Io lo chiamo cinematografo 8804613696, 9788804613695

"Il cinema, allora, era una grande famiglia, è vero. C'era un rapporto di comprensione, anche di affetto. Poi

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Io lo chiamo cinematografo
 8804613696, 9788804613695

Table of contents :
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Io lo chiamo cinematografo
Primo tempo
Via Montecalvario
«E adesso facciamo il cinematografo!»
I rattoppi alle camicie rosse
Aveva ragione Visconti
Il «taglio» di Amleto
Secondo tempo
Fronte dell’orto
Una Topolino gialla
I giorni di Amburgo
«Ma io sono la figlia di Francesco Rosi!»
«Salvatore Giuliano» non si deve fare
Movimento di partiti
Terzo tempo
«Buongiorno professore!»
«Tu sei comunista e non lo sai»
Le ostriche di Orson Welles
Una depressione intelligente
Un altro paese
Le fotografie di mio padre
13 e 15 novembre
«Sta’ attento alle gambe»
Fidel e Fellini
«Ma qua non si spara più?»
La verità e la rivoluzione
I momenti belli della vita
Quarto tempo
And the winner is...
Maestro
Una lezione di sceneggiatura
«Ti metti contro il partito?»
I miei armadi
Il cinematografo è una malattia
Qualcosa che ti illumina l’esistenza
Ma, comunque, andiamo avanti
Fuori programma
INSERTO FOTOGRAFICO
Copyright

Citation preview

Il libro

«I

L

CINEMA,

ALLORA,

ERA

UNA

GRANDE

famiglia, è vero. C’era un rapporto di comprensione, anche di affetto. Poi ci sentivamo tutti parte di una

grande avventura, far rivivere sullo schermo la vita. Il nostro è un mestiere particolare. Se lo fai con passione non te ne puoi liberare. Ti rimane dentro, non c’è niente da fare.» ¶ Proprio di «grande avventura» è il caso di parlare a proposito di Francesco Rosi, classe 1922, maestro indiscusso del cinema italiano che ha deciso di raccontare la propria vita e i segreti del suo mestiere a un altro straordinario regista, il suo amico Giuseppe Tornatore. ¶ È in famiglia, nella Napoli degli anni Trenta, «legata a doppio filo con il suo mare», che tutto comincia: papà Sebastiano, appassionato di cinematografo, lo riprende con la sua Pathé Baby a passo ridotto e gli scatta magnifici fotoritratti, ispirandosi anche a Jackie Coogan, il celebre protagonista del Monello di Charlie Chaplin. Poi ci sono zio Pasqualino, «capoclaque» nei teatri di rivista, e zia Margherita, che oltre a somigliare a Ginger Rogers, lo accompagna ogni giovedì al cinema, dove il piccolo Francesco scopre la magia dei primi film muti. ¶ Nell’immediato dopoguerra Rosi si trasferisce a Roma dove, insieme a una spiccata passione per il teatro e per la letteratura, porta con sé lo stupore per quelle sagome di ombre e luci che si agitano su uno schermo bianco. E capisce che il cinema diventerà il suo mestiere. Allievo e aiuto regista di Luchino Visconti, esordisce dietro la macchina da presa nel 1958 con La sfida, ma è con capolavori come Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei e Lucky Luciano che conquista un posto di assoluto rilievo nel panorama del cinema internazionale, fino a essere riconosciuto il caposcuola di un’estetica della realtà che mai, prima di lui, aveva raggiunto vette di così vivida e concreta espressività.

¶ Puntiglioso nell’approfondire il contesto storico-documentario che doveva fare da ossatura narrativa ai propri film, attento alle evoluzioni del costume e alle oscure ambiguità della politica, Rosi ha lavorato accanto ai migliori talenti espressi dalla cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo, qui tratteggiati in pagine felici e importanti: intellettuali, critici, giornalisti come Ennio Flaiano, Sergio Amidei, Raffaele La Capria, registi come Rossellini e Fellini, attori del calibro di Gian Maria Volonté e Sophia Loren. ¶ In questo libro-intervista che è insieme autobiografia e saggio critico, Rosi ci svela una miniera di informazioni e aneddoti che riguardano i suoi film e la sua straordinaria carriera di regista, senza lasciare «fuori campo» gli aspetti più intimi e privati di una vita intensa e coraggiosa, trascorsa accanto all’amatissima moglie Giancarla. ¶ Grazie al confronto con Tornatore, alle sue domande sempre curiose e penetranti, Io lo chiamo cinematografo è anche l’appassionato ed entusiasmante racconto di mezzo secolo di cinema italiano.

L’autore

Francesco Rosi (Napoli, 1922), regista e sceneggiatore, ha girato più di venti film. Nel 1963 ha vinto il Leone d’oro con Le mani sulla città. Il 31 agosto 2012, alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera.

Giuseppe Tornatore (Bagheria, 1956) è uno dei più affermati registi italiani. Tra i suoi film più famosi, Una pura formalità, La leggenda del pianista sull’oceano, Nuovo Cinema Paradiso (Oscar come miglior film straniero nel 1990) e Baarìa .

Francesco Rosi

IO LO CHIAMO CINEMATOGRAFO conversazione con Giuseppe Tornatore

L’Editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari dei diritti iconografici senza riuscire a reperirli: è ovviamente a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorra nei loro confronti. Le foto che compaiono nell’inserto iconografico fanno parte di: Collezione Museo Nazionale del Cinema, Torino.

Io lo chiamo cinematografo

A Giancarla

PRIMO TEMPO

Via Montecalvario

Tutto cominciò, forse, con una fotografia. Fu mio padre a scattarla. S’ispirò a Jackie Coogan, il protagonista di quel grande film di Charlie Chaplin che è Il monello (The Kid, 1921). Voglio mostrartela. Ecco, guardala… Fu mio padre a svilupparne il negativo, a stamparla e a colorarla a mano. Sono trascorsi più di ottant’anni. Qualche tempo fa diventò la copertina di un libro dal titolo C’era una volta un bambino. Quel bambino con la coppola sono io, avrò avuto quattro o cinque anni. Non sembro proprio Jackie Coogan? Da un’altra foto fattami mentre dormivo sul seggiolone, mio padre trasse in seguito il manifesto pubblicitario di una purga per ragazzini. «Mentre voi dormite, Kinglax lavora» recitava lo slogan, oppure: «Sogni di felicità». Durante i miei primi film, Gianni Di Venanzo e Pasqualino De Santis, rispettivamente direttore della fotografia e operatore di macchina, si divertivano a chiamarmi «Kinglax». Può darsi che davvero tutto sia cominciato da lì. Mio padre era un appassionato di cinematografo e di fotografia. Era pure un grande disegnatore e un caricaturista per alcuni giornali napoletani. Allora ce n’erano parecchi. «Il Re di danari», il «Monsignor Perrelli», il «Vaco ’e pressa», cioè «vado di fretta», il giornale dei tifosi. Mio padre, tifoso, non lo è mai stato. Lo accompagnavo spesso, a lui piaceva portarmi dietro. Forse già allora voleva riversare su di me la decisione che lui non aveva saputo prendere, cioè abbandonare tutto per il cinematografo o almeno per il disegno. Andavamo in un albergo napoletano, molto famoso all’epoca, l’Hotel de Londres, in Piazza Municipio. Lì c’era la squadra del Napoli, a quel tempo piena di giocatori eccezionali, e tra questi il grande Attila Sallustro, un paraguaiano famosissimo che i napoletani adoravano. Eppure mio padre, appena finiva le caricature, se ne tornava a

casa, dei giocatori non gliene importava granché. La passione per il cinema, quella sì che era forte. Aveva una splendida macchina da proiezione a passo ridotto Pathé Baby. Me ne ricordai anche grazie a te, quando, un giorno di circa vent’anni fa, mi hai regalato quella copia Super 8mm del mio film Lucky Luciano che avevi trovato a Porta Portese. La vidi in mezzo a tutte quelle cianfrusaglie e per istinto la comprai, mi dispiaceva che rimanesse lì. Pensai subito che il destinatario più giusto non potevi che essere tu. Non l’ho mai data a nessuno perché un giorno voglio vedermela tranquillo. Poi sei stato tu a regalarmela, e a questo tengo molto. Mio padre aveva anche una macchinetta da presa col motore a molla Pathé Baby 8mm con perforazione centrale. Se aveva la perforazione centrale erano 9mm e mezzo. Davvero? Sai che ho sempre pensato fossero 8mm? Comunque, tutto era nello sgabuzzino dove lui continuamente trafficava. C’era una lampada, con una luce rossa e una blu, che segnalava quando si poteva entrare nella camera oscura. Io mi mettevo in un angolo. Teneva sempre sul finestrone una coperta che impediva alla luce esterna di filtrare. Un giorno la tirò via e gli cadde tutto addosso. Rimase seduto per terra come in un suo disegno, con la testa che spuntava fuori dal finestrone che incorniciava la sua rassegnazione come in una comica di Buster Keaton. L’infanzia la ricordo bene. Forse proprio perché era già fatta di fotografia e di cinematografo. Naturalmente ero il modello preferito di mio padre. Il mondo di quei tempi si adattava molto a queste passioni, consentiva di fare il cinema tra quattro mura, di sviluppare e stampare in casa le fotografie. Che ricordi hai di quello sgabuzzino, quando andavi ad assistere allo sviluppo dei negativi? Il profumo delle bacinelle di porcellana bianca in cui papà versava il liquido per sviluppare. Poi prendeva le mollette per i panni e stendeva le foto ad asciugare. Attaccava il negativo e sviluppava. Solo episodicamente si serviva dello stampatore.

Ero un bambino, non avevo più di cinque anni, ma tutto ciò mi attraeva. Non sapevo far nulla, ma intanto mio padre mi trasmetteva quella passione. La domenica, poi, mi portava al cinema. Il primo film che ho visto fu al Torretta, credo si chiamasse L’angelo bianco, un film muto, russo se non sbaglio, o comunque russo era l’attore protagonista. E poco dopo Il monello di Chaplin. C’era in sala uno che suonava il pianoforte e dava l’accompagnamento musicale. Lo vidi al cinema Maximum di viale Elena, strada bellissima che corre parallela a via Caracciolo. C’erano aiuole, palme e, a quel tempo, pochissime automobili. Era la pista prediletta dai pattinatori. Era bello davvero. Quando andammo a vedere Il monello, il Maximum era pienissimo, restammo in piedi. Tenevo per mano papà. Frequentavo quella sala cinematografica anche il giovedì, quando i bambini pagavano meno. Ci andavo con una zia, sorella di mia madre, molto somigliante a Ginger Rogers. Abitavamo tutti a viale Elena, noi e mia zia, anche lei sposata e coi figli. Mi fai tornare a un’epoca così diversa. Tuo padre com’era? Si chiamava Sebastiano, nome che già conteneva tutta la carica della sua vocazione al martirio. Era magro, alto, simpatico, intelligente, ma con un limite. Mi spiego: quando a quell’epoca si metteva su famiglia, non si poteva fare più nulla di rischioso, per esempio qualcosa che potesse costare il posto di lavoro. Lui era direttore di un’agenzia marittima privata. Secondo me era un uomo di grandi qualità. Lavorò sempre in quell’agenzia fino a quando ha smesso. Adoravo il lavoro di mio padre, da piccolo amavo andare con lui. Lavorava lì anche mio zio, fratello di mia madre, talmente appassionato di teatro da diventare «capoclaque». Allora, la claque si usava molto, esistevano delle tesserine, colorate come saponette – rosa, celeste, verde – che mio zio distribuiva ai vari claqueur a seconda del posto assegnato. Galleria, platea, loggione. Lui, poi, dirigeva l’applauso, aveva tutta una sua strategia. Anche mamma era appassionata di teatro, a papà piacevano oltre al cinema soprattutto il vaudeville, l’operetta.

Mi spieghi la tecnica dell’applauso? Mio zio assisteva alle prove generali così da memorizzare lo spettacolo. Poi nel corso delle rappresentazioni, al culmine di ogni scena madre, dava l’avvio con il suo applauso e quegli altri, disseminati nei vari posti gli andavano dietro, applaudivano tutti quanti. Non credo fossero retribuiti. La paga era entrare gratis in teatro. Forse beccavano qualche biglietto pure per la famiglia, non so. Torniamo a tuo padre, mi hai parlato di un suo limite. Qual era veramente? Non aver avuto il coraggio di dire: «Io sono un disegnatore bravissimo». Perché era bravo davvero! Non aver avuto il coraggio di dire: «Me ne frego di tutti… Io disegno sui giornali napoletani, ora mi allargo, provo a vivere di questo». Per quella fotografia ispirata a Il monello, vinse un concorso indetto dalla Metro Goldwyn Mayer ottenendo in premio un viaggio a Los Angeles, a Hollywood. Poteva diventare un fotografo di scena nel cinematografo. E magari fare di me un piccolo attore, perché di film con bambini se ne facevano tanti. Non ebbe questo coraggio, né mia madre lo sostenne. A Los Angeles non andò mai. Continuò con le foto e coi disegni sui giornali e principalmente con il lavoro dell’agenzia marittima. Quindi il disegno, la fotografia, il cinema, continuò a viverli come una passione marginale? Sì, una passione da dilettante. Ma poi tutto venne fuori quando io diventai regista. Oltre agli album con le foto di famiglia cominciò a tenere anche quelli in cui incollava accuratamente tutte le recensioni dei miei film e gli articoli che riguardavano il mio lavoro. Veniva a trovarmi quando con la mia troupe mi capitava di fare tappa a Napoli. Mentre giravo Le mani sulla città (1963), ogni tanto lo notavo in un angolo. Scattava fotografie. Forse, un figlio che stava realizzando ciò che lui non aveva voluto fare, o non era riuscito a fare, gli procurava una specie di ricompensa. Un figlio regista, a quell’epoca, faceva sentire importante. Accadde anche al tempo de La sfida (1958), il film del mio

esordio ufficiale. Veniva, guardava e faceva foto che conservo ancora. Quando maneggiava la sua Rolleiflex era tutto felice. Quando hai capito che per assecondare le esigenze della famiglia, tuo padre sacrificava le sue vere passioni? Il dubbio mi è venuto presto. Già quando lo accompagnavo la domenica mattina nei sotterranei della Galleria Umberto I, dove c’era la tipografia che stampava i suoi disegni sul «Vaco ’e pressa». Mi piaceva l’odore dell’inchiostro ma non capivo se mi portava in quello sgabuzzino perché apprendessi qualcosa di quel mondo o solo per una questione di affetto. Tutto è diventato evidente quando si è ritrovato con un figlio che ha avuto la forza di fare quello che a lui non era riuscito. Lui sapeva essere un uomo molto tenero. Accettava di non creare problemi alla moglie con le sue ambizioni di disegnatore, di fotografo, e già questo ne dipinge il carattere di persona sensibile, dedita alla famiglia. Anche molto meridionale, diciamo la verità. Subito dopo la guerra, quando tornai a Napoli dopo che i tedeschi mi avevano preso e poi, per una combinazione fortunata, liberato, vissi un periodo di clandestinità. C’erano gli americani e papà continuava il suo lavoro al porto, ma l’attività era diminuita, non c’erano più i traffici marittimi di un tempo. Così iniziò a fare caricature per gli americani appoggiandosi a un negozio di indumenti per signora di via Chiaia, tenuto da un suo conoscente che si chiamava Squillante. Un po’ come Fellini a Roma, che disegnava caricature in un bar di Piazza Cavour. A volte c’era da tenere a bada qualche soldato americano che non aveva apprezzato la propria caricatura. Si sa, una caricatura deve deformare, ma ogni tanto qualcuno, un po’ ubriaco, se la prendeva: «Io ho il naso così? Ma come ti permetti?». Poteva pure menare le mani, ti rendi conto? Però papà guadagnava bene. Quando tornai a Napoli, lui e mamma non avevano mie notizie da mesi. Mi fecero trovare un secrétaire pieno di pacchetti di sigarette americane. Le comprava mio padre, oppure gliele regalavano i soldati. Sapeva che fumavo e le metteva da parte in attesa del mio ritorno. Allora a Napoli si cominciava pure a fare una colazione abbondante, era una

rivalsa contro le miserie e i dolori provocati dalla guerra. La nostra è stata forse la città più bombardata d’Italia. Per reazione, erano nati nei vicoli tanti posti dove si mangiava o si preparavano dolci meravigliosi. Gli sciù con la crema, le sfogliatelle, tutte cose prelibatissime. Forse per dimenticare la guerra, si faceva colazione con i dolci. Dall’epoca in cui tuo padre ti ritrae in quella posa chapliniana, ai giorni in cui torni dalla guerra e ti fa trovare le sigarette, scorrono anni importanti. Una parentesi lunga una quindicina d’anni. Prima c’è stata la scuola, e lì non ero troppo brillante, diciamo che me la cavavo. Dopo, il mio obiettivo fu il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, e ne parlai a mio padre. Mi disse: «D’accordo, però prima ti devi prendere la laurea». E quindi mi iscrissi a giurisprudenza. Ancora oggi mi mancano nove esami per la laurea. Da qualche parte devo avere il libretto dell’università. Del resto, accettai quella decisione soprattutto per non rompere coi miei genitori ed essere costretto ad abbandonare i miei sogni. Contemporaneamente, infatti, frequentavo il Teatroguf e il Cineguf. I Guf erano i Gruppi universitari fascisti. Io e Maurizio Barendson, che poi divenne un giornalista sportivo bravo e famoso, eravamo appassionatissimi di cinematografo. Riuscimmo un giorno a bruciare una bobina de Il milione (1931) di René Clair! Ti spiego, si facevano delle proiezioni con il proiettore a manovella e volevamo manovrarlo noi. La pellicola allora era infiammabile, bastava rallentare lievemente la corsa del proiettore perché prendesse fuoco. Capisci? Bruciammo una bobina de Il milione. L’avvocato Paolella, un fanatico di cinema e grande critico del muto, voleva uccidersi quando lo scoprì. Eh, mi fai tornare in mente fatti incredibili. Hai detto «i miei sogni». Come era nato il tuo sogno di fare cinema? E quando? Prima dell’università. Eravamo un gruppo di amici. Peppino Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson. Già allora, prima che arrivassero gli americani, eravamo uniti dalla stessa passione, anche per il teatro. Patroni Griffi e

Ghirelli scrivevano con me per la rivista «Atti Unici». Io e Barendson avevamo la mania del cinematografo, ma nemmeno osavo pensare di poterlo fare da professionista, tant’è vero che dissi: «Mi iscrivo al Centro Sperimentale, poi vediamo cosa succede». Diciamo che cominciai a sognarlo davvero a sedici, diciassette anni. Andavo a Piazza San Domenico Maggiore dove c’erano tutte le case di noleggio dei film, ci passavo a volte le giornate in queste stanze e sgabuzzini, dove c’era una moviola e un operatore con la visiera verde che ripassava i rulli di pellicola. Al cinematografo andavo spesso, la mia vita di spettatore era intensa. Dopo quelli di Chaplin, mi avevano colpito i film con Wallace Beery e quelli musicali con Fred Astaire e Ginger Rogers. Eccoli in una vecchia foto. La mia era la vita tipica di una città di allora, una città bella, perché Napoli è sempre stata meravigliosa, legata a doppio filo col suo mare. Al cinematografo ci andavo con mio padre. Come ti ho detto, il giovedì ci andavo invece con mia zia Margherita. E a volte anche con il marito, direttore di banca e quindi coi pomeriggi liberi. Con mia madre solo raramente. Lei amava di più il teatro, soprattutto quello dialettale. Quando sposò mio padre ebbe per compari il poeta Edoardo Nicolardi, grandissimo paroliere, e il poeta e compositore E.A. Mario, l’autore de La leggenda del Piave. La domenica invitava a casa la famiglia Nicolardi e la famiglia Gaeta, che era il vero cognome di E.A. Mario [pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta, NdR]. Andavo al cinema pure con zio Pasqualino, il capoclaque. Con lui ho conosciuto il vaudeville, le riviste, che nel corso della serata abbinavano a un film, usato come farsa finale. Poi, sul finire degli anni Trenta, cominciò l’invasione del cinema americano. Mi piaceva molto anche Eleanor Powell. Ma tieni presente che di Ginger Rogers ero proprio innamorato. Era così bella. L’ho rivista tanti anni dopo, quando già facevo il cinematografo. Era diventata vecchia, vecchissima. Invece cosa mi racconti di tua madre? Si chiamava Amelia. Era una bella donna, molto sensibile. Soffriva di ansie e me le ha trasmesse. Una donna di casa,

come nella commedia di Vitaliano Brancati. Cucinava, aveva una cameriera per i lavori più pesanti, ma la casa la teneva in mano lei. D’estate andavamo in villeggiatura a Capo Posillipo, all’altezza di Giuseppone a Mare. Lì c’è Villa Marino, dove prendevamo in affitto un appartamento con la famiglia di zia Margherita, zio Alberto e i miei cugini. Un’abitudine che è andata avanti per molti anni. La vacanza durava tre mesi e mezzo. Devi sapere che Posillipo è una lunga salita tutta curve, perciò, quando scendevamo, e chi saliva più? Saliva solo mio padre, poveraccio, la mattina per andare al lavoro. Da lì ci si poteva muovere anche con la barca a remi, di quelle comode, da passeggio. Portava a Piazza Vittoria, papà a volte la usava. Pensi davvero che tua madre ti abbia trasmesso delle ansie? Mia madre mi ha contagiato il disgusto per la morte. Quando stava a casa e sentiva il rumore dei cavalli che trainavano carri funebri, buttava subito via il grembiule che aveva indosso e usciva, scappava dalla sorella. L’idea di un funerale la faceva soffrire, lei la rifiutava. Non ne voleva nemmeno sentire parlare. Per molto tempo sono stato così anch’io. Ho scoperto poi che i siciliani, e anche gli spagnoli, sono piuttosto legati alla morte. La corteggiano, la assistono, la vogliono vedere. Per questo volli che Cadaveri eccellenti (1976) iniziasse proprio con la scena in cui il procuratore Varga, interpretato da Charles Vanel, contempla le mummie delle catacombe ai Cappuccini di Palermo come se interrogasse quei teschi sull’enigma della morte che lo attende. Dai tempi dei film con Chaplin, dell’amore per Ginger Rogers, all’epoca in cui dici a tuo padre che vuoi andare al Centro Sperimentale, che è successo? È successo che vennero i film di John Ford. E i gangster con James Cagney, con George Raft, con Edward G. Robinson. Belli da impazzire. Amavo quei film. Mi piaceva il nuovo stile americano. Le differenze con quello nostrano si vedevano. Quel cinema raccontava la realtà americana, e la raccontava con un linguaggio adatto a tutti. Allora i film americani arrivavano da noi con grande ritardo. Dopo tre,

anche cinque anni. Molti li vedemmo solo dopo la guerra. Un giorno ho visto quattro volte di fila La tragedia del Bounty senza muovermi dal cinema. Era la prima versione, quella del 1935 con Clark Gable, Franchot Tone e Charles Laughton. Tutto il pomeriggio in quella sala. Incontrai i miei zii che vennero allo spettacolo serale. Io, invece, stavo là con tre spettacoli di anticipo, capisci? Tanti film mi hanno spinto verso il mestiere del cinema. Anche italiani. Per esempio le opere di Vittorio De Sica, Maddalena… zero in condotta (1940), Teresa Venerdì (1941). E quelle di Alessandro Blasetti. Sì, Blasetti mi piaceva molto. E te l’ho detto, ricordo bene anche i tempi del muto, con il pianista sotto lo schermo, nella buca della musica. Poi arrivò il sonoro. Ma io ero più colpito dalla passione di mio padre, che andava a caccia dei mezzi tecnologici più avanzati di allora. Ho il ricordo di due radio formidabili. Una era un mobile radio, bellissimo, di un legno magnifico. L’altra era una splendida Telefunken verde metallizzato. Quando proiettava i suoi filmati col Pathé Baby, lui cercava una specie di sincrono con la radio Telefunken o con il grammofono. In genere cosa riprendeva? Soprattutto me alla Villa Comunale. Io che andavo col triciclo, poi in bicicletta, oppure ero in casa con amici e parenti. Scene di vita familiare, insomma. Ma realizzava anche immagini di pescatori che tiravano la rete in via Caracciolo. Riprese quasi documentaristiche. Vinse un altro premio, grazie alla foto di una guardia a cavallo, addormentata su una panchina mentre teneva in mano le briglie dell’animale. Credo sia stato questo il mio apprentissage. E pensare che un giorno, con la complicità di mia madre, vendetti il Pathé Baby di papà, comprese molte bobine che contenevano i suoi film. Per fortuna mio fratello ne ha salvati alcuni. E perché mai hai venduto il Pathé Baby? Questa me la devi raccontare. A Napoli c’era un negozio che si chiamava Mondo Medico. Trattava tante curiosità, anche macchine come il nostro Pathé Baby, che io riuscii a vendergli grazie al silenzio di mia madre.

Ovviamente mio padre non ne sapeva nulla. Oggi ne sono pentito, ma avevo bisogno di pagarmi i continui viaggi a Roma e allora dissi a mamma: «Papà non usa più questa roba. Sta lì, abbandonata in un mobile. Vendiamola!». Feci una stronzata, questa è la verità. Avevo quasi diciotto anni e già volevo fare il cinematografo. Solo molto dopo io e mia madre confessammo tutto a papà. Vuoi sapere come reagì? Non pronunciò neanche una parola. Te l’ho detto, così come non amava mettersi in mostra, non sapeva arrabbiarsi troppo e litigare. A me è mancato ciò che tu hai avuto da giovanissimo, la frequentazione col proiezionista del Nuovo Cinema Paradiso. L’avessi frequentato anch’io, sicuramente non l’avrei venduta quella roba. Non ricordo neppure quanto ricavai dalla vendita. Ma ripeto, io andavo spesso a Roma, e mica col treno. Ci andavo con la corriera. Una volta fummo anche fermati e rapinati dai banditi, allora c’erano. Era il periodo che precedeva il servizio militare. Avevo appena preso la maturità classica. L’esame andò bene. Feci direttamente il salto dalla terza liceale, come a quel tempo facevano in molti. I tuoi genitori come si erano conosciuti? Con precisione non te lo so dire. So che tutto era nato dalle rispettive famiglie. Quella di mia madre era una famiglia piuttosto curiosa, interessante da raccontare. Erano nove figli, cinque femmine e quattro maschi. Una famiglia borghese, anche ricca, con mio nonno Emanuele che aveva la passione del gioco. Potevano permettersi le balie, quella di mia madre l’ho conosciuta, si chiamava Nunziatina. Un giorno mio nonno perse tutto al tavolo da gioco e la famiglia si trovò in rovina. Mia nonna Giulia era davvero una donna bellissima, con dei capelli lunghi che intrecciava in un tuppo. Era un bell’uomo pure il nonno. Un dettaglio non secondario, erano cugini di primo grado. Quando lui ebbe sedici anni prese una pistola, uscì sulle scale di casa e gridò: «Se non mi fate sposare mia cugina, io mi uccido!». Hanno dovuto chiedere la dispensa al Vaticano per farli sposare a quell’età. Più tardi lei restò spesso sola. Il marito prendeva case in affitto a Portici, a Sorrento, a Sant’Agnello, lì sistemava moglie, figli e balie, e andava a

Montecarlo o a Sanremo, a giocare. E perdeva. Un giorno c’erano in casa solo donne e bambini ed entrarono i ladri. Uno di questi aveva lavorato in quello stesso appartamento come muratore. Una balia lo riconobbe, gli prese una mano in bocca e non la mollò fino a quando non penetrò con i denti nella carne. Era mia nonna che badava a famiglia e servitù, sotto il grembiule teneva sempre una pistola d’ordinanza dei carabinieri. L’ho vista coi miei occhi. Non ricordo che l’abbia mai adoperata. Di sicuro la usavano i miei zii. A Capodanno uscivano fuori dal balcone di casa e sparavano. Abitavano ormai in un quartiere popolare, Montecalvario, la zona dei Quartieri Spagnoli. C’erano mia nonna, mio nonno quando non giocava, zio Pasqualino, in più zia Maria e zia Bianchina che non erano sposate. Avevano abitudini da borghesia napoletana. A Pasqua si faceva la pastiera, e mia nonna non ammetteva che si facesse solo per la famiglia. Si preparava anche per gli amici, i vicini e i parenti più lontani. Alla fine zia Bianchina ne faceva sette o otto. Zia Maria era invece addetta al caffè. Un compito che svolgeva anche per i fratelli maschi già sposati, che alle due venivano puntualmente a mangiare dalla madre. Dopo il pranzo arrivava zia Maria con una guantiera affollata di tazze e annunciava: «O’ ccafèèèè!». Tu mi stai tentando, sappi che tempo fa volevo farci un film da tutte queste storie. E avresti fatto bene. Sono davvero affascinanti. Ma raccontami di quando tuo nonno si è giocato tutto. Niente, è successo che hanno dovuto abbandonare l’appartamento di viale Elena, di fronte all’edificio in cui oggi c’è il consolato americano. Loro avevano tutto l’ultimo piano. Una casa sempre piena di gente, dove c’era il salottino arabo, il salottino inglese. Le mie zie mi raccontavano di quel loro passato di ricchi. Insomma era una famiglia strana. Il papà di mio nonno possedeva una nave che aveva chiamato col suo nome, Pasquale Caròla. Vendeva articoli marittimi e importava carni dall’Argentina. Era una famiglia benestante. Poi, per l’appunto, il nonno si rovinò al gioco e crollò tutto. Andarono ad abitare sopra i Quartieri, all’ultimo piano di via

Montecalvario dove credo di essere nato. Adesso, all’angolo, c’è la Rinascente. Un paio d’anni fa mi trovavo a Napoli, e sono andato a vedere di trovarlo questo portoncino. E proprio come succede nei film, ho scoperto che dopo quasi un secolo era rimasto tale e quale. Mi sono inoltrato anche sulle scale, volevo arrivare fino all’ultimo piano. Poi a metà c’ho rinunciato, ho cominciato a scendere e me ne sono andato via, non so perché. Forse avevo paura di un ricordo troppo forte… Che mi turbasse… Insomma, mi sono emozionato, non ce l’ho fatta.

«E adesso facciamo il cinematografo!»

Eravamo in villeggiatura con i miei a Villa Marino a Posillipo, era estate, e avevo preso un’incocciata di sole che avevo tutte le bolle sulla schiena. Avevo undici, dodici anni. Quel giorno vennero a prenderci improvvisamente per tornare a casa dei nonni. Io viaggiai tutto il tempo seduto sullo strapuntino dell’automobile, dato che non potevo appoggiare le spalle. E mi ricordo che mio zio Massimo entrò in casa, con la moglie, e appena vide nonno Emanuele sul letto, in mezzo alla stanza, si buttò in ginocchio davanti al padre. Quella è una cosa che non dimentico. Perché vidi proprio la disperazione di un uomo in ginocchio al cospetto del padre morto. Mi fai pensare che nessuno meglio di te ha mai saputo rappresentare la drammaticità di una famiglia che piange un morto in casa. In molti dei tuoi film c’è una scena del genere. In molti dei miei film, è vero. Ma, comunque, andiamo avanti. Ho notato che la famiglia di tua madre aveva attività affini a quella di tuo padre. Interessi accomunati dal mare. I tuoi genitori si amavano, il loro era un matrimonio d’amore? Sì, si amavano. Ma come si amavano allora le persone della piccola borghesia. Senza creare casino intorno, mi sono spiegato? Senza mai seguire le ambizioni. Persone normali, anche troppo. Nemmeno mi chiedo come vivessero i momenti dell’amplesso. Restano un mistero i loro sentimenti e non parliamo dell’eros. Ma con i tuoi non era lo stesso? Uguale. Forse la sola differenza è che noi sapevamo come si erano conosciuti. A mamma e papà lo chiedevamo fino alla noia e loro ce lo raccontavano. Voi non glielo chiedevate?

No, però qualche racconto veniva da mia nonna Giulia. Aveva quei capelli biondi ormai bianchi, ma di un bianco particolare. Non quello candido dell’amido, perché il biondo, a una certa età, diventa un bianco caldo. La ricordo in casa sua, nel lettone grande, quando il nonno era già morto. Come ti ho detto, i figli maschi, specialmente zio Massimo e zio Mario, all’ora del pranzo non andavano a mangiare a casa dalle loro mogli. Si fermavano dalla madre e poi riposavano ai piedi del lettone e lì cominciavano lunghe chiacchierate. Quando ero molto piccolo, avrò avuto al massimo sei anni, a volte dormivo tra zia Bianchina e zia Maria, che erano nubili e abitavano coi nonni. Mi piaceva stare in mezzo a loro due. Quando si faceva sera, dai vicoli salivano fino a quell’ultimo piano le voci dei venditori di fave: «A fava freeeeescaaaaaaaaaa! Mo’ t’aggio covetoooo…!». E nel silenzio notturno le due zie riassumevano ciò che era successo durante il giorno: «No, no quella è sfortunata…», «E quell’altro? Per carità, quello non ha mai capito niente, ma lei gli vuole bene». Tutte frasi come queste. Ma cazzo, perché non ne facciamo un film? Lo facciamo insieme? Io farei anche l’attore. Sarebbe un’esperienza bellissima. La materia è formidabile. Ed è splendida l’impressione che ti è rimasta di quando dormivi in mezzo alle tue zie. Che erano giovanissime, immagino. Lo erano, infatti. Io allungavo pure le mani. Mi piaceva molto metterle nel loro petto e toccare. Loro mi lasciavano fare. Devo dire che era bello. La famiglia di mio padre era molto diversa. Era calabrese. E i calabresi sono tutta un’altra cosa. Mio nonno paterno si chiamava Francesco, come me. La necessità lo portò via dal paese natale, Pizzo Calabro, dove fu ucciso Gioacchino Murat, fucilato presso la chiesa di San Giorgio, mi pare. Suo padre, il mio bisnonno, aveva fatto ottimi affari vendendo grano duro, ma intanto finanziava i ribelli risorgimentali, in particolare i garibaldini. Quindi, anche lui si ritrovò senza patrimonio. Mio nonno aveva una volontà d’acciaio. Quando raggiunse Napoli aveva appena nove anni, e credo abbia viaggiato da solo, con in tasca la

raccomandazione di un uomo di Pizzo, indirizzata a un sarto suo concittadino. Così quel ragazzino cominciò come garzone in una sartoria napoletana. Dopo alcuni anni diventò un sarto affermato a Napoli. Più tardi, mio zio Attilio proseguì l’attività che invece mio padre si rifiutava di intraprendere, al punto che mio nonno lo cacciò di casa. Fu in quell’occasione che mio padre trovò lavoro al porto come sorvegliante di depositi di legname. Aveva studiato, si era iscritto all’istituto tecnico e avrebbe voluto continuare gli studi. Ma suo padre lo voleva sarto. Mio nonno non era un uomo colto, aveva però la fissazione dell’archeologia, materia di cui sapeva tutto. Gli piacevano tanto le storie dell’antica Roma. Me le raccontava a modo suo. Se da grande ho potuto girare la Napoli antica, da solo, con un Baedeker, come un turista tedesco, lo devo a mio nonno don Ciccio. Anche la mia attrazione per il passato di Napoli mi è venuta dalle passeggiate fatte con lui quand’ero ragazzino. Mi portava con sé la domenica mattina a vedere reperti antichi, la Napoli sotterranea. Andavamo anche nelle chiese. Poi ascoltavamo la messa dell’una a Santa Brigida, nel centro di Napoli. Da lì si andava a piedi fino a Mergellina. Lui la domenica mangiava da noi. Comprava il pesce, poi ci dirigevamo a casa, in via San Pasquale a Chiaia. Ci facevamo vivi intorno alle tre e mezza o le quattro, non prima. Orari calabresi, ma anche spagnoli e siciliani. Mia madre ci aspettava dal balcone, e solo quando ci vedeva apparire in strada poteva finalmente proclamare: «Buttiamo la pasta!». Suppongo che in seguito, setacciando l’Italia in lungo e in largo in cerca delle ambientazioni per i tuoi film, tu abbia voluto visitare il paese da cui nonno Ciccio era fuggito via a nove anni. Ti sembrerà strano, ma a Pizzo Calabro non ci sono mai andato. Però credo che ci sia passata mia figlia Carolina. Là c’è tuttora una famiglia Rosi. Sono stato in Calabria molte volte, e mai a Pizzo. Forse per evitare situazioni tipo: «Ah, ecco il nipote di don Ciccio Rosi!». Da bambino ti avranno sicuramente chiesto: «Che vuoi fare da grande?». Tu cosa rispondevi? Avevi dei modelli? Il sarto,

il meccanico, l’avvocato? Non il sarto. L’avvocato neppure. Vedi, io andavo nella sartoria del nonno. Era sistemata in un appartamento che faceva da casa e da bottega, ma era abbastanza importante. Aveva mobili bellissimi, tavoli con le zampe di leone, dove lui prima disegnava e poi tagliava la stoffa. A furia di tagliare s’era storto un dito. Mi divertiva guardarlo al lavoro. Si era anche fatto fare un suo busto. Non so chi lo avesse realizzato, era in gesso colorato come bronzo. Aveva molti clienti e anche alcuni lavoranti. E tra questi zio Attilio. Mio nonno, di vestiti, me ne ha fatti tanti, anche uno smoking. Quello col quale ero a Venezia a ritirare il Premio speciale della giuria. Era la prima volta che il cinema mi premiava. Sì, indossavo quello smoking che ho ancora. Non ne ho mai più comprato uno. In tutta la mia vita di cineasta ho usato sempre e solo quello smoking. Lo trovo poetico. Quasi un’invenzione di Tonino Guerra. Eeeh, ma vedi, c’è una tradizione per cui molti personaggi conservano l’abito da cerimonia della prima volta. Lo smoking, il tight, il frac. Ma bisogna stare attenti a non ingrassare. Con gli anni, quello smoking l’ho fatto aggiustare un sacco di volte. Il nonno me lo aveva fatto proprio per la Mostra di Venezia, il primo concorso al quale partecipavo. Si vedeva che era contento, ma era un uomo di poche parole. Credo che fu mio zio a dirmelo: «Mo’ ti facciamo lo smoking». Avevo nonno e zio sarti, normale che se ne occupassero loro. Era bello che proprio mio nonno me l’avesse cucito su misura. A quanti è capitato? Quello smoking è stato ovviamente anche a Cannes e a Hollywood. Se avessi fatto un film su tuo padre, quale sarebbe stata la scena più importante? Ricordi Le mani sulla città? Cominciava con il crollo di un palazzo e io non lo volevo realizzare con trucchi e modellini, volevo un crollo vero. La prima delle sette macchine da presa con cui l’ho girato aveva come obiettivo un 300mm, e l’avevo nascosta con un panno nero. Ero molto teso. Quando capii che la scena era andata come volevo io, sfilai il panno dalla

macchina e urlai: «E adesso facciamo il cinematografo!». Improvvisamente mi voltai e vidi il volto di mio padre che, appostato ai margini della strada, mi fotografava. E mi venne da piangere, non riuscii a trattenere le lacrime. Ecco, se avessi fatto un film su di lui, quel momento sarebbe stata la scena clou. Avevo posato lo sguardo su un uomo modesto, che non fu mai umile, e che adesso era felice. Non gli piaceva emergere. Faceva i suoi disegni, poi subito a casa. Li faceva a matita, poi li passava a penna con l’inchiostro di china, dopodiché cancellava con la gomma le tracce di matita. Stavo ore a guardarlo, spesso tenevo tra le mani un tozzetto di pane condito con sale e olio. Quanto mi piaceva! Non pensavo mai che avrei potuto macchiare d’olio il suo lavoro. Anche nella sua camera oscura. E ciò che mi incuriosiva era il funzionamento di ogni ordigno, ma soprattutto ciò che alla fine saltava fuori, il risultato. Da regista ho sempre fatto così. Scegliere l’obiettivo giusto e usare correttamente la macchina da presa in fondo per me non era la cosa più importante, quello che contava era il risultato, la verosimiglianza, la realtà. E io sono esigentissimo nello sfruttare tutto ciò che serve per indurre nello spettatore l’impressione della realtà. Va detto che mio padre, in famiglia, non trovava nessun incoraggiamento. Mia madre era una donna deliziosa, ma si teneva lontana dalle sue passioni. Anzi, fece una cosa piuttosto grave nei giorni in cui lui subì un processo a causa d’una caricatura di re Vittorio Emanuele III. L’aveva ritratto come un bambino seduto nel seggiolone e spaventato da un cane mastino con la testa di Mussolini che gli ringhiava contro. Sai cosa fece mia madre? Prese il baule pieno di tutti i disegni originali che papà conservava dopo la pubblicazione e se ne liberò. Aveva il terrore che i fascisti si accanissero su di lui. Non ricordo come finì il processo. So però che all’indomani mio padre fu costretto a iscriversi al Partito fascista. Lui che al partito non s’era iscritto mai. E se avessi fatto un film su tua madre? C’è un istante, un’immagine, un episodio della sua vita che ti sono rimasti dentro in modo indelebile?

La ricordo, delicatissima, accanto a Francesca, la mia prima figlia. Io ho avuto un primo dramma nella vita quando è nata Francesca, che era una bambina Down ma era bellissima. Credimi, bellissima. Non dimentico il rapporto tra mia madre e questa bambina. Mia madre aveva il dolore dipinto in faccia, però lo sopportava con grande sapienza, ingoiava il dolore e lo restituiva a questa creatura come sanno fare le persone vere, semplici. È bella l’immagine che mi hai dato di tua madre accanto a Francesca. Anche se è un’immagine di sofferenza. La figura del tuo nonno paterno, Francesco, mi ha colpito tantissimo. Il suo carattere mi fa pensare ad alcuni aspetti del tuo. Alla tua determinazione, che è una categoria della durezza. Il sarto, l’uomo duro ed elegante che mi faceva visitare Napoli. Era duro veramente. Un calabrese durissimo. Ammetto di essere anch’io molto determinato. Credo però di avere anche una larga disponibilità, quando c’è da raggiungere un accordo, trovare un’intesa con altri. Ma è vero che quando desidero fortemente una cosa, divento determinatissimo. Sì, devo darti ragione. Del resto, se devi fare un film e non sei determinato, è inutile perdere tempo, quel film non lo farai mai. C’è un momento della tua giovinezza, della tua adolescenza, in cui l’idea di fare il cinema comincia a mettersi a fuoco? Quel momento è venuto più tardi, non quando ero bambino. Da piccolo non potevo sognare di fare il cinematografo. Avevo questo premio vinto da mio padre e questa fotografia ispirata a Jackie Coogan. Sembravano episodi capaci di aprire uno spiraglio. Ma il cinematografo, quello vero, restava distante. Comunque, non ho mai avuto la percezione chiara di poter fare il cinema. Diciamo che le foto di mio padre, quegli album, un po’ mi avvicinavano a quel mondo. Data la sua passione, a me pareva normale che mi fotografasse spesso, e successivamente che mi riprendesse con la Pathé. Ma da qui a immaginare di fare l’attore o il regista… Del resto, non fotografava solo me in famiglia. Vivevo incollato a mio padre e naturalmente guardavo tutto ciò che faceva, ascoltavo quello che diceva.

Non ero in grado però di valutare, allora. Nella mia mente tutto divenne concreto molto più tardi. Ma quando mi metteva in posa in un certo modo per una fotografia, capivo subito se combaciava con la sua idea, col modello che aveva in testa in quel momento. Mi hai detto che a scuola non eri bravissimo. Qual era la materia che ti piaceva di più e che sentivi più tua? All’università amavo studiare medicina legale, uno degli esami facoltativi del corso di laurea in giurisprudenza. Prima, mi piacevano la letteratura italiana e la storia. Al ginnasio e al liceo, la letteratura italiana era ciò che studiavo con più piacere. Ma non è che fossi bravissimo. Non disprezzavo nemmeno la geografia, è col latino che facevo a pugni. E la passione per la letteratura ti ha avvicinato a uno scrittore preferito? Be’, al liceo ti misuri continuamente coi grandi della poesia e della prosa italiana. Manzoni, per esempio. Uno scrittore che mi piaceva è Renato Fucini, quello de Le veglie di Neri, che si firmava Neri Tanfucio. È un libro bellissimo, ma so di parlare di un autore modesto rispetto ai grossi calibri. Uno poi doveva studiare l’Orlando furioso, doveva studiare l’Odissea, doveva studiare l’Eneide, l’Iliade. Ti restava il tempo solo per queste opere immortali. C’erano anche le letture facoltative che si suggerivano al ginnasio. Al liceo uno già si regolava da solo, non doveva più chiedere al professore cosa leggere. Io ero molto attratto dagli scrittori americani e dai francesi. Poi ho approfondito tutto durante la guerra, fase che per me è stata un’odissea vera, almeno fino a quando non sono rientrato a Napoli. In quel periodo sono stato in Toscana, nascosto in casa della nonna e dei genitori di Mario Ferrero, militare con me, poi diventato regista per il teatro e per la televisione. In quella casa ho scoperto tante letture. Durante il corso allievi, ci utilizzarono da sentinelle e io dovevo far la guardia a un complesso industriale, al buio, di notte. In quelle settimane leggevo le Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. Al buio come leggevi? Accendevi qualcosa?

No, era un buio solo relativo. Un buio da complesso industriale. Noi del Settimo Autocentro eravamo più o meno tutti figli di papà. Era con noi il figlio del senatore Bevione, fidanzato con Alida Valli, che ogni tanto veniva a trovarlo. E poi Sandro Galdo e Paolo Orefice, anche loro napoletani. Un giorno fummo spostati da Massa Carrara per un nuovo compito. Giunse l’ordine di far la guardia alle tende intorno all’aeroporto di Savona. Nel giorno in cui ci divisero, il colonnello spiegò: «Ci vediamo a Mondovì. Lì difenderemo la IVª Armata». Per arrivarci bisognava fare le Prealpi. Le passammo in buona parte a piedi. Arrivati a Mondovì, fummo sorpresi dall’armistizio dell’8 settembre 1943. Trovammo il colonnello che già era in borghese e si tagliava la barba. Ci disse: «Tutti a casa!». Il preside di una scuola ci diede tessere da supplenti in cambio delle nostre uniformi. Ci tenne a sotterrarle ai piedi di un albero nel cortile del suo istituto. Così ci trovammo insieme, un gruppetto, di cui ricordo alcuni nomi. C’era Beppe Lazzari, un romano nipote di un sottosegretario alla Cultura, il primo a creare la possibilità di una nostra liberazione. C’era poi il Mario Ferrero che ti ho citato, un fiorentino la cui famiglia tirò fuori molto denaro per aiutarci e fu perciò decisiva per il nostro destino. I pochi soldi che avevamo, quelli che ci mandavano, li spendemmo, per l’appunto, nel tentativo di vestirci da borghesi. Non fu un gran successo, anche perché avevamo tutti i capelli tagliati da militare! Vedo che ridi di gusto. Chissà quanto elegante doveva essere il vostro abbigliamento. Io avevo un abito doppio petto di lana a strisce bluette e grigie. Sotto avevo però la giacca del pigiama color albicocca, una cosa oscena. Più o meno gli altri erano vestiti allo stesso modo. Saremmo stati più anonimi con la divisa militare che in quel modo. Comunque, ci ritrovammo tutti a Genova, dove prendemmo un treno lungo chilometri, pieno di ex soldati, per metà in uniforme e per metà in abiti civili. Tutti meridionali, perché quel treno era diretto al Sud. Cantavano: «Adesso ce ne andiamo alle case nostre». Improvvisamente sentiamo colpi di

pistola in aria, i tedeschi fermano il treno all’altezza della colonia estiva della Gil (Gioventù italiana del Littorio) di Massa Carrara. Fanno scendere noi e quei poveri civili che non c’entravano niente. Ci portarono tutti in questo campo della Gil, dove ci fecero stare tre giorni senza mangiare e bere. A chi ci provava, coloro che avevano già «assaggiato» i tedeschi, gli gridavano: «Non ci provare, quelli sparano». Si sparse la voce, fatta circolare apposta, che a Genova si era già ricostituita la milizia fascista. A un certo punto, i tedeschi dovevano decidere chi restava prigioniero e chi no. Arrivò il turno del nostro gruppo. Decidemmo che il primo a presentarsi sarebbe stato Mario Ferrero, perché aveva casa e parenti a Firenze, e da libero poteva forse dare una mano a chi non sarebbe uscito da lì. Chissà perché, l’ultimo fui proprio io. Quando mi presentai, il tedesco mi chiese le carte annonarie. Ero perso, le carte annonarie non le aveva nessuno. E quello le chiedeva proprio a me. Non so come mai, il centurione della milizia che faceva da interprete mi aiutò, spiegò al tedesco che le carte annonarie non potevamo averle, che noi «supplenti» mangiavamo a scuola, e la scuola le aveva ritirate. Il tedesco allora disse: «Va bene, vai, vai!». Io feci un saluto fascista di una perfezione assoluta e raggiunsi i compagni del mio gruppetto. E dove andasti? Uscii e insieme a tutti gli altri ci dirigemmo verso la casa di una signora a Massa Carrara, dove prima, da allievi ufficiali, andavamo sempre a mangiare quando non ci bastava il rancio. La signora ci rimise subito in cammino: «Scappate, per carità. Non rimanete qui un solo momento». Già c’erano manifesti con l’avviso di pena di morte per i soldati o chiunque indossasse indumenti militari. Nonostante il nostro abbigliamento, eravamo ancora in pericolo. Così cominciò l’odissea, finita solo mesi e mesi dopo. La famiglia Ferrero era in villeggiatura a Monte Oriolo, un paese delizioso vicino Firenze. Li raggiungemmo a piedi, ci accolsero tutti, ma non sapevano dove sistemarci. Prima finimmo in casa di una coppia di mendicanti, poi in quelle di alcuni contadini. Infine,

riuscimmo a stare tutti in casa Ferrero. Fu un primo periodo di ospitalità durato qualche settimana, forse meno, perché Sandro Galdo, Paolo Orefice e Beppe Lazzari, il nipote del sottosegretario, a un certo punto decisero di tentare di arrivare a Roma, dove avevano parenti. Loro, una soluzione, ce l’avevano. Così siamo rimasti solo in due, io ed Enzo Papoff, napoletano appartenente alla famiglia titolare della famosa catena di lavanderie. Rimanemmo lì. Pure giungendo a Roma, cos’avremmo fatto? In quel momento il fronte era a Cassino, a Roma non c’erano gli americani, ma ancora tedeschi e repubblichini. Quindi muoversi era pericoloso, anzi impossibile. Invece a Monte Oriolo siamo stati per un po’ in casa della nonna di Mario Ferrero, che era madre dell’economista Ernesto Rossi. Quella donna non aveva voluto chiedere per il figlio la grazia a Mussolini, e non volle che altri la chiedessero al posto suo. Ernesto Rossi fece dieci anni di carcere. Durante le settimane in cui siete stati ospiti dei contadini cosa facevate? Andavamo spesso a casa dei Ferrero, che erano padroni di una piccola fabbrica di pesi e misure, dove lavoravano per la Resistenza. Facevano chiodi a tre punte, per spargerli sulle strade e bucare le gomme delle auto tedesche. Si mangiava dai Ferrero, poi si ritornava in campagna dai contadini. Quando rimanemmo in due, io e Papoff, tutto fu più facile. Cominciava però anche la fase tragica. Tedeschi e repubblichini entravano nelle case di Firenze in cui sospettavano ci fosse un figlio maschio adulto: per loro voleva dire che si era nascosto. Entravano in casa e non gli bastava catturare il rifugiato. No, sparavano, usavano subito il mitra. Tu capisci, in questa maniera diventò impossibile andare in montagna. Ti beccavano sicuro. Noi ci nascondemmo in una specie di intercapedine tra il pianerottolo della casa della nonna comunicante con quello di casa Ferrero. Passavamo attraverso un falso contatore del gas e, strusciando col ventre a terra, arrivavamo in una stanza dove non si poteva parlare. Una finestra dava sul cortile della fabbrica dei chiodi, ci avrebbero

sentito. La sera, in casa Ferrero, veniva spesso Nello Traquandi, un combattente antifascista famoso nella Resistenza. Poi il professor Carlo Ludovico Ragghianti, critico d’arte, che era il capo o uno dei capi della Resistenza. Stavamo con loro anche perché i nostri amici romani erano ormai partiti. Si era aggiunto un cugino di Mario, anche lui proveniente da Firenze. Ma, dal buco in cui stavamo nascosti, fummo costretti a venir fuori, perché arrestarono la segretaria dell’avvocato Buozzi e avevamo il terrore che sotto tortura rivelasse il nostro nascondiglio. Così scappammo. La segretaria non parlò, ma noi in ogni caso scappammo. Ci rifugiammo nella casa di via della Scala di un famoso pediatra fiorentino, il professor Cocchi, amico dei Ferrero, che come ti ho detto sostenevano la Resistenza. Noi ci illudevamo di poter essere utili, avevamo la stampa clandestina del Partito d’Azione, di cui facevamo parte, più quattro pistoloni arrugginiti che secondo me non sparavano neppure. Per nasconderci meglio, alzammo delle tegole del tetto e ce ne stavamo lì sotto. Ma dimenticammo di rimetterle sopra. Al cugino di Mario Ferrero, un grande matematico, scappò una risata nervosa. Non si spiegava come volessimo nasconderci in un posto simile e continuava a ridere rumorosamente, malgrado il buco fosse rimasto scoperto. Questi dirigenti della Resistenza – Traquandi, Ragghianti – non vi invitarono ad andare con loro? No, loro non stavano in montagna e sapevano che era complicatissimo andarci, quasi impossibile, i monti attorno a Firenze erano controllati da repubblichini e tedeschi in modo capillare. Con loro si parlava della Resistenza, del fascismo, del Partito d’Azione. Si parlava di ciò che si sarebbe fatto dopo la Liberazione, quali erano i programmi. E leggevamo. In casa della nonna, la mamma di Ernesto Rossi, c’era la libreria, un salone pieno di volumi. Ne leggevo tantissimi. Che altro potevi fare dalla mattina alla sera? Ho divorato tutti i romanzi russi, Tolstoj, Dostoevskij. Poi i grandi romanzi francesi. Diciamolo, la gran parte di ciò che ho letto, l’ho letto in quel periodo.

Eravamo partiti da quello che leggevi a scuola, passando per la medicina legale. Te l’ho detto, è una materia che mi piaceva. Il docente ci faceva andare a far lezione nel manicomio criminale di Napoli. Una cosa spaventosa. Abbiamo visto dementi, matti, poveri ricoverati. Sì, la medicina legale mi interessava molto. Forse, se non ti fosse piaciuta quella materia, la scena dell’obitorio in «Salvatore Giuliano» l’avresti fatta diversamente. Ma torniamo all’ospitalità dei Ferrero, quand’è che è finita e voi siete finalmente andati via? Quando sono venuti gli inglesi, che a Firenze arrivarono per primi. Avevano le cornamuse, e hanno riempito di suoni Piazza Vittorio Veneto. E io che ancora attraversavo le linee con le mani alzate… Ricordo una donna alla finestra che mi urlò: «Oh bischero, icché tu fai con le mani alzate? Non vedi che non ci sono più i tedeschi? Ci sono gli inglesi e gli americani». Finalmente. Fino a quel giorno, quando attraversavi le linee, dovevi tenere le mani alzate. Altrimenti… Del resto i tedeschi sparavano col cannone su Firenze, da quando si erano ritirati sul Monte Morello, a nordovest della città. Andare via era difficilissimo. Non è che potevi metterti in testa di partire e lo facevi. Un po’ c’era pure la voglia di condividere con i fiorentini questo momento terribile. Ho visto seppellire i morti nei giardini, nelle piazze. Una brutta storia durata alcuni giorni, che vivevo anche con grande partecipazione. Finalmente, io e Papoff un giorno trovammo un camioncino che trasportava a Roma botti di vino. Da lì avremmo preso un altro mezzo per raggiungere Napoli. Fu un piccolo camion che ci depositò in Piazza della Ferrovia. Era notte e l’immagine della città era drammatica. Napoli non aveva luci, era tutta nera, invasa da cumuli di macerie illuminati in modo sinistro dai fari dei camion americani diretti a Cassino, dove il fronte si era fermato. Un’immagine tragica. Io e Papoff ci abbracciammo. L’ho sentito poco tempo fa, Papoff. Ci siamo telefonati. Poi lui andò verso casa sua, che era da quelle parti, io invece dovevo raggiungere via San Pasquale a Chiaia, dall’altra parte della città. M’incamminai in

quel caos di camion, una scena indimenticabile. In quella Napoli caotica, tragica, confusa, davvero tragica. A un certo punto venne la luce dell’aurora, incontrai un pescatore che andava a lavorare. Gli chiesi una sigaretta, me la diede e mi domandò: «Che fai? Da dove vieni?». Gli raccontai un po’ della mia storia, che non sapevo niente dei miei e lui mi parlò delle «quattro giornate di Napoli». Chissà lui che cazzo aveva fatto durante quelle quattro giornate. Quando arrivai sotto casa mia, il portone era chiuso, non erano ancora le sette del mattino. Così, aspettai seduto su un gradino, lì davanti. Abitavamo al primo piano e vidi sul balcone due sedie, ma una non la ricordavo, non faceva parte del nostro arredo. Confesso che mi spaventai. Finalmente il portone si aprì, il portiere mi vide: «Uh, ’o signurino Franco. E mo’?». «E mo’ cosa?» dissi io «che è successo?» «No, niente» rispose «papà e mammà vostra dalla mattina alla sera pensano a voi.» Salii al primo piano, mio padre era ancora a letto in camicia da notte, sembrava Don Chisciotte quando la mattina si alza, nel suo camicione. Tornavo in famiglia. Papà mi aveva conservato le sigarette di cui ti ho parlato. Mio fratello allora era piccolo. Mia madre non era in casa. Dormiva a viale Elena, dove abitavamo prima, là c’era la sorella che non voleva stare da sola. Quando rientrò, puoi immaginare. Dopo mesi senza avere notizie, la famiglia era ricomposta.

I rattoppi alle camicie rosse

Sono nato nel novembre del ’22, l’anno della marcia su Roma, lo stesso giorno in cui nacque Salvatore Giuliano. Da ragazzino, a scuola, mi costringevano a seguire tutto il rituale fascista. Bisognava portare la divisa da balilla, poi da avanguardista. Una volta ero a un’adunata senza uniforme e si incazzarono, fui punito. Forse l’avevo fatto apposta, non so. Non mi va di fare l’antifascista consapevole prima del tempo. Però le adunate, tutte quelle messe in scena erano fastidiose. Ogni sabato, il sabato fascista. Una bella rottura di scatole. Ma una volta mi eccitò ascoltare il discorso di Mussolini dopo la conquista dell’Etiopia. Rientrai a casa tutto infatuato del duce. Avrò avuto tredici, quattordici anni. Papà mi diede uno schiaffo. Non ricordo se l’avevano trasmesso per radio oppure se Mussolini era venuto a Napoli. Quella notizia mi aveva reso euforico. Con Mussolini avevamo l’impero… e che cazzo! All’inizio non capii quello schiaffo. Poi mio padre mi spiegò, disse che non bisognava eccitarsi troppo per le vicende del fascismo. Più tardi si dovette iscrivere al fascio per la storia delle caricature e del processo. A guerra finita, dopo il tuo rocambolesco ritorno a Napoli, che succede? Fu in quel periodo che i miei zii Massimo e Mario, che erano massoni e socialisti, mi proposero di entrare nella massoneria. «Non se ne parla!» risposi senza pensarci un istante. Eri giovanissimo, cosa ne sapevi della massoneria? Non un granché allora, però ero uno che, più o meno, qualcosa la sapeva, insomma. L’istinto mi diceva di non dover appartenere a una società segreta. Non capivo in cosa potesse

consistere il vantaggio che ne avrei tratto, perché io, in quel momento, già ero socialista. Se è per questo anche i tuoi zii. Ma io frequentavo i comunisti. Mettermi con i massoni era contro i miei principi. Non mi pareva fosse una cosa giusta. Dimmi dei tuoi amici: Patroni Griffi, La Capria. Come vi siete conosciuti? Raffaele La Capria l’ho conosciuto al mare, durante la villeggiatura a Villa Marino, a Capo Posillipo. Lui abitava a Palazzo Donn’Anna, un po’ più giù. Allora era uno sportivo, campione di tuffi dal trampolino e dalla piattaforma. Ricordo la voce che lo annunciava durante le gare: «Salta La Capria!». Era veramente bravo. Ha scoperto solo dopo il mondo legato alla radio, alla Rai. C’era poi Antonio Ghirelli, che conobbi a scuola. Mia mamma era molto amica di sua madre, una donna eccezionale, intelligentissima. Con Antonio frequentammo insieme le medie e il liceo classico Umberto I. C’erano con noi pure Achille Millo, che voleva fare l’attore, e ci riuscì, e Peppino Patroni Griffi, diventato un commediografo di grande valore. Di Maurizio Barendson ti ho parlato. Era in classe con me. Un ragazzo molto simpatico. C’era anche l’attuale presidente della Repubblica, Napolitano. Giorgio era un po’ più giovane, stava in un’altra sezione, ma anche lui era in quel liceo, scuola famosa a Napoli. Quindi il presidente Giorgio Napolitano lo conosci sin da ragazzo? Sì, da ragazzo. Amava il teatro, e gli piaceva recitare. Ci frequentavamo tutti perché inseguivamo le stesse cose. Ci piaceva leggere libri, andare al mare. A me quando ero ragazzino ha insegnato a nuotare un pescivendolo, uno che invece di dire «arrivederci» diceva «addivederci». E noi lo chiamavamo così, Addivederci. Dicevi che vi piacevano le stesse cose. Il mare, il cinema, il teatro. E le ragazze, come no. Ne avevamo nel nostro gruppo. Quando siamo diventati un po’

più grandi prendevamo una barca di quindici metri al Circolo Velico che si chiamava Gracie. E su quella caricavamo il nostro gruppetto di amiche. Io avevo la mia preferita, La Capria la sua. Insomma, cose da ragazzi, cose normali. Al cinema si andava spesso tutti insieme al Corona, a via dei Mille, dove davano due film al giorno. Quel gruppetto era compatto. Ci frequentavamo molto. Erano amiche anche le nostre madri. Io, per esempio, andavo a casa di Peppino Patroni Griffi, sua madre era la baronessa Patroni Griffi. Ci divertivamo a metterle paura: «Mo’ arrivano i comunisti!» dicevamo. Il cinematografo era la passione di tutti, amavamo comprare giornali specializzati: «Cinema illustrazione», la rivista «Cinema», quella diretta dal figlio di Mussolini, Vittorio, con tutto il papocchio del Guf e del fascismo. Noi eravamo tutti antifascisti. Come lo vivevate quell’antifascismo, che facevate? Lo si viveva soprattutto attraverso gli organi del fascismo, perché il giornale «9 Maggio», che doveva essere l’organo dell’università fascista, riuniva in realtà giovani antifascisti. Su quel giornale scrivevano Tommaso Giglio, diventato poi direttore del «Secolo XIX» di Genova, Peppino Patroni Griffi, Raffaele La Capria, Achille Millo, Aldo Giuffré, che era già bravissimo e faceva il presentatore alla radio, Ugo Stille, in seguito direttore della radio del Pwb, lo Psychological Warfare Branch, cioè l’organismo della comunicazione militare angloamericana. Il suo vero nome era Mischa Kamenetzky. Era polacco, diventò subito amico di tutti. Anche di mia moglie Giancarla, in seguito, al punto che quando era a Roma, ormai direttore del «Corriere della Sera», veniva a dormire qui da noi invece che andare in albergo. Questo gruppo di amici, così affiatati e così antifascisti, pensarono mai a una vera azione? Intendo dire una manifestazione, un manifesto nascosto, una frase scritta da qualche parte? No. Ma andavamo in un circolo che si chiamava la Compagnia degli illusi, mettevamo su commedie che richiamavano l’antifascismo. Il fratello di Sandro Galdo,

quello che fece il militare con me, era federale del Guf. Un giorno venne al circolo e si incazzò: «Quando recitate, dovete mettere il distintivo fascista, bisogna capire che siete degli studenti del Guf!». Che spettacoli metteva in scena la Compagnia degli illusi? C’erano commedie, e atti unici scritti da Peppino, da Antonio Ghirelli. Anche Giorgio Napolitano ne aveva scritto e diretto uno. Circolavano idee che appartenevano a gruppi i quali vivevano, a modo loro, l’antifascismo che era possibile vivere. Il pubblico ci seguiva, partecipava. Io ho recitato, ho scritto qualcosa, non ho mai fatto regie. Quando sono tornato da soldato, ho scritto alcune cose su «Sud», giornale di Pasquale Prunas che a Napoli era molto famoso. Prunas riunì tante giovani firme. Anche Ghirelli, ma lui era già un giornalista famoso. Nella compagnia facevo delle piccole parti. Più tardi, a Cinecittà ho fatto sia il generico che la comparsa. Una volta un direttore di produzione mi infilò in un film, era comunista e mi prese come comparsa in un lavoro di Giorgio Simonelli con Nino Taranto. In una scena, Taranto riceveva in albergo un cameriere con un vassoio e del caffè, al quale sferrava un calcione. Il cameriere ero io. A quel punto il regista, Simonelli, mi dice: «Ora fai una capriola all’indietro!». Io dico: «Come faccio una capriola all’indietro? Non la so fare neanche in avanti!». E lui: «Ma chi mi avete portato? Questo non sa fare niente e io ho già girato un’inquadratura a suo favore. Adesso come faccio?». Credo che non fosse mai accaduto, alla fine hanno girato con una controfigura della comparsa. In che periodo siamo? Quanti anni potevi avere? Parliamo di Simonelli, di Nino Taranto, hanno lavorato molto insieme tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta. Di sicuro, era prima de La terra trema (1948). Allora facevo di tutto, ero andato via di casa, d’accordo coi miei. Ogni sabato tornavo, la vita a Roma non mi piaceva. Una volta a Napoli, ero sempre a frugare tra le bancarelle dei libri. Un giorno ne trovai due dai quali con Ettore Giannini traemmo

il soggetto di Processo alla città (1952), film che poi sarebbe stato diretto da Luigi Zampa. Dicevi che quando ti sei trasferito a Roma ti impegnavi in molte attività. Cosa facevi e dove dormivi? Quando sono arrivato nel ’46, subito Ettore Giannini mi propose di fare il suo assistente in un’opera teatrale di Salvatore Di Giacomo che si chiamava ’O voto. Ma io volevo tentare la strada del giornalismo, con i disegni, anche se mi limitavo a tratteggiare dei pupazzetti. Andai a Milano e ci restai due settimane. Ero arrivato con un valigione pieno di vestiti. Nella Piazza della Stazione, in cambio di una mancia, un ragazzo mi aiutò a trasportare la valigia, che era enorme e pesante. Non parlava mai, non rispondeva neppure: «Ma perché non parli? Rispondimi». «Perché sennò s’accorgono che so’ napoletano e non mi fanno lavorare più. Ecco perché.» Hai capito che ingresso feci a Milano? Non voleva che si capisse che era napoletano. Ma c’era la Lega già a quel tempo? A Milano andasti per lavorare con Giannini? Sì. Accettai il lavoretto e con Giannini sono rimasto due anni. In teoria avrei dovuto fare il suo assistente. In realtà, ho lavorato al suo fianco anche come assistente al doppiaggio, perché Giannini era pure un grande direttore del doppiaggio. Però facevamo una vita da inferno, si lavorava giorno e notte. Mi è servito per fare le ossa. Con Ettore ci eravamo conosciuti alla stazione radio Pwb di Napoli. Io lavoravo come assistente, ma mi adattavo a far di tutto, per esempio le voci. Lui metteva su commedie per la radio e aveva bisogno di attori e voci. Si era diplomato all’Accademia d’arte drammatica, ma invece di iscriversi al Cineguf, dopo aver vinto i Littoriali, scelse il teatro. Volle andare all’Accademia e diventò il più importante regista teatrale dell’epoca. L’altro era Orazio Costa, che insegnava all’Accademia. Poi vennero Visconti e Strehler, ma prima il più grande regista di teatro era lui. Che ricordi hai del tuo primo ciak? Quando rivedi un tuo film, ti capita di riconoscere l’inquadratura che è stata il primo

ciak? Non ho mai mitizzato troppo il primo ciak. Del resto il primo della mia vita non appartiene a un mio film, ma a Camicie rosse (1952). Soprattutto a quel film, perché io l’ho solo finito, e quindi giravo i ciak di un’opera che in gran parte era di Goffredo Alessandrini. Anna Magnani aveva il ruolo di Anita Garibaldi e voleva finire quel film che aveva avuto già molte traversie. Il produttore che per primo aveva messo i soldi si era ritirato. Il film fu preso allora da due produttori amici della Magnani, e lei chiese a Visconti di finire il film. Perché Alessandrini non volle finirlo? Litigò con la Magnani. Erano stati marito e moglie, litigavano spesso. Penso che sia stata lei a farlo allontanare. Visconti sul momento accettò, ma quando venne il momento di girare disse che era impegnato in teatro. Non so se fosse una scusa, però aggiunse: «Ti do Rosi, è uno che il cinema ormai lo conosce, ti può dare una grande mano». Girai parecchio, circa un quarto del film. Scene con Jacques Sernas, con Raf Vallone, con Anna Magnani, con Alain Cuny. Quando ti hanno chiesto di occuparti del film, ti sei posto il problema della continuità stilistica con il regista che ti aveva preceduto? Sinceramente, no. Pensa che Alessandrini non l’ho mai incontrato né conosciuto. Non ho mai nemmeno saputo cosa pensasse del lavoro che ho realizzato. Ma in fondo non mi sono preoccupato affatto di saperlo. Si fosse trattato di Blasetti, che conoscevo e frequentavo, avrei sicuramente chiesto un suo giudizio. Blasetti aveva un rapporto con i giovani molto più profondo rispetto ad Alessandrini. Il film poi fu montato da Mario Serandrei, che con Eraldo Da Roma era il più bravo in circolazione. Conoscevo bene il suo modo di montare, lasciai fare a lui. Dopo il montaggio intervennero i produttori Donati e Carpentieri. Io mi preoccupavo più di come avrei messo la macchina da presa, di scegliere l’obiettivo giusto, delle riprese. Come direttore della fotografia avevo Marco Scarpelli, il fratello di Furio. Uno degli assistenti

alla regia era Nanni Loy, ma nei titoli era ancora chiamato Giovanni. Chi firmò il film, tu, Alessandrini, o tutti e due? So che in alcune copie conservate alla Cineteca Nazionale appaiono i nostri nomi nello stesso cartello. Ma quando il film uscì era firmato solo da Goffredo Alessandrini. E secondo me era giusto così. Io mi ero occupato soltanto della parte mancante. Non ho seguito né il montaggio né il doppiaggio. Ho girato nel Teatro 5 di Cinecittà i raccordi che mi collegavano al girato di Alessandrini. Però, prima di girare, avevi visto quello che aveva realizzato lui? Ho visto, certo. Per rendermi conto del tipo di lavoro. Fu Serandrei a mostrarmelo. Si aveva la sensazione che Alessandrini avesse fatto tutte scene di battaglia, ma che non stesse nella trama. Per questo la Magnani si sentì trascurata, poi avevano pure problemi personali. Sembra proprio che a lui dei personaggi non importasse molto. Tutte scene interessanti da vedere, ma che non raccontavano nulla. Io ho dovuto fare proprio un’opera di rattoppo. Certo, la Magnani è strepitosa. Ha una faccia unica, formidabile. Credimi, accettai per non mettere in difficoltà Visconti, perché altrimenti non me ne sarei occupato. Me lo chiese lui, che aveva appena finito di girare Bellissima (1951), film in cui ero aiuto di Luchino, quindi durante le riprese avevo già conosciuto la Magnani. Mi torna in mente che durante le mie riprese di Camicie rosse alla Magnani piaceva Raf Vallone. In quei tempi lui era al massimo del successo. Faceva anche due film contemporaneamente. Anna l’accarezzava, gli infilava la mano nella barba. Le piaceva proprio. Era uno stranissimo personaggio, la Magnani, donna infelice e attrice straordinaria. Ha avuto una vita dolorosa. Quel figlio affetto da poliomielite è stato la prima causa delle sue sofferenze. Tra l’altro, credo che in quel periodo con Rossellini fosse già tutto finito. Esaurita l’esperienza di Camicie rosse non abbiamo più lavorato insieme. Dopo I magliari (1959) e Salvatore Giuliano (1962), scelsi di fare un certo tipo di film, rinunciando completamente

ad altri. Ma mi piaceva dedicarmi a un cinema sociale. Non voglio dire cinema politico, perché quella definizione è diventata popolare in seguito. Allora si diceva cinema della realtà e non della verità. Anche se molti parlano di me e continuano ad attribuirmi il cinema politico, il cinema d’impegno civile e politico. Non trovi che il cinema sia politico sempre e comunque, anche quando non lo è? Certamente. Ciò che non amo è che la definizione di politico rischia di escludere tutto il resto. E questo non va, perché c’è anche la forma che conta, e nel mio cinema è decisiva.

Aveva ragione Visconti

Col vizio del fumo ho cominciato a diciassette, diciotto anni. Mio padre era un fumatore. I sigari, invece, ho cominciato a frequentarli quando sono andato a Cuba, a L’Avana, poi ho continuato a fumarli. Dopo, però, sono passato ai Toscani. Accadde quando Mario Soldati, un amico e un uomo straordinario, mi incontrò e io avevo in bocca un sigaro cubano: «Ma sei pazzo? Fumi gli Havana! No, devi fumare l’antico Toscano». E mi mandò una cassettina di legno meraviglioso, legno bianco, leggerissimo, pieno di quei sigari che fumava lui. Hai mai visto una foto di Soldati in cui non abbia il sigaro? Ballavi? C’erano balli che ti riuscivano meglio di altri? Non ballavo così male, ma comunque in modo improvvisato. Adesso ti farò ridere. Quando ho fatto l’assistente in ’O voto di Di Giacomo, Giannini si era inventato un personaggio da inserire in quella commedia, si trattava di un pazzariello che doveva entrare in scena piroettando, ballando, facendo e dicendo, recitando una filastrocca inventata dallo stesso Giannini. Era un invito alla festa di Piedigrotta. Il pazzariello l’ho fatto io, recitavo e ballavo. Avevo il gruppetto dei tre, perché il pazzariello non sta mai solo, ha sempre dietro di sé quelli che suonano. Uno con la grancassa, un altro col tamburo. Uno era Aldo Giuffré. Quello spettacolo l’abbiamo portato in giro a Roma e Milano. Ho fatto due anni in teatro con Giannini. Poi è arrivato Luchino Visconti e molto è cambiato. Visconti ha portato il teatro europeo, Sartre, Anouilh. È diventato il più grande. Io allora stavo a Napoli e lavoravo alla radio. Quando Giannini partì, io rimasi a dirigere una rivista radiofonica, che portavamo avanti con attori e cantanti napoletani e con l’orchestra di Gino Campese. Fu una grande scuola, ho

conosciuto tanti attori dialettali napoletani, che in seguito hanno recitato con me. Agostino Salvietti, per esempio, o Clelia Matania. Registravate o era in diretta? Era in diretta, durava un’ora e aveva successo. I copioni erano scritti da Fischietti. Un autore di rivista napoletano, molto bravo. Il lavoro mi lasciava tempo per fare altre cose. Allora avevo molte idee, poi avrei definitivamente scoperto il cinematografo per merito di Visconti. Raggiungevo Roma quando c’erano le prime di Visconti, anche perché con lui recitava il mio amico Achille Millo. Proprio lui e Patroni Griffi fecero il mio nome a Visconti, proponendomi come assistente in La terra trema. Pare che Visconti avesse chiesto ad Achille di fargli da assistente: «No, preferisco far l’attore, ma c’è il mio amico Franco» fu la risposta. Peppino Patroni Griffi intanto era già a Roma e frequentava il teatro e l’Eiar, la Rai dell’epoca, mentre io e La Capria eravamo rimasti a Napoli. Ghirelli era andato a Milano. Anche il doppiaggio è stata una buona scuola, allora i film italiani si doppiavano tutti. Ma ci sono cose che si facevano allora che oggi fanno rabbrividire. Prendi Marcello Mastroianni, che in Domenica d’agosto di Luciano Emmer era doppiato da Alberto Sordi. Si può dire che molti degli attori del teatro e del cinema li hai conosciuti almeno all’inizio attraverso il doppiaggio? Sì, è andata così. Dopo ho «iniziato» al doppiaggio alcuni attori, per esempio Giorgio Albertazzi. C’erano registi stranieri, tra gli altri René Clair, che avevano chiesto a Visconti di occuparsi dell’edizione italiana dei loro film. Visconti passava tutto a me. Ricordo la sofferenza quando dovevamo doppiare attori con doppiatori che a lui non piacevano. Ammirava invece Andreina Pagnani, anche se nel doppiaggio si avvertiva una certa routine nella sua interpretazione. Devo dire che quando gli mostravo i film doppiati non mi ha mai chiesto rifacimenti. Tu curavi solo la direzione o anche l’adattamento dei dialoghi?

La direzione. Dei dialoghi si occupava un traduttore, perché andavano adattati con labiali, dentali. Era un mestiere particolare. All’epoca, un turno di doppiaggio durava otto ore, poi scese a cinque. Ora mi pare che siamo arrivati a tre. Oggi si tende a doppiare a colonne separate, ogni attore fa solo se stesso. Voi come facevate? Allora si lavorava più spesso in due, anche tre insieme. Ma già si cominciava con le colonne separate. Forse però in gruppo era meglio, si creava più rapporto fra gli attori. Naturalmente, dal punto di vista della pulizia del suono, con la colonna separata è un’altra cosa. Curai con Giannini il doppiaggio di Germania anno zero (1948) e La macchina ammazzacattivi (1952), grandi film di Rossellini, che comunque al doppiaggio non si faceva vedere mai. Per La macchina ammazzacattivi aveva adoperato un vecchissimo attore dialettale napoletano, che a causa degli anni e della bronchite cronica, soffiava come un mantice. Mi pare che il nome d’arte fosse Frou Frou. Era formidabile, Rossellini lo usava in modo splendido. E anche Ettore lo diresse nel doppiaggio in modo magistrale. Io gli stavo dietro, gli tenevo le mani sulle spalle, perché dovevo dargli l’attacco quando doveva parlare. Non aveva mai doppiato, non sapeva nulla di sincronizzazione. Da direttore, curai il doppiaggio de La bellezza del diavolo (La beauté du diable, 1950) di René Clair, e in quell’occasione feci debuttare Albertazzi. Non aveva mai fatto doppiaggio ma fu bravissimo. È stata una scuola lunga e proficua. E mi dava da vivere. Quando lasciai Napoli, dissi ai miei genitori: «So che non posso contare solo su di voi». Non sarebbe stato giusto, anche per questo volevo tanto lavorare. Dopo l’impegno con Visconti ne La terra trema ero pronto per dirigere un film. Lui mi diceva che dovevo farlo solo quando ne avrei sentito l’impellenza, quando lo avrei avuto dentro di me tanto da sentir male allo stomaco. Non cercavo un’occasione qualsiasi per dirigere, per debuttare da regista, volevo un film che mi appartenesse. Sapevo che così avrei potuto dare più di quanto avrei dato muovendomi solo da bravo professionista.

Quando ti trasferisti a Roma per cominciare a lavorare, dove abitavi? In camere ammobiliate. In appartamenti con famiglie che affittavano camere. Ho abitato in varie periferie di Roma. Mi arrangiavo. Ma avevo l’amore per il mestiere e l’ambizione, il desiderio di fare il cinematografo. Allora facevo il teatro, ma il traguardo era sempre il cinema. E comunque fra teatro, cinema e doppiaggio, me la cavavo. Una volta portammo in giro una rivista di prosa dal titolo E lui dice. C’era Sordi che era già un attore consumato, ma debuttava nella rivista. C’erano molti attori di prosa, Margherita Bagni, Giuseppe Porelli, Olga Villi, allora legata sentimentalmente a Peppino Amato, Carlo Mazzarella, Paolo Panelli, Adolfo Celi, Giacomo Rondinella. A differenza di quasi tutti, io non ero uscito dall’Accademia. Però ballavo, cantavo. Ah, c’era pure Luciano Salce. Formammo un quartetto vestito con frac bianchi, paillette sui risvolti, cilindro e bastone. Facevamo la parodia della rivista della Osiris, impersonata da Clelia Matania, e in seguito da Olga Villi. Verrà ricordata come la rivista in cui debuttò Alberto Sordi. Nel suo sketch era vestito per metà da uomo e per metà da donna. Aveva giacca maschile, gonna, calze e scarpe da donna. Ripeteva spesso una battuta, che mi pare fosse: «Pensa a te e alla famiglia tua». Cominciò allora la mia amicizia con Sordi, e quando gli proposi il ruolo da protagonista de I magliari, lui accettò subito. Anche perché io venivo da La sfida, film che aveva conquistato un gran successo. Comunque, con quella rivista eravamo stati anche a Palermo. Una città che conoscevo già. Abitavo con Carlo Mazzarella, Paolo Panelli e Giacomo Rondinella in una casa presa in affitto proprio nel centro di Palermo, una zona piena di stradine e vicoli. Ricordo che una sera io, Mazzarella e Panelli rientrammo più tardi. Era una notte afosa e Giacomino Rondinella, invece che nel letto, si era addormentato mezzo nudo sul pavimento. Dormiva così profondamente che non si accorse di essere ricoperto di cimici. Immagina la Sicilia di allora… Un giorno andai con Mazzarella a fare un giro: «Accompagnami» gli dissi. Arrivammo a Monreale, in una zona dalla quale si poteva scorgere tutta la piana di

Montelepre. Da lì si sentivano le cannonate con cui i soldati sparavano contro il bandito Salvatore Giuliano, che sparava contro i carabinieri. Ammirando quel paesaggio meraviglioso e ascoltando l’eco di quelle deflagrazioni dissi a Mazzarella: «Pensa come sarebbe bello fare un film su Salvatore Giuliano!». La vicenda di quel bandito mi incuriosiva già. Ti incuriosiva o già avevi idee in testa? Ero curioso nei confronti della realtà sociale e politica del nostro paese, e la studiavo. Avevo letto Salvemini e Labriola, autori che hanno affrontato rigorosamente la realtà italiana e siciliana. Poi avevo studiato a Napoli e ancora stavo approfondendo l’analisi della Napoli vera, la Napoli reale, la Napoli povera e plebea, una delle pochissime città italiane che ha avuto una plebe, sì. L’altra forse è Palermo. Hai accennato alla storia di Achille Millo che parlò di te a Visconti. Ricordi il primo incontro con il conte? Perfettamente. Fu a una cena. Visconti dopo il teatro mangiava con gli attori giovani. Erano venuti a Roma Achille e Peppino Patroni Griffi. Grazie ad attori che lavoravano con Visconti, furono invitati a una di queste cene. Peppino conosceva già Visconti. Portarono anche me, così lo conobbi. Oddio, conobbi. Diciamo che fu un primo contatto. Sai, Visconti è sempre stato un fuoriclasse, uno che si trascinava dietro una vita particolare, una nomea. Aveva vissuto gran parte della gioventù con la passione per i cavalli, poi quella per il teatro. Inizialmente era passione per il teatro lirico. Solo dopo è passato alla prosa. Come ti ho detto, lavorando soprattutto su grandi autori francesi come Anouilh e Sartre. Quando avvenne e come andò il vostro primo vero incontro professionale? Volevo iscrivermi al Centro Sperimentale di Cinematografia e dovevo presentare un trattamento, qualcosa scritta da me. Mi ero preparato, e da I Malavoglia di Giovanni Verga avevo buttato giù un trattamento, ma decisi anche di muovermi preventivamente. Allora ero intraprendente, mi davo da fare. Per esempio, appena sentii dire che Germi

cercava il protagonista di Gioventù perduta (1947), gli chiesi subito un appuntamento e gli portai la mia fotografia offrendomi come attore. Insomma, avevo questo trattamento de I Malavoglia e telefonai a Umberto Barbaro, docente del Centro Sperimentale. Mi diede appuntamento in un bar e gli parlai del lavoretto che avevo fatto. Mi disse: «Perfezionalo, lavoraci ancora, poi vieni da me al Centro Sperimentale e vediamo cosa si può fare». Contemporaneamente, appresi che il nuovo film di Visconti, La terra trema, era tratto proprio da I Malavoglia. Una combinazione sorprendente. Visconti aveva come assistente Franco Zeffirelli. Non ricordo come, ma so che mi feci avanti e dissi a Visconti: «Ho studiato I Malavoglia, ne ho fatto anche una sceneggiatura». Non è che Visconti abbia dato retta a ciò che gli dissi, però quella coincidenza provocò la mia occasione. In più, a Visconti piaceva far debuttare attori e anche gente dell’équipe tecnica. Infatti La terra trema aveva uno staff ridotto, perché partì come un documentario ed erano in pratica tutti debuttanti. Non ero il solo digiuno di cinema, lo era anche Zeffirelli, che l’anno prima aveva fatto l’attore in un film di Zampa, L’onorevole Angelina. Visconti ci prese entrambi. Poi prese Claudio Forges Davanzati come ispettore di produzione, un altro che non aveva ancora fatto niente, e Anna Davini. Lei era una professionista del cinema, una brava segretaria di produzione, Visconti la promosse ispettrice di produzione. E Aldo Graziati, che tutti chiamavamo Aldò [ma nei credits compariva anche come G.R. Aldo, NdR]. Grande fotografo, ma lì si ritrovò nei panni di direttore della fotografia, ruolo mai ricoperto prima. Eravamo una strana troupe, che in parte conosceva il cinema, in parte non sapeva neppure cosa fosse. Visconti stesso aveva fatto l’assistente di Renoir e diretto Ossessione, ma non si può dire che fosse esperto. Aveva però un carattere che non dava a vedere mai una qualsiasi mancanza di preparazione. Fu comunque un’avventura meravigliosa. Mi manca un tassello. Tu incontri Umberto Barbaro, il docente del Centro Sperimentale. Dopodiché vieni a sapere de

«La terra trema». Quindi siamo nel 1947. Ma con Visconti quando vi siete incontrati? Ma lui ha solo detto: «Vieni a fare l’assistente!». Basta. Visconti non era tipo da sprecare parole del tipo: «Bravo, hai fatto la riduzione. Vieni, fammela vedere». Ci siamo conosciuti dopo. Io gli davo del lei, lui mi dava del tu. Un uomo eccezionale. Eccezionale. L’ha dimostrato in tutta la sua vita. Generoso e anche molto esigente, con momenti di durezza notevole e altri di grandi slanci umani. Io dico che erano tutti momenti tesi a creare un gruppo di professionisti del cinematografo, un gruppo che imparasse il cinema che voleva lui. Se vogliamo, come gli aveva insegnato Renoir. Cioè, vuoi dire che Visconti faceva scuola e che ne era pienamente consapevole? Sì, è così. Lui faceva scuola. E sapeva prendere anche decisioni audaci, come quando annunciò che avrebbe fatto un film prodotto da Rusconi, editore di destra. Al Partito comunista lo attaccarono tutti, e nemmeno io ero d’accordo, credo di averglielo pure detto. Tieni presente che ho lavorato come assistente alla regia anche con Michelangelo Antonioni e Mario Monicelli, e tre volte con Raffaello Matarazzo. Ma Visconti era diverso da tutti. Quando affidava compiti, quando di quei compiti ti riteneva responsabile, le sue esigenze diventavano ferree. Per esempio, io ero ufficialmente il primo assistente, non so dirti il perché. Zeffirelli era secondo assistente e doveva occuparsi degli attori, dei costumi, del trucco e, assieme a Visconti stesso, della ricerca dei luoghi. A quella ricerca io non partecipai, Visconti l’aveva cominciata sull’isola prima che arrivassi. Quando scelse Aci Trezza, io giungevo col set già deciso. A me toccava un incarico di grande responsabilità, specialmente per uno che nel cinema debuttava. La terra trema non aveva una sceneggiatura scritta. Visconti arrivava la mattina, impostava il set, impostava la scena e cominciava a provare con gli attori, che erano dei pescatori, attori del tutto improvvisati. Sai cosa significava provare? Tradurre dall’italiano in dialetto stretto di Aci Trezza, la lingua della Sicilia orientale. Lui ogni giorno inventava

dialoghi coi pescatori e le ragazze del posto. E lo capivano, lo capivano. Diceva per esempio: «Come diresti tu questa battuta?». E quello traduceva in siciliano. Quando poi aveva provato la scena, Zeffirelli doveva prendere gli attori e allenarli, in modo che imparassero i dialoghi che voleva Visconti e che non improvvisassero. Nei miei film ho sempre preso alcuni personaggi dalla vita vera e li ho fatti diventare attori. Pretendevo solo che parlassero, che adattassero il dialogo con la loro lingua. Io dovevo fare in modo che a loro, quel dialogo, sembrasse vero, che lo sentissero dentro. Quindi Visconti con i pescatori inventava i dialoghi e glieli metteva in bocca nel loro dialetto, poi toccava a Zeffirelli fissarli sulla carta in modo che potessero memorizzarli e ripeterli sempre nella stessa forma. Esattamente. Io invece avevo quattro o cinque libri, dei diari. Uno conteneva i disegni dell’inquadratura con dentro i personaggi e la descrizione dell’azione scenica, che poi andava riversata come sceneggiatura in un volume definitivo. In un altro segnavo i particolari tecnici della ripresa: l’obiettivo, la distanza, l’altezza della macchina, il metraggio della pellicola, e i dettagli di ogni ripresa. Naturalmente non se ne facevano mai meno di cinque o sei, in alcuni casi si è arrivati anche a trentatré. Appuntavo tutto, per esempio se durante la scena era passato un aereo. Era necessario perché Visconti faceva la presa diretta. Nel terzo libro disegnavo, con la forma di pupazzi, tutti i raccordi, cioè la continuità del film. Segnavo tutto di ogni personaggio che entrava in scena, com’era vestito, se aveva la barba. Era importante perché avevamo a che fare con pescatori e non con attori professionisti. Potevano tornare a casa e farsi la barba. L’indomani si sarebbero presentati sul set con un aspetto non più raccordato alla scena. È successo spesso. C’era poi un altro libro che spiegava tutto il carattere di Visconti. Lui sapeva che le riprese sarebbero durate sei o sette mesi. Perciò potevano verificarsi casi di scene non girate, se solo un giorno il sole fosse sparito. Come si poteva essere sicuri di girarla l’indomani? Poteva passare pure una settimana. Io, allora, dovevo segnare tutto. Il libro

tornava utile per richiamare le sequenze sospese, i pezzi mancanti. A intervalli di cinque minuti, dovevo appuntare quello che accadeva sul set e l’ora in cui accadeva. Un vero e proprio diario di lavorazione. Se si presentavano imprevisti, per esempio ritardi, non esisteva il dubbio su chi fosse il responsabile. Era scritto lì. Spesso la pagava il povero Aldò, che era abituato a fare il fotografo di film francesi e a usare le luci come i francesi. Prima metteva un proiettore 500, poi un pezzo di carta, poi una mezza calza di seta, poi un altro pezzo di carta. I proiettori diventavano scenografie. A volte Visconti aspettava, seduto sotto la macchina da presa senza muoversi. Osservava il lavoro degli altri. È quello stile francese che ha dato a Visconti e ad Aldò la possibilità di creare una fotografia così suggestiva, niente di paragonabile con la fotografia del neorealismo. Perché La terra trema non ha nulla di neorealista. È un film «realista», non neorealista. Era perfettamente calcolato, tutto organizzato, ti ho detto come nascevano i dialoghi. Non c’era affatto l’improvvisazione di Paisà o di Ladri di biciclette, l’invenzione del momento tipica dell’idea neorealista. Entrambi erano però stili di cinema che usavano la trasposizione realistica di una vicenda che si svolgeva davanti alla macchina da presa. E comunque Visconti sceneggiatura.

in

quel

film

lavorava

senza

No, non esisteva mai niente di scritto. Solo gli appunti. La mattina lui arrivava e impostava la scena che aveva in testa. Se era una scena da completare, allora si proseguiva il lavoro. Se invece la scena non era ancora cominciata, noi apprendevamo tutto in quell’istante. Apparentemente, non sapevamo nulla. Apparentemente. Perché conoscevate l’ambiente in cui girare la scena nuova e anche gli attori che lui aveva fatto convocare. Vi restava solo da capire cosa covasse di fargli fare. Esatto. È così che nasceva la sceneggiatura. Una bella scuola, che dici? Infatti quando Visconti, a riprese finite, mi offrì di seguire il montaggio del film, la presi proprio come un’opportunità unica.

Altro che Centro Sperimentale! Non c’era paragone. Avevamo al montaggio Mario Serandrei, tra i più grandi del cinema mondiale. Ed era anche un vero intellettuale, un uomo di cultura vastissima e profonda, ma pure con una radice popolare. Era spiritoso, intelligente, concentrato sul lavoro. Montava tre o quattro film contemporaneamente. Aveva iniziato con i documentari, poi era passato al montaggio. Fu un piacere lavorargli accanto. Durante le sedute di montaggio, io stavo seduto dietro a Serandrei e Visconti. Imparavo non solo cinema, ma anche letteratura. Quei due si sfidavano con citazioni letterarie francesi, russe. Una meraviglia. Che fine hanno fatto quei cinque volumi con l’intera lavorazione de «La terra trema»? Sono in una vetrina della Cinémathèque Française, da quando Henri Langlois, il direttore di quel meraviglioso archivio del cinema, li chiese a Visconti. Lino Miccichè realizzò nel ’94 un libro su quei disegnini, gli originali ha dovuto prenderli alla Cinémathèque. Era stato Langlois in persona, allora ancora direttore, a voler esporre quei quaderni. Mi parli di Langlois? Mi sembra un personaggio importante. Parlami del tuo rapporto con lui e di come l’hai conosciuto. L’ho conosciuto proprio grazie ai miei quaderni. Ti ho spiegato che Langlois li chiese a Visconti. Più tardi ci recammo a Parigi e conobbi Langlois e sua moglie, Mary Meerson. Personaggi molto particolari, chiusi nella loro passione per i film da conservare e far vedere. Raccoglievano tutto ciò che li appassionava, al cinema avevano dedicato le loro vite. Molti anni dopo ho ricevuto il premio Henri Langlois della Cinémathèque Française. C’è scritto: «La Cinémathèque Française – Hommage à Francesco Rosi – 12/31 octobre 1973 – Henri Langlois». Lui fu ideatore e fondatore della Cinémathèque. So che all’inizio ebbe al fianco Georges Franju e Jean Mitry. Ma lei, la Meerson, era un’ebrea russa con una passione sfrenata per il cinema. Aveva raffinato questo suo amore già al fianco del primo marito, quel Meerson che era

stato uno dei grandi scenografi del cinema francese degli anni Trenta. Insomma, la Cinémathèque nasceva e prosperava su questa passione, sulla voglia di creare un posto dove non solo i film, ma tutto ciò che riguardava la vita e la realizzazione di un film, potessero avere una testimonianza. Non dimenticherò mai quel viaggio a Parigi con Visconti, per vedere le vetrine in cui avevano sistemato i diari del nostro film, che Luchino aveva spedito tempo prima. A Parigi mi trovai davanti alla testimonianza del lavoro fatto per La terra trema. Il film ebbe in Francia un successo enorme. Georges Sadoul, che era allora il critico francese più stimato e rispettato nel mondo, ne fu un sostenitore accanito. Fino a quel momento i volumi li aveva conservati Visconti? Sì. Ovviamente durante il lavoro li avevo io. Poi, quando è cominciato il montaggio, e ho fatto l’assistente di Serandrei, i libri finirono a casa di Visconti. Erano anche abbastanza preziosi, il perfezionismo di Visconti ne aveva veramente fatto un unicum. Lui sapeva che un film senza sceneggiatura è esposto al rischio di ritardi. Con questo resoconto minuzioso, e anche col mio entusiasmo e la mia devozione verso di lui, esasperai ancora di più il senso dei diari. Scrivevo tutto, davvero tutto: è successo questo e quest’altro, Visconti ha deciso questo, Aldò ha fatto quello. E non c’era solo il diario. C’era il bollettino tecnico della lavorazione, il libro su cui Visconti voleva che fosse registrata ogni inquadratura, il ciak, il numero dei ciak. E tu sai bene che il ciak inventato da Visconti per La terra trema era complicatissimo. Si riferiva al progetto originario delle tre parti. Esatto. E infatti il ciak cominciava con A/Mar. Perché A era il primo ciak e Mar indicava quello che doveva essere l’episodio del mare. Per cui già l’annuncio del ciak prendeva metri di pellicola. Poi «366. Trenta/24esima». Ricordo Pino Boccanfuso, che a Visconti faceva da cameriere e che si occupava dei ciak: «Diecesima!» disse un giorno. Voleva dire «decima». Poi aggiunse: «Ahó, ma quanti so’?». Visconti aveva in mente tre documentari. Uno sulla terra, uno sulle zolfare e i minatori, uno sul mare, che poi diventò La terra

trema. Sai perché si chiamò così? Perché prevedeva i contadini che occupano la terra, terra che tremava sotto gli zoccoli dei loro cavalli. Terra, mare e zolfo. Alla fine fece solamente il mare. Io nel bollettino, oltre all’indicazione dell’inquadratura, registravo la lavorazione di ogni ripresa. E cioè se c’era il sole, se era mancato e poi tornato, se una perturbazione o qualsiasi altra ragione aveva ostacolato il film. Ripresa dopo ripresa annotavo tutto, pronto per l’istante in cui Visconti diceva: «Dammi il libro». Non decideva sulla sua memoria, ma su quello che avevo scritto io. Segnavi anche piccoli incidenti della scena, come un attore che s’inceppava, si fermava o saltava una frase della battuta? Per forza, noi giravamo in presa diretta. Lui così sceglieva quella buona e io ho preso l’abitudine – fin dal primo film – della presa diretta. La faccenda non riguardava l’attore straniero che necessariamente io doppiavo. La descrizione di come si svolgeva la ripresa si trovava tutto sommato anche sugli altri libri. Come vedi, il mio lavoro era oneroso, mi chiedo ancora come riuscissi a farlo. Gli anni trascorsi a guardare mio padre mentre faceva i suoi disegni mi erano tornati utili. Fissavo minuziosamente le inquadrature ritraendo i personaggi come semplici pupazzetti, anche per velocizzare il tutto. Su quei disegni, come ti ho già detto, Lino Miccichè ha pubblicato un libro bellissimo. Mi onoro di essere colui che ha voluto quel libro e ha permesso che si realizzasse. Ero socio fondatore della Philip Morris Progetto Cinema. Si decise di restaurare «La terra trema», dissi: «Occorre farne un libro». La signorina Alessandra Giusti, Project Leader della Philip Morris Progetto Cinema, accettò la mia idea, l’operazione fu finanziata e si chiese a Miccichè di scriverlo. Per me è stato un privilegio. Una storia che non conoscevi, vero? Non ne sapevo nulla, ma scrivere questo libro era fondamentale. Tra l’altro, poiché non ce n’era una, la segretaria di edizione ero io. Pensa, grazie ai quaderni e ai disegnini delle inquadrature, durante le riprese avevo il privilegio di essere il solo che poteva guardare in macchina.

Visconti, in questo, era inesorabile. Aveva un senso della disciplina che era la base dell’ordine necessario per realizzare un film complesso come quello, senza una troupe ordinaria. Inizialmente eravamo in dodici. Quando poi il film è diventato più professionale, è cresciuta anche la troupe. La terra trema ha una storia affascinante. Io l’ho scritta nella prefazione al volume che Cappelli ha dedicato al film. Poter guardare in macchina era un fatto frequente? L’aiuto regista all’epoca aveva il diritto di guardare in macchina o si trattava di una situazione eccezionale? Non era autorizzato neppure l’aiuto ma, se accadeva, il regista di solito capiva che non doveva dire niente. Se avessi guardato in macchina senza l’approvazione di Visconti, sarei stato cacciato via. Io potevo perché lui mi autorizzò espressamente. Mi spiegò ciò che doveva andare sui diari. Disegnini, distanze, tutto il resto. E dire che l’assistente, al cinema, non l’avevo mai fatto. Non avevo che quell’esperienza in teatro. Come facevi a tenere in pugno cinque volumi, a scrivere tutto ciò che accadeva sul set? Visconti mi disse: «Tu ti sistemi vicino alla macchina da presa, guardi quello che accade là davanti e lo descrivi». Era molto rispettato, temuto, ma anche molto amato. Tutta la troupe voleva capire in cosa consistesse il metodo di Visconti, la sua serietà. Dopo aver fissato l’inquadratura, se ne stava seduto sotto la macchina da presa, da lì non si muoveva fino alla fine della ripresa. Gli sarò sempre grato per ciò che mi ha insegnato e per le responsabilità che mi ha affidato. Compreso il doppiaggio italo-siculo del film. Quando proposi di farlo coi sottotitoli, quasi mi lanciava per le scale. Non era una cattiva idea. Non lo era. Infatti poi uscì coi sottotitoli. Quando si va al cinema, si vuole capire. Puoi comunicare qualcosa di dubbio solo se riguarda la struttura, non i dettagli tecnici del film. Il mio metodo di lavoro nasce dal lungo apprendistato fatto con Visconti. Per me, girare non in presa diretta significava

perdere la verità, l’originalità del film. C’è un margine d’errore in qualunque opera, un rischio che però devi correre, perché spesso diventa la forza, la personalità stessa del film. Mi sono regolato così fin dal primo lavoro. Ho sempre scelto la presa diretta, doppiando solo gli attori stranieri. Condivido totalmente ciò che dici, e di esperienze ne ho vissute. È successo anche in una scena di «Baarìa». Il padre del protagonista è sul letto di morte e ha intorno la gente del quartiere che gli chiede di portare nell’aldilà un saluto ai propri defunti. È una scena estiva, girata mentre fuori piove. Era in interno, e ci siamo arrangiati. Ma nell’ambiente ricostruito la pioggia filtrava e se ne sentiva il rumore. Una ragazza ai piedi del letto chiedeva al moribondo di parlare a suo figlio: «Ass’à ci rici c’ò piensu siempri». Ditegli che lo penso sempre. Ti confesso che quando ho girato quella scena, ho sentito i brividi. Ti credo, Peppuccio. Dipendeva dal modo in cui questa ragazza di Palermo, che era una bravissima attrice di teatro, pronunciò la frase. Un effetto potente, ottenuto con poche parole. C’era la pioggia sotto, un po’ entrava nel suono, e in post-produzione ci siamo detti: «Questa non si può usare, va doppiata». Richiamo la ragazza e lei doppia benissimo. Mando tutto in proiezione: non era la stessa cosa! Spero che alla fine tu abbia lasciato la presa diretta con la pioggia. Esattamente. Della pioggia non s’è mai accorto nessuno. Ma quando lei dice: «Ass’à ci rici c’ò piensu siempri», fa tremare. Almeno me. Come le parole di Rosaria Schifani, poliziotti uccisi accanto a Falcone. In perdono, però vi dovete mettere in momento di forza inaudita e restituiva della situazione.

la moglie di uno dei chiesa disse: «Io vi ginocchio». Fu un tutta la drammaticità

Questi istanti non valgono solo per la drammaticità dei fatti. Diventano senso, contenuto, valore. Quella frase ha segnato un’epoca. Non trovi? Infatti, continuano a citarla ancora alla televisione. Nessun politico avrebbe potuto concepirla, e comunque non l’avrebbe pronunciata con quella forza. Volevo chiederti dei tuoi rapporti con Visconti, a parte quelli già raccontati. Ricordi altro? Vi vedevate, vi sentivate? Molto raramente. Andai a trovarlo qualche volta quando era ammalato. Ma avevo i miei film da girare, gli impegni. Per un verso, il nostro rapporto non si è mai modificato. È rimasto assai stretto. Voleva molto bene anche a Giancarla, mia moglie. Ho una curiosità che mi hai provocato tu adesso. Mentre vivevi quell’esperienza, mentre lavoravate ad Aci Trezza, eri consapevole che quei momenti sarebbero passati alla storia? Te ne rendevi conto, oppure non vi accorgevate di nulla? Io capivo che Visconti stava realizzando qualcosa di mai visto prima nel cinema industriale. Ma che il film entrasse nella storia non potevo saperlo. C’era anche chi, non dico che abbia rinnegato quell’esperienza, ma che ha definito esagerata la pretesa di Visconti di girare un film in modo così minuzioso. Anche da parte di Visconti, o di Aldò, o anche di Gianni Di Venanzo, che aveva già lavorato in molti film e che il cinematografo lo conosceva. Pensa che all’inizio non avevamo un dolly, né una gru. C’era solamente una Debrie 300 e una Ascanio 120, una macchina da presa meravigliosa, piccolina, con lo chassis di legno [il caricatore contenente la bobina di pellicola fotografica delle macchine da presa, NdR]. Il responsabile del suono era l’ingegner Trentini. Adoperava il sistema Rca, che era meno morbido del Western, ma più fedele in caso di riprese fatte dal vero. Oggi danno film in televisione, anche girati in presa diretta, in cui non senti bene il suono. Un po’ perché in Italia non c’è l’abitudine alla presa diretta e un po’ perché non si è mai dato il tempo ai tecnici del suono di lavorare al meglio. Prendi la Francia, lì il suono viene

rispettato e attentamente perfezionato. Si studia la sonorità di un ambiente e dell’attore che parla in primo piano. Dettagli importantissimi, che da noi si trascurano. Devo dire che adesso si fa una buona presa diretta anche in Italia. Rispetto a una volta c’è la registrazione fedele del suono, questo senz’altro, ma io parlo di qualità vera. Quando ho fatto l’assistente di Antonioni, c’era un responsabile del suono che registrava con un piccolo microfono «a palla» che spesso tirava fuori dalla tasca dei pantaloni. Otteneva un suono formidabile. Quel suono che non ti fa confondere una consonante con un’altra. So bene che uno scrupoloso ed esigente come te, il suono lo vuole perfetto. Ci sono anche quelli che non vogliono perdere troppo tempo. Il suono è fondamentale. Un suono di qualità cambia proprio la percezione dell’immagine. Sono d’accordo, cambia la percezione visiva. Ti raccontavo che non avevamo una gru, ma Visconti voleva un’inquadratura col dolly. Salì su una cassetta di legno e cominciò a guardarsi intorno, voleva osservare dall’alto. Il capo macchinista, Bruno Pascarella, lo scrutava in silenzio. Poi prese una cassa di legno e cominciò a lavorarci, aiutato da tutti i macchinisti e poi anche dai pescatori. In pochissimo tempo crearono una straordinaria macchina leonardesca, con la quale Visconti si alzò. Era nato un dolly meraviglioso. Quella bisognava conservarla! È un episodio che dà il senso del rapporto strettissimo che lega capo macchinista e regista. Credo sia ancora così nel cinema. Non c’è dubbio. Tra il regista e il capo macchinista nasce veramente un rapporto speciale. Diverso da quello che si ha con tutti gli altri. Sì, speciale. Intuire cosa serve perché funzioni un carrello di trenta metri non è affatto semplice. Oppure un dolly, o un braccio che si alza e deve muoversi a destra e sinistra.

E soprattutto sono movimenti, quelli che descrivi, che non sono assoluti. Il capo macchinista deve capire l’azione. Quei movimenti lui li disciplina. E qui nasce la specificità del rapporto col regista. Certo. Col regista e direi anche con l’aiuto regista. Perché quando l’aiuto regista è un professionista con un certo tipo di preparazione e di esperienza, spesso anticipa le richieste del regista. Perché le intuisce. Perché ha imparato a capirlo al volo. Questo fa anche recuperare tempo. Per la lavorazione de La terra trema c’è voluta la bellezza di sei mesi. Molte volte una ripresa è stata interrotta per il maltempo e l’abbiamo rifatta dopo una settimana, anche due. Come fu l’impatto con i mezzi tecnici? Una macchina da presa non l’avevi mai vista, un obiettivo non sapevi cosa fosse. Come te la sei cavata? Innanzitutto c’era un grande aiuto operatore alla macchina, un signore che si chiamava Gianni Di Venanzo, un maestro. Gianni lo conobbi lì. E poi l’aiuto regista di un film stabilisce presto un rapporto stretto con il direttore della fotografia, che può suggerire mosse di cui non si ha esperienza. Grazie ad Aldò, capivo molto sulla posizione degli attori, stare a destra o stare a sinistra, i campi. Lui in realtà non aveva preparazione tecnica, era al suo primo film. Ma aveva fatto il fotografo di scena in molti film francesi. Ma quando hai imparato la differenza, che so, tra un obiettivo 28mm e un 50mm? Subito. Visconti non dava lezioni per spiegare cosa fosse il 28 o il 25. Dovetti impararlo per forza, per avere controllo e resoconto tecnico. Con Di Venanzo capii presto la differenza tra il 28, il 25, il 35. E poi si sapeva che non potevo essere al corrente di tutto quello che era la tecnica, pur con tutta la mia buona volontà. Ogni tanto dovevo per forza ricorrere all’operatore di macchina. Prima hai parlato della durezza di Visconti e della sua generosità. So che durante le riprese de «La terra trema» ci fu una prova della sua durezza.

Forse tutto successe anche a causa di un equivoco nato tra me e Zeffirelli. Noi non c’eravamo perfettamente resi conto che Visconti stava rischiando non solo la reputazione di regista, ma anche un bel po’ di soldi, perché il film dovette portarlo avanti lui. E non è così raro, nel nostro mestiere, me ne sono accorto personalmente. E per fortuna lui fu aiutato da Togliatti e dal Partito comunista. Gli versarono sette milioni, se ricordo bene. E questo avvenne attraverso la società di produzione di Alfredo Guarini, il marito di Isa Miranda. Poi venimmo a sapere che a Togliatti e al partito il film era piaciuto molto. Ti dicevo che a un certo punto Visconti s’incazzò con me e Zeffirelli e ci fece una ramanzina, un bel liscio e busso. Tempo dopo ci fu una tempesta di mare, noi dovevamo girare il rientro delle barche. Visconti mi fa: «Dammi il libro!», io gli porto quello con i disegni delle inquadrature. E lui: «Ma qui c’è l’albero della barca che è spezzato». «Sì, è rotto, s’è spezzato.» «A che altezza s’è spezzato?» Io indico la pagina: «Lì, all’altezza che si vede nel disegno». «No» fa lui «bisogna sapere con precisione l’altezza.» «E come potevo? Che facevo, andavo sulla barca a misurare?» «Non mi rispondere così! Tu non sei stato capace di tenere il raccordo preciso!» Poi chiama la segretaria di produzione Davini: «Manda un telegramma a Roma: si sospende la lavorazione perché il primo assistente, Francesco Rosi, non è stato in grado di fornire con precisione il raccordo per continuare la sequenza!». Cioè voleva l’altezza precisa del punto in cui la tempesta aveva spezzato l’albero della barca. In effetti quelli erano giorni di tensione nella troupe. Per motivi di orari, di paga. Lui dettò il telegramma, quindi sentirono tutti. Lo sentirono tutti. E per noi Visconti era come un dio, non so come dire. Solo l’ingegner Trentini, il responsabile del suono, espresse il suo disaccordo. Disse che non condivideva che si punisse l’aiuto regista per un motivo così assurdo. Non lo disse direttamente a Visconti, ma lo fece sapere. Capirai, con i miei libri in mano me ne andai lungo la scogliera, sedetti su uno scoglio e mi misi a piangere. La lavorazione era

sospesa, e per colpa mia. Ma vedi, questo episodio all’apparenza denuncia un aspetto quasi crudele di Visconti, però interventi duri come quello erano giustificati dalla sua idea che il lavoro significasse, prima di tutto, responsabilità. Fai i raccordi? Be’, quei raccordi devono essere precisi. Oddio, nel mio caso si potrebbe discutere. Che dovevo fare, misurare l’albero in mezzo alla tempesta? Ma ho sofferto sul momento, quando sono andato a piangere. Poi è passato tutto, ammiravo troppo Visconti, gli volevo bene. Anzi, pensai: «Ha ragione lui». Oggi, forse, non succedono cose simili. Direi di no. Oggi, poi, se ti serve un raccordo preciso puoi vedere sul monitor l’inquadratura girata anche tre settimane prima. All’epoca non era possibile. Allora non c’era il monitor, e i provini poteva controllarli solo il primo assistente, cioè io. I provini sono code di pellicola impressa che si staccano alla fine del rullo, proprio per controllare la stampa. Questi pezzetti si sviluppavano sul set in una tanica a parte. Se ne occupava un assistente operatore. Prendeva la coda, ne sviluppava un pezzettino, e una volta asciutto lo guardavamo. Visconti voleva questo lavoro per tutte le inquadrature. Ma te l’ho detto, già i ciak de La terra trema erano una faticaccia. Quei sei mesi ad Aci Trezza furono solo duri o vi siete anche divertiti? Sai bene com’è. In un film ci si diverte e si fatica tanto. Un film è vita. C’è poco altro da dire. Per questo noi facciamo il cinema, e di cinema siamo ammalati. Non siamo normali, perché abbiamo un modo di vivere la vita che è legato alla capacità di riprodurla. Interpretiamo la realtà e riproduciamo la vita. La maniera in cui riusciamo a portarla sullo schermo è la verità del nostro film. Non la verità dei fatti, che al massimo appartiene ai magistrati, ma la verità del film. Noi creiamo una realtà nella quale abbiamo creduto, che ricostruiamo e che deve affascinare un pubblico che di ciò non sa nulla. Ora non farmi aggiungere troppe fesserie, tu queste cose le sai meglio di me. Ma lasciami dire che la verità che nasce sullo schermo è un miracolo. Improvvisamente, appaiono ombre che diventano

vita, sentimenti, passione. E come te ne liberi? Impossibile. E invecchiare non ti sottrae la passione. Neppure il teatro compie questo miracolo, il palcoscenico «chiude» tutto in un cubo. Pure lì c’è una trasposizione, ma nel cinema è tattile, t’illudi di poterla toccare. Quando vedi il bambino di Ladri di biciclette che segue il padre a cui hanno appena rubato la bicicletta, tu, questo bambino, lo vedi davvero e vedi che soffre per il padre. Non è un miracolo? Voglio raccontarti di una volta che mi trovavo in Sicilia, a Taormina. Sullo schermo del Teatro greco, scorrevano immagini di Ladri di biciclette, perché De Sica aveva vinto il David. Era tutto buio e davanti lo schermo passò Robert Altman, che conoscevo, era stato anche ospite a casa mia. Altman si ferma in corrispondenza delle immagini del bambino, mentre io raggiungo il palco. Mi vede e mi fa: «Questo è il numero uno nel mondo. Questo è il più grande film mai fatto!». Altman era forte. Grande regista, grande uomo per quello che penso io. Durante i mesi di lavoro ad Aci Trezza dove dormivate? All’Hotel Central Corona di Catania, al pianterreno c’era la sede della pasticceria Caviezel. Io e Zeffirelli, la mattina alle sei, prima di partire per Aci Trezza, facevamo una meravigliosa colazione con brioche e cannoli alla siciliana. Un giorno venne Tennessee Williams a visitare il set. Un’altra volta si fece vedere Salvo D’Angelo, che poi diventò produttore del film. Tennessee Williams si trattenne sul set o salutò e se ne andò subito? Restò per un po’. Con lui c’era uno scrittore inglese, Visconti voleva affidargli un compito che riguardava il teatro. Quando andammo a Venezia, dove il film uscì, Visconti mi incaricò, per dirti la fiducia che c’era, di andare in cabina di proiezione e controllare che il proiezionista mettesse il rullo giusto. Così diventai amico dei proiezionisti. Renato Marinelli, per esempio, che poi divenne rumorista. Era bravissimo, il più grande rumorista che abbia avuto il cinema italiano, ed era un amico vero. Inventò lui il trucco delle noci di cocco messe sulle gambe per produrre un suono di cavalli al galoppo. Era

geniale, basta sentire i passi del generale di Uomini contro. Per ottenere il rumore dell’eco, Renato prese due scarponi chiodati e andò nella sala di un palazzo antico vicino Roma. Il suono di Uomini contro è favoloso. Ma forse di tutto questo non frega niente a nessuno. A noi sì. Parleremo anche di Marinelli. Allora, dicevi che eri in cabina e che sei diventato amico del proiezionista. Non potevo fare diversamente: «Ma che devi controllare?» mi disse. «Come, che devo controllare? E se sbagliate e mettete una bobina al posto di un’altra?» L’incubo del regista: una volta spente le luci cosa apparirà sullo schermo? Il rullo sarà quello giusto? Il film sarà proprio il mio? E il formato? Volume e luce saranno sistemati bene? Il volume, non parliamo del volume. Secondo te quando hai davvero conquistato la fiducia di Visconti? Non solo durante le riprese. Ma tenendo quei libri, facendo l’aiuto regista, correndo come un pazzo di qua e di là. La mattina presto, oltre che mangiare cannoli da Caviezel, andavo a fare iniezioni contro l’artrosi. Benché giovane, in quel periodo camminavo tutto storto, ma non mollavo. Poi me la sono guadagnata durante il montaggio, ero diventato il guardiano del film. Ogni tanto, se non c’era Visconti, si tentava di tagliare qualcosa. Non nella sala montaggio, dove c’era Serandrei, ma nella fase successiva. E allora diventavo un cane da guardia, quel film lo conoscevo a memoria. La produzione voleva tagliare e tu lo impedivi? Sempre. Una volta venne pure Visconti. S’incazzò, prese la scrivania dove stava seduto uno della produzione e la fece volare. Non era Salvo D’Angelo, con lui aveva un rapporto d’amicizia, ma qualcuno del suo staff. Luchino seppe che avevo impedito i tagli e ciò, probabilmente, sigillò la sua fiducia verso di me. Non lo facevo solo per amicizia, io per quel film provavo amore. Quindi sei stato testimone dell’intero montaggio?

Tutto. E mi sono occupato anche dell’edizione italiana, cioè siculo-italiana, che aveva una voce fuori campo, era un testo scritto da Visconti, da Antonello Trombadori e, se non sbaglio, da Antonio Pietrangeli. La voce, bellissima, era di Mario Pisu. Fui io a registrarla. Durante il montaggio, tra Serandrei e Visconti c’erano molte discussioni? Sì, spessissimo. E tu? Esprimevi la tua opinione? Mai. Non mi sarei permesso di dare pareri a Serandrei e Visconti insieme. Semmai dicevo qualcosa a Serandrei dopo, prendendolo da parte. Una sola volta mi permisi di dire: «Ma perché usiamo questa voce? Mettiamo le didascalie, questa lingua siciliana è incomprensibile». Ti ho già detto che stava per buttarmi dalle scale. Diventò una belva: «Le didascalie? Ma sei pazzo? Per rovinare l’immagine?». Invece ci volevano. Ricordi se venivano giornalisti sul set per interviste, per prendere notizie, o allora non succedeva? No, non eravamo ancora giunti alla follia cominciata da qualche anno. Non ti puoi muovere che… E quella famosa proiezione a Venezia come andò? Malissimo. Il pubblico si divise. Non capivano troppe cose. Del resto, l’argomento del film non era facile. C’era gente che era venuta con le chiavi per disapprovare. Ti spiego: le case a Venezia avevano i vecchi portoni, con le antiche serrature di una volta. Tanti vennero con quelle grosse chiavi che usavano come fischietti. Erano signori e i fischi, con le dita in bocca, non li sapevano fare, perciò usavano la chiave come «fischietto». Se l’erano portate, vuol dire che avevano già deciso di fischiare. Fu un vero scontro ideologico. Visconti ne soffrì. Ma lui non lo dava a vedere che soffriva. Lui e Salvo D’Angelo avevano vestiti di lino bianco e le facce più bianche del lino che indossavano. Erano davvero preoccupati. Pensa che appena arrivò, prima della proiezione, venne a trovarmi

nella cabina per assicurarsi che fossi lì. Salvo D’Angelo era dietro di lui. Con la gente del luogo, gli abitanti di Aci Trezza, com’erano i rapporti, nacquero delle amicizie? I primi contatti furono pieni di diffidenza. Poi qualcosa cambiò. Noi andavamo a mangiare nella trattoria di Giammona, padre delle due ragazze che recitavano nel film e che ci servivano a tavola durante la colazione. Vennero a Venezia anche loro. È questo il cinematografo che ancora piace a me. Con il passare del tempo ci conoscemmo meglio. Ci furono litigi, quando volevano più soldi. Alla fine delle riprese, Visconti portò con sé a Roma un giovane pescatore, si chiamava Maccherone, diventò il suo cameriere di fiducia. Visconti era un signore, era naturale che gratificasse coloro che dipendevano da lui. A questo punto, che fine fece il sogno di frequentare il Centro Sperimentale? Ormai lavoravo da professionista nel cinematografo, ecco che fine fece. Con Visconti vissi un’esperienza così vasta e completa che nessun Centro Sperimentale poteva darmi. Io dopo La terra trema, sarei stato sicuramente in grado di dirigere un film. Ma allora c’era molto rispetto per la carriera, che doveva cominciare conoscendo il cinema sul campo. Ero pronto, ma non volevo. Non ancora. Volevo avere le idee ancora più chiare.

Il «taglio» di Amleto

In quegli anni, ogni domenica intorno alle dieci, c’erano i matinée al cinema Barberini. Il Circolo del Cinema organizzava proiezioni di film. Siccome la produzione italiana era abbondante, davano i film per la gente del cinematografo. La sala del Barberini era piena, tutti lavoratori del cinema. Vedevi Visconti, che magari non trovava una poltroncina vuota e stava in piedi, vedevi Rossellini, e Zampa, e Germi. Poi c’eravamo noi giovani che non volevamo solo assistere ai film, ci piaceva stare in quel clima, vedere gli sceneggiatori italiani che non conoscevamo, sapere per esempio chi era Suso Cecchi D’Amico. E naturalmente volevamo incontrare i registi. Ricordi incontri importanti fatti durante quelle proiezioni? In quel periodo ero già un professionista del cinema. Conoscevo Visconti, avevo lavorato con lui. Ma tra quegli attori, registi, produttori, sceneggiatori c’era un’atmosfera quasi eroica. In fondo, eravamo consapevoli di rappresentare nel mondo l’Italia di allora. Del resto, eri di fronte a opere come L’onorevole Angelina (1947) o Ladri di biciclette (1948). E anche tanti film minori erano girati con quel gusto della riproduzione della realtà. In America la realtà hanno cominciato a scoprirla sul serio dopo il nostro neorealismo. Io ho assistito all’ammirazione che registi americani come Elia Kazan, come Jules Dassin, avevano per Sergio Amidei. Con lui ho lavorato, io ero un apprendista sceneggiatore, lui un personaggio meraviglioso, addirittura mitico. Venivano a trovarlo per sentirlo parlare. Amidei era pure mezzo matto, ogni tanto era fuori di testa, s’incazzava in una maniera… Buttava tutti fuori di casa. Avevo cominciato con lui la sceneggiatura di un libro.

Vorrei che prima mi dicessi qualcosa di quando facevi l’apprendista con lui. Significava andare alle nove di mattina a Piazza di Spagna in casa sua, dove trovavo uno che batteva a macchina, un suo uomo, simpaticissimo, piccolo e grassottello, uno che ogni tanto si pigliava qualche libertà. Correggeva alcune frasi scritte da Amidei e quando lui se ne accorgeva scoppiava il finimondo. Mi mettevo lì e aspettavo che arrivassero gli altri. Chi erano? Age, Scarpelli, Diego Fabbri. Quindi venivano registi, scrittori. Tu assistevi soltanto? Assistevo. Partecipavo quando Amidei me ne dava la possibilità. Un giorno gli lanciai una proposta. Lavorare alla sceneggiatura de La galleria, un libro favoloso di un americano, John Horne Burns. Era ambientato nella Napoli di quegli anni. Devo averti detto che ero intraprendente. Ne parlai pure al grande Michael Wilson, lo sceneggiatore de Il ponte sul fiume Kwai (1957), che raggiunsi a Parigi. Mi fece i complimenti e mi disse: «L’avrei fatto volentieri, ma ho troppi impegni. Ti do un mio sceneggiatore, lui può aiutarti». Mi propose Paul Jarrico, che era suo cognato e che il maccartismo mise nella lista degli indesiderati. Cominciai a scrivere con Amidei, ma dovevamo aspettare il lavoro di Jarrico, perché sennò né io né Amidei potevamo andare avanti. Ti eri rivolto a un americano perché volevi il lavoro in inglese? No, solo perché il libro di Burns raccontava la guerra a Napoli come l’avevano vissuta gli americani. Per questo chiamai anche Bill Weaver, uno scrittore americano che conosceva l’italiano alla perfezione, era innamorato dell’Italia e aveva fatto la guerra qui. Con Bill Weaver eravamo amici. Un giorno lo invitai a uno degli appuntamenti in casa di Amidei. Tutto procedeva tranquillamente, ma accadde che a me e ad Amidei, diciamo soprattutto a lui, venne un’idea straordinaria, proprio mentre tentavamo di raccontare questa Napoli di miseria, dolori, ma anche di voglia di vivere, di opposizione. Pensammo a un soldato nero che gironzolando

tra i vicoli della città era diventato amico di una famiglia, che lo ospitava e gli dava da mangiare spaghetti. Questo nero la sera andava lì, portava burro, scatolette di carne, accolto dal calore di una famiglia. Pensavamo alla tavola imbandita e a questo americano che mangiava spaghetti con i bambini napoletani arrampicati addosso, come fosse uno zio. Una bella scena. Ma Paul Jarrico e il suo agente obiettarono: «Francesco, Sergio, guardate che i neri, per noi, non sono più quelli che immaginate voi. Ora sono anche docenti all’università, non va bene la vostra idea. Noi vi capiamo, ma non possiamo presentare, in un film, un nero in quel modo». Non immagini la reazione di Amidei. Fu il povero Bill Weaver a tradurre. «Siete degli stronzi, perché il cinema l’abbiamo inventato noi dopo la guerra. Voi non avete fatto un cazzo, non sapete niente. Il cinema l’abbiamo fatto noi!», aprì la porta e se andò, lasciandoci tutti lì, nel suo studio, a casa sua. Ma lo faceva spesso, Amidei era un personaggio meraviglioso. Il progetto purtroppo non si realizzò perché Cristaldi, che si era innamorato dell’idea, si fece poi travolgere da mille dubbi, dalla questione dei diritti. Si perse tempo e non se ne fece nulla, con mio profondo dolore. Non avevamo scritto tutta la sceneggiatura, c’era solo la scena del nero che ti ho descritto. Una volta non mi avevi parlato di Amidei e di qualcosa che riguardava le scarpe? Sì. Quando andavo da Amidei alle nove del mattino, e non c’erano ancora gli altri, parlavamo di teatro. Lui lo frequentava, io pure. Poi mi guardava le scarpe, perché sapeva che io ne ero appassionato. E a Roma le ho sempre prese da Tito Petrocchi, un grande scarparo, grande davvero. Una volta gli dissi: «Tito, questo paio di scarpe che mi hai fatto, sono un po’ azzeccate azzeccate». Mi rispose: «Ma perché, che ce devi camminà?». Era come un rito, Amidei mi guardava le scarpe perché gli piacevano quelle di Tito Petrocchi. E voleva provarle. Così ce le scambiavamo e ci scambiavamo complimenti sulle scarpe. La passione per le scarpe è antica. Risale alle mie origini, i napoletani alle scarpe tengono molto. Un tempo non era difficile vedere a Napoli che un signore per

la strada si fermasse, togliesse il fazzoletto dalla tasca sul petto della giacca e spolverasse con cura le scarpe. Poi questo gioco con Amidei era divertente, perché lui era pieno di humour. S’incazzava, ma era anche dotato di spirito, intelligenza, passione politica. Nella sua casa a Piazza di Spagna aveva ospitato tutti i capi del comunismo. Lavorare al suo fianco è stato un piacere, e anche una bella fase di tirocinio. Scrivemmo un soggetto insieme su Napoli. Ma, come credo che capiti spesso, quell’idea non diventò mai un film. Capita a tutti. Per ogni film realizzato, ce ne sono dieci che restano nel cassetto, non fatti. È vero. In ogni caso, un giorno io e Amidei andammo al porto di Napoli e lì ci fermarono. Io chiamai mio padre: «Spiega a questi chi siamo e che cosa stiamo facendo». Qualcuno s’insospettì, ci vedevano andare in giro per il porto, anche in zone non accessibili, ma era lì che doveva svolgersi la storia che avevamo in mente. Amidei aveva un metodo particolare? Direi il metodo tipico del vero cinema neorealista: far parlare i fatti su personaggi riconoscibili nella realtà. Come tutti noi, rubacchiava idee di qua e di là, per rifarle, rivisitarle. Spesso ricorreva ai ricordi di un Maupassant o, non so, di un altro scrittore francese. Ma Amidei era geniale davvero. Io comunque l’apprendista l’ho fatto anche da Suso. Quando Luchino Visconti e Suso Cecchi D’Amico hanno fatto Bellissima con la Magnani, ed era il 1951, mi hanno fatto partecipare. Sono stato anche accreditato come sceneggiatore del film. E con Amidei? Ci sono film a cui hai partecipato al suo fianco? Sì, c’è Racconti romani, film che diresse Gianni Franciolini nel 1955 e a cui partecipai come apprendista, ma appaio tra gli sceneggiatori accreditati. Poi ci sono le sceneggiature fatte con Amidei per i film di Emmer. Il primo fu Domenica d’agosto, che è del 1950. Poi venne Parigi è sempre Parigi (1951), che mi tenne sei mesi in Francia, impegnato anche sul doppiaggio.

Poi presi parte a Terza liceo (1953) e infine a Il bigamo (1956). Con Emmer ne ho fatti quattro. Più o meno come con Matarazzo. Emmer lo incontrai grazie ad Amidei, lavoravano molto insieme. Emmer allora aveva una notorietà piuttosto alta, era un grande documentarista di film d’arte e voleva debuttare nel cinema di professionismo. Dimmi di Luciano Emmer, che tipo era? Intelligente e brillante. Aveva realizzato documentari bellissimi e aveva una moglie, Tatiana, piena di fascino. Lavorava con lui già al tempo dei documentari, gli faceva da assistente. Luciano Emmer è il primo ad aver fatto commedia neorealista con film come Domenica d’agosto (1950). Fu il primo insieme ad Amidei. Emmer era molto conosciuto e apprezzato in Francia. Eravamo anche amici, andavo spesso a casa sua. C’è un episodio emblematico del vostro rapporto umano? Le scenate nelle piazze di Parigi tra lui e Amidei. Oppure le difficoltà, perché a Parigi giravamo come mai si era fatto in quella città. Giravamo come in Italia. Anche nelle boîtes in rue Colombier, dove girammo una scena con l’orchestra di un sudamericano. Passavamo quasi tutta la notte lì, poi la mattina andavamo a lavorare. C’erano Marcello Mastroianni, Carlo Mazzarella, Lucia Bosè, Ave Ninchi e gli altri. Sai, la mia professione è stata sempre intrecciata con la mia vita privata. Io lavoravo moltissimo, mi piaceva. Forse non ho mai avuto un hobby. Da ragazzo amavo la pesca, ma non è mai diventato un hobby. Il mio vero passatempo era il mare di Posillipo. Ma nessuna passione mi ha mai distratto dal lavoro. Non dimenticherò mai le notti parigine in rue Colombier. Ballavamo, ascoltavamo musica. Emmer e Amidei litigavano spesso per il copione ma anche per la diversità dei loro temperamenti. Amidei faceva il produttore e lo sceneggiatore, Emmer il regista. Comprensibile che ogni tanto ci fossero scintille. Sergio Amidei aveva messo su una società, la Colonna Film, con cui produceva quel film di Emmer.

Poi c’è stata l’esperienza di aiuto regista anche con Ettore Giannini. È accaduto in una fase di Carosello napoletano (1953), film del quale ho contribuito alla nascita, all’impostazione. Tutte le cartoline su Napoli, che erano riproduzioni di pitture di Pietro Scoppetta e di altri disegnatori napoletani famosi, fui io a trovarle, durante una delle mie escursioni napoletane. Vicino a Piazza del Gesù vidi una bottega in un pianterreno, lì c’era la casa editrice Bideri e all’interno c’erano due sorelle. Devi sapere che esiste un bellissimo libro che si intitola Passeggiata per Napoli e contorni. Non dintorni, dice proprio contorni. L’autore è Emanuele Bideri, il papà delle due sorelle. Ne avevano una copia e mi portarono in casa loro, al piano di sopra, per mostrarmi questo volume sistemato in una libreria protetta da vetri, piena di libri preziosi. Passeggiata per Napoli e contorni era illustrato da grandi disegnatori. Allora avevo una gran passione per questo genere di cose. Per approfondire la storia napoletana, le curiosità napoletane, mi infilavo dappertutto. Con Ettore avevo lavorato per due anni. Radio, teatro, doppiaggio. Per Carosello napoletano mi chiamò lui. Ero già il suo assistente, naturale che chiamasse me. Aveva uno strano carattere, ma era un grande regista, soprattutto di teatro. Quelle cartoline che trovai erano dentro delle scatole di cartone per scarpe, buttate in una grossa cesta. Aprii le scatole e trovai il tesoro. Portai tutto a Ettore: «Guarda» gli dissi «c’è della roba!». Infatti ebbe l’idea di fare il siparietto del Carosello napoletano con queste stupende cartoline, ispirate alla vita canora napoletana di fine Ottocento. Ho partecipato alla nascita dello spettacolo, perché Carosello napoletano nasce prima come spettacolo teatrale, poi come film, del quale feci parte come aiuto regista per alcune settimane. Quando andai via, ci lasciammo un po’ freddamente. Avevo abbandonato il set, dandogli due aiuto registi di grande valore, Rinaldo Ricci e Giulio Questi. Ettore ci rimase male, perché erano due anni che lavoravamo insieme. Però siamo rimasti in ottimi rapporti.

Cosa ricordi in particolare delle riprese del film? Pieno di balletti meravigliosi, di coreografie bellissime. Una domenica trascorsa da Ettore interamente sul dolly, perché voleva che una scena di massa entrasse tutta nell’obiettivo 25mm. Ma non era possibile. I balletti erano eseguiti da professionisti portati da un grande impresario cileno, il marchese De Cuevas, dunque collaudati. Poi c’erano Antonio e Rosario, all’epoca ballerini famosissimi. E questo musicista molto amico di Ettore, Raffaele Gervasio, che aveva scritto la musica per le scene del Carosello. Parlavi di Giannini, ma ti sei limitato a una frase. Ho avuto però la sensazione che volessi dipingere più approfonditamente la sua figura poco conosciuta. Com’era veramente Giannini? Era poco famoso perché lui non amava farsi conoscere. Era noto nel mondo del teatro, dov’era apprezzato e ammirato da attrici come Sarah Ferrati e da attori come Camillo Pilotto o Salvo Randone. Attori coi quali aveva fatto spettacoli di grande rilievo. Ma non si metteva mai in mostra. Il suo strano carattere in cosa cosa consisteva? Forse ogni tanto gli piaceva fare la vittima. Piuttosto, aveva delle ottime idee e poi, a furia di lavorarle e di perfezionarle, a volte le privava di quella carica di freschezza che un’idea ha all’inizio. Era questo il suo difetto più grande. Ho frequentato moltissimo Emmer e Giannini, e ho appreso molto lavorando con loro ma quando ho cominciato a fare il regista né l’uno né l’altro mi hanno mai chiamato magari per complimentarsi. Eppure avevo avuto successo. Allora era un po’ così, forse diverso dal mondo di oggi, perché oggi… Credo sia peggio. Tu dici? Non so, io vedo che tra i giovani e alcuni professionisti già avviati c’è una comunicazione maggiore. E comunque, nel nostro mondo, la comunicazione dipende sempre molto dai film che stai facendo, dai progetti che hai. Capisci cosa intendo dire? Man mano che cominciavo a fare

film, con molte di queste figure ci siamo persi di vista. È successo con Giannini e con Emmer. E anche con Matarazzo. Dicevamo della tua attività di aiuto regista, con Visconti, poi con Emmer e Giannini. Mi piacerebbe che parlassi di Antonioni e Matarazzo. Con Matarazzo ho avuto un rapporto molto professionale. Un rapporto che devo a Mario Serandrei. Gli disse: «Raffaello, devi prendere Rosi!». A me Serandrei aveva detto: «Guarda che questo fa un certo tipo di cinema, ma è un intellettuale vero. Ha solo paura di infilarsi in progetti rischiosi». E infatti, era un uomo sensibile e molto colto, ma sembrava avere dei timori, era preda di tante paure. Dopo il suo primo film, che si chiamava Treno popolare (1933) e che fu un successo, il produttore Peppino Amato gli propose lavori strappalacrime con Amedeo Nazzari e con Yvonne Sanson. E lui li fece, ed erano film che incassavano moltissimo. A me l’esperienza da assistente con lui è servita molto, e poi ho avuto il piacere di lavorare con un regista colto e intelligente, dalle grandi conoscenze tecniche. Fu bello anche conoscere Amedeo Nazzari. Era simpaticissimo, una persona perbene. Matarazzo e Nazzari restano figure delle quali si parla abbastanza poco. Secondo te perché? Non saprei. Quando con Monicelli facemmo Proibito (1954), dal libro La madre di Grazia Deledda, lo andammo a girare in Sardegna. Non immagini quale fosse il rapporto tra i sardi e Amedeo, che era cagliaritano. Noi abitavamo a Sassari e nel film c’era Mel Ferrer, un attore americano con tipiche esigenze da attore americano, però molto corretto e preciso. Amedeo ogni sera, sotto all’albergo in Piazza della Stazione, aveva quasi tutta Sassari che lo aspettava, volevano che si affacciasse. Una scena incredibile. La domenica mi portava in giro su un pullmino Volkswagen, chissà perché lo caricava di cibo per una ventina di persone, quando a bordo c’eravamo io, lui e il suo assistente. La Sardegna è veramente bella da vedere. Un giorno ci fermammo su una spiaggia incantevole e Amedeo distribuiva cotolette alla milanese. Le buttava, bisognava acchiapparle. Da questa casa sul mare, una casa

padronale, scese una signora tutta vestita di nero, con dei lacci d’argento. Ebbi l’impressione che fosse una governante. Scoprimmo, poi, che era un’ex governante che il padrone aveva sposato. Questa donna regalò ad Amedeo un terreno con dentro un laghetto, che era un vivaio di pesci meravigliosi. Amedeo fu molto bravo in Processo alla città di Luigi Zampa, ispirato al processo Cuocolo, [il primo processo a un boss della camorra, celebrato a Viterbo tra il 1911 e il 1912, NdR]. Ed era davvero un bell’uomo. Qual era il clima sui set di Matarazzo? E quanti film hai fatto con lui? Tre in tutto. Tormento (1950), I figli di nessuno (1951) e Il tenente Giorgio (1952). Si diceva che Nazzari e la Sanson si odiassero, francamente non me ne sono mai accorto. Forse è solo una leggenda. E perché mai dovevano odiarsi? Comunque era un set tranquillo. Non come quello de La terra trema. Un film di Matarazzo si faceva in sette, otto settimane al massimo. Ho ricordi piacevoli dei rapporti con Nazzari, con la Sanson e con Matarazzo. Io mi preparavo a debuttare e perciò avevo bisogno di imparare e perfezionarmi. Da questo punto di vista l’aver portato a termine Camicie rosse fu per me utile. Ormai mi sentivo pronto. Poi arrivò l’opportunità del Kean. Cristaldi e la Lux mi dissero: «Se riesci a realizzare Kean con Vittorio Gassman in sole tre settimane, farai il tuo primo film». L’idea di portare il Kean dal teatro al cinema credo fosse di Cristaldi e Gassman insieme. Cristaldi era un magnifico produttore, che amava far debuttare i giovani e affrontare avventure nuove. Il successo teatrale del Kean lo spinse a farne un film. Naturalmente accettai. Lo realizzai tutto al Teatro Valle, adottando un sistema televisivo, malgrado fossimo nel ’56 e la tv fosse in Italia da soli due anni. Disegnavo a terra tutte le posizioni di macchina, compresi i movimenti dei carrelli. Quando cominciavamo a girare eravamo già pronti. Il direttore della fotografia era Gianni Di Venanzo, che conoscevo bene. L’idea di affidarmi la direzione tecnica fu di Cristaldi. Mi conosceva, ero un giovane assistente regista che si era già fatto notare. Diventammo presto molto amici. Anche perché riuscii

a rispettare il programma delle tre settimane. La prospettiva di fare un film tutto mio si faceva più concreta. Vittorio Gassman lo conoscevi già? Lo avevo conosciuto per via della sua prima moglie, Nora Ricci, diventata la mia compagna. Con lei siamo stati insieme dieci anni. Quindi l’incontro con Nora, la vostra storia sentimentale, era precedente al «Kean»? Sì, precedente. Ma io considero La sfida il mio primo vero film. Comunque sì, all’epoca ci conoscevamo già. Com’era il rapporto con Gassman sul lavoro? Che tipo era? Molto corretto. D’altra parte Gassman si era ormai separato da Nora e quindi la situazione era chiara, precisa. Prima che me ne affidassero la direzione, il Kean l’avevo visto. In ogni caso, prima di accettare chiesi consigli a Visconti e Serandrei. Tu e Gassman come creaste l’armonia cinematografica e regia dello spettacolo?

tra

regia

Provavo con lui la scena così come l’aveva diretta in teatro e da lì mi veniva l’idea su come inquadrare e come procedere. Poi si girava. Il progetto non prevedeva che si trasformasse il lavoro teatrale, ma poi la mutazione avveniva nei fatti, durante la scelta dell’obiettivo e dei movimenti di macchina. Una trasfigurazione naturale. Non ho mai più visto quel film, ma so che tecnicamente stava in piedi. Ricordi di aver girato con una o più macchine da presa? Soltanto una. Il montaggio lo feci con Serandrei. Vittorio fu soddisfatto. Esisteva una differenza molto marcata tra il Gassman teatrale e il Gassman interprete, più tardi, di film di un neorealismo molto particolare. Fu protagonista di molte opere di Dino Risi e Monicelli. Portava una carica enorme di bravura professionale e intelligenza. Riusciva a insinuare la prosa in quei film neorealisti, a fare un cinema che raccontava la realtà italiana. Non solo quella drammatica, ma tutta la realtà, fatta di personaggi, di avvenimenti, di un’Italia

quotidiana che il cinema ha saputo raccontare. Film come I soliti ignoti (1958) e Il sorpasso (1962) sono eccezionali. Anche il Kean, per quanto fosse un lavoro più difficile, uscì nelle sale. Mi colpisce molto che in Italia un film tratto da uno spettacolo teatrale lo si distribuisse al cinema. Oggi sarebbe impossibile. Impossibile, hai ragione. Recentemente ho fatto la regia teatrale di Napoli milionaria! Ho affrontato la trilogia di Eduardo De Filippo, che si completa con Filumena Marturano e Le voci di dentro, commedie scritte a guerra appena finita. La prima delle tre, Napoli milionaria!, anticipò in un certo modo pure Roma città aperta (1945). Debuttò al Teatro San Carlo di Napoli nel marzo 1945, in una matinée per soldati americani. Qualche mese dopo usciva nelle sale il capolavoro di Rossellini. Il neorealismo nasce contemporaneamente al teatro e al cinema. E De Filippo e Rossellini neppure si conoscevano. Quando ho fatto Napoli milionaria! ho voluto chiarire: «È una commedia storica che non desidero turbare, voglio però interpretarla». C’è un episodio in cui Eduardo, che fu anche attore protagonista, racconta per più di mezz’ora di essere reduce da un campo di concentramento. Io quel racconto voglio animarlo, vederlo. Poi ci sono, e non alterano alcun impianto, presenze, passaggi, una Napoli dell’epoca, la città dell’arrivo degli americani. Sarebbe un peccato non mostrare tutto. Viene fuori una strana opera fatta di due testi, quello di Eduardo e quello del film che avrei voluto trarre da La galleria di John Horne Burns. Ma né i produttori né i dirigenti della Rai vollero ascoltarmi. È stato un errore, era una bellissima idea. Non avrei cambiato le battute della commedia, avrei rispettato la sceneggiatura. Volevo solo fare un’opera di contaminazione fra teatro e cinema. Pensa cosa dice il testo di Eduardo sulla corruzione, gli scippi, i vicoli napoletani pieni di questo e di quell’altro. Al pubblico si poteva far vedere tutto. Magari raccontato dalla voce di Eduardo. Nell’Italia in cui era possibile fare un film dal «Kean», te l’avrebbero fatto fare. Ma vorrei tornare alla tua esperienza di

assistente. Vediamo più approfonditamente il lavoro con Monicelli e Antonioni? Partiamo da Monicelli, come vi conosceste, perché chiamarono te? Mi chiamò lui, Monicelli. Forse sapeva che ero un bravo assistente. Ma mi chiamò per un film che non era il film tipico di Monicelli. Era, te l’ho già accennato, un lavoro con Nazzari, tratto da La madre della Deledda. Il titolo era Proibito. Un film diverso. C’era Aldo Tonti come direttore della fotografia. Monicelli faceva quel film con bravura e correttezza da professionista. Ne aveva fatti già tanti, ma non era ancora il Monicelli de I soliti ignoti, dal quale il pubblico aspettava un racconto mezzo comico, mezzo drammatico e mezzo patetico. La madre con tutto ciò non c’entrava niente, era drammatico. Durante l’esperienza di quel film, come si è sviluppato il vostro rapporto, come vi siete intesi, come avete collaborato? Ho sempre visto l’assistente alla regia come un professionista scrupoloso, che non invade troppo il terreno del regista. Era anche presuntuoso mettersi a dire: «Secondo me bisogna fare così». Del resto non è che abbia seguito tutta la vita di quel film. Con Monicelli non partecipai ai sopralluoghi. Per certi film ci andavo, ma stavolta se n’era già occupato lui. Mi pare che stessi lavorando anche ad altro, perché ero impegnatissimo. È vero che durante le riprese del film di Monicelli, trattasti male un’attrice un po’ irrequieta. Era Lea Massari. Poi ci siamo incontrati e ci siamo voluti bene da morire. Lea ha fatto con me, splendidamente, Cristo si è fermato a Eboli (1979). Con Monicelli Lea era al suo primo film in assoluto, segnalatagli da Piero Gherardi, che era scenografo e costumista. Aveva un presenza bellissima, ma quando l’ho conosciuta, durante le riprese, stava molto per conto suo. Mangiava da sola, leggeva libri invece di comunicare. Fuori dal set, mi sembrava un po’ altezzosa. E a un certo punto glielo dissi. Poi siamo diventati amicissimi, le voglio bene e anche lei me ne vuole. La verità è che Lea ha un carattere esigente e sai che a me questo piace. Proprio non

capisco perché oggi sia sparita dal cinema italiano. Mi dispiace, Lea avrebbe potuto dare moltissimo. Ha fatto film in Francia con Malle, recitando in un francese perfetto. Non è il solo esempio, anche Mastroianni recitava in francese. Non parliamo poi di Gassman, che recitava in inglese. Questa è stata la grande caratteristica del cinema italiano, l’intraprendenza, il non aver paura delle novità, la voglia di misurarsi, forse perché consapevoli di fare un cinema nuovo, che stava insegnando al mondo qualcosa che non si era ancora osato fare. Pensa a film come I soliti ignoti o L’armata Brancaleone (1966): stiamo parlando di capolavori che hanno fornito dell’Italia una visione particolarissima. Lea ha fatto bellissimi film in Italia, ma quello fatto in Francia, Soffio al cuore (1971), era straordinario. Fu coprodotto da Cristaldi. Sono andato a una presentazione di suoi film al cinema Trevi, dove fanno proiezioni, retrospettive. Lea ha usato uno stile così vero nel suo percorso di attrice, così raffinato, che veramente mi dico: «Com’è possibile che non ci siano film per un’attrice così brava?». Invece Antonioni? Come nacque quell’esperienza? Nacque perché Citto Maselli, suo assistente storico, fece un film suo, per conto proprio, e lasciò solo Antonioni impegnato con I vinti (1953). Proprio Maselli gli propose me e lui accettò. Era il 1952. Una bella avventura, il film si girò in Italia, in Francia e a Londra. C’era anche Pietro Notarianni, nel ruolo di mio assistente. Lo conobbi in quel film Pietro, e siamo rimasti amici per sempre. Naturalmente, con Antonioni ero tutt’occhi e tutt’orecchie, il suo era un cinematografo diverso da quello che avevo fatto. Monicelli era molto più libero stilisticamente, Antonioni aveva un modo tutto suo di preparare la scena. Prima usava gli attori quasi come fossero birilli, non dovevano nemmeno recitare, ma solo occupare dei posti e seguire dei percorsi. Dopo, quando era sicuro di aver trovato i movimenti e le posizioni giuste, iniziava il lavoro con gli attori. Quando toccava a Enzo Serafin, un bravissimo direttore della fotografia, lui in un angolo leggeva il giornale e aspettava che Serafin terminasse, dopodiché cominciava le prove. Era

proprio bravo, gli era chiaro quello che voleva. Nell’episodio italiano c’era Franchino Interlenghi, in quello francese c’era Jean-Pierre Mocky e una ragazza, Etchika Choureau, con la quale ci siamo scritti ultimamente. Mi ha fatto i complimenti, è stata carina. L’episodio inglese era bellissimo, con Fay Compton, grandissima attrice di teatro. È piaciuto molto a tutti. Mereghetti nel suo dizionario ha dato al film due stellette e mezzo. Ma l’episodio inglese ne merita quattro. Per chiudere con la tua esperienza di aiuto regista, diciamo ancora qualcosa su Visconti, col quale non hai fatto solo «La terra trema». Ho fatto anche Senso (1954) e Bellissima. E proprio con Bellissima, Suso e Luchino – bontà loro – mi accolsero tra gli sceneggiatori. Il motivo credo si spiegasse con la presenza nel film di Tecla Scarano, attrice napoletana come me. Tecla tra l’altro la conoscevo, avevamo già lavorato insieme. Ricordo le battute che scrissi per lei. Interpretava l’insegnante di recitazione della bambina che doveva partecipare al concorso. Io dico che fu questa figura napoletana a determinare il mio ruolo ufficiale di sceneggiatore. Visconti, fedele al suo metodo, voleva forse che il personaggio avesse un’aria naturalmente napoletana. Nel cast c’era pure Nora Ricci, appariva in una scena nel ruolo di stiratrice della signora Arena, padrona di un appartamento in cui avevamo abitato io, Pierino Tosi e tanti altri giovani che volevano far cinema e volevano spendere poco. Chiamavamo quella casa «La gelida manina», perché era freddissima, senza riscaldamento, con una stanza e il bagno sul pianerottolo in cima a delle scalette. Di Nora non parli spesso, ma credo che sia stata una storia importante. È stata importantissima, ci siamo amati ed è durata dieci anni. Dico poco di lei forse perché faccio fatica a entrare nel privato di un rapporto che mi ricorda anche molti dolori. Il rapporto con Nora è stato vero, anche vivace. Ci eravamo conosciuti nel periodo di ’O voto, con Giannini regista. La storia non cominciò subito. Ebbe una prima fase, poi riprese e ci mettemmo insieme, così andai a vivere con lei e Paoletta,

Paola Gassman, figlia di Nora e di Vittorio. Credimi, Paola è un personaggio stupendo. Non farmi dire che un po’ le ho fatto da padre, ma quand’era bambina sono stato per lei una figura di riferimento. Nora appartiene alla fase della mia vita in cui c’era il teatro, in quel periodo lo frequentavo molto e con Nora, la sera, andavamo al ristorante Le stanze dell’Eliseo, all’ultimo piano di un edificio proprio accanto all’Eliseo. Lì c’erano gli appartamentini di Stoppa, della Morelli, della Gherardi, della Braccini. Ricordo il proprietario del ristorante, personaggio simpatico, un amico. Si chiamava Torre, era siciliano. Nacque allora l’amicizia con Paolo Stoppa. Ogni tanto io e Nora andavamo a Parigi a trovare lui e anche Visconti, che in Francia era tornato dopo averla evitata per anni. Sì, la vita con Nora è stata intensa. Poi qualcosa s’è logorato. Ho incontrato Giancarla e me ne sono innamorato. All’epoca del tuo primo film vivevi ancora con Nora? Sì. Diciamo che con lei ho vissuto tutto il periodo in cui facevo l’assistente di altri registi. Torniamo ancora a Visconti. «Bellissima» deve essere stato un’esperienza importante per te. Accidenti, decisiva. Anche perché era un film autenticamente neorealista, diversamente da La terra trema che era realista senza «neo». È vero, è molto bello. Fu bravissimo Gastone Renzelli, che trovammo al mattatoio. Era un «ossarolo», aveva una specie di appalto per raccogliere le ossa ai piedi di Monte Cocceo, una montagnola fatta di cocci e ossa accumulati per anni e anni fuori del Campo Boario. Lo trovò Zeffirelli. Interpretò il ruolo del marito di Anna Magnani. Bravo, davvero bravo. Era comunista, un comunista convinto. Blasetti faceva se stesso, Mario Chiari faceva l’assistente di Blasetti. C’era un cast favoloso, e poi la Magnani. Era eccezionale. La incontravo per la prima volta. Un anno dopo ci saremmo ritrovati sul set di Camicie rosse. La scena di Blasetti che visiona i provini delle bambine dove l’avete girata?

Al Teatro 5 di Cinecittà, tra camerini e corridoi. Facemmo l’esterno nel piazzale davanti al teatro, con le mamme e le bambine che si presentavano al concorso. Bellissima non fu una lavorazione difficile, fu faticoso, come tutti i film di quel genere. Le sedute di sceneggiatura dove avvenivano? A casa di Visconti, Suso Cecchi D’Amico veniva lì. Com’era Luchino durante le sedute di sceneggiatura, qual era il suo metodo? Ho sempre trovato difficile spiegare come avviene una sceneggiatura. Ci si immagina chissà cosa. Che ognuno scriva per sé, o che scrivano tutti insieme, o anche che uno scriva e poi porti a vedere agli altri. La verità è che sono tutti sistemi validi e tutti usati dagli sceneggiatori. Una scena può nascere da una battuta, da un movimento. E da lì parte una serie di idee. Spesso si dice: «Il film è stato scritto da…». È vero, il film ha quella firma. Nei film americani c’è a volte il nome dello sceneggiatore in maggiore evidenza di quello del regista. Ma il regista invade il copione, lo condiziona. È impossibile che non accada. Che mi dici di «Senso»? È stato un film molto, molto complesso. Basta ricordare le scene alla Fenice a Venezia e quelle di battaglia. Alida Valli era bellissima e bravissima. Prima di allora l’avevo vista una sola volta, in una decappottabile con Bevione, figlio del senatore Bevione che era stato mio commilitone nel Settimo Autocentro. Durante le riprese, andavi a vedere i giornalieri? Sì, certo. Andavamo a vederli in un cinema di Venezia. La sera tardi, al termine dell’ultimo spettacolo e a volte anche la mattina. Visconti accumulava materiale per tre o quattro ore di proiezione, quindi se ne partiva tutta la mattinata. Andavamo lui, io e tutti i capi reparto, il direttore della fotografia, il costumista, lo scenografo, il truccatore. Durante la proiezione dei giornalieri, Visconti non apriva bocca. Parlava dopo, non

disturbava l’attenzione. E nemmeno aveva l’ossessione di vederli il prima possibile. Pensa, i giornalieri de La terra trema deve averli visti a riprese quasi ultimate. Lui voleva vedere i provini, per il resto si fidava. Per te, che eri assistente alla regia, devono essere state un lavoraccio le scene imponenti di «Senso». Sì, specialmente verso la fine, quando rimasi senza Franco Zeffirelli, chiamato da non so quali impegni. Ricordo la fucilazione del tenente Mahler, interpretato da Farley Granger. L’abbiamo girata a Roma, in un complesso di strade a Trastevere che sembrano i bastioni di Verona, dalle parti di via del Mattonato. Quello fu un altro esempio della generosità di Visconti. C’erano scene di massa, soldati, carriaggi. Vennero sul set l’ingegner Gatti, il direttore generale della Lux, e Riccardo Gualino, che era il proprietario. Assistettero a una scena di grandi movimenti e si complimentarono con Visconti. Luchino disse: «I complimenti vanno fatti al mio assistente». E mi presentò questi due signori. Da lì è partita forse la decisione della Lux di darmi un film. Non è facile che un regista dica ai produttori che i meriti di una scena sono di altri. Un rapporto più stretto col produttore è nato poi con Cristaldi. Prima di lui il produttore era un personaggio quasi mitico. Si diceva che dovesse rimanere nell’ombra, non apparire mai. Franco Cristaldi invece ha squarciato quel velo. Ha dato un’identità diversa alla figura del produttore. Ti raccontavo che Senso fu una lavorazione complessa. Prima di tutto per il colore, perché era il primo film a colori con la macchina Technicolor, quella dei tre elementi cromatici. La lavorazione era già difficile, poi Visconti voleva girare tra gli affreschi di Villa Valmarana, tentando di far venire fuori i personaggi sullo sfondo di questi affreschi, ma senza mortificarli e conservando la corposità che meritavano. L’opera iniziata da Aldò era sublime, purtroppo morì durante la lavorazione a causa di un incidente d’auto. Fu chiamato Robert Krasker, un grande direttore della fotografia australiano. Un paio di anni prima aveva vinto l’Oscar con Il terzo uomo (1949). Non appena mise piede sul set sorprese subito Visconti, che non era

abituato a qualcuno che gli dicesse: «Questo è il mio campo e questo è il tuo!». Krasker invece fece un gesto con le braccia e disse: «Da qui a lì è tutta roba mia. Appartiene a me!». Luchino capì subito che sarebbe stato inutile replicare e accettò le esigenze del suo nuovo direttore della fotografia. Ricordo che quando Aldò morì, il film fu interrotto per un paio di giorni. Poi si ricominciò. Quando muore qualcuno in teatro lo spettacolo non si rimanda, va avanti. So che nel giorno in cui a Eduardo morì la bambina, lui andò a recitare, poi non ce la fece e durante lo spettacolo si fermò. Ma si era presentato. Sono mondi così particolari, il teatro e il cinema. È il motivo per cui volevo suggerirti di chiamare questo libro Una vita, perché è una vita quella che ti sto raccontando. Soprattutto se si appartiene a una generazione, come la mia e forse anche la tua, che questo mestiere lo ha mitizzato. Cinema e teatro costituiscono davvero dei miti, nei quali riconosciamo la vita. Un attore che sta sul palcoscenico vuole che il pubblico si riconosca nel personaggio, nei suoi vizi, nei suoi difetti, nei suoi slanci e nei suoi errori. C’è una trasposizione, c’è la capacità di un uomo di liberarsi della sua personalità e d’impadronirsi di quella di un altro. Sono mestieri legati al mito della bravura, del talento. Prendete Ruggero Ruggeri quando usciva sul palcoscenico con quel filo di voce, o Louis Jouvet con quegli occhi. Eri subito coinvolto. Recentemente sono andato con mia figlia a vedere il monologo di Lina Sastri sulla vita di sua madre. Bellissimo. Con la voce della madre che canta nell’ultimo periodo della sua vita, voce di una bellezza che dà i brividi. Come fai a sottrarti al fascino di una persona che sa diventare un’altra? Poi gli attori vanno amati, perché sono fragili, perché questo processo di trasposizione è delicato e difficile, ma deve restare professionale, devi sempre tenerlo sotto controllo. Non puoi abbandonarti all’estro. No, l’estro devi imprigionarlo, incatenarlo. Cosa pensi di aver imparato dai registi dei quali sei stato assistente? Da Antonioni il controllo che deve esserci nel rapporto tra macchina da presa e attori. Devi intuirlo, e poi provarlo al

momento giusto. E nell’istante della scelta dell’obiettivo, con l’attore sulla scena, Antonioni era un maestro assoluto. Pensava che nulla di quel rapporto dovesse essere casuale. È casuale, invece, nei film di Rossellini. Monicelli mi ha insegnato la libertà da concedere agli attori. Anche se nel film che ho fatto con lui non c’era bisogno di improvvisazione. E ce n’era pochissima pure ne I compagni (1963), che è un film bellissimo. Ma negli altri, nelle commedie, l’ha usata. Giannini mi ha insegnato la fatica per raggiungere i risultati. La capacità di vigilare sempre su quello che devi fare e su come vuoi farlo. Chiamiamola pure intransigenza. Giannini era capace di stare sveglio per ore e ore, forse non il modo migliore di vivere la macchina da presa. Ma in fondo nessuno di noi sa se c’è un modo migliore. E se c’è, cambia da film a film, dipende da ciò che devi inquadrare, dagli attori che hai. Io per esempio sapevo dove andava Volonté, con lui c’era un’elaborazione. È vero che con gli attori lo faccio sempre, ma Gian Maria lo accompagnavo dal mio sarto, per vedere come gli stava l’abito, e da Amleto, il mio parrucchiere, per vedere il taglio dei capelli. Poi facevo lunghe passeggiate con lui, sui luoghi del film, parlando del film. È fondamentale stabilire un rapporto con l’attore. Non capisco quei registi che conoscono l’attore all’ultimo momento. Per me sarebbe impossibile. Questo lo sapevo. Fu Michele Placido a dirmelo: «Quello, “il professore”, come prima cosa ti prende e ti porta pure dal suo barbiere». Ricordi la testa di Alain Cuny, il generale di Uomini contro (1970)? Il taglio di capelli fatto da Amleto fu un capolavoro. Riportava proprio a quell’epoca. Io, per esempio, non saprei girare un film di cui gli attori non conoscono i luoghi. Non ne sarei capace. Luciano Emmer che ti ha insegnato? La sua vivacità, la sua libertà, la sua leggerezza nel fare i film. E contemporaneamente la padronanza di quello che si vuole dire. Lui si affidava molto all’improvvisazione. So che aveva smesso di fare regie e che dopo tanti anni ha ripreso.

E Matarazzo? A non aver paura di toccare i sentimenti, e in certi casi nemmeno un po’ di sentimentalismo. E da Visconti? Tutto. Da Luchino ho imparato tutto. Purtroppo negli ultimi anni della sua vita non lo vedevo spesso perché ero impegnato con il lavoro. Non era vecchio quando è morto, aveva solo settant’anni. Ho in mente il funerale. C’era anche Burt Lancaster, che adorava Visconti dopo aver lavorato ne Il Gattopardo (1963). Mi chiesero di parlare. Allora ricordai Luchino, il suo rapporto con i collaboratori. Ma sono scoppiato in lacrime, non ce l’ho fatta. Antonello Trombadori mi si è avvicinato, mi ha fatto coraggio. È stato un momento, come posso dire, irrefrenabile. Ricordo quando andai a trovarlo durante le riprese del suo ultimo film che girava all’Hotel Plaza, L’innocente (1976). C’è una fotografia, lui che mi accarezza. Molto bella. Luchino era capace di gesti profondissimi. Poi te ne racconterò uno davvero sorprendente, che la dice lunga sulla sua grande umanità.

SECONDO TEMPO

Fronte dell’orto

Mi hanno sempre chiamato professore. Probabilmente per la mia mania di precisare tutto, di mettere ogni cosa a posto. Hanno cominciato presto. Gianni Di Venanzo, abbandonato il «Kinglax», già mi chiamava professore. Ma lo dicono con rispetto. Nel cinema il rispetto è importante, e non sempre c’è. Se ce l’hai ti è andata bene, devi essere contento. Se fai dei film come Cristo si è fermato a Eboli, con un testo così alto, devi per forza fare un po’ il professore. Poi ci sono stati anche lavori come Il momento della verità, che è certamente stato sottovalutato in Italia. Quando penso alla tua filmografia, mi chiedo sempre: è meglio «Salvatore Giuliano» o «Le mani sulla città»? Non ho mai saputo decidermi. Sono entrambi potenti, ma del tutto diversi. Se io penso alla tua, mi viene in mente il rapporto tra quel bambino e Noiret in Nuovo Cinema Paradiso, è di una forza… Meraviglioso. Ricordi? Fui uno dei primi a vederlo e ti suggerii dove tagliare. Sì, in casa Cristaldi. Eri invitato a Villa Sili con Gillo Pontecorvo, Gigi Magni, Giuliano Montaldo e altri e Franco vi fece vedere il film nella sua saletta di proiezione. Alla fine mi dicesti: «Guarda Giancarla, sta piangendo. Nessuno è mai riuscito a farla piangere con un film. Se ci sei riuscito vuol dire che hai fatto un bel film». C’era Pietro Notarianni, naturalmente. E anche Fabio Rinaudo. Poi aggiungesti che c’era da tagliare in una certa parte del film e Giancarla commentò: «Quando i film sono degli altri gli viene facile tagliare, quando si tratta dei suoi non ci riesce». Pietro rideva, e confermava.

Me lo ricordo. Fu una bellissima serata. Torniamo a te. Aiuto regista di autori importanti, il teatro, il doppiaggio. Completi «Camicie rosse», infine dirigi il «Kean», ripresa cinematografica di uno spettacolo teatrale. In pochi anni hai fatto tantissimo. Un tirocinio unico. Quando cominci a sentire che sei pronto per un film? Dico la verità, la fregola del debutto non la sentivo. Ma quando sono andato a fare il film con Antonioni, avvertivo che il linguaggio cinematografico cominciava ormai ad appartenermi. E poi nel Kean, con Gassman, la regia cinematografica era mia, anche se era definita direzione tecnica. Quali sono la circostanza e l’evoluzione che ti portano a «La sfida»? L’episodio decisivo fu l’incontro con i signori della Lux sul set di Senso. Come ti ho già accennato si complimentarono con Visconti e Luchino, i complimenti, li girò a me. Ricordi la scena che vennero a vedere? Una scena notturna, quella in cui la protagonista è ormai impazzita dopo aver denunciato lui di essere un traditore, e condannandolo, dunque, alla fucilazione. Si vede la Valli che vaga per la strada, in via del Mattonato. C’erano anche molti soldati, carriaggi, mezzi militari che riempivano le strade e soldati ubriachi. Li avevo istruiti tutti io. C’era anche Giancarlo Zagni, che debuttava come aiuto. Franco Zeffirelli già non c’era più. C’era invece Pietro Notarianni, passato ormai alla produzione. Non so con che ruolo. Ma sappiamo entrambi che Pietro non ha mai avuto definizioni precise. Sono io che gliele ho date in certi film. In Lucky Luciano (1973) lo designai organizzatore della produzione. Cristaldi non ci avrebbe mai pensato. Goffredo Lombardo gli attribuì lo stesso incarico ne Il Gattopardo e in Rocco e i suoi fratelli (1960). La verità è che Pietro faceva tutto quanto era necessario a far partire i film, tutto il resto, i ruoli, i crediti, lo interessavano ben poco.

È verissimo. Una figura davvero singolare. Ingiustamente dimenticata. Ma perché è morto Pietrino? Non doveva… Insomma, questi della Lux sono lì, Visconti li invita a complimentarsi con te, te li presenta e dopo che succede? Succede che ebbi un contatto con l’ingegner Gatti, il loro direttore generale, che mi disse: «Mi faccia sapere cosa vorrebbe fare». Gatti era il più grande critico musicale che avessimo in Italia. Un signore piccolino, non so come fosse finito a fare cinema. Gli risposi: «Ci penso». La prima idea che mi venne forse ce l’avevo dentro da un po’, era La nave morta, da un bel libro di Bruno Traven, un autore tedesco dei primi del Novecento. Non so se ne hai mai sentito parlare. Si racconta di una nave mandata a morire, per riscuotere il premio dell’assicurazione. Come vedi, piuttosto suggestivo e anche vicino ai miei interessi per certi temi sociali. Il motore della storia era la speculazione, come fregare l’assicurazione. Purtroppo Traven era solo uno pseudonimo, non si riusciva a sapere chi fosse veramente, abbiamo pure pensato che fosse una donna. Quindi non riuscivamo a prendere i diritti. Rinunciai. Era il primo film che proponevo a Cristaldi. E non si è mai fatto perché non hai potuto avere i diritti? Non avevamo nulla. L’ho ripreso in mano qualche tempo fa per vedere se c’erano i diritti. Niente. Una situazione misteriosa. Poi mi venne l’idea di fare un film sulla mafia, su un personaggio femminile della mafia. Con Suso Cecchi D’Amico buttammo giù qualcosa. Io volevo fare un film sulla situazione criminale, malavitosa, che si muoveva attorno ai mercati generali di Catania. Ma la Lux non era molto disponibile a fare un film sulla mafia siciliana. Invece di intestardirmi e perdere tempo, rilanciai a mio favore: «Va bene, lo ambientiamo a Napoli». «Perfetto» risposero «Napoli va bene.» Non sapevano che a Napoli la camorra stava già diventando quello che è oggi. Forse pure peggio della mafia. Oddio, peggio non è possibile, perché la mafia ha sempre avuto una disciplina militare, mentre la camorra, malgrado l’acquisizione di una certa organizzazione, è rimasta

anarchica. A Napoli la situazione dei mercati ortofrutticoli era più o meno quella della Sicilia. Evidentemente la camorra, allora, faceva meno paura. Come te lo dissero che non era gradito il tema della mafia? Me lo fecero capire. Allora la mafia faceva tremare, della camorra si sapeva pochissimo. In realtà, non avevo in testa nessuna storia, ma mi piaceva entrare in quel mondo. Capirlo e raccontarlo. Il primo progetto, quello con un personaggio femminile della mafia, che storia era? Ma niente, una donna era accusata di essere mafiosa, e attorno c’era tutto un mondo cittadino, il mercato del pesce, il mercato ortofrutticolo. Tieni presente che quando dissi di farlo a Napoli, proprio in quel periodo ci fu il famoso delitto di Pasquale di Nola [Simonetti Francesco Pasquale, soprannominato «Pascalone ’e Nola» e marito di Pupetta Maresca, rimase ucciso in uno scontro a fuoco nel luglio del 1955, NdR], che in un certo senso, e alla lontana, ne La sfida è anche richiamato. La nuova idea era diversa, ma anche qui c’era un personaggio femminile forte, quello della Schiaffino, e c’era il giovane camorrista che dà la scalata ai vertici dell’organizzazione, e c’era il capo della camorra che ammazza il giovane. Una storia diversa da quella di «Pascalone ’e Nola». Tra quella vicenda e il mio film molti vollero evidenziare una parentela che non c’era. Si disse che il film fosse ispirato a quel fatto di cronaca. Lo sostenne anche un avvocato. Non ebbi rogne, fu facile dimostrare il contrario. Nel mio film c’era quel mondo, non quella storia. Io, Suso ed Enzo Provenzale scrivemmo una prima sceneggiatura, trovammo anche l’attore, José Suárez, che avevo visto in Calle Mayor (1956), un film di Juan Antonio Bardem che aveva avuto grande successo, non solo in Spagna, e che mi era piaciuto. Una volta giunto a Napoli per i sopralluoghi, ebbi uno choc. Mi resi conto che quello che avevamo scritto era letterario. E questo mi accadde di nuovo con Salvatore Giuliano. Quel materiale scritto a Roma ubbidiva a regole che non erano quelle della realtà, del mondo dei mercati generali,

delle strade lì intorno, della speculazione dei capi camorra sulle campagne, che erano la fonte dell’ingranaggio speculativo. E allora dissi a Suso e a Enzo Provenzale: «Se non andiamo a Napoli, la nostra sceneggiatura non va». Portai Suso a Napoli, Provenzale era già lì, e cominciammo a riscrivere non la storia, ma gli ambienti, i personaggi. In seguito avrei fatto lo stesso anche con I magliari. Io pensavo, e qui c’era la lezione di Visconti, a gente presa dalla strada. Il ruolo del capo camorrista lo affidai a Pasquale Cennamo, che aveva fatto un piccolo ruolo con De Sica e perciò si sentiva già qualcuno. Ma sai, quella presa sul campo era gente già contenta di assicurarsi una giornata di lavoro. La Galleria Umberto I, proprio nel cuore di Napoli, era come un ufficio di collocamento per teatro, rivista, vaudeville, cinema. La mattina, dalle undici in poi, trovavi tutti gli attori in attesa di un ingaggio. Ne «L’oro di Napoli» Cennamo faceva il guappo che viveva in casa di Totò. Bravo, ma lì era doppiato. Io invece facevo la presa diretta, gli lasciai la sua voce, con tutte le difficoltà che procurava un attore non professionista. Nel film era quasi analfabeta, ma aveva un piglio da capo camorrista, decideva lui. Vito Polara, interpretato da José Suárez, aveva scoperto invece che il mercato ortofrutticolo rendeva più delle sigarette. E gli venne voglia di mettersi in proprio, di fare la concorrenza al capo, a Cennamo. Persino nella trama c’è un’eco de «La terra trema». È vero, non ci avevo mai pensato. Ci sono suggestioni che ti restano dentro, nemmeno ti accorgi di conservarle. Comunque, cominciai a scegliere gente del luogo, persone che facevano parte di un certo giro. Poi, sai com’è in quel mondo, se scegli uno per dargli un ruolo in un film, quello poi ti resta legato a vita. Quando feci in Germania I magliari, un giorno all’Hotel Atlantic, in cui alloggiavo, mi trovai davanti uno di loro. Intendi dire gente della camorra?

Diciamo uno che ambiva a farsi considerare tale. Se poi lo fosse davvero, questo non lo so. Aveva avuto un ruolo ne La sfida e me lo ritrovavo ad Amburgo. Non era un guappo, neanche un mezzo guappo. Vedi, a Napoli molti vogliono far credere di essere guappi. Gli dissi: «Ma voi che fate qua?». «Sono venuto per una partita di…» Mi pare che parlò di zucchine. Lo salutai e, mentre mi avviavo a salire in camera, mi prese per un braccio, mi tirò da una parte e disse: «Dotto’, voi mi dovete far fare una parte in questo film, sennò io a Napoli non ci posso tornare, perché la gente pensa che non ho lavorato bene nell’altra pellicola e che mi avete scartato». Capito? Voleva la conferma ufficiale delle sue capacità. Così gli ho inventato un ruolo. Che mondo strano, eh? È inutile che lo spieghi a te, perché sai benissimo tutto ciò, ma non tutti hanno capito che per raccontare la criminalità non occorre evidenziare la violenza. La violenza può entrare per un momento, ma per raccontare davvero la criminalità bisogna far capire cos’è il potere. E spiegare che alcuni, specialmente meridionali, per mantenere il potere sono disposti a farsi uccidere. Magari solo per dire una parola che fa tremare chi gli sta intorno o per allungare uno sguardo che sa di minaccia. Lì si gioca la supremazia, si gioca il potere. Il potere diventa anche fisico: come ti vesti, come ti muovi, come guardi. Con La sfida entrai in contatto con quel mondo. Naturalmente, non con i boss veri, ma con quelli che pensavano di esserlo, che facevano di tutto per dimostrare di esserlo. Durante le riprese ne sono venuti tre o quattro, forse di più, a fare delle parti. Erano raggianti, felici, perché nel loro ambiente erano diventati importanti. E poi i criminali sono sempre vanitosi. Anche in quello consiste la loro sete di potere. Non c’è niente da fare. Quando cominciarono i contatti per capire quel mondo, come hai fatto? Chi hai contattato? Avevo a Napoli un ispettore di produzione, che poi diventò direttore perché a Napoli si facevano molti film. Si chiamava Mario Abussi, era geniale, bravissimo. E molto simpatico. Scriveva canzoni, ma gli piaceva stare nel mondo del cinema

ed era diventato quasi indispensabile per chi allestiva un set in città. Era un po’ cicciottello, mi voleva bene e io anche gli ero affezionato, sapevo che di lui potevo fidarmi. Tu sai che nel cinema la fiducia nei collaboratori è tutto. L’avevo conosciuto quando organizzò le riprese di L’oro di Napoli di De Sica e quelle di Processo alla città. Mi mise in contatto con quella gente lì. Gli dissi: «Guarda, io non farò un film in cui gli attori saranno dei criminali esaltati. Io voglio gente che dia l’impressione, a me e al pubblico, di essere vera! Voglio che parlino facendo errori, che non si preoccupino delle regole di cui si preoccupa chi fa un film tradizionale». Ma poi sono napoletano, conoscevo bene certi ambienti, quindi sapevo. Avevi mai conosciuto dei camorristi? Sì, ma ci sono quelli che dicono di essere dei camorristi, e se gli fai dietro una pernacchia scappano. Bisogna stare attenti, tanti si vantano di essere camorristi o mafiosi. Per non rischiare di avere criminali veri, dovevo muovermi in questo terreno ambiguo di gente che si vantava di esserlo.Quello che scelsi come antagonista di José Suárez, Pasquale Cennamo, nell’ambiente era noto come «’o mussuto», quello col muso lungo, perché aveva sempre un’espressione imbronciata. Non era affatto un criminale, però si muoveva con un’aria da guappo. A Napoli, uno che si dà arie dicono che è «ofàno». Credo che l’origine della parola venga dal greco faìnomai, dal verbo faìno, «apparire», ma che il napoletano l’abbia importato dallo spagnolo. Nel film c’è una riunione a pranzo, in una casina al mare, e ci sono questi guappi che commerciano in pomodori, in ortaggi. Che siano ortaggi, pomodori, va sottolineato, è importante. Quando il pomodoro è maturo e lo tagli, lo devi raccogliere, perché sennò dopo uno o due giorni marcisce. Ecco il motivo della riunione, scegliere come e quando intervenire, aspettando la parola del capo, che dirà di non raccogliere e non caricare. E invece, il giovane che vuol diventare capo, raccoglie e carica. È tutta lì la questione. Pasquale Cennamo faceva il capo. Escluso José Suárez che è spagnolo, non feci doppiare nessuno. Quando Cennamo urla a Suárez: «Vito Polaaara! Avuguuuri!», c’è nel suo strascicare e

storpiare la parola, un senso di minaccia che nessun dialogo e nessun doppiatore avrebbero potuto rendere. «Avuguuuri!» Anche tutti gli altri nel film parlano con le loro voci rozze, con gli errori di pronuncia, con quelle voci grasse, di pancia: «Dotto’, voi dite e io faccio». Però c’era questo rispetto per la persona autorevole. Il regista ha autorità e perciò viene rispettato. Ho viaggiato, perlustrato tutta la campagna intorno a Napoli legata al mercato ortofrutticolo, soprattutto al mercato del pomodoro. Lì ho capito, ho trovato i miei interpreti. C’era un contadino bellissimo, sembrava un attore americano. Aveva un podere, io gli chiedevo certi interventi e lui faceva i suoi gesti, quelli di ogni giorno. Tutta questa ricerca l’hai fatta prima di girare o addirittura prima di scrivere? Prima di girare e di scrivere la sceneggiatura. Andavo in quei luoghi, mi facevo accompagnare da mio fratello, che è architetto e conosce bene la mentalità, le zone di Napoli. Mi piaceva averlo accanto anche per parlargli, per stare insieme. È un amico, non solo un fratello. Veniva con noi Mario Abussi, che questi tipi li conosceva tutti. Non i contadini, ma quelli di fronte ai quali i contadini tremavano, o comunque erano costretti a stare in guardia. Dicevo, per esempio: «Mi spiegate perché i pomodori si devono tagliare, raccogliere e vendere subito?». Io conoscevo il mare, della campagna non sapevo niente. Il mio protagonista, Vito, scopre che quella è terra di camorra. Lui prima praticava il contrabbando di sigarette, quando si accorge che gli ortofrutticoli possono produrre profitti più alti, dice: «Ecco cosa dobbiamo fare, entrare nel mercato degli ortofrutticoli». E deve entrarci con quell’autorità. Quando tu, accompagnato da tuo fratello e da Mario Abussi, andavi in giro per le campagne di Napoli e facevi domande, quelli come reagivano? Capivano che in definitiva mi occupavo della realtà. Non sapevano cosa ne avrei fatto, non sapevano qual era la storia. Come ti dicevo, l’episodio di Pupetta Maresca e «Pascalone ’e Nola», era avvenuto in quel periodo. Pascalone era un po’

come il mio protagonista, ma lui nella camorra si era già conquistato un posto importante, da boss vero. A causa di una storia di sgarri e tradimenti, ammazzano Pascalone ’e Nola, e Pupetta Maresca, la donna che aveva sposato, lo vendica. Fa uccidere da un giovane del suo ambiente l’uomo che ha eliminato il suo Pascalone. Dopodiché lei fu condannata al carcere. Questo fatto di sangue, la vicenda di «Pascalone ’e Nola», accade mentre cercavi uomini e fatti sul territorio o era già accaduto prima? Era avvenuto uno o due anni prima. Fece scalpore, i giornali se ne occuparono a lungo. Era una storia di malavita, ma c’era il delitto passionale. Quando videro La sfida, tutti dicevano: «Ah, il film su “Pascalone ’e Nola”». Cosa hai voluto mostrare a Suso Cecchi D’Amico? Cosa le hai fatto conoscere? Andammo ai mercati generali, guardavamo le persone che stavano lì, i loro modi. Quel mondo non si fa afferrare subito. Quel mondo non è aperto. È aperto solo apparentemente, è aperto se vuoi raggiungere dei risultati. Per questo usano un certo modo di parlare, per sottintesi, per allusioni. È un mondo particolare, che va interpretato. Io li capivo e loro capivano che capivo. Poi sai, il napoletano, quel tipo di napoletano, ha un certo modo di fare e di mostrarsi. Parlano lentamente, ci mettono tempo per dire frasi, per caricarle di minacce o di significati. Se rivedi il film capisci cosa intendo. Le permisi di conoscere quel mondo come lo conoscevo io, di avere un rapporto diretto. Lei così ha potuto incontrare, vedere, ha capito tanto di questa gente. Io interrogavo persone e lei ascoltava, se voleva approfondire, lo faceva per conto suo. Non era il lavoro che avevo già fatto, quello era finito a San Valentino Torio, nel Salernitano. E allora ero finalmente pronto per il film. Ormai avevo capito il rapporto tra mercato ortofrutticolo e campagna, perché il primo passaggio è quello. La merce che viene dalla campagna, quando arriva al mercato ortofrutticolo ha già un altro prezzo. E poi il prezzo continua

ad aggiornarsi a seconda dei passaggi che compie. Sempre al prezzo stabilito dalla camorra. Molti non sanno cos’è una sceneggiatura. E se pure ci sforziamo di spiegarlo, non ci riusciamo. È inevitabile. La trasformazione del materiale dalla pagina scritta alla pellicola, dove ne vedi la realizzazione, molte volte è talmente trasfigurata da diventare irriconoscibile, ti pare di non ritrovare più ciò che è stato scritto. È il bello del cinematografo. Suso scriveva direttamente a macchina o a mano? Lei era formidabile, perché quando andavo a casa sua parlavamo soltanto. E parlavamo tanto. Anche perché io sostengo che le buone sceneggiature si fanno parlando molto. Poi a un certo punto bisogna scrivere. Suso, quando sentiva che si arrivava alla fine, mentre ancora discutevamo, faceva accordi alla chitarra, dopodiché prendeva la macchina da scrivere, e seduta sul divano cominciava: tic tic tic tic tic tic. Le dicevo: «Ma che scrivi? Parliamo». «No» rispondeva, «leggi.» «Vabbè, leggo, però insomma…» Aveva voglia di vedere subito qualcosa sulla carta, io invece rimandavo. Trasferiva sulla carta ciò che d’importante ci eravamo detti. Questa è la sceneggiatura. Restava un aspetto rilevante. Trovare gli ambienti e il mondo napoletano al quale apparteneva il nostro giovane ambizioso che dava la scalata al potere. Dopo vari sopralluoghi avevo trovato un posto ideale. Una strada che si chiama Borgo di Sant’Antonio Abate. Trovai un cortile con terrazze a vari livelli, scalette, e un appartamento che si apriva su una balconata affacciata sul cortile. Sembrava disegnata per il teatro. Bellissima. C’era tutto, la finestra, il balcone, le scale, la portineria. Tutto vero, pareva costruito apposta per noi. Dissi a Provenzale: «Sono pronto». «Ma no, non possiamo, bisogna continuare a cercare…» mi rispondeva. «Ma che devo continuare? Il posto io l’ho trovato.» Allora parlò con Cristaldi e lo mise in allarme. Lo conosci, no? Il terrore tipico dei produttori, subire ricatti. Provenzale era allarmato davvero: «La gente che abita qui, sta in questo posto da anni. Ci sottoporrebbe a ricatti

continui». Allora venne fuori la mia lunga esperienza da aiuto regista. Invece di litigare, dissi: «Io propongo questo luogo. Non vi sta bene? Trovatelo voi, io aspetto. Intanto me ne vado in albergo». Un’uscita da cineasta consumato, non si aspettavano che al primo film fossi così deciso. Dopo tre giorni Provenzale disse: «Va bene, giriamo a Borgo di Sant’Antonio Abate». Ricordi quando portasti il copione de «La sfida» a Cristaldi? Fin dal primo film, con lui ho sempre seguito lo stesso procedimento. Gli dicevo: «Ti racconto il film che voglio fare». Ci chiudevamo nel suo ufficio e ne uscivamo solo quando avevo finito di raccontare. E Cristaldi poteva convincersi oppure no. Poi si entrava nei dettagli, nei problemi della produzione e dei costi produttivi, che sono articolatissimi. Anche per La sfida gli raccontai prima la storia. Avevo già fatto i sopralluoghi. A quelli tenevo molto e non ho mai cambiato abitudini con tutti i film. Per i sopralluoghi coinvolgevo ovviamente la produzione e a volte gli attori. Per esempio con Volonté, con cui ho fatto cinque film. Lo coinvolgevo progressivamente in tanti aspetti del film, dall’aspetto fisico ai vestiti che avrebbe indossato. Ti ho detto che lo portavo dal mio parrucchiere, e anche dal mio sarto. Era il mio metodo fin dai tempi de La sfida. Portai dal mio sarto anche Suárez, gli presero le misure e gli cucirono il vestito. Del parrucchiere non ebbe bisogno, i capelli erano già perfetti. José Suárez si adattò subito al personaggio, alla sua fanfaronaggine. Recitò in spagnolo e gli diedi la voce di Aldo Giuffré, un fenomeno del doppiaggio. Aldo è stato veramente un doppiatore meraviglioso. Poi, purtroppo, è stato colpito proprio nella voce, una malattia terribile. Era un attore stupendo, bravissimo a teatro. Gli feci doppiare anche Rod Steiger in Le mani sulla città. Timbro straordinario. Qualche anno fa sento un suono rauco al telefono, era lui. Aveva la voce sgranata, rovinata, resa irriconoscibile dal male. E ti chiedi: «Ma uno lavora e si realizza grazie al suo talento. E il destino va a colpirti proprio lì?». Ci sono fatti senza risposta.

Tutti i personaggi presi dalla realtà, a parte Cennamo, una volta che li individuavi, da chi venivano informati che erano stati scelti per il film? Bisogna spiegare bene cosa sono gli attori dialettali, non solo napoletani. Gli attori dialettali sanno che verranno adoperati per parti laterali, ma anche di un certo peso nella distribuzione del film. A Napoli ce ne sono migliaia, bravissimi. Un’attrice come Tina Castigliana, che faceva la madre di José Suárez nel film, era una leonessa. E con una voce bella, squillante, forte. Lo stesso Nino Vingelli, che con La sfida prese il Nastro d’Argento, veniva dal teatro di Raffaele Viviani, ma era un napoletano come tanti. Se lo mettevi su un carretto con una frusta e le redini, sarebbe sembrato perfetto. È questa la forza dell’attore dialettale, anche quando parliamo di grandi attori. Comunque, io composi l’intero cast mescolando quelli presi dalla strada ai professionisti. Il ruolo del venditore della casa che Suárez voleva comprare, preoccupato perché capiva di avere di fronte un fanfarone, lo affidai a un tizio che si chiamava Guerra. Nella vita era titolare di una libreria di Roma che frequentava spesso Mario Serandrei. Proprio lì, un giorno, trovò la partitura del famoso valzer inedito di Verdi. Serandrei la regalò a Visconti, che usò quel valzer ne Il Gattopardo. Ti dicevo che girai nel mio cortile, in presa diretta, cosa che allora da noi non si faceva, ma io ero stato l’assistente di Visconti. E poi Mario Abussi mi stava vicino per ogni occorrenza, sapeva dei problemi che potevano nascere con un film del genere, girato in ambienti veri. I passaggi di José Suárez e della Schiaffino nel mercato li ho girati con la macchina da presa nascosta, che allora non si adoperava. L’avevo infilata in una delle cassette che si usano per le verdure. Ma il posto cambiava sempre, non ho mica fatto un’inquadratura sola. La Schiaffino fu molto brava in quel film. Lei aveva un contratto con la Vides e con Cristaldi e così le feci un provino, fu il suo temperamento a convincermi. Certo, era genovese e non napoletana, è infatti l’unica, se non sbaglio, che feci doppiare. La doppiò Vittoria Martello, un’attrice di teatro, bravissima doppiatrice.

Tu l’hai provinata ed è andata bene. Quanto pesò il fatto che avesse già un contratto con la Vides? Pesò certamente. Ma pesò di più che la Schiaffino fosse una diciottenne, bellissima, con un viso meraviglioso e brava. Aveva già fatto qualche film, uno di quelli storici. Credo che stesse con Cristaldi in quel periodo. Ma non ho mai guardato la vita personale degli altri. Cristaldi era uno che si buttava nel lavoro con entusiasmo, ma poi controllava ogni cosa senza farsi condizionare da quell’entusiasmo. Lo chiamavamo «Tabellina», perché faceva continuamente calcoli per verificare che i piani di lavorazione coincidessero con le finanze del film. Durante le riprese ci furono problemi? Si capì in giro che stavi facendo un film così duro? No, il solo problema nacque quando chiesi di girare nella zona dei mercati ortofrutticoli. Il sindaco, che allora era Achille Lauro, si oppose. Qualcuno mi suggerì: «Faglielo chiedere dalla Schiaffino». La mattina dopo mi presentai con la troupe ai mercati di Napoli e trovai gli agenti municipali che m’impedirono di girare. Mi buttarono fuori, così l’ultima sequenza la girai ai mercati ortofrutticoli di Roma. Capito? Buttato fuori da Napoli. I tuoi, tuo padre e tua madre, quando appresero che facevi il tuo primo film a Napoli sui mercati ortofrutticoli, su temi scabrosi, come reagirono? E come lo seppero, gliene parlasti tu? Mio padre reagì con la sua solita filosofia. Gli piaceva moltissimo l’idea che io riuscissi a fare il mio primo film proprio a Napoli. Gli diedi io la notizia: «Sto preparando un film che vorrei girare a Napoli». Mia madre, te l’ho detto, non entrava nei dettagli del mio lavoro. Se dovessi raccontare la trama de «La sfida» in tre righe? Amidei faceva così. Quando la mattina arrivavo da lui, e facevo l’apprendista sceneggiatore, ci davamo ancora del lei. «Mi racconti in dieci parole, e che siano dieci, il film che ha

visto ieri.» Straordinario. Dava per scontato che io, la sera prima, avessi visto un film. C’è da dire che, io, allora, andavo al cinema sempre. E in dieci parole raccontavo il film visto. Almeno tentavo. I film d’azione puoi racchiuderli in dieci parole, ma coi film che elaborano un contenuto che riguarda pensieri, opinioni, modi d’agire, non puoi riuscirci. Con La sfida poche parole possono anche bastare. Un giovane vuole scalare un ambiente dove è facile guadagnare, e per riuscirci deve sfidare il boss che detiene il potere, ma ci rimette la pelle, perché il boss lo uccide. Forse non sono le tre righe che volevi tu, e nemmeno le dieci parole di Amidei. Cominciasti a girare a Napoli, solo alla fine hai fatto quella sequenza a Roma. Cosa ricordi del rapporto con la gente di Napoli mentre lavoravi? In fondo era la prima volta che giravi nella tua città. Sì, Camicie rosse l’avevo girato tutto in teatro a Roma e sulla spiaggia di Fregene e di Focene. Nella mia città non avevo fatto mai niente, La sfida era una prima volta. Ma guarda che io non sono un signorino, mi mescolavo bene con la mia gente. Poi parlo napoletano, ho un modo di fare che riesce a adattarsi a qualsiasi persona, al popolano e all’intellettuale. Non ti eri posto il problema di come l’avrebbe presa la camorra? No. Avrei potuto avere dei fastidi se avessi indicato nomi e cognomi dei veri detentori del potere camorristico, ma questo non tocca a un film. Il mio obiettivo non era denunciare. Vedi, si parla sempre di cinema di denuncia, ma denunciare è una cosa seria, per farlo occorrono prove. Denunciare e basta non serve a niente. Io analizzo la situazione, cerco di capirla e di farla capire. Come non mi stancherò mai di ripetere, a me basta che gli spettatori capiscano che spesso la verità non ha molto a che vedere con la realtà. Racconti la nascita del tuo primo film come un fatto naturale, ma solitamente chi ha desiderato di fare cinema, vive il

momento dell’esordio con un’emozione particolare. Tu non la mostri, ma credo l’abbia provata. Va detto che l’avevo già assaporata finendo il film di Alessandrini e facendo il Kean. Ero già uscito dalla condizione di apprendista. Ne La sfida il direttore di produzione lo conoscevo bene e lavorava con me da tempo. Col direttore della fotografia, Gianni Di Venanzo, lavoravo da anni. Suso Cecchi D’Amico, la sceneggiatrice, era un’amica con cui avevo già lavorato. Realizzai insomma il film e poi lo mostrai a Cristaldi: gli piacque molto. Segnava già tutto, Cristaldi? Cronometrava la durata delle inquadrature e le scene una per una? Con me non l’ha fatto mai. Andammo a Venezia in concorso e questo era già un bel traguardo. Poi avevo un gran parterre di sostenitori, perché avevo fatto vedere il film a molti, ed era piaciuto. A Venezia ci fu un’accoglienza molto, molto calda, il film fu apprezzatissimo. Ricordo Dino De Laurentiis che applaudiva, e mi disse: «Se lo facevi interpretare a un attore di Hollywood, questo film andava in America». Ero lì con lo smoking fatto da mio nonno e mio zio. Ti ricordasti della paura di Visconti che gli scambiassero i rulli, tanto da mandarti in cabina di proiezione? Tu mandasti qualcuno in cabina? Nessuno. Mi fidavo, anche perché conoscevo quel proiezionista. Era Marinelli. La sfida ebbe più di un premio. Prima di tutto, il Premio speciale della giuria, ex aequo con Les amants (1958) di Louis Malle. Poi diedero il Nastro d’Argento per il miglior soggetto a me e a Suso Cecchi D’Amico, e il Nastro d’Argento a Nino Vingelli come miglior attore non protagonista. Vincemmo anche il premio San Giorgio, che era proprio bello. Un bel premio. Lo dava il vecchio avvocato Carnelutti. Una statuetta deliziosa, se la prese Cristaldi. Allora è vero quel che diceva Fellini, che a Franco piaceva tenersi le statuette vinte dai suoi film?

È vero, perché il San Giorgio se l’è portato a casa lui. Però non si è tenuto il David di Donatello. Si faceva fare le copie dei premi che non poteva avere. Ci furono tanti applausi, e non mi dispiaceva che molti trovassero nel film l’influenza di un certo cinema civile americano. Non mi dispiaceva proprio per niente. Anzi, ero un grande ammiratore di quel cinema. Mi era piaciuto molto Fronte del porto (1954). Sai alcuni come chiamavano La sfida? Lo chiamavano «Fronte dell’orto». Lo scrissero alcuni giornali. Ho mandato molta rassegna stampa, fotografie, tanto materiale al Museo di Torino. È meglio che stiano in un posto dove qualcuno se ne occupa. A Venezia chi eravate? Io, Cristaldi e la Schiaffino. José Suárez credo fosse impegnato con un film. Vennero anche i miei amici Peppino Patroni Griffi e Raffaele La Capria. C’erano anche mio fratello Massimo, mio padre e mia madre. La loro presenza era un fatto mio, privato, personale. Perché per le musiche scegliesti Roman Vlad? Di lui mi aveva parlato l’ingegner Gatti, un musicologo e un ammiratore di Vlad. Roman fece un lavoro fantastico. Successivamente, per la colonna sonora de I magliari avevo bisogno di jazz, e mi sono rivolto a Piccioni. Giancarla era esperta di musica, era una collaboratrice del grande Ladislao Sugar, che stravedeva per lei e voleva tenerla a Milano nella sua etichetta. Giancarla poi era stata fidanzata con Lelio Luttazzi, jazzista pieno di talento. Quindi il jazz lo conosceva bene. Mi disse: «Prendi Piccioni, è bravissimo!». E, come sempre, ebbe ragione. Da allora ho fatto tutto con Piero Piccioni. A eccezione di Dimenticare Palermo (1990), che ha musicato Ennio Morricone, e La tregua (1997) con Luis Bacalov. Nella Carmen (1984) ovviamente nessuno ha potuto fare niente, la musica esisteva già. Torniamo a «La sfida». La sfida fu come l’affermazione di un certo cinema italiano dopo una fase di stallo. Fu come un colpo di coda del neorealismo. Ma in chiave più popolare. Sai cosa penso? Che

il titolo fosse bellissimo: La sfida (The Challenge, in inglese). L’idea era stata mia. Gatti e Gualino furono d’accordo. Si fa quasi fatica a dire qualcosa di sensato sul successo di un tuo film. Non è vero? È forse più facile parlare di un insuccesso. Per certi versi hai proprio ragione. Ed è molto più facile parlare del lavoro di preparazione, delle riprese. Ricordo che Suso dopo aver visto il film era raggiante. E tu, quanto eri felice? In maniera normale. Non è che potessi esprimere la felicità al di là di quello che un certo equilibrio consente. Ma tu capisci? «Fronte dell’orto»! Da Amidei un giorno c’era Jules Dassin, che era un ammiratore di Sergio e che aveva visto La sfida. Mi fece mille complimenti. Piacque moltissimo anche a Henry Fonda, che allora era fidanzato con una nobildonna italiana, la baronessa Afdera Franchetti. Lo vide pure Elia Kazan e ne fu entusiasta. Kazan mi considerava un suo fratello minore. Me lo disse lui. L’ho incontrato più volte, sia a New York sia a Roma. Era simpatico, ed era un grande regista, anche di teatro. Il fatto che gli americani facessero i registi al teatro e al cinema mi colpì molto. Io venivo dal teatro e devo dire che nel cinema non c’era interesse per il teatro, in quegli anni. Si pensava che gli attori teatrali rendessero la realtà meno vera e si diceva: «No, quello fa teatro, è teatrale». Un pregiudizio che si applicava addirittura nella scelta dei doppiatori. Forse solo Visconti faceva eccezione a questa regola. I protagonisti de La sfida erano doppiati da attori di teatro, che furono straordinari. Li diressi io stesso, il doppiaggio lo conoscevo, l’avevo fatto con Giannini. Nei tuoi film i fotoreporter sono sempre personaggi importantissimi, ne «La sfida» ce n’è uno che fotografa un matrimonio, ma penso ad altri tuoi film, alle tante scene in cui i fotoreporter corrono sui luoghi degli omicidi e sui fatti di cronaca da prima pagina. Ha sempre avuto un grande fascino su di me la figura del fotografo, lo riconosco.

C’è una sequenza che ami particolarmente? Sì, quella in cui la Schiaffino e Suárez si rincorrono sulla terrazza. Bellissima. Ricordo un clima di grande sensualità. La girai sulla terrazza della chiesa di Santa Maria del Soccorso, al cui interno, anni dopo, avrei girato una scena di Le mani sulla città. Quella in cui Rod Steiger va ad accendere i ceri alla Madonna. Nel caso della scena in cui Suárez e la Schiaffino alla fine si baciano, qualcuno disse: «L’influenza estetizzante di Visconti si vede». Per una terrazza con i panni stesi al sole. Mah! Troppo poco.

Una Topolino gialla

La sfida andò talmente bene che non mi preoccupavo troppo di trovare subito un nuovo progetto. Mi dissi: «Vabbè, ho avuto successo, adesso ho tutto il tempo che voglio». Ma proprio in quel periodo i giornali erano pieni di notizie e storie sui cosiddetti «magliari». Un magliaro è un imbroglione, un lestofante che proviene dalla periferia di Napoli, in genere dalla zona di Secondigliano. Lì c’era un vecchio magliaro che preparava i copioni delle recite che i truffatori interpretavano per vendere in giro manufatti di pura carta, spacciati per pregiate stoffe inglesi. Alcuni dicono che li chiamassero magliari perché vestivano come marinai, con la maglia blu accollata. Mettevano i loro tagli di stoffa in un fagotto fatto coi fazzolettoni neri. Alcuni si fingevano marinai scampati a un naufragio, così da essere credibili come venditori di stoffe inglesi. Poi, appena piazzata la truffa, scappavano subito. E chi aveva acquistato, capiva di aver comprato solo della carta. Un mondo così, a uno che fa il cinematografo, non può che interessare. Per forza. I magliari riuscivano a vendere anche la seta giapponese, in realtà carta velina, persino in Giappone. Nel mio film ci sono pure magliari veri. Non ne dubitavo. Volevo continuare la mia filmografia osservando la realtà napoletana da dentro e da fuori, perché allora in Germania questi magliari erano tanti. La Germania stava risollevandosi dalla guerra con una rapidità impressionante. I magliari creavano nelle città tedesche gruppi di tipo familiare che vivevano in baracche e si appoggiavano a un imprenditore, in genere titolare di un ristorante, che forniva i materiali delle loro vendite fasulle. Tra l’altro, finivano col farsi in Germania una seconda famiglia. Conducevano una vita particolare, erano degli imbroglioni, ma non proprio criminali. Con il passare del

tempo, sono scivolati anche nell’attività delinquenziale. Non tutti. Il vecchio magliaro che li arruolava e li istruiva, l’hai conosciuto? Solo indirettamente. Era già troppo anziano, quando sono stato dalle sue parti. Ma i magliari a cui mi sono rivolto ne parlavano. Nel film lo impersona Salvatore Cafiero, un meraviglioso vecchio attore napoletano, un grande del teatro popolare. Quando venne ad Amburgo, portò con sé due cappotti. Se aveva freddo, li indossava entrambi, uno sull’altro. Quando lo scelsi disse agli altri, quasi tutti napoletani: «Quello, il dottore Rosi, a me mi vuole bene a me! M’ha fatto venì in terra d’Amburgo». Come a dire sulla Luna. C’era anche Carmine Ippolito, padre di Ciro Ippolito, il produttore. Lo presi perché aveva una faccia perfetta e s’indovinava che avrebbe dato al personaggio una personalità vera. L’avevo conosciuto alla Villa Comunale, a Napoli, era estate e là stava girando alcune scene De Sica, che a Ippolito aveva detto: «Si faccia vedere», interessava anche a lui. Era davvero bello e aveva una famiglia in cui erano bellissimi tutti, figli maschi e figlie femmine. Aveva una torrefazione e una storia incredibile. A nove anni aveva lasciato Napoli da solo per fare il magliaro. Cominciò in paesi come l’Ungheria, perché lì truffare era più facile. Quando lo incontrai, era vestito tutto di lino bianco e aveva una collana d’oro a grosse maglie che gli girava dietro il collo e finiva nelle tasche dei pantaloni. Un segno di potere. Ti ho detto già che allora ero intraprendente. Lui aveva un panama in testa, io gli dissi: «Per cortesia, si può togliere il cappello e farmi vedere com’è…?». Mi fulminò con gli occhi, poi con due dita sollevò il panama di qualche centimetro e disse: «Sono calve!». Naturalmente voleva dire «calvo». Quando feci I magliari mi ricordai di lui e lo presi. Era un capo magliaro perfetto, che sostenne benissimo la parte. Il film partiva proprio da questa realtà di napoletani in Germania, dove c’era movimento, gente che poteva comprare. Le truffe riuscivano piuttosto bene. Cominciarono con le stoffe, poi passarono ai servizi di posate,

le vendevano come argento, ma era stagno. Riuscivano a dargli quella patina scintillante che, a prima vista, con persone non esperte, poteva reggere. Se aprivano una scatola piena di queste posate, un tedesco credulone ci cascava sicuro. Iniziai a pensare a questo soggetto. A Suso Cecchi D’Amico, con cui avevo già sceneggiato La sfida, dissi: «Non ripetiamo gli errori, partiamo subito, andiamo in Germania». Ci accompagnò un amico, Pasqualino Pennarola, aiuto di Zeffirelli, che parlava bene la lingua perché era stato prigioniero dei tedeschi. Preferii partire col treno, con l’aereo non avremmo visto la gente, i paesi. Fu un viaggio fruttuoso, conoscemmo tanti veri magliari. Gli attori che lavorarono nel film, Vingelli, Bufi Landi, Giuffré, si ispirarono a magliari autentici. Adesso quel film è rivalutato, allora non convinse troppo. Tutti aspettavano da me un film come La sfida, mentre io avevo preso Sordi, che in quel ruolo è formidabile. La chiave comica non se l’aspettava nessuno. Sordi aveva colto magnificamente sia l’aspetto umoristico sia quello drammatico del magliaro. Passavamo le serate nei locali notturni, come ho fatto vedere nel film. Quando si parla di film così, bisognerebbe vederli per capirli. Rifacciamo il giochino di prima, non con le dieci parole di Amidei, ma con le tre o quattro righe di Tornatore. Come racconteresti a un giovane spettatore di oggi la trama de «I magliari»? Ci provo. Un emigrante clandestino, Mario, finisce ad Hannover nelle mani di Totonno, un magliaro romano che, per sottrarsi al dominio del boss napoletano don Raffaele, persuade il suo clan d’imbroglioni a seguirlo ad Amburgo. Qui Mario s’innamora di Paula, moglie del ricco finanziatore con cui entra in affari la nuova banda, che però è sconfitta da un’analoga cricca di polacchi. Mario perde l’amore e Totonno è abbandonato dai suoi compagni che torneranno sotto il comando di don Raffaele. Mi colpisce come sia ne «La sfida» che ne «I magliari» ci sia un elemento narrativo simile a uno degli assi drammaturgici portanti de «La terra trema» di Visconti. L’eroe che cerca di

mettersi in proprio affrancandosi dal sistema di potere che per varie ragioni lo opprime. Non ci avevo mai pensato. Lì c’è il mondo dei pescatori sottomessi alla mafia del pesce, e il povero protagonista rompe con quel sistema, si compra la barca impegnandosi tutto ciò che possiede, si mette in proprio e pagherà caro il suo atto di ribellione. Ne «La sfida» in realtà il protagonista fa parte del mondo del malaffare, ma ne tenta la scalata, sfida il boss per sostituirsi a lui, e paga con la vita. Anche qui, in fondo, accade qualcosa di analogo. Il magliaro romano tenta di sfuggire al dominio di don Raffaele e mette in piedi un proprio clan d’imbroglioni, ma la pagherà cara, esattamente come il protagonista de «La sfida» e il pescatore di Aci Trezza. Il disegno è lo stesso, però sono tre film completamente diversi. Ma perché sono cose che appartengono proprio alla struttura del mondo che vive fuori dalla legge, tipiche quindi della tessitura narrativa del racconto a sfondo criminale. E a me piacevano questi temi. Ma non posso escludere l’influenza della poetica di Visconti. Come nacque l’idea di affidare a Sordi il ruolo di Totonno? Avevo lavorato con lui nella rivista di prosa E lui dice, ed eravamo amici. Quando gli proposi la parte non disse: «E questo chi è?». Mi conosceva bene, ma era anche legittimo che un attore affermato come Sordi avesse un dubbio, era al massimo del successo, solo quell’anno fece dieci film. Appena arrivati in Germania, visitammo tutti i luoghi dei magliari e in alcune città c’era un ristorante, come ti ho spiegato, che era solo una facciata. A Francoforte il ristorante era pure famoso, mi dissero che il proprietario era il vero capo dei magliari. A poca distanza da lì, in un quartiere popolare, c’era poi la baracca, dove i magliari si organizzavano per vivere e preparare il lavoro, chiamiamolo così. Gente che conduceva una vita incredibile. La notte erano nei locali notturni con le ragazze, il giorno andavano in giro a truffare. A Natale, a Pasqua e in occasione delle altre feste tornavano a Napoli a

trovare l’altra famiglia. Un giorno mi presentai in questo ristorante, mi pare che fosse con me Gino Millozza, allora direttore di produzione. Chiesi di parlare col proprietario, che molto gentilmente mi raggiunse. Mi offrì da bere, poi gli dissi ciò che anni dopo avrei detto ai cubani nei giorni successivi alla morte del Che. Telefonai a Cuba: «Sono il regista Francesco Rosi. Voglio fare un film su Che Guevara». Silenzio assoluto. Dopo un quarto d’ora mi rispose il capo dell’Icaic, l’Istituto Cubano dell’Arte e dell’Industria Cinematografica e senza fare alcun accenno alla mia richiesta disse: «Noi vogliamo fare una retrospettiva dei tuoi film. Quando puoi venire a L’Avana?». Risposi: «Pure domattina». L’indomani ero su un volo per L’Avana. Perché hai evocato quest’episodio dell’incontro col capo dei magliari?

mentre

mi

dicevi

Perché se veramente si trattava del capo dei magliari, dovevo provocarlo. Perciò dissi subito: «Io voglio fare un film sui magliari». Lui mi guardò: «No, voi questo film non lo potete fare». «E perché?» «Perché no, io ho un’attività importante. Si dice che i magliari fanno parte del mio giro, ma non è vero.» Aveva di sicuro conoscenze a Roma, al ministero del Commercio estero. Telefonò subito alla persona di sua fiducia, che chiamò Cristaldi: «Tolga a Rosi l’idea di fare lì il film. Vada a farlo altrove, perché proprio a Francoforte?». Io a Francoforte non volevo fare tutto, ma solo l’inizio. Il seguito l’avrei girato interamente ad Amburgo. E allora dissi: «Va bene, non preoccupatevi. Inizio in un’altra città». Scelsi Hannover e intanto selezionai il cast. A parte la presenza importantissima di Sordi, c’era Renato Salvatori, che non era ancora esploso del tutto. Quello fu il suo primo film di un certo rilievo. Poveri ma belli (1957) l’aveva fatto già, ma non aveva ottenuto ancora ruoli drammatici. Questo era il primo. Ovviamente, al mio fianco avevo Pietro Notarianni, che allora era il braccio destro di Cristaldi, o «Il braccio maldestro», come preferiva chiamarlo Furio Scarpelli. I soprannomi di Pietro erano infiniti: «Il tergicristaldi», «Il dottor Divago», «Il discredito italiano», «Giulio Verme», «Il cavalier serpente».

Visconti lo chiamava anche «Duca d’aorta», ma non ho mai capito perché. Questo lo so io. Perché quando Goffredo Lombardo lo convocò con urgenza alla Titanus per chiedergli conto dello sforamento di budget vertiginoso de «Il Gattopardo», Pietro gli inviò un telegramma dalla Sicilia: «Problemi cardiaci stop. Impossibilitato partecipare riunione stop». Che personaggio incredibile! Ma Pietro aveva tutto suo di lavorare. Non affrontava mai di petto le difficili, sempre di sguincio, girava intorno al temporeggiava, per poi imporre la sua linea, che sempre la linea del film.

un modo situazioni dramma, era quasi

Torniamo a «I magliari». Come venne fuori Belinda Lee nel ruolo di Paula? Mi mancava l’attrice e una sera a Francoforte dissi a Suso: «Accompagnami in un locale notturno, andiamo a ballare, devo trovare una donna di un certo tipo». La Germania ne era piena, a Francoforte c’erano tanti americani che volevano divertirsi. Non parliamo di Amburgo, che aveva un porto enorme e tanti locali notturni. Così ne scegliemmo uno e andammo. A un certo punto vedo nel buio il viso di una donna bellissima che balla. Vado dal direttore del night e chiedo: «Per cortesia mi dice chi è quella donna stupenda che balla?». «Ma come» mi fa quello, «lei è italiano e non la conosce? Quella è un’attrice che lavora molto in Italia. È Belinda Lee.» Mi avvicinai a lei, mi presentai, e la invitai a ballare. Le proposi il film mentre ballavamo. Sembra una di quelle storie assurde che accadono solo nel mondo del cinema. Belinda era bella, credimi, da lasciare senza fiato. Veniva dall’Inghilterra e allora era fidanzata con un principe romano. Lei mi diede appuntamento per l’indomani a casa di lui: «Così gliene parli». Lui si comportò, diciamolo pure, da autentico stronzo. Manco si alzò, mi accolse restando a letto, a torso nudo. Era un principe, poteva permetterselo. Tentai di spiegargli: «Vorrei affidare a Belinda il ruolo di protagonista

femminile…». Il principe fu scostante, si atteggiava nei riguardi di lei come un magnaccia, insomma. Ma come mai una ragazza come lei, così bella, era finita in mano a uno così? Purtroppo le donne, allora – oggi è diversa la cosa –, sentivano il bisogno di una certa protezione. Quello era un principe, quando c’erano le udienze dal papa si vestiva in pompa magna. Una ragazza che aveva paura di finire male, poteva anche affidarsi a gente del genere. Io capii che indubbiamente c’era un rapporto che la vincolava, ma allora ero un po’ fumantino, hai capito? E sono andato lì per tirarla fuori. Mi presentai al principe, lei uscì dalla stanza, e io dissi: «Ma questa ragazza ha un’occasione importante, può fare un altro tipo di film». Perché sino ad allora Belinda aveva fatto solo film di serie B. Il magnaccia si oppose, io insistetti e alla fine gli strappai un: «Sì, sì, faccia». E così lei prese coraggio e si svincolò. Divenne una tigre. Ma la grinta gliel’ho tirata fuori io, perché quando abbiamo cominciato, lei non c’aveva voglia, la vedevo distratta. Le dissi che era brava e bella, ma che doveva impegnarsi di più. Mi rispose di aver fatto l’Accademia di recitazione in Inghilterra e che voleva diventare come la Duse, poi capì che una Duse non sarebbe stata mai e allora aveva finito per accettare anche i film mitologici. E in Italia ne aveva fatti molti. Solo che il nostro non era un film mitologico, ma un film vero, nel quale aveva il ruolo di una donna bellissima che s’innamora di un ragazzo. Immagino che il principe venisse a controllarla durante le riprese. Venne una volta sola. Ma se ne ripartì subito. Da quel momento Belinda si trasformò. Divenne attenta, sensibile, espressiva. Ricordo che per tutto il film le feci indossare una pelliccia di castoro identica a quella che possedeva Giancarla. Sapeva stringersi in quella pelliccia in un modo che non dimenticherò mai… Era un gesto tipico di Giancarlina. Lo suggerii io all’attrice. Poveretta, morì in un incidente d’auto con Gualtiero Jacopetti, il suo nuovo amore. Erano in macchina su un’autostrada americana. Gualtiero restò ferito

molto seriamente. Lei invece… Aveva solo ventisei anni. Che pena. Belinda era anche intelligente. È bello incontrare attori intelligenti che non te lo fanno pesare. Bello e anche raro. Marcello Mastroianni era così. Invece Volonté un po’ te lo faceva pesare, a me mai però. Era straordinario. Lavorare con Volonté era un piacere. È morto troppo presto anche lui. Trovo che Belinda abbia fatto quella parte ne I magliari in maniera veramente stupenda. Ed era così affascinante, sensuale. Bravissima anche nei panni della puttana. Le sue battute erano belle, curate in sceneggiatura soprattutto da Peppino Patroni Griffi. Glielo chiesi io. Aveva già fatto la commedia D’amore si muore. Ebbe molto successo. Peppino era bravo, un commediografo di successo. E poi faceva parte del tuo vecchio gruppo di amici. Mi divertii molto con quel film. La sera andavamo nei ristoranti famosi di Amburgo, dove si mangiavano frutti di mare stupendi. Amburgo è una città magnifica. Ci siamo divertiti. Anche il gruppo dei napoletani si muoveva bene, stavano assieme ai magliari. Diventavano magliari con i magliari. Vuoi che Vingelli non diventasse magliaro con i magliari? Con Sordi, poi, fu un’esperienza bellissima. Siamo rimasti grandi amici per sempre. Quando andava in televisione, per esempio nella gag con le Kessler, si vedeva che era un tipo spiritosissimo, eccentrico, un comico fuori da ogni regola. Lui era così sempre. Ti ho raccontato di quando pure lui frequentava Le stanze dell’ Eliseo? Gli attori di prosa passavano tutti di là. Sordi era fidanzato con Andreina Pagnani. Una sera c’era una tavolata con Stoppa, la Morelli, Lola Braccini, Gino Cervi. E c’era un colonnello che teneva banco, seduto a capotavola raccontava di cariche della cavalleria in Russia durante la guerra. Alberto era con Andreina in un tavolino a parte. Ma si vedeva che fremeva, aveva voglia di inserirsi. Andreina aveva paura, poverina, perché lui era imprevedibile. D’improvviso Alberto si alza e raggiunge il colonnello alla tavolata: «Colonnello Bettone! E che cosa mi dice dei nostri gloriosi alpini? Sul cappello, sul cappello che noi portiamo…». E si mette a cantare. Era uno

spasso. «Sì, figliolo» diceva il colonnello, «anche gli alpini. Erano eroici tutti.» Credimi, uno spettacolo impagabile. Sordi era così, bizzarro, imponderabile. Una volta eravamo insieme a Torino, facevamo teatro. Era estate e si andava in piscina. Eravamo su un tram, quelli antichi con la piattaforma dietro. A una fermata, un vecchio cerca di salire: «Aò» gli urla Sordi dandogli una botta sulla mano «’ndo vai?» Il vecchietto sussulta impaurito: «Volevo solo salire…». «No… pussa via!» Quel poveruomo saltò giù e si diede a gambe levate. Capito? Non è una scena da Amici miei? Assolutamente sì. Cristaldi vi raggiunse durante le riprese de «I magliari»? Ad Amburgo non mi pare proprio. Lo ricordo invece sul set di Salvatore Giuliano e anche de La sfida. Però mandava Pietro. Ha fatto più viaggi Notarianni con gli aerei Metropolitan… E ti assicuro che con quegli aerei erano viaggi avventurosi. Si passava proprio in mezzo alle montagne. Pietrino era unico. Ma fu splendido tutto il gruppo, furono simpatici pure i magliari, dei quali tutto sommato diventammo amici. Ricordo il locale dove feci incidere con l’orchestra in presa diretta Buonasera signorina, buonasera, come è bello stare a Napoli e sognar. Te l’ho detto, un bel periodo. Io e Nora ci eravamo separati, e mi ero innamorato di Giancarla, che venne a trovarmi ad Amburgo durante le riprese. Era un momento felice della mia vita e io dico che il film risente di tutto questo. Un’opera di cambiamento, di trasformazione. Quando a riprese finite tornai a Roma, andai a vivere da solo, non stavo più con Nora. Cominciava davvero un’altra vita. Quando hai finito le riprese de «I magliari» e hai montato il film, a chi l’hai mostrato la prima volta? A Pietro, a Cristaldi, agli attori, a Renatino Salvatori. Feci ciò che si fa normalmente quando si presenta per la prima volta un film. Andammo al Festival di San Sebastián, in Spagna, dove guadagnammo una menzione speciale della giuria, poi vincemmo il Nastro d’Argento nel 1960 per la miglior fotografia in bianco e nero. Con il pubblico andò bene, però indubbiamente una parte della critica fu delusa. Ad altri

invece il film piacque. Forse il mondo intellettuale del Caffè Rosati aspettava il seguito de La sfida. Ebbero da ridire. Io li invitai a vedere il film alla Titanus, in via Margutta. Sandro De Feo alla fine commentò: «Ma come, dopo La sfida fai un film del genere? Ma che c’entra?». Lo disse direttamente a te. Interessante. Oggi alla fine delle proiezioni di solito si congratulano tutti, poi usciti dalla sala… Ma con De Feo eravamo amici. E si incazzava anche. Insieme a Vincenzino Talarico erano due bei personaggi. Era bello il mondo che frequentava il Rosati, c’erano tutti. Anche Eugenio Scalfari. L’ambiente che girava intorno a Pannunzio. Amidei vide mai «I magliari»? Come reagì? Credo l’abbia visto. Ma io non andavo a chiedere. Però il film ebbe successo, forse non come ce lo aspettavamo. Non prendemmo il pubblico tradizionale di Sordi, che temeva di vederlo in un film troppo impegnato. E non scaldò gli impegnati, che lo ritennero un film troppo comico. All’epoca non era facile mettere insieme il tema realistico, la denuncia di un certo mondo criminale, con un clima quasi farsesco. Il noir e la commedia. Erano operazioni che venivano guardate quasi con sospetto. Oggi invece si applaude chi gioca a mischiare e a porre sullo stesso piano il cinema di serie A con quello di serie B. Come fa Tarantino, che però è irritante. Non mi ha mai fatto impazzire. Ma grazie a lui la logica della citazione e del contagio dei generi è diventata un fenomeno dinanzi a cui tutti si inginocchiano. Cinquant’anni fa era naturale prenderne le distanze. Il tuo esperimento di contaminazione stilistica, il tentativo di coniugare temi difficili con le abitudini del grande pubblico, era in anticipo sui tempi. Ma era un’operazione intelligente. Sì, forse Alberto Sordi poteva in qualche momento abbassare un po’ certi toni troppo grotteschi. Quando fa quei balletti, quella roba lì. Ma dopotutto Sordi è Sordi.

All’inizio del film, quando lui va al cimitero, vede quei poveracci che piangono e si prende il nome del morto per andare a casa sua e fare il colpo, tu metti in scena lo stesso meccanismo della truffa che molti anni dopo userà Peter Bogdanovich nel suo grande film «Paper Moon» (1973). Ti ricordi? Ryan O’Neal va a vendere ai parenti dei morti le Bibbie rilegate in cuoio con inciso il nome del defunto copiato dai necrologi. E la piccola Tatum O’Neal gli fa da palo. È vero, stessa identica idea. Comunque, tutto sommato I magliari è un film che sta in piedi, solo che lo hanno capito dopo. E poi ha una fotografia bellissima. Gianni Di Venanzo fu sublime. Di Venanzo l’hai conosciuto fin dall’inizio della tua carriera e ci hai lavorato tanto insieme. Figura leggendaria del nostro cinema, ma di lui non si sa niente. Notarianni me ne parlava spesso, diceva ch’era un genio. Ma chi fosse davvero Gianni Di Venanzo, che carattere avesse, nessuno lo sa. Per cominciare, ti dico che era di origini contadine, abruzzese di Teramo, se non sbaglio. Era uno molto attento, scrupoloso, un grande amico, sempre impegnato sul lavoro. Proprio ne I magliari fece i primi esperimenti di un certo tipo di fotografia e trovò alcune soluzioni nuovissime per girare con poca luce, poche lampade e con la pellicola Ilford. L’intera sequenza notturna del film è illuminata in questo modo ed è formidabile. Lui smontava le lampade vere dei lampioni pubblici e ci metteva le sue. Una tecnica che poi ha elaborato alla grande in Salvatore Giuliano. Ma i primi tentativi, i primi esperimenti, li ha fatti proprio ne I magliari. C’è un’inquadratura in cui Renato Salvatori e Belinda Lee si baciano sotto un lampadario. Di Venanzo ha messo la lampada che proprio gli tocca le teste. Con la luce che li brucia, quasi, li sfonda. E il resto è tutto perfettamente esposto. Bellissimo. Allora nessuno aveva il coraggio di fare queste cose. Appena notavano una parte dell’inquadratura troppo illuminata, tutti correvano a correggerla. Invece lui inseguiva

la più larga scala espositiva. Gianni era forte, fortissimo. Durante ogni film al quale lavorava, aveva sempre una storia sentimentale. Quando Fellini gli chiese di lavorare con lui per 8½, noi eravamo sul set di Le mani sulla città. Decisi di liberarlo tre settimane prima che finissero le riprese. «Non voglio farti perdere un film con Federico.» C’era tra noi un rapporto di amicizia che andava oltre l’interesse. Lo sostituirono Aiace Parolin, che fin lì era stato l’operatore di macchina, e Pasqualino De Santis. Sei stato davvero generoso. Trovavo assurdo che perdesse un film come 8½. Venne lui a dirmelo: «Ma se tu vuoi, io non vado…». «Perché mai» gli dissi «dovresti farti scappare un’occasione così importante?» Era un tipo allegro, carino, piccolo. Questa sua visione fotografica così particolare e innovativa, da dove credi che provenisse? Credo soprattutto dal suo talento naturale, che si era raffinato attraverso le esperienze fatte come operatore alla macchina con tanti registi importanti. Poi è diventato direttore della fotografia, e io subito lo utilizzai per il Kean. Era bravissimo, Di Venanzo. Aveva questa natura autentica da abruzzese. Studiava i copioni dei film che faceva, o era un intuitivo? A quell’epoca i datori di luce non studiavano le sceneggiature. Andavano a istinto, in base all’ambiente, agli attori, alle intuizioni del momento. La filosofia secondo cui il direttore della fotografia deve studiare il copione, deve interpretarlo, è nata dopo, e troverà in Vittorio Storaro il suo esponente massimo. Vuol dire che un direttore della fotografia poteva benissimo essere oggi sul set di un film e domani di un altro senza soffrire nell’approccio all’opera? Passare da un film all’altro, dici? Perché no? Accadeva spesso. In fondo, un direttore della fotografia bravo, se ce l’aveva, la sua personalità la metteva subito in campo. Il

regista capiva e lo seguiva. Gianni ce l’aveva ed era anche molto veloce. Poi, essendo stato un bravo operatore, tornava volentieri dietro la macchina da presa anche quando era direttore. Faceva così anche Pasqualino De Santis. È stato direttore di fotografia con me e con tanti altri registi, ma continuava a stare spesso in macchina. Diceva una cosa divertente: «Se vado in un negozio e devo comprare una cravatta, devo prima guardarla attraverso la loupe (della macchina da presa)». Di Venanzo è morto piuttosto giovane. Non aveva che quarantacinque anni. Un incidente stradale, a Roma. Notarianni mi raccontava di averlo scritturato alla Vides in esclusiva. Insolito per un direttore di fotografia. Ma Pietro certe cose le capiva per tempo. Poi voleva sempre sentirsi coperto. Quando ha fatto l’organizzatore generale de Il Gattopardo aveva alle sue dipendenze dei direttori di produzione di prima qualità, tra cui anche Silvio Clementelli, ma l’organizzatore generale era lui. Sento che parli volentieri di Pietro Notarianni. Pietrino era un amico carissimo, ci frequentavamo quotidianamente. Sai, aveva origini napoletane, di quelle che piacciono a me, coi parenti nella Napoli dei palazzi antichi. La Napoli di una borghesia alta e molto colta. Pietro l’ho conosciuto quando fece da assistente a me che ero aiuto regista ne I vinti di Antonioni. Con lui andavamo molto d’accordo, era talmente disponibile, affabile, intelligente. Frequentava casa mia ogni sera. Un grande amico, e lo è stato fino all’ultimo giorno della sua vita. Convinsi Cristaldi a dargli il titolo di organizzatore di produzione. Cristaldi capì che poteva essergli utile, e gli diede molta fiducia. Eh, ma Pietro capiva di cinema. Era colto. Poi amava sguazzare nei pasticci dei film. Più problemi c’erano e più si divertiva. Fondamentalmente, era sempre schierato con il regista.

Ed è stato anche molto amico di Visconti. Tantissimo. Di Fellini poi non ne parliamo. Si telefonavano dieci volte al giorno. Anche con me del resto, ci sentivamo continuamente. Qual era la cifra particolare del suo essere uomo di cinema? Riflettere molto sulle caratteristiche di un film. Rispettare a tutti i costi l’essenza di una sceneggiatura. Un esempio? La scelta di Mastroianni per Divorzio all’italiana si deve a Pietro Notarianni. Germi voleva Alberto Sordi, e Giulietta Masina nel ruolo che poi andò a Daniela Rocca. Per convincerlo, Pietrino fece truccare e vestire Marcello come un siciliano assurto alle cronache del tempo per aver ucciso la moglie infedele. Infine lo fece fotografare. Quando Germi vide le foto sulla sua scrivania non ebbe dubbi, scelse Mastroianni, che però aveva firmato per un altro film prodotto dallo stesso Cristaldi. Sai cosa fece Notarianni per liberarlo? A insaputa di tutti aprì la cassaforte della produzione e strappò il contratto. Eh, Pietro era forte. Ogni volta che mi veniva un’idea, la prima persona a cui ne parlavo era lui. Quando ho lavorato al mio ultimo film, La tregua, ogni mattina gli telefonavo dall’Ucraina. Quel film presentò molti problemi, di attori, di costi e di luoghi in cui girare. Quindi c’era molto da dirsi, decisioni da prendere. Doveva essere utilissimo per te sentire le impressioni di un amico che se ne intende sul serio. Pietro mi dava ottimi consigli. Era intelligente. Ha fatto centinaia di film, non solo con me, Visconti, Fellini e Antonioni, ma anche con Eduardo De Filippo, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Antonio Pietrangeli, Citto Maselli, e tanti altri, con te anche… Be’, senza Pietro probabilmente non avrei realizzato «Nuovo Cinema Paradiso» (1988). Con lui ho fatto anche «Una pura formalità» (1994) e «La leggenda del pianista sull’oceano» (1998). Ma persino dei miei film che non ha fatto, era il primo a cui facessi leggere il copione. Viveva circondato da pile di sceneggiature. Per un film che gli piacesse era pronto a rinunciare a tutto. Come quando fece

il grande passo e produsse La caduta degli dei (1969) di Luchino Visconti. Ci rimise le penne, povero Pietro. Un’avventura che gli costò alcuni giorni in galera se non sbaglio. Non ti sbagli. Antonello Trombadori andò a trovarlo in carcere. Ci sono andato anch’io. Lo ricordo bene. Dovette cedere il film e tutto ciò che possedeva per pagare i debiti. Fu una sconfitta. Ma non rinunciò mai ad andare in giro con l’autista in Mercedes. Tu lo coinvolgevi anche nei tuoi film non prodotti da Franco Cristaldi? Sempre. Per esempio, quando andai in Colombia per girare Cronaca di una morte annunciata, Pietro seguiva la produzione da Roma, vedeva il materiale in proiezione a Cinecittà e ogni mattina me ne parlava al telefono, mi dava le sue impressioni. È stato così anche quando ho fatto La tregua. Io i giornalieri non li vedevo, Pietro lo faceva per me e mi riferiva al telefono. Mi fidavo di lui, è il caso di dirlo, ciecamente. Ogni mattina, appena sveglio, la prima telefonata era per lui. Telefonate quaresimali. Devo dire che Leo Pescarolo, il produttore, ebbe un gesto molto generoso. Volle pagarmi interamente le telefonate fatte a Pietro. Conservo delle lettere che Leo mi ha scritto, davvero molto belle. Povero Leo. Non so nemmeno di che cosa sia morto. Ma pure Pietrino, poteva aspettare ancora un po’ prima di morire. Sembra quasi che alla fine abbia voluto sbrigarsi. È come se a un certo punto si fosse lasciato andare. Ricordi quando ha compiuto ottant’anni e siamo andati a trovarlo? Io, tu e Massimo Cristaldi. Certo. Mi fa piacere parlare di Pietrino, se ne parla sempre troppo poco. Sai, oggi non tutti sono in grado di capire quanto siano state importanti figure come la sua nella produzione dei film italiani. Una volta Fellini disse: «Notarianni non è Pietro, Notarianni è un mestiere. Così come ogni film ha un costumista, un

direttore di fotografia e un montatore, dovrebbe avere un Notarianni». Bellissimo. Aveva ragione Federico. E pensare che negli ultimi anni della sua vita Pietro non aveva neanche di che pagarsi il residence. Facevamo la colletta, ricordi? Anche per l’intervento agli occhi. Come no… Eh, grande personaggio Pietro Notarianni. C’è stato davvero un periodo in cui Pietro e Antonello Trombadori venivano ogni sera a mangiare qui a casa mia. Tra Antonello e Giancarla, poi, c’era proprio una simbiosi, fatta anche di liti, bestemmie, gestacci. Appena cominciavano a discutere, si accendevano. Antonello urlava, si buttava per terra, cose indicibili, però meravigliose, perché si amavano molto, si volevano bene. Pietro si addormentava su un divano, poi si svegliava, si riaddormentava. Questa casa era molto frequentata dal cinema di allora. Insieme a Pietro venivano attori come Mastroianni o come Renato Salvatori, nomi che circolavano regolarmente nelle proposte dei suoi film, prima ancora di parlarne con il produttore. Vedi, Pietro è stato un personaggio molto raro e piuttosto difficile. Ci siamo frequentati sempre. È sparito solo quando andò a fare Il Gattopardo. Sentiva l’enorme responsabilità di quella produzione. Ma poco dopo abbiamo ricominciato a sentirci e vederci ogni giorno. Quanti anni avrebbe avuto adesso Pietro? Credo ne avesse quattro meno di te. Ne avrebbe ottantacinque, quindi. Mamma mia, quanti anni che ho, mi fa impressione. Ci metterei la firma per arrivare come te alla tua età. Ti sono sembrati più rapidi i primi quarantacinque o i secondi? Sicuramente i primi. Tesoro mio, so di stare in piedi ancora bene, però tanti anni addosso mi fanno paura, anche perché comunque tutto ha una fine. Nella vita delle persone, specialmente quelle che fanno professioni pubbliche, c’è una forte interdipendenza tra vita privata e lavoro. I momenti

difficili, e io ne ho avuti, li devi superare con la forza e il coraggio. In certi momenti l’ansia ti prende ed è difficile scacciarla, soprattutto se interviene la depressione. È dura, molto dura… Perché perdere una moglie con la quale hai vissuto cinquant’anni non è umanamente accettabile. Perché era una donna troppo speciale. Discreta, generosa, buona, incazzosa, intelligentissima, non aveva paura di niente e di nessuno. E scoprire oggi, attraverso lettere che mi arrivano, che lei aiutava la gente a trovare lavoro… E a me non diceva niente. Ma questo, probabilmente, è il carattere bergamasco. I bergamaschi sono così e lei era bergamasca. Era una donna molto particolare. Non è facile accettare l’idea che non ci sia più. Ma credo sia così per chiunque perda una compagna o un compagno. Sono cose dure. Quando vuoi bene a una donna e hai avuto con lei un rapporto così intenso, non banale voglio dire, ti rimane proprio non nel cuore, ti rimane dappertutto. Che vuoi fare? Giancarla mi manca molto. Molto… Anche se cerco di farmi forza, mi ritorna sempre in mente. Mi piaceva come organizzava la sua vita. Giancarla è stata una donna speciale. Aveva un modo di stare con la gente… Era amica intima di Luchino Visconti, di Federico Fellini, di Alberto Ronchey, di Furio Colombo, non parliamo di Antonello Trombadori, erano proprio come degli innamorati. Facevano le scenate come due fidanzati. Giancarla era amica di tanti… Insomma, qui in casa nostra venivano tutti, gente del cinema, del teatro, del mondo politico. La notte alle due, due e mezza, suonava il citofono e saliva Marcello Mastroianni. La nostra casa era un porto di mare. Come vi eravate conosciuti? Eh… tutto un bell’intrigo. Ci eravamo incontrati in un momento in cui la nostra vita aveva bisogno di un cambiamento. E per me il cambiamento è stato fortissimo, perché io mi sono innamorato di Giancarla subito. L’ho vista una sera al Caffè Rosati a via Veneto, dove si incontrava tutto un gruppo di romani: scrittori, giornalisti, intellettuali. La vidi proprio lì per la prima volta. C’erano anche Sergio e Nori Corbucci, Sandro De Feo e Vincenzino Talarico. Lei era con la

sua amica più cara, Lina Wertmüller, la quale aveva una Topolino gialla. Io avevo una Citroën Deux Chevaux, quelle nere con i parafangoni. E successe che a un certo punto mi misi a inseguire questa Topolino, per vedere lei chi fosse, dove abitasse. Insomma, per farla breve, siamo vissuti insieme cinquant’anni.

I giorni di Amburgo

Avevo perso la testa per Giancarla, questa è la verità. Appena l’ho vista e l’ho sentita parlare non ho avuto più pace fin quando non ci siamo sposati. E così, andai dietro a quell’automobilina gialla. Poi lei l’ho rivista presto, perché ormai sapevo dove stava la sera. Ero amico delle sue amiche. E quindi ho fatto il primo passo. Ho fatto quello che si fa quando ti piace una donna. Ho cominciato a parlarle. Ma fu un vero e proprio colpo di fulmine. M’innamorai di Giancarla senza mezzi termini. E quando ti sei accorto che anche lei si stava innamorando? È passato del tempo. Ho cominciato a frequentarla, abbiamo vissuto anche un periodo di clandestinità. Io la portavo in ristoranti che per lei erano insoliti. La portavo a mangiare vicino al Campo Boario, a Testaccio. E lì una sera fummo beccati da un paparazzo. Uscì fuori un servizio con la mia fotografia e quella di Giancarla. Da quel momento è nata un’unione profonda, però anche strana. Siamo sempre stati insieme, ma litigavamo, discutevamo di tutto, di politica, di cinema, di teatro, ci confrontavamo su qualunque argomento, bisticciavamo per tutto, ma stavamo proprio bene insieme. Cosa ti colpì di Giancarla la prima volta che la vedesti? Mi piaceva. Era bella. Carina, piccola e poi acuta, brillante. Mi piaceva come parlava. Io la sentivo. Spiritosa con chiunque, giornalisti, uomini politici, scrittori, artisti. Giancarla teneva testa a tutti. Era intelligentissima, ma non se ne vantava. Lo era nei fatti. Poi non aveva paura di niente. Una donna che diceva esattamente quello che pensava. Sempre. Ed è per questo che siamo sempre andati d’accordo. È stata una bella unione. Giancarla mi è stata complementare, in un certo senso. Tutti gli amici l’amavano. Lei credeva nell’amicizia, si

dava alle amicizie. Aveva una personalità che conquistava. Era proprio un bel personaggio. In passato Mario Monicelli aveva avuto delle simpatie per lei. E quando l’ho conosciuta, lei veniva fuori da una storia con Lelio Luttazzi. Questo la dice lunga sullo charme che aveva Giancarla. Attraeva tutti con la sua simpatia. Era moltissimo amica di Walter Chiari, che era amicissimo di Lelio Luttazzi. Se non che quando Walter fu accusato di usare cocaina, per allontanare i sospetti su di sé, li dirottò su Lelio. Il quale proprio non c’entrava per niente. Nemico della droga. E andò a finire in carcere pure lui poverino. Giancarla non ci passò sopra. Infatti Walter venne una sera qui, che voleva riprendere il rapporto, e lei lo cacciò via. Invece con Lelio sono sempre rimasti in buoni rapporti. Si erano incontrati quando lei aveva diciotto anni e lavorava a Milano, dall’editore musicale Sugar che la teneva in considerazione perché gli piaceva questa ragazza sveglia, tutta pepe, che si intendeva molto di musica, ed era brava con le canzoni americane. Era molto amica di Gorni Kramer e della sua compagna. E anche legatissima a Vittorio Caprioli e Franca Valeri. Una volta ho sentito dire che per i suoi meravigliosi sketch al telefono, la Valeri si fosse ispirata a Giancarla. È vero? Dunque, è vero che Giancarla avesse con il telefono un rapporto, diciamo, intenso. Ed è vero che lo spettacolo Lina e il cavaliere fatto da Caprioli e dalla Valeri era stato molto impostato sul personaggio di Giancarla. Sulle sue caratteristiche, sul suo modo di parlare liberamente, di coinvolgere se stessa e gli altri in situazioni che potevano apparire comiche. Tanto è vero che quando andammo a vedere lo spettacolo al Teatro Valle, io me la presi con Vittorio in maniera anche dura. Avevo in mano il cappello, lo buttai per terra e gli dissi di non farsi più vedere. E lui veniva ogni giorno a suonare al citofono, perché voleva salire, voleva parlare con Giancarla. Poi facemmo pace. Anni dopo Vittorio alloggiò per un periodo all’Excelsior, stava recitando con Luca De Filippo, facevano le prove di Napoli milionaria! e una notte, improvvisamente, è morto. Io sono corso in albergo e

l’ho visto. Stava lì, sul letto. Lo avevano coperto con un lenzuolo. Era rimasto con gli occhi sbarrati. L’espressione di chi probabilmente aveva avuto una visione. Mah… andiamo avanti. Si dice che anche nel personaggio interpretato da Mariangela Melato nel film «Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto» (1974), ci siano certe attitudini che Lina Wertmüller avrebbe costruito pensando in qualche maniera a Giancarla. Ma Lina ha pensato a Giancarla per tutto il film, non solamente in certi momenti. Lina stessa lo ammette. Difatti, prima ancora di cominciare il film, disse a Giancarla che si sarebbe ispirata a lei. Erano molto amiche. E quando Giancarla vide il film come reagì? Si fece un sacco di risate. Ebbe un grande successo, era un film divertente. Come no. Ma Giancarla era una donna molto divertente. A essere onesti, a me non piaceva molto quella trasfigurazione del suo carattere. Come per lo spettacolo di Caprioli. Lì mi arrabbiai forte. In circostanze del genere invece Giancarla non si agitava troppo, magari ti diceva una battuta di quelle che ti tagliavano le gambe. Veniva mai a trovarti sui set dei tuoi film? La prima volta fu durante le riprese de I magliari. Ci conoscevamo da poco. Lei venne a trovarmi ad Amburgo accompagnata da Lina, ed è stata lì due, tre settimane. La nostra storia d’amore esplose in quei giorni. Quando poi decise di tornare a Roma l’accompagnai all’aeroporto. A un certo punto mi sento chiamare dagli altoparlanti: «Il signor Rosi è richiesto al telefono!». Vado al telefono e sento la voce di Pietro Notarianni, il quale mi dice: «Non ti girare, sono dietro di te. Non fare partire Giancarla, perché a Fiumicino l’attende Nora armata di pistola!». Ma lui come faceva a saperlo?

Pietro sapeva sempre tutto. E perché ti chiamava in incognito? Per non farsi vedere da Giancarla, per non allarmarla. Lei comunque volle partire. Io l’accompagnai fino alla scaletta dell’aereo. Con quella esaltazione che si ha all’inizio di un grande amore. E ricordo lo sguardo veramente innamorato di lei, mentre ci salutavamo. Ma la cosa divertente fu che arrivata all’aeroporto di Roma non trovò Nora ad attenderla ma un’altra signora che era l’amica di un amico dell’amica di Giancarla e che accolse quest’amica a male parole. Pietro aveva saputo tutto, ma non esattamente il nome di chi preparava l’agguato. Neanche lui era infallibile. Comunque, dopo aver vissuto insieme qualche anno, decidemmo di sposarci. Ci siamo sposati a Sant’Andrea delle Fratte ed è stato nostro testimone di nozze Mario Monicelli. Uno può anche chiedere: ma come, vi siete sposati in chiesa? Sì, perché Giancarla sosteneva che nel caso in cui avessimo dovuto rompere il rapporto, sarebbe stato più facile così che se ci fossimo sposati col rito civile. Il ragionamento fu questo. Chi altri c’era oltre Monicelli? In chiesa nessuno. Solo io, Giancarla e Monicelli. Ti farò vedere la fotografia. Era un amico, Monicelli, lo vedevamo spesso. Oltre a essere amico mio era amico anche di Giancarla. Quella sera festeggiammo sino all’alba. A un certo punto suonarono alla porta e vidi entrare quattro suonatori ambulanti, che cominciarono a cantare: «Spooosi, oggi s’avvera il sogno e siamo spooosi!…». Li aveva chiamati e preparati Sergio Corbucci. E aveva detto loro: «Non vi fermate, qualsiasi cosa vi dicano e chiunque ve la dica, continuate! Ve lo devo dire io se fermarvi». Pensa, io non ho pianto quando è morta Giancarla, non ho pianto, ma di fronte a questi ricordi mi metterei a piangere.

«Ma io sono la figlia di Francesco Rosi!»

L’ansia mi è familiare. Perché è qualcosa che ho sempre avuto. Non in modo patologico, ma sono sempre stato piuttosto ansioso, è una caratteristica ereditata da mia madre, che soffriva di ansia. Il lavoro l’ho sempre affrontato con molta responsabilità e ho cercato di non farlo entrare troppo nella vita privata. Il lavoro mi faceva superare l’ansia, mi dava soddisfazioni immediate, e con ciò non voglio dire che ero sempre completamente sicuro di me stesso. Ma riuscivo a risolvere i dubbi e a prendere decisioni. Evitando comportamenti eccessivamente apprensivi. È successo che le riprese di una scena importante ti creassero tensione, che non ci dormissi la notte? Vuoi la verità? Ho sempre avuto la presunzione, chiamiamola così, di superare gli ostacoli. Prevaleva la gioia di avere delle idee e di poterle esprimere. No, il lavoro mi ha sempre premiato, non mi ha mai dato preoccupazioni sproporzionate. Ero più ansioso nella vita privata. Quindi nel lavoro, nel rapporto col pubblico, ti sei sempre sentito fortissimo. Togliamo pure il superlativo. Diciamo che su quel fronte sono sempre stato «abbastanza» forte. Forte nel lavoro, nel rapporto con il mondo. Se ho capito bene, un po’ più fragile nella vita privata. Sensibile a tante avversità della mia vita. C’era la difficoltà di assistere e curare la mia prima figlia, affetta da sindrome di Down. Era una bambina con comportamenti non sempre prevedibili, in certi momenti sembrava normalissima, in altri venivano fuori tutti i suoi disagi. L’insicurezza, l’incapacità di vivere normalmente. Questioni che ti segnano.

Quando avete capito i problemi della bambina? Con un po’ di ritardo, anche a causa dei medici. Un grande pediatra, famoso per aver curato i figli di Mussolini, ci disse: «Non vi preoccupate, cammina con ritardo, ma non ha importanza. Fino ai tre anni, c’è sempre tempo». Boh, non so che dire, ma poi diventò tutto chiaro. Ricordo la grande gioia di quando nacque e la grande sofferenza della fase in cui scoprimmo che aveva problemi. Io e Nora la amavamo molto, ma nel periodo in cui avevo terminato La sfida il nostro rapporto stava logorandosi. Quando poco dopo sono partito per la Germania a girare I magliari ci eravamo separati. Ormai stavo con Giancarla, Nora recitava ed era spesso in viaggio. C’era un mio amico che assisteva Francesca, il professor Bollea, grande medico che è morto a quasi cento anni. Mi disse: «Questa bambina deve stare con il padre». Per Giancarla era una responsabilità notevole. La vidi pensierosa per un paio di giorni. S’incontrò anche con Nora che aveva ripreso il teatro, e ne parlarono. Erano due donne intelligenti, sapevano che si trattava di decisioni difficili da prendere, ma allo stesso tempo inevitabili. Alla fine Giancarla sciolse silenziosamente ogni dubbio. Non credo che molte donne avrebbero fatto la stessa cosa. Non batté ciglio. Da quel momento si occupò lei della bambina. Fu una decisione importante per lei. Se sei la madre è un conto, altrimenti è difficile. Lo fece per amore verso di me. Non ho mai dimenticato quel gesto. Come non ho mai dimenticato Francesca. Lei è morta con me. La stavo portando in auto a Napoli dai miei genitori. All’altezza di Frosinone sono uscito di strada, non ricordo niente, non c’era il guardrail e abbiamo fatto un tuffo. La macchina è sprofondata e la povera Franceschina, che soffriva di una fragilità alla colonna vertebrale, è morta sul colpo. Io restai gravemente ferito. Sua madre ovviamente arrivò subito, ma io ero sotto choc. I medici mi tennero lì a Frosinone tre settimane, non potevano spostarmi a Roma perché avevo subito un trauma alla colonna vertebrale. «Deve rimanere qua» dicevano i medici, «se si

muove la colonna può bloccarsi in modo irreversibile.» C’era un medico che era un famoso scrittore, Giuseppe Bonaviri. Come no? Siciliano. Scrisse «Il sarto della stradalunga». Ecco, bravo. Un libro bellissimo, che Leonardo Sciascia amava tanto. Fu lui, Bonaviri, a impedire che subito mi trasportassero a Roma. Bollea fu d’accordo. In seguito m’hanno tenuto due mesi in clinica a Roma, a Villa Margherita. Per venire fuori dal trauma, per ritrovare energia e forza di vivere e liberarmi di quella tragedia, mi buttai a capofitto in Uomini contro, che fu un lavoro difficile. Era il ’69, il film uscì nel ’71. L’ho fatto perché dovevo, non presi una lira. Lo volli fare a ogni costo, capii che, sennò, non avrei fatto più niente. Tu puoi immaginare il mio dolore di padre, Francesca era la mia prima figlia. Di quei due mesi trascorsi a Villa Margherita che ricordi hai? Ricordo solo il letto in cui mi curavano. Più tardi, durante la convalescenza, cominciai a fare passeggiate a Villa Massimo, che è lì vicino. Forse in quei giorni cominciai a pensare che dovevo fare il film. E che dovevo anche riprendere a guidare, subito, altrimenti non ci sarei riuscito più. Ricordo pure gli amici che venivano a trovarmi. Vennero tutti, i registi, gli attori. Visconti lo vidi più volte. Il cinema, lo si è detto spesso, sa essere una grande famiglia, almeno allora era così. Oggi non so, ma non mi pare. Posso garantirtelo. Il senso della grande famiglia non c’è più, ora prevale il senso del clan. No, allora ci sentivamo uniti. Ci volevamo bene più di quanto si vogliano bene oggi i giovani cineasti. Insomma, fu anche l’affetto degli amici, oltre all’idea di tuffarmi in un film, che mi aiutò a reggere il dolore. Sì, il dolore per la perdita di mia figlia. Il dolore per il modo in cui l’avevo persa. Il dolore per il mio senso di colpa. Se sei alla guida di una macchina ed esci fuori strada, ti senti per forza in colpa. Ma non era una colpa consapevole, sapevo che era stata una fatalità. Facevo continuamente viaggi con Francesca, la portavo spesso con me. Sentivo un senso di colpa interiore, e forse era peggio.

Francesca ha vissuto quindici anni. Sono stati anni di passione, di dolori, di attese. Allora per i bambini Down non era come adesso. Oggi viene accettato, trattato più o meno come tutti gli altri. A quei tempi c’erano classi differenziate per bambini ritardati. Francesca frequentò più di una scuola. Un giorno mi dissero: «La bambina non fa quello che noi diciamo, è irrequieta, distrae gli altri bambini e quindi non può frequentare nemmeno la classe differenziata». La cambiammo ancora di scuola. Finì in un posto con un pianoforte e due signorine mezzo matte che suonavano davanti a una decina di bambini Down. Ce n’era uno elegantissimo, con una camicia di seta bianca, un bambino che ti metteva gli occhi negli occhi, che ti toglieva il respiro. Avrà avuto otto anni, conosceva La Divina Commedia a memoria. Capisci? Incredibile. Vivemmo una grande sofferenza, ma anche un’unione assoluta con questa creatura meravigliosa. Quello dei bambini Down è davvero un mondo incredibile. Francesca ha mai visto i tuoi film? No, ma veniva a trovarmi sul set. Quello de La sfida, per esempio. Venne a trovarmi a Napoli, con la tata. Qualche volta era con me durante le interviste, c’è un filmato in cui appare. Io andavo spesso in giro con lei, l’accompagnavo dappertutto. Andavo anche a sentire conferenze su temi che la riguardavano. Allora sembrava che il problema non ci fosse, oggi invece si vede, se ne parla. A quei tempi, alle conferenze, ti trovavi solo di fronte ai racconti di dolore di genitori disperati: «Io lavoro, mia moglie lavora, come facciamo col bambino? Lo incateniamo al letto?». Non esisteva l’assistenza, ti rendi conto? Una cosa terribile. Non so se è giusto aver attaccato questo discorso. Ma sì, forse dovevo farlo. Il nostro mestiere ci porta sempre in giro per il mondo. Mi chiedevo quali fossero i tuoi contatti con Francesca durante i lunghi periodi di assenza. Lei andava spesso a Napoli, perché Bollea e altri medici avevano inaugurato un meraviglioso centro per bambini come lei dalle parti di Salerno, in mezzo ad alberi di ulivo. Francesca è stata lì un paio d’anni. Appena potevo correvo a

trovarla. Andavo a Napoli, la raggiungevo, la prendevo, la portavo a casa dai miei. Lei era contenta di vedermi, spesse volte era normalissima, solo il ragionamento non sempre funzionava in modo perfetto. Ma sai, Francesca era strana, in certi momenti ti chiedevi davvero cosa avesse. Penetrare questo tipo di realtà umana è rabbrividente. Nella civiltà contadina, quando in una famiglia c’era un bambino con un disagio di quel tipo, si teneva tutto nascosto, si viveva il dramma come una specie di disonore… È vero. Ma questo accadeva anche nella società borghese. Fino a quarant’anni fa simili tragedie si tenevano sottochiave. Noi riuscivamo a sfuggire a quel costume, anche perché Francesca conduceva una vita da bambina normale. Andava al mare, in giro con la tata, che era pure la nostra governante. Francesca è stata anche a teatro a vedere sua madre recitare. Ricordo una sua telefonata in cui a un certo punto disse: «Ma io sono la figlia di Francesco Rosi!». Capito? Una sua consapevolezza ce l’aveva. Su di lei ha scritto molto, e con moltissimo amore e discrezione, la sorellastra, Paola Gassman. Ti è mai capitato di sognare Francesca? Più che sognarla, rivederla. Sì, mi torna l’immagine di lei bambina. Anche se non ho mai dato troppo peso alla mia vita onirica. Penso di più a quello che ho fatto. Come mai l’avevate chiamata con il tuo stesso nome, Francesca? Nora amava quel nome, perciò decidemmo di chiamarla Francesca. Del resto amava moltissimo anche la bambina. Veniva a trovarla spesso a casa mia e, quando il lavoro glielo permetteva, la teneva tanto pure da lei. Stava con la sorellastra, con Paola. Le davamo una vita densa. Poi, dal gennaio del ’66, ha convissuto con la mia seconda figlia, Carolina. Stavano qua tutte e due, perché io avevo anche l’appartamento di sopra. Sì, Carolina ha fatto in tempo a conoscerla. E qualcosa ricorda. Era molto piccola allora. Non poteva rendersi conto di quel dramma. Quando divenne più grande l’ha saputo un giorno da… non mi ricordo. Forse dal figlio di Gassman, forse da

altri… Sì, dissero a Carolina della sorella che aveva avuto. Lei naturalmente venne subito a chiedere a noi. Le sue domande mi colpirono molto. Mi pareva di vivere un’esperienza che prima o poi avrei dovuto vivere comunque. Quegli interrogativi erano la conseguenza delle decisioni che avevo preso nella mia vita. E allora io e Giancarla non abbiamo potuto fare a meno di raccontarle com’erano andate le cose. Che potevamo fare? Sono ricordi così… Il primo ricordo che hai di Carolina su un set qual è? La grande curiosità per tutto ciò che vedeva. Il set era quello di Uomini contro. Aveva circa quattro anni. Sai, per una bambina assistere a scene con soldati, cannoni, eserciti che si muovono e che vanno a combattere era suggestivo, e magari nemmeno capiva cosa fosse tutto ciò. Non sentiva neanche il bisogno di chiedere spiegazioni. Era contenta di stare lì con me, con la mamma, con la tata. Lavoravamo su una montagna che si chiama Platak, nell’attuale Croazia, a circa ottocento metri sul livello del mare. Abitavamo in una località di villeggiatura e io facevo fisioterapia intensiva con i massaggiatori. Avevo ancora i postumi dell’incidente, curavo le vertebre del collo, era lì che aveva rischiato di troncarsi la mia vita. Ma, comunque, andiamo avanti.

«Salvatore Giuliano» non si deve fare

I film fanno di testa loro. Aggiungo che un film è come un mulo, se lo si obbliga ad andare dove non vuole, quello non ci va. Spara calci, ma non ci va. È così. Se c’è una scena sbagliata, ti andrà storta, non riuscirai mai a farla, perché evidentemente quella scena non ci deve essere nel film. E tu non puoi fare a meno di rendertene conto. Io so quello che nel film va bene e quello che non va bene, so quello che è meglio e quello che è peggio. Del resto, non siamo mai teneri coi nostri lavori. Anzi esageriamo, siamo troppo critici. Lo vedo con I magliari. È un bel film, che bisogno avrei di difenderlo? Ma poi leggi certe recensioni… Adesso sono tutti osanna, allora furono anche schiaffi. Quando scrivono, i critici dovrebbero pensare bene a ciò che scrivono. Non lo fanno abbastanza. Ma secondo te ho realizzato tutti film che valeva la pena fare? Sai benissimo di aver fatto grandi film. Eppure, devi credermi, è una domanda in parte sincera. Quando vedo Salvatore Giuliano, penso però che quel film abbia davvero determinato una svolta. Non solo nel tuo lavoro personale, ma nella storia del cinema. Quel film fece capire a tutti che esisteva un altro modo di raccontare. Pure Oliver Stone lo dice. Fino a quel momento, nessuno aveva fatto film così. Sai quante volte l’ho visto nella mia vita? Non meno di trenta. La prima volta ero piccolo. Mio padre arrivò a casa e disse: «Stasera dopo cena accendiamo il televisore. Devo farvi vedere un bel film, dovete vederlo tutti!». All’epoca c’erano solo due canali, il primo trasmetteva un ciclo chiamato

«L’avventurosa storia del cinema italiano», a cura di Domenico Meccoli. E quella sera davano «Salvatore Giuliano». Rimasi senza fiato. Ma quanti anni avevi? Undici. Film ne avevo già visti una barca, ma mai niente del genere. Capii che era un’opera diversa. Fu mio padre a dirci: «Questo è un grande film». Naturalmente, certe cose non potevo comprenderle. A undici anni che ne sapevi del separatismo, di come era andata veramente la storia del bandito Giuliano? Pensa, era nato un giorno dopo di me, il 16 novembre del 1922. Venne ucciso il 5 luglio del 1950. Appena il cadavere fu rinvenuto, le redazioni dei giornali di tutto il mondo impazzirono. Ricordi dov’eri quando fu diffusa la notizia? Pensasti subito di farne un film? Lo seppi dai giornali, ma l’idea di un film su Giuliano viaggiava da un po’ nelle case di produzione. Come era successo tempo prima per il processo Cuocolo. Un film sul bandito di Montelepre era nell’aria. Voleva farlo Peppino Amato. E già prima che Giuliano morisse, uno lo aveva fatto nel ’49 Aldo Vergano, I fuorilegge, con Vittorio Gassman, Maria Grazia Francia ed Ermanno Randi nei panni di Salvatore Giuliano. Una versione dei fatti un po’ romanzata. Si disse addirittura che Giuliano fosse fra i finanziatori di quella pellicola. Non lo sapevo. Mi dai delle notizie interessanti. A ogni modo io, a Giuliano, pensavo da anni. Dobbiamo risalire a quando facevo l’attore in teatro nella rivista di prosa, quella in cui debuttò Sordi e in cui recitavano Margherita Bagni e poi Olga Villi, la Matania, Giacomo Rondinella, più i quattro appena venuti fuori dall’Accademia: Adolfo Celi, Luciano Salce, Carlo Mazzarella e Paolo Panelli. Uno spettacolo favoloso, che facemmo a Palermo. Di quella città ricordo la strana abitudine di un personaggio incredibile, un

pescivendolo che somigliava a George Raft. Indossava sempre una camicia di seta bianca, immacolata, e ogni mattina dava il primo colpo al pesce spada facendosi sporcare da uno schizzo di sangue, come un fiore rosso sul petto. Era appassionato di teatro, ci portava in giro per Palermo in carrozzella. Il gesto col quale faceva schizzare il sangue, lo avrei messo anni dopo in Dimenticare Palermo. Ed ero lì la prima volta che ho pensato a Salvatore Giuliano, nel 1946, sulla salita che portava a Monreale. Mi fermai e sentii il cannoncino dei soldati che sparava a Montelepre contro Giuliano e i suoi banditi. C’ero andato con Carlo Mazzarella. Gli dissi: «Pensa Carlo, fare un film su Salvatore Giuliano…». Il germe dell’idea era già al lavoro. Anni dopo, mentre collaboravo con Suso alla sceneggiatura di Bellissima, tornai sull’argomento: «Certo, fare un film su Giuliano…». Ricordi che anno era? Era l’anno della morte di Giuliano, perché siamo nel 1950. Dovevamo raggiungere Visconti che stava con la sua famiglia per parlargli di Bellissima. Andammo in treno, diretti al Nord, e parlavamo del bandito di Montelepre, forse perché i giornali erano pieni di notizie riguardanti la sua morte. A Suso l’idea piacque, era una professionista perfetta. Non c’era film che non passasse attraverso la sua abilità di grande professionista e donna di cultura notevolissima. Poi il film su Giuliano l’ho fatto nel ’61. Franco Cristaldi e Goffredo Lombardo mi convocarono, insolitamente, nell’ufficio di Franco, che aveva già prodotto i miei primi due film. Goffredo invece era stato coproduttore solo de I magliari. Io avevo appena incaricato il mio agente di chiedere alla Vides, la casa produttrice di Cristaldi, un adeguamento dei miei compensi. Mi dissero: «Decidi tu. Vuoi fare Salvatore Giuliano? Per noi va bene. Se invece vuoi discutere dell’aumento e preferisci fermarti, il film lo diamo a Citto Maselli». Sì, dissero proprio Maselli, che infatti era molto legato a Franco. Io dissi solo: «Va bene, faccio il film». In realtà lo dicevo da tempo ma non ci credevo granché. Peppino Amato, del quale ero buon amico, preparava nello stesso periodo il suo, scritto da Giuseppe Berto. Mi

disse: «Ti offro questo copione». E io: «Sai che Salvatore Giuliano devo farlo con Cristaldi». Mi rispose: «Che t’importa? Ne fai due. Fai anche il mio». Meraviglioso, non trovi? So che l’ha fatto anche lui, era intitolato Morte di un bandito, ma non l’ho mai visto. Credo non l’abbia mai visto nessuno. Comunque da quando andasti a Montelepre con Mazzarella al giorno in cui realizzi il film, trascorrono più di dieci anni. E intanto seguivo le vicende di Giuliano. Leggevo tutto su quel personaggio diventato così popolare. In Italia e nel mondo tutti avrebbero voluto saperne di più, ma pochi riuscivano a collegare certi retroscena. Inoltre la Sicilia, come terra di mafia, interessava moltissimo, scatenava curiosità. Anche se non tutti capivano davvero fino a che punto l’isola fosse ricattata dalla mafia. Quindi accettasti la sollecitazione di Cristaldi e Lombardo. Che successe da quel momento? Dissi a Cristaldi che volevo sceneggiare con Suso Cecchi D’Amico, Franco Solinas ed Enzo Provenzale, che con me aveva già lavorato ed era siciliano, e poi aveva fatto il direttore di produzione con Germi. Lo volevo come uomo di produzione già dentro la fase creativa del film. Questa è una tua preziosa invenzione. Perché in tal modo i direttori o gli organizzatori di produzione sono coinvolti fin dall’ideazione, e finiscono così col sapere del film proprio tutto. In genere non si fa così, io l’ho fatto qualche volta ma senza implicarli nella sceneggiatura. Ti ho raccontato cosa successe con La sfida, Provenzale non voleva prendere l’ambiente ideale che avevo trovato io. Ma proprio perché era stato coinvolto già nella fase della scrittura, capì e mi lasciò fare. Nella squadra di sceneggiatori che chiedesti a Cristaldi c’era Solinas, che non ricordo abbia lavorato altre volte con te. Sì, in effetti Solinas lavorava molto da solo e spesso con Gillo Pontecorvo, di cui era molto amico. Un giorno lo

convocai insieme a Suso e cominciammo a parlare. Maturava in me l’idea apparsa già con La sfida, e cioè che non potevo fare un film su un mondo come quello della criminalità, camorra o mafia che fosse, se non riuscivo a insinuarmi davvero in quell’ambiente, a capirlo e riprodurlo, interpretandolo. Ancora una volta, non si trattava della verità, ma della realtà. In un quadro di Guttuso trovi la verità, ne La Vucciria la verità ti cade addosso, e ovviamente non ha niente a che vedere con quella giudiziaria. E comunque dissi a Suso e a Franco Solinas che saremmo andati in Sicilia. Tutti insieme, con Provenzale. Andammo a conoscere Palermo, la città che conserva nell’anima la grande civiltà araba. Poi siamo andati a Partinico e Montelepre, dove Suso volle subito visitare il cimitero. Ci andammo tutti e quattro. Ci muovevamo sempre insieme. C’era la tomba di Giuliano e ci fece impressione. A cominciare dalla scritta sul cancello d’ingresso: «Fummo come voi. Sarete come noi». Sulla tomba andavano molte donne, soprattutto straniere, che portavano fiori. Perché Giuliano era anche bellissimo. Pare che la giornalista svedese Maria Cyliakus, che l’aveva intervistato, avesse avuto con lui frequenti incontri d’amore. In paese cercavamo di restare sempre in incognito. Ci sforzavamo di capire i cittadini di Montelepre, che allora erano per me un mistero assoluto, non sapevo nemmeno come avrebbero reagito. Dopo, quando mi ci sono stabilito, hanno cominciato a riconoscermi perché ero sui giornali. Ma ormai non era più un problema, ora dovevo solo diventare un monteleprino, uno di loro. E infatti li avvertivo: «Devo girare il film qui, nel cortile De Maria a Castelvetrano, e a Portella della Ginestra». Con i miei sceneggiatori parlavamo, ci confrontavamo, abbiamo incontrato un grande personaggio, l’avvocato Nino Sorgi, padre di Marcello, uno dei massimi conoscitori della Sicilia e della mafia. Era giovanissimo all’epoca, aveva trentasette anni. Lo avevo incontrato tentando di entrare in quel mondo così misterioso. Con Sorgi diventammo subito amici. Ci fu una cena a cui presero parte lui, Franco Grasso e Michele Pantaleone, che da grande conoscitore del fenomeno mafioso mi diede indicazioni preziose.

E di Franco Grasso che ricordi? Lui era presente nel cortile De Maria, il giorno della finta uccisione di Salvatore Giuliano. Mi raccontò che per festeggiare il ritrovamento del corpo del bandito, il colonnello Luca aveva organizzato un rinfresco per la stampa. Nel film c’è anche questo. Si vedono tutti attorno al maresciallo Calandra e al colonnello Luca. Ogni episodio che ho rappresentato nel film è accaduto realmente. Tra il Monte d’Oro e Montelepre. È tutto verificabile, tutto. Con Le mani sulla città, e anche coi film successivi, ho adoperato lo stesso sistema. Conoscere, entrare in relazione con persone che avevano davvero vissuto i fatti. La prima grande difficoltà da superare all’epoca di Salvatore Giuliano consisteva nel fare un film su un personaggio che era esistito davvero ed era stato ucciso, quindi avrei dovuto impadronirmi di un pezzo della vita di quest’uomo per rappresentarla. Lì ho capito che dovevo diffidare di uno stile narrativo canonico. Dovevo rendere comprensibile la relazione tra i siciliani e la cultura mafiosa, un traguardo complicatissimo. E un racconto cinematografico tradizionale avrebbe fatalmente sbilanciato il film sulla figura di Giuliano. Invece, quella realtà, io dovevo penetrarla da tutte le parti, capire ciò che se ne era scritto, per esempio le tesi di Francesco Renda. Dovevo entrare nei legami che c’erano tra il contadino di Montelepre e la spinta ad accettare il potere mafioso, un potere che non si discuteva. Infatti leggevo tutto ciò che trovavo: libri, giornali, carte processuali. Cominciavo a intuire che per affrontare quella storia, bisognava prendere le distanze dal modello tradizionale del racconto romanzato. E quella sensazione divenne progressivamente una consapevolezza. E la tua nuova consapevolezza cosa determinò? Che appena tornammo a Roma e iniziammo a buttare giù uno sviluppo drammaturgico del film io entrai in crisi. Rileggevo e non ero convinto. La mia idea del film era evidentemente incomprensibile agli altri. Già in Sicilia, Solinas aveva cominciato a immaginare in maniera troppo tradizionale i preparativi dei contadini che andavano a Portella

della Ginestra e i bambini che preparavano il pane con la frittata per la festa del Primo Maggio. Quella direzione ci avrebbe portato fatalmente su una strada che io non volevo percorrere. Decisi che dovevo continuare per conto mio, non volevo per niente un film in cui la materia prima fosse l’avventura. Io volevo rappresentare la sottomissione dei siciliani al potere del latifondo e della mafia. Questo per me era l’essenza del film. Tu sai quanto stimassi Suso Cecchi D’Amico e Franco Solinas. Eppure, venne il momento in cui capii che dovevo andare avanti da solo. E a un certo punto dissi: «Ragazzi, io ho in mente un altro schema, adesso metto su carta quello che ho in testa». Come reagirono i tuoi sceneggiatori? Franco era una persona molto sensibile, capì. Io riorganizzai in diversi capitoli tutta quella montagna di appunti e documenti. E ricominciai a scrivere da zero. Impiegai un mese. Poi, a film finito, a proposito dei titoli di testa, dissi a Suso: «È vero, la sceneggiatura mi appartiene molto, ma è giusto mettere i nostri nomi in ordine alfabetico». Lei però non volle, forse per riguardo a me, che il suo nome apparisse prima dei nostri. Allora trovai io la soluzione migliore: «Hanno collaborato alla sceneggiatura, assieme a Francesco Rosi, Suso Cecchi D’Amico, Enzo Provenzale e Franco Solinas». E lei accettò. Dopo l’uscita del film, Solinas rilasciò una dichiarazione che ancora conservo. Ecco, leggila pure… «Dopo “Kapò” (1959) di Gillo Pontecorvo mi cercò Rosi per dare una mano alla sceneggiatura di “Salvatore Giuliano”. Gli sembrava, dal modo in cui erano costruite certe scene, che potessi aiutarlo, ma la mia fu solo una collaborazione. L’idea, l’intuizione di quel film sono interamente di Rosi. La sceneggiatura del film era buona, ma non era la sceneggiatura che contava. Contava l’originalità dell’impostazione.» Apprezzai molto la sua lealtà. Ma vedi, in fondo la mia sceneggiatura servì soprattutto a fissare lo stile particolare che stavo inseguendo. Molte scene, molti snodi drammaturgici li ho risolti poi sul posto. La rivolta delle donne, per esempio, è

un’idea che mi è venuta là a Montelepre. Il copione non era tutto, infatti quando tornai a Montelepre mi accorsi che la strada da fare era ancora molto lunga. Il sindaco, Giovanni Provenzano, detto il «dottorino», amico d’infanzia di Salvatore Giuliano, era schierato col film e riceveva attacchi dai cittadini. Per questo si decise di tenere un dibattito popolare davanti ai maggiorenti del paese. Quell’incontro l’avevo chiesto io. Se n’era occupato Nino Sorgi, certi rapporti li manteneva lui. In effetti nessuno del luogo sapeva che film avrei fatto. Pertanto sindaco, tenente dei carabinieri e parroco, anzi parroci, perché ce n’erano due, mi fecero un interrogatorio pubblico al cospetto del consiglio comunale. Volevano sapere cosa avessi in mente, cos’avrei raccontato. La gente comune temeva che fosse impossibile rappresentare le vicende di Montelepre occupata da duemila soldati e carabinieri. Quindi restava la domanda dei monteleprini: «Lei avrà il coraggio di raccontare quello che abbiamo passato, le sofferenze subite?». Il sindaco spiegava ai cittadini che non volevo mostrare gli abitanti di Montelepre come dei banditi. Il parroco mi disse: «Ma lei riuscirà a far vedere le cause del nostro dolore? Lei lo sa che io alle cinque del mattino andavo a dare l’olio santo ai soldati presi a fucilate dai banditi?». Ebbi una delle battute che a volte mi hanno aiutato nella vita: «Padre, ha fatto il suo dovere di sacerdote». Piacqui al tenente dei carabinieri, e l’atmosfera si sciolse. Vedi, all’inizio io ho fatto una vera operazione di seduzione nei confronti di quella gente. Volevo far capire che ero un amico. E per riuscirci sono entrato in intimità con loro, ci parlavo, li incontravo, li sceglievo per le scene. Di persona, senza delegare. Insomma, ero affettuoso con loro. E così mi svelarono le loro drammatiche esperienze, mi dissero delle retate, che prendevano gli uomini e li portavano ammanettati a Palermo. Quelle persone che via via incontravo, le avrei poi utilizzate nel film. Quando all’inizio arrivi in Sicilia, la stampa locale s’interessa al film?

Uscirono degli articoli. «Fa un film su Giuliano? Dirà la verità? Racconterà tutto ciò che questa gente ha sofferto?» Le stesse domande degli abitanti di Montelepre. Ma nessuno aveva capito nei primi giorni come avrei girato il film e come avrei comunicato la verità dei fatti. Capirono solo che non volevo fare un film romanzato, con personaggi aggiunti. Quelli del mio film, alla storia avevano preso parte davvero. Prima che il film partisse, cosa accadde sul fronte produttivo? Io ero andato in un appartamento che mi aveva dato Nello Santi in via Ludovisi a Roma, proprio per riscrivere la sceneggiatura. M’ero appena separato da Nora. Scrivevo tutto il giorno, e uscivo solo dopo cena per prendere un po’ d’aria. All’altezza di Largo Goldoni, una sera incontrai Goffredo Lombardo con Carletta, sua moglie. Mi chiese: «Che fai qui a quest’ora?». «Che faccio? Sto lavorando per te.» «Ma allora stai lavorando a un film che non si farà mai» rispose lui. Le sue parole mi turbarono, non ne capivo il senso, dopotutto era lui il distributore del film. Non reagii solo perché c’era Carletta. Poi accadde un fatto veramente grave. Pochi giorni prima dell’inizio delle riprese, Cristaldi e Notarianni mi riferirono che, improvvisamente, la Banca Nazionale del Lavoro aveva negato il finanziamento già promesso. Fu un momento molto difficile, il film rischiava di saltare. Ma Cristaldi disse: «Vado avanti lo stesso, vado avanti da solo». Fu di parola, proseguì come se nulla fosse. Andò avanti anche la Lux. Lombardo invece abbandonò il progetto, qualcuno al ministero pare lo avesse messo in guardia: «Sei pazzo a fare Salvatore Giuliano, quel film non vedrà mai la luce». Evidentemente, in certi ambienti, il film non era troppo amato, mentre incuriosiva moltissimo il mondo del cinema. Venivo dal successo de La sfida, poi avevo fatto I magliari. Non ero uno sconosciuto. Avevo ottenuto già premi e riconoscimenti. Cristaldi andò avanti senza battere ciglio. Con la Lux e con Lionello Santi, che fece un’anticipazione di vendite all’estero del film. Com’è che la Lux tre anni prima aveva rinunciato al tuo film sulla mafia catanese e adesso accetta quello su Salvatore

Giuliano? Il copione l’avevano letto? Immagino di sì. Ma sai, la questione del mercato ortofrutticolo era una circostanza precisa, che riguardava interessi precisi, qui i fatti erano invece assai meno chiari. Giuliano non era che il capo di una banda. E film sui banditi ne erano stati realizzati diversi. Solo che alla Lux non potevano prevedere i grattacapi ai quali stavamo andando incontro. La famiglia Giuliano chiese una cifra enorme per autorizzare il film. Cristaldi commentò: «Ma sono matti!». Perché pensasti di chiedere la loro autorizzazione? Perché mi preparavo a raccontare un uomo vero, che aveva avuto una vita vera. Sì, era un pregiudicato, come sosteneva Sorgi, ma intanto non era mai stato processato, bisognava essere cauti. Cercammo di non inasprire i rapporti. Alla fine la Vides trattò attraverso lo studio legale di Sorgi, Pomar e Cipolla. E da quel momento gli avvocati gestirono la situazione. I familiari di Giuliano trattarono attraverso i loro avvocati o tenevano un rapporto diretto? Si occupava di tutto la sorella, Mariannina, una donna molto determinata che faceva pure politica. La cifra che inizialmente volevano non fu accettata, e sono certo che Cristaldi una mediazione si sia sempre rifiutato di trovarla. Quando passavo sotto il balcone dei Giuliano, notavo con la coda dell’occhio una persiana che si apriva, qualcuno che faceva capolino, e poi vruum… il rumore dell’imposta chiusa precipitosamente. Per molti mesi ho vissuto una settimana a Roma e due in Sicilia. Poi il film cominciò. L’intera lavorazione durò un anno. C’è un libro bellissimo di Tullio Kezich, ha per titolo Salvatore Giuliano, credo sia il più bel diario di lavorazione di un film che sia mai stato scritto. Ne leggo una pagina a caso: «Fra i giovani che lavorano con la troupe ci sono numerosi pregiudicati, seguiti con attenzione da due carabinieri presenti. “Questo è il primo film” mi spiega Indovina “girato sotto il diretto controllo dell’Arma. Abbiamo due angeli custodi che stanno qui tutto il giorno,

verificano che i pregiudicati non tocchino le armi automatiche in dotazione alla troupe. La sera, i carabinieri hanno l’incarico di stendere un rapportino sulle inquadrature girate. Che cosa si rappresentava, quali personaggi erano in scena, le battute che pronunciavano. Dove finisca questo rapportino e a che cosa serva nessuno l’ha capito”». Avrebbe dovuto aggiungere che una sera i due carabinieri andarono da Roberto Pariante, il mio aiuto regista, e gli dissero: «Dottore, noi oggi non abbiamo potuto scrivere il rapporto perché ci siamo dovuti allontanare. Per cortesia, ci dica lei cosa dobbiamo scrivere». Formidabile, no? Quindi la lavorazione si svolse sotto il controllo dei carabinieri? Certo, ma era un controllo che non chiamava in causa me. Volevano solo sapere cosa stessi facendo, così come volevano saperlo i cittadini di Montelepre. Non ti sentivi controllato? Hai mai avuto il sentore di avere attorno personaggi strani, servizi segreti o cose del genere? Mai avuto sensazioni di questo tipo. Però faccio fatica a credere che la lavorazione di Salvatore Giuliano non sia stata «seguita». Avevate dovuto consegnare la sceneggiatura anche ai carabinieri? No. La sceneggiatura, secondo me, l’avevano presa dal ministero, perché prima di cominciare un film dovevi consegnarla all’ufficio della censura. Quindi ce l’avevano, ed evidentemente ogni giorno vi riportavano ciò che giravo, i cambiamenti, le aggiunte. Significa proprio che controllavano. Significa controllo, hai ragione. Ma non era un controllo oscuro, pesante. Diciamo che aveva solo natura burocratica. Nel corso di tutta la lavorazione del film accadde mai nulla che t’inquietasse?

C’è un episodio che mi riguarda personalmente. Quando andai a girare al cimitero di Montelepre, diedi istruzioni al custode di scrivere con un chiodo sul cemento fresco della lapide: «Salvatore Giuliano», poi data di nascita e di morte. La tomba sulla quale hai fatto scrivere il nome era vuota? Certo, ma un tempo la bara di Salvatore Giuliano era stata davvero dentro quella tomba. Io giravo con una troupe ridotta e con una macchina a mano, un’Arriflex, così da essere più agili e fare presto. D’un tratto vedo un giovane, molto alto, ben vestito, che prende la cazzuola, la butta sul cemento fresco del loculo e cancella la scritta del custode. Allora io do lo stop e dico: «Scusi, cosa vuole impedire? Che si scriva Salvatore Giuliano? Non abbiamo mica scritto bandito». «Ci sono scritte la data di nascita e di morte, e io non voglio, è roba mia, della mia famiglia!» Giuliano era suo zio. Gli risposi: «Secondo lei, che dobbiamo fare? Devo chiamare i carabinieri? Io devo girare». «Vada» disse lui, «vada a chiamarli.» Ordinai una pausa breve, nessuno era contento di stare lì, tra le tombe. Credo che fosse con noi pure il fratello di Pisciotta. Dopo un po’ giunse sul set il maresciallo dei carabinieri di Montelepre, chiamato dalla produzione. Era con lui – ma io non lo conoscevo – il fratello maggiore di Giuliano, vestito da contadino, con la coppola. I due camminarono per un po’ parlottando. Poi il fratello di Giuliano si rivolse a me: «Girassi pure, ma ci scrivissi Francesco Rosi sopra quella tomba!». Feci gli scongiuri, dopodiché gridai: «Motore!» e la scena riprese. Mi avevi chiesto se c’erano state delle difficoltà in quella dozzina di settimane in cui girammo. Be’, questa è una. Vuoi dire che ce ne sono state altre? Le famiglie Giuliano e Gaio di Montelepre aprirono un’azione giudiziaria contro di noi, chiedendo la cessazione delle riprese a Castelvetrano. Affermavano che il loro congiunto era morto incensurato e che solo agli eredi legittimi spettava lo sfruttamento artistico e commerciale della sua biografia. A questo punto l’avvocato Elio Fazzalari elencò settanta mandati di cattura emessi a vario titolo contro Giuliano dal ’47 al ’49. Fazzalari era il legale di Cristaldi, il

quale sosteneva fosse l’avvocato più bravo di tutti. Te l’ho raccontato, i parenti chiesero tantissimi soldi. Circolava la notizia che i Giuliano avessero chiesto un risarcimento di settanta milioni di lire. Ma, come vedi, Cristaldi ebbe buon gioco. Franchino fu bravo, gestì bene tutto. Già quando chiesero denaro la prima volta, lui non si negò, anzi fece una controfferta, mi pare di trenta milioni. E già questa cifra, trattandosi di Franco, mi stupisce un po’. L’esposto dei Giuliano fu presentato immediatamente, mentre la sentenza con cui il pretore di Partinico lo rigettava, arrivò il 19 giugno del ’61, quando io avevo già finito di girare. Sull’intero periodo delle riprese, perciò, pesò anche il rischio di una sospensione giudiziaria. D’altra parte, l’episodio del tizio che venne al cimitero a dirmi di scrivere il mio nome sulla tomba era una bella intimidazione. Ma non è finita. Un altro episodio grave riguardò Salvatore Lombardo. Aveva lavorato più volte come figurante nel film. Quest’uomo fu ucciso con la lupara presso Villa Sant’Anna, non ricordo bene se durante o alla fine delle riprese. Girò voce che l’avessero ammazzato gli avversari della troupe. Sinceramente non sospettavo di avere addirittura dei nemici, e non approfondii troppo la faccenda. Del resto che potevo pretendere di sapere? Seppi che era morto, che l’avevano ammazzato e che quelli che l’hanno ammazzato non sono mai stati trovati. Hai mai cercato di incontrare uomini che erano stati veri banditi? Come no. Un paio erano proprio della banda Giuliano. Li ho anche inseriti nel film. Li misi nella scena del processo, nel gabbione degli imputati. Durante le riprese i carabinieri veri si accertavano che non toccassero le armi di scena. Erano caricate a salve ma avevano un otturatore, e quelli con le armi ci sapevano fare. Diciamo che pure in questo caso usavo il metodo di Visconti ne La terra trema e che già avevo sperimentato con La sfida, dove i miei camorristi non erano veri, diciamo ammanigliati. A Montelepre dissi a me stesso: «Devo diventare uno di loro, giungere a una vera conoscenza di questa gente». Il fratello di Pisciotta, che conobbi, è stato

vicino a me per tutto il film. Non faceva niente, mi stava vicino e basta. Erano tutti molto avari di parole, anche oltre il costume siciliano. Ma lui era diventato come un amico. Avevo preso nel film pure il maresciallo dei carabinieri Calandra, protagonista della caccia a Giuliano. Gli feci interpretare proprio il ruolo che aveva svolto nella realtà storica. L’altro maresciallo dei carabinieri che aveva avuto un ruolo decisivo si chiamava Lo Bianco. Lui raccontò spesso che l’avevate contattato chiedendogli di collaborare, ma che non vi eravate messi d’accordo. Che era successo? Avrà chiesto una cifra che la produzione del film non gli ha voluto dare. Il problema dei soldi in un film non è mai da sottovalutare. Ma il maresciallo di Montelepre era Calandra. Lo Bianco sostiene che nella realtà non fu Calandra il protagonista della cattura. È probabile. Ma vedi, partecipare al film era come vantarsi, e a lui dava fastidio il non avervi preso parte. Aggiunse che avrebbe scritto un libro per raccontare il suo ruolo in tutta la vicenda. E credo l’abbia fatto. Anche il tamburinaro era vero? Ma per forza. La battuta «Sintìti, sintìti, sintìti!» me l’ha suggerita lui. Io gli indicavo solo quel che andava detto alla popolazione. E lui faceva tuonare il suo tamburo e urlava: «Sintìti, sintìti, sintìti! All’ordini ru cumannu militari! Aviti ’u pirmissu ri pigghiarivi l’acqua e farivi la spisa!». Quel film mi ha dato l’emozione della ricostruzione. Ho rifabbricato la memoria con l’aiuto degli abitanti. Volevo che ripetessero ciò che avevano fatto e detto, senza aggiungere niente. Volli filmare la rivolta delle donne di Montelepre. Avevano catturato tutti gli uomini, le donne si erano ribellate e io dovevo metterlo in scena. Il guaio è che si rifiutavano di venire. Erano tutte chiuse in casa. Dissi a Enzo Provenzale e al mio meraviglioso aiuto, Franco Indovina: «Non c’è soluzione. Andiamo a Palermo, riempiamo un pullman di ragazze di vita e portiamole qua». Indovina e Provenzale si misero al lavoro.

Con loro c’era anche un ispettore di produzione, Pace. Formidabile. Era incredibile, parlava solo romanesco e aveva stabilito con questi abitanti che facevano le comparse un rapporto splendido, un rapporto… Scusa, ma ricordare tutta questa roba mi emoziona. Ti capisco benissimo. Guarda che non è facile riportare alla memoria tante vicende. Però è bello che vengano fuori così, a brandelli. In ogni caso, le signorine furono reclutate a Palermo e portate a Montelepre. Una era meravigliosa, nel film si vede bene, una vera capopopolo, coi capelli biondo-rosso, davvero brava. Cominciai a provare, le donne correvano per ribellarsi ai carabinieri e ai soldati. Dopo un po’ comincio a notare sui balconi persiane che timidamente si aprono e teste che spuntano. D’un tratto urlano da un balcone: «Siamo noi le donne di Montelepre!». Avevo il megafono, dissi: «Allora venite giù, unitevi a noi e giriamo la scena!». Ciò che accadde fu emozionante. Scesero tutte. E cominciai a provare con tante donne che si mescolavano e che diedero vita a una scena irripetibile, bellissima. Adatta a raccontare la realtà che interessava a me, i rapporti misteriosi del potere, quello mafioso e quello istituzionale, che viveva di intrighi, di strane connessioni. Non dimentichiamo quell’ispettore di polizia, Verdiani, che a Natale portò il panettone a Giuliano che stava in montagna. Ho vissuto una grande avventura con quel film.

Movimento di partiti

Giancarla veniva a trovarmi abbastanza spesso, le piaceva tanto la Sicilia. Io la sera ero distrutto dalla stanchezza. All’Hotel Villa Igiea, dopo cena eravamo tutti sui divani a sentire la musica che risuonava da un fonografo. C’era mia moglie, qualche volta anche sua sorella Mariuccia, la stilista famosa col nome di Krizia, molto legata a tutti noi, poi c’era Tullio Kezich, che seguì tutto il film. Io mi addormentavo stremato, loro mi lasciavano dormire. Quando poi andavo a letto, e di dormire avevo bisogno, Giancarla mi teneva sveglio sino all’alba. Voleva sapere tutti i misteri di Giuliano, anche ciò che nel film era impossibile raccontare. E io le spiegavo. Lei ascoltava attentamente, diceva: «Ma come mai, mentre lo Stato dava la caccia a Giuliano, c’era un ispettore della polizia che lo raggiungeva sulle montagne e stava lì con lui?». Questi fatti oscuri la sconvolgevano. Poi mi chiedeva mille dettagli. Chi l’aveva ucciso, dove l’avevano ucciso. La mattina schizzavo fuori dal letto alle cinque, tornavo sul set che avevo al massimo dormicchiato. Bei momenti… In pratica dormivi solo sui divani dell’albergo, ascoltando la musica. Là andavo in letargo. Ero in pace, tranquillo, con Frank Sinatra in sottofondo. Spesso veniva Sorgi, e anche il giornalista che poi fu sequestrato, Mauro De Mauro. Ci conoscevamo già a quell’epoca. Era un grande cronista, lavorava a «L’Ora». Anche il suo resta un mistero che non è mai stato svelato. Oltre a tenerti sveglio sino all’alba, Giancarla si interessava del set? Sì. Partecipava alla vita della troupe nei momenti in cui si poteva assistere. Era attiva e preziosa. Durante la lavorazione

si sentiva spesso con Notarianni. Tantissime volte i suoi consigli mi hanno aiutato. Pietro, a Roma, aveva rapporti con gli ambienti della censura e avvertiva Giancarla dei loro movimenti. Era anche un modo per non coinvolgere me. Così potevo lavorare con meno angosce. Buttarsi in quel lavoro fu un azzardo. Soprattutto per come volevo farlo io. Ripeto che la mia non era la storia drammatica di un bandito, ma di una collettività, dei siciliani, dei contadini di quella terra. Durante tutta la fase della preparazione e delle riprese, ci fu mai qualcuno che venne a dirti: «No, i fatti non andarono così»? Accadde. Ma erano molti di più quelli che mi dicevano: «Andò esattamente così». Ormai ero entrato nella materia, c’ero dentro, ero diventato espertissimo. E devo dire che questo avvenne anche grazie a Suso, che fece un lavoro formidabile. Studiò tutti i verbali dei processi, una fatica bestiale, ma io non volevo inventare nulla. Mi basavo proprio sui verbali, sui fatti, sui documenti. Poco tempo fa sua figlia Silvia mi ha rivelato che Suso si era fatta aiutare anche da lei perché era proprio un lavoraccio. Che lavoro meraviglioso fece Suso, stupendo. Questo film ha mille storie, mille risvolti, è difficile ricordare tutto. Come è nata l’idea geniale di non far vedere mai Giuliano in faccia, ma sempre di spalle e in totale? Risaliamo a ciò che ti ho detto prima. Non volevo seguire una narrazione classica, quindi il film era praticamente raccontato da me. E io volli che Giuliano rimanesse avvolto nel mistero. Non l’aveva fatto mai nessuno. E mi pare non l’abbia mai fatto nessuno dopo. È contro le leggi dello spettacolo. Ti confesso però che l’idea m’è venuta proprio quando ho cominciato a girare, quando ho concretamente piazzato la macchina da presa. Perché è la cinepresa che ti dà la consistenza dell’immagine, lì capii che il personaggio doveva essere lasciato nell’ombra. In questo modo, di Giuliano, sai solo che agisce e che per un po’ tiene in pugno la situazione,

ma non puoi entrare davvero nella storia, ha ancora troppi aspetti non chiariti. È vero che cominciasti il film senza aver ancora trovato l’attore che doveva vestire i panni di Giuliano? Sì, lo trovammo tempo dopo. All’inizio avevo persino pensato a Marlon Brando. Con lui non sarebbe stato il film fuori dalle regole che volevi fare. Avresti dovuto necessariamente vederlo in volto. No, ma sai, fu solo un pensiero. A uno che fa un film, di pensieri così ne vengono tanti, no? Continuamente. Ti preoccupava cominciare il film e non aver trovato il protagonista? Non potevo perdere tempo e aspettare, dovevo per forza rischiare, la lavorazione del film è venuta fuori inevitabilmente dopo tutte le mie gite a Montelepre, gli incontri con gli abitanti, con le autorità. Se avessi perso tempo con l’attore, avrei messo il film in difficoltà, quindi cominciai. C’erano aspetti che, normalmente, per un film, sono decisivi e che per Salvatore Giuliano non lo erano. Finalmente trovammo un giovane perfetto per interpretare Giuliano. Era autista di autobus a Palermo. Si chiamava Pietro Cammarata. Non so chi lo arruolò. Invece Pisciotta era interpretato da un vero attore, fu pescato da Enzo Provenzale su un album fotografico, si chiamava Frank Wolff, ma nella foto era senza baffi. Glieli mettemmo, e restammo a bocca aperta, era identico al vero Pisciotta. In che lingua recitava? In inglese. Doppiato da Turi Ferro. Povero Frank, ha fatto una brutta morte. Si suicidò tagliandosi le vene con una lametta da barba, e siccome pare che gli fosse sfuggita dalle mani, l’ha dovuta riprendere per continuare ad ammazzarsi. Forse una storia d’amore finita male, chissà. Lui, dopo Salvatore Giuliano aveva fatto tanti altri buoni film, Il processo di Verona (1963) di Carlo Lizzani, L’amica (1969) di

Alberto Lattuada, Metello (1970) di Mauro Bolognini, C’era una volta il West (1968) di Sergio Leone... Come arrivasti all’idea di far doppiare Frank Wolff da Turi Ferro? Pensai subito a lui. Perché aveva una bella voce, da siciliano vero. Però era catanese, della Sicilia orientale. Pisciotta era della zona occidentale. Il problema te lo sei posto? Confesso di no. Ma all’epoca il cinema italiano non distingueva troppo l’accento catanese dal palermitano. Mi era piaciuto Turi Ferro perché aveva questa voce bella, calda. Era bravissimo e poi… somigliava pure un po’ a me. Durante le riprese, immagino che il tuo set sia stato meta di visitatori illustri. Non posso dimenticare Carlo Levi. Poi Mauro De Mauro, che allora scriveva articoli sul film, sulle riprese. Venne anche Marcello Mastroianni che stava girando in Sicilia Divorzio all’italiana diretto da Germi. Lo accompagnò la moglie, Flora Carabella, di quella visita conservo una bellissima foto. Ora che ci penso, vennero anche Jeanne Moreau e Françoise Sagan. Devo avere una fotografia anche con loro. E Walter Chiari, che era molto amico di Giancarla. Cristaldi venne sul set? Solo qualche volta. Veniva più spesso Notarianni. Non so se ti ho raccontato che un giorno lui e Cristaldi convinsero Suso che non era più necessario girare le scene del processo, come previsto in sceneggiatura, perché ormai il film andava bene così. «Ma voi siete matti, siete veramente pazzi» dissi io quando venni a saperlo da Provenzale. Sì, Pietro me l’aveva raccontato. Mi disse: «Tentai in tutti i modi di convincere Franco a non girare il processo. Fu irremovibile. Quando vidi il film, però, capii che aveva avuto ragione lui».

Per fortuna Provenzale aveva già dato l’ordine di costruire le scenografie del tribunale di Viterbo. Uno di quei casi in cui coinvolgere fin dalla sceneggiatura un uomo della produzione si rivelò davvero utile. Senza il processo il film non avrebbe la stessa forza. Prima accennavi ai veri picciotti della banda Giuliano che hai messo nel film. Li cercammo attentamente. Quando li incontrai per la prima volta chiesi loro come si viveva al fianco di Salvatore Giuliano. Ma non erano tipi da far discorsi particolareggiati, e poi, in fondo, non ce n’era bisogno. Come vivevano, si intuiva, si sapeva. Nel film si vede che stavano sulle montagne. Giuliano poi ogni tanto scappava e andava dalla madre a dormire. Si vede anche questo, è un racconto molto dettagliato. Ovviamente, quando mi veniva in mente di utilizzare i veri banditi o, per esempio, il vero avvocato del processo, prima mi documentavo a lungo. Volevo sapere chi erano, li cercavo e approfondivo. E poi non è che la mattina dopo li mettessi davanti alla macchina da presa. Prima parlavo con loro, volevo capire se quella scelta era opportuna. A volte dovevamo anche cercare di convincerli. Non nel caso dell’avvocato Morvidi che era convintissimo di partecipare. Era stato avvocato di parte civile nel processo vero, lo stesso ruolo che ricoprì nel film. Devo confessarti che adesso, mentre sono qui con te, ho come la sensazione che da un momento all’altro appaia Giancarla e ci chiami per la cena… Vabbè, andiamo avanti. Lei s’infuriava quando vedeva che la televisione usava regolarmente pezzi di Salvatore Giuliano senza citare né il titolo del film né me. In realtà non esiste un solo documento filmato sulla strage di Portella della Ginestra. C’è solo il mio film. E quindi lo mettono dappertutto. «Come si permettono?» s’indignava Giancarla. «Devi farti rispettare!» Una volta mi sono arrabbiato anch’io e ho scritto ai responsabili. Nel corso delle riprese dove vedevi i giornalieri? Io quando giro un film e sono in trasferta, adoro vederli in un cinema. Mi piace aspettare che sia notte, che finisca l’ultimo spettacolo,

che il pubblico vada via. Vedere il girato in una sala, sebbene deserta, ti dà l’idea che il tuo film esista già. Una bella sensazione, è vero. Noi li vedevamo a Palermo, al cinema Astoria, in via Generale Magliocco, la mattina prima di cominciare a girare. Vedevo tre, anche quattro ore di materiale. E poi la domenica, giorno in cui non giravamo. Alle proiezioni convocavo naturalmente tutti i capi reparto. Il girato lo vedevamo muto, nei cinema non c’era l’attrezzatura per proiezioni a colonna separata. Proprio in quanto mute, ho sempre trovato più affascinanti quelle proiezioni di giornalieri. Perché il cinema è una passione, è come una malattia. Oggi, forse, questa passione è sacrificata un po’ troppo al mestiere, non so. Per Salvatore Giuliano noi andavamo a piedi sulle montagne, portavamo attrezzi e macchine da presa sui muli. Non avevamo paura di niente. Io, quando arrivai a Castelvetrano, per esempio, chiesi subito d’incontrare l’avvocato De Maria. Nel cortile di casa sua era stato ritrovato il corpo di Giuliano. Ci demmo un appuntamento in un portone della strada principale di Castelvetrano, ma mi pregò di aspettare. Si presentò dopo tre ore, e mi portò in un ristorante sul mare a Selinunte, una località vicina, dove ci sono le famose rovine. C’erano colonne e ruderi, l’avvocato De Maria saltellava da una colonna all’altra come un ginnasta. Tra l’altro, lo era stato davvero. Saltellava mentre cominciammo a chiacchierare. A me interessava vedere casa sua per visitare l’ambiente nel quale Giuliano aveva passato gli ultimi tempi della sua vita. L’avvocato accettò e così iniziai a frequentare la sua abitazione. Quella in cui, durante il processo, Pisciotta aveva rivelato d’aver ucciso Giuliano. Ma la cosa strana – riportata anche da Kezich – è che in molti parevano restii ad affermare con certezza che Giuliano l’avesse davvero ucciso Pisciotta. Il maresciallo Lo Bianco diceva: «Sì, è stato ucciso da Pisciotta, però non corra, perché i misteri sono tanti». Mi abituai a muovermi tra mille punti di vista. Capii che non ci si poteva fidare di nessuna dichiarazione. Il fatto sconcertante era che il capitano dei

carabinieri, Perenze, avesse messo in scena l’uccisione di Giuliano nel cortile di De Maria. Come lo si capì? Grazie all’articolo di Tommaso Besozzi su «L’Europeo». Fu lui ad accorgersi che non poteva essere stato ucciso lì, perché la posizione del cadavere non coincideva con l’ipotesi del conflitto a fuoco. Giuliano aveva la maglietta insanguinata, sporca sulla parte superiore della schiena. Se fosse stato ucciso lì, il sangue sarebbe sceso verso la parte inferiore, invece assurdamente i rivoli scorrevano verso l’alto. Tutto questo è ricostruito fedelmente nel film, perché ho voluto camminare sulla traccia della verità giudiziaria. Non avevo nessuna pretesa di rivelare una verità che non fosse stata ipotizzata. Non avrei potuto. Se avessi scoperto qualcosa di diverso, ed era impossibile, avrei fatto riaprire l’inchiesta e il processo. Quando sei andato a Selinunte con De Maria, inizialmente cosa gli hai chiesto? Volevi davvero solo vedere la casa? Gli dissi: «Sto facendo un film su Giuliano, lui passò l’ultima parte della vita in casa sua. Prima di tutto m’interessa vedere l’interno della casa, poi vorrei che mi parlasse di alcuni dettagli, cioè di come lui passava il tempo, cosa faceva». L’avvocato mi mostrò una stanza con una specie di libreria dove c’erano libri che Giuliano consultava, leggeva. Non ricordo titoli particolari, ricordo invece un volume simile a quelli che si studiano alle elementari. Libri di letture. C’era anche un quaderno. Per me, il rapporto con De Maria era dovuto alla necessità di raccogliere materiale e notizie utili al film. Interrogai chiunque avesse avvicinato Giuliano, la mia pretesa di fare un film sulla verità giudiziaria di quel caso escludeva indagini personali a caccia di elementi che mi avrebbero condotto in tutt’altre direzioni. Mi dovevo fidare. Attraverso tutte le contraddizioni e le varie versioni, dovevo far capire al pubblico la difficoltà di acciuffare la verità. Questo dovevo fare. E io dico che è questa la forza del film. De Maria ti raccontò come si era trovato a ospitare Giuliano? Mi disse che bussarono alla sua porta una sera. Era un suo conoscente in compagnia di Giuliano. Lui non poté rifiutarsi, fu costretto a tenerlo in casa. Credo che qualcuno della sua

famiglia avesse relazioni con la mafia, circostanza che venne fuori al processo. Ti riferì di aver mai parlato con Giuliano nel periodo in cui fu a casa sua? Ci parlava, eccome. Diceva quello che dicevano tutti: che Giuliano era una persona disponibile, tranquilla. Non aveva niente del criminale, dell’assassino. Io girai proprio nel letto dove fu trovato il corpo di Giuliano, poi trasportato giù nel cortile per la messa in scena della sparatoria. C’è una fotografia che ho visto, scattata in casa De Maria. Si vedono Cammarata sul letto, tu appoggiato alla spalliera e l’avvocato che sembra spiegare a te e all’attore come era posizionato Giuliano. Esattamente, ricorrevo a lui per riprodurre la scena com’era accaduta nella realtà. Lo interrogavo. Poi, vai a sapere. Nel tempo avevo stabilito con lui un buon rapporto. Mi stimava moltissimo. Gli piaceva il modo in cui avevo affrontato il problema Giuliano. Forse apprezzava anche il fatto che non gli chiedessi segreti, ma io, quelli, non li volevo sapere. Ci telefonavamo per farci gli auguri a Natale, Pasqua, ai compleanni, tutto qui. Era uno strano personaggio, devo dire. Avevi quindi la sensazione che avesse qualche segreto? Nel personaggio trovavi zone oscure? Sicuramente. Non tanto nel personaggio, ma nell’intera vicenda. Io ho sempre pensato che intorno a Giuliano c’è ancora tanta roba da sapere. Intanto, dovremmo sempre essere sicuri che davvero l’abbia ammazzato Pisciotta su quel letto. Questa è una delle verità discusse. Tra le sedici ipotesi che sono state fatte sulla morte di Giuliano, ce n’è una secondo cui l’avevano addormentato a Villa Carolina, una casa colonica presso Monreale, un’altra sostiene che gli spararono in macchina a bruciapelo, secondo un’altra ancora l’ha ucciso Perenze in casa De Maria. Vai a sapere. Sedici teorie che tra loro differiscono di niente. Ma se De Maria ha dovuto accettare Giuliano in casa, un motivo c’è. E se la mafia glielo

ha imposto, evidentemente poteva imporglielo. Magari per questioni familiari. Come mai non chiedesti all’avvocato De Maria di interpretare se stesso? E che doveva fare? Lui nel film non c’è. E nemmeno nel processo. Se ne parla poco. A parte quella di De Maria, ricordi altre testimonianze particolarmente utili? Le testimonianze erano sempre molto dubbie. Ci fu un barone che voleva farci un biglietto di presentazione presso un professore, una persona misteriosa e autorevole che pare avesse avuto contatti con Giuliano. Erano molti quelli che venivano a raccontarmi presunte verità. Quasi ogni giorno se ne presentava uno. Magari mi volevano solo sviare. La verità è che oggi, dopo cinquant’anni, restano tanti gli aspetti irrisolti non solo sull’attività di Giuliano, ma anche sulla sua morte. Lui aveva aderito al movimento separatista, aveva contatti anche con persone altolocate, nobili che appoggiavano il movimento. Anche per questo all’inizio si sentiva una specie di patriota siciliano, non certo un bandito. Ma questo inizio è durato a lungo. Gli americani non erano ancora sbarcati in Sicilia, non erano ancora ad Augusta, a Palermo. I latifondisti erano proprietari di terreni enormi e temevano che i comunisti li avrebbero distribuiti ai contadini. Quindi la tensione politica era forte. Ma ognuno raccontava la sua verità, un suo incontro con Giuliano, quello che lui aveva detto, quello che non aveva detto, dove passava le notti. Pare che molte le trascorresse dalla madre. Nel film lo racconto. Poi c’erano i fischi, quella specie di comunicazione in codice fatta attraverso una rete di fischi. Mi colpì molto quel linguaggio dei fischi quando vidi il film per la prima volta. Erano ipnotici, i più belli che io abbia mai sentito in qualunque altro film. Il giorno in cui De Maria ti fece aspettare tre ore, era durante la preparazione o stavi già girando?

Fu durante la preparazione. Cominciai a girare a Montelepre, solo dopo passai a Castelvetrano, in mezzo ci misi Portella della Ginestra. Alla fine ci spostammo a Roma per il processo, quando in Sicilia non restava più nulla da girare. Quale fu la sequenza più entusiasmante da girare? Non ho dubbi, quella di Portella della Ginestra… Quanti giorni hai impiegato a girare comizio e strage? Due giornate. Però il grosso della scena fu realizzato il primo giorno. Ci furono polemiche coi carabinieri che ci controllavano continuamente. Raccontami come l’avete preparata, come l’avete studiata. Tutto il lavoro che c’è stato per organizzarla e come l’hai realizzata. È semplicissimo, andai a Piana degli Albanesi. Tu sai che Portella della Ginestra è una valle che sta tra due montagne con nomi greci. Una si chiama Kumeta e l’altra si chiama Pelavet. Mi feci raccontare che cosa successe quel 1° maggio del ’47 e fu la cosa più semplice di questo mondo. I contadini venivano dai paesi limitrofi con le bandiere. Si riunivano, festeggiavano il Primo Maggio con un discorso del sindacalista socialista che saliva sul sasso di Barbato e parlava del Primo Maggio, dopodiché la riunione diventava una scampagnata, i contadini mangiavano panini coi propri figli. Secondo la mia idea di film, anche questa sequenza di Portella della Ginestra non doveva avere nulla di avventuroso e romanzato. Era un’esplosione di violenza nel film, vissuta dalla gente che c’era stata davvero. Tra l’altro, io non potevo portare da Palermo centinaia di comparse. Presi i contadini di San Giuseppe Jato. E per disporli mi feci guidare da loro, che intanto risalivano con la memoria a quella giornata tragica. La rivivevano come fosse la prima volta. Ma tra la folla delle comparse c’era qualcuno che rideva, allora l’ispettore Aldo Pace si mise a urlare: «Se proprio volete, piagnete, piagnete, ma nun ridete!». Nella scena della sparatoria e della fuga, quando si vedono i primi feriti, poiché i contadini non erano tantissimi, chiesi loro di correre, girare dietro la macchina da

presa e rientrare nell’inquadratura per dare l’illusione che fossero più numerosi. Durante questo giro, molti mi tiravano per la giacca e dicevano: «Tale e quale! Tale e quale!». La sequenza è stata una ventata di violenza, di terrore, di lacrime. Era l’impressione che volevo far venire fuori. Mario Serandrei, il montatore, mi informava sul materiale che vedeva in moviola a Roma. Mi scrisse una lettera molto lusinghiera su come avevo realizzato la scena. A un certo punto, diceva: «Non mi hai fatto dei dettagli, è tutto visto in campo largo». Gli scrissi: «L’ho girato apposta così perché se avessi realizzato dettagli e primi piani, li avremmo certamente usati». Una logica ineccepibile. Bellissimo. Non c’è mai la soluzione tradizionale del campo largo e poi, con lo svolgimento dell’azione, il cambio su tagli più stretti. Non l’hai fatto mai in questo film. Il tuo mantenere rigorosamente ampie prospettive, senza dettagliare nulla, dava un senso di distanza. Ecco, tenendo a distanza. È così che volevo raccontare. Alimentando la curiosità dello spettatore di voler entrare nel contesto raccontato e capire meglio. In tutto il film ho notato uno zoom due o tre volte. Era uno dei primi zoom. Ne La sfida non ce n’è nemmeno uno. Anche perché all’epoca credo non esistesse ancora. Ma nella sequenza precedente alla strage di Portella, quando uno degli uomini di Giuliano insegna a un giovane picciotto come funziona il mitra, c’erano i banditi veri? Sì, certo. Due erano stati picciotti nella banda di Giuliano. Formidabili. La scena in cui quello insegna a usare il mitra al giovane pecoraio l’ho girata a Cippi. Ricordo a memoria il dialogo: «’U canusci chistu? Ccà ci metti ’u carricaturi. Accussì spara. E accussì ’un spara cchiù». Indimenticabile. «’U capisti?» «Sì» dice l’altro prendendo l’arma, e si avviano. «Ma a chi dobbiamo sparare?» «Dove andiamo?» dice quello. «Domani dobbiamo andare a Portella a sparare contro i comunisti.» «E perché?» «’Un ’u

sacciu. Giuliano disse così.» Potente. Ero un ragazzo, ma mi colpì molto il cambio di prospettiva. Vedevi uomini che andavano a sparare e, a stacco, non li vedevi più, d’improvviso stavi dall’altra parte, tra le vittime inconsapevoli. Poi arrivava la sparatoria, ma non come negli altri film: nel tuo film, quelli che sparavano non li vedevi mai. Quando hai deciso lo stile di quella sequenza? La trovata era quella. La decisi subito. Già quando ho visto il luogo. Ho detto: «Io non posso fare i primi piani come nei western». Non era possibile, perché la tragedia s’impone attraverso un paesaggio che è già incredibilmente drammatico. Questa gente che fugge, che piange, non devo vedere dettagli per capire che si disperano e che gridano. Ricordo la gente che sentiva gli spari e si buttava a terra fra strane urla e lamenti che non avevo mai sentito prima, dissi: «Ma cosa sono? Sembrano delle sirene». Un contadino mi rispose: «A Piana degli Albanesi si piange così». Per me tutto era nuovo, ma tutto conosciuto attraverso ciò che sapevamo della Sicilia, del carattere dei siciliani, del modo di vivere, del modo di comunicare, almeno a quell’epoca. La Sicilia era un mistero, diversa dal continente. La tua soluzione di non far vedere mai chi spara fu, come si dice nel gergo del cinema, una trovata. In questo caso l’appellativo riduce il valore di ciò che mi sembra una potente idea cinematografica. Per forza. Se avessi mostrato quelli che sparavano sarebbe finita. Non solo avrei banalizzato il racconto, ma avrei sottratto al film la sua capacità d’essere eternamente attuale. Appena vidi la montagna dissi: «Non si deve vedere chi spara. Altrimenti viene un film all’americana». Lo sparo deve solo venire dalla montagna. Ma anche per l’uccisione di Giuliano ho fatto la stessa cosa. Vediamo la casa De Maria, quella vera. La vediamo dall’esterno, di notte, sentiamo uno sparo, ma non vediamo chi spara. Del resto quello è un altro mistero, non si sa con certezza chi abbia ammazzato Giuliano.

Non è sicuro che sia stato Pisciotta? Non lo è. Per questo non l’ho fatto vedere. D’accordo. Però quell’escamotage non è solo stile visivo, è soprattutto una tua prospettiva etica e politica. Un approccio ai fatti storici che ti ha segnato per sempre. Non credo sia un caso che in «Cadaveri eccellenti» non si sappia mai chi uccide. Certo. Anche ne Il caso Mattei, se è per questo. E in Lucky Luciano, e in Dimenticare Palermo. Un modo di raccontare tutto personale, un punto fermo del tuo cinema che nasce a Portella della Ginestra. Ricordi quante comparse avevi in quella scena? Saranno state poco meno di un migliaio. Vennero coi carri e coi camion da San Giuseppe Jato, da San Cipirello, da Piana degli Albanesi. Ricordo che c’era spesso con noi Tullio Kezich, e c’era Lina Wertmüller. Io sistemai tre macchine da presa. Vicino a una di queste misi Lina, accanto all’altra c’era Tullio. Non volevo che i cavalli finissero sulle cineprese. Le inquadrature erano di una semplicità assoluta. Il grande Sadoul, il critico francese che osannò il film, scrisse: «Non voglio scomodare la Corazzata Potëmkin (1925), però va detto che questo film testimonia la fede dell’autore nelle grandi sfide del neorealismo e offre tuttavia un nuovo notevolissimo impeto». Fu impressionato da questo modo di girare, senza perdersi mai nei sentimenti, quelli avrebbero distrutto il vero sentimento principale del film, la ribellione contro il sopruso e la cultura feudale del latifondo di cui erano vittime i siciliani e i poveracci sui quali caddero i colpi sparati dalla montagna. Sei mai andato al cimitero di Piana degli Albanesi a vedere le tombe delle vittime? Ma certo. Volevo chiudere il film con quelle scritte, perché lì c’è una parete del cimitero con le lapidi e i nomi dei morti di mafia. Volevo chiudere con questa specie di rassegna, che invece poi usai in Lucky Luciano, quando lui torna al suo paese e va al cimitero a rendere omaggio ai Lucania, la sua

famiglia. Due film che secondo me vanno visti insieme, perché hanno dei legami. E mi piacciono. Vorrei vedere che non ti piacessero. Mi rendo conto che Salvatore Giuliano, secondo quello che hanno scritto molti critici e colleghi, anche stranieri, come Scorsese e Coppola, è il film che segna una svolta stilistica, l’inizio di un genere poi definito impropriamente soltanto politico. Dico impropriamente perché è un film sociale, politico, sentimentale, un film che tiene dentro tutti i generi. Anche per questa ragione non è facile ripercorrere la vicenda di questo film. Non è facile, mi perdo anch’io dietro alle migliaia di dettagli che assalgono la mia memoria. Se ti dico «Rose, rose», che ti viene in mente? Una delle scene più belle del film. Dunque, dovevo girare alle case rotte di Sagana il primo incontro tra Salvatore Giuliano e gli emissari del partito separatista. Dobbiamo tenere presente che Giuliano non era un mafioso, non nasce mafioso. Solo dopo Portella della Ginestra, per lui non c’è stato più niente da fare, e ha dovuto cercare protezioni. All’origine non amava la mafia, ma durante la fase storicopolitica dell’immediato dopoguerra siciliano si sentiva implicato nel separatismo. Difatti fu nominato colonnello dell’Evis, l’Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia. Io presi l’uomo che era stato capo dei separatisti, un vecchio signore idealista. Si chiamava don Pietro Franzone, ed era stato realmente lui a portare quel drappello di cinque o sei persone alle case rotte di Sagana, all’incontro con Giuliano. Nella scena, Franzone entra nelle case rotte di Sagana per parlare con Giuliano, poi ne esce e Pisciotta dice che sta prendendo corpo l’adesione al separatismo. Un uomo di Giuliano aggiunge: «Picciotti, diventiamo tutti soldati!». In quel momento mi venne in mente di far dire a Franzone qualcosa che riguardasse l’amore di quei separatisti per la Sicilia e non urlai il fatidico stop. Ma il sole calava e Gianni Di Venanzo s’innervosì: «Il sole scende, cambia la luce e io sono fregato!». Non sapevo bene cosa fare, ma dissi a Franzone: «Lei lo conosce l’inno separatista?». «Sì.» «E allora

lo canti.» Subito lui s’avvicinò al muretto di tufo accarezzato dall’ultimo sbaffo di sole e cominciò: «Sicilia svegliati. Troppo tempo è durato questo sonno vergognoso, e questo triste sogno, tutto hai perso anche l’onore. Or son suonate forte le trombe e tu non devi più dormire…». Ma non poteva andare avanti, gli veniva da piangere, singhiozzava. Davvero non sapevo più che fare, perché Gianni era nervosissimo: «Dai, fagli dire una cosa qualsiasi!». E io: «Ma come faccio?». Ci salvò lui, don Pietro Franzone. S’asciugò le lacrime e continuò recitando alla perfezione l’inno dei separatisti: «Rose, rose, rose bianche di Sicilia, diventerete rosse col nostro rosso sangue. Ma i figli, i figli dei figli, vivranno liberi in terra libera e potranno alzare la fronte al cielo e sorriderci nell’avvenire!». Questo modo di girare per me non era proprio nuovo. Avevo l’esperienza con Visconti. Ma sono andato oltre. Era diventato l’unico modo possibile per raccontare storicamente l’avvenimento. Fu questo il grande passo in avanti. Raccontami la scelta della donna che fa la madre di Giuliano e la sequenza dell’obitorio. La madre fu scelta tra anziane donne contadine. Aveva dieci figli. In realtà evitai anche di provinarla, capii subito che funzionava, ci sapeva fare. Sapevo che uno dei suoi figli era stato un bandito, e che era stato ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia. Decisi di far entrare lei, il fratello e la sorella di Giuliano. Preparai l’obitorio con la tavola di marmo sulla quale anni prima era stato realmente disteso il vero corpo di Giuliano, e vi feci sdraiare Cammarata, immobile come la ricomposizione di un Cristo deposto. Sembrava davvero il Cristo morto del Mantegna. Ma non dissi niente ai tre. La porta era chiusa, volevo che, una volta aperta, si trovassero di fronte al corpo nudo di Giuliano, in modo da filmare un’emozione vera. Puoi dirmi: «Come ti accorgi che l’emozione è vera?». Lo vedi, lo senti. La stanza dell’obitorio l’avevo fatta preparare a Gianni: «Fa’ in modo che non si vedano le lampade» gli dissi, «che non si veda il cinematografo». Gianni mise dei piccoli faretti quasi sul soffitto, in modo che la luce piovesse dall’alto, rasente le

pareti. Fu un effetto di una bellezza incredibile. Per girare usai l’Arriflex, perché la Mitchell era troppo ingombrante, la vecchia contadina si sarebbe distratta con un mezzo tecnico così appariscente. Ma l’Arriflex, come sai bene, ha il motore rumoroso. Allora io, Pasqualino De Santis che stava in macchina, e lo stesso Di Venanzo, cominciammo a riempire i buchi e le fessure dell’Arriflex con gommapiuma, stracci e fazzoletti, così da attutire il rumore. E ci siamo riusciti. Girammo quindi la scena in cui arrivano nel viale le due donne incappucciate, chiuse nel nero degli scialli, e si sentono quei lamenti meravigliosamente sconvolgenti. L’emozione ci prese tutti. A quel punto diedi lo stop, perché i personaggi dovevano entrare in un altro ambiente e cominciava la scena del riconoscimento del cadavere dentro l’obitorio. Dicesti tu alla donna di chinarsi sul cadavere, oppure lo fece lei istintivamente? Glielo chiesi io. Lo ricordo come se fosse adesso. Come le hai spiegato quello che volevi, il modo in cui doveva piegarsi sul corpo di Giuliano? Le dissi: «Qui c’è il corpo di suo figlio. Lo pianga, lo accarezzi». Poi l’ho lasciata libera. E lei spontaneamente cominciò anche a baciargli il torace, con un’intensità travolgente. Lo trattava proprio come fosse suo figlio morto. Quella donna ci sorprese tutti. Le facevo vedere cosa doveva fare, e lei ripeteva ogni movimento, ma quel dolore era il suo, era autentico. Avevamo i brividi, gli stessi che mi assalgono tutte le volte che rivedo quella scena. Decisi di ripeterla solo due volte, mi resi conto che non dovevo sottoporre nuovamente la donna a un’emozione del genere. Piangeva, singhiozzava e diceva: «Figghiu, figghiu miu… t’hanno tradito!». C’è una fotografia di Enzo Provenzale che la prende e l’abbraccia per confortarla, perché anche dopo lo stop lei continuò a piangere. Anche la sequenza della retata è fortissima, c’è quella vecchia che urla: «Maresciallo, lei nn’avi cuori?!». Bellissima.

Ricordo che mi colpiva perché le donne piangevano e urlavano proprio come le donne del mio quartiere. Era tutto vero. L’emozione ricostruita sulla memoria, ecco, così procedevo. In questo film contava molto. Ci sono scene dominate da lunghi silenzi contrappuntati soltanto da lontanissime voci d’ambiente. Determinano una tensione formidabile. Voci vere, colte dalla realtà. Come la gente. Tutta vera. Il film andava realizzato dove i fatti erano avvenuti e con buona parte dei personaggi che li avevano vissuti. I dialoghi li perfezionavo lì, direttamente con loro. Talvolta lasciando che fossero loro stessi a riscriverli. Trovo stupefacente il tuo modo di inseguire il realismo. Fai usare a Giuliano il suo vero fucile, ai separatisti la loro vera bandiera, a Pisciotta la vera coppola, ma come avete scovato tutte quelle rarità? Se è per questo, la gabbia degli imputati è proprio quella che fu usata per il processo Cuocolo. Forse la coppola di Pisciotta l’abbiamo chiesta alla famiglia, al fratello. Col fucile non ricordo come abbiamo fatto. E poi chissà se è veramente quello autentico. Ricordo che una sera andammo a mangiare in un ristorante sul mare, a pochi chilometri da Selinunte, e portammo con noi anche la moglie di Frank Wolff, una splendida ragazza americana. A uno dei tavoli c’era Cammarata in compagnia di una sua amica. Due giovanotti nel ristorante cominciarono a fare gli spiritosi con noi e io intervenni: «Che volete, che c’è?». Cominciarono a mormorare qualcosa nei miei riguardi o nei confronti della ragazza americana che io non capivo. Improvvisamente sento una voce che mi viene in aiuto: «Dimmillu a mmia chiddu ca volevi dire al dottore Rosi!». Era Cammarata che, senza alzarsi dal suo tavolo, richiamava all’ordine i due scocciatori: «Se avete qualcosa da dire ditelo a me, Giuliano sono!». Era entrato davvero nella parte di Salvatore Giuliano. La situazione stava scaldandosi, ma lui riuscì a ricomporla. Infine andammo tutti a bere un caffè al bar. Però dovevamo bere

intrecciando la mano che reggeva la tazzina, anch’io dovetti intrecciare il braccio e la mano con gli uomini con i quali stavamo facendo pace. Più o meno come gli sposi durante il brindisi nuziale. Pochi giorni dopo Cammarata venne a trovarmi in albergo dicendomi di voler abbandonare il film. Voleva andarsene perché era uscito un articolo su «Il Giorno» nel quale l’avevano descritto come un fattorino e non come un autista di autobus, e questo lo mortificò. Scrivevano pure che era grasso e che io l’avevo obbligato a fare delle saune. Lui si offese e disse: «Non posso continuare a fare questo film se sui giornali mi si tratta in questa maniera». Chiedemmo una rettifica. A Montelepre, tra i parenti di Giuliano, non c’era solo Mariannina. La madre era ancora viva. Era viva, ma lei e Mariannina le ho viste solo sul balcone della loro casa, quando spiavano quello che succedeva in strada. Guardavano me che organizzavo le comparse, la gente. Appena si sentivano sorvegliate, chiudevano persiane e finestre. I disoccupati di Montelepre andavano matti per le armi da fuoco, ma non accettavano di impersonare i carabinieri. «Noi, banditi siamo» dicevano. E i carabinieri a chi li hai fatti interpretare? Ai pochi che accettavano. Molti li portavamo da Palermo. Ma i monteleprini sapevano anche essere cortesi in modo sorprendente. Un giorno venne Giancarla sul set con delle amiche. Uno dei picciotti si stese a terra e fece da gradino a Giancarla, in modo che lei scendesse da un muretto senza dover saltare. In quel periodo noi stavamo spesso sulle montagne. E ti garantisco che salire sulle montagne non era facile. Dimmi qualcosa della formidabile scena in cui il brigadiere dei carabinieri va a cercare Pisciotta a casa sua e la madre dice che non è lì. Il carabiniere esplora ogni angolo dell’umile abitazione e non lo trova. Infine, con il calcio di un fucile, colpisce qui e là il pavimento di una soffitta. I colpi secchi sono alternati al primo piano della madre di Pisciotta.

Improvvisamente la risonanza cupa di uno dei colpi rivela un vuoto sotto il solaio, forse una botola. In quell’istante la donna sussulta e tradisce se stessa: «Figghiu miu… nesci». La madre di Pisciotta era un’attrice catanese, aveva degli sguardi bellissimi. Soprattutto nella scena in cui avverte che i carabinieri hanno capito ormai che Pisciotta è nascosto lì. E allora alza gli occhi verso l’alto e dice: «Figghiu miu… nesci, ch’è megghiu pi’ ttia!». Com’è che sul ciak c’era scritto «Sicilia 43/60»? Il titolo ancora non lo avevate? Quando hai deciso che sarebbe stato «Salvatore Giuliano»? Sul ciak avevo messo semplicemente «Sicilia». È vero che era il film su Salvatore Giuliano, ma io non volevo mettere tutto sul ciak, mi avrebbe provocato guai. Pensavo alla censura. Potevano dire: «Vede che si chiama così? Lei vuole fare un film sulla politica». Non so se è chiaro. Quindi sul ciak c’era un titolo civetta. Sì, qualcosa del genere. Anche quando feci Il momento della verità volli che sul ciak ci fosse un altro titolo: «Fatica di vivere». Non era male, un po’ retorico, però. Chi era il fotografo di scena di «Salvatore Giuliano»? Era un fotografo di «Paris Match», Pat Morin. C’era anche un fotografo italiano. Ricordo la scena splendida in cui a un tratto, di notte, va via la luce e il buio è rotto dalle fiammate del mitra. Tutta Montelepre vuota, deserta, e quelle luci. La fotografia di Gianni Di Venanzo, in quel film, era anche sperimentale, ma già molto avanzata. E comunque grandissima. È il risultato ottenuto da Gianni con la Ilford. Scene notturne illuminate solo con la luce pubblica che vedi in scena e nient’altro. Gianni sostituiva solo le lampadine. E adoperava la pellicola Ilford. Mai fatto prima. Quelle notti le illuminava con 4 lampade flood. E le fiammate del mitra splendevano nel buio. Quella scena era bella. Erano mitra veri, ma sparavano a salve, emanando quelle fiamme accecanti. Usò la Ilford solo per le scene notturne o per tutto il film?

Esclusivamente per le scene notturne, da quello che mi ricordo. Quasi tutto il film è accompagnato dalla tua voce fuoricampo. Quando t’è venuta l’idea di usare uno speaker? Ne maturai l’esigenza durante il montaggio. La voce fuori campo non era prevista in sceneggiatura. Con la tua voce hai dato il sapore del work in progress. Lo spettatore vedeva il film e al contempo era come se stesse dietro le quinte della messa in scena. Una prospettiva assolutamente unica. Scrissi il testo e decisi che la voce doveva essere la mia. Sentivo che doveva andare così. Non volevo una voce educata, da attore. Avrebbe tradito il mio teorema di non fare un film tradizionale. Avrei potuto mettere uno speaker, per esempio Peppino Rinaldi. Lui era perfetto, però io lo racconto con un altro spirito, anche con delle imperfezioni volute. Dove la registrasti? All’Istituto Luce. Allora ci lavoravo spesso. Tutto il lavoro fatto sul suono dopo il montaggio l’abbiamo fatto lì. Il montaggio lo cominciai a riprese finite. Mentre giravo, Serandrei vedeva il materiale, ma solo per metterlo in fila. Eva Latini, la sua assistente, l’aiutava a metterlo in ordine. Che evoluzione ha avuto il tuo rapporto con la gente del luogo da quando hai cominciato a preparare a quando hai finito il film? C’è una lettera di un abitante di Montelepre. «Signor Rosi, se il giudizio di un Vostro ammiratore potrebbe essere poca cosa o poco valutato, in compenso avete oggi quello di molti miei paesani che Vi erano ostili fino a che non avevano veduto il film. Gradite, per la Vostra riuscita e bene fatta opera, la mia personale ammirazione e le mie congratulazioni. Pizzuto Vincenzo. Nota Bene: Vi sono stato molto vicino durante la lavorazione del film nel mio paese.» Una bella lettera. Comunque, quando lasciammo Montelepre, non sembrò un

addio, perché ci spostammo solo a Castelvetrano, non rientravamo a Roma. Il solo attore noto del film è Salvo Randone. Salvo era un grande. Nel cinema lo portai io. Era solo attore di teatro. Quando facevo l’aiuto regista di Emmer, lo chiamai a fare la parte dell’avvocato ne Il bigamo. C’era una scena in cui doveva parlare con Vittorio De Sica che interpretava il ruolo di un trombone. Salvo tremava poverino, perché si sentiva insicuro a interagire con quel mostro sacro. La macchina da presa li inquadrava a mezzobusto, e Randone mi disse: «Vieni, dammi la mano». Io mi accucciai a terra e per tutta la sequenza gli tenni stretta la mano… L’idea di affidargli il ruolo del giudice nel processo come è nata? È l’unica scelta che sembra dissonante rispetto al tuo concetto di un film non convenzionale. Fin dall’inizio. Ma lui è nella parte razionale del film, quella che non riguarda direttamente la vicenda. Salvo Randone interpretava il presidente della Corte d’Assise Gracco D’Agostino, che dicevano fosse morto di crepacuore perché non riusciva a capire i mafiosi, che ribaltavano regolarmente quello che avevano detto nella seduta precedente. Soffriva perché non poteva andare avanti secondo la linea processuale consueta. Quelli si buttavano per terra, si mordevano, davano testimonianze che annullavano ciò che avevano detto un’ora prima. Poi è bello pure il personaggio che finalmente decide di svelare i nomi di coloro che avevano sparato a Portella della Ginestra: «Signo’ presidente…!». «… è arrivato il tempo di parrari, a’ ddiri tuttu chiddu c’haju rintra u stomacu! A sparare quella mattina a Portella della Ginestra sono stati….», me lo ricordo a memoria. Quello fu un primissimo piano fatto col 25mm. La stessa lente con cui girai tutti i primi piani di coloro che venivano interrogati dal giudice. Il 25mm non ti dà le distorsioni a volte grottesche di un grandangolo, ma se lo punti su un primo piano, non spappola il fondo alle spalle del personaggio, come avviene con gli obiettivi a fuoco lungo.

Per dare forza al background, esatto. È potente ma semplice. Quando lui esce di campo, il fuoco s’allunga non a rivelare un totale che non ha mai smesso di sovrastare il personaggio, ma a dargli solo maggiore incisività. Io volevo stringere sui volti di quelle figure, esplorarli da vicino, ma senza perdere il contesto chiaro e immanente che li avvolgeva e li schiacciava condizionando il loro modo di agire e di pensare. Uno stile che avevo seguito sin dall’inizio delle riprese. E quando ho girato il processo ai teatri De Paolis di Roma, sono rimasto coerente con l’impostazione che avevo dato giù in Sicilia. La sequenza del carcere, quando Pisciotta viene avvelenato con il famoso caffè, dove l’hai girata? A Roma. La prigione fu ricostruita ai teatri De Paolis. Le urla di Pisciotta a un certo punto si affievoliscono, uno esce dall’infermeria e avverte il pianeta carcere: «Gaspare murìu!». «Gaspare Murìu.» E dalle celle comincia ad arrivare un frastuono di grida e gavette battute contro i cancelli. Com’è bello il cinematografo! Com’è bello. Ti dà emozioni profonde. Gaspare è morto. Quando riesce a comunicarti una verità, coinvolge tutto. E ti identifichi, ci credi. Ma per carità, solo il cinematografo riesce a ottenere tutto questo. Soltanto il cinematografo. Allora mettevo ancora fine al termine dei miei film, poi non l’ho messo più. E come fai? Come puoi scrivere la parola fine a Lucky Luciano, Il caso Mattei, Cadaveri eccellenti? Mentre giravi «Salvatore Giuliano», qual era il tuo sentimento più forte? Eri consapevole di fare un grande film? Vuoi la verità? Io capivo che dovevo andare avanti. Ero consapevole che stavo raccontando qualcosa che andava raccontata. Che poi venisse fuori un gran film o solo un bel film, francamente non potevo immaginarlo. Quando restavo solo con me stesso, sentivo di avere riprodotto, in modo autentico e provocatorio un mondo, un momento storico, una

situazione culturale e sociale da sottoporre alla conoscenza e al giudizio del pubblico italiano. Non tutti potevano essere al corrente di ciò che sapevo io, o i giornalisti e gli storici. Quando io e Provenzale avevamo fatto i primi sopralluoghi, c’era gente che ricordava, che conservava giornali e documenti, disposta a collaborare. Molte notizie le prendemmo dai fascicoli del processo per i fatti dell’Evis. Giornate spese a leggere e ad appuntare, spesso in scomode cancellerie cavandoci gli occhi, perdendoci ogni tanto nel mare dei fatti e dei nomi. Allora era meno complicato ottenere la possibilità di vedere dei documenti, magari con una buona mancia data a qualcuno… E poi abbiamo lavorato molto e bene. Andavamo in ogni ufficio che poteva conservare materiali che ritenevamo utili. In molti casi si trattava di documenti depositati ufficialmente. Altre volte ci muovevamo con un po’ di astuzia. Durante la fase della documentazione, hai mai conosciuto o parlato con l’onorevole Girolamo Li Causi? Sì, l’ho conosciuto, quando cominciai ad affrontare il tema della strage di Portella della Ginestra. Ero andato a incontrarlo nel suo ufficio, dalle parti di Piazza Mazzini. Girolamo Li Causi era un personaggio importantissimo, non solo del Partito comunista. Era un uomo di rilievo della cultura del tempo, della vita politica, all’epoca dirigeva il quotidiano «La Voce della Sicilia». Io facevo un film in cui c’erano la società e la politica italiana, sentirlo mi sembrava indispensabile. Lui, poi, aveva tenuto quel famoso comizio a Villalba, il paese di don Calò Vizzini, il capomafia indiscusso dell’epoca. Il suo gesto era un affronto. Infatti fu preso a fucilate dai mafiosi e ferito a un ginocchio. Era stato Michele Pantaleone a metterlo in salvo portandolo via dal palco. Li Causi era uno che di Sicilia e di mafia ne sapeva moltissimo. Un uomo formidabile e una persona affabile e di sentimenti sinceri. Come sincera era la sua devozione al Partito comunista. Ma allora di uomini autenticamente devoti al partito ce n’erano tanti. Li Causi aveva pure lanciato un appello a Salvatore Giuliano. Gli disse: «Consegnati, sennò ti fanno fuori!». Da Li Causi mi

accompagnò Antonello Trombadori, che era il responsabile culturale del partito. Antonello fu il primo a cui feci vedere il film, in una saletta della Technostampa. Man mano che il film andava avanti, lui si aggrappava alla sedia, sussultava, come per dire: «Ma come è possibile che Franco riesca a dire cose del genere in un film?». Fu entusiasta. Giorni dopo mostrai la pellicola in proiezione privata a Luchino Visconti. Al termine mi disse: «Finalmente abbiamo un film per il quale, se la censura dovesse metterci le mani sopra, possiamo andare tutti in piazza con le bandiere». Infatti, dal ministero fecero sapere che sarebbero stati molto attenti con la censura, il film avrebbe potuto chiaramente procurare dei fastidi, come poi in effetti avvenne. Devi sapere che per presentarlo a Venezia lo montammo in 72 ore consecutive. Lavorammo senza sosta, Giancarla portava da mangiare a me e a Ruggero Mastroianni, perché Serandrei la notte non lavorava. Il montaggio lo firmò Serandrei, ma Ruggero, che era suo allievo, interveniva in sua assenza. Per tre interminabili giorni al vecchio Istituto Luce abbiamo solo montato. Lì c’erano sale di montaggio che erano capolavori, ognuna grande quanto il soggiorno di casa mia. Perché hai montato il film in un tempo così breve? Per l’esigenza di presentarlo a Venezia. Se ci fossimo riusciti, ci saremmo sottratti alla censura. Una volta presentato un film a un festival d’arte cinematografica, non c’era più bisogno di sottoporlo alla censura. Così lo montammo in tre giorni. Non so nemmeno dirti quando ebbi il tempo di mostrarlo a Cristaldi, credo mentre andavo avanti con le proiezioni di lavoro. Di sicuro, dopo la stampa della prima copia, nell’ottobre del ’61, ci riunimmo tutti in una lunga tavolata all’aperto alla Trattoria der Pallaro. Lo ricordo bene, qui a Roma. Venne anche Nino Sorgi dalla Sicilia. Pietro Notarianni, che per tutta la lavorazione aveva combattuto contro la politica e la burocrazia, era felicissimo. Giancarla quando vide il film? E gli sceneggiatori che avevano collaborato con te? Non ricordo precisamente quando lo vide Giancarla. Lei aveva paura di vedere i miei film prima degli altri, perché

temeva che li trattassero male. Forse lo vide alla Technostampa con Pietro. È probabile, sì. Suso era contenta, ma ricordo soprattutto che del film si cominciò a parlare subito. Alla Fono Roma, in via Maria Cristina, si facevano persino due proiezioni contemporanee. I rulli passavano dalla sala dell’ultimo piano a quella al piano inferiore. E la gente del mondo del cinema accorreva incuriosita. Una volta venne Carlo Ponti assieme ad altri. Si era sparsa la voce che non era un’opera qualsiasi. Molti mesi dopo, superate le pastoie della censura in cui inevitabilmente finimmo per incappare, quando finalmente il film poté uscire nelle sale, io stesso lo avrei rivisto al cinema Adriano. Com’erano andate le cose a Venezia? Fu Pietro Notarianni a partire da Roma per raggiungere il Lido con al seguito la copia di lavorazione del film da sottoporre al giudizio del direttore della Mostra che era Domenico Meccoli. Non so se lo vide da solo o con i collaboratori della commissione selezionatrice che era composta, tra gli altri, da Carlo Bo, Mario Verdone e Luigi Chiarini. L’opinione di quest’ultimo pare fosse stata quella determinante. Alla fine della proiezione dissero a Pietro che Salvatore Giuliano era un documentario bellissimo, ma pur sempre un documentario. Quella era invece una mostra di film a soggetto. Lo respinsero. Scelsero Il giudizio universale di De Sica, Vanina Vanini di Rossellini, Il brigante di Castellani e Banditi a Orgosolo di De Seta. Tutte pellicole del 1961. Come la prendeste, tu, Pietro e Cristaldi? Come una copertura dai rischi. A Venezia il film avrebbe fatto molto rumore e sarebbe stato pericoloso per la burocrazia dell’epoca. Quando si presentavano i film, se davano fastidio alla censura, c’era subito una discussione e le difficoltà si superavano. Ma per Salvatore Giuliano si dovevano affrontare tanti di quei problemi: il separatismo, il latifondo, la collusione politica, la santissima trinità banditipolizia-mafia. Il direttore della Mostra capì subito che per lui sarebbero state rogne. E scelse la scusa del documentario. Però pensa, solo pochissimi anni fa ho dovuto far correggere sulla Garzantina la voce che

riguardava il film. Sai che diceva? «Non si era visto mai utilizzare materiale di repertorio in questa maniera». Allora ho scritto all’editore: «Nel film non c’è un solo fotogramma di repertorio». Nemmeno uno. Girai io anche la manifestazione separatista. Poi l’hanno corretto. L’autore, Gianni Canova, si scusò subito. Spiegò che molte voci le avevano preparate i suoi collaboratori. Ma il mio film, va chiarito, è storico e non cronistico. E non è fatto di flashback, ma di episodi, e ognuno è un piccolo film. Chi parla di flashback sbaglia, non tutti sono flashback. Rifiutato da Venezia, «Salvatore Giuliano» fu selezionato al Festival di Berlino che lo premiò con l’Orso d’argento. A quel tempo il Festival di Berlino cominciava d’estate. Ovviamente andai. Ho un bellissimo ricordo. Dovetti cambiare abito nella toilette dell’aereo. Era stato tutto precipitoso. Volevano che arrivassi già in smoking. Naturalmente indossai quello fatto da mio nonno. Ho controllato chi c’era in giuria in quella edizione. Il presidente fu King Vidor. I membri erano Dolores del Rio, Max Gammeter, Hideo Kikumori, André Michel, Emeric Pressburger, Jürgen Schildt, Günther Stapenhorst e Bruno Werner. L’Orso d’oro andò a «Una maniera d’amare» («A kind of loving», 1962) di John Schlesinger. Come reagì il pubblico di Berlino? La proiezione fu davvero memorabile. Il pubblico in sala applaudì a lungo. Da quando lo vede Meccoli a quando il film va a Berlino, passano diversi mesi. Nel frattempo era uscito in Italia? No, a causa dei problemi con la censura e altre pastoie giudiziarie, il film rimase fermo a lungo. Uscì molto tempo dopo, a fine febbraio del ’62. Fu finalmente presentato all’Ariston di Roma una domenica mattina. C’erano pure Girolamo Li Causi e Simone Gatto, socialista. Fu in quella occasione che lanciarono la proposta di costituire una Commissione parlamentare antimafia. A quel punto la famiglia Giuliano chiede il sequestro del film, proprio mentre

al Senato italiano si vuole istituire la commissione. Ti rendi conto? Al circolo Turati di Milano, Ferruccio Parri presiede un dibattito dal titolo «La morte su mandato» in cui si parla ampiamente di Salvatore Giuliano. Fra gli altri c’eravate tu e Sciascia. Lo conoscevi già? L’ho conosciuto in quell’occasione. Ricordo il discorso che fece sul film, spese parole indimenticabili. Disse che era il più bel film fatto sulla Sicilia, il più vero. Aveva dei dubbi solo sull’invisibilità di Salvatore Giuliano, secondo lui ne accresceva pericolosamente il mito presso i contadini, generando nel pubblico l’idea di un personaggio eroico. Una considerazione legittima. Ma anche la visibilità di certi eroi negativi ha reso leggendarie le figure di tanti criminali. Lui che impressione ti fece? L’impressione di quel grande personaggio che era. I suoi silenzi tutti siciliani, la sua intelligenza, quei sorrisi. Era bello anche il rapporto tra Sciascia e Giancarla. Parlavano tanto. Anche sul piano politico, discutevano. Giancarla amava lo Sciascia scrittore, ma lo apprezzava molto anche come osservatore della politica. Come andò a finire la proposta di Ferruccio Parri, Girolamo Li Causi e Simone Gatto? La Regione Sicilia, in seguito a quelle discussioni e al dibattito scatenato dal film, chiese al governo di istituire la Commissione parlamentare antimafia, formata nel giro di un anno. Diciamo che è stato uno dei meriti di cui vado più orgoglioso. Tornando al dopo Berlino, cosa ricordi degli autorevoli critici che via via hanno celebrato il tuo film? Non posso dimenticare le recensioni entusiastiche di Alberto Moravia e Guido Piovene. Il gruppo di via Veneto, quello a cui «I magliari» non era piaciuto, che disse su «Salvatore Giuliano»? Erano entusiasti, semplicemente entusiasti.

Il giudizio più lusinghiero? Mario Soldati scrisse frasi splendide. Parliamo di un film che ebbe un plebiscito di critiche positive, esaltanti. Guarda tu stesso quel librone con la rassegna degli articoli più importanti dell’epoca. Il titolo del pezzo di Soldati su «Il Giorno» è: «Con “Giuliano”, Rosi sulla vetta». Poi Arturo Carlo Jemolo, Italo Pietra, Giuseppe Marotta, Pietro Bianchi. E poi Antonello Trombadori, Filippo Sacchi, poi l’articolo che scrisse Leonardo Sciascia sulla Sicilia e il cinema. Inoltre Moravia, Fellini, Georges Sadoul, Claude Mauriac, Yvonne Baby su «Le Monde». William Weaver. David Robinson, il grande biografo di Chaplin. Eric J. Hobsbawm, il grande storico marxista. Non male, eh? Mi viene in mente l’incipit della recensione di Marotta. È meravigliosa, spiega che non gli erano piaciuti molto né La sfida né I magliari, li trovava zoppicanti. Poi aggiunge: «Adesso c’è ancora posto per un Vostro ammiratore? Mi tolgo il cappello, caro don Ciccillo». Capito? Mi diede del don. Una volta c’eravamo pure incontrati. Leggilo, quel pezzo. «Vidi per voi a Roma in privato il film di Francesco Rosi “Salvatore Giuliano”. Scrivo anzi queste note, mentre esso attende l’arduo viatico della censura. Mi auguro che non un fotogramma né una parola vengano eliminati. Diamine, rammenterete che non mi piacquero “La sfida” e “I magliari”, opinabili e deficienti nella stessa verità che si proponevano di scrivere. Scentrati e disuguali come le biciclette quando avevano una ruota gigante e una ruota nana. Dunque sono contento oggi, di poter fare tanto di cappello a Rosi per “Salvatore Giuliano”. Egregio don Ciccillo, posso? C’è ancora un posto fra gli ammiratori Vostri? Eccomi qua, con il giglio della mia dannata sincerità in mano. Disturbo, permettete? Grazie.» Non è bellissimo e commovente? E la censura, volle tagliare qualcosa? All’epoca solo la parola mafia in un film faceva tremare.

In realtà la censura si fece viva davvero solo nel giorno del mio incontro con Nicola De Pirro, direttore della cinematografia. Ma tieni presente che fermarono il film per quaranta giorni. E credo che fosse il periodo più lungo concesso alla censura per bloccare un film. Sì, mi fecero alleggerire l’inizio della scena all’obitorio. De Pirro mi diede un appuntamento alle nove di mattina, al ministero. Mi disse: «Leviamo qualcosa. Quante sono le verghe di ghiaccio intorno al corpo di Giuliano?». «Non lo so» dissi, «credo sette.» «Possiamo fare cinque, così si vede in meno tempo.» L’altro taglio è nella scena in cui Perenze vede che da casa De Maria portano fuori il corpo di Giuliano e dice: «Lei non ha visto niente!». La battuta vera era un’altra, più forte. Mi costrinsero a modificarla. Il cronista dell’«Avanti!» raccontò pure che la censura avrebbe preteso il taglio o l’attenuazione di scene come la retata di Montelepre e la raffica sparata da Perenze sul cadavere di Giuliano appena trascinato e sistemato dai carabinieri nel cortile De Maria. Mi chiesero tre raffiche invece di quattro, un po’ come per le verghe di ghiaccio. Solo un alleggerimento. E certamente li accontentammo. Volevano tagliare anche qualcosa del pianto della madre, ma su quello non trattavo. Non lo toccai. Arturo Carlo Jemolo fece una difesa accorata del film, attaccando la censura e sostenendo che era una necessità civile lasciarlo così com’era. Fu un articolo memorabile, bellissimo. Mi colpisce che si fosse sparsa la voce di ciò che la censura volesse tagliare. Quindi i quaranta giorni di blocco del film non sono giorni di silenzio. No, tutt’altro. Io ero ovviamente un po’ preoccupato, sapevo di aver fatto un film provocatorio. Ne sono sempre stato consapevole, ma andavo avanti, difendendolo. Quando andai da De Pirro non è che esordii con un: «Mi dica quello che devo togliere». No, io discussi. E infatti alla fine togliemmo ben poco. Diciamo che ne venne fuori un compromesso decisamente ragionevole. Il film non fu toccato nella sua essenza. Togliere una verga di ghiaccio o far dire al

capitano Perenze: «Lei non ha visto niente!», non modificava granché. Tutto sommato, piccole cose. Nonostante ciò il film uscì col divieto ai minori di sedici anni. Leggo un altro brano della recensione di Marotta: «Impallidisce, confrontata con queste immagini, la Sicilia dello stesso “Gattopardo” e non vorrei che a Luchino Visconti, il quale si accinge a filmare il romanzo di Lampedusa, gli tremassero le ginocchia. Perciò ho messo le virgolette al tempo della Sicilia, perché quei panorami e quelle figure laggiù non hanno età. Nei panni di Visconti dunque sfrutterei palazzi e ville, saloni, tappeti e arazzi evitando così di misurarmi con l’ex allievo». Tosto Marotta, eh? Vuol mettere zizzania. Sì, ma l’inizio dell’articolo è stupendo. A proposito di recensioni, c’è una fotografia di Giancarla con il grande critico cinematografico Pietro Bianchi che ho giù in soggiorno. Voglio fartela vedere. Pietrino era un grande critico e i miei film gli piacevano. Sfogliando la rassegna stampa di «Salvatore Giuliano» noto che i critici di allora avevano molto spazio sui loro giornali e quindi più possibilità di approfondire e argomentare i loro giudizi. Oggi sono costretti in poche righe, forse anche per questa ragione la figura del critico cinematografico ha un po’ perduto la forza di un tempo. Non c’è dubbio, ne sono certo. Il 28 febbraio 1962 il film è nelle sale. Leggo sui giornali del 7 marzo: «Vivace dibattito su “Salvatore Giuliano” al circolo della stampa di Palermo. Presenti Michele Pantaleone e Danilo Dolci». C’ero anch’io. Era al Teatro Massimo, gremito di persone. Pantaleone aveva un occhio più che intelligente. Poi ha recitato con me ne Il caso Mattei. Cosa ricordi del clima al circolo di Palermo? Fu bellissimo. Poi c’erano Sorgi, Pomar, Cipolla, tantissimi giornalisti. C’era certamente Mauro De Mauro. Ricordo anche

Vittorio Nisticò, direttore de «L’Ora». A Danilo Dolci era piaciuto moltissimo il film. Credo che ci sia anche una sua dichiarazione da qualche parte. Contemporaneamente a «Salvatore Giuliano», esce in libreria «Il giorno della civetta» di Sciascia. Intanto Visconti comincia le riprese de «Il Gattopardo». Non è incredibile? È un anno di fuoco. Bei tempi. Oltre all’Orso d’Argento per la miglior regia, Salvatore Giuliano conquistò tre Nastri d’Argento: miglior regia, ex aequo con Le quattro giornate di Napoli, miglior fotografia in bianco e nero per Di Venanzo e miglior colonna sonora per Piccioni. Mi pare che la funzione della musica in «Salvatore Giuliano» sia molto semplice, quasi non si avverte. Come se non ci fosse. Interviene solo a un certo punto, proprio a Portella della Ginestra, e in altre poche situazioni. Io non amo usare la musica dal primo all’ultimo fotogramma di un film, come in genere fa la televisione. Novecentomila lire di incasso al termine del primo spettacolo, dopo appena due ore di programmazione. È il record raggiunto a Roma nelle tre sale in cui viene proiettato «Salvatore Giuliano». Il film incassò molto bene. Ho letto tempo fa che nel ’62 ebbe addirittura più spettatori di Divorzio all’italiana. Trombadori nel suo pezzo cita Guttuso. «“Salvatore Giuliano” eludendo di prepotenza ogni pregiudizio si associa ai più alti acuti pirandelliani e verghiani. Assume in pieno la dimensione popolare di Guttuso. Si osservino nel film tutte le convergenze figurative di paesaggio e di costume con l’opera del pittore e si miri al cuore della questione che è pur sempre quella dell’autonomia, vale a dire, dello scarto di libertà ancora esistente fra la Sicilia e il resto d’Italia». Sono belli anche i pezzi di Fellini e Georges Sadoul. Cito due passaggi: «“La sfida” non fu» questo è Sadoul «la rondine che annunciava una nuova primavera del cinema italiano». Dice che era un

bel film, ma che in fondo non se ne era parlato tanto. «Quando dopo aver diretto “I magliari” il nuovo regista manifestò l’intenzione di realizzare “Salvatore Giuliano”, si scontrò dapprima con una vera e propria mafia e forse con la mafia vera. In primo luogo gli fu rifiutata un’autorizzazione, poi qualsiasi forma di credito e in seguito il film compiuto, che costò 300 milioni, ebbe guai con la censura.» Era ben informato. A parte gli incidenti col ministero e con la censura, forse intendeva dire che ovviamente avevo avvicinato molti personaggi, non sapendo che alcuni appartenessero alla mafia vera. Il fatto è che io dovevo entrare nell’intimità dei cittadini di Montelepre se volevo convincerli a partecipare a scene alle quali loro avevano preso parte davvero. Tu sei siciliano, sai benissimo che la mafia, soprattutto allora, non era affatto riconoscibile. Non posso escludere di aver anche avvicinato personaggi che appartenevano alla mafia, o che comunque se ne erano vantati. Sempre Sadoul: «In altri casi Rosi ha dovuto cercare soluzioni equivalenti» – si riferisce agli ambienti – «così la vecchia donna che bacia in maniera tanto commovente il cadavere di Giuliano, non è la sua vera madre, la quale è ancora viva, bensì la madre di venti figli di cui uno, divenuto bandito, fu ucciso dalla polizia, proprio come l’eroe del film». Io ricordo che di figli ne avesse dieci. Ancora Sadoul: «Dopo “Il posto” (1961) di Ermanno Olmi, dopo lo sconvolgente “Banditi a Orgosolo” di Vittorio De Seta, ecco infine “Salvatore Giuliano”. Nel 1962 il film era stato eliminato a Cannes per ragioni oscure, pur avendo tutte le chance di vincere il Grand Prix al posto del brasiliano “La parola data”». Giuro che questa non l’ho mai saputa. Forse dicendo Cannes, Sadoul si riferisce alla Mostra di Venezia. Un errore. Strano, per uno studioso di cinema autorevole come lui, attento conoscitore delle vicende interne al Festival di Cannes. Del resto, tra la Mostra di Venezia e il Festival di

Berlino che allora si svolgeva a giugno, c’era di mezzo Cannes. Possibile che un produttore intraprendente come Cristaldi non avesse tentato la carta della vetrina sulla Croisette? Ancora più strano che i francesi si fossero lasciati scappare un film che stava facendo parlare così tanto di sé. Hai ragione. Un piccolo giallo al quale non avevo mai pensato. E che non so spiegarmi, anche perché il film in Francia ebbe un successo enorme. Continuiamo con la rassegna stampa. C’è il pezzo di Claude Mauriac che richiama la richiesta della Regione Sicilia, votata per acclamazione, di chiedere al Parlamento nazionale l’istituzione della Commissione antimafia, richiesta sostenuta da Ferruccio Parri dopo aver assistito a una proiezione di «Salvatore Giuliano». In Senato parlò dell’ultima scena, quella in cui la gente assiste allo sparo nella piazza. Incredibile, Parri che in Senato si serve del tuo film per avvalorare la necessità di una Commissione parlamentare antimafia. Ma come reagivi quando apprendevi queste cose? Ti rendevi conto di ciò che avevi combinato? E che dovevo fare? Ne ero orgoglioso naturalmente. Però tu conosci anche il mio carattere. Mi rendevo conto del film che avevo voluto, perché io l’ho voluto così. Seppi del discorso di Parri al Senato. Nello Santi lo conosceva benissimo, era stato un partigiano. Tempo dopo, quando preparavo Il caso Mattei, andai a casa di Ferruccio Parri. Volevo chiedergli di inserire la sua immagine nel film, era un pezzo di repertorio. Lui abitava con la moglie sulla Cristoforo Colombo, in uno degli appartamenti riservati ai ministri. Ma un’abitazione molto modesta. Un uomo meraviglioso. La Commissione parlamentare antimafia fu comunque istituita con voto del Senato l’11 aprile seguente all’uscita di Salvatore Giuliano nelle sale. Il film ebbe questo effetto fortissimo. Solo un mese dopo che era uscito, venne usato negli interventi in aula di Girolamo Li Causi e di Ferruccio Parri, come arma per spingere il progetto di legge, e l’Assemblea regionale siciliana approvò per acclamazione. Questo è incredibile. È chiaro che

qualcuno dovette acclamare costretto, ma come potevano rifiutare? Era impossibile. Sicuramente i Dc non hanno applaudito. Forse l’hanno fatto i democristiani di Silvio Milazzo. È un caso unico di film che non solo racconta un contesto, un fatto storico, ma con la semplice forza della sua incisività condiziona la vita del paese. Non era mai successo prima, né credo sia mai accaduto dopo. È la ragione per cui, quando io vidi JFK (1991) di Oliver Stone, dissi: «Sì, è un bellissimo film. Ma con certi tipi di storie non bisogna mai fermarsi dinanzi a niente». Che intendi dire? Che, essendoci in corso all’epoca un’inchiesta, pubblicata poi anche sui giornali, che avanzava l’idea di un ruolo svolto dalla mafia persino nella preparazione dell’assassinio di Kennedy, forse bisognava tenerne conto. Tornando a «Salvatore Giuliano», ti confesso che mi entusiasma rivivere insieme a te la storia di quel film. Diede una scossa alla vita politica del nostro paese, in qualche modo la condizionò, non c’era riuscito mai nessuno. Ti sono molto riconoscente. D’altra parte, quando vai su argomenti come quelli, toccati dalla storia e dalla cronaca, devi essere rigoroso. Ricordo che ne parlavo dopo una proiezione col produttore americano Joe Levine e con Nello Santi. A Levine Salvatore Giuliano piaceva tantissimo. Ero orgoglioso anche del bellissimo «24 fogli», l’immenso manifesto che era stato affisso in Piazza Pitagora, a Roma: si vedeva dai balconi della Vides. Anche all’epoca si usava coinvolgere il regista nella scelta del manifesto del film? Dipendeva dal regista. Veniva coinvolto chi se ne intendeva e, come ti ho detto, io disegnavo. Per cui un contributo ideativo lo diedi anch’io. All’epoca c’era Ballester che realizzava i manifesti di quasi tutti i film. Quelli di oggi sono

tutti bellissimi, grandi disegnatori, grandi pittori, grandi fotografi. Vuoi raccontarmi la proiezione di «Salvatore Giuliano» a Montelepre? Come nacque l’idea di mostrare il film lì? Quella è una bella storia. Ai monteleprini l’avevo promesso: «La prima proiezione sarà per voi». Quando arrivai là, naturalmente c’erano molti giornalisti e la sala del cinema di Montelepre era già tutta occupata, quelli che stavano fuori dissero: «Se la proiezione comincia adesso, noi rompiamo tutto, il film lo dobbiamo vedere anche noi». Risposi: «Avete ragione, proiettiamolo in piazza». Qualcuno andò a Palermo a prendere delle macchine da proiezione, aspettammo un sacco di tempo. Tieni presente che le autorità cittadine non gradirono troppo. Mi fecero sapere: «Se lei proietta il film qui, noi non ne rispondiamo, non garantiamo». Ma la gente portò da casa le sedie per sistemarsi in piazza e vedere il film. Tutto si svolse in un silenzio incredibile, interrotto solo da risatine durante le scene della madre che piangeva. Leonardo Sciascia ne fu colpito, raccontò tutto, quella gente si riconosceva nel film. Riconoscersi faceva scattare la risatina? Sì. E lo trovai bello. Conservo una foto pubblicata a quel tempo da «Paris Match», guarda quanta gente c’era. Tieni presente che era il 7 marzo, faceva un freddo cane. Vedi? La piazza piena di gente. Tutti col cappotto. Attenti a ogni inquadratura, a ogni battuta. Terminata la proiezione, i monteleprini presero le sedie e se ne andarono a casa. Non dissero niente. Un silenzio assoluto, tutto siciliano. E tu come lo interpretasti? Come era facile interpretarlo, quel silenzio era l’emozione di fronte a qualcosa che rappresentava la verità della vicenda. Qualcuno racconta che sui muri di Montelepre i manifesti che annunciavano la proiezione del film erano stati misteriosamente lacerati e strappati. Quella proiezione aveva mille significati, vero?

I manifesti strappati non li ricordo. Di certo quella scelta, inutile negarlo, era anche una piccola sfida alla mafia. Io volevo ringraziare i cittadini di Montelepre. Ma c’era dell’altro, per me e per loro. Intanto aver fatto quel film, e poi averlo realizzato proprio in quella maniera. Quella proiezione era un segno importante, faceva parte della decisione complessiva di portare a termine un film come quello. Per tutta la durata della proiezione, le madri di Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta rimasero chiuse nelle loro case, a due passi dallo schermo improvvisato su un muro. Da dietro le loro persiane si poteva sbirciare tranquillamente ciò che avveniva in piazza. Io avevo vicino il fratello di Gaspare, stava in piedi nella piazza. Era come una specie di mio amico, sempre dov’ero io. Ricordo che durante una scena chiave del film, improvvisamente urlò: «Non è vero!». Voleva dire che la dichiarazione di Pisciotta, e cioè che Giuliano l’aveva ammazzato lui, non era vera. Ma il processo che io ricostruivo era avvenuto ovviamente prima di quella proiezione a Montelepre, quindi… Dal gabbione dell’aula di Viterbo fu Pisciotta che disse: «Ecco perché ho ucciso Salvatore Giuliano». È una frase che pronunciò lui. E lo scrisse in un memoriale, se non sbaglio. Già, e non ho mai capito perché Pisciotta non abbia percepito la taglia che c’era su Giuliano. Si trattava di cinquanta milioni, una cifra enorme per quell’epoca. Leggo alcuni resoconti sulla serata. «Rosi ha voluto sottoporsi coraggiosamente e umilmente al giudizio dei monteleprini. E se c’era in lui e in tutti quelli che lo accompagnavano, il produttore Franco Cristaldi, l’attore Frank Wolff che ha interpretato Pisciotta, i collaboratori e giornalisti, quel poco di insicurezza, non era certo per la coscienza che il film non fosse obiettivo, ma per la consapevolezza dei costumi crudeli che imperano ancora in certe zone della Sicilia occidentale.» Dunque Cristaldi era al tuo fianco. Sì, ovviamente era lì con me.

Alcuni giornalisti che arrivavano da Roma per assistere alla proiezione denunciarono i mille ostacoli, secondo loro creati volutamente, incontrati lungo il viaggio in treno. Ritardi pazzeschi, carrozze che diventavano indisponibili. Pensi davvero che l’evento desse tanto fastidio a qualcuno? Ci credo, perché no? Del resto anche dopo la sua uscita, il film fu protagonista di tante curiose avventure. Ci fu per esempio un ricorso dell’avvocato Crisafulli, difensore di Pisciotta, che aveva ravvisato lesioni del proprio onore personale e professionale nella scena in cui il bandito, dopo la sentenza, se la prende con il suo legale, impersonato dal commediografo Federico Zardi. Un ricorso che il pretore rigettò. Io andai pure a casa dell’avvocato Crisafulli per chiedere spiegazioni, avevo bisogno di capire. Ma chiariamo, era l’avvocato ad aver ravvisato lesioni, perché il suo cliente, Pisciotta, era morto sette anni prima. Negli anni Settanta vidi in televisione un programma diretto da Duccio Tessari su Cristaldi e la sua avventura cinematografica, era bellissimo. Cristaldi parlò a lungo di «Salvatore Giuliano». Disse che fu un film assolutamente innovativo. Duccio lo imbeccava e lui disse: «È un film quasi senza montaggio. Fu montato diversamente da ciò che tradizionalmente s’intendeva per montaggio». È vero. Quelle 72 ore passate ininterrottamente in moviola venivano fuori da un disegno di struttura che avevo preciso nella testa. In sala montaggio ho solo eseguito. C’era con me Ruggero Mastroianni che capì bene il senso del film. Bravissimo, da Uomini contro in poi è stato il montatore di tutti i miei film. Nel tuo film non c’è montaggio tradizionale, d’accordo, ma non è neanche un’opera di piani sequenza alla Angelopoulos. I tagli ci sono, e anche tanti. Insomma, il film ha una forma nuova per quei tempi, ma complessa. Per me, che tu lo abbia montato in 72 ore, tra l’altro con le difficoltà di una volta, è prodigioso. Dovevi per forza avere le idee chiare.

Infatti le avevo già chiarissime prima di montarlo. Già avevo girato facendo in modo che, dopo, si montasse facilmente. Te l’ho detto, quel film ce l’avevo dentro. Sei mai tornato nei luoghi in cui avevi girato il film? Nella valle di Portella della Ginestra. Ci sono andato per il ritratto-documentario che Roberto Andò ha fatto su di me. Non mi piace come l’hanno sistemata adesso. C’ero tornato anche quando girai Dimenticare Palermo. Hai rivisto Portella e non ti è piaciuto vedere com’è diventata. No. Quando preparavo il film, durante un sopralluogo, ricordo che lì c’era un contadino. Solo, magro, bello, con una coppola, sembrava Gary Cooper. Lavorava con un aratro a chiodo. Gli feci una di quelle domande che di solito si fanno per provocare una conversazione: «Ma che ci fu qui, cosa successe?». Lui mi guardò e disse: «C’era movimento di partiti». E basta, non aggiunse una parola in più. C’era movimento di partiti. Molti anni dopo Michael Cimino realizzò «Il siciliano» (1987), un film sulla figura di Salvatore Giuliano. Non mi piacque. Ma Il cacciatore (1978) è un tale capolavoro che a Cimino si può perdonare tutto. Pensa che con lui ho avuto un rapporto di conoscenza e stima. Lo incontrai a Los Angeles, aveva capelli lunghi, una faccia diversa, tutta rifatta. In quell’occasione parlò male del mio Salvatore Giuliano, prima invece ne parlava bene. Disse che nel film la vita di Giuliano non c’era. Ma a me importava poco della vita di Giuliano. Purtroppo, il suo non aveva né vita né storia, non aveva niente. A me adesso piace tanto Clint Eastwood. Una volta a Roma volle incontrarmi, andai a trovarlo in albergo. Mi guardava, forse perché non conosce una parola di italiano. Io però parlavo l’inglese. Ci siamo guardati a lungo senza parlare, avremo detto due o tre battute. Chissà, forse voleva vedere come sono fatto.

C’è un film non tuo che avresti voluto fare? Ce n’è più di uno, per la verità. Ma forse in testa a tutti metterei Ombre rosse (1939) di John Ford. L’ho sempre amato moltissimo. Torniamo a «Salvatore Giuliano». Recentemente è venuta fuori la faccenda della riesumazione del corpo di Giuliano. Qualcuno sostiene che non sia lui. Se fosse vero che quel corpo non è di Giuliano, sarebbe di una gravità enorme. Nel suo ultimo attimo di vita, Giuliano l’avevano visto tutti che era per terra, morto. A meno che non abbiano ucciso un sosia. In tal caso il vero Giuliano si sarebbe volatilizzato. Sarebbe pazzesco perché solo lo Stato potrebbe aver fatto tutto ciò. Fino a quando non l’hanno esposto a terra in quel cortile, non c’era nessun dubbio che fosse lui. Ma Giuliano lo conoscevano tutti, chiunque avrebbe potuto dire: «Ragazzi, non scherziamo, questo non è lui». Aggiungo che, quando Salvatore Giuliano fu ucciso, i giornali scrissero che al momento del riconoscimento all’obitorio la vera madre di Giuliano baciò le ferite di suo figlio. Com’è possibile che non si sia accorta che quello non era lui? Inoltre ti pare plausibile che in tutti questi decenni, Giuliano non si faccia vivo in qualche maniera? Lo trovo pressoché impossibile. Gli argomenti non mi sembrano nemmeno così convincenti. Il nipote che dice: «Mio zio era alto un metro e ottanta, questo cadavere è un metro e settanta». Non basta dire che Giuliano era alto. E poi io non credo che fosse un metro e ottanta. Sarà stato uno e settantacinque. Credo si dovrebbe avere qualche elemento in più. Tutti hanno visto Giuliano a terra nel cortile De Maria, crivellato di colpi. Besozzi, il cronista de «L’Europeo» fece notare la questione del sangue sulla canottiera che scorreva nella direzione opposta. Era stato ucciso in un’altra posizione. Fecero subito un’indagine. Dovremmo anche credere che il

medico legale fosse corrotto. E non solo lui, pure i marescialli dei carabinieri che conoscevano Giuliano. Che strane storie. Se quest’assurda teoria si rivelasse fondata, che accadrebbe all’impianto del tuo film? Ma non accadrebbe proprio niente. Ci sarebbe solo da dire: non era Giuliano. Se avessi fatto un film tradizionale, forse una scoperta del genere potrebbe indebolirne la forza. Ma la mia è un’inchiesta sulle verità giudiziariamente riconosciute. Ho fiducia che il modello narrativo da me seguito saprà sfidare ogni follia della storia. Il nipote ha parlato di una basetta più corta o più lunga di quella di Giuliano. Ma un cadavere dopo sessant’anni ha capelli e basette? Dice che il cadavere era in ottime condizioni. Ma che significa ottime condizioni? In fondo il caso è anche affascinante. Il bandito che riesce a sparire, vivo, il sosia. È come un romanzo, una leggenda che si lega perfettamente al mito del bandito. Ora dovrei chiedermi: se il vero Salvatore Giuliano non è morto, allora è probabile che abbia visto il film di Rosi? Buona questa. Strano non l’abbiano scritto.

TERZO TEMPO

«Buongiorno professore!»

Tutto quello che ricordo di Giancarla mi dà grande gioia, d’altra parte mi fa soffrire, perché Giancarla non c’è più. Questo è il problema. Un trauma veramente molto forte. Quando mi si chiede: «Come stai?», e come devo stare? E quando ti dicono: «Scrivi qualcosa, un racconto. Distraiti…». Ma io non mi voglio distrarre. Perché mi devo distrarre? Certo, la sera quando vado a letto l’ultima immagine che ho negli occhi è Giancarla e ce l’avrò per tutta la vita, ed è pesante… è pesante. Un ricordo divertente… Amava tantissimo giocare. Ricordo una volta, alle cinque del mattino. Io stavo a letto, mi sveglio, allungo la mano e non la trovo. E dico: «Ma dov’è?». Mi alzo, apro la porta della camera da letto che comunica con il soggiorno e vengo accolto da un coro: «Buongiorno professore!». Erano Giancarla, Guidino Sacerdote, Battistoni e il Moro, che giocavano a poker. Non avevano dormito manco un minuto. Avevano trascorso tutta la notte a giocare a carte. «Buongiorno professore!», senza neanche guardarmi. Incredibile. Poi i suoi orari si fecero impossibili per me. Era una nottambula incallita. Vedeva la televisione sino all’alba, e così negli ultimi anni non ho più dormito con lei. Cosa ti manca di più di lei? Lei, il suo sorriso, le sue incazzature, ma quello che mi manca è proprio la sua discrezione, la sua grande intelligenza e la sua caparbietà, perché quando voleva fare una cosa, nessuno era capace di non fargliela fare. Lei è stata a lungo senza uscire di casa. Continuava a leggere i giornali, a vedere la televisione, ma di uscire non le andava proprio. È uscita una volta per votare e una volta per andare dal dentista e poi

niente. «Ma perché devo uscire? Ho il più bel panorama di Roma a disposizione, sono a casa mia, passeggio, cammino…» Perché non volle più uscire? Depressione. Una depressione tosta, dura. All’inizio era cominciata con dei piccoli insoliti comportamenti che mi rammarico di non avere interpretato subito come segnali sospetti. A un certo punto Giancarla ha cominciato a mostrare segni di insofferenza sull’uscire di casa, ecco. Sul consueto viaggio estivo in Sardegna. O, se ci andava, sulla sua tendenza a uscire poco, a non volere andare neanche alle cene della sorella, perché diceva che c’era troppa gente e non ne aveva voglia. Insomma, strani segni per una donna così dinamica, così attiva, così effervescente come lei. D’altra parte in quel periodo accadde qualcosa che mi diede molto fastidio. Mi riferisco al 2003, quando il regista Paolo Benvenuti fece un film che si chiamava Segreti di Stato, sulla strage di Portella della Ginestra, e mi attaccò brutalmente, sostenne che nel mio Salvatore Giuliano non avessi fatto i nomi dei mandanti della strage, trascurando il fatto che il giudice non aveva ritenuto di convocarli. Replicai ovviamente, ma avevo avuto la sensazione che quell’attacco così violento servisse in qualche maniera a procurare visibilità al suo film. Niente di più verosimile. Oggi tutto è lecito pur di promuovere un film. L’ingenuità delle «lucherinate» fa parte di un’epoca ormai molto lontana. È vero. Ma confesso di essere rimasto turbato da quell’attacco, così irrispettoso di tutta la mia filosofia del cinema. E in quel periodo, ecco, quando Giancarla cominciava a rinchiudersi in se stessa, senza accorgermene, cominciai a rinchiudermi anch’io in me stesso. Rileggevo tutti i documenti che avevo sulla lavorazione di Salvatore Giuliano, sul processo di Viterbo, ho riletto tutto, ripescando la chiave della serietà e della fondatezza del mio film. E in una delle mie repliche a quel regista, dissi che non avevo citato i mandanti perché i nomi che per sentito dire circolavano all’epoca, erano quelli di persone che il giudice del processo di Viterbo non

aveva mai ritenuto di convocare. Se avessi fatto quei nomi mi sarei sostituito al giudice. Un metodo estraneo al rigore che hai sempre seguito nei tuoi film. Esattamente. Avrei messo in pericolo la carica d’attualità che il mio film non ha mai smesso di avere, insomma. Nella mia vita ho fatto film duri, film coraggiosi, sono sempre stato uno che non ha mai avuto paura di niente, uno abituato agli attacchi di chi, magari, qualche volta non apprezzava il mio lavoro, come accade a tutti nel mondo del cinema. E durante quegli anni in cui Giancarla si è via via aggravata, anche io ho cominciato a uscire di meno, per fare compagnia a mia moglie, a rimanere a casa. Lei era spesso taciturna, chiusa in se stessa, salvo momenti in cui invece si rimetteva a parlare, e in quei momenti spesso tornava a essere lucida, intelligentissima ed energica come sempre. Vedeva le amiche che le volevano bene. Aveva un certo tipo di amicizie fisse, tipo Marta Marzotto, tipo Sandra Carraro, tipo Edda Lancetti, la sorella dello stilista, sua amica carissima da sempre. Seguitavano a venire la sera, trascorrevano la notte coltivando le abitudini di sempre. Giocavano a carte, chiacchieravano. Poi, pian piano Giancarla si è isolata. Parlava poco. Parlava solamente quando s’incazzava con qualcuno e lo mandava al diavolo. Però con gli amici, con le amiche, era formidabile. Le volevano tutti bene. Eppure in certi momenti sembrava normalissima. Quando è morto Alberto Ronchey ha fatto una telefonata alla figlia Silvia, che era una cosa… io l’ho sentita. E poi, invece, magari le capitava di non riconoscere la sua manicure. Orrenda cosa. Non si riesce a capire che mistero sia il cervello umano. Quando dissi al medico: «Ma guardi che Giancarla fa delle telefonate di una lucidità sconvolgente», mi rispose: «Eh, perché non è stata compromessa la parte più importante del cervello». Infatti non è che non fosse lucida, anzi lo era sempre, ma non era presente. Si assentava. Ed è così che a un certo punto non ha più voluto fare la vita che faceva prima. Nell’ultimo periodo la sua depressione si era aggravata. Cominciava a rendersi conto che non andava niente bene.

Insomma, non era più lei. Finché un giorno… Io stavo al piano di sopra, in casa. Maria, la nostra governante, ha urlato: «Scenda giù, scenda giù!» e mi sono precipitato. C’era ancora fumo ma le fiamme si erano già spente. No, lei non si è resa conto. Sono saliti subito quelli del piano di sotto e il portiere. Poi hanno chiamato l’ambulanza, che è venuta subito. L’hanno trasferita all’ospedale per i grandi ustionati. Mentre la portavano via mi sono reso conto che non soffriva… Non l’ho vista più.

«Tu sei comunista e non lo sai»

Una volta Goffredo Lombardo volle affidarmi la direzione del doppiaggio di un film diretto da Nanni Loy, Le quattro giornate di Napoli (1962). Avevo appena terminato le riprese di Salvatore Giuliano. Nanni era sardo, non poteva trattare l’accento napoletano come avrei potuto fare io. E poi Lombardo sapeva che io conoscevo bene il doppiaggio fin dai tempi della mia collaborazione con Ettore Giannini. Dovevamo doppiare negli stabilimenti della Titanus alla Farnesina. E poiché Le quattro giornate di Napoli si svolgeva quasi tutto in esterni, lanciai una proposta a Lombardo: «Doppiamo la notte, nel cortile, quando non ci sono rumori». Così feci attrezzare una sala di doppiaggio in esterno e iniziai a lavorare all’aperto. C’era un’eco magica, un’aria intorno bellissima. Mentre doppiavi, Loy assisteva? No. Forse era impegnato in un altro film. So che poi rifecero alcuni pezzi per una questione di comprensibilità. Vollero alleggerire il dialetto troppo popolare, renderlo in quella lingua che parlano i borghesi napoletani quando vogliono farsi capire. In questo modo, però, imbastardirono la lingua, secondo me la forza del dialetto non andava persa, dovevi sentirla. In seguito, proprio Le quattro giornate di Napoli e Salvatore Giuliano si aggiudicarono il Nastro d’Argento ex aequo come miglior film. Nel momento in cui esplode il successo di «Salvatore Giuliano» pensavi già al futuro, avevi in mente altri progetti? Sai perfettamente che il nostro mestiere è fatto di progetti. A Le mani sulla città ho cominciato a pensare dopo la fine di Salvatore Giuliano, il cui successo fu decisivo. Non a caso, abbandonai definitivamente il film che avrei voluto fare prima,

La nave morta. Mi venne invece l’idea di fare a Napoli quello che avevo fatto in Sicilia, far vivere la città come avevo fatto vivere la Sicilia. Mostrare i problemi dell’epoca di Lauro sindaco e dei protagonisti del saccheggio immobiliare che stava cambiando il volto della città. Ne parlai a Dudù La Capria, che aveva già pubblicato Ferito a morte, premio Strega e romanzo bellissimo: «Andiamo in giro per le strade» gli dissi «vediamo cosa ci suggerisce il ventre di Napoli». Sprofondammo subito nella questione più scabrosa, la speculazione edilizia che stava divorando la città, calpestando leggi e piani regolatori. Cominciai a frequentare il consiglio comunale, capii che tutto nasceva lì. Non temevi d’essere riconosciuto? In fondo era la tua città e avevi appena fatto «Salvatore Giuliano»… Quando andavo in giro nei vicoli mi riconoscevano, come era successo a Montelepre. Ma io mi mescolavo alla gente, non rimanevo mai fermo. Se mi facevano domande non dicevo chi ero, facevo finta di niente. Alle sedute del consiglio comunale andavo con Dudù, ci nascondevamo nella tribuna dei giornalisti per ascoltare e vedere ciò che, poi, avrei ricostruito nel film. A proposito, era la madre a chiamarlo così, Dudù. Lui aveva anche un fratello di nome Giuseppe che lei, donna d’inesauribile fantasia, chiamava addirittura Pelos. Né io, né La Capria, né credo tutti i napoletani avremmo mai immaginato ciò che accadeva in quell’aula dominata da una maggioranza schiacciante di laurini. Assistemmo agli interventi di Carlo Fermariello, un uomo del Partito comunista molto esperto. Proseguiva l’opera di Luigi Cosenza, un architetto e ingegnere molto famoso che in consiglio comunale, in passato, aveva osato opporsi a Lauro. A Napoli, se appartieni a un certo giro, conosci tutti. E io, Fermariello, lo conoscevo. Ma adesso lo vedevo tra quei banchi, impegnato contro gli speculatori. Quel modello di urbanizzazione era fondato sul principio che un metro quadrato di terreno dovesse moltiplicare il proprio valore anche fino al cinquemila per cento di quello originario. Il film prende avvio proprio da questo teorema, l’importante era spiegarlo. Sai, gli speculatori

avevano assaltato i palazzi storici. Pensa che nel famoso «Miglio d’oro», quel tratto di costa che dal quartiere San Giovanni va fino a Torre del Greco, c’erano allora delle sontuose ville borboniche con cortili bellissimi e giardini affacciati sul mare. Quei cortili, nel disastro immobiliare di quegli anni, finirono per ospitare palazzi e palazzine. Molte di quelle ville hanno perduto il loro stile, la loro storia. E quella era la storia della Napoli borbonica. Un delitto, un vero delitto. Fu violentata dal cemento anche la zona collinare della città. La fecero diventare una selva di grattacieli. Solo da lontano prevaleva la bellezza del panorama napoletano, col suo mare, il Vesuvio, le montagne dietro. Ma se andavi sul posto, la speculazione ti aggrediva, ti trovavi in una giungla di cunicoli e vicoli. E non parlo dei vicoli della Napoli povera. Era così dappertutto. Allora dicemmo: «Ecco il film che dobbiamo fare». Decisi di coinvolgere Carlo Fermariello, lui mi disse: «Devo prima chiedere al partito». Allora non si muoveva foglia che il partito non volesse, e quella volta si oppose: «E che facciamo, gli attori?». Seppi che pure Giorgio Napolitano era contrario, o almeno perplesso. Mentre sembravano favorevoli Giancarlo Pajetta e Giorgio Amendola. Puoi notare che è cambiato tutto, caro Peppuccio. Non sai più cosa pensano, i parlamentari attuali. Una sera andammo a cena con Giorgio Amendola a Torre del Greco, per smuovere la situazione, e lui ci disse: «Basta con questo perbenismo borghese, perché opporsi stupidamente a novità che possono essere utili, che possono aprire discussioni su ciò che accade a Napoli?». Carlo Fermariello diventò così il mio attore. Restava il problema di trovare tutti gli altri. Quando sei andato a cena con Amendola, lui aveva visto «Salvatore Giuliano»? Credo di sì. Del resto lo videro un po’ tutti. Con Salvatore Giuliano offrivo alla gente qualcosa di misterioso, una verità che nemmeno io conoscevo. Con Le mani sulla città era il contrario. Dovevo dimostrare che ciò di cui io ero convinto fosse la verità. Questa è la differenza tra i due film, anche dal

punto di vista stilistico. La situazione napoletana era vissuta dalla gente attraverso una politica deformata, c’era una maggioranza schiacciante nelle mani di Lauro, dei monarchici. Se fai un film del genere, hai l’obbligo di essere chiaro, di far capire ciò che stai dicendo. Non puoi permetterti fraintendimenti. Com’è nata la trama del film, come l’hai costruita? In giro per Napoli, cercando di capire quello che avveniva. Nella zona di fronte al porto, dove mio padre aveva l’ufficio, c’era un grattacielo costruito da poco. Proprio di fianco, rimaneva la parte vecchia del vicolo. Quando il costruttore aveva ottenuto l’appalto per edificare il grattacielo, cominciò con le demolizioni causando il crollo accidentale di un vecchio palazzetto. Demolivano con il battipalo e scuotevano le fondamenta di tutte le vecchie case intorno. Trovai sui giornali notizie del crollo che aveva provocato feriti. Poi parlai con gli abitanti della zona. Mi raccontarono che le demolizioni avevano messo a rischio tutte le vecchie abitazioni costruite senza criteri di sicurezza. Pian piano veniva fuori la storia di un’inchiesta, che si apriva per far luce sulle ragioni di un disastro che nessuno poteva prevedere. Insomma crollò ciò che non doveva crollare. Esattamente. Era la fatale conseguenza di quanto avveniva nel consiglio comunale, il luogo in cui si decideva il destino della città. Accompagnati da Carlo Fermariello, io e Dudù andammo da Luigi Cosenza, un personaggio magnifico. Comunista, legatissimo alla città e alla sua condizione urbanistica che conosceva bene perché era ingegnere, costruttore e architetto. Gli proposi di collaborare alla sceneggiatura e lui disse: «Non ne ho il tempo. Ma venite quando volete e parliamo di tutto». Un giorno tornammo da lui. Mentre salivamo le scale che portavano al suo studio, Fermariello si trovò improvvisamente davanti un leone. Intendi dire un leone vero? Verissimo, vivo. Un leoncino, ma nemmeno così piccolo. Carlo s’incollò al muro paralizzato: «Luigi, Luigi, chiama il

leone!». «Nooo» rispose una voce dall’alto «tu accarezzalo, quello è come un cane, non ti fa niente.» Era Luigi Cosenza, teneva in casa un leone. Lo portava anche a spasso. Un giorno, per strada, una signora con un bambino gli si avvicinò: «Scusate, ’o piccirillo po’ accarezzà nu poco ’o cane?». Che i comunisti mangiassero i bambini me l’avevano detto, ma che si facessero aiutare dai leoni… Eh… Ma Cosenza era un tipo ingegnoso. Fu lui a spiegarci quegli assurdi meccanismi della politica napoletana che poi hanno fatto parte della struttura del film, basata sulla storia di un’inchiesta parlamentare spinta dalla sinistra antilaurina. Per mostrare al pubblico la violenza delle discussioni, la violenza con cui la destra si opponeva alla sinistra, scelsi persone che conoscevo a Napoli, giornalisti, professionisti, commercianti. Composi così gli schieramenti del consiglio comunale del film con personaggi che davvero appartenevano alla sinistra e alla destra. Le discussioni che riproducevo nella pellicola diventavano vere e proprie battaglie. Gli uomini che le sostenevano si odiavano veramente. Questo è stato decisivo per la riuscita del film, come tutto il percorso dell’inchiesta che via via svela risvolti spesso paradossali. Faccio un esempio. I pennini in dotazione agli uffici tecnici urbanistici non erano abbastanza sottili da disegnare in scala sulle cartografie certi elementi architettonici che venivano quindi omessi. Ciò creava margini di arbitrio edilizio inimmaginabili. Tutto grazie alla punta di un pennino. Dico sul serio. E guarda che follie del genere ce n’erano tante. Stavi già pensando alla figura protagonista del film? Avevo visto Il grande coltello (1955) di Robert Aldrich, in cui Rod Steiger impersonava Hoss, un produttore. Nel film portava una capigliatura tirata, coi capelli corti e biondissimi. Era davvero formidabile. M’innamorai di Steiger, non avevo un attore in Italia, soprattutto tra i napoletani, che potesse reggere un ruolo drammatico di quella consistenza e quella potenza. Non potevo prendere Aldo Giuffré, che era giovanissimo. Avevo bisogno di uno con presenza, peso e anche talento di attore. Steiger fu perfetto. Ti ho già detto che

all’epoca ero intraprendente, così entrai in contatto con lui. Poi siamo rimasti amici. Lo chiamai di nuovo per Lucky Luciano. Veniva qui a casa, pure con la sua prima moglie, Claire Bloom. Come riuscisti a contattarlo? M’informai attraverso un agente. In quel momento recitava nel Moby Dick messo in scena da Orson Welles all’Ethel Barrymore Theatre in Canada. Gli scrissi: «Devo fare un film e voglio che il protagonista sia lei». Rispose chiedendomi la sceneggiatura. Dovetti riscrivergli: «Non ce l’ho ancora. Ma se lei viene a Napoli, io le rimborserò il viaggio e le racconterò il film». Rod Steiger venne a Roma davvero. Gli raccontai il film qui, seduti nel soggiorno di casa mia, ricordo. Alla fine lui mi strinse la mano e disse: «Lo faccio». Poi lo portai a Napoli, a fargli conoscere il mondo col quale doveva incontrarsi e scontrarsi. Lo portai ai circoli nautici, dove c’era una certa borghesia napoletana che nel film è riprodotta con fedeltà. Andammo anche al consiglio comunale e, naturalmente, dal mio sarto. Gli feci fare un cappotto di cammello meraviglioso che, alla fine del film, Rod volle portare via con sé. Esiste una bellissima foto in cui lui indossa quel cappotto e alle sue spalle campeggiano i palazzoni di Napoli. Era strano, ma molto bravo. Mi hanno raccontato che quando interpretò Napoleone nel «Waterloo» di Sergej Bondarčuk, si era indispettito perché il regista gli faceva pochi primi piani, girava solo totali. Così un giorno si presentò sul set vestito solo dalla cinta in su, dalla vita in giù era rimasto in mutande, per costringere il regista sovietico Bondarčuk a inquadrarlo almeno a mezza figura. Divertente, ma vai a sapere poi se è vero, nel nostro ambiente di leggende ne circolano tante. Io ricordo che Steiger era molto simpatico e cordiale. Capì tutto subito. Comunicavamo col mio inglese arrangiato, me la cavavo meglio con francese e spagnolo. Divenne amico di altri personaggi che avevo scelto per il film. Andava sempre a colazione con Guido Alberti, l’industriale napoletano del liquore Strega, che con Fellini aveva interpretato il ruolo del

produttore in 8½ (1963), e con Alberto Conocchia, quell’attore romano che nello stesso film di Federico vestiva i panni del direttore di produzione. Ma Fellini li aveva doppiati, io tenni le loro voci: «Io non doppio nessuno» gli dissi, «qua ognuno parla la sua lingua». L’unico che doppiai fu Rod Steiger, al quale diedi la voce splendida di Aldo Giuffré. Mentre il film si formava, avevi già un produttore? Feci un tentativo con Franco Cristaldi, ma anche questa volta non voleva aumentarmi il cachet, allora andai da Nello Santi che oltretutto era mio amico, e feci il film con lui. Con Franco ci fermammo sulla questione economica, del film non parlammo nemmeno. Ci salutammo con un appuntamento al film successivo. Nemmeno Notarianni poté fare niente. Quando si parlava di denaro, Cristaldi era irremovibile. Dopo il lungo girovagare tra i vicoli tortuosi e miserabili di Napoli, e dopo le prime chiacchierate con Luigi Cosenza consegnai a Nello Santi il soggetto che avevo scritto con Raffaele, e gli dissi: «È questo il film che voglio fare». Nello mi rispose solo: «Vai avanti». Devo dire che fu coraggiosissimo ad affrontare un film così arduo che, a parte il resto, era anche molto costoso. Torniamo a Rod Steiger. Lo portavo a mangiare nelle bettole, perché sentisse l’umanità vera del luogo. Volli che incontrasse alcune figure della strada, non proprio dei camorristi, ma gente che si dava da fare, gente sveglia. Poi, come faccio sempre, lo portai dal mio barbiere per sperimentare un taglio di capelli adatto al personaggio. Ricordati, in un film la cosa più importante di un personaggio è la sua testa, il taglio dei capelli. Avevo deciso di prendere anche Salvo Randone, lo vedevo bene nei panni di un importante democristiano. Loro due andavano a mangiare insieme, c’era pure Guido Alberti, lui l’inglese lo parlava. Un giorno prendevamo un caffè in un bar, vedo un signore imponente, con una bella capigliatura bianca e allora comincio a girargli intorno. Lui a un certo punto mi dice: «Ma io non sono una bella donna, perché mi gira intorno?». Gli dico: «Concordo, lei non è una bella donna, ma è l’uomo che mi

serve come sindaco di Napoli». Nella realtà vendeva automobili a Detroit, si chiamava Vincenzo Metafora. «Va bene» mi rispose «mi spieghi che devo fare.» Fu bravissimo, veramente formidabile. Una delle mie improvvisate, ma amavo lavorare con chi aveva i difetti di una recitazione non educata. I grandi attori sanno fare tutto, i mediocri invece non perdono mai i segni della loro mediocrità. Per questo hai affidato il personaggio del cattolico illuminato ad Angelo D’Alessandro, un regista? D’Alessandro lo conoscevo, era insegnante al Centro Sperimentale. Era esattamente come io immaginavo il personaggio. Così gli offrii il ruolo del democristiano dissidente che va dal capogruppo, Randone, e dice: «Io, con i mascalzoni che avete preso nel partito, non posso starci». Allora quello gli fa una lezione sulla politica: «Non ci vuoi sta’, ma la realtà è questa. E quindi noi politici dobbiamo appunto mediare, barcamenarci». Presi tanta gente a Napoli, miei amici, gente dei circoli. Molti erano davvero improvvisati. Sì, mi sono divertito molto. Era bello riunire tutti nel consiglio comunale, sapevamo di partecipare a qualcosa che riproduceva la realtà di quel momento. Sia quelli di destra sia, soprattutto, quelli di sinistra. Poi cominciammo a scrivere e chiamai Provenzale anche per Le mani sulla città. Dimmi del titolo. Come e quando venne fuori? Fu un’idea tua o di Dudù La Capria? Un’idea mia. Dudù La Capria era di Posillipo, un uomo di mare, certi vicoli neppure li conosceva. In questa realtà, lo portai prima ancora di Steiger. E lui ci è entrato subito, con capacità critica e sensibilità narrativa. Cominciammo a lavorare sodo io, lui e Provenzale. La scrittura della sceneggiatura durò molto. Io già abitavo in questa casa con Giancarla, lavoravamo ogni giorno. Presi pure Enzo Forcella, giornalista politico formidabile, i suoi fondi su «Il Giorno» erano di livello altissimo. In quel periodo era a Napoli perché si teneva il congresso della Dc. Conoscere certi inghippi politici era fondamentale per spiegare ciò che accadeva in quel mondo. Lui era bravissimo, nei suoi pezzi si occupava proprio

di ciò che avveniva dietro la politica, ciò che non si vedeva. Lo incontrai all’Hotel Excelsior di Napoli e gli proposi di lavorare alla sceneggiatura. Accettò con entusiasmo. Intanto io sceglievo i personaggi, li vestivo. Cercavo di capire il modo di combattere della sinistra e il sistema di aggressione della destra, che impediva ai napoletani di capire che si stava distruggendo Napoli. Guarda che la città è stata distrutta davvero da quella speculazione edilizia. Forcella scrisse anche molti dialoghi. Ma io non distinguevo tra dialoghi e sceneggiatura. È difficile spiegare il rapporto tra regista e sceneggiatore. Prendi Tonino Guerra, che è entrato in più di cento film. Lui spesso faceva collaborazioni, non solo sceneggiature intere. A volte, per risolvere un film, basta l’intuizione giusta in una scena, il tocco finale nel profilo di un personaggio, una semplice immagine. In ogni caso, organizzai la consueta raccolta di giornali che offrivano materiale interessante, e i verbali delle sedute del consiglio comunale. Al comune di Napoli, quello vero, come reagirono? Collaborarono? Sì, collaborarono. Anche perché non si capiva che film stavamo facendo. Non si accorgevano che davanti alla macchina da presa sarebbe avvenuto ciò che ogni giorno si verificava nell’aula del consiglio comunale. La ricostruimmo fedelmente al teatro del Centro Sperimentale a Roma. E infatti molti dovevano raggiungerci apposta da Napoli. Dell’allestimento si occupò mio fratello Massimo, che lavorò come architetto nel film. Lo scenografo era Sergio Canevari. Mio fratello lavorò anche alla scena del crollo, perché ti ho detto che io il crollo l’ho fatto sul serio, senza modellini. Feci ricostruire la parte del palazzetto che era caduto, con tutti i pavimenti e le pareti. Ci avevo messo dentro pure l’arredamento. Accanto a Massimo e a Canevari, c’era anche Carlo Agate, grande costruttore. Tutti e tre lavorarono meravigliosamente sia al crollo, sia alla ricostruzione del consiglio comunale. Tieni presente che se la ripresa del crollo fosse andata male, in un colpo solo avrei fatto perdere trenta milioni al produttore, quel giochetto tanto costava. Avevamo

organizzato vari cedimenti successivi, e io temevo che andasse giù tutto nello stesso istante, in tal caso non si sarebbe visto niente. Il crollo doveva avvenire in fasi progressive. Prima il solaio di una casa, poi il pavimento di un’altra, poi i mobili. Piazzai sette macchine da presa, sette. Allora non era così consueto usarne tante. Come hai evitato che le macchine da presa s’inquadrassero tra loro? Le ho camuffate. Una era sistemata in un finestrone delle scale di un palazzetto, ed era coperta. Tutte le altre nascoste dietro vari elementi di arredamento, un’impastatrice, sacchi di cemento, panni stesi ai balconi. Quella vicino alla quale mi ero messo io la coprimmo con un panno nero. Come avevi trovato la casa da far cadere? Andavo in giro per quella zona, una zona popolare, a ridosso del porto, tra i vicoli che chiamano Piliero. C’era un edificio di costruzione recentissima, alto almeno dieci piani. Stavano rifacendo l’intera zona per darle un assetto più moderno. Ma cacciare via la gente da quei vicoli non era facile. Mi accorsi che questo palazzetto era caduto per metà. Il resto era pericolante, ma era ancora abitato. Il proprietario del palazzetto era lo stesso del palazzone di dieci piani lì di fronte. Il progetto era chiaro: entrare nel vicolo e rifarlo tutto. Progetto poi realizzato, immagino. In seguito, sì, ma molto in seguito, perché il film a Napoli ebbe successo, fece parlare. Le cose si complicarono. Ma come hai ottenuto il diritto di girare il crollo di quella costruzione? Il diritto me lo attribuii io, quando scoprii che su quel palazzetto si accanivano le trame urbanistiche. Feci costruire la parte crollata del palazzetto per farla cadere di nuovo. Il proprietario capì tutto il gioco e si ribellò. Lasciai che si ribellasse. Ero entrato in quella storia grazie alla finzione del cinematografo. Non era certo una buona pubblicità per la zona.

Lui non insistette, capì che sarebbe stato peggio. La scena del crollo la girammo proprio all’inizio delle riprese. Anche in questo sei stato fedele a Luchino Visconti. Sosteneva che bisognasse cominciare le riprese di un film con le scene più costose. Aveva ragione. Così, se verso la fine della lavorazione i soldi scarseggiano, non si rischia di rinunciare a scene importanti. Io cominciavo sempre con le scene più difficili, che spesso sono le più costose. Come nel caso del crollo per Le mani sulla città. Allora non c’erano monitor per potersi immediatamente rendere conto di ciò che avevi fatto, o radiotrasmittenti e telefonini per comunicarselo. Ma avevo organizzato un sistema di collegamento per le sette macchine da presa, che si passavano l’ordine. Non a voce, ma con delle bandierine. Non urlavo: «Motore», per evitare che la gente lì attorno se ne accorgesse e perdesse la sua spontaneità. Avrebbero capito. Già qualcuno aveva sospettato, perché mi avevano visto in giro per i vicoli, e dopo due giorni c’erano le mie foto sui giornali. Ero ormai al mio terzo film, mi riconoscevano, cominciò subito un passaparola tutto napoletano: «Ué, ce sta ’o regista, mo fanne ’o film pure ccà». Quindi girai di nascosto. C’erano poche comparse e alcuni stuntman nell’area più pericolosa intorno al palazzo. Ma dietro di loro passava gente vera. Volevo inquadrare il rischio del crollo anche sui passanti inconsapevoli. Facevo lavorare di notte, perché nessuno si rendesse conto. Ma molti capirono ugualmente, è difficile far fesso un napoletano. Anche quando dovevi dire: «Azione», usavi le bandierine? Certo, ma motore e azione erano contemporanei, e non era prevista la possibilità di rigirare. Tutto doveva andare bene al primo ciak. E quel crollo poteva anche finire malissimo. Quando la costruzione fu finita ed eravamo già pronti per girare, venne una fortissima libecciata, e noi stavamo lì a fronte mare, le raffiche fecero danni, cedette un’ala del palazzetto ricostruito da noi. Rimandai tutto di una settimana. Ma successe che la gente mi vedeva andare in giro, chiedere. Capirono che si costruiva qualcosa nel palazzetto. Non

avevano intuito tutto, ma poi videro che una parte era crollata e hanno capito. E avete dovuto ricostruire un’altra volta? Sì, purtroppo. Lavoravamo di notte, alle quattro o le cinque del mattino, per tenere tutto nascosto agli abitanti della zona. E quelli, da buoni napoletani, avevano capito tutto. Nei giorni seguenti feci venire degli stuntman da Cinecittà, dovevano far la parte di operai che lavoravano attorno al palazzetto e che rimanevano fino all’ultimo istante, fino al crollo. Ci volevano persone esperte, pratiche. Il lunedì in cui cominciai a girare, mentre preparavamo tutto, riprese una ventata di libeccio. Provenzale, che stava su un balcone del grattacielo, urlava: «Mi butto abbasso, mi butto abbasso!». Aveva ragione, avremmo perso di nuovo altri soldi. A quel punto girai subito, non avevo altra scelta. Fu un’emozione indescrivibile. Appena finito il crollo, nell’istante in cui diedi lo stop, capii che la scena era venuta esattamente come avevo previsto. Allora sono uscito dal camouflage, dal camuffamento della prima macchina, la Mitchell 300, ho tirato via il panno nero e ho urlato: «Adesso facciamo il cinematografo!». Fu in quel momento, come ti ho detto, che incrociai lo sguardo di mio padre. Quando vide il film, che cosa disse tuo padre? Era felice che fossi riuscito a farlo. Ma io proseguivo come se avessi dei binari, non perdevo tempo. Non stavo nemmeno a preoccuparmi che il film fosse considerato per quello che io pensavo. Con il passare del tempo, a parte le tragedie personali, ho perso la sicurezza di quegli anni, la padronanza che mi spingeva, quella sicurezza quasi assoluta. Secondo te quando è avvenuta questa perdita? Da quando feci le tre regie di teatro e per un po’ tenni in sospeso il cinema. Vedi, io ho scritto «Cesare e Bruto» con La Capria e con l’assistenza di uno storico, Furio Sampoli. Ma non sono riuscito a decidermi sull’uso delle grandi masse, dei soldati e delle battaglie. E questo mi ha paralizzato. Quando facevo il cinematografo, ho voluto fare a tutti i costi i film che

sentivo miei. Prendi La tregua, ci sono voluti anni prima di riuscire a farlo. Non ero sicuro che la gente capisse la mia volontà di fare un film sull’Olocausto senza insistere soprattutto sulle scene di crudeltà nei campi di concentramento. E tanti non l’hanno ancora capito. Ho letto l’altro giorno una critica in cui mi si accusa di avere toccato l’argomento in maniera flebile. Ma il mio film non voleva mostrare solo donne, anziani e bambini accatastati dentro i forni. Affrontava il ritorno alla vita di quelle persone. Turturro ne ha dato un’interpretazione esemplare. Una parte del pubblico però s’aspettava i soldati tedeschi che ammazzavano con spietatezza e crudeltà. Volevano vedere i mucchi di cadaveri, come se non bastasse la sequenza in cui i bambini vengono fatti entrare nei forni e poi si vede il fumo che esce dai camini. Come quelli che, se fai un film ambientato in Sicilia e non mostri i mafiosi che sparano, ti dicono che non sei antimafioso. Esatto, esatto. Ma io ho fatto i film che volevo e tutto sommato sono stati capiti a partire dalle loro intenzioni. E se parliamo di quelli che non ho fatto, si vede che c’è stato un motivo serio a fermarmi. E ti confesso che non so se fermarsi è giusto. Quando ho visto per la prima volta «Le mani sulla città» ero proprio piccolo, avevo nove anni e mezzo. Non lo capii. Erano cose difficili. Il consiglio comunale, i piani regolatori, la speculazione edilizia. Mi colpì però l’inizio, la città vista dall’alto, il rumore dei battipalo. Tumm… Tumm! Le mani di Rod Steiger che segnano il metro quadro sulla terra. M’impressionò molto anche l’ambiente che, credo, fosse l’ufficio di Edoardo Nottola, con la pianta della città stampata sui muri. Steiger usciva ed entrava dalla porta come uscendo o entrando dal tessuto urbano di Napoli. Fu una mia idea, molto efficace. Presi l’ultimo piano di un albergone in via Medina, che è arretrata rispetto al porto. Achille Lauro aveva dato il permesso di tirar su questo grattacielo. Napoli è tutta bassa e si ritrovò questo fungo in

mezzo. Feci l’ufficio di Nottola all’ultimo piano e foderai le pareti con quei pannelli che messi insieme formavano il piano regolatore della città. Lateralmente, ne misi altri che riproducevano gli edifici nuovi. Era l’ufficio di un costruttore. Mio fratello e i suoi colleghi fecero il plastico di Napoli. Le immagini aeree le girammo dall’elicottero. Prima però, a terra, indicavo tutto all’operatore. Ma non ho mai lasciato da sola la macchina da presa, ovunque fosse piazzata. Se dovessi raccontare in sintesi la trama de «Le mani sulla città» a un giovane che non conosce il film? Direi che è un’inchiesta di tipo parlamentare, perché il consiglio comunale è un vero Parlamento, volta a mettere in luce le cause che hanno provocato il crollo di un palazzo nei quartieri popolari di una città che affronta la propria rinascita edilizia nel disordine e senza alcuna regola. Il costruttore coinvolto nel disastro, Edoardo Nottola, sa che il potere è l’unico modo per sfuggire ai suoi guai giudiziari. Per questo, come si direbbe oggi, scende in campo. E riesce, non senza ostacoli, a far sua la poltrona di assessore ai Lavori pubblici e all’edilizia. Può così tornare alla sua attività sostenuto dagli intrallazzi della politica. L’arcivescovo dà la benedizione e Nottola dà il via alle nuove costruzioni. La trama è questa. Quindi l’inchiesta si chiude con una sconfitta delle istanze della sinistra. Certamente. Le divisioni interne alla destra si ricompongono e il sacco della città può ricominciare. Questo è il disegno della storia. Nei periodi in cui stavi a Napoli dove alloggiavi? All’Hotel Excelsior. Non stavo dai miei, ero a Napoli per lavoro, preparavo un film. Ma li vedevo spesso. E poi avevano accanto mio fratello, allora giovane architetto. Tuo padre capiva che film volevi? Ne parlavate? Sì. Ma non c’era bisogno di scendere nei dettagli, perché si capiva chiaramente quello che cercavo di dire e che volevo fare. Ormai avevano capito tutti. Anche gli abitanti del vicolo,

che diventarono tutti attori. E comunque sentivo che i miei erano contenti del mio lavoro. La sera, quando finivo le riprese, telefonavo a Giancarla. La mattina no, lei amava dormire fino a tardi. Parlavamo anche del mio lavoro, s’informava, anche perché era grande amica del produttore Nello Santi. Sua moglie, Franca Santi, è stata mia segretaria di edizione in tanti film. Purtroppo Nello non volle cedere Le mani sulla città in America per la cifra che offriva la distribuzione come anticipo, voleva di più. E il film si fermò. In America non uscì. È andato al Moma, ai cinema d’essai. Ha avuto molto successo, ma un film deve circolare tra il pubblico. Nel film ci sono scene della campagna elettorale, le piazze affollate, i muri ricoperti di manifesti. Erano immagini di repertorio? No, erano mie. Si vedono uomini politici che fanno comizi a Napoli. Poi si finisce nella grande piazza dove vengono bruciate montagne di volantini. Tutto girato da me, però con carattere cronistico, documentario. L’idea della scena nel consiglio comunale, quando tutti alzano le mani e urlano: «Le nostre mani sono pulite!», come venne fuori? Avevi assistito a qualcosa del genere o fu un’idea vostra? È molto forte. Francamente era inevitabile, dato il titolo del film. Ci venne in mente frequentando il consiglio comunale di Napoli poiché il mio metodo è sempre stato quello di assecondare la realtà. Prendere dalla realtà tutto quello che mi offre, senza alterarla. Ne Le mani sulla città, comunque, non sto solo in consiglio comunale. Ma nei circoli, nelle bettole, nei quartieri poveri e sui terrazzi della ricca borghesia. Nel film, a un certo punto, si vede un bambino rimasto ferito sotto le macerie del crollo. Cammina male, ha perso una gamba. S’avvicina come può verso di noi, verso la macchina da presa. Con un taglio netto passiamo all’immagine del democristiano Guido Alberti che fa canottaggio sullo splendido terrazzo di casa sua. Quell’attacco di montaggio piaceva moltissimo a Serandrei, esprimeva tutta

la nostra indignazione per le ingiustizie della politica napoletana. Un cambio di scena che ti fa pensare davvero a certe soluzioni di montaggio alla Ejzenštejn, una di quelle soluzioni espressive con cui il cinema sa veramente sconvolgerti. Era molto efficace, sì. Serandrei mi ripeteva sempre: «Tu sei comunista e non lo sai». Io gli rispondevo: «Ma no, io sono socialista, non comunista». Me lo diceva mentre montavamo. Lui era comunista. Torniamo alle riprese del film. Finite quelle a Napoli, rientrammo a Roma per girare le sequenze ambientate nel consiglio comunale, perfettamente ricostruito. Mio fratello fu bravo. L’aula rispetto a quella vera, era solo poco più piccola. Ma identica. Sembrava di entrare nella sala dei Baroni del Maschio Angioino, la sede del consiglio comunale napoletano. Anche stavolta Gianni Di Venanzo era andato via un po’ prima che finissimo. Ma aveva sistemato il piazzato, cioè le luci di base, perciò il resto fu facile. A quel tempo Gianni era impegnatissimo con tanti film. Come t’ho detto gli volevo bene, non gli impedivo mai nulla. Ho controllato. In effetti nel 1962, l’anno di «Salvatore Giuliano», Di Venanzo fa «L’eclisse» con Antonioni e «Eva» di Joseph Losey. Nell’anno di «Le mani sulla città», il 1963, fa «8½» con Fellini, «I basilischi» con la Wertmüller e «La ragazza di Bube» con Luigi Comencini. Voi intanto vi presentaste col film a Venezia. Sì, lo portammo alla Mostra. Fu visto dai selezionatori e subito accettato. Ovviamente, dopo aver fatto i loro commenti. Il film ebbe un successo vastissimo, addirittura vinse il Leone d’oro. Certo, ricordo quei pochi che ebbero da ridire. E posso fare il nome di Gian Luigi Rondi. Nella sua recensione scrisse: «No, no, no, non venitemi a dire che questo è cinema!». Ma con molta onestà, dopo alcuni anni ammise in televisione che si era sbagliato: «La mia opinione aveva ragioni politiche, non professionali. Non ero della stessa idea di Rosi».

Raccontami la proiezione, il clima, che successe al Lido? Venivi da un grande successo rifiutato da Venezia e adesso ci ritornavi. C’erano persone della buona società di Venezia venute con le chiavi di casa. Una scena che avevo già visto al tempo de La terra trema. Devo avertelo raccontato, molti veneziani usavano quelle grosse chiavi come fischietti. Sì, ci furono contrasti e discussioni anche in giuria. Però poi il verdetto fu unanime. Non so dirti chi me lo rivelò, ma fin dal giorno prima della premiazione sapevo di aver vinto. Incrociai Franco Cristaldi e provocandolo gli dissi: «Hai visto? Le mani sulla città ha vinto il Leone d’oro, e tu per quattro soldi non hai voluto farlo». Lui si strinse nelle spalle: «Succede!». A Venezia c’erano i tuoi genitori? Sì, vennero con mio fratello Massimo. Peccato per il nonno, don Ciccio non c’era più. Quando «Le mani sulla città» uscì nelle sale, come reagirono i democristiani? Non ebbi delle particolari rimostranze. Forse si rendevano conto anche loro che il film rappresentava la realtà. A Napoli il film come fu accolto? Dal pubblico in modo calorosissimo. Lauro, invece, convocò un consiglio comunale che condannò il film. Sì, «’o Comandante» sosteneva che si raccontavano menzogne. In quel consiglio credo che Carlo Fermariello non ci fosse più. Poi diventò sindaco di Vico Equense. Io partecipai a diverse proiezioni in città, il film fu amato dai napoletani, sicuramente più di Salvatore Giuliano. Lo immagino. Li riguardava direttamente. E poi questo tuo film possiede un’inquietudine politica che non ho mai trovato in nessun altro. Qui riesci a far capire la politica. Ed è una capacità che il film conserva ancora oggi. Inoltre, hai saputo raccontare la debolezza di un grande partito politico, la Democrazia Cristiana, proprio mentre era al massimo della sua potenza. Quando qualcuno riesce in imprese del genere,

viene solitamente corteggiato dalla politica. Hanno mai cercato di cooptarti? Ma sì, certo. Mi proposero di candidarmi a sindaco di Napoli durante il periodo socialista. Rifiutai, dissi che non era il mio mestiere. Io dovevo fare il cinematografo. Chi te lo propose? Comunisti e socialisti. Poi fu eletto Pietro Lezzi. Mio amico carissimo, socialista, di lui ho sempre pensato che fosse adattissimo a fare il sindaco a Napoli. Ricordo che mi disse: «Franco, non fare complimenti, se vuoi io mi ritiro». Gli risposi: «Ma che, sei matto?». Altre volte mi hanno proposto un seggio al Parlamento, ma ho sempre rifiutato. A quali registi senti di appartenere, quelli intimiditi dal successo, quelli che avvertono un’eccessiva responsabilità, quelli che devono a tutti i costi fare un film all’altezza del precedente? Da meridionale, visto che fin lì era andato tutto bene, non temevi che il destino girasse? Paure non ne avevo. Anzi, ero ansioso di andare avanti per dimostrare che la mia strada, le mie scelte, erano giuste. Non dimenticare il ruolo di Giancarla. Sapevo di averla vicino. Era una donna critica e intelligente e, allo stesso tempo, molto rispettosa del mio lavoro. Mi lasciava fare, seguiva, capiva che stavo facendo qualche cosa che mi impegnava totalmente. La materia dei miei primi quattro film mi stava dentro da tempo. Piuttosto, ero un po’ svuotato. Sai, i primi due sono anche venuti piuttosto facili. Ma Le mani sulla città ha richiesto preparazione, elaborazione, bisognava assistere alle sedute in consiglio comunale per farne tesoro e usarle nella sceneggiatura. E immagina prima quanto mi avesse svuotato il lavoro per Salvatore Giuliano. Era come se un primo capitolo della mia vita professionale si fosse chiuso. Vedi, fare un certo cinematografo, che io chiamo il cinema della realtà, richiede un continuo studio della materia attraverso testimonianze, documenti, partecipazione. Ero a un punto in cui non sentivo più quale fosse l’idea giusta per andare avanti. Quando avevo preso il Leone d’oro, mentre scendevamo la scalinata della

Sala Grande a Venezia, Angelo Rizzoli mi affiancò e mi disse: «Il prossimo film tu lo fai con me!». «Benissimo» gli risposi, ma non avevo idea di cosa avrei fatto.

Le ostriche di Orson Welles

Una mattina, mentre mi faccio la barba, vedo una rivista aperta su una sedia accanto a me, «La Settimana Incom illustrata». Vedo pagine e pagine sulla Feria di Pamplona. Si parlava di El Cordobés, un torero che con il suo stile stava sovvertendo il mondo della corrida. Io, in realtà, pensavo da tempo a un film sui nuovi cantanti inglesi, che all’epoca diventarono popolari rivoluzionando il mondo della musica con le loro canzoni. Mi dissi: «E perché non faccio la stessa operazione su un torero?». M’innamorai della nuova idea. Pensai: «Forse è il film che voglio fare». Ne hai parlato subito con qualcuno? Con Giancarla, che stava nella stanza accanto, in camera da letto. Vuoi sapere che ragionamento feci? Conoscevo poco la Spagna, c’ero andato una sola volta da turista con Giancarla. Della corrida sapevo meno ancora, ma avevo letto Morte nel pomeriggio di Hemingway. Lì c’è tutto, c’è il senso di quello che avviene nell’arena. Dissi a me stesso: «Ma quando Hemingway ha scritto questo libro non sapeva niente dei tori, eppure pubblicò il libro più bello che sia stato scritto sulle corride». Non è solo un libro tecnico sulla corrida, ma anche lirico. Stupendo, e poi amavo Hemingway. Perché non potevo fare un film sapendo pochissimo dell’argomento? Io poi avevo il vantaggio dell’immagine, che fisicamente ti dà uomini, oggetti, ambienti, sentimenti. Chiamai La Capria, gli dissi: «Tiriamo fuori un’idea sulla Spagna, riscriviamo la guida turistica di quel paese. Ho bisogno di presentare qualcosa che affascini, senza una storia. Quella non ce l’ho ancora, non ho chiaro cosa voglio». Dopodiché hai proposto il tuo progetto a Rizzoli?

Il vecchio Angelo Rizzoli aveva un tavolo fisso al ristorante Da Nino, in via Rasella. E invitava gente a colazione, tutti i giorni. Andai a trovarlo lì. Trovai con lui anche Gualtiero Iacopetti che allora faceva la «Settimana Incom» e andava a colazione ogni mattina con il Commenda. Rizzoli disse: «Allora? Ti è venuta un’idea? Che vuoi fare?». «Voglio partire per la Spagna e fare questo film.» Rizzoli non ne sapeva niente di corride e tori. Gualtiero fu molto carino, mi aiutò perché disse: «Ha ragione Francesco. Questa diventa una cosa internazionale». Allora Tonino Cervi, che faceva il produttore anche per Rizzoli e che era mio amico, aggiunse: «Sì, fammelo fare, ti prego» ma a Rizzoli doveva dei soldi. Insomma, i soliti casini del cinematografo. Infine riusciamo a partire: io, Tonino, Gianni Di Venanzo, mi pare anche Pasqualino De Santis, e un macchinista. Giungemmo a Pamplona quando la Feria stava già finendo. La dogana ci bloccò per due giorni, perché Tonino doveva ancora versare i soldi di un vecchio film. «Ao’, qua devi pagà!» gli dicemmo. E lui usò il denaro che Rizzoli gli aveva dato per pagare i sopralluoghi del film. Come si fa normalmente al cinema. Fare un film per poter pagare i debiti di quello precedente. E tu sai che non è affatto raro. Quando sei partito per Pamplona venne anche Giancarla? Lei venne dopo, quando giravo a Madrid e c’era Lucia Bosè, allora compagna del torero Luis Miguel Dominguín. Cominciammo a girare scene poi entrate nel film. Anche un pezzo con El Cordobés, che aveva sconvolto il modo di toreare e aveva un successo travolgente. Ma chi mi colpì davvero fu questo giovane, Miguel Mateo Miguelín. Un bel ragazzo, giovanissimo. Uno che nell’arena sapeva starci con stile. Pian piano mi venne l’idea di raccontare la storia di un giovane contadino col sogno di toreare. Giancarla disse: «Perché non prendi El Cordobés? È famoso ed è un bel ragazzo». E io: «Voglio uno che non sia conosciuto. El Cordobés è già troppo popolare». Cominciai a girare e con Serandrei montai tre quarti d’ora di film, a cui aggiunsi la musica trascritta dai dischi. Poi feci una proiezione per

Rizzoli. C’era la corrida, c’erano i tori, c’era la musica, c’era tutto. Tutto questo prima ancora che ci fosse la storia? Sì. Il resto è venuto dopo. Sai cosa mi ricordo? Di Venanzo che stava male, ma proprio male, quando trafiggevano il toro. Filmava e sparava parolacce contro toreri e corride. Lanciava di tutto, bestemmie e maledizioni, perché facevano del male al toro. Girava e imprecava: «Vaffanculo, stronzo!». Provava dolore nel vedere l’animale soffrire e se la prendeva col torero. Un giorno ero con lui all’Istituto Luce e vedo in un angolo una cassetta di un legno meraviglioso, con mille venature. La apro e dentro c’è un obiettivo 300mm. Non sapevo manco cosa fosse. In pratica un teleobiettivo. Allora Gianni mi disse: «Questo è buono per i documentari». E io: «Fammi vedere». Lo provai e dissi: «È l’obiettivo che serve a me, io con questa lente porto il toro tra il pubblico!». E infatti ci sono tante riprese fatte con il 300. Pasqualino De Santis s’era appassionato a quel teleobiettivo ed era diventato un fenomeno, Gianni un po’ s’ingelosì. Pasqualino aveva imparato a adoperarlo come fosse un 28. Non so come facesse, sempre a fuoco. Tu sai di che cosa sto parlando, seguiva il toro in movimento, il torero che alzava le mani, che infilava le banderillas nel toro, senza mai perdere il fuoco. Difficilissimo con un teleobiettivo. Una cosa incredibile. Ennio Flaiano seppe che sarei andato a Pamplona e mi indicò uno spagnolo: «Cerca di conoscere questo Pedro Beltrán, è un tipo strano, ma può esserti utile». Beltrán faceva l’attore, lo scrittore, ed era esperto di tauromachia classica. Un giorno andammo a mangiare io, lui e Domingo Ortega, il vecchio torero, il maestro, il non plus ultra della corrida. Eravamo nella saletta al piano superiore di Lhardy, un bellissimo caffè-ristorante di Madrid, dove si va a prendere all’una l’aperitivo e una tazza di brodo. In quella occasione proposi a Ortega di lavorare nel film. Era già piuttosto anziano. Gli dissi: «Maestro, vorrei che stesse nel film, che facesse un’apparizione da quel grande personaggio che è. Dato il carattere del mio film, vorrei che spiegasse al pubblico cosa significa toreare». Ortega prese un

giornale, lo aprì su di una doppia pagina, si alzò e cominciò a toreare col giornale, usandolo come una muleta, una cappa. Bellissimo, era elegantissimo. Ortega toreava per noi di salón. È così che si dice quando non si torea nell’arena. A un tratto si fermò e disse: «Sì, però prima devo toreare tanti tori fin quando non ce ne sarà uno che avrò toreato come dico io». E io: «Maestro, i soldi per pagare tutti questi tori io non li ho. Quindi non mi pare possibile». Allora, un solo toro costava cinquecentomila lire. Alla fine Ortega nel film non apparve mai. Come conoscevi Ennio Flaiano? Io facevo il cinema, Ennio faceva il cinema. Lui, oltretutto, apparteneva al gruppo del Caffè Rosati in via Veneto. Ed era pure mio vicino di casa a Fregene. Un uomo brillantissimo e intelligente, e bravo scrittore. Con Ennio ho lavorato anche a una sceneggiatura di Emmer. Inoltre era sceneggiatore di Fellini. Te l’ho detto che ci conoscevamo tutti, allora forse ci frequentavamo più di quanto non accada oggi. Mi indicò quel Beltrán perché ci aiutasse con la sceneggiatura. Il film è scritto da me, ma con la collaborazione di Pedro Beltrán, Pere Portabella e Ricardo Muñoz Suay. Ricardo era amico di Zavattini, a cui piaceva da matti la Spagna e la cucina spagnola. A volte ci andava il sabato, mangiava, e se ne tornava a Roma. Era stato appunto Zavattini a suggerirmi il nome di Ricardo, che era già un grande aiuto regista spagnolo. Con Portabella, che era pure produttore, Ricardo Muñoz Suay aveva fatto Viridiana (1961) di Luis Buñuel, che ebbe un enorme successo a Cannes. Al loro fianco girai la Spagna intera. Pedro scriveva poesie, racconti, sai… era uno di quei personaggi che amano far tutto, e lo fanno bene. Ancora oggi so che il mio film è considerato il più bello che sia stato fatto sulla corrida, assieme a Torero (1957) del regista messicano Carlos Velo. Io dopo venti giorni già parlavo lo spagnolo, non era difficile. Si trattava di entrare nel mondo dei tori. Lucia Bosè, che conoscevo, abitava a Madrid con Dominguín, avevano la casa che era come la mia qui a Roma, sempre piena di gente. Il fratello di Luis, Domingo Dominguín, faceva il

procuratore di tori. Era comunista, in gioventù aveva fatto il torero ed era amico intimo di Orson Welles, impegnato anche lui nella preparazione di un film sulle corride. Una sera andammo a cena io, Dominguín e Welles, a cui erano piaciuti moltissimo Le mani sulla città e Salvatore Giuliano. Parlammo a lungo. Quando cominciai il film, so che disse a Dominguín: «Ma come? Io sono qui da mesi e mesi per sapere tutto della corrida, dei tori, dei toreri e non sono ancora pronto. Questo Rosi invece arriva e in quattro e quattr’otto comincia a girare il film?». Raccontami la cena con Orson Welles. Era uno spettacolo vederlo mangiare le ostriche, incredibile. Si beava tra quelle ostriche. Era velocissimo. Le mandava giù a dozzine. Gli piacevano. Era un bellissimo personaggio. Anche molto generoso. Poi, oddio… aveva un po’ le gelosie che abbiamo noi registi. Ti fece effetto sapere che Orson Welles stava preparando un film sui toreri? Certo che mi fece effetto, ma non mi paralizzò. Dissi solo: «Che devo fare? Vado avanti. E poi lui fa un altro film». Io avevo Miguelín che doveva diventare il mio attore, il giovane contadino che veniva in città per diventare torero. Una storia che somigliava a quella dei film che avevo già fatto, non credi? E adottavo il sistema solito. In quel film l’unica vera attrice è Linda Christian. La scelsi perché viveva molto tempo in Spagna. Frequentava il mondo della corrida e anche la mondanità di Madrid. Tutti gli altri attori sono presi dalla strada. Dopo quella cena, hai visto più Orson Welles lì in Spagna? Solo in un’altra occasione. Ma lo incontravo alle corride. Aveva sempre con sé la scatola dei sigari, fumava dei grossi Partagas e dei Montecristo. Come Churchill, sempre col sigaro a portata di bocca. Poi il film sui toreri, Orson non l’ha mai fatto. Solo una parte. L’aveva cominciato, poi smise. Ma lui era un grande. Faceva cortometraggi, documentari. Si era stufato, e lo capisco.

Com’era il clima politico nella Spagna di quell’epoca? Non hai avuto problemi? Eri un personaggio noto, avevi fatto film molto scomodi. Problemi e ostacoli ne ho avuti. Mi hanno fatto aspettare tantissimo per darmi il cartón de rodaje, cioè il permesso di girare. Poi finalmente è arrivato e abbiamo cominciato. L’unico aspetto che potevano criticare era l’immagine della Spagna che mostravo, non era certo quella che intendevano pubblicizzare nel mondo. Come al solito, il mio non era solo un film su un torero o sulla donna che se ne innamora. Le scene della corrida sono tutte vere, tutte. Anche quando Miguelín cade sotto il toro e si rialza sanguinante con l’abito a brandelli. E sempre col pubblico vero, sempre. Il momento della verità (1965) vale la pena rivederlo. In fondo era la vicenda di un giovane che cercava la sua strada e, per raccontarla, rinnovammo molto lo stile, usando lo sfondo della corrida. Ebbe molto successo in Francia. Quel film l’ho fatto tutto sul campo. Tutto, come un documentario. E forse la parola documentario, che molti usarono, respinse il pubblico e limitò la capacità d’attrazione del film. È vero, una volta i documentari venivano distribuiti normalmente al cinema, ma è un genere per il quale il pubblico non è mai impazzito. Ma lì c’era tutta la corrida! C’è stata gente che davvero ha detto: «È il più bel film che sia mai stato fatto sulla corrida». Io dico che a Pamplona girammo della buona roba. E poi Serandrei, che non sapeva niente di corrida, al montaggio fece un lavoro incredibile. Va detto che, come in tutti i miei film, il montaggio ce l’avevo già in testa mentre giravo. È difficile che io giri delle scene e poi decida in moviola. «Il momento della verità» rappresenta una fase in cui tu volti un po’ pagina, ti guardi intorno alla ricerca di nuovi temi. Senza dubbio. In quel periodo sentivo nell’aria il cambiamento, la svolta data dai giovani protagonisti dello sport, dello spettacolo, della cultura. Era il 1964, e per esempio la musica inglese fu colpita da una vera rivoluzione. I

Beatles stavano davvero cambiando il mondo nella musica. Quando mi accorsi che quella rapida trasformazione culturale riguardava anche la corrida, trovai che la scelta di fare un film su quel mondo poteva interessarmi. Te l’ho detto, in quel momento Hemingway mi attraeva più dei cantanti. Mereghetti dà a quel film solo due stelle. Meno male, a Salvatore Giuliano gliene ha date quattro. Quando hai finito e montato il film a chi l’hai fatto vedere? Prima di tutto a quelli che avevano lavorato con me. A Pedro Beltrán, a Ricardo Muñoz Suay e Pedro (Pere) Portabella. E poi in Spagna c’era parecchia gente interessata, cominciavo ad avere un pubblico, a essere apprezzato. Non ero uno sconosciuto. I miei lavori venivano proiettati soprattutto in cineclub. Mi portavo dietro l’immagine di regista contro. Il film fu presentato in concorso a Cannes. Dopo vinsi il David ex aequo con Vittorio De Sica che aveva fatto Matrimonio all’italiana. Il produttore Angelo Rizzoli, quando vide il film che disse? Gli piacque. Devi sapere che Il momento della verità risultava accreditato come una produzione Federiz, che era una società di Federico Fellini e Angelo Rizzoli. Quando mi accinsi a fare il film con Rizzoli, lui disse: «Anche lei risulterà regista e coproduttore». E quindi fu costituita una società che si chiamò Roriz. Ma poco dopo a Rizzoli venne in mente di distribuire direttamente i film in America. E allora gli occorreva che il film fosse tutto nelle sue mani. Un’idea pericolosa, la distribuzione era la forza del cinema americano. La Roriz scomparve, la Federiz restò. Il film, in America, non ebbe mai la distribuzione che Rizzoli sognava. Non per la qualità del film, ma la struttura era inadatta a distribuire film italiani. Eppure il film era davvero spettacolare. L’uso dell’obiettivo di cui ti ho parlato, il 300mm, rese la materia ancora più viva, avvicinò al pubblico il combattimento con il toro. Ci si rendeva conto di come le banderillas emergevano dal morrillo, il collo del toro. Tutto era vicinissimo. E da qui veniva fuori la vicenda di questo giovane torero, Miguel Mateo, già noto, ma non ancora come El Cordobés. Fu

un’esperienza importante, conobbi a fondo la Spagna. L’aspetto più interessante fu la partecipazione alla temporada, il tour del torero, al fianco di Miguelín. Io ero dovunque lui fosse chiamato a toreare. Toledo? Toledo. Barcellona? Barcellona. A volte, dopo lo spettacolo, commentavamo la corrida, com’era andato il combattimento, ma in quei momenti non c’era molto da dire. Il mio film ha un aspetto documentario importante, c’è tutta la presenza della Plaza de Toros e della corrida. Una presenza viva. Ho girato quasi tutte le corride che faceva Miguelín. Dovevo solo fare attenzione al vestito che indossava per la continuità del film. Gli dicevi di indossare sempre lo stesso abito? Non sempre. Ti faccio un esempio. Girammo una corrida nella quale ebbe un incidente col toro, cadde sotto il toro e ne venne fuori sanguinante, con l’abito strappato. Ovvio che non fossimo preparati, io perciò dovevo adattarmi a tutto. Era un piano di lavorazione in continua evoluzione, molto interessante. La volta successiva gli chiesi di entrare nell’arena con quel vestito strappato, l’abito con cui aveva avuto l’incidente. Miguel era volenteroso, capiva che quella era l’occasione per farsi conoscere fuori dai confini della Spagna. Venne pure a Cannes, e raccolse un gran successo personale. Quel film è stato utile, affrontava una materia per me sconosciuta, che riuscii a dominare grazie a collaboratori assai esperti come Pedro. Le arene delle varie città avevano una struttura architettonica sempre uguale? No. Ma tutte hanno intorno un corridoio che le circonda, el callecòn, e quello è quasi uguale dappertutto. Questo mi aiutava per la continuità del montaggio. Se dal callecòn dovevi inquadrare verso le tribune per cogliere la presenza del pubblico, con l’obiettivo potevi limitare l’inquadratura a quello che serviva, in modo da rappresentare la Plaza de Toros piena di gente, come fosse sempre la stessa. La storia del film era uguale a tutte le storie che riguardano toreri, combattimenti nell’arena e donne. Un torero, una donna bella e famosa che a un certo punto si invaghisce di lui. Nel film si vede un party

che girammo nella casa di un antiquario di Madrid. Credimi, lavorai esattamente come nei film precedenti. Da Salvatore Giuliano in poi non ho mai modificato il modo di girare, l’ho solo adattato alla necessità di far vivere il contesto e non solo la vita del personaggio. Feci così anche con Il momento della verità. Qui il torero aveva soltanto una presenza maggiore. Prima di cominciare, avevi visto o rivisto film sulla corrida? Ne avevo visti un paio. Simili a tutti gli altri. Il torero, il suo successo, lei che se ne innamora. L’esigenza di impostare le riprese su obiettivi che avvicinassero il soggetto alla macchina da presa nacque proprio dalla visione delle trasposizioni cinematografiche realizzate fino ad allora. Tutte fatte con la controfigura, e si vedeva. Come in «Sangue e arena» (1941) di Rouben Mamoulian. Nei campi ravvicinati e nei primi piani vediamo il torero Tyrone Power interagire con un toro fuoricampo, oppure, se parzialmente inquadrato, finto o magari narcotizzato. A stacco, nei campi larghi, tutto diventava vero, ma il torero non era più l’attore. Fino a quel momento non c’era stato niente che portasse torero e toro in primissimo piano. Non in primo, in primissimo piano. Sì. Il mio film ruppe quella tradizione, stupì anche per questo tipo di riprese. Era un modo completamente nuovo di mostrare la corrida sullo schermo. Realistico, vero. Non retorico, né falso. Quel po’ di retorica che c’era apparteneva alla vita di tutti i toreri. La paura prima di scendere nell’arena, essere corteggiato da una bella donna. Questi erano i capisaldi della vita di un matador de toros. È curioso il rapporto tra il torero nella corrida e l’attrazione erotica che esercita sulle spettatrici. È il fatto di affrontare il rischio, anche se in definitiva è sempre il toro a rimetterci. Ma ogni tanto è il torero a lasciarci la pelle, come racconto nel film. Pensa che a Luis Miguel Dominguín il toro una volta aprì completamente la borsa dello scroto. Lui si resse i due testicoli con una mano, e con l’altra ammazzò il toro.

Un torero con le palle, è il caso di dirlo. Poi gli salvarono tutto, rimisero ogni cosa al suo posto. Il rischio contiene un’attrazione di tipo erotico, violenza, carnalità. Mi piacerebbe che la gente rivedesse questi film un po’ particolari quando avrà questo libro tra le mani. Come reagiva il pubblico quando andavi nelle arene? Si accorgeva che stavate girando un film? Erano abituati a vedere fotografi, macchine da presa in giro. E poi erano troppo interessati ai tori, per potersi guardare intorno. Qualcuno definisce la corrida uno sport. Ma me sbaglia, la corrida è una tragedia, finisce sempre con la morte del toro. Ho tenuto presente questo concetto tutte le volte che l’ho mostrata, non volevo che sembrasse uno sport. Volevo farne capire l’essenza. Non è quella di un gioco, è quella di un combattimento. Tra tante uccisioni di tori alle quali hai assistito in quel periodo, ce n’è una che ti ha colpito particolarmente, o apparivano tutte uguali? Il toro deve essere colpito dalla spada del matador nell’incontro di due vertebre del morrillo, il collo del toro, e la congiuntura tra le spalle. È il punto in cui prima del matador interviene il picador con la pica e prepara il toro. Il picador mette l’asta nel morrillo del toro per fargli abbassare la testa, poiché il toro tende a tenerla sempre alta. A quel punto il matador affronta il toro, restano solo loro due. Tutti gli altri, i picadores, gli altri toreri, sono attorno all’arena, pronti a intervenire se ce n’è bisogno, se il toro prende il sopravvento. È un combattimento, duro e molto pericoloso. Con il passare degli anni, si sono modificati tanti aspetti, anche le caratteristiche della razza del toro, l’hanno fatto diventare più piccolo, meno monumentale. Guarda che i tori erano veramente dei monumenti. Quando dico che è un mondo interessante, qualcuno mi dà del delinquente, quelli che sostengono che la corrida va eliminata. Io dico solo che fa parte di una cultura secolare. Anche nel mondo romano esisteva la lotta tra l’uomo e il toro.

Mi pare di capire che i tori muoiano sempre nello stesso modo. Più o meno sì. Il matador gli tronca il midollo e la vita del toro finisce di colpo, come si vede nel film. Dopo, il corpo del toro viene trascinato fuori dall’arena da una pariglia di muli e portato nel retro, dove c’è la macelleria, perché è rarissimo che un toro entrato nell’arena ne esca vivo. Pensa, tra i proprietari dell’arena c’era la Misericordia, un convento religioso abitato da monache. Erano le monache stesse che dopo la corrida andavano a raccogliere i quarti del toro, che dopo la morte veniva subito scuoiato e squartato. Un’immagine grottesca oltre che drammatica. Alla Feria di Pamplona, quella dove ero andato la prima volta, accorre tantissimo pubblico. Prima che comincino i combattimenti, i tori vengono tenuti in gabbie di legno. Dopodiché si aprono le gabbie e i tori sono liberi di correre per la città. Questa tradizione precede le corride di Pamplona. Sono i cittadini che affrontano il toro. Tutto è regolato, c’è l’intervento di polizia e militari per evitare che i tori finiscano nelle case. C’è un percorso in cui il toro corre libero e la gente gli si butta davanti, spesso finisce male. Ci sono molte vittime. Chissà se Orson Welles ha mai visto il tuo film. Sì, l’ha visto, come no. Anche se non ne parlai mai direttamente con lui. Dopo la Spagna, ci incontrammo a Parigi. Io avevo un appuntamento con Peter O’Toole, al quale volevo offrire il ruolo di protagonista in C’era una volta (1967). Lui alloggiava all’Hotel Lancaster, dove all’ultimo piano c’era un appartamento eternamente riservato a Marlene Dietrich, e lì andammo anch’io e Giancarla. C’era un locale notturno che allora andava molto di moda. Attraverso il portiere del Lancaster, Peter O’Toole mi aveva dato appuntamento lì. Ma Orson me ne combinò una delle sue. Fece in modo che non riuscissi a parlare con Peter, che non affrontassi con lui una certa questione di date che lo avrebbero in qualche modo ostacolato nell’accettare il ruolo.

Ma cosa c’entrava Orson Welles, voleva anche lui Peter O’Toole per un suo film? No. Così, per capriccio. Te l’ho detto, aveva di quelle gelosie che talvolta abbiamo noi registi. Per trattenere Peter O’Toole e impedirgli di raggiungermi, gli fece bere qualunque cosa. Io intanto aspettavo Peter O’Toole, che non arrivava mai. Dopo un’ora e mezza vedo Orson che parla con Giancarla, gli dico: «Ma che succede, dov’è Peter?». Era in un angolo, ubriaco fradicio. Non era più in grado di chiacchierare, né di decidere alcunché. Ci fu anche una specie di rissa e Peter O’Toole, stordito dal vino, fece a pugni. Lo ritrovai poco dopo a terra nel cesso. Chissà perché mi sono rimaste in testa le sue calze verdi, come in genere le portavano gli irlandesi. Orson rideva come un matto. E intanto conversava con Giancarla. Che si dicevano? Non ne ho idea. Tu la conoscevi. Lei non si perdeva d’animo di fronte a nessuno. Anche se oltre all’italiano conosceva bene solo il francese, riusciva a parlare con chiunque in qualunque lingua. Mentre giravo Il momento della verità venne a trovarmi in Spagna. E rimase un bel po’, perché lì abitava la sua amica Lucia Bosè. Frequentava la casa di Lucia, dove c’era un felice via vai di tanti personaggi della Spagna di allora, non solo appartenenti al mondo della tauromachia. Un giorno Dominguín fece scendere Giancarla in una piccola arena per scontrarsi con una vacchilla. E lei scese nell’arena senza battere ciglio e si mise davanti al toro. Non tentasti d’impedirglielo? Non le dicesti nulla? E che le dovevo dire? Quella era una donna speciale. Aveva deciso di fare la torera e lo fece. Eh be’, era il suo modo di fare, non si tirava indietro davanti a niente. Poi Domingo Dominguín e Luis Miguel scesero nell’arena per convincerla a lasciar perdere. Quando giravi e sapevi che c’era lei in un angolo del set che ti guardava…

Certo, mi faceva piacere. Ma non è che venisse spesso sui miei set. In Colombia, per esempio, quando andai per Cronaca di una morte annunciata, non è venuta. Ci sentivamo per telefono. Be’, ma il nostro lavoro è fatto così. Partenze, assenze, ritorni…

Una depressione intelligente

Era intraprendente Giancarla. Fu tra i primi a portare il Prêt-àporter l’ha fatto arrivare lei da Parigi a Roma. La prima volta nel ’77, con l’inaugurazione di un negozio che si chiamava proprio ’77 Piazza di Spagna. Era piccolissimo, non c’entrava nessuno, tre persone al massimo, e naturalmente era sempre pieno. L’inaugurazione di quel negozietto, con Visconti seduto per terra, dietro la vetrina, fu molto particolare. C’erano anche Romolo Valli, Marcello Mastroianni, Pietrino Notarianni. C’era Mario Ceroli, che aveva fatto un manichino di legno che Giancarla aveva messo in vetrina, bellissimo. Con Mario eravamo molto amici perché lui e la sua fidanzata di allora, Daria Nicolodi (poi lei diventerà moglie di Dario Argento), litigavano sempre, ma di brutto, e spesso venivano a litigare a casa nostra. Poi lei si buttava sul divano e dormiva. Daria mi ha scritto una lettera bellissima per Giancarla. E una signora, che io non conosco, da Avellino mi ha scritto un’altra lettera di una bellezza… in tanti hanno voluto ricordarla, anche quelli che io non conoscevo. E il negozietto poi che vita ha avuto? Ha avuto un grandissimo successo, è diventato un punto di riferimento per un certo tipo di personalità, per la moda del prêt-à-porter, perché Giancarla non è che fosse una stilista, era un’imprenditrice. Questo negozio andava bene, poi lei ne ha aperto anche un altro, il ’78. Ha fatto diventare grande Gigi Giuliani, che in seguito è andato con Armani. Era un vulcano di iniziative. Era amica di Sonia Rykiel e conosceva Mary Quant, il culmine della moda allora, la celebre inventrice della minigonna. Io, quando potevo, quando avevo tempo, l’accompagnavo nei suoi giri per gli acquisti dei prodotti che poi vendeva nei suoi negozi. Lei si fermava molto a Parigi, ma anche a Londra. Erano occasioni, devo dire, molto simpatiche

e divertenti anche per me, perché conoscevo tanta gente di una attività così interessante. Li conoscevo da vicino, nella loro attività creativa anche. Giancarla, allora, era molto amica di Emmanuelle Khanh, una celebre stilista vietnamita. E si volevano bene. Perché era difficile non volere bene a Giancarla. La verità è che lei piaceva a tutti quelli che la incontravano perché era acuta, brillante e generosa. Aveva sempre la battuta pronta, in poche parole sapeva inquadrare chiunque, ma senza cattiveria. Insomma, lei mi seguiva quando poteva e io la seguivo quando potevo. Ma abbiamo instaurato un rapporto, diciamo, di rispetto reciproco. Forse rispetto è una parola un po’ troppo seria, non so come dire. Ti accade di sognarla? No, mi capita di vederla. E purtroppo l’ultima immagine è una cosa dolorosissima. Non riesco a togliermela di mente. Ce l’ho sempre davanti agli occhi. Quando ti capita una cosa di questo genere vuoi morire. Per fortuna i medici mi hanno spiegato che molto probabilmente lei non ha realizzato. Ciò spiegherebbe il perché non abbia urlato mentre veniva avvolta dal fuoco. Mi manca molto. Per l’intelligenza, l’humour, il modo molto personale che aveva di vivere tutto. Quando vuoi bene a una persona e l’hai amata nella maniera più libera, anche da un punto di vista profondamente intellettuale… Eravamo complementari. Non mi sarei mai aspettato una tragedia del genere. Mai. Eppure, se pensi al modo di vivere di Giancarla, questa fine così eroica ed epica, così inconcepibile e senza mezzi termini, sembra incredibilmente congeniale allo stile di tutta la sua vita. Se dovessi fare un film su Giancarla, quale sarebbe la scena madre? Giancarla era una continua scena madre, perché quando lei entrava in una discussione diventava subito la padrona della situazione. Mi mancano persino le nostre discussioni. Avevamo l’abitudine di discutere su tutto, e finivamo spesso col bisticciare, anche alzando la voce. Una di quelle volte avevamo a cena Gabriel García Márquez. Qualcuno tentò di placare la nostra contesa, ma Gabo gli sconsigliò di farlo:

«Sono anni che vengo in questa casa e assisto sempre alla stessa scenata. E mi sono convinto che il vero amore è questo». Grande Márquez. Giancarla era piena di tatto, di attenzioni. Non entrava mai nel merito di ciò che io dovevo fare. Aspettava che il mio film fosse finito e poi lo vedeva come uno spettatore qualsiasi, anzi senza confondersi con gli altri. Credo sia successo per Lucky Luciano, ma anche per Cadaveri eccellenti. Durante la proiezione alla Fono Roma la cercavo tra il pubblico dei presenti e non la trovavo. Si era messa dietro la consolle nella saletta di registrazione, protetta dalla parete di vetro. Non voleva imbarazzare, con la sua presenza, i giudizi degli altri, ma al tempo stesso voleva esserne testimone. Aveva paura che a qualcuno non piacesse il film, che magari lo dicesse apertamente, il che l’avrebbe fatta soffrire, perché a lei piacevano i miei film. E allora si nascondeva. Questo è un ricordo che mi riempie di tenerezza, di tristezza, di rispetto. Sei sempre stato elegantissimo. Giancarla ti consigliava mai come vestirti? Non era il suo stile. Non era di quelle mogli che dicono: «Mettiti questa cravatta, perché non ti sei messo quella giacca». No. Per quanto io possa sforzarmi di raccontarlo, nessuno potrà mai capire che cosa è stata mia moglie per me. Nella vita culturale e nella vita creativa che ho vissuto per fare i miei film. È stata sempre una presenza silenziosa, taciturna, ma piena di intelligenza. Per darti un’idea, Giancarla non ha mai letto un solo copione di uno dei miei film. Mai. Ti ha mai proposto un film da fare? Ti ha mai detto: «Perché non fai questo?». Anche come battuta, intendo… No, mai. Però quando io le confidai che volevo fare un film sulla storia di Raul Gardini, lei m’incoraggiò: «È una buona idea» mi disse «perché puoi raccontare tanti misteri del nostro paese». Ancora oggi sono convinto che avesse ragione. Perché quella è una storia rimasta sospesa, secondo me. Cioè, il bandolo della matassa non è mai venuto fuori. Come non è

venuto fuori il perché abbiano trovato la pistola sul letto parecchio lontana da lui. Insomma ci sono interrogativi inquietanti, ai quali non è stata ancora data una risposta. Giancarla si interessava moltissimo di politica e conosceva tanti politici. Sì, era molto attenta alle vicende della politica e della finanza. Le piaceva seguire moltissimo. Ma in buona sostanza il rapporto con la politica di Giancarla era fondamentalmente quello con Antonello Trombadori. Quello era il rapporto più vivace. Io, pur non essendo iscritto al Psi, ero socialista. Con Giancarla andammo a quel convegno che il Psi tenne a Rimini. Ma lei conosceva bene Craxi, lo conosceva benissimo. E con Craxi parlava, si parlavano. Periodi che per riviverli oggi, anche solamente nel ricordo, non è facile. Ricordi l’ultima volta che Giancarla ha visto un tuo film in televisione? È accaduto neanche tanto tempo fa. Credo che abbia visto con me Salvatore Giuliano. Eh, quello era un film che lei amava moltissimo. Anche durante gli anni della sua depressione, spesso mi chiamava per un mio film alla tv: «Vieni, fanno Il caso Mattei in televisione!». Lei ci scherzava sulla sua malattia, lo diceva ai medici: «La mia è una depressione intelligente».

Un altro paese

Prima ancora che mi venissero nuove idee, appena terminato Il momento della verità, mi chiamò Ponti e mi offrì di fare un film con la Loren. Un’idea venuta a lui e a Tonino Guerra, che lavorava spesso con Ponti. Tonino mi disse: «Dai, facciamo una favola con Sofia». Pensava a una favola giapponese, ma la ricordo vagamente, parlava di un principe costretto a mangiare sette gnocchi, dopodiché, grazie a questa sorta di incantesimo, avrebbe ceduto alla bellezza di una contadina. Gli dissi: «Ma la Loren è napoletana, ed è napoletano pure il più bel libro di fiabe che sia mai stato scritto, Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile, il più grande favolista del Seicento. Che ce ne importa della favola di un altro paese?». Chiamai Patroni Griffi e La Capria e con Tonino scrivemmo C’era una volta. Il film fu fatto con Sofia Loren, Omar Sharif e Dolores del Rio, che conoscevo e che volli come madre del principe. Sofia in quel film è di una bellezza incredibile. Quelli che da me si aspettavano un altro tipo di film dicevano: «Ma che fa Rosi? Si mette a raccontare favole?». Col tempo il film è stato rivalutato, io dico che ha una sua ragione. Facciamo anche qui come con gli altri film. Puoi racchiudere in poche parole la trama? È una favola, in cui il principe Rodrigo è costretto dalla madre a sposare una tra le sette principesse candidate. Ma lui non ne ha nessuna voglia, ama andare a cavallo, scendere nelle cucine e avvicinarsi alle sguattere. Durante una di queste scorribande scopre Isabella, cioè la Loren. Se ne innamora, e con l’aiuto di una strega organizza una gara che la sua prescelta possa vincere. Isabella e le principesse si sfidano a chi lava i piatti più in fretta, a chi ne rompe meno. Ma qualcuno manovra per fare in modo che Isabella esca sconfitta. I suoi piatti escono dall’acqua sporca già rotti. Il cuoco del

palazzo li aveva segnati con un diamante perché non sopportava l’idea che il principe sposasse una povera. Alla fine si scopre l’inghippo e c’è il lieto fine. Proprio come in tutte le favole. Forse è il salto stilistico più evidente di tutta la tua filmografia. Sicuramente. Ma era una favola raccontata con il gusto del reale. Le sette principesse in gara, i santi che volano, san Giuseppe da Copertino. Ci sono stato nella chiesa di Copertino dove san Giuseppe levitava, si sollevava qualche centimetro. Io, invece, l’ho fatto volare. Avrei voluto che il mio san Giuseppe fosse Totò, e che Mastroianni fosse il principe al quale le principesse non piacevano per niente, uno che andava nelle cucine per avvicinare le sguattere. Marcello mi aspettò un anno. Poi il film tardava a partire perché Sofia era in attesa del figlio. Marcello purtroppo aveva altri impegni, doveva fare al Sistina uno spettacolo su Rodolfo Valentino, Ciao Rudy, non ha più potuto aspettare. Prendemmo Omar Sharif, che aveva appena fatto Il dottor Zivago (1965), bellissimo, era al massimo del successo. Come ti ho detto, quando cominciai a temere che Marcello non l’avrebbe fatto, pensai anche a Peter O’Toole. Altre ipotesi non ce ne furono. E con Totò che doveva essere san Giuseppe come andò a finire? Carlo Ponti voleva un film che andasse bene anche per l’America. E quello è stato forse il vero limite di C’era una volta. Mi disse: «Totò in America non sanno nemmeno chi è». Così restò solo una mia idea, di cui a Totò non parlai mai. Prendemmo un attore inglese, Leslie French, che aveva fatto Chevalley ne Il Gattopardo. Ma oggi mi chiedo: e invece per vedere lui gli americani facevano la fila? Però l’idea di Totò era veramente bella. Lo vedevo come una specie di mago, di quelli che cambiano aspetto. Volevo che diventasse un uccello, perdeva la formula per tornare uomo e restava un uccello. Ricordo che con Tonino, Patroni Griffi e La Capria ci siamo divertiti a

scriverlo. Molte cose si puntualizzarono quando scelsi quell’abbazia, la Certosa di Padula, meravigliosa. Aveva avuto dodici monaci aristocratici, ognuno con un appartamento. Una parte della Certosa era un salone enorme. C’erano poi le scalette che scendevano in un giardinetto, dove i monaci passeggiavano. Erano tutti nobili, sai? Dove l’hai girato? Tutto nell’Italia meridionale. Le scene con san Giuseppe da Copertino le girammo nella zona del Tavoliere delle Puglie. Il palazzo del principe era proprio la Certosa di Padula, che conoscevo già. Meravigliosa, credimi, con le sue cantine, il torchio per l’uva ricavato da un albero immenso. La favola in quel film c’è, ma è stata apprezzata solo da una parte del pubblico. Forse la più intellettuale. In America meno, ma ultimamente l’hanno fatto circolare e ha avuto un certo successo. La musica di Piero Piccioni è bellissima. Una volta mi parlasti di una scena, mai girata, in cui tutti dovevano pensare a un miracolo. Scambiavano la sguattera, interpretata dalla Loren, per la Madonna. Quando il principe se ne innamora e la fa partecipare alla gara delle sette principesse, bisogna vestire la sguattera e non ci sono i vestiti, mentre quelli delle principesse sono bellissimi. Ora tu immagina Totò che vola e spoglia la statua della Madonna nella cappella del villaggio, dopodiché veste Sofia con quegli abiti. Si sentono improvvisamente le preghiere della gente che viene dal villaggio per onorare la Madonna in chiesa. La sguattera che sta vestendosi non fa in tempo a scappare dall’altare. Così la gente entra con le candele accese che fanno lacrimare la Madonna. Urlano tutti: «Miracolo… Miracolo… La Madonna piange!». Ponti disse che in America non avrebbero capito. Vedo che Ponti interveniva duramente sul lavoro, e trovo discutibile la sua opinione su Totò. Certo che interveniva, in nome anche della combinazione fatta con gli americani, credo con la Metro Goldwyn Mayer. Ci teneva a difendere tutte le ragioni per cui, a suo avviso, il

film in America poteva avere successo. E secondo lui le favole, come le intendiamo noi, in America non le capiscono. Tonino conosceva Ponti molto meglio di me. La sceneggiatura subì molte modifiche su quegli episodi che davano al film un sapore più fiabesco. In particolare quella scena con Totò. Ma dunque la scena era già in sceneggiatura? No, non ci è mai entrata. Ti posso dire che a Ponti piaceva moltissimo l’idea del santo che vola, ma restò piuttosto deluso quando vide che avevo usato un’aureola di stagno, come i pastori del presepe. Diceva che l’aureola bisognava farla d’oro. Me lo disse quando lo vide in proiezione. Insomma, il produttore rompeva un po’, mi pare di capire. È il produttore col quale ho discusso di più, con gli altri non mi è mai successo, erano sempre d’accordo con me. Con questa storia che gli americani non avrebbero capito, ha tolto qualcosa al film. Non venne male, ma poteva essere molto meglio. Omar Sharif, che è un ottimo attore, aveva quell’aria da principe arabo che si addiceva molto al clima fiabesco del film. Lo feci doppiare da Peppino Rinaldi. Poi Sofia era giovane e bellissima. Il film, ripeto, c’è. E c’è gente che lo ama molto, devo dire. L’avete girato in inglese o in lingua mista? In lingua mista. Sofia parlava in napoletano, il cuoco Monzù, impersonato dal grande Georges Wilson, parlava in francese. Poi c’era Carlo Pisacane, al quale ho fatto vestire i panni di una strega. Era bravissimo e molto divertente. Le principesse erano Marina Malfatti, Anna Nogaro, Rita Forzano. Giacomo Furia faceva un monaco. Pensa, Ponti voleva far venire da Hollywood anche un esperto di trucchi per la scena dei santi che volano. Gli dissi: «Va bene, fai venire». Ma non venivano mai, allora mi misi d’accordo con Jone Tuzi, l’organizzatrice: «Prendiamo la più grande delle gru che ci sono in Italia». Dovettero scortarla, era grossa da far paura. Immensa.

Quelli che si vedono nel totale, sospesi alla gru, sono attori o stuntman? Stuntman, tranne che nei piani ravvicinati di san Giuseppe da Copertino, lì c’è Leslie French. Non ebbe paura, era tutto imbracato, in più accanto avevamo costruito una sorta di paniere sospeso in aria a bordo del quale, stavamo io e Pasqualino con la macchina da presa. Anzi, una volta rischiammo di sfiorare uno dei fumaioli di una masseria, mentre volavamo insieme ai santi. E comunque l’effetto venne bene. Era bellissimo perché si capiva l’assenza del trucco. Non c’erano gli effetti speciali di quel tempo, il Blue Screen, il trasparente, quelle cose lì… La verità è che Ponti voleva fare un film all’americana, d’amore tra il principe e la sguattera. Ecco, questa è la verità. Cenerentola voleva fare. Io gli ho sconvolto i piani, praticamente. Anche con la complicità di Tonino, che era molto ascoltato da Ponti, perché avevano fatto tutti i film con la Loren e Mastroianni. Una coppia fissa. Ma in quel caso il loro rapporto funzionò poco, perché Tonino era più in linea con me. È il tuo primo film non montato da Mario Serandrei. Del montaggio si occupò Jolanda Benvenuti, una creatura di Ponti. Non si trattava di un montaggio che avesse bisogno di lavoro particolare. Andò benissimo una montatrice tradizionale. Non avevi mai lavorato con Sofia, vi conoscevate già? Le vostre napoletanità andarono d’accordo? La conoscevo, sì. Vedi, lei è una persona rispettosissima sul lavoro. Non c’era nessun motivo per scontrarci. Siamo andati sempre d’accordissimo. A Sofia piaceva quel lavoro. Ed era di una bellezza che ti toglieva il respiro. Lei stessa dice che non è mai stata così bella. Poi quello era il primo lavoro che Pasqualino De Santis firmava da solo. Dalla sua fotografia e dalla bellezza di Sofia venne fuori un risultato splendido.

Ho visto che durante le riprese di «C’era una volta» tu hai la barba. Sì, mi feci crescere la barba. L’unica volta nella mia vita. «Le mani sulla città», «Il momento della verità» e «C’era una volta..» sono i primi film che non hai fatto con Cristaldi. Immagino però che con Pietro Notarianni abbiate mantenuto i vostri rapporti? Pietro si è allontanato solo durante Il Gattopardo, quando ti ho detto che sparì dalla circolazione. Dunque, al tempo di Salvatore Giuliano era ancora con Cristaldi. Poi andò con Goffredo Lombardo. Credo sia stato Luchino a portarlo alla Titanus, quando fece Rocco e i suoi fratelli. Quando penso che in meno di ventiquattro mesi due produttori italiani realizzano «Rocco e i suoi fratelli», «Salvatore Giuliano» e «Il Gattopardo» mi vengono i brividi. Mi sembra la cinematografia di un altro paese. Peppuccio, era davvero un altro paese, e non solo per il cinematografo. Tu lo sapevi che, in principio, «Il Gattopardo» non doveva farlo Visconti? Lo sapevano tutti che voleva farlo Ettore Giannini. Poi dovette rinunciare, però si fece pagare naturalmente. Goffredo Lombardo mi raccontò che Giannini aveva scritto un bellissimo copione, ma era un film storico, disse, sull’unità d’Italia. I personaggi e la storia d’amore non erano in primo piano. Ma Goffredo sapeva che Luchino era interessato, allora convocò Giannini e gli parlò con la sua proverbiale schiettezza: «Lasciamo perdere». Giannini ne fu addoloratissimo. Tra l’altro, con Luchino c’era stata un’antica frizione. La leggenda vuole che proprio a causa del suo «Gattopardo» mancato Giannini decise di chiudere col cinema.

Non è una leggenda. Infatti non fece più film. Ettore però era bravo. Da allora fece solo il direttore di doppiaggio. Una storia che mi ha sempre incuriosito. Il cinema è pieno di storie come questa. Torniamo a «C’era una volta». Mi avevi parlato di un’anteprima al San Carlo di Napoli. Venne tantissima gente. Alcuni li avevo invitati io, altri Ponti. Ricordo il mio dentista, il famoso Rusca, uomo formidabile. Venne con la sua compagna. Dopo la proiezione mi disse una frase che apprezzai molto: «Non sapevo che avessi tanto da dire sulla vita di tutti noi». C’era mio fratello con la famiglia, tanti amici. Ovviamente c’era la Loren, c’era Omar Sharif, Jone Tuzi, l’intero staff di produzione e un mare di giornalisti. Poi parte la proiezione. Tutti pronti, nei palchi, in platea. Si spensero le luci, comincia il film e parte dal secondo tempo. Cacciai un urlo: «Fermi!!!». Anche Ponti si agitò: «Ma com’è possibile una cosa del genere?». Si erano sbagliati. Avresti dovuto fare come Visconti a Venezia, quando ti aveva mandato in cabina a sorvegliare che i proiezionisti non scambiassero i rulli de «La terra trema». Luchino aveva sempre ragione, questa è la verità! A ogni modo feci interrompere la proiezione, che ricominciò da capo. Il film piacque molto. Ricordo la coda lunghissima che c’era all’Etoile di Roma, al vecchio Corso. I critici erano spiazzati, stupiti dal fatto che io, dopo i film precedenti, avessi realizzato una favola. Non avevano capito che quella fiaba era in realtà una descrizione della vita dell’Italia meridionale del tempo. Il mio principe doveva ambire a diventare principe del Regno di Napoli. Per questo avevo portato il film verso la sua vena popolare, non verso la storia d’amore, di sicuro non verso il film all’americana che Ponti avrebbe voluto.

Le fotografie di mio padre

Una pausa lunga tre anni. È stato un periodo difficile. Di grandi gioie e di grandi dolori. Anni turbolenti. Due progetti di film falliti in partenza. Poco prima di C’era una volta era nata la mia seconda figlia, Carolina. Poco tempo dopo ci fu l’incidente con Francesca. Almeno un anno deve essere passato senza fare niente, tra l’ospedale, le cure, il dolore. Venivo da un periodo di sconvolgimenti, non passavo il tempo a pensare al film da fare. Poi mi apparve Uomini contro. Avevo la passione per questo libro, Un anno sull’Altipiano, un vero diario sulla Grande Guerra. Andai dall’autore, Emilio Lussu, un tipo di pochissime parole e grandi valori. Per il suo libro, il cinema aveva già fatto delle proposte. Soprattutto gliene aveva fatte Stanley Kubrick, ma non andarono avanti. Io ero deciso a uscire dalle mie tragedie, e accettai ogni sfida che il film proponeva, un film che nessuno voleva produrre. Cioè l’avevi proposto a qualcuno che non aveva voluto farlo? A Dino De Laurentiis, per esempio, che rifiutò perché il progetto non gli sembrava internazionale. Poi andai all’Ente cinematografico pubblico, l’Istituto Luce, che all’epoca si chiamava Italnoleggio. Ma sapevano che avrebbero incontrato delle difficoltà. Io, prima di tutto, mi rivolsi a loro per avere un appoggio. Prevedevo le critiche che il film avrebbe provocato, era molto duro, accusava ufficiali superiori, mostrava soldati esposti a una carneficina continua. Era un’opera che smontava tutta la visione retorica sulla prima guerra mondiale, combattuta nelle trincee del Carso. In nessun libro di scuola si trovava il racconto di quelle atrocità e di quelle assurdità. Una guerra terribile. Quando l’Istituto Luce si chiamò fuori, non andai dai produttori miei amici, perché Luciano Perugia mi disse che pure lui s’era appassionato al libro. Luciano era mio amico ed era un produttore, dunque… Infatti comprò i diritti

del libro e io coprodussi il film. Subito indirizzai il lavoro verso la documentazione della crudeltà di quella guerra, del modo di trattare i contadini, soprattutto del Sud, sbattuti nelle trincee senza sapere nemmeno perché combattessero e contro chi. Montai io interamente il film e ricevetti tanta solidarietà. Fellini lo considerava il mio film migliore, a parte Salvatore Giuliano e Le mani sulla città. Lo trovo un bel riconoscimento. Il film è indubbiamente duro. Ma è quella guerra che fu dura, durissima. Gli uomini erano solo carne da macello e io questo volevo mostrarlo. Fu Lussu a rivelarti di aver rifiutato i diritti del suo libro a Kubrick? Me lo disse la moglie. In fondo, qualcosa di quel libro c’è in Orizzonti di gloria, l’opera sulla Grande Guerra che poi Kubrick aveva realizzato nel ’57. Ma lui aveva Kirk Douglas, una star hollywoodiana che dava al film un’atmosfera che a me non convinceva. Quando parlai a Lussu del mio progetto si mostrò subito incuriosito e disponibile. Forse gli era piaciuto il modo in cui avevo trattato la vicenda di Salvatore Giuliano. Se ci pensi, anche ne La Grande Guerra di Monicelli, un’opera bellissima, si avvertono un po’ le atmosfere del libro di Lussu, che in realtà era un diario. Lui ne aveva scritto in maniera talmente vera, in prima persona, aveva partecipato alla vita di trincea in mezzo ai soldati. Tieni presente che allora gli ufficiali superiori, dal colonnello in poi, in trincea non ci andavano mai. Se stavi in trincea, vuol dire che al massimo eri un maggiore. Mi sono ispirato molto al libro, ma nel testo c’è più ironia, io invece ho reso tutto molto più drammatico. Lussu era stato un ufficiale della brigata Sassari, era partito volontario. Nel contatto con la vita in trincea, con i soldati, aveva maturato la sua totale opposizione alla guerra. Mi disse che il film era diverso dal suo diario e che io il libro l’avevo scomposto. Tanto che lui non ritrovava la sua opera. Fu suo figlio a dirgli: «Papà, sta’ tranquillo, il film è un capolavoro». Tuo padre è stato in guerra, la Grande Guerra. Scattò fotografie anche di quel periodo.

Tante. Ti ho detto quanto amasse fotografare. Quando andò in guerra, fu assegnato al Genio Militare, lui aveva fatto l’istituto tecnico e il Genio era il corpo di chi aveva studi tecnici alle spalle. Ho conservato una sua fotografia: è il documento di una delle torture più crudeli che siano state inventate durante quel conflitto terribile nei confronti dei soldati italiani accusati di diserzione o di altri comportamenti antipatriottici. Legavano il prigioniero con delle manette agli alberelli che si trovavano tra la trincea italiana e quella austriaca. Era come esporlo a un giudizio divino. Perché poteva essere colpito subito o dopo aver visto morire chi gli stava accanto, così come, scaduto il tempo di punizione, poteva ritrovarsi miracolosamente sopravvissuto. Le trincee erano vicinissime, l’una di fronte all’altra. Questa immagine mi ha ispirato una delle scene più drammatiche di Uomini contro, si vedono soldati legati tra una trincea e l’altra. Quando te le aveva fatte vedere queste fotografie tuo padre? Direi sempre. Le raccoglieva tutte nei suoi album. Quindi le ho viste già quando ero ragazzo. Sai, il ricordo di quella guerra era talmente vivo in quelli che l’avevano combattuta. In casa nostra, casa di mia nonna, avevano fatto la guerra pure zio Pasqualino e zio Alberto, il marito di zia Margherita, che era capitano dei bersaglieri e che fu ferito da una granata che gli aveva portato via mezza spalla. Io mi trovavo tra i ricordi di queste esperienze terribili. Sentivo parlare di trincee, di attesa degli attacchi nemici che si anticipavano contrattaccando. Mi raccontavano che spesso si finiva con dei corpo a corpo. Mi dissero di un generale italiano che comandò una successione di cariche. Le trincee italiana e austriaca erano distanti solo poche decine di metri. Ogni attacco, ogni assalto finiva con una decimazione di questi poveri cristi, tutti quanti colpiti e morti sul campo. Tra le trincee c’era un piccolo avvallamento, e i cadaveri dei soldati mandati all’attacco per conquistare la trincea nemica diventarono tanti da colmarlo tutto. Il generale comandò l’ultimo assalto facendo scavalcare i corpi ammassati. Soldati vivi che passavano su soldati morti. È la conferma della follia, la follia del potere, la follia di un’idea

assurda di patriottismo. Per questo volli realizzare il film, per dimostrare che in quella guerra atroce si era perso il valore dell’uomo. Di certo, quelle foto di mio padre, i ricordi dei miei zii, hanno pesato moltissimo nella decisione di fare Uomini contro che è il film più rigoroso, il più duro che io abbia realizzato. Ma in che altro modo si può raccontare un assalto alla baionetta quando dall’altra parte c’è una mitragliatrice ben collocata e protetta? Il film provocò, come era ovvio e come mi aspettavo, reazioni anche contrarie. Ci fu chi lo amò moltissimo e ne apprezzò il realismo, altri ebbero da ridire. Io volevo mostrare il disorientamento dei soldati, quasi tutti contadini che non riuscivano a identificarsi nell’ideale della guerra: per loro era distante e astratto. Percepivano la battaglia e quegli orrori quasi come una disgrazia, una calamità naturale. Va ricordato che quella era una guerra di posizione, cioè si combatteva tra una trincea e l’altra. Molte volte queste trincee contrapposte erano lontane non più di un centinaio di metri e i soldati austriaci e italiani si incontravano e si scambiavano sigarette, cioccolata. Poi, magari dopo qualche ora, uscivano fuori dalle rispettive trincee per esporsi al fuoco nemico, senza nessuna protezione. Uscivano solo per occupare del terreno, per occupare spazio. Ma allo scoperto, in una pianura circondata da montagne da cui proveniva altro fuoco austriaco, con le mitragliatrici che spazzavano il campo di battaglia. Ogni ondata di soldati mandata all’attacco finiva con migliaia di morti sul terreno. Raccontare e far vedere quest’orrore, mi sembrò la strada più giusta per raccontare la guerra. Mostrai pure i reticolati che proteggevano la linea della trincea, e che venivano tagliati con delle pinze. Se i soldati andavano a corpo scoperto, la morte era praticamente sicura. Allora qualcuno inventò le corazze Farina, che io nel film ho chiamato Fasina. I soldati si coprivano il busto con queste grottesche corazze, pesantissime, che non li difendevano, né li salvavano, perché i colpi delle mitragliatrici le bucavano ugualmente. Ma la retorica di quei generali ricorreva addirittura al ruolo delle corazze nell’antica Roma, una retorica spazzata via in un attimo. Gli ammutinamenti nascevano da questo, dal rifiuto di piegarsi a disposizioni folli.

Gli ufficiali superiori stavano con i manuali in mano e ordinavano le fucilazioni per punire gli ammutinamenti o addirittura le automutilazioni, a cui i soldati ricorrevano per non tornare a combattere. La follia che ho raccontato corrisponde alla verità assoluta, nel film non c’è niente di inventato. In una scena, il generale Leone vuole riconquistare la posizione perduta, la montagna Monte Fior, e ha bisogno di artiglieria, che però manca, manda allora all’attacco la fanteria contro un nemico meglio armato, in posizione di vantaggio e con mitragliatrici pesanti. La figura del generale, che Alain Cuny interpretò splendidamente, riuniva in sé molti aspetti. Non solo quello del folle che manda a morire i propri soldati in modo irresponsabile, ma anche quello di chi viene sottoposto al fanatismo della disciplina, del comando, dell’ordine. Il personaggio aveva pure una sua grandezza da classe borghese, aristocratica. Alcuni anni fa ricordo che il primo ministro francese, Lionel Jospin, riabilitò tanti soldati ammutinati o disertori. Aveva capito che spesso si erano soltanto opposti a imposizioni ritenute mostruose. Ecco perché è Uomini contro. Se vedi il film, capisci il titolo. Qui per la prima volta lavori con Gian Maria Volonté. Come lo incontrasti? Siamo all’alba di un sodalizio importante per la storia del cinema italiano. Gian Maria era quel grande attore che poi si è rivelato in tanti film successivi, anche miei. Aveva già fatto Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970). E mi sembrava una credenziale più che sufficiente per un attore che con me non aveva lavorato mai. Gli parlai del lavoro seduti al tavolo di una trattoria Mi piacque subito, in seguito con lui ho fatto cinque film. Gian Maria non era un attore facile. Spesso discuteva a lungo. Con lo stesso Petri, col quale aveva lavorato, ebbe scontri notevoli, anche sul set. Con me non accadde. Mai. A me sembrava perfetto per ciò che doveva fare, e lui lo faceva in modo impeccabile. Pur avendo già avuto successo con il film di Petri, Volonté in «Uomini contro» non ha il ruolo di protagonista.

Allora fare dei film con registi affermati, che avevano vinto premi, era una garanzia per l’attore. Oggi chi vive un momento di successo vuole solo fare il protagonista. Accanto a Gian Maria presi Mark Frechette, che avevo visto nel film di Antonioni, Zabriskie Point (1970). Mi sembrò perfetto nei panni del tenente borghese, più liberale che contro. Era bellissimo, elegante, anche molto intelligente. E pensa, era un operaio. Poverino, è morto giovanissimo. Faceva parte di una setta, la Lyman Family. Un giorno partecipò a una rapina in banca, fu arrestato. Morì in carcere in modo strano, mi pare che finì soffocato. Era veramente bellissimo con quegli occhi chiari e i capelli castani. Per il personaggio del generale, avevo adocchiato un attore americano poi divenuto famosissimo, aveva già successo in teatro a New York, si chiamava Al Pacino. Alla fine non lo presi, mi pareva troppo piccolo di statura rispetto al generale per il quale avevo già fatto impegnare Alain Cuny, che invece era alto quasi due metri. Il film doveva raccontare la guerra, non una in particolare. Occorreva un respiro internazionale e un cast che tenesse conto delle provenienze dei finanziamenti. C’erano la Francia, l’Austria, ovviamente l’Italia. La Jugoslavia partecipava con le masse dei soldati e coi territori: montagne, pianura, trincee. Ne abbiamo scavate per centinaia e centinaia di metri. Io e Luciano Perugia volevamo a tutti i costi questo film, abbiamo cercato delle partecipazioni, le abbiamo trovate in una società jugoslava, la Jadran Film. Per questo facemmo il film non sulla pianura di Asiago, ma un po’ più a monte. Rispetto ad Abbazia, dove noi abitavamo, che è sul mare, la montagna sulla quale abbiamo girato il film era a ottocento metri di quota. Ogni mattina dovevamo farli tutti per raggiungere il set, e ogni pomeriggio scendere quei settecento metri per tornare a valle. Quella coproduzione ci consentì di avere l’esercito jugoslavo. Tutte le comparse erano soldati, addestrati a certi movimenti. E avevamo a disposizione masse di soldati che in Italia non avremmo avuto mai. Da noi quella folla di generici e comparse sarebbe costata un’enormità. Anche Gian Maria Volonté lo avevi portato subito dal tuo barbiere e dal tuo sarto?

Gli attori li portavo tutti da Amleto, il mio barbiere. Era pure un modo per calarli nell’atmosfera del film. Con lo stesso scopo, a Gian Maria davo la sceneggiatura man mano che progrediva, non aspettavo che fosse finita. Anche la testa del generale, che nel film è bellissima, l’ha fatta Amleto. Scegliemmo capelli tagliati «alla Umberto», un po’ grigi. Amleto era perfetto, capiva subito dove mettere le mani. Quando andavi dal barbiere con Gian Maria Volonté e dicevi: «Amleto, questo signore deve diventare Enrico Mattei!», lui che diceva? Che doveva dire? Pigliava le forbici e cominciava. Ma guarda che lo facevo con tutti, ti ho già detto di Alain Cuny. Amleto l’ho anche fatto venire in Spagna, quando stavo realizzando Carmen, per il taglio di capelli di Placido Domingo, che non era affatto semplice. Io gli davo le mie idee, lui aggiungeva i suoi consigli. Appena ci mettevamo d’accordo, lui attaccava con pettine e forbici. Credo di avergli affidato anche Lino Ventura, Michele Placido, Charles Vanel. È bellissimo. Vuoi dirmi che non sei mai andato dal barbiere con i tuoi attori? Non dal mio. Attendevo che prendesse servizio il parrucchiere del film. Però quando la produzione non era ancora partita, ma avevo in testa il personaggio, sai cosa facevo? Incontravo l’attore, lo fotografavo e su quelle immagini disegnavo, provavo a cambiargli i capelli, cercavo idee per una cicatrice, per una barba, un neo, gli mettevo gli occhiali o glieli cancellavo. Ma concludiamo con «Uomini contro», film nel quale hai ancora coinvolto Tonino Guerra e Dudù La Capria. Certo. Dopo C’era una volta, Tonino è stato sempre con me in tutti i film. Tranne l’ultimo, La tregua, per il quale però abbiamo parlato a lungo. Se dovessi spiegare con una frase cosa rende speciale il tuo rapporto con Tonino?

Non è facile. Io parlo molto con lo sceneggiatore prima di passare alla scrittura e quando si parla tanto qualcosa resta sempre. Anche Tonino parlava molto. A volte trovi cose preziosissime anche solo in una sua frase o una sua parola. Questa era la particolarità di Tonino Guerra. Certo, in un film in cui c’è dentro la campagna, come Tre fratelli o Cristo si è fermato a Eboli, il suo ruolo si avverte ancora di più. In Uomini contro il suo contributo lo senti nelle chiacchiere dei soldati, nel rapporto che quei contadini hanno con gli ufficiali superiori, quelli che in trincea non ci stanno mai. Tonino era grande come poeta, come scrittore e come amico. Persino il suo funerale mi è sembrato una di quelle scene che ti raccontava incantandoti. Dopo la cerimonia ufficiale a Santarcangelo di Romagna siamo tornati nel giardino della sua casa a Pennabilli. Sono arrivati amici suoi da ogni parte del mondo, specie dalla Russia. Era come una scampagnata. Si parlava, si mangiava intorno al suo feretro appoggiato sotto un albero. Davvero poetico. Prova a raccontare la trama di «Uomini contro» a una ragazza di oggi. Due ufficiali hanno sul mondo punti di vista diversi. Uno è liberale, l’altro invece è socialista. Una dicotomia che fa da filo conduttore al film, che racconta la guerra, i combattimenti, le uscite dalle trincee, che erano sempre un’ecatombe. L’ufficiale impersonato da Mark Frechette, a causa di questioni legate alla durezza della disciplina e del codice militare, paga con la vita dopo aver disobbedito al suo generale. Nel film gli diedi un cognome simile a quello dell’autore del libro. Sassu invece che Lussu. Gian Maria è Ottolenghi, lui incita i soldati a non obbedire al generale che ordina un assalto folle, un suicidio collettivo. È il mio primo film in cui il montatore è ufficialmente Ruggero Mastroianni, che aveva già collaborato con me e Serandrei. Avevo pure un consulente militare, Nino Ferrero. Era un piemontese, credo ex ufficiale. Il film andò a Venezia, ed era l’anno in cui alla Mostra furono eliminati i premi. Ricordo proiezioni all’aperto e nelle piazze e la partecipazione di nuovi registi francesi che

si opponevano con forza ai concorsi. Visconti, invece, era tra quelli che sostenevano l’utilità dei festival, soprattutto per i giovani. Io invece ricordo un’intervista a Visconti. Il giornalista gli chiedeva delle sorti del cinema italiano: «Lei trova che tra i giovani ci sia un regista importante?». Lui rispose: «Francesco Rosi». Avevi già fatto film importantissimi, mi colpì che ti citasse come un giovane. Ero stato suo allievo, per lui restavo sempre un giovane. Non c’è dubbio che il nostro rapporto sia rimasto sempre speciale. «Uomini contro» poi come fu accolto? Oggi è diventato un film cult, ma allora non furono in tanti a capirlo. Molti lo bollarono come una provocazione eccessiva, ma era solo la verità. Ebbe un successo notevole presso gli intellettuali, il mondo della cultura, ma con il pubblico ha faticato prima di andare bene. Alcuni anni fa è stato scelto per rappresentare, mi pare a Ginevra, il cinema che affronta la Grande Guerra. Vuol dire che l’hanno trovato più di ogni altro aderente a un’immagine autentica di quel conflitto. Io, pur di farlo, non presi praticamente una lira. Anzi, il mio commercialista mi avvertì: «Stai attento, la situazione è balorda. Tu partecipi alla produzione e perciò possono anche chiamarti a rispondere delle perdite». Io avevo il cinquanta per cento, Perugia l’altra metà. Poi intervenne Marina Cicogna, e distribuì il film con la Euro International Film. Era un bel marchio. Mi dissero: «Lei va in coda ai rientri». Risposi: «Sì». Ma non avevo capito cosa significasse. Alla fine presi un milione, circa diecimila euro di oggi, solo perché Perugia decise di darmelo: «Fa’ un regalino a tua figlia» mi disse. Io mi ero «rifugiato» in questo film dopo l’incidente in auto in cui avevo perso Francesca, era la mia occasione per ricominciare a vivere. Figurati se pensavo a soldi e compensi. Quando successivamente sono passato con l’avvocato Perilli, gli feci scrivere una lettera alla United Artists, distributore estero del film. Così, per capire cosa dovessi percepire in base al mio contratto. Mi risposero: «Noi abbiamo preso il film

direttamente dalla Euro. Perciò non dobbiamo riconoscere niente a nessuno». Dovevo fargli causa? Sapevo fin dall’inizio che con Uomini contro sarebbe stato difficile, ma capii che non l’avrei mai realizzato se non avessi forzato la situazione, partendo subito per le montagne del Cadore, a Calalzo. Quel film fu girato tutto a ottocento metri d’altitudine. Venne pure una nevicata fittissima, mi fruttò una gran bella sequenza, ma mi fece perdere la possibilità di rientrare economicamente. Cioè s’ingigantirono tempi e costi? Ci furono le difficoltà che nascono quando devi girare e c’è la neve alta più di mezzo metro. Infatti abbiamo dovuto sospendere la lavorazione, siamo rientrati a Roma e qui, per guadagnare tempo, abbiamo girato scene d’interni, quelle in cui i soldati, pur di tornare a casa, fingevano di avere subìto incidenti e venivano interrogati dalla commissione di ufficiali medici. Quasi sempre si accorgevano che si trattava soltanto di malattie finte, perciò li rimandavano al fronte. Intanto Andrea Crisanti, che per la prima volta faceva lo scenografo con me, ricostruiva la trincea, che risultò bellissima. La sistemò più a valle, dove non c’era neve e si poteva lavorare. In quel film il realismo della scenografia è fondamentale. Avevamo poi un tecnico responsabile delle sparatorie, dei fuochi e delle esplosioni. Si chiamava Smojver, era jugoslavo. Se non stavi attento, ti faceva saltare per aria. Fu formidabile nella scena di un attacco notturno, in cui si vedono esplosioni e pezzi di terreno che saltano, uomini catapultati dallo spostamento d’aria, tutti soldati capaci di fare quel tipo di acrobazie. Quando ero ragazzino, mio padre mi parlava dei lampi notturni provocati dal magnesio. E allora noi usammo il magnesio per le esplosioni delle bombe, ne veniva fuori una luce bianca. Pasqualino non adoperava luci per certe scene al buio, le illuminava con questi lampi di magnesio, devo dire che esteticamente il risultato fu molto bello. La musica di Piccioni è straordinaria, ma stavolta la lasciò dirigere al maestro Pier Luigi Urbini. In genere faceva da solo, se la colonna sonora era jazz. Le musiche, il coro di Uomini contro non piacquero a tutti.

Quando il film fu proiettato per la prima volta, al Safa Palatino, qualcuno ritenne che quel motivo cedesse troppo alla compassione e all’emozione. Sai, c’erano anche le rigorose filosofie intellettuali dell’epoca. Io, sinceramente, trovo giusto esprimere la pietà. Ma è chiaro che non tutti la pensano alla stessa maniera. È un film potente. Capisco Fellini quando sosteneva che fosse uno dei tuoi film più forti. Pensa, mi telefonò alle quattro del mattino e beccò Giancarla. In realtà chiamava a quell’ora perché sapeva di trovarla sveglia. Aveva voglia di dire che aveva appena rivisto il film in televisione e che l’aveva trovato molto forte, molto umano e molto vero. Ricordo Federico quando girò «La voce della luna» (1990). Prima che cominciasse le riprese lo incontravi e ti sembrava che manco stesse in piedi. Andai a trovarlo sul set, saltava, si buttava per terra. Pietro Notarianni mi disse: «Resto anch’io a bocca aperta. Prima di cominciare aveva tutti i dolori del mondo, è cominciato il film e sembra un ragazzino». Ci sono momenti in cui quell’energia pare anche a me di poterla recuperare tutta. Del resto, per la gente del cinematografo il lavoro e la vita s’intrecciano e a un certo punto non li distingui più.

13 e 15 novembre

Sì, col mio lavoro mi sono divertito. Mi sono divertito anche ad avere vicino una donna come Giancarla. Eh, dove la trovi un’altra così? Ed è anche vero che ho avuto successo. Ma quanto dolore! Ho perso la mia prima figlia, Francesca, dopo quindici anni di sofferenze e amarezze, ed è stata dura. E guarda, è come la morte di Giancarla. Che quando ci penso, mi sembra impossibile che sia avvenuta. Poi penso che stava avendo delle manifestazioni di peggioramento del male. E allora ti trovi costretto a pensare che se non fosse andata così sarebbe stato forse peggio. Pensieri terribili. Quindi sì, è vero, sono stato fortunato. Però ho pagato il mio prezzo. E lo sto pagando anche ora, perché vivo la mancanza di Giancarla in maniera molto dura. A parte il fatto che me la vedo continuamente intorno. Io non ho cambiato niente in questa casa, tutto è rimasto com’era. E allora la vedo di continuo. Sento ciò che avrebbe fatto in certe situazioni. Poi sto scoprendo che aveva degli atti di generosità di cui non parlava con nessuno, nemmeno con me. Faceva del bene alla gente. Mi scrivono: «Lei non sa come mi ha aiutato la signora Giancarla». Cose del genere. C’era il tappezziere che lavora per noi da una vita, era rimasto senza lavoro, e l’ha detto a Giancarla. Lei immediatamente, non è che ha telefonato, è andata personalmente presso gente che conosceva per dire: «Prendete Carlo, perché è formidabile». E Carlo e la moglie erano proprio innamorati di Giancarla. Mi sembra di capire che Giancarla abbia anche avuto una funzione positiva per il tuo lavoro… Ah, senza alcun dubbio. Ma vedi, da quando Giancarla è apparsa nel mio lavoro e nella mia vita, sono stato sempre con lei. Però non mi ha mai condizionato. Il mio mestiere non è stato influenzato dalla mia vita privata. Anzi, ho fatto troppo

liberamente tutto quello che volevo fare. Come te, anche… Però Giancarla non la vedevi mai sul set. È venuta solo quando giravo in Spagna, poi sui set di Lucky Luciano e Salvatore Giuliano, ma non è che accorresse a ogni film. Non entrava neanche nel vivo della discussione contrattuale con il produttore. Però una volta sola si è occupata e io ho tremato, perché dico: se questa va da un produttore a discutere, io il film non lo faccio più. Proprio così. Era intransigente su certe cose. Mario Cecchi Gori la guardava, la stimava, ma la temeva, non voleva incontrarla. Perché quella era una che ti metteva alle corde. Il dialogo giusto lo aveva con Franco Cristaldi. Con lui si intendevano subito. Però era Franco che poi alla fine la fregava. Eh, sui soldi era imbattibile. Ma sul resto Giancarla non gliene faceva passare una. Comunque, ormai la carriera è fatta. Però, sai cos’è, Peppuccio? Oggi era il compleanno di Giancarla. E non ci voglio pensare… Bisogna adattarsi alla vita. Perché è la vita, non c’è niente da fare. Non lo avrei mai immaginato che sarebbe andata a finire così, mai. E meno male che ha evitato il peggioramento, perché quella è una malattia terribile, devastante. Così l’ha definita il neurologo: una malattia devastante. Cioè, piano piano non riconosci la gente… Una cosa spaventosa. Perché è una malattia imprevedibile, s’insinua senza che tu te ne accorga. È inguaribile, tocca il cervello e dove tocca è finita. Ed è in aumento, perché ormai la gente vive più a lungo. E allora le malattie hanno più tempo per fare la loro parte. Festeggiavate insieme i vostri anniversari? A dir la verità non l’abbiamo mai festeggiati. Una coppa di champagne e via. Una volta lei mi regalò due gouaches napoletane molto belle del Settecento. Anche l’orologio che porto me lo regalò Giancarla. E io facevo a lei dei regali più o meno del genere. Ma non facevamo feste. Adesso mia figlia Carolina invece ha voluto far venire gli amici… La Capria, Ghirelli, e gli altri. Fa bene, ma sono cose alle quali è molto difficile reagire nella maniera giusta. Dopo che è morta la madre, ha preso in mano tutto lei. Con una saggezza, con una rapidità… Ha messo a posto due case, è fortissima. Quando ho

girato La tregua mi ha fatto da aiuto regista assieme ad Arduini. Tu non hai idea quello che ha saputo fare Carolina. Produzione, regia, costumi… Non dormiva mai, stava in tutti i reparti dalla mattina alla sera ed è quello che fa adesso in teatro. È in gamba. Ha preso molte cose da me, ma molto di più da Giancarla. Ha fatto anche l’aiuto regista per Francesca Archibugi. Adesso sta lavorando con Luca De Filippo, mettono in scena un’opera molto importante di Eduardo, La grande magia. Luca è bravo, è una persona seria. Stanno bene insieme, è la loro vita. Poi, sai… Carolina è bravissima. Ormai la sua vita è tutta già delineata sull’intervento rapido e azzeccato. È come la madre. Molte volte mi chiedo come mai io non sia riuscito ad aiutarla di più nel mestiere di attrice. Ma lei non mi ha mai detto, né io gliel’ho chiesto espressamente, se in definitiva è rimasta delusa dal suo rapporto con il cinema. Io credo di non averglielo mai chiesto, per non metterla in imbarazzo. Secondo te, il fatto di chiamarsi Rosi, l’ha aiutata o no nel suo rapporto con il cinema? Non credo. Perché, magari i registi si trovano in imbarazzo a lavorare con la figlia di un collega. In questo il nostro mondo è anche un po’ meschino. Sì, oltre ai miei Cronaca di una morte annunciata e Dimenticare Palermo ha fatto molti altri film. Ne fece uno con Squitieri, poi ha fatto un altro film con Sofia Loren. Un altro con Yves Montand. Ha fatto anche molte fiction televisive. La chiamarono dalla Francia perché parla benissimo francese. Ma intanto cresceva la sua voglia di fare teatro. E se dopo La tregua ho preferito fare solo quelle tre regie teatrali non è stato solo per stare vicino a Giancarla negli anni della sua malattia, ma anche perché volevo lavorare con Carolina, che aveva preso ormai la decisione di fare teatro e di vivere con Luca. Ma è così, la vita di un figlio ti appartiene fino a un certo punto. Specialmente la vita di una figlia femmina. Tu hai una bambina, preparati. Non è facile. Perché una ragazza che si innamora… Sì, il padre è il padre, però l’amore è l’amore.

«Sta’ attento alle gambe»

Franco Cristaldi era un grande produttore, con una serietà di fondo, molto impegnato. Aveva rispetto per le idee e per come venivano realizzate. Un bel personaggio, con il quale ci si poteva incontrare affettuosamente. È stata una grande perdita, Cristaldi, se n’è andato troppo presto, proprio una grande perdita per tutti noi. Perché con tutti i suoi difetti, era un uomo che rispettava l’autore. E difendeva i suoi film, non li mollava. Era diventato anche molto amico di Giancarla. E aveva un modo splendido di ospitare i collaboratori, nella sua casa romana di Prima Porta. Serate, devo dire, molto semplici, con ospiti di enorme riguardo. Di lui potevi fidarti, ma fino a un certo punto se in ballo c’erano soldi. Era capace di rinunciare a un film che gli piaceva solo per non aumentare il cachet del regista. Successe con me più di una volta. Non per niente lo chiamavano «Tabellina». Sui conti e sull’arte di mettere in piedi un film senza rimetterci un centesimo, non lo batteva nessuno. Con Il caso Mattei, che costò meno del previsto, gli feci risparmiare del denaro. Mi disse: «Te lo darò, non preoccuparti». Io mandai avanti un paio di volte Giancarla. Ma lui se la cavò dicendo che, in effetti, non era rimasto niente. Un po’ di tempo dopo ci invitò a fare un viaggio in Kenia e Tanzania insieme a lui e Claudia Cardinale. Una vacanza da sogno, ma non mollò una lira. No, lui non mollava mai e infatti Le mani sulla città non l’ho fatto con lui perché avevo chiesto più soldi rispetto a Salvatore Giuliano. Soldi che invece mi diede Nello Santi. Ma continuammo ad andare d’accordo, con lui lavorai ancora. Ti mandava il telegramma il primo giorno delle riprese? Una volta mi disse che l’aveva fatto sempre, con tutti i suoi registi.

Con Salvatore Giuliano lo spedì, me lo ricordo. E anche per gli altri film. Era un rito al quale non si sottraeva mai. Tranne che per «I compagni» di Mario Monicelli. Durante la pre-produzione Notarianni aveva avuto la sensazione che Cristaldi non fosse del tutto convinto del film. E così, approfittando di una breve vacanza di Franco, a sua insaputa, diede inizio alle riprese. Al suo ritorno Cristaldi si trovò di fronte al fatto compiuto. Ma non batté ciglio. Redarguì Pietro solo per avergli impedito d’inviare a Monicelli il suo tradizionale telegramma d’auguri per il primo ciak. Che bei personaggi! Che tempi meravigliosi… Come si fa a non averne nostalgia? So che Franco amava mostrare in anteprima ai suoi registi preferiti i film che faceva con gli altri. Così, per avere un loro parere. Con te lo ha mai fatto? Pare che lo abbia fatto anche per «Divorzio all’italiana» (1961) e che a Visconti non sia piaciuto granché. Ne sai niente? Non lo ricordo. Sai, allora lavoravo molto, anche all’estero. Tre film li ho fatti in Spagna. E poi Napoli, Milano. Ero sempre in giro. Però con Cristaldi andavamo veramente d’accordo. Abbiamo pure litigato e non ci siamo rivolti la parola per un anno. Gli avevo chiesto di preservare Il caso Mattei, di non autorizzarne troppe messe in onda alla televisione, ero sicuro che l’attesa avrebbe aumentato la carica del film. Ma lui mollò il film alla Rai, con la facoltà di mandarlo quando le pareva e senza le garanzie legate ai tempi che io chiedevo. Mi arrabbiai tantissimo, gli dissi: «Ma come ti sei permesso? Io sul film ho anche dei diritti. Che senso hanno questi diritti? Dobbiamo proteggere il film». Ero sicuro che Il caso Mattei potesse andare al di là delle previsioni. Zeudi Araya, allora sua compagna, e mia moglie, ci fecero far pace. Era quello che entrambi volevamo, però Franco era uno testardo. Dopo sono stato anche testimone delle nozze con Zeudi. Tu insieme a Fellini.

Sì, è vero, c’era anche Federico. Con Franco avrei continuato a fare film senza tregua, e anche con Gian Maria Volonté. Li avevo nella testa. Con Franco come andava il lavoro, che succedeva? Te lo dico subito. Quando avevo l’idea per un film la masticavo molto tra me e me. Non ho mai cambiato questo sistema. Se c’è da parlare di un film, voglio prima averne messo a punto ogni singolo aspetto, voglio persino sapere, già vedere il cast, poi ne parlo. Gli dicevo: «Franco, ti racconto il film che voglio fare». Andavamo in una stanza della Vides a Piazza Pitagora, ci chiudevamo dentro e uscivamo solamente quando avevo finito di raccontarglielo. A quel punto mi diceva se lo voleva fare o no. A parte qualche inevitabile intromissione sul cast, si faceva vedere poco. È venuto un paio di volte sul set di Salvatore Giuliano, ma per il resto non veniva nemmeno in sala montaggio. So che negli ultimi tempi aveva cambiato modo di fare. I set continuò a non frequentarli. Da me venne una volta sola. In quanto al montaggio, la leggenda vuole che avesse rimontato «Nuovo Cinema Paradiso» di proprio pugno, ma non è vero niente. Primo perché non si trattò di rimontaggio ma solo di alcuni tagli, e secondo perché fui io a praticarli. Ma le leggende sono dure a morire. Comunque mi dici delle cene a casa sua? Io e Giancarla c’eravamo sempre, molto spesso anche Sergio e Nori Corbucci, Gillo Pontecorvo, Monica Vitti, Luigi Magni. Ogni tanto si vedeva Sergio Leone. Poi c’era quel produttore amico suo, Italo Zingarelli. Ogni tanto qualche francese, poi il gruppo degli sceneggiatori, Suso Cecchi D’Amico, Rodolfo Sonego, Age, Scarpelli. L’ultimo film che avete fatto insieme è stato «Cristo si è fermato a Eboli». Perché non ce ne furono altri? Non te lo so dire. Forse perché c’è stato un film che non ha voluto fare. E sbagliò. Mi riferisco a Tre fratelli.

Durante quelle mitiche feste a Villa Ulignano, in Toscana, di cui sentivo tanto parlare, che succedeva? Si tenevano a Natale o a San Silvestro. Lui a Ulignano riuniva tutti gli amici. Dormivamo lì per tutto il periodo. Un posto bellissimo. Si stava insieme, si giocava, si chiacchierava, nascevano idee, si pensava ai film da fare. E in fin dei conti, tra una lite e un’altra, io con Cristaldi ho fatto sette film. Kean, La sfida, I magliari, Salvatore Giuliano, Lucky Luciano, Il caso Mattei e Cristo si è fermato a Eboli. E sono pure dei bei film. Non posso darti torto. Cristo si è fermato a Eboli l’ho in teoria fatto con lui, ma nella sostanza con Toscan du Plantier, che teneva tanto a fare un film con me. Un mio fan, diciamo così. Con Toscan andavo molto d’accordo, con lui ho fatto pure la Carmen. Sai, qui venivano tutti, anche gli americani. James Mason, Robert Altman, Martin Scorsese, Robert De Niro, tanta gente. Quando dicevo che il cinema, allora, era una grande famiglia è vero. C’era un rapporto di comprensione, anche di affetto. Poi ci sentivamo tutti parte di una grande avventura, far rivivere sullo schermo la vita. Il nostro è un mestiere particolare. Se lo fai con passione non te ne puoi liberare. Ti rimane dentro, non c’è niente da fare. Pensa solo a un personaggio che hai sognato, che hai descritto sulla carta e che hai vestito, al quale hai fatto pure tagliare i capelli. Ti appartiene, no? Negli anni che vanno da «Le mani sulla città» a «Uomini contro» non era mai accaduto che Cristaldi ti dicesse: «Il prossimo film lo fai con me?». Non ce n’era bisogno. Io e lui sapevamo di muoverci su una stessa linea. È stato naturale, quando ho pensato di fare Lucky Luciano o Il caso Mattei, rivolgermi nuovamente a lui, perché sapevo che film così poteva farli solo Cristaldi. Il caso Mattei è stato rapidissimo. L’ho girato addirittura come un documentario, in breve tempo e con una troupe ridottissima. Mi muovevo da una parte all’altra, non solamente dell’Italia. Per esempio, quando sono andato nel deserto, e abbiamo

dormito nelle tende dell’Eni, eravamo sette persone. Pasqualino faceva il dolly con la macchina a mano. Gino Millozza era il direttore di produzione, solamente lui poteva organizzare un film di quel genere, fatto in quel modo così dinamico, solo apparentemente improvvisato. In realtà avevo preparato molto accuratamente la sceneggiatura, nella quale avevo coinvolto Tito De Stefano, un giornalista famoso che scriveva per «Il Giorno». Era capo dell’ufficio stampa dell’Eni, meglio di così. Poi presi Nerio Minuzzo, giornalista de «L’Europeo», di cui ero molto amico. Entrambi, Tito e Nerio, mi hanno consentito di lavorare su una quantità notevole di materiale e di episodi. Quando ci riunivamo tutti, Tito De Stefano, Nerio Minuzzo, Tonino Guerra e io, scrivevamo addirittura insieme. Tonino era molto abile a battere rapidamente a macchina, io ero più veloce a scrivere a mano. Il nostro film su Mattei era un’inchiesta. Poi ci fu la scomparsa di De Mauro, e l’episodio aumentò il carattere d’indagine. Tito De Stefano è stato utilissimo perché conosceva perfettamente le relazioni di Mattei con importanti personaggi di vari paesi. Quando scelsi di affidarmi a lui, evitai di usare troppe fonti. Avrei potuto, per esempio, appoggiarmi anche a Mario Pirani, che è un amico e che pure lavorò all’Eni con un incarico importante. Con lui ho preferito parlare a lungo dopo, a film finito. Questo potrà sembrarti un atto di spavalderia, un azzardo. Ma ero convinto che se avessi chiesto a tutti avrei accumulato tante notizie che mi avrebbero costretto a zigzagare da una tesi all’altra. Io, invece, avevo un’idea mia, chiara. E avevo scelto la strada dell’inchiesta proprio per essere il più veritiero possibile. Per la sequenza in cui Mattei parla con Ferruccio Parri, presidente del Consiglio di allora, per convincerlo a non liquidare l’Agip, adoperai immagini di Parri prese dall’attualità. Le inserii nel film come se Parri stesse davvero parlando con uno sistemato dietro alla macchina da presa. Insomma, usai soluzioni piuttosto irrituali. Ma così risultò accentuato l’aspetto giornalistico. Del resto, in quel film, di giornalisti ce n’erano molti. Sennuccio Benelli, Ugo Zatterin, Furio Colombo, al quale affidai il ruolo del

segretario di Mattei nella scena all’Hotel de Paris di Montecarlo. Quando ti venne in mente di fare un film su Mattei? Di lui, a quell’epoca, ci si occupava più all’estero che in Italia. Da noi, erano due i giornalisti che si erano interessati a lui, Fulvio Bellini e Alessandro Previdi, autori anche di un libro, L’assassinio di Enrico Mattei. C’erano poi le opere di un inglese, Paul H. Frankel, che scrisse: «Anche se restano tutti i dubbi del caso sulla sparizione di Mattei, trovo assurdo che qualcuno delle sette sorelle non avesse pensato seriamente a uccidere Mattei». Questo è scritto nel libro ed è recitato da me. Ma ti rendi conto? Si può scrivere con tanta leggerezza che è normale che un uomo debba essere ammazzato? «Sette sorelle», Mattei chiamava così le compagnie petrolifere più potenti e ricche del mondo. Il caso Mattei è un film del quale è ancora difficile parlare. Ricordi il momento in cui pensasti che su quella vicenda si poteva fare un film? Come maturò l’idea nella tua mente? Pensai a un film perché del caso Mattei si parlava come di «un delitto o un incidente». Non ho fatto il film per sostenere che Mattei fosse stato ucciso. La mia opera ha una struttura dialettica, in cui vivono sia la tesi dell’assassinio sia quella dell’incidente. L’idea mi venne durante una fase in cui ne parlavano alcuni giornali. Non molti, per la verità. Mattei è stato sempre un argomento toccato con molta prudenza, un tabù. Mi piaceva raccontare l’Italia del dopoguerra attraverso questo personaggio così problematico e controverso. Furono l’aspetto sociale e il taglio politico a suggerirmi il film. Quando lo proposi a Cristaldi avevo tutto ciò in mente, ma non l’avevo ancora scritto. Il tema era scabroso, lo so. Ma Cristaldi era abituato a prendere in esame film difficili. D’altra parte, Salvatore Giuliano non era stato uno scherzo. Per questo pensai che solo Franco potesse farlo. Torni dal produttore dei tuoi primi film e anche al tipo di cinema fatto con lui. Tu hai inventato modelli di strutture narrative. Due o tre almeno non esistevano prima che tu li

usassi. Uno è quello de «Il caso Mattei», dove si sente tutta l’eco dell’esperienza fatta con «Salvatore Giuliano». Tra i due personaggi, la differenza più grande è che Salvatore Giuliano sparava, Mattei parlava. E per giunta con una logorrea notevolissima. Questo crea differenza nella struttura del film, costruita su episodi, che impropriamente qualcuno ha definito flashback. Questo racconto a episodi veniva fuori anche dalla materia affrontata. Volevo mostrare la vita di Mattei, facendo scelte che consentissero al pubblico di capire quale fosse il suo sogno, e quale fosse la sua battaglia contro il mondo del petrolio, un mondo che porta nel baratro. Lui si muoveva anche con una certa sapienza. Faceva passi con l’Unione Sovietica, sapendo di dare fastidio agli Stati Uniti. Ma non gliene importava niente. Credo davvero che sognasse di dare all’Italia l’autonomia energetica. L’argomento doveva interessarmi per forza, quello era stato il mio modo di fare il cinematografo. Per scrivere il film avrai avuto bisogno, oltre che di documentarti, di incontrare un sacco di persone che in vari modi potevano esserti utili. Sì, ma non ho voluto vedere persone che potevano mettermi su strade sbagliate. La costruzione di questo film, della sua sceneggiatura, non è venuta fuori su una tesi prestabilita. Spesso ho girato sequenze che non erano previste. È stato un continuo work in progress. Ho anche evitato di consultare personaggi molto vicini a Mattei, che però mi avrebbero portato fuori dal percorso che avevo individuato. E tra questi c’era pure Italo Pietra, grande sostenitore di Mattei, sulla cui vicenda ha scritto un libro bellissimo. Gli parlai solo dopo il film. Perché, lasciami dire, la maggior parte dei libri usciti in Italia su Mattei sono stati scritti dopo il mio film. Io avevo deciso di raccontare il Mattei uomo d’azione, oltre che di pensiero. E credo di non avere sbagliato. Nell’articolo che Indro Montanelli scrisse sul film, sostenne che era tutto giusto, e lui Mattei lo conosceva bene. Poi, naturalmente, sapevo che c’erano i favorevoli e i contrari, anche per questo ho evitato troppi consulenti. Ovvio che avesse avversari, la via su cui si

era incamminato, politicamente creava difficoltà al governo, allo Stato, all’industria privata. In ogni caso, di gente ne ho vista tanta. Anche dell’Eni. Nel film ho parlato anche delle alleanze di Mattei con personaggi del governo, ma solo per informare il pubblico, non per affrontare davvero il rapporto con queste figure. È noto che Mattei fosse appoggiato da Vanoni e Fanfani. Perché lui favoriva la base della sinistra democristiana, ma in relazione a questi aspetti non mi potevo infilare in una disanima troppo sottile. Dovevo, come ho fatto, trattare tutto come notizie. E non dimentichiamo i sogni che lui ha nutrito per il Meridione d’Italia. Non ricordo altri personaggi che abbiano avuto mire così dirompenti rispetto alla funzione del Sud. Lui è del Nord, ma s’impegna e alla fine dimostra che pure in Sicilia ci sono potenzialità straordinarie, e vuole che si esprimano. In questo film ci sono tanti riferimenti che io non ho potuto spiegare per intero. Vanno ascoltati attentamente i dialoghi, a volte anche una battuta contiene significati enormi. Faccio un esempio. Il pubblico sapeva di aver pagato per anni una cauzione di diecimila lire su ogni bombola del Liquigas, ma il film mostra che fu Mattei a eliminarla. Naturalmente, la cancellazione di quel deposito scatenò una battaglia furiosa all’interno del sistema e della Dc. Incassare diecimila lire per ogni bombola diventava un’enorme fonte di ricchezza da manovrare. Ma io non potevo spiegare anche questi risvolti, mi ci sarebbe voluto un film di venti ore. Hai mai incontrato i familiari di Mattei? Soprattutto suo fratello Italo. Sono andato con Pietro Notarianni al loro paese, nelle Marche, Acqualagna. Non che avessi bisogno di informazioni, nemmeno sulla vita privata di Mattei. Se ne sapeva abbastanza, e nel film si vede. Gli piacevano molto le donne, aveva anche una relazione. La moglie era un’ex ballerina, una delle famose Bluebell parigine. È stata la nipote di Mattei a chiedere intanto la riapertura delle indagini. E proprio dopo il riesame dei fatti, il giudice di Pavia nel 2005 perviene alla conclusione secondo la quale la morte di Mattei è avvenuta in seguito a un attentato.

Ti eri scelto un personaggio davvero esplosivo. Dal momento in cui hai cominciato a lavorare, ti sei mai sentito controllato? Un paio di volte. Ricordo un episodio davvero inquietante, avvenuto prima di cominciare le riprese del film. Mentre viaggiavo in treno, incontrai un amico parlamentare che mi disse di conoscere il copione del mio prossimo film e curiosamente mi citò a memoria alcuni passi della sceneggiatura. Io non gliela avevo mai data. Pensai a un’operazione di controllo sul film. Era un mio vecchio compagno del servizio militare. L’episodio mi turbò molto, quel signore era un politico che col cinema non c’entrava niente e che non vedevo da moltissimi anni. La sua spavalderia mi sembrò così provinciale, quasi un modo per dirmi che nel suo ambiente altolocato circolavano notizie importanti e riservate. Ricordo anche di aver ricevuto delle strane telefonate a casa. Mi telefonò uno dicendo: «Sono uno steward dell’Alitalia, volevo dirle che venendo da New York ho sentito due persone che chiacchieravano del film che lei sta facendo, di De Mauro. Allora io sono disposto a venire da lei e raccontarle quello che ho sentito». Io ebbi allora un’intuizione felice, e gli dissi: «Senta, se lei mi ha telefonato vuol dire che ha il mio indirizzo, allora mi scriva una lettera». La sto ancora aspettando. Sparito. E invece le altre telefonate? Minacce. Ci fu un’altra telefonata alla quale rispose Maria, la nostra governante: «Stia attento il signor Rosi, alle gambe sue e a quelle di sua figlia». Vai a sapere se era vera, o se volevano solo creare sospetto e paura. Io comunque a casa cercavo di minimizzare. Telefonate di questo tipo spesso sono opera di fanatici, di esaltati. Giancarla sosteneva fosse lo scherzo di qualcuno che voleva fare lo spiritoso. Però la cosa non mi lasciò indifferente, anche se per tutto il periodo mantenni i tempi e le abitudini della mia vita. Carolina seguitò ad andare a scuola. Abbiamo continuato una vita normalissima. Tutto merito di mia moglie, perché Giancarla aveva anche il sacrosanto diritto di dirmi: «Ma tu metti tutta la famiglia a rischio». No, lei non era quel tipo di donna lì. Era

una che si assumeva le sue responsabilità. Lei era d’accordo con la mia linea. A ogni modo, tutto questo è avvenuto più intensamente dopo la sparizione di De Mauro. Dopo il film, più nulla. Non hai mai pensato che quel clima intimidatorio potesse nascere dallo stesso contesto nel quale maturò il progetto di eliminazione di Mattei? Insomma, che potesse trattarsi non di mitomani ma di una faccenda seria e pericolosa? Ho pensato che, se volevo continuare col film, dovevo soltanto dire la verità e mostrare sicurezza. Non avevo altra scelta, dovevo andare avanti. Viceversa, avrei fermato tutto e annunciato: «Signori, ho paura della mafia. Ho subito minacce e perciò il film non lo faccio più». No, io stavo facendo qualcosa che andava fatto e che andava discusso. Le riprese filarono via lisce o furono difficili? Girammo nel deserto con la macchina a mano, con Pasqualino che s’inventava movimenti di dolly senza un dolly. Fu bellissimo, perfetto. Poi girammo con l’aereo ad Abadan, nel Khuzestan, una regione dell’Iran del Sud. Lì era proibito, ma io avevo ugualmente portato la macchina da presa e girai, dall’aereo, l’aeroporto di Abadan. Anche per la scena che si svolge nella Piazza Rossa a Mosca ci furono problemi. La burocrazia sovietica mi fece aspettare un anno per darmi il permesso di girare. Alla fine mi stufai, presi il totale della piazza da un documentario e con gli attori girai solo il campo strettissimo facendo ricostruire un pezzo di muro nei teatri della Vides. È stata una lavorazione complessa, animata, eravamo convinti di fare un film che avrebbe smosso l’interesse della gente. A me pare che nel film tu scelga coscientemente uno schema narrativo puntato sull’eroicizzazione del personaggio, linea esattamente opposta a quella di «Salvatore Giuliano». Qui ho fatto un’inchiesta. Anzi, un’inchiesta nell’inchiesta. Mi sono reso conto subito che dovevo raccontare il personaggio. Le parole migliori credo le abbia trovate il grande Indro Montanelli: «È vero, Mattei era più grigio di

come l’ha fatto Volonté, ma la verità è che Mattei avrebbe voluto essere proprio così». Aggiungo che per preparare il personaggio, lavorammo con Volonté molto più a lungo di quanto fosse necessario di solito. Ho voluto che prima di tutto Gian Maria si impadronisse dell’«idea» Mattei, comprendesse chi era davvero, perché fosse così importante. Dovevamo far capire al pubblico cosa aveva significato in quel momento per l’Italia, e allora Volonté, giorno dopo giorno, «diventava» Mattei. Una mattina l’ho notato mentre camminava coi piedi un po’ piatti, e Gian Maria non li aveva affatto così. In quell’istante mi è tornata in mente una fotografia, una tra le tante che avevo dato a Volonté. Quando entrava in un personaggio, Gian Maria ne appuntava le immagini su un gran pannello da disegno. E anche per prepararsi a questo film aveva, in effetti, attaccato una foto che raffigurava Mattei dentro una tenda, in Arabia, seduto coi piedi divaricati, come se li avesse un po’ piatti. Volonté non smetteva mai di costruire il personaggio, durante l’intera durata delle riprese del film. Alla fine io, di fronte, non ebbi più Gian Maria, ma Mattei. Questa era una caratteristica incredibile. Di Mattei non esistono molti documenti filmati, c’è poca roba e lui se l’è studiata tutta. Tutta. Quando si dice che era un attore «creatore» si è nel giusto. Tutti i grandi attori creano il proprio personaggio, ma in Volonté c’era qualche cosa in più. Pensa solo al Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli. Lì è dolcissimo, un uomo che vive di impressioni e di interrogativi profondi a proposito delle condizioni sociali del Sud dell’Italia. Era mostruosamente riflessivo. Trovo che la grandezza di Volonté stesse proprio in questo. Era molto chiuso, e improvvisamente molto aperto. Di sicuro, non un uomo facile. Per lui contavano moltissimo gli aspetti politici e sociali dell’opera. È stato un grandissimo attore di cinema, sarebbe stato gigantesco anche sul palcoscenico. Peccato che col teatro chiuse presto. Il Mattei che ha fatto per me è forse più logorroico del Mattei reale, ma lui sapeva rendere perfettamente la personalità di quest’uomo, dominato dalle idee che voleva realizzare.

In più di una scena del film, tu addirittura appari nei panni di te stesso… Sì, io vengo fuori in seguito alla scomparsa di De Mauro. Mi sono messo nel film per raccontare ciò che sapevo, per continuare l’inchiesta. Un’altra inchiesta nell’inchiesta. La polizia era convinta che l’avessero sequestrato in seguito al servizio giornalistico che io gli avevo chiesto e che lui non mi aveva dato? Allora era giusto che nel film ci fossi anch’io. Quindi non fu un’idea di sceneggiatura, ma una condizione che si è determinata nel corso delle riprese del film, di natura etica, oltre che cronistica. Ero sicuro di ciò che facevo, non c’era invenzione. La sicurezza mi veniva dalla verità. Per questo inserii la mia telefonata a De Mauro e la sua risposta, volli che il pubblico sapesse che mi ero rivolto a lui. Ne parlò la stampa, corsero in Sicilia gli inviati di tutti i giornali italiani. Scrissero libri, fiumi di parole, fecero tante ipotesi. Io potevo difendermi solo dicendo la verità, quella che riguardava le mie azioni. Questo accadde dopo la scomparsa di De Mauro. Fra le tante ipotesi, si disse pure che stava facendo delle ricerche per conto tuo. Non gli ho dato incarichi del genere, assolutamente. Negli ultimi anni sono apparse altre ipotesi sulle ragioni del sequestro di De Mauro. Io sono stato convocato e interrogato più volte. Ma tu l’avevi veramente chiamato per chiedergli di fare delle ricerche? L’ho già detto quello che gli chiesi. È nel film. C’è la mia telefonata con De Mauro e c’è la sua risposta. Naturalmente è una scena rifatta. Lo chiamai per chiedergli di farmi il resoconto delle ultime due giornate trascorse da Mattei in Sicilia, a Gagliano Castelferrato, dove era stato trovato un importante giacimento di metano. Mattei era andato lì e aveva tenuto un discorso per le famiglie dei siciliani emigrati in Germania. Disse che potevano rientrare, che grazie a quel

giacimento ci sarebbe stato sviluppo, ricchezza, lavoro. Ero ancora nella fase di scrittura della sceneggiatura. Qualche giorno dopo la mia telefonata, De Mauro mi richiamò, mi disse che si stava muovendo, che aveva parlato con l’onorevole Napoleone Colajanni, un uomo politico molto importante, che aveva grande conoscenza del territorio siciliano e dei suoi problemi. Aggiunse che adesso aveva anche più tempo per continuare il lavoro, perché la famiglia era andata in vacanza, mi pare in Austria. Dopo quel contatto, inspiegabilmente Mauro non si fece più sentire, di lui non ho saputo più nulla, mai. Gli scrissi un telegramma, che lasciai a Pietro Notarianni alla Vides perché lo spedisse. Ma lui non lo inviò, aveva in mente di chiamare De Mauro. Infatti gli provò a telefonare ma non lo trovò mai. Fino a che, un giorno, appresi dalla tv che De Mauro era scomparso. Contemporaneamente, mi telefonarono l’avvocato Nino Sorgi e poi Vittorio Nisticò, direttore de «L’Ora». Erano entrambi allarmati, mi chiesero se era vero, come dicevano i giornali, che gli avevo affidato quell’incarico che ti ho detto. Ovviamente confermai. Ero molto preoccupato. Il giorno dopo raggiunsi Giancarla a Capri, dove lei mi aspettava; appena arrivai sull’isola fui assalito dai giornalisti. Volevano sapere come conoscevo De Mauro, da quanto tempo, che tipo di rapporto avevamo. Ero inseguito da troppe domande, non riuscii a stare a lungo lì. Lasciai Capri e tornai a Roma. Venni subito interrogato dalla polizia, da Bruno Contrada, che venne qui a Roma e che interrogò pure Franco Cristaldi e Pietro Notarianni. Quali furono le domande di Contrada? «Cosa ha chiesto a De Mauro, perché l’ha chiesto a lui?» Gli risposi: «Faceva il giornalista, si occupava di certe vicende. Lo conoscevo, gli ho semplicemente chiesto ciò che apparteneva al suo mestiere». Poi andò pure da Cristaldi. Per forza, era sparito un giornalista al quale avevo appena detto: «Fammi una relazione sugli ultimi due giorni di Mattei in Sicilia». Notarianni invece combinò un pasticcio. Anziché riferire di non aver mai spedito il telegramma che io avevo

preparato per avvertire De Mauro che non avevamo avuto più sue notizie e che lo stavamo cercando, dichiarò di avergli parlato al telefono. Il guaio fu che prima disse a Contrada di non aver mai parlato con De Mauro al telefono, poi invece sostenne di averci parlato. Spiegò poi che non aveva capito bene quel che gli era stato chiesto e che non aveva mai parlato con il giornalista de «L’Ora». Per fortuna avevo preso la minuta del telegramma che, ovviamente, ho dato ai giudici. Tutti gli incartamenti li feci avere alla magistratura. Mi sono liberato di tutta quella roba come se scottasse, come a voler cancellare un periodo. Ma anche per voler mettere agli atti tutto ciò che possedevo. Recentemente ho letto che s’indaga ancora sulla morte di De Mauro. Si è detto, addirittura, che avesse scoperto l’organizzazione di un golpe, organizzato dal principe Borghese con la collaborazione della mafia. Ci sono quattro o cinque ipotesi che ogni tanto vengono fuori, dunque non è ancora finita. Dopo l’interrogatorio di Contrada ce ne furono altri? Fui convocato da un magistrato, che incontrai nella caserma dei carabinieri. Qualche tempo fa sono stato ascoltato anche dal giudice Ingroia. Con molta attenzione e molta conoscenza di ogni dettaglio. So che nello stesso giorno è stata raccolta una nuova testimonianza anche della signora De Mauro. Sai com’è, quando c’è l’ombra della mafia tutto si complica. No? Quando sei tornato in Sicilia, dopo la scomparsa di De Mauro, che clima hai trovato? Curiosamente fu Bruno Contrada, alla fine dell’interrogatorio, a consigliarmi di andare in Sicilia. Disse: «Ma venga a Palermo, cosa fa qua, non si preoccupi, stia tranquillo». Infatti ci andai. Credo di essere stato abbastanza bravo in quella situazione, estremamente delicata. Come prima tappa mi recai a casa di Leonardo Sciascia. Dopo cena, il mio aiuto Guarnaschelli si mise sul divano e si addormentò. E rimanemmo io, Leonardo e sua moglie Maria, seduta sul divano, con le mani in grembo. Leonardo, su una poltroncina, fumava, fumava, assorto nei pensieri. In quei giorni a Palermo c’era una mostra di pittura di Guttuso a Palazzo dei Normanni,

e ci andai. Mi guardavano come se fossi stato il responsabile della scomparsa di De Mauro. Sguardi indecifrabili. Sguardi che puoi incrociare solo in Sicilia. Ma io, imperterrito, sono rimasto lì, ho visto la mostra come se niente fosse. Però dissi a me stesso: «Racconto tutto nel film, mostro e dico per filo e per segno quello che è accaduto quando ho telefonato a Mauro». Decisi in quel momento d’inserire tutto nella sceneggiatura: la mia telefonata a De Mauro, le parole esatte con cui gli affidavo l’incarico, la sua risposta. Insomma, la verità. E così ho riprodotto le stesse parole che gli avevo detto: «Guarda un po’ che ha fatto Mattei nei giorni in cui è stato in Sicilia, chi c’era con lui, chi ha incontrato…». Ma non è che gli avevo detto esattamente fai questo, fai quello, vai qua, vai là. De Mauro era un bravissimo cronista, capì al volo cosa mi serviva. Naturalmente aveva legami con tanti personaggi, ed evidentemente ampliò l’indagine per conto suo. Per esempio incontrò il famoso avvocato, Vito Guarrasi. Io non gli avevo mica detto: «Vai da Guarrasi». Comunque la mia posizione, dopo la sparizione di De Mauro fu netta, nessuno si aspettava che addirittura mi mettessi nel film e raccontassi le cose esattamente com’erano andate. Perché lì proprio non c’è una parola in più, né una parola in meno. A casa De Mauro non sono andato. Però ho telefonato alla signora: «Signora, non ho fatto a tempo, ho l’aereo, devo andare a Roma, mi dispiace molto, ci sarà un’altra occasione». Lei mi rispose duramente: «Un momento lo poteva trovare». E invece poi quand’è che vi siete visti? Io fui interrogato subito anche alla televisione, assieme alla signora De Mauro. Ovvero, fummo intervistati separatamente ma nell’ambito dello stesso programma. Io e lei, ma non insieme. In seguito ci siamo visti sempre dai giudici, accompagnati dai poliziotti, ma mai da soli, a eccezione dei momenti in cui aspettavamo di essere interrogati. Ma non abbiamo mai avuto contrasti o momenti di tensione. Soltanto una volta. Io sono dovuto intervenire perché lei aveva fatto una dichiarazione che non corrispondeva alla verità. E cioè che il marito le avesse detto di avermi mandato molte carte.

Invece non mi aveva mai mandato niente. E allora ho dovuto fare una precisazione sui giornali. È stato un periodo piuttosto complesso. Incontravo il fratello di De Mauro, Tullio, a casa di Bruno Caruso, il pittore. Il quale una sera, a un certo punto si aprì la giacca e tirò fuori la pistola. Gli dissi: «Ma che ci devi fare?». E lui: «Con i tempi che corrono, non si sa mai!». Con Tullio De Mauro che vi dicevate? Cercavamo di capire. Ci interrogavamo. Ma lui dov’è andato? Chi ha visto? La verità è che nessuno sapeva cosa dire di preciso, nessuno. Perché quelli che hanno rapito De Mauro sono stati, secondo me, così scientifici da far perdere ogni traccia. In tutti gli anni che sono trascorsi da allora, hai mai sospettato che davvero De Mauro possa essere scomparso a causa dell’incarico ricevuto da te? Hai mai pensato a cosa De Mauro abbia potuto scoprire per spingere qualcuno a farlo sparire? Me lo sono ovviamente domandato, ma non ho mai saputo darmi risposte che avessero una logica. De Mauro aveva già raggiunto i luoghi dell’ultima permanenza di Mattei in Sicilia? Tra le nostre due conversazioni telefoniche, e soprattutto tra l’ultima telefonata e la scomparsa di De Mauro, passano molti giorni. Perciò, non posso escluderlo. Ma nemmeno posso esserne certo. In teoria Mauro avrebbe avuto il tempo per raggiungere quei luoghi, per chiedere in giro, allargando l’orizzonte del compito che gli avevo affidato, come è ovvio che faccia un giornalista bravo, preparato e intraprendente come lui. Con l’obiettivo di estrarre da quell’indagine anche altri pezzi, reportage da pubblicare sul suo giornale. Chissà, forse ha davvero messo le mani su qualcosa che forse non conosceremo mai. In un libro scritto tempo dopo, il giornalista Nico Perrone sostiene che quello di De Mauro è un delitto perfetto, perché mai si saprà come è stato commesso e da chi. Sciascia, che era amico mio e anche di De Mauro, fece tempo dopo una dichiarazione. Disse che De Mauro, probabilmente, è morto per quello che non sapeva di sapere. Sul conto della visita in Sicilia di Mattei, si scoprì che il fondatore dell’Eni

aveva partecipato a una battuta di caccia, che in quei due giorni, prima del viaggio verso la morte, non era stato mai solo, si era mosso sempre accompagnato da numerose persone. Non solo guardie del corpo, anche autorità locali, per esempio il presidente della Regione. C’è chi dice che Mattei possedesse due aerei uguali. Uno lo teneva sempre in un hangar, con l’altro andava in giro. Ricordo che il capo ufficio stampa della Vides, Fabio Rinaudo, aveva raccolto tutti gli articoli che erano usciti sulla fine di Mattei. Decine e decine di volumi che purtroppo, dopo la morte di Cristaldi, non so che fine abbiano fatto. Un fiume infinito d’inchiostro, di rivelazioni e supposizioni, ma certamente ricostruibile se e quando si vuole perché si tratta di giornali. Un fatto certo lo sostiene Calia, il giudice di Pavia, nella sua istruttoria. L’aereo di Mattei è caduto in seguito a una piccola esplosione provocata in alcuni dispositivi di controllo della navigazione. Quando è stato azionato il carrello per l’atterraggio, la piccola quantità di esplosivo è scoppiata creando un focolaio che non ha toccato i serbatoi né i motori. L’aereo è rimasto com’era, ma è cascato nella brughiera di Landriano, a Bascapè. Forse l’esplosivo fu piazzato proprio sul carrello esterno, in maniera che fosse impossibile trovarne tracce sicure. Chissà che non sia stata questa la grande trovata per nascondere le prove. Solo nell’istante in cui ha toccato il suolo il velivolo su cui viaggiava Enrico Mattei è andato in fiamme. Dunque, è precipitato, non è esploso in aria come riferito invece dal primo contadino che fu testimone. Quindi, il giudice di Pavia dichiara senza dubbio che Mattei, e i due uomini che erano a bordo con lui, il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista William McHale, muoiono a causa di un attentato. Viceversa, in una prima fase, ufficiali e politici negano nel modo più assoluto che l’aereo sia caduto per un’esplosione interna al velivolo, e quindi per un attentato. Questo è raccontato nel film ed è appunto la conclusione alla quale nel 2005 giunge il giudice di Pavia. E proprio nella sua recente sentenza, il giudice Vincenzo Calia afferma non solo che si trattò di un attentato, ma che la fine di De Mauro sia da collegare chiaramente al caso Mattei.

Sì, ho letto il testo della sentenza. Che dirti? È una faccenda gravissima e oscura. Del resto, lo scrittore siciliano Michele Pantaleone disse una cosa precisa: «Il giorno della partenza di Mattei da Catania non c’era sorveglianza sull’aeroporto. Non c’era sorveglianza sull’area di parcheggio e sulle piste. Inoltre alcune persone addette ai servizi erano state sostituite da altre persone che nulla avevano a che vedere con quei servizi. Dove sono oggi queste persone? Come vivono? Qual è la loro posizione sociale ed economica? Quale attività svolgono? Quale super mafia le protegge?». E aveva ragione. Era una dichiarazione durissima la sua, l’ho raccolta io, e naturalmente l’ho inserita nel film. Un modo di procedere, il tuo, assolutamente innovativo per quegli anni. L’essere coinvolti in un’inchiesta dentro un’altra inchiesta e nel contempo vedere il regista che sta ancora ideando il film stesso, cercandone la forma definitiva, fa vivere allo spettatore la singolare sensazione di partecipare a una storia che però non esiste ancora del tutto. Perché il film sembra aperto a tutte le indagini possibili. E in effetti è così. Una miscela di cifre narrative mai vista prima. La cronaca nella cronaca, il cinema nel cinema, l’indagine giornalistica nell’indagine giornalistica. Una contaminazione di stili forte e moderna, in cui ti muovi come un pesce nell’acqua. Mi piace la tua riflessione. Anche Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e Oliver Stone hanno ammirato quel film. L’hanno trovato molto interessante dal punto di vista proprio dello stile cinematografico. L’ho accompagnato diverse volte all’estero, anche in America, dove fu organizzata una proiezione al Moma che ebbe grande successo. Come reagì il mondo politico? Alla sinistra il film piacque molto. Meno, mi sa, alla Dc. Be’, per forza. Ma anche in casa Dc ci fu chi reagì bene. I Gronchi, i Fanfani. Fu invece assai ostile Eugenio Cefis. Scrisse che avevo rappresentato Mattei in maniche di camicia

e senza cravatta, circostanza che non poteva verificarsi, dato il personaggio. Mi sembra un’analisi sbrigativa e maliziosa. Intendeva dire che non essendo credibile Mattei in maniche di camicia, non poteva essere credibile tutto il film. Qualche anno fa è venuto fuori anche il libro postumo di Pasolini, Petrolio, che apre un nuovo livello di indagine. C’è chi sostiene che il titolo alludesse proprio alla situazione di conflitto all’interno dell’Eni. Ripeto, credo che la sola certezza sia che Mattei voleva assicurare un avvenire industriale al nostro paese molto più forte di quello avuto in passato. La fase in cui a Palermo la gente ti guardava come se fossi il responsabile del caso De Mauro, quelle telefonate inquietanti, il sentirti addosso come una cappa di sospetto, può essere un’esperienza personale che poi hai riversato sulla psicologia del protagonista di «Cadaveri eccellenti», anche lui accerchiato da un clima di mistero che lo perseguita e lo opprime? È molto probabile, perché i miei film erano costruiti sulla mia visione delle cose. Però, devo dirti la verità, quello della sparizione di De Mauro è un periodo che mi dà un po’ di agitazione. Perché io non capisco. Insomma, quando era con la figlia e la moglie e parlò di cosa stava facendo, pare che avesse parlato di un presidente, ma non ha mai detto di quale presidente. Non è sceso nei dettagli. Perciò dico che la storia di De Mauro è ancora aperta. Aveva ragione Sciascia, De Mauro aveva toccato la verità senza saperlo. E quelli se n’erano accorti. È un mistero grosso. In quel fiume d’inchiostro che è stato scritto sul caso De Mauro, cosa ricordi con più interesse? De Mauro, una cronaca palermitana. Il più bel libro su quel periodo. Lo scrisse una giornalista palermitana bravissima, Giuliana Saladino. Straordinario. Non ho mai avuto il piacere d’incontrarla, ma in quel libro lei racconta i fatti esattamente come sono andati. Molto interessante e importante.

Ciò che da ragazzo mi colpiva ne «Il caso Mattei» era il suo incipit secco e inatteso. Già alle prime immagini precipitavi in un evento storico di cui sapevi poco o niente, ma che da quel momento non potevi fare a meno di voler capire. Qualcosa di simile accadeva anche in «Salvatore Giuliano», ma per «Il caso Mattei» ancora di più. Ma vedi, è proprio per ottenere questo effetto d’immediato coinvolgimento dello spettatore che ho cominciato Il caso Mattei dalla fine. Decisi di farlo in moviola, a montaggio quasi finito. Originariamente doveva esserci un inizio diciamo più tradizionale. E come ti nacque l’idea di stravolgere la sceneggiatura in moviola? Pensai che prendere le mosse dalla fine, dalla sequenza in cui si cerca il corpo di Enrico Mattei tra i rottami dell’aereo appena precipitato, mi consentisse di scandire meglio i momenti successivi del film, privilegiando il significato dei singoli episodi piuttosto che la loro cronologia. In fondo, cominciare dalla fine è come dichiarare subito che la cronologia, in quella storia, non c’entra niente. E ciò ti predispone immediatamente a un’attitudine percettiva molto particolare. E infatti Salvatore Giuliano e Il caso Mattei hanno in comune questo stesso elemento narrativo. Iniziano quando non c’è più nulla da fare, quando il mistero è già stato consumato. Ma per Mattei fu una soluzione acquisita in corso d’opera. Una volta adottata, tutte le tessere del mosaico trovarono la loro giusta collocazione. Se non ricordo male «Il caso Mattei» è un film senza musica. È vero, ma c’è la presenza costante di suoni che possono sembrare astratti e non lo sono. Telescriventi, esplosioni, sonde petrolifere, aerei, lamiere, flash fotografici. E poi com’è bello, qualche volta, girare infischiandosene della perfezione tecnica. Come andò il film?

Suscitò molto interesse, sia in Italia sia all’estero, e andò molto bene al botteghino. Fu programmato per la prima volta a Milano, dove ebbe un ottimo risultato, poi uscì in tutt’Italia e fu un grande successo. Ebbe anche nuova fortuna dopo il Festival di Cannes, dove ottenne la Palma d’oro ex aequo con un altro film italiano, La classe operaia va in paradiso (1971), di Elio Petri, che curiosamente aveva sempre Gian Maria Volonté come protagonista. Ma lui di ciò non si vantò mai troppo, nemmeno ne parlava. Io ricordo invece il mio lungo abbraccio con Petri a Cannes, le nostre vittorie furono una festa per il cinema italiano. E poi stimavo tantissimo Elio. Anche Cristaldi era molto contento: il film gli era costato meno del previsto. Veniamo alla trama in poche righe, raccontata a una diciottenne di oggi. Come cercheresti di incuriosirla a vedere il film? Dopo la guerra, quando nell’Italia del Nord le industrie non avevano ancora ricominciato a produrre, Enrico Mattei, che era stato partigiano nelle formazioni democristiane, fu nominato commissario dell’Agip, la società degli idrocarburi. Mattei vuole convincere il governo a non liquidare l’Agip, e per questo incontra il presidente del Consiglio Ferruccio Parri. Persegue il suo progetto di garantire al paese le fonti di energia, così da dare fiato all’industria. Mattei era convinto che nella Valle padana ci fosse molto petrolio, ma subì una delusione, lì in realtà non c’era, o ce n’era pochissimo. C’era invece moltissimo metano, diventato una fonte energetica importante. Qui viene fuori lo slancio di Mattei e dell’Agip per creare la possibilità di sfruttare l’energia e far ripartire le macchine, produrre lavoro insomma. Aveva in mente un cambiamento totale degli equilibri mondiali. Per questo la sua morte restò avvolta da dubbi e misteri. Pensa allo strano destino dei resti dell’aereo. Furono messi sotto sequestro e consegnati alle autorità, e forse mai esaminati. Infatti, la verità iniziale della Commissione d’inchiesta escludeva ogni ipotesi di attentato. Poi invece la versione si è ribaltata, ma ci sono voluti più di quarant’anni.

Quarantotto, per la precisione. Mezzo secolo. Ma stammi a sentire, non si saprà mai chi è stato. Io partivo da quest’interrogativo pressante, ma non volevo un film in cui si dimostrasse senza dubbio che Mattei era stato ucciso. Molte ipotesi e teorie nuove saltarono fuori dopo la scomparsa di De Mauro. Successivamente ne ho sentite altre. Si è parlato persino dell’intervento degli esattori del fisco in Sicilia, i fratelli Salvo. Poi anche della Decima Mas e del golpe del principe Borghese che De Mauro avrebbe scoperto. Tantissime ipotesi, tutte rimaste in piedi. Quella vera non la conosceremo mai.

Fidel e Fellini

Nell’ottobre del ’67, subito dopo l’uscita di C’era una volta, la notizia della morte di Che Guevara fece il giro del mondo. L’istinto di occuparmi di quel personaggio straordinario e della sua fine così misteriosa fu fortissimo. Interruppi un lavoro che stavo facendo, riguardava quel mio vecchio progetto mai realizzato, «Cesare e Bruto», del quale avevo parlato con il produttore Alberto Grimaldi, con cui avevo firmato un contratto per tre film. Quando dovevo passare alla fase operativa del film, pagai l’errore di aver pensato a tutti attori di lingua inglese. Ero andato anche a Venezia, accompagnato da Visconti, per incontrare Richard Burton. Pioveva a dirotto e presi una gondola nella quale c’erano Onassis, la Callas e il parrucchiere che la seguiva dappertutto. Eravamo tutti diretti a casa della mamma di Marina Cicogna, una delle donne più ricche e influenti di Venezia, dove arrivammo per primi noi quattro. Poi giunsero gli altri. Io e Luchino indossavamo il domino, il mantello che si usa al Carnevale. Quando arrivò Burton, Visconti me lo presentò. Mi avvicinai per dirgli: «Vorrei parlarti». E cominciai a raccontare il film in ogni dettaglio. Richard ascoltava con grande attenzione, ma al momento decisivo della storia mi interruppe in preda a una strana inquietudine: «Faccio il film, te lo produco anche, faccio tutto quello che vuoi, basta che adesso mi fai pisciare». Se la stava facendo addosso, non ce la faceva più e si mise a correre dietro alla madre della Cicogna per sapere dove fosse la toilette. Allora Giancarla se ne uscì con una delle sue battute: «Fermate Burton, sennò piscia in testa alla vecchia!». Proprio una scena da commedia all’italiana, ma torniamo a Cesare, Bruto e Che Guevara. In quel momento l’idea di «Cesare e Bruto» cadde perché mi dissi: «È inutile perdere tempo, non conosco l’inglese al

punto di mettermi a fare un film con Richard Burton e con altri attori di teatro inglesi del repertorio shakespeariano». Inoltre, la morte di Che Guevara mi fece pensare che la differenza tra l’idealismo di Bruto e la visione politica di Cesare, che era ciò che maggiormente mi interessava, potevo benissimo proiettarla sul rapporto tra l’idealismo del Che e il realismo politico di Fidel Castro. Il discorso sul potere, in fondo, era lo stesso. Dissi a Grimaldi: «Vorrei partire per capire meglio la storia di Che Guevara». Come ti avevo detto, telefonai a L’Avana e partii subito per Cuba. Nei giorni successivi incontrai la moglie di Guevara, coloro che lo avevano ucciso, il colonnello Andrés Selnich, uno dei suoi carcerieri, e anche il capitano Peredo, che aveva dato battaglia a Guevara. Praticamente ho fatto un’inchiesta molto dettagliata. Fu Selnich a catturare Guevara. Peredo, che parlava perfettamente italiano, fu invece l’ultimo ad averlo combattuto. E quando m’incontrò, mi diede una versione dei fatti che in seguito ho scoperto essere in un certo senso solo rovesciata rispetto alla verità della collocazione dei luoghi dove era avvenuto il tutto. Che Guevara stava seduto per terra in uno stanzone quando lo hanno ammazzato. Fu un militare a sparargli con la pistola. Ma ovviamente esistono varie versioni dei fatti. Molti misteri. È inevitabile, in una storia come quella. Dopo quel primo viaggio, ne feci un altro più lungo in America del Sud, in compagnia di Enzo Provenzale, che giorno dopo giorno rendeva conto a Grimaldi di quel che succedeva. Parliamo di quel secondo viaggio. Ho scritto un diario, ma è molto impostato sul mondo che incontravo, che vedevo e conoscevo. Anche sui miei rapporti con l’Icaic. Ripercorrevo il tragitto fatto da Che Guevara quand’era giovanissimo: in Perú, Argentina e Bolivia. Il viaggio durò un paio di mesi, forse di più. Volevo conoscere la stessa gente, la stessa realtà. Non conoscevo nulla dell’America Latina. Fu un viaggio molto interessante. Arrivai in Bolivia, il paese in cui Che Guevara si era stabilito con i suoi guerriglieri, dove usai il mio sistema abituale. Andai dal responsabile della Cultura e gli dissi: «Sto facendo un film

sugli ultimi giorni di Guevara». Preferivo dire tutto subito, piuttosto che scatenare sospetti. Parlavo un discreto spagnolo e riuscii ad avvicinare molti registi dell’Icaic. Ma una sera avevo ricevuto una visita da un presunto prete operaio francese. La cosa mi insospettì, pensai che probabilmente questi non si fidassero di me e avessero cominciato a spiarmi. Allora presi una jeep con un autista boliviano e con Provenzale cominciai tutto un giro sino in Messico, per poi ritornare a L’Avana. Durante quegli spostamenti conobbi molti personaggi che avevano direttamente vissuto l’avventura di Guevara. Ma avevo commesso un errore gravissimo, non avevo portato con me una macchina da presa a mano. Fui riconosciuto da un ufficiale dell’aeronautica boliviana che, mentre parlavamo, tirò fuori da un cassetto della sua scrivania un numero de «L’Europeo» con una mia fotografia a tutta pagina, accanto a un’intervista che m’avevano fatto per un mio film. Aver comunicato all’Icaic il progetto di film su Guevara fu un’altra ingenuità. Venne fuori che, dal momento che nel film c’era Cuba, e che volevo metterci dentro pure Fidel Castro, il progetto aveva bisogno dell’autorizzazione dell’Icaic. Fu proprio Castro a dirmelo. E l’autorizzazione non si dava sulla sceneggiatura, ma a film finito. Cioè volevano prima vedere il film, poi eventualmente approvarlo. Una cosa grave. «Ma come? Proprio voi rivoluzionari stabilite censure simili?» replicai indignato. «Questo non potete chiedermelo.» Tieni presente che c’era un’altra condizione posta dai cubani: che il film non avesse produttori americani. Grimaldi a quel punto si ritirò. E l’avventura Guevara finì. Del resto non è pensabile che un produttore faccia un film e che altri credano di avere il diritto di approvarlo. Capivo il disagio di Grimaldi. Mi disse: «Ho accettato di mettermi in questa impresa anche rinunciando a capitali americani. Ma non mi si può chiedere di fare il film, di tirare fuori i soldi, rischiando che uno poi venga a dirmi: “No, il film non va bene”». Come si era svolto l’incontro con Fidel Castro? Avevamo ottenuto un appuntamento. In giro per L’Avana mi accompagnava Saverio Tutino, che era corrispondente sul

posto de «l’Unità». Dovevamo incontrare Castro in casa del suo ministro dell’Educazione. Aspettammo un bel po’. Improvvisamente, attraverso un finestrone della stanza, vediamo passare un militare col mitra a tracolla. Poco dopo appare sulla porta uno uguale a Fellini. Imponente come Fellini, con la stessa voce, la stessa voglia di piacere all’interlocutore. Era Fidel Castro. Incredibile, sembrava proprio Federico. Fu disponibile e ci incoraggiò. Prima di congedarci, quella volpe di Fidel Castro mi disse: «Poi vedremo, se conviene anche metterci d’accordo con una compagnia americana». Lasciò la porta aperta, senza sbilanciarsi. Ma io ho peccato d’ingenuità. Perché ho creduto che il mio cinema fatto sino a quel momento, potesse diventare una garanzia per l’Icaic e per Fidel Castro. Infatti, mi fecero andare ovunque, mi dettero la possibilità di incontrare chiunque. Però, al momento opportuno, si dimostrarono implacabili: «Il film dobbiamo approvarlo noi». E a quel punto mi passò la voglia. Ma io avevo sbagliato, innanzitutto a non portarmi la macchina da presa. Quello è stato l’errore imperdonabile, che non avevo fatto per Il caso Mattei. A Cuba invece le cose andarono diversamente. Avevo piena fiducia in Saverio però lui stava maturando una disaffezione dalla politica de L’Avana, una revisione, perché Castro cambiava politica: metteva in galera gli omosessuali, in un campo di concentramento e assumeva altre decisioni politicamente non condivisibili. Tant’è vero che poi Tutino si è allontanato da Castro, in molti lo hanno fatto. E anche io, malgrado all’inizio sentissi molto il fermento culturale, l’aria di novità della rivoluzione cubana, cominciavo a nutrire dei dubbi. Quando ti hanno detto che il film doveva essere approvato da loro, sei sicuro che non ci fossero margini di mediazione? Assolutamente no. Quindi non ho il rammarico di non aver cercato un compromesso, se è questo che vuoi dire. L’errore mio è stato anche un altro. Quello di volere fare il film a tutti i costi con un attore spagnolo, o di lingua spagnola. E quello è stato un errore. Perché non c’era un attore spagnolo famoso

che poteva sostenermi con le distribuzioni. Insomma, non c’era Banderas. Credi che il non avere alle spalle un attore di peso abbia indebolito il progetto? Sì, ha reso il progetto più vulnerabile, benché lo avessi costruito sulla solida struttura del Salvatore Giuliano. Tant’è vero che all’Icaic lasciai la scaletta del film scritta su un rotolo di fogli incollati l’uno sull’altro, per vederlo scorrere. Quel rotolo è ancora lì, se non l’hanno buttato via. Il metodo della scaletta scritta sul rotolo era una tua consuetudine? L’ho fatto solo quella volta, per chiarire a loro il film che volevo fare. Ma ho perso troppo tempo ad andare in giro per l’America Latina non dico come un turista, ma come uno che era interessato a scoprire tutto un mondo, non solo dal punto di vista della vicenda di Che Guevara, ma anche il resto, tutto quello che era successo prima, gli antefatti dell’antefatto. In fondo ti sei mosso come avevi fatto in Sicilia per «Salvatore Giuliano». Hai cercato di conoscere il territorio e la sua storia. Solo che qui non ha funzionato, e tu oggi pensi che sia stato un errore. Non ho intuito che in quel caso ci volesse un coagulante diverso per far partire il progetto. Prima di tutto ho esitato a schierarmi decisamente dalla loro parte. Perché non è che mi sentissi un fanatico di Castro per tutto ciò che decideva. Anzi, io volevo fare un film per dimostrare che la posizione idealistica di Guevara era diversa in molti aspetti dall’applicazione politica di Castro. Un bel paradosso. Il film che avevi in mente era critico con Fidel, ma avevi bisogno della sua approvazione per realizzarlo. Sì, è la situazione in cui mi trovai. Mi stuzzicava indagare la distanza che si era creata tra ispirazione ideologica e applicazione pratica del programma rivoluzionario.

Ma ti sei un po’ abbandonato troppo alla documentazione e alla ricerca quando invece avresti dovuto applicare il teorema che avevi messo in pratica per «Il caso Mattei». Hai inquadrato perfettamente la situazione. Se fossi partito con una troupe di quattro, cinque persone e la macchina da presa, avrei cominciato a girare il film. In tal modo, con le riprese in corso sarebbe stata più dura per loro importi un final cut. Avrebbero avuto maggiori difficoltà a dirlo. Il film si sarebbe in qualche modo autoimposto. Ma stiamo parlando del 1967 e purtroppo non avevo ancora lavorato con Volonté. Al contrario, non avrei esitato a fare il film con lui, anche se non era spagnolo. Conoscendolo sono certo che Gian Maria sarebbe riuscito a diventare il Che. Senza alcun dubbio. Il coagulante del progetto. Con Volonté il film sarebbe diventato una realtà. Non solo un’idea. Quando c’è già un protagonista, il progetto diventa qualcosa di più concreto. Cammina con i suoi piedi. E quindi, tutto sommato, è stato un esperimento condotto male da me. Ne sono convinto. Forse dei film che non hai realizzato, questo è quello che ti dispiace di più non avere fatto. Da come ne parli… È probabile. Ma in effetti temo che forse non ce l’avrei fatta a tirare fuori proprio la diversità tra la politica e gli ideali. Era un tema raffinato, difficile. Ma Che Guevara se n’è andato in Congo perché non era più d’accordo. Questa è la verità. Un’altra verità è che, a un certo punto, il Che è rimasto solo con il suo esiguo gruppetto di fedeli compagni in un mondo nemico o indifferente. Andavano in giro per foreste. Alla fine non avevano di che nutrirsi, mangiavano addirittura gli uccellini. Guevara non ce la faceva più, aveva una fortissima asma. Non aveva nessun tipo di protezione. E non si sa, naturalmente, fino a che punto avrebbero potuto dargliela questa protezione. Non avevano di che vestirsi. Che Guevara era ridotto senza le scarpe. Tutto questo io l’ho detto alla

moglie, ma lei non l’ha ammesso neanche per un momento. Anche perché ai nostri incontri era presente il ministro degli Interni, che era un personaggio bellissimo, uguale a Hemingway. Quindi in fondo tu dici che il regime di Castro ha abbandonato il Che. Non lo dico io, ma una quantità incredibile di libri che sono via via usciti dopo l’uccisione del Che e che trattarono l’argomento. Che Guevara è un mito e resterà tale. Mi piacerebbe che mi raccontassi l’incontro con la moglie del Che. Fu molto ospitale. La incontrai a casa sua, un pianterreno. Lei era sulla quarantina. Negò nella maniera più assoluta che Guevara fosse stato ridotto nelle condizioni in cui si diceva. Quando dissi che lui e il suo gruppetto mangiavano gli uccellini, lei fu decisa: «È impossibile». Il controllo del film da fare era già in atto e io non me ne ero accorto. Già al momento di quell’incontro, che avveniva appunto assieme al ministro dell’Interno, io non avevo capito ciò che avrei dovuto capire subito. Che loro mi lasciavano apparentemente libero e mi davano piena fiducia, ma in effetti mi controllavano. E io continuavo ad avere fiducia che loro credessero in me, e nel cinema che avevo fatto. Quando hai incontrato Fidel Castro, credi che avesse visto i tuoi film? Non gliel’ho chiesto. Ma so che Guevara era passato per Roma, era stato alla Fontana di Trevi, e lì a un certo punto aveva detto a chi lo accompagnava: «Se un giorno si deve fare un film sulla rivoluzione cubana lo deve fare Francesco Rosi». È evidente che avesse visto qualche film tuo. Sicuramente il Giuliano, perché era stato proiettato all’Icaic. Lo so, ci sono stato un paio d’anni fa. Mi hanno portato in una delle vecchie salette di proiezione. Appena mi sono seduto si sono messi a ridere. Ho chiesto perché ridessero, e loro: «Lei

si è seduto dove si sedeva il Che. Fidel Castro si sedeva accanto, quando venivano qui a vedere i film». In effetti la saletta è rimasta com’era. Ai miei tempi il direttore dell’Icaic era Alfredo Guevara. Un personaggio molto importante e complesso, un intellettuale, che praticamente teneva in piedi le fila di quanto stavo raccogliendo, per condurmi a fare un film totalmente politico e solamente politico, mentre io avrei voluto curare molto anche tutto l’aspetto sociale di quella storia. Mi mettevano a disposizione l’elicottero per girare Cuba, per trovare anche altre località. Ma io avevo altro in testa. Il mio intento era di girare nei luoghi veri della storia, partire dai «dodici» di Castro e dalla rivoluzione. Infatti, quando dissi: «Io voglio Castro nel film», lui rispose: «Sì, perché no?». In quel momento non capii che in realtà non l’avrebbe mai fatto. Mi sono fidato troppo del mio metodo di lavoro e dei cineasti cubani. Credevo fossero tutti dalla mia parte per aiutarmi a fare il film, invece volevano farlo per conto loro. Anni dopo ci furono dei francesi che mi offrirono di andare in America Latina e fare il film, ma io dissi di no… Perché hai rifiutato? Perché io volevo fare il resoconto cronistico della parabola del Che. Volevo fare un altro Salvatore Giuliano. Loro non erano produttori noti. Volevano che fossi accompagnato da un giornalista di loro fiducia, che avrebbe scritto un diario della lavorazione. Ho capito che sarebbe finita come non avevo mai voluto e non volevo nemmeno allora, cioè tutto si sarebbe risolto in un film che doveva obbedire a esigenze di spettacolo e di mercato. Volevano solo sfruttare il mito di Che Guevara. Non avrei mai potuto fare il film che volevo io. Nel periodo in cui sei stato a Cuba, c’erano altri registi che pensavano a un film su Che Guevara? In Bolivia incontrai, nel ristorante dell’albergo in cui alloggiavo a La Paz, un gruppo di americani che erano lì per comprare il diario di Guevara. Volevano farne un film. Con loro non parlai, ma sapevo del loro tentativo. A me invece

l’idea di commerciare il diario di Guevara non piaceva, a parte la sicurezza sulla sua autenticità. Tempo dopo quegli americani il film lo fecero, si chiamava Che! (1969), con Jack Palance nel ruolo di Castro e Omar Sharif nei panni del Che. Il regista era Richard Fleischer, che non era proprio il più adatto per quel tipo di storia. Niente di indimenticabile. Non ho visto invece quello di Soderbergh. Tornando alla moglie di Che Guevara, come reagì all’idea che si facesse un film su suo marito? Apparentemente in maniera positiva, ma non scendevamo nei particolari. Né lei, né appunto il ministro. Ci scendeva invece Alfredo Guevara, che avrebbe voluto si facesse un film decisamente politico, un’opera di regime, un film dell’Icaic praticamente. Venne anche a Roma. Incontrò Franco Solinas, al quale a un certo punto avevo chiesto una collaborazione. Franco accettò riservandosi di valutare come sarebbero andate le cose. Scrisse anche un paio di paginette, un soggettino, in cui per la verità c’era qualche definizione politica che poteva preoccupare persino un produttore illuminato come Grimaldi. Franco era una persona molto perbene. Il fatto è che era un comunista, diciamo ortodosso. Ed era difficile potersi intendere con lui su alcuni aspetti degenerativi della linea ideologica comunista. Quando Alfredo Guevara venne a Roma e si incontrò con Solinas c’eri pure tu? Una volta sì. Ma, anche se ho piena fiducia nell’onestà profonda e nella lealtà di Franco Solinas, non escludo che si siano incontrati anche da soli. A Solinas non piaceva affrontare quella materia. Diceva: «Ma allora io dovrei venire con te in America Latina, rifare il viaggio che hai fatto tu…». Ma il viaggio io l’avevo fatto tenendo fede da un lato ai noti movimenti del Che, dall’altro io covavo un film a carattere fortemente sociale oltre che politico sull’America Latina. Questa ragione mi ha portato a profittare delle mire castriste al controllo totale del film, per essere sicuro che era meglio non farne niente.

Insomma, giocavate a chi si fidava di meno. In realtà loro potevano fidarsi di me perché conoscevano i film che avevo fatto. Le mani sulla città è del ’63, Guevara è morto nel ’67. Però devi sempre pensare che gli uomini politici, specialmente quando dirigono movimenti come quelli della rivoluzione cubana, hanno giustamente una loro visione delle cose che, di certo, non rivelano tanto facilmente, ma soprattutto tanto veritieramente. Castro doveva stare attento a tante cose. A far mangiare la gente, che era una cosa importante. A farli vivere a Cuba in maniera degna. Quando arrivai, mi portarono a vedere le scuole che avevano fatto. Avevano requisito le ville private degli americani e ne avevano fatto delle scuole. In una si studiava musica, in un’altra si studiava ballo, c’era la scuola in cui si studiava letteratura e storia. Devo dire la verità, fu una cosa che mi emozionò molto, mi commosse proprio. Li vedevo costruire realtà che andavano in una direzione molto seria. Poi lo sappiamo, la politica segue i suoi interessi. Però quando arrivai a Cuba l’atmosfera, l’aria era proprio entusiasmante. La vecchia L’Avana era bellissima, c’era una folla di gente e di intellettuali europei che si erano radunati lì per festeggiare la rivoluzione. C’erano giornalisti importantissimi. C’era Rossana Rossanda, che io conoscevo, ma c’era anche K.S. Karol, il suo fidanzato, una firma importante. Anche lui stava all’Habana Libre, ex Hilton, e aspettavamo di essere chiamati per incontrare Castro. Ma aspettavamo settimane prima di essere convocati. È stato un momento in cui ho capito molte cose. Mi sentivo in un certo senso un osservatore, non un socialista partecipante. Non so come dire. Sì, forse capisco perché non hai fatto il film. Tu volevi applicare lo schema del «Salvatore Giuliano» su Che Guevara. Ma lì il disegno ti era chiarissimo e anche il percorso ideologico con cui affrontarlo, dal momento che sullo sfondo della storia aleggiava la mafia che tu condannavi. Qui avevi difficoltà a mettere in discussione la politica di Castro.

Sì. Avevo difficoltà a sentirmi d’accordo su tutto ciò che decideva e realizzava Castro. E a fare un film sul quale solo lui aveva diritto di dire l’ultima parola. In ogni caso, a quel progetto non pensai più. Una volta Fellini mi disse che se un film non si fa è solo perché il regista in definitiva non è convinto di farlo. Aveva ragione. In effetti poi «Che Guevara» non l’ho voluto fare più, non ci sono mai tornato sopra. Mi sono detto: «Non era destino, andiamo avanti». Ma oggi, lo confesso, mi dispiace non averlo fatto. Ma hai realizzato film che rimarranno nella storia del cinema. Con le tue opere tutti dovranno sempre fare i conti. Apprezzo molto quello che dici, ne sono lusingato. Ma li ho fatti senza la presunzione di dover creare capolavori. Un film è come la vita. Un film è la vita. Quando lo fai con onestà e con la consapevolezza di fare qualcosa che ti appartiene, ma che vuoi che appartenga anche ad altri, scatta un altissimo senso di responsabilità. A volte avverto il desiderio di farne altri, a volte dico a me stesso: «Ho fatto i film che volevo fare». È già molto. Cosa ti manca di un film? Scrivere il copione, preparare le riprese, fare il cast, le prove di costume, i sopralluoghi, girare, montare? Tutto, Peppuccio, tutto. Mi manca di più la fase di ideazione e la scrittura della prima scaletta. Anche se poi ho sempre sentito il bisogno del colloquio con un collaboratore. Tu invece fai tutto da solo. E mi chiedo se è giusto fare a meno di qualcuno con cui confrontarti. È una domanda che mi pongo anch’io. Ho provato spesso a trovare persone con cui collaborare. Ma alla fine mi sono sempre ritrovato da solo. Lo dico autocriticamente. Io fin dall’inizio ho imparato che, nel cinema, il dialogo, lo scambio di idee, sono utili. Tu hai anche avuto frequentazioni importanti. Personaggi che hanno fatto la storia del cinema…

Sì, ne ho conosciuti tanti. Mi viene in mente Vittorio De Sica. Andavo a cena da lui con Giancarla, a casa di Giuditta Rissone. A Natale lui mangiava regolarmente due volte, una dalla moglie, la Rissone, l’altra dall’amante, la spagnola Maria Mercader. Che tipo era? Un maestro, e lo era davvero. Aveva una sua affabilità, non si dava arie. Secondo me film come Ladri di biciclette si dovrebbero studiare nelle scuole, così come si studia Manzoni. Io l’ho amato moltissimo De Sica. Come fai a non amare chi ha fatto quei film lì. Ma anche come attore, quando gioca a carte col bambino ne L’oro di Napoli… una cosa straordinaria. E poi hai conosciuto Roberto Rossellini. Ricordo di una volta in cui io e Giancarla viaggiavamo in auto e per salutarlo ci fermammo a Santa Marinella, dove lui aveva una casa. C’era anche la Bergman. Poi ci vedevamo a Parigi, e spesso c’erano con lui anche i ragazzi della Nouvelle Vague. François Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, Jacques Rivette. Per loro Rossellini era un vero idolo. Lo andavano a trovare, venivano a prenderlo, mangiavano con lui. Alloggiavamo nello stesso albergo, il Raphaël, dove era stata ospitata la delegazione militare americana al tempo dell’armistizio. Roberto era un italiano con tutti i difetti e le virtù di noi italiani. Uomo intelligentissimo, che sapeva tirarsi d’impaccio da qualunque situazione difficile. Un artista e un creatore. Qualche tempo fa ho rivisto Germania anno zero, mi ha veramente sbalordito. Un capolavoro. Ma quando uscì non fu mica trattato bene. Per niente. E invece è il più forte dei film di Rossellini, perché rompeva con un certo tipo di cinema. Roma città aperta è Roma città aperta, ma film come Germania anno zero, Paisà (1946), Viaggio in Italia (1953) sono perle assolute, film che restano nella storia del cinema di tutti i tempi. Ricordi quando hai visto «Roma città aperta» la prima volta?

L’ho visto in quelle proiezioni che facevamo la domenica mattina al Circolo del cinema, al Barberini. Rossellini ti disse mai niente a proposito di un tuo film? Molte volte mi ha dimostrato il suo apprezzamento. So che i miei film gli piacevano. Quando incontravo personaggi di tale grandezza, non ero mai trattato come uno che cominciava il mestiere, ma come uno che aveva iniziato facendo già un film che stava in piedi. Grazie a La sfida mi trattavano già come un collega… Del resto tu hai un’abitudine rara, che io sappia unica: quando vedi un film che ti piace telefoni al regista, anche se non lo conosci, per complimentarti. Sì, l’ho sempre fatto, mi viene istintivo. Ma ai miei tempi non era così raro. Federico, per esempio, lo faceva. Scriveva anche bellissime lettere ai colleghi autori che apprezzava. Tu sei stato molto amico anche di Tullio Kezich. Credo sia il caso pressoché unico di critico cinematografico che del cinema sapeva veramente tutto, conosceva la materia di cui parlava, s’intendeva di produzione, era stato più volte sul set, e non solo come giornalista. Diciamolo, spesso i critici, anche di grande livello, non sanno niente di ciò che accade davanti e intorno all’obiettivo della macchina da presa, si avverte leggendoli. Vedono i film, li giudicano, ma il cinematografo non lo conoscono. La mia amicizia con Tullio è nata con Salvatore Giuliano. Me lo mandò Fabio Rinaudo, capo ufficio stampa di Franco Cristaldi. Io ero un po’ dubbioso, pensai: «Questo mi mette un critico tra i piedi». Invece la nostra diventò una bella amicizia. Anche Alessandra Levantesi, sua moglie, è una bravo critico cinematografico, e una carissima amica. Non abbiamo parlato di Giovanna Cau, eppure è un personaggio che ha svolto un ruolo importante nel corso della tua carriera. Importantissimo. Prima della Cau, io avevo due avvocati dello stesso studio, Alberto Cortina e Nano Alatri. Lo

chiamavamo Nano, in realtà si chiamava Andrea. La Cau lavorava con loro. Donna intelligentissima. Molto legata a Marcello Mastroianni. Una volta abbiamo anche litigato. Così io mi rivolsi a Perilli, l’avvocato di Sergio Leone. Povero Sergio. È morto giovane. Lo incontravo in Spagna, mentre tutti e due stavamo girando. Anche con l’altro Sergio, Corbucci, che pure faceva i western, ci incontravamo in Spagna mentre io inseguivo il mio torero.

«Ma qua non si spara più?»

Già mentre giravo Il caso Mattei mi ero accorto di quanto fosse sorprendente la somiglianza tra Gian Maria Volonté e Lucky Luciano. Va anche detto che in quel periodo arrivava dall’America un’ondata di film di gangster. Il Padrino di Coppola è del ’72, ed ebbe un grandissimo successo, nato anche dal modo innovativo con cui Coppola aveva presentato l’immagine della mafia. Era entrato nei suoi comportamenti più autentici, quelli familiari, una novità. Anche se devo dire che l’idea di raccontarla dal di dentro, in quel modo lì, può sembrare uno sguardo un po’ sfuggente verso i crimini e le aberrazioni della malavita. A me, allora, venne in mente di raccontare il vero padrino nato in Italia e poi trasferitosi al di là dell’oceano. Lucky Luciano nacque e visse fino a nove, dieci anni a Lercara Friddi, in provincia di Palermo. Mi sembrò interessante mostrare come il potere, quello legale e quello illegale, si tenessero spesso la mano. Questo avveniva proprio grazie a una grande intuizione di Luciano, il capo che cambiò il volto della mafia. Capì che per andare avanti doveva dare a Cosa Nostra un ruolo politico. Ciò che mi attraeva non era lo spettacolo delle sparatorie, delle morti violente. Film di gangster se n’erano già visti tanti. A me interessava entrare nella testa di questo leader. Con lui, la mafia entrò in contatto col potere legale. Questa era una novità ed era frutto di una scelta precisa, come quella di mettere pace tra gruppi di mafiosi in guerra tra loro. Gli irlandesi, gli ebrei, i siciliani e i napoletani. Lucky Luciano ha rivoluzionato il concetto di azione mafiosa, è quasi riuscito a dare un’immagine della mafia che non fosse solo legata ad armi e omicidi. Tuttavia, ho preferito raccontarlo dal momento in cui resta solo, rimpatriato in Italia, senza apparentemente più potere, tentando il ritratto di un ex boss di Cosa Nostra. È un film diverso da tutti i film

di mafia. Un film in cui vedi un delinquente, un criminale, non agire mai. Forse è stato il primo film in cui ho dato peso al profilo psicologico del personaggio, e ho sempre pensato che la psicologia di un film la costruisci col montaggio. Che significa costruire la psicologia di un film col montaggio? Dipende dall’uso che si fa degli obiettivi, dipende dal ritmo dei tagli di montaggio. Cioè, a un certo punto uno sguardo, un primissimo piano, che segue o anticipa un totale, può dirti che cosa attraversa la mente del personaggio in quel momento, senza che tu lo affidi al dialogo. Il montaggio come rivelatore del sottotesto di un film. Certo. Nel senso di una rivelazione estranea a qualsiasi spiegazione didascalica. Affidata sempre e soltanto all’immagine. Io credo che l’avvicendamento delle inquadrature realizzate con l’impiego diversificato degli obiettivi finisca per sostituire, nella grammatica delle immagini, la sintassi dei significati. Questa nuova prospettiva comincia a influenzare la tua cifra stilistica a partire da «Lucky Luciano». È in quel film che cominci a essere attratto non soltanto dalle azioni dei personaggi, ma soprattutto da ciò che essi pensano e sottacciono. In Salvatore Giuliano della psicologia del bandito di Montelepre mi interessava ben poco. Non era quello lo scopo del film. Ma mi chiedo se non ci sia già un’attenzione di natura psicologica nel Rod Steiger di Le mani sulla città. Sono d’accordo con te. Per esempio nel suo continuo tormentarsi il viso con le mani. Nella sequenza della grande crisi, quando entra da solo in chiesa e accende le candele alla Madonna. Quando arriva sul luogo del disastro, e guarda la cima del palazzo crollato senza dire niente. Però afferra il figlio e se lo porta via. Un modo di raccontare la profondità del personaggio che ritroverai solo in «Lucky Luciano».

E che non mi abbandonerà più. Penso al codice del non detto in Cadaveri eccellenti. All’intensità quasi lirica di Volonté in Cristo si è fermato a Eboli. Ma anche al Turturro de La tregua. Tornando alla genesi di «Lucky Luciano», si può dire che pensi di fare quel film in seguito al grande successo de «Il Padrino»? Il grande successo di quel film mi autorizzava a pensare a un lavoro sulla stessa materia, ma molto diverso. Il mio leader della mafia aveva un profilo decisamente distante da quello di don Vito Corleone. Pensa solo che Luciano era stato condannato a venti anni di reclusione, ma dopo averne scontati nove, fu rispedito in Italia. Il governatore lo graziò per i servizi resi agli Stati Uniti. Si diceva che avesse avuto un ruolo nella preparazione dello sbarco americano in Sicilia, il primo avvenuto in Europa. Per insinuarmi meglio in quelle vicende, chiesi aiuto a Lino Jannuzzi, giornalista molto noto de «L’Espresso» che in quel periodo era un parlamentare socialista membro della Commissione antimafia. Uno che di fatti e persone ne conosceva tanti, e poi padrone della materia. I tempi erano cambiati rispetto agli anni in cui si preferiva fare un film sulla camorra anziché ambientarlo nei luoghi rischiosi della mafia, l’epoca in cui il ministero annullava i finanziamenti a «Salvatore Giuliano». Quando l’idea su «Lucky Luciano» ti convinse definitivamente, a quale produttore ne parlasti? Ne parlai a Cristaldi, avevo appena fatto un film con lui. E Franco certamente sperava di cavalcare il successo avuto da Il Padrino. Ebbe ragione, il film incassò bene. In effetti è vero quello che dici. Il clima era proprio cambiato. Goffredo Lombardo, che all’epoca di Salvatore Giuliano aveva preferito abbandonare il progetto, entrò stavolta coproducendo il film e distribuendolo in Italia. Si trattava di un film grosso, complesso, ma lo realizzai in pochi mesi, oggi forse sarebbe impossibile fare lo stesso.

Subito dopo le tensioni su Mattei e il caso De Mauro, non hai pensato che fare un film sulla mafia fosse rischioso? Non in maniera predominante. Forse per quella libertà che ritieni di avere quando concepisci un film. Pensi al film, non alle difficoltà che ne possono derivare. E comunque io non credo di averci troppo pensato. Credo che non ci abbia pensato neppure Cristaldi. Ma poi io seguivo le mie regole abituali. Lavoravo sui documenti, su quello che era noto. Per esempio, mi procurai i verbali dell’interrogatorio del capitano della guardia di finanza, che nel film era interpretato dal regista e amico Silverio Blasi. Fu l’interrogatorio durante il quale Lucky Luciano si sentì male, poco prima che raggiungessero l’aeroporto dove poi lui è morto. Anche gli interventi del capo del Narcotics Bureau, Anslinger, ruolo che diedi a Edmond O’Brien, erano ricostruiti su fatti autentici. Quel film l’ho disegnato come gli altri, senza preoccuparmi troppo dell’aspetto spettacolare. Piuttosto che morti e sparatorie, preferii una specie di balletto al rallenty, in cui i killer si muovevano contrappuntati da Sicilia amara, cantata dal tenore Luigi Infantino, mio caro amico. Come in una danza macabra. Ecco, sì. Una danza macabra spezzata ogni tanto da raffiche di mitra. All’inizio, come per liberarmi subito del linguaggio tipico dei film sulla mafia. Decisi che un assassinio andava mostrato solo se necessario. E la necessità scattò per esempio quando mostrai l’uccisione di Gene Giannini interpretato da Rod Steiger. Francis Ford Coppola e Martin Scorsese apprezzarono molto il modo in cui trattai i delinquenti. Ma quel risultato dipendeva anche dall’aver girato nei luoghi autentici della storia, come se fosse stato un obbligo da parte mia girare in quelle zone. Lo sentivo come se fosse stato un dovere. A Martin piacque in particolare il balletto degli ammazzamenti iniziale. Disse che era un’idea geniale. Era un modo di raccontare la mafia senza cadere nella retorica degli ammazzamenti brutali. Ricordi quando hai convocato Gian Maria Volonté per parlargli di «Lucky Luciano», ormai il terzo film della vostra

collaborazione? Avevo già per il suo talento di attore un’ammirazione profonda, ma in questo caso nacque un’identificazione pressoché totale tra Volonté e il personaggio di Lucky Luciano. Gian Maria riusciva a tirare fuori da Luciano tutte quelle ambiguità che mi occorrevano per definirlo come personaggio oscuro, silenzioso, detentore ancora di un potere, ma allo stesso tempo, consapevole di non essere più l’autorità che era stato. Gian Maria era praticamente diventato lui. Un giorno si è presentato vestito da Lucky Luciano, ha aperto la bocca e mi ha sorriso. Ma aveva un’altra bocca. Non me ne aveva parlato prima, si era fatto fare una protesi dentaria che applicata sui suoi denti gli rendeva il sorriso simile a un ghigno. C’è una scena in cui accarezza una bambina che gli chiede: «Tu sei Lucky Luciano?». Lui risponde solo con un sorriso che diventa diabolico. Lo ricordo bene il sorriso di quel film. È inquietante, e Volonté l’ha fatto solo in «Lucky Luciano». Adesso capisco perché. È vero, inquietante. Dà una luce sinistra al personaggio, anche in un momento tenero in cui sorride alla bambina. Devi sapere che un giorno, in compagnia di Gian Maria vestito con gli abiti di scena, andai a trovare un uomo che era stato espulso dagli Stati Uniti. Mi avevano parlato di lui mentre giravamo in Sicilia, mi dissero che l’avrei trovato in un paese non troppo lontano. Quando quell’uomo vide Volonté, sbiancò in volto. Era stato in prigione, nella stessa cella di Lucky Luciano. Confesso che ero andato da lui perché volevo verificare l’effettiva somiglianza di Volonté col personaggio. Il pallore improvviso su quel volto fu la conferma che cercavo. Ti racconto un altro episodio. Un giorno eravamo a Napoli, giravamo la scena di una conferenza stampa all’Hotel Royal. Fui avvicinato da personaggi chiaramente appartenenti a certi ambienti. Mi presentarono l’ultima amica napoletana di Lucky Luciano. Dissero: «La signora vorrebbe conoscere Volonté». Chiamai Gian Maria, che in quel momento aveva il cappello e il cappotto di scena. Ci sedemmo tutti. Questa donna continuava a guardare Gian Maria, gli tenne gli occhi addosso

per un tempo lunghissimo. Lui era anche un po’ in imbarazzo, non sapeva cosa fare. A un tratto la donna si gira verso di me e dice, in dialetto napoletano: «È isso’». È lui. Insomma, ricevemmo anche l’imprimatur dalla donna che andava a letto con Luciano. Capisci fino a che punto sapeva arrivare Gian Maria? Con Lucky Luciano aveva dato al personaggio uno stile posato, lento, sempre riflessivo su ciò che doveva dire e fare. Aggiungo che durante le riprese ho sempre avuto la sensazione che si divertisse molto. Peccato che non abbia partecipato alle scene girate in America. Non volle seguirvi? Lui avrebbe voluto, ma era comunista, non gli concessero il visto per entrare negli Stati Uniti. E come hai risolto le scene in cui appariva? Nella sequenza del porto lui c’è, perché l’abbiamo girata a Genova, solo le sue soggettive le ho in seguito realizzate a New York. Ho ridotto al minimo la sua presenza in scene ambientate in America, nelle quali l’ho ripreso sempre di spalle. Immagino usando una controfigura. Proprio così, e la controfigura sono io. Indossavo il suo cappotto e il suo cappello. Hai fatto fessi gli americani. Sei riuscito a portargli un comunista in casa. Eh, be’, abbiamo fatto il cinematografo. Com’era andata la fase di preparazione del personaggio? Il rapporto con Gian Maria lo scandivo in modo da permettergli di procedere col suo metodo. Lui studiava moltissimo la sceneggiatura, la ricopiava due o tre volte a mano. Perché così, ricopiando lentamente, si dava il tempo di penetrare meglio il testo, con più attenzione. Lo stesso metodo che usava Enrico Caruso per le opere liriche. Imparava a memoria la parte ricopiandola a mano più

volte. E nel caso della «Carmen», non conoscendo il francese, scriveva il testo come si pronuncia. Gian Maria faceva molto di più, si nutriva del personaggio, ne assorbiva l’immagine, la gestualità, i comportamenti. Studiava anche i documenti, anche se in questo film non erano molti. Su Lucky Luciano, come su Enrico Mattei, non c’era tanto materiale fotografico. Come hai organizzato la ricerca sul personaggio, la raccolta dei documenti e delle testimonianze? Ho cominciato col visitare la sua casa a Napoli, ho osservato i libri che leggeva, soprattutto romanzi popolari americani, ho parlato con la gente che aveva conosciuto, fino a ricostruire il suo stile nel vestire. Non volevo ricreare nulla di diverso. Usavi un metodo particolare nell’avvicinare chi aveva avuto rapporti con lui? Ponevo domande semplici e chiare, senza i gesti e i sottintesi che possono essere riferiti alla criminalità. Quando si tratta di film come i miei, la cosa che non devi fare è insospettire le persone dalle quali vuoi trarre informazioni. Quali testimonianze sei riuscito a raccogliere sul tuo personaggio? Lui mangiava sempre verso le due del pomeriggio, in un ristorante a Napoli che aveva i tavoli fuori, di fronte al Teatro San Carlo. Andava lì ogni giorno, da solo. Il cameriere che solitamente lo serviva mi disse che era molto silenzioso, discreto, non alzava mai la voce, rifletteva molto su quello che doveva dire e fare. Era proprietario di un appartamento in via Tasso, a Napoli. Dopo la sua morte, i mobili furono acquistati dal proprietario di un ristorante da cui li feci ricomprare per usarli nel film. Volonté dorme esattamente nel letto dove dormiva Lucky Luciano. Seppi anche chi era il suo barbiere, mi presentai da lui: «Mi dica qualcosa di Lucky Luciano». Sai bene che a volte anche solo una piccola notizia può farti risalire a dettagli interessanti. Il barbiere mi guardò sospettoso:

«Sedetevi là, quella è la sedia dove si sedeva sempre lui». «Ma io non ho bisogno di sedermi perché non mi devo fare la barba, l’ho fatta.» Il barbiere insisteva: «Voi sedetevi e fatevi fare la barba!». A quel punto mi sedetti, chiedendogli se potevo girare una scena nel suo salone, e quello m’insaponò la faccia. A quel punto dissi: «Scusate, ma voi perché mi volete fare la barba?». «Io questa scena qua dentro non ve la faccio girare» mi rispose. Impugnò il rasoio e cominciò a radermi. «E va bene» dico «ma perché non volete farmi girare?» «Eh, perché io lo so che volete dire che Lucky Luciano è morto avvelenato.» «Ma chi ve l’ha detto? Non è affatto vero.» «E invece tutti quanti dicono che voi volete dire che è morto avvelenato, quando invece ci sono le prove che è stato un infarto.» Finì che quella scena la girai da un altro barbiere. C’erano parenti di Lucky Luciano? Non credo, no. Quando abbiamo girato la scena al cimitero di Lercara Friddi, il paese dov’era nato e da cui era partito quand’era ragazzino, parenti non ne ho visti, non si presentò nessuno. Andammo lì perché c’era la tomba di famiglia, i Lucania. Come sai, il suo vero nome era Salvatore Lucania. Successivamente, andai con Volonté al cimitero di Partinico per girare la sequenza delle lapidi sulle tombe, quelle dei morti ammazzati dalla mafia. Ricordi? Era un’idea che volevo usare in Salvatore Giuliano. Poi l’ho realizzata qui: «Vittima innocente di mano crudele e senza scrupoli la famiglia straziata dal dolore lacrimante prega». «Morto per mano sacrilega lasciando la moglie desolata che piange e prega per lui.» «Vittima innocente di un crudele assassino dopo dodici giorni di crudele sofferenza con rassegnazione cristiana rendeva l’anima a Dio.» «Da crudele ignota mano ucciso le famiglie piangono il padre il suocero l’amico.» «Uomo onesto e laborioso visse per la famiglia sacrificò la sua vita morto tragicamente da un destino fatale.» «Morto innocente da mano assassina nel fiore degli anni.» Ne «Il caso Mattei», hai messo all’inizio del film ciò che era previsto per il finale. Anche in «Lucky Luciano» hai di nuovo tenuto la struttura del film aperta fino alla fine?

Il film doveva cominciare con la scena dei contrabbandieri che trattano coi marinai americani, i quali avevano fatto credere di dar loro sigarette e altra merce, ma all’ultimo momento li avevano fregati e anche ammazzati. Ci sarebbero stati poi i funerali nel mare di Napoli. Tu puoi immaginare i napoletani del borgo di Santa Lucia, quasi tutti contrabbandieri, come presero il fatto di essere stati truffati dagli americani. Una scena che mi avrebbe preso troppo tempo e troppo metraggio. E poi mi pareva difficile collegarla col film che avevo in testa. Così non l’ho girata. In teoria mi piaceva tantissimo, ma ho capito che era fuori dal film. Avvertii Cristaldi che non l’avrei girata. Era contentissimo. La scena sarebbe costata centocinquanta milioni. A un certo punto interruppi le riprese in Italia per alcune settimane, andavo negli Stati Uniti per girare tra l’altro la morte di Gene Giannini, il personaggio interpretato da Rod Steiger. Durante quella sosta ho riflettuto e ho deciso che il film doveva iniziare con Luciano che parte da New York costretto a rimpatriare in Italia in quanto ritenuto indesiderato. In questo modo il film è concepito come un montaggio di tasselli, ognuno con una propria funzione rispetto all’insieme, ma anche con una propria autonomia. Togliere uno solo dei tasselli voleva dire cambiare il senso dell’intero film. È un’esperienza che avevo fatto per la prima volta con Salvatore Giuliano. La sfida aveva ancora una costruzione tradizionale. Era un film riuscito, ma formalmente fedele a certi canoni. Avevo capito che muoversi su un binario già tracciato vincola la libertà del racconto. Invece lo sviluppo così libero di Salvatore Giuliano mi era piaciuto ed era riuscito pienamente. E lo adottai di nuovo ne Il caso Mattei, e ancora in Cadaveri eccellenti. Diciamo pure un codice espressivo diventato quasi la mia firma. Naturalmente è una scelta narrativa che stava in piedi con quel genere di film. Non l’ho certo usata con Tre fratelli, che è un racconto lineare, semplice, sia pure con livelli diversi di profondità. Ci sono altri momenti nella sceneggiatura di «Lucky Luciano» da cui ti sei allontanato nel corso della lavorazione?

Sì, il finale. Originariamente il film non si concludeva con la morte di Luciano, proseguiva sui rapporti tra droga, mafia ed esercito americano in Vietnam. Improvvisamente mi è sembrato che quegli elementi appartenessero a un altro film, proprio come l’inizio che avevo scartato. È vero che un produttore spagnolo voleva fare un film sulla vita di Lucky Luciano? Verissimo. Luciano lesse addirittura il copione e in un primo momento l’aveva anche approvato. Poi ci ripensò e voleva che si togliesse il suo nome. Nel mio film ho ricostruito la scena in cui il produttore lo raggiunse a Napoli proprio per parlarne. Si incontrano all’aeroporto. Luciano lo accoglie quasi abbracciandolo, con un gesto che colpì Fellini. Me lo disse lui. L’atteggiamento paterno con cui Gian Maria poggiava la mano sulla spalla del produttore lo aveva misteriosamente impressionato. È esattamente la sequenza che chiude il film. Pochi istanti dopo Lucky Luciano si accascia a terra stroncato da un infarto. Entriamo in questioni che restano in bilico tra storia e fantasia. Per esempio il peso avuto da Luciano nello sbarco degli americani in Sicilia e il suo ruolo nell’eccidio di Portella della Ginestra. Naturalmente è del tutto verosimile che la lotta contro il comunismo sia stata combattuta anche usando la mafia e personaggi come Lucky Luciano. Si scrisse pure che fosse intervenuto nella decisione di fare uccidere Salvatore Giuliano. Diciamo che questo è plausibile, visto che a partire dal 1946 Luciano era in Italia. Però, sai, i giornali in materie come questa non risparmiano niente, molte volte semplici ipotesi sembrano fatti. Ricordo di aver pure letto che Lucky Luciano fosse stato utilizzato dalle istituzioni per stabilire rapporti con la mafia. È ovvio che decisioni come quella di Portella della Ginestra passino attraverso tanti personaggi che appartengono a gruppi di potere diversi all’interno della malavita. Sparare all’impazzata sui contadini durante una festa, non è mica uno scherzo che organizzi in quattro e quattr’otto.

Al di là del discorso sul potere, c’erano altri aspetti di questo film che ti attraevano, che te lo facevano apparire necessario? In fondo ho sempre desiderato girare un film sulla presenza degli americani a Napoli. La sequenza degli americani che ballano con le ragazze rievoca i miei ricordi in tal senso. L’argomento era il cuore del romanzo di Burns, La galleria, da cui ho sempre voluto fare un film. Ma lì manca un’angolazione importante: il rapporto tra mafia e politica. Io arrivai a Napoli quando l’avevano già presa gli aemricani. E quella Napoli era una città incredibile, di un interesse narrativo e visuale enorme. Ogni nobile dimora napoletana ospitava soldati americani convalescenti, oppure diventava un club dove suonavano orchestre come quelle di Glenn Miller o Benny Goodman o Louis Armstrong. La città usciva da una miseria nera, dalle sofferenze più dolorose, da bombardamenti, morti, fame. Con gli americani ci fu un’esplosione di vita, soprattutto del popolo, un po’ meno dei borghesi, che in qualche modo mascheravano la gioia per il loro arrivo. Perché hai pensato di coinvolgere l’agente federale della narcotici Charles Siragusa nel ruolo di se stesso? Sai bene che è mia abitudine coinvolgere persone che hanno avuto una funzione istituzionale. Ero andato per qualche settimana a New York con Lino Jannuzzi, dovevamo controllare alcuni documenti negli archivi dell’Onu e ne approfittai per raggiungere Chicago, dove Siragusa abitava. Lui aveva braccato Lucky Luciano per ben dieci anni. Gli chiesi subito se voleva interpretare il ruolo avuto nella vita. Disse sì immediatamente. Lui era il siciliano onesto che si ritrova contro il siciliano criminale. Non era un attore, era un poliziotto, e lo faceva con padronanza, senza sottigliezze. Lo feci doppiare da Adolfo Celi, che era siciliano e riusciva a rendere vero un accento senza le maestrie del doppiatore di professione. Parlami della scrittura del copione con Jannuzzi. Io e Lino ci eravamo costruiti una solida preparazione sull’intera vicenda di Lucky Luciano. Dopo aver concluso la

fase di scrittura, feci rivedere lo script a Tonino Guerra, che collaborava. Assai spesso abbiamo lavorato anche tutti e tre insieme. Ogni tanto si aggiungeva a noi Jerry Chodorov, che era americano e che curava i dialoghi in inglese. A proposito, ti ho raccontato di quando chiamai Vincent Gardenia per offrirgli il ruolo del colonnello Poletti? No, raccontami. Ora posso parlarne liberamente, anche perché Gardenia è morto. Un bravissimo attore. L’avevo molto apprezzato nei film americani che gli avevo visto fare. Volli conoscerlo. Era di origini napoletane, ma viveva in America da tanti anni. Parlava perfettamente l’italiano e pure il napoletano. Gli proposi di diventare per me Charles Poletti, capo dell’amministrazione militare alleata in Sicilia e a Napoli, che si serviva come interprete del boss mafioso Vito Genovese. Vincent non accettò subito: «Mi piacerebbe molto, ma prima voglio pensarci». Passò qualche giorno. Una mattina venne a trovarmi in albergo: «Lo faccio» disse. «Ma perché hai aspettato tanto?» E lui: «Mi sono assicurato che loro non avrebbero avuto da ridire». «Da ridire? Ma loro chi?» «Come chi? L’ambiente, non so se mi sono spiegato. Qui in America Lucky Luciano è famoso. Perciò ho chiesto se la questione infastidiva. Mi hanno detto che posso.» Aveva chiesto il permesso alla mafia. E la mafia glielo aveva concesso. Incredibile. Invece con Edmond O’Brien come andò? Amavo moltissimo quest’attore americano e lo vedevo perfetto per il suo personaggio. Mi rivolsi a un agente che mi mise in contatto col suo manager americano. Alla fine Edmond O’Brien arrivò in Italia. Andai io stesso ad accoglierlo all’Hotel Excelsior. Ma non arrivava, nessuno si faceva vivo. A un tratto lo vidi spuntare col cappotto sul braccio, irritato per il ritardo dell’aereo. Ci presentammo, gli spiegai il personaggio e ciò che doveva fare. Giorno dopo giorno scopro però che aveva problemi seri, che era ammalato, che voleva ancora lavorare, ma in America nessuno gli offriva più nulla. In giro sapevano che perdeva la memoria. Tant’è vero che nella scena in cui legge la sua relazione alle Nazioni

Unite, gli feci scrivere sui fogli le battute a caratteri grandi, così che potesse vederle bene. Sai cosa mi disse il giorno in cui lo portai da Amleto, il mio barbiere? Mi guardò fisso, con un’aria quasi commossa: «Ma perché fai tutto questo per me?». «Perché sei un mio attore, un mio personaggio e quindi desidero che tu sia tranquillo e lavori al meglio.» Questo lo spinse a farmi delle confidenze. Mi raccontò che aveva disturbi notevoli agli occhi, e che le lenti a contatto non li avevano risolti. «I medici americani con me si sono arricchiti» disse. Mi parlò della sua famiglia. Capii davvero che uomo fosse, mi piacque, l’ho aiutato. Era un attore shakespeariano formidabile. Quando nel «Prossimamente» di un film vedevi volti come il suo, capivi che quello era un buon film. Hai ragione. C’erano alcuni attori la cui sola apparizione, anche in piccoli ruoli, bastava a garantire la qualità del film. Il pubblico si faceva guidare da queste presenze, si fidava. Così come mi sono fidato io di Edmond O’Brien in quella mia pellicola. Ho la sensazione che parli di «Lucky Luciano» come di un film che non ti abbia dato le soddisfazioni che volevi. Ti sbagli, è un film che mi piace e sono orgoglioso di averlo realizzato. Io lo ricordo come un film di successo, forte, molto apprezzato. Quando uscì nel ’73, lavoravo come proiezionista a Villabate, tra Bagheria e Palermo, in quell’area che qualche anno dopo una sanguinosa guerra di mafia avrebbe reso celebre come «triangolo della morte». Nel periodo natalizio programmammo «Lucky Luciano». Il cinema aveva un cortile dov’era affisso il manifesto del film, due tizi lo guardavano. Uno disse all’altro: «Chistu è megghiu ru Padrinu!». Ricordo che a Napoli uscì al Delle Palme, un cinema molto grande. Io non c’ero, ma mi riferirono di una ressa enorme. Molta gente del milieu. Quando videro quella specie di balletto durante la sparatoria iniziale, erano tutti come incantati. Poi, man mano che il film andava avanti, si

chiedevano: «Ma qua non si spara più?». Aspettavano le sparatorie classiche, con uccisioni dalla prima scena all’ultima. Siamo in una fase in cui la tua carriera ha un’impennata clamorosa. «Il caso Mattei», «Lucky Luciano», «Cadaveri eccellenti», «Cristo si è fermato a Eboli». Non ti fermava nessuno. A differenza dei primi anni, in cui c’era ancora qualche problema per mettere in piedi i film, adesso il vento era cambiato. Il pubblico, il cinema, il mercato, la produzione, ti sono venuti dietro. È l’epoca in cui puoi fare esattamente ciò che vuoi. Sbaglio? Per niente, hai proprio ragione. Anzi, ora che mi ci fai pensare, era proprio così. Una volta Federico mi disse: «Tutto si svolge in quindici anni. In quindici anni noi facciamo i nostri film migliori, dopo comincia il tramonto…». Poi a un tratto il pubblico nel nostro paese non ha più voluto riflettere su certi temi. Appena questo disinteresse s’è avvertito, il mercato ha spazzato via tutto. Da quel momento, chi ha voluto continuare a raccontare certe storie, ha faticato tantissimo per sostenerle e realizzarle. In effetti avevo conquistato forza sufficiente a proporre i miei temi. E davvero mi pareva che fossero gli ultimi bagliori. Intuivo che al primo passo falso si rischiava di dire addio a tutto, e di chiudere davvero quella grande stagione del nostro cinematografo. «Lucky Luciano» ebbe una nomination agli Oscar come miglior film straniero, nomination che subito dopo fu cancellata. È vero? Cosa mi fai ricordare! Sì, formalmente annullata a causa della lingua in cui fu girata una parte del film. In realtà la candidatura fu assegnata, il film entrò in cinquina. Un paio di settimane dopo, prima della serata ufficiale della consegna degli Oscar, fu però invalidata perché Rod Steiger, Edmond O’Brien e qualcun altro avevano recitato in inglese. Il regolamento prevede che un film straniero debba essere interamente girato in una lingua che non sia l’inglese. Peccato.

La verità e la rivoluzione

Curiosamente il primo ricordo che ho di Cadaveri eccellenti è il giorno in cui andai a New York per la promozione del film. Fu la United Artists a distribuirlo in America con il titolo Illustrious Corpses. Mi presento al Moma, dov’era fissata la prima proiezione. C’era pubblico, e assisto al film, che ebbe molto successo. Alla fine passo nella saletta dove gli autori in genere incontrano gli invitati, i giornalisti, e rispondono alle loro domande. Entro e mi accorgo di essere solo, completamente solo. Se n’erano andati via tutti. Mi raggiunge l’uomo della United Artists, una persona garbata: «Devo scusarmi con lei. C’è stato un errore gravissimo, pensavamo che la proiezione fosse domani». Così restai solo con Ugo Stille, il grande giornalista, mio caro amico, che mi accompagnava e mi faceva da interprete. Come te lo sei spiegato, che impressione hai avuto in quel momento? Pensai che non volessero sostenere pubblicamente il film. Che lo avessero equivocato. Le bandiere rosse del finale furono interpretate come un omaggio alla rivoluzione. La casa distributrice avrebbe dovuto rispondere in America di un film in cui si celebrava il Partito comunista. Temevano tutto ciò, non volevano passare come produttori di un film in cui l’uccisione del segretario dei comunisti fa rischiare la guerra civile. E allora annullarono ogni tipo di conferenza. Quindi la vera ragione non era quella che ti ha dato l’uomo della United Artists? Ma no. Non vollero parlarne, non volevano avallare un film che secondo loro mostrava il trionfo del Pci. Chissà se lo sapevano che in Italia i comunisti mi accusavano proprio del contrario. Del resto c’erano state polemiche molto accese

anche nel 1971, quando Leonardo Sciascia pubblicò Il contesto, da cui è tratto Cadaveri eccellenti. L’Italia non era ancora caduta nell’assurdità in cui è sprofondata dopo. Parlo del terrorismo. Dieci anni di follia. Inaccettabile. Una ragazza avvicina il professore sulle scale dell’università, lo chiama per nome e gli scarica addosso la rivoltella. Erano così quegli attacchi. È stata una guerra civile. Ti racconto un episodio, avvenuto quando una delle firme più importanti del «Nouvel Observateur» venne a Roma per vedere con me Cadaveri eccellenti. Andammo al Supercinema. Finita la proiezione, proprio lì fuori c’era un cadavere per terra, colpito da un’azione terroristica. Era tutto vero, ma sembrava un’altra scena del mio film che avevamo appena visto. Come ti era venuta l’idea di far diventare film il libro di Leonardo Sciascia? Un giorno ero andato a New York per parlare con Dino De Laurentiis, personaggio che amavo. Aveva la sicurezza dell’uomo che sa scegliere. Abbiamo desiderato a lungo di fare un film insieme, non ci siamo mai riusciti. Viaggiavamo su linee diverse. Pochi anni fa, me l’aveva ricordato di nuovo: «Non abbiamo mai fatto un film insieme, facciamolo». Andammo a mangiare dal Moro, con sua moglie e Giancarla. Gli proposi «Cesare e Bruto». Mi disse: «Pensavo che mi proponessi l’ennesimo film su Napoli». Chissà cosa aveva in mente. Nello stesso periodo cercò anche Ettore Scola e Carlo Lizzani. Da nessuno di quegli incontri, ch’io sappia, sono nati dei film. Sta di fatto che quella lontana mattina a New York, credetti davvero che fosse la volta buona. Dino m’invitò a prendere il caffè, come faceva sempre, la mattina alle 7.30 nel suo ufficio. Gli proposi un film venuto in mente a me e al mio amico Gabriel García Márquez, una storia un po’ avveniristica da girare lì a New York. Un gruppo di estremisti approfittavano del funerale di un grosso personaggio per organizzare un attacco terroristico alla città di New York. Dino ingoiò l’ultimo sorso di caffè, mi guardò negli occhi e disse: «Ma tu sì asciuto pazzo?». Nell’aereo che mi riportava in Italia, trovo in borsa Il contesto, non l’avevo ancora letto. Mi

ci tuffo dentro, e quella lettura mi fulmina. Pensai: «Ma questo è un sommario dei miei ultimi film. Ci sono la mafia, la politica, i servizi segreti, tutto». Atterro a Fiumicino, arrivo a casa e telefono a Grimaldi: «Ho trovato il film che voglio fare, però devi sbrigarti, rischiamo di farci soffiare i diritti del libro da qualcun altro». Un minuto dopo chiamo Leonardo Sciascia. Gli dico: «Voglio fare Il contesto». Sai bene che era di poche parole. Eravamo amici, mi rispose: «Va bene». Ma non gli parlai subito della mia intenzione di ambientare il film nella realtà italiana, nel complesso sistema dei partiti politici, né che avrei affrontato il comunismo. Lo misi immediatamente in contatto con l’agente di Alberto Grimaldi, che subito acquisì i diritti. Dopodiché dissi a Giancarla: «Riparto subito, vado a Parigi a parlare con Lino Ventura». Sapevo che voleva fare un film con me, me l’aveva detto il mio amico Sergio Corbucci, che con lui aveva lavorato. Ventura mi pareva ideale nel ruolo del commissario protagonista del film. Confesso che intanto pensavo: «Sai quanti mi chiederanno: ma come, dopo tanti film con Volonté, questo non lo fai con lui?». Volonté non era adatto. Il suo sguardo indagatore, la faccia così mobile, non erano tagliati per un personaggio che doveva essere, come aveva scritto Leonardo, un uomo giusto che ha fiducia nello Stato, nel potere e nelle istituzioni e che a un certo punto si accorge che non esiste più giustizia, perché il procuratore generale gli dice: «Il suo mestiere di poliziotto non serve più a niente, la giustizia non esiste più, la si può fare ormai solamente con la decimazione». Tu quindi capisci che trauma per un uomo semplice, normale come lui. Come andò l’incontro con Lino Ventura? Una volta, a Parigi, gli raccontai Il contesto. Non mi fece neanche finire: «Basta, non voglio sapere più niente. Faccio il film». Allora si usava così. Il suo compenso era una bella cifra, da cast americano. Ma Grimaldi non si scompose, mi sostenne anche nel proposito di mettere in piedi un cast impressionante. Fernando Rey era meraviglioso. E anche Max Von Sydow, Charles Vanel, Alain Cuny, Renato Salvatori, Anna Proclemer. Con Alberto Grimaldi lavorai proprio bene.

Aveva una grande considerazione dei suoi registi. Con Dino De Laurentiis era diverso, perché aveva un concetto di sé prossimo alla superiorità. Grimaldi no, rispettava Fellini come rispettava Pasolini, Pontecorvo, Leone, Petri, Corbucci, e tutti gli altri con i quali ha lavorato. Peccato che decise di ritirarsi troppo presto. Avrebbe potuto fare ancora molto per il nostro cinema. Era entusiasta quando Lino Ventura accettò di fare Cadaveri eccellenti. Io tornai a Roma e cominciai a studiare il testo, che procurava problemi infiniti. Il contesto è un libriccino di sole cento pagine, ma ogni pagina ne contiene altre cento. Più lo leggevo, più capivo che era il ritratto dell’Italia che eravamo e dell’Italia che stavamo diventando. Quale aspetto del libro ti colpì più degli altri? Mi sembrava che in quel racconto tutto fosse perfettamente calcolato. In quel centinaio di pagine c’era una densità assoluta. All’epoca mi convinsi che prima di arrivare a quel risultato, Leonardo avesse scritto dieci volte tanto, e poi avesse pian piano distillato. Ti faccio un esempio: mi ero chiesto a lungo perché l’ispettore Rogas, il protagonista del libro, si muovesse prendendo l’autobus. L’avrà avuta a sua disposizione una macchina della polizia… Poi ho capito. Sciascia pensava a lui come a un uomo giusto. Uno così, un uomo dello Stato, doveva servirsi dei mezzi pubblici. E allora ho fatto la stessa cosa nel film. Ci sono state altre opere di Sciascia che avresti voluto portare sullo schermo? M’intrigava tantissimo pure Todo modo, che intanto Sciascia aveva pubblicato e del quale intendevo prendere i diritti. Ma la moglie di Elio Petri fu più rapida di me e «fermò» il libro. E dire che a Grimaldi avevo detto di volerlo fare io. Petri sapeva che fare un film da «Todo modo» fosse anche un tuo desiderio? Non lo sapeva. Ma è stata una situazione vissuta molto serenamente. Io rispettavo e stimavo moltissimo Elio Petri. Grimaldi giustamente, come produttore, si disse: «Non posso

mica fare due film con lo stesso regista, per di più tratti dallo stesso scrittore!». Comunque Elio ne trasse un grande film, che hanno fatto sparire, non capisco perché. È vero, dopo il dramma di Aldo Moro, «Todo modo» (1975) è stato cancellato. Non si è mai più visto, non se ne trova una copia, né un Vhs né tantomeno un Dvd. Ovviamente in televisione non l’hanno mai trasmesso. Forse perché Gian Maria Volonté in quel film offriva un volto di Aldo Moro troppo grottesco, che oggi potrebbe apparire irriverente. Ma era un film potente. Mi piacerebbe rivederlo. In un’intervista che mi rilasciò nel 1980, Sciascia parlò di «Todo modo»: «Elio Petri volle farlo perché si era innamorato della scena in cui i politici democristiani facevano gli esercizi spirituali. Di tutto il resto, in fondo, non gli interessò granché. Difatti non è stato fedele a me, ma a Pasolini. Perché ha fatto il processo al Palazzo». Ma non lo disse con disappunto, lui sosteneva che i registi dovessero necessariamente tradire i libri. I film tratti dai suoi racconti sono quasi un capitolo a parte nella storia del cinema italiano. Ma torniamo a «Cadaveri eccellenti». Tu hai deciso di farlo nel ’74, il libro era uscito tre anni prima. Possibile che nessuno avesse pensato di acquisirne i diritti? No, ma una ragione forse c’è. Leggendolo non era facile che uno pensasse di farci un film. Quel libro ha una scrittura astratta. Al primo impatto un cineasta italiano non pensa a un film, perché non si capisce bene in che paese si svolga il misterioso racconto. Sciascia disse: «Sì, uno può anche pensare all’Italia, come pensa alla Sicilia quando vede un’arancia dipinta da Guttuso». Di fatto l’elaborazione della sceneggiatura e la ricerca di una cifra espressiva congeniale sia all’opera di Sciascia che alle esigenze del mio cinema sono state operazioni piuttosto complesse. Innanzitutto, dovevo decidere se riconoscere l’Italia o no. Come identificarla senza cadere in una banale illustrazione. Dovevo dare il senso

dell’Italia, più che rappresentarla. Renderla riconoscibile solo a chi voleva riconoscerla. C’è per esempio la scena con quell’enorme carro funebre trainato da sei cavalli neri con dietro i giudici che accompagnano la salma del procuratore appena assassinato. Quella è una scena assolutamente metafisica. Solo chi conosce Napoli può capire dove siamo. D’altra parte rifiutavo l’idea di provare a cambiare le uniformi di carabinieri e poliziotti con delle divise astratte. Il film sarebbe diventato un’operetta. Ma mediante l’uso di obiettivi ad ampia angolazione ho volutamente trasfigurato gli ambienti reali. Li ho resi talvolta irriconoscibili, contaminandoli tra di loro. Nella stessa scena un campo era realizzato in una città, il controcampo in un’altra. Il poliziotto avanzava in un luogo, in Sicilia per esempio, poi girava l’angolo e si ritrovava a Lecce, in Puglia, come se fosse un unico ambiente. Un metodo molto efficace per dare volto al paese dove si svolge la storia ma per conservare al contempo la vaghezza in cui Sciascia aveva voluto condannarlo. Sai che ti dico? Sento molto la mancanza di quella «sfinge». Perché Leonardo era una sfinge, ti faceva capire tutto con poche, pochissime parole, al massimo qualche sorriso. Ma quelle parole espresse nel silenzio non le dimenticavi più. Vi vedevate spesso? Sì, quando lui era a Roma. Veniva qui a casa nostra con Maria, sua moglie, poi ci vedevamo con Antonello Trombadori. Leonardo stava sempre molto volentieri con lui. Naturalmente, quando andavo a Palermo facevo sempre tappa a casa sua. Ricordo, quando morì, il titolo che gli dedicò «la Repubblica», qualcosa tipo: «Leonardo Sciascia, un uomo contro». Gioco di parole a parte, mi sembrò che quel titolo proiettasse la figura di Sciascia in un contesto ideologico, politico e civile che ti riguardava. Era un articolo interessante. Si sentiva la stima profonda per lo scrittore, ma anche le ferite che mai si sarebbero cicatrizzate. Parlo della presa di posizione con cui Sciascia aveva provocato uno dei dibattiti più tormentati del nostro dopoguerra: «Né con lo Stato, né con le Br».

Quando feci Tre fratelli, colsi l’occasione per andare contro quella frase. Bisognava dire: «Con lo Stato, contro le Brigate Rosse. Ma lavorando perché lo Stato migliori». In quel film eri in contrasto col pensiero di Leonardo. Sì, non eravamo d’accordo. Ne abbiamo anche parlato una volta a Roma. Ma senza approfondire molto, perché lui era di poche parole. E poi preferiva non polemizzare. Amava chiarire il suo punto di vista, dopodiché non gli pareva che la questione avesse bisogno di essere scandagliata ulteriormente. Cioè le sue opinioni non contemplavano repliche? Se vogliamo, è così. Non c’era né l’attesa della replica, né la voglia che una replica ci fosse. Sentiva forse che era già totalmente chiaro ciò che diceva. Aveva a volte un modo così singolare di comunicare. Fatto di silenzi interrotti da strani piccoli suoni, quasi dei mugolii, che usava come affermazioni. Ma io con quella sua frase non ero proprio d’accordo. Così come non lo era Giancarla. Lo sai, lei ammirava molto Leonardo, ma gli diceva chiaramente quello che pensava. Ricordi l’epitaffio che Sciascia ha preteso sulla sua sepoltura? CE NE RICORDEREMO DI QUESTO PIANETA .

Su quella tomba, proprio alla base dell’epitaffio, deposi una rosa. Da quando hai letto il libro a quando hai finito il film, con Sciascia siete mai stati in contatto? Mai. Non l’ho mai visto e non l’ho mai cercato. Né lui ha cercato me. Lui era molto discreto, non aveva nessuna voglia di intervenire nel mio lavoro, soprattutto se era l’adattamento di un suo libro. Gli hai fatto leggere il copione prima di girare il film? No. E lui non mi chiese mai di leggerlo. Da parte mia non ho insistito, anche perché avevo fatto alcune modifiche piuttosto importanti e avevo il terrore che nel corso della lavorazione lui mettesse in discussione le mie scelte. Mi riferisco soprattutto alla riconoscibilità del paese in cui è ambientata la vicenda. Io sono andato oltre, non potevo

lasciare questo dubbio nel pubblico. Ho preso una decisione e sono andato avanti, senza dire nulla a Leonardo. Anche nel finale avevo fatto dei cambiamenti importanti. Ma appena ultimai il montaggio, la mia prima telefonata fu per lui: «Voglio mostrarti il film». Lui venne a Roma in treno, e mi raggiunse allo stabilimento. Eravamo io e Leonardo soli. Durante la proiezione non pronunciò mai una parola. Ma non smise un solo istante di fumare. Al termine si girò, mi guardò, pensò, e finalmente parlò: «Ma allora è l’Italia?». «Ebbene sì» risposi io. Leonardo diede una boccata all’ennesima sigaretta: «E il Partito comunista è il Partito comunista italiano?». Io, ancora: «Sì». «Va bene» mi rispose. Nient’altro? No. Solo: «Va bene». Dopo vennero polemiche e discussioni molto accese, ma lui dichiarò: «Non rinnego nemmeno una virgola». Del resto il suo libro quello era. Attraverso l’idea del luogo indefinito e metafisico, lui dell’Italia voleva parlare. Era evidente. E già al tempo dell’uscita del libro le polemiche c’erano state. Ma per Cadaveri eccellenti furono più accese. Nel film c’è una corrispondenza continua, un rapporto stretto, tra sviluppo dei fatti e luoghi. Esatto. Fatti e luoghi. Cadaveri eccellenti si apre nelle catacombe, quelle dei Cappuccini di Palermo, in cui scende il procuratore Varga, come si diceva che il vero procuratore Scaglione andasse ogni domenica mattina a salutare la salma della moglie al cimitero dei Cappuccini. Nel film ha il viso di Charles Vanel, bellissimo, segnato dagli anni, dai pensieri, dalle esperienze, un viso che io alterno alle mummie appese alle grotte. Sono il potere delle epoche passate, rappresentato da quei volti imbalsamati nell’ultimo urlo della morte. Quando esce di là, Varga viene ucciso. È qui che comincia il film. Subito dopo si vede il capo della mafia che va a rendere omaggio alla salma del procuratore.

Un inizio che ovviamente non poteva piacere in certi ambienti. Come nel racconto di Sciascia, gli assassinii si susseguono uno dopo l’altro, dapprima in una provincia del Sud, poi si comincia ad ammazzare anche a Roma. Una misteriosa mattanza di cui non ci è concesso vedere gli autori. Il poliziotto che crede nello Stato viene incaricato d’indagare su questi strani omicidi, le cui vittime sono soltanto giudici. Immediatamente lui segue la strada più plausibile. Un farmacista, Cres, li avrebbe infatti uccisi per una vendetta, perché era stato condannato ingiustamente. Quando il racconto si sposta nella capitale, il nostro investigatore entra in tutt’altro contesto, anche fisico. Scalinate enormi, ambienti dalle geometrie confortanti, il potere. Tutto quello che è rappresentato dà subito l’idea del potere, dello Stato che rassicura un uomo giusto come quel poliziotto, il cui nome è Rogas, che in latino vuol dire «tu interroghi». Qui scopre un’Italia che non immaginava. Il paese dei poteri che si sorvegliano, che si accusano l’un l’altro. Va a parlare con il procuratore generale, perché dopo avere scoperto in Cres una falsa pista, sospetta che un gruppo di giovani terroristi, assieme ad altre forze oscure, stia organizzando un complotto, un golpe. E ne ha la conferma quando dal palazzo dove abita il procuratore vede uscire un generale, il capo dei servizi segreti, un generale dell’aeronautica, un generale dell’esercito. Insomma Rogas si ritrova schiacciato da una rete di corruzione, intercettazioni, spionaggi, legami tra mafia e istituzioni. Per cui il mondo gli crolla addosso. E malgrado sia un liberale, quest’uomo che ha sempre creduto nella giustizia, decide di avvertire il segretario del Partito comunista, perché è il potere dell’opposizione. Si danno appuntamento in un museo, in mezzo alle statue romane, e a un certo punto, mentre parlano, vengono eliminati entrambi dai servizi segreti. A quel punto le forze dell’opposizione scendono in strada, invadono le piazze, pronte a una rivolta che sembra evocare il pericolo di una guerra civile. Ma in un comunicato televisivo il capo della polizia dà una versione dell’accaduto diversa dalla realtà. Dice che l’ispettore

Rogas, da tempo in preda a segni di squilibrio, si era messo in testa che il segretario del Partito comunista stesse tramando contro lo Stato, e quindi lo ha ucciso e si è ucciso a sua volta. In verità, nel libro, Sciascia non lo dice chiaramente che Rogas uccide. Lascia i due che discutono, per cui quando il capo della polizia dichiara che Rogas è impazzito e lo ha ammazzato, non si sa se è vero o no. Io ho cambiato il finale, rendendolo più esplicito, ma anche più duro. Perché gli autori del complotto non solo eliminano il poliziotto, quindi il potere, ma uccidono anche il capo dell’opposizione. E tutto finisce davanti al quadro di Guttuso I funerali di Togliatti, sintesi della storia del Partito comunista italiano. Un amico di Rogas, un comunista radicale, affronta un funzionario del proprio partito, quello che si suppone prenderà il posto del segretario, e gli chiede: «Allora la gente non deve sapere la verità?». Il futuro segretario risponde: «La verità non è sempre rivoluzionaria». Cioè la negazione del teorema di Antonio Gramsci: «La verità è sempre rivoluzionaria». Rivedendolo, mi sembra un film fatto oggi. E mi è costato fatica. Devo dire che il libro di Sciascia è, a mio avviso, uno dei più grandi che siano mai stati scritti in Italia. Non solo anticipò ciò che succedeva allora, nella metà degli anni Settanta, ma anticipava ciò che in Italia accade oggi. E suscita discussioni, immaginare un comunista radicale di fronte al principio: «La verità non è sempre rivoluzionaria». Battuta che non era nel libro. No. Fu un’invenzione di sceneggiatura. Una mia idea. Comunque quella frase pare che l’avesse detta Giancarlo Pajetta. Inevitabilmente il film entrò nella carne viva del dibattito politico di allora. Oltretutto in un momento in cui il Partito comunista, dopo il 15 giugno del ’75, era in grandissima ascesa, tanto è vero che la proposta di Enrico Berlinguer sul compromesso storico si era rafforzata. E fummo accusati, sia io che Sciascia, d’aver messo in discussione l’etica del Pci. Ma in buona sostanza il film fu analizzato e

criticato solamente per quella battuta. Tutto il resto fu dimenticato. All’epoca confesso di aver colto un altro significato in quella frase. Il segretario di un partito d’opposizione così importante, in un contesto politico rovente come quello, sente che dire la verità al popolo può anche condurre a eventi incontrollabili per il paese. Certamente! Ed è la posizione che assunse Trombadori nell’articolo con cui difese il finale del film. Lui scrisse: «Rosi è a un passo dalla verità». Sosteneva la forza morale del Partito comunista. Secondo lui io ero giunto al punto critico nel quale viveva allora il partito d’opposizione. Con la proposta del compromesso storico, il Pci mirava a scardinare la democrazia bloccata che avevamo in Italia. Potere e opposizione, ora che anche l’opposizione diventava un potere, dovevano trovare il modo di convivere. Tra l’altro, siamo in una fase in cui si avverte la grande paura dell’effetto Cile. Nella stessa Grecia c’erano stati esiti imprevedibili. Ecco perché Trombadori sosteneva che molti del partito non avevano voluto capire il film: «Rosi ha voluto dire che il partito, come opposizione, aveva la forza morale per diventare potere a sua volta». Del resto, pochi anni dopo, all’indomani del sequestro Moro, è in quella logica che il Pci decide di sostenere dall’esterno il governo. Un grande partito di opposizione che si adopera per salvare la democrazia. Se il Partito comunista italiano non avesse assunto quella posizione, il paese sarebbe andato a finire allo sbando. Esattamente il tema che, sia pure su un piano narrativo diverso, il mio film aveva anticipato. Quando Trombadori lo vide, capì subito che ci sarebbero stati contrasti e polemiche? Ma certo! Lo intuì immediatamente. Antonello, così come Renato Guttuso, che difese il film. Erano miei amici, capivano perfettamente che il mio non poteva essere un punto di vista anti Pci. Ma Aggeo Savioli, il critico de «l’Unità» disse che io

ero un pazzo a pensare che il partito avrebbe sostenuto quella menzogna. Quell’attacco politico mi turbò, anche perché stimavo Savioli. Tutti parlavano solo della scena finale. Si dimenticavano il film. Te l’ho detto, mi accusarono di essere socialista, come se esserlo fosse un’infamia. In un’intervista mi chiesero se ero favorevole al compromesso storico. Io dissi: «No, io preferisco l’unità della sinistra laica». Insomma, il film ha fatto discutere molto. E naturalmente quelli che hanno discusso di più sono stati i comunisti, perché erano chiamati direttamente in ballo da un film nel quale si riteneva che di fronte a certi avvenimenti politici, il Pci avrebbe potuto assumere posizioni di compromesso. Questo diede molto fastidio ai comunisti. Ma per me il compromesso storico era già nei fatti. Era proprio quello il motivo per cui avevo fatto il film, con una partecipazione personale molto sofferta. Non ero comunista, ma sono sempre stato uno di sinistra, un socialista. Comunque io lo dovevo fare quel film, per forza. Perché era proprio il sommario dei film che avevo fatto. Parlavi di una lavorazione sofferta. Mentre giravo ero consapevole di toccare nervi scoperti della politica italiana. E francamente temevo anche che alla fine sarebbe successo quello che poi è successo. Inoltre, le riprese furono interrotte per tre mesi. Fu difficile per tutti i miei collaboratori ritrovare la concentrazione. Io restai interamente con la testa nel film. Ciò che mi colpì di più fu vedere Lino Ventura che tornava sul set motivato come nel giorno in cui ci eravamo salutati. Era un uomo di sensibilità straordinaria. Una dote con la quale entrava nelle sfumature del personaggio, che erano complesse. Anche lui aveva una figlia con dei problemi simili a quelli di mia figlia Francesca. Ne parlavate? Mangiavamo ogni tanto insieme, ma non abbiamo mai approfondito la questione. Sono pure andato a casa sua a colazione e c’era questa ragazzina, già piuttosto grandicella. Sì, in effetti, era un problema che ci avvicinava. Credi che ciò abbia reso più forte il vostro rapporto?

Il fatto di esserci frequentati non ci ha mai spinto ad affrontare quegli argomenti. Un po’ mi sembrava che volesse anche evitare la questione. Francesca non c’era più, per me vedere quella ragazzina era come rivivere il mio dramma. Può darsi che lui non me ne parlasse proprio per non ricordarmi un grande dolore. Ho conosciuto Lino Ventura in occasione delle riprese del film «Cento giorni a Palermo», in cui interpretava il ruolo del generale Dalla Chiesa. Mi parlava sempre di te. Ho sofferto molto quando Lino se n’è andato. Avevamo idee politiche che non coincidevano, ma tra noi c’erano stima e amicizia. Lo ricordo entusiasta di Cadaveri eccellenti. Successivamente, nel 1978, fece in Francia, con il regista Jacques Deray, il film Un Papillon sur l’épaule, ribattezzato in Italia Morti sospette, che tutto sommato lo richiamava molto. Quando ti era venuta l’idea di concludere il film con quel quadro di Guttuso? Durante le riprese, dopo che avevo deciso di mettere in bocca al futuro segretario del Pci la famosa battuta. La sceneggiatura è stata proprio un continuo work in progress. I funerali di Togliatti l’avevo visto nello studio di Guttuso. L’ho scelto per far vivere il pubblico dentro quel quadro che, come ultima inquadratura del film, non è più un elemento decorativo, ma diventa narrativo. Il quadro mostra la folla fuori dal palazzo del Partito comunista, il giorno dei funerali di Togliatti, ma rappresenta anche la storia del Pci. Si vedono Berlinguer, Stalin, Lenin, Gramsci, una serie di scelte e di decisioni. Diranno che questo discorso vale solo per chi conosce la storia, ma vale anche per chi non la conosce. Alcuni magari non riconosceranno Lenin, però riconosceranno le bandiere rosse, la folla, i volti che in essa sono nascosti. E così il dialogo finale dei due personaggi prosegue in divenire, mentre la macchina da presa penetra in quell’imponente dipinto. L’autorizzazione a usarlo nel film la chiesi a Guttuso stesso insieme a Trombadori. Renato capì benissimo che film volevo fare e accettò. Ma l’hanno capito anche quelli che

l’hanno criticato, anche quelli che lo hanno combattuto, perché è stato un film molto combattuto. Volonté ti chiese mai perché non avessi fatto interpretare a lui il ruolo di Rogas? Mai, non me l’ha chiesto mai. Né io gliene ho mai parlato. Ma sono certo che la domanda se la sia posta. Come venne fuori il titolo del film? Ci pensai per settimane, giravo attorno alla parola cadaveri. Ma la soluzione venne in mente a Nico Naldini, capo ufficio stampa di Grimaldi e, se non sbaglio, parente di Pier Paolo Pasolini. Un giorno si presentò da me e disse: «Cadaveri eccellenti». Dico: «Sei un genio. Hai trovato la sintesi perfetta non solo di questo film, ma di tutti quelli che ho fatto sinora». In Italia, «Cadaveri eccellenti» ebbe successo? Direi proprio di sì. E ne ebbe molto anche in Francia, paese che tra l’altro aveva coprodotto il film. Il film non partecipò ad alcun festival, se non sbaglio. Vinse il David di Donatello come miglior film. E Grimaldi prese il Nastro d’Argento come produttore del miglior film. Ma credo che non sia passato in nessun festival. Io l’avevo visto quando uscì a Palermo, al cinema Astoria, dove anni prima tu vedevi i giornalieri di «Salvatore Giuliano». Negli ambienti del partito qualcuno era entusiasta: «Rosi ha il coraggio di aprire un dibattito importante». Ma molti erano scandalizzati. «Ma come, proprio lui, il regista de “Le mani sulla città”?» Lo presero come un tradimento. «Rosi tradisce la sinistra.» E poi aggiungevano: «Vabbè, ma è socialista». È così che finiva. In seguito cominciarono a dire «craxiano». E pensare che quando realizzai Dimenticare Palermo, Craxi in persona ordinò all’«Avanti!» di non recensire il film. Ma di questo, parleremo più in là. Ne riparleremo. Per circa quindici anni «Cadaveri eccellenti» è sparito, non l’hanno più fatto vedere. Non si trovava da

nessuna parte, le televisioni non lo programmavano. Da alcuni anni si può trovare il Dvd, e finalmente lo trasmettono in televisione. Credo sia accaduto sempre per la questione delle bandiere rosse, che nessuno ha capito, né all’estero né qui. Fu frainteso. Lessi un’intervista a Bertrand Tavernier, diceva di ammirare il film: «In Francia non hanno capito cosa ci fosse in quella battuta: “La verità non è sempre rivoluzionaria”». Non hanno capito perché non sapevano che in Italia avevamo il problema politico del compromesso storico. Un po’ come è capitato a te in Baarìa, quando al bambino hai fatto chiedere: «Papà, che significa riformista?». È vero, molti hanno strumentalizzato quella battuta, o non hanno voluto capirne il senso. Comunque una volta quella parola era davvero un insulto, una bestemmia. A sinistra, per oltraggiare qualcuno, gli si dava del riformista. Il concetto di riformismo ha sempre tormentato la sinistra. E anche adesso sai, non mi sembra che quel martirio si sia placato. Però… Che bel mestiere che è il nostro, e com’è duro. A volerlo fare con coscienza e con responsabilità, e volendo dire delle cose non ovvie, che appartengono alla vita, è un mestiere eccitante.

I momenti belli della vita

Quando giro, non ho molta ansia di vedere i giornalieri. Talvolta preferisco addirittura vederli dopo aver finito le riprese. È una conseguenza del mio essere stato assistente di Visconti. Lui durante le riprese de La terra trema vedeva il materiale una volta al mese. Anche perché la stampa dei giornalieri veniva da Roma e le spedizioni costavano. La mia è un’abitudine che risale a quei tempi. Mentre giri un film, fino a quando non ne hai organizzato la linea narrativa e il montaggio, il materiale è sempre bello. È come guardare il dettaglio di una tela. Naturalmente, chi ha esperienza ed è sincero con se stesso, capisce subito se quel materiale non va bene. La verità è che il montaggio del film ce l’hai in testa solo tu e il montatore. Quando vedi il materiale è facile intuire il montaggio, se hai girato poche riprese. Ma se ne hai girate tante, diventa difficile. Ho letto che Kubrick batteva a volte anche cento ciak. A me pare incredibile. Anche a David Lean si attribuiva la stessa generosità nel girare. Una volta un giornalista gli domandò: «Ma quando lei batte ottanta, novanta, cento ciak di una stessa inquadratura, poi quale monta nel film?». E Lean rispose: «Una delle prime tre». Appunto, è inevitabile. Se batti troppi ciak, vuol dire che sei confuso, che hai perso l’orientamento. Alla fine le migliori sono le prime. Ti è mai capitato, durante la visione dei giornalieri, di trovare il materiale di una scena un po’ zoppicante, in parte deludente, e poi, invece, nella sintesi del montaggio, quel materiale prendeva vita, si rivelava essere esattamente ciò che volevi? A me sì.

Talvolta è accaduto anche a me. E può succedere anche il contrario. Perché è il montaggio la forma definitiva del film, lì è contenuto pure il discorso ideologico. Per questo sostengo di non badare molto alla psicologia dei personaggi, perché mi interessa di più la psicologia delle loro azioni che il montaggio sa mettere in evidenza. La psicologia personale molte volte ti porta fuori strada, è al montaggio del film che va lasciata l’ultima parola. Se vedi oggi un’opera di Fritz Lang, non ti chiedi quando è stata girata. Vuol dire che è diventata storia. Intendo con la esse maiuscola. Quando fai un film che sa essere storia, la materia è la vita di tutti noi. Un film racconta la storia e racconta l’uomo. Attraverso l’immagine di un personaggio, devi capire chi è, com’è nato, come vive, ciò che pensa. Anche se non parla. Spesso proprio quando non parla. Infatti. In definitiva, questo è il montaggio. Il racconto del film è alternare un campo lungo con un primo piano, con un dettaglio. Il cinema è grande davvero. La televisione può essere adoperata con abilità, ma sfugge, ha fretta. Il cinema non ha mai fretta, sa che tra settant’anni, ottant’anni, puoi ancora vederlo. Adesso ti dirò una frase retorica, il cinematografo è troppo serio per essere solo uno spettacolo. Il cinema raggiunge la verità di un personaggio quando lo costruisce, te lo mostra e lo accompagna nel mondo in cui vive. Quando Chaplin fa Luci della città, per Dio, quel momento con la fioraia è irraggiungibile. Parli del finale? Quando lei che ha riacquistato la vista lo riconosce toccandogli le mani? Quale scrittore può darti la possibilità visiva di costruire un momento della vita come quello? Non ci sono parole per descriverlo. Puoi farlo solo al cinema, perché è tridimensionale. C’è tutto. Sembrerà un po’ retorico quello che dico, ma è così. Qualche sera fa ho rivisto Il grande dittatore (1940) di Chaplin. È una straordinaria lezione, anche se risente dell’epoca, ci sono certamente gag che hanno fatto il loro tempo. Ma quel primo piano finale, in cui Chaplin esprime la sua visione della vita e dell’uomo… Eh, quello è superbo! Lo

davano in tv. Sai che non amo vedere i Dvd? I film mi piace vederli in un cinema, in una sala di proiezione col pubblico. Voglio sentire la reazione della gente, capire se è diversa dalla mia. Il cinematografo è un miracolo, un grande sostegno per l’affermazione della democrazia. Il cinema come fondamento della democrazia, dici? Sicuro. Perché il cinematografo sa sempre mostrarti la verità dei comportamenti. Sempre, in ogni circostanza. Prendi i film sui gangster americani, quanto hanno fatto riflettere? Perciò ripeto sempre che, se vado a vedere un film, voglio giudicare il contesto. Perché il contesto, il mondo in cui si muovono la storia e i personaggi, è la vita del film. Però il cinema può anche finire nelle mani di chi ne fa un uso politico diverso. Cosa pensavano del cinema Mussolini e Lenin? Se ne servivano secondo il loro potere dittatoriale. Puoi usare il cinema come vuoi, dipende dagli scopi che hai e da come vuoi raggiungere il pubblico. Ma è difficile che il cinema tradisca la realtà, non la verità. Quando un’immagine è artificiosa, il cinema te lo fa capire. È verissimo. Il film rivela sempre l’impostura che c’è dietro. Non è un caso che il film sia minacciato dalla tecnologia. È evidente che la televisione raggiunga tutti molto più facilmente, e che i ragazzi non abbiano voglia di andare a vedere film particolari. Per questo dico che, nelle scuole, andrebbero proiettati i grandi film. Diventerebbero un valido aiuto anche per capire la storia. Il cinema che ho fatto io è un mezzo di conoscenza e un mezzo di riflessione. Prima di tutto sulle azioni: cosa contengono? Da dove vengono? Dove possono portarci? Trovo che sia questa la differenza tra un certo cinema italiano fatto negli anni passati e quello che si fa oggi, in cui spesso si mette insieme sì una storia accattivante, ma a cui, molte volte, manca il retroterra, la ragione per cui i fatti sono come li fai vedere. Coi libri di Gaetano Salvemini, di Guido Dorso o di Carlo Levi, capisci immediatamente perché il Sud è diverso. Capisci la diversità da cosa deriva, a chi puoi

addebitarla, che tipo di speranza puoi nutrire nel domani, come devono modificarsi l’uomo e i suoi bisogni. Ti mostrano che i bisogni del Sud, fino a oggi, sono quasi sempre stati ignorati. In questo paese, i contadini non hanno mai avuto la considerazione avuta dagli operai. L’operaio fa parte di un mondo più consapevole, più evoluto. Al Nord c’è più scolarizzazione, i sindacati si sono mossi più efficacemente. Tutti nodi che oggi vengono al pettine. Le istituzioni, le strutture che dovrebbero fare da tramite tra cittadino e Stato, sono diventate poteri politici autonomi, continuamente in guerra tra loro. È tristissimo, ma è così. Hai perfettamente ragione. Io ho fatto dei film, non ho mai pensato di sostituirmi a un politico. Ho solo voluto capire cosa accade nel mio paese. La storia, la politica, il progresso dell’uomo e della civiltà. Ma ti pare possibile che in Sicilia, al tempo dei fatti di Portella della Ginestra, cioè solo poco più di sessant’anni fa, si lavorasse ancora con l’aratro a chiodo? Come nel Medioevo? Poi è arrivata la televisione, ha portato progresso ma anche un arretramento e un appiattimento terribili. Credi di aver fatto sempre e solo i film che volevi fare? Sempre. A volte ho aspettato a lungo per farli. Per esempio per La tregua ho dovuto attendere circa dieci anni, anche se nel frattempo ho fatto Diario napoletano che sta fra il documentario e il film. Anche con Cristo si è fermato a Eboli è andata allo stesso modo. Ma ho voluto aspettare. Rivedendolo, si sente che quel film ha avuto una lunga incubazione. Si sente che viene da lontano. È un film felice. Che mi commuove ancora oggi. Malgrado il passo lento, il film tiene. Grazie alla presenza magnetica di Volonté, ai volti meravigliosi dei contadini, e agli ambienti. Non succede niente, eppure non annoia. È un racconto che ti incanta sin dal primo fotogramma. A quel film ci pensavo già addirittura mentre giravo Salvatore Giuliano. Un giorno trovo Carlo Levi per le strade

di Montelepre, viene sul set. Mi dice: «Voglio scrivere un articolo sul film che stai facendo». Ma mi studiava come se fosse venuto lì per vedermi al lavoro. Evidentemente voleva annusare il mio rapporto con il set, con la storia. Vi conoscevate già? Sì, ci conoscevamo. Carlo Levi lo incontravi la notte in via Veneto, magari accanto al giornalaio. Ma ogni tanto, non era un frequentatore assiduo come Flaiano e gli altri intellettuali che bazzicavano al Caffè Rosati. Su quel mondo, un tempo m’ero affacciato anch’io. In qualche occasione devo aver fatto capire a Carlo di essere interessato al suo libro. Poi venni a sapere che sul mio set a Montelepre era venuto proprio perché stava valutando di affidarmi la direzione di Cristo si è fermato a Eboli. E intanto io ci pensavo per conto mio. Ma non glielo avevo ancora chiesto. Tieni presente che in tanti gli avevano detto di essere interessati. Rossellini, Pietro Germi, credo anche Visconti. Ma lui non aveva mai concesso i diritti del suo libro. Lo capisco, il cinema neorealista doveva passare attraverso una storia. E lì, in Cristo si è fermato a Eboli, la storia non c’è. Immagino che, vedendomi girare Salvatore Giuliano, un’opera apparentemente senza una storia, lui abbia pensato: «Vabbè, questo è adatto». Naturalmente non poteva conoscere il risultato finale del lavoro che stavo facendo. Ma forse qualche amico comune gli avrà detto: «Franco si avvicina alla realtà, alla storia, ai personaggi, senza modificarli». Comunque sia andata, a me Carlo Levi disse sì. Già lì a Montelepre? No, tempo dopo. Entrambi eravamo amici di Nello Santi, che coproduceva Salvatore Giuliano e che poi avrebbe prodotto Le mani sulla città. Quando tornai a Roma, dopo le riprese, io e Nello andammo a mangiare le orecchiette alla lucana a casa di Carlo Levi, a Villa Strohl Fern, un posto bellissimo, nel quale aveva uno studio meraviglioso, pieno di quadri. Avevo quella scena in testa quando decisi di cominciare il film con lui già anziano, che contemplava i ritratti dei suoi contadini e ritrovava la sua esistenza, ciò che negli anni del confino politico lo aveva avvicinato ai caratteri

e ai problemi degli uomini del Sud. Il suo è un grande libro per capire che cos’è il Sud, quali problemi abbia, cosa sia la questione meridionale. Un diario, un romanzo, un racconto, un saggio. È tutto. E diciamo che il mio cinema aveva gli stessi ingredienti. Non posso dire che davanti a quelle orecchiette mi disse un sì esplicito. Ma diciamo che da quelle chiacchierate capii che prima o poi ce l’avrei fatta. Più tardi, una piccola spinta la diede un grande documentarista francese, Michel Random. Fece una serie di ritratti di scrittori italiani, associandoli nello stile ad altrettanti registi cinematografici. E sistemò l’uno accanto all’altro, me e Levi. Venne anche a intervistarci, lì a Villa Strohl Fern. C’è un vero e proprio momento in cui Levi ti dice: «Prendi il libro, fai il film»? Mi fece capire che potevo andare avanti. Fu la sua amica Linuccia Saba, figlia di Umberto Saba, a proseguire il rapporto con me. Linuccia aveva il potere di dire sì o no. E disse sì. Ma io a quell’epoca mi ero già impegnato su un altro paio di film. Aspettai perciò fino al ’78, quando purtroppo Carlo non c’era più. Quindi non fu un vero rinvio, hai aspettato che il progetto maturasse. Sì. Questo è avvenuto per molti miei film e forse non corrisponde all’immagine che uno spettatore può ricavarne dallo schermo. Parlo del ritmo, dell’impegno, dell’urgenza espressiva. La sfida dà l’impressione di un film che è stato fatto correndo. Anche Il caso Mattei è così. Sapere che Levi avesse detto no a maestri del cinema già affermati, ti procurava disagio o ti motivava ancora di più? Avevo la presunzione di capire il motivo del rifiuto. Ero sicuro che Carlo avrebbe voluto realizzare il film così come aveva scritto il libro. Temeva che registi con uno stile già così delineato, potessero stravolgerglielo. Quando uscì in libreria ebbe un tale successo da incuriosire subito personaggi come Rossellini, come Germi, come Visconti, probabilmente come lo stesso De Sica. Nell’istante in cui l’idea piacque anche a

me, capii che avrei dovuto farlo col mio metodo abituale. Unendo una struttura documentaria a momenti lirici, persino intimisti. Non so quanto i registi di cui abbiamo parlato pensassero a una formula di tipo neorealistico. Ma sono convinto che non erano riusciti a fare il film, oppure non avevano voluto farlo, perché in fondo non li convinceva, vedevano che non c’era una storia dentro. Ma nella maniera in cui l’ho fatto io, restando sulla struttura del libro, la storia è uscita fuori. Era la storia di Carlo Levi. La verità è che un tempo si riusciva a fare film come quello, adesso non si fanno più. Perché? Dal tuo «Cristo si è fermato a Eboli» sono trascorsi più di trent’anni. Da allora la logica del mercato è cambiata del tutto. Oggi un film così non te lo farebbe fare nessuno. Ma già all’epoca non era facile realizzare opere del genere. Tu ci sei riuscito anche grazie alla doppia versione televisiva a puntate. Esatto. E ti dico pure come ho combinato tutto. Una domenica pomeriggio andai al Teatro Valle, mi trovai seduto vicino a Massimo Fichera, direttore della seconda rete della Rai. Ci salutammo e mi disse: «Ma vuoi deciderti a fare qualcosa per noi?». Dico: «Sì, voglio fare Cristo si è fermato a Eboli». Rispose solo: «Benissimo» e mi strinse la mano. Il film nacque così. A quel punto avrai fatto acquisire i diritti del libro al produttore? Non esattamente. Prima, come ti ho già detto, ero andato da Linuccia Saba, che mi dette i diritti. Li acquistai io, dopodiché andai da Franco Cristaldi e gli dissi: «Fichera vuol fare con me Cristo si è fermato a Eboli». Franco si mostrò interessato. Io da tempo mi muovevo sicuro di fare il film. Daniel Toscan du Plantier, produttore per la Gaumont, aveva espresso il desiderio di fare un film con me. È un po’ imbarazzante dirlo, ma i fatti stavano proprio così. Cristaldi non conosceva Daniel. Io allora li feci incontrare, una mattina presto alla Vides, c’era pure Nicola Carraro, all’epoca socio di Franco. Fu la riunione in cui si decise di fare il film. Solo a quel punto cedetti i diritti del libro a Franco Cristaldi. Daniel entrò con lui

nell’operazione, e così divenne una coproduzione italofrancese. Io allora non avevo grandi difficoltà a realizzare i film che volevo, ma per un’opera come Cristo si è fermato a Eboli poteva non essere facile trovare un produttore che dicesse: «Partite, fate il film». Invece successe proprio così, partii e feci il film. Scelsi subito Volonté, l’unico che potesse farlo. A dire il vero, c’era l’attore svedese Erland Josephson che si era candidato. Ma per me l’unico era Volonté. La combinazione dei silenzi, delle pause, del dire con lo sguardo, erano prerogative uniche di Gian Maria. Come e quando nasce la doppia versione di «Cristo si è fermato a Eboli»? Subito, la chiese la Rai, che coproduceva l’opera. Franco mi disse: «Facciamola, questa doppia versione». Gli dissi: «Va bene, mi pare che la materia ci sia. Il libro si presta». Lui in questo modo prendeva più soldi, accettai anche per questo, per facilitargli la chiusura del budget. E poi, dato il carattere del film e il mio modo di girare, certe spiegazioni più didattiche erano già nei dialoghi del film. Perciò non avrei stravolto nulla, non mi pareva grave l’idea della doppia versione. In fondo, non c’era una grande differenza. La versione cinematografica è tagliata bene. Sai cosa manca rispetto a quella televisiva? I ritorni ai giorni nostri, cioè lui che parla con la sorella, cose del genere. Ma sono tagli che non si notano. Solo un paio di volte si sente la musica bruscamente interrotta, altrimenti non s’avvertirebbe niente. Questo era Cristaldi, che quando si facevano i tagli, pur di risparmiare, non ti lasciava rifare il mixage. E le colonne sonore restavano mozzate. Comunque la versione per il cinema durava due ore e quaranta minuti, quella per la televisione era lunga quattro ore, ed è in questa che appare Pietrino Notarianni, in una scena in cui c’è un incontro di intellettuali in una biblioteca. Devo confessarlo, sono molto legato a questo mio film. Mi piaceva lo stile del suo procedere. Non succede niente, eppure il film non smette mai di coinvolgerti. È un’opera che gode di una grazia particolare.

Ha una drammaturgia lieve. Un passo tutto suo, fuori da ogni regola. Un lento andare in cui ti lasci coinvolgere senza opporre resistenza. Sin dalle prime immagini, non ti chiedi nulla, sei già lì, in un mondo che vuoi conoscere. A rivederlo mi fa lo stesso effetto di quando l’ho visto la prima volta al cinema Excelsior di Bagheria. Facevo il proiezionista e ho proiettato il tuo film per tre giorni. Vidi tutti gli spettacoli. Meraviglioso, e incredibile allo stesso tempo. Ricordo il suono del crine, quando Volonté si siede o si sdraia sul materasso della casa contadina che lo ospita. Che bello Volonté, che bello. Una persona complessa, che aveva quel modo di essere radicale, che spingeva oltre ogni possibilità. Però era un uomo di valore. Quando girammo nella vera casa dove Levi aveva abitato durante gli anni del confino, era emozionato. Come avevi fatto a trovarla? Non ho avuto pace fino a quando non l’ho rintracciata. Ma facevo sempre così. Cercavo i veri luoghi dove i miei personaggi avevano realmente vissuto. Quando l’ho trovata, la casa di Levi era disabitata da molti anni. Forse anche per questa ragione il film sa commuoverti. Ne sono convinto. A Pietro Notarianni piaceva molto «Cristo si è fermato a Eboli». Francesco Bolzoni, in una bella critica scritta allora, dice che in fin dei conti io non ho fatto quello che avrei dovuto fare, cioè far vivere il mondo contadino e che mi sono preoccupato di più del rapporto fra Levi e i personaggi che lo circondano. Ma è proprio quel rapporto che mi fa vedere il mondo contadino. Mi sembra che uno dei pregi del film sia proprio quello di raccontare e far rivivere quel mondo. E conclude: «Il film, nonostante la sua serietà di fondo, conserva un’assai debole eco di quell’applicarsi sulla “questione meridionale” delle generazioni del dopoguerra, di ciò che quell’azione e quel pensiero significarono in vitalità.

E, d’altronde, neppure propone una “tensione critica” di tale ricerca, di tale impegno che, tutto sommato, avevano in sé degli equivoci se portarono a un ammodernamento del Sud ma anche a un “tradimento” rispetto a quanto di vero e di giusto era nella civiltà contadina. In un certo senso, siamo di fronte a un nobile fallimento sul quale, dato che in esso siamo tutti compromessi, e sia pure con diverse responsabilità, bisognerebbe interrogarsi a lungo, e non rimuoverlo frettolosamente». Un «nobile fallimento». Mah, sono strani questi critici. Sarà che io ci credevo tanto a quel film… Ci sono invece le recensioni di Pauline Kael e di Terrence Rafferty che la pensano in tutt’altro modo, per loro questo è forse il mio film migliore. È difficile fissare graduatorie… Però è vero che qui c’è una maturità, una profondità, che in altri tuoi film non arriva a queste vette. Ma soprattutto si sente che dietro al film c’è una lunga sedimentazione. S’intuisce che viene da lontano. Perché il regista non lo avverti, la regia è impalpabile, come se non ci fosse. Non è facile raggiungere un risultato del genere. Una tale magia, una tale cifra elegiaca. Per me è una delle più belle interpretazioni di Gian Maria. La più matura, la più interiore, fatta di niente, ma così profonda. Che rapporto hai stabilito con il luogo delle riprese, la terra in cui Levi aveva vissuto il confino? Un rapporto ideale. Lì è cominciata la mia storia con la Lucania. Credimi, una regione stupenda. Del resto, sai che se non trovavo i luoghi e i paesaggi giusti non cominciavo nemmeno a scrivere la sceneggiatura. Andai subito in Lucania e vidi che era bellissima. Sebbene gli antichi romani l’avessero spogliata delle sue foreste di querce per farsi le navi, l’incanto del paesaggio era sopravvissuto ai secoli. Ebbi di quella terra un’impressione formidabile. Prima conoscevo solo le campagne di Matera, dove avevo girato scene di C’era una volta. La Lucania non assomiglia alla Campania né alla Sicilia, né alla Puglia. È fatta di gente orgogliosa, di lavoratori, gente che parla poco, che sembra venire da un’altra cultura,

consapevole del valore di un contadino, del valore della terra. Insomma, come avrai capito, cominciò davvero un rapporto d’amore con questa regione. Diciamo che è stata quella terra a farmi raccogliere i sentimenti di Carlo Levi. Per un periodo sono andato a vivere proprio lì. Com’era mia abitudine. Ci andai con il mio aiuto regista, Gianni Arduini, detto «Principe». Sandy Norman era il direttore di produzione, Notarianni l’organizzatore generale. Capii che potevo fare un film col quale sarebbe stato facile, anche per chi non conosceva la Lucania e i problemi del Sud, capire dove avveniva la storia. Trovai facile anche servirmi della gente locale, molti personaggi sono interpretati da persone comuni della vita lucana. Presi solo Irene Papas per il ruolo della donna che governava la casa di Gian Maria. Irene era perfetta, aveva una faccia meravigliosa, sembrava una di loro. Poi avevo un bambino – fu anche lui meraviglioso –, e un cane straordinario, faceva tutto quello che gli chiedevamo, si chiamava Barone. «Mettiti là, non abbaiare, stai buono, fermo, zitto.» Non era addestrato, credo che l’ispettore di produzione l’avesse trovato per strada e tenuto con sé. Un trovatello desideroso di affetto e cure che avrebbe partecipato anche al mio film successivo. Poi mi affidai a un gruppo di amici. Per esempio Luigi Infantino, il tenore marito di Sarah Ferrati, lui fece l’autista che trasportava Volonté dalla stazione ai luoghi del film. Pian piano mi sono impadronito del territorio e della tipologia dei suoi abitanti. Quanto ci sei stato prima di scrivere? Parecchio. Il paese dov’era stato Levi si chiamava Aliano, io nel film l’ho chiamato, come nel libro, Gagliano, e l’ho composto con tre località diverse, perché avevo bisogno di situazioni differenziate. Volevo per esempio una parte diroccata, franata, e la girai a Craco, a due ore e mezzo di macchina da Matera. Ogni mattina e ogni sera facevo quei viaggi. Poi ho girato a Matera e a Guardia Perticara, che non aveva diroccamenti. Ti dicevo degli amici che feci recitare. Intanto avevo un bravissimo attore francese, François Simon, il figlio di Michel Simon, nei panni del prete,

sorprendentemente doppiato da Oreste Lionello, che sapeva cambiare la sua voce fino a essere irriconoscibile. Fellini lo chiamava sempre, gli faceva doppiare i personaggi di mezzo film. E in Cristo si è fermato a Eboli di personaggi ce n’è un’infinità. Ne avevo trovati e inventati tanti, per lo più piccoli personaggi, ma importantissimi. Uno lo affidai al critico Francesco Callari. Nel film c’è pure Accursino Di Leo, fa il falegname. Ma Accursio nei miei primi film l’ho voluto sempre. Era un bellissimo personaggio, una faccia straordinaria, da arabo, una persona perbene. Poi c’era Alain Cuny, mio attore di vecchia data. Lui fece il barone Rotunno. A Craco trovai il cimitero così come raccontato nel libro, e vi girai la scena col becchino che parlava dei morti. Lo feci interpretare a Giardina. Giacomo Giardina, poeta futurista. Straordinario. L’avevo conosciuto in Sicilia, questo poeta magro come un fil di ferro, senza denti, che recitava le sue poesie sussultando. Lui si emozionava anche davanti alla macchina da presa. Tremava proprio. E quando lo chiamai per il doppiaggio, si commosse a tal punto vedendosi sullo schermo che non riusciva a parlare. Lo feci girare dall’altra parte, con le spalle allo schermo, gli davo io gli attacchi. Insomma, si doppiò alla cieca, senza guardarsi. Dopo lo chiamai anche per Dimenticare Palermo. Ma nella parte del becchino, fu formidabile. «Un paese è fatto di ossa di morti…» Come fai a ricordartelo? Diceva esattamente così. Ci sono certe parole o frammenti di dialogo dei film che ho visto da ragazzo che ancora oggi ricordo a memoria. Altri personaggi li ho fatti interpretare a gente del luogo. Facce indimenticabili, come i volti dei quadri di Carlo Levi. Come l’esattore delle tasse, che girava per i paesini addirittura accettando una bottiglia d’olio come pagamento, se in quella casa non avevano una lira. Quel ruolo lo affidai a uno spazzino di Matera, analfabeta. Aveva capito che dagli attori improvvisati io non pretendevo che recitassero il copione a

memoria. Lui s’era impadronito del mezzo cinematografico, e partecipava, inventava battute che andavano benissimo. Ricordo quando racconta a Levi/Volonté che la gente lo odia e che lui si consola suonando il clarinetto. Dopodiché esegue un pezzo che conoscevo benissimo, «Occhi neri». Una melodia molto malinconica. Suonava lui? No, era in playback. Su Cristo si è fermato a Eboli c’è da dire tanto, anche per il clima politico nel quale è stato realizzato. Era il momento cruciale del terrorismo in Italia. Ricordo che durante i sopralluoghi ero alla stazione di Matera, accesi la radio in macchina e sentii il mio amico deputato Antonello Trombadori, che interveniva in Parlamento perché avevano rapito Aldo Moro. Appresi così del sequestro. E con me tutta la troupe. Da quel momento lavorammo tenendo le radioline attaccate all’orecchio. Che dovevamo fare, mica potevamo fermare il film? Erano anni pesanti. Si sentiva anche in Lucania. Ciò che accadeva di drammatico nel paese, ci giungeva attraverso la televisione, la radio, i giornali. C’era grande angoscia per la prigionia di Moro, non si capiva come potesse finire. Però io dovevo lavorare. La mattina dovevamo girare. E mi sono inoltrato nelle riprese entrando in una specie di serenità, di calma, che mi veniva da quel mondo, da quelle immagini che trasudavano quegli stessi valori che, contemporaneamente, i brigatisti stavano distruggendo. Quindi, insomma, un clima psicopolitico molto forte, che amplificava le tragiche problematiche che il nostro paese viveva in quel momento. Infatti i critici intelligenti me l’hanno riconosciuto. Gian Maria Volonté come viveva quel dramma nazionale? Sai, lui aveva un penchant particolare per la sinistra radicale. Ma non posso asserire che avesse un comportamento di accondiscendenza verso quella follia. Non ho mai approfondito troppo. Sapevo benissimo come la pensava e lui sapeva benissimo come la pensavo io. Però evitavo. Probabilmente credeva in una politica più estrema di quella attuata dai partiti della sinistra tradizionale. Io dico che non aveva ragione. Ma sì, una volta ci fu un accenno tra noi, Gian

Maria disse: «Eh, ma il professore su quest’argomento non mi vuole rispondere». Si parlava appunto di Moro, del terrorismo… Volonté aveva da poco interpretato il personaggio di Aldo Moro diretto da Elio Petri in «Todo modo». Sì. Ma vedi, io e lui ci siamo sempre rispettati molto. Pur sapendo che la pensavamo diversamente. Io sono di sinistra, ma la mia è un’appartenenza a un’idea riformista. Lui era per un progetto più radicale. Quindi non prendevamo di petto quel tema, altrimenti poteva finire in un alterco. In quel periodo stavi raccontando una storia che evocava l’incubo del fascismo ma anche il desiderio di un’Italia repubblicana, libera e democratica, e la raccontavi proprio mentre il terrorismo rimetteva in discussione le conquiste politiche del dopoguerra, e la Repubblica sprofondava nella sua notte più scura, come la definì Sergio Zavoli. Cosa ti suggeriva quella drammatica contemporaneità? Mi aiutava a dire: «No alle Br e sì allo Stato, ma uno Stato che va cambiato, che deve diventare migliore». Questa era la mia linea. Ma non evitavo il confronto con Gian Maria, tanto si sapeva come la pensavamo. E il problema si è posto a tutti noi in ogni singola scena del film. Tanto è vero che passavo attraverso una rievocazione del fascismo avvertendo sulla mia pelle le tragiche evoluzioni del ricatto terroristico. La terra in cui giravo mi trasmetteva uno stato di grande serenità, che solo l’eco dei giorni terribili di Moro sapeva trasformare in tormento. E così ebbi l’idea di realizzare quel lunghissimo carrello tra le campagne desolate, con l’eco del discorso di Mussolini che esultava: «Finalmente l’Abissinia, la conquista, l’Africa in Italia!». Si doveva vederlo, che l’Africa era già in Italia… Ho sempre amato quel lungo piano sequenza. Il discorso di Mussolini era quello per cui da ragazzo ti eri guadagnato lo schiaffo di tuo padre? Sì, era proprio quello, ma la scena nacque durante il lungo percorso che facevamo ogni mattina per andare in auto da

Matera a Craco, circondati da quella terra bellissima e abbandonata. Alla fine dissi a me stesso: «Io voglio che la gente capisca. Ho il paesaggio lucano, non ho bisogno di nient’altro per far dire questa battuta a Mussolini». Nel copione non c’era, inventai tutto lì. Piazzai la macchina da presa su un camioncino e girai quel carrello che durava un’infinità, volutamente. Amo molto la soluzione fotografica del film, assolutamente nuova rispetto al tuo cinema. Grazie all’uso dei filtri degradé il cielo sembra schiacciare i personaggi. Mi colpì anche il modo in cui hai risolto l’arrivo dell’eclisse. Una donna coperta da uno scialle nero corre fuori casa guardando il cielo e mentre avanza tutto diventa progressivamente più buio. Anche quell’effetto l’abbiamo ottenuto con un degradé neutro, ma facendolo scorrere davanti all’obiettivo. Semplice, ma di un’efficacia straordinaria. Era molto bello il tema musicale di Piero Piccioni. Sublime, struggente ed elegiaco. Secondo me la sua colonna sonora migliore. Ma è bella anche quella de Le mani sulla città. Piccioni ha composto della grande musica. Quando finivo il montaggio, facevo una proiezione per lui, e gli mostravo il film per la prima volta. Mi dava le sue impressioni, ascoltava le mie idee, dopodiché si metteva al lavoro. Appena credeva di avere qualcosa di ascoltabile, mi faceva sentire al pianoforte ciò che aveva composto. Così potevamo scambiarci le prime impressioni. Quando registrava la musica, tu seguivi, ci andavi? Sempre. Ma, oltretutto, io sono appassionato di musica e della sua applicazione nel cinema. Quando partivo per le riprese di un film portavo sempre con me una valigetta giradischi. In albergo, durante le pause e i fine settimana, mentre rivedevo a tavolino la sceneggiatura, mi piaceva ascoltare la musica che in qualche modo sentivo vicina allo spirito del film che stavo girando. Durante le settimane del Salvatore Giuliano ascoltavo continuamente Le Sacre du

Printemps di Igor Stravinskij. Per altri film ascoltavo jazz, Bach, musica popolare. Non facevo distinzioni di genere. Ricordo un’anteprima nazionale di «Cristo si è fermato a Eboli» in diretta dal cinema Fiamma di Roma. Mandarono in onda anche alcune immagini realizzate sul set, in una vecchia casa contadina. Durante una pausa della lavorazione vi siete messi a ballare tutti. E ballavi pure tu con le contadine del luogo. Avevi una gioia, una forza. Non ho mai dimenticato quell’immagine. Si era creata una simpatia naturale tra me e i lucani, tra il modo in cui li facevo lavorare e la loro sensibilità. Erano veramente molto affezionati a me e al film. Un legame dovuto anche al fatto che io sono del Sud e non lo dimentico mai. Mi sono sempre reso conto dell’arretratezza del Mezzogiorno, della perseveranza delle istituzioni nel non intervenire. Una delle tragedie dell’Italia attuale è ancora questa. Ci sono altri episodi del tuo rapporto con la gente del luogo che non hai dimenticato? C’era una vecchina che faceva un’ammalata. Il personaggio di Volonté andava in giro per il paese e si era sparsa la voce che fosse un medico. Perciò il marito della donna, un vecchio contadino, lo chiamò e gli chiese di andare a casa loro. Così Gian Maria trovò questa vecchina distesa nel letto con una moneta d’oro sulla fronte. Era convinta che la moneta cacciasse via la febbre. Mi faceva una gran tenerezza. La questione della moneta non l’avevo inventata io, era una convinzione autentica della donna, di cui approfittai. Ho sempre avuto la sensazione che tu ti sia riconosciuto nel personaggio di Carlo Levi in «Cristo si è fermato a Eboli» più che nei personaggi di qualsiasi altro dei tuoi film. È un’impressione giustissima. All’epoca lo dissi: «Carlo Levi sono io». Mi sono davvero sostituito a lui. Ne ho assorbito abitudini, stili di vita, ingenuità. Ho fatto mia la sua cultura.

Vivevi anche una doppia personificazione, perché certamente Gian Maria Volonté è tra i tuoi attori quello nel quale ti sei identificato di più. Voglio svelarti un segreto. Quando facevo un film con Gian Maria, gli mettevo sempre un mio indumento addosso. Osserva bene l’abbigliamento di Volonté nella sequenza in cui attende l’arrivo della sorella interpretata da Lea Massari, in Cristo si è fermato a Eboli. Quella cravatta è mia, e anche la camicia. Ne Il caso Mattei gli avevo dato quell’impermeabile chiaro che indossa in parecchie scene. Ero convinto che mi portasse bene. Ma nel personaggio di Carlo Levi poi c’era il discorso del rapporto tra l’intellettuale e il Sud. Un tema che sentivo mio. L’intellettuale va al Sud, lo scopre, ne resta colpito, soffre, fa suo il problema, poi però parte e se ne torna a casa, al suo mestiere. Ed è anche giusto che sia così, soprattutto se poi riesce a scrivere Cristo si è fermato a Eboli o a farne un film. Ma il finale non è sempre quello. Infatti, il nostro cinema in fin dei conti non ha affrontato quel tema quanto in genere si crede. Poco tempo fa ho rivisto in televisione quel film di Germi, Sedotta e abbandonata, con Stefania Sandrelli, giovanissima, credo appena diciottenne. Era di una bellezza… Un film straordinario. Anche Saro Urzì era formidabile. Ecco, opere così dovrebbero essere proposte non episodicamente, ma in maniera sistematica per mettere i giovani nelle condizioni di capire la nostra cultura. Un film come quello ti fa conoscere l’Italia, niente come il cinema può farti conoscere un paese. Niente. Film come Ladri di biciclette, Roma città aperta, Bellissima, La dolce vita, li dovrebbero proiettare ogni anno nei cinema, gratis per il pubblico. Nelle scuole sempre. Di questi film non se ne occupa più nessuno. Strano paese il nostro, Peppuccio. Troppa gente intelligente, ambiziosa, superba anche. E soprattutto memoria troppo corta. Nessuno si ricorda niente, nessuno sa niente… È vero. Ma sapere che quei film esistono, e che li posso vedere tutte le volte che ne ho voglia, mi rassicura. Come il tuo «Cristo si è fermato a Eboli». Ti confesso che la scena finale

mi commuove sempre. Mi riferisco al momento in cui Levi/Volonté va via, circondato dai contadini e dai bambini che gli danno l’addio sotto la pioggia. Si avverte in quelle immagini che oltre il racconto c’è dell’altro. C’è il tuo tormento intellettuale, di uomo di cinema. Come se volessi dire: «Non so se questo basta, io per il Sud vorrei fare anche di più». Quella scena ha sempre emozionato anche me. Vedi, un film come Salvatore Giuliano non ti porta a questo tipo di conclusione, perché ha una sua violenza argomentativa. Non tanto nelle scene, ma proprio in ciò che il film dice. Qui invece il film sembra rassegnato, chiuso in questa condizione di arretratezza. L’intellettuale che viene mandato lì a scontare una pena, condannato a un anno di confino, scopre per caso un mondo che poi gli entra dentro, del quale avverte tutte le ingiustizie, fino a farsene una colpa, da cittadino e da intellettuale. È questo che mi interessava, che volevo esprimere, ed è il motivo per cui Volonté parla poco. Lo stesso motivo per cui Carlo Levi ha voluto essere sepolto ad Aliano. Tra i suoi contadini lucani. Commovente. Non lo sapevo. Io ho girato proprio nella casa in cui abitava, sulla terrazza. Queste fissazioni non me le ha mai tolte nessuno. Da quella terrazza si affacciava con don Luigino, che nel film è Paolo Bonacelli. Ti racconto un episodio. In un bellissimo e lunghissimo dialogo tra lui e Volonté, Paolo a un certo punto s’inceppa su una battuta. Ci fermiamo, ma quando riprendiamo s’inceppa di nuovo. Allora Gian Maria, simpaticamente, fa un sorriso e si rivolge a me: «Non ha studiato». Sapeva a memoria non solo la sua parte ma anche quella degli altri. In tutti i film che abbiamo girato insieme non c’è stata una volta in cui io abbia dovuto «stoppare» perché Volonté non ricordava una battuta. Mai. Ricordo la sua voce all’inizio del film: «Sono passati molti anni, pieni di guerre e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare tra

di loro. E non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente. A quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte». Parole tratte testualmente dal libro. Carlo Levi era veramente un grande scrittore. Peccato non abbia potuto vedere il film, che ebbe buone reazioni dappertutto. Piacque molto anche ai critici. Ricordo Antonioni che scendeva le scale del Fiamma, appena terminata la prima proiezione pubblica, e i giornalisti che lo assediavano per avere un commento. Lui s’incazzò: «E lasciatemi il tempo di pensare!». A quali festival partecipò il film? Vinse al Festival di Mosca. Ex aequo con un film di Juan Antonio Bardem, Siete días de enero (1979), e uno di Kieslowski, Il cineamatore. Franco Cristaldi era felice, il film gli era piaciuto molto, ma per una di quelle inspiegabili ragioni del nostro mestiere non abbiamo più lavorato insieme. E piacque molto a Daniel Toscan du Plantier e in generale ai francesi. Ha avuto subito molto successo. All’estero più che in Italia. In America avevano acquistato l’edizione cinematografica. Poi alcuni critici, tra i quali Pauline Kael, che scrisse un articolo meraviglioso, chiesero al distributore di fare uscire la versione intera. Ma continuo a pensare che quella cinematografica sia più compatta. Quando andai a Parigi a presentare il film, una sera mi arrivò una telefonata in albergo: «Noi non ci conosciamo, ma volevo dirle che il suo film è bellissimo!». Era Audrey Hepburn. Che donna straordinaria. Mi pento di non averle mandato dei fiori la mattina dopo, ma non sapevo dove alloggiasse. Con quella telefonata fu davvero delicata e gentilissima. Non sono questi i momenti belli della vita?

QUARTO TEMPO

And the winner is…

Parlare dei film che ho realizzato, ti fa sempre pensare a quelli che non ho fatto. Quando rivedo Cristo si è fermato a Eboli, e mi rendo conto come sia riuscita quella roba, dall’ambientazione, dal modo di recitare, allora mi viene davvero paura. Perché mi chiedo: «Cesare e Bruto» verrebbe bene come questo? A parte «Cesare e Bruto», il «Che» e «La galleria», di cui mi hai spesso parlato, quali sono i progetti che volevi fare e che poi sono saltati? Ho tenuto a lungo, tra i propositi, un lavoro sulla rivoluzione giacobina napoletana. Da qualche parte deve esistere anche qualcosa di scritto. Una storia sul cardinale Ruffo di Calabria. Volevo farlo davvero. E dico che è ancora una grande idea. Avrei voluto anche fare un film su Raul Gardini. Era un progetto molto interessante. Ci sono dei delitti e delle morti che restano chiusi nel loro mistero e nei loro dubbi. Nella morte di Gardini c’è il dubbio. Volevo anche parlarne alla moglie, che si è ritirata in un convento e vive con le monache. Quasi nulla di quella vicenda è chiaro. Come la morte di Calvi. Un altro mio desiderio mai realizzato era quello di fare un musical. Volevo farlo a Napoli. Ma poi mi hanno distolto progetti più concreti. Un musical a Napoli era una bella idea. Adesso Turturro ha fatto un documentario musicale sulla canzone napoletana. Ed è bello, me l’ha fatto vedere. C’è un altro film che sognavo di fare, una commedia di Bertolt Brecht, L’eccezione e la regola (1930). Ne avevo già parlato a Rod Steiger, volevo farlo con lui. Rod aveva anche accettato. Ma c’era tutto un mistero attorno ai diritti delle opere di Brecht, ottenerli fu impossibile. Chiesi anche a Giorgio Strehler di aiutarmi ad avere un contatto con il figlio di Bertolt Brecht. Giorgio saltò in aria: «Che idea! Ma perché

non ci ho pensato prima io?». Mi fece avere l’indirizzo. Andai persino a New York, scortato da Alice, la compagna di Furio Colombo, allora giovanissima. Setacciammo il quartiere casa per casa. A quell’indirizzo non risultava abitare nessuno. A un certo punto chiesi a dei ragazzini che giocavano in strada se sapessero dove abitava il figlio di Bertolt Brecht. Mi risposero: «Chi? Quel rompiscatole?». Nonostante la preziosa informazione, non riuscimmo mai a incontrarlo. Un altro film che avrei voluto fare è «I dieci giorni che sconvolsero il mondo», dal libro di John Reed. Me lo aveva proposto il produttore Raoul Levy, di cui ero amico. Il progetto mi sembrava molto interessante. Ne parlai a Nello Santi per combinare una coproduzione con russi e americani. L’idea mia era di mettere assieme due poli della guerra fredda sul terreno cinematografico. Nello era l’uomo adatto per i russi, avendo avuto diversi rapporti di collaborazione con il cinema sovietico, Rauol avrebbe coperto la Francia, e Sam Spiegel, che conoscevo bene e che mi stimava, avrebbe costituito il polo americano. Ma a Nello non andava che la sua figura di produttore venisse messa in ombra dall’autorevolezza e dall’importanza di Spiegel e ben presto il progetto andò a monte. In seguito, nel 1982, Nello Santi riuscì a produrlo con la regia di Sergej Bondarčuk. Ci sono stati certamente altri libri con i quali hai amoreggiato e poi non se n’è fatto nulla, come spesso accade nel nostro mondo. Sicuramente Il resto di niente di Striano, quello sul cardinale Ruffo di cui ti ho detto. So che poi l’ha fatto quella giovane regista, Antonietta De Lillo, brava, ma si vedeva che aveva a disposizione un budget troppo basso. Mi sarebbe piaciuto fare un film da La dismissione, il romanzo di Ermanno Rea. L’ha fatto Gianni Amelio con Castellitto, lo chiamarono La stella che non c’è (2006). Ma non venne fuori una gran cosa. Quello non era un film per Amelio, era un film per me, credo. Volevo farlo davvero. Poi lui ha preso i diritti, io arrivai tardi. Ma Gianni ha fatto tutto un altro film, si potrebbe anche farlo di nuovo. Per un po’ l’avevo pure ripreso

in mano. Una volta c’era stato anche il proposito di fare un film dalla commedia di Eduardo Sabato, domenica e lunedì (1990). Anni dopo lo fece Lina Wertmüller per la televisione. Mi piaceva molto il progetto di cui una volta mi hai parlato. Quello della masseria. Io chiuso in una masseria a cercare un’idea per raccontare l’Italia di oggi. Fatti, personaggi, opinioni, che riescano a rappresentarla in un film di cui trovare la chiave narrativa. E oltre a consultare documenti e immagini di repertorio, convoco scrittori, magistrati, giornalisti, attori. Ascolto le loro teorie. Prendo varie ipotesi in considerazione, le visualizzo, poi le abbandono. Alla fine, probabilmente, non troverò ciò che cercavo. Ma nel tentativo di farlo passerei in rassegna, sfiorandone le potenzialità drammaturgiche, varie ipotesi per raccontare la politica del nostro paese negli ultimi, enigmatici decenni. Potrebbe venire fuori qualcosa di molto interessante. Un progetto neanche costosissimo. Ma ci vogliono gli scrittori che conoscono bene la materia, la storia, la politica. Poi ci vuole la voglia, la fiducia in se stessi. E io credo di averne persa un po’. Anche se affrontare un film non mi ha mai messo paura. Adesso non ho il timore di sbagliare, ma di non trovare gli argomenti giusti per capire bene la ragione delle mie scelte. Una volta io mi buttavo nelle questioni. Dicevo: «Napoli ha il problema della nettezza urbana? Benissimo, facciamolo saltare fuori da una discussione». Ma è come se non avessi più fiducia nel metodo; la discussione toglie spazio alla narrativa. Questo è il problema. Però spesso dici di averla. Poi passa, per un po’, infine ritorna. Evidentemente il tuo desiderio di lavorare non si è mai spento. Forse. Non come Ettore Scola, che dice di aver chiuso sul serio. Va detto che lui ne ha realizzati molti più di me, di film. E ne ha fatti parecchi come sceneggiatore. Ettore ha fatto dei film bellissimi.

Peccato non abbia più voluto continuare. Chissà quanti soggetti, spunti e idee si porta dietro. Film che non vedremo mai… L’idea è tutto, parte tutto da lì. Sì, chiamo in una masseria della Lucania quattro o cinque personaggi. Uno è un giudice e si sa, i problemi dei giudici di oggi… Poi un giornalista, direi uno come Eugenio Scalfari. Ci confrontiamo sull’ipotesi di un film che faccia capire cosa è diventato il nostro paese. Tiriamo fuori fotografie, video, testimonianze, lui suggerisce una chiave di racconto, ne discutiamo, immaginiamo di vedere già alcune scene dell’inesistente film. Poi ci interrompiamo perché non ci persuade del tutto, o non convince me. Così esco dalla masseria, vado in campagna, incontro un contadino, ne parlo con lui. Mi dice una frase e penso che ha più ragione di me e di Scalfari. Per un istante prendo in considerazione l’idea del contadino. Mi fai venire voglia di vederlo. A un certo punto chiamo il mio amico Ettore Scola: «Ma che fai? Vienimi a trovare». Arriva nella masseria e gli chiedo di aiutarmi. «No, guarda, io il cinema non voglio più farlo» dice lui. «E perché?» ribatto io. E via coi perché. Sì, è il film che dovrei fare. Mi piace. Ma poi penso: «Ce la farò?». E riuscirò ad andare da un produttore per dire: «Troviamo i soldi per questo film?». Però mentre ne parli gli occhi già ti si illuminano. L’altra sera a casa mia c’erano Roberto Andò e Ferdinando Imposimato, un regista e un giudice. Abbiamo cominciato a chiacchierare. Ho detto: «Sapete qual è il film che vorrei fare? Parlare e far parlare di tutte le ansie che abbiamo oggi, dei problemi che sentiamo, dell’incapacità non solo di risolverli ma di affrontarli». Eh be’, però bisogna essere capaci di superare i dubbi, quando ho fatto Tre fratelli lo ero. So di usare un termine che nel tuo cinema è forse fuori luogo, ma mi sembra il tuo film più autobiografico.

In un certo senso è vero, se non altro per quel che ognuno dei tre fratelli ha nel proprio carattere e che coincide col mio. I sogni, le speranze, il modo di essere. Sì, è anche evidente. Hai ragione, è il mio film più autobiografico, sicuramente. Certamente il più vicino anche ai miei genitori. Mia madre morì pochissimi anni prima che lo facessi. Ricordo bene lo stato d’animo di quei momenti. Vedevo mio padre stanco e messo piuttosto male, se ne stava sempre in casa con una veste da camera, per questo io e mio fratello preferimmo non farlo venire al funerale, temevamo una reazione troppo forte. Poi, nel 1981, proprio mentre giravo Tre fratelli è morto anche mio padre. Lasciai per un paio di giorni il set al mio aiuto regista e andai a casa per i funerali. Hai delegato a lui alcune scene da girare? Ha girato la scena di una bambina che corre sui pattini lungo il corridoio di un albergo nel quale Michele Placido incontra sua moglie, con cui ha problemi. La morte di tuo padre può avere avuto un ruolo nell’ideazione del film? Può averlo avuto dopo. Ma l’idea parte da tante altre ragioni. Mentre facevo Cristo si è fermato a Eboli, la situazione del terrorismo in Italia peggiorò, soprattutto col sequestro Moro. Anche per questo, invece che ritrarmi, volevo andare avanti, proseguire il discorso che avevo iniziato con Cadaveri eccellenti. Lo dico senza presunzione, non ce ne sono stati tanti in quel periodo che si sono voluti cimentare con quel tema. In effetti non ricordo molti film italiani sul terrorismo negli anni del terrorismo. Tre fratelli è l’unico film fatto in quegli anni, siamo nel 1981, e parlava del terrorismo in maniera dialettica. Faceva capire le varie posizioni. Non l’aveva fatto nessuno. Io l’ho sentito come un dovere. Perché ho sempre creduto in una certa funzione del cinematografo. Un film è una manifestazione culturale popolare. La forza del cinema è l’emozione. Però l’emozione non dev’essere affidata solo al senso dello

spettacolo. I morti ammazzati, i duelli con le pistole, con i mitra, danno un’emozione al pubblico che, secondo il mio punto di vista, si deve accompagnare a un’analisi del contesto che li determina in un necessario rapporto di causa ed effetto. Vedi, Gomorra (2008) è un bellissimo film. Realizzato da Padreterno. Però manca qualcosa nel contesto. Tu racconti di delinquenti, racconti degli assassini, li mostri per quello che sono, addirittura fai accedere il pubblico alle tecniche di un certo vivere criminale, ma il contesto qual è? Che c’è dietro? Il pubblico è fatto di tanta gente, non solamente di intellettuali. È fatto anche di analfabeti, di ignoranti. È anche a loro che devi rivolgerti. Ho citato Gomorra, perché è un film che ho apprezzato molto, ma se Matteo Garrone avesse calcato la mano sugli aspetti misteriosi del modo di muoversi dei gruppi di mafia con i gruppi di potere, avrebbe fatto capire di più quello che ci sta accadendo intorno. E cioè come la politica conviva naturalmente con la criminalità mafiosa. Ma questo lo sappiamo da tanto tempo. Sì, lo sappiamo da tanto tempo. Ma non sapevamo fino a che punto di complicità e fino a che punto di tolleranza da parte del potere, che pur di raggiungere i propri obiettivi è pronto a eliminare qualunque ostacolo. Però un’indicazione di moralità, da un film, specialmente se tratta certi argomenti, deve uscire per forza, sempre. Sennò il film dura solo il tempo della sua programmazione in un multiplex. Una volta smontato non esiste più. Invece per te un film che ha certe ambizioni deve riuscire a superare il senso del tempo così com’è concepito dalle leggi della cronaca e del mercato. Deve saper conservare un valore che lo renda, se possibile, eterno. Il cinema è universale e perciò dovrebbe anche essere eterno. Lo so che la tecnologia è su quella strada. Ma io non parlo dei supporti sui quali oggi viaggiano le immagini, parlo dei valori, parlo dei film che ci sono rimasti addosso e di cui non ci libereremo mai.

È vero. Ci sono film dei quali non sapremo mai fare a meno. Come non riusciremo mai a sfuggire al nostro metodo di lavoro, giusto o sbagliato che sia. Ecco, qual è il fondamento del tuo criterio di cineasta? L’indagine, l’analisi sul modo di essere, l’analisi sull’ambiente, sul modo di pensare, sul modo di parlare, sul modo di muoversi dei personaggi ai quali voglio dare vita. Ed è per questa ragione che quasi sempre ho voluto nei miei film figure che appartenessero all’ambiente che stavo raccontando. Persino nel mio primo film, La sfida, che ha uno stile più tradizionale, se non c’erano quei personaggi presunti camorristi, il film non avrebbe inciso come ha inciso. Ma io non ho inventato nulla. Sceglievo la gente come l’aveva scelta Rossellini per fare i suoi film. Come aveva scelto i suoi pescatori Visconti quando ha fatto La terra trema. Insomma, Carlo Fermariello in Le mani sulla città è più potente di qualsiasi bravissimo attore io avessi scelto per fare quel personaggio. Perché Carlo Fermariello possedeva dentro di sé tutta la convinzione di essere nel giusto, la voglia di cambiare, di punire chi sbagliava. Aveva una ragione in più di quelle che avrebbe avuto qualunque grande attore. Bravo, hai detto la cosa giusta. Però, certo, per mettere in scena un Mattei credibile, un Lucky Luciano che ti convinca, devi avere un grandissimo attore. Allo stesso modo, per Tre fratelli pensai di non procedere ancora una volta con l’inchiesta, ma con la forma del racconto, tentando di spiegare quale strategia adoperassero i terroristi. Dai produttori non venne nessuna obiezione. Il terrorismo ammazzava per ragioni difficilmente ascrivibili a un’ideologia, ammazzare un professore come Vittorio Bachelet era un fatto del tutto irragionevole. Volevo entrare nel problema, raccontando una famiglia del Sud, un Sud di cui si sapeva pochissimo. La Lucania era sicuramente una terra fino a poco tempo fa quasi totalmente ignota al resto del paese. Io l’avevo conosciuta con Cristo si è fermato a Eboli. E ne avevo conosciuto la carica di umanità, il desiderio di appartenere a forme di vita più civili,

più desiderabili. E scelsi di dedicarmi a uno spicchio della Puglia confinante con la Lucania, le Murge. Forse la regione più sassosa e impraticabile del paese. Lontana da tante forme di civilizzazione. Pensa, fino a poco tempo fa lì si praticava la vendita degli «alani», ragazzini venduti ai pastori per sorvegliare le greggi. La chiamavano vendita, i pastori ne diventavano in effetti i padroni. Di fronte a fatti del genere, non bisognava allontanarsi dal tema principale, l’arretratezza di questa parte dell’Italia, ma approfondirlo. Ne parlai con Tonino Guerra, che a parte il talento di scrittore e sceneggiatore, era legato alla campagna, dove ha sempre vissuto. Il problema non era tanto l’idea del film, ma che struttura dargli. A Tonino venne in mente un racconto di Andrej Platonov, Il terzo figlio, letto da sua moglie, che è russa. Parla di tre figli che si riuniscono in seguito alla morte della madre. Ognuno con una sua vita e un suo diverso mestiere nella sconfinata Russia. A me e Tonino sembrò una chiave perfetta per entrare nel nostro racconto. L’importante era l’identificazione tra i nostri personaggi e quelli dell’Italia di quei giorni. Uno era un magistrato minacciato dal terrorismo, ne affidai il ruolo a Philippe Noiret. Un altro era un maestro interpretato da Vittorio Mezzogiorno, un educatore di criminali minorenni che sognava un mondo e una Napoli migliori. Il terzo, il più giovane, quello al quale solitamente le famiglie del Sud dedicano più sforzi e sacrifici, era un operaio, lo interpretava Michele Placido. E proprio l’ambiente operaio nel quale lavorava lo esponeva a una certa tentazione di avvicinarsi al terrorismo. Cominciammo a lavorare su questa traccia e aggiungemmo una bambina, figlia dell’operaio. Scrivemmo una parte bellissima per il vecchio padre di famiglia, Charles Vanel. Piano piano, cercai di mettere in quel film tutto ciò che apparteneva al mio mondo. Non avevo mai avuto rapporti con la campagna, il mio mondo era il mare, ma usai il mio modo di vivere e interpretare la meridionalità. La storia dei tre figli e dei problemi che ciascuno porta con sé, del padre, della madre che muore, della bambina, ci sembrò una struttura perfetta per il racconto che avevamo in mente. Così prendemmo i diritti del libro di Platonov, che in fondo era solo

un racconto breve. La sua vicenda era costruita sulla realtà russa. Infatti uno dei figli era un ufficiale superiore dell’Armata Rossa. Insomma, Platonov aveva inventato un’operazione narrativa che calzava perfettamente sui contenuti del nostro film. Intendo dire, prendere figli di età diverse, di tendenze ideologiche diverse, e lavorare su queste distanze. La modernità del film era nel suo tentativo di capire il modo in cui questi tre individui vivessero, ciascuno dalla propria prospettiva, il problema fondamentale dell’Italia dell’epoca, l’avanzare del terrorismo grazie alle convinzioni di intellettuali terroristi, che sfruttavano le necessità e i convincimenti di operai terroristi. Materia per raccontare l’Italia ce n’era, e tanta. Affrontavate tutti i temi più scottanti dell’Italia di quel momento. Ma c’era paura di toccare certi argomenti, io invece decisi che bisognava guardare più da vicino la questione dei terroristi e delle loro azioni. Il film andò avanti, malgrado il terrorismo fosse un problema vivo. Io e Tonino trovavamo materia quotidiana alla quale attingere. Era un lavoro difficile, dei terroristi si sapeva poco, e poco si sapeva degli operai che diventavano terroristi, degli studenti che aderivano al terrorismo. La storia quotidiana del nostro paese ci aiutò. Infatti il film è semplice ed ebbe successo. Mi colpì molto, non solo dal punto di vista emozionale, la tua scelta d’inquadrare da lontano la bara della madre portata via dai figli, con un teleobiettivo lunghissimo. Era il punto di vista del vecchio. Fu un momento pieno di commozione non solo per me, ma anche per gli attori. Vanel aveva novant’anni quando ha fatto quel film e una faccia eccezionale, nelle cui pieghe si leggeva e si capiva tutto. Sapeva esprimere dei silenzi formidabili, nei quali c’era tutto il suo rapporto con la bambina. Temevo molto quella fase del film, perché lui parlava francese e la bambina italiano, ma si sono intesi immediatamente. Come si intesero subito Vanel e il cane, che faceva quello che volevo io, ma solo dopo che glielo chiedesse Vanel. Poi scoprii che l’attore

preparava delle mollichine di pane, le appallottolava nascoste in tasca, e gliene dava una alla volta. Per cui il cane capiva che ne avrebbe avuta un’altra e lo seguiva. Per questo Barone gli ubbidiva sempre. Del resto il cane era esperto. Aveva lavorato con me anche in Cristo si è fermato a Eboli. Mi piaceva la scena in cui il vecchio e la bambina, che non sono andati al funerale, restano soli nella masseria. Sentivo però il bisogno di qualcosa che in sceneggiatura non c’era. Fu così che mi venne in mente una soluzione semplice: la bambina sente che una gallina ha fatto l’uovo e allora corre nel cortile, prende l’uovo e lo porta al nonno. Ho pensato che non c’era di meglio per rappresentare la vita che continua, la vita che rinasce. Ma in effetti quella è la cifra dell’intero film. Se esamini attentamente gli episodi che riguardano i fratelli, ti accorgi che ciascuno di loro è protagonista di vicende che contengono il senso della vita che continua. E anche il film volevo che si chiudesse in maniera forte, in maniera adeguata. Così si spiega la scena in cui la bambina porge l’uovo al nonno, o quella in cui lei gioca e scopre il mondo della masseria, che forse non ha mai visto. Si sente tutto il Rosi di quella fase. I tre fratelli raggiungono la casa paterna nella terra di «Cristo si è fermato a Eboli», ma provengono dall’Italia di «Cadaveri eccellenti», e quei drammi se li portano dietro. Certo. Sono gli argomenti dei quali parlano fra loro, durante la veglia per la defunta, appartati in una camera dove hanno ritrovato i loro letti di ragazzi. Discorsi che sono il filo conduttore del film. L’operaio che rifiuta di essere apparentato ai terroristi che uccidono, il giudice che convive con l’incubo delle minacce di morte subite, l’educatore che sogna una Napoli ripulita dai rischi della violenza. Tutto accompagnato da Je so’ pazzo, la canzone di Pino Daniele che mi pareva adattissima. Quella conversazione segue l’intera linea ideologica del film, e quand’è finita, i tre fratelli si aprono finalmente a quella commozione che non avevano saputo esprimere, e lo fanno in un’inquadratura che è stata molto difficile da realizzare. Solo l’abilità di Pasqualino De Santis

poteva riuscirci. All’interno della cucina vediamo Vittorio Mezzogiorno di spalle che si avvicina alla finestra. Nella stessa inquadratura scorgiamo anche gli altri due fratelli, giù nel cortile della masseria, distanti l’uno dall’altro. Michele Placido, l’operaio, appoggiato a un muro, si abbandona al pianto. Piange anche il fratello giudice, Philippe Noiret, che siede lontano su un sasso. Intanto Mezzogiorno, che è rimasto sempre di spalle, comincia a sussultare scosso dai singhiozzi. Piangono ovviamente per la morte della madre, ma come conseguenza di quella che tu chiami linea ideologica del film, sembrano piangere per quanto sta accadendo in Italia. Capisci adesso quanto fu difficile per me fare quel film? Cercavo di non cadere nell’ovvio, ma fui rimproverato da qualche critico italiano. Dissero che il dialogo tra i fratelli si poteva leggere ogni giorno sui giornali, o sentire alla televisione. Io risposi: «E che male c’è? Vuol dire che il nostro mondo è questo». A volte sono strane le reazioni dei critici. Capisco che debbano scrivere il pezzo per l’indomani, senza il tempo per approfondire. Poi magari rivedono il film e spesso cambiano opinione quando ormai è tardi per dirlo ai lettori. Mi pareva un film su un’Italia che non ce l’avrebbe fatta. Avvertivo che ti guardavi intorno e avevi paura che il paese stesse imboccando una strada che non portava da nessuna parte. Infatti, già quando pensai ai tre fratelli ero deciso a far pronunciare al giudice quella battuta: «Il no solo ai terroristi non basta». Sostiene che bisogna dire no ai terroristi e no a questo Stato, ma aggiunge che si deve lavorare per renderlo migliore, lo Stato. Era la mia posizione, infatti all’epoca dissi che ognuno dei tre fratelli aveva qualcosa che mi apparteneva. Quel film l’ho fatto con amore, forse mi ci sono calato dentro troppo. Ma sentivo che c’era bisogno di mettere fuori i sentimenti e le convinzioni. Credo che sia il tuo primo film dove l’aspetto onirico ha un ruolo importante, come idea espressiva e come idea narrativa.

Ognuno dei fratelli ha un sogno, in certi casi un incubo. E anche all’inizio, quando il padre avanza lungo una stradina di campagna, a un certo punto si volta e tra gli alberi vede la moglie appena morta che lo saluta. Una scena bellissima, al rallenty. Poi si reca in paese a fare il telegramma ai figli: «Vostra madre è morta». Mi era piaciuto molto, nella scena in cui la bambina dorme con il nonno, il ticchettio ferroso della sveglia. Quel rumore, così insistito, doveva avere un significato. Non si riesce a dormire per il dolore del lutto familiare, ma anche per le grandi inquietudini sociali. C’è come un’insonnia a cui non si sfugge. Come un disagio gigantesco che sta sulla testa di tutti e che non è risolto. Il film fa anche riferimento a Guido Rossa, l’operaio che denunciò il terrorismo e che fu ammazzato. Se ci pensi, la facilità con cui si arrivava all’omicidio era diventata agghiacciante. Quell’Italia non ce l’ha fatta, però ha resistito. E resistere al ricatto del terrorismo in quel periodo non era facile. Si uccideva senza un motivo, senza nemmeno una ragione. Quando ti venne in mente di fare un film del genere? Appena finito Cristo si è fermato a Eboli. Capii che dovevo continuare. I miei collaboratori, Pasqualino De Santis e gli altri, erano sbalorditi quando dissi: «Il prossimo lo giriamo ancora qua». Risposero: «E che facciamo? Lo stesso film?». «No. Un film diverso. Però ripartiamo da qui.» L’idea di dare al giudice il volto di Philippe Noiret come nacque? È un attore che ho sempre amato molto. La scelta fu naturale, anche per via della coproduzione con la Francia. Credo che proprio a partire dagli anni di piombo, all’estero si sia cominciato a non capire più cosa stesse accadendo nel nostro paese, e restiamo un enigma ancora oggi. Ma quando accompagnavi il film fuori dall’Italia, che dicevano? Come lo accoglievano?

Ho fatto almeno un paio di proiezioni in Francia. A film finito, critici e colleghi francesi riconoscevano che da loro non era stato affrontato il problema del terrorismo, anzi lo si era evitato. Il cinema era come inibito rispetto a quel tema. L’eredità del neorealismo tutto sommato dava a noi italiani una naturale attitudine ad affrontare certe questioni sociali e civili. Ricordo che quando il film uscì tu sei venuto a Palermo. E tu mi invitasti alla sede Rai per un’intervista. Improvvisai un programma che parlava di te. Mi ricordo che al termine della registrazione, mentre andavi via, mi dicesti: «Sto andando in giro per l’Italia per promuovere il film». E io ti chiesi: «Ma in questi casi un regista com’è, preoccupato?». Tu mi rispondesti: «Si è sempre ansiosi per il risultato dei propri film, ma in questo caso, se “Tre fratelli” non dovesse andare bene, sarebbe la fine per un certo tipo di cinema che parla di certi temi dell’Italia». E avevo ragione. Infatti Tre fratelli ebbe successo in Italia ma sorprendentemente ancora di più all’estero. Fu anche segnalato per la partecipazione all’Oscar. Ebbe la nomination come miglior film straniero, no? La ebbe ma poi perse per un solo voto. Ne sono certo perché il regolamento consente a chi partecipa col film straniero di essere informato sulla votazione. Quando dovevo andare a Hollywood per la premiazione chiesi a mia moglie Giancarla di accompagnarmi. Arrivammo a Los Angeles e tutti quelli dell’Academy mi davano per vincente assoluto. Ci fu il pranzo in onore dei cinque registi stranieri? Lo facevano sempre all’epoca. Come no? Ho la fotografia con tutti i partecipanti. Ci sono io con gli altri quattro candidati, poi c’è Charles Vidor, Robert Wise, John Schlesinger, Vincente Minnelli. Fu un bel momento. C’era con noi anche il produttore del film, Giorgio Nocella. Ma non aveva la forza e i rapporti necessari a spingere il film. Ricordo che quando siamo partiti dall’hotel

per andare alla cerimonia degli Oscar, ci venne a prendere Cesare Danova, un attore italiano molto simpatico e cordiale che viveva a Los Angeles da tempo. Lo stesso che anni dopo avrebbe accompagnato me per «Nuovo Cinema Paradiso». L’Academy lo incaricava di fare gli onori di casa ai candidati italiani. E anche lui mi lasciava intendere che Tre fratelli era in pole position. Prendemmo posto nel gran teatro, eravamo tutti molto eccitati, invece all’ultimo momento: «And the winner is… Mephisto!». Vinse il film del regista ungherese István Szabó che stava proprio a una poltrona da noi, e fece un salto in aria urlando come un pazzo: «Aaaaaaaah!». Francamente mi dispiacque molto. Ci rimasi male più per Giancarla che per me. So che sarebbe stata felicissima se ce l’avessi fatta. Del resto il film di Szabó parlava di nazismo, e ovviamente aveva avuto i favori della lobby ebraica. Giancarla che disse? Era molto realistica in queste cose. Non disse nulla. Sapeva che quando partecipi devi essere pronto ad accettare ogni risultato. Mephisto (1981) era un bel film, ma l’Italia fu rappresentata degnamente perché Tre fratelli aveva una sua verità, una sua freschezza, era un film più insolito e più al passo con i tempi. Poi il ruolo del vecchio Vanel era formidabile. La Gaumont si occupò della distribuzione. Fece un ottimo lavoro soprattutto in Francia. Avevo come ufficio stampa il buon Fabio Rinaudo, storico collaboratore di Franco Cristaldi. Pensa se avessimo preso l’Oscar. Sarebbe stato molto importante per il cinema italiano, per me, per Nocella. Come mai il progetto non fu portato a termine con Cristaldi? Avevate fatto tanti film insieme. Non te lo so dire, forse perché avevo allora un rapporto amichevole con Giorgio Nocella e con la Gaumont, visto che in Francia Cristo si è fermato a Eboli era andato benissimo. Mi proposero anche di fare il presidente della giuria a Cannes. Io suggerii l’idea di prendere Giorgio Strehler. E loro mi

ascoltarono, presero Strehler. Non mi ci vedevo a presiedere giurie.

Maestro

Fu Daniel Toscan du Plantier a offrirmi la possibilità di ricavare un film dalla Carmen. Lui amava molto l’opera, era un uomo simpatico e intelligente. Il presidente della Gaumont era Nicolas Seydoux, ma l’anima delle scelte era Daniel. A quell’epoca, Joseph Losey aveva diretto una versione cinematografica del Don Giovanni (1979) di Mozart che aveva riscosso un notevole successo. Così Daniel propose a me Carmen. Io non sono mai stato un melomane, ma Carmen era una mia passione, una delle poche opere che conoscessi e amassi sin da ragazzo. Aveva la musica formidabile di Georges Bizet, e forse era l’unica opera veramente realista. Dissi a Toscan: «M’interessa molto, ma devo essere sicuro di fare il film che ho in mente». Lo immaginavo con uno sviluppo a scene, a quadri. Quindi con un impianto cinematografico. A parte la musica, cambiava la struttura rispetto all’opera originaria. Daniel si era dichiarato totalmente d’accordo con l’impostazione che avrei dato al film. Lo girai tutto in Spagna, fu una delle condizioni che chiesi e ottenni. Il direttore d’orchestra era Lorin Maazel… Sì, un grande direttore. Non ci conoscevamo, io non facevo parte del suo mondo. Non come Zeffirelli, che si era specializzato nella regia e nella realizzazione di opere liriche. Maazel doveva conoscermi, perciò stavamo insieme, parlavamo del progetto nei minimi dettagli. Comunicavamo in francese. Ma lui parlava perfettamente italiano, perfettamente francese, perfettamente inglese… Ricordo che, un giorno, eravamo a Parigi nella sua macchina. Lui guidava, io cominciai a parlare: «Ti spiego come voglio iniziare la mia Carmen. In modo diverso da come avviene in teatro. Voglio cominciare con l’arena, con la plaza de toros, e mostrare dei passi, istanti di una corrida, poi il matador, che nel film sarà

Placido Domingo, infila la spada nel morrillo del toro». A quel punto mimai il gesto deciso del torero e, nell’istante in cui la mia spada immaginaria trafisse il toro, attaccai a cantare la Marcia del toreador di Bizet: «Zazza-razarazara-zazarazarazara-zaza-razarazara-zaaa!». Maazel fermò l’auto e disse: «Sei un artista!». Gli avevi dato un bell’esempio di come si coniugano l’arte di raccontare e quella di usare la musica. Quella mia idea piacque molto anche a Domingo, e nel film la scena è esattamente come l’avevo mimata e cantata a Maazel in auto. Quale fu la prima difficoltà nel mettere in piedi il film? Prima di tutto bisognava trovare la Carmen giusta, diversa da una Carmen convenzionale, non una delle tante che c’erano state, magari bellissime. Quelle non corrispondevano alla mia idea della Carmen così come era stata descritta da Prosper Mérimée e musicata da Bizet. Alla biblioteca dell’Opéra di Parigi è conservato un acquerello dipinto da Mérimée. Vi è disegnato Don José con una donna minuta, carina, che gli sta aggrappata al torace. E io dissi: «Ma Carmen è questa, l’ha disegnata Mérimée!». Cominciammo a fare i provini. Ne ho visti e sentiti tanti. Consistevano nel canto di un brano e in alcuni movimenti. Ben presto, da quella montagna di volti e di voci saltò fuori Julia Migenes Johnson. Fu segnalata a Daniel da Maurice Béjart, che con lei aveva lavorato. Fisicamente, Julia era una novità, non te l’aspettavi. Di solito Carmen era più mediterranea, andalusa, ma non spagnoleggiante. Toscan fu d’accordo, io pure. Restava Lorin Maazel. Julia era un mezzosoprano e il ruolo di Carmen è per un mezzosoprano, ma il suo canto aveva delle note tenute in maniera non così limpida e impeccabile. Era proprio Carmen. Maazel si convinse, così cominciammo a lavorare: per me avrebbe significato entrare nel mondo della lirica. Dovevo realizzare un film, ma stavolta su un’opera. Mi toccava manovrare per farlo diventare il più possibile un film, per avvicinarlo alla realtà. Conoscevo la Spagna, avevo girato lì Il momento della verità. Ora dovevo impadronirmi di Carmen, del personaggio.

E anche degli altri personaggi importanti dell’opera. Così andavo a lezione dall’insegnante di musica e canto. Mi piaceva moltissimo. Poi assistevo alle prove degli artisti. Passo dopo passo, mi rendevo conto che, quando cantavano insieme Julia Migenes, Placido Domingo e Ruggero Raimondi c’era unità, la chimica funzionava. Presi due collaboratrici, una segretaria di edizione e di produzione, e un’assistente che era regista alla tv francese, Isabelle Partiot-Pieri e Ariane Adriani. Entrambe esperte di opera lirica. Cominciai a scegliere le località. Presi l’arena di Ronda, che è di epoca romana, al pari della zona che la circondava. Tutto il quartiere andava adattato alle esigenze del set. Enrico Job fece un lavoro magnifico sulla scenografia. Era bravissimo nel cinema, ed era anche scenografo di teatro lirico, il mestiere lo conosceva bene. Facemmo venire fuori i luoghi, come la manifattura dei tabacchi nella quale Carmen lavora. Qui le andaluse, cioè le spagnole, avevano un ruolo più elevato e lavoravano le sigarette. Alle gitane riservavano invece i sigari, il tabacco puro. Per questo gli spagnoli chiamano il sigaro el puro. Questo già marcava una differenza tra categorie sociali. Pian piano questa bellissima piazza di Ronda, col ponte romano che passa sul fiume, abbiamo cominciato a trasformarla. Abbiamo invaso l’intera città. Avete anche trasformato case, modificato qualche prospetto? Certamente. Per la manifattura dei tabacchi scegliemmo un palazzetto al quale applicammo una facciata fatta da noi. Eliminammo i fanali, le parti visibili della rete elettrica. Quell’angolo di Ronda divenne come un’acquaforte che riproduceva la plaza de toros dell’epoca. Ti sei ispirato anche a delle illustrazioni? C’è un libro che contiene trecento disegni di Gustave Doré, si chiama Voyage en Espagne, l’ha scritto il barone Charles Davillier. Quel libro è un lavoro bestiale, su quello ho lavorato, vorrei che tu lo vedessi. Lì dentro c’è tutta la differenza tra andalusi e gitani, negli abiti, negli stili di vita. Mi sono fatto guidare dalle illustrazioni di Doré e sono andato in giro a trovare i luoghi dei disegni. E li ho trovati. Tra le

montagne ho rintracciato anche il passo dei contrabbandieri disegnato da lui. Hai usato i disegni come fossero fotografie, e sei andato a caccia dei luoghi in cui erano state scattate. Proprio così. Doré aveva lavorato davvero come un fotografo. Avevo chiesto l’assistenza di una guardia campestre, che conosceva pietra per pietra il vallone che era sotto la città di Ronda, attraversato da un sentiero romano praticato dai contrabbandieri per passare, per esempio, da Ronda a Gibilterra, dove trovavano i carichi di sigarette e sigari. Per quel sentiero passavano anche di notte, coi cavalli, che al buio vedono benissimo. Sempre grazie al Doré mi ritrovai su un profondissimo canyon, davvero spettacolare. E allora dissi: «Dobbiamo girare qua, in cima al burrone, la scena in cui Domingo e la Migenes vanno a cavallo di notte». Naturalmente sorsero mille problemi. Come portiamo quassù i gruppi elettrogeni? Il direttore di produzione francese, Patrice Ledoux, fu d’accordo con me, era un’impresa epica ma valeva la pena. Trovò un accordo con i tecnici e le maestranze, poi, grazie a dei mezzi speciali, portò i gruppi elettrogeni in cima all’orlo di quel burrone e trovarono un modo per far scendere da lì chilometri di cavi. Non fu facile, ma il risultato formidabile. È stata una lavorazione lunga, difficile, ma anche esaltante. Durante la preparazione del film apprendevo tantissimo, e volevo apprendere sempre di più. Capivo che il solo modo per fare un film diverso dal classico film-opera, era lavorare sull’ambientazione, sui luoghi, oltre che su costumi e personaggi. L’ambientazione era fondamentale. La fontana nella piazza, le case intorno, creammo insomma una scenografia realista su cui sistemare i cantanti. Senza quella verità, quel realismo nella scenografia, non sarebbero stati convincenti. L’interno della manifattura dei tabacchi l’ho realizzato in un altro edificio, sempre a Ronda. Non costruimmo nulla, lasciammo intatte anche le travi di legno, le porte. La camera dove Don José e Carmen hanno il loro dialogo di amore e odio avviene in una stanza vera. Era estate, c’era un caldo insopportabile. Ho lavorato come di solito si

lavora negli ambienti dal vero. Solo che questi dovevano essere identificati come ambienti del 1870. Le parti cantate le giravi in playback? Certo. Ho inciso separati il canto del mezzosoprano Julia Migenes, di Placido Domingo e di Ruggero Raimondi. Per farlo, i tecnici di Radio France inventarono un sistema che teneva in primo piano le voci dei cantanti, senza annullare il contesto del suono. Fui io a chiedere questa condizione, loro riuscirono a darmela. Ho lavorato molto sulla musica, che amavo ma non conoscevo tecnicamente. Per questo studiai tanto. Se non l’avessi fatto, il film non avrebbe mai avuto la fisionomia che ha. Hai l’impressione di assistere a qualcosa che appartiene intimamente all’opera, ma il resto è cinema. Dimmi degli attori. La Migenes Johnson, per esempio, fu una rivelazione. Era già una cantante piuttosto esperta. Ma più nell’operetta, meno nella lirica tradizionale. Questo diventò un elemento positivo. A parte la sua statura minuta, sembra davvero la Carmen disegnata da Mérimée in quell’acquerello. Ma aveva verve e capacità mimica, per me questo era importantissimo. Occorreva talento per i movimenti, per esprimere il testo e la musica, e anche per entrare nella mia interpretazione del testo e della musica. Fu un incontro molto positivo. I testi delle parti cantate sono esattamente quelli del libretto originale? Tutti, come i dialoghi. Perché della Carmen esistono due edizioni: una con i recitativi, l’altra con i dialoghi, che è l’edizione originale su cui ho lavorato io. All’Opéra Comique, dove si dava la Carmen, preferivano quella coi recitativi. Ovviamente, anche la partitura musicale è esattamente quella di Bizet. Tutta l’edizione del film, il montaggio, l’hai fatto in Italia? Sì, in Italia, con Ruggero Mastroianni. Solo una parte fu fatta in Francia, con la collaborazione di Colette Semprún. Sempre in Francia, invece, ho eseguito tutto il mixage.

Il montaggio di un film basato su un’opera lirica, concepito come tu hai concepito «Carmen», con le voci separate, è diversissimo dal montaggio tradizionale. Sì, fu molto complesso. Ma nella sostanza il mixage è l’unione delle varie colonne del parlato, dei rumori, della musica. Tutto sommato, è tecnicamente uguale in qualsiasi film. Piuttosto, per far venire fuori la realtà dei luoghi in cui ho girato, non mi è bastata la fotografia. Ho ritenuto essenziale corredarla con i rumori veri, con le voci, con i vari suoni. E questo di solito non si fa. Giravi sempre con più di una macchina? No, fondamentalmente ho girato con una macchina da presa. Solo quando occorreva, ne aggiungevo altre. Ma nei miei ultimi film giravo spesso contemporaneamente due punti di vista, quindi con due camere. La leggenda che i cantanti lirici siano poco plasmabili, è vera? È vera quando trovi un cantante lirico stupido. Ma se incontri persone come Domingo, come Raimondi, come Julia Migenes vai avanti tranquillo. Non ho avuto alcun incidente durante il lavoro. Uno dei grandi problemi dei registi cinematografici che si cimentano in regie liriche è la ricerca di una certa dinamicità nella rappresentazione, quella dinamicità che l’impianto lirico teatrale e la recitazione canonica spesso non prevedono. Tu hai realizzato la follia, li hai fatti muovere come se fossero in un film. Come hanno vissuto questa novità? Direi bene. In qualche modo l’avevano già fatto. Ruggero Raimondi aveva lavorato con Joseph Losey. Placido Domingo di film-opera ne aveva fatti diversi. Il senso di ciò che volevo l’hanno afferrato subito. A me interessava sottolineare la differenza tra le classi sociali dei personaggi. Può sembrare uno scopo difficile da ottenere, devi conquistarlo già nella partitura, perché molto dipende da come cantano. Il modo in cui agivano come attori li aiutava a rappresentare le classi

sociali alle quali appartenevano. Capivi subito che Placido Domingo era un borghese, per il quale la madre era una presenza moralmente fondamentale. Ruggero Raimondi era Escamillo, il torero che toreava a cavallo, il torero per eccellenza. E poi doveva risaltare tutta la differenza tra l’andalusa e la gitana. Ricordo che il film ebbe un bel successo. A Roma, il Fiamma lo tenne per mesi. Allora si usavano ancora le lunghe teniture in esclusiva in un solo cinema. Le sale che proiettavano Carmen continuarono a tenerlo per mesi. Gli altri film sono spariti. Ha avuto un successo enorme, anche in Inghilterra e in America. In Italia molto meno, ma si sa che in Italia i film tratti da opere liriche non sono molto amati. Ma in Francia conquistò un successo enorme. Mi dissero che aveva rimesso in piedi la Gaumont in un momento difficile. Non mi spiego come mai non lo mandino alla tv. Era un film bello da vedere. La sua spettacolarità celebrava perfettamente l’impianto musicale dell’opera. E fu una novità. Si sentiva che dietro c’era un occhio diverso rispetto ai tradizionali film-opera che avevamo visto sino a quel momento. Sì, anche il Don Giovanni era un bel film, ma aveva un difetto. Non avevano inciso le colonne in modo da poterle mixare agilmente, avevano inciso tutto insieme perché avevano ripreso e registrato tutto in una chiesa, a Parigi. È bello davvero il film di Losey. Ma per quel motivo non c’è varietà sonora, quella che ti permette di entrare meglio nella verità. Se senti tutto sullo stesso livello, non hai l’impressione che uno canti in primo piano e l’altro in campo lungo. Come ti dicevo, ai tecnici di Radio France chiesi di mettermi in condizione di poter mixare il film con tutti gli elementi musicali separati, in modo da poter ottenere non solo una variazione dei campi sonori, ma un’apprezzabile trasparenza del suono. Io volevo sentire i rumori delle carrozze che calpestano la strada, volevo mescolare la vita alla storia del film. Presero un paio di mesi di tempo in più, però ci riuscirono. Tecnicamente disposero tre box, in ognuno c’era il

microfono per un cantante. Intanto il cantante sentiva il pezzo che andava avanti, così era sicuro di non perdere l’attacco e il ritmo. Nei film sulla lirica non si era mai fatto così. Perciò ogni personaggio aveva la sua traccia. Esattamente. E per ottenerlo occorreva una base col volume bassissimo, per impedire il rientro nel microfono e per evitare che ci si confondesse e ci si accavallasse. Fu un lavoro d’incisione bellissimo. Per me era una soluzione indispensabile. Prendi la scena con Raimondi sul cavallo. Senti il cavallo e allo stesso tempo lui che canta e i rumori che provengono dalla strada. Dico che fu un bel lavoro perché sai che sono appassionato della parte fonica dei film. La trovo estremamente importante. Non a caso, nella maggior parte dei miei film sono doppiati solo gli attori stranieri. Tutti gli altri, anche quelli presi dalla strada, recitano sempre con la propria voce. Hai voluto che la musica non fosse sempre in primo piano, come nei tradizionali film-opera. Talvolta devono prevalere i personaggi, la storia. In altri momenti la musica diventa protagonista. Giusto. Calcolavamo tutto, anche quando doveva entrare il coro. Sai che Lorin Maazel, oltre che un grande musicista, è pure un matematico? Lo sono molti musicisti. Aveva messo il coro sulla seconda galleria del teatro in cui registravamo e lui, calcolando i secondi, dava il tempo, lanciava il segnale nell’istante in cui doveva intervenire. Una cosa incredibile! Se ho capito bene, i cantanti e il coro cantavano, ma voi non sentivate la musica, potevano sentirla solo loro. Ed era bello. Ciò mi permetteva di realizzare un film uguale ad altri dal punto di vista del sonoro. Con le differenze che solo un orecchio molto sensibile poteva percepire. Durante il lavoro sulla «Carmen», ti tornò utile l’esperienza fatta tanti anni prima con Ettore Giannini?

Quell’esperienza riguardava la messa in scena su un palcoscenico di recitazione, musica e canto. Da quel punto di vista, perciò, quel che facevo adesso non era una novità. Confesso che mi piace ricordare la lavorazione della Carmen, le difficoltà, la soddisfazione di superarle. Mi piace ricordare l’unione dell’équipe francese con quella italiana. Daniel Toscan du Plantier e Nicolas Seydoux, e anche Patrice Ledoux, affrontavano ogni difficoltà che s’incontrava. Collaborò con noi pure Antonio Gades, bravissimo ballerino. In cosa consisteva la sua collaborazione? In una scena, le sigaraie si disponevano per fare una specie di ballo, dei movimenti di danza. Le coordinò tutte Gades. Avevo chiamato lui per non alterare il senso di verità che volevo. Dopo il successo di «Carmen» ti hanno proposto altri filmopera? Hai mai pensato di farne altri? Ho avuto offerte per progetti teatrali. Mi chiesero pure di rifare la Carmen in teatro. Ma ne avevo già tratto un film che mi soddisfaceva, non mi andava di ripetere l’operazione, non ne vedevo la necessità. Se non per soldi. Daniel Toscan du Plantier non mi avrebbe proposto niente di analogo. Lui era entusiasta del film. E da produttore gli piaceva scoprire, tirare fuori dei prototipi. Una volta messo in piedi il prototipo, lo sfruttamento lo lasciava agli altri. Molto tempo prima che facessi la Carmen, il maestro Siciliani, il sovrintendente della Scala, mi chiese spesso di dirigere delle opere. Ma sinceramente l’opera in teatro mi attraeva meno dell’idea di farla al cinema. Te l’ho detto, non sono un vero melomane. Forse in teatro si ha anche meno libertà. Non puoi inventarti molto. Devi ricorrere a invenzioni scenografiche, che non sempre aiutano. Per questo ho voluto che anche per la Carmen si girasse in ambienti veri, come facevo nei miei film. Certo, questo complicava il lavoro. Ma via via imparavo e le complicazioni scomparvero. Non fu semplice girare di notte la scena della carrozza con Raimondi, ma tutto venne bene.

Anche perché, dico la verità, io, Daniel e Patrice Ledoux, riuscivamo a comunicare il nostro entusiasmo all’intera troupe. Confesso che mi sarebbe piaciuto fare la Madama Butterfly. Sapevo che era un’idea anche di du Plantier. Ma passò del tempo, dopodiché fu proposta a Frédéric Mitterrand, l’attuale direttore dell’Accademia di Villa Medici a Roma. Avrei fatto anche la Tosca, alla quale dedicai pure un po’ di lavoro. Me la propose Andrea Andermann, si trattava di mettere in scena l’opera di Giacomo Puccini in diretta televisiva dai luoghi reali in cui si svolge la storia. Ma poi il tempo passava e non si arrivava mai al dunque, a un certo punto non aspettai più e rinunciai. La Tosca la diresse Peppino Patroni Griffi e io andai a fare un film. Devo anche aggiungere che secondo me è il teatro il posto giusto per la lirica. Però la «Carmen» che hai fatto tu è bellissima. E poi in teatro avresti dovuto rinunciare a tutte le tue idee di spettacolo realistico e cinematografico. Negare tutto ciò che avevi fatto sul set. È vero. La mia impostazione fu diversa da quella di altri registi che hanno fatto la Carmen. È divertente ricordarlo, ma un anno prima che uscisse la mia versione, tre registi hanno fatto film sulla Carmen. Godard fece Prénom Carmen (1983), ma con la musica di Beethoven, Carlos Saura fece Carmen Story (1983) e Peter Brook fece un cortometraggio che si chiamava La tragédie de Carmen (1983). C’era stata una versione musicale di Otto Preminger negli anni Cinquanta, Carmen Jones (1954), con Harry Belafonte. Io stesso avevo pensato a un’altra versione della Carmen. Poiché quell’opera mi è sempre piaciuta moltissimo, m’era venuta voglia di fare un film con Claudia Cardinale dalla novella originale della Carmen di Mérimée, che è concepita come un film, in quadri diversi, scene che si succedono. Non ricordo perché non portai avanti quel progetto. Probabilmente io e la Cardinale non eravamo liberi, allora si lavorava a pieno ritmo. Sbaglio o nella «Carmen» c’è la prima apparizione in un film di tua figlia Carolina?

Sì, aveva quindici anni circa. Andò a mia insaputa da sarti e truccatori e si fece vestire. Poi venne da me a farsi vedere. Rimasi a bocca aperta. Era bellissima con quel costume. Fu in quel momento che mi chiese di far parte del gruppo di ragazze che dovevano stare nella tribuna dell’arena. Mi colpì molto la sua intraprendenza. Come mi stupì Giancarla, la sera della prima mondiale a Parigi. Era seduta al mio fianco. Appena finita la proiezione, si accesero le luci, il pubblico si alzò in piedi in un applauso scrosciante. Si alzò anche Giancarla e applaudendo mi disse: «Maestro…». Mi chiamò maestro. Quel complimento portò bene. Il film fu un vero trionfo. «Maestro…» Non mi aveva mai chiamato così.

Una lezione di sceneggiatura

Ho ricevuto proposte di progetti legati al mondo della musica. Dopo il successo di Carmen era inevitabile. Una arrivò dallo stesso Toscan du Plantier. Si trattava di un progetto molto importante. Un film su Jacques Offenbach. Cominciai a documentarmi sulla figura di quel musicista così celebre e nello stesso tempo così poco conosciuto. La sua storia mi appassionò e accettai. Con Daniel ci vedemmo a Parigi, andammo a fare colazione insieme a un paio di suoi collaboratori. Parlammo a lungo del progetto. Andammo a vedere i luoghi della vita di Offenbach. A me sarebbe piaciuto molto fare quel film. Perché ha una sua tenuta politica importante. Cosa c’era di interessante nel personaggio di Offenbach? L’originalità, l’incrollabile devozione alle sue idee. Il suo rispecchiare la società di Napoleone III in un modo che da un lato era fatto di piacere e divertimenti, ma dall’altro adombrava un mondo politicamente ed economicamente assai più interessante. Mi piaceva moltissimo. Offenbach è un bel personaggio. Quando è arrivato dalla Germania, suonava per le strade di Parigi. Affascinante. Non si fanno più questi film. C’è un bellissimo libro di uno scrittore tedesco, Siegfried Kracauer, che ha scritto la biografia di Offenbach. Lo lessi più volte. Ce l’ho ancora, pieno delle mie note e dei miei scarabocchi. A me sarebbe piaciuto realizzarlo, perché la vita di Offenbach mi permetteva di unire la visione mondana di quell’epoca, che tutti conoscono, alla prospettiva politica di quel mondo, che il cinema non ha raccontato abbastanza. C’è l’idea di una scena che ti è rimasta in mente? Ricordo che a un certo punto della sua vita Offenbach si ammalò gravemente di depressione. Aveva un appartamento

nella zona del Quartiere latino piena di mercati, verdure, gente. E d’estate rimaneva chiuso in casa, tenendosi addosso una vestaglia di lana con il collo di pelliccia, perché aveva sempre freddo. Un vecchio amico di Offenbach, un fedele attore comico che lo aveva seguito in tutta la sua carriera, andava d’abitudine in portineria a chiedere sue notizie. E una mattina il portiere gli disse: «Il signor Offenbach se n’è andato serenamente, senza accorgersi di nulla». Il comico si rattristò: «Quanto rimarrà meravigliato quando se ne accorgerà!». Quanto rimarrà meravigliato… Bellissimo. Mi hai fatto venire voglia di conoscere la storia di Offenbach. Nella mia stanza da letto ho un armadio pieno di libri e documenti. C’è Offenbach ou le Rire en Musique di David Rissin, e poi Offenbach. Idillio e parodia di Robert Pourvojer. Io purtroppo ho il vizio di documentarmi sino all’ossessione quando devo fare un film. Un vizio del tutto necessario per un regista. Ma avevi già cominciato a scrivere qualcosa o avevi preso solo appunti? No, solo degli appunti. Però conoscevo già i luoghi dove sarei andato a girare. Un giorno Toscan mi ha detto: «Guarda, malgrado l’enorme successo di Carmen, la Gaumont non se la sente di affrontare un film così costoso». E il progetto morì lì. Peccato, era una bell’idea. Ancora oggi penso che avrei potuto fare un buon film. Curioso. Toscan du Plantier ti propone il film, e poi lui stesso ti dice che non si può fare. Ma perché era in atto uno sganciamento da parte della Gaumont da Toscan che, pur non essendolo, agiva come fosse praticamente il padrone della società. Quindi lui voleva fare il film, ma evidentemente la sua compagnia non si sentì di andargli dietro. Comunque, tempo dopo, fu sempre lui a sottopormi un progetto che arrivava da Herbert von Karajan. Si trattava di fare un ritratto del grande direttore d’orchestra. Ed era di Karajan stesso l’idea che fossi io a dirigere il film. Lo hai incontrato?

Certo che l’ho incontrato. Siamo stati insieme a colazione. Io, Herbert von Karajan e Toscan du Plantier. Precedentemente avevo assistito a un suo concerto. Karajan non stava bene, per dirigere si arrampicava sul podio grazie a una protezione di legno, si appoggiava a quel supporto. Era formidabile osservare il movimento della sua mano sinistra. Perché lui con la destra dirigeva e con la sinistra figurava una specie di contrappunto, non so come dire. Un gesto seducente, che mi aveva colpito moltissimo. In che lingua comunicavate? In francese. Io lo ascoltavo, per certi versi mi lusingava che avesse pensato a me per un film sulla sua vita. Il guaio era che voleva l’approvazione del film finito. E allora io ho cercato di rinunciare. In seguito gli feci sapere attraverso Daniel Toscan du Plantier che non ero disponibile a fare il film. Lo dissi a Toscan: «Guarda, mi dispiace molto, forse perdo un’occasione importante della mia vita, però credo sia giusto così». Non potevo fare un film su Karajan in cui l’ultima parola fosse solo sua. E se poi non gli fossero piaciute certe cose? Secondo me, lì c’era il rischio di andare a finire col parlare del nazismo in una certa maniera insomma. Perché lo pensi? In passato lui era stato filonazista. Sarebbe stato imbarazzante affrontare l’argomento, ma anche ignorarlo. E allora non ho voluto. Non mi sentivo tranquillo a fare un film senza possederne il controllo totale. Su questo sei sempre stato intransigente. Toscan du Plantier come prese il tuo rifiuto? Credo avesse compreso la mia posizione. E poi io stavo già lavorando a Cronaca di una morte annunciata. Quando avevi cominciato a pensarlo? Quel film è nato dalla mia antica amicizia con Gabriel García Márquez. Spesso avevamo parlato di fare un film insieme. Quando lessi Cronaca di una morte annunciata, pensai che fosse il progetto adatto. Quando veniva a Roma,

Gabo stava spesso da me. Una di quelle volte gli parlai del suo romanzo e gli comunicai il desiderio di farne un film. Il libro era bellissimo, ma poco adatto a tirarne fuori una sceneggiatura. È costruito su un movimento continuo del tempo, avanti e indietro. Uno stile che mi apparteneva, d’accordo, ma tutto quell’imponente coro di personaggi latinoamericani… Chi produsse il film? Doveva produrlo Amedeo Pagani. Ma non si trovarono i soldi, la Rai non li metteva e lui uscì fuori dal progetto. Aveva già acquisito i diritti del libro, e quindi cedette l’operazione ottenendo in cambio un credito nei titoli del film. A quel punto entrò uno svizzero, Yves Gasser, che rappresentava la Francia. Poi si aggiunse un tedesco, Francis von Buren, che era lì per la Germania e, se non sbaglio, la Svizzera. La combinazione produttiva per mettere in piedi il film fu travagliatissima. Feci dei sopralluoghi quando Pagani era dentro. Poi, dopo la sua uscita, ne rifeci alcuni. Cambiò anche l’organizzatore del film, inizialmente era Mario Cotone, poi subentrò Carlo Lastricati. Uno dei pochi film distribuiti dall’Istituto Luce che abbia incassato bene. Realizzò più di cinque miliardi di lire dell’epoca. Sì, in Italia andò benissimo. Ricordo che al cinema Etoile, non lontano da casa mia, in quei giorni c’era spesso la coda. Benché fossimo a maggio, una stagione solitamente infelice. Infatti avevo avuto una discussione con l’allora direttore dell’Istituto Luce. Non condividevo la scelta di fare uscire il film praticamente d’estate. Lui, invece, sosteneva: «Vedrai che avremo successo». Aveva ragione. Volle sfruttare tutte le polemiche e il clamore che il film aveva suscitato al Festival di Cannes. La Montée des Marches fu spettacolare. Tutti quei giovani attori, Anthony Delon, Ornella Muti, i due gemelli, Carolina, la figlia di Jack Lang, e poi la Bosè, la Papas, Volonté, Rupert Everett. Eravamo un bel colpo d’occhio. Mi avevano obbligato ad andare a Cannes proprio per assicurarsi il tappeto rosso, la nostra Montée des Marches. Gilles Jacob aveva insistito, mi aveva promesso che avremmo vinto un

premio. Insomma, mi vollero in concorso. Io dissi: «Ma perché in concorso? Io ho già vinto a Cannes, perché devo andare in concorso?». Per farla breve accettai. Ma subii una carognata. Cosa accadde? Io a Cannes ero conosciuto e apprezzato molto, fino a quella frase fatale che in qualche modo segnò il destino di Cronaca di una morte annunciata. Qualcuno addirittura dice se la sia fatta sfuggire il mio amico Daniel Toscan du Plantier e i giornalisti inevitabilmente se ne siano appropriati. In effetti Toscan era abituato a fare sempre battute di spirito. Ma a me era affezionato, mi stimava. Anche se bisogna tenere presente che il film non era suo, quindi… Vai a sapere, poi, come sono andate le cose. Comunque, la mattina dopo la proiezione ufficiale del film scesi nella hall dell’albergo e incontrai Gloria Satta, giornalista de «Il Messaggero», un’amica. Ero di malumore. Lei mi disse: «Ti capisco, con quello che t’hanno scritto…». Le chiesi: «Perché, che cosa hanno scritto?». Scoprii che «Libération» parlava del mio film in prima pagina, il titolo era Chronique d’une merde annoncée. Come puoi immaginare quel titolo fece il giro del mondo. Che idea ti sei fatto? Fu una di quelle imboscate che talvolta riservano i festival del cinema, o una battuta detta da uno spettatore più o meno autorevole, poi amplificata dalla stampa? Ci furono varie interpretazioni, c’era per esempio nel film la scena in cui Anthony Delon veniva sommerso dal guano, la merda degli uccelli. Qualcuno allora disse: «Be’, la battuta era troppo facile». Ricordo che Giancarla ne soffrì molto, e naturalmente ne soffrii anch’io. Uno schifo del genere non s’era mai letto. Ero ferito, sì, lo ammetto. Ma poi quell’incidente mi ha dato le prove di quanto fossi amato e rispettato in Francia dai miei colleghi. Tutti i registi francesi si indignarono, a partire da Bertrand Tavernier, e firmarono un appello di protesta contro «Libération». Presero le mie parti dicendo: «È una vergogna. Certo, si può scrivere che un film non piace, che è brutto, perfino, ma non che è una merda».

Intervennero anche gli italiani? No, degli italiani non ricordo nessun passo ufficiale. Sai, i film sono oggetti misteriosi. Come ti spieghi che possano essere amati da tanti e respinti da altri? È un mistero che non riusciremo mai a svelare. Ma a parte l’attacco di «Libération» come fu accolto il film a Cannes? Non particolarmente bene. Con Cronaca di una morte annunciata avvenne ciò che in qualche modo era successo anche con Carmen, che ebbe però un successo clamoroso. Scattò una specie di delusione da parte di quelli che continuavano a pretendere da me i film che avevo fatto fino ad allora, i film d’impegno civile, sulla società italiana e sul potere. Era accaduto anche dopo La sfida. Ci fu chi vide I magliari e commentò: «Ma questa è una storiellina». A me non pareva affatto una storiellina, e infatti non lo era. Il mondo che ti aveva adorato per quel cinema politico di cui eri ritenuto l’inventore non amava la tua piega poetica. Già avevi spiazzato tanti con «C’era una volta». Poi, dopo «Il caso Mattei», «Lucky Luciano» e «Cadaveri eccellenti», li hai scontentati ancora una volta con «Carmen». Lo prendevano come un voltafaccia, una specie di tradimento. Che volevano, un film sul Parlamento italiano? I miei film di quel genere, quelli cosiddetti politici, stanno ancora in piedi ad anticipare quello che è venuto dopo. Sono ancora oggi attuali. Come hai vissuto l’atteggiamento nevrotico del mondo intellettuale rispetto ai diversi momenti della tua carriera? Lo capivo poco. Vedevo al cinema la gente che faceva la fila per Cronaca di una morte annunciata, e intanto sentivo gruppi di intellettuali che criticavano il film. Ma era solo fastidio, io avevo le mie convinzioni. Questo mondo è fatto così, con Fellini si sono comportati anche peggio. Quando andò a Cannes con La città delle donne, un quotidiano francese scrisse: «Il maestro è morto».

E scrissero cose terribili su «La voce della luna». Lì lo trattarono veramente male. Tant’è che, quando il film fu invitato sulla Croisette, lui non ci andò nemmeno. Inviò un messaggio che mi turbò moltissimo: «Dimenticatevi di me». Purtroppo quello era il meno riuscito dei suoi film. Succede nella vita di un regista, di non centrare il bersaglio. A Federico accadde con il suo ultimo film. Tu e Fellini eravate molto amici. Avevo enorme rispetto per la sua statura culturale, la sua genialità creativa e per il suo modo di raccontare. Tra l’altro, non ho mai conosciuto qualcuno che adoperasse la lingua italiana come ci riusciva lui. Impressionante. Mi riporti a un mondo nel quale entro con qualche sofferenza. Quando sei amico di una persona che stimi così tanto e che non c’è più… Avevamo un bellissimo rapporto. Appena terminavo di vedere i suoi film lo chiamavo subito, sempre. Torniamo a «Cronaca di una morte annunciata». A quell’epoca venivi da anni di grande successo. Anche Márquez era al massimo della popolarità, c’era attesa. Del film si parlò molto prima ancora che uscisse. La coppia RosiMárquez intrigava. Invece poi lessi: «Ma come, vai fino in Sudamerica per fare un film d’avventura?». Io avevo seguito la solita esigenza di situare gli avvenimenti del film nei luoghi veri in cui sono descritti. Andai proprio in Colombia, a Mompox, che era stata la prima città presa dagli spagnoli, dove Márquez aveva ambientato la storia, e lì ho girato, nelle case dell’epoca. E, credimi, Mompox è il luogo più caldo del mondo. Tu non puoi avere idea. Però c’è il fiume che passa. La fissazione che ho avuto sempre io di ambientare i film nei luoghi veri… A parte il caldo infernale, a Mompox cosa accadde? Purtroppo la piazza era piccola e gremita di bancarelle e venditori, là non era possibile. Così Andrea Crisanti ricostruì magnificamente la piazza, in uno slargo che aveva individuato nei paraggi. Ma non appena le prime impalcature della struttra

scenografica furono innalzate, giunse la notizia che per l’imminente visita di papa Wojtyła era stata scelta proprio quell’immensa area per la messa che il Santo Padre avrebbe celebrato. Non c’era altra scelta, si dovette buttare giù tutto, e dopo la partenza del papa ricominciammo la costruzione da capo. Una scenografia imponente. Andrea fu come al solito grande, come in tutti i miei film. Adattarsi a Mompox non fu facile. Oltre ai miei soliti collaboratori, avevo un napoletano, Salvo Basile, che era stato un bravo aiuto regista di Pontecorvo in Queimada. Venuto in Colombia per girare il film, aveva deciso di restarci. Ed era rimasto anche Divo Cavicchioli, un noto fotografo di cinema. Poi avevo un’aiuto regista, Claudia Gomez, davvero molto brava. Conosceva gente e luoghi. Insomma, avevo collaboratori di valore e amici contenti di aiutarmi a superare le difficoltà locali, che non erano affatto poche. Basta dire che Andrea Crisanti fu capace di rimettere in funzione un grande battello a ruote, di quelli che navigavano sul Rio Magdalena. Uno spettacolo, lo chiamammo Atlantico. Era bellissimo quando fumava ed emetteva il suono della sirena. La gente era molto curiosa, in tantissimi si aggiravano continuamente dalle nostre parti. Appena sistemato in albergo a Mompox, ricevetti la visita di tre signore della nobiltà locale. Mi diedero un benvenuto molto affettuoso, dicevano di essere felici perché avevamo scelto la loro cittadina. Erano elegantissime, vestite di nero e con lunghe calze di cotone. Incredibilmente, sembravano non soffrire affatto il gran caldo che c’era, malgrado fosse piazzato in ogni angolo un ventilatore. Avere i condizionatori non era stato possibile. Come sempre accade nel cinema, ci adattammo. Certo, vedere navigare il battello a ruote fu un’emozione indimenticabile, sia per noi sia per la gente di Mompox. Crisanti ricostruì la piazza, con le sue case e le sue botteghe, nei minimi particolari. Era un capolavoro, io addirittura temevo che dopo il nostro film potessero utilizzarla per qualche film minore locale, non sarebbe stata necessaria nessuna modifica. Ma furono molto più rapidi i contadini della zona: appena l’ultimo di noi andò via, a riprese finite, si precipitarono a smantellare le costruzioni. Rubarono in una

notte tutto quello che si poteva, legno, metalli, pitture, fili elettrici, lampade, tutto. Non rimase niente! La grande piazza diventò spoglia e deserta. Márquez seguì da vicino la vita del film? La lavorazione era diventata un vero avvenimento per una piccola città come Mompox, che era rimasta esattamente come cinquecento anni prima. Anche la gente sembrava appartenere a un altro mondo, chiuso nelle abitudini e nelle mentalità di un’epoca passata. Per questo Márquez l’aveva scelta, sapeva di rendere assolutamente credibile la storia da lui raccontata. Quando gli mostrai la sceneggiatura, disse: «Il libro è mio, il film è tuo». Fu corretto ma anche generoso, in fondo c’erano in gioco il suo romanzo e la sua terra. Poi, a lavoro finito, fu sincero: «Il film mi piace, è buono. Ma se penso che è una storia sudamericana, avrei voluto un cast più locale». Frase ripetuta anche quando fu intervistato durante un festival. Ma credimi, io non conoscevo attori latinoamericani o spagnoli. Ornella Muti era bellissima nel film, molto convincente. Forse Rupert Everett… è un bravo attore ma, come dire, estraneo al mondo marqueziano. Il suo personaggio nel libro era descritto in maniera formidabile, Márquez tratta la letteratura come una materia visionaria. E io spinsi eccessivamente il ruolo di Rupert in quella direzione astratta. Di lui non sapevi da dove veniva, né dove voleva andare. Del resto Márquez scrive: «Arrivò uno straniero». Scelsi Rupert Everett perché è inglese. Una decisione sostenuta da un ragionamento un po’ strano ma che mi convinceva. La Colombia ha una comunità inglese numerosa. Siccome questo personaggio era uno straniero di cui si sapeva pochissimo, mi pareva che i modi inglesi di Rupert fossero adatti. Ma forse è vero, appariva un po’ estraneo al film. Non fu un’idea giusta. Mia figlia Carolina, che collaborò con me sul set, sostiene che la dimensione del personaggio di Rupert Everett è troppo letteraria. E ha ragione. L’errore mio è stato di non aver voluto sottrarre al personaggio la sua componente letteraria. Non c’è niente da fare, letteratura e cinema sono due cose diverse.

D’altra parte il film doveva essere tratto dal libro. In qualche modo il testo originario andava seguito. Ma io ho ecceduto. Certe lentezze descrittive si potevano evitare. Però mi piacevano. L’ambizione di fare il film sull’America Latina. La Colombia, Márquez… La gioia di raccontare quell’ambiente e quel mondo ha preso il sopravvento. A me erano piaciuti sia il libro che il film. Ti dico di più, quando l’ho visto la prima volta non mi diede nemmeno tanto fastidio Everett. Poi, siccome lo dicevano in giro, ne sono stato influenzato. Certo, leggendo il libro non pensavo a uno come lui. Il film avrebbe dovuto avere una tensione palpabile, invece quello che manca è proprio la tensione. Sì, è proprio una questione di tensione narrativa. E la tensione l’avrebbe dovuto dare il montaggio. Non c’è sufficiente contemporaneità tra i fatti. Manca la stretta finale. E poi la voce fuori campo è troppo letteraria. Anche perché il testo è esattamente tratto di peso dal libro. Pure la musica, che è bellissima, lo confesso, alla lunga indebolisce il racconto. Non ricordavo d’averla ripetuta così tanto. Ma al montaggio Ruggero Mastroianni non ti mise mai in guardia? La verità è che il film l’ho voluto fare così. L’ho concepito proprio con quella lentezza. Quindi Ruggero che mi doveva dire? Ti verrebbe voglia di tornare in moviola e sistemarlo? Lo farei di corsa. Perché oggi mi rendo conto che bisognava lavorare di forbici. Mi fai venire in mente che una volta incontrai Gillo Pontecorvo insieme a Pietro Notarianni. Avevo appena fatto il famoso taglio a «Nuovo Cinema Paradiso» e Gillo mi disse: «Hai visto? Quando uno taglia fa sempre bene. I film più li tagli e meglio è». Lo guardai perplesso. «Sì, i film sono come

le piante» aggiunse «più le poti e più diventano forti.» Pietro ridacchiò: «Naturalmente Gillo parla delle piante altrui». Ma io parlo del mio film. Dove lo trovi uno che ha il coraggio di riconoscere i suoi errori… In questo tu sei davvero unico. È la dimostrazione della tua grandezza. Non so quanto possa consolarmi, ma dai libri di Márquez non si è ancora riusciti a fare un bel film. Eppure in Cronaca c’erano molte cose che funzionavano. Ornella era formidabile, molto vera. La feci recitare in spagnolo, che lei parla benissimo. Poi c’è Gian Maria con il suo magnetismo. Era il primo film che faceva dopo una brutta malattia. Anche con lui forse sbagliai una scelta. Non ebbi il coraggio di truccarlo da giovane. Temevo che si sarebbe visto l’artificio. Preferii affidare la parte giovanile del personaggio a un attore colombiano che vagamente gli assomigliava e lo avrebbe interpretato da giovane. Due errori di cui mi assumo la responsabilità. Te ne sei reso conto mentre giravi o dopo? Dopo. Quando ho visto il film. Gian Maria era a posto. Lucia Bosè andava benissimo. Gli ambienti erano belli. E la Papas era formidabile. Anche il figlio di Delon andava bene. Ma l’intero cast era troppo disomogeneo. Lo riconosco. Come fu la lavorazione del film? Direi sofferta. A Mompox era dura. Non c’era un albergo. Crisanti aveva trasformato una vecchia costruzione in accettabili alloggi per la troupe. Il cibo arrivava ogni settimana trasportato da un piccolo velivolo a un solo posto che tutti chiamavano «Mosquito». Il cuoco della produzione, terrorizzato che il «Mosquito» potesse saltare uno dei suoi arrivi finiva sempre per darci da mangiare pochissimo, per tenere scorte in caso di crisi. Ogni domenica i componenti della troupe facevano la fila in sartoria per farsi stringere i vestiti. Dimagrivano tutti a vista d’occhio. E poi la Colombia è un paese molto difficile. Avevo una troupe per metà composta

da ragazzi. Mia figlia, la figlia del ministro francese Jack Lang, Anthony Delon, i due gemelli canadesi. Stavo con ventiquattro occhi aperti, ma non bastava. I due canadesi prendevano cocaina, in Colombia te la offrivano continuamente, dappertutto. Dovevo stare attentissimo. Una notte sentii un trambusto nel corridoio dell’albergo, erano i gemelli che s’erano drogati e avevano perso la testa, inventavano storie, balle. Io la cocaina non l’ho toccata mai, non ho voluto, malgrado ti confesso che fossi anche curioso. «Ma come» dicevo «ho qui mia figlia e pensate che mi metta a consumare cocaina? Se viene a sapere che ho sniffato, con che diritto potrei poi pretendere da lei di starne alla larga?» Naturalmente c’era chi qualche pasticcio lo creava. Ma io e Lastricati stavamo molto attenti. Sai com’è, il paese esotico, la musica, le belle donne. Non dico che qualcuno avesse perso la testa, ma si cedeva facilmente a certe tentazioni… Io ero vigile sulla questione della cocaina. Là te la portavano a tavola dentro una ciotola, durante i pasti. Si racconta un episodio incredibile avvenuto mentre facevi i sopralluoghi con Cotone. Forse tu nemmeno lo conosci. Una sera ci fu una cena ufficiale, credo a Cartagena. Mentre siete a tavola, Cotone si macchia la cravatta. Poco dopo giunge una cameriera con una coppa piena di cocaina. A Cotone sembra borotalco, prende la cocaina e comincia a spargerla sulla macchia. Nooo! Non lo sapevo, è divertentissimo. Ma Mario è proprio simpatico, oltre che bravissimo. Qui per la prima volta hai dato un ruolo a tua figlia Carolina. In «Carmen» la sua era stata solo una breve apparizione. Come fu dirigerla? Anche in Cronaca di una morte annunciata la sua parte è piccola. Un ruolo più vero, Carolina, lo ha avuto in Dimenticare Palermo. E devo dirti che è stata veramente brava. Come la dirigevo? Come ho sempre diretto gli attori. Il fatto che fosse mia figlia non condizionava il mio modo di lavorare. Tutt’altro. Pensa che nel primo giorno di riprese, il piano di lavorazione prevedeva la scena più difficile di

Carolina. La sequenza del cimitero, in cui lei va a piangere disperata sulla tomba di Santiago. Ovviamente era molto emozionata, anche un po’ nervosa, e al primo ciak non riuscì a piangere. Ma neanche al secondo e al terzo. A un certo punto ordinai una breve pausa, mi presi Carolina sottobraccio, andammo a spasso tra le tombe di quel cimiterino, che era bellissimo, e con calma cercai di istruirla sui metodi più efficaci da seguire per raggiungere il pianto. Ma, sarà stata anche la tensione del primo giorno, Carolina non riusciva. Così la lasciai sola e raggiunsi la troupe. Lei mi seguì con lo sguardo, e vedendomi camminare tra le tombe con le mani raccolte dietro la schiena, la testa bassa e l’aria sconsolata, si emozionò. Cominciò così a corrermi dietro. Io mi voltai e appena incrociai i suoi occhi, lei scoppiò in un pianto irrefrenabile. A quel punto, alzai le mani in aria e con tutte le mie forze urlai: «Motore!». Durante le riprese, Gabo venne mai sul set a trovarti? No. Venne qualche volta il fratello, che scrisse un libro sulla lavorazione. Mica male, devo dire. Non sapevo che Márquez avesse un fratello. Sì, ma non l’ho più sentito. È difficile parlare al telefono con Gabo, non so neppure come sta. Tempo fa aveva pubblicato una sorta di saluto ai suoi lettori, al suo mondo, un testo molto commovente. Sembrava un addio, invece ce l’ha fatta. Continua a scrivere. Ci fu un periodo in cui l’ho conosciuto e frequentato, ma al telefono era sempre difficile raggiungerlo. C’erano sempre di mezzo la moglie o l’agente. Mi dispiace averlo perso di vista, abbiamo avuto un periodo di frequentazione molto intensa. Te l’ho detto, veniva qui, amava molto Giancarla. E i tuoi film, amava moltissimo il tuo cinema. È vero. Infatti la vicenda di Cronaca di una morte annunciata mi dispiacque per lui più che per me.

Quando hai fatto «Cronaca di una morte annunciata» io giravo il mio primo film. Noi c’eravamo già conosciuti. Un giorno, nell’ufficio di Lillo Capoano, che curava l’edizione del tuo film, vidi il copione. Tu avevi già finito di girare. Lo presi, lo lessi tutto d’un fiato e lo riportai lì. Mi sembrò una sceneggiatura straordinaria. Mi sorprese che i numerosi flashback fossero stampati su pagine azzurre, non avevo mai visto un copione a più colori. Conoscevo bene il romanzo, ma il copione non era di quelli che ti fanno dire: «Meglio il libro». Ricordo che Tullio Kezich scrisse: «Questo film è una lezione di sceneggiatura». Aveva ragione. Ma, dico la verità, non fu nemmeno così complicato scriverla. Vedi, con questo film sono rimasto fedele al libro come per nessun altro dei miei film. Non ho mai rispettato un romanzo, un racconto, come questo di Márquez. Forse è stato un errore, avrei dovuto comportarmi più liberamente, avrei dovuto tradire il testo di partenza, come Leonardo Sciascia sosteneva si dovesse sempre fare. Da una parte avevo rispetto per un libro che è un capolavoro, dall’altra ne avevo per un amico, uno scrittore importante in tutto il mondo. Questo m’impedì di rimetterci le mani, di modificare il racconto per renderlo più chiaro, più cinematografico. Lì ho sbagliato. Anche Márquez me l’ha detto. Dovevo tradire un po’ di più il libro. Bisogna stare attenti quando si sceglie un argomento per un film. Ma se fai Cronaca di una morte annunciata e dentro ci metti, tanto per dire, un Javier Bardem, allora vai tranquillo. Quindi sei d’accordo con Ingmar Bergman, quando diceva: «In fondo se hai una buona storia e dei buoni attori, il resto viene da solo». Sì, e io aggiungo: una buona ambientazione. Sono sempre stato contrario a Ponti, che diceva: «Prendi l’attore, lo metti contro un muro, in un angolo, va benissimo lo stesso!». Ma no, io in un angolo non metto nessuno. Non credere che queste faccende mi avviliscano, neanche «Libération» ci è riuscita. Del resto, devi sapere che tre anni dopo, dedicarono un inno a Dimenticare Palermo.

Avevano la coda di paglia. Piuttosto, ricordo che qualcuno ebbe da ridire sulla scena di «Cronaca di una morte annunciata» in cui Rupert Everett e Ornella Muti andavano lungo il fiume sulla barca. Dicevano che ci fossero troppi uccelli. Sì, è possibile. Ma evidentemente chi aveva da ridire non conosceva quei posti. Lì c’erano uccelli da tutte le parti, erano numerosi proprio come in quella sequenza, che invece, secondo me, era solo un po’ troppo lunga. Sono sempre stato sensibile alla natura sudamericana, la Colombia mi piaceva. Cercavo solo di adeguarmi alla realtà di quei luoghi. Forse non sono riuscito a organizzare un ragionamento che inquadrasse la materia in modo più realistico. Per il personaggio della Muti avevi pensato subito a lei o c’erano state altre candidature? Pensai a lei fin dal primo istante. A Everett, invece, pensai soltanto dopo. Il tuo sentimento nei confronti di questo film qual è? Lo critico più di quanto sia criticabile. Facciamo la sintesi della trama per la nostra consueta ventenne che non ha letto il libro e non ha visto il film? Si tratta del ritorno del protagonista, Bayardo San Roman, nel villaggio di Mompox, sul Rio Magdalena, in cui ha vissuto gli anni della gioventù e la tragica storia d’amore con Angela Vicario. La prima notte di nozze, Bayardo scopre che la sua giovane sposa non è vergine, era stata disonorata da Santiago Nasar, e la ripudia. Benché tutti gli abitanti di Mompox sappiano che la mattina dopo i fratelli Vicario uccideranno Santiago, nessuno riesce ad avvertire la vittima predestinata e a impedirne l’assassinio. È letterariamente molto suggestivo proprio il fatto che l’intero paese sappia della sua morte imminente, tranne lui. Ho sempre pensato che fosse proprio questo l’aspetto del racconto che t’interessasse di più. C’è una grande modernità

in tutto ciò. Una comunità consapevole che si sta per consumare un omicidio, e non riesce a impedirlo. Non solo non riesce, proprio non vuole impedirlo. E lo faccio vedere attraverso i tanti personaggi e gli spezzoni del dialogo che riguardano la decisione presa dai due gemelli di uccidere Santiago. Per un motivo o per l’altro, tutti lasciano che l’omicidio avvenga, che Santiago sia ucciso. Perché solo in questa maniera si laverà l’offesa fatta a tutto il paese. Angela Vicario non è più vergine, non ha detto niente a nessuno, si è comportata come una donna da poco. Non so se dal mio ingarbugliato raccontino si può capire l’ingranaggio del film. È una trama complessa. Neanche Sergio Amidei sarebbe stato capace di raccontarla nelle sue fatidiche dieci parole. Ci sono tanti ambienti, tante svolte temporali che deviano. Sbaglio o nell’ultima inquadratura del film, la posizione del cadavere di Santiago è simile a quella del corpo di Salvatore Giuliano nel cortile De Maria? Non simile. Volutamente identica. Mentre giravi avevi portato con te una musica che ascoltavi, come avevi fatto altre volte? Quella che aveva scritto Piero Piccioni e che mi aveva già fatto sentire. Una «pavana» bellissima, veramente molto bella. Un giorno mi disse di raggiungerlo a casa sua, mi fece sentire al pianoforte questa «pavana». Eseguita dall’orchestra era veramente meravigliosa, molto toccante. Ripensavo alla questione del cast. Non ti venne mai in mente, durante la preparazione del film, una soluzione analoga a quella de «Il momento della verità», cioè l’uso di gente sconosciuta? No, non ci pensai. C’erano i gemelli infatti che non avevano mai fatto niente, ma nel complesso mi pareva che la costruzione della storia fosse come una gabbia. Perciò dicevo a me stesso: «Se metto gente sconosciuta, rischio di rovinare

tutto». Fu questo dubbio ad assalirmi. Ricorrere ad attori non professionisti in questo caso mi sembrava che contrastasse con la severità della struttura letteraria del racconto. Capisco. Con gli attori professionisti, invece, avresti rispettato il rigore della gabbia narrativa di Márquez. Esatto. E poi io avevo dei protagonisti importanti. Professionisti straordinari come Volonté, anche se ti ho raccontato dell’errore di non affidare a lui, opportunamente truccato, anche la parte giovanile del suo personaggio, il dottor Cristof Bedoya che ricostruisce come in un giallo il puzzle di tutta l’assurda vicenda. Se avessi cercato di ringiovanirlo, forse avresti solo commesso un errore diverso. Lui aveva i suoi anni, non era mica facile trasformarlo in un ragazzo. Anche questo è vero. Ma il pubblico lo avrebbe accettato di più. Ne sono convinto. E credo pure che la profondità della recitazione di Volonté sarebbe addirittura scaturita con maggiore intensità. Sarebbe stato anche più compiuto il personaggio. Gian Maria non disse niente a proposito della tua decisione di utilizzare un altro attore nei suoi panni da giovane? Commentò, certo. Quando eravamo al doppiaggio, mentre prestava la sua voce opportunamente ringiovanita all’altro attore, mi domandò molto signorilmente: «Ma non lo potevo fare io questo personaggio da giovane?». Gli risposi: «C’erano troppi giovani veri, che nel corso del film si sarebbero scontrati con te, con la tua età». Ovviamente non replicò. Sai, c’era Anthony Delon che era proprio un ragazzino. Poi c’erano i due fratelli canadesi e la Muti, tutti giovanissimi. Lo stesso Rupert Everett. Abbiamo parlato di tutti i tuoi film, ma questa è la prima volta in cui ti sento parlare di errori. Per nessun altro film avevi usato la parola errore. Ma allora è vero che la conoscenza del mestiere non protegge dal rischio di commetterne?

Penso di sì. Qui devo ammettere che il cast non è riuscito sempre ad amalgamarsi in un’armonia efficace. Rupert è un magnifico attore, ma io spesso lo caricavo, lo facevo per giustificare la sua personalità che chiaramente risentiva della sua origine letteraria. Quando ho visto il film ho avuto il piacere di vedere che Rupert riscuoteva un suo successo personale. Voleva dire che il pubblico era stato più intelligente di me, aveva superato l’ostacolo di trovarsi al cospetto di personaggi un po’ sopra le righe. Ricordi quando hai cominciato a pensare che qualcosa non quadrava? Ti spiego perché faccio questa domanda. Ho il sospetto che questi dubbi ti siano venuti anche per riflesso, dopo certe critiche cadute sul film. È possibile? Non posso escluderlo. In fondo più d’uno dei nostri colleghi, anche quelli importanti, mi dicevano: «Mi piace il film, ho qualche dubbio sul cast». E dopo averlo sentito tante volte, l’hai fatta diventare una convinzione anche tua. È una bella lezione di umiltà che un regista ammetta i propri dubbi su ciò che ha fatto, anche a distanza di anni. A distanza di anni un film si capisce meglio. Forse esagero anche un po’ nel dipingere alcune manchevolezze come veri e propri errori. Ma preferisco essere severo, sai perché? Non voglio che si pensi che tu, poiché siamo colleghi e scriviamo un libro insieme, abbia un occhio di riguardo per il regista interrogato. Ci mancherebbe. Dobbiamo essere il più oggettivi possibile. A proposito di occhio di riguardo e di capacità critica, voglio affrontare con te una questione molto delicata. Mi chiedo come sia possibile che l’esperienza non ci renda immuni dall’errore. E ho una mia teoria, che ovviamente spiega solo in parte la questione. Ci sono momenti in cui la tua sicurezza, il tuo prestigio, la tua professionalità sono talmente riconosciuti che chi ti lavora attorno, persino gli amici e i collaboratori più fidati, finiscono col perdere il loro metro di giudizio, quello che ti fa intercettare gli errori prima di

commetterli. O addirittura preferiscono stare zitti, per non mettere in discussione le decisioni del «maestro». Il set diventa così come il villaggio di Mompox, tutti sanno che stai fallendo ma nessuno te lo dice. Non hai affatto torto. E allora devi stare molto attento, sviluppare una grande capacità autocritica, che ti aiuti quando viene meno quella dei tuoi collaboratori. Ti confesso che a volte, nei miei ultimi film, ho adottato scelte volutamente errate, per vedere se i commenti sarebbero ugualmente stati: «Ahhh, straordinario, che bravo!». Qualunque stupidata tirassi fuori, sentivo dire che era meravigliosa. Capivo così che mi dovevo difendere da solo. È un meccanismo perverso che mi mette un po’ paura. Credi che ciò sia accaduto anche a te durante la lavorazione di «Cronaca di una morte annunciata»? È una teoria che condivido. A me, in effetti, nessuno mai disse niente sull’argomento. E comunque è difficile spiegare le ragioni per cui a volte sbagli a scegliere un attore. Ma tu lo avevi portato Rupert Everett dal tuo barbiere? No… Ecco quale fu il vero errore!

«Ti metti contro il partito?»

C’è stato un periodo della mia carriera in cui facevo un film all’anno. Poi ogni due anni, poi ogni tre. C’è stata una pausa anche più lunga. Con i cambiamenti del panorama produttivo diventava difficile fare un film ogni anno. Io sento l’energia per farne uno ogni anno e mezzo, ma ci vogliono i produttori che abbiano voglia di farli, i film. Il massimo desiderio dei nostri produttori di oggi sembra solo quello di rinviarli. Fare film diventa una lotta. Direi che questo logoramento produttivo è cominciato proprio in quegli anni là. È vero. In quel periodo, però, credo che Mario Cecchi Gori mi avesse fatto capire che voleva fare un film con me. C’era la Rai che da due anni mi diceva di voler realizzare il film, ma poi mi faceva aspettare e non dava notizie. Si fece avanti Cecchi Gori che non era del mio giro, ma mi sono detto: «Va bene, proviamo». Avevo letto un libro dal titolo bellissimo, Oublier Palerme. E io, un film su Palermo, volevo farlo. Cosa ti aveva conquistato del libro? L’impossibilità per il protagonista di continuare a vivere senza riconoscersi le stimmate dell’appartenenza alla Sicilia. Presi solo le ultime cento pagine del romanzo. Nel libro non c’è la storia della droga, la inserimmo noi per rendere attuale il film e fu una decisione giusta. I diritti li presi io. Incontrai l’autrice, Edmonde Charles-Roux, a Marsiglia, dove presentavano il mio Carmen, che era appena uscito. Lei abitava a Parigi, suo marito aveva casa anche a Marsiglia. Le dissi che volevo aggiungere il problema della droga, che lei non aveva affrontato e che non esisteva al tempo in cui aveva scritto il libro, più di vent’anni prima. Portai l’idea a Cecchi Gori, a lui piacque.

Mario Cecchi Gori conosceva il cinema. E anche Vittorio, che poteva sbagliare certe scelte, ma il cinema lo amava. In quegli anni sognavano, specialmente Vittorio, un film che aprisse loro la strada del mercato americano. Credo infatti che le pressioni di Mario per assicurare al film James Belushi come protagonista puntassero a quello scopo. La sera che uscì «Dimenticare Palermo», andai a vederlo al Barberini. Ero arrivato un po’ prima dell’ultimo spettacolo, c’era Mario Cecchi Gori davanti al cinema, era nervoso. Andai a salutarlo, mi disse: «Il marciapiede l’è freddo». Era il suo modo per dire che l’afflusso di spettatori non era granché. In realtà gente ce n’era, ma tu sai che i produttori hanno i loro parametri. È un film interessante, Dimenticare Palermo. Ha dentro tanti temi che riguardano la città. Mi sembrava un buon progetto. Il film fu coinvolto nel discorso della legalizzazione della droga, e totalmente strumentalizzato. Diciamo pure che si parlò solo di quello. I titoli dei giornali erano più o meno: «Rosi annuncia: ho trovato il modo per liberarci della droga». Mi attribuivano l’idea che solo liberalizzando le droghe si potesse risolvere la questione. Io, invece, ero convinto che legalizzandola col controllo dello Stato si togliesse almeno potere alla criminalità. Oggi della droga non si parla più, è come se non esistesse, come fosse un tema sorpassato. Ma è tutt’altro che così. E dire che ora, in molte zone del mondo, si va proprio nella direzione di cui parlavo io. Prendi l’Uruguay, che è un paese piccolo, diventerà il primo Stato al mondo produttore legale di marijuana. È una scelta per combattere la violenza del narcotraffico. È una notizia data dal «Corriere della Sera» di martedì 26 giugno 2012: Lo spinello di Stato per battere il narcotraffico. I consumatori potranno comprare legalmente fino a 30 grammi di erba al mese, ma solo se sono iscritti in una lista ufficiale controllata dallo Stato. Naturalmente sono esclusi gli stranieri, per evitare il turismo della marijuana. In fondo, anche nazioni

come Spagna, Portogallo, Argentina, la stessa Germania, sono avviate su questa strada. Recentemente ho visto che uno scrittore e uno scienziato italiani hanno finalmente rotto il muro del silenzio. Roberto Saviano e Umberto Veronesi si dicono pubblicamente favorevoli alla legalizzazione. «Siamo contro le droghe» dicono «ma non è il proibizionismo l’arma che può combatterle.» Quando il film uscì, fuori dai cinema c’erano le troupe televisive che chiedevano: «Lei cosa pensa? È favorevole alla liberalizzazione?». Questo non giovò al film, che diventò involontariamente il simbolo di una battaglia. È proprio così. Ricordo la proiezione che organizzai alla Fono Roma. C’erano i miei amici, Peppino Patroni Griffi mi disse: «Se è questa la tua opinione, hai fatto bene a esprimerla». Ma pochi approfondivano il significato della legalizzazione. Oltretutto la chiamavano «liberalizzazione». Io intendevo legalizzare le droghe ma con il controllo severo dello Stato. Invece Craxi fece il disegno di legge che avrebbe messo in galera i tossicodipendenti. E che hai risolto in questo modo? È solo una norma inutilmente repressiva. Hai fatto peggio, hai accresciuto la popolazione dei tossicodipendenti. Negli anni di «Dimenticare Palermo», cioè i primi anni Novanta, una parte della critica storceva il naso anche perché tu venivi dipinto come un intellettuale in quota socialista, ricordi? Certo. Ma non sapevano che Craxi in persona avesse imposto al quotidiano del Psi l’«Avanti!» di ignorare il film, infatti non fu recensito. Raccolsi invece tutto quello che fu scritto dagli altri giornali. E mi resi conto di cosa sia a volte la critica. Lietta Tornabuoni, per esempio, cominciava dicendo: «Un film grande e importante», ma subito dopo sottolineava che ero di opinione diversa rispetto al mio partito, il che prendeva giornalisticamente il sopravvento sul giudizio critico. Poi leggevi un altro che diceva: «Tutto sbagliato!». Mi stupirono invece i giudizi positivi di alcuni dai quali non li aspettavo. Moravia, per esempio.

Non era più l’Italia degli anni di «Salvatore Giuliano», quando la riflessione sollecitata dal film portava all’istituzione di una Commissione parlamentare antimafia. Un film non era più in grado di intervenire, di condizionare scelte politiche. Infatti, mi sarei aspettato dibattiti sui temi che il film sollevava, discussioni. Invece niente, solo giudizi che andavano in una direzione o in quella totalmente opposta. Vedi, quel film ebbe una storia produttiva difficile, a un certo punto fu come se non fosse più mio, diventò una questione di coproduzioni e di tempi. La storia di Dimenticare Palermo venne in mente a me, avevo pensato io al libro di Edmonde Charles-Roux, che aveva vinto il premio Goncourt. So che in passato aveva interessato anche Visconti e altri registi. Quando ho affrontato il copione, ho cominciato a studiare il libro e ho visto che era impossibile raccontarlo in un film solo. Forse per questo Visconti non era andato avanti. Io film a Palermo ne avevo già fatti, sentivo quasi l’obbligo di farne un altro. In quegli anni la Sicilia era al centro di discussioni politiche, mi pareva giusto trattare il tema del siciliano trapiantato, che si scopre ancora legato alle sue origini etniche e culturali. Mi piaceva, mi interessava. Ma in quel periodo era forte il dibattito sulla droga, anche sul piano internazionale. E questo incasinò anche il discorso produttivo, alleanze o divisioni solo con riferimento a quale era l’atteggiamento nei confronti della legge sulla droga. La droga che mieteva vittime dappertutto. La mafia in Italia aveva chiuso con le sigarette. E dopo le sigarette venne la droga. Quando avevo fatto il film su Lucky Luciano, si diceva che il rapporto coi paesi produttori di droga li tenesse proprio Luciano, che faceva il finto pensionato a Napoli. Lì scattò il mio interesse. Per questo volli conoscere Edmonde Charles-Roux e chiederle l’opzione sul libro. Anche in «Dimenticare Palermo» c’era la mano di Tonino Guerra. Ma che successe con la sceneggiatura? Fu necessario prendere un americano. Il film era, per metà in America e per metà in Italia, in Sicilia. Così per la sceneggiatura chiamai Gore Vidal, che conoscevo e stimavo, e

naturalmente Tonino Guerra. Un cast della sceneggiatura che rispondeva alle mie esigenze e a quelle produttive. Gore Vidal allora abitava ad Amalfi, ma aveva casa anche a Roma. Il film lo cominciai a New York. In quel periodo c’era grande tensione politica intorno alla legge sulla droga, sia in America sia in Europa. Insomma, il dissidio tra proibizionismo e antiproibizionismo. Per me, un’impostazione del tutto sbagliata. Legalizzazione non vuol dire droga libera. È un’altra cosa. Gore Vidal e Edmonde Charles-Roux erano d’accordo con me. Così disegnai il percorso del protagonista che arriva a Palermo in viaggio di nozze con la sua fidanzata, giornalista di una rivista americana. Prende contatto con la realtà di un paese nel quale non è mai stato, ma di cui era originario il padre, proprietario in America di un ristorante molto alla moda. Il padre, infatti, non capiva: «Io ho fatto tanto per andar via da lì e tu vuoi tornarci?». Il film è la riscoperta delle radici del protagonista, Carmine Bonavia, interpretato da Jim Belushi. La conoscenza di un mondo e una cultura diversi. Mi piacque tornare in Sicilia attraverso lo sguardo di un americano che ha origini siciliane. Lui è candidato sindaco di New York e propone che la droga venga controllata dagli istituti sanitari. Incontra una giovane giornalista italiana piena di entusiasmo, che gli mette in testa di impostare la campagna elettorale sulla legalizzazione delle droghe, in modo da sottrarla al dominio della criminalità. E mentre lui porta su questo terreno la campagna elettorale, vola in Europa in viaggio di nozze per conoscere Palermo. La prima parte del film è tutta dedicata alla conoscenza della città. Il protagonista si ritrova in un luogo degradato, coi palazzi storici distrutti, una città sporca, piena di microcriminalità. Sente la differenza tra la Palermo di cui il padre gli ha parlato e quella che incontra. Si arriva al finale, in cui un ragazzo, un venditore di gelsomini, compie un gesto che irrita Bonavia. Offre un mazzo di fiori a sua moglie, ma non vuole essere pagato. Belushi chiede: «Perché?». «È un omaggio per la signora.» Il ragazzo è un emissario della mafia che deve contattare il candidato sindaco di New York e capire a cosa puntino i suoi slogan elettorali. Bonavia ha col ragazzo uno scontro fisico. Si vede il giovane venditore di gelsomini

colpito, col petto insanguinato. Non è stato Bonavia, ma come dimostrarlo? Intanto, il film, mostra chi c’è dietro il ragazzo dei gelsomini. C’è un uomo di potere, un capomafia che segue Bonavia da New York a Palermo. Nella camera dell’albergo in cui Bonavia alloggia con la moglie, la mafia fa trovare il letto tutto ricoperto di gelsomini. Bonavia impazzisce, vuole scoprire assolutamente chi lo perseguita. Intanto la moglie incontra nella hall un vecchio barone siciliano, condannato dalla mafia a vivere in quell’albergo, con l’ordine di non uscire mai. Un personaggio che Vittorio Gassman interpreta in maniera formidabile. Si tratta di un personaggio realmente esistito, il barone Giuseppe Di Stefano. La mafia doveva ucciderlo, ma gli convertì la pena in una specie di reclusione a vita dentro le mura dell’Hotel Des Palmes di Palermo. Sì. E Gassman ne colse tutte le sottigliezze psicologiche. Bonavia lo raggiunge a tavola una sera e il barone gli indica il solo luogo in cui i gelsomini fioriscono anche d’inverno. Belushi-Bonavia ci va con la moglie e si trova di fronte a un castello coperto di gelsomini. Qui incontra il capomafia che l’ha seguito a Palermo. È forse la scena più forte del film. Bonavia gli spiega che vuole legalizzare la droga: «Conviene anche a voi, la droga che si usa per ragioni sanitarie continuerà a esistere e sarete ancora voi a controllarla». E il boss risponde: «Sei matto? Sai immaginare quali guadagni porta la droga?». Nel dialogo viene fuori che il ragazzo è morto in ospedale, per mano della mafia, che lo ha finito perché si possa ricattare Bonavia. Sta a lui decidere, se cambia posizione sarà discolpato dalle fotografie fatte scattare dalla mafia, in cui si vede che a ferire il ragazzo non è stato Bonavia, che così potrà diventare sindaco e tutto finirà serenamente. Se viceversa non cambia idea, la mafia lascerà che lo si accusi d’omicidio. Lui ci pensa, accetta e tenta di spiegare alla moglie le ragioni della sua decisione. Ma nell’animo resta pur sempre un siciliano, non gli piace che qualcuno lo obblighi a fare ciò che non vuole. Quando viene

chiamato a inaugurare il nuovo centro sanitario per tossicodipendenti messo in piedi dalla mafia, Bonavia è ormai a un passo dalla poltrona di nuovo sindaco. Ma nel bel mezzo del discorso rinuncia e dice: «Io non farò il sindaco della mafia di New York». E si allontana, ma uno sparo dall’alto di un ponte lo uccide. Così finisce la storia. James Belushi capì che in qualche modo lo avevi «subìto»? Non credo. Secondo Cecchi Gori lui aveva letto il libro e voleva fare il film con me. In realtà commisi un altro errore, che devo a Mario. In un primo tempo io volevo Richard Gere, poi un attore italoamericano, Joe Mantegna: sarebbe stato la scelta giusta, attualmente in America è una star delle fiction televisive. Mario Cecchi Gori non era d’accordo su Gere, che intanto si stufò di aspettare. E in questo modo smentì Cecchi Gori, il quale sosteneva, a torto, che Gere non aveva più popolarità. Insomma, niente da fare, voleva proprio James Belushi: «Mi ha detto di essere albanese» si giustificò «e che il padre aveva un ristorante in Albania». A essere sinceri, Belushi non è affatto un cattivo attore, tutt’altro. Perché Cecchi Gori teneva tanto a Jim Belushi? Era uscito da poco Danko, un film di spionaggio, con lui protagonista, che aveva avuto un gran successo al botteghino. E quindi gli era presa una fissazione. Te l’ho detto, è un bravo attore. Non è questo il problema, ma con un altro attore sarebbe stato un film diverso. Prima dicevi che a un certo punto avevi sentito «Dimenticare Palermo» come se non fosse più tuo. Che era successo? È un film che mi sfuggiva nei dettagli della storia. Era molto complessa. La parte girata a Palermo fu apprezzata da tutti i critici. Infatti era quella che potevo dominare e rappresentare meglio. La parte di New York era forse più convenzionale. Ma anche a New York tu avevi girato altre volte. Un paio di scene di Lucky Luciano. Ma non avevano la pretesa di raccontare una storia con risvolti psicologici così

numerosi e importanti per lo sviluppo della vicenda. Tutto ciò mi convince ancora di più dell’importanza di non affidare la costruzione di un film solo alla sceneggiatura. Temi cioè che vi siate fidati troppo della sceneggiatura? E che sia venuto meno quel tuo consueto lavoro di verifica col mondo, con l’ambiente, con i personaggi veri? È probabile. Palermo è raccontata abbastanza bene nel film. Si vede la città degradata, gli antichi palazzi nobiliari diventati mucchi di pietre. Quella è una visione di Palermo che corrisponde a una verità del momento. Hai girato proprio nel palazzo che era stato il set del ballo ne «Il Gattopardo»? Sì, a Palazzo Ganci. Lì ho fatto la scena in cui Bonavia e sua moglie ballano con la musica del film di Visconti. Fu un omaggio che volli fare a Luchino. Vuoi la mia sensazione? «Dimenticare Palermo» non ti sta troppo simpatico. È bella, questa. Non mi sta simpatico… Ma sì, i tuoi film ti stanno simpatici. Su questo, sento che c’è qualcosa che non ti convince. Forse perché per la prima volta non hai avuto l’attore che volevi tu. Oltretutto, avevi stabilito un rapporto amichevole con Richard Gere. Come gli hai spiegato che dovevi fare il film con un altro? Diciamo che i ritardi produttivi mi avevano già convinto sulla necessità di un attore di origine italiana. De Niro non era libero. Al Pacino lo stesso. Diciamo che già il passaggio di produzione aveva trasformato le coordinate del film. Non ho dovuto dargli troppe spiegazioni, anche perché a un certo punto si era fermato tutto. Te l’ho detto, inizialmente il film doveva coprodurlo Rai Due. Dopo un anno m’hanno detto che l’operazione passava a Rai Tre. Dopodiché non se n’è parlato più. In pratica, si sono rifiutati di farlo, perché si parlava di droga e per la posizione che io prendevo sull’argomento. A proposito della legge che Craxi sosteneva, ne hai mai parlato direttamente con lui?

Certo. Ma non mi disse niente. Il suo entourage se ne stupì, non vedeva di buon occhio che io facessi questo film con un punto di vista favorevole alla legalizzazione e contrario alla repressione. Ma sono passati molti anni, la situazione della droga è diventata insostenibile in tutto il mondo. Bisogna ricordare che ci sono paesi produttori della pianta di coca, dalla quale si ricava la cocaina, che hanno rifiutato l’invito dell’Onu a convertire quelle piantagioni. Avrebbero perso la loro prima fonte di finanziamento, il motore economico della loro attività. Tuttora non è risolto il dibattito sulla droga. Ancora non si accetta la possibilità di assumere stupefacenti senza il rischio di finire in galera. In alcuni paesi, per esempio in Olanda, questa forma di legalizzazione è durata poco. Molti altri governi hanno fatto marcia indietro. E gli antiproibizionisti si sono appellati al fatto che con l’alcol è andata allo stesso modo. L’alcol è stato liberalizzato e non c’è nemmeno l’indicazione sul quantitativo. Infatti oggi sta diffondendosi molto tra i giovanissimi. È tutto questo che mi ha interessato per il film. Il tema è importante e molto spinoso. Siamo negli anni in cui Craxi è all’apice della sua parabola politica, e tu, il grande regista dell’impegno civile, membro dell’Assemblea nazionale del Psi, realizzi un film in cui si sostiene una tesi diversa da quella del partito. Anche stavolta sei stato un «uomo contro». Diciamo di sì. Ma io di queste vicende non mi vanto. Sono sempre stato socialista, anche se non ho mai chiesto la tessera. Ma dopo «Dimenticare Palermo», che evoluzione ebbero i tuoi rapporti col Psi? Rimasero gli stessi o ci fu una crisi? Con alcuni personaggi andò tutto bene. Con loro ho discusso dell’argomento. Non ho mai chiesto per quale ragione l’«Avanti!» mi avesse ignorato, o perché non avesse scritto di non essere d’accordo con la tesi del mio film. Il mio amico Antonio Ghirelli allora era capo ufficio stampa di Craxi. Quando ci fu la proiezione del film, naturalmente Craxi non venne. Antonio mi scrisse una lettera lunga tre pagine, diceva che ero impazzito: «Ma che fai, ti metti contro il partito?». Ovviamente gli risposi con argomenti che conosceva meglio di

me. Secondo me il cinema è forte perché segna la coscienza della gente. Offre temi, fatti e riflessioni che sarebbero vietati, dei quali nessuno saprebbe nulla perché la stampa su certe questioni viene censurata. Oggi i giornali si occupano della droga? Non mi pare. Hai continuato a far parte dell’Assemblea nazionale del Psi dopo il film? Mi sono dimesso, anche perché quest’assemblea non si riuniva mai, non faceva niente, non aveva potere. Ne facevano parte anche personaggi importanti, ma ebbe una durata breve. Era solo sui giornali, ma in realtà quasi non esisteva. Io sentivo di partecipare più al Psi che al Pci, anche se, diciamo la verità, eccettuato il momento di scontro dovuto a Cadaveri eccellenti, ho avuto sempre rapporti importanti con il mondo comunista. Il Pci ti ha sempre voluto bene. È vero, devo dire che è così. Ma, nel bene o nel male, sono sempre stato fedele a me stesso, alla mia visione del mondo e del cinema. Grazie anche a mia moglie, che mi è stata sempre vicina. Con lei discutemmo spesso di quel film. Ne parlammo pure con Craxi, un giorno che eravamo invitati a casa dell’editrice di una rivista di cinema sua amica. Ma io non dissi molto. Sai, lui era piuttosto sbrigativo, anche brutale quando voleva che trionfasse una sua idea. Era come appariva. Un uomo di grande serietà, uno con dei progetti. Ma gli uomini politici non è facile capirli. Anche nell’Italia di oggi, vedi, cambiano posizione, collocazione, con una rapidità incredibile. Ma mi auguro che Mario Monti riesca a compiere la sua rivoluzione e a consegnarci un paese nuovo. Me lo auguro davvero. Che idea ti sei fatto di lui e del suo modo di governare il paese? Penso che Monti sia assolutamente necessario in questo momento per l’Italia. Un personaggio che può fare del bene non solo sul piano economico. Lui sta trasformando la cultura del nostro paese, il modo di pensare della gente rispetto allo

Stato e alle istituzioni. Il suo disegno è di cambiare quel prototipo dell’italiano che in definitiva ha rovinato la nostra reputazione sul piano internazionale. Per certi versi ci è riuscito in maniera incredibilmente rapida, anche se probabilmente ci vorrà tempo perché i piani di Monti si possano veramente radicare nel modo di essere dell’italiano. Perché la verità è che noi italiani siamo fatti in una certa maniera, il nostro pressappochismo, la nostra volontà di compiacere e di arrivare al compromesso, sono caratteristiche di vecchia data, dure a morire. Il problema è il carattere degli italiani, e Mario Monti sta riuscendo non dico a cambiarlo, ma a creare le premesse che potrebbero davvero produrre un cambiamento epocale. Intanto, ha predisposto in pochi mesi provvedimenti che la politica tradizionale non avrebbe fatto in decenni. Ma già da come parla, dal tono che tiene durante i suoi interventi, sembra l’immagine di un altro paese, un altro codice, un’altra filosofia. Si vede che è uno che conosce e sa le cose che dice. Poi nel mondo lo rispettano, mentre Berlusconi incuriosiva soltanto, ma non ci credeva nessuno che potesse dirigere un paese. Devo dire la verità, mi stupisco ancora che non ci si sia accaniti a volerlo demolire prima. Il paese è rimasto a guardare troppo a lungo. Vediamo che succede. Un altro difetto di noi italiani. Stare a guardare, aspettare che le cose si sistemino da sole. Perciò bisogna stare attenti, perché Monti a qualche cosa ha dovuto rinunciare e ad altre dovrà rinunciare. Però ti dà fiducia. Sei certo che in qualunque momento della giornata lui si sta occupando del paese, non c’è dubbio. In questo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è stato veramente grandioso, è lui che ha dato a Monti la possibilità di andare avanti convinto di fare bene. Così l’Italia comincia a riprendere il suo ruolo di paese credibile e serio che non aveva più da troppo tempo. Siamo uno strano paese. Ma anche un grande paese. Sono d’accordo con te. E Napolitano mi è piaciuto molto. Un gigante. Lui ha tutto un suo percorso. Nel Partito comunista è stato un uomo che voleva migliorare la situazione, non radere al

suolo. Qualcuno aveva ben altri scopi. Ricordo Trombadori, allontanato negli ultimi tempi dal partito, perché considerato non abbastanza rivoluzionario. L’Italia non è certo in un bel periodo. Ma alla sinistra servirebbe una figura come Berlinguer. Che bel personaggio! Devo avere un bigliettino che mi scrisse dopo aver visto un mio film.

I miei armadi

Niente può dividere più dell’opinione politica. Lo dico con un senso di profonda tristezza. Perché non sono pochi gli amici che ho perduto per ragioni politiche. Com’è che la politica finisce per decretare la fine di un’amicizia? Ma perché non ti viene voglia di continuare a frequentare un amico quando sai che ti trovi di fronte uno che non solo ha un’opinione diversa dalla tua, e fin qui nulla da dire, ma mette in pratica quell’opinione in un modo troppo lontano dai tuoi principi. Vedi, pensarla diversamente non può distruggere una relazione. Neanche quando Leonardo Sciascia assunse la famosa posizione «Né con lo Stato né con le Br», questa opinione politica turbò la nostra amicizia. Eppure glielo dissi subito: «Leonardo, io non sono di questo parere». Come lo dissi a Moravia, che si era allineato pure lui, anche se in maniera non proprio decisa. E quando gli hai detto che non eri d’accordo con lui, come replicò Sciascia? Ma sai, lui aveva anche un modo di esprimere il suo disaccordo su certe cose con i silenzi. Perché avevamo capito tutti e due che era un argomento molto spinoso. La verità è che quel periodo è stato talmente difficile e confuso per tutti. Anche perché la crudeltà degli episodi delle Br non aveva precedenti, è stata una cosa terribile. In quel momento ho sentito che bisognava prendere un atteggiamento molto preciso. L’ho fatto con il mio film Cadaveri eccellenti. Ricordo un acceso dibattito a Palermo cui partecipò anche Eugenio Scalfari, che a un certo punto mi disse: «Vedo che ti appassioni tanto». «Ma sai» dico, «devo partecipare, far capire chiaramente come la penso. Non ci possono essere dubbi.»

Insomma, tu ti scaldavi e lui si sorprendeva di ciò. Strano però. Più appassionato di lui… È sempre stato il più appassionato di tutti in certe materie. Però Eugenio ha un modo tutto suo, non dico distaccato, ma da grande intellettuale che in tutta serenità riesce a trasmettere i suoi convincimenti e ad argomentarli con una maestria unica. Io non riesco a definirmi un intellettuale. Io faccio il cinematografo. A ogni modo, tornando a Sciascia, la nostra amicizia rimase solida com’era prima. Nella maniera più assoluta. Allora, che cosa interrompe un’amicizia, se non proprio la divergenza delle opinioni politiche? Il comportamento. O, per meglio dire, il cambio di contegno dettato dall’improvvisa adesione a una politica lontana dalla propria storia personale. Insomma, è molto difficile frequentare persone che la pensano in un modo completamente diverso dal tuo e in virtù di ciò cambiano il proprio comportamento di vita. È un argomento molto doloroso. Perché quando si interrompe un’amicizia con una persona si interrompe anche con la famiglia di quella persona. Poi c’è di mezzo la delusione. Più profonda è la stima, più grande è il disinganno. Come te li spieghi certi cambi di percorso? Me lo spiego perché a un certo punto gli interessi sono superiori alle opinioni. Molte volte è proprio questione di soldi. In questo Giancarla era più intransigente di me. Chissà cosa direbbe oggi di tutto questo mondo immerso nei guai. La borsa che non smette di andare giù e la gran confusione, il caos, un vero pantano politico. I miei film mi hanno tenuto in contatto continuo con l’attesa di una politica che desse al paese una situazione migliore. Una società ripulita dalla criminalità organizzata, dal sopruso, dalla corruzione. Non mi pare che stia avvenendo. La criminalità organizzata è aumentata, non parliamo della corruzione. Prima era solo al Sud, adesso invece è dappertutto. E poi le notizie continue sulla politica corrotta completano un bollettino quotidiano

triste e preoccupante. Non è affatto facile trovare il modo per raccontare questo periodo italiano. Non puoi raccontarlo imitando la tv. Devi trovare una cifra cinematografica che lasci il segno. La cifra cinematografica è capire che, per mostrare la realtà, la sola spettacolarizzazione non è la strada giusta, né una scelta seria e profonda. Bisogna porre domande, non sempre dando risposte naturalmente, ma facendo capire alla gente i rischi che si vivono in una società che deve continuamente fare i conti con il crimine e con la corruzione. È ciò che ho sempre fatto col mio cinema. Fino a qualche tempo fa, nell’ambiente del cinema si pensava che in fondo il vero racconto sull’Italia di oggi dovesse essere un film su Berlusconi. È vero, qualche volta ci ho pensato anch’io. Il Cavaliere interpretato magari da Volonté. Te lo immagini Gian Maria col suo sorriso spocchioso che suona il pianoforte sulle navi e poi diventa padrone d’Italia? Solo Gian Maria avrebbe potuto farlo. Ma io il mio film su Berlusconi l’ho già fatto: Le mani sulla città. Se getti uno sguardo sull’Italia attuale, esiste secondo te un’idea cinematografica che possa raccontarla? Un espediente narrativo che stia all’Italia di oggi come la bicicletta rubata di De Sica stava a quella del dopoguerra? Noi che abbiamo fatto un certo tipo di cinema, oggi sentiamo la mancanza della spinta a raccontare la realtà che viviamo. Cosa racconti? Che un deputato, l’uomo che dovrebbe rispettare e far rispettare i diritti, è un corruttore e un corrotto? Che ruba e si fa regalare automobili, case? Credi che basterebbe a raccontare lo sforzo che fa tanta gente perbene e amante del proprio paese per contrastare ed evitare questo crollo? Non credo. L’altro giorno pensavo a quelle scintille che nel cinema fanno nascere grandi idee. Ero per strada e ho assistito a una scena per certi versi analoga a quella che

folgorò Ugo Pirro e gli ispirò «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto». Era sul Lungotevere, d’estate. A un incrocio vede un’auto della polizia che passa col rosso. Da lì nasce l’idea del poliziotto omicida, che pone sotto gli occhi di tutti l’evidenza della sua colpevolezza, un’evidenza che nessuno coglie. Un capolavoro. Ciò a cui ho assistito io non mi ha suggerito alcun soggetto, ma mi ha messo paura. Ho visto un’auto della polizia ferma a un semaforo rosso. Numerose altre auto incolonnate dietro. Finalmente scatta il verde, ma l’auto della polizia non parte. Resta curiosamente ferma. Ma dietro non suonava nessuno, tutti zitti, in attesa. È una scena che spiega cos’è il timore del potere. La gente oggi è condizionata in modo incredibile da ciò che vede in televisione. Questo dovrebbe riavvicinarci alla tua domanda. Se si volesse raccontare la condizione dell’Italia di oggi da dove si dovrebbe partire? Di fronte a questa domanda, rivedo la tua masseria. Col regista chiuso dentro a costruire ipotesi che il dubbio puntualmente gli sgretola. Però intanto le sfiora tutte. Non è un soggetto da poco. L’idea della masseria era proprio il dubbio. Quel film è un’idea su tante idee, sull’impossibilità di trovare quella giusta per raccontare l’Italia di oggi. Pensa, solo una bicicletta. E a quell’epoca fatti da raccontare ce n’erano. Per questo il cinematografo sa essere grande. Non può essere sostituito da nessuna televisione. La tv è cronaca, attualità. Il cinema va oltre. Va molto oltre. «Ricordati, il film che fai deve servire per il momento in cui lo fai, ma deve servire anche per dopo, e per sempre. Se credi che serva solo per il momento in cui lo fai, non farlo.» Secondo te chi me l’ha detto? Lo stesso che lo diceva anche a me, Tonino Guerra. Dove lo trovi un altro Tonino Guerra oggi, con quello che si vede in

giro? Per questo alla fine ho esitato a riprendere in mano vecchi progetti. Qualche anno fa mi ricordo che ci incontrammo a Taormina. Tu avevi già fatto «La tregua» e come sempre io ti chiedevo cosa stessi pensando di fare. Tu mi hai raccontato il tuo stato d’animo in un modo che non ho mai potuto dimenticare. Ti dicevo che mi sentivo come un moscone che voleva uscire fuori e sbatteva continuamente contro i vetri di una finestra. Me lo ricordo. Era la mia voglia di trovare un’idea per tornare a fare un film, e non la trovavo, e ciò mi faceva sentire come un moscone prigioniero. In realtà di idee ne ho avute parecchie durante quegli anni, ma non sentivo intorno a me un contesto produttivo che mi fosse vicino. E come tutti quanti noi, in questi casi, lasciavo perdere le idee una dietro l’altra. Per ogni film che fai, ce ne sono dieci che lasci nel cassetto. Esattamente, bravo. È sempre così. Ma questo nostro mestiere è un mestiere che si impadronisce di te e non ti abbandona mai. Sembra che tu possa dimenticarlo, ma la verità è che ne rimani prigioniero. Per fortuna, aggiungerebbe Sciascia. Sì, ma io devo fare i conti con la mia età. Io ormai ho 90 anni. Mi metto lì, studio, scrivo, poi penso: «Ma che scrivo a fare?». Credo che anche alla tua età sia giusto fare progetti e guardare avanti. È giusto, sì. Non devo pensare alla fine. E sai perché? Per mia figlia. Adesso il mio pensiero è per lei, ma vedo che ha le idee giuste e questo mi tranquillizza. D’altro lato quando arrivi alla mia età, è inevitabile chiederti: «Ma quando muoio, come muoio?». E la cosa che più ti angoscia e ti intristisce, è avere un rapporto così bello con una figlia e sapere che deve finire. L’idea di non esserci più… Come fai a non pensarci? Carolina è una donna forte, energica. Ora sta facendo l’attrice in teatro, e bene, sono contento che lei sia contenta, ma non fa solo l’attrice, è molto brava anche come aiuto regista. In realtà, io

ho ancora progetti. Prendi Napoli milionaria!, a me non è mai andata giù quella storia. Volevo farne una versione cinematografica in cui si desse immagine a tutto ciò che il testo eduardiano sottintende o lascia fuori scena. Ne ho parlato con la Rai anni fa, aspetto ancora che mi rispondano. Quando sono andato con Luca De Filippo per proporre l’idea ad Aurelio De Laurentiis che detiene i diritti cinematografici della commedia, gli ho detto: «Sto facendo Napoli milionaria! in teatro, ma qui dentro c’è un copione per un film, c’è il racconto della prigionia del protagonista, c’è Amalia che corre per le vie della Napoli distrutta dalla guerra in cerca della penicillina con cui salvare la figlia». Sai che mi ha risposto? «Ma noi abbiamo già il film diretto da Eduardo con Totò!» «Quella è un’altra cosa» dico io. Certe volte sono strani i produttori, anche se, devo dire che i miei film li ho quasi sempre proposti io ai produttori. Anzi, ogni volta che penso al mio «Cesare e Bruto», dico: «Se decidessi di farlo dovrei parlarne a Grimaldi». In realtà è stato il primo a sapere di quella mia idea, molti anni fa. Magari gli piace l’idea e decide di tornare a produrre. Sarebbe bellissimo. Dopo tanti anni vissuti a Los Angeles adesso vive a Montecarlo, ultimamente ci siamo incontrati. Alberto Grimaldi è il produttore dei film di Pasolini. Quei capolavori li ha fatti fare lui. Però è una persona strana. Intelligente e strana. La verità è che, originariamente, Grimaldi mi aveva proposto un contratto per tre film da definire, non avevamo ancora individuato i progetti. Poi finimmo per fare solo Cadaveri eccellenti. Però, parlammo anche di «Cesare e Bruto». Lo avevo pensato inizialmente come un film da fare con attori americani e inglesi. A lui piaceva molto il titolo originario, «23 pugnalate», sì, gli piaceva molto. Ben presto però entrai in crisi, non mi sentivo di affrontare un film con attori inglesi. Mi dicevo: «Invece di fare il film scritto da noi, devo fare Shakespeare. Ma allora già c’è il Giulio Cesare del 1953 di Mankiewicz». E mi fermavo. Molti anni dopo però l’ho ripreso, a spese mie. Ho scritto un trattamento con La

Capria. Ho un armadio pieno di libri e documenti che ho letto sull’argomento. Hai messo tutto in un armadio. Come Kubrick col suo Napoleone. Vieni qua, ti faccio vedere la mia stanza da letto, tanto ormai conosci tutto di me. In quell’armadio c’è tutta la roba di Primo Levi, La tregua. In questo invece ho messo tutte le carte del «Cesare e Bruto», i libri di ricerca e documentazione. Guarda quanti. Nell’altro armadio in fondo ci sono i materiali di altri film che volevo e dovevo fare e poi non ho fatto, «Offenbach», per esempio. Fammi capire, i materiali di film che non hai mai fatto li tieni in camera da letto? Sì, perché io dormivo qui, all’epoca in cui Giancarla amava fare orari per me impossibili. E gli armadi che vedi non contengono abiti ma solo film rimasti sulla carta. Ti devo dire la verità: questa cosa di «Cesare e Bruto» mi mantiene in ansia. Perché, da una parte, un primo trattamento che abbiamo scritto con La Capria e Sampoli, consulente storico, è di tipo brechtiano, se vuoi, ma ci sono molte scene di battaglie. Dovrei cercare di toglierle, perché se è vero che tutte quelle azioni spettacolari mi eccitano, mi rendo anche conto che scene del genere ne vedi ormai troppe in quelle fiction televisive di stampo storico-mitologico. Infine, penso che per combinare un film del genere e per farlo passerebbero tre anni, come minimo… Non è detto. Tre anni mi sembrano tanti. Specie se decidi di puntare soprattutto a quello spirito brechtiano di cui accennavi. È un film che volevo realizzare fra le pietre vere. L’unico ambiente che dovrei ricostruire è il Senato, a meno che nelle viscere del monumento al Milite ignoto, come mi ricordo, ci siano degli stanzoni adatti. Dovrei andare a vedere. Non lo so. Da una parte sono tentato di immergermi, dall’altra parte francamente la cosa mi preoccupa. Perché, insomma,

affrontare a questa età un impegno così gravoso, può essere anche una forma di irresponsabilità, in un certo senso. Lo posso capire. Però, dipende. Tu sai che nel nostro mestiere conta solo quanto tu ami una storia. Il problema è lì. Certe volte ti vedo così entusiasta di questo progetto e certe volte, più che sulla tua età, mi sembri perplesso proprio sul progetto. Anche. Il fatto è che dovrei avere proprio un salto di coraggio e di volontà, perché poi è la volontà che ti dà il coraggio. E non lo so se ce la faccio. Dovrei fare il film con attori italiani, hai voglia quanti ce ne sarebbero. Quindi avevo bloccato tutto. Dopo la morte di Giancarla, stranamente mi sta tornando la voglia di rimetterci le mani. Infatti ricordo che subito dopo la scomparsa di Giancarla, la prima volta che sono venuto a trovarti tu già ne parlavi. Evidentemente eri troppo angosciato e parlavi di «Cesare e Bruto» come una via di fuga dal dolore. Come quando decisi di fare Uomini contro, subito dopo la morte di Franceschina. Esattamente. Mi interessa ricostruire, ma attraverso gli ambienti e le pietre vere, che sono anche rovinate dal tempo, ma è lì che sono accaduti i fatti storici. Avrei a disposizione il Colosseo, l’anfiteatro di Pozzuoli, che è formidabile, dove volevo far vivere l’ambiente di un personaggio che era il capo di tutti i gladiatori. E c’è un importante colloquio con gli altri congiurati, nell’anfiteatro appunto, con sullo sfondo i gladiatori che si esercitano. Abbiamo ricostruito certi dialoghi proprio sui libri romani dell’epoca. A me il film piace. Ma ho paura. Quello che non ho mai avuto nel mio lavoro. Non ho mai avuto paura di affrontare la sfida di un nuovo film. Ma tu hai paura di non farcela o che altro? O le paure che abbiamo sempre noi, che il film non venga bene… Ecco, ho paura che non venga bene. Certo, come l’ho concepito e immaginato, girato sui luoghi autentici così come

il tempo ce li ha tramandati, e con tutti attori italiani, il film finirebbe per avere una forte carica allegorica. Rispetto al nostro oggi politico? Certo, è un film sul potere. Insomma, è una situazione che evoca molto tutto quello che succede oggi. I corrotti, i corruttori, il trasformismo… È un film complesso. Per cui ci vuole tempo, ecco. Ho paura del tempo che ci vuole, ho paura di infilarmi in una cosa così grande e poi non farcela. Non andrebbe bene a chiusura di una vita. Be’, se decidi che vuoi farlo, poi lo devi fare. Non è che puoi ripensarci. In effetti è una storia che evoca il nostro presente. Era tutto come oggi. Quindi da un certo punto di vista mi eccita. Quella cifra brechtiana con cui abbiamo proceduto mi attrae molto. Il problema è tuo, devi decidere se passare il tuo Rubicone o no. Ecco, appunto, questo è vero. Il fatto che da quando sono rimasto solo mi sia ritornata in testa l’idea di fare il film, un significato deve averlo. Ma quello del regista non è un mestiere che si possa fare tranquillamente da vecchi. Almeno non come l’ho fatto io, che ho sempre mostrato a tutti gli attori quello che si doveva fare. Ornella Muti era stupita quando l’andai a trovare all’Hotel Aldrovandi, dove abitava anche Dino Risi, perché io mi buttavo pure a terra, mi mettevo in ginocchio per mostrarle ciò che volevo da lei in Cronaca di una morte annunciata. Capisco che a volte prevalgano le ragioni alimentari, ma non ho mai compreso quelli disposti a fare di tutto sapendo di sbagliare. Ce ne sono, non si tirano indietro davanti a niente. Hai rivisto i tuoi film recentemente nella rassegna che ti hanno dedicato a Parigi? È stata una bellissima esperienza. Hanno programmato una retrospettiva completa dei miei film, dal primo all’ultimo. È andata avanti per un mese. Avevo qualche dubbio su questo viaggio. Ma alla fine ci sono andato. Mi ha accompagnato mia

figlia e ne sono stato contento. Quando un’istituzione come la Cinémathèque Française rende omaggio a un autore, lo fa in maniera seria. L’ho trovata una buona occasione per sentire cosa pensa ancora oggi il pubblico francese sul mio lavoro. La platea era piena e alla fine tutti si sono alzati in piedi per applaudire. Mi sono commosso, ma mi ha dato una grande carica. Ogni tanto hai bisogno di sapere cosa pensa di te il pubblico, cosa pensano i critici. Ho avuto molti riconoscimenti durante la mia carriera, ma che a distanza di tempo si faccia una retrospettiva così è un evento che incide positivamente sul mio umore. È sempre una città bellissima, Parigi. Io lì ci ho vissuto, quando ho collaborato con Luciano Emmer. In quel periodo Parigi con l’esistenzialismo era una città di una vivacità e di un’importanza culturale enorme. Incontravi Sartre e tutti i più influenti intellettuali d’Europa. C’erano anche i miei grandi amici, I Gobbi: Vittorio Caprioli, Alberto Bonucci e Franca Valeri. Ho rivissuto un po’ quegli anni. Sono stato bene. Ma ho sempre paura che magari torni la fase delle preoccupazioni.

Il cinematografo è una malattia

Accade a noi del Sud. Temiamo sempre che i brutti momenti debbano tornare. È una nostra caratteristica. Non ci fidiamo della fortuna, non ci fidiamo della felicità. Pensiamo sempre che siano cose passeggere. E meditiamo spesso sulla morte. È proprio orrenda la morte, diciamo la verità. Mi dite che c’entra la morte con la vita? Niente, proprio niente. Il Padreterno, se è lui, avrebbe dovuto combinare tutto in una maniera meno dolorosa, meno imprevedibile. Se pensi a quelle malattie che colpiscono e che sconvolgono l’esistenza non solo di chi si ammala, ma pure delle persone che ama. Allora ti chiedi: ma che senso ha nascere se poi la vita è una tale fatica? È anche una gioia, me ne rendo conto. Però ci sono aspetti sconvolgenti, troppo dolorosi, che non puoi accettare. Ma, comunque, andiamo avanti… Quando hai pensato per la prima volta alla morte? Non saprei. So che ci ho pensato spesso, e infatti la morte c’è in tutti i miei film. Tutti. Da La sfida in poi, in ognuno la morte è protagonista. È una specie di esorcismo infinito. Anche Roberto Andò, quando ha fatto il documentario su di me, mi disse di essersi ritrovato col mio cinema al cospetto di una ripetibilità della morte. Forse nemmeno me ne sono reso conto, ma l’ho esorcizzata perché non mi piace. E la prima volta che ci sei imbattuto, come dire, personalmente? Durante una visita fatta in una chiesa napoletana col mio nonno paterno, ne facevamo spesso a causa della sua passione per l’archeologia. Un giorno ne visitammo una in cui c’erano dei lavori di restauro. Un muratore, giovanissimo, cadde da un’impalcatura. Io ero lì vicino, lo raccolsi insieme ad altre

due persone, ma il ragazzo ci morì tra le braccia. Quella fu per me la prima visione della morte. Quanti anni potevi avere? Forse sedici o diciassette. Molti anni dopo l’avrei incontrata di nuovo la morte. Nell’incidente che ho avuto con mia figlia Francesca. In seguito c’è stata la morte dei miei genitori. Drammi che hanno pesato tantissimo nella mia vita. Mia madre l’ho vista morire. Era in ospedale e l’assisteva una sua amica che le voleva molto bene. Improvvisamente questa donna mi fa un segno, mi avverte con gli occhi, e io vedo mia madre che ha cambiato colore. Era diventata terrea, aveva esalato l’ultimo respiro. In quel momento ho percepito la morte. Mio padre no, l’ho visto che era già morto. Stavo girando un film, l’ho raggiunto quando era già finita. Ti sei mai confrontato con l’enigma di un aldilà? Ci hai mai pensato? No, io sono laico. All’aldilà non ci ho mai pensato, forse per la voglia di non pensarci. Che ne so io dell’aldilà, che ne so? Ma poi chi ne sa niente? Hai mai frequentato persone che possedevano una grande fede? Recentemente ero con un caro amico, che avevo invitato a casa mia, a cena. Ho notato che si è fatto il segno della croce prima di mangiare. Mi ha stupito. Voglio credere che quel gesto corrisponda a un sentimento profondo di fede, e allora è rispettabile. Se la fede è autentica devi rispettarla. Comunque, caro Peppuccio, io non credo di avere paura della morte, è solo che non mi piace. Non mi piace tutto ciò che la riguarda. Però è vero che nei tuoi film c’è sempre la morte, sempre. Te l’ho già detto, sei del Sud, non c’è niente da fare. È vero. E sul tema mi trovo d’accordo coi siciliani. Non con i napoletani. La morte in Sicilia è sempre presente. Che argomento spinoso, e inutile. Bisognerebbe affrontarlo con strumenti filosofici, che non appartengono alla mia cultura.

Qualche anno fa lessi che François Mitterrand, ormai vicino alla fine, aveva voluto incontrare un filosofo, che dell’argomento sapeva molto. Voleva saperne anche lui. Questo desiderio mi colpì. Un uomo di potere che forse una fede religiosa non l’aveva mai avuta, improvvisamente affronta la conoscenza della morte in chiave laica. Non so cosa quel filosofo potesse spiegargli. Al massimo poteva insegnargli a tollerare l’idea. Nulla più di questo. Nell’ultimo film di Stanley Kubrick c’è la sequenza in cui donne e uomini frequentano quella strana casa. Trovo che tutti quei personaggi, addobbati con quelle maschere lugubri, e quegli strani costumi, avessero addosso gli abiti della morte. Rappresentavano tutti la morte, non credi? Mi sono trovato a pensare: «Chissà se Kubrick ha avuto un presentimento, se ha sentito la presenza della morte». È la sequenza che più mi è piaciuta. Non è frequente vedere in un film la presenza della morte articolata visivamente in quella maniera. In genere la vedi con un tizio che spara quattro colpi. A Giancarla, Eyes Wide Shut (1999) piacque molto, a me un po’ meno, avevo dei dubbi. Vedendolo ho pensato che quello non fosse il montaggio definitivo del film. Ho avuto la strana sensazione che Stanley Kubrick non avesse ancora finito di lavorarci. A un certo punto c’era un attacco di montaggio fra una sequenza e un’altra, poco persuasivo. Non era da Kubrick, ne sono sicuro. Per me è come se quel film fosse rimasto incompiuto. Può darsi. Ma l’imperfezione e l’incompiutezza non mi hanno mai messo paura. Certe volte bisogna lasciarsi andare, avere fiducia più nel contenuto che nella forma. È con questo spirito che ho fatto Diario napoletano, una specie di documentario. L’ho rivisto da poco. Non rammentavo la tua continua presenza in scena, direi l’ironia della tua presenza. Ci sono aspetti divertenti. Sì, qualcosa di beffardo, un disincanto in quel tuo andare in giro per Napoli con la piccola troupe a cui spieghi le vicende della tua città. È curioso.

Diciamo che è stato come un esercizio di alleggerimento. Prima non avevo mai fatto documentari. Non li amo. Sembrerà strano. Quando ho dei personaggi mi piace raccontarne la vita. Per me «Diario napoletano» non è esattamente un documentario. È diverso. Ci sono elementi di finzione. Le tue apparizioni tra la gente, quel passeggero sul treno: «Voi siete Rosi? Che state preparando? Un altro film su Napoli?». Tu che lo guardi un po’ storto. E quello lì, simpaticissimo, che ti ferma per strada e ti indica ai passanti: «Il dottor Rosi! Quello che ha fatto “L’oro di Napoli”». E tu: «Veramente l’ha fatto De Sica». «E vabbè, sempre Napoli è!» «Sempre Napoli è!» Bellissima. A volte questi lampi vengono fuori così, per caso. Però non capisco, questo è un film prodotto da Rai Tre e l’hanno passato una volta sola. Invece è ancora così attuale. Ha anticipato tanti discorsi degli ultimi vent’anni. Comincia coi ragazzini catturati dalla polizia nelle «vele». Io volevo girare lì a Scampia, ma un comitato di residenti mi negò il permesso. Le «vele» erano tre edifici, neanche brutti, ma tipici palazzoni da periferia dimenticata. Così girai dall’elicottero e alternai quelle immagini alle domande che il vero commissario di polizia fa ad alcuni ragazzini. Loro raccontano di drogarsi. Ma l’interno delle «vele» non c’è. E ho notato che nemmeno Gomorra insiste nel filmare l’interno delle «vele». Lì abitano anche persone perbene, tranquille. Ora credo che la situazione sia peggiorata. Mi accorgo che è sorprendente rivedere lavori di molti anni fa, da quando ho fatto Diario napoletano ne sono passati diciannove. Non mi aspettavo che gli argomenti fossero posti così chiaramente, così come si fa oggi, come ha fatto Saviano anni dopo. Non voglio dire che Saviano si sia ispirato a me, per carità. L’idea di realizzarlo come venne fuori? Il direttore di Rai Tre dell’epoca, Angelo Guglielmi, mi chiamò e mi disse: «Perché non fai un documentario per noi? Hai già un’idea?». Gli dissi: «Potrei raccontare ciò che oggi è d’interesse sociale, potrei raccontare Napoli». Scelsi uno stile che fosse anche abbastanza avvincente. Non c’è pesantezza.

Nemmeno nella prima parte, in cui intervengono architetti, professori. Parlano di temi importanti, che corrispondono alla verità. C’era una «vela» enorme, destinata a famiglie di impiegati. Ma ci finirono dentro anche i terremotati che vivevano nei container al porto, gente non abituata a una vita ordinata, disciplinata, come esige un’architettura moderna di quel tipo. E dunque lì si ritrovano famiglie che per esempio usavano il bidet per piantarci il basilico, oppure smontavano gli ascensori e andavano a venderseli. Insomma, hanno distrutto tutto ciò che potevano, al punto che la questione ha preso pure una piega demagogica. Per risolvere il problema, hanno deciso di abbattere la «vela» più grande, utilizzata nel film di Garrone. Mi chiedo perché. Restano in piedi le due più piccole, in cui risiedono famiglie più abituate a quel modo di vivere. E infatti lì ci vivono bene. Famiglie piccolo borghesi, un’umanità molto meno disperata di quella dei terremotati e dei baraccati. È chiaro che ci sia anche la responsabilità delle autorità comunali. Quella periferia di Napoli è malfamata da sempre. Siamo a Secondigliano, tu lì lo sviluppo devi controllarlo. Altrimenti la «vela» diventa per forza come un vicolo. Con il degrado, la logica e le regole del vicolo. Lo stesso vicolo da cui quelle famiglie volevano andar via. Per questo mi venne l’idea di prendere i ragazzini, i figli dei residenti delle «vele», che vivevano fuori, farli uscire da quel grosso edificio e mostrare ciò che sapevo della loro vita. Il poliziotto li interroga e dalle loro risposte viene fuori che sono corrieri della droga, già inseriti nella malavita. Più tardi vennero il libro bellissimo di Saviano e il film di Garrone, altrettanto bello e importante. All’epoca ti è molto dispiaciuto non poter girare all’interno delle «vele»? Certo! Se me ne avessero dato la possibilità, avrei fatto vedere come una collocazione moderna, razionale, perdeva tutta la sua logica, la sua funzionalità e un livello minimo di disciplina e igiene. Come ti comunicarono la decisione di non farti girare?

Mi dissero che bisognava parlare col comitato di quartiere. Io dissi: «Va bene, parliamo». Incontrai uno che si muoveva come un capo. Un tizio che mi disse semplicemente: «No». Non ci fu una vera discussione col comitato. Quest’uomo disse solo: «Abbiamo deciso che non è il caso». Tutta la sequenza iniziale coi ragazzi è drammatica, molto forte. Ma nel film c’è anche un clima contemplativo, ci sono diversi momenti in cui la troupe lavora e tu sei fermo, ti guardi intorno, fissi la città con l’attitudine dell’uomo razionale che osserva intorno e vede una realtà distante da quella che avrebbe voluto. Ah, certamente. È un misto di amore, di delusione, di preoccupazione e anche di dolore. Ne viene fuori uno stato d’animo diverso da ciò che in genere intendiamo con la parola malinconia. Qui la malinconia è frutto di un ragionamento. Sai, una città come Napoli, con la sua storia lunghissima, antichissima, con le varie culture che ha conosciuto e su cui si è formata, non è facile da raccontare. È interessante l’intervento di Bruno Zevi. Forse il più incisivo. Un grande urbanista e un grande architetto, lì tiene una vera lezione. L’università di Napoli aveva deciso di proiettare Le mani sulla città a trent’anni dalla sua uscita, in un periodo in cui si discuteva del nuovo piano regolatore. Pensai al mio documentario: «Prendo i rappresentanti delle attività culturali cittadine, legate ai problemi di Napoli, ai problemi sociali, e invito ognuno a tenere una breve lezione». Naturalmente, iniziare un film in tono didattico può essere pericoloso, può diventare noioso. Ma tutto venne bene, gli studenti parteciparono con grande entusiasmo. Tra loro si riconosce Mario Martone. Sì. E devo dire che tanti intervennero in maniera molto interessante. Si sente che è un film fatto d’istinto, con un’elaborazione dall’impatto facile.

Ebbi l’idea di estrarre dai miei film girati a Napoli alcune scene, nelle quali il pubblico potesse individuare le ragioni dei miei scopi. Infatti, da Lucky Luciano c’è l’arrivo degli americani, e il club nel quale familiarizzano con le ragazze napoletane. E c’è una sequenza con i bambini che pescano, mentre il suono drammatico della sirena annuncia l’arrivo degli aerei. Quella è girata proprio per Diario napoletano, interamente presa dal mio bagaglio personale di ricordi. Noi da ragazzini ci si incontrava al mare. Sì, è una sequenzina niente male. Questi ragazzi pescavano di frodo, fregavano i pescatori. Ed è alternata col repertorio dei bombardamenti. Durante le esplosioni tu indugi su una ragazzina che ha paura. Si avverte che è un tuo ricordo, qualcosa che ti è rimasto dentro. La ragazza chi era? Una delle ragazzette che avvicini quando esci dall’adolescenza e sei preso da quell’ineffabile curiosità delle prime infatuazioni. Mi pareva che trascurare questo aspetto togliesse umanità al racconto. E io l’umanità napoletana volevo che uscisse fuori. Ci hai messo pure Agostino ’o pazz’, che è un vero personaggio. «Dotto’» mi disse «se dovete fare qualche film, a disposizione.» Lo chiamavano tutti così perché correva come un pazzo sulla sua motocicletta. Attraversava i vicoli di Napoli sfrecciando ad alta velocità. E collaborava sempre con le produzioni cinematografiche. Che si servivano soprattutto di un personaggio di cui ti ho parlato, Mario Abussi, che collaborava con tutti i film «seri» girati a Napoli. Lo conoscevo da quando facevo l’aiuto regista. Ma per avvicinare un altro tipo di umanità, come la gente dei vicoli oggi, dovevi rivolgerti ad Agostino ’o pazz’, li manovrava lui. Anche le ville di Posillipo che si vedono fanno parte dei miei ricordi personali, della Napoli borghese. A un tratto mostro il Vesuvio. Volevo che si capisse che Napoli è in difficoltà. L’eruzione è un’altra delle minacce incombenti.

E infatti l’esperto spiega che nelle città vicine a un vulcano attivo la gente è più preparata a difendersi che non dove il vulcano è ritenuto definitivamente inattivo, perché si perdono le cognizioni elementari di predisposizione alla difesa. Sì, tutto è molto diverso dall’Etna, che è sempre attivo. Credo che l’ultima attività del Vesuvio risalga al 1944. L’esperto che ne parla è un vulcanologo dell’Osservatorio Vesuviano. Mi sembra che questo film sia stato trascurato. Non so perché. Ricordo che feci una prima visione alla Sala Umberto qui a Roma, che in quel periodo era nuovamente diventata cinema. Ora è tornata per l’ennesima volta teatro. C’è una sequenza che all’epoca fece discutere. Parlo della scena in cui tu sei in mezzo al gran caos di automobili che suonano il clacson nel traffico paralizzato di Napoli. E in quell’inferno ammetti placidamente: «Io però qua mi ci trovo bene». Il traffico in effetti era inaudito. Io cercai di cogliere i tanti aspetti contraddittori della vita napoletana. Napoli è considerata una città particolare. Lo è. C’è un modo di viverla che accomuna le persone colte ai popolani. Un modo di prendere la vita, non dico con leggerezza, ma con un senso di fatalità, con una mancanza di drammaticità. Invece la situazione è drammatica. Prendi per esempio la questione dello smaltimento dei rifiuti, io l’avevo affrontata. Vuol dire che certi guai esistevano, io li vedevo, poi sono proprio esplosi. Sei napoletano, avevi intuito i nodi che poi sarebbero arrivati al pettine. Ma di questo non mi vanto. È come il discorso sulla droga. Fino agli anni Settanta la trasportavano coi famosi motoscafi. Poi è diventato un problema più redditizio e grave, un vero traffico gestito dalla malavita. Così sono venuti fuori bande e boss che la controllano. Questo, devo dire, il libro di Roberto Saviano lo racconta in maniera perfetta. Ricordo che quando uscì il suo libro ci siamo sentiti al telefono, l’avevi appena letto. Mi dicesti: «Leggilo anche tu, è

potente». E aggiungesti: «Ma non se ne può fare un film. È troppo». Infatti, il film di Garrone è un po’ troppo, ma sa anche essere misurato. Saviano comunque è forte. Lo si è visto ultimamente nei suoi interventi televisivi. Si sente che il problema lo studia. E si sente che ha individuato i punti cardine della tragedia. Quando sei stato a Napoli l’ultima volta? Sei o sette mesi fa, una cosa del genere. C’è un posto dove non rinunci mai ad andare? O qualcuno che vedi sempre? A parte vedere mio fratello, col quale c’è un rapporto di amicizia, mi piace andare nei vicoli. Intorno a Santa Chiara, al Gesù Nuovo. È la Napoli rinascimentale, la Napoli che reca ancora le tracce della sua storia antica. Ricordi? Ti avevo parlato dell’idea di fare un film sulla vicenda del cardinale Ruffo. In un suo diario personale Valerio Zurlini parlava dei suoi film pensati e mai fatti. E diceva: «… allargo il discorso a tutti i film che non si sono fatti e mi dolgo che la stanchezza e il senso dell’inutilità mi spengano oggi l’odio verso coloro che li hanno impediti. Penso ai maestri e ai colleghi le cui opere forse più audaci, coraggiose e nuove dormono ancora in un cassetto, e forse il loro letargo sarà definitivo, quando la morte non lo ha già reso eterno». È vero. Un pensiero che condivido. Ai ragazzi che mi chiedono del nostro mestiere rispondo che per un regista la norma è pensare storie, elaborarle, sognarle, e infine lasciarle regolarmente in un cassetto. Solo di tanto in tanto, incidenti del tutto occasionali lo costringono a trasformare in film qualcuna di quelle idee. Sì, è così. Hai ragione. Fare il film è l’eccezione. E il caso talvolta ti porta a realizzare persino quello al quale tenevi di meno.

Qualcosa che ti illumina l’esistenza

Avevo letto il libro di Primo Levi, che è un capolavoro. Mi ero detto: «È un film che voglio fare». Ma non riuscivo a pensare a un attore che potesse rivestire i panni di Levi. Anni dopo vidi John Turturro. Pensai: «È l’attore che voglio». Mi è sembrato che fosse l’interprete ideale, con quella faccia smunta e la sua recitazione così profonda, partecipe. John fu entusiasta. Lo aspettai e lui aspettò me. Il mio non doveva essere il film sull’orrore dei campi di sterminio. Quello voleva farlo Kubrick, che pare avesse pensato anche a Se questo è un uomo, altro capolavoro di Primo Levi. Ma poi seppe che Spielberg stava girando Schindler’s List (1993) e rinunciò. Il mio film voleva unire la memoria dell’orrore alla speranza della vita e al superamento della tragedia. È questo che mi era piaciuto del libro. Però ci ho messo troppo tempo prima di poterlo fare. Succede. Dicevi che Kubrick avrebbe voluto fare «Se questo è un uomo». Tu a quel romanzo non avevi mai pensato? No. Però me lo propose la Bbc. Avevano saputo che volevo fare La tregua e mandarono a Roma due loro produttrici per convincermi a realizzare entrambi i romanzi per la tv. Risposi che m’interessava farlo per il cinema. Abbiamo discusso per un po’, poi lasciammo perdere. Così il film me lo sono tenuto dentro e me lo sono portato dietro per la bellezza di quasi dieci anni. Forse la parte più difficile di ogni film è prima di farlo. Senza dubbio. Hai detto una verità assoluta. Il difficile viene prima. Ma con La tregua ho superato tutto perché avevo troppa voglia di farlo. Quando hai incontrato per la prima volta John Turturro?

In occasione della proiezione a Cannes di Barton Fink dei fratelli Coen, che tra l’altro vinse la Palma d’oro nel 1991. Il film mi piacque moltissimo. Turturro ne era il protagonista. A Cannes lo incontrai personalmente. Allora avevo un rapporto abbastanza stretto con Martin Scorsese, che mi avvicinò a Turturro. Tra l’altro, poi fu proprio Martin a presentare La tregua. Il suo nome apriva i titoli di testa. Quel film volevo farlo a tutti i costi. E guarda che nessuno voleva finanziarlo, nessuno. Forse perché la materia del racconto non era solo l’orrore dell’Olocausto. C’è un’intervista che Primo Levi rilasciò a Philip Roth due mesi prima della morte. È fondamentale per capire cosa io volessi dal film. Roth dice a Levi: «Ciò che sorprende ne La tregua – che avrebbe potuto, e comprensibilmente, essere stata improntata al lutto, a un’inconsolabile disperazione – è l’esuberanza. La tua riconciliazione con la vita si compie in un mondo che a tratti pareva simile al caos primordiale. Eppure tu vi appari straordinariamente interessato a tutto, pronto a ricavare da tutto divertimento e cultura al punto che mi sono domandato se nonostante la fame, il freddo e le ansie, persino nonostante i ricordi, davvero tu abbia mai vissuto mesi migliori di quelli che definisci una parentesi di disponibilità illimitata, un provvidenziale ma irripetibile regalo del destino». Non è il film? Sì, è lo spirito del tuo film. Nella stessa intervista, Roth dice ancora a Levi: «Tu sembri una persona la cui esigenza più profonda è innanzi tutto di aver radici – nella professione, nella razza, nel luogo, nella lingua – eppure, quando ti sei trovato più solo e sradicato di quanto si possa essere hai considerato quella condizione un regalo». Io spero di aver saputo dare quel clima al film. Turturro è bravissimo, anche per la sua presenza fisica. Recita con una partecipazione totale, sempre controllata, sempre consapevole della difficoltà di rendere il personaggio. Peppuccio, stiamo parlando del mio film più difficile da mettere in piedi. Ma alla fine il risultato produttivo è stato esemplare, in quell’epoca nessun film ebbe una fisionomia

così europea. Sul set si parlavano tre lingue, italiano, francese e inglese, anche tra i tecnici erano rappresentate le varie contribuzioni produttive. Poi io ho girato, come mia abitudine, nei luoghi degli avvenimenti, in Ucraina e nell’ex Polonia, dove andavo con Andrea Crisanti, il mio fedele scenografo. Ho avuto anche attori russi. Fu davvero un luogo d’incontro del cinema europeo. Come avevi fatto a individuare i luoghi? Soprattutto attraverso il libro. Ma anche grazie alle indicazioni che venivano fuori dalla rievocazione che provocavo su alcuni personaggi testimoni delle vicende narrate da Primo Levi. Com’è che Scorsese presentò il tuo film? Te l’ho detto, siamo amici. Quando finii il film, Pescarolo chiese la disponibilità di Martin, che lo vide e ne rimase favorevolmente colpito. Rispose: «Certo, lo presento volentieri». Per me è stato un gesto bellissimo. Torniamo al libro. Dopo averlo letto quale fu il tuo primo passo? Cercai immediatamente un contatto con Primo Levi. Non lo conoscevo, non l’avevo mai incontrato. Mi procurai il suo numero telefonico e lo chiamai. Gli dissi: «Voglio fare questo film». Parlammo quasi un’ora. Lui mi rispose: «Lei porta un po’ di luce in un momento molto buio della mia esistenza». Mi stupì molto che sentisse il bisogno di farmi accedere a una sfera tanto privata. Tutto mi fu chiaro in capo a una settimana quando lessi sui giornali che si era tolto la vita. Precipitò nella tromba delle scale di casa sua. Lasciai perdere tutto. Dissi a me stesso: «Levi è morto e io mi metto a fare il film?». Ci tornai sopra anni dopo, quando m’innamorai dell’idea che il volto di Levi sullo schermo dovesse essere quello di Turturro. Nemmeno le grandi difficoltà produttive mi scoraggiarono. Dei diritti del libro ne riparlai alla moglie che accettò di cedermeli. Ma credimi, quel film è rimasto bloccato troppo a lungo. Un giorno incontrai per strada Pupi Avati: «Ma com’è possibile che uno come te resti appeso a un film che non si

riesce a fare?». In effetti sono stato dietro al progetto per troppi anni. Tanti. La tregua è del ’97, Levi è morto nell’87. E tu non lo incontrasti mai. Solo una telefonata. Era stato cordiale, più che cordiale. Mi aveva voluto manifestare la sua stima, la stima per imiei film, la sua fiducia nel modo in cui gli parlavo del suo libro. E poi quella notizia… «Primo Levi è morto, si è suicidato.» Sconvolgente. Anche se qualcuno diceva: «Magari è caduto dalle scale». Purtroppo pare non sia andata così. In seguito ho conosciuto la sorella, Anna Maria Levi, donna particolare, intelligente, sensibilissima. Il marito è uno sceneggiatore americano, vide il film a Cinecittà e disse che gli piaceva molto. Ricordo che al telefono con Primo Levi citai il film Charlot soldato del 1918. Lì si vedono le trincee e la guerra in maniera realistica, con tutta la drammaticità delle immagini. Ma improvvisamente entra in campo Charlot. Non Charlie Chaplin, proprio Charlot. Lui rise molto: «Ha ragione» mi disse, «era questo che volevo dire. La vita è fatta di momenti tragici, di fatti spaventosi, ma puoi girare l’angolo e trovare qualcosa che ti illumina l’esistenza». Per tutto il film ho pensato a quelle parole. E sono contento del risultato. Ti confesso che quella telefonata per me fu importante. È come se vi foste comunicati il Dna del film… È vero. In fondo i film sull’Olocausto ruotano tutti sulla visualizzazione raccapricciante dei metodi di sterminio perpetrati nei lager. Io non ho voluto girare sequenze di quel genere. Ho preferito evocarle attraverso la memoria dei personaggi. Ti dico la verità, la maggior parte dei film che ho visto sulla Shoah, anche bellissimi, diventano falsi appena la macchina da presa entra nei campi di concentramento. Per quanto abile sia la messa in scena, i corpi degli attori truccati non riusciranno mai a eguagliare la potenza traumatica delle immagini di repertorio che ciascuno di noi conosce. Non volevo tedeschi che bastonano a sangue, latrati di cani, scariche di mitra, non volevo figure umane che si sforzano di sembrare gli scheletri prigionieri di Dachau o Auschwitz. L’orrore non è quello che vedi, ma ciò che racconti. Mi

bastava mostrare i bambini mandati ai forni, lì c’è tutta la crudeltà dello sterminio nazista. Quel dramma c’è nel film, ma c’è anche una vibrazione che viene dallo spirito della commedia all’italiana. Perfino humour, attraverso personaggi che tornavano alla vita, che assaporavano la gioia di riscoprire il mondo. La figura del greco, interpretato da Rade Šerbedžija, fa anche ridere. Levi scrisse: «Avevamo dimenticato quanto era bello il mondo». Il suo romanzo è tutto impostato sull’atrocità della Shoah, ma anche sul sorriso di una donna che fa rivivere il senso dell’amore. Il mio era certamente un film complesso, discutibile come lo sono tutti i film. Ancora oggi non sappiamo neanche spiegarci come il popolo tedesco sia stato coinvolto nell’orrore fino a quel punto. Ma nella nostra esistenza non si spegne mai il bisogno prepotente di credere nella vita. Malgrado tutto. Malgrado i momenti spaventosi in cui il dolore non può avere nessuna giustificazione. Benigni ha fatto bene a ricordare col suo film che spesso sa essere dura, durissima, ma che la vita è bella. Qualcuno non capì questo filtro del ritorno alla vita, il desiderio di superare l’orrore. No, qualcuno non capì. Giudicò ingiusto fare un film su quei tragici avvenimenti senza temere un’eco di commedia all’italiana. Ho visto alcuni anni fa un film di Radu Mihaileanu, Train de vie (1998), che ho trovato bellissimo e che mi dava ragione. Lì addirittura si comincia a raccontare la tragedia ebraica in chiave comica. A me, il tuo, sembrava un approccio originale al tema. Lo trovavo anche coraggioso. Inventai la figura dell’ufficiale nazista prigioniero. A guerra finita, il treno che riporta a casa i nostri personaggi si ferma nella stazione di Monaco, scendono tutti, anche Levi. Poco più in là vediamo l’ufficiale che dà ordini ad alcuni soldati tedeschi prigionieri come lui, costretti a lavori pesanti nella stazione. Levi lo nota, si apre il cappotto e gli mostra la stella di David. Sentivo la necessità di sottolineare un sentimento allora non troppo frequente, il desiderio di chiedere perdono. E

feci inginocchiare l’ufficiale, in un gesto che era un’esplicita richiesta di perdono. Senza una parola. Una scena che ricordo, mi toccò molto. Ma tu sai che quella scena, alla conferenza stampa di Cannes, mi procurò l’accusa di essere stato tenero con i nazisti, di averli giustificati in qualche maniera? Incredibile. Forse perché avevi dato a quell’ufficiale un’umanità che non doveva avere. Esatto. E questa accusa mi turbò tantissimo. Ti rendi conto? Accusato di sostegno al nazismo! Era solo una richiesta di perdono, che per giunta non ottiene alcuna risposta. Turturro e gli altri non dicono niente, guardano e basta. A me sembrava che domandare perdono fosse un sentimento importante. Volevo che si leggesse la vittoria dell’uomo anche su assurdità come quella. E la faccia di Turturro mi pareva perfetta per dare equilibrio al mio protagonista. Ricostruire la vita solamente sull’odio, quell’odio che i nazisti avevano praticato, sarebbe stato un grande errore, etico e politico. Un paese importante come la Germania, che si era fatto coinvolgere da un’ideologia ripugnante, doveva comunque rinascere, e il primo passo non poteva che essere la ricerca del perdono. Invece un giornalista mi disse: «È come se lei spezzasse una lancia a favore dei nazisti». «No» risposi, «lei sta dicendo una sciocchezza!» E ripeto, io mostravo un uomo che chiede perdono, non un uomo che lo ottiene. Carlo Levi diceva che le parole sono pietre. Ma le immagini talvolta hanno più forza. E possono provocare incomprensioni che pesano come macigni. Posso dirti che nella stessa conferenza stampa di Cannes, un altro mi ha dato dello stalinista, diceva che il film fosse stalinista perché c’erano quelli dell’Armata Rossa nel ruolo di liberatori. Ma è la storia, vogliamo cambiarla? Ma Auschwitz è stata liberata dai russi, non dagli americani. Comunque la sequenza inginocchia è bellissima.

dell’ufficiale

tedesco

che

si

Non l’hanno capita. Non hanno capito niente. Era un omaggio a Willy Brandt. È una sequenza altissima. Ed è molto efficace l’attacco, dall’immagine del nazista in ginocchio a quella di Primo Levi, che finalmente arriva a casa sua. L’incontro tra Levi e la sorella l’ho realizzato volutamente lungo le scale di casa, per evocare il suicidio di lui. L’ascensore è proprio nella tromba delle scale. Invece la storia della giacca è l’unica cosa non esatta, perché la giacca che Primo Levi indossava nel campo di concentramento non riuscì a portarla con sé. Cioè, Levi/Turturro che si porta sempre dietro la giacca con su scritto il suo codice… È un’idea mia. Il cinematografo è il cinematografo. Torniamo al momento in cui avevi ormai trovato l’attore adatto. Cominciai a cercare il produttore. Non fu facile. Prima Cinecittà, poi l’Istituto Luce, poi la Bbc, poi voleva farlo Claude Berri. Era molto interessato, ma ebbe degli incidenti produttivi che gli impedirono di continuare. A Cinecittà erano dubbiosi, dicevano che La tregua non aveva un plot. «Ma non tutti i film devono avere un plot» replicavo io. Allora passai all’Istituto Luce dove trovai all’inizio una certa adesione: «Interessante, come no?! È un grande scrittore, è un grande periodo!». Ma erano parole, non se ne fece nulla. Contemporaneamente facevo qualche tentativo alla Rai. All’epoca significava fare molte anticamere, perdersi nei corridoi, parlare con funzionari che spesso non avevano il potere di assumere decisioni. Insomma, tale e quale a oggi. Gli anni scorrevano come acqua fresca. Finalmente trovai un produttore deciso a fare il film, Leo Pescarolo. Devo dire che fu bravissimo a gestire la complessa combinazione produttiva, organizzò tutto molto bene, l’unico dettaglio sbagliato fu il preventivo del film. Lo presentò e non si era accorto che mancava un milione di dollari. L’ombra di quel milione ce la siamo trascinata dietro per tanto tempo. Io credo sul serio che

tante difficoltà fossero causate dal modo non convenzionale in cui volevo trattare la materia. E anche la sceneggiatura ha avuto una storia lunga e complessa. All’epoca Tonino Guerra non stava più a Roma, era tornato in campagna, a Santarcangelo di Romagna o a Pennabilli, non ricordo, ma non era facile conciliare la disponibilità di Tonino. Gli parlai del progetto, a lui piaceva. Cominciammo a parlare come sempre, anche con lunghe telefonate. Ma poi coinvolsi Stefano Rulli e Sandro Petraglia. Fu un suggerimento di Pescarolo. E devo ammettere che fu un ottimo consiglio. Come ti sei trovato con due sceneggiatori con i quali non avevi mai lavorato? Benissimo. Portai a loro due la sceneggiatura abbozzata da me, che era già a buon punto. Su quella intervennero Rulli e Petraglia. Tonino non la firmò, ovviamente. Allora si riteneva che i film sull’Olocausto fossero un filone un po’ logoro. «Schindler’s List» dimostrò nel 1993 che era invece un tema attualissimo e che il pubblico non aveva esaurito il proprio interesse ad affrontarlo. Tonino Delli Colli, al quale non piacevano i film zeppi di effetti speciali, disse: «Per vincere l’Oscar, Spielberg ha dovuto fare un film normale». Io ho pagato per avere messo gli occhi su un progetto attuale, ma che al mercato sembrava fuori moda. Dopo Schindler’s List, ovviamente, quando tutti si resero conto che il tema era attualissimo, produttori e distributori mi dicevano: «Ormai l’ha già fatto Spielberg». Tre anni dopo la telefonata a Primo Levi, esce nelle sale «Dimenticare Palermo». Passano ancora due anni e realizzi «Diario napoletano». Nei cinque anni successivi prepari e realizzi il film che Levi non vedrà mai. Diciamo che preproduzione e riprese hanno richiesto due anni. Ne restano all’incirca tre in cui hai combattuto per trovare un produttore. Leo Pescarolo ebbe difficoltà con la Rai, che non voleva mettere tutti i soldi necessari, così ha dovuto cercarli fuori. Si mise a caccia in Inghilterra, Francia, Germania e Svizzera. Io

intanto restavo in contatto con Turturro, lui mi disse: «Non preoccuparti, ti aspetto». Infatti ha aspettato davvero. Da parte sua Pescarolo era entusiasta del film. E sgobbò per farlo. Ho un bel ricordo di lui. Ha chiuso la carriera in modo strano. Ha improvvisamente smesso col cinema e se n’è andato in Marocco. Si diceva che avesse aperto un ristorante lì. E cucinava, si divertiva. Era veramente bravissimo in cucina. Dopodiché si ammalò e morì. Non so neanche come, ma mi addolorò molto. Ricordo che la sera della prima, a Roma, c’era un clima di grande eccitazione. Si restò a parlare. A differenza di quanto avevano sostenuto quelli di Cinecittà, a me sembrò miracoloso il modo in cui avevi disciplinato il racconto in una struttura narrativa avvincente, proprio come se un plot tradizionale ci fosse. Devo confessarti che è un film al quale sono legato molto. Aveva una grande forza spettacolare, in un momento in cui il cinema italiano stava piegandosi definitivamente nell’autocondanna minimalista. Sembrava che tu volessi dire: «Attenti, il minimalismo non può essere l’unico destino». Era proprio quello che pensavo. Ormai quella sembrava la china inevitabile del nostro cinema. In questo senso La tregua andava controcorrente. Quel film ebbe pure un destino curioso. Vinse il David di Donatello come miglior film, miglior regia, miglior produzione, miglior montaggio. Ma a Cannes, forse, ci si aspettava qualcosa in più. Però il film piacque. Qualcuno criticò l’idea di far fare a John Turturro l’imitazione della gallina: «Primo Levi che fa la gallina?». Ma la scena rappresentava il momento in cui tutti sono felici, tornano a ridere, tornano alla vita, tornano ad amare. Lui non trova le parole giuste per chiedere ad alcuni contadini dell’Est se hanno una gallina, e la descrive imitandola. In America ho seguito il film in tre o quattro presentazioni, ero curioso di capire come sarebbe stato accolto lì. E l’hanno accolto molto bene. Osservavo la gente che piangeva, che applaudiva, che era entusiasta. Insomma, il film andò bene. Ma soprattutto, quando uscì in Germania, io ci sono andato. Volevo vedere.

Lì come reagirono? Silenzio su certi aspetti, adesione su altri. Sì. Dappertutto, la discussione più viva fu scatenata da quella scena dell’ufficiale tedesco che si inginocchia. I tedeschi non la criticarono. La verità è che allora, in Germania, su questi film non ci si esprimeva. Il tema restava per loro scomodo, scabroso. Per te non era certo la prima volta. Hai sempre fatto film scomodi. Uno comodo non credo che ti piaccia farlo. Sì, condivido. C’è grande scomodità nella mia filmografia. Hai ragione quando dici che la faccia di Turturro era perfetta. Chi lo doppiò? Roberto Pedicini, un doppiatore di classe. Turturro in breve tempo aveva letto tutti i libri di Primo Levi. Dimagrì dieci chili per fare il film. E sul braccio portava il numero 174517, esattamente le stesse cifre con le quali nel lager avevano marchiato Primo Levi. E poi John aveva una spinta morale che lo animava. La stessa che animava me, Pescarolo e Guido De Laurentiis, l’organizzatore del film. Ma le difficoltà furono enormi. Ti basti sapere che dovemmo ricostruire tutto. Andrea Crisanti fu bravo davvero, rifece Auschwitz in modo straordinario. Io avevo bisogno di ambienti di grandi dimensioni e lui trasformò dei depositi agricoli e delle stalle, in cui c’erano centinaia di capi di bestiame. Tolsero tutte le bestie, ripulirono gli ambienti e li trasformarono nelle camerate dei campi di concentramento. Un lavoro enorme. Tutto questo accadeva quando non eravamo affatto sicuri che il film si facesse. Nella località in cui avevamo ricostruito il campo di sterminio, la neve era alta mezzo metro. Quando finì la preparazione e finalmente eravamo pronti a girare, la neve era scomparsa. Dissi: «E ora come faccio?». Crisanti e Guido De Laurentiis ebbero un’idea. Fecero venire due autotreni pieni di una lanetta bianca, tutta la neve che vedi nel film è quella lanetta bianca, sulla quale i cavalli avanzavano perfettamente. Tuttavia, per la questione della neve, non potevo fare i controcampi: non c’era abbastanza lanetta. Ho

girato tutto da una parte. Ma è venuto bene. Sai cosa penso? L’inizio con i sovietici a cavallo che abbattono i cancelli del lager è buono. Poi la componente commedia forse arriva in modo troppo brusco. Lo dici come se ammettessi un errore grave. Lo è. Quel clima spensierato, un po’ ironico, doveva insinuarsi più lentamente. Ma la tua idea di intessere il racconto drammatico con elementi di allegria non è affatto sbagliata. Piuttosto, il gruppo degli attori italiani è molto caratterizzato, il romano, il napoletano, e così via. Turturro fa l’italiano, e forse sembra lontano da loro. Era inevitabile. Lui è Primo Levi, il testimone che ci comunica i fatti attraverso la memoria. È il narratore che ricorda. Sfoglio il diario che tenevi durante le riprese, leggo una tua considerazione sul film: «Non c’è una storia. Ci sono comportamenti, reazioni, sogni, speranze, ricordi. Tutto è affidato ad ambientazioni, climi, facce. Questa è la difficoltà. Ma io vado avanti come spinto da qualcosa di cui non afferro fino in fondo la ragione: l’ambizione di misurarsi con la difficoltà. Una sorta di promessa fatta a Levi, un debito verso un’umanità umiliata. Un monito a futura memoria, una ribellione al fatto che si possa dimenticare l’inaccettabile. La partecipazione alla felicità di riscoprire la vita nelle sue gioie più semplici, vere ed eterne, e l’eterno terrore che tutto ricominci da capo… Guerra è sempre?». Be’, scrivevo abbastanza bene. Anche se in quel diario riponevo tutta la mia sofferenza per una lavorazione davvero dolorosa. Ricordo che a causa della mia schiena ho diretto per alcuni giorni dalla sedia a rotelle. Ricordo le comparse alle quali la produzione dava un compenso maggiore se accettavano di farsi rasare a zero per le scene nei campi di concentramento. Quelli che accettavano, il giorno dopo si portavano dietro i familiari, pronti anch’essi a farsi rapare. Ricordo Turturro che, durante i giorni in cui giravamo nel

lager, non mangiava mai. Una di quelle volte, la troupe si lasciò andare a un momento di eccessiva allegria e lui, concentrato e stremato com’era, ne rimase turbato. Prese una foto di repertorio che mostrava i veri corpi umani trovati nei campi nazisti, l’attaccò davanti all’obiettivo della macchina da presa, la panoramicò verso la troupe e disse: «Noi stiamo facendo questo!». E tutti si zittirono. Leggo un altro passo del tuo diario: «C’è di che essere logori, stufi, stanchi. L’unica voglia che avrei stamattina è di prendere il treno, andarmene a Napoli, farmi una pizza e un caffè a Mergellina, e tornare stasera a Roma, a casa. Perché non lo faccio? Il senso del dovere, del tenere duro, specie quando le cose si fanno più difficili. Il complesso del “buon soldato”». Me la ricordo quella mattina. Ricordo anche Giancarla che al telefono mi ripeteva: «Se riuscirai a tirar fuori le ossa da questo film…». Aveva ragione. Ma ci sono riuscito. Quale fu il momento più complicato della realizzazione? Non sembri una sbruffonata, ma poi le situazioni che apparivano più complicate, per me diventavano le più semplici. Prendi il finale, quando si vedono i camion e gli autobus che riportano i profughi ai loro luoghi di provenienza, il greco si unisce al gruppo e dice: «Il mio paese fa parte dell’Onu, il tuo no». Quella è una sequenza complessa, girata in un solo giorno e in condizioni difficili. Fu un film faticosissimo. Siamo passati da una parte all’altra dell’Ucraina, da 30° a -30°. Soffrimmo il freddo in modo terribile, anche perché alloggiavamo in alberghi non attrezzati per accogliere una troupe cinematografica. Ricordo che spesso fui costretto a fare la doccia con l’acqua gelida, quella calda non c’era. È stato difficile anche organizzare la scena col treno che, alla fine, riporta tutti in Italia. Io volevo una locomotiva dell’epoca e questo ci costò attese, perdite di tempo, burocrazia, difficoltà. In più, durante la lavorazione Pasqualino De Santis non stava bene, era affaticato e distante. Non era il solito Pasqualino. Una sera andammo insieme al ristorante, a un certo punto lui si mise a ballare. La sua allegria mi rese

felice. Morì la mattina dopo. Il direttore della produzione, Guido De Laurentiis, mia figlia Carolina, che faceva l’assistente, e Marco Pontecorvo andarono nella sua stanza d’albergo e lo trovarono senza vita. La morte spesso sembra proprio incredibile, perché interviene così… Non ci capisci niente. Pietro Notarianni mi raccontò di quel momento doloroso. Oltretutto il feretro rimase con noi a lungo, in albergo. A causa di assurdi problemi burocratici non si riusciva a organizzarne il trasferimento dall’Ucraina. Fermammo il lavoro alcuni giorni, poi decisi che il film lo avrebbe finito Marco Pontecorvo. Un giovane ha bisogno anche di occasioni, no? E poi era l’allievo migliore di Pasqualino. Ricominciammo dopo nemmeno una settimana. Mi piacerebbe rivederlo La tregua. Forse sono rimasto prigioniero della scrittura di Levi. Ero molto preoccupato di rispettare l’autore e la sua impostazione. Il bolscevico che nel lager imita Fred Astaire e balla «Cheek to Cheek» circondato dalla folla dei deportati, è forte. E anche lo sviluppo della scena, quando prigionieri e prigioniere cominciano a ballare fra di loro. È bellissimo. Sì, è bello. A me pare il primo momento davvero commovente del film. È la sequenza più chiara rispetto a ciò che volevi ottenere. Il senso del ritorno, il superamento della tragedia. Una scena riuscita. Dal ballo in avanti, il film non si ferma più. Grazie anche al cast di attori. Erano un esercito. Ricordo un’attrice russa di teatro bravissima, Maryna Gerasymenko. Quando ha visto che la sua parte era piccola si è addirittura messa a piangere per la delusione. Forse Massimo Ghini non dovevo tenerlo così leggero. Rade Šerbedžija mi piaceva ma gli ho concesso qualche scena di troppo. Mi fai pensare a un consiglio che mi diede Florestano Vancini: «Se un’inquadratura ti è venuta molto bene, tienila corta. Se invece è venuta male, tienila lunga». «E perché?» gli chiesi.

«Perché se quella bella la tieni lunga, si capisce che ti piace troppo e risulta meno efficace. Se quella venuta male la tieni corta, tutti capiscono che ti è venuta male. Se la tieni lunga invece fa stile.» Lo terrò presente. Ma io penso ancora che nel film la contaminazione con la commedia all’italiana funzionasse. L’ho tenuta in tutto il film. Del resto, c’è anche nel libro di Levi. A un certo punto Turturro bacia una donna. Sai, quel bacio mi è sembrato corto, quasi incompiuto, l’hai troncato troppo bruscamente. L’ho fatto così ricordandomi di una piccola frase di Primo Levi, che diceva: «Occasioni non colte». Che bel mestiere che è il nostro, perché con quattro immagini tu dici tutto, sentimenti, storia, passioni, dolori, tutto. Però ho il dubbio che la gente, in passato, si commuovesse di fronte a temi come questo, e che invece adesso sia più fredda, non gliene importi granché. Quindi una storia dev’essere più decisa e precisa, senza insistenze e perdite di tempo. Tu guardi il tuo film con occhio troppo critico. È di quindici anni fa. In quanto al ritmo del racconto cinematografico il gusto del pubblico è molto cambiato. Forse un solo flashback sul campo di concentramento è poco. Non evoca abbastanza gli orrori del lager. Lo so. Temevo troppo di mostrare il già visto. Forse è stata un’ambizione eccessiva. Quasi mi verrebbe voglia di andare in moviola e rimetterci le mani. Ti capisco. Tutti i registi del mondo vorrebbero rimettere le mani ai propri film. Toglierei qualcosa nella prima parte. Bisognava tagliare una ventina di minuti. Per me venti sono troppi. Direi sette, otto al massimo, nei punti giusti. E che faccio? Mi presento alla Warner quindici anni dopo e dico: «Fatemi rimontare il film?».

Magari ti dicono di sì… Comunque i film stanno là. Chi vuole criticarli, lo faccia, chi vuole elogiarli, pure… Poi, come diceva Federico, esistono solo i film che si fanno. Quelli che non si fanno non esistono. «La tregua» c’è. Esattamente. Tutti ignoriamo quei film preparati da registi famosi che non sono mai stati fatti. Kubrick ha preparato per vent’anni il film su Napoleone, aveva scelto anche l’attore, Jack Nicholson. Poi non l’ha fatto. Ma come fai a spiegare cos’è il cinematografo? Come spieghi cos’è una sceneggiatura, come si scrive e quali sono i diversi apporti dei collaboratori? Per un verso è giusto forse che la gente non lo sappia. Eduardo De Filippo sosteneva: «La crisi del cinema è iniziata il giorno in cui gli spettatori hanno cominciato a distinguere un’inquadratura vera da un fotomontaggio. Quando hanno capito i trucchi è iniziata la degenerazione». Forse aveva ragione. Oggi tutti credono di sapere cos’è il cinema. Ma non è vero. Nonostante la vasta letteratura che si è accumulata in un secolo, la gente ignora l’essenza del cinema, il processo di realizzazione dei film. E noi non siamo in grado di spiegarlo veramente. Una volta ne parlai con Bertolucci, mi disse: «Forse non sappiamo spiegarlo agli altri perché non l’abbiamo capito neanche noi». Il cinematografo ha dentro troppi misteri. Per tutti. Con «La tregua» è la terza volta nella tua carriera che non lavori con Piero Piccioni. Stavolta avevo bisogno di una musica epica, che ricordasse le melodie dell’Europa orientale. Si era proposto Luis Bacalov, che poi fece un lavoro straordinario. Ma tutto ciò avvenne in totale amicizia con Piero. È il tuo unico film in cui hai messo in testa solo il titolo del film. Tutti gli altri crediti li hai messi in coda. Una scelta stilistica che mi aveva conquistato.

Sì, ma sono molto incerto sul vantaggio che può procurare mettere i titoli di un film alla fine invece che all’inizio. Vorrei parlarne. Perché nei miei ultimi tre film li ho sempre messi in coda, come hai fatto tu con «La tregua». E adesso pensi che non sia giusto? Non lo so. È più giusto in coda, perché così non turbano l’incipit del film… Il guaio è che la gente non aspetta di leggerli, si alzano e se ne vanno. Quindi nessuno sa chi ha fatto il film. Quindi tu dici che forse è meglio la posizione tradizionale, in testa… Non ne sono più sicuro. Di certo non puoi mettere in testa tutti quei chilometri di titoli, dal regista all’ultimo autista. Bisogna metterli alla fine, però bisognerebbe obbligare la gente a leggerli… Ma come fai a obbligare la gente… Quando hai fatto «La tregua» tu avevi settantacinque anni. In genere un regista, a una certa età, cerca di fare dei film meno faticosi. Un po’ minimalisti, come si suole dire. Mi colpisce la maestosità de «La tregua». Cioè, tu a quell’età, hai fatto un film molto complesso. Mentre lo rivedevo, mi chiedevo chi altri, a settantacinque anni, sia riuscito a realizzare un film così imponente. Nemmeno Ford, dici tu? No, non mi pare. L’ultimo film di John Ford è «Missione in Manciuria» del ’66. Lui era nato nel 1895. Come mio padre, che era del 1896. Quindi, nel 1966, Ford ha settantuno anni. Non ho mai visto «Missione in Manciuria», probabilmente sarà stato un film d’azione, ma non so quanto impegnativo. Anche gli ultimi film di Kurosawa erano più semplici dei suoi tradizionali. Forse «La voce della luna», l’ultimo film di Federico, era abbastanza laborioso. Povero Federico. È morto presto, aveva settantaquattro anni. E Luchino settanta, la stessa età in cui se n’è andato

Kubrick. A ogni modo al momento dell’uscita de «La tregua», avevi già pensato al progetto successivo? Sì, ci avevo pensato. Ma ho obbedito alla voglia di fare di nuovo il teatro. Fu Luca De Filippo a propormi la regia di Napoli milionaria!. Lì per lì rimasi un po’ perplesso. Ma il pensiero che lui affrontasse finalmente uno dei grandi personaggi interpretati da suo padre, cominciò ad attrarmi. Quando poi mi disse che il debutto sarebbe stato al San Carlo di Napoli, lo stesso in cui aveva debuttato Napoli milionaria! con Eduardo nel 1945, allora presi il treno e, senza dire niente a nessuno, mi recai a Napoli, al San Carlo, dove ho molte conoscenze. Era mattina, entrai nel teatro vuoto, chiesi che accendessero tutte le luci. Tutte. Anche quelle che di norma vengono tenute spente durante gli intervalli. Piano piano, intorno a me, il teatro prese vita come non lo vedevo da troppi anni. Fu un’emozione incontenibile. E mi buttai su Napoli milionaria!. Ma che ti frullava in testa? Tra l’uscita de «La tregua» e «Napoli milionaria!» passa un po’ di tempo. Era il periodo in cui pensavo al film sul cardinale Ruffo. Poi sai, è cominciata una fase molto difficile della mia esistenza, mia moglie ha cominciato a stare male più o meno in quegli anni. Quindi non volevo allontanarmi troppo da Roma. Decisi di fare la regia di tre commedie di Eduardo. Mi hanno dato grandi soddisfazioni, sono stati dei successi. Ma per me il cinema è un’altra cosa. In effetti di regie teatrali nella mia vita ne ho fatte quattro. Non solo Napoli milionaria!, Le voci di dentro e Filumena Marturano. La quarta è in assoluto la prima che ho fatto, nel 1962. Una commedia di Peppino Patroni Griffi dal titolo In memoria di una signora amica. La signora alla qualle si era ispirata Peppino era Clorinda Ghirelli, la mamma del nostro amico carissimo Antonio. La signora Ghirelli era un personaggio fantastico, grande parlatrice, grande fumatrice, non sempre con buona disponibilità economica. Era, come ti ho già detto, amica di mia madre. La vedeva spesso nella nostra casa di via San

Pasquale a Chiaia. Le sue chiacchierate erano lunghe e spiritose. Amava trascinare me, Peppino e gli altri amici, nel suo giro di non sempre innocenti pettegolezzi e di annotazioni sempre colte, intelligenti e umoristiche, tra una mano di poker e l’altra. La commedia era molto bella, quattro amiche sedute a un tavolo a giocare, a chiacchierare e a spettegolare su tutto e tutti. E due ragazzi, uno che rappresentava il figlio e un altro, amico inseparabile del figlio, come eravamo noi allora tra amici. I figli erano interpretati da Giancarlo Giannini, appena uscito dall’Accademia, e Pasquale Squitieri, che scritturai perché mi piacque prenderlo, come si diceva, «dalla vita». Recitò benissimo, fu bravo. Era l’epoca de Le mani sulla città, primi anni Sessanta. Andò in scena al Festival del Teatro di Venezia. Con molto successo, c’erano dentro pure Pupella Maggio e Lilla Brignone. Se ne fece un’edizione anche per la televisione, io ero impegnato e se ne occupò Mario Ferrero, che era bravo in televisione, ma il teatro è un’altra cosa. La tv banalizza tutto. Anche se la serie su Montalbano è molto interessante. Quel regista, Sironi, è bravo. L’ambientazione è bella. Si vede una Sicilia curiosa, suggestiva. Ma perché dopo «La tregua» hai voluto fare solo teatro? Non volevo andare troppo in giro per il mondo. Avevo bisogno di starmene a Roma, accanto a Giancarla. In quello stesso periodo ho cominciato a non guidare più l’auto. Sono quindici anni ormai, ma devo dire che non mi manca. Ho il mio autista che mi accompagna sempre. Si chiama Alessio ed è delizioso. Ricordo che un paio di volte Giancarla si alzò all’alba – lei che tendeva a dormire fino a tardi – per andare con Alessio da Roma a Milano, in giornata. Cioè arrivava a Milano, faceva quello che doveva fare e ritornava a casa subito dopo, in auto. Che personaggio che era. Mettendo a posto delle cose ho trovato dei quadri di navi, soggetti marinari, cose bellissime, anche pregevoli che lei aveva comprato senza dirmi nulla. Forse, chi lo sa, non pensava ancora di rinunciare alla casetta di Fregene. Poi ci ha rinunciato, giustamente. Anche la casa in Sardegna l’abbiamo venduta. Tutto era cominciato con la sua paura per i piccioni. Curioso. Quando li

vedeva posarsi sul terrazzo di casa, ne era angosciata. In che modi assurdi e incomprensibili si annunciano certe malattie. Ci penso, e vivo in un costante stato di ansia, che certe volte diventa angoscia. Angoscia dovuta a quell’immagine che mi viene in mente continuamente. L’ultima immagine che conservo di Giancarla. Un’immagine che mi perseguita. L’altro elemento che mi provoca angoscia è il pensiero di mia figlia. Perché io ho novant’anni, mica è uno scherzo… Quanti cavoli di anni devo vivere ancora? Allora l’idea di dover regalare un altro trauma a mia figlia mi angoscia. Le analisi sono buone, vanno bene. Ma la depressione ce l’ho pure io, non c’è niente da fare. Ma, comunque, andiamo avanti. Il ricordo in assoluto più bello che hai di Giancarla. Sono tanti. Immagini belle di lei ne conservo moltissime. Mi ricordo quando ritornai dalla Colombia con Carolina, che aveva sostenuto un ruolo in Cronaca di una morte annunciata. Avevamo preso da poco un appartamento per lei, ce l’ha ancora, in un palazzetto qui vicino. Quella sera ci presentammo a casa io, Carolina e Pietro Notarianni. E Giancarla ci aspettava. Si era vestita con particolare eleganza, per celebrare il ritorno della figlia, e anche perché aveva finito di arredare il nuovo appartamento. S’era vestita come per ricevere qualcuno d’importante. Quel modo di esprimere il suo rapporto con la figlia è una cosa che mi commosse, che mi colpì molto. Mi ricordo quando lei era incinta di Carolina ed eravamo invitati a casa di Visconti per la cena di Natale. Stavamo per andare e improvvisamente Giancarla ebbe i primi dolori. Corremmo alla Mater Dei. Allora io telefonai a Luchino per dirgli che non potevamo andare. Alla Mater Dei prepararono Giancarla per il parto. Io restai nella saletta d’attesa del reparto, c’erano le monache della Misericordia, mi pare. Quelle monache spagnole, tutte vestite di bianco. Che, siccome era Natale, ballavano nel piano di sopra con le nacchere. Bellissime, era una cosa stupenda. E io stavo là, da solo, ad aspettare. Improvvisamente dal fondo del corridoio della clinica, che era deserto, vedo avanzare verso di me un uomo in controluce. Era Luchino Visconti. Aveva lasciato tutti

i suoi ospiti, preoccupato che io stessi aspettando la mia seconda figlia da solo. Lui sapeva tutto di me, ed era anche molto amico di Giancarla. Conosceva bene il dramma di Francesca, ed era venuto a farmi compagnia. Aspettò insieme a me la nascita di Carolina. Non lo dimenticherò mai nella mia vita.

Ma, comunque, andiamo avanti

Stanotte mi sono svegliato quattro volte. Avevo bisogno di mia figlia. Di un affetto che mi aiutasse ad andare avanti. Pensavo a mia moglie. A quanto ha riempito la mia vita. Prima hai detto, in un modo che mi ha molto colpito: «Giancarla è stata una grande donna e io le devo molto». Non capita spesso di sentir dire a un uomo parole del genere. Giancarla ha fatto molto per me. Molto. Ha fatto molto dal punto di vista intellettuale, perché mi ha seguito attentamente senza mai coartare la mia libertà d’azione. Poi mi ha aiutato anche finanziariamente. Perché per fare il cinema come l’ho fatto io, bisognava rischiare continuamente, dover mettere in conto anche fallimenti e perdite. Abbiamo dovuto far fronte a tanti momenti difficili, quelli che mi sono sforzato di raccontarti nel corso di questa lunga e amichevole conversazione. Immagino che non sia stato per niente facile… Come hai fatto, in quegli anni, a coordinare le difficili esigenze della tua professione con la preoccupazione per tua figlia Francesca? La risposta è Giancarla. Perché dal momento in cui ha generosissimamente accettato l’idea di prendere Francesca a casa nostra, Giancarla ha fatto quello che pochissime donne avrebbero fatto. Perché prendersi una bambina con quei problemi non è una cosa semplice. Avevamo preso un altro appartamento sopra a quello di casa nostra e Francesca andò ad abitarvi con la signorina che si prendeva cura di lei. Insomma, viveva insieme a noi e Giancarla se ne occupava. È stata una grande prova d’amore. E io partivo, giravo, tornavo, ripartivo, avevo come un fuoco. Non so come dirti. Quando sono partito per la Bolivia ho detto a Giancarla: «Guarda, vado in Bolivia perché mi è venuta l’idea di fare un film sul Che». E

lei non ha fiatato. Come se le avessi detto che stavo andando a Napoli. Era formidabile. Abbiamo avuto un rapporto molto, molto bello. I drammi che hai vissuto hanno mai condizionato la tua poetica cinematografica? No. Non mi sono mai fatto condizionare. Come ci riuscivo? Non lo so, niente, partivo, inseguivo i miei progetti senza pormi troppe domande. E avevo al mio fianco una donna che capiva. Mi veniva l’idea di andare a Cuba, o in Sudamerica, o sulla Luna, pigliavo l’aereo e partivo. Certe volte glielo chiedevo: «Ma perché non vieni?». E lei: «No, che me ne importa della Colombia». Era il suo modo di rispettare la mia libertà. Questa è stata la mia forza da una parte, ma il mio egoismo dall’altra. Un egoismo che forse, allora, non ho valutato abbastanza. Mi sembrava naturale fare così. E invece oggi dici che era egoismo? Eh be’, sì. Era un considerare la vita per quello che interessava la mia capacità di fare. Quindi era egoismo. Perché Giancarla è venuta rare volte con me, si occupava di Francesca, della ristrutturazione della casa, poi di Carolina, di tutto insomma. Ma era molto responsabile Giancarla, precisa. L’unica cosa… è che ha campato ottantaquattro anni. Mi sembrano davvero pochi. Perché questa donna mi ha dato tanto, mi ha dato molto. Mi ha dato il suo amore, la sua capacità di seguirmi nella vita e nel lavoro. Era gelosa? Un regista di successo come te… No, per lo meno non lo faceva vedere. Era molto riguardosa. Poi sai, è ricordata da tutti gli amici come quella donna che era, cioè speciale, unica. Litigava sempre con tutti, è vero, ma non erano liti. Erano conversazioni animate. Poi finiva con l’andare d’accordo con tutti. Una persona di cui invece non ha mai potuto fare a meno è Maria, la nostra governante. Sono cinquant’anni che vive con noi. Impagabile, una di famiglia, generosa, silenziosa, non si stanca mai, anzi non si siede mai. Una donna straordinaria. Le vogliamo bene. Adesso ha ottant’anni. Ha visto nascere mia figlia Carolina. Se

non c’era lei… L’avevamo conosciuta a Roma. Lei ha cominciato a lavorare che era una ragazzina. Stava a Roma, e si occupava di un’altra bambina. Non lo so chi l’ha presentata a Giancarla. Ti so solo dire che negli ultimi tempi non poteva vivere senza vederla. Brutta roba. Perdere una moglie è una cosa molto diversa che perdere un figlio, o perdere il padre, o perdere la madre. È molto diverso. L’amore per una moglie, quando esiste ed è vero, quando non è consueto e ovvio, è indimenticabile. Perché tra me e Giancarla c’era un legame profondo, ma c’era anche l’ira di Dio. Certi scontri! Non puoi immaginare. Ma mi mancano quei duelli. Mi mancano tante cose di lei. E poi dei miei progetti cinematografici, delle idee che mi frullavano in testa, capiva tutto, intuiva dove il produttore poteva fregarmi, scopriva al volo le magagne. Ma su certi aspetti della mia professione, per esempio il destino dei miei film italiani all’estero, all’epoca non ce ne occupavamo. E facevate male. Perché è un costume che, in qualche maniera, si è tramandato. Hai ragione. Io ho tentato più volte di seguire la vita commerciale dei miei film all’estero, specie se ne detenevo parte dei diritti di sfruttamento. Ma non ho mai preso una lira. I produttori ti dicono: «Sì, un bel film, ma la gente non ci va». Quelle cose lì. Ma è un errore gravissimo. Perché noi abbiamo i diritti dei film, quindi anche quelli sulle loro edizioni televisive. Ma io vorrei sapere chi di noi segue questa roba quando il film è finito? Vorrei saperlo. Sì, arriva qualcosa. Ma se ci fossimo interessati di più, le cose sarebbero andate diversamente. Certi film sono in giro da quarant’anni. E che fai? Gli vai a dire: «Pagami il Salvatore Giuliano che è passato nel ’65, nel ’66?». Hai capito? E invece i film rendono… Questa è la faccenda. Per il resto ti posso dire con sicurezza che il mio rapporto con il lavoro è stato un rapporto esclusivo. Ho cercato di essere presente, non dico nella storia del mio paese, ma nella realtà del mio paese, questo sì. Lo sei stato. Hai sempre seguito un tuo interesse, un tuo voler essere testimone e interprete di quello che stava succedendo in

Italia. Hai sempre raccontato ciò che accadeva nelle stanze del potere. Sia che tu lo visualizzassi, sia che lo sottintendessi. Non ci sono altri esempi analoghi, perciò dico che sei un caso unico. Ma io non sono uno storico del cinema, né un critico, perciò detto da me non vale niente. Vale di più, invece, detto da un collega. Per quanto mi riguarda, posso solo dire di aver avuto una vita professionale alla quale devo ammettere di aver sottomesso anche una mia libertà di fare altro, di pensare ad altro. Ma non ho sensi di colpa. Perché se ho potuto fare tutto ciò che ho fatto è stato merito di mia moglie Giancarla. Perché da quando l’ho incontrata e me ne sono innamorato, la mia vita ha preso una svolta importante e decisiva. Perché ho avuto con lei un rapporto determinante, che scaturiva dalla grande intelligenza con la quale lei sapeva vivere la nostra unione. Non riuscirò mai a liberarmi degli ultimi momenti in cui l’hoi vista, diventa un’ossessione. Già il fatto che da quando non c’è più io tenda a rimanere il piu possibile chiuso in questa casa, è di per sé una cosa che non va bene. E me ne accorgo, me ne rendo conto. Comprendo quanto possa essere dannoso scivolare in quelle domande che uno si pone: «Ma perché tutto questo? Perché? Perché devono nascere degli esseri umani che devono soffrire una nascita che li condanna a una vita difficile, disperante? E che non condanna solamente loro a quella vita, ma anche i genitori e le persone che li amano?». Sono domande che è inutile farsi. Però te le fai. E non mi riferisco soltanto alla breve ma indimenticabile vita di mia figlia Francesca. Penso a tanta gente. Ti chiedi: «Qual è il senso dell’armonia? Qual è l’armonia per rendere una vita più accettabile? Per allontanare quei grandi dolori che rendono veramente difficile il continuare a vivere?». Ma non c’è risposta. Eppure te lo chiedi. E allora, siccome non c’è risposta, ti dai una pacca sulle spalle, da solo, e ti dici: «Pazienza. Andiamo avanti». Ma poi ci ricadi subito, perché te lo chiedi «Ma cos’è quest’armonia? Cos’è quest’idea?». Ti chiedi anche delle cose che non ti devi e non ti puoi chiedere: «Dove vivi, cos’è la Terra?».

Sono i temi che si pone Terrence Malick nel suo «The Tree of Life» (2011). È vero, mi è piaciuto quel film, ha delle cose molto interessanti. È stato Ettore Scola ad accompagnarmi al cinema per vederlo. È un amico carissimo. Mi è stato molto vicino in questo periodo, e gli voglio bene. Lo so. Il vostro rapporto d’amicizia mi ha dato coraggio. E anche il frequentarti così spesso, ascoltarti, condividere i tuoi sentimenti, oltreché i tuoi ricordi, ha consolidato la mia fiducia nel nostro mestiere. Ormai sono due anni che ci vediamo. È stato un grande privilegio, un onore raro. Te ne sono grato. Caro Peppuccio, sono io a doverti ringraziare. Perché mi hai offerto l’occasione di un impegno. Chiacchierare con te mi ha fatto proprio bene. Mi auguro di essere stato all’altezza, di non aver dimenticato cose importanti. In questi mesi la nostra lunga conversazione mi ha aiutato molto. Anche se mi chiedo, inevitabilmente: da questa rivisitazione della mia esistenza e del mio lavoro… come ne uscirò nel complesso? Come in uno dei tuoi migliori film. Lo spero. Anche se non è facile ripercorrere la propria vita. T’assicuro che non è facile. Perché certe cose non te le ricordi, altre non te le vuoi ricordare. Hai capito? Però alla fine, quando ci sono dei sentimenti veri, quelli escono fuori, accorrono a fare chiarezza sul tuo percorso. Forse è per questo che da qualche tempo sono tornato a dormire al piano di sotto, nella camera dove io e Giancarla abbiamo dormito insieme tanti anni. Ho preferito tornare nel nostro letto, sì. E devo dirti che vi ho ritrovato tutta la sua energia, tutta la sua presenza. In un primo momento ho creduto che il riappropriarmi di un luogo del mio passato dovesse inquietarmi. Invece, ho la sensazione di trovarmi, non so come esprimermi, tra il turbamento e il sentimento amoroso. Sembra il finale di «Tre fratelli». Quando Charles Vanel resta solo in casa mentre i figli vanno al funerale della madre. E prende la fede della moglie e la infila accanto alla sua.

Fu mio padre a suggerirmi l’idea di quel finale. Nella sua vita non solo non aveva mai portato la fede o altri anelli, ma non aveva mai avuto comportamenti di carattere apertamente sentimentale. Quando morì mia madre era stanco, un po’ malandato. Io e mio fratello evitammo che partecipasse al funerale. Al nostro rientro lo trovai seduto, vestito con un doppiopetto scuro, e aveva messo al dito due fedi. La sua e quella di mia madre. Una a contatto dell’altra. Quel gesto mi stupì molto. Aveva un grande valore… Ma, comunque, andiamo avanti…

Fuori programma

Quando il nostro libro uscirà avrai già ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla 69ª Mostra del Cinema di Venezia. Essendo allora in fase di stampa non faremo a tempo a scrivere di quella cerimonia. Mi piacerebbe allora chiederti innanzi tutto che cosa significa per te ricevere questa onorificenza. Ti dico la verità. Qualcuno ha scritto: «Colpevole ritardo», alludendo alla tempistica con cui mi viene attribuito. Ma io non me ne sono mai preoccupato. E in definitiva, tra tutti i Leoni alla carriera che spesso vengono assegnati, mi sembra che, almeno da un punto di vista rigorosamente filologico, il mio sia uno dei più corretti. Nel senso che la mia carriera di certo non promette proroghe. Quello che dovevo fare è fatto. Ma che sensazioni hai, cosa avverti nel ricevere quel prestigiosissimo premio? Oltretutto, in un festival dove un Leone d’oro l’avevi già vinto nel 1963 con «Le mani sulla città». Francamente lo giudico il riconoscimento per aver insistito con un certo tipo di cinema. Insomma, questo è evidente. Un premio del genere, secondo me ha una sua ragione d’essere quando veramente i film realizzati nel corso di un’intera vita sono uniti dalla comune voglia di raccontare un paese, un momento politico, una fase storica. E allora sì. Ma non credo che un premio alla carriera possa essere dato solamente per celebrare la bellezza dei film fatti, non so come dire. Vorrei azzardare una considerazione. Il fatto che proprio oggi, nel momento in cui gli italiani vivono sulla loro pelle un senso di disfacimento dell’idea stessa di paese, si dia il premio alla carriera a un regista italiano che invece, per tutta la sua vita, questo paese lo ha raccontato, rimarcandone in qualche modo l’identità e la storia, può avere un significato particolare?

Cioè, può avere un senso che proprio nella stagione in cui rischiamo di perdere il concetto del nostro paese, a Venezia si festeggi chi ne ha fatto il simbolo del proprio lavoro? Spero che lo abbia un significato, certamente. È importante, in questo particolare momento storico, ricordare quanto il cinematografo, come lo chiamo io, si sia occupato a fondo della vita del paese, ecco. Perché non esiste, secondo me, una forma d’arte più completa del cinema nel rappresentare la vita e i personaggi di un contesto sociale e politico. Perché c’è un’identificazione del pubblico. Oddio, il pubblico si immedesima anche nei personaggi di un romanzo, indubbiamente, però l’identificazione che offre il cinema è molto più forte, è un’esperienza addirittura fisica. Tu ti riconosci fisicamente in certi personaggi, in un certo modo di agire. E così puoi condannare ciò che non è giusto, proprio perché il cinema ti permette di viverlo. Preparerai un discorso o parlerai a braccio? No, i discorsi non li preparo mai. Preferisco improvvisare. Solamente quando mi hanno dato le lauree honoris causa ho preparato i miei interventi per iscritto. Ne ho avute quattro, si trattava di argomenti scientifici o storici. Non è che puoi dire: «Vi ringrazio, la cosa mi onora. Sono felice». Non basta, devi spiegare perché. Mentre, invece, avere un premio per la mia carriera cinematografica significa dopo tutto trovarmi di fronte ai film che ho fatto, e che spero abbiano aiutato il pubblico a conoscere la realtà del nostro paese. Sono contento infatti che abbiano scelto di proiettare Il caso Mattei nella copia restaurata dalla Cineteca di Bologna. Chi ti accompagnerà? Mi accompagnerà Carolina e questo, naturalmente, mi fa molto, molto piacere. Come mi fa piacere che sia tu a consegnarmi il Leone. È un onore per me. Quando il direttore della Mostra, Alberto Barbera, me lo ha chiesto, ho accettato molto volentieri. Posso chiederti come ti vestirai?

Capisco la tua domanda. So dove vuoi arrivare. Ma vedi, lo smoking di don Ciccio Rosi, nato a Pizzo Calabro e vissuto a Napoli, significò per me l’inizio della mia vita di regista cinematografico. Fu importante che quell’abito me lo avesse fatto mio nonno. Com’è stato importante averlo indossato in ogni circostanza festivaliera della mia carriera professionale, proprio come un portafortuna. Però, devo confessartelo, quello smoking non mi entra più. Ho provato, ma è impossibile. Sono passati più di cinquant’anni da quando lo indossai per La sfida. Comunque, non ne sento la necessità. Perché mettersi lo smoking a tutti i costi? Non è neanche obbligatorio. Non lo è più da tanto tempo. Mi viene quasi voglia di presentarmi con un blazer e dei blue jeans. Come il grande regista francese Jacques Becker, che dal momento in cui sono apparsi i blue jeans non ha mai smesso di indossarli. Non lo vedevi con un altro paio di pantaloni. Solo i blue jeans. Ma se lo faccio io a Venezia, potrebbero prenderla per una provocazione. Meglio di no. D’altra parte, non mi va di mettermi lo smoking. Sì, serve per essere al massimo dell’eleganza. Ma in queste occasioni, devo dire la verità, tra la gente che viene in smoking, vedo spesso delle cose orripilanti addirittura. A chi gli viene corto, a chi troppo largo, ad altri un po’ storto. Per non parlare di tristi papillon incartapecoriti, e dell’odore di naftalina. No, per carità. Sabato viene a trovarmi il mio sarto. Mi sta sistemando un abito grigio scuro. Indosserò quello. Ma tu, caro Peppuccio, quando mi consegnerai il Leone, immaginati di vedermi nello smoking di don Ciccio Rosi. Smagliante, impeccabile ed elegante, come la prima volta, come per il mio primo film.

INSERTO FOTOGRAFICO

In versione «monello» Jackie Coogan.

Quello che dorme sul seggiolone sono io.

Mio padre Sebastiano..

In villeggiatura a Casa Posillipo con mia madre Amelia.

Uno dei miei tanti fotoritratti, copyright papà Sebastiano.

Mentre preparo una scena de La sfida, il mio esordio alla regia.

Con Alberto Sordi ad Amburgo, sul set de I magliari.

Tre momenti di Salvatore Giuliano: la sequenza di Portella della Ginestra, quella dell’obitorio, io che do indicazioni sul set.

Tre momenti di Salvatore Giuliano: la sequenza di Portella della Ginestra, quella dell’obitorio, io che do indicazioni sul set.

Le mani sulla città, Leone d’oro a Venezia nel 1963. «Avevo bisogno di uno con presenza, peso e anche talento di attore. Rod Steiger fu perfetto.»

Con Sophia Loren sul set di C’era una volta.

Pedro Basauri «Pedrucho» e Miguel Mateo Miguelín, ne Il momento della verità.

Sopralluoghi in Perú per un film su Che Guevara che non vedrà la luce.

Insieme al «generale» Alan Cuny, sul set di Uomini contro.

La Grande Guerra in uno scatto di mio padre: «Legavano il prigioniero con delle manette agli alberelli che si trovavano tra la trincea italiana e quella austriaca. Era come esporlo a un giudizio divino».

Gian Maria Volonté ne Il caso Mattei e Lucky Luciano.

Due scene di Cadaveri eccellenti, di cui era protagonista Lino Ventura.

Irene Papas in Cristo si è fermato a Eboli.

Vittorio Mezzogiorno, Michele Placido e, sullo sfondo, Philippe Noiret, in una sequenza di Tre fratelli.

In Spagna per la Carmen, con il «matador» Placido Domingo e l’«andalusa» Julia Migenes Johnson.

Con Michelangelo Antonioni, Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini.

«Ricordo quando andai a trovarlo durante le riprese del suo ultimo film, L’innocente, lui che mi accarezza. Luchino Visconti era capace di gesti profondissimi.»

Con Francis Ford Coppola.

Con Robert Altman e Andrzej Wajda

John Turturro nei panni di Primo Levi in La tregua.

Con Luca De Filippo durante le prove di Le voci di dentro, di Eduardo De Filippo.

A passo di danza con Ornella Muti sul set colombiano di Cronaca di una morte annunciata.

Mentre do alcune indicazioni a mia figlia Carolina, nel cast del film.

Alcuni scatti di mia moglie Giancarla, insieme alla piccola Carolina e in mia compagnia. «Era formidabile. Abbiamo avuto un rapporto molto, molto bello.»

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