lonie per far concorrenza alla corrente di traffico marittimo che passava per lo stretto di Messina •. Questa catena di insediamenti greci sulla co­ sta occidentale, meno imponente della prima', si allungava verso nord­ ovest fino all'accidentata regione vulcanica che occupa la parte setten­ trionale del golfo di Napoli. La piu avanzata- e, secondo la tradizione, la piu antica- era la colonia calcidese di Cuma. Sulle ambizioni dei suoi fondatori si possono soltanto avanzare delle ipotesi : non sappiamo se Cuma dovesse servire da base per l'occupazione della fertile pianura campana •• o per la conquista dei giacimenti di ferro dell'isola d'Elba e 11• della vicina terraferma Come abbiamo visto u, quella fonte di ricchezze minerarie finf poi col cadere nelle mani degli Etruschi. Questi ultimi, se è vero che proveni­ vano dal Levante", avevano perso ogni contatto con la patria d'origine, a differenza dei Greci, loro rivali nel Mediterraneo occidentale; ma l'at­ tività commerciale li aveva condotti ad allacciare nuove relazioni coi paesi orientali. La regione mineraria dell'Etruria (Zona o Catena Me-

Le debolezze della Federazione romana nel 2 6 6

a.

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tallifera), vale a dire l'isola d'Elba e la vicina terraferma, era la princi­ pale fonte d'approvvigionamento di ferro dell'Egitto tolemaico ". Il minerale dell'isola d'Elba si trova in giacimenti superficiali " ed era quindi facilmente accessibile; per di piu era abbondante e ad alto contenuto di ferro ". Diodoro descrive 17 tanto l'industria estrattiva etru­ sca quanto quella manifatturiera (in età postannibalica) di Pozzuoli, la quale utilizzava il ferro fornito dall'Etruria. Essa era di grosse dimen­ sioni, a giudicare dalla quantità delle scorie che si sono accumulate a Populonia ": si calcola che il loro peso si aggiri sui due milioni di tonnel­ late ", e il loro volume, secondo D'Achiardi lll ' indicherebbe che i gia­ cimenti etruschi fornirono ogni anno dieci o dodici mila tonnellate di minerale di ferro per un periodo di quattro secoli, terminato con la tran­ sizione dal regime repubblicano a quello imperiale in Roma (quindi dal v all'ultimo secolo a. C.). Secondo Tenney Frank 21, il periodo in cui si formarono gli ammassi di scorie di Populonia è compreso all'incirca fra il 2 0 0 a. C. e il 3oo d. C. Il processo di accumulazione, tuttavia, deve certa­ mente aver avuto inizio prima di allora, perché le miniere dell'Etruria nord-occidentale erano state scoperte e avevano fornito materia prima alla fiorente industria metallurgica locale sin dall'inizio dell'età villano­ viana, mentre a partire dal 200 ca. a. C. l'industria manifatturiera - da non confondersi col processo di estrazione mediante fusione - era stata gradualmente trasferita da Populonia a Pozzuoli 21• Per una parte almeno dei cumuli di scorie di Populonia il terminus post quem sembra aggirarsi intorno al 4oo a. C. (piuttosto che intorno al 200 a. C.), perché essi ri­ coprono alcune tombe contenenti oggetti che risalgono all'epoca in cui l'arte etrusca subiva l'influenza attica 23• Non sapendo con certezza quan­ to sia durato il periodo di accumulazione delle scorie di Populonia, ci sembra impossibile valutare la produzione annuale media; la cifra pro­ posta da D'Achiardi appare comunque troppo elevata. In origine il minerale di ferro elbano era fuso sul posto e, in parte, continuò ad esserlo anche in seguito 24• Swinburne osserva 15 che «data la scarsità di legname, il minerale non viene mai fuso nell'isola». In realtà la consuetudine di trasportare il minerale elbano in terraferma per la fusione ,. dovette avere inizio almeno ventidue secoli prima di Swin­ burne. Il ferro non era l'unico metallo estratto e lavorato nella regione mine­ raria dell'Etruria. Nella prima metà del n secolo a. C. « si lavorava ancora nelle miniere di rame fra Populonia e Volterra, e ... vi si estraevano anche stagno, piombo e zinco, di modo che il bronzo etrusco era in una certa misura un prodotto locale» 27 • Secondo Fischer ", il minerale predominan­ te nella Zona Metallifera è il rame.

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Capitolo quinto

Nel 273 a. C. fra Roma e la corte del re Tolomeo II Filadelfo avvenne uno scambio di missioni diplomatiche e l'iniziativa sembra esser partita dal governo tolemaico 29 • Secondo Beloch 30, Populonia, la città-stato etru­ sca nel cui territorio si trovava la regione mineraria, Elba inclusa, era entrata a far parte della Federazione romana sette anni prima, nel 28o a . C. Se la data che Beloch assegna a questo evento politico è esatta, la missione tolemaica inviata a Roma nel 273 a. C. doveva avere fra i suoi scopi quello di stabilire rapporti amichevoli con la potenza che ormai controllava la principale fonte delle importazioni di ferro dei Tolomei. Da quando, nel 275 a. C., era fallito il secondo tentativo compiuto da Pirro di piegare Roma, era apparso chiaro che il dominio romano nel­ l'Italia peninsulare sarebbe durato a lungo. Il porto principale di Cere 31, che fra le città-stato etrusche della co­ sta tirrenica era quella situata piu a sud-ovest, portava il nome greco di Pyrgi, e sulla costa cerita esisteva un altro porto chiamato Punico. Que­ sti due nomi sembrano indicare che Greci e Fenici erano stati in con­ correnza 32 per il privilegio di commerciare con la città etrusca che fu la porta della valle del Tevere finché non venne soppiantata in tale ruolo da Roma ". Il territorio di Cere confinava con il nucleo originario del­ l'Ager Romanus, mentre la sua frontiera sud-orientale correva non lon­ tano dalla riva destra del Tevere nell'ultima parte del suo corso. Il tratto di costa da cui i popoli di lingua latina, volsca e aurunca si affacciavano sul Tirreno, tra la foce del Tevere e Cuma, era lungo non piu di circa 1 50 miglia inglesi [240 km ca.]. Fin dagli albori della sua storia, Roma si trovava quindi incuneata fra Greci da una parte ed Etruschi dall'altra, quegli Etruschi che contribuirono attivamente alla diffusione dell'elle­ nismo allorché si trovarono a subire a loro volta un forte influsso greco 34• A quanto sembra, i Latini avrebbero adottato dai Greci di Cuma la forma calcidese dell'alfabeto - comune oggigiorno nel mondo occidentale non per via diretta ma tramite intermediari etruschi 3' . Selon l'optique déformante cles Annalistes [romains], Rome s'était dé­ veloppée comme en vase clos et fermée sur elle-meme; en réalité, son évolu­ tion politique et culturelle ne peut s'entendre si on ne l'intègre à l'histoire de tout le centre de la Péninsule 36•

A questa infelice consuetudine annalistica Livio si attiene voluta­ mente il piu possibile. La regola che si era imposto, a quanto egli stesso afferma esplicitamente 37, era di non prendere in considerazione gli affari esteri se non nei casi in cui questi erano connessi alle vicende di Roma (« propositi quo statui non ultra adtingere externa nisi qua Romanis cohaererent rebus»). In obbedienza a questa norma che egli stesso si è

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imposto, Livio si astiene in quel passo dall'addentrarsi nella storia dei rapporti messeno-achei, e in un altro punto " interrompe, per la stessa ra­ gione, un resoconto dei rapporti fra Rodi e le monarchie seleucidica e tolemaica. Le rare volte in cui viene meno alla regola, egli se ne scusa; cosi accade, ad esempio, quando riferisce che i Sanniti avevano strappato Capua agli Etruschi (« peregrina res, sed memoria digna» [« un evento accaduto all'estero, ma degno di essere ricordato »]) ,. o quando narra la morte di Alessandro re d'Epiro ( « haec de Alexandri Epirensis tristi cventu, quamquam Romano bello Fortuna eum abstinuit, tamen, quia in Italia bella gessit, paucis dixisse satis est » [« sia sufficiente questo breve racconto della triste fine di Alessandro d'Epiro, di cui ho voluto far menzione perché, sebbene la sorte gli abbia impedito di entrare in guerra coi Romani, egli portò le armi in Italia »r0• Bloch insiste " sul fatto che la storia di Roma non è un fenomeno unico e che trattarla come se lo fosse equivarrebbe a renderla incompren­ sibile. A titolo di chiarimento, egli fa osservare •• che il passaggio da una monarchia a un'oligarchia patrizia fra il VI e il v secolo a. C. non fu un evento peculiare di Roma, ma un cambiamento di regime che avvenne contemporaneamente in altri Stati dell'Italia centrale - etruschi, latini, umbri ed asci .,. Ai suoi confini nord-occidentali, Roma aveva negli Etruschi dei vi­ cini semiellenizzati che rafforzavano l'influenza delle comunità greche a ridosso della frontiera sud-orientale. Ma la serie di comunità elleniche o parzialmente ellenizzate situate lungo la costa occidentale della peni­ sola non terminava a nord-ovest con la città-stato etrusca di Pisa, a sud dell'Arno. Sul golfo della Spezia e anche oltre, i nomi di Erice, Portove­ nere, Segesta ed Entella ... sembrano ricordare l'insediamento di coloni climi provenienti dalla punta nord-occidentale della Sicilia •s. Piu ad ovest, le potenzialità commerciali insite nella posizione di Genova .. non :wevano attirato, a quanto sembra, l'attenzione degli Elimi e neppure degli Etruschi o dei Greci. Genova (Genua) compare sulla scena della storia soltanto nel primo anno della guerra annibalica; Publio Scipione vi sbarcava nel 2 r 8 a. C. 47 e Magone, fratello di Annibale, nel 205 a. C . .. . Sembra che a quell'epoca Genova facesse già parte della Federazione ro­ mana, mentre Marsiglia, colonia dei Greci di Focea situata in posizione dominante alla foce del Rodano, nel 266 a. C. era sicuramente già da tempo alleata di Roma. Sulla sponda settentrionale del Mediterraneo occidentale, Marsiglia era a capo di un impero costiero la cui conservazione era affidata alla po­ tenza navale ; esso corrispondeva, su scala minore, a quello cartaginese della sponda meridionale. Nel 266 a. C. il confine terrestre fra i due im-

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peri era Capo Palos , immediatamente a nord-est del sito in cui sarebbe poi sorta la città di Cartagena. Nel VI secolo a. C., prima che Cartagine conquistasse l'impero di Tartesso, l'area coloniale in mano ai Greci di Focea si era ampliata in direzione sud-occidentale, lungo la costa medi­ terranea spagnola, fino a toccare Mainake, distante 2 7 chilometri da Ma­ laga 49• Al pari di Cartagine, anche Marsiglia si servi del controllo eser­ citato sulla sua linea di costa e sui mari adiacenti per conservare il mono­ polio dei traffici con le arretrate popolazioni dell'entroterra. Dopo la prova di forza degli ultimi decenni del VI secolo a. C., terminata con l'ar­ resto dell'avanzata greca verso occidente, Marsiglia non era stata piu in grado di competere con Cartagine e i suoi alleati etruschi e aveva quindi cominciato a vedere di buon occhio l'ascesa di Roma, molto tempo prima che i Romani entrassero in urto con i Cartaginesi. Marsiglia aveva su Cartagine un vantaggio di natura politica: le colonie greche dislocate lungo la costa e soggette alla sua egemonia erano state fondate diretta­ mente da lei, a differenza dei principali fra gli insediamenti costieri fe­ nici controllati da Cartagine; esse, a quanto sembra, manifestarono la loro fedeltà a Marsiglia in un modo piu concreto di quanto non abbiano fatto nei confronti dei Cartaginesi i Libifenici, che non erano loro con­ nazionali. Al pari di Cartagine e Rodi, Marsiglia era ben governata da un'oligarchia moderata. Nel 266 a. C. queste tre comunità commerciali avevano, insieme a Roma, i regimi piu stabili di tutta l'ecumene a ovest dell'India. Intorno a quella data, Marsiglia, Cartagine, le città-stato marittime d'Etruria e quelle greche dell'Italia continentale, da Cuma a Taranto (per non parlare della Sicilia), avevano stretto già da tempo intense re­ lazioni commerciali col resto del mondo mediterraneo. Dato che il com­ mercio comporta le relazioni politiche, ed esse a loro volta la guerra, queste potenze del Mediterraneo occidentale erano intimamente legate al resto del mondo mediterraneo in tutti i settori delle relazioni interna­ zionali. Se si tiene presente che Roma era praticamente assediata da que­ sti vicini cosi attivi in campo internazionale, appare evidente che essa sarebbe stata comunque coinvolta in tali rapporti anche se la sua sfera d'azione politica non si fosse mai ampliata al di là dei possedimenti ori­ ginari, cui lo sbocco sul Tevere conferiva una notevole importanza stra­ tegica e commerciale. In effetti, Roma era rimasta coinvolta nel tenta­ tivo compiuto dagli Etruschi nel VI secolo a. C. di impadronirsi di tutta l'Italia; un episodio di tale vicenda era stata la sua temporanea sottomis­ sione alla signoria etrusca. Piu tardi, Roma dovette essere toccata nei suoi interessi dalla vittoria navale che i Siracusani riportarono sugli Etru-

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schi davanti a Cuma nel 474 a. C. so e, ancor piu da vicino, dall'incursione siracusana a Pyrgi nel 3 84-3 83 a. C. 51• L'avvenimento decisivo per l'espansione di Roma fu l'intervento in Campania, che la portò poi a intraprendere la conquista di tutta l'Italia peninsulare. Roma, però, intervenne in Campania soltanto nel 343 (340 o 339) a. C. e per quella data aveva già concluso almeno un trattato con Cartagine, sia che questo primo trattato romano-cartaginese risalga al 509 (506-501 ca.) a. C., sia che vada collocato nel 348 (345 o 344) a . C. ". Nel momento in cui esso venne negoziato la regione su cui Roma avanzava pretese di dominio non era piu vasta del Lazio, nel senso che, oltre al Lazio propriamente detto, essa includeva in direzione sud-est il territorio costiero abitato dai Volsci, fino a Circei e Terracina compre­ se; le clausole del trattato dimostrano che soltanto una parte di questo « Lazio Maggiore» era a quell'epoca sotto l'effettivo dominio romano. Ma tali clausole attestano anche che Roma aveva già stretto intense relazioni commerciali e politiche con lo Stato che rappresentava la maggiore po­ tenza del Mediterraneo occidentale, quando ancora il tratto di costa tir­ renica su cui essa aveva - o accampava - dei diritti era non piu lungo della fascia compresa fra Ostia e Terracina. Roma, quindi, era già coinvolta in un giro di rapporti internazionali che superava di gran lunga i confini dell'Italia peninsulare, prima anco­ ra che i suoi domini si estendessero oltre i confini del « Lazio Maggiore». A maggior ragione essa vi si trovò inestricabilmente coinvolta dopo che ebbe spostato le frontiere della sua Federazione in direzione sud-orien­ tale, fino a toccare le frontiere marittime, apparentemente «naturali», della penisola. Per i Romani, l'incorporazione delle comunità italiote en­ tro la loro Federazione fu un avvenimento di importanza incalcolabile. La civiltà ellenica diventava per loro [i Romani] ancor piu vicina - e anzi molto piu vicina - di prima. Essi stessi divennero in pratica una potenza greca, entrando nel novero degli Stati ellenici e nella sfera del commercio e della politica mondiali 53•

A quell'epoca molte comunità coloniali greche del

«collo» e della «pun­ ta » dello Stivale erano state già sommerse dalle invasioni degli Osci, mentre quelle che avevano conservato la propria identità nazionale erano in piena decadenza. Taranto, invece, era ancora una delle principali co­ munità del mondo ellenico e manteneva attivi rapporti - di natura eco­ nomica, politica e culturale - da una parte con la Sicilia, dall'altra con Corcira, con l'Epiro e con Sparta, la madrepatria, cui era unita da vin­ coli che neppure gli oscuri mutamenti qui sopravvenuti dopo la fonda­ zione della colonia erano valsi a spezzare. Anche se i Romani avessero

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imposto la loro egemonia alla sola Taranto, ciò sarebbe bastato a coin­ volgerli interamente nelle vicende del vasto mondo che si stendeva al di là delle coste italiane. Nel 266 a. C. Roma si trovava in una situazione simile a quella del primo Impero persiano, dopo che Ciro ebbe annesso l'Anatolia occiden­ tale fino alle coste che si affacciano sull'Egeo e sugli Stretti del Mar Nero, o a quella della Macedonia, dopo che Filippo II ebbe incorporato nella Confederazione di Corinto da lui presieduta tutta la Grecia continentale, ad eccezione di Lacedemone. Allora, l'esperienza aveva ben presto inse­ gnato all'Impero persiano e alla Macedonia che la linea di costa non isola automaticamente una regione dal punto di vista politico. Gli Achemenidi avevano compreso che non avrebbero mantenuto un saldo controllo sul­ l'Anatolia occidentale finché le isole egee, e alle loro spalle la Grecia continentale, fossero rimaste politicamente indipendenti; Filippo, per contro, prima di morire aveva compreso - ed aveva trasmesso questo insegnamento ad Alessandro - che l'egemonia da lui imposta a tutti gli Stati della Grecia continentale, tranne uno, sarebbe stata precaria sinché l'Impero persiano avesse continuato a possedere, sulle coste mediterra­ nee dell'Asia e dell'Egitto, basi navali da cui eventuali ribelli greci avreb­ bero potuto ricevere aiuto. Roma, una volta che ebbe incorporato nel­ la sua Federazione l'estremità sud-orientale d'Italia, correva il rischio di essere coinvolta in complicazioni analoghe. Reggio era a un tiro di schioppo dalla Sicilia 54 e da Lilibeo a Cartagine la traversata era breve "'. Dall'altra parte, neanche il Canale d'Otranto era abbastanza largo da isolare Taranto e Brindisi da Corcira 56 , e l'isola di Corcira sfiorava quasi la costa della Grecia continentale europea. Prima che Roma si affacciasse alle loro frontiere nord-occidentali, gli ltalioti e i Sicelioti avevano piu volte chiesto e ricevuto aiuti contro i Cartaginesi e gli Osci dai loro con­ nazionali della Grecia continentale europea ; l'intervento di Pirro era stato soltanto l'ultimo e il piu formidabile di tutti . Se una potenza ve­ nuta da oltre i confini dell'Italia peninsulare aveva tentato di impedire che Roma portasse a termine la conquista della penisola, altre potenze straniere avrebbero potuto in futuro contrastare la supremazia romana sul paese. A due anni dall'incorporazione dell'ultimo lembo della peni­ sola nella Federazione romana, questa eventualità balzò agli occhi dei Romani quando i Mamertini chiesero loro aiuto contro i Siracusani e i Cartaginesi che accerchiavano Messina. I Mamertini erano soldati di ventura asci, provenienti dalla Campa­ nia e calati in Sicilia nell'ultima delle ondate che si erano successiva­ mente rovesciate sull'isola da un secolo a quella parte, cioè da quando il tiranno Dionisio I aveva cominciato a reclutare fra gli Osci le sue mili-

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zie mercenarie. Nel 264 a. C., erano ormai tre quarti di secolo che la Cam­ pania faceva parte della Federazione romana; se si deve credere agli stu­ diosi moderni di storia romana della scuola «prosopografica », alcuni Campani erano già riusciti a penetrare nelle file della nobiltà romana 57• Secondo Miinzer ", almeno due gentes della nobiltà plebea, gli Atilii e gli Otacilii , avevano le stesse origini etniche dei Mamertini. Questi ultimi contavano dei connazionali anche fra i coloniarii latini di Roma, a giudi­ care da un'iscrizione dedicatoria di Messina a nome di un meddix Stre­ nio Caleno "; un contingente dei coloni latini di Cales era formato da cittadini romani d'origine. All'epoca in cui Roma acquistò il controllo politico di Capua, l'uso di andare a combattere come mercenari in Sici­ lia e oltre era ormai radicato fra i Campani. Heurgon formula l'ipo­ tesi "' che uno degli obblighi che Roma contrasse quando prese Capua sotto la sua protezione fosse una sorta di responsabilità sociale nei con­ fronti dei soldati di ventura campani, ai quali doveva procurare un im­ piego continuativo; se è vero che la classe di governo romana provvide a sistemare alcuni fra i piu eminenti cittadini campani accogliendoli nelle proprie file, è probabile allora che la soluzione data ad un problema ne abbia fatto sorgere un secondo. Dall'interno della cittadella della classe di governo romana, i nobili di origine campana avranno voluto e potuto spingere Roma a mandare i suoi eserciti oltre gli stretti bracci di mare che i loro connazionali e antenati traversavano in armi, di propria inizia­ tiva, da un secolo a quella parte. Secondo Heurgon, quei cent'anni di mi­ lizia mercenaria in Sicilia avevano fatto si che i Campani, e quindi anche i Romani di origine campana, si familiarizzassero col mondo siceliota e con la sua storia piu recente. M. Attilio Regolo, sbarcando in Africa con un corpo di spedizione romano nell'inverno del 2 5 6-255 a. C., seguiva deliberatamente - a quanto ritiene Heurgon 61 - le orme di Agatocle. 62, Come egli afferma I Campani furono il primo popolo nell'ambito della Civitas Romana che rivendicò l'eredità politica dei tiranni di Sicilia e la trasmise ai cittadini di Roma. Furono i Campani a imporre a Roma gli oneri e gli obblighi di una grande potenza mediterranea.

Se la duplice guerra romano-cartaginese fu davvero un lascito di Ca­ pua a Roma, si trattò certo di una « damnosa hereditas » 61•

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Capitolo quinto

II. DEBOLEZZE ECONOMICHE.

La debolezza piu grave di cui la Federazione romana soffriva sul piano economico nel 266 a. C . era la stessa che affliggeva in quel periodo il Re­ gno di Macedonia; la sua economia, anziché commerciale e industriale, era ancora prevalentemente agricola. L'Etruria, Taranto e le superstiti città elleniche della Magna Grecia avevano allora per le condizioni dell'Italia un valore indicativo non mag­ giore di quello che i centri della Calcidica e della bassa valle dello Stri­ mone avevano per le condizioni della Macedonia. Quelle regioni costitui­ vano nell'Italia peninsulare rare isole di progresso economico, e alcu­ ne di esse presentavano ormai chiari segni di malessere sociale ed econo­ mico. Le città-stato greche della Magna Grecia, che nel VI secolo a. C. pri­ meggiavano in ogni campo delle attività umane, erano state condotte alla rovina dalle conseguenze, assommate fra loro, delle lotte fratricide, delle aggressioni siracusane e delle infiltrazioni dei barbari di lingua osca. Que­ sto processo di logoramento durava da oltre due secoli allorché i Romani vi posero termine nell'ultima fase della conquista della penisola. Per almeno una di queste città-stato greche, l'epilogo era stato l'atto piu sanguinoso di tutto il dramma: a Reggio, la guarnigione di cittadini sol­ dati romano-campani, che le era stata assegnata nel 2 8 2 a . C., aveva mas­ sacrato o bandito tutti i cittadini maschi adulti e si era impadronita della città. Roma aveva punito questi malfattori soltanto nel 270 a . C., quan­ do era ormai troppo tardi per riparare il danno '. Le altre città della Ma­ gna Grecia versavano in una situazione non molto migliore e avrebbero avuto bisogno di parecchio tempo per riprendersi sotto una tardiva Pax Romana - anche se, per ipotesi, l'incorporazione nella Federazione ro­ mana si fosse tradotta per loro in una pace duratura e non in nuovi con­ flitti, questa volta di un'estensione senza precedenti. Le città marittime dell'Etruria, dal canto loro, non avevano subito in guerra devastazioni gravi. Esse si erano sottomesse a Roma durante l'u1tima fase della conquista dell'Italia peninsulare, senza apporle una resi­ stenza tanto accanita da condannarle alla sorte toccata al Sannio dopo la lotfa sostenuta con Roma. L'economia delle città marittime etrusche non aveva dunque riportato danni, ma nel settore agricolo era tutt'altro che florida. Il regime delle grandi proprietà terriere coltivate da manodopera

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a.

C.

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servile o semiservile, che doveva radicarsi saldamente nell'Italia cen­ trale e meridionale dopo la duplice guerra romano-cartaginese del 26420 1 a. C., forse aveva già fatto la sua comparsa in Etruria prima dell'ini­ zio di tale conflitto, se è questa la giusta interpretazione delle rivolte pro­ letarie scoppiate in quel periodo ad Arezzo e Bolsena 2 • In entrambi i casi, i moti vennero repressi da interventi militari romani: quello di Arezzo nel 302 ( 302-301 o 301 ) a. C. 3 e quello di Bolsena nel 265-264 a. C. Non abbiamo notizie sulla situazione contemporanea in altre città etrusche, ma sappiamo che, tra la fine della duplice guerra romano-carta­ ginese ( 201 a. C.) e lo scoppio della rivoluzione dei cent'anni a Roma ( 1 3 3 a. C.), il malessere sociale che è attestato a Bolsena alla vigilia della duplice guerra si era ormai esteso a tutta l'Etruria •. Possiamo quindi de­ durre che, nella prima delle due date sopra indicate, questa sorta di ma­ lattia sociale - qualunque ne fosse l'esatta natura - che aveva provocato scoppi di violenza a Bolsena aveva già contagiato altre comunità etru­ sche. Possiamo inoltre dedurre che se in quell'epoca la piaga sociale delle grandi tenute coltivate da manodopera servile o semiservile si era già diffusa in Etruria, essa non era stata accompagnata da quell'aumento di produttività che l'adozione di questo regime di proprietà aveva determi­ nato a suo tempo nelle piantagioni, caratterizzate da una conduzione scientifica, dell'Egitto tolemaico e della Sicilia e dell'Africa nord-occi­ dentale cartaginesi. Sul piano economico, quindi, la Federazione romana accusava gli stessi difetti di cui soffriva nella stessa epoca il Regno di Macedonia. La milizia cittadina italica costituiva, al pari di quella macedone, uno stru­ mento militare di prim'ordine e Roma era enormemente superiore alla Macedonia quanto a potenziale umano. Ma in nessuno dei due paesi la qualità delle forze armate era eguagliata dalla quantità delle risorse eco­ nomiche e finanziarie di cui lo Stato poteva disporre; deficienza, questa, che si sarebbe fatta sentire se mai uno dei due si fosse trovato coinvolto in una «guerra totale». In Italia l'agricoltura veniva ancora praticata nella sua forma tradi­ zionale, cioè di agricoltura di sussistenza, e su questo antiquato sistema economico si fondava la forza militare dello Stato, in quanto gli eserciti venivano reclutati nella popolazione contadina. Ma questo tipo di eco­ nomia, proprio degli Stati romano e macedone, era ormai un anacroni­ smo nel mondo ellenico di allora, che - almeno in alcune sue regioni ­ aveva già attraversato due successive rivoluzioni economiche. Nella Io­ nia, negli Stati intorno all'istmo di Corinto, nella Magna Grecia e nel­ l'Attica l'agricoltura di sussistenza aveva ceduto il passo, sin dal vn e VI secolo a. C., all'agricoltura di mercato ed alle attività commerciali e in-

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dustriali; nel mondo coloniale del Mediterraneo occidentale, dischiuso dall'iniziativa delle genti levantine, l'agricoltura di mercato era stata potenziata da quando era stata sottratta al lavoro dei contadini liberi ed organizzata in piantagioni coltivate da manodopera servile. A quanto ci consta, questo disumano sistema di sfruttamento del suolo, altamente produttivo, venne introdotto per la prima volta nel territorio della colo­ nia siceliota di Agrigento nel 48o a. C. e fu poi adottato dai Cartaginesi, che lo applicarono su scala piu vasta nei territori dell'Africa nord-occi­ dentale conquistati a partire dal 450 a. C. circa 5• Nel frattempo, Roma non si era curata di trasformare la sua arcaica economia contadina per metterla al passo con le innovazioni introdotte appena fuori dei suoi confini. Essa ne aveva semplicemente allargato il campo di applicazione mediante conquiste militari, procurando nuove terre ai suoi contadini a spese dei nenùci sconfitti e annettendo nel con­ tempo, per via diplomatica o con la forza, una moltitudine di comunità italiche ferme al suo stesso stadio di sviluppo economico. Questa econo­ mia antiquata, ancora predominante nell'Italia peninsulare, non sarebbe probabilmente sopravvissuta per molto tempo all'unificazione politica della penisola e alla crescente partecipazione di Roma alla vita del mondo ellenico, anche nel caso che la duplice guerra romano-cartaginese non si fosse mai svolta. Data la piega presa dagli eventi, gli oneri militari impo­ sti ai contadini romani ed alleati da quella guerra - e specialmente dalla sua seconda fase - determinarono la progressiva scomparsa dell'econo­ nùa fondata sull'agricoltura di sussistenza nell'Italia peninsulare, nel cor­ so delle due generazioni successive all'unificazione politica della peni­ sola entro la Federazione romana. Questa fu la dimostrazione pratica che le basi economiche della Federazione erano troppo fragili per reggere il peso della sua sovrastruttura politica, tenuto conto che la situazione geo­ grafica non consentiva ad un'Italia ormai politicamente unificata di te­ nersi fuori dall 'arena internazionale in cui gli Stati del mondo ellenico conducevano la loro politica di potenza. Roma era economicamente impreparata a un'espansione che aveva trasformato la città-stato originaria in una Federazione comprendente l'intera penisola ed era ancora piu impreparata a un'ulteriore espansione oltre i confini dell'Italia peninsulare - evoluzione che si rivelò inevita­ bile, non appena essa ebbe toccato quelle frontiere « naturali» che, ben lungi dall'isolare la penisola, finirono col favorirne in modo eccezionale le relazioni col mondo circostante. Quanto Roma fosse impreparata, sul piano economico, a sostenere gli oneri politici e militari che si era accol­ lata, appare evidente da un confronto fra la sua storia e quella di Ch'in, lo Stato che conquistò e unificò il mondo cinese nel periodo 230-22 1

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a. C.; questo decennio, decisivo per la storia della Cina, coincise con la tregua fra le due fasi della duplice guerra romano-cartaginese del 2642 0 1 a. C. Sia l'unificazione del mondo cinese ad opera di Ch'in, sia quella del mondo ellenico ad opera di Roma avvennero a coronamento di una lunga serie di durissime guerre; ma Ch'in, diversamente da Roma, pose la propria candidatura al ruolo di potenza di rango mondiale soltanto quando ebbe la preparazione necessaria, cosi in campo economico come sotto altri aspetti. Le basi economiche delle decisive vittorie militari ri­ portate da Ch'in negli anni 230-22 1 a. C. erano state create sin dagli anni 384-3 3 8 a. C. Il principe Hien e il suo figliolo e successore principe Hiao, che sedettero in quegli anni sul trono di Ch'in, avevano incaricato un dotto della scuola legista, Shang Yang, di ristrutturare il loro Stato facen­ done uno strumento adatto ad una guerra a oltranza; l'innovazione piu radicale introdotta dal principe di Shang era stata una riforma del regime di proprietà fondiaria e dei metodi per lo sfruttamento del suolo. Anche l'economia agraria della Federazione romana fini col subire trasforma­ zioni analoghe e di pari importanza; ma queste non furono studiate e at­ tuate per tempo, in base a lungimiranti e precisi calcoli politici. Esse furono provocate da eventi catastrofici, che colsero il governo romano alla sprovvista e finirono quindi per forzargli la mano; quando il potere politico si decise finalmente ad agire, la situazione era ormai sfuggita a ogni controllo. Il governo romano si mosse soltanto sotto la spinta di forze economiche e sociali rivoluzionarie, che esso stesso aveva scatenato con la sua negligenza, la sua cecità, il suo conservatorismo e la sua gretta ostinazione a proteggere ristretti interessi di classe. Questo fallimento nella conduzione politica di Roma condannò sia la Federazione romana che l'intero mondo ellenico a un secolo di rivolgimenti politici e di guerre civili; alla fine, il ritorno della pace e dell'ordine fu pagato con l'instau­ razione di una dittatura universale.

III. DEBOLEZZE AMMINIS TRATIVE E POLITICHE.

I.

Le conseguenze amministrative dell'espansione territoriale dello Stato romano.

La principale debolezza amministrativa della Federazione romana consisteva nel fatto che, per governare un paese vasto e popoloso com'era

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nel 266 a. C. l'Italia peninsulare, Roma faceva ancora assegnamento su un'istituzione tradizionale, la città-stato, sorta in origine per ammini­ strare territori e popolazioni di dimensioni assai piu ridotte '. Prima che fossero inventati gli odierni mezzi meccanici di comunica­ zione - telegrafo, telefono, radio, treno, automobile, aereo e via dicen­ do - il problema di amministrare come un insieme unitario un paese delle dimensioni della penisola presentava difficoltà gravissime. Alla soluzione di questo problema i Romani diedero però uno straordinario contributo tecnico: al progressivo ampliamento delle loro conquiste e delle loro al­ leanze essi fecero seguire il graduale allargamento di una rete di arterie che dalla città di Roma si irradiavano in tutte le direzioni. Nel 266 a. C. questa rete era ancora in via di costruzione. Sin dal 3 1 2-3 1 1 ( 3 1 1-3 I 0 3 1 0-309 o 3 1 0-309) a. C. Roma era collegata a Capua, la seconda città in ordine di grandezza dell'Ager Romanus e dell'intera Federazione, da due strade, la via Appia e la via Latina \ che divergevano appena fuori di Roma per convergere nuovamente al di qua del ponte sul Volturno, a Casilino. È improbabile che la via Appia fosse già stata prolungata da Capua a Taranto e di là a Brindisi, il porto d'imbarco per la Grecia e il Levante, che sarebbe poi divenuto il suo punto terminale; d'altra parte è certo che Roma non era ancora collegata a Rimini, la fortezza situata sulla costa adriatica, alla frontiera nord-occidentale della Federazione, poiché sappiamo che la costruzione della via Flaminia ebbe inizio soltan­ to nel 220 a. C. Ciò nonostante, nel 266 a. C. il sistema stradale romano aveva ormai compiuto progressi tali da far prevedere con sicurezza che prima o poi il governo di Roma avrebbe potuto e voluto completarlo. La costruzione di una rete viaria di queste dimensioni andava ben al di là delle tradizionali competenze del governo di una città-stato e al governo romano sono stati giustamente tributati grandi elogi per avere intrapreso questa politica, nuova e lungimirante, allo scopo di soddisfare le nuove esigenze amministrative di una Federazione in pieno sviluppo. Purtroppo questa fu l'unica innovazione radicale compiuta dal governo romano in una situazione che ne avrebbe richieste parecchie altre. Nel 266 a. C., anno in cui fu completata l'incorporazione della peni­ sola nella Federazione romana, ognuna delle altre quattro grandi potenze coeve della regione mediterranea aveva ormai integrato la tradizionale struttura di città-stato, tipica degli Stati ellenici, con istituzioni ad essa estranee. In tre di queste potenze - la Macedonia, l'Asia seleucidica e l'Egitto tolemaico - il capo dello Stato era un monarca ereditario che era in grado di passare rapidamente all'azione e di perseguire una data politica con continuità e coerenza. L'unica delle quattro che fosse una repubblica, come Roma, era Cartagine. Tre potenze - l'Asia seleucidica,

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l'Egitto tolemaico e Cartagine - avevano affiancato alla propria milizia cittadina eserciti di soldati di professione, reclutati fra mercenari stra­ nieri o sudditi sprovvisti della cittadinanza. I cleruchi tolemaici e i ka­ toikoi seleucidici erano soldati semiprofessionali e Cartagine aveva :finito col valersi quasi unicamente di truppe mercenarie; i suoi cittadini non venivano richiamati come soldati semplici delle forze regolari se non in casi di grave emergenza. L'unica delle quattro potenze che continuasse, come Roma, a mandare in campo un esercito di cittadini era la Macedo­ nia, ma anch'essa, diversamente da Roma, aveva rinforzato le proprie truppe di cittadini con un piccolo contingente di mercenari stranieri. Si è già osservato, inoltre, che Cartagine, l'Egitto e la Monarchia se­ leucidica avevano trasformato le basi della propria economia agricola, passando da un'agricoltura di sussistenza a un'agricoltura di mercato, la cui manodopera era costituita da contadini di condizione semiservile, da schiavi o da servi della gleba. I contadini soggetti a tributo che abitavano nella fascia esterna dei domini cartaginesi nell'Africa nord-occidentale 3 venivano regolarmente arruolati nell'esercito, mentre i contadini di con­ dizione semiservile dell'Egitto tolemaico e i servi della gleba dell'Impero seleucidico erano, a quanto sembra, esenti dal servizio militare ( nulla prova che le truppe indigene impegnate da entrambe le parti nella bat­ taglia di Rafia, nel 2 1 7 a. C., non fossero formate da volontari) . Inoltre gli schiavi delle piantagioni nella zona interna dell'Africa nord-occiden­ tale soggetta a Cartagine 4 erano certamente esenti dal servizio militare - come del resto era regola generale per gli schiavi ' (gli ottomila schiavi e forzati arruolati nell'esercito romano dopo la battaglia di Canne erano volontari) . L'Egitto tolemaico impiegava non solo soldati, m a anche funzionari civili di professione; questo era però un caso unico fra le grandi potenze del bacino mediterraneo. Nel mondo ellenico del 266 a. C., dunque, nella tradizionale strut­ tura amministrativa ed economica della città-stato greca erano state in­ trodotte quattro innovazioni : la monarchia, un corpo di funzionari ci­ vili di professione, un esercito professionale ed un'economia agricola di mercato, basata almeno in parte su una manodopera che era esente dalla corvè del servizio militare e che perciò era ininterrottamente alle dipendenze del datore di lavoro per fornire le sue prestazioni professio­ nali di natura economica. Roma non aveva adottato nessuna di queste quattro innovazioni per contribuire all'edificazione e al consolidamento della Federazione dell'Italia peninsulare. Nel 266 a. C., l'unico strumen­ to amministrativo di cui essa si serviva era ancora la città-stato. Conti­ nuando a seguire questa politica conservatrice, Roma faceva gravare

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sulla città-stato un onere amministrativo piu pesante di quello che tale istituzione era in grado di reggere senza danni. La caratteristica precipua della città-stato era la partecipazione di­ retta di tutti i cittadini maschi adulti di condizione libera agli affari pub­ blici, compresi il governo e la guerra. Da ciò discendevano quattro corol­ lari. Uno era che le campagne militari in cui il cittadino-soldato era te­ nuto a prestare servizio non dovevano svolgersi cosi lontano né protrarsi cosi a lungo da impedirgli di guadagnare il pane per sé e per la sua fami­ glia, e di contribuire nello stesso tempo alla ricchezza nazionale, colti­ vando fruttuosamente la sua parcella di terreno agricolo. Egli doveva poter prestare annualmente la sua opera di soldato durante un periodo di inattività dell'anno agricolo, nel corso del quale gli era possibile allon­ tanarsi dai campi senza recare gravi danni all'economia familiare e na­ zionale. Il secondo corollario era che gli abitati rurali piu remoti dove­ vano essere tanto vicini alla piazza del mercato, in città, da permettere ai cittadini del contado di recarsi nel centro urbano, a piedi o a dorso di mulo, per concludere i loro affari e rincasare prima del tramonto. Il terzo corollario era che il numero complessivo dei cittadini non dove­ va essere tanto alto da impedire ad un'assemblea generale, riunita al­ l'aperto, di occuparsi in modo conveniente degli affari pubblici. Il quar­ to corollario era che le magistrature non dovevano costituire un'occu­ pazione professionale a tempo pieno, ma dovevano essere ricoperte in continuazione dallo stesso titolare soltanto per un breve periodo - un anno al massimo; lo scopo era quello di dare ad una percentuale quanto piu alta possibile di cittadini l'opportunità di alternarsi nell'ufficio e inol­ tre di evitare che l'onere delle cariche pubbliche non remunerate, o remu­ nerate in misura inadeguata, divenisse insostenibile per i cittadini che non vivevano di rendita. Ciò vuoi dire che i titolari delle cariche dove­ vano essere dei politici non di professione. Questi erano indubbiamente principi ideali, cui nessuna città-stato realmente esistita si attenne mai completamente . Nei territori di alcune di esse i villaggi piu remoti distavano dalla città piu di otto o dieci miglia [12,8 o 1 6 km], vale a dire piu della distanza massima che avrebbe con­ sentito ai cittadini delle zone rurali di trattare i loro affari nel capoluogo senza essere costretti a trascorrere nemmeno una notte lontano da casa. In queste città-stato circondate da territori piu estesi l'assemblea gene­ rale dei cittadini costituiva probabilmente un affare molto complicato. D'altro canto in qualunque città-stato, grande o piccola che fosse, poteva accadere che il politeuma ( vale a dire quella parte della popolazione che esercitava l'effettivo potere politico) non includesse tutti i cittadini ma­ schi adulti di condizione libera che abitavano nel territorio, ma soltanto

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una minoranza ricca o nobile, come accadde de facto nello Stato romano dal principio alla fine. Ciò nonostante, la grande maggioranza delle città­ stato del mondo ellenico si attenne, piu o meno strettamente, alle con­ dizioni sopra indicate. Fino al 266 a. C., Siracusa, Sparta e Atene erano le uniche città-stato che avessero condotto prolungate campagne militari o navali a grande distanza dalle basi della madrepatria. Siracusa aveva risolto il proble­ ma allo stesso modo di Cartagine, cioè assoldando mercenari; Sparta e Atene avevano continuato a valersi di cittadini-soldati o cittadini-mari­ nai, sollevandoli però dalla necessità, normale per un cittadino, di gua­ dagnarsi la vita svolgendo attività private. I cittadini-soldati spartani vivevano dei prodotti del lavoro agricolo condotto dai loro servi della gleba, mentre i cittadini-marinai ateniesi vivevano dei tributi imposti ad altre città-stato - nominalmente alleate, ma in realtà suddite di Ate­ ne - finché essa le tenne sotto controllo con la sua flotta. Altre città­ stato, fra cui le comunità della Laconia satelliti di Sparta (perioeci), ar­ ruolavano nei propri eserciti cittadini che dedicavano al servizio militare i periodi di inattività 6• Pochissime erano poi le città-stato elleniche nel cui territorio il piu remoto villaggio abitato da cittadini del contado distasse piu di dieci mi· glia [16 km] dalla piazza del mercato. Su centinaia di città-stato elleni­ che, forse soltanto Sparta, Eraclea Pontica, Siracusa, Agrigento, Atene e Roma avevano territori piu estesi; in quelli di Sparta ed Eraclea la popo­ lazione rurale era composta non di cittadini ma di servi della gleba e a Sparta la maggioranza dei cittadini maschi adulti era mobilitata in per· manenza nella città stessa. A Siracusa, Agrigento e Atene, poi, il citta­ dino della piu remota località di campagna poteva recarsi a piedi dalla propria casa alla capitale nello spazio di una giornata 7 e poteva quindi prendere parte attiva all 'amministrazione della cosa pubblica passando fuori di casa una notte, o al massimo due. Ai primordi della storia romana, un cittadino del contado che avesse avuto qualche affare da sbrigare a Roma non avrebbe dovuto star fuori di casa nemmeno per una notte; l'area originaria dell'Ager Romanus, che in tempi storici veniva ancora rievocata nella festa degli Ambarva­ lia, rientrava ampiamente nei limiti ideali. In origine la frontiera distava dalla città soltanto cinque miglia romane lungo la via Campana, sulla riva destra del Tevere e, sulla riva sinistra, soltanto sei miglia verso sud lungo la via Laurentina, sei miglia verso sud-est lungo il percorso che sarebbe stato seguito dalla via Latina, e meno di tre miglia verso nord, in direzione di Antemne. Il diametro medio di questo nucleo pri­ mitivo dell'Ager Romanus era quindi di circa r 3 chilometri, o forse 13

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meno 8• La sua superficie era già notevolmente aumentata all'epoca in cui la storia di Roma comincia ad assumere lineamenti piu precisi, verso la fine del v secolo a. C.; l'Ager Romanus si estendeva allora verso sud­ ovest fino ad Ostia, alla foce del Tevere, verso est fino a Collazia, a circa I 7 chilometri di distanza, e verso sud-est per circa 25 chilometri, sino ad includere il lago e i colli Albani. A quell'epoca Roma aveva già incor­ porato tutto il territorio che era appartenuto ad Alba Longa 9 • Anche al­ lora al piu sperduto cittadino della città-stato romana sarebbe bastato trascorrere una sola notte fuori di casa per poter partecipare alle assem­ blee nazionali nell'Urbe; ma non avrebbe avuto la necessità di assentarsi piu a lungo nemmeno dopo le successive annessioni e colonizzazioni dei territori di Fidene, Crustumerio e Veio, tra la fine del v e il principio del rv secolo a. C. Le città-stato fenicie non dovettero mai affrontare i problemi di tem­ po e di spazio peculiari di Roma, anzi neppure quelli propri di Atene. Esse sorgevano generalmente su piccole isole al largo delle coste o su penisole e in certi casi - ad esempio nell'isoletta sicula di Mozia - il ter­ ritorio che si estendeva fuori delle mura cittadine era talmente esiguo da non poter ospitare neanche un cimitero 10• Come a Sparta, cosi a Tiro o ad Arado - ma qui per una ragione differente - l'intera cittadinanza vi­ veva e lavorava a un tiro di schioppo dalla piazza del mercato. Quanto al numero complessivo dei cittadini, le uniche città-stato gre­ che in cui esso fosse tanto elevato da creare dei problemi erano Atene, Siracusa e Agrigento. In tutte le altre, compresa Sparta, tale numero ri­ spondeva alla condizione enunciata da Aristotele ", secondo cui esso non doveva essere tanto alto da impedire ai cittadini di conoscersi tutti per­ sonalmente o ad « un annunciatore privo di altoparlante» 12 di farsi udire dall'intera assemblea. Probabilmente, la cifra minima indicata da Pla­ tone, mille cittadini atti alle armi '\ non era molto inferiore alla reale cifra media delle città greche, mentre quella di cinquemila quaranta cit­ tadini atti alle armi, da lui definita ottimale ", non la superava forse di molto. Nella loro maggioranza, le città-stato del mondo ellenico erano e re­ stavano comunità agricole; in comunità di questo tipo gli affari pubblici non erano né cosi imponenti né cosi intricati da non poter essere trattati in modo soddisfacente da magistrati non professionali, che rimanevano ininterrottamente in carica per un periodo massimo di dodici mesi. Gli affari pubblici diventavano una faccenda piu complicata nelle comunità a economia prevalentemente commerciale e industriale; ciò creava un problema amministrativo, che diventava particolarmente grave là dove

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piti elevato era il numero dei cittadini. Ad Atene la costituzione adottata nel 507 a. C. diede a questo problema una soluzione parziale, con l'isti­ tuzione di un consiglio (boulé) di cinquecento cittadini, preposto alle questioni di interesse generale. I suoi membri erano designati a sorte secondo un sistema rappresentativo, in base al quale il numero dei con­ siglieri assegnati a ogni circoscrizione amministrativa dell'Attica era pro­ porzionale alla frazione dell'intera comunità civica che si riteneva fosse rappresentata dai cittadini legalmente domiciliati in tale circoscrizione. Gli affari di Stato erano sottoposti all'esame preventivo di tale consiglio, che li presentava poi all'assemblea generale u. Al pari dei magistrati della città, i membri del consiglio ateniese preposto alle questioni di interesse generale non rimanevano in carica piti di dodici mesi per volta. A Roma, dove la tradizione politica non era democratica, ma oligar­ chica, il Senato non veniva reclutato mediante sorteggio fra tutti i citta­ dini, ma per cooptazione degli alti magistrati che uscivano di carica e la cui elezione da parte dell'assemblea era stata assicurata dagli alti magi­ strati dell'anno precedente. Una volta nominati, i senatori romani rima­ nevano in carica a vita, a meno che non fossero espulsi per flagrante inde­ gnità da uno dei due membri della commissione di censura, in carica per cinque anni. Tuttavia le espulsioni erano rare; quindi, sia per il sistema di reclutamento che per la durata della carica, il Senato romano e il con­ siglio ateniese dei Cinquecento erano agli antipodi 16• Essi avevano però in comune il fatto di essere entrambi degli organi di governo potenti ed efficienti, con un numero di membri relativamente ristretto; inoltre, en­ trambi provano chiaramente che, laddove il numero dei cittadini supe­ rava la cifra massima indicata da Aristotele e l'amministrazione degli af­ fari pubblici diventava un problema complesso, l'assemblea generale non aveva altra scelta che cedere gran parte del suo potere ad un organo di governo assai piti ristretto. Questa era la struttura normale della città-stato ellenica e proprio la città-stato fu l'istituzione di cui Roma si valse per edificare una Fede­ razione su di un territorio il cui raggio - prendendo come centro il Foro Romano - era ben piti lungo di dieci o anche venti miglia [ r 6 o 3 2 km]. Nel 266 a. C. la Federazione romana copriva ormai l'intera superficie della penisola italiana; tenuto conto di questo enorme aumento in ter­ mini di superficie e di popolazione, occorre riconoscere che gli artefici della Federazione romana avevano dato prova di grande abilità nell'edi­ ficare, con materiali che erano praticamente soltanto quelli della città­ stato, t'm'entità statale tanto piti grande delle maggiori create sino ad allora intorno ad un nucleo di città-stato. La struttura della Federazione romana, cosi come si presentava nel 266 a. C., è stata presa in esame nel

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terzo capitolo e in questa sede basterà quindi riassumerne brevemente le caratteristiche principali. Quasi quattro quinti della penisola 11 e dai cinque settimi ai due terzi della sua popolazione complessiva 11 appartenevano a Stati non compresi entro le frontiere dell'Ager Romanus, i quali, sebbene giuridicamente sovrani, si erano impegnati, mediante accordi senza limiti di tempo, a non mantenere rapporti con nessun altro Stato che non fosse quello ro­ mano e a fornire a Roma - quando il suo governo ne avesse fatto richie­ sta - contingenti per l'esercito o squadre navali, oppure gli uni e le altre insieme. In linea di principio non c'era nulla di nuovo in que:sto settore della struttura della Federazione romana; tutte le egemonie instaurate fino ad allora nel mondo ellenico - ad opera di Sparta, di Siracusa, di Ate­ ne, di Tebe o della Macedonia - si erano sempre fondate su di un sistema di alleanze fra la potenza in posizione dominante e un certo numero di comunità subalterne. L'unica novità 19, e si trattava di una novità di rilie­ vo, era che Roma aveva costellato i territori dei suoi alleati ordinari di colonie latine che non erano né normali alleati né facevano parte dello Stato romano. I loro rapporti con Roma erano quelli del cane da pastore col pastore e i loro rapporti con gli alleati ordinari di Roma erano quelli del cane da pastore con le pecore ll>. Il secondo tratto peculiare della strut­ tura della Federazione romana era l'espansione senza precedenti del­ l' Ager Romanus. Nel 266 a. C. questo era talmente piu esteso del terri­ torio di qualunque altra città-stato contemporanea che la differenza aveva finito col diventare non puramente quantitativa, ma qualitativa. Secondo Beloch la sua superficie era allora quasi dieci volte, e secondo Afzelius quasi undici volte quella dell'Attica 2\ che pure, come si è detto, era uno dei cinque territori piu vasti - escluso l'Ager Romanus - appartenenti a città-stato del mondo ellenico 22• L'Attica aveva un'area tre volte supe­ riore a quella dell'Ager Romanus che il regime repubblicano aveva ere­ ditato dalla monarchia 23• Con l'annessione dei territori tolti agli alleati nel 3 3 8 (33.5 o 334) a. C., l'Ager Romanus aveva raggiunto un'esten­ sione ben piu che doppia di quella dell'Attica; ciò nonostante, nella Ro­ ma di quell'epoca le magistrature annuali, comprese quelle del contro­ Stato plebeo, erano ancora non piu di trentuno, secondo i calcoli di De Sanctis e Pareti 24 • De Sanctis fa osservare che ad Atene, nello stesso perio­ do, tale cifra era notevolmente piu alta. La terza caratteristica principale era la struttura amministrativa in­ terna dell'Ager Romanus. Nella speranza di ridurre le difficoltà ammini­ strative derivanti dalla sua crescita smisurata, esso era stato suddiviso, per rendere possibili le autononùe locali, in entità non piu grandi, o an­ che piu piccole, di una normale città-stato. Le tribu rustiche romane 25 e

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le colonie di difesa costiera 26 erano minuscole comunità locali di cittadini romani di pieno diritto, dotate di autonomia amministrativa, anche se i loro organi di governo erano probabilmente rudimentali. I municipi i cui abitanti possedevano la piena cittadinanza erano vere e proprie città­ stato ad amministrazione autonoma e tali erano anche, con autonomie locali forse ancora piu estese, gli altri municipi i cui abitanti avevano ri­ cevuto soltanto la limitata civitas sine suffragio ". Il decentramento po­ litico cosi realizzato liberava i magistrati della città-stato romana dal­ l'onere diretto dell'amministrazione locale nella maggior parte dell'or­ mai vastissimo Ager Romanus 28 • Sfuggivano a questa regola generale le popolazioni di certe regioni . montuose - i Sabini nord-orientali, i Vestini sud-occidentali, i Pretuzi e i Picenti - la cui evoluzione politica e amministrativa, all'epoca in cui quei territori erano stati annessi all'Ager Romanus e i loro abitanti erano diventati cives sine suffragio, non era ancora pervenuta allo stadio della città-stato. In queste particolari regioni, l'amministrazione locale era per lo piu affidata a prefetti annuali, che erano nominati e ricevevano ordini dal governo romano; essi colmavano un vuoto amministrativo che si po­ teva presumere fosse temporaneo, poiché fra i loro compiti rientrava senza dubbio quello di iniziare le popolazioni soggette, arretrate dal pun­ to di vista dell'organizzazione politica, al sistema romano di autogoverno locale e nazionale, modellato sui principi della città-stato 29• Anche alcuni municipi dotati di piena cittadinanza e già pervenuti, nella loro evolu­ zione politica, allo stadio di città-stato, erano amministrati da prefetti 30 , il cui mandato copriva probabilmente un periodo ancora piu breve. Altri prefetti avevano una ragion d'essere principalmente politica e non am­ ministrativa: essi venivano mandati a sostituire gli antichi magistrati in­ digeni nelle comunità che Roma aveva privato della loro personalità giu­ ridica, a titolo di provvedimento punitivo o di misura precauzionale. Il prefetto romano di Anagni deve aver avuto compiti di questo tipo e di questa portata dopo che tale comunità fu privata della sua personalità giuridica nel 3 o 6 ( 306-305 o 305) a. C. 31• Ma il trattamento inflitto ad Anagni fu certamente eccezionale e queste condizioni non dovettero re­ stare in vigore a lungo; a quanto ci consta, fu soltanto dopo la capitola­ zione ( 2 u a. C.) di Capua e delle altre città campane ribellatesi nel 2 16 a. C. che Roma istituf dei prefetti - il consiglio dei praefecti Capuam Cu­ mas - destinati a sostituire in permanenza le antiche autorità municipali indigene delle comunità campane ribelli, ora assoggettate e disciolte, e a controllare le autorità municipali indigene in quelle che erano rimaste fe­ deli a Roma n. I cittadini di queste comunità, ben lungi dall'ignorare l'arte dell'au-

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togoverno secondo i principi della città-stato, la conoscevano meglio e le erano attaccati piu di quanto non avrebbe gradito il governo romano ... Si trattava di comunità sulla cui fedeltà Roma sentiva di non poter con­ tare se un giorno si fosse presentata loro una seconda occasione di ricon­ quistare l'antica indipendenza. Ma nel 266 a. C. nessun avvenimento catastrofico aveva ancora costretto Roma a riconoscere il fallimento del suo tentativo di mantenere i Campani nella condizione di municipes sine suffragio; d'altronde, a meno che sulla Federazione Romana non si fos­ sero abbattute nel prossimo futuro crisi o calamità impreviste, era vero­ simile supporre che anche queste comunità particolarmente indocili, membri a titolo parziale dell'organismo politico romano, si sarebbero gradualmente adattate al regime politico loro imposto da Roma. Il go­ verno romano poteva quindi prendere in considerazione la prospettiva di fare a meno un giorno di tutte le cariche prefettizie; allora l'intera Fe­ derazione, sia dentro che fuori dei confini dell'Ager Romanus, sarebbe stata in grado di amministrarsi secondo un sistema di autonomie locali, senza che il governo centrale di Roma fosse piu costretto ad assumersi responsabilità amministrative al di là della prima pietra miliare delle stra­ de che si irradiavano dalla capitale. L'Italia peninsulare sarebbe stata in­ teramente coperta da un mosaico di città-stato e di comunità minori au­ tonome, appartenenti alle due principali categorie politiche: distretti tri­ bali, fora, colonie romane e municipi, da un lato, e Stati esteri sovrani, latini e non, alleati di Roma, dall'altro. Edificando una Federazione peninsulare con materiali che erano uni­ camente quelli della città-stato, Roma realizzò una notevole impresa 34• Si trattò tuttavia di un tour de force e «ci fu bisogno ... di adattamenti di istituti volti dal loro fine primitivo a fini diversi» 3' ; i risultati furono ta­ lora diversi da quelli previsti 36, e l'edificio venne quindi sottoposto a ten­ sioni e sforzi continui, che potevano rivelarsi pericolosi se la sua strut­ tura avesse affrontato prove particolarmente severe - e i governanti di Roma non potevano essere sicuri di riuscire ad evitare questo rischio, dal momento che la penisola era geograficamente parte integrante del mondo mediterraneo e le sue coste, ben lungi dal costituire delle « fron­ tiere naturali», erano ottimi «conduttori », nel senso che questa parola assume nel linguaggio dell'elettrotecnica 37• Le debolezze che accusava la struttura della Federazione romana si possono ben valutare se usiamo come punti di riferimento le istituzioni estranee alla città-stato, che i suoi artefici non avevano incluso fra i ma­ teriali di costruzione da essi impiegati. Una grave debolezza era la mancanza di funzionari civili di professio­ ne. Il buon funzionamento del meccanismo federale dipendeva infatti da

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un efficiente servizio di redazione, conservazione e consultazione dei do­ cumenti . I documenti non parlano da sé, ma unicamente per bocca degli archivisti, e costoro non debbono soltanto saperli usare, ma anche esser sempre disponibili quando se ne ha bisogno; essi devono essere, in effet­ ti, specialisti in servizio permanente e le loro mansioni non potrebbero essere svolte da un corpo di funzionari non professionali e in servizio temporaneo. Non bastava eleggere due censori una volta ogni cinque anni e !asciarli in carica per diciotto mesi, anziché fino al termine nor­ male di un anno 38• Come poteva di fatto il governo romano compilare, tenere aggiornati e consultare in continuazione i suoi registri di censo? Come potevano le amministrazioni delle comunità dotate di autonomia locale, dentro e fuori dell'Ager Romanus, svolgere l'analogo lavoro nei rispettivi ambiti locali? Il censimento romano, nonché i censimenti locali dei municipi roma­ ni e delle comunità alleate, latine e non latine, avevano un'importanza capitale nel meccanismo amministrativo della Federazione 39: su questi si fondavano il servizio militare, la tassazione e i diritti politici; ma, al tem­ po stesso, un censimento non era un affare di poco conto. Non occorreva soltanto registrare i cittadini, ma anche accertarne i redditi e classificarli; l'accertamento e la classificazione determinavano i loro obblighi finan­ ziari e militari e, per coloro che possedevano la piena cittadinanza, il di­ ritto di voto. Sappiamo che, anche in situazioni difficili, la censura roma­ na funzionò con risultati piu o meno soddisfacenti fin dopo l'improvvisa ed enorme crescita numerica dei cittadini romani sopravvenuta con la guerra di secessione del 9o-89 a. C. Una crisi avrebbe avuto effetti para­ lizzanti, e di fatto li ebbe quando infine si verificò. La forza dimostrata da Roma nell'arena internazionale, durante e dopo la duplice guerra con Cartagine, è una prova indiretta del fatto che la censura adempi piu o meno bene i propri compiti durante il periodo precedente alla seconda guerra di secessione. È difficile credere che l'ufficio non si avvalesse co­ stantemente di un corpo di impiegati subalterni in servizio permanente; i governi sulle cui attività siamo meglio informati hanno finito con l'uti­ lizzare di norma questi funzionari, che svolgevano il loro lavoro nell'om­ bra, per mantenere in moto la macchina amministrativa. È possibile che il pubblico non conoscesse i loro nomi o non ne sospettasse nemmeno l'esistenza; ma ciò non significava che i loro servigi non fossero indispen­ sabili. In realtà conosciamo il nome di un funzionario civile subalterno in servizio permanente, Cn. Flavio, che lavorava presso l'ufficio degli edili ; egli ha lasciato traccia di sé perché venne eletto edile curule per il 304 (304-303 o 303) a. C., a dispetto del pregiudizio aristocratico nei

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confronti di un candidato che, oltre ad essere un semplice impiegato, era :figlio di un liberto 40 • Oltre che di funzionari in servizio permanente nell'ufficio dei censori e in quello degli edili, c'era sicuramente bisogno di altri impiegati ci­ vili, dello stesso grado e anch'essi in servizio permanente, per registra­ re le assegnazioni di terreni a favore dei coloni nei distretti che forma­ vano il nucleo delle tribu supplementari, nelle colonie romane di difesa costiera e nelle colonie latine - nuovi territori che erano ricavati dal­ l'ager publicus Populi Romani. Ci sarà stato anche bisogno di agrimen­ sori che tracciassero le perticae delle colonie e le assegnazioni viritane, sia dentro che fuori dei distretti che formavano il nucleo delle tribu sup­ plementari. A queste necessità si provvide adeguatamente nell'età del Principato. Il governo imperiale romano disponeva di un corpo perma­ nente di agrimensori e di archivisti catastali di carriera. A quell'epoca, la pianta (forma, typus, aes) di ogni nuova pertica tracciata era incisa in doppia copia su due tavolette di bronzo; l'originale veniva inviato agli archivi imperiali, mentre la copia era custodita dalle pubbliche autorità della nuova colonia 41• Nell'età repubblicana, invece, non esistevano isti­ tuzioni governative per l'addestramento degli agrimensori e l'esecuzione dei rilievi topogra:fici 41• Sia che, nel 2 66 a. C., il governo romano avesse alle proprie dipen­ denze un corpo stabile di impiegati, sia che non lo avesse, è sicuro che esso non disponeva di una classe di funzionari superiori in servizio per­ manente corrispondenti a quelli che, all'altra estremità dell'ecumene, stavano allora portando lo Stato di Ch'in alla realizzazione di un obietti­ vo che era anche l'obiettivo di Roma: unificare politicamente una ba­ bele di Stati sempre in lotta fra loro. L'impresa :finale realizzata da Ch'in, l'eliminazione di tutti gli altri Stati dalla scena politica cinese nel periodo 230-2 2 1 a. C., sul piano amministrativo era stata preceduta - negli anni fra il 361 e il 3 3 8 a. C. - dalla liquidazione del preesistente regime feu­ dale e dalla sua sostituzione con un'amministrazione civile di professio­ ne o. La nobiltà romana al potere era ancora saldamente in sella all'epo­ ca in cui fu portata a termine l'unificazione dell'Italia peninsulare en­ tro la Federazione romana; in questa situazione del tutto nuova essa riusciva a stento a cavarsela senza un'amministrazione civile in servizio permanente e senza un esercito professionale. Ma ormai si era vicini al limite di quanto era possibile fare con magistrati elettivi in carica per un breve periodo e con cittadini-soldati in servizio temporaneo. Lo stadio in cui l'onere del servizio militare annuale cominciò a diventare eccessi­ vamente gravoso per il cittadino romano dev'essere stato raggiunto nel 343 (340 o 339) a . C., quando il governo di Roma estese il raggio delle

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proprie operazioni militari fino alla lontana Campania, condannando cosi Roma a entrare in lizza per la conquista dell'egemonia sull'intera peni­ sola italica. I contadini-soldati di Roma e degli Stati alleati, latini e non latini, erano riusciti a stento a prestar servizio in regioni cosi lontane dalle loro case come gli estremi confini dell'Italia peninsulare, senza tra­ scurare eccessivamente la coltivazione dei loro campi. Nel 266 a. C. si poteva ragionevolmente ritenere che l'assoggettamento di tutta la peni­ sola fosse ormai un fatto compiuto; ma anche la milizia cittadina della Federazione non era ormai quasi piu in grado di svolgere il suo compito economico e insieme di assolvere gli accresciuti obblighi militari. Il du­ plice onere imposto alla classe contadina avrebbe finito con l'esaurirne completamente le energie se il raggio d'azione degli eserciti romani non si fosse arrestato alle coste italiane, ma si fosse invece allargato oltre­ mare. Frattanto, l'eccessiva crescita della superficie dell'Ager Romanus già faceva si che un numero sempre piu alto di membri a pieno titolo dello Stato romano godesse solo nominalmente del suffragio ; costoro, in ef­ fetti, stavano virtualmente diventando cives sine suffragio. Nel 266 a . C. l'Ager Romanus si era ormai esteso, in direzione sud-orientale, fino a Capua, al di là dei colli Albani, e in direzione settentrionale al di là di Crustumerio, fino alla costa adriatica; dunque un cittadino di pieno dirit­ to che avesse posseduto casa e terre in una delle parti piu remote di questo vasto territorio avrebbe avuto ben poche possibilità di esercitare in concreto i propri diritti politici +�, a meno che non fosse cosi ricco da affidare il podere a dei braccianti e da mantenere una casa, o comunque un alloggio, a Roma . Un confronto geografico con l'Attica ci permetterà di capire che cosa dobbiamo intendere per « parti piu remote » dell'Ager Romanus nel 266 a. C. Quello della città-stato ateniese era forse il territorio piu vasto al cui interno un cittadino che abitasse anche l'angolo piu remoto potesse prendere parte attiva agli affari pubblici nella capitale. Il punto dell'At­ tica piu lontano da Atene era il capo Sunio, all'estremità della penisola attica ... distante dalla capitale circa quaranta miglia inglesi [6.5 km ca.]. Se applichiamo questa misura attica all'Ager Romanus del 266 a. C., no­ teremo che in almeno due direzioni la quarantesima pietra miliare a par­ tire da Roma era ormai ben lontana dai confini del territorio romano, e ciò anche se calcoliamo in miglia inglesi e non nelle piu brevi miglia romane. In direzione sud-est la quarantesima pietra miliare (sempre in miglia inglesi) della via Appia si sarebbe trovata in un punto appena al di qua di Foroappi . In questa direzione, quindi, l'esercizio effettivo dei diritti

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politici sarebbe stato possibile per i cittadini abitanti nei distretti delle tribu supplementari Scazia e Meda (fondate nel 3 3 2 ( 330-329 o 3 29) a. C.) e della Pontina (fondata nel 358 ( 355 o 354) a. C.). Invece il Foro Romano sarebbe stato praticamente irraggiungibile per i cittadini abitanti il distretto della tribu Ufentina, che era stata fondata nel 3 1 8 ( 3 1 7-3 1 6 o 3 1 6) a . C . fra Terracina e il sito in cui sarebbe poi sorta Fo­ roappi. Se misuriamo le nostre quaranta miglia inglesi sulla via Latina, l'altra arteria diretta a sud-est, osserveremo che la quarantesima pietra miliare si sarebbe trovata immediatamente al di là del Compitum Anag­ niae. Ciò implica che i cittadini romani abitanti nel distretto della Pu­ blilia, fondata nel 358 ( 3 5 5 o 354) a. C., si sarebbero trovati proprio all'estremo margine della zona entro la quale sarebbe stata possibile una partecipazione effettiva agli affari pubblici in Roma "'. Ma che dire dei cittadini che risiedevano nel distretto della Teretina, nella bassa valle del Liri 4\ oppure in quello della Falerna, istituita nel 3 1 8 ( 3 1 7-3 1 6 o 3 1 6) a. C., sulla riva nord-occidentale del basso Volturno? Sia che gli abi­ tanti della Falerna scegliessero la via Latina, sia che optassero per la via Appia, il viaggio verso Roma sarebbe durato tre o quattro giorni senza soste. Se misuriamo ora la distanza in miglia da Roma in direzione nord­ est, lungo l'antica via Salaria, le conclusioni saranno le stesse. Quaranta miglia inglesi ci porterebbero oltre lo spartiacque fra il Tevere e il Tu­ rano, ma non fino a Rieti; nel 266 a. C. l'Ager Romanus si estendeva al di là di Rieti, fino alla costa adriatica. Vent'anni prima i Romani avevano cominciato a mandare coloni nell'alta Sabina e nel paese dei Pretuzi 41; ma, data la distanza che separava da Roma i nuovi domicili di quei coloni e tenuto conto che i suffragi potevano essere espressi solo nella capitale, l'esercizio del diritto di voto sarebbe stato impossibile per tutti, tranne che per una minoranza di benestanti. Nel 266 a. C. c'erano soltanto due direzioni - a nord-ovest, lungo il percorso delle future vie Cassia e Clodia, e ad est, lungo la futura via Valeria - in cui un raggio di quaranta miglia da Roma avrebbe incluso tutti i cittadini romani dotati a quell'epoca del diritto di voto. A nord, i quattro distretti tribali supplementari del territorio già appartenuto a Veio erano tutti facilmente raggiungibili da Roma, mentre ad est il di­ stretto dell' Aniense, fondata nel 299 a. C., rientrava esattamente nel rag­ gio di quaranta miglia. Se il cittadino aveva piu di diciassette e meno di quarantacinque o quarantasei anni 49, uno dei suoi doveri civici gli imponeva di presentarsi ogni primavera a Roma, in vista della possibilità di essere chiamato alle armi per la campagna militare di quell'anno "'; ma il recarsi a Roma in

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altre stagioni, per votare nelle riunioni dell'una o dell'altra assemblea nazionale, sarebbe stato un lusso che i cittadini di reddito medio o basso avrebbero potuto permettersi solo raramente ".

2 . Conseguenze politiche interne dell'espansione territoriale dello

Stato romano.

L'espansione dell'Ager Romanus e il conseguente insediamento di una percentuale sempre piu alta di cittadini in località sempre piu di­ stanti da Roma - l'unico luogo dove essi potessero votare, in base alla costituzione della città-stato romana - finirono quindi per ostacolare lo sviluppo della detnQcrazia effettiva e per favorire invece l'afferma­ zione di un vero e proprio regime oligarchico ' . La nobiltà romana se ne rese conto e ne approfittò per alterare a proprio vantaggio la geografia amministrativa dell'immenso Ager Romanus : sulla carta amministra­ tiva che fu il risultato delle manovre patrizie, le tribu erano ormai di­ ventate «disuguali quanto alle dimensioni e quanto al valore del voto dei singoli; inoltre, essendo divise in parecchi settori staccati, manca­ vano per la maggior parte di coesione geografica » 2 • Quali erano gli scopi di coloro che fissarono i confini delle circoscrizioni e si resero responsabili di questa strana distribuzione degli elettori romani? Coloro che delimitavano le circoscrizioni erano gli uomini che dominavano la politica romana; uomini di famiglie senatorie, e specialmente di stirpe no­ biliare, i quali, per stringere quei patti d'amicizia che a Roma facevano le veci dei partiti politici ', dovevano poter esprimere il voto delle proprie tribu • . L'interesse della nobiltà a conquistare e conservare il controllo sulle tribu si rafforzava di pari passo con la crescita dell'importanza po­ litica delle assemblee tribali come corpi elettorali e legislativi 5 • In par­ ticolare, la nobiltà si sforzò di affermare la propria supremazia nelle nuove tribu 6 o nei nuovi distretti delle antiche tribu, la cui distanza da Roma era tale da porre la maggioranza piu povera dei loro membri in condizioni di svantaggio rispetto alla minoranza piu abbiente, quando si trattava di fare effettivo uso del proprio suffragio. A questo scopo, la nobiltà trovò un appiglio in alcune norme della costituzione romana. Il cittadino romano aveva facoltà di cambiare tribu a patto di acquista­ re dei fondi o di fissare il proprio domicilio nella tribu in cui deside­ rava essere trasferito 7 • l figli adottivi erano liberi di scegliere la tribu dei propri avi o quella del padre adottivo '. Rami diversi di grandi gen­ tes potevano quindi ottenere di essere registrati in tribu diverse 9 , al­ largando cosi la sfera d'influenza politica della gens. La brama di sfrut-

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tare ogni occasione per accrescere il proprio potere politico costituisce, 10, secondo la Taylor « la spiegazione del trasferimento in nuove tribu di membri della nobiltà patrizia e dell'antica nobiltà plebea, che rice­ vevano assegnazioni di terre insieme alla plebe nelle regioni conqui­ state ». « Fra coloro che votavano nelle nuove tribu vi erano . . . cittadini appartenenti a diversi rami dell'aristocrazia patrizia e dell'antica no­ 11• biltà plebea, che fruivano indubbiamente delle assegnazioni di terre» Nel periodo coperto dalle superstiti testimonianze letterarie ed epigra­ fiche, nemmeno un senatore appartenente a una delle gentes eponime era membro della tribu che portava il nome della sua gens 12 ; eppure è provato che in origine i Claudii, i Romilii, i Fabii e gli Orazii appartene­ vano effettivamente alle tribu che avevano preso nome da loro u . Al­ l'inizio del periodo per il quale ci sono pervenuti dei documenti, queste gentes eponime erano comunque già disseminate in un gran numero di tribu che non erano loro omonime ••. « La registrazione indica un cam­ biamento di tribu fatto allo scopo di acquisire il controllo di un altro distretto » ..,, È significativo il fatto che nelle tribu Camilia e Lemonia si incontrino alcune potenti famiglie nobili, sebbene nessun Camillo e nes­ sun Lemonio figurino nei Fasti ••. Gentes nobili si trovano inoltre in tribu supplementari, che furono istituite soltanto dopo che tali gentes erano pervenute a posizioni di predominio 17, L'iscrizione di questi patrizi in tribu rustiche di tarda istituzione è indice [secondo la Taylor] di assegnazioni di terre fatte a loro favore, probabilmente all'epoca dell'istituzione delle tribu. Gli uomini che avevano cambiato tribu dovevano averlo fatto con l'intento di imporre la propria supremazia nei nuovi distretti e dovevano aver parenti e clienti su cui fare affidamento per conser­ vare il potere che già possedevano nelle proprie tribu 11•

È degno di nota il fatto che quando le gentes nobili cambiavano tri­

bu, esse passavano nella maggior parte dei casi da tribu antiche a tribu di nuova istituzione. La Taylor avanza l'ipotesi •• che tali cambiamenti siano avvenuti per lo piu negli anni 3 87 ( 3 84-379 ca.) - 2 4 1 a. C., in un arco di tempo durante il quale vennero create quattordici tribu sup­ plementari. Lo scopo delle manovre politiche dei membri della nobiltà e il suc­ cesso che le coronò dovettero allora apparire evidenti alla maggioran­ za dei loro concittadini, che non condividevano i privilegi dei nobili, anche se, al pari di questi, giuridicamente godevano dei pieni diritti po­ litici. Chi è avvezzo al sistema di governo rappresentativo vigente in Stati nazionali delle dimensioni dell'Italia, della Francia o della Gran Bretagna ( per non parlare degli Stati Uniti o dell'India) si chiederà pro-

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a.

C.

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babilmente come mai gli elettori romani delle regioni piu sperdute non reagirono a tale situazione, insistendo perché fosse loro concesso di vo­ tare nelle elezioni nazionali - come facevano in quelle locali, se erano municipes o cittadini di colonie di difesa costiera - presso un seggio elet­ torale situato entro i confini dei rispettivi distretti; anzi, come mai, se erano elettori non municipali, essi non cercarono di ottenere il permesso di presentarsi, ai fini del servizio militare, alle autorità locali - come face­ vano probabilmente i loro concittadini dei municipi e come facevano si­ curamente i loro compagni d'arme alleati, latini e non latini - invece di essere obbligati a presentarsi alle autorità centrali nella lontana Roma. I principi del governo rappresentativo e della rappresentanza propor­ zionale per i cittadini residenti nei vari distretti amministrativi di ogni paese non erano sconosciuti a quell'epoca nel mondo ellenico "'. Da due­ centoquarant'anni tali principi venivano applicati in Attica per reclu­ tare i cinquecento membri del consiglio che sottoponeva all'assemblea nazionale le questioni di pubblico interesse. Di questo abbiamo già par­ lat0 21, aggiungendo inoltre u che nel 2 6 6 a. C. l'Ager Romanus aveva raggiunto un'estensione dieci volte superiore a quella dell'Attica. Nella sua legge per la designazione dei Cinquecento, Clistene, l'artefice della costituzione ateniese del 507 a. C., aveva implicitamente riconosciuto che in una città-stato il cui territorio era tanto superiore alla media quan­ to quello dell'Attica era necessario emanare delle norme sulle rappre­ sentanze locali. Nessuna norma di questo tipo era stata introdotta nella costituzione della città-stato romana per risolvere l'assai piu arduo pro­ blema territoriale che Roma dovette affrontare nel 2 6 6 a. C. In realtà, la costituzione romana si sarebbe prestata assai meglio di quella attica coeva o di quella italiana odierna ad accogliere un disposi­ tivo concernente la registrazione locale dei voti nelle elezioni nazionali. Nelle varie e distinte assemblee nazionali romane che erano allora in fun­ zione '"', l'unità elettorale non era costituita dal singolo elettore ma dai gruppi - tribu o centurie - in cui era suddiviso l'elettorato. Ogni singolo elettore esprimeva il suffragio solo in seno alla sua centuria o alla sua tri­ bu ; quando le assemblee dovevano prendere delle decisioni, non conta­ vano i voti dei singoli, ma i voti collettivi espressi dalle centurie e dalle tribu. L'appartenenza alle tribu veniva stabilita su base locale; ognuna di esse, urbana o rustica che fosse, aveva il proprio distretto in cui, presu­ mibilmente, risiedeva la maggioranza dei suoi membri ordinari 24 ; perciò nei comizi tributi, e piu tardi anche nei comizi centuriati - dopo la rifor­ ma con cui le centurie vennero distribuite fra le trentacinque tribu 25 - sa­ rebbe stato non solo possibile, ma anche facile disporre che gli elettori or­ dinari di ogni gruppo tribale si riunissero e votassero nei luoghi di riu-

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nione (conciliabula) dei propri distretti locali. I municipes con diritto di suffragio iscritti nelle tribu avrebbero potuto votare nei rispettivi centri municipali; ciò sarebbe stato tanto piu facile in quanto, in virtU. di una convenzione parlamentare in uso a Roma, l'unità elettorale - tri­ bu o centuria - che aveva avuto la fortuna di essere chiamata a espri­ mere per prima il suffragio doveva dare l'imbeccata a tutte le altre. Que­ sta consuetudine gregaria avrebbe in pratica consentito di giungere a decisioni di portata nazionale convocando un solo gruppo di elettori. I membri ordinari di questa unica « tribus praerogativa» avrebbero po­ tuto votare presso il conciliabulum della propria tribu; gli elettori dei municipi inclusi in questa particolare tribu avrebbero potuto votare nei rispettivi centri municipali. È probabile che un simile ordinamento avrebbe fornito una soluzio­ ne almeno parziale al problema rappresentato dalla grande dispersione geografica dell'elettorato romano, che era una fra le tante conseguen­ ze dell'enorme espansione dell'Ager Romanus "'. Ma nessun provvedi­ mento del genere fu mai adottato e nemmeno, a quanto ci consta, mai preso in considerazione; persino le campagne elettorali nelle sedi di mercato (nundinae) e nei luoghi di riunione dei distretti tribali ( con­ ciliabula) erano proibite per legge n . La nobiltà al potere non aveva al­ cun bisogno di far propaganda nelle zone piu remote dell'Ager Roma­ nus; qui essa poteva far sentire la sua in.B.uenza, in modo piu efficace, mediante la rete dei rapporti ereditari di patronato e di clientela che fa­ ceva parte dell'arsenale politico di tutte le famiglie dell'aristocrazia roma­ na 21• I nobili avevano saggiamente previsto che, a lungo andare, i cittadi­ ni emigrati nei distretti tribali supplementari, difficilmente raggiungibili dall'Urbe, avrebbero finito con l'indignarsi per l'impossibilità di usare il suffragio a tutela dei propri effettivi interessi; costoro avrebbero per­ ciò offerto un promettente campo d'azione a politici ambiziosi, estranei alla cerchia nobiliare, che avessero voluto aprirsi un varco nella sua ri­ serva politica organizzando nelle regioni periferiche dell'Ager Roma­ nus un combattivo partito di elettori di campagna, trascurati e dimen­ ticati 29 • Se ai novi homines fosse stata lasciata ancora piena libertà di per­ correre le regioni fuori mano in cerca di sostegno elettorale, le loro pos­ sibilità di conquistare voti non sarebbero state limitate a una singola tribu o ad un remoto territorio annesso a una singola tribu. Anche se una lontana regione del grande Ager Romanus fosse stata suddivisa in varie parti, assegnate a differenti tribu, essa avrebbe potuto essere ugual­ mente unita da un senso di solidarietà regionale: la « vicinitas » era

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« efficace quasi quanto l'appartenenza a una stessa tribu per ottenere ap­ poggi elettorali» lO. Tale senso di solidarietà sarebbe nato dalla comune consapevolezza del grave svantaggio costituito per tutti dalla distanza che separava la regione da Roma, e avrebbe potuto essere rafforzato dal ricordo di un'epoca trascorsa, in cui l'intera regione aveva fatto parte di uno Stato che non era quello romano. Un esempio calzante potrebbe venire dalla regione appartenuta un tempo ai Sanniti e in seguito spezzettata nelle prefetture romane di Ati­ na, Cassino, Venafro e Alife. Il tema conduttore della ciceroniana Pro Plancio è la forza di questo senso di solidarietà regionale in certe zone periferiche, come la prefettura di Atina o l'attigua regione natale di Ci­ cerone, nel territorio volsco sud-orientale. Gli Atinati e gli Arpinati fre­ mono d'orgoglio quando uno di loro viene eletto ad una magistratura romana, e ciò contrasta con la reazione dei Tuscolani, che non si scom­ pongono affatto se uno di loro guadagna allori politici a Roma 31• Omnia quae dico de Plancia, dico expertus in nobis; sumus enim finitimi Atinatibus. Laudanda est vel etiam amanda vicinitas retinens veterem illum officii morem non infuscata malivolentia, non adsueta mendaciis, non fucosa, non fallax, non erudita artificio simulationis vel suburbano vel etiam urbano. Nemo Arpinas non Plancia studuit, nemo Soranus, nemo Casinas, nemo Aqui­ nas. Tractus ille celeberrimus Venafranus, Allifanus, tota denique ea nostra ita aspera et montuosa et fidelis et simplex et fautrix suorum regio se huius honore ornari, se augeri dignitate arbitrabatur, isdemque nunc ex municipiis adsunt equites Romani publice cum legatione et testimonio, nec minore nunc sunt sol­ licirudine quam rum erant studio 32• [Tutto ciò che dico di Plancia, lo dico per esperienza personale, dato che noi di Arpino siamo confinanti con gli Atinati; e bisogna elogiare e addirittura amare i vicini che conservano la bella e antica consuetudine di aiutarsi, che non sono guastati dalla malevolenza né finti né avvezzi alla menzogna né ingan­ natori né esperti nell'arte della simulazione, sia quella propri a dei sobborghi che anche di Roma stessa. Non c'è abitante di Arpino né di Sora né di Cassino né d'Aquino che non abbia appoggiato Plancia. La zona popolatissima di Ve­ nafro e Alife e l'intera nostra regione, aspra e montuosa ma fidata e schietta e sostenitrice dei suoi abitanti, ritenevano un onore, un aumento di prestigio per loro l'elezione di Plancia, e dei cavalieri romani appartenenti agli stessi municipi sono adesso venuti qui in missione ufficiale per deporre in suo favore, non meno preoccupati attualmente di quanto allora fossero pieni di zelo per lui].

Ma questo punto debole nelle difese del monopolio patrizio del potere politico fu fortificato mediante le leggi contro l'ambitus 33; cosi, gli affari pubblici dello Stato romano continuarono ad essere condotti co­ me se Roma, al pari delle sue vicine e alleate Tivoli , Preneste e Ardea, fosse ancora una città-stato non solo di nome ma anche di fatto. Si ri­ teneva ancora che il Foro Romano e il Campo Marzio si trovassero a

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poche ore di cammino dal domicilio di ogni cittadino romano dotato dei pieni diritti; finché si continuarono a convocare le assemblee nazionali romane, gli unici luoghi di riunione legalmente validi erano ancora si­ tuati dentro o immediatamente fuori del Pomerio. Per l'Ardea, la Pre­ neste o la Tivoli di allora aveva ancora un senso che la condotta degli affari pubblici fosse accentrata nella città; i loro territori erano rimasti notevolmente piu limitati di quanto non fosse l'Ager Romanus, anche prima della sua grande espansione avvenuta nel periodo fra il 3 3 8 ( 3 3 .5 o 3 3 4 ) e il 2 6 6 a . C. Ma l'accentramento non aveva piu senso a Roma, ora che l'Ager Romanus si estendeva dall'uno all'altro mare; eppure do­ vevano passare ancora 334 anni prima che dei militari di carriera ro­ mani scoprissero infine che un monarca poteva essere posto sul trono di Roma in seguito ad un pronunciamento militare in qualche città se­ de di guarnigione - in Spagna, in Germania o in Giudea 34•

3 . L'interesse dell'oligarchia romana a conservare la forma di città­ stato propria dell'organismo politico romano. Frattanto, gli interessi politici della nobiltà romana erano ottima­ mente assecondati da un organismo politico la cui espansione aveva rag­ giunto, ma non ancora superato, i limiti massimi di superficie e di po­ polazione che la forma costituzionale della città-stato consentiva di am­ ministrare ' . In una città-stato di dimensioni normali, la nobiltà romana non sarebbe forse stata in grado di instaurare e conservare tanto facil­ mente la propria supremazia. Se, d'altra parte, l'organismo politico ro­ mano avesse continuato ad espandersi fino al crollo della forma di città­ stato su cui si fondava, ciò avrebbe comportato la rovina politica della nobiltà. In quel caso, infatti, i Romani si sarebbero visti costretti a chi­ nare il capo di fronte al governo di un autocrate, sostenuto da un corpo di funzionari civili di professione: una forma di governo rivoluzionaria in cui non vi sarebbe piu stato posto per una oligarchia, a meno che l'au­ tocrate non decidesse, per motivi di opportunità, di lasciare agli antichi padroni dello Stato romano un residuo o una parvenza del perduto po­ tere. Naturalmente, alla fine doveva accade�e proprio questo. La nobiltà romana non riusd infine a conservare la propria egemonia perché non riusci ad arrestare l'espansione territoriale dello Stato; tuttavia, essa diede prova di sagacia politica prevedendo quell'eventualità e comin­ ciando a preoccuparsene quasi un quarto di millennio prima che essa si traducesse in un'ineluttabile realtà. Le apprensioni della nobiltà a que­ sto riguardo spiegano la sua ostinata, quantunque vana opposizione, du-

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rante e dopo l'anno 290 a. C., al progetto di M'. Curio Dentato, che pre­ vedeva l'insediamento su vasta scala di cittadini romani di pieno diritto nelle lontane regioni montuose dei Sabini e dei Pretuzi. Quelle stesse apprensioni spiegano anche la sua successiva opposizione, altrettanto cocciuta e altrettanto vana, al progetto avanzato da C. Flaminio mezzo secolo piu tardi, dopo la fine della prima guerra romano-cartaginese, che prevedeva vasti insediamenti in regioni ancora piu distanti: l'Ager Gal­ licus et Picenus '. È stata avanzata l'ipotesi che, in entrambi i casi, la nobiltà agisse in base a motivazioni economiche. Si è osservato che qualunque territorio annesso e poi espropriato come ager publicus Populi Romani sarebbe ri­ masto disponibile per l'occupatio, a meno che e fintantoché non fosse stato ripartito in lotti, assegnati a coloni in regime di piena proprietà. Sarebbe stata la nobiltà, in seno al popolo romano, il gruppo che avreb­ be potuto trarre il massimo profitto dal comune diritto all'occupatio dell'ager publicus non ancora assegnato, in quanto essa avrebbe avuto a disposizione i capitali, il bestiame e la manodopera necessari per un in­ tenso sfruttamento delle terre occupate. La maggioranza non abbiente del popolo romano sarebbe invece stata la principale beneficiaria di una distribuzione di lotti di terra su vasta scala. Tutto ciò è vero, ma non se ne può dedurre che siano state queste le considerazioni che hanno spinto la nobiltà ad avversare i progetti di Curio e di Flaminio; esistono, anzi, altri elementi che rendono improbabile tale ipotesi. Prima dell'inizio del III secolo a. C. vi era già un limite consuetudi­ nario, se non legale, alla superficie di ager publicus che poteva essere occupata da singoli cittadini, nobili o non nobili ' ; nel m secolo a. C. esso era probabilmente assai inferiore ai famosi 5 0 0 iugeri che costi­ tuivano il limite massimo decretato nel 1 3 3 a. C., quando Tiberio Grac­ co fece approvare le sue leggi '. Ma nell'Italia del m secolo a. C. esisteva anche un limite d'ordine economico - e doveva trattarsi di un limite ri­ stretto - alla superficie di terreno che un individuo poteva effettivamente coltivare. Sarebbe anacronistico parlare, per quest'epoca, di schiavi-pa­ stori e schiavi impiegati nelle piantagioni, in quanto essi furono intro­ dotti in Italia soltanto dopo la guerra annibalica '. In ogni caso, i monti della Sabina erano economicamente poco invitanti, a causa della loro superficie prevalentemente rocciosa e delle paludi che ricoprivano l'uni­ ca zona potenzialmente fertile, vale a dire la valle del Velino, mentre la catena principale degli Appennini isolava da Roma il paese dei Pretuzi, il Piceno e l'Ager Gallicus, territori tutti economicamente arretrati • . A disposizione degli aspiranti occupatores c'erano terreni piu allettanti e piu vicini a Roma ' - come l'Ager Veientanus, una regione pianeggian-

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te il cui suolo era composto di fertili ceneri vulcaniche. Soltanto una parte di questa vasta distesa di ager publicus era stata suddivisa nei lotti che erano stati raggruppati in quattro tribu supplementari, nel 387 ( 3 84-379 ca.) a. C. '. Nel 200 a. C., entro il raggio di cinquanta miglia da Roma, l'ager publicus non assegnato era ancora tanto esteso da con­ sentire al governo romano di rimborsare in terre, anziché in denaro, la rata arretrata di un terzo del debito pubblico contratto durante la guerra annibalica • . Tuttavia, anche dopo di ciò, in quella regione rimanevano ancora tratti di ager publicus, che furono distribuiti nel 46 a. C. ai vete­ rani di Cesare 10• Questi fatti rendono improbabile l'ipotesi che la no­ biltà romana fosse affamata di terre negli anni ottanta o negli anni trenta del III secolo a. C. n . Inoltre il governo romano, che era nelle mani della nobiltà, aveva sempre dato prova di magnanimità, rinunciando all'ager publicus per assegnarlo ai coloni, sin da quando Roma si era ripresa dalla crisi tren­ tennale succeduta all'invasione gallica 12 • Non meno di otto nuove tribu supplementari erano state istituite nel corso dei cinquantasette o cin­ quantotto anni che vanno dal 3 5 8 ( 355 o 3 54) al 299 a. C. incluso; seb­ bene dopo di allora il governo si mostrasse poco propenso a creare altre tribu supplementari e riuscisse a rimandare di altri cinquantotto anni l'istituzione delle ultime due, esso continuò con immutato zelo ad asse­ gnare lotti di terra ai coloni romani nelle nuove colonie latine u i cui ter­ ritori erano stati ricavati dall'ager publicus dello Stato romano. Dieci o undici di queste colonie furono fondate nell'Italia peninsulare duran­ te il periodo 298-24 r a. C. u e nel 2 r 8 a. C. altre due furono create in una regione ancora piu lontana : si trattava di Piacenza e Cremona, si­ tuate nella valle padana, in una regione, dunque, in cui nessun campione delle classi indigenti aveva ancora mai pensato di proporre distribuzioni di lotti a cittadini coloni. La spiegazione di questi fatti appare evidente. Nel III secolo a. C. la nobiltà non lesinava terre pubbliche ai concittadini meno abbienti, anzi aveva la saggezza politica di riconoscere che era suo dovere soddisfare almeno le esigenze economiche fondamentali della maggioranza indi­ gente, se voleva che questa maggioranza le consentisse senza discutere di continuare a esercitare un virtuale monopolio del potere politico u. Nel perseguire questa linea di condotta, la nobiltà non agiva ovviamente per motivi altruistici, ma teneva conto dei suoi interessi cosi come essa li vedeva, ed ai suoi occhi gli interessi politici erano sovrani. Come quasi tutti gli esseri umani che non corrono un rischio immediato di morire di fame, la nobiltà romana avrebbe indubbiamente dato alla brama di pote­ re politico la precedenza sul desiderio di benessere economico, se si fosse

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vista costretta ad una simile scelta. Ma, per i nobili romani, potere e ric­ chezza non erano alternative che si escludessero a vicenda: essi sapevano con certezza che finché avessero conservato il potere politico non avreb­ bero dovuto preoccuparsi della loro ricchezza. Se la nobiltà :6nf col mostrare una certa riluttanza ad assegnare ai cittadini romani di pieno diritto lotti ricavati dall'ager publicus, ciò av­ venne dunque per ragioni politiche e non economiche; lo dimostra il fatto che essa era ancora disposta ad assegnare terre pubbliche agli stessi beneficiari, a condizione però che questi rinunciassero alla cittadinanza romana e accettassero di diventare cittadini di nuove colonie latine. Il ragionamento dei nobili è chiaro. Essi erano interessati a che l'organismo politico romano conservasse la forma di città-stato, perché erano con­ vinti - e per validi motivi - che il crollo di questa struttura avrebbe pro­ vocato la fine della loro egemonia. Essi intuivano che la città-stato ro­ mana avrebbe rischiato di andare in rovina se si fosse estesa fino a ren­ dere palesemente impossibile alla maggioranza dei cittadini l'esercizio effettivo del diritto di voto; da ciò deriva la loro opposizione all'insedia­ mento di cittadini-coloni romani in regioni sempre piu remote e alla creazione di un numero sempre piu alto di lontane tribu supplementari destinate ad accoglierli. Ma tali obiezioni non si applicavano all'iscri­ zione di ex cittadini romani in un qualsiasi numero di nuove colonie la­ tine situate ad una qualsiasi distanza da Roma, in quanto la colonia lati­ na, a differenza della tribu, non era parte integrante della struttura della città-stato romana; essa era una città-stato autonoma e a sé stante e i suoi vincoli con Roma, se erano e dovevano rimanere stretti e indissolu­ bili, rivestivano la forma dell'« alleanza esterna» fra due città-stato, una di secondaria e l'altra di primaria importanza. La fondazione di nuove colonie latine non sarebbe diventata una minaccia alla sopravvivenza delle città-stato o della Federazione romana, a meno che e finché il No­ men Latinum, preso nel suo complesso, non fosse diventato preponde­ rante per superficie e popolazione rispetto all'Ager Romanus; ma nel III secolo a. C. nulla faceva presagire l'insorgere di una cosi pericolosa si­ tuazione. Queste considerazioni politiche offrono una spiegazione adeguata della linea politica adottata dalla nobiltà. La maggioranza del Populus Romanus, non avendo nessuna supremazia politica da perdere, non con­ divideva le preoccupazioni della nobiltà riguardo alla sopravvivenza del­ Ia forma di città-stato nell'organismo politico romano, forma di governo in cui la nobiltà vedeva a ragione il proprio palladio. Impegnata com'era a procacciarsi delle terre per uscire dall'indigenza, la maggioranza del popolo non rifuggiva dalla prospettiva di deformare la struttura di città-

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stato fino al punto di rottura 16• A lungo andare, la pressione della mag­ gioranza costrinse i nobili a cedere; essi si trovarono allora nell'impos­ sibilità di impedire lo sfrenato aumento del numero dei cittadini romani e della superficie su cui erano distribuiti, e dovettero accettare non sol­ tanto la distribuzione di terre a cittadini romani ( dapprima sui monti della Sabina, poi sulla costa adriatica e infine, dopo la guerra annibalica, nella valle padana) , ma anche, al tempo stesso, la progressiva estensione del suffragio ai municipi che ne erano ancora privi ". L'effetto combinato di queste due inevitabili concessioni fu per la nobiltà romana il prin­ cipio della fine. Dopo il 24 r a. C. essa riusd sf ad impedire una volta per tutte la creazione di nuove tribu supplementari, ma in cambio fu co­ stretta ad accrescere la superficie della maggior parte delle tribu esisten­ ti, aggregandovi enclaves staccate. Tenuto conto degli scopi politici del­ la nobiltà, non c'era molto da scegliere fra l'uno o l'altro espediente: entrambi andavano contro la conservazione, nell'organismo politico ro­ mano, della struttura di città-stato. In queste condizioni, il massimo che la nobiltà romana potesse fare per salvare i propri interessi politici consisteva nell'estendere la sua su­ premazia politica all'interno delle nuove tribu, o nei nuovi distretti delle antiche tribu, la cui istituzione non era riuscita ad impedire •• . g degno di nota il fatto che le tribu i cui nomi ricorrono piu spesso nei senatus con­ sulta e nei consilia sono la Quirina e la Teretina ''. Entrambe erano tribu supplementari, entrambe erano situate ad una distanza relativamente grande da Roma, e alla istituzione della Quirina la nobiltà si era opposta per quasi mezzo secolo, poiché a suo giudizio la distanza da Roma della sua futura sede era veramente eccessiva. Quando i nobili compresero che la loro opposizione era vana, si rassegnarono a un pis aller che, dal loro punto di vista, era la soluzione migliore subito dopo quella di un ostru­ zionismo vittorioso: essi si impadronirono della Quirina, facendone una loro roccaforte.

4· La formazione della classe di governo romana e la conseguente

vanificazione della democrazia.

Nel frattempo, intorno al 266 a. C., il divario fra l'indiscriminato accentramento della vita pubblica romana e la grande dispersione terri­ toriale del suo elettorato stava già vanificando il processo di liberalizza­ zione che la costituzione romana aveva subito nel corso dei cent'anni precedenti.

Le debolezze della Federazione romana nel 266 a. C.

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Tra la fine del vr e l'inizio del v secolo a. C., una rivoluzione politica aveva abolito la monarchia ( tranne per le sue funzioni rituali) e l'aveva sostituita con l'egemonia di una ristretta aristocrazia ereditaria; a ciò era seguito un conflitto fra l'aristocrazia ormai detentrice del potere e la massa dei cittadini romani, il cui numero stava crescendo in misura sia assoluta che relativa e la cui posizione politica ed economica era pro­ babilmente peggiorata in seguito all'avvento di un regime aristocratico in luogo di quello monarchico. È lecito supporre che il diritto dei plebei di votare nelle assemblee nazionali fosse un'eredità del regime monarchico e non un dono del re­ gime aristocratico che lo aveva sostituito; si può inoltre avanzare l'ipo­ tesi che, prima della rivoluzione repubblicana, i plebei godessero anche di altri vantaggi 1• Ma già sotto la monarchia, indubbiamente, la classe patrizia si trovava in posizione di privilegio; se cosi non fosse stato, le sarebbe riuscito ben difficile soppiantare la monarchia, come effettiva­ mente fece. È tuttavia significativo il fatto che il nome di famiglia di quattro - e forse cinque - dei tradizionali otto re di Roma siano nomi plebei 2• Anche il famoso Spurio Cassio porta un nome plebeo, che non è del resto l'unico che compare nei Fasti romani in una data anteriore al 366 ( 3 63 o 3 62) a. C. La rivoluzione che sostituf alla monarchia l'oligarchia patrizia, a tutto svantaggio della plebe, non fu probabilmente un evento improvviso che si possa far risalire a un determinato anno. In base a ra­ gioni archeologiche, Bloch pensa 3 che si sia trattato di un processo gra­ duale, cominciato forse nel 509 ( 506-5 0 1 ca.) a. C. ma terminato sol­ tanto intorno al 47 5 (472-467 ca.) a. C. ' Nel primo quarto del v seco­ lo a. C. era ancora possibile che un plebeo conquistasse il potere a Ro­ ma, ma era altresf probabile che egli non riuscisse a conservare la posi­ zione raggiunta. In realtà, la storia tradizionale della carriera di Spurio Cassio, cosi com'è tramandata, trova un contesto plausibile nel periodo di transizione che Bloch ha delineato in base alla documentazione archeo­ logica '. L'indebolimento e infìne la scomparsa della monarchia romana e il peggioramento delle condizioni della plebe dovettero essere in effet­ ti eventi contemporanei e interdipendenti. In ciò Roma seguiva la stra­ da percorsa in quello stesso periodo da altri Stati etruschi o sotto l'in­ fluenza etrusca; ma almeno in gran parte degli Stati etruschi non sembra che in seguito si sia verificata, come a Roma, un'efficace reazione plebea. La gradualità del passaggio dalla monarchia all'oligarchia aristocrati­ ca in Roma è attestata dalla sopravvivenza della funzione regale nella sfe­ ra sacrale, con la carica del rex sacrificulus, e dalla sopravvivenza dei ter-

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Capitolo quinto

mini « regia», per designare un importante edificio pubblico, e