E adesso facciamo il cinematografo! 9788852029707, 8852029702

Francesco Rosi, premiato alla Mostra del Cinema di Venezia con il Leone d'Oro alla carriera, è senza alcun dubbio u

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Italian Pages 48 [6] Year 2012

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E adesso facciamo il cinematografo!
 9788852029707, 8852029702

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Tutto cominciò con una fotografia Tutto conùnciò, forse, con una fotografia. Fu mio padre a scattru:la. S'ispirò a Jackie Coogan, il protagonista di quel grande film di Charlie Chaplin che fu n rnonello (The Kid). Fu mio padre a svilupparne il negativo, a stamparla e a colorarla a mano. Sono trascorsi più di ottant'anni. Qualche tempo fa diventò la copertina di un libro dal titolo C'e1·a una volta un ban1bino. Quel bambino col berretto sono io, avrò avuto quattro o cinque anni. Non sembro proprio Jackie Coogan? Da un'altra foto fattami mentre dormivo sul seggiolone, mio padre trasse in seguito il manifesto pubblicitario di una purga per ragazzini. «Mentre voi dormite, Kinglax lavora» recitava lo slogan, oppure «Sogni di felicità». Durante i 1niei primi film, Gianni Di Venanzo e Pasqualino De Santis, rispettivamente direttore della fotografia e operatore di macchina, si divertivano a chiamarmi «Kinglax». Può darsi che davvero tutto sia cominciato da lì. Mio padre era un appassionato di cinematografo e di fotografia. Era pure tm gi·ande disegnatore e un caricaturista per alcuni gio111ali napoletani. Allora ce n'erano parecchi. «Il Re di danari>>, il «Monsignor Perrelli», il «Vaco 'e pressa», cioè «vado di fretta», il giornale dei tifosi. Mio padre, tifoso, non lo è mai stato. Lo accompagnavo spesso allo stadio, a lui piaceva po1ta1mi dietro. Forse, già allora voleva riversare su di me la decisione che lui non aveva saputo prendere, cioè abbandonare tutto per il cinematogt·afo o almeno per il disegno. Andavamo in un albergo napoletano, molto famoso all'epoca, l'Hotel de Londres, in Piazza Municipio. Lì c'era la squadra del Napoli, a quel tempo piena di giocatori eccezionali, e tra questi il grande Attila Sallustro, un paraguaiano famosissimo che i napoletani adoravano. Eppure mio padre, appena finiva le caricature, se ne tornava a casa, dei giocatori non gliene importava granché. La passione per il cinema, quella sì che era forte. Aveva una splendida macchina di proiezione a passo ridotto Pathé Baby. E anche una macchinetta da presa col motore a molla Pathé Baby 8mm con perforazione centrale. Se aveva la pe1forazione centrale erano 91n1n e 1nezzo.

Davvero? Sai che ho sempre pensato fossero Smm? Comunque, tutto era nello sgabuzzino dove lui continuamente trafficava. C'era una lampada, con una luce rossa e una blu, che segnalava quando si poteva entrare nella camera oscura. lo mi mettevo in un angolo. Teneva sempre sul finestrone una coperta che impediva alla luce esterna di filtrare. Un giorno la tirò via e gli cadde tutto addosso. Rimase seduto per terra come in w1 suo disegno, con la testa che spuntava fuot'i. dal finestrone che incorniciava la sua rassegnazione come in una comica di Buster Keaton. L'infanzia, la ricordo bene. Forse proprio perché era già fatta di fotogi-afia e di cinematografo. Naturalmente ero il modello preferito di mio padre. Il mondo di quei tempi si adattava molto a queste passioni, consentiva di fare il cinema 011 quatti·o mura, di sviluppare e stampare in casa le fotogi·afie.

Che ricordi hai di quello sgab1izzino, quando andavi ad assistere allo sviluppo dei negativi? Il profumo delle bacinelle di porcellana bianca in cui papà versava il liquido per sviluppare. Poi prendeva le 11101lette per i panni e stendeva le foto ad asciugare. Attaccava il negativo e sviluppava. Solo episodicamente si serviva dello stampatore. Ero un bambino, non avevo più di cinque anni, ma tutto ciò mi attraeva. Non sapevo far nulla, ma intanto mio padre mi tras1netteva quella passione. La domenica, poi, mi po1tava al cinema. Il primo film che ho visto fu al Torretta, credo si chiamasse L'angelo bianco, un film muto, russo se non sbaglio, o comunque russo era l'attore protagonista. E poco dopo Il rnonello di Chaplin. C'era in sala uno che suonava il pianoforte e dava l'accompagnamento musicale. Lo vi.di al cinema Maximum di viale Elena, strada bellissima che corre parallela a via Caracciolo. C'erano aiuole, palme e, a quel tempo, pochissime automobili. Era la pista prediletta dai pattinatori. Era bello davvero. Quando andammo a vedere Il 1nonello, il Maximum era pienissimo, restammo in piedi. Tenevo per mano papà. Frequentavo quella sala cinematografica anche il giovedi, quando i bambini pagavano meno. Ci andavo con una zia, sorella di mia madre, molto somigliante a Ginger Rogers. Abitavamo tutti a viale Elena, noi e mia zia, anche lei sposata e coi figli. Mi fai tornare a un'epoca così diversa.

Tuo padre co,n'era? Si chia1nava Sebastiano, nome che già conteneva tutta la carica della sua vocazione al martirio. Era magro, alto, simpatico, intelligente, ma con un limite. Mi spiego: allora, quando si metteva su famiglia, non si poteva fare più nulla di rischioso, per esempio qualcosa che potesse costare il posto di lavoro. Lui era direttore di Wl'agenzia marittima privata. Secondo me era un uomo di grandi qualità. Lavorò sempre in quell'agenzia fino a quando ha smesso. Adoravo il lavoro di mio padre, da piccolo amavo andare insieme a lui. Lavorava lì anche mio zio, fratello di mia madre, talmente appassionato di teatro da diventare «capoclaque». Allora, la claque si usava molto, esistevano delle tesserine, colorate come saponette rosa, celeste, verde - che mio zio distribuiva ai vaii claqueur a seconda del posto assegnato. Galleria, platea, loggione. Lui, poi, dirigeva l'applauso, aveva tutta una sua strategia. Anche mamma era appassionata di teatro, a papà piacevano, oltre al cinema, soprattutto il vaudeville, l'operetta.

Mi spieghi la tecnica dell'applauso? Mio zio assisteva alle prove generali così da memorizzare lo spettacolo. Poi, nel corso delle rappresentazioni, al culmine di ogni scena madre, dava l'avvio con il suo applauso e gli altri, disseminati qua e là, gli andavano dietro, applaudivano tutti quanti. Non credo fossero ret1ibuiti. La paga era entrare gi11tis in tean·o. Forse beccavano qualche biglietto pure per la famiglia, non so.

Tornia1110 a tuo padre, 111i hai parlato del suo li1nite. Qual era vera1nente? Non aver avuto il coraggio di dire: «Io sono un disegnatore bravissimo». Perché era bravo davvero! Non aver avuto il coraggio di dire: «Me ne frego di tutti... Io disegno sui giornali napoletani, ora mi allargo, provo a vivere di questo». Per quella fotografia ispirata a Il n1onello, vinse un concorso indetto dalla Metro Goldwyn Mayer ottenendo in premio un viaggio a Los Angeles, a Hollywood. Poteva diventare un fotografo di scena nel cinematografo. E magari fare di me un piccolo attore, perché di film con bambini se ne facevano tanti. Non ebbe questo coraggio, né mia madre lo sostenne. A Los Angeles non andò mai. Continuò con le foto e coi disegni sui giornali e principalmente con il lavoro all'agenzia marittima.

Quando hai capito clie, per assecondare le esigenze della famiglia, tuo padre sac1·ificava le sue vel'e passioni? Il dubbio mi è venuto presto. Già quando lo accompagnavo la domenica mattina nei sotterranei della Galleria Umberto I, dove c'era la tipografia che stampava i suoi disegni sul «Vaco 'e pressa». Mi piaceva l'odore dell'inchiostro ma non capivo se mi portava in quello sgabuzzino perché apprendessi qualcosa di quel mondo o solo per una questione di affetto. Tutto è diventato evidente quando si è 1itrovato con un figlio che ha avuto la forza di fare ciò che a lui non era riuscito. Lui sapeva essere un uomo molto tenero. Accettava di non creare proble1ni alla moglie con le sue ambizioni di disegi1atore, di fotografo, e già questo ne dipinge il carattere di persona sensibile, dedita alla famiglia. Anche molto meridionale, diciamo la verità. Quando tornai a Napoli dopo che i tedeschi mi avevano preso e poi, per una combinazione fo1tunata, liberato, vissi un pe1'i.odo di clandestinità. C'erano gli americani e papà continuava il suo lavoro al porto, ma l'attività era diminuita, non c'erano più i traffici ma1ittimi di un tempo. Così iniziò a fare caricature per gli americani appoggiandosi a un negozio di indumenti per signora di via Chiaia, tenuto da un suo conoscente che si chiamava Squillante. Un po' come Fellini a Roma, che disegnava caricatw-e in un bar di Piazza Cavour. A volte c'era da tenere a bada qualche soldato americano che non aveva apprezzato la propria caricatura. Si sa, una caricatura deve deformare, ma ogni tanto qualcuno, un po' ubriaco, se la prendeva: