Il vodu in Africa. Metamorfosi di un culto 8883349768, 9788883349768

Il vodu è un culto religioso praticato da secoli in Africa occidentale e giunto nelle Americhe con gli schiavi (dove ha

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Il vodu in Africa. Metamorfosi di un culto
 8883349768, 9788883349768

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sacro / santo (nuova serie) 18 Collana diretta da Sofia Boesch Gajano, Philippe Boutry, Simon Ditchfield, Roberto Rusconi, Francesco Scorza Barcellona

Alessandra Brivio

Il vodu in Africa Metamorfosi di un culto

viella

Copyright © 2012 - Viella s r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: novembre 2012 ISBN 978-88-8334-976-8 (carta) ISBN 978-88-6728-083-4 (e-book)

Questo volume è stato valutato da specialisti esterni con procedura anonima.

viella libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

Indice

Introduzione

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1. Inquadramento storico-geografico (p. 13). 2. I percorsi della ricerca (p. 20). 3. Il gorovodu (p. 22). 4. Forme d’iniziazione (p. 27). 5. Capitolo dopo capitolo (p. 32).

1. Costruzioni intellettuali intorno al vodu

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1. Vodu: un tentativo di definizione (p. 38). 2. Genealogia della nozione di feticismo (p. 41). 3. Il vodu è un feticcio? (p. 46). 4. L’irriducibile materialità dell’oggetto (p. 49). 5. Metafora e metonimia: singolarità e ripetizione (p. 52). 6. Valore sociale del feticcio (p. 54). 7. Corpo del feticcio, corpo dell’uomo (p. 56). 8. Alcune ulteriori considerazioni attorno al concetto di “feticcio” (p. 60). 9. Genealogia del paradigma “religione tradizionale” (p. 61). 10. L’autorità di Abomey (p. 66). 11. Il vodu nel Togo degli anlo-ewe (p. 72). 12. Il concetto di sincretismo (p. 75).

2. Il culto gorovodu: la geografia e i protagonisti delle “origini”

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1. I culti antistregoneria attraverso la letteratura (p. 89). 2. Un protagonista contemporaneo: Monsieur Hilaire Dohou (p. 94). 3. Eroi e imprenditori (p. 97). 4. La noce di cola (p. 112). 5. I luoghi dell’origine del culto Kunde (p. 115). 6. Altri luoghi e altre divinità (p. 118). 7. Il culto Aberewa, la madre (p. 125). 8. Viaggi rituali, spazi regionali (p. 127).

3. Oggetti, corpi e materia nel vodu 1. I vodu attraverso gli studi sulla cultura materiale (p. 136). 2. Gli “dei oggetto” (p. 140). 3. Gli “dei oggetto” nel gorovodu (p. 143). 4. Lo spazio: santuari vodu e gorovodu (p. 144). 5. Il corpo nella possessione (p. 149). 6. Forme di iniziazione (p. 154). 7. La musica e la danza (p. 161). 8. Le pratiche del vestire: abiti in viaggio (p. 165). 9. Le pratiche del vestire: la materia spirituale (p. 169). 10. Le pratiche del vestire: la multisensorialità dei colori (p. 171).

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4. Uomini, animali e donne: il sacrificio e la morte nel vodu

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1. «Ci sono animali per i quali devi offrire un sacrificio, quando li uccidi»: prede e cacciatori (p. 179). 2. Metamorfosi (p. 182). 3. Cultura e natura: “animali favolosi” insegnano agli uomini i segreti del mondo invisibile (p. 184). 4. La natura nel gorovodu (p. 186). 5. Il sacrificio vodu (p. 189). 6. Il sacrificio nel gorovodu: il tron kpeto ve (p. 194). 7. Il sacrificio nel tron kpeto ve come forma di eccesso (p. 200). 8. La donna verso il mondo della natura (p. 206). 9. Il potere femminile nella stregoneria (p. 210). 10. Le ambiguità dei liquidi corporei (p. 214).

5. Fenomenologia di un vodu “moderno”

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1. Il goro è un vodu “hausa”: le influenze dell’Islam (p. 223). 2. L’oracolo Fa: «…è come un vodu, ma non è un vodu» (p. 226). 3. Il tron kpeto deka: le narrazioni e i miti di fondazione (p. 229). 4. Un santuario del tron kpeto deka: l’eclettismo di Cosme, houno a Porto Novo (p. 236). 5. Il contesto politico beninese (p. 240). 6. La lotta contro il vodu (p. 242). 7. Verso la patrimonializzazione e democratizzazione del vodu (p. 247). 8. Costruzione di un vodu moderno e monoteista (p. 252). 9. Innovazione religiosa e individualizzazione (p. 257). 10. Processi di normalizzazione all’interno del tron kpeto deka (p. 262). 11. La “messa del tron”: cambiamento o perdita? (p. 265).

Conclusioni

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Bibliografia

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Introduzione

Ossessivamente sogno di un labirinto piccolo, pulito, al cui centro c’è un’anfora che ho quasi toccato con le mani, che ho visto con i miei occhi, ma le strade erano così contorte, così confuse, che una cosa mi apparve chiara: sarei morto prima di arrivarci. J.L. Borges, Labyrinthes Vorrei dire: il fatto che Frazer ricorra a termini a lui e a noi così famigliari come “spirito” (ghost) e “ombra” (shade) per descrivere le concezioni di questa gente mostra meglio di qualunque altra cosa la nostra affinità con i selvaggi. L. Wittgenstein, Note

La dimensione riflessiva e teorica del sapere è estranea al mondo vodu; si tratta di un sistema di credenze ritenuto ontologicamente incomunicabile attraverso le parole. I sacerdoti e i fedeli si sottraggono alle domande e amano poco le spiegazioni, a parte quelle frammentarie o che sembrano sfuggire in modo casuale alla struttura del discorso. Non avrebbe d’altra parte alcun senso giungere a un sapere organico e strutturato, sia perché nessuno sarebbe pronto a sottoscriverlo o a riconoscersi pienamente in esso, sia perché parte della forza dei vodu, fondata sul potere dell’indicibile, svanirebbe. Vodu è un termine polisemico che assume differenti significati in funzione del contesto e della modalità di utilizzo: può indicare le singole entità invisibili che animano il sistema di credenze, rituali e saperi, a sua volta chiamato vodu; oppure definire quegli oggetti prodotti dall’uomo – con il legno, la terra cotta, il ferro o l’argilla – o dalla natura – come un animale, un albero, un termitaio, un corso d’acqua, una sorgente o comunque un luogo o un fenomeno densi di significato – e abitati da tali entità. Un esempio può chiarire l’uso del temine: il vodu del fulmine, Heviossou, si manifesta ogni qualvolta scoppia un temporale, ma Heviossou non va pensato come uno Zeus unico e distante, al contrario può attualizzarsi e manifestare la propria potenza anche nelle singole e infinite installazioni che l’uomo realizza.

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Il vodu in Africa

Vodu sono poi gli adepti, quando le entità invisibili si impossessano del loro corpo; vodu sono quei bambini che sin dalla nascita palesano uno o più segni del loro legame con tali entità e infine diventano vodu, dopo la morte, alcuni antenati, eroi, guerrieri e fondatori di importanti lignaggi, ma anche chi è morto di morte violenta e non è riuscito a trovare pace nel mondo dell’aldilà. Se il vodu si sottrae a una definizione unica, ancora più tortuoso è il processo di apprendimento dei saperi legati a questo mondo. La prima volta che entrai in un santuario1 vodu, pensai che mai sarei riuscita a distinguere un vodu dall’altro né a ricordare i nomi che ogni entità sembrava possedere né a comprendere il significato di tutti gli oggetti, le forme, le materie e i colori presenti. L’ambiente era angusto, gli oggetti apparivano ammassati in modo casuale ed erano resi irriconoscibili da una spessa patina composta da sostanze organiche e inorganiche. La scarsa luce che penetrava da una piccola finestra, l’elevata temperatura della stanza e l’odore pungente che stagnava nell’aria sembravano opporsi con ogni mezzo allo sforzo affannoso di comprendere. Mi trovavo vicino ad Agomesiva, un villaggio nel sud del Togo; il proprietario del santuario mi aveva concesso di entrare e aveva iniziato a elencare i nomi di tutti suoi vodu, aggiungendo in alcuni casi il loro luogo di origine, le funzioni svolte, le reciproche relazioni e altre notizie che miravano a valorizzare le potenzialità di tutto ciò che era contenuto nel suo santuario. La confusione e un totale disorientamento cognitivo ed emotivo mi lasciarono la sensazione che sarebbe stato impossibile districare quel groviglio di oggetti e di parole. Con il tempo capii che queste emozioni non agivano solo su di me ma erano parte costitutiva del linguaggio vodu. Le religioni politeiste non coltivano l’aspirazione al proselitismo; le loro gerarchie sono poco inclini ad accogliere e confortare i disagi dei nuovi arrivati, ma aspirano semmai ad accrescere la sensazione di disorientamento ed estraneità. I leader vodu non sono organizzati all’interno di un ordine gerarchico che li indirizzi e controlli, non condividono un testo o una summa teologica. Sovente i vodu si identificano con il luogo in cui sono installati e con la personalità del sacerdote, declinandosi secondo nomi e forme differenti. 1. Utilizzerò il termine santuario per indicare l’ambiente dove sono raccolti uno o più vodu. In questa accezione vodu è l’oggetto dove viene installata l’entità spirituale. Chiamerò invece altare il luogo che comprende sia il vodu in quanto oggetto, sia lo spazio circostante dove vengono raccolte le libagioni e si svolgono i sacrifici.

Introduzione

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Era necessario allentare la tensione volta a memorizzare e classificare i nomi, i racconti, le forme degli oggetti, ad archiviare mnemonicamente le differenze tra un santuario e l’altro; era più proficuo iniziare ad accogliere lo stupore suscitato da un’estetica aggressiva e disordinata. Come mi fu suggerito da diversi preti vodu, solo partecipando alle cerimonie e vedendo i vodu “in azione” avrei potuto avvicinarmi al loro mondo. La ritualità vodu è ricca e dirompente, fatta di danze, colori, musica, vestiti, oggetti, animali, uomini e donne. Partecipare alle cerimonie, oppure guardare un sacerdote che “fa” un vodu – lo installa – è il solo modo per cercare di comprendere una religione che non distingue tra immanenza e trascendenza, tra visibile e invisibile e dove la pratica prevale sulle elaborazioni discorsive. Le cerimonie, le danze, i sacrifici, la possessione scandiscono i tempi della vita religiosa e rappresentano l’unica possibile chiave di accesso al vodu, assieme all’analisi della cultura materiale che si sviluppa all’interno dello spazio rituale. D’altra parte la pratica e non la parola ne sono il fondamento e categorizzazioni troppo rigide non aiutano la comprensione di fenomeni caratterizzati da barriere ontologiche situazionali ed estremamente fluide. Le classificazioni possono al massimo restituire l’immagine di una realtà fotografata in un dato momento storico e contesto geografico. Questo libro prende in considerazione uno dei molti vodu oggi praticati lungo le coste del Golfo di Guinea, tra Togo e Bénin, comunemente chiamato gorovodu. Per affrontare lo studio dell’attuale fenomenologia non si può prescindere dall’analisi critica delle costruzioni intellettuali che attorno alla nozione di vodu sono state elaborate nel tempo e che continuano ad avere importanti ricadute sulle concezioni e pratiche contemporanee. È stato quindi necessario partire da uno dei paradigmi che più hanno condizionato questo campo di studi, il feticismo, e poi prendere in considerazioni le molte distorsioni che le traduzioni dei termini e delle concezioni locali hanno comportato.2 Ricostruire la genealogia del concetto di feticcio obbliga ad assumere una prospettiva storica, adottata anche nello studio del gorovodu, senza la quale per altro non si potrebbero cogliere le molte implicazioni e i mutevoli percorsi del fenomeno religioso. Volendo però tracciare una griglia generale all’interno della quale inserire il vodu come religione politeista o pagana,3 è utile fare riferimento 2. Queste problematiche saranno affrontati nel primo capitolo. 3. La definizione di religione pagana è l’evidente risultato dell’opposizione dicotomica rispetto alle concezioni cristiane di chi iniziò a osservare e a descrivere le pratiche religiose degli africani.

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a tre caratteri che secondo Marc Augé ([1982] 2002:14-16) distinguono tutti i paganesimi, pur nelle loro differenti manifestazioni, da una religione monoteista come il Cristianesimo. Innanzitutto l’assenza di dualismo, nel senso di opposizione tra spirito e corpo e tra fede e conoscenza. In secondo luogo l’assenza di una morale come «principio esterno rispetto ai rapporti di forza e di senso» che struttura la vita collettiva e del singolo. Infine il paganesimo presuppone una continuità tra ordine biologico e ordine sociale, nel senso che ogni evento è significante e da decodificare. Per tale motivo il politeismo appare più tollerante e più capace di osservare e cogliere i segni esterni al suo sistema e di accogliere nuove divinità, in un processo di sedimentazione e accumulazione continuo. La logica politeista è «contemporaneamente qualcosa di più e qualche cosa di meno di una religione», vicina alla vita e alla morte, immanente e priva di promesse di una salvezza futura. In tal senso il vodu è uno dei possibili filtri attraverso cui guardare e parlare della società africana contemporanea, dato che la permea e ne è permeato, mutando con essa.4 Altra ricaduta dello sforzo di classificare, tradurre e gerarchizzare le forme religiose (Augé [1982] 2002:30) è la distinzione, ormai classica nell’ambito degli studi sulle religioni, tra magia e religione. Ancora oggi questa dicotomia influenza i discorsi locali, dove la magia spesso confusa con la stregoneria è divenuta un paradigma problematico rispetto a cui è comunque necessario confrontarsi. Per i detrattori, la magia è l’ambito all’interno del quale agiscono i praticanti del vodu, mentre per chi ne fa parte è divenuto il paradigma da negare al fine di entrare a pieno titolo nella più rispettabile categoria di religione. 4. Difficile fornire delle percentuali precise sull’adesione alle differenti religioni, in questa zona d’Africa. Molti praticanti e adepti delle religioni “tradizionali” si definiscono cristiani, oppure musulmani come nel caso degli yoruba del Bénin. In Togo, secondo il World factbook redatto dalla CIA, le percentuali sarebbero: cristiani 29%, musulmani 20%, religioni locali 51% (non viene fornito l’anno del censimento). Nel caso del Bénin i dati sono più dettagliati: cristiani 42.8% (cattolici 27.1%, cristiano celesti 5%, metodisti 3.2%, altri protestanti 2.2%, altri 5.3%), musulmani 24.4%, vodu 17.3%, altri 15.5% (censimento 2002). In Ghana, i praticanti le religioni locali sono una realtà molto più esigua: cristiani 68.8% (pentecostali/carismatici 24.1%, protestanti 18.6%, cattolici 15.1%, altri 11%), musulmani 15.9%, religioni tradizionali 8.5%, altre 0.7%, nessuna 6.1% (censimento 2000). Nella lettura di questi dati bisogna valutare le forti differenze all’interno di ogni paese tra nord e sud, dato che nel nord si concentrano la maggior parte della popolazione di confessione islamica.

Introduzione

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Indirettamente m’inserirò nel dibattito teorico sul destino della religione “locale”. La letteratura che si è occupata della conversione in Africa ha, a diversi livelli, previsto la sua fine (Peel 1968, Parrinder 1972, Fisher 1973, Augé 1988), oppure si è interessata alle sue influenze nella pratica locale delle religioni universali (Horton 1971, 1975). Meno frequenti i testi in cui si siano evidenziati gli apporti costruttivi delle religioni universali, dell’Islam in particolare, a parte alcune importanti eccezioni (Matory 1994a, Amselle 2001). Continua a essere un compito difficile rispondere alla domanda se il vodu sia destinato a soccombere di fronte all’avanzare delle religioni universali e delle molte chiese indipendenti. Nonostante secoli di contatti con l’Islam, gli orisha yoruba non sono scomparsi, ma si sono anzi diffusi in altre parti della Nigeria, in Bénin e nelle Americhe. La “familiarizzazione” con le religioni universali ha sfumato i confini tra le varie identità religiose, portando alla condivisione di alcuni dogmi, come ad esempio quello dell’esistenza di un Dio unico superiore, o all’incorporazione di forme rituali apparentemente in contrasto con l’idea di “tradizione”, che rimane un paradigma molto forte negli studi e nei discorsi che parlano di vodu e religioni locali. Il vero rischio è piuttosto quello di stabilire un parametro di riferimento, incarnato proprio dalla “tradizione”, con cui confrontare e valutare la purezza dei fenomeni contemporanei: ciò rischierebbe effettivamente di decretare la morte delle religioni cosiddette locali. Il gorovodu – vodu della noce di cola – nacque dalla rielaborazione dei culti antistregoneria, che circolarono nella Gold Coast tra l’Ottocento e il Novecento. Questi, a loro volta, si erano originati a partire dai culti ancestrali e della terra dei popoli del nord – tallensi, mamprusi, wa, gonja. In quegli anni si sviluppò un intenso flusso di uomini, oggetti e credenze tra il nord e il sud, tra la regione della savana e quella della foresta. La crescente richiesta di manodopera per le piantagioni e le miniere del sud aveva infatti dato vita a un importante flusso migratorio legato al lavoro stagionale, il cui bacino erano proprio le più isolate e povere regioni del nord. Il gorovodu, in Togo e in Bénin, si divide oggi in due ordini, il tron kpeto ve e il tron kpeto deka. Nel primo sono confluiti molti dei culti antistregoneria che si diffusero in epoca coloniale, mentre nel secondo uno solo tra questi, chiamato Kunde. Quest’ultimo per la sua semplicità rituale e un presunto monoteismo è stato definito un culto vodu moderno, mentre il tron kpeto ve si inscrive più facilmente nella categoria di culto tradizionale.

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Lo studio della mobilità di un culto come il gorovodu5 consente in primo luogo di superare la distinzione analitica tra tradizione e modernità, mostrando come le credenze e le pratiche religiose africane siano profondamente storiche e, in seconda istanza, ricordando come i cambiamenti debbano essere seguiti, non solo nella dimensione temporale ma anche in quella spaziale. Data la sua recente genesi, il gorovodu permette di affiancare un’analisi diacronica a una prospettiva di tipo sincronico. Quest’ultima, attraverso la comparazione dei culti, consente di osservare le differenze, a livello di pratiche e d’implicazioni sociali e politiche, tra i diversi ordini e, all’interno di un medesimo ordine, tra un luogo e l’altro. L’approccio diacronico impone di confrontarsi con i documenti d’archivio, con i ricordi di chi fu testimone del diffondersi del culto e con le costruzioni mitologiche che negli anni sono state prodotte. Gli uomini che fecero viaggiare i culti operarono continue connessioni tra mondi distanti, ispirandosi ai culti ancestrali della savana, all’Islam, alle religioni cristiane, alle divinità della costa. La trama negli anni si è andata infittendo, grazie all’acquisizione, ad esempio, di divinità indù e di nozioni afferenti alla Cabala e all’Alchimia. Un secondo punto d’interesse nello studio del gorovodu è la possibilità di guardare in modo differente le religioni “tradizionali” e la loro interrelazione con le religioni universali. Chi pratica il gorovodu lo definisce un vodu “hausa”, cioè secondo il linguaggio locale musulmano (goro – noce di cola – è una parola hausa); il culto evidenzia complessi processi mimetici, mutuando alcune pratiche proprio dall’Islam e dalle chiese cristiane. La mimesi è un’attività conoscitiva, secondo Aristotele (Poetica, cap. IV, IX), più seria della storia, perché imitando l’altro mostra quello che la vita potrebbe essere; si dà quindi anche una lezione di morale: storico e poeta sono diversi perché il primo rappresenta fatti realmente accaduti, il secondo cose quali potrebbero accadere. E perciò la poesia è più filosofica e più elevata della storia, perché la poesia esprime piuttosto l’universale, la storia il particolare (Aristotele, IX. 1451. b. 1-5).

I processi mimetici agiti da chi pratica il gorovodu mostrano le metamorfosi in atto nella cultura locale, ma soprattutto la plasticità del vodu e la sua capacità di «porsi al centro del proprio universo discorsivo» (Matory 1994a:498) immaginando, attraverso l’appropriazione del passato, un futuro differente. 5. È la prospettiva ad esempio seguita da Jean Allman e John Parker (2005), in un recente saggio su Tongnaab, uno dei culti che dalla regione della savana giunsero in quella della foresta, entrando a far parte, in qualche misura, anche del gorovodu.

Introduzione

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In terzo luogo la possibilità di tracciare la genealogia di un culto consente di approfondire alcuni temi propri all’antropologia delle religioni, come il sacrificio, la possessione, il ruolo del rituale e più in generale comprendere cosa sia una religione politeista e come possa continuare a esprimersi in un mondo dominato dalle religioni e dal pensiero monoteista. Infine, vorrei mostrare come il vodu interagisca con la società contemporanea, come dialoghi con la politica e come il suo linguaggio sia in sintonia con gli stimoli che circolano nella società, reagendovi o uniformandovisi. Il gorovodu, nel panorama dei differenti ordini vodu, sembra, grazie al suo percorso storico e alla sua rivendicata “modernità”, più disposto ad acquisire alcuni dei linguaggi suggeriti dalla realtà contemporanea, attraverso processi mimetici e acquisizioni più o meno esplicite di pratiche alloctone. Il gorovodu, come il vodu nel suo complesso, sta guardando con sempre maggiore interesse alle politiche di patrimonializzazione, agli organismi internazionali di tutela della cultura e dei saperi locali, ai conseguenti interessanti flussi economici e all’industria del turismo. Come cercherò di mostrare, diversi leader vodu si sono trasformati in abili imprenditori, capaci di captare i flussi economici e di dialogare con la diaspora, reale serbatoio di un turismo interessato alle “origini” e alle “tradizioni”. È ora utile tracciare un breve quadro storico della regione presa in esame sia per facilitare la comprensione dei fenomeni che verranno analizzati sia come introduzione alla dinamica delle narrazioni africane, nelle quali la dimensione spaziale e quella temporale si intrecciano costantemente, e il viaggio, la dislocazione sono sovente alla base di ogni nuova formazione sociale (Allen, Shain 2005). Dalla Nigeria fino al Ghana, le migrazioni e le diaspore, immaginate, reali o mitiche che siano, hanno costruito lo spazio politico, sociale e identitario delle molte popolazioni che abitano la regione. Esse hanno fornito la materia per rivendicare un’origine comune e giustificare, ad esempio, le molte divinità che i diversi gruppi condividono e, quando necessario, rielaborare un differente percorso di costruzione identitaria, in opposizione agli altri gruppi. 1. Inquadramento storico-geografico La regione geografica in cui il vodu è più diffuso coincide con l’area culturale detta aja-tado, delimitata a ovest dal fiume Volta, a est dal fiume Ouémé e a sud dall’oceano Atlantico. A nord si estende per una profondità

Introduzione

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di appartenenza. Nicoué Gayibor (1997) identifica nove gruppi linguistici principali, facenti capo agli aja-tado – aja, ewe, guin, xwla, xwéda, fon, gun, ayizo, sahwé – i quali sono a loro volta suddivisi in sottogruppi, come ad esempio il gruppo ewe, al quale appartengono l’anlo, lo ouatchi, il bè, l’agou e altri ancora. La ricostruzione storica della formazione del gruppo aja e della fondazione della città di Tado, situata nell’attuale Togo, è un compito estremamente arduo. Le differenti versioni riportate dalla tradizione orale spesso divergono e si smentiscono l’un l’altra, pur mantenendo una coerenza di fondo.8 Il dato che permane è, in primo luogo, quello di una regione attraversata da continui movimenti, flussi migratori e conflitti e, in secondo luogo, la constatazione di un processo incessante di costruzione e reinvenzione della storia. Si ritiene che i primi antenati giunsero a Tado9 dai paesi yoruba dell’attuale Nigeria.10 A queste prime migrazioni ne seguirono altre che portarono alla fondazione di differenti quartieri, presumibilmente di altri villaggi, nell’area circostante Tado. Lo sviluppo della città fu facilitato dalla sua posizione privilegiata: non lontano dal fiume Mono e ai limite della zona forestale, Tado era in contatto sia con i popoli del nord che con quelli della costa. L’epoca di maggiore sviluppo della città si ritiene sia stata tra il XIV e il XVII secolo, durante la quale Tado rivestì il ruolo di centro industriale della regione, come 8. Tra gli studiosi che hanno in varia misura affrontato il tema della dispersione aja vi sono: Spieth (1906), Bertho (1946, 1949), Pazzi (1973), De Medeiros (1984), Law (1991), Gayibor (1997), Greene (2000), Akyeampong (2001). 9. Togbé Anyi (togbé significa in ewe, padre, antenato), principe di Oyo – città yoruba oggi situata in Nigeria – sarebbe migrato a Ketu – città yoruba all’interno dei confini beninesi – e da lì sarebbe ripartito per fondare, sulle rive del fiume Mono, la futura città di Tado. Le tradizioni orali anlo sembrano attestare questo antico legame con gli yoruba e con il regno di Oyo, anche se in realtà la tradizione si concentra essenzialmente solo sulla successiva dispersione da Notsé (città dell’attuale Togo, che arebbe stata fondata dopo la dispersione da Tado); appare più storicamente fondata l’ipotesi che le connessioni tra anlo e yoruba si stabilirono durante il periodo della tratta (Greene 2000:86-87). A Ketu, inoltre, non vi è memoria di questo passaggio degli aja, probabilmente perché la partenza fu dovuta a una lotta dinastica e non vi furono ragioni politiche per conservare la memoria di colui che perse la disputa. Gayibor (1997:155) mette in dubbio l’esistenza storica dell’antenato mitico Togbé Anyi, a cui oggi si rende un culto a Tado, evidenziandone piuttosto la dimensione mitica. 10. Difficile situare storicamente l’arrivo dei migranti yoruba, o presunti tali, a Tado; i ritrovamenti archeologici testimoniano l’esistenza di un’attività metallurgica tra l’XI e il XII secolo e, considerando che anche la fondazione di Ketu è fatta risalire all’inizio dello scorso millennio, Gayibor (1997:157) presume che il periodo sia verosimile.

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testimoniano i primi cronisti europei (Gayibor 1997:155). Da Tado partirono importanti flussi migratori diretti verso i territori limitrofi, che determinarono il futuro assetto politico della regione.11 Tra i principali vi sarebbe stato quello che già a partire dal XV secolo portò alla fondazione di Allada12 a sud-est e di Notsé13 a ovest, e successivamente la migrazione dei xwéda e xwla verso il litorale. I xwéda si stabilirono attorno al lago Ahémé, per poi spingersi verso Saxé e Gléhwé (Ouidah); nella seconda metà del XVIII secolo, alcuni lignaggi si spostarono nuovamente verso occidente, probabilmente in seguito ai conflitti con Abomey. I xwla si spinsero fino alla bocca del Mono, quindi fondarono diversi centri tra cui Agome-Séva, Adamé e Xwlagan (Gran Popo). All’inizio del XVII secolo i xwla, spesso citati nei testi dei primi viaggiatori europei come “popo”, occuparono tutta la Costa degli Schiavi,14 dal Volta fino al Badagri (non distante da Lagos), fondando le principali città costiere (Gayibor 1997:164-165). 11. Secondo Robin Law (1991:27-28) i supposti legami degli ewe con le città di Tado e Ketu nascondono in realtà questioni di attribuzione di poteri. Law sostiene piuttosto l’importante influenza politica e culturale rappresentata da questi luoghi nelle epoche successive. 12. Allada, nell’attuale Bénin, a pochi chilometri da Abomey, diverrà un’importante città nella storia della regione e del Dahomey più in particolare. Allada viene citata in un resoconto di viaggio dei missionari portoghesi già nel 1539. Maggiore spazio al regno del Dahomey è dato nel capitolo 1. 13. Notsé era, come Tado, una città fortificata. Nel 1669, sicuramente dopo il periodo di suo massimo splendore, Sieur D’Elbée (fece parte di una spedizione commerciale francese a Allada, autore del Journal du voyage du Sieur d’Elbee e Suite du journal de Sieur d’Elbee pubblicato nel 1671 ) scriveva: «Il re di queste terre è potente […] si dice che possa facilmente raggruppare cinquecentomila uomini e che la città dove ha la sua dimora sia popolosa e più grande di Parigi» (in Gayibor 1997:176). L’importanza di questa città iniziò a manifestarsi a partire dalla metà del XV secolo; divenne un centro di scambi commerciali, soprattutto per la produzione di terrecotte, tra il XVI e meta del VXIII secolo. 14. Il tratto di costa dell’Africa occidentale, che fu successivamente definita “costa degli schiavi”, fu raggiunta per la prima volta dai portoghesi negli anni Settanta del XV secolo. Divenne una regione importante per i commerci dopo la metà del XVI secolo, quando i portoghesi cercarono, senza successo, di tessere relazioni commerciali con il regno di Popo, poi conosciuta come Gran Popo. Solo dopo pochi anni, ebbe inizio il commercio di schiavi proprio da questa regione e già agli inizi del XVII secolo i portoghesi intratteneva relazioni commerciali regolari, prevalentemente in schiavi, con il regno di Allada, che si trovava poco più a est di Popo. Negli anni Trenta del XVII secolo i portoghesi furono in parte soppiantati nel commercio di schiavi dagli olandesi, ma fu solo l’ingresso dei francesi e degli inglesi, dopo la metà del XVII secolo, che iniziarono a rifornire di schiavi le loro colonie nei Caraibi, a mutare l’assetto della regione e le dimensioni della tratta (Law 1986).

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Secondo le tradizioni orali più recenti, e non attestate prima della seconda metà del XIX secolo, il Dahomey fu fondato da un principe della famiglia reale di Allada, probabilmente nel secondo quarto del VXII secolo e da principio fu alle dipendenze di Allada. Nei primi anni del XVIII secolo, sotto un re chiamato Agaja, divenne il più importante centro della Costa degli schiavi (Law 1986:241-242).15 Analogamente a quanto successo per Tado, anche la città di Notsé è divenuta un luogo mitico, collocato all’origine delle molte diaspore che coinvolsero gli aja-tado (Gaybor 1997, Akyeampong 2001, Greene 2002). Dalla città di Notsé partì quella che viene comunemente definita la “diaspora ewe”. Una condivisa tradizione orale narra che gli ewe fuggirono dalla città per sottrarsi al potere dispotico del leggendario re Agokoli. L’esodo da Notsé viene fatto risalire a un periodo variabile tra il XVI e il XVII secolo, alla fine del quale la città divenne un piccolo borgo.16 La tradizione orale dipinge Agokoli come un uomo forte, coraggioso ma spietato e crudele; un tiranno che cercò di cambiare il regime politico che vigeva da generazioni a Notsé, suscitando l’opposizione dei più importanti lignaggi della città. È divenuto oggi una figura leggendaria; secondo Gayibor (1996), Agokoli, aldilà delle leggende che si sono accumulate nei secoli, rappresenta il fallimento del tentativo di imporre una forma politica centralizzata. Il dato significativo, che si nasconderebbe nelle mille narraIl centro principale per il commerciò di schiavi divenne Ouidah. I numeri incrementarono drammaticamente: se nel 1670 si stimava che circa 3.000 schiavi partissero da Allada, a partire dal 1688 Allada e Ouidah esportavano circa 20.000 schiavi all’anno. Tra la fine del XVII e l’inizio del VXIII secolo l’area divenne il principale centro nella tratta di schiavi dall’Africa, e ottenne l’appellativo di Costa degli schiavi (Law 1986). 15. Nel 1715 il Dahomey ruppe l’alleanza con Allada e iniziò la sua rapida espansione verso la costa. Nel 1724 conquistò Allada e nel 1727 Ouidah. Anche se fino al 1823 continuò però a essere tributario di Oyo, la sua egemonia nella regione fu sovvertita solo dalla conquista francese negli anni Novanta del XIX secolo (Law 1986:242). 16. Gaybor (1997:193-198) distingue due fasi della dispersione da Notsé: la prima portò alla fondazione dei grandi centri regionali (Tsévié, Bé, Togoville, Leta, Anloga, Ho, etc) e la seconda a quella di innumerevoli villaggi disseminati in tutta la regione. Il gruppo del sud è dominato dai dogbo e dai lignaggi apparentati, che occuparono tutta l’area tra il fiume Volta e Aflao (città ghanese, sul confine con il Togo) e che oggi sono chiamati anlo. I ouatchi, che risiedono nel sud est del Togo, potrebbero appartenere al medesimo gruppo, ma secondo altre tradizioni avrebbero lasciato Tado in un secondo tempo, senza passare dalla regione anlo. Il gruppo del sud-ovest diede vita a diverse comunità tra cui Asogli, Akoviéfé, Kpénoé, Hodzo, Adaklu. L’occupazione delle terre occidentali, più difficoltosa ed eterogenea, diede invece origine ai gruppi di Peki, Kpando, Kpalimé, Agomé, Savi, etc (Pazzi 1984:16).

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zioni locali, è proprio il rifiuto di un cambiamento politico che differenzierà definitivamente le strutture politiche e amministrative dell’area tra il Volta e il Mono, da quelle ashanti e fon. Secondo Sandra Greene (2002:22-23) anche questa interpretazione molto ideologica appartiene all’ampia rassegna di mitologie che in epoche differenti è stata costruita attorno a questa presunta comune origine. Le vicende che si svilupparono attorno a Notsé sono interessanti proprio perché la città «è servita come luogo geografico attraverso il quale molti anlo a molti altri nel sud est del Ghana e nel sud del Togo hanno definito se stessi», è stato ed è tuttora un luogo in cui le memorie e i significati sono stati continuamente plasmati «dalle agende politiche, religiose ed economiche» (2002:15). Una città che testimonia del continuo fluire e ricomporsi delle popolazioni di questa regione è Aneho, l’antica Pétit Popo. La città sorge tra laguna, fiume e oceano e si estende fino al confine con il Bénin. Nell’entroterra di Aneho si trova Glidji, la capitale dell’antico regno di Glidji, che si sviluppò grazie alle migrazioni di gruppi di rifugiati ga, fante, anlo e adangbe in fuga, a partire dalla metà del XVII sec., dall’attuale Ghana.17 I gruppi provenienti da ovest arrivarono in un territorio già abitato da altre popolazioni, come i sopra citati xwla e xweda, che non furono però 17. La componente più importante del flusso migratorio verso est fu la popolazione costiera dei ga, che abitava l’area attorno ad Accra. Durante il XVII secolo, i ga estesero la loro influenza verso le regioni abitate dai akwamu, latebi e adangbe. I conflitti con gli akwamu, insediati sulle colline situate a nord di Accra e interessati a inserirsi nell’economia fondata sui commerci costieri con gli europei, furono probabilmente la causa che spinse i ga a migrare. Nel tentativo di sfuggire ai nemici, si narra che parte della famiglia reale scappò verso est, in direzione di Petit Popo, l’attuale Aneho. Secondo la tradizione locale, Glidji fu fondata da Foli Bebe, principe della famiglia reale di Accra, ma molto probabilmente la sua figura rappresenta e semplifica l’opera di più persone (Law 2001:39). I ga ripresero i commerci con gli europei e a partire dalla fine del XVII secolo per tutto il XVIII secolo, periodo dell’apogeo del piccolo regno, il commercio divenne sempre più importante in quest’area. La città maggiormente coinvolta fu Aneho avamposto marittimo di Glidji. Aneho viene menzionata per la prima volta nel 1659, nei resoconti di viaggio europei, come importante luogo del commercio fluviale. Ciò potrebbe confermare le tradizioni locali secondo le quali, se a Glidji si stanziarono i rifugiati provenienti da Accra, ad Aneho arrivarono in ondate successive, a partire da metà del XVII secolo, i gruppi akyem, adangbé e fanti, sia dalla regione costiera attorno ad Accra che da Elmina (Law 2001:37). Tale migrazione sarebbe stata connessa proprio al traffico fluviale su piroga, attività nella quale i fanti erano massimi esperti. In questa prima fase, Aneho non fu direttamente implicata nel commercio con gli europei ma rivestì un ruolo di supporto come luogo di interscambio tra la Gold Coast e Ouidah e di passaggio tra il transito marittimo e quello lagunare (Law 1989:232).

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di ostacolo all’insediamento dei nuovi immigrati. Questi ultimi avevano già esperienza delle pratiche commerciali con gli europei e una maggiore confidenza con la navigazione marittima, per cui riuscirono a imporre la loro egemonia (Law 1989:219). I gruppi che si installarono ad Aneho, pur riconoscendo l’autorità di Glidji, erano il prodotto di un differente percorso storico e altre erano le motivazione del loro migrare. Se i fondatori di Glidji arrivarono essenzialmente come rifugiati, la mitologia vuole che il fondatore di Aneho, Quam Dessou, arrivò via mare come esule da Elmina, in seguito a una disputa politica, o forse come mercante o forse come pescatore. Law mette in luce come, a differenza delle tradizioni locali che tendono ad associare le fondazioni di Glidji e Aneho come un unico fenomeno storico e sociale, nel caso di quest’ultima, si trattò di una pura penetrazione commerciale iniziata già nella metà del XVII secolo, quindi prima dell’arrivo del mitico fondatore di Glidji, Foli Bebe (Law 1989:219). Ad Aneho si installarono quindi dei notabili, già coinvolti nei commerci con gli europei e che lungo tutto il XVIII secolo lottarono tra di loro per raggiungere l’egemonia economica sull’area. Durante questo secolo, sia le tensioni con i popoli confinanti, a est Allada e Abomey, a ovest gli akwamu e gli ashanti, sia le molte e continue lotte interne non consentirono un vero successo economico e l’esplodere di una “civiltà” mina.18 Le guerre si concentrarono durante il XVIII secolo soprattutto verso ovest, nei ripetuti e alterni tentativi di conquistare le città di Aflao e Keta, nell’area del delta del Volta (Greene 1981:458-459). A partire dal XIX secolo, i movimenti migratori che da sempre avevano interessato la città, si spostarono verso est e le relazioni economiche, politiche e culturali furono indirizzate soprattutto verso Ouidah, Cotonou e altre località aja, situate a est del Mono. Questo secolo vide una dinamizzazione della vita economica,19 dovuta anche a un importante cambiamento nella geopolitica regionale e internazionale. La politica abolizionista iniziata dai britannici, seguiti poi dai francesi, bandì la tratta atlantica, apren18. La città di Aneho restò sempre alleata di Glidji, fornendo le forze umane ed economiche per affrontare le molte guerre, poiché una differente strategia politica avrebbe comunque significato soccombere alla maggiore forza militare dei popoli confinanti. Il momento di reale successo economico del regno di Glidji coinciderebbe quindi piuttosto con l’inizio del XIX secolo e non con il XVIII secolo, e avrebbe avuto luogo ad Aneho e non a Glidji (Goeh-Akue 2001:567). 19. Importante fu l’influenza culturale ed economica della componente afro-brasiliana (Wilson 1984).

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do lo spazio alla tratta illegittima che continuò a portare schiavi dalle coste africane verso le Americhe.20 Le pressioni e i controlli europei sulle navi che transitavano lungo la costa, si concentrarono soprattutto su Abomey e di conseguenza sul porto di Ouidah, facendo ripiegare molti commercianti21 più a ovest, verso i paesi mina (Goeh-Akue 2001:575). Negli anni, le contingenze internazionali resero però più difficile e meno lucrativa la vendita di schiavi sul mercato atlantico e ciò ne spostò e concentrò l’utilizzo nell’economia locale, sempre più spinta verso la produzione di piantagione. La schiavitù domestica divenne dunque centrale nell’economia dell’area, un «modo di produzione» (Lovejoy 2000). Proprio il XIX secolo fu il periodo di maggiore opportunità economica per Aneho, verso cui confluirono i nuovi immigrati dalle Americhe, i cosiddetti afro-brasiliani – gli ex schiavi che facevano ritorno in Africa – che spesso si dedicarono anch’essi con successo al commercio legittimo e illegittimo. La tratta illegittima, le piantagioni di palme da olio, di palme da cocco, di cereali e tuberi contribuirono al costituirsi di una fiorente economia (Goeh-Akue2001:582). 2. I percorsi della ricerca Il mio lavoro di ricerca sul campo è iniziato22 nell’area di lingua ouatchi, in Togo, una zona agricola attorno alle sponde del fiume Mono, l’attuale confine con il Bénin. Sono luoghi ai margini della cultura e della religione vodu, poiché “la culla” del vodu, secondo la definizione locale, coincide con la città di Abomey, l’antica capitale del Dahomey. Il Bénin fornisce una letteratura etnologica più ricca e una visione del vodu assai più organica. Gli studi che per almeno due secoli si sono concentrati sulla monarchia del Dahomey 20. La tratta cambiò aspetto e le grandi navi furono sostituite da piccole imbarcazioni da cabotaggio, meno visibili e capaci di sfuggire ai pattugliamenti inglesi. Gli imbarchi avvenivano da Aneho, Agoué, Goumoukopé, Porto Seguro; il lago Togo divenne il nodo di questo traffico, poiché gli schiavi venivano imbarcati sulla sponda nord e sbarcati a sud, praticamente già lungo la spiaggia sull’oceano. 21. Questa fu ad esempio la politica del famoso negriero Félix Francisco de Souza (Gaybor 2001:29), che, ad Aneho, comprò la penisola di Adjido, per costruire un accampamento dove “stoccare” gli schiavi in attesa d’imbarco. 22. Nel 2001 e 2002 ho trascorso un primo periodo di ricerca ad Afagnan, in Togo; dal 2004 al 2008 circa 14 mesi tra Bénin, Togo e Ghana.

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hanno contribuito a standardizzare il vodu e a farlo apparire più strutturato di quanto non risulti osservandolo dalle aree di confine. La collocazione eccentrica del campo di ricerca ha fatto più facilmente emergere la frammentarietà, dinamicità e plasticità del vodu. Si tratta indubbiamente di una delle prospettive possibili; se fossi partita dal centro, verso il quale poi mi sono spostata, per andare in direzione periferica, il risultato sarebbe stato in parte differente e probabilmente più organico. Dal punto di vista della ricerca antropologica, il riconoscere la variabilità dei possibili percorsi, significa attribuire all’antropologia lo statuto di scienza morale delle possibilità (Carrithers 2005), capace cioè di delineare anche gli incerti spazi abitati dalle possibilità inespresse e dalle conseguenze non consapevoli, che agiscono attorno a un sistema di apparente e duratura stabilità. Il vodu, considerato espressione di una tradizione arcaica, rischia di essere continuamente reificato come forma immutabile di una religiosità in via di esaurimento. Come vedremo, confrontarsi con l’organica letteratura che si interessò al Dahomey, o prendere Abomey come punto di partenza, riconferma una visione ormai solidificata del vodu e mette in luce i cambiamenti rispetto a un modello che fu storicamente egemone. Nelle aree periferiche, come quelle del Togo contemporaneo, il vodu si espresse secondo dinamiche più frammentate, talvolta talmente poco organiche da lasciare labili tracce, che permettono però di immaginare quei percorsi che sfuggirono ai poteri egemoni e agli occhi degli studiosi europei. I lati più in ombra aiutano a comprendere come sovente i fenomeni siano stati e siano ancora oggi il prodotto di scelte non consapevoli, come la casualità e gli spazi di possibilità inespressa siano anch’essi il risultato fecondo dell’intersecarsi di percorsi storici e geografici e del movimento degli uomini. In tal senso solo la ricerca sul campo consente di incorporare il sapere legato alla possibilità, che sedimenta nel nostro sangue e talvolta nelle nostre ferite fisiche o morali che siano (Carrithers 2005:437). L’area ouatchi, storicamente costruita dall’incontro di gruppi di diversa provenienza, frutto di successive migrazioni volontarie e forzate, ha sempre avuto una struttura politica debole e frammentata. Ogni gruppo rivendica oggi l’adesione a determinati vodu, proprio come strumento di affermazione politica e di costruzione identitaria. L’esempio del villaggio di Agbetiko, situato lungo le rive del fiume Mono, può esplicitare la complessità della pratica religiosa in questa regione; il villaggio è diviso in quartieri, caratterizzati da una presunta prevalenza etnica (ouatchi, guinmina, fon, xwla etc.); ogni quartiere venera in primo luogo i vodu che

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appartennero al capo famiglia fondatore, a cui negli anni si sono aggiunti quelli degli altri membri della famiglia e infine i vodu condivisi da una più ampia fascia di popolazione o di più recente acquisizione, come i vodu ”stranieri”, acquisiti nei paesi confinanti. Questa frammentazione, il cui minimo denominatore comune è rappresentato dai vodu personali, si ripercuote sulle forme degli oggetti, la tipologia dei santuari e l’accostamento dei differenti vodu raccolti al loro interno. Ciò non significa che ogni culto sia radicato in modo univoco solo in un luogo specifico o esclusivamente in un gruppo etnico, ma che esistono delle strategie di costruzione della storia, dell’appartenenza e dello spazio che intessono saldamente la religione e la politica. Le mitologie fondative dei popoli che abitano questa regione sono costruite attorno a racconti di migrazioni, diaspore e guerre, che coinvolsero uomini e dei e che portano inevitabilmente a un processo di frammentazione. Per contro, nel vodu vi è una capacità di adattarsi ai luoghi e ai contesti storici e politici, sintomo di un’omogeneità riscontrabile a un livello più profondo. Se la sua fenomenologia può differire anche da un santuario all’altro, le metamorfosi, l’attitudine a inglobare nuove presenze divine, la centralità della pratica, l’importanza della “materia” e la multiformità delle sue espressioni sono delle costanti che appartengono a tutti i vodu africani. Nonostante le linee di continuità e di filiazione rintracciabili, il mio scopo non è quello di tracciare un ulteriore quadro teologico e cosmologico della religione vodu, poiché la letteratura ne è già ricca e lo sforzo di rendere coerente ciò che è frammentario può addirittura rivelarsi controproducente (Keesing 1996:212). 3. Il gorovodu I villaggi attorno al Mono sono considerati un’area d’intensa pratica vodu e richiamano molti clienti, che vengono dalla città a consultare i féticheurs23e i bokono24 locali. Il paesaggio rurale è costellato dai segni della 23. Con féticheurs si indicano impropriamente tutti i leader vodu, anche se spesso il termine indica quegli uomini o donne, che avendo moltissimi vodu, hanno sviluppato dei saperi e delle pratiche molto personali e originali. 24. I bokono sono i sacerdoti iniziati a Fa, il vodu o oracolo in grado di mettere in comunicazione gli uomini con i vodu e con tutte le forze del mondo dell’invisibile. Attraverso Fa si può conoscere il proprio destino e cercare di influenzare gli eventi della vita, negoziando soluzioni possibili con le divinità stesse. È una carica esclusivamente maschile.

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presenza dei vodu, riconoscibili dalle bandiere rosse, bianche e nere, che sventolano in corrispondenza dei santuari. Nei campi, a protezione del raccolto, si installano i bo, talismani portatili appesi a un palo o infissi nella terra e spostandosi da un villaggio all’altro, lungo i molti sentieri che li collegano, si riconoscono alcuni importanti vodu legati alla terra, come il serpente Da, o al mondo vegetale, come Loko. All’esterno delle abitazioni e all’ingresso di ciascun villaggio vi è invece Legba, guardiano e mediatore tra gli uomini e le divinità. Lo spazio è segnato – perforato nel senso proprio del termine – dalla presenza del mondo invisibile, che attraverso la materia si rende visibile e costantemente presente agli occhi degli uomini. Le vodussi (spose del vodu) – le adepte del vodu – con il corpo segnato dalla loro unione con l’invisibile, ogni giorno trasportano al mercato o nei campi il loro carico di forza cosmica. Raramente la notte passa senza che risuonino nel silenzio totale della campagna i tamburi di qualche cerimonia vodu. La maggior parte degli insediamenti non ha la luce elettrica e l’oscurità mantiene intatto tutto il suo mistero. La notte è abitata, infatti, secondo le rappresentazioni locali, da presenze minacciose e da tutti gli esseri invisibili – morti, antenati, vodu ed emissari della stregoneria – che si trovano più a loro agio nel buio e preferiscono frequentare lo spazio sociale, quando i vivi dormono. Tutto sembra concordare con l’immagine esotica di un luogo remoto, estraneo ai flussi globali e al moderno scorrere del tempo, quasi a confermare l’idea di un’Africa diversa e “tradizionale”, da opporre a un’Europa moderna, il cui tempo appare addirittura accelerato. Augé (1988) che visitò gli stessi villaggi negli anni Settanta, scriveva: ho spesso avuto la sensazione di avere sotto gli occhi ciò di cui sentivo parlare alcuni anni prima in Costa d’Avorio come di un’istituzione ormai superata. […] almeno nelle zone rurali nessun sincretismo aveva intaccato i culti locali delle stesse divinità dei fon del Dahomey e degli yoruba della Nigeria del secolo scorso. Una permanenza degna di attenzione […] (Augé [1988] 2002:8).

Anche il più recente studio di Nadia Lovell (2002), che ha lavorato proprio tra le popolazioni di lingua ewe, conferma l’idea che qui le religioni universali e soprattutto quella cristiana non abbiano avuto alcun impatto. Il confronto è condotto rispetto alle aree di lingua ewe dell’attuale Ghana, nelle quali l’influenza evangelizzatrice è stata sicuramente molto più pervasiva ed efficace (Meyer 1999, Greene 2002). Spostandoci verso oriente,

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tra i fon, la sensazione che l’area del Mono mantenga un attaccamento alla pratica vodu forte e vitale e che i suoi abitanti siano meno interessati a dialogare con le chiese indipendenti, sembra confermata. Da ciò non si deve dedurre che la regione ouatchi sia stata esterna ai flussi della storia, né deve evocare l’idea di una società chiusa e remota. Al contrario l’area è stata duramente segnata sia dai conflitti tra i regni vicini sia dalla tratta atlantica, fenomeni che entrambi hanno completamente ridisegnato la composizione della popolazione e delle divinità di questi luoghi.25 I vodu, che si esprimono attraverso un linguaggio fatto di relazioni e incorporazioni, nascondono le tracce lasciate dagli uomini e dalla storia stessa. Vodu come Mami Tchamba, Mami Wata e il gorovodu stesso testimoniano l’essenza storica delle divinità e la loro intrinseca capacità di dialogare e inglobare le altre religioni, come l’Islam e il Cristianesimo. Ad Agomeseva, un villaggio di frontiera da dove partono le piroghe per il Bénin, visitai per la prima volta un santuario del gorovodu. Chi mi accompagnava mi disse: «ora ti faremo vedere delle streghe». All’interno vi erano due donne in trance che cercavano di curare un adolescente, vittima di un attacco di stregoneria e in evidente stato confusionale. Il luogo mi era apparso, da un punto di vista iconografico e architettonico, differente dagli altri, più grande e spazioso ma a parte ciò non vi era nulla che lo connotasse e soprattutto nessuno che lo avesse definito come una realtà in qualche modo esterna al panorama locale.26 Quando tre anni dopo giunsi a Porto Novo, in Bénin, dove Joseph Adandé, professore all’Università di Abomey-Calavì, mi suggerì di concentrare la ricerca sul tron, un culto, mi disse, che non era proprio un vodu e la cui pre25. Tutte le località situate lungo la costa sono state implicate, in tempi e a livelli differenti, nella tratta atlantica, da Anloga fino a Badagri. In alcune località, come Keta, Aneho, Gran Popo, Ouidah, Offra e Jakin (Gaybor 1996:110), vi furono quartieri danesi, olandesi, inglesi, francesi e portoghesi, a seconda delle compagnie straniere che vi si installavano. I flussi di fuggitivi, sia da est sia da ovest, in seguito alle numerose guerre e razzie e il trasferimento forzato di schiavi destinati ai lavori domestici e alle piantagioni, contribuirono in oltre a creare un ambiente sociale cosmopolita, fluido ed estremamente eterogeneo. 26. Lovell, ad esempio, presenta un case study nel quale racconta la storia di una sacerdotessa «tra le più potenti guaritrici della regione che circonda Momé Hounkpati» (vicino ad Atikesimé) del «vodhun Tro Kpethundeka», cioè un gorovodu. La sacerdotessa, come riferisce Lovell, aveva ottenuto il vodu dopo essere stata accusata di stregoneria e in seguito liberata proprio grazie a questo vodu (2002:101-103). Non traspare alcun riferimento alla storia del vodu o comunque a una sua eteronomia rispetto alle altre divinità presenti nella regione.

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rogativa era la lotta contro la stregoneria, non pensai che si potesse trattare di ciò che avevo già visto in Togo. In Bénin se ne parlava come di un culto moderno, diverso, quasi antagonista rispetto ai vodu; più prossimo alle chiese indipendenti che alla religione cosiddetta tradizionale. Dopo aver visitato alcuni santuari beninesi e riconosciuto le stesse forme e i medesimi oggetti, capii che non erano altro che il gorovodu incontrato in Togo. Questa “scoperta”, mise in una nuova prospettiva i santuari togolesi, che assunsero una profondità storica che mi era sfuggita al primo incontro. Capii che i remoti villaggi erano costellati, almeno un santuario in ognuno di essi, da quelli che a pochi chilometri di distanza erano diventati i vodu “moderni”. Decisi di tornare da Porto Novo nei villaggi lungo il Mono, a visitare i santuari dei due ordini del gorovodu – il tron kpeto deka e il tron kpeto ve – per cercare di ricostruirne la diffusione e la storia; volevo parlare con i sacerdoti, gli houno o sofo,27 con chi praticava questo culto e quindi ritornare in città. Ancora più sorprendente fu apprendere che proprio da questa regione – poco più a sud, sulle sponde del lago di Togoville – da Zowla per la precisione – partì la diffusione del gorovodu, nella forma tron kpeto deka, verso il Bénin. Uno dei padri fondatori che andò personalmente a prendere il culto in Ghana e lo installò poi nella sua casa a Zowla, era Togneviadzi, nome che viene citato, confuso tra realtà e leggenda, da quasi tutti gli attuali sacerdoti del tron kpeto deka. I remoti villaggi erano quindi totalmente inseriti nei flussi culturali e religiosi della regione. Inoltre, ciò mostrava come i culti più “moderni” e spesso descritti come tipici dell’Africa urbana contemporanea (Tall 1995), si fossero diffusi proprio a partire dalla campagna; anche le distinzioni troppo nette tra realtà rurale e urbana dovevano quindi essere sfumate. Nei contesti urbani la maggior parte dei santuari non sono rintracciabili se non se ne conosce la precisa localizzazione; si nascondono tra i palazzi, nelle zone periferiche, oppure come a Cotonou, al centro del mercato di Dantokpa, tra infiniti cumuli di merci d’ogni tipo. Il loro numero è elevato anche in città e in alcuni casi in aumento; identificarne la collocazione aiuta a comprendere la città, a capirne lo sviluppo e a identificare le differenti ondate migratorie, poiché i migranti si muovevano con le proprie divinità, attorno a cui poi si raggruppavano le comunità. 27. I leader del tron kpeto deka sono chiamati houno (nome comune a tutti i leader vodu, nell’area ewe), mentre sofo è utilizzato solo per definire i sacerdoti del tron kpeto ve. I leader possono essere sia uomini che donne.

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Tornata in Bénin, ho concentrato la ricerca a Porto Novo e a Cotonou, dove vi sono gli houno più innovativi e con maggiore spirito imprenditoriale. Il tron kpeto ve, pur essendo presente anche nella regione del Mono, ha sicuramente una maggiore diffusione urbana, dovuta al fatto che la sua pratica e la sua installazione richiedono delle risorse economiche non sempre a disposizione in un’economia esclusivamente agricola. L’organizzazione del culto gorovodu, nei due ordini, è reticolare. I nodi sono occupati dai sacerdoti che hanno il potere di installare il vodu e formare nuovi sacerdoti. I vari nodi della rete sono uniti da un rapporto gerarchico e da un legame molto stretto che le cerimonie periodiche rinsaldano o incrinano, a seconda delle dinamiche e delle alleanze in atto. Queste reti si possono spezzare, dando forma a nuove filiazioni oppure infittirsi; si estendono su una regione che va dal Ghana alla Nigeria, all’interno della cui trama vi sono sia le città sia i villaggi. Entrando all’interno di queste reti, il mio campo di ricerca si è ulteriormente frammentato, portandomi a conoscere santuari in località spesso decentrate, rispetto ai luoghi prima citati. Il vodu, nel suo complesso, sembra procedere per analogia, grazie a continue appropriazioni e stratificazioni, capaci di costruire nuovi spazi reali e immaginari. Seguire gli uomini e le divinità, senza discostarsi dal percorso principale da cui si è partiti, è quasi impossibile. Chi pratica questi culti dimostra una spiccata sensibilità all’osservazione, una capacità ad ascoltare gli oggetti e a cogliere le similitudini tra fenomeni apparentemente distanti. Perdersi nelle vie secondarie è inevitabile e, a mio parere, uno dei possibili approcci al vodu e alla sua frammentarietà. Per me ciò ha comportato continui spostamenti da una frontiera all’altra, al fine di seguire le migrazioni delle divinità, i pellegrinaggi dei suoi fedeli e la rete di relazioni che avevano tracciato. In alcuni casi è stato utile seguire i suggerimenti forniti da un nome, da un oggetto o da un luogo, per uscire da ciò che talvolta appariva come un labirinto troppo ostile. Le Note sul “ramo d’oro” di Frazer di Wittgenstein (1975:17-32), mi hanno suggerito una giustificazione teorica a questo procedere per strade secondarie. La rappresentazione perspicua «che consiste appunto nel vedere le connessioni», nel trovare «gli anelli intermedi» che richiamano «l’attenzione sulla somiglianza, sul nesso tra i fatti» è stata uno strumento necessario allo studio del fenomeno vodu. Wittgenstein immaginava la connessione come uno strumento grazie al quale liberarsi dalla storia e quindi da una visione evoluzionistica del divenire umano. Nello studio del culto gorovodu la dimensione storica consente invece di immaginare i

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contesti in cui le reti connettive sono state stese e al contempo di liberare la religione tradizionale da una presunta staticità o freddezza. Ho cercato quindi di perdermi, con chi vive e pensa la religione, nei rami secondari. Difficile era prevedere sin dall’inizio se queste piste avrebbero condotto da qualche parte oppure mi avrebbero fatto cadere su un altro ramo, vicino ma non contiguo, da cui riprendere il percorso. Si trattava quindi di percorrere il «giro lungo», che «contiene implicito un elogio del disordine, della marginalità, della residualità» (Remotti 1990:28) e durante il quale vi è la possibilità di incontrare connessioni significanti. 4. Forme d’iniziazione Posizionarmi all’interno del campo di ricerca è stata un’impresa abbastanza difficile. «Vedere le cose dal punto di vista del nativo», vale a dire dal punto di vista di chi è stato ontologicamente formato e cresciuto nel vodu, era impossibile e in qualche misura mi appariva un tentativo ridicolo. Per fortuna l’osservazione antropologica ha da diversi decenni abbandonato l’idea che si possa praticare l’antropologia su basi esclusivamente empatiche e partecipative, avendo piuttosto sottolineato la barriera ontologica che esiste tra antropologo e “nativo”. Non è necessario essere una strega per scrivere di stregoneria, anche se è preferibile che non sia un geometra a eseguire la ricerca (Geertz [1983] 1988:73). Non sarei quindi dovuta diventare per forza una strega – un’adepta o una sacerdotessa – ma non sarei neppure restata ciò che ero. Mi sono sempre trovata in una posizione liminale, sia per chi mi vedeva partecipare alle cerimonie, mese dopo mese e mi chiedeva chi fossi (iniziando a dubitare del mio ruolo di ricercatrice) e perché fossi lì, sia nei confronti di me stessa, non riuscendo a mantenere, nel tempo, un atteggiamento distante nei confronti delle pratiche a cui partecipavo o assistevo. Con il passare dei mesi mi resi conto quanto il mio sguardo fosse cambiato e come mi sentissi sempre più a mio agio in un mondo ontologicamente così lontano dal mio. In molte occasioni mi fu chiesto di iniziarmi al vodu, in modo da apprenderne la pratica e i “segreti”; i più sensibili al mio lavoro di ricercatrice, mi invitavano a entrare nel loro vodu, perché era l’unico modo, a loro parere, per conoscere le parole, le erbe, le composizioni e le formule; altri, soprattutto le donne, lo facevano per una sorta di empatia: una donna che da sola

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arriva fino in Africa e vuole conoscere i vodu, deve essere accolta, sia perché nulla, nella logica locale, accade per caso, sia perché un’europea può sempre aprire delle nuove e socialmente importanti reti di conoscenze. Le persone con cui ho intrattenuto relazioni più strette e che in qualche modo hanno iniziato a interessarsi alla mia “incolumità ”, cercavano di dedicarmi delle cerimonie, almeno per proteggermi dai pericoli africani e dai vodu stessi. In alcuni casi si limitavano a dirmi, come sofo Hilaire Dohou: «comunque tutti i giorni prego anche per te». La mia posizione di bianca, donna e ricercatrice, che per alcuni era solo sinonimo di “curiosa”, chiaramente ha creato dei problemi e anche alcuni rifiuti, fraintendimenti, rapporti non riusciti o troppo conflittuali. Alcune porte non si sono aperte per diffidenza e paura, per mancanza d’interesse, per la mia incapacità a far comprendere cosa stessi cercando, per eccessive richieste economiche o per reciproca antipatia. La mia identità di genere è stata fluida e situazionale. In alcuni contesti, come quelli ufficiali, assumevo un’identità quasi maschile: ero una donna ma con uno statuto differente, che mi rendeva «honorary male» (Soothill 2007:32). Dovevo, ad esempio, sedermi assieme ai capi, prevalentemente uomini, pranzare e conversare con loro nei momenti di pausa dalle attività rituali ed essere quindi diversa e distante dagli altri, i non iniziati e il pubblico comune. Essere seduta, negli spazi pubblici, di fianco agli uomini mi rendeva ulteriormente differente agli occhi delle donne, le quali spesso esitavano a coinvolgermi nelle danze e nelle attività più femminili, lasciandomi in uno strano isolamento. Ritornavo di sesso femminile nel momento in cui si doveva verificare la mia purezza, ad esempio, in santuari in cui una donna non può entrare durante il periodo mestruale. L’eventuale differenza confessionale non rappresenta in alcun modo un problema nelle relazioni né un ostacolo per un’eventuale iniziazione. Ma i tentativi di “farmi entrare” non sono stati altro che segni di amicizia e fiducia, mai uno sforzo di proselitismo o di conversione, che non hanno alcun significato nel sentire comune. “Farmi entrare” era un modo per incorporarmi all’interno della rete e per rendermi parte della famiglia allargata. Le persone che ho più frequentato sono stati soprattutto i sacerdoti dei due ordini del gorovodu – houno e sofo – féticheurs, bokono e houno o vodouno28 di altri ordini vodu. Le gerarchie vodu sono in questi ultimi 28. Houno e vodouno sono sinonimi. Il secondo appellativo è più in uso tra la gente di lingua fon.

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anni prevalentemente maschili, ma ho incontrato anche diverse sacerdotesse, soprattutto di vodu quali Mami Wata, Mami Tchamba e alcune leader del tron kpeto ve. Le donne, che più spesso incarnano il ruolo di adepte, vodussi o trosi, cioè spose del vodu o del tron, sono sempre state, almeno nella fase iniziale dei nostri incontri, più reticenti nel dialogo e anche più rispettose dei tabù sulla parola che il vodu impone. Affermando di non conoscerne i segreti, le donne si dimostravano più disponibili a parlare della loro vita e a fornire informazioni meno convenzionali. Le narrative sul vodu sono molto stereotipate; ciò potrebbe dipendere anche da una specie di amnesia della propria vita precedente l’incontro con la divinità e un’omologazione delle storie successive e dei percorsi al suo interno (Lovell 2002). Chiunque decida di parlare del proprio vodu, raggiunto un certo punto di profondità nella conversazione, si appella ai divieti, che gli impedirebbero di condividere alcuni temi “segreti”. Mi capitava spesso di fermarmi prima di questo punto limite, per non infastidire i miei interlocutori e per una sensibilità ormai incorporata, che mi faceva percepire dove tale limite era stato, di volta in volta, posto. Questi tabù sulla parola sono molto variabili e soprattutto appaiono come un buono strumento per preservare e imporre il proprio potere. Con il tempo e la fiducia reciproca, gli impedimenti mi sembrava si affievolissero o i confini venissero gradualmente spostati e allargati. Spesso durante le conversazioni che intrattenevo con i leader del gorovodu, emergevano, come per sbaglio, dei nomi o degli aneddoti che non si sarebbero potuti o dovuti raccontare. La mia posizione estranea e straniera era costantemente rimarcata, dato che solo l’iniziazione avrebbe potuto farmi entrare a pieno titolo nel vodu. Non volevo essere iniziata, sia perché non era un’esperienza che desideravo vivere sia perché ritenevo fosse possibile fare ricerca anche senza diventare “strega” a pieno titolo. In questo gioco di detti e non detti, di soglie da superare e di altre insuperabili, sono intrappolati tutti, anche gli iniziati al vodu, i quali per tutta la vita devono affrontare le barriere poste dalla gerarchia del sapere, valide all’interno dell’ordine al quale appartengono. Se fossi diventata adepta di un vodu, avrei dovuto scegliere tra il mantenere un distacco critico e quindi “fingere” o aderirvi completamente, privandomi così della possibilità di condividere il mio sapere. Importante è stato l’incontro con Ludwina Meyer, una ricercatrice tedesca che negli anni Ottanta aveva con successo coniugato i suoi interessi intellettuali a una forte adesione al vodu, essendo divenuta vodussi di Shango, il vodu del fulmine. Confrontandomi con lei ho compreso i limiti oltre ai quali non sa-

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rei potuta andare, soprattutto ho capito che non avrei potuto fare esperienza diretta e corporea di tutte quelle pratiche che costruiscono l’adepta ed evidentemente dei saperi esoterici connessi ai culti. Quello che più m’interessava era guardare al vodu come costruzione storica e sociale, osservare le metamorfosi e interrelazioni di cose e persone, e seguire il culto nei suoi movimenti spaziali e temporali. Inoltre trovavo importante costatare come fosse proprio il limite e il non detto a fondare il sapere religioso stesso e come il segreto fosse carico di forza e significato (Zempleni 1992:23-41). Restai nello spazio liminale, che ormai mi apparteneva e nel quale mi sentivo più libera di condurre una ricerca polifonica e in movimento; decisi che avrei ricambiato la fiducia, che la mia iniziazione avrebbe sottinteso, in altro modo. Il tempo trascorso, misurabile in mesi e anni di conoscenza reciproca e frequentazione dell’ambiente e della gente che vive e pratica il vodu, era una sorta d’iniziazione sostitutiva. Il tempo è stato proporzionale al numero di parole e di pratiche che potevano essere condivise con me, ai “segreti” che lentamente mi venivano svelati. Sovente gli incontri, soprattutto nei villaggi, sono stati pubblici. Era consuetudine che qualche curioso trovasse spazio sulle strette panche di legno, messe a disposizione degli ospiti. Ciò condizionava le informazioni scambiate, perché l’arrivo di esterni – vicini di casa o famigliari – era una forma di controllo su ciò che poteva o non poteva essere detto a un estraneo. Allo stesso tempo, la coralità di questi incontri nei cortili delle case poteva far emergere opinioni differenti, dando vita ad animate discussioni. In città la privacy era maggiore, soprattutto se le conversazioni non avvenivano all’interno degli altari, ma nelle abitazioni dei sacerdoti. Qui era più facile accedere ai “pettegolezzi”, alle voci che circolano tra un santuario e l’altro, e fare luce su alcuni lati oscuri, che non emergevano dai racconti dei diretti interessati. Le cerimonie rappresentano i momenti in cui è più facile chiacchierare con gli adepti, ma anche con quei sacerdoti che, in altri momenti, si dimostrano meno disponibili. La fiducia acquisita mi è parsa come un fluido contagioso, che con il tempo ha fatto sì che, anche chi da principio si era dimostrato più ostile, fosse disponibile a condividere le proprie esperienze. Questa graduale apertura deve essere compresa anche alla luce delle strategie di potere e delle competizioni, sempre latenti, che esistono tra i sacerdoti di un medesimo vodu e all’interno delle quali sono stata gradualmente inserita. Vedendo, ad esempio, che la mia presenza era legittimata dall’approvazione di un uomo importante, come Hilaire Dohou, mio principale

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interlocutore, un importante e anziano sofo del tron kpeto ve, altri sentirono il bisogno di mostrarmi la loro fiducia, oppure di ostentare la forza del loro sapere, opponendo versioni differenti dell’origine del vodu o rivendicando una maggiore famigliarità con i fondatori del culto. Hilaire è stata la bussola grazie alla quale mi sono orientata nei meandri del tron kpeto ve. Il mio lavoro risente della sua influenza; le ricostruzioni e le restituzioni che ho prodotto sono di conseguenza prospettiche, il frutto del nostro incontro e quindi solo una delle molte narrazioni possibili. Durante la ricerca sul campo ho lavorato da sola o accompagnata da compagni di viaggio occasionali (persone incontrate durante una cerimonia, per strada, amici curiosi etc.). Nei villaggi togolesi sono sempre stata in compagnia di Salissou Mamadhou, togolese di origine hausa e completamente esterno al vodu, il quale mi ha aiutata sia con la lingua ouatchi, sia ad apprendere i comportamenti da tenere con sacerdoti, capi-villaggio e notabili. Infine, oltre ai luoghi e alle persone vi sono le “cose”. Ho cercato in questo lavoro di dare spazio alle pratiche e alla materialità della religione vodu, onde evitare di fornire una definizione unitaria di religione, enfatizzando l’idea di conoscenza e sapere a discapito di quella di partecipazione e pratica religiosa (Brenner 1989). Quest’approccio è contrario all’attività religiosa stessa, nella quale la conoscenza non è un prerequisito alla partecipazione. Al contrario, sovente, la conoscenza è limitata o preclusa alla maggior parte dei fedeli, i quali esprimono la loro religiosità proprio attraverso una pratica che implica un coinvolgimento corporeo e sensoriale. Brenner (2000:164) definisce la religione come un campo dell’espressione culturale che si concentra sulla comunicazione e sulla relazione tra gli esseri umani e quelle entità e/o forze (generalmente) invisibili che essi credono interagire nelle loro esistenze.

Si tratta di una definizione molto ampia e priva d’implicazioni essenzialiste, teologiche o filosofiche, utile per analizzare la religione in quanto fenomeno storico e sociale. Il vodu ben aderisce alla definizione, essendo profondamente relazionale; a fianco delle donne, degli uomini e delle entità invisibili, parlerò anche di tutti gli oggetti e le espressioni della cultura materiale con cui questi soggetti dialogano. Non si può infatti comprendere un culto vodu se non dall’osservazione delle sue pratiche e dall’attenta analisi della cultura materiale che si sviluppa in esso e attorno ad esso. Indagare questi aspetti significa seguire i percorsi seguiti sia nella dimensione geografica che in quella temporale. Quest’ultima è la più com-

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plessa, perché le sedimentazioni, le reinvenzioni o riattualizzazioni sono continue, i paradigmi instabili, la materia mutevole e le finalità individuali, sociali e politiche situazionalmente variabili. 5. Capitolo dopo capitolo Il primo capitolo si concentra sui tre paradigmi necessari a comprendere l’attuale fenomenologia del vodu: il feticismo, la religione tradizionale e il sincretismo. Tali definizioni sono infatti necessarie alla comprensione delle pagine successive e consentono di ricostruire la genealogia teorica che ha portato alla creazione dei diversi paradigmi di lettura del vodu e alla loro sedimentazione locale. Senza questa lunga premessa è impossibile muoversi nei meandri di simboli e pratiche che rappresentano la trama nella quale il vodu è intessuto. Il secondo capitolo introduce il culto del gorovodu e la sua specificità storica che s’inserisce in una narrativa, sviluppatasi in epoca coloniale, connessa ai culti antistregoneria e ai culti curativi, presentando alcuni dei personaggi e dei luoghi – tra storia e mitizzazione – che hanno avuto un ruolo fondante nella diffusione del culto. Il terzo capitolo approfondisce la materialità della ritualità vodu, che era già emersa nella storia degli incontri con viaggiatori, studiosi, colonizzatori occidentali, come un elemento pregiudizievole nelle percezioni degli osservatori. Approccerò alcuni degli elementi che contribuiscono a creare il vodu nel suo insieme: gli oggetti, gli altari, le danze e i corpi, spostando poi l’attenzione sui cambiamenti e le peculiarità proprie al gorovodu. La prospettiva vuole essere il più possibile simmetrica, mettendo in luce come gli oggetti e i soggetti si formino e si costruiscano secondo una stretta reciprocità. Nel medesimo capitolo affronterò inoltre uno dei temi classici degli studi sul vodu: la possessione. Il sacrificio è il tema affrontato nel quarto capitolo. Premessa all’analisi e alla contestualizzazione del sacrifico è l’interrogarsi sullo statuto degli esseri umani e degli esseri non umani e sulle loro reciproche relazioni. Il sacrificio si connette poi con il tema della morte e del sangue e quest’ultimo con il ruolo rituale della donna. Ciò consente di affrontare secondo una differente prospettiva il tema della stregoneria, già incontrato come fenomeno storico nel secondo capitolo. Infine l’ultimo capitolo lascia maggiore spazio alle espressioni e pratiche contemporanee del gorovodu in Bénin, mettendole in relazioni con la

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specifica storia politica del paese. Ciò consentirà di interrogarsi sulle dinamiche tra continuità e cambiamento, che sin dall’origine hanno caratterizzato il culto e sul significato ambiguo che il termine moderno può oggi assumere. Alla prova della società contemporanea, delle alterne vicende politiche, dei cambiamenti semantici che la sfera dell’invisibile sta subendo e attivando allo stesso tempo, il vodu dimostra di essere estremamente plastico e dinamico e i suoi protagonisti creatori di innovative soluzioni rituali. I leader del gorovodu sono attori intraprendenti della scena politica e religiosa, oggi come in altra misura in epoca coloniale. Dal punto di vista teorico, ciò invita a riflettere sull’esistenza, anche in epoca precoloniale, di uno spazio intermedio tra ciò che qualifichiamo come locale e globale, all’interno del quale la gente del vodu si è sempre posizionata e dal quale ha osservato e agito il mondo, reagendo alle alterne vicende storiche e ai periodi di difficile cambiamento. ***

Ringrazio innanzitutto Alice Bellagamba e Ugo Fabietti, senza il cui sostegno e incoraggiamento questo lavoro non sarebbe stato possibile. Sotteso a questi anni di ricerca vi è il contributo del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” dell’Università di Milano Bicocca e del MEBAO (Missione etnologica in Bénin e Africa Occidentale). Le persone che mi hanno accompagnata e sostenuta nella ricerca sul campo sono veramente molte. In Bénin vorrei ringraziare sofo Hilaire Dohou e l’Ecole du Patrimoine African, e in particolare Alain Godonou, Gerard Tognimassaou e Joseph Adandé. Ringrazio l’amico Romuald Hazoumé per avermi aiutata a conoscere e amare il suo paese. E poi Anna Seiderer, Ana Lucia Araujo, Cedric Michalon, Anna Sambo, Macaire e Dominique Hazoumé per la loro amicizia e per le ore trascorse scambiando idee e condividendo le nostre esperienze. In Togo voglio ringraziare Salissou Mamadou, Sodejedo Kpohedo (Sirkintourou) e i padri comboniani Bruno Gilli, Elio Boscaini e Roberto Pazzi. Importante per il mio lavoro è stato il sostegno del Centro Studi Archeologia Africana di Milano e soprattutto l’amicizia di Gigi Pezzoli e Anna Alessandrello. Ringrazio per la lettura e per i loro fondamentali commenti Alice Bellagamba, Fabio Viti, Pierluigi Valsecchi, Roberto Malighetti e Pierluigi Bertoldo. Ringrazio molti altri che sono stati a vario titolo preziosi. Penso a Giovanna Parodi da Passano, Barbara Pinelli, Luca Ciabarri, Arianna Cecconi, Federica Riva, Flora Bisogno, Paola Abenante, Claudia Mattalucci e Gaia Delpino. Ringrazio Cecilia Palombelli per l’affetto e per l’interesse con cui ha accolto il mio lavoro, Graziana Forlani per la pazienza e l’attenzione che mi ha dedicato e infine Sofia Boesch e tutta la direzione della collana Sacro/santo che ha accettato e sostenuto questa pubblicazione.

1. Costruzioni intellettuali intorno al vodu

Certains mots exotiques sont chargés d’une grande puissance évocatrice. «Vaudou» est l’un d’eux. Il suggère habituelment des visions de morts mystérieuses, de rites secrets ou de saturnales célébrées par des nègres «ivres de sang, de stupre et de Dieu». A. Métraux, Le vaudou haïtien …disse loro che essi adoravano falsi dei di legno e di pietra. Quando disse così, un profondo mormorio serpeggiò tra la folla. Disse loro che il vero dio viveva nei cieli e che tutti gli uomini, quando morivano, andavano di fronte a lui per essere giudicati. Gli uomini cattivi e tutti gli infedeli che, nella loro cecità, si inchinavano di fronte al legno e alla pietra, venivano gettati in un fuoco che bruciava come olio di palma. Chinua Achebe, Things fall apart

Il carico evocativo legato ad alcune parole è troppo denso perché il loro uso possa essere neutro. Vodu è una di esse e per tale motivo è importante, prima di affrontare la loro attuale fenomenologia, ripercorrere la genealogia teorica che ha portato in epoche storiche differenti all’elaborazione di tre paradigmi che in varia misura ruotano attorno a ogni discorso che abbia approcciato i vodu: il feticismo, la religione tradizionale e il sincretismo. Ognuno di essi è divenuto parte della realtà fenomenologica di chi vive e si confronta con il complesso e frammentato mondo vodu e il loro uso, tutt’altro che neutro, ricorda le implicazioni politiche, storiche e identitarie che hanno dato vita a queste costruzioni teoriche. Rileggendo parte della letteratura che si è interessata alle forme religiose praticate nell’ex Costa degli Schiavi, cercherò di collocare i tre paradigmi nel loro contesto storico specifico, per poterne meglio evidenziare le stratificazioni semantiche. I testi, passando dall’idea di “feticismo”, elaborata verso la fine del XVIII secolo da Charles de Brosses, a quella di “religione tradizionale africana”, sviluppatasi in epoca coloniale e postcoloniale, hanno creato immagini differenti e molto persistenti attraverso cui la vita religiosa africana è stata raccontata: da un totale materialismo fatto di superstizione e magia nera, all’astrazione di concetti puramente metafisici e universalistici.

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L’incontro tra gli osservatori occidentali (avventurieri, mercanti, missionari, funzionari coloniali e studiosi) e l’Africa è stato segnato da interessi economici e politici via via differenti, che hanno influenzato la prospettiva con cui si è scritto di Africa. Come ricordava Edward Evan Evans-Pritchard ([1965] 1997:60), per comprendere le varie interpretazioni che sono state date della mentalità “primitiva”, occorre innanzitutto conoscere la mentalità degli studiosi, «la loro particolare maniera di vedere le cose, tipica della classe, del sesso e dell’epoca a cui quegli studiosi appartenevano». Lo sguardo egemone degli uomini di commercio creò, a partire dal XVI secolo, l’idea di “feticcio”, rendendo questa parola, carica d’implicazioni politiche e filosofiche, un’eredità a cui oggi sembra divenuto impossibile rinunciare (Pietz 1985:5-10). L’invenzione del termine feticcio, pregno dei significati che la sua densa etimologia comunicavano, influenzò la comprensione delle religioni locali e della mentalità di quei popoli che vennero definiti feticisti. Quando l’approccio sprezzante ma più disincantato dei primi viaggiatori fu sostituito da quello degli amministratori coloniali e di alcuni missionari, il cui scopo era interagire con i poteri locali e tradurre le religioni locali nei termini delle religioni europee, allora i feticci furono sostituiti da esseri spirituali più vicini alla sensibilità cristiana: angeli (Delafosse 1894:178-180), divinità intermedie oppure demoni. Il desiderio di valorizzare ciò che le teorie evoluzioniste consideravano l’espressione di una religiosità inferiore e primitiva, o che secondo una successiva visione degenerazionista poteva essere solo il riflesso frammentato di una vera religione, ha portato «alla creazione di una nuova forma di vita» (Shaw 1990:339) conosciuta come “religione tradizionale africana”. Questo processo ebbe il suo apogeo negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, cioè all’epoca delle indipendenze e del nazionalismo africano, quando più forte fu l’esigenza di ridare dignità e identità al pensiero africano. Ogni autore, che si occupò delle forme religiose praticate lungo le coste del Golfo del Bénin, instaurò un dialogo con la letteratura che l’aveva preceduto, creando in alcuni casi un universo discorsivo che si andava sempre più allontanando dall’oggetto stesso dell’analisi. Nello studio delle religioni africane è necessario distinguere tra le elaborazioni teoriche e la pratica del culto (Brenner 1989), ricordando però come i discorsi prodotti all’esterno interagiscano con quelli elaborati all’interno, diventando progressivamente parte della pratica stessa.

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Il vodu ha subito, nelle pratiche discorsive, le medesime metamorfosi sopra delineate: da materia bruta, intrisa di superstizioni e magia si è diradato diventando oggetto di complesse elaborazioni metafisiche. Concetti quali quelli di “pantheon” e di “cosmogonia”, mutuati dagli studi sulla Grecia classica, sono stati introdotti in prima istanza per cercare di valorizzare e purificare il vodu e, in secondo luogo, per tradurlo e renderlo più comprensibile e vicino all’esperienza; come ricorda Augé ([1982] 2002:35), infatti, «la religione del colonizzatore prende in considerazione quella del colonizzato soltanto nel momento in cui, sicura dell’esito della prova di forza, la sottomette alla prova del senso». I vodu, ora religione dei vodu, avevano bisogno di concetti estranei alla loro pratica per elaborare un linguaggio coerente e quindi costruire un discorso condivisibile nell’ambito dello studio delle religioni. Questo processo di lento scollamento dalla pratica, implicava anche il liberarsi delle ambiguità ontologiche dei vodu, raramente percepite come tali da chi ne praticava i culti, e la necessità di nascondere il lato oscuro e gli sconfinamenti nei territori della stregoneria o della magia, interpretati come una degenerazione di una forma pura di religione o al contrario come una più recente acquisizione, sintomo del male dei tempi moderni. Sempre un problema di attribuzione di senso imponeva di riconoscere e fissare una frontiera tra religione e magia, che divenne in tal modo una linea estremamente sfuocata attorno alla quale gli attori sociali iniziarono a negoziare la loro posizione religiosa e politica. Il processo di normalizzazione e di semplificazione, oltre a rispondere all’esigenza di costruzione di un’identità religiosa più definita e comunicabile, nasce anche come reazione alle accuse di stregoneria che da molti settori del complesso panorama religioso africano venivano lanciate contro chi praticava il vodu. Tale processo è ancora in atto, come testimoniano, ad esempio, i film quotidianamente trasmessi in Togo e Bénin dalle televisioni locali, spesso legate alle chiese indipendenti, e che evocano ancora le immagini di una religione dei “feticci” e della magia nera e, che facendo leva sulle paure che la stregoneria suscita, cercano di allontanare la popolazione dalla religione cosiddetta tradizionale per spingerla verso nuove e più moderne forme di pratica religiosa. Cercherò nelle prossime pagine di articolare l’analisi della storia degli studi e della genealogia dei principali paradigmi con una definizione emica di vodu, che si avvicini in qualche misura alle concezioni locali. Tale definizione non vuole essere né esaustiva né in alcun modo autorevole, ma

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semplicemente aiutare a cogliere alcuni dei significati e delle ambiguità del termine, nonché alcune pratiche intimamente correlate. Prima è necessario esaudire il compito etimologico, un esercizio un po’ sterile, che soddisfa solo apparentemente il desiderio di comprendere ciò che localmente viene accettato come ontologicamente incomprensibile, ma comunque imprescindibile, essendo il vodu l’oggetto principale di questo lavoro. 1. Vodu: un tentativo di definizione L’etimologia del termine vodu1 o vodun,2 è controversa. Molto probabilmente appartiene alla lingua fon, dato che in ewe lo stesso concetto viene espresso anche con il termine tron o tro3 e in yoruba si traduce con orisha. Bruno Gilli (2004:116), antropologo e missionario comboniano, riferendosi all’area ouatchi, scrive: Il vodu è chiamato anche hou. Questo monosillabo indica in modo particolare il carattere ereditario del Vodu, la sua natura ermetica e l’esigenza di mantenere il più grande segreto su tutto quello che lo concerne! I termini vodu, yevhé4 e hu indicano la stessa entità sacra e numinosa.

Il termine hou significa, sia in ewe sia in fon, sangue. Ed è il sangue che crea l’idea di ereditarietà ipotizzata da Gilli. Il sangue, elemento essenziale per la vita dei vodu, consente inoltre alcune interpretazioni, che 1. Basilio Segurola (1963) nel suo Dictionnaire fon-français scrive: «Vodun: divinità della religione tradizionale, impropriamente chiamata fétiche. […] La parola vodu, la cui etimologia è andata perduta, evoca un’idea di mistero e designa ciò che dipende dal divino. Spesso è stata tradotta come feticcio. In realtà, l’oggetto materiale è la dimora dove ridiede lo spirito “yè”. È lo spirito che i vodunsento (coloro che praticano il vodu) venerano e non il contenitore, l’albero, l’animale, il tumulo, che lo nasconde ai nostri occhi». È interessante notare come la definizione, nel tentativo di negare la natura di feticcio, ne neghi la materialità, spostando completamente l’attenzione dall’oggetto allo spirito che lì risiederebbe. 2. Le trascrizioni sono molteplici: vaudou (Metraux 1958), vodun (Blier 1995), vodhun (Lovell 2002). Utilizzerò vodu perché è la trascrizione scelta da Maupoil, l’autore a cui più farò riferimento. 3. Tron è il termine utilizzato soprattutto tra gli anlo ewe. 4. Ayevhé o semplicemente yevhé, significa “buca o cavità dell’astuzia” e secondo Gilli (2004:117-120), anche vodu potrebbe significare: “messaggero della cavità”, o “messaggero nascosto nella cavità” o ancora “messaggero della legge dell’invisibile”.

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proverò a delineare qui di seguito. Molte sono le parole,afferenti a questo ambito semantico che contengono hou nella loro radice; un sinonimo diffuso di vodu-no, cioè capo del vodu, è hou-no, appellativo che oggi viene attribuito soprattutto ai sacerdoti di quei vodu che si presume siano originari dell’area ewe o mina, come il gorovodu o Mami Wata, e che viene infatti comunemente utilizzato in Togo. Hou-no significa “madre” – no – del sangue o del vodu – hou – e, come vedremo più avanti, mette in luce l’attribuzione materna di un ruolo prevalentemente maschile. Hou-ga, grande hou, è il capo supremo del vodu; hou-ményà significa il segreto del vodu; hounka, traducibile come “corda del sangue” o “corda dei vodu”, indica (Lovell 2002, Gilli 1987) nell’area ouatchi, tutte le persone, prevalentemente donne, che diventano devote tramite matrifiliazione. Secondo il Dictionnaire fon-français (Segurola 1963), hunkan significa sia “arteria, vena”, che “corda del vodu” e indicherebbe il segno d’appartenenza a un vodu, cioè le scarificazioni o le collane indossate delle vodussi, le spose del vodu. Sempre Gilli (2004) propone un’interpretazione di tutt’altro valore semantico che, come vedremo, risulta essere in sintonia con le pratiche che portano alla realizzazione di un vodu. Du indicherebbe il luogo o il segno di ciò che è mantenuto segreto o di ciò che è situato dentro il buco – vò; quindi vodu come segno di ciò che non è conoscibile. Tron, l’appellativo ewe con cui si designano le divinità, significa letteralmente girare, mutare, cambiare ed è diffuso soprattutto tra gli anlo dell’attuale Ghana.5 In Togo i due termini coesistono e tra gli ouatchi il numero dei vodu prevale su quello dei tron che, secondo alcuni houno, designano una categoria specifica di entità ancestrali legate alla terra e alla natura. Le divinità che vivono nelle foreste sacre di questa regione sono, ad esempio, sempre dei tron. Spostandoci a oriente il termine vodu prevale e tron diviene in alcuni casi un nome proprio che identifica una divinità particolare. Il vodu tron non è dunque una ripetizione, ma un’espressione utilizzata oggi in Bénin per definire proprio i tron, cioè quelle divinità che 5. De Surgy (1988:299) traduce Spieth (1906) il quale scriveva «secondo la spiegazione unanime degli indigeni, la parola tro (che vuol dire cambiare, modificare, girare) di cui ci si serve per designare i feticci, indica il carattere mutevole, incostante, di queste divinità della terra, che ordinano ai loro adoratori, oggi questo, domani quello». De Surgy aggiunge che ciò che cambia in realtà è l’attitudine verso gli uomini dato che le divinità, dopo aver assecondato i desideri dei fedeli, si rivolgono verso di loro per chiedere il pagamento del loro intervento.

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ho chiamato anche gorovodu e che giunsero nel paese dal Ghana. Tron è oggi una divinità specifica e fortemente connotata da un punto di vista geografico e storico. Un’altra questione da affrontare è connessa alla trascrizione di questo temine, una scelta, quella tra vodun o vodu e voodoo, anch’essa non neutrale. I vodu sono così carichi di sovrastrutture e immagini disturbanti che il solo evocarne il nome sembra ancora oggi materializzare demoni e fantasmi. La traduzione della religione pagana nel linguaggio di quella cristiana ha appesantito la prima di presenze e minacce infernali. Quest’aura di mistero, che è stata resa immagine dai film hollywoodiani, è ancora presente nello sguardo occidentale, nei giudizi delle religioni africane avversarie, ma a volte anche nelle parole dei vodouisant6 stessi, che ne hanno acquisito il linguaggio e parte dell’immaginario. Come è stato abbondantemente scritto per quanto riguarda il vodu haitiano, gli stereotipi sono stati un veicolo di razzismo e di oppressione politica. Negli anni Ottanta del Novecento, gli haitiani che giungevano negli Stati Uniti venivano accusati di portare l’AIDS (Dubois 1996) e nel contempo venivano diffuse immagini stereotipate e denigratorie del vodu, veicolate ad esempio dal libro The serpent and the rainbow, che fu poi trasformato nell’omonimo film horror da Wes Craven (Dubois 2001). Hollywood ha contribuito a costruire un immaginario che ha saldato la parola vodu con immagini di morti viventi. Il film di Jacques Tourneur Ho camminato con uno zombi del 1943 – ambientato ad Haiti – evocava i poteri della magia vodu, attraverso un uso del mezzo cinematografico indubbiamente suggestivo. La pellicola in bianco e nero esaltava il contrasto tra la pelle nera del prete vodu in trance e il candore della giovane donna bianca, ormai divenuta zombi. Il vodu, nel film, era una minaccia pervasiva per tutta la comunità bianca, che nonostante lo scetticismo, scivolava inesorabilmente tra le sue braccia, attratta e posseduta da un fascino misterioso ma letale, che sembrava avvolgere naturalmente l’isola. La stessa letteratura gotica che si sviluppò in Europa, a partire dalla fine del XVIII sec., fu alimentata dalle storie caraibiche che si erano originate dall’incontro con l’altro, con i suoi mostri, fantasmi e zombi. Concetti africani quali quello di vodu erano stati già riconfigurati nelle Americhe diventando «voodoo»; l’assoggettamento degli uomini e delle 6. Termine francese utilizzato, soprattutto in Bénin, per designare le persone che praticano o comunque si riconoscono nella religione vodu.

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donne condotti dall’Africa verso le Americhe era stata simbolicamente tradotto e gli schiavi erano divenuti i futuri zombi (Parker, 2006, Degoul 2007). L’AIDS è una nuova trasfigurazione e attualizzazione di quegli antichi zombi, esseri umani a metà strada tra la vita e la morte: alieni e quindi portatori di morte. Il voodoo è quindi oggi connesso a un immaginario da film dell’orrore, fatto di magia nera, streghe, zombi e fantasmi e che ha trovato uno sbocco commerciale in un mercato affascinato dal gotico, dall’esoterico, dal dark e dall’horror: bamboline voodoo, kit per il malocchio, pozioni magiche e altri oggetti affini. New Orleans è oggi un ottimo esempio della commercializzazione di questo immaginario e del tentativo di patrimonializzare proprio l’aspetto più oscuro e misterioso di questo sistema di credenze. Questi concetti e le trasformazioni non certo lineari che subirono circolarono da una sponda all’altra dell’Atlantico. Il voodoo è tornato in Africa, come testimonia la produzione filmica di paesi quali la Nigeria e il Ghana, dove è nato un genere basato proprio su religione, magia e stregoneria. Nei film horror africani, mostri, zombi, vampiri e demoni incarnano sia le inquietudini della società contemporanea e globalizzata, sia il discorso dominante tra i leader di molti movimenti religiosi, i quali vedono nella religione “tradizionale” un’espressione di arretratezza e utilizzano il linguaggio dell’occulto per combattere la loro battaglia politica e religiosa. 2. Genealogia della nozione di feticismo Attraverso l’analisi della genesi dell’idea di feticismo e il dibattito che ha generato, si può cercare di fare emergere una definizione di vodu che sia più consona alla sua natura di fenomeno fortemente frammentato, cercando, per quanto possibile, di evitare generalizzazioni e ulteriori cristalizzazioni. La materialità della religione dei vodu e il primato della pratica sulle elaborazioni teoriche rendono il concetto di feticismo più utile alla comprensione del vodu rispetto alle astratte elaborazioni teoriche che si sono espresse secondo un ordine epistemologico di tipo giudaico cristiano: «la nozione di feticcio perse il favore degli studiosi, perché creava imbarazzo piuttosto che per la sua inadeguatezza al fenomeno» (MacGaffey 1977:172). La descrizione che il missionario francese Baudin fece di un santuario di Ouidah, pur esprimendo il disagio e il disprezzo nei confronti della ma-

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terialità e della violenza sensoriale dei luoghi di culto, è una delle poche descrizioni di un luogo vodu che la letteratura dell’epoca abbia prodotto: Qualche statua grottesca e altri simboli di dio accostati a delle piante, dei contenitori di terra dove ricevere le libagioni e le offerte, il tutto terribilmente imbrattato d’olio di palma, di sangue e di piume di pollo formano un insieme poco piacevole a vedere e ancor meno per l’odorato, ma degno a tutti i titoli di ricevere cerimonie, e [vi sono] poi dei féticheurs cenciosi e degli ignobili feticci […]» (Baudin 1884:87).

Il termine feticcio, probabilmente utilizzato fin dal XV secolo per designare amuleti e oggetti magici africani, è attestato nel XVI secolo nella lingua portoghese come fèitiço.7 Deriva dal latino factitius o facticius che ebbe diffusione nel linguaggio commerciale della Roma di Augusto. Una delle sue prime apparizioni è nella Naturalis Historia di Plinio, secondo cui factitius significava manufatto, fatto a mano, e si usava in contrasto a quei beni prodotti solo da processi naturali. La definizione di feticismo apparve invece per la prima volta nella lingua francese con Charles de Brosses in Du culte des dieux fétiches, opera pubblicata tra il 1756 e il 1760. Dalle descrizioni dei feticci a una teoria del feticismo passarono pertanto tre secoli che portarono alla definizione, introdotta proprio da de Brosses, di “popoli feticisti” come di società connotate da una credenza o religione specifica. Da questo momento, il feticismo divenne una religione distinta dal politeismo, che ne rappresentava un’evoluzione. Auguste Comte (1830:42), influenzato dagli studi di de Brosses, definì il feticismo proprio come uno stadio preliminare dell’evoluzione della società, caratterizzato dall’attribuire delle intenzioni indipendenti dalla volontà umana agli oggetti. Nel 1871, Edward B. Tylor poneva il feticismo, definizione minima di religione, proprio nel livello più basso della scala che a suo parere, ripercorreva gli stadi dello sviluppo culturale, come sottocategoria dell’animismo. Anche rispetto al totemismo, altro paradigma nato dallo sforzo intellettuale di comprendere il pensiero primitivo, il feticismo era posto a uno stadio evolutivo inferiore. Secondo John F. McLennan (18691870), il totemismo era sì caratterizzato dalla presenza di un “feticcio tribale”, accresciuto però da un sistema di relazioni, grazie a cui il totemismo svolgeva una funzione sociale che trascendeva dall’oggetto naturale 7. Feitiço deriva da feito, participio passato del verbo fare, che significa «forma, figura, configurazione, ma anche artificiale, fabbricato, fittizio, e infine affascinato, incantato» (Latour [1996] 2005:46).

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in sé. Il feticismo invece per de Brosses non era altro che l’antropomorfizzazione e venerazione di entità naturali. Agli occhi di questi studiosi, il feticismo era una forma primitiva di pensiero che comportava l’assenza di ogni mediazione fra l’uomo e la “cosa”, oggetto di culto. I feticisti, adorando gli oggetti nella loro specifica singolarità, non avevano neppure la dignità degli idolatri; il feticcio infatti, a differenza dell’idolo che era immagine di altro, non sembrava rappresentare nulla di diverso da sé. Quindi, se l’idolatria era «solidale con l’idealismo sensualistico etico-estetico», il feticismo era «il trionfo dell’artificiale» e della materia nel suo essere «cosa senziente» (Perniola 1994:68). L’idolatria era considerata una degenerazione, un errore voluto dal demonio al fine di sviare l’uomo dalla giusta forma di religione. Per tale ragione, come mise in luce Las Casas (circa 1550), l’idolatria poteva manifestarsi in tutte le società ed era difficilmente estirpabile, proprio perché era un fenomeno «universale, una manifestazione fondamentale del “religioso”» (Bernard, Gruzinski, 1995:47) riscontrabile ovunque la fede non avesse ancora pienamente trionfato. Sebbene i feticci, fu subito notato, non costituissero in genere delle forze agenti di per sé, ma fossero supporto di forze fissate dall’uomo mediante il rito, gli osservatori cristiani sottolinearono quale tratto caratteristico della religiosità degli indigeni, l’inclinazione ad attribuire vitalità e potenza alla “cosa” e a utilizzarla come se disponesse di una energia esclusivamente indipendente. Il feticcio era dunque l’espressione della credulità e primitività dei popoli feticisti. La logica dell’idolatria così come fu formulata all’interno della dottrina cristiana non poteva comprendere e spiegare il “feticcio”, cioè riconoscere l’esistenza di oggetti carichi di potere sociale e personale. Se l’idolatria era una forma di degenerazione e l’idolo un falso dio, il feticismo era una forma “religiosa” a se stante e quindi da collocare allo stadio più basso dell’evoluzione del pensiero religioso. L’idea di feticcio nacque quindi per esprimere un nuovo concetto, apparentemente estraneo ai paradigmi del Cristianesimo.8 Il feitiço indicava per i portoghesi un oggetto magico por8. Come Bruno Latour mette ironicamente in luce, si trattò dell’incontro tra popoli – i portoghesi e i “negri” – molto più simili di quanto i primi credessero, poiché adoravano entrambi gli oggetti e gli amuleti: «l’accusa (di feticismo) inizia sulle coste della Négritie, da qualche parta in Guinea, lanciata per i portoghesi, coperti di amuleti della Vergine e dei santi: i Negri adoravano dei feticci» (1996:16).

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tatile che si poteva indossare, ottenuto dall’assemblaggio di più materiali al fine di ottenere uno scopo specifico. Al feitiço dei portoghesi non si dedicavano però culti, mentre le divinità africane erano oggetto di culti complessi e costosi anche se sicuramente dissonanti rispetto alla pratica cristiana.9 Un altro tema ricorrente nelle trattazioni sui sistemi di credenza connessi ai feticci era la constatazione che fossero il frutto di una logica casuale e contingente. Il feticcio era, infatti, la semplice conseguenza di un ordine caotico, capace di associare un qualsiasi oggetto a una forza mistica. Nei resoconti di viaggio del XVI e XVII secolo, è evidente l’enfasi sull’origine irrazionale dei meccanismi alla base della mentalità africana (Pietz 1985:8). Willem Bosman (1705) riportava la voce di un suo informatore di Ouidah, secondo il quale vi erano così tante divinità: perché ciascuno di noi, che voglia intraprendere qualche cosa d’importante, cerca innanzitutto un Dio che propizi la nostra impresa; andando fuori dalla porta con questo Disegno, si prende la prima creatura che si presenta ai nostri occhi, che sia un cane, un gatto o il più spregevole animale nel mondo come nostro Dio; o magari invece di questo un qualsiasi oggetto inanimato che cade lungo la nostra strada, una pietra, un pezzo di legno e qualsiasi altra cosa della medesima natura (Bosman [1705] 1967:376).

La presunta casualità e ingenuità degli africani consentiva ai mercanti protestanti, ossessionati da problemi di attribuzione di valore, di interpretare la resistenza che alcuni africani sembravano opporre nei confronti di un razionale scambio commerciale. Le incomprensioni negli scambi divenivano quindi un’espressione della medesima logica sottesa al feticismo. I mercanti europei erano sicuramente uomini dotati di uno sviluppato senso pratico ma furono costretti a entrare in contatto con un mondo complesso, costituito da un’apparente infinità di lingue, pratiche, forme politiche e religiose. Il loro scopo non era quello di addentrarsi in questi differenti universi culturali ma di cercare e acquisire merci di valore, come ad esempio l’oro. A tal fine erano obbligati ad attribuire un valore a tutto ciò che incontravano, valore che essi computavano secondo il mercato europeo. Gli africani applicavano però agli oggetti una differente scala di valore. Il mercante veneziano Alvise Cadamosto nel XV secolo, ad esempio, 9. Secondo MacGaffey (1994), gli oggetti africani non vengono avvicinati con pia umiltà, ma possono anche essere insultati e trattati in modo decisamente non rispettoso. Le categorie di sacro e profano, così come elaborate dal pensiero occidentale, sono continuamente trasgredite nella pratica religiosa africana.

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notava come gli africani, pur attribuendo valore all’oro, spesso lo scambiassero con oggetti di poco valore: il qual oro è molto apprezzato appresso queste genti, e secondo me molto più che da noi, perché lo stimano per cosa molto preziosa: nientedimeno ne facevan buon mercato rispetto alle cose minime e di poco momento, secondo l’opinion nostra, che toglievano da noi all’incontro di esso (Cadamosto in Graeber 2008:412).

La differente scala di valore applicata alle merci portò alla retorica “delle perline e degli specchietti” secondo la quale gli ingenui africani barattavano l’oro e le pietre preziose con cose di scarso valore. Sembrava però non esserci una regola costante; gli “indigeni” non accettavano qualsiasi cosa venisse loro proposta ed era quindi difficile per i mercanti fissare un valore costante alle merci desiderate. Si trattava di un problema di traduzione tra differenti modalità di attribuzione del valore. Un europeo che trascorreva un anno lungo le coste di Guinea aveva il cinquanta per cento di probabilità di sopravvivere; anch’egli applicava una scala di valore indubbiamente arbitraria per soddisfare il proprio desiderio di oro o di schiavi (Graeber 2005). L’arbitrarietà, di fatto insita in qualsiasi sistema di valore, non portò a riflettere sull’universalità di questa constatazione ma piuttosto a enfatizzare l’ingenuità degli africani, descritti talvolta come bambini attratti dagli oggetti, forse per il colore o forse per la forma, e capaci di attribuire a questi stessi inutili oggetti un nome, una personalità, sottoponendosi volontariamente a un potere inesistente: il feticcio divenne sinonimo di illusione e inganno. L’idea di feticcio si originò quindi in uno «spazio mercantile interculturale» (Pietz 1987:24), generatosi dall’incontro di culture radicalmente differenti: il feudalesimo europeo, la tradizione teologica cristiana, le società africane e il capitalismo danese, intriso di teologia calvinista e di etica protestante. Nonostante il “sinistro pedigree” del termine, che continua a evocare pratiche primitive e lontane dalla vera religione e ha creato molto imbarazzo alle discipline sociali (Pietz 1985, MacGaffey 1977), il feticcio non può oggi essere cancellato dal vocabolario, perché si perderebbe la complessità del suo percorso storico ma soprattutto perché la parola è diventata di uso comune, almeno in questa regione dell’Africa. D’altra parte, «il processo di marginalizzazione della categoria del feticismo, evidente nel suo slittamento verso altri discorsi disciplinari» (Pa-

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rodi da Passano 2004:16) in campo economico, nel marxismo per denunciare «le maschere della società mercantile», nel campo della sessuologia per caratterizzare un tipo di perversione sessuale, è conseguente all’imporsi di una riflessione sempre più condizionata dai contenuti contestualizzati forniti dall’esperienza etnografica. Ciò portò a preferire i termini in lingua locale, evitando ove possibile le traduzioni; Robert S. Rattray (1923:9), ad esempio, scriveva: «c’è una parola il cui uso indiscriminato ha fatto, credo, infiniti danni: il termine feticcio», e per Bernand Maupoil (1943) «la parola feticcio è in tutti i casi da evitare». La sensibilità ed empatia nei confronti del loro oggetto di studio impediva l’uso di un termine che risuonava ormai carico di troppe valenze negative. Maupoil scelse di parlare di vodu, anche se poi tradusse con divinité, pur riconoscendo una certa arbitrarietà in tale scelta e soprattutto il rischio di tradire il significato originale. L’imbarazzo di fronte a questo termine ebbe come conseguenza che gli antropologi lo «facessero scomparire nella più ampia e neutrale categoria di magia» (MacGaffey 1977:172). La necessità antropologica di costruire dei paradigmi all’interno dei quali collocare i fenomeni osservati, aveva opposto religione e magia come sfere distinte anche se a volte pericolosamente contigue. La magia era una categoria più facilmente gestibile dall’antropologia della religione, poiché capace di superare la prova del senso a cui continuava a sfuggire il feticismo. 3. Il vodu è un feticcio? Il “feticcio” resta dunque un paradigma problematico, sia nell’uso che nell’attribuzione di senso. È però ormai parte del linguaggio comune e del vocabolario religioso locale, pur mantenendo tutte le sue ambiguità; può infatti essere usato semplicemente come traduzione nelle lingue europee del termine vodu, oppure acquisire una valenza negativa, alludendo a possibili contiguità con la stregoneria. Rispondere alla domanda proposta nel titolo di questo paragrafo può aiutare a penetrare, anche se in modo non troppo organico, all’interno del complesso dispositivo detto vodu. Utilizzerò la definizione proposta da Pietz come quadro all’interno del quale contestualizzare i dati etnografici, cercando di delineare alcuni aspetti salienti della pratica vodu. Sono quattro i caratteri sostanziali che, secondo Pietz (1985), possono aiutare a comprendere la genesi e la dinamica del termine feticcio: la materialità,

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la singolarità e ripetizione, il valore sociale e lo stretto rapporto con il corpo umano. Gli articoli di Pietz, un classico sul tema del feticismo, nascono dal desiderio di cogliere l’origine e il ruolo assunto nel pensiero sociale europeo da questo concetto, escludendo però completamente le connessioni e ricadute locali africane. Questa definizione rischia quindi a sua volta di reificare il fenomeno ed essere d’intralcio alla comprensione delle pratiche e delle concezioni locali. Per tale motivo integrerò l’analisi di Pietz con la formulazione del concetto di “fatticcio” di Bruno Latour (1996), che porta l’analisi oltre la dicotomia tra pensiero razionale e pensiero irrazionale, cercando di cogliere sia la materialità del vodu sia la sua trascendenza, dimostrandosi in tal modo più vicino alle categorie locali. Latour parte proprio da quello che era sempre apparso come il punto più debole del feticcio: la sua artificialità. Il feticcio, etimologicamente svela la propria natura di oggetto costruito e quindi la propria intrinseca arbitrarietà. Per i missionari e i detrattori delle religioni locali, il fatto che i féticheurs,10 i sacerdoti, fabbricassero gli oggetti sacri era la prova della malvagità e della malafede, esercitata ai danni di un popolo ingenuo e decisamente prelogico. I “neri” fabbricavano i propri dei e allo stesso tempo pretendevano che questi agissero indipendentemente dalla volontà umana, che avessero una volontà e una potenza propria. Il feticcio è, in effetti, un oggetto ideato e costruito dagli uomini, ma ciò non toglie valore alla sua efficacia. Non significa che sia fasullo. Al contrario, proprio il fatto che esistano uomini capaci di creare oggetti potenti ne accresce la forza. La forza del feticcio risiede nella materia e nell’oggetto in quando risultato dell’opera dell’uomo; conoscere i segreti della sua costituzione rende le credenze accessorie e inutili. Sapere come il 10. Il termine che ha avuto maggior diffusione è féticheur; nel linguaggio locale indica talvolta i sacerdoti (houno o vodouno) e i divinatori (bokono), ma più spesso quei personaggi ritenuti capaci di manipolare le forze dell’invisibile. I féticheurs, aiutati dai vodu, dalla magia e dalle loro personali capacità psichiche, si muovono nel disordine cosmico; la loro collocazione di frontiera, tra visibile e invisibile, e ai limiti della stregoneria, è estremamente pericolosa dato che essi aspirano a una posizione di autonomia sia rispetto agli obblighi materiali e sociali sia alle forze spirituali. Indubbiamente i féticheurs sono degli innovatori, poiché hanno il coraggio di affrontare le potenze dell’invisibile e di piegarle alle esigenze del mondo contemporaneo, introducendo modifiche e integrazioni alle pratiche più convenzionali (Brivio 2004:50), ma il loro scivolare nel campo della “stregoneria” sembra più che altro frutto di un lavoro intellettuale di distinzione e classificazione.

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feticcio è stato fatto, averlo creato, fa sì che esso non sia una retroproiezione e quindi che necessiti delle credenze o della fede (Latour 1996). Il feticcio può anche venire distrutto, consunto dal tempo oppure rubato, senza che l’azione sia percepita come blasfema, irreparabile o che sia messa in crisi la “fede” nei feticci. Muore, viene abbandonato oppure dimenticato, ma potrà sempre essere sostituito e quindi rinascere in una nuova forma. Latour (1996) procede quindi a un’analisi comparativa tra il feticcio e l’oggetto fatto, concepito e prodotto dalla scienza, tra il “selvaggio” che crea le proprie divinità, a partire dalla materia e lo scienziato che in laboratorio crea le condizioni affinché l’esperimento compia il proprio corso, che resterà in parte indipendente dalla volontà umana: la parola “feticcio” e la parola “fatto” hanno la stessa etimologia ambigua, per i portoghesi come per i filosofi della scienza. Ma ciascuna delle due parole insiste simmetricamente sulla sfumatura contraria dell’altra. La parola “fatto” sembra rinviare alla realtà esteriore, la parola “feticcio” alle folli credenze del soggetto. Entrambi dissimulano, nella profondità della loro radice latina, l’intenso lavoro di costruzione che permette la verità dei fatti come quella degli spiriti ([1996] 2005:66).

Non esistendo una differenza ontologica tra “feticcio” e “fatto”, Latour propone il termine “fatticcio” per superare il problematico rapporto tra i due concetti, che è poi quello tra credenza e conoscenza: unendo le due fonti etimologiche,11 noi chiamiamo fatticcio la robusta certezza che permette alla pratica di passare all’azione senza mai credere alla differenza tra costruzione e raccoglimento, immanenza e trascendenza ([1996] 2005:66).

La prospettiva di Latour in primo luogo cerca di superare la dicotomia tra materiale e immateriale, tra naturale e sovrannaturale, mettendo un maggior accento, rispetto alla problematizzazione del concetto di feticcio elaborata da Pietz, sulla pratica e sull’azione, scelta che appare più vicina all’acquisizione africana di questo termine. In seconda istanza, Latour sradica la duratura associazione tra il feticcio e l’idea di illusione, mostrando come ogni realizzazione umana sia tale, poiché la materia nelle sue trasformazioni sfugge al totale controllo umano, lasciando uno spazio 11. Si riferisce ai fonemi “fé” (fatato) e “fait” (fatto), che in francese hanno lo stesso suono. Egli in una nota mostra come in italiano fatto e fatato abbiano invece la stessa radice.

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d’incertezza che si può declinare come credenza religiosa oppure come risultato scientifico. Infine anche la lettura di Graeber (2005), pur in una dimensione teorica completamente differente da quella di Latour, suggerisce la possibilità di superare le molte dicotomizzazioni che hanno caratterizzato la genesi del termine. Egli invita a guardare al feticcio come a un dispositivo capace di creare nuove relazioni sociali, e di conseguenza capace di trascendere la sua apparente e semplice immanenza, incorporando valori e poteri che diventano estranei alla volontà umana. In tal modo viene restituita quella dimensione trascendente che non si può disarticolare dalle idee e dalle pratiche che in varia misura riconducono al feticcio. 4. L’irriducibile materialità dell’oggetto L’irriducibile materialità fu ciò che tolse il feticcio dalla categoria degli idoli, perché se nell’idolo era importante la relazione che conduceva a un’identità immateriale, nel feticcio era centrale la materia in sé (Pietz 1985). È questo uno dei punti più controversi, poiché se, come cercherò di mostrare, la pratica vodu conferma tale affermazione, per chi crede nel vodu esiste anche altro, poiché già le materie che costruiscono il feticcio sono pensate proprio come unione di visibile e invisibile. Le erbe (ama), componenti essenziali dei vodu, possiedono un gbogbo, una forza vitale, uno “spirito”, un soffio – così come gli uomini e gli animali – per cui anch’esse possono comunicare ed essere altro da ciò che appaiono. I “feticci” infatti «violano le nostre categorie del rituale e del tecnico, dello spirituale e del materiale, essendo contemporaneamente tutto ciò» (MacGaffey 1994:126). Ponendo l’accento esclusivamente sulla materialità si rischia di lasciare in ombra l’essenza “immateriale” del vodu, il suo “muoversi nel vento” e la sua capacità di metamorfosi. D’altra parte, come vedremo, anche identificando i vodu con delle essenze spirituali, divinità minori, angeli o demoni ne si tradisce la natura. Interrogando i bokono, coloro che più spesso sono incaricati di creare nuovi vodu,12 quando si va in brousse a cercare le ama necessarie alla realizzazione di un vodu, sono le erbe stesse a suggerire le composizioni e gli ingredienti necessari. Un bokono o un féticheurs che sia stato iniziato nella 12. Faccio qui riferimento a diverse conversazione che ho avuto con Bokono Alue Sude Hoja, Amegneran, Togo, novembre 2001.

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foresta, avrà imparato proprio dalle erbe, e più in generale dalla natura, i segreti necessari al suo lavoro. Non si tratta quindi della casualità che descriveva Bosman e su cui si sono fondate tutte le teorie sul primitivismo e sull’ingenuità degli africani, ma di un differente modo di confrontarsi, conoscere e concepire la natura. L’uomo esperto e iniziato vede al di là delle apparenze, oltre la superficie delle cose e proprio in ciò risiede la sua capacità di apprendere, progredire e aiutare la società umana. Comunicare con le erbe significa porsi in un campo epistemologico all’interno del quale parlare di pura materialità non ha alcun senso. Probabilmente il prolungato malinteso attorno al “feticcio” nasce proprio dall’avere collocato la materia, animata e inanimata, in una categoria ontologicamente incapace di comunicare con quella degli esseri umani. L’errore si sarebbe dunque generato dal non aver accettato la possibilità che oggetti e soggetti si modifichino reciprocamente, e che i soggetti possano apprendere da ciò che hanno fabbricato ciò in cui consistono: «i moderni devono rendere un culto esplicito ai fatticci, alle mediazioni, ai passaggi, poiché non hanno mai avuto la padronanza di ciò che facevano» (Latour [1996] 2005:109). La preparazione di un vodu, secondo il più classico immaginario che riconduce alla magia e alla stregoneria, ricorda una complessa ricetta culinaria: la persona incaricata dell’installazione, generalmente uno specialista esterno alla famiglia in cui si svolge il lavoro, arriva13 nel luogo convenuto, con una serie di piccoli pacchetti che contengono gli ingredienti necessari. Si tratta soprattutto di ama – erbe, radici, foglie – che, in dosi differenti e nelle dovute combinazioni, tipiche di ogni vodu, vengono miscelate tra di loro. Oltre alle ama si possono aggiungere teschi, polveri di ossa di animali locali oppure di specie rare, sostanze minerali, pietre o polveri, tanto di origine naturale quanto di origine industriale. Gli ingredienti vengono scelti in funzione delle loro caratteristiche fisiche, simboliche o estetiche, per evocare e convogliare le energie necessarie a ottenere gli effetti desiderati. Ad esempio le erbe fredde – ama fafa – saranno prevalenti nei vodu freddi, anche se alcune erbe calde – ama dzodzo – si ritiene siano sempre necessarie per dare forza e capacità di agire. Le erbe del mare generalmente saranno inserite nei vodu legati alle acque, ma anche nelle installazioni il cui scopo è procurare ricchezza, prosperità e fertilità. Possono essere selezionate anche in base al loro aspetto, come nel 13. La dimensione dello spostamento è molto importante; il fatto che il bokono o il vodouno arrivino da lontano carica di forza l’avvenimento e di aspettative l’attesa.

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caso di alcune foglie filamentose, che si ritiene siano i capelli degli aziza,14 oppure alla loro rarità: pietre che provengono dal deserto, conchiglie che appartengono a mari lontani o parti di animali rari. Ogni singolo ingrediente consente di accumulare forza e di concentrarla all’interno di un particolare oggetto, attraverso il soffio vitale o respiro, il gbogbo, che appartiene a ogni elemento della natura. Il gbogbo continua a permeare la materia, anche dopo che questa si è allontanata dalla sua matrice originaria, ad esempio la foglia staccata dall’albero o il dente estratto dalla bocca dell’animale. Il gbogbo è capace di esercitare infatti un’attrazione su altre forze che a tale materia corrispondono, donando potere ed efficacia all’oggetto. L’oggetto è quindi il recettore di un insieme di soffi vitali che devono essere periodicamente riattivati attraverso le cerimonie e il contatto con l’atmosfera. Durante l’installazione di un vodu si deve lasciare un canale di comunicazione tra l’interno, il nucleo interrato, e l’esterno, l’atmosfera. Per questo motivo i vodu in argilla hanno gli occhi, la bocca e le orecchie: non si tratta di semplici decorazioni, ma di canali che consentono di alimentarsi, respirare e ascoltare, quindi di esistere attivamente nel mondo. Nel caso in cui l’oggetto sia in legno, sarà il gbogbo dell’albero a funzionare da tramite tra interno ed esterno, quindi il legno stesso interagirà con le altre materie poste all’interno o sottoterra.15 Proprio le ama sono ritenute essere la forza e il potere del vodu; senza di esse il “dio oggetto” sarebbe solo un pezzo di legno o un ammasso di terra privo di significato e di valore. Ogni mercato di questa regione, ha una parte dedicata alla vendita di tutto ciò che serve a realizzare vodu, pozioni magiche, talismani e amuleti (bo); qui si trovano allineate teste di animali – scimmie, cani, gatti, coccodrilli – moltissime specie di uccelli, insetti e rettili, ma anche mine14. Queste indicazioni mi furono date da Sodejedo Kpoheto, detto Sirkinturou, féticheur di Aklakou, Togo, durante molte conversazioni nel 2001 e 2002. 15. I vodu possono avere altre forme. Il vodu Dan, il serpente, è ad esempio caratterizzato dalla presenza di un elevato numero di terrecotte bianche installate sulla superficie del terreno; le terrecotte, come gli oggetti in legno, danno la possibilità di esprimere la fantasia e le capacità artistiche di chi, per professione, si occupa della loro realizzazione. Altri vodu, come ad esempio Sakpata, il vodu del vaiolo e della terra, sono contenuti in enormi calebasse (zucche) utilizzate anche come contenitori per il cibo. Esse, tagliate in due, diventano gli emisferi che racchiudono gli “ingredienti” del vodu, creando un microcosmo simbolico. Un’idea che sembra stare alla base di tutti i vodu è proprio quella di contenimento: le terrecotte, le zucche, le bottiglie, i buchi nella terra devono contenere e nascondere la forza dei vodu.

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rali, conchiglie, polveri, piume e uova. Per i lavori più difficili, legati alla stregoneria, agli spiriti dei morti di morte violenta e ad alcuni vodu come Kokou e Gambala, si dice siano necessari anche parti di corpo umano, componenti che chiaramente non si possono comprare al mercato. Agli ingredienti principali si aggiunge sempre il sangue16 – hou – degli animali sacrificati nel momento dell’installazione, le bevande alcoliche degli antenati – la sodabi17 oppure il gin – e altre bevande non alcoliche – le sucreries. Le “ricette” che consentono alle differenti energie – gbogbo – di unirsi e costituire la forza del vodu sono uniche e irripetibili; ogni houno possiede un sapere che pur conformandosi a quello degli altri suoi colleghi, avrà sempre almeno un segreto che differenzierà ogni singola installazione. Per tale motivo ogni vodu è unico. La stratificazione materica attraverso cui si costruisce un vodu è un processo in continua espansione. Gli ingredienti principali vengono sotterrati e non saranno più visibili, ma il vodu, in tal modo radicato nel terreno, uscirà da esso, per consentire agli uomini di riconoscerlo.18 Negli anni altra materia coprirà la forma originaria a testimonianza della sua natura processuale e storica. La forma esterna risulterà trasformata dalle offerte che si accumuleranno; il sangue, il cibo, le penne dei polli sacrificati, le uova o la farina di mais trasfigurano le forme degli oggetti, rendendo il vodu un dispositivo in continua espansione 5. Metafora e metonimia: singolarità e ripetizione La metafora e la metonimia sono parte dei processi logici che portano alla realizzazione degli oggetti sacri in Africa (MacGaffey 1977, 1994; De Heush 1971). La metonimia ci ricorda, come già detto, che una foglia man16. Come vedremo il sangue è il fluido più ricco di energia vitale che gli uomini abbiano a disposizione e proprio per tale motivo è imprescindibile il suo uso in ogni cerimonia. 17. Sodabi è un distillato di vino di palma, molto diffuso in Togo e Bénin. 18. Esistono dei bo che vengono semplicemente interrati. Si tratta dei dema, cioè oggetti (complessi materici) installati nel momento nella costruzione di una nuova casa, come protezione per le persone che andranno a viverci. Questi possono essere identificati dalla presenza di un sasso, che negli anni può venire rimosso, non rendendo più identificabile la posizione del dema. Con funzione opposta si sotterrano nella casa della persona a cui si vuole nuocere dei bo aggressivi, che agiscono a discapito di chi lì vive, causando sfortuna e insuccesso nella famiglia.

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terrà le potenzialità dell’intero albero e garantirà la relazione, il continuo flusso d’energia tra interno ed esterno. La metafora si esplicita nel momento in cui si utilizzeranno, ad esempio, delle monete per la realizzazione di un “feticcio” che favorirà il benessere economico, oppure si inserirà il corpo di un cane per l’installazione di un Legba,19 che si auspica sarà un guardiano fedele della casa. La testa di un gatto potrà invece entrare nella composizione di un vodu che, petulante come il miagolio di un gatto, aiuterà l’uomo ad ottenere ciò che vuole. Ma il gatto entrerà anche nei vodu il cui scopo sarà combattere la stregoneria, essendo un animale astuto e cacciatore. I due caratteri ricordano che ogni feticcio è stato fatto, nel senso che un feticcio e un vodu sono la fissazione e l’iscrizione di un evento unico che unisce in una nuova identità degli elementi prima d’allora eterogenei. Esistono però delle regole che controllano la logica che sottende alla scelta degli ingredienti, non si tratta di semplice contingenza. Il feticcio risulta in tal modo una “fabbricazione composita”, nella quale ogni ingrediente è scelto secondo una logica precisa che rende ogni evento e ogni oggetto irripetibile ma replicabile in forma differente all’infinito. Lo stesso vodu può infatti esistere in ogni villaggio o in ogni casa e pur mantenendo le 19. Legba, chiamato Eshu-Elegbara in lingua yoruba, è un vodu molto importante perché presiede a tutte le transazioni tra gli uomini e i vodu. La sua personalità appare ancora più ambigua di quella degli altri vodu, poiché, mentre svolge il suo ruolo di mediatore, si ritiene che ami mettere alla prova, provocare e ingannare l’uomo. È una divinità sempre in viaggio e in movimento, per tale motivo i suoi luoghi preferiti sono gli spazi di transizione: le soglie e gli incroci. Legba è una divinità posta a protezione del singolo individuo, della comunità, il Tolegba, e degli altari. I missionari utilizzarono Legba per tradurre il concetto di demonio, enfatizzando la sua entità ingannatrice a discapito di quella protettiva. Secondo Le Herisse (1911:37), Legba risiedeva nell’ombelico di ciascun individuo e da lì soffiava la collera negli uomini. Maupoil (1943:75-80) ne mise in luce le ambiguità, rifiutando però le interpretazioni date dai missionari. Legba è strettamente legato a Fa, il vodu della divinazione: «si dice comunemente che Fa sia indebitato per quanto riguarda le sue conoscenze, con Legba; questa è la ragione per cui Legba deve sempre essere nutrito prima di Fa, sia tra i fon che tra gli yoruba» (1943:77). Maupoil riportava la testimonianza di un vecchio divinatore di Abomey, secondo il quale: «Legba è più forte di tutti i vodu, soprattutto più furbo. Cerca ovunque ed è informato di tutto. È prudente sacrificargli ciò che ama. Ciascuno, dalla nascita, è segnato da un Legba che segue l’uomo fino alla morte, spingendolo, se possibile, a fare delle stupidaggini. Ma Legba può anche fare del bene, se non altro perché il male verso alcuni produce il bene di altri» (1943:77). Legba è generalmente raffigurato come un piccolo cumulo di terra che rappresenta un uomo, probabilmente accovacciato, le cui principali fattezze sono l’enorme testa e il pene in erezione. Può essere raffigurato anche come un uomo in piedi, con le corna sulla testa. Per un’analisi critica di Legba si veda Augé ([1988] 2002:99-129).

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sue peculiarità generali, acquisire forma e potenza differenti. Il vodu non esisterebbe se non vi fossero gli uomini e tale affermazione risulta meno banale se si ricorda che l’“autorità” del leader che effettua l’installazione è il primo criterio a partire dalla quale giudicare l’affidabilità o meno di un vodu. Frequenti sono i commenti di disprezzo e di condanna espressi dagli houno nei confronti dei loro colleghi, accusati di imbrogliare la gente, installando vodu di cui non conoscono veramente i segreti, di cui «non sanno nulla».20 Ogni vodu instaurerà un rapporto biunivoco con il suo houno: in funzione del successo di questo rapporto, la divinità avrà più o meno potere. Ciò fa si che, anche da un punto di vista iconografico, ciascuna divinità potrà in parte differire da una sua omologa, acquisendo con il tempo nuovi oggetti sacri, accumulando ulteriore materia ed eventuali nuovi vodu. Pur mantenendo il medesimo nome, le divinità possono quindi assumere identità differenti che rispecchiano più il carattere e la personalità del loro houno che le caratteristiche cosmiche della divinità. Il conformismo non è una qualità sempre apprezzata. La relazione tra divinità e sacerdote è uno specchio delle relazioni tra gli uomini nella società. Lo status di un leader dipende dal numero di fedeli di cui dispone e il prestigio di un culto (Barber 1981) è funzione dell’attenzione che i fedeli gli riservano, e tale prestigio si riflette sui fedeli stessi. Per tale motivo non è importante per un fedele l’insieme sistematico di tutte le divinità che compongono il presunto pantheon, ma il rapporto personale e reciproco con il vodu. Da qui nasce la tendenza a frammentarli in numerose manifestazioni differenti, in modo tale che ogni individuo o gruppo di persone abbia la sua versione “personale”. Un vodu che non soddisfi i propri seguaci, nonostante i suoi presunti poteri e la sua posizione nella gerarchia cosmica, verrà abbandonato senza che alcuna cerimonia sia necessaria e soprattutto senza che vi siano ripercussioni immediate per gli uomini.21 6. Valore sociale del feticcio La singolarità e la ripetizione del feticcio sono caratteristiche costitutive capaci di costruire valore sociale. L’installazione di un vodu è un momento fondante nel quale una comunità si lega per una finalità specifica 20. Espressione che emergeva sempre durante le mie conversazioni con Hilaire Dohou. 21. Il vodu può tornare dopo qualche generazione e chiedere di essere rimesso in vita, cioè che il suo altare venga nuovamente installato e che qualcuno della famiglia se ne occupi.

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a un luogo, il vodu assumerà poi nel tempo il valore di genius loci, indissociabile dalla dimensione territoriale. Chi emigra porta con sé le proprie divinità e installandole nella terra di adozione, si appropria del luogo e da inizio alla formazione di una nuova comunità. Il gesto di scavare con un macete, e poi con le mani, un profondo buco nella terra è pratica imprescindibile della nascita di un nuovo vodu ed evidenza del radicarsi degli uomini in un luogo. La collocazione dei vodu in un territorio, villaggio o quartiere urbano che sia, ci restituisce la mappa storica e geografica delle migrazioni delle molte comunità che abitano un luogo. Il valore sociale dei feticci è evidente, ad esempio, nella pratica connessa agli nkisi, i cosiddetti “feticci a chiodi”, diffusi tra i BaKongo. Durante il XVIII secolo ogni aspetto della vita economica, dalla gestione dei mercati alla protezione del diritto di proprietà, era suggellato da accordi che utilizzavano come garanzia proprio gli nkisi (MacGaffey 1987). I feticci erano forme «cristallizzate di violenza e afflizione» (Graeber 2008:419) e talvolta anche la garanzia contro l’esplosione di guerre intestine. Erano l’arbitro delle instabili relazioni umane. I feticci sancivano dunque relazioni e costruivano forme di responsabilità sociale. Fu dunque l’ossessione degli europei per la materia (oro e altre materie preziose) e per il valore in sé delle merci, che fece passare in secondo piano i valori sociali, di fatto invisibili, che i feticci potevano racchiudere, evidenziando invece il loro carattere puramente materiale e illusorio. La definizione di feticcio come «divinità in via di costruzione» (Graeber 2005:427), capace di transitare da una dimensione intima a una collettiva, da una funzione cosiddetta magica a una religiosa, risulta decisamente più appropriata sia a comprendere la natura processuale del fenomeno vodu sia a evidenziare la presenza di una realtà che trascende la materialità dell’oggetto, che la si voglia chiamare con Graeber «creatività sociale» oppure con chi pratica il culto «forza invisibile».22 22. Come conseguenza della sua natura processuale e sociale, il feticcio obbliga infine a superare anche la classica separazione tra religione e magia, situandosi in uno spazio intermedio. Il feticcio, infatti, pur essendo sovente realizzato o acquisito per assecondare le esigenze di un singolo, riesce ad apparire come un potere imposto sull’individuo, e ciò accade nel momento in cui l’oggetto inizia a incorporare nuovi legami sociali e diviene quindi collettivo (Graeber 2005:427). In tal senso passa dall’essere, nella prospettiva di Durkheim, espressione dell’esigenza del singolo, quindi magia, e diviene espressione della

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7. Corpo del feticcio, corpo dell’uomo Infine Pietz (1985:10) cita lo stretto rapporto del feticcio con il corpo umano, cioè la possibilità che quest’ultimo sia controllato da oggetti materiali (evidente nella declinazione psicoanalitica del feticismo). In ambito religioso tale concezione è facilmente comprensibile in un contesto epistemologico che non pensi l’individuo come un’entità autonoma, ma lo concepisca come multiplo e aperto. Si ritorna a ciò che MacGaffey ha definito lo «scandalo di queste pratiche» (1994:128) provocato dalla confusione tra il corpo «spirituale» degli esseri umani e la «profana materialità» degli oggetti. Una dicotomia che non ha fondamento, poiché il corpo umano,23 almeno tra chi pratica la religione vodu, è pensato come dotato di una natura porosa e permeabile ed è costituito da una pluralità di elementi, ciò che Roger Bastide (1973) chiamò «anti-principio di individuazione». Il corpo è un luogo aperto, nel quale agenti esterni, vodu, antenati e spiriti maligni possono penetrare, come il fenomeno della possessione esplicita e attualizza. Oltre alle intrusioni dall’esterno, ogni individuo è di per sé composito e non necessariamente in grado di conoscere o controllare tutte le proprie parti. Uno dei termini utilizzati dagli ewe e fon per definire le componenti immateriali dell’uomo è luvho, tradotto come anima o spirito. Si tratta di una traduzione che rischia di rinviare a una dicotomia tra corpo e anima, localmente non riconosciuta, ma che non impedisce di riconoscere la pluralità e variabilità delle componenti. I bokono distinguono tre differenti livelli del luvho;24 il primo è rappresentato dall’ombra, il secondo, più società, quindi religione. Il feticcio, il vodu, è un oggetto di frontiera, proprio perché sfugge alle definizioni e appartiene sia al campo della magia che a quello della religione. 23. Molti sono gli studi dedicati all’idea di individuo nelle società africane, tra questi l’opera collettiva La notion de personne en Afrique Noire (1973); la raccolta di M. Jackson e I. Karp (1990), ma soprattutto tutta l’antropologia che a partire da Evans-Pritchard (1937) si è occupata della malattia. 24. Alfred Ellis (1890) definì luvho come lo spirito che abita l’uomo, presente anche negli animali e in tutti i fenomeni naturali: «il luvho esiste prima della nascita ed è stato probabilmente lo spirito di una lunga serie di persone: dopo la morte diventa nôli o luvho senza residenza. Per un breve intervallo di tempo dopo la morte rimane vicino al sepolcro dove è stato interrato il corpo; in seguito abitualmente entra nel corpo di un nuovo nato e di nuovo diventa luvho» (Ellis 1890:102). Roberto Pazzi (1976), che ha studiato in particolare l’area degli ouatchi, riconosce due luvho, uno più materiale e visibile che risulta essere come l’immagine dell’altra, invisibile e “spirituale”: «L’aspetto visibile è costituito

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evanescente, è attaccato al primo ma visibile solo dalle persone dotate di particolari energie e il terzo è completamente invisibile. Secondo un’interpretazione condivisa dai bokono che operano nella regione ouatchi, la prima ombra è quella visibile con la luce, che non abbandona mai l’uomo neppure al buio, infatti «basta accendere una luce per rivederla immediatamente». Con la morte scompare e se ne va verso il mare, cioè verso il mondo degli antenati. La seconda ombra, dopo la morte, resta nella casa in cui l’individuo visse e mantiene un continuo contatto con il mondo dei vivi e con la famiglia del defunto; infine la terza componente, completamente invisibile, se ne «va nella natura, si muove con il vento e può andare in paesi lontani e ritornare a vivere, creandosi anche una nuova famiglia».25 Questa terza componente è la più potente e attraverso di essa gli uomini possono compiere azioni eccezionali. Durante il sonno, nella fase onirica, esce dal corpo e viaggia in luoghi spaventosi e sconosciuti oppure compie gesti straordinari che durante la veglia nessun essere umano avrebbe il coraggio o la capacità di fare. Essa rappresenta il potenziale di stregoneria che è in ciascuno di noi. Le streghe o gli stregoni sono quindi persone che hanno incrementato l’energia di questa componente, o perché ereditata da un antenato o per scelta, “acquistandola” da altre streghe. Il luvho può abbandonare il corpo, senza che questo apparentemente soffra di alcun disturbo, sia durante il sonno che durante la veglia.26 dall’ombra del corpo umano. Si tratta dell’ombra densa, che è più piccola dell’ombra proiettata da un corpo esposto al sole. Quest’ultima infatti scompare quando il corpo si ritrae dal sole, mentre l’ombra densa l’accompagna ovunque, anche quando si trova nell’intimità della sua stanza. Quest’ombra è chiamata “anima della vita” (agbè luvho) […] tale aspetto visibile e materiale dell’anima scompare con la morte, ma l’aspetto invisibile e spirituale resta. Quest’ultimo si chiama “anima della morte” (ku luvho)» (Pazzi 1976:294). Secondo de Surgy (1998), con la morte il rapporto tra i luvho si affievolisce ed essi acquisiscono reciproca libertà. L’agbè luvho si allontanerà dal mondo visibile, a meno che l’individuo non abbia subito una «morte malevola», che lo condannerà ad errare sulla terra, e farà ritorno al mondo delle origini. Il ku luvho non si allontanerà dall’ambiente e dalle cose che gli erano famigliari durante la vita, né dalle persone che gli sopravviveranno; il legame tra parenti vivi e defunti è quindi rinforzato e assicurato da una presenza continua, anche se parziale, degli antenati (de Surgy 1998:33). 25. Conversazione con Ametou Kojou, Gninumé, Togo, novembre 2001. 26. Ellis scriveva: «quando si aggira e lascia il corpo, è chiamato aklama […] la parola aklama deriva da kla che significa disertare, abbandonare» (Ellis 1890:103). Spesso nel cercare di spiegare l’esistenza indipendente delle tre componenti, i bokono mi raccontavano di come, dopo la morte, soprattutto se improvvisa, fosse lo stesso individuo a incamminarsi verso il villaggio e comunicare ai famigliari l’accaduto. Oppure, ancora, di come fosse possibile, anche

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Ai luvho si affianca gbogbo, cioè il soffio vitale o respirazione. Gbogbo è la componente che consente all’uomo, così come alle cose e agli animali, di vivere: esso se ne va per sempre dalla bocca, nel momento in cui ogni essere vivente, morendo, abbandona questo mondo. Un’ulteriore componente invisibile si affianca a quelle citate: è lo spirito vitale, l’agbè luvho di un parente defunto, che può decidere di tornare più attivamente nel mondo terreno. Esso è anche chiamato joto, cioè proprietario – to – della nascita – jo – e rappresenta la componente ancestrale, che caratterizza ogni nuova nascita (Brivio 2004:82-86). Ciascun individuo ha poi un destino, detto se, attraverso il quale diventa parte del destino universale.27 Ciascun essere umano che voglia o debba analizzare il “proprio io”, sarà costretto a confrontarsi con le eventuali esigenze degli antenati, delle divinità e del destino stesso. L’uomo non è quindi completamente padrone di sé, perché, anche se con livelli di consapevolezza estremamente differenti, sa di far parte di un continuo flusso di materia che unisce il mondo dei viventi all’aldilà, in un legame ciclico tra vita e morte. Ogni componente dell’individuo potrà quindi avere un rapporto differente con le forze dell’invisibile e con un oggetto di riferimento; il kpoli, il se, il joto sono infatti materializzate in oggetti differenti e il soggetto instaura con esse un rapporto simile a quello che si può intrattenere con un vodu (la differenza tra tali componenti e i vodu non è sostanziale). Non solo le componenti invisibili possono avere un rapporto con un oggetto materiale, ma anche quelle più materiche agiscono secondo un certo grado di indipendenza, acquisendo significato proprio. La parte più profonda, intima e segreta dell’uomo, ad esempio, si ritiene abbia sede nel ventre, fomè, il “buco” dove l’uomo nasconde e contiene i propri segreti, sentimenti e pensieri non comunicabili. La cavità dell’uomo, come la case molto pericoloso, vedere la persona morta seduta sulla sua bara, mentre veniva trasportata al cimitero. Mi raccontavano anche come potesse accadere, sempre dopo la morte, che viaggiando in una città lontana qualcuno incontrasse un proprio parente morto da anni: uno dei suoi luvho, invece di continuare a «muoversi nella natura», si era stabilito altrove e aveva iniziato una nuova vita. Si tratta di versioni spesso molto ricche di dettagli differenti, che mostrano come ancora oggi l’accettazione della molteplicità individuale sia parte del sentire quotidiano. 27. «Il grande destino che governa l’universo contiene tutte le forme possibili di realtà: le differenti forme, si ritiene si articolino in 16 per 16 (256) immagini primordiali» (Pazzi 1976:297). Queste immagini sono chiamate kpoli e ciascun individuo nasce “sotto il segno” di una delle 256 possibili combinazioni. Conoscere il proprio kpoli è possibile attraverso l’iniziazione all’oracolo Fa.

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vità in cui si radicano i vodu, è il nucleo, il contenitore della sua capacità di volere e di agire. Ma fomé o homé indica anche l’interno della casa e in senso più lato viene usato per tradurre “famiglia” (Pazzi 1974:170) e per indicare il clan o il lignaggio (Lovell 2002:34).28 L’uomo, in uguale misura rispetto al vodu, è costituito dall’assemblaggio di elementi differenti e in una certa misura indipendenti l’uno dall’altro. Gestire, organizzare o almeno interrogare la complessità che caratterizza ogni forma di vita è un compito esistenziale, che non sembra mai sottrarre l’uomo dal difficile compito di cercare delle risposte e negoziare tra le molte possibili soluzioni. Per concludere vorrei ricordare quello che è lo stereotipo classico legato al vodu: la bambolina di pezza che, trafitta da uno spillone, provoca dolore nella parte corrispondente del corpo della vittima. Al di là delle suggestioni cinematografiche che tale immagine può evocare, il penetrare una superficie è un’azione centrale e fondante della nascita di un vodu; penetrare significa anche andare al di là della superficie visibile, comunicare con la profondità e l’invisibile. La penetrazione del feticcio, in quanto oggetto raffigurante un corpo umano, porta con sé l’idea di un forte potere psicologico e la paura della violazione del corpo stesso (Preston Blier 1995:292), anche se tale interpretazione non appare così aderente alle concezioni locali. Se l’intrusione avviene a livello del petto o del cuore, generalmente 28. Nei reni, ayìkù, si ritiene si formi il pensiero e un’eccessiva attività mentale li potrebbe rendere malati. Una persona che abbia dei problemi “del pensiero”, sia assillato da preoccupazioni o disturbi psicologici, può, dopo essersi rivolto a Fa, scoprire la necessità di fare delle offerte ai suoi reni o alla sua testa (Pazzi 1974:168). La testa, ta, è in alcuni contesti, ad esempio per le iniziate al vodu, considerata sacra e le si indirizzano cerimonie specifiche, che la svincolano da il corpo di chi la possiede. Il capo è infatti la porta di ingresso che i vodu utilizzano per entrare nelle adepte e possederle. Secondo Pazzi (1976:148): «La testa, considerata come la parte più sacra dell’essere umano, riceve, durante i riti, le prime tre unzioni, una sulla fronte, una sulla sommità e una sulla nuca. Questi tre punti corrispondono d’altra parte rispettivamente all’oriente, allo zenith e all’occidente del cielo». I capelli, dà, così come le unghie, non devono mai essere abbandonati all’aperto, per evitare il rischio che qualcuno se ne impossessi e ne faccia un uso malvagio. Essi sono una metonimia dell’uomo attraverso cui gli stregoni possono agire sull’intero individuo. Al loro interno infatti contengono buona parte della forza vitale dell’individuo, come testimonia il fatto che continuino a crescere anche dopo la morte. I riti d’iniziazione o di purificazione prevedono sempre che la testa, così come le altre parti del corpo, venga rasata perché il passaggio a una nuova fase della vita implica dimenticare il passato, di cui i capelli e le unghie sono testimoni. Il loro essere testimoni della vita e del dolore degli uomini è evidente anche dall’etimologia di “lacrima”, adàtsì, cioè acqua (tsi) dei capelli (dà).

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è per chiedere l’avverarsi di qualcosa di buono, se avviene nel collo è per uccidere, nella testa per causare perdita di memoria o di coscienza, nelle gambe per immobilizzare, nelle braccia per impedire un’azione offensiva, nello stomaco per convogliare emozioni, come gelosia, rabbia o paura. 8. Alcune ulteriori considerazioni attorno al concetto di “feticcio” La definizione di feticcio, nelle sue molte articolazioni e contraddizioni, è capace di restituire un’idea di vodu vicina all’esperienza. Esiste almeno un’altra dimensione che può essere interessante suggerire e che attribuisce senso all’apparente caos e incoerenza che il vodu genera nel suo intorno. Superare o negare le dicotomie porta inevitabilmente a una situazione di maggiore incertezza epistemologica ma anche esistenziale. Fuori dalle rassicuranti opposizioni binomiche, il vodu è un dispositivo che oscilla continuamente tra la capacità di controllo e l’ammissione del suo inevitabile fallimento, tra la promessa di protezione e la minaccia di morte. Accettando questa intrinseca instabilità, il vodu diviene una lente sulla realtà, un oggetto attraverso cui gli esseri umani guardano il mondo e si interrogano sulla propria difficile posizione al suo interno. Da un certo punto di vista potremmo vedere il vodu come perfettamente rispondente alla definizione data da Frazer di magia. Si tratta infatti di una forma di sapere tecnico-scientifico, che cerca di sottomettere il mondo al suo controllo ma, sottraendosi a qualsiasi definitiva definizioni, ammette allo stesso tempo il fallimento della sua missione. I vodu si assumono il peso delle contraddizioni e delle ambiguità dell’esistenza, diventando espressione di un pensiero e di una pratica che tenta di esprimere la complessità del mondo. Pur anelando al raggiungimento di un ordine cosmico, non sembrano cercare semplificazioni nel difficile compito di interrogare l’uomo e il mondo. Il vodu e l’insieme degli apparati rituali a esso correlati si fanno carico delle contraddizioni, mostrando sempre le molteplici verità che ogni fenomeno può esprimere. L’installazione e la pratica di un vodu confermano la composita materialità della divinità e l’essenzialità della materia, solo apparentemente “inanimata”, al suo funzionamento. Oltre alla materia, si accumulano desideri, relazioni sociali e parole. I desideri assumono l’essenza di sogni, di immaginari, e di tutto ciò che contribuisce alla realizzazione di qualsiasi progetto umano, che è sempre «superato dagli eventi» (Latour

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[1996] 2005:108), dato che la materia può agire sulla realtà, a prescindere dalla volontà umana. In tal senso chi realizza un vodu cerca di sottrarre alla natura i suoi segreti, addomesticandola e riducendone la complessità. Ben presto però abbandona le sue velleità di controllo per assumere a pieno l’imponderabilità del mondo (che si tratti di relazioni sociali o di forze cosmiche e naturali). I sacerdoti, carichi del loro sapere e di ciò che hanno appreso dalla natura, riproducono il caos, sintetizzato in un vodu, e lo collocano all’interno del villaggio, al centro di quello che è stato interpretato come l’espressione della cultura; qui, nonostante i tentativi di semplificazione e riduzione della realtà messi in atto grazie dagli apparati rituali, lasciano che ciò che hanno riprodotto, segua il proprio corso, si espanda, ricostituendo quel caos e quella complessità che avevano cercato di dominare. 9. Genealogia del paradigma “religione tradizionale” Obiettivo delle prossime pagine è decostruire il paradigma della religione tradizionale che è entrato nel linguaggio comune come se definisse effettivamente una realtà unica, coerente e chiaramente identificabile. L’invenzione della religione tradizionale fu in qualche misura il risultato del lento tentativo di superamento del paradigma del feticismo. Lo sguardo che i colonizzatori e i missionari ebbero nei confronti delle religioni africane, anche quando cercarono di tradurle e comprenderle, fu sempre sprezzante; non poterono che considerare la maggioranza delle religioni non monoteiste come semplici forme di superstizione. Pensare le religioni politeiste intrise di superstizione era più facile che cercarne i significati; i missionari presagirono un’altra «finalità e un altro senso in culti e rituali la cui funzione sembrava loro, nello stesso tempo, risibile e oscura» (Augé [1982] 2002:35). Le religioni africane apparivano troppo legate alla storia e asservite agli interessi dell’uomo, erano quindi già degradate a magia, oppure non ancora assurte a religione. La superstizione diventava l’imperfezione che impediva il realizzarsi del monoteismo puro, per cui era più semplice auspicarsi la fine di tutto ciò che poteva afferire a questa categoria, piuttosto che intraprendere l’impresa di definire le religioni politeiste come espressioni religiose legittime. Altro percorso intellettuale possibile era concedere loro un valore filosofico, riducendo la superstizione a qualche cosa di accessorio e trascurabile;

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in tal modo le religioni degli altri non dovevano più essere oggetto di fede, ma semplicemente un modo attraverso cui pensare il mondo. Un esempio di questo processo di intellettualizzazione è rappresentato dall’opera di Padre Placide Temples, La Philosophie bantoue (1949). Egli analizzò e discusse non solo i sistemi religiosi e i riti ma la “saggezza”, la metafisica, la psicologia, la giurisprudenza e l’etica dei bantu. L’obiettivo era mostrare come in tutti questi campi s’integrassero in un sistema di «forze vitali» che si originavano in Dio e si irradiavano agli spiriti, agli esseri umani, agli animali, alle piante, etc. Parte dei riti e delle pratiche che egli descriveva costituivano una «filosofia», cioè una riflessione sistematica sull’ordine del mondo e sulla posizione dell’uomo. Un altro approccio adottato fu quello “degenerativo”, secondo cui i primitivi avevano vissuto un monoteismo primordiale che poi era degenerato nell’animismo. Questo secondo percorso fu, come vedremo, seguito ad esempio da Jakob Spieth (1906, 1911), nello studio della religione degli ewe dell’allora Gold Coast. Oltre alle difficoltà teologiche e concettuali a comprendere il politeismo, vi erano degli interessi politici ed economici che fecero da contorno a un immaginario che voleva continuare ad associare l’Africa alla stregoneria e alle pratiche magiche. L’enfasi sulla magia e il feticismo fu strumentale a dimostrare l’arretratezza del continente. Relegare l’Africa ai limiti della civiltà forniva un’ideologia legittimatrice, prima al commercio di schiavi, in seguito all’«urgenza e la necessità della missione civilizzatrice» (Bellagamba 2008:41). All’epoca dei movimenti indipendentisti e del panafricanismo, stava emergendo, tra gli intellettuali e studiosi africani, l’esigenza di parlare della “religione africana”, in termini rinnovati, inserendola in un discorso universale sulla religione. L’ideologia che aveva sostenuto il dominio coloniale riuscì però a sopravvivergli in forme mutate. Gli intellettuali africani continuarono a far uso di «categorie concettuali dipendenti dall’ordine epistemologico occidentale» (Mudimbe 1988); anche nel caso degli studi religiosi, l’egemonia si dimostrò forte e persistente. Ebbe inizio una produzione di studi sulla religione africana, che miravano a darne un’immagine positiva, adottando però un modello interpretativo di tipo giudaico cristiano. Non si riusciva ad accettare l’idea che la semplice pratica non articolata con una conoscenza strutturata e organica, potesse essere ugualmente una forma di sapere e di vita religiosa (Asad 1993:36); dimenticando che questa concezione era un’idea “moderna” e tutt’altro che universale. La religione

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di conseguenza subì un processo di universalizzazione e astrazione che impedì di continuare a pensarla come a un insieme di regole e di pratiche connesse a specifici processi storici e di potere (Asad 1993:42). Lo studioso nigeriano Bolaji Idowu (1973) con African traditional religion: a definition contribuì a rendere popolare e diffondere la categoria di “religione tradizionale africana”, mutuandola da Geoffrey Parrinder, studioso inglese di storia delle religioni. Idowu e gli altri studiosi africani si auspicavano un cambiamento del linguaggio, ancora intriso da un razzismo e imperialismo dominanti: la “religione tradizionale africana” era innanzitutto una definizione che aiutava a elevare le credenze africane al medesimo livello delle religioni universali. In secondo luogo smorzava l’enfasi che i primi viaggiatori europei avevano dato alla magia, alla superstizione e alle pratiche più «rozze e sensazionali» (Evans-Pritchard 1997:51), spinti da una fascinazione esotizzante e denigratoria e ancora pervasi dal pensiero evoluzionista. Gli studiosi africani volevano emanciparsi dalle classificazioni che proprio il pensiero evoluzionista aveva costruito a discapito delle religioni non universali e di quelle africane in particolare. L’animismo aveva attribuito ai popoli primitivi la credenza negli oggetti inanimati, riconducendo l’origine della religione al sogno e quindi a una sorta di “rozza filosofia naturale” (Evans-Pritchard 1997:75). Il concetto di religione primitiva si era sviluppato presupponendo che la primitività e quindi inferiorità di queste religioni fosse dovuta all’assenza di una teologia e di un Dio unico. Tylor (1892:284) denunciava «l’errata attribuzione di credenze teologiche che appartengono al mondo colto, alle razze barbare». Tali attribuzioni erano ascrivibili solo alle influenze culturali dei missionari, così come: l’esagerazione di divinità native di classe inferiore a livello di dio o demonio e la conversione di parole native che denotano un’intera classe di esseri spirituali, come fantasmi o demoni, in nomi individuali che si presume siano di una divinità suprema positiva o di una rivale divinità malvagia (Tylor 1892:284).

Baudin, riferendosi proprio al culto dei “feticci” scriveva: A volte si sono paragonati i feticci ai santi che i cattolici invocano come intermediari tra Dio e gli uomini. Il paragone deve essere sembrato felice a qualche protestante, ma dimostra un’ignoranza assoluta. Da nessuna parte tra i neri si trova un solo esempio di culto che sia subordinato a un Essere Supremo ; l’idea stessa di Essere Supremo è completamente assente (Baudin 1884:87).

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Per quanto tali affermazioni fossero intrise di razzismo, mettevano già in evidenza i rischi e i fraintendimenti epistemologici delle traduzioni dei concetti religiosi fatte da missionari e antropologi. Volendo sfuggire alle classificazioni evoluzioniste, gli studiosi africani rimasero imbrigliati in un modello interpretativo che tradiva le peculiarità dei sistemi di credenze africani. L’idea di monoteismo, come categoria preesistente al contatto con l’Europa, è un esempio classico dei problemi insiti alle traduzioni, che ha a lungo animato sia i discorsi accademici sia quelli prodotti localmente. L’omogeneizzazione delle religioni africane nella definizione di “religione africana tradizionale”, oppure “primitiva” o “non letterata” sono processi simili e interrelati (Shaw 1990). In entrambi i casi si tratta di categorie che contribuiscono a marginalizzare quei popoli che esprimono se stessi e il loro mondo in forme implicite piuttosto che esplicite, in pratiche piuttosto che in testi (Shaw 1990:350). Inoltre tali definizioni presuppongono che le religioni siano statiche ed estranee al fluire della storia e, in quanto tali, piuttosto dei “patrimoni” da preservare che delle religioni vissute e quindi mutabili. Infatti, oltre ai limiti epistemologici che Mudimbe mette in evidenza, l’uso della definizione è limitato proprio dai termini che la compongono: ”tradizione” e “Africa”. Il primo ci farebbe presupporre che esista o sia esistita una religione immobile, relegata in un’epoca remota e dai connotati mitici, immune da contatti con altri popoli e altre religioni. Tradizione si oppone all’idea di “modernità” o “contemporaneità” che ancora una volta, essendo concetti assurti a sinonimi di un’epoca di rottura, connotata da una totale interdipendenza tra le culture, farebbe presupporre l’esistenza di un passato in cui le società vivevano chiuse nel loro ambito territoriale e culturale. Il concetto di religione tradizionale sembra inoltre suggerire che si possa giungere all’origine stessa della religione, denunciando così quanto questa visione sia ancora impregnata dal pensiero evoluzionista. È più utile guardare alla tradizione in una prospettiva temporale. Parlare di articolazioni e riarticolazioni della tradizione (Clifford 2004:154), consente ad esempio di sottolinearne un uso più strumentale, che aiuta a immaginare il presente e costruire il futuro. La tradizione è infatti un concetto che assume significati diversi anche in funzione delle differenti generazioni che tentano di darne una definizione: «dal punto di vista di un informatore “tradizione” può significare un passato remoto o quello che fece la propria madre» (Linnekin 1983:242).

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I rappresentanti del vodu si inscrivono nella categoria di religione tradizionale, che definiscono come la religione “degli antenati”, non avendo però un’opinione condivisa sulla definizione di antenati. Alcuni ritengono che la vera religione tradizionale africana debba essere cercata nelle Americhe, dato che quando gli schiavi furono catturati praticavano ancora una religione “originale”, che nell’isolamento d’oltreoceano si sarebbe preservata.29 Altri affermano invece che la vera tradizione vodu sia quella di Abomey, poiché ne riconoscono la passata autorità politica,30 mentre altri ancora asseriscono che la vera tradizione sia quella e solo quella che viene, ancora oggi, da loro praticata.31 Emerge chiaro il valore strumentale e politico del termine “tradizione”; una maggiore aderenza alla tradizione significa, nel contesto vodu, maggiori competenze mistiche, da rivendicare nei confronti di avversari e concorrenti, ma anche un più facile accesso alle politiche di patrimonializzazione. La tradizione è un forte strumento di legittimazione, anche se va ricordato che non è l’unica strategia praticata oggi nella competizione religiosa in Africa. Il termine tradizione così come il nome Africa sono «significati fluttuanti» (Amselle 2001:14), che obbediscono a logiche semantiche e politiche totalmente indipendenti da qualsiasi effettivo radicamento sul territorio o da una presunta originalità storica. L’appellativo “africano” evoca una comunanza su base territoriale mentre la definizione di “religione tradizionale”, sottintende una natura comune solo ad alcune religioni praticate nel continente, escludendo le religioni universali, ad esempio quella musulmana o 29. Questa era, ad esempio, l’opinione di Hilaire Dohou, e di altri sofo del tron kpeto ve, i quali hanno una posizione leggermente decentrata rispetto ai leader degli altri vodu, ritenuti appunto tradizionali 30. Mi riferisco a diversi sacerdoti vodu e bokono con cui ho conversato in Togo, i quali attribuivano un forte valore mistico ad Abomey (tra questi Ametou Kojou, Gninumé, Togo, novembre 2001); secondo Sodejedo Kpoheto, (féticheur di Aklakou, Togo, ottobre 2002), proprio il palazzo di Abomey e il suo leggendario muro, costruito con l’argilla e il sangue dei sacrifici umani, sarebbe stato il «segreto dei segreti» del vodu. 31. Questa è, ad esempio, la politica seguita da Dagbo Houno di Ouidah e dai suoi discendenti, secondo i quali, il diritto della loro famiglia a rivestire la carica di capo supremo del vodu del Bénin, sarebbe legittimata proprio in base all’esclusiva conoscenza della “vera tradizione” ottenuta tramite un rapporto privilegiato con i vodu stessi. Non si tratta di affermazioni velleitarie, poiché, se come ricorda Karin Barber (1981), sono gli uomini a costruire gli dei, chi appartiene a una famiglia che da generazioni si è creata un’autorevolezza in campo religioso, ha il diritto di rivendicare legittimamente il possesso della vera “tradizione”.

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quelle di ispirazione cristiana, nate in Africa, come il Cristianesimo Celeste.32 L’esclusione del Cristianesimo Celeste, rielaborazione del Cristianesimo ampiamente ispirata alle concezioni religiosi locali, dimostra quanto la “religione africana” per essere tale debba, in questa parte dell’Africa occidentale, incorporare concetti di purezza e rispondere a una certa richiesta di esotismo. È evidente sia la necessità politica di escludere il CC dalle religioni tradizionali, perché sarebbe in Bénin un temibile concorrente per il vodu e sia l’errore di attribuzione: se il termine tradizione fosse attribuito in funzione dei secoli di presenza nel territorio africano (in tal caso il CC sarebbe troppo recente, risalendo alla fine degli anni Quaranta del Novecento), l’Islam dovrebbe essere inserito a pieno titolo nel novero delle religioni tradizionali africane, al contrario sempre assente negli studi sulle religioni africane, e verrebbero esclusi alcuni vodu di più recente acquisizione. Uno sguardo alla letteratura d’area relativa alla regione di lingua fon e di lingua ewe consente di osservare nello specifico le ripercussioni teoriche del corpus di letteratura prodotto in epoca coloniale e precoloniale sugli studi successivi. 10. L’autorità di Abomey Il Dahomey grazie alla sua organizzazione politica centralizzata e gerarchizzata, all’influenza economica che esercitò nella regione e al suo coinvolgimento nella tratta atlantica attrasse l’interesse di viaggiatori, missionari, uomini d’affari, antropologi e avventurieri. I primi testi sulla religione dei vodu si basarono proprio su queste testimonianze. Molti dei resoconti scritti fino alla fine del XVIII secolo furono opera di persone associate alla tratta atlantica;33 il Dahomey divenne noto agli europei proprio nella fase iniziale del dibattito pubblico sulla moralità del commercio di 32. La chiesa del Cristianesimo Celeste è stata fondata a Porto Novo nel 1947 da Samuel Oshoffa. La storia della rivelazione che condusse il suo “profeta” ad aprire la chiesa è raccontata nel testo Lumière sur le Christianisme céleste. Oshoffa, in seguito ai problemi politici durante il regime di Kérékou, fu costretto a rifugiarsi in Nigeria, dove la chiesa si diffuse rapidamente e con grande successo. Oggi è un fenomeno d’interesse mondiale che raccoglie milioni di fedeli. 33. Tra i resoconti più interessanti e significativi dell’epoca ricordiamo: William Snelgrave, A New Account of Some Parts of Guinea and the Slave Trade (I734), Robert Norris, Memoirs of the Reign of Bossa Ahadee, King of Dahomy (1789), Archibald Dalzel, The His-

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schiavi, per cui la percezione di questo regno fu indubbimente influenzata dall’enfasi che sia gli abolizionisti che gli anti-abolizionisti diedero alla questione (Law 1986:243). Due importanti testi furono prodotti, verso la fine del XVIII secolo, da personale francese del forte di Ouidah: Description de la nigritie, ad opera di Joseph Pruneau de Pommerage (1789), direttore del forte, e Réflexions sur Juda par les Sieurs De Chenevert et abbé Bulet, del 1799, scritto a due mani dal cappellano, abbé Bulet, e da un agente commerciale, de Chenevert. A metà del XIX secolo, Frederick E. Forbes (1851) e Richard Burton (1864) scrissero due resoconti che divennero un fondamento per tutti i successivi studi. Forbes era il comandante di una nave inglese che controllava la costa per cercare di impedire la tratta atlantica, mentre Burton era un viaggiatore e intellettuale, nominato in un secondo tempo console inglese nel golfo del Bénin. Nel 1863, Burton visitò Abomey e descrisse nei dettagli una cerimonia di sacrifici umani, indugiando nella descrizione degli uomini in attesa di morte e sulla loro esecuzione. I sacrifici umani furono, assieme al vodu e alla tratta degli schiavi, l’altro punto su cui si costruì la fama di uno dei regni più sanguinari dell’Africa occidentale. Burton detestò e fu detestato dal Dahomey e aprì la strada più di altri a quello che Edna Bay (1998:31) ha definito un «razzismo pseudo scientifico». Il Dahomey divenne uno degli emblemi dell’Africa selvaggia, crudele e schiavista. L’esercito di donne prive di pietà – le amazzoni – che combattevano seminude e decapitavano con il macete i nemici, assurse a emblema di una società spietatamente assurda.34 In epoca coloniale, lo sguardo dei viaggiatori che visitarono il Dahomey divenne più emico e indulgente. Gli osservatori subirono il fascino dell’efficienza statale, dell’organizzazione politica, dell’architettura e dell’arte della capitale Abomey. Tre furono i principali autori che agli inizi del secolo scorso descrissero la vita politica, sociale e religiosa del Dahomey. Il loro punto di osservazione fu molto prossimo a quello dei dignitari del Palazzo reale di Abomey. Le Hérissé (1911), amministratore coloniale francese, raccolse le testimonianze dei componenti della famiglia reale, in particolare di Agbidinukum, figlio del re Glele e storico di corte. Gli etnologi americani Melville tory of Dahomy, an Inland Kingdom of Africa (1793). Per una discussione critica di questi testi si veda Law (1986). 34. Nello stesso periodo visitarono l’Africa occidentale e il regno del Dahomey anche l’esploratore e viaggiatore inglese John Duncan (Travels in Western Africa, in 1845 and 1846 del 1847) e il francese Répin (Voyage au Dahomey del 1863), entrambi ospiti del palazzo di Abomey.

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e Frances Herskovits (1933,1938) furono accompagnati nelle loro ricerche da un rappresentante della famiglia reale, René Aho, nipote del re Glele. Bernand Maupoil (1943) anch’egli amministratore coloniale, si affidò, per redigere il suo approfondito studio sulla geomanzia e sulla religione del Dahomey, a Gedegbe, bokono di corte all’epoca del re Behanzin. Nel periodo coloniale furono poi pubblicati anche i lavori dei primi due etnologi locali: Maximilien Quénum (1936) e Paul Hazoumé (1937), l’uno originario di Ouidah e l’altro di Porto Novo. Dopo la seconda guerra mondiale, l’istituzione dell’IFAN (Istitut Français d’Afrique Noire) e del giornale Etudes Dahoméennes furono di supporto agli studiosi francesi e africani, molti dei quali, come Paul Mercier e Jacques Lombard, lavorarono presso il museo storico creato nel palazzo reale di Abomey. Questi autori influenzarono tutti gli studi successivi ed ebbero una forte risonanza anche sui saperi che negli anni, i vodunon stessi fecero propri. La fama di Abomey, grazie ai suoi successi politici e militari, pervade i testi storici e antropologici ma anche il senso comune. Il Togo, spazio periferico, privo di grandi regni centralizzati, rimase nell’ombra, e tutti i testi che si sono occupati fino a oggi di vodu, sia in Togo sia in Bénin, si sono quindi dovuti confrontare con una letteratura prevalentemente concentrata su Abomey e sulla sua autorità. Nel Dahomey, regno fondato sulla guerra e la conquista, la religione aveva un fondamentale ruolo politico, che si esprimeva in un accentuato «eclettismo e pragmatismo» (Bay 1998:24) nei confronti dei temi religiosi. L’obiettivo dei re del Dahomey era l’assimilazione di tutto ciò che appariva «efficace o semplicemente interessante» (Bay 1998:24).35 L’immenso numero di divinità che venivano acquisite dai popoli vicini, nemici o amici che fossero,36 fu organizzato secondo due categorie principali: le divinità associate al lignaggio reale e quelle a esso esterne. 35. Se i territori conquistati appartenevano a popolazioni dinasticamente o etnicamente correlate ai fon, queste venivano assimilate, come ad esempio nella regione tra la capitale e la costa, specialmente per i regni di Ouidah e Allada. Ad Allada, ad esempio, al re fu tolto il potere temporale, ma mantenne quello religioso e gli fu affiancato un capo nominato dal re del Dahomey. A Ouidah, il re fu mandato in esilio e venne intronizzato uno dei ministri della corte di Abomey. Le autorità si sposavano con le donne locali, in modo da facilitare l’assimilazione e le terre venivano colonizzate da gente di lingua fon. In tutte le province, il re applicava una doppia assimilazione, politica e religiosa (Lombard 1967:75-76). 36. Tra il XV e il XVIII secolo, un insieme di stati prese possesso della zona costiera del golfo di Guinea. Tra questi stati vi era il regno di Edo, di Bénin (nell’attuale Nigeria), il

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I capi dei culti religiosi avevano un ruolo strategico sia perché erano i detentori dei poteri sovrannaturali sia perché potevano organizzare e controllare un’ampia parte della popolazione. L’attività religiosa creava delle comunità solidali, le quali si muovevano liberamente sul territorio per seguire le cerimonie o per muoversi in pellegrinaggio verso le località d’origine delle divinità che essi adoravano. I re del Dahomey compresero il valore strategico del potere religioso e la potenziale minaccia che esso rappresentava per la dinastia reale. Gli specialisti rituali furono messi alle dipendenze di un sacerdote installato ad Abomey, a stretto contatto con il potere centrale. Con lo strutturarsi del regno i culti che Lombard definì come culti nazionali ebbero il predominio sugli altri. Il re non veniva mai intronizzato da un “capo della terra” locale, un rappresentante degli abitanregno del Dahomey e una serie di regni yoruba, il più ampio dei quali era quello di Oyo. Essi condivisero secoli di storia comune. Secondo Sandra Barnes, queste potenze furono caratterizzate e accomunate da un complesso simbolico, costituito da tre elementi, il ferro, la guerra e lo stato, al centro del quale vi era il dio Ogun o Gu (Barnes 1997:39). Molti degli stati yoruba orientali furono influenzati dai regni di Bénin e Oyo, ad esempio Ondo, Owo, Eiti, Akure e Otun. Gli stati yoruba occidentali Egba, Egbado e Ketu si trovavano invece tra Oyo e il Dahomey e passarono a quest’ultimo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. In precedenza il regno di Allada era stato sottomesso da Oyo. Secondo Barnes, i fon stessi, che praticavano una politica di assimilazione verso i gruppi che conquistavano, si sposavano con i popoli assoggettati e l’origine stessa dei fon sarebbe legata a matrimoni misti tra gente di Allada e di Oyo (Barnes 1997:49). Nonostante sia difficile determinare l’origine della famiglia reale d’Abomey, è opinione consolidata che si trattò effettivamente di un unico lignaggio che riuscì negli anni a imporre il proprio potere e si legittimò, manipolando la storia ufficiale (Law 1988:437-439). Le tre “superpotenze”, nel corso della storia, sovrapposero più volte la loro sfera di influenza. Ad esempio, Bénin, tra il XVI e il XVII secolo, estese il suo potere fino a Lagos e a Badagry. Più tardi, durante il XVIII secolo, Badagry fu contesa da Oyo e dal Dahomey e attaccata apertamente dal Dahomey nel 1737. Le tre potenze colonizzavano i paesi conquistati. Famiglie intere furono mandate da Oyo nel Dahomey e la stessa politica fu seguita dal Dahomey, all’apice della sua espansionea. Oltre alla colonizzazione, vi furono altri meccanismi di scambio duraturi, basati sull’acquisizione di mercenari, di schiavi e di donne. I mercenari offrivano i loro servizi a chi meglio retribuiva la loro presenza, vi erano poi scambi di persone durante i periodi di pace e alleanza, presenza di spie e ostaggi. Anche la cattura di schiavi costituiva un importante mezzo d’interazione. Soprattutto le donne schiave erano un canale vitale di passaggio d’influenze culturali e religiose (Herskovits 1967 II 103-104; Bay 1983:347). Un esempio emblematico è rappresentato da Hwanjile, una prigioniera Aja che divenne la madre del re Tegbesu e che introdusse Mawu, Lisa e Age tra le divinità del Dahomey. La maggior parte delle istituzioni yoruba sembrano essere state introdotte da donne di lingua yoruba sposate nelle più influenti famiglie fon. Molti dei bokono più influenti del Dahomey pare imparassero la divinazione dai parenti nelle famiglie delle loro madri e poi portassero il loro sapere ad Abomey (Bay 1983:348, 1997:92-93).

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ti locali, ma dal prete del culto degli antenati reali. A capo di tutte le divinità vi era l’antenato mitico della famiglia reale, la pantera Agassou e nessun rituale religioso, domestico o privato che fosse, poteva tenersi prima delle celebrazioni annuali in onore degli antenati reali (Lombard 1967:79-80). Maupoil mise in luce il significato fortemente politico dei vodu e la loro natura essenzialmente storica. Essi seguivano infatti le sorti dei regni e degli uomini che determinavano e vivevano la storia di questa regione. Per tale motivo, ironizzava sul tentativo di fissare il numero di vodu esistenti, poiché: «aldilà dei grandi culti, diffusi ovunque, vi è un’infinità di culti locali, antichi o importati» (Maupoil 1943:55). Molti autori dei primi del Novecento, ispirati da James Johnson (1899) parlarono di 201, 401 vodu o orisha, tra questi Stephen Farrow (1926) e Diedrich Westermann (1928), mentre altri giungevano fino a 600. A questo tentativo di numerazione si affiancò quello di classificazione. Maupoil che, sicuramente più dei suoi contemporanei, comprese la complessità che la parola vodu celava, si limitò a suddividerli in base alla loro origine: culti regali, cioè portati dal re in seguito alle campagne vittoriose, antichi culti locali e infine i vodu comprati dai popoli alleati. Le Hérissé (1911) fu probabilmente il primo a introdurre il concetto di famiglia o pantheon, riportando la testimonianza di un suo informatore, secondo cui vi erano solo nove vodu, attorno ai quali si sviluppava un insieme di satelliti che si ripartivano i doveri e le attività del vodu principale. Questo approccio fu seguito anche dai coniugi Herskovits, secondo i quali: «Il dahomeiano non concepisce che una sola divinità dia vita a tutte le funzioni proprie a ciascun elemento. Piuttosto immagina gruppi di divinità, dove ogni gruppo forma un pantheon» (Herskovits 1933:10). Da ciò ne conseguiva che aderendo ciascuno al più a un vodu e quindi a un pantheon si poteva parlare di “appartenenza a una chiesa”. Gli Herskovits consigliavano di suddividere tra “grandi divinità” e ”divinità inferiori”. Al primo gruppo ascrivevano le ”divinità pubbliche” e i ”culti ancestrali”, cioè la prima progenie degli originari creatori. Anche le “divinità inferiori” appartenevano ai principali pantheon, ma essendo stati mandati a vivere sulla terra ed essendosi mischiati agli uomini, erano solo spiriti semi divini. Infine, presenti in tutti i culti vi erano le divinità o forze personali,37 rappresentati dal destino (se), dal serpente (dan) e dalla magia (Herskovits 1933:8-10). 37. Secondo Maupoil fu Le Hérissé che per primo creò, per Legba e Fa, la categoria di vodu “personali”, ancora oggi utilizzato e diffusa localmente.

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Sempre gli Herskovits suggerivano che per comprendere la struttura religiosa del Dahomey fosse necessario rifarsi all’organizzazione di un regno o di una famiglia, in una piramide di poteri che convergeva verso un creatore superiore : «tutti i poteri speciali delle divinità del Dahomey sono il risultato della partizione dell’universo a opera del dio-cielo – in alcuni casi considerato come il Creatore – ai suoi figli» (Herskovits 1933:8). Maupoil (1943) giustificava il raggruppamento delle divinità in pantheon come conseguenza dell’arguto spirito d’osservazione dei dahomeiani, che non potevano spiegarsi come un unico dio fosse in grado di soddisfare tutte le funzioni che la sua posizione imponeva. Inoltre, il pantheon assecondava un diffuso senso della gerarchia, secondo il quale se un capo si elevava tra gli uomini aveva sicuramente bisogno di molti servitori e più ne aveva più potente si dimostrava il suo potere. A parte queste considerazioni, Maupoil non approfondiva ulteriormente il concetto di “famiglia”, preferendo sottolineare la natura relazionale dei vodu e il legame di solidarietà che instauravano con gli uomini. Molte divinità, egli sosteneva, si riteneva che avessero vissuto un tempo sulla terra e questa credenza «esprime la reciproca nostalgia che sembra indurre i vodu a ridiventare uomini e gli uomini a elevarsi alla conoscenza o all’esercizio delle cose divine» (Maupoil 1943:56). In epoca più recente, anche Marc Augé (1988) ha adottato il pantheon come strumento per muoversi tra le divinità beninesi e togolesi e per tracciare un parallelo con le antiche divinità greche e la loro struttura binaria (padre-figlia, uomo-donna, etc.). Rifacendosi ai vodu di Abomey, egli ricostruisce dei sistemi di opposizione interni ed esterni alle divinità, a partire dalla principale suddivisione tra cielo e terra. Attraverso tale logica si strutturerebbe e spiegherebbe la società, anche se la realtà, Augé nota, non è rigida come gli schematismi del modello proposto. Infatti, lo schema può moltiplicarsi all’infinito, poiché il pantheon collegato alla singola divinità si può riprodurre praticamente in ogni villaggio e differenziarsi in continuazione. Ciò esprimerebbe il carattere fortemente sociale della religione che proprio grazie alla sua flessibile strutturazione in unità ripetibili, sarebbe in grado di perpetuarsi e differenziarsi in funzione del lignaggio che adotta tali unità (Augé [1988] 2002:17-26). L’analisi di Augé è estremamente interessante e utile per cercare di districarsi nella selva di simboli che circondano ogni vodu e per spiegare il loro legame analogico con l’uomo, ma non consente di uscire da una visione eccessivamente strutturata del sistema religioso, che a fatica si ade-

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gua alla realtà contemporanea e alle influenze degli avvenimenti storici e politici. Ciò che si rischia di perdere, inoltre, è la sensibilità e la capacità d’innovazione dei singoli individui e quindi anche le peculiarità locali e le disomogeneità che i vodu possono incorporare, conseguenza diretta di questo continuo processo di ripetizione e differenziazione. Ma ciò che più manca in questa teorizzazione sono i riferimenti alle pratiche connesse ai sistemi di credenze, che metterebbero in luce le modalità di attuazione e incorporazione di tali differenziazioni. 11. Il vodu nel Togo degli anlo-ewe L’area di lingua ewe, nell’attuale Togo meridionale e in quella parte del Togo occidentale che venne, dopo la prima guerra mondiale, assimilato nella Gold Coast, non aveva sviluppato sistemi politici ed economici capaci di attrarre l’interesse degli europei. Era una zona di confine che divideva le aree di influenza akan da quelle di influenza fon e, a parte alcune eccezioni come il regno di Glidji, ebbe una strutturazione politica molto frammentaria e soprattutto uno scarso impatto economico sulla regione, proprio agendo da spazio di transizione. La letteratura prodotta è quindi molto povera rispetto a quella che ha avuto come oggetto il Dahomey. I primi testi che si occuparono dei sistemi di credenza dei popoli di lingua ewe furono prodotti dai missionari protestanti, formati secondo il pensiero pietista, che lavoravano alla traduzione della Bibbia. Essi si erano insediati a Peki,38 nel 1847, nell’area a est del fiume Volta. I missionari, spinti dalla volontà di tradurre la Bibbia39 nelle lingue locali, cercarono di individuare elementi della religione ewe, che potessero essere utilizzati come riferimenti nella trasposizione dei significati. In 38. Si trattava dei missionari della North German Missionary Society (Bremen Mission). Secondo Debrunner (1965:99), a Peki l’attività dei missionari ebbe molto più successo che in altri villaggi, come ad esempio Ho. I capi chiesero addirittura di avere un catechista e non vi fu opposizione da parte dei “pagani”. 39. Uno degli scopi prioritari dei missionari protestanti era proprio quello di tradurre la Bibbia. Secondo Meyer questa missione si legittimava nel mito che connetteva la costruzione della Torre di Babele e la discesa dello Spirito Santo, secondo il Nuovo Testamento. Dopo la distruzione della Torre, l’ira di Dio si concentrò sui discendenti del figlio maledetto di Noé, Ham. I figli di Ham, spinti alla maggiore distanza possibile da Dio, furono identificati dai missionari protestanti del XIX secolo nei popoli africani. La discesa dello Spirito Santo, che consentì ai discepoli di Gesù di parlare, una sola volta, tutte le lingue, fu

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questa ricerca di senso, interpretarono la religione locale come un’espressione del demonio e la loro missione divenne quella di liberare gli africani dall’errore per ricondurli a Dio. I primi documenti scritti sulla religione ewe furono prodotti da persone il cui intento era di distruggerla e sostituirla. Gli autori più importanti furono Jacob Spieth (1906, 1911), uno dei principali traduttori della Bibbia e Westermann (1935), etnologo e linguista, che nel 1905 e 1906 pubblicò il dizionario Ewe-Tedesco. Egli utilizzò come standard linguistico l’ewe degli anlo che riteneva più puro rispetto agli altri gruppi linguistici della medesima famiglia (Meyer 1999:59). Per meglio contribuire alla conoscenza della lingua, si ritenne necessario affiancare delle ricerche etnografiche approfondite, che furono appunto affidate a Spieth. Questi concentrò il suo lavoro a Peki, tra gli anlo della costa e a Ho, tra gli ewe dell’interno (Meyer 1999:1-27), quindi solo nell’area occidentale dell’attuale regione di lingua ewe; era escluso tutto l’attuale Togo e dunque le aree maggiormente influenzate e a contatto con i fon del Dahomey. Il suo lavoro è stato molto influente, non solo all’epoca e per i fini che i missionari si erano prefissati, ma soprattutto perché i suoi testi hanno segnato la strada per gli studi successivi. Nonostante il particolare punto di osservazione geografico e storico, Spieth continua a essere citato come un riferimento con cui confrontare il presente, senza che la sua posizione venga chiarita ed esplicitata. Spieth descrisse la religione ewe nei termini della costruzione della Torre di Babele. Egli adottò una prospettiva degenerazionista, secondo la quale, gli ewe avrebbero all’origine creduto in una religione monoteista, che riconosceva un Dio unico, chiamato Mawu; essi sarebbero stati un popolo unico e solo in seguito all’allontanamento dal vero Dio, si sarebbero divisi in “tribù”, cadendo di conseguenza nelle mani del demonio. Spieth distingueva tra credenze autoctone e credenze straniere e in queste ultime includeva la stregoneria, la magia e la divinazione, quali recenti acquisizioni. Il suo era un criterio di valore basato sulla cronologia, per cui, ad esempio, Yewe40 non fu neppure presa in considerazione, poiché non faceva parte, a suo painterpretato come un segno dell’incoraggiamento divino a predicare in tutte le lingue del mondo, in modo da riunire tutti i popoli nella fede di Dio (Meyer 1999:57). 40. Il culto Yewe si diffuse rapidamente, soprattutto nel Togo inglese, nei primi anni del Novecento. Al suo interno si raggruppavano diverse divinità originarie del Dahomey tra cui Dan e Heviossou. Fu considerato una forma di resistenza alla colonizzazione e all’evangelizzazione ; il culto fu più volte proibito e le sue sacerdotesse imprigionate (Debrunner 1965:137).

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rere, dell’insieme di credenze che costituivano la base originaria, sopra cui si erano coagulati i fenomeni successivi. Egli non era interessato alle forme religiose che definiva recenti né alle pratiche religiose, dato che considerava la religione come una questione connessa alla mente e non al corpo. Anche il ruolo delle donne fu totalmente trascurato, nonostante la forte presenza femminile che veniva citata nei resoconti missionari in termini spesso denigratori, definendo ad esempio le adepte come «puttane sacre» (Meyer 1999:6162) che con le loro danze disturbavano le celebrazioni liturgiche.41 Gli studiosi che si sono occupati della religione ewe negli anni successivi hanno risentito del tentativo di sistematizzare il campo religioso e soprattutto hanno mantenuto una distinzione gerarchica tra divinità antiche e recenti, che spesso coincideva con una distinzione tra religione e magia. I lavori di Albert de Surgy (1988, 1994) e Claude Riviere (1986) hanno ad esempio cercato di riassumere in un quadro organico il pensiero cosmologico ewe, creando una struttura astorica all’interno della quale organizzare le differenti divinità. De Surgy (1988), come Spieth, ha assunto come punto di osservazione le aree occidentali di lingua ewe, più influenzate dalla cultura akan che da quella fon o yoruba. Nell’introduzione a Le système religieux des Evhé, egli esplicita la sua idea di tradizione: le miei indagini sono essenzialmente concentrate sulle pratiche religiose tradizionali […] utilizzando l’aggettivo tradizionale voglio solamente precisare che elimino dal mio campo di studi i riti cristiani o musulmani, così come tutte le novità settarie o eccentriche (1988:11).

Cercando di trovare una coerenza interna alla religione ewe e di esaltarne e apprezzarne i contenuti, de Surgy (1988) ha escluso, a priori, la possibilità di immaginare il lungo percorso storico, fatto d’incontri, dialoghi e violenze, che ha messo in relazione la religione “tradizionale” con le religioni universali. Egli ammette le influenze e commistioni con altre religioni “tradizionali”, come quella akan, ma nel desiderio di preservare una purezza tutta africana, esclude ciò che non ha un’origine locale. Ciò non significa che non abbia colto la dinamicità del mondo vodu, ma ha preferito spiegarla solo all’interno dei saperi “tradizionali”. I testi sono pervasi quindi da una certa 41. L’opera di Spieth, va inoltre ricordato, oltre ad avere influenzato gli studi sulla religione in Togo, ha contribuito all’etnogenesi del “popolo” ewe e al conseguente movimento pan-ewe, che si andò sviluppando nell’epoca dei movimenti indipendentisti. Si veda su questo tema: Amenumey (1989), Meyer (1999), Nugent (2002), Greene (1996, 2002)

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nostalgia ma anche da una dose di disappunto per un ipotetico e ormai perduto sistema organico di pensiero. In secondo luogo, emerge la volontà di identificare una logica e una coerenza interna alla religione “tradizionale” che ha eliminato dall’analisi qualsiasi implicazione politica, estromettendo il vodu dalla storia, per trasformarlo in “pensiero puro” e “filosofia primitiva”. De Surgy introduce, ad esempio, la categoria secondaria dei bo-vodu, cioè dei vodu degli amuleti o della magia, il cui scopo è quello di «assicurare la protezione automatica» (1988:181). A fianco di questi troviamo gli atike-vodu, cioè i vodu medicinali di cui il gorovodu è parte, che sarebbero dei bo installati in forma permanente a fini curativi.42 Questa parte della trattazione, raccolta in un capitolo dal titolo Le recours à la magie, si oppone ai capitoli in cui de Surgy analizza la concezione dell’uomo, le singole divinità e la triade di divinità superiori, cioè la base metafisica della filosofia religiosa ewe. La forte proliferazione di atike vodu, che egli scrive «meritano il nome di fétiche» (1988:193), recuperando quindi l’accezione di feticismo come fenomeno non religioso, pone, secondo de Surgy, dei dubbi sullo stato di salute della religione “tradizionale”, che: si potrebbe credere […] invasa, sommersa o abbattuta, dopo lo choc delle trasformazioni sociali, economiche e cultuali databili al periodo della colonizzazione, da pratiche magiche d’ordine inferiore (ibidem).

In realtà, continua De Surgy, gli atike vodu erano già citati nel testo di Spieth e per tale motivo non rappresenterebbero un fenomeno di rottura dell’epoca coloniale, ma semplicemente l’aspetto meno elevato della religione, cioè la magia. 12. Il concetto di sincretismo La letteratura prodotta attorno alla religione vodu ha creato una struttura statica e tendenzialmente atemporale all’interno della quale valutare i mutamenti contemporanei. I testi sono divenuti il parametro di riferimento 42. Nessuno dei preti del gorovodu, che appartiene appunto a questa categoria, costruita già negli anni Venti dagli amministratori coloniali, accetterebbe di definire il proprio vodu un bo, dato che in questa definizione è implicito un giudizio morale negativo o comunque sottoscrive una classificazione di valore. Inoltre, i bo sono legati anche alla magia, quindi oggi vengono spesso confusi con i prodotti della stregoneria e non potrebbero mai essere accettati all’interno del gorovodu, che anzi, tra le sue leggi prevede il divieto del loro utilizzo.

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rispetto a cui giudicare la qualità dei cambiamenti subiti dalla religione “tradizionale”, le influenze delle religioni universali e della società “moderna” e occidentale in generale. In Africa, il sincretismo fu studiato soprattutto in connessione alle nuove chiese indipendenti e ai culti antistregoneria; quando furono i missionari gli autori delle analisi, si espressero in termini di devianza e perdita dell’autenticità. I padri europei denunciavano le “messe nere”, sconvolti da un recupero, a fini magici o feticisti, dei simboli della liturgia cristiana (Mary 2000:1). Il concetto di sincretismo, nella sua valenza prevalentemente degenerativa, divenne lo strumento con cui misurare i cambiamenti e l’allontanamento dal modello originale, con cui misurare dunque la capacità di sopravvivenza delle religioni tradizionali. Il dibattito sul sincretismo, sui cambiamenti religiosi e sui fenomeni di conversioni è stato acceso. Alcuni autori, come J.D.Y. Peel (1966), hanno negato il sincretismo delle chiese indipendenti, rivendicandone l’originalità e un’attitudine alla trascendenza che le allontanava quindi dalle religioni tradizionali. Altri, come Robin Horton (1971, 1975), hanno invece messo in discussione la possibilità di una vera conversione, sottolineando piuttosto la plasticità delle religioni locali nel rispondere e adattarsi ai cambiamenti sociali, quello che Augé chiama «il genio del Paganesimo» (Augé 1982) e che consisterebbe in una logica di assimilazione più propensa alla tolleranza, all’addizione e all’accumulo che alla fusione dei significati. Il sincretismo come “maschera” (Bastide 1961) conferma l’idea di culture intatte che, grazie al mimetismo delle abitudini e delle divinità degli altri, nascondono la loro volontà di resistere. Già Herskovitz (1941) aveva utilizzato il sincretismo come categoria attraverso cui tracciare la storia degli Afroamericani e i fenomeni dell’acculturazione. Come notano Rosalind Shaw e Charles Steward (1994:6), Herskovitz, pur avendo interpretato il sincretismo come fenomeno socialmente positivo, in termini di sopravvivenza dei significati e delle identità, continuò a pensarlo come effetto dell’unione meccanica delle parti. Il sincretismo appare oggi come una categoria superata – tutte le religioni sono infatti il risultato di processi di sincretizzazione – il cui uso può ancora aiutare a comprendere i fenomeni religiosi, se lo si pensa non come paradigma teorico, ma come processo e pratica discorsiva ricca di implicazioni politiche. Gli studi sul sincretismo africano, più interessati alle elaborazioni teoriche che alle pratiche rituali, non ascoltarono le intenzioni e la capacità di agire degli uomini e delle donne coinvolti nei fenomeni religiosi, con-

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centrandosi piuttosto sulle religioni in quanto strumento di cambiamento, e guardando a esse come se si trattasse di ineluttabili «fiumi della tradizione» (Shaw, Steward 1994:16), che potevano incontrarsi e unirsi oppure seguire in eterno il loro corso. Tale prospettiva nascondeva i soggetti che agivano e agiscono come motori di questi incontri. Gli uomini e i poteri che attorno a essi si generavano venivano quindi sopraffatti dalla forza imperturbabile della religione. Tornando all’ambito vodu, i culti più compromessi e contaminati, come il gorovodu, furono oggetto di disprezzo, percepiti come una minaccia o come un inevitabile segno della perdita dei saperi locali. In epoca coloniale, la lotta al sincretismo fu un discorso sostenuto in particolare modo dalle istituzioni, per le quali il ”tradizionale” era assurto a categoria politica di più facile controllo. I movimenti profetici, così come le molte forme di sincretismo, furono accolte come espressione di idee rivoluzionarie e indipendentiste. Non era tanto il vodu, come espressione della tradizione, a essere considerato resistente, ma piuttosto le forme di melange e contaminazione. Ad esempio, in Bénin, Christian Merlo nel 1936 scrisse Synthèse de l’activité fétichiste aux bas Togo et Dahomey, pubblicata però solo nel 1957 dall’IFAN, proprio per l’eccessiva violenza espressa nell’articolo. La degenerazione della religione locale aveva portato, secondo Merlo, a due principali conseguenze, entrambe ascrivibili al Goro. In primo luogo il feticcio era divenuto cedibile, si potevano comprarne o venderne frammenti, e poi semplicemente apprendere il modo d’impiego. In secondo luogo, il sistema di sfruttamento economico che in tal modo si era generato aveva dato vita a una classe di preti specializzati, esterni al sistema familiare. Per Merlo, quindi, «la garanzia morale implicita nella religione famigliare è sparita e il meno che oggi si possa dire è che il feticcio è completamente straniero alla persona con cui è in relazione» (1957:1157). I missionari43 e i funzionari coloniali furono turbati dall’appropriazione da parte della religione locale di un linguaggio più prossimo al loro 43. Il gorovodu fu spesso percepito come un movimento potenzialmente sovversivo, anche a causa del suo carattere sincretico. In un documento relativo alla Gold Coast, Georges Dufonteny, missionario cattolico nel Congo belga scriveva: «I movimenti nazionalistici in Africa si sono mostrati apertamente fin dalla Grande Guerra del 1914. Essi sono motivo di grande preoccupazione, preoccupazione non senza fondamento, non solo per i governi coloniali ma anche per qualsiasi influenza europea. Il pericolo di questi movimenti non deve essere sottostimato. E ancora più pericoloso il fatto che questi movimenti esistano praticamente in tutte le parti dell’Africa. Se dovessero venire a conoscenza l’uno dell’altro, sarebbe

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sentire religioso e denunciarono la minaccia insita in questi processi di trasformazione e contaminazione. In Gold Coast, Duncan-Johnson, funzionario coloniale, scriveva, facendo riferimento a Kunde, uno dei nomi del tron kpeto deka: ho studiato questo feticcio per qualche tempo e senza dubbio ha avuto una grande presa in questo distretto. A mio parere è un feticcio che non è un feticcio per i pagani puri, ma un feticcio che è stato introdotto grazie a un piano deliberato di diffusione, per produrre qualche cosa che dovrebbe essere a metà strada tra il cristianesimo e il puro feticismo, e piacerà quindi ai più sofisticati. A mio parere questo feticcio prende in prestito sia dal cristianesimo che dal feticismo, con il risultato che produce un qualche cosa che ha la forma di una religione, ma che in realtà non è niente di più che un mezzo per far soldi, e una condanna a morte per chi gli si oppone.44

L’anno successivo, Duncan-Johnsons avrebbe ordinato la distruzione dei feticci: i principali feticci in classe A devono essere eliminati uno ad uno con un intervallo di qualche giorno; in questo modo le reazioni dovrebbero essere limitate, se ve ne saranno. Kunde non è un feticcio nazionale, ma uno strumento importato allo scopo di fare soldi che utilizza una certa quantità di terrore e di magia.45

L’avvicinamento tra linguaggi locali e coloniali era pericoloso perché poteva mettere in crisi i confini fissati tra colonizzati e colonizzatori, inducendo rivolte e sollecitando cospirazioni. tutta l’Africa contro l’Europa. Qualsiasi sia il loro nome, che sia Kibangisu, Amieda, Amatsi o Kunde, hanno diverse caratteristiche in comune e tutte hanno il medesimo scopo: lasciare l’Africa agli africani. Tutti questi movimenti sono politico-religiosi. […] Le idee nazionalistiche, nate per motivazioni che non esamineremo qui, avevano bisogno di una forma di misticismo capace di eccitare le masse e di un cemento sufficientemente forte per unire le loro energie. Hanno trovato ciò in un paganesimo straniero agli europei e più in particolare lo hanno trovato nell’anima stessa del paganesimo, la stregoneria, la vera avversaria degli europei»: National Archives of Ghana (d’ora in poi NAG), Colonial Secretary’s Office (d’ora in poi CSO) 21/10/4, Kunde Fetish Provincial Commissioner of Koforidua, 10/08/39). Tra gli scritti prodotti dai missionari su questo tema e sul gorovodu in particolare, importantre per la ricchezza delle argomentazioni e la corposità del testo, è quello prodotto nel 1936 da Monsignor Jean-Marie Cessou: Une religion nouvelle en Afrique Occidentale, le Goro ou Kunde. 44. NAG, CSO 21/10/4, Kunde Fetish, Commissioner of Eastern Province, “Kunde Fetish in Keta District”, 10 agosto 1939. 45. Ivi, 14 febbraio 1940.

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Lo sguardo interno, di chi praticò i nuovi culti, non percepiva certo la realtà in termini di continuità o rottura, dato che la categoria di sincretismo non apparteneva alla storia e alla dinamica del vodu. Nuovi vodu erano, da sempre, giunti dai paesi confinanti in un incessante e vitale processo d’acquisizione e rinnovamento. Nonostante i contrasti tra i poteri coloniali e i leader dei culti, quali il gorovodu, portarono a incarcerazioni e in rari casi a esecuzioni, gli eredi negano oggi l’esistenza di forme consapevoli d’opposizione al potere, anche se ricordano i conflitti che in molte occasioni emersero. Oggi si racconta delle lotte interne tra leader religiosi, espresse secondo il linguaggio della stregoneria o di contrasti con altri ordini vodu, ma mai di un uso consapevolmente politico dei nuovi culti. Piuttosto si ricorda come, da subito, si cercò di organizzare il culto, attraverso l’adozione di complesse pratiche burocratiche, in sintonia con il volere e le pratiche coloniali. L’“antisincretismo” in Africa oggi è diventato più tenue e anche le strategie teologiche dell’inculturazione, introdotte dalle chiese cristiane, sono «all’ascolto delle vie aperte dai sincretismi endogeni» (Mary 2000:2), come strumenti per un dialogo con la spiritualità africana. Il sincretismo è comunque un concetto che continua a essere utilizzato e si inserisce in modo complementare nei discorsi sulla religione tradizionale. I difensori della “tradizione”, dei vodu “autoctoni”, guardano con sospetto le religioni che definiscono sincretiche, come il gorovodu, e in tal modo si ricavano uno spazio di legittimità e di potere dal quale combattere la loro battaglia contro i culti che percepiscono come più minacciosi, proprio perché più popolari. Altri, come gli intellettuali beninesi, usano il sincretismo per denunciare i rischi della perdita di autenticità e di senso dei saperi locali. Emblematico fu, nel 1970, il «Colloque de Cotonou» su Les religions africaines comme source des valeurs de civilisation. Sastre (1972) classificò i vodu secondo quattro categorie: i vodu interetnici che si manifesterebbero attraverso i fenomeni della natura, i vodu interetnici che invece incarnerebbero dei personaggi storici o mitici, i vodu etnici legati agli antenati e infine: certi vodu moderni, venuti dal Ghana che rappresentano: sia delle potenze violente occulte: Koku i cui adepti si tagliano il corpo a colpi di coltello; sia delle potenze di difesa contro la morte brutale causata soprattutto dalla stregoneria: Goro, il cui emblema è la noce di cola (1970:342).

Barbier (2002:228) ha definito il tron (gorovodu) come una religione «post-coutumiers», cioè post tradizionale poiché, egli scrive, si tratta di un

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culto «deteritorializzato, non lignatico, centrato su una sola divinità, […] e per il quale l’affiliazione è un atto individuale volontario che non richiede una particolare iniziazione». Seguendo una medesima impostazione Emanuelle Kadja Tall (1995) ha classificato uno dei due ordini che compongono oggi il gorovodu, il tron kpeto ve, come «néo-traditionaliste» (Lanternari 1966). Nella descrizione degli adepti dell’ordine, trapela la pietà che Kadja Tall prova verso queste persone, concentrate a svolgere rituali forse privi di senso: vivono nella speranza di giorni migliori e di una vita decente. Nel momento della cerimonia del fine settimana, le danze sono frenetiche, la gioia è un po’ quella della disperazione, ma l’ambiente pur incontrollato resta amichevole (1995:812).

La tradizione continua a essere il parametro con cui si misura il cambiamento, per cui il gorovodu, con il suo carico di pratiche mutuate dalle religioni universali e la rivendicazione di un possibile monoteismo, porta il segno di un cambiamento irreversibile, di una perdita dei saperi locali e di un’assuefazione alle “religioni non tradizionali”. Un atteggiamento simile lo cogliamo anche in Augé, il quale esalta il politeismo e quindi il vodu, in quanto religione della tolleranza. In ciò risiederebbe la sua superiorità e al contempo inferiorità nei confronti delle religioni monoteiste. Le religioni politesite sanno infatti dialogare con le divinità degli altri, e per tale motivo rischiano di restarne schiacciate: Indubbiamente il Dio cristiano è lontano dall’essersi assicurato in tutte le terre e in tutti i cuori posizioni solide, ma ovunque gli dei pagani sono in rotta; a parte qualche piccola isola di resistenza, incerta e spesso snaturata, i pantheon si vanno sfasciando con le società di cui costituiscono il cemento ([1982] 2002:67).

Il vodu ha, probabilmente da sempre, incorporato nuove divinità, nuovi linguaggi e nuovi oggetti, poiché la sua frammentarietà, la mancanza di un sistema gerarchico di controllo dei saperi e di una tradizione scritta, hanno lasciato libertà all’iniziativa e alle potenzialità dei singoli e a un uso fortemente politico e strumentale del vodu stesso. Le sovrapposizioni semantiche tipiche dei fenomeni sincretici rendono possibile una situazione di doppia comprensione e di possibile oscillazione tra due sistemi di senso, tra i quali i soggetti coinvolti si rifiutano di scegliere (Mary 2000:25). Ciò che rende più complessa la comprensione

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dei fenomeni è la consapevolezza che le sintesi religiose non siano iniziate con l’arrivo dei missionari cristiani nel continente, ma siano sempre state parte del processo religioso. Le sedimentazioni storiche restano disponibili, in potenza, per future ricostituzioni; un patrimonio di senso, di simboli, ma anche di pratiche e di oggetti di cui gli attori si possono continuamente appropriare. Ogni fenomeno religioso ha un percorso differente, può lasciare più o meno spazio all’agentività e alla fantasia degli uomini; molte divinità africane, sicuramente i vodu, appaiono particolarmente fertili per continue reinvenzione e aperture verso nuovi orizzonti di senso. Nel vodu l’incorporazione di pratiche e oggetti provenienti dalle religioni universali, ma anche da quelle “pagane”, come l’induismo, può apparire come un processo caotico o degenerativo. La complessità è dovuta proprio all’ampia possibilità d’intervento degli uomini nella sfera del sacro e a una tendenza che, come abbiamo visto, non sembra andare verso la semplificazione dei significati, ma piuttosto dispiegare la complessità, seguendo una logica di accumulo e sedimentazione. Fissare il vodu in un pantheon gerarchizzato, concentrandosi sulle costruzioni teologiche, piuttosto che sui processi d’acquisizione delle conoscenze religiose attraverso la pratica e l’esperienza dei singoli, impedisce di comprendere la dinamica che lega l’uomo al vodu. La religione vodu è stata progressivamente reificata: la letteratura che si è concentrata sul Dahomey ha insistito sull’idea di un pantheon gerarchico, di una struttura flessibile ma ordinata, mentre quella interessata al Togo, pur cercando di recuperare i segni di un’antica e uniforme struttura religiosa, immaginata come perduta, lascia suo malgrado trapelare l’esistenza di una realtà in divenire. Nessuno, a parte qualche rara eccezione, sembrò però interessato alla pratica rituale dei vodu, e alla loro deprecabile materialità. Maya Deren46 studiò il vodu haitiano verso la fine degli anni Quaranta, riuscendo ad allontanarsi dai prevalenti approcci classificatori che avevano caratterizzato il lavoro di molti antropologi. Fu probabilmente la prima stu46. Maya Deren, regista e danzatrice, aveva raggiunto Haiti nel 1947 con lo scopo di girare alcuni film sul vodu. Il suo sguardo, attento al corpo dei danzatori, al linguaggio musicale e alla forza dell’espressione corporea colse l’importanza della pratica religiosa, tralasciando invece i temi che più interessarono gli antropologi che avevano lavorato sul medesimo argomento in Africa. Come lei stessa scriveva, la sua cultura artistica le imponeva un livello molto soggettivo di apprendimento, che le impediva di porre domande e chiedere spiegazioni e la spingeva a una comunicazione “emotiva e psicologica”.

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diosa a cogliere la centralità della pratica e l’importanza della corporeità, della danza e del gesto all’interno della religione dei vodu.47 Lo sguardo attento all’azione la indusse a definire il vodu attraverso una metafora che evocava il movimento e la transitorietà. Il vodu era quindi una “costante dissolvenza”, un fluire continuo tra essere e non essere; l’oggetto vodu di conseguenza si poteva qualificare come sacro soltanto se in azione. Dato che l’azione è ontologicamente transitoria, quando la funzione è compiuta, l’oggetto cessa di essere sacro, quindi di essere oggetto religioso (Deren 1959:220). L’approccio emico di Maya Deren e la sua capacità di integrarsi nel contesto rituale haitiano, le consentirono di analizzare intimamente e in modo riflessivo le proprie emozioni di fronte al vodu, perdendo però la dimensione storica e sociale, ritenuta irrilevante al fine della conoscenza a cui Deren aspirava. La testimonianza48 diretta di Deren riuscì a cogliere con forza e umanità la dimensione corporea ed emozionale del vodu. Sicuramente restò una conoscenza soggettiva che in quanto tale «ha esaurito la possibilità stessa della comunicazione» (Pennaccini 1994:161), dato che, come Deren stessa ammise, usciva dall’esperienza del vodu sconfitta come artista perché sopraffatta dalla realtà; ma il suo lavoro, se confrontato agli scritti dell’epoca, ebbe il merito di non riproporre degli schemi rigidi e normalizzanti. Ricordando la stretta relazione tra vodu e individuo, si può comprendere come la pratica di ciascun vodu crei un sistema retificato di relazioni, ai cui nodi vi sono i sacerdoti, capaci di attrarre a sé i fedeli e di gestire o costruire nuove relazioni con gli altri sacerdoti. La rete è dinamica e la si può immaginare sviluppata su tre dimensioni. Le prime due si sviluppano nello spazio, connettendo località differenti e ispessendo sempre più 47. Rifacendosi a Bateson e ponendosi in aperta opposizione nei confronti dell’etnologia dell’epoca, Maya Deren scriveva che «l’ethos di una civiltà si manifesta in forme artistiche e in azioni» (Deren 1959:20). Deren rifiutava il distacco dello “scienziato”, la cesura tra studioso e oggetto di studio, tipica dell’analisi di laboratorio, poiché sottintendeva un dualismo tra spirito e materia, tra mente e corpo. In tal mondo si presupponeva che: «l’esperienza fisica, sensoriale – quindi anche sensuale! – sia una forma minore, se non profana, dell’attività umana, ed inoltre (si esprime) il giudizio morale che le verità più alte e più valide possono essere raggiunte solo per mezzo di un rigido ascetismo» in particolare tale dualismo era insensato nello studio delle civiltà africane o orientali, nelle quali la conoscenza, la “verità” poteva essere afferrata «solo quando ogni cellula del cervello e del corpo – la totalità dell’essere umano – sia impegnato in quella ricerca» (Deren 1959:17-18). 48. Oltre al libro, Deren realizzò e montò, tra il 1947 e il 1954 il film Divine horseman.

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le proprie maglie, in funzione dell’aumentare del numero di sacerdoti. La terza dimensione, che riproduce il livello di potere e d’influenza di ciascun nodo sugli altri, è anch’essa mutevole, dipendendo dalle contingenze esistenziali, storiche e politiche di ciascun individuo. Il rapporto soggettivo, che si può instaurare con il proprio vodu fa sì che ogni houno elabori una differente gerarchia, a seconda di quale sia la sua divinità principale. Generalmente si considerano i vodu del proprio santuario come i più potenti ed efficaci. Le gerarchie cosmiche sono molto personali ed è praticamente impossibile trovare delle concordanze e soprattutto esprimere delle generalizzazioni. Le preferenze dimostrate nei confronti delle divinità riflettono le relazioni sociali, la situazione politica, storica e culturale della società ma anche la fantasia e i sentimenti degli individui.

2. Il culto gorovodu: la geografia e i protagonisti delle “origini”

…autrement dit, faire l’éloge du mouvement, dissiper les craintes qu’il inspire, et, surtout, ne jamais consentir à exploiter la peur confuse qu’il nourrit. G. Balandier, Le desordre

Il fluido spazio geografico in cui si mosse il culto del gorovodu si estende fino alle popolazioni del nord del Ghana e del Togo, verso il Sahel. Ascoltando le voci degli attuali sacerdoti del culto e seguendo le suggestioni evocate dagli oggetti e dalle pratiche, affiorano gli avvenimenti di un’epoca – il Novecento – ricca di tensioni e cambiamenti politici, viaggi, incontri e scambi. I protagonisti di queste vicende furono degli imprenditori religiosi, degli avventurieri, dei viaggiatori e degli uomini in cerca di risposte. Oggi si possono raccogliere solo le testimonianze dei figli di questi uomini e di tutti coloro che li conobbero, li incontrarono o semplicemente ne sentirono parlare. In questo capitolo cercherò di seguire a ritroso le strade percorse dalle divinità e dagli uomini. L’obiettivo vuole essere quello di mostrare come i mutamenti religiosi, anche quelli della cosiddetta “religione tradizionale”, siano avvenuti sia nel tempo sia nello spazio. Le narrazioni storiche e la ricostruzione delle “origini” di un vodu sono per molti sacerdoti del culto irrilevanti, inappropriate e, in alcuni casi, oggetto di interdizione. Altri, come vedremo, più implicati nei processi di patrimonializzazione sono invece sensibili ai temi della tradizione e hanno sviluppato una maggiore attitudine alla costruzione di mitologie fondative; connettersi con la storia e con i luoghi dell’origine è diventata in alcuni casi una strategia fondamentale attraverso la quale costruire uno spazio di controllo e di potere. La frase, tante volte sentita: «questo è un vodu che siamo andati a prendere in Ghana», ha un significato storico di grande interesse e riconnette gli apparentemente remoti villaggi togolesi a un fenomeno transnazionale come quello dei culti antistregoneria di epoca coloniale.

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Come scrisse Maupoil (1943), per parlare di vodu bisogna uscire da un ambito spaziale limitato e pensare ai flussi migratori e alle guerre che hanno generato sia la storia, sia la mitologia di una regione che comprende le aree meridionali di Nigeria, Bénin, Togo e Ghana. Le pratiche, le idee e le istituzioni religiose si sono sempre mosse attraverso differenti regioni, superando i confini politici ed etnici; è necessario dunque indagare la distribuzione dei saperi in termini geografici e non etnici, in termini di flussi dinamici piuttosto che di campi chiusi (Goody 1956, Brenner 2000). La fluidità della dimensione spaziale consente, come ricordano Ferguson e Gupta (1992), di liberarsi dall’habitus antropologico che considera l’associazione tra un gruppo culturalmente unitario (tribù o popolo) e il territorio con cui è in relazione, come un fenomeno naturale. Portare le divinità lontano dall’ambiente in cui ci paiono naturalmente radicate da sempre, consente di sradicare frontiere politiche, culturali, mistiche ed ecologiche. Immergere l’analisi dei culti nella storia degli attori sociali, permette di reinserire gli dei africani e i loro sostenitori in una dimensione storica e di «sfidare la distinzione analitica tra tradizione e modernità nello studio delle credenze africane» (Parker, Allman 2005:5). Attraverso l’approccio diacronico, le credenze che oggi appaiono “moderne” rivelano tracce antiche e forme di continuità con il passato. Allo stesso modo, la “tradizione” mette in mostra i suoi innesti più recenti e le continue ed inevitabili contaminazioni. In questo capitolo presenterò alcuni dei protagonisti della “storia” del gorovodu, almeno quelli che hanno assunto maggiore importanza in Togo e Bénin. Cercherò di intersecare i racconti con i documenti d’archivio e le testimonianze della letteratura etnografica, nel tentativo di tracciare gli sfilacciati confini della regione in cui i culti si mossero o immaginarono di muoversi. Lo scopo è duplice. In prima istanza vi è la ricostruzione storica del percorso che le divinità seguirono e dei tragitti che le condussero dalla savana verso la foresta: fiumi, grotte, piste carovaniere e dighe (Akosombo), che con la loro acqua cancellarono alcuni luoghi dalla memoria e dal territorio. In secondo luogo, poiché il culto creò nella regione della foresta nuovi spazi pregni di significati sociali e culturali (Howard 2005:27) e differenti strategie d’alleanza, che si affiancarono e integrarono a quelle preesistenti, l’obiettivo è illustrare come la ricostruzione storica (Sahlins 1986, Burutti Fabietti 1998), geografica e la politica della memoria (Chrétien, Triaud 1999) siano, a livello locale, importanti strumenti di legittimazione sociale.

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In un primo tempo, le narrazioni che riconducevano le origini del culto a luoghi esotici e così distanti da essere ignoti, permisero di integrare più facilmente tradizioni orali e identità spesso eterogenee e contraddittorie; in tal modo i nuovi spazi sociali e religiosi, nati in un terreno spesso ostile e sempre culturalmente e politicamente complesso, riuscirono a coagularsi nonostante le forze centrifughe che agivano al loro interno. L’appropriazione e l’invenzione di miti di fondazioni è poi divenuta uno strumento strategico attraverso il quale negoziare una posizione di privilegio e accumulare capitale simbolico,1 nonché una modalità attraverso cui creare nuovi spazi regionali all’interno del culto stesso. Vi è una mutabilità del passato e un valore limitato della veridicità storica, che trapela evidente dalle vicende del gorovodu, svelandone i fini politici e religiosi. Se vi è infatti una sorta di omogeneità dell’insieme gorovodu percepibile da chi è posizionato all’esterno, le dinamiche interne sono al contrario estremamente mutevoli e sovente conflittuali. Assumendo la definizione di campo data da Bourdieu,2 che ci consente di attribuire senso alla competizione per la produzione di capitale simbolico e per la definizione di tale capitale, risulta più facilmente comprensibile il gioco degli attori che agirono e agiscono all’interno del campo stesso. In ogni campo vi è infatti una diversa gerarchia tra le forme di capitale (economico, culturale, sociale), 1. Si fa qui riferimento alla definizione data da Bourdieu (1998:253), secondo cui: «Ogni specie di capitale (economico, culturale, sociale) tende (in gradi diversi) a funzionare come capitale simbolico (al punto che sarebbe forse più opportuno parlare, a rigor di termini, di effetti simbolici del capitale) quando ottiene un riconoscimento esplicito o pratico […]. Quando (cioè) viene misconosciuto come capitale, cioè in quanto forza, potere o capacità di sfruttamento (attuale o potenziale), quindi riconosciuto come legittimo». In tal senso il capitale simbolico, naturalizzato all’interno di un determinato contesto o campo, rappresenta per Bourdieu il prodotto della trasfigurazione di un rapporto di forza in un rapporto di senso. 2. Spiegava Bourdieu (1992:66): «In termini analitici, un campo può essere definito come una rete o una configurazione di relazioni oggettive tra posizioni. Queste posizioni sono definite oggettivamente nella loro esistenza e nei condizionamenti che impongono a chi le occupa, agenti o istituzioni, dalla loro situazione (situs) attuale e potenziale all’interno della struttura distributiva delle diverse specie di potere (o di capitale) il cui possesso governa l’accesso a profitti specifici in gioco nel campo, e contemporaneamente dalle posizioni oggettive che hanno con altre posizioni (dominio, subordinazione, omologia)». In ogni campo, esistono quindi delle specifiche “poste in gioco”, oggetto di competizione tra i vari agenti, e delle specifiche convenzioni che regolano tale gioco, sovente percepite come naturali dai partecipanti. In ogni campo, inoltre, tende a prodursi un capitale simbolico specifico ed una lotta continua attorno alla definizione di tale capitale.

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ed è proprio il possesso di tali capitali che fa esistere o meno un soggetto in un campo, gli permette di partecipare al gioco se non perfino di cambiare le regole del gioco stesso. In secondo luogo, ai fini della nostra analisi bisogna ricordare come anche le regole del gioco cambino storicamente, per cui ciò che definiva un campo nel passato non necessariamente lo delinea ancora oggi. L’appropriazione del passato, la vicinanza ai luoghi e alle persone delle origini, l’originalità o la conformità delle pratiche, l’ostentazione economica, i saperi esoterici e mistici, sono alcuni degli elementi che in misura variabile contribuiscono a definire il capitale simbolico e a fissare di volta in volta gli instabili confini del campo. Cercherò infine di confrontarmi con le definizioni che l’antropologia ha dato di culto regionale (Van Binsbergen 1977, Werbner 1979), non tanto per capire se il gorovodu si qualifichi come tale, ma per cercare di sintetizzarne alcuni caratteri salienti. Ricordando che almeno da Durkheim in poi l’antropologia ha riconosciuto che lo spazio diviene luogo grazie a una costruzione sociale, bisogna chiedersi chi ha il potere di creare questa trasformazione o di contestarla (Furguson, Gupta 1992:11). Nel caso del gorovodu si tratta di comprendere per quale motivo fu importante, all’inizio del Novecento, creare uno spazio alloctono che si legasse a divinità straniere. I fedeli del nuovo culto costruirono delle reti relazionali che, oltre a superare gli appena stabiliti confini coloniali, riuscirono a sottrarsi anche agli spazi sacri fissati dall’antico potere centrale di Abomey, almeno nel caso del Bénin. Gli uomini che aderirono al nuovo culto preferirono uno spazio alieno, dislocato ed esotico. Allo stesso tempo, appartenevano anche ad altre reti che li potevano connettere con il regno di Abomey, con l’antica migrazione aja-tado oppure con i più recenti flussi migratori, conseguenza delle guerre tra Abomey e le vicine città yoruba. Molti dei leader contemporanei condividono poi una storia di migrazione che li fece viaggiare, assieme alle loro divinità, nell’Africa coloniale del secondo dopoguerra.3 3. Amoussou Antone Kossa, houno del tron kpeto deka a Cotonou, installò, ad esempio, il suo altare nel 1967. Lo portò in Bénin dal Gabon (paese di forte migrazione beninese), come emanazione dell’altare del padre, installato a Port Gentile nel 1952. L’altare principale si trova ancora in Gabon, gestito dal fratello maggiore. Hilaire Dohou, che presenterò nel prossimo paragrafo, riportò a Cotonou il suo tron da Conakry, dove visse diversi anni per motivi di lavoro. Suo fratello maggiore, che vive da decenni a Parigi, partì con il gorovodu che installò a sua volta in Francia, dove, secondo Hilaire, non lo installò solo per la sua personale protezione, ma ne fece “commercio”, soprattutto con gli immigrati congolesi. Abla Meji, eccentrico sofo del tron kpeto ve di Cotonou, mi raccontò di aver trovato

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Il risultato del fluire del gorovodu è stata la creazione d’identità multiple e di multi-temporalità, pronte ad allearsi oppure ad entrare in conflitto tra di loro; il flusso è infatti «un cambiamento ed è di per sé destrutturante» (Remotti 1993:164). Forse anche per tale motivo, in epoca coloniale, i culti poi confluiti nel gorovodu furono sospettati di seminare germi rivoluzionari, perché destrutturavano i poteri locali, delegittimando i capi tradizionali e mettendo in crisi, nel caso della Gold Coast, la politica dell’indirect rule. Tali culti divennero espressione, in momenti e contesti specifici, del desiderio di cambiamento, soprattutto di chi era più esterno ai circuiti di potere. Racchiudevano al loro interno l’energia latente di un movimento di rottura. Presenterò ora le persone, i vodu e i luoghi più importanti di questa vicenda, ma prima ricostruirò brevemente la storia del culto così come emerge dall’archivio coloniale e dagli studi antropologici del Novecento. 1. I culti antistregoneria attraverso la letteratura Il gorovodu è parte di una famiglia di vodu comunemente chiamati atike (erbe, radici medicinali in ewe) vodu. All’interno del gorovodu sono state assemblate, nel corso degli anni, molte delle entità che percorsero la Gold Coast. Oggi sono organizzate come se fossero parte di una struttura omogenea, anche se in passato non ebbero alcun rapporto rituale tra di loro, se non quello di una simile origine geografica e di un’equivalente funzione religiosa. Come i documenti d’epoca coloniale testimoniano, i culti si susseguirono, si sovrapposero e probabilmente si nascosero l’uno nell’altro, anche per eludere la sorveglianza delle amministrazioni coloniali. Le molte entità che oggi compongono il gorovodu (nei suoi due ordini tron kpeto deka detto anche Kunde e tron kpeto ve) hanno origini disparate e solo dopo aver attraversato il fiume Volta si unirono nella forma più simile a quella presente, appunto, il gorovodu. Il lungo viaggio che percorsero, partendo dalla regione della savana per giungere oltre il Volta, le portò gradualmente in contatto con un ambiente dominato dai culti vodu. Di fatto i nuovi culti, come il nome stesso il suo tron in Senegal, dove era emigrato nel 1946, per unirsi ai tirailleurs sénégalais. Qui entrò in contatto con dei bambara che gli diedero un talismano; tornato a Cotonou «quelli del gorovodu», gli dissero che era il vodu della noce di cola. Secondo Abla Meji, il suo è il solo vero tron, perché lo prese direttamente in Senegal.

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testimonia (vodu della noce di cola), divennero parte del composito mondo dei vodu, pur mantenendo uno spazio identitario separato. Il periodo di massimo successo e diffusione dei culti antistregoneria, nel loro insieme, coincise con i primi cinquant’anni del XX secolo. Il primo culto antistregoneria di cui si ebbe notizia e che fa parte della famiglia allargata di entità confluite nel gorovodu fu, con buona probabilità, Sakrabundi, che si trasformò o forse semplicemente venne affiancato da Aberewa “la vecchia signora”. Nei territori della Gold Coast, il culto di Aberewa ebbe una diffusione e un successo tale da mettere in serio allarme le autorità coloniali. Dopo Aberewa apparve il culto Hwemeso, tra il 1920 e il 1923, anno nel quale l’amministrazione lo interdì. Nuovi culti si susseguirono nel periodo tra le due guerre; i più importanti furono Kunde, Senyakupo, Nana Tongo e Tigare, ma non furono i soli, poiché altri che agirono in aree più ristrette continuarono a nascere e diffondersi. Il fenomeno, nel suo complesso, iniziò a declinare dopo la seconda guerra mondiale e, almeno in Ghana, fu sostituito dalle numerose chiese profetiche cristiane. Secondo Parker (2004), solo il culto Tigare (detto anche Tinga o Tingali) continuò ad attrarre fedeli fino alla fine del periodo coloniale, diffondendosi a ovest in Costa d’Avorio e a est fino alla Nigeria.4 In realtà, altre entità sopravvissero ai tempi e data la loro capacità mimetica, si trasformarono o vennero inglobate in forme cultuali. È il caso del gorovodu, conosciuto già negli anni Trenta in Togo e in Bénin, che fu accolto nell’area ewe e fon, come un vodu. Il gorovodu raccolse al suo interno alcuni dei culti di maggiore successo di quegli anni, in particolare Kunde, Nana Abewa (Aberewa), Sakra Bori (Sakrabundi), Sunia (Sunya Compo) e Banguele (a sua volta un insieme di più entità). L’interesse di questi culti risiede soprattutto nel nuovo spazio che seppero creare, all’interno del quale, grazie a un linguaggio innovativo, cercarono di rispondere alle sollecitazioni delle religioni universali e delle nuove forze politiche: le amministrazioni coloniali. Non si trattò né di pratiche totalmente tradizionali né definibili solamente come moderne o di rottura, ma di un fenomeno storico che come tale seppe dialogare con il suo tempo. Il fatto che la storia dei culti sia “recente” e che siano disponibili molte testimonianze dell’epoca consente di privarli di quell’aura mistica o astorica che spesso caratterizza i fenomeni religiosi africani e di comprendere come 4. La presenza di Tingali in Nigeria fu documentata negli anni Cinquanta da MortonWilliams. In Togo e soprattutto in Bénin ha oggi una discreta diffusione.

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fu proprio la volontà degli uomini e delle donne – féticheurs, imprenditori e devoti – che li portò al successo e li fece giungere fino a oggi. Gli amministratori coloniali e i missionari videro nel gorovodu tutto ciò che non riuscirono a spiegare; il culto incarnò quindi anche molte paure, che di fatto non avevano fondamento. Nei resoconti nell’epoca prevalse sempre l’accento sul loro ruolo di culti antistregoneria, mentre la natura di culti terapeutici fu in parte trascurata o comunque messa in secondo piano. Interrogarsi sul valore curativo dei culti avrebbe invece aiutato a meglio comprenderne la diffusione e il successo. La stregoneria, la magia, il feticismo erano le categorie che consentivano più facilmente agli amministratori coloniali e ai missionari di attribuire senso e mantenere uno sguardo sprezzante ed egemone.5 Questi enfatizzarono, inoltre, la novità del fenomeno, mentre una visione diacronica avrebbe consentito un’analisi più pertinente e diminuito la sensazione di trovarsi in una situazione anomica e di emergenza sociale, sintomo delle aumentate ansietà dovute alle trasformazioni sociali in corso. Fino alla fine degli anni Cinquanta del Novecento i culti vennero interpretati come un fenomeno di totale rottura rispetto al passato. L’obiettivo era quello di indagare le interrelazioni tra stregoneria e struttura politica, piuttosto che affrontare «le mutazioni delle idee africane sull’invisibile» (Bellagamba 2008:7). Con il saggio di Jack Goody sulla stregoneria, “Anomie in Ashanti” (1957) si uscì dalla prospettiva funzionalista, per iniziare a interrogarsi sulla profondità storica e la continuità dei culti antistregoneria. Jack Goody (1957) non accettò l’ipotesi secondo cui i nuovi culti avevano origine nel «malessere emotivo» indotto dai cambiamenti strutturali della società.6 5. Per quanto riguarda i territori francesi, il documento più interessante fu prodotto da Msgr Cessou, nel 1936. Egli fu amministratore della prefettura apostolica del Togo, dal 1923 e poi vicario apostolico Lomé fino al 1945. Il resoconto non si pose finalità interpretative né sottoscrisse alcuna prospettiva teorica. Si trattò semplicemente di un’accorata denuncia, di fronte a un fenomeno, che secondo Cessou, gli amministratori coloniali francesi continuavano a sottovalutare. Nel testo, Cessou fa riferimento diretto al Goro o Kunde o Goro vodu, quindi alla versione locale delle divinità provenienti dal Ghana. 6. Nonostante le critiche di cui sono facilmente oggetto i lavori prodotti tra le due guerre, essi riuscirono, pur nella loro dimensione sincronica, ad evidenziare alcuni caratteri importanti del fenomeno e soprattutto si dimostrarono sensibili alle difficoltà e ai disagi che la popolazione era costretta ad affrontare: dallo sradicamento dei sistemi politici locali, alla fatica del lavoro stagionale nelle piantagioni e nei distretti minerari, alla disgregazione delle unità lignatiche. Tra questi si vedano ad esempio i lavori di Margareth Field (1940, 1948) e Barbara Ward (1956).

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Cercò piuttosto di evidenziare come i movimenti di lotta alla stregoneria tra gli asante fossero la continuazione di una tradizione più antica e già viva in epoca precoloniale. Secondo Goody, ciò su cui bisognava puntare l’attenzione era il carattere regionale di tali culti, che obbligava a uscire dalla prospettiva sociologica classica, svincolando l’istituzione rituale dal gruppo sociale di appartenenza. Gli altari anti-stregoneria erano caratterizzati da una forte mobilità, dovuta non tanto alle diverse dinamiche dei tempi “moderni”, ma a una peculiarità delle religioni politeiste: la possibilità per una divinità di fallire e venire, conseguentemente, rifiutata e sostituita. La contestualizzazione storica del fenomeno, almeno per quanto riguarda la regione ashanti, è poi stata approfondita da altri studiosi,7 tra cui Emmanuel Terray (1979) e Thomas McCaskie (1981). Terray, che studiò il culto di Sakrabundi,8 (uno dei primi culti curativi e antistregoneria che si affacciarono nei territori ashanti, tra gli abron),9 mise in luce come il successo del culto fosse legato a un problema locale di controllo delle ordalie e non, come i culti successivi, al trauma coloniale – si diffuse infatti tra il 1850 e il 1888. I “nuovi” movimenti religiosi, non costituirono una novità radicale, frutto dell’impatto coloniale, dato che erano già parte dell’esperienza politica e religiosa di parte della popolazione. Furono «una specie di risposta, già pronta, da fornire alle prove che la comunità doveva attraversare» (Terray 1979:194) e che venne appunto riutilizzato in epoca coloniale. Secondo McCaskie (1981:134), tali culti furono «il prodotto di un ordine sociale che viene interrogato dai suoi stessi membri»; una sorta di critica sociale che richiedeva una certa stabilità e coerenza politica per potersi attuare. La Pax Britannica, creò le condizioni per una riflessione sulla realtà che lasciò spazio a considerazioni controverse e all’iniziativa individuale. Altre proposte si affiancarono ai culti antistregoneria per cercare di placare i timori sociali ed esistenziali: le chiese cristiane, i movimenti profetici e sincretici e un numero crescente di sette religiose. Gli uomini e 7. In tempi più recenti Natasha Gray (2001), William Olsen (2002) e John Parker (2004) hanno studiato in prospettiva storica il fenomeno, analizzando, come nel caso di Gray, le differenti attitudini dei poteri dell’epoca – religiosi e politici – nei confronti della pratica di antistregoneria. 8. Sakrobundi o Sakrabundi è una delle entità che oggi compongono il tron kpeto ve, con il nome di Sacrabori. 9. Gli abron sono una popolazione del gruppo akan, che fondarono nel XVIII secolo il regno del Gyaman. Il suo centro economico fu la città dyula di Bondoku, nell’attuale Costa d’Avorio.

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le donne si muovevano in questo universo di “offerte” spirituali e religiose, cercando risposte rassicuranti. La mercificazione della religione diventerà uno dei maggiori argomenti contro i culti antistregoneria, sostenuto in speciale modo dai loro principali antagonisti, le chiese cristiane. Essi rappresenteranno effettivamente un’opportunità d’imprenditoria individuale, dando spazio all’iniziativa di chi si dedicò alla diffusione e alla vendita dei culti, sia che si trattasse di cinici commercianti che di sinceri fedeli. I movimenti antistregoneria iniziarono a utilizzare il linguaggio dell’economia di mercato: divennero strumento di prestigio, di ricchezza e di competizione individuale. Furono un prodotto che cercò costantemente di rispondere e soddisfare alla domanda. La dimensione individuale che caratterizzò i culti, portava con sé due conseguenze intrinseche all’idea inglese d’individualismo: l’attività imprenditoriale dell’economia di mercato e l’idea di salvezza implicita nella dottrina cristiana. L’individualismo dissolveva i legami di lignaggio e di villaggio tipici del periodo precoloniale, aiutando la politica degli amministratori inglesi ed esacerbando i conflitti già esistenti all’interno delle dinamiche di lignaggio. La realtà sociale era però ben più complessa, dato che l’idea di «individualismo economico» era già presente in epoca precoloniale, come «un precedente represso ma evidente» (McCaskie 1981:136). La prospettiva storica ha consentito di comprendere che i culti antistregoneria non furono solo il prodotto del drammatico incontro tra “modernità” e “tradizione” ma il «riemergere di preoccupazioni antiche in nuova e mutata forma» (Bellagamba 2008:9). Parker (2004, 2005) e Allman (2005) hanno aggiunto una seconda importante dimensione agli studi sui culti antistregoneria: quella spaziale. I due autori hanno messo in luce come lo scambio rituale tra il nord e il sud dell’attuale Ghana, sia stato un processo biunivoco, capace di connettere popoli e culture per lungo tempo immaginati come totalmente isolati e collocati in uno spazio atemporale. La dialettica che i culti attivarono tra tendenze destrutturanti e tentativi strutturanti continuò a caratterizzarne la storia. A seconda dei contesti storici e geografici, essi acuirono i conflitti sociali, cercando di superare le formazioni tradizionali e fornendo uno strumento di potere a chi ne era escluso; d’altra parte furono anche il centro attorno a cui si coagularono nuove comunità, che si sovrapponevano a quelle già esistenti o le intersecavano, senza creare esplicite fratture sociali. Nonostante le implicazioni individualiste che i culti sottendevano e a cui davano voce, i leader furono capaci di intessere reti di relazioni, che si trasformarono anche in reti fa-

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miliari, la cui trama si estese nei tre paesi coinvolti nel fenomeno: Ghana, Togo e Bénin. Le sorti di queste formazioni sociali furono mutevoli così come alterni furono i risultati politici conseguiti dai leader. Di questi flussi che portarono a rotture, alleanze e continue ristrutturazioni resta oggi evidente il carattere collettivo delle vicende passate; le relazioni personali e familiari che attorno ai culti si costituirono. 2. Un protagonista contemporaneo: Monsieur Hilaire Dohou Nella storia del gorovodu le divinità della famiglia di Kunde convivono, nei ricordi e nei racconti degli adepti, con alcuni personaggi, eroi e imprenditori, che ebbero un ruolo fondamentale nella diffusione e nel successo del culto. Prima di addentrarmi nella ricostruzione della vita degli “eroi”, voglio però introdurre un importante protagonista dell’attuale storia del gorovodu e una persona fondamentale nel mio incontro con il culto: Monsieur Hilaire Dohou, sofo del tron kpeto ve. Quando lo incontrai nel 2005, Hilaire aveva poco più di settant’anni, ed era il figlio di “feu sofo Malomou Dohou”, uno dei primi sofo di Cotonou e del Bénin. Il santuario del padre, dove Hilaire si recava tutti i giorni, si trova a Godomey, un centro, un tempo separato da Cotonou ma oggi inglobato nella sua periferia. La storia della sua famiglia è emblematica delle dislocazioni e della mobilità di chi visse in questa regione costiera. La famiglia Dohou arrivò in Bénin da Abeokuta, nell’attuale Nigeria, nel 1851, durante il regno del re Ghezo. Il nonno fu fatto prigioniero della guerra che Ghezo combatté contro Abeokuta: I vincitori ti portavano qui e ti facevano perdere il cammino per farti dimenticare le tue origini: erano stati portati prima ad Abomey, poi a Ouidah e poi qui a Godomey. Il nonno era guaritore, aveva il vodu Lisa, aveva delle forze e il re utilizzava quelli come lui proprio per le loro capacità. Grazie alla sua forza non è stato né venduto come schiavo, né ucciso.10

La famiglia era quindi d’origine yoruba. Portarono con loro l’orisha Lisa,11 di cui la sorella del padre era sacerdotessa. L’altare di Lisa è ancora 10. Conversazione con Hilaire Dohou, Godomey, Cotonou, Bénin, 6 gennaio 2007 11. Lisa è un vodu parte della coppia Mawu-Lissa. Lisa viene anche chiamato Se o Segbo (grande se) ed è associato al sole e al destino (se) di ciascun individuo.

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presente nella casa di famiglia, a fianco dell’altare del gorovodu, di quello dedicato al culto dei gemelli (ibeji o venavi) e di quello consacrato agli antenati. Il gorovodu arrivò nella casa di Godomey, in seguito a un percorso emblematico, che accomuna la maggior parte degli attuali detentori del culto: Io sono al mondo solo grazie al gorovodu. Mio padre prese il vodu perché tutti i suoi figli morivano. Aveva messo al mondo due gemelli che stavano morendo anche loro, avevano una malattia per cui perdevano la pelle. Un giorno arrivò lo zio materno, che disse a mia madre: «ma come, ti sei sposata con questo uomo, che non riesce a mantenere in vita i tuoi figli, vieni via da qui, vieni da me». Mio padre aveva già fatto di tutto, ma nulla aveva funzionato, per cui partirono per Comé.12 È il villaggio originario di mia madre e lo zio aveva già installato il tron. Subito tutti hanno capito la forza della divinità. Allora mio padre l’ha voluto a casa, ma lo zio ha detto che prima bisognava ottenere tutte le autorizzazioni, di capi, bokono, etc. Mio padre in breve tempo le ottenne e con esse il tron. […] l’altare è stato installato nel 1941 da mio zio.13

Dopo la morte del padre, l’oracolo Fa decise che proprio Hilaire doveva succedergli e diventare sofo. Oggi nella famiglia, secondo Hilaire ci sono otto dissidenti, cioè otto persone che non hanno accettato il suo potere e hanno voluto installare, a loro volta, un altare del gorovodu: Sono stati 17 anni di lotte e contrasti, perché hanno fatto di tutto per ostacolarmi. Uno zio, il fratello di mio padre, pensava di essere il successore e mi è stato ostile per tutta la vita. […] Loro non capivano che quando Fa mi ha chiamato io ero a Cotonou che facevo il mio lavoro e non mi interessava guadagnare con il tron. E così ho continuato a lavorare a Cotonou, prima ero a Conakry e 18 anni fa sono andato in pensione. Ma anche dopo la pensione ho continuato a lavorare; fino a qualche anno fa andavo nei campi. Ho diverse terre dove pianto alberi da legna che bisogna controllare e curare…14

Hilaire aveva lavorato per trent’anni alla Shell Company che, dopo la nazionalizzazione effettuata dal regime marxista-leninista di Kérékou, divenne Sonacop; il suo impiego, che si svolgeva negli aeroporti, gli aveva 12. Comè è una località che si trova sulla strada tra Gran Popo e Ouidah, in Bénin. 13. Conversazione con Hilaire Dohou, Godomey, Cotonou, Bénin, 23 ottobre 2006. 14. Conversazione con Hilaire Dohou, Godomey, Cotonou, Bénin, 2 ottobre 2006.

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consentito di viaggiare. Oggi vive a Cotonou e si divide tra due abitazioni, in cui vivono le due mogli e le rispettive famiglie. A Godomey, le case, nuove e antiche, della famiglia Dohou occupano un ampio isolato. Il santuario è aperto e protetto solo da un portico, sulle cui pareti sono appese molte vecchie foto in bianco e nero, raffiguranti il padre e i visitatori importanti. Vi sono molte foto di Kodjo Kuma Anibra, il fondatore del tron kpeto ve, di Dohou padre con Kodjo Kuma, di Zigan Bibio, importante sofo di Aflao in Ghana, anch’esso già entrato nella storia del culto e del figlio di Kodjo Kuma, Kossi Jacob Anibra, l’ultimo discendente, secondo Hilaire, degno di stima. Hilaire era un uomo molto discreto e riservato, che negli anni aveva costruito la sua autorevolezza e il suo potere con tenacia e utilizzando, quella che lui definiva, la «strada della modestia». Era stato per anni presidente della “Comunité religieuse Lahori-Kounde du Bénin” (CO.RE.LA.KO.BE.), che raccoglie tutti i sofo del tron kpeto ve del Bénin, ma negli ultimi anni, in seguito a una vicenda molto controversa, era stato sostituito da un uomo più giovane, appartenente a un altro santuario storico, sempre a Cotonou. Quando giunsi da Hilaire nel 2005, fui accolta con diffidenza, nonostante il suo nome mi fosse stato fatto da un’importante e anziana sacerdotessa di Mami Wata di Cotonou. Ero accompagnata da un amico beninese che, istruito dalla sacerdotessa, aveva subito elogiato la sua posizione di supremazia nell’ambito del tron kpeto ve: «lei è l’unico da cui potevamo andare!». Hilaire a differenza di molti sofo non mi percepì come una possibilità di “guadagno”, ma piuttosto come una scocciatura. Nonostante ciò mi dedicò la sua attenzione e mi sottopose a una serie di domande per testare le mie conoscenze in materia. Superato l’esame, egli decise che mi avrebbe aiutato, dato che non c’erano molte persone desiderose d’indagare la “vera storia” del gorovodu. Grazie alle mie ricerche, mi disse, forse avrebbe potuto approfondire le sue conoscenze. Il nostro rapporto ha sempre mantenuto l’impronta del primo incontro, e ogni mia visita doveva iniziare con un resoconto di ciò che avevo “scoperto” o “imparato”, come appunto mi chiedeva Hilaire. Il processo di formazione, che lui aveva pensato per me, è stato molto simile a un’iniziazione. Incontri settimanali portati avanti per mesi, durante i quali, come per caso, tra mille parole, trapelavano aneddoti e informazioni, che prima sembravano circondati dal segreto. Poco a poco mi fece conoscere altre persone, «perché tu possa confrontare», e soprattutto mi portò a molte ce-

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rimonie da lui presiedute. Sovente era deluso dalle mie ricerche, poiché non riuscivo ad arrivare alla “sorgente” del culto: non riuscivo a dargli né i nomi né i luoghi da porre all’origine delle divinità che compongono il tron kpeto ve. Attraverso i suoi racconti, quelli di altri sofo e i documenti di archivio,15 cercherò di tracciare il percorso e le vicende delle prime persone che portarono le divinità in Togo e in Bénin. Seguirò due principali percorsi, il primo è più epico e vicino alla sfera mitica, il secondo tenta una ricostruzione storica, sulla base dei documenti d’archivio e dei racconti dei testimoni stessi. Le due prospettive si integrano, si compenetrano e spesso non sono separabili. In tal modo si può cercare di svelare le molte incorporazioni, ottenute mutuando pratiche e oggetti dalle religioni universali e dagli altri culti vodu, iscrivendosi strategicamente in un discorso di modernità o di tradizione secondo i contesti e le esigenze politiche contingenti. 3. Eroi e imprenditori Mama Seidou e Kodjo Kuma Anibra sono considerati in diversa misura i fondatori del tron kpeto ve. Il primo era originario del nord, ma non si hanno dati precisi sulla sua origine che si dissolve sovente nel mistero, mentre Kodjo Kuma era di Kpando e la sua storia è più facilmente ricostruibile. Mama Seidou è una figura importante anche nel tron kpeto deka ed è oggi considerato, sia in Bénin che in Togo, all’origine del gorovodu, nei suoi due ordini. A questi si può affiancare Togneviadzi, che fu il primo a diffondere il tron kpeto deka in Togo e in Bénin. Di seguito, attraverso le testimonianze orali e i pochi documenti d’archivio esistenti, si delineeranno le relazioni, le alleanze e i conflitti che unirono e contrapposero quegli uomini. Mama Seidou Chi fu Mama Seidou, come ottenne le divinità e soprattutto come raggiunse la sua posizione? Difficile rispondere a queste domande poiché i dati d’archivio che lo riguardano sono pochissimi e anche i ricordi dei discendenti di chi lo incontrò riaffiorano nubulosi. Proprio il mistero che 15. In particolare i documenti conservati in NAG, CSO 21/10/4 Kunde Fetish.

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lo circonda ha contribuito a renderlo una figura mitica. Per alcuni è un mistero da alimentare con cautela, di cui parlare con la medesima precauzione con cui si citano i vodu. Differenti sono gli atteggiamenti assunti dai sacerdoti del culto: desiderio di appropriazione storica, costruzione di una mitologia di fondazione che affondi le sue origini in un passato remoto e in uno spazio distante oppure accettazione del mistero in quanto tale. Mama Seidou nacque probabilmente negli ultimi anni dell’Ottocento. Come ogni eroe ebbe un’esistenza tragica, perse tutta la famiglia, venne sradicato dalla sua terra e di conseguenza iniziò a viaggiare. Fu un uomo costretto a vivere in solitudine ma sempre con il sostegno delle persone che incontrava lungo il suo percorso. Morì ancora giovane, dopo aver diffuso e condiviso il suo sapere con le persone che incontrò. Secondo altre narrazioni, la sua esistenza fu funzionale al palesarsi di un nuovo vodu, egli fu dunque una figura di transizione tra visibile e invisibile, che si mosse nella dimensione spaziale e in quella temporale con estrema libertà. Incontrò e sconfisse molti nemici e il suo movimento gli consentì di fondare un nuovo ordine religioso. Il suo nome appare, solo citato, in alcuni documenti d’archivio della Gold Coast, mentre da un articolo di giornale, si legge che la decisione di Kodjo Kuma di porre fine a Kunde «seguiva la morte, nell’ottobre del 1939, di Mama Seidu di Dagati, che gli diede Kunde e lo rese prete del culto».16 Secondo Hilaire, che non conobbe direttamente Mama Seidou: […] era un militare dell’esercito britannico. Era un lobi, un po’ chiaro di pelle e con una cicatrice sulla guancia sinistra. […] Viveva in un villaggio che è scomparso, sommerso dalle acque, in seguito alla costruzione della diga di Akosombo sul Volta. Gli abitanti del villaggio in seguito all’alluvione della valle andarono nel deserto ad Asender, altri in Mali, in Guinea e in Nigeria. Per questo motivo non si sa più nulla della sua famiglia.17

Hilaire, come tutte le persone del gorovodu, lo definiva oltre che lobi, “hausa”, cioè un musulmano. Per la gente della costa, gli hausa non sono un gruppo etnico definito, quanto piuttosto una categoria semantica all’interno della quale inserire tutte le persone di fede islamica. Secondo Hilaire, egli soggiornò ad Aflao,18 nell’attuale Ghana, nella casa di Zigan, per qualche mese. Il figlio di Zigan, Bibio Koussiga, mi raccontò di come il 16. NAG, CSO 21/10/4 Kunde Fetish, The spectator daily, gennaio 1942. 17. Conversazione con Hilaire Dohou, Godomey, Cotonou, Bénin, 30 ottobre 2005. 18. Aflao è una cittadina che si trova oggi alla frontiera ghanese con il Togo.

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padre partì in direzione di Kpando per cercare il vodu e di come conobbe Mama Seidou: All’epoca (quando suo padre arrivo a Kpando per cercare Kunde), Mama Seidou era vivo e abitava a Kratchi Dokuma. Dopo la partenza di mio padre da Kpando, Mama Seidou con sua moglie Amina arrivò a Kpando e Kodjo Kuma gli disse che avevano un nuovo figlio. Mama Seidou disse che avrebbe voluto conoscerlo e così si organizzarono per venire ad Aflao a salutare mio padre e vedere come andavano le cose. Un anno dopo però Mama Seidou morì. Quando Mama Seidou arrivò qui, insegnò a mio padre molte cose […]. Mio padre decise di portare Mama Seidou dal chief di Aflao. Mama Seidou era forte, alto e muscoloso e bastava guardare la sua faccia per capire che aveva molto potere. In quei giorni gli stregoni di Aflao ebbero molti problemi, perché se tu eri stregone bastava che lui ti stringesse la mano ed eri finito. A causa di ciò, tanti di loro andarono dal chief a chiedere che facesse qualcosa, in modo che Mama Seidou se ne andasse, li lasciasse in pace o almeno diminuisse i suoi poteri. Mama Seidou e sua moglie Amina rimasero un mese e per lui, Kodjo Kuma e Zigan erano come due figli gemelli. Mio padre, dopo la morte di Mama Seidou, fu testimone di un miracolo. Zigan (il padre) era qui, quando arrivò un vecchio hausa con un sacco in mano. Si salutarono e gli chiesero se voleva qualche cosa da bere, e lui rispose si, ma niente di forte. Il papà si alzò per andare a prendere delle bibite all’interno della casa e l’hausa gli disse: «prima ti do il sacco, che qualcuno mi ha detto di portarti». Quando tornò con la bibita non c’era più nessuno, chiese a quelli della casa ma gli dissero che non avevano visto nessuno né entrare né uscire. Decise quindi di guardare nel sacco e c’era un’adeu,19 continuò a cercare il vecchio, ma poi capì che era uno spirito, lo spirito di Mama Seidou che era arrivato con una nuova fisionomia per regalargli una nuova forza. Lo raccontò a Kodjo Kuma, che anche lui voleva questa nuova forza, ma mio padre si rifiutò di dargliela, dato che era un regalo di Mama Seidou […].20

Il miracolo di cui parlava Bibio Koussiga, divenne un momento fondamentale della consolidazione del potere del padre, un tentativo di accumulare capitale simbolico e di eguagliare i poteri di Kodjo Kuma, da cui aveva avuto il culto e al quale era quindi subordinato. Grazie all’adeu, cioè la giacca da cacciatore che era appartenuta a Mama Seidou, Zigan 19. È il nome dato alle giacche indossate dai cacciatori. Si tratta di un oggetto carico di potere mistico e forza simbolica per i fedeli del gorovodu. 20. Conversazione con Bibio Koussiga, Aflao, Ghana, 18 ottobre 2006.

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cercava di rivendicare un potere a tutti gli altri sconosciuto e di acquisire maggiore potere all’interno della rete che legava i detentori e fedeli del tron kpeto ve. Bibio Koussiga raccontava che quella fu l’ultima apparizione dello spirito di Mama Seidou, affermazione che non tutti oggi condividono. Hilaire mi confessò di rimpiangere di non aver posto, quando era giovane, più domande a Kodjo Kuma sulla storia e sulla vita di Mama Seidou. Aldilà di una sincera curiosità nei confronti di una persona così importante, una maggiore conoscenza di dettagli, gli avrebbe consentito di smentire chi inventava e diffondeva “storie”, a suo parere, fasulle. Kodjo Kuma Anibra La prima persona a cui Mama Seidou diede il vodu fu proprio Kodjo Kuma Anibra, la cui foto è presente in ogni santuario del tron kpeto ve in Togo e Bénin. Kodjo Kuma è un “personaggio” con un profilo storico più chiaro, sia perché molti di quelli che lo conobbero sono ancora in vita, sia perché il suo nome compare più spesso nei documenti d’archivio. Di lui si conosce la casa, la famiglia e i figli, ma le sue vicende sono comunque costellate di racconti controversi che possiamo supporre, con il passare degli anni, diventeranno sempre più vaghi e aperti alle elaborazioni e ricostruzioni dei fedeli. La sua figura ha oggi già raggiunto uno statuto prossimo a quello di una divinità, per cui gli avvenimenti della sua vita si sono caricati di mistero e di episodi miracolosi, a prova del suo potere sovrannaturale. Le differenti versioni sono abbastanza omogenee, ma le sfumature arricchiscono il panorama immaginifico e le appropriazioni personali del culto, come sovente accade in quest’area culturale, dove le nozioni di antenato, eroe e divinità si confondono nel corso del tempo. Nel 1916, Kodjo Kuma iniziò la pratica del culto, almeno secondo il già citato articolo del The spectator daily. Nelle foto appare come un uomo robusto, con un volto tondo segnato da una barba che si divide in due lunghi pennacchi. Agbassi Agbeko, una settantenne e una delle poche sofo donna che ottenne il tron da Zigan, mi raccontò: Kodjo Kuma era un autista che viaggiava molto per il paese e lungo la strada conobbe Mama Seidou. In questo modo fecero amicizia e anche Kodjo Kuma iniziò a interessarsi al vodu e a imparare da Mama Seidou. Iniziarono a lavorare assieme e intanto Mama Seidou gli raccontava di come lo aveva trovato

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e di cosa gli aveva detto. Ma sfortunatamente Mama Seidou morì presto; ha lasciato Kodjo Kuma solo e il vodu è rimasto a lui.21

Anche secondo Hilaire Dohou, Kodjo Kuma era stato un autista, ma anche un contadino. Attorno alla sua identità di contadino, Hilaire aveva costruito una mitologia morale, fatta di modestia e duro lavoro. Egli raccontava di come le sue mani fossero deformate dall’uso della zappa, proprio a dimostrazione della sua umiltà e soprattutto a testimonianza del fatto che, un tempo, il denaro si otteneva con il lavoro e non attraverso lo sfruttamento economico della religione. Kodjo Kuma, sempre secondo Hilaire, apparteneva alla famiglia reale di Kpando. La famiglia andò al nord a cercare Kunde, quando Kodjo Kuma era ancora bambino, perché aveva dei problemi a «conservare la sovranità»: chi veniva intronizzato moriva regolarmente dopo tre anni. Secondo l’opinione condivisa dalla maggior parte dei sofo, egli divenne responsabile del culto in giovane età e per volontà della divinità stessa. Sofo Bibio Koussiga, figlio di Zigan, raccontava che quando suo padre arrivò a Kpando, in cerca del vodu: gli mostrarono la casa, lui entrò e vide che c’erano dei saggi riuniti. Era un gruppo familiare, anche loro erano precedentemente partiti verso Kratchi Dukuma perché avevano un problema da risolvere. […] Per scoprire chi sarebbe stato scelto dal vodu, per diventare sacerdote, bisognava uccidere un piccolo pollo e lanciarlo. Stavano facendo ciò per tutte le persone presenti, ma il vodu non accettava nessuno. All’epoca Kodjo Kuma era praticamente un bambino […] l’ultimo pollo a disposizione decisero di provarlo su di lui, dato che non avevano alternative e Kodjo Kuma fu subito scelto.22

La vita di Kodjo Kuma fu profondamente segnata dall’incontro con queste divinità; egli viaggiò, lasciò il suo villaggio d’origine e negli anni si trasformò in un imprenditore religioso. Msgr Cessou scriveva: Nel novembre del 1934 un capo del Goro, il famoso Kodjo-Kuma fu arrestato per truffa dall’Amministratore aggiunto di Lomé. Kodjo-Kuma era venuto dal Togo inglese per visitare i centri Goro installati nel territorio francese e anche quelli in formazione nel Dahomey. Denunciato dal capo di un Goro rivale, fu sorpreso in fragranza di truffa. Egli confessò di aver già raccolto “L.4.10.0.” Fu condannato dal Tribunale a dieci giorni di prigione e a 200 franchi di multa, e doveva, alla fine della sua pena, essere rinviato nei territori della Gold Coast, come indesiderabile (1936:40). 21. Conversazione con Agbassi Agbeko, Keghe Lomé, 7 settembre 2006. 22. Conversazione con Bibio Koussiga, Aflao, Ghana, 18 ottobre 2006.

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Kodjo Kuma venne quasi subito liberato e ottenne un lasciapassare per il Dahomey, grazie all’intervento di alcuni notabili locali e del giornalista Blaise Quassi, direttore del Courrier du Golfe du Bénin. Come testimonia l’articolo allegato da Cessou al suo resoconto, il giornalista scrisse una lettera all’Amministratore aggiunto di Lomé per testimoniare la buona fede delle persone incriminate a Lomé. Kodjo Kuma, con altri preti del Goro, tra cui Sossou Klou, avevano ottenuto, dopo la liberazione, un lasciapassare e «intrapreso un viaggio di propaganda, di riforma e di riorganizzazione che li ha portati fino a Cotonou. Essi hanno avuto cura di visitare le loro piccole cappelle installate sia in Togo che nel Basso Dahomey (Cotonou)» (B. Quassi, in Cessou 1936:244). A metà degli anni Trenta, Kodjo Kuma era famoso nei tre paesi, anche se probabilmente viveva in uno stato di continua incertezza e precarietà, date le tensioni con le autorità coloniali inglesi e francesi, con i capi degli altri vodu e con i suoi stessi adepti e affiliati. Egli doveva controllare e uniformare i santuari che si stavano diffondendo nella regione e soprattutto cercare di contrastare chi voleva sostituirsi a lui nella gestione e diffusione del culto. Cessou allegava al suo scritto anche un documento che Kodjo Kuma scrisse a Lomé e diffuse tra i suoi pupilles, dove fissava i punti fondamentali che i “figli” del culto dovevano rispettare al fine di ottenere una “certificazione” di pratica legittima. Delegava Sanvi Magnon di Kovié Woumé a esercitare un controllo sulle persone «in stato di vagabondaggio e senza risorse che vengono dalla Gold Coast sotto il falso nome del culto Kunde… e allo stesso tempo un controllo per evitare i malintesi che possono sorgere tra i miei figli e i colleghi» (1936:243). Era necessario anche accentrare il potere che l’eccessiva diffusione del culto poteva allentare e quindi aggiungeva: Io, Kodjo Kuma, fondatore, tanto nella Gold Coast che in Togo, […] dichiaro che i miei figli mi devono innanzitutto rispettare e obbedire […] e ciascuno di loro deve conformarsi ai regolamenti e agli ordini imposti dal loro capo cantone o capo villaggio o dall’Amministrazione stessa (ibidem).

Lo spirito imprenditoriale emergeva dalle sue parole, che non si concentravano tanto su aspetti spirituali, quanto su quelli organizzativi e autorizzativi; egli infatti chiedeva solamente ai suoi figli di: «…dirigere con coscienza professionale le preghiere e le opere durante la detta adorazione del culto Kunde». L’intento di Kodjo Kuma era politico ed egli si faceva promulgatore di una serie di pratiche burocratiche che ancora oggi caratterizzano il culto,

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per placare i timori degli amministratori coloniali. Nel caso in cui i detentori del gorovodu non avessero rispettato le regole minime, il certificato sarebbe stato annullato. Prima di organizzare riunioni o feste, dovevano dimostrare di averne motivo e quindi ottenere l’autorizzazione; la loro collaborazione con l’amministrazione doveva spingersi fino alla delazione; dovevano denunciare tutti i delinquenti che si muovevano all’interno del culto e di cui si veniva a conoscenza. Kodjo Kuma in quegli anni cercava di mantenere un “basso profilo” e di convincere l’amministrazione coloniale della limpidezza del culto, proprio enfatizzandone l’efficienza e l’organizzazione burocratica. Cessou, diffidente nei confronti di quest’uomo che riteneva semplicemente un bandito, ricordava, ma senza portare alcuna documentazione, che Kodjo Kuma era arrivato in Togo dopo essere stato costretto ad abbandonare la colonia inglese. La sua fuga viene oggi confermata dai sofo, con spiegazioni differenti ma che lasciano intravedere l’esistenza di un problema di ordine politico. Secondo Agbassi Agbeko, Kodjo Kuma fu costretto a scappare da Kpando, poiché la sua vita era in pericolo: Effettivamente Kodjo Kuma aveva avuto dei problemi a Kpando. Lo volevano nominare capo, ma c’erano dei contrasti nella famiglia, delle lotte per le cariche. C’era anche un altro fratello che la voleva. Kodjo Kuma aveva capito che se fosse restato lì, lo avrebbero ucciso. Per tale motivo era andato da Zigan ed era rimasto un po’ con lui. Poi Zigan lo portò a Godomé (quartiere di Lomé) da suo nipote. Dato che anche il nipote era veramente contento del vodu, gli disse: «poiché hai dei problemi, puoi restare qui, ti do il terreno, una casa e puoi trasferirti qui». Kodjo Kuma accettò. Non dimenticò mai il suo paese e ogni tanto tornava a casa, perché c’era il suo santuario e andava a fare delle cerimonie. Quando capì che la morte si stava avvicinando, se ne tornò a Kpando a morire.23

Kodjo Kuma si trasferì a Lomé, nel quartiere di Godomé, dove ancora oggi vi è il santuario in cui praticò il culto durante il soggiorno togolese. Qui fu da principio ospitato, ma poi comprò il terreno e si costruì la casa. Sofo Gbedepe III di Avekpozo, località costiera a pochi chilometri da Lomé, aggiungeva alla medesima versione un dettaglio, da nessun altro confermato, ma che mette in luce un tema che ricorre nelle accuse contro il tron kpeto ve: l’uso per scopi cerimoniali di teschi umani. In questa ver23. Conversazione con Agbassi Agbeko, Keghe, Lomé, 7 settembre 2006.

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sione si evidenzia la correttezza dell’uomo che, pur di non infrangere le regole del suo vodu, rinunciò alla sua carica di capo: Kodjo Kuma apparteneva a una famiglia reale, suo padre era il re. Quando il padre morì si cercò il sostituto e la famiglia scelse proprio Kodjo Kuma. All’epoca, nel momento dell’intronizzazione di un nuovo re era necessario uccidere un uomo, perché il nuovo re doveva camminare su un cranio umano. Kodjo Kuma aveva già il vodu, che era contrario ai sacrifici umani. Allora se avesse accettato di diventare re avrebbe dovuto andare contro la sua religione. Si rifiutò, ma un uomo designato re non può rifiutare, non si aveva diritto di scegliere, o accetti o ti uccidono, se no la famiglia perde il suo onore. Kodjo Kuma sapeva che lo avrebbero ucciso e quindi, aiutato da un familiare scappò durante la notte da Kpando e si rifugiò a Lomé.24

Hilaire Dohou sosteneva invece che Kodjo Kuma se ne andò da Kpando, negli anni Cinquanta, a causa di problemi politici con il CPP (Convention People’s Party), il partito del presidente Nkrumah: Kodjo Kuma fu costretto ad andarsene dalla Gold Coast a causa del CPP. Era un uomo troppo potente spiritualmente, faceva troppi miracoli e per tale motivo volevano liberarsi di lui. Il capo del quartiere diede l’ordine di sparargli direttamente. Molte volte erano andati a casa sua per prenderlo, ma non erano mai riusciti, perché lui scompariva e si trasformava ogni volta in un animale diverso: leone, caimano […] Un giorno, mentre Kodjo Kuma stava tornando dai campi venne colpito dai cacciatori, “tiratori scelti”, e cadde a terra, morto. Il capo quartiere, non avendo fiducia, chiese che gli fosse portata la testa di Kodjo Kuma; i cacciatori tornarono sul luogo e scoprirono che in realtà avevano ucciso un altro uomo. Kodjo Kuma tornò a casa e si mise a suonare il brekete e intonò una canzona che recitava: «il cacciatore ha tirato sul termitaio e dice di aver ucciso il bue». In seguito a questo avvenimento si decise che era meglio che Kodjo Kuma si trasferisse in Togo e infatti andò a vivere a Lomè. Lasciando Kpando, lasciò Kunde e affidò tutti suoi poteri a Kossi Ndedjita, morto due anni fa e nativo di Togoville (in realtà di Akumape, un villaggio non lontano da Togoville).25

Il CPP era il partito, fondato nel 1948, di Nkrumah, futuro presidente del Ghana indipendente. Nel 1948 Nkrumah visitò per la prima volta Peki, una città poco distante da Kpando, per diffondere tra la gente e i capi tradizionali i suoi ideali politici. Nkrumah ottenne il sostegno di alcuni 24. Conversazione con Gbedepe III, Avekpozo, Baguida, Togo, 17 ottobre 2006. 25. Conversazione con Hilaire Dohou, Godomey, Cotonou, Bénin, 14 dicembre 2005.

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giovani istruiti, ma non ancora benestanti, mentre le autorità tradizionali e l’élite cristiana non si dimostrarono affatto sensibili e favorevoli alle sue idee e alla prospettiva della fine dell’era coloniale. I primi temevano che la democrazia avrebbe portato all’indebolimento della loro autorità, mentre i secondi osteggiavano l’enfasi che il CCP poneva sulla cultura e religione africana, che avrebbe potuto indebolire le convinzioni dei nuovi, e più deboli, membri della chiesa cristiana (Greene 1999). Possiamo quindi supporre che le tensioni politiche coinvolsero anche un personaggio influente come Kodjo Kuma, anche se egli se andò da Kpando in direzione di Lomé, prima che il CPP raggiungesse il potere, quindi più probabilmente per problemi con l’amministrazione coloniale o con alcuni componenti della sua famiglia. È ora necessario introdurre un altro protagonista della storia del gorovodu, la cui vita in parte s’interseca con quella di Kodjo Kuma. Si tratta di Togneviadzi, che a sua volta ci ricondurrà a Adja Kwesi, anch’egli come Mama Seidou, confuso nella foschia della leggenda. Togneviadzi Togneviadzi è l’uomo che diffuse in Togo Kunde nella forma semplice (tron kpeto deka). Gli attuali altari del tron kpeto deka sono stati installati da Togneviadzi direttamente o attraverso una serie più o meno complessa di passaggi oppure da Goka, un’altra importante figura nel culto, che ottenne Kunde direttamente da Togneviadzi, ma ben presto se ne staccò, modificandone parte della pratica. Potremmo definire Togneviadzi, nell’attuale panorama del culto, un eroe in crisi. Egli è ricordato, in Togo e in Bénin, come il padre fondatore, ma non ha acquisito un’aura né mitica né pervasa di mistero. Due possono essere i motivi: innanzitutto la vicinanza geografica che implica una totale mancanza d’esotismo – tutti conoscono, o possono conoscere, il suo villaggio e la sua casa – e, in secondo luogo, la povertà del suo tempio che non sembra, per la semplicità della struttura e la mancanza di fedeli, essere all’altezza della fama del fondatore. La famiglia Togneviadzi vive a Zowla, un villaggio che si affaccia sul Lago Togo, non lontano dal confine con il Bénin. La casa si trova di fianco al santuario, un piccolo tempio, poco curato, che guarda verso il lago e sui cui muri è segnata la data 28 dicembre 1914, quale giorno dell’installazione. All’ingresso del paese, nel cimitero, vi è la sua tomba, che riporta

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1843-1963, come ipotetiche, ma poco credibili, date di nascita e di morte. Nella casa incontrai uno dei figli più giovani, Kouassi Foli Togneviadzi, il quale mi raccontò parte della storia del padre: dopo essersi sposato, mio padre non riusciva ad avere figli. Un giorno disse: «non può andare avanti così». Allora lasciò la famiglia e incominciò a viaggiare. Passò sei mesi in viaggio, girando per cercare una soluzione. Dopo sei mesi tornò, portò le noci di cola e disse: «ecco cosa ho trovato». A partite dal suo ritorno, sua moglie iniziò a mettere al mondo dei bambini che riuscivano a sopravvivere; è solo grazie al gorovodu se ora tutti noi siamo in vita. In quel periodo c’era tanta stregoneria nel villaggio. Dall’arrivo del vodu, la stregoneria si fermò nella regione e si può dire che, in tutto il Togo, laddove c’è gorovodu, la stregoneria si è fermata, perché è un vodu contro la stregoneria.26

Le testimonianze degli attuali houno di kpeto deka sono abbastanza concordi nel riconoscere Togneviadzi come colui che, per primo, andò in Ghana alla ricerca del vodu e che poi lo installò in Togo. Come molti houno sostengono, lo ottenne da Adjakoussi o Adja Kwesi. In un documento redatto dal “Secretary for native affairs”27 si parla di Adja Kwesi di Ahamensu nel distretto di Buem,28 come colui che riattivò Kunde, dopo che per qualche anno scomparve dal distretto di Kete-Krachi, in seguito all’intervento tedesco. Interrogato, Adja Kwesi ammetteva di aver nuovamente scoperto Kunde e di averlo installato a “Tornyeviadzi” e a suo fratello Tetevi in un villaggio vicino a Lomé. Egli diede il feticcio anche a Mensah Hiator, nativo di Adina, vicino a Keta, che divenne il capo dei sacerdoti di questa regione. Secondo le testimonianze raccolte nel documento nel 1925 alcuni pescatori partiti per il Togoland si avvicinarono al culto e lo portarono in un secondo tempo nel Keta District, dove però non ebbe molto successo. Fu solo grazie a Mensah Hiator se Kunde, verso la fine degli anni Trenta, si diffuse tra gli anlo. Molto probabilmente Togneviadzi portò Kunde in Togo durante l’occupazione tedesca poiché, a parte la data di installazione, diversi racconti fanno riferimento alle difficoltà che egli ebbe con l’amministrazione tedesca. 26. Conversazione con Kouassi Foli Togneviadzi, Zowla, Togo, 23 settembre 2005 27. NAG, CSO 21/10/4 Kunde Fetish, The secretary for native affairs, 27 maggio 1939. 28. Si trova nel Volta Region, al confine con il Togo, a circa 150 chilometri dalla costa.

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Secondo Cosme, houno di kpeto deka di Porto Novo: Kunde arrivò in Togo grazie a Togneviadji, il quale si era rifugiato in Ghana, perché era perseguitato dai tedeschi, che lo volevano imprigionare. Togneviadji era disperato, perché voleva ritornare in Togo, dalla sua famiglia e ai suoi affari. L’incontro con Adjakoussi fu risolutivo. Egli gli disse che doveva tornare a casa e che nulla gli sarebbe successo. Togneviadji era incredulo e diceva che sarebbe dovuto tornare armato per difendersi e non era ciò che voleva, perché desiderava solo stare in pace. Adjakoussi gli disse che grazie al tron, sarebbe tornato nel suo paese e sarebbe stato in armonia e in pace con tutti. Egli quindi si decise a far ritorno ed effettivamente i tedeschi non lo minacciarono più, anzi diventarono amichevoli. Capita la forza del tron, egli lo installò in Togo e da lì iniziò a diffondersi nel paese, fino a giungere in Bénin.29

Anche il figlio di Togneviadzi ricordava le difficoltà del padre con l’amministrazione tedesca, ma secondo un’altra versione dei fatti: Nel periodo dei tedeschi, c’erano dei problemi qui da noi, avevano infatti vietato il gorovodu nella regione. La gente, che praticava la stregoneria, era contraria a questo vodu. In quel momento c’erano molti neri che lavoravano nell’amministrazione, e questi neri, per fare quel lavoro, utilizzavano la stregoneria. Non era un lavoro che avevano guadagnato così semplicemente, ma solo grazie alla stregoneria […]. Questi impiegati che lavoravano con i tedeschi, quando il vodu arrivò, persero la loro forza, allora anche i tedeschi non li vollero più, perché ormai erano deboli e molti persero il lavoro. Alcuni tra questi si arrabbiarono e vennero qui a lamentarsi, a chiedere cosa stavamo facendo […] che dovevamo lasciar perdere questo vodu. Ma noi dicemmo di no. Allora gli impiegati andarono dai tedeschi e iniziarono a parlare male di mio padre, a dire che uccideva la gente del villaggio. Bisognava scacciare il féticheur con il suo “feticcio” o impedirgli di sfruttarlo perché stava uccidendo troppa gente. I tedeschi chiesero: «perché uccidono la gente?» Loro risposero che mio padre lavorava con la stregoneria, ma i tedeschi dissero che alla stregoneria, se non avevano delle prove, loro non ci credevano. Comunque o lui lasciava il feticcio, o lasciava la regione, o lasciava in pace la gente; insomma in quel momento ebbe un po’ di problemi. Nonostante la pressione, mio padre continuò il suo lavoro. Restò nel villaggio, ma dovette lasciare in pace le persone che lavoravano con i tedeschi, liberi di lavorare con la stregoneria […]. 29. Conversazione con Cosme Houndekon, Porto Novo, Bénin, 22 luglio 2005.

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Gli altri che lavoravano con la stregoneria, ma non con i tedeschi, lasciarono la regione, perché sapevano che se no un giorno sarebbero stati costretti ad ammettere i loro segreti.30 Ma quelli che lavoravano con i tedeschi li lasciò tranquilli… e anche loro fecero lavorare mio padre in pace.31

Nonostante alcune iniziali difficoltà, Togneviadji, come emerge dal racconto del figlio, trovò un compromesso con le autorità coloniali, che gli consentirono di installare moltissimi altari e di viaggiare, soprattutto verso il Bénin, il suo paese d’origine. Il suo ritratto è presente nella maggior parte dei santuari beninesi e nella Maison Acakpo a Ouidah, uno dei templi più importanti della città, alla parete del tempio, c’è una sua foto in bianco e nero, consumata dal tempo. La testimonianza di Hilaire conferma la forte rivalità tra Togneviadzi e Kodjo Kuma, che portò anche all’incarcerazione di Kodjo Kuma, causata proprio da una denuncia del suo rivale. Probabilmente si trattò dello stesso avvenimento registrato da Cessou. Esisteva uno sbilanciamento di poteri mistici tra i due, dato che Kodjo Kuma, oltre a possedere Kunde, aveva anche la “moglie” Aberewa e negli anni aveva aggiunto altre quattro divinità; ma Togneviadzi era più anziano ed era entrato in possesso di Kunde sicuramente prima di Kodjo Kuma. Hilaire sosteneva che entrambi avessero avuto Kunde direttamente da Mama Seidou ma, mentre Kodjo Kuma andava «ogni tre anni» da questi per portare le offerte e fare i sacrifici necessari, Togneviadzi si rifiutava, sostenendo di non avere adepti e quindi soldi, dato che il “feticcio” non funzionava. Hilaire, teso a dimostrare la supremazia morale del suo ordine vodu, raccontava che un giorno Mama Seidou arrivò a Zowla e scoprì che invece Kunde lavorava molto bene, avendo addirittura consentito a un cacciatore di abbattere cento elefanti. Mama Seidou si rese così conto che Togneviadzi voleva solamente arricchirsi e decise di non dargli alcun potere aggiuntivo. Diversi anni dopo la morte di Mama Seidou, sempre secondo il racconto di Hilaire, Kodjo Kuma gli propose di porre fine alla rivalità che si era acuita negli anni e si offerse di svelargli i segreti delle altre divinità che componevano il kpeto ve. Ma Togneviadzi non accettò, probabilmente «per orgoglio e per egoismo». Egli non voleva infatti sottomettersi ad 30. Si racconta che chi è in possesso della stregoneria, se entra in una casa dove vi sia il gorovodu, o anche se passa nelle sue vicinanze, sarà spinto ad entrare, a confessare al vodu tutti i suoi segreti e quindi ad abbandonarli per sempre. 31. Conversazione con Kouassi Foli Togneviadzi, Zowla, Togo, 23 settembre 2005.

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un’altra persona, dato che lui stesso era divenuto un punto di riferimento importante, avendo già installato Kunde in tutta la regione. La presenza di Kodjo Kuma in Togo era però troppo fastidiosa, per cui un giorno Togneviadzi lo fece arrestare, accusandolo di essere una persona pericolosa, «un diavolo dato che le pallottole non riuscivano a entrare nel suo corpo». Il racconto di Hilaire continuava con i prodigi e i miracoli, avvenuti durante la prigionia di Kodjo Kuma ad Aneho: il colono, che come tutti i coloni all’epoca, non si faceva tanti scrupoli, gli sparò, e constatò che effettivamente l’uomo non moriva. Il colono decise di costruire una casa senza finestre, di coprire il soffitto e rinchiudere Kodjo Kuma all’interno, nel centro della città. Kodjo Kuma resistette all’interno, senz’aria, per sette giorni, poi il venerdì, stufo, invocò Banguele, dicendo: «devo uscire» e con la testa spaccò la costruzione e se ne andò.32

I due rivali probabilmente, già all’epoca, si disputavano la supremazia sulla base dell’aderenza alla tradizione. Hilaire raccontava di un incontro che si era svolto a Zowla, il villaggio di Togneviadzi, tra Kodjo Kuma e Mamadou, un hausa della famiglia di Mama Seidou e anch’egli conoscitore dei segreti del tron: Un giorno Togneviadzi disse a Mamadou che a casa sua, a Zowla, c’era un uomo che pretendeva di aver conosciuto Mama Seidou e di possedere i suoi segreti. Mamadou, che viveva a Aflao, partì per vedere chi era l’impostore; arrivò a Zowla e incontrò Kodjo Kuma e qui iniziarono a sfidarsi e a mettere in gioco le proprie forze. Uno si trasformava in leone e l’altro in caimano, uno in leopardo e l’altro in pantera… Mamadou capì che l’altro era potente e che effettivamente aveva conosciuto Mama Seidou.33

Nella vita di Togneviadzi vi fu un altro rivale, ancora più duro da affrontare, dato che la disputa avveniva sul medesimo terreno. Si trattava di Goka, un uomo di Lomé, che al pari di Togneviadzi contribuì a diffondere Kunde in Togo e in Bénin. Durante il nostro incontro chiesi al figlio di Togneviadzi di raccontarmi i motivi che portarono Goka34 a separarsi da suo padre e ad aggiungere 32. Hilaire a testimonianza di questo avvenimento mi mostrò la foto di Kodjo Kuma che effettivamente aveva un bozzo abbastanza grande sulla fronte. Godomey, 14 dicembre 2005. 33. Conversazione con Hilaire Dohou, Godomey, Cotonou, Bénin, 14 dicembre 2005. 34. Il tempio di Goka si trova ancora oggi a Lomè, nel quartiere Bè, ed è gestito da un suo discendente, Goka III.

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un ulteriore potere, il “tron Ta” al suo altare di Kunde. La rivalità, raccontò il figlio, iniziò all’epoca del padre di Goka, Audja, il quale aveva un vodu che lavorava con le noci di cola, ma non era Kunde. Egli era geloso di Togneviadzi e quindi lo diffamava, denigrandone i poteri. Un giorno il figlio di Audja, Beklu, andò a lavorare in campagna e fu morso da un serpente. Nessuno riusciva a curarlo, né il vodu del padre, né gli erboristi a cui disperati si rivolgevano. Togneviadzi si trovava in una casa vicino a quella della famiglia Goka per celebrare una festa, e la gente consigliò a Goka di portare lì il figlio: Lui diceva: «voi credete che io possa andare da lui e lui possa accettare di guarire mio figlio, dopo che l’ho insultato? Non gli porto mio figlio». Ma la malattia si aggravava e allora decise di andare a vedere Togneviadzi. E questi gli disse: «che c’è?». «È mio figlio che ha dei problemi e lo porto perché tu lo guarisca». «Proprio tu vieni qui, dopo che mi hai insultato e trattato come una nullità. Il mio vodu è fatto per guarire, non per fare del male. Io guarirò tuo figlio a una condizione, che egli accetti di divenire fedele di questo vodu, di adorarlo, dopo che sarà guarito. Se tu sei d’accordo lo posso guarire». Il padre accettò e Togneviadzi lo guarì dalla malattia; poi divenne adepto e Togneviadzi gli installò il vodu. Anche il padre poi, quando vide che il vodu aveva salvato suo figlio si decise ad adorarlo e a prenderlo. In quel momento Goka viveva ancora con suo padre e quando il padre morì, ne prese il posto ed è così che Goka divenne houno del gorovodu… ma, Goka non amava la famiglia Togneviadzi, e anche se faceva una cerimonia annuale non li invitava, perché lui credeva di sapere tutto.35

Una versione simile mi è stata data da un houno di kpeto deka, che appartiene alla linea di Goka, incontrato in una frazione di Agbetiko, un villaggio togolese, sulle rive del fiume Mono. Anche il suo racconto parla di Beklu, che venne morso nel campo da un serpente e anche in questo caso la famiglia fu costretta a rivolgersi a Togneviadzi e a promettere di entrare nel vodu in caso di guarigione. A questo punto inizia una versione differente, che spiega il tradimento di Goka o il fallimento di Togneviadzi. Goka, desideroso di meglio conoscere la divinità, si rivolse infatti direttamente a Adjakoussi (Adja Kwesi), il quale gli svelò che il feticcio era formato da una parte femminile e da una maschile, e che loro avevano solo la prima, 35. Conversazione con Kouassi Foli Togneviadzi, Zowla, Togo, 23 settembre 2005..

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ma lui sarebbe stato disposto a dargli la componente maschile se aveva i mezzi economici per acquistarla. Goka disse a Togneviadzi, che non aveva soldi, di non preoccuparsi, che glieli avrebbe dati lui. Goka partì da solo verso il Ghana e chiese quanto ci voleva per avere due maschi, per lui e per Togneviadzi. Ma Adjakoussi capì che era meglio lasciare delle differenze tra i due e quindi andò prima da Goka e installò il maschio e dopo mandò qualcuno a chiamare Togneviadzi per dirgli di andare a prendere il maschio. Ma Togneviadzi non andò. Adjakoussi partì con il maschio, ma sulla strada del ritorno morì, proprio a causa del feticcio che era arrabbiato perché era stato rifiutato. Da quel momento Goka ebbe sia maschio che femmina, mentre l’altro solo la femmina. È il maschio che vuole avere la faccia verso il sole, perché è forte, mentre la donna che è più debole, gli porge le spalle. Il tron Ta è il maschio. Solo quelli di Goka hanno il maschio.36

La rivalità tra leader assume, a seconda dei contesti, sfumature differenti. È un dato che potremmo definire connaturato alla struttura stessa dei culti vodu, e che in questo caso si esprime secondo un’apparente distinzione di genere: il gorovodu di Togneviadzi era debole dato che egli aveva solo la parte femminile. Una forte contrapposizione di genere, come vedremo, è una delle caratteristiche del gorovodu e in generale una tendenza verso la quale tutto il mondo vodu sembra indirizzarsi. Ciò che emerge da questi racconti è sia il dinamismo dei primi “imprenditori” rituali del gorovodu, capaci di introdurre innovazioni, che ancora oggi condizionano il panorama religioso, nonché le differenti strategie messe in atto per accumulare potere e aumentare la propria influenza sugli adepti. Essi seppero dialogare in modo attivo con il mondo vodu, con le religioni universali e con un ampio numero di nuovi fedeli sparsi almeno in tre paesi. Come i profeti, i predicatori e altri imprenditori religiosi dell’epoca, che viaggiavano da un paese all’altro, seppero trovare delle soluzioni da proporre in un momento di forte crisi che risultarono moderne e innovative, al pari di quelle offerte dalle religioni universali. Questi uomini sono morti, ma i loro nomi vivono ogni giorno nelle preghiere di chi pratica il gorovodu. Mama Seidou è entrato nella leggenda e la sua figura viene rielaborata con notevole libertà. Nella lotta contemporanea per rivendicare una maggiore aderenza all’ispirazione originale, alla 36. Conversazione con Amegnona, Condji-Agomeseva, Togo, 14 settembre 2005

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vera essenza della divinità, la rete di relazioni e di saperi diventano uno strumento con cui legittimare il proprio potere. Questa battaglia si svolge soprattutto a livello di saperi esoterici, ma anche le conoscenze storiche dei fatti iniziano ad avere un certo rilievo. Il potere mistico risulta infatti più credibile laddove vi furono dei contatti, almeno a livello familiare, con alcuni di questi personaggi. La disputa è palpabile all’interno dell’ordine del tron kpeto ve, molto più accentrato attorno alla figura di Kodjo Kuma. Il percorso dei fedeli del tron kpeto deka, è più complesso e frammentato, soprattutto quando ci si allontana dal Togo, per giungere in Bénin. Qui la mitologia fondativa del culto è più libera e si è andata arricchendo negli anni di immagini, simboli, luoghi e nuove pratiche, che si sviluppano secondo percorsi spesso contraddittori e molto creativi, che illusterò nell’ultimo capitolo. 4. La noce di cola 37 Protagonista indiscussa di questa narrazione è sicuramente la noce di cola. La maggior parte dei culti che viaggiarono da nord a sud furono legati proprio al consumo di noce di cola; la valenza di prodotto di lusso, che un tempo ebbe la noce, assunse nella sfera religiosa una sfumatura mistica e il frutto si caricò di forza spirituale, espandendo in tal modo le sue già note capacità curative. Le noci di cola furono al centro di un’enorme rete commerciale che interessò l’Africa occidentale e che seguì una direzione opposta rispetto a quella dei culti medicinali a cui erano associate. La noce di cola cresce infatti solo a sud, nella regione della foresta; l’area sotto l’influenza ashanti, ad ovest del fiume Volta, ebbe per secoli la maggior concentrazione di piantagioni, se si escludono alcune piccole aree di produzione, situate più a est, nell’attuale Nigeria, che rifornivano prevalentemente il mercato nupe. Solo nel ventesimo secolo la cola nitida iniziò a essere coltivata in maniera estensiva anche nelle aree di lingua yoruba. I maggiori consumatori erano i musulmani che abitavano le città hausa settentrionali.

37. Le informazioni relative alla rete commerciale che si sviluppò attorno alle noci di cola provengono principalmente da: Lovejoy (1980:29-49). Si veda anche Abaka (2005).

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La regione38 della noce di cola che fu tracciata dai mercanti si sovrappone a grandi linee a quella in cui si mossero i culti atike, e come si vedrà, i luoghi da cui transitarono molte divinità furono anche importanti mercati, come ad esempio Yendi e Kratchi. Per diversi secoli le carovane di muli e di asini si diressero al nord, sotto la sorveglianza dei mercanti hausa. Lungo la strada verso sud, gli hausa a loro volta portavano i pellami, i tessuti preziosi, i gioielli e gli schiavi. A tal proposito Edward Bowdich (scrittore e viaggiatore inglese, mandato in missione alla corte degli ashanti a Kumasi) nel 1807 scriveva: Boossee deve essere la noce Gooroo, che Mr. Lucas descrive come uno degli articoli del commercio tra Fezza, Kassina, Bornoo e gli stati a sud del Niger. Scrive: «le noci Gooroo, che vengono comprate negli stati neri a sud del Niger e che sono apprezzate per il loro piacevole gusto amaro che riescono a trasmettere a qualsiasi liquore nel quale siano infuse» e ancora «una qualità di noce, chiamata Gooroo, che è molto apprezzata nei regni nel nord del Niger» (1966:333).

A partire dal 1810, Salaga divenne il più importante centro di smistamento delle noci di cola che qui venivano immagazzinate e poi vendute ai diversi mercanti hausa. Salaga si trovava nell’allora stato del Gonja a nord est del fiume Volta, centro già importante per il commercio di schiavi, in una posizione che consentiva agli ashanti di mantenere il totale controllo del mercato. Da Salaga le carovane potevano seguire tre strade per arrivare a Sokoto, a Zaria e a Kano; quella meridionale passava da Nikki, quella centrale raggiungeva Yendi-Gamaji per poi spingersi più a est, e infine vi era quella che andava a nord, fino a Ouagadougou. Oltre a Salaga, che divenne nel 1820 due volte più grande di Kumasi, più a nord, nel Dagbon, si sviluppò un nuovo mercato che fece espandere le due città gemelle di Yendi-Gamaji. 38. Meyer Fortes introdusse la definizione di regione socio-geografica, per cercare di espandere i limiti delle cosiddette società chiuse, per sostituire un concetto «assoluto e statico» con uno «relativo e dinamico» (1945:231). Werbner (1977, 1979) ha espanso questo concetto al fine di includere anche i fenomeni non omogenei, come ad esempio i culti regionali, che spaziano in aree geografiche e sociali difficilmente definibili come omogenee. Il concetto di regione è quindi utile se immaginato come una realtà funzionale, flessibile e relazionale, priva di confini geografici o sociali. Le regioni sono realtà dinamiche e definibili come un prodotto storico; le regioni «si definiscono in base all’intensità e qualità dell’interconnessione tra gente, luoghi e flussi di idee» (Allen 2005:32).

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Poco più a sud di Salaga vi era un altro importante centro, anch’esso situato lungo il Volta: Kete-Kratchi, città che nel 1880 era, secondo un modello urbano che si era ormai imposto, divisa nella città musulmana, lo zongo39 – Kete – ampia e capace di accogliere enormi carovane e nella città abitata solo da “nativi”, cioè Kratchi. Le due città gemelle si sostenevano e sviluppavano in modo simbiotico, poiché quella “nativa” era la fornitrice dei servizi e dei beni di prima necessità per i mercanti in transito. L’impatto di questa rete commerciale fu enorme: nei primi anni del XIX secolo, l’influenza hausa si fece sentire in tutta la regione meridionale, e la lingua hausa assurse a lingua franca nelle città e nei villaggi lungo le rotte commerciali dell’Africa occidentale. Oltre alle merci, il denaro e la lingua, le reti hausa diffusero anche il pensiero religioso: immigrati e malam itineranti provenienti dal Califfato del Sokoto iniettarono la dedizione religiosa della jihad nelle comunità di mercanti e pervasero le corti e le campagne del bacino del Volta con nuove idee e amuleti magici musulmani (Lovejoy 1980:38).

La ragione che consentì agli hausa di estendere il loro commercio in territori non hausa fu la “connessione internazionale” e il cosmopolitismo che l’Islam aveva costruito. Gli hausa iniziarono infatti a muoversi nei territori ashanti usando le preesistenti reti commerciali juula e wangara (entrambi gruppi di lingua mande): giungevano nei centri dove vi erano già delle comunità di musulmani e condividevano le moschee e gli imam, presenti sul territorio. I centri di commercio divenivano quindi anche centri di cultura islamica, come ad esempio Salaga, dove nel 1870 vi erano sei moschee e diverse scuole islamiche nelle quali insegnavano malam locali o malam itineranti originari del nord. I malam riscuotevano successo anche tra i non musulmani, grazie alle loro rinomata capacità di realizzare amuleti.40 Già nel 1807 i soldati ashanti si proteggevano con piccoli pezzi di tessuto all’interno del quale erano conservate parole arabe tratte dal Corano. Durante la crisi del 39. Gli zongo erano e sono abitati prevalentemente da musulmani, che all’epoca fornivano sostegno, sia negli affari che nella logistica, agli affari. 40. Sempre Bowdich notava: «Quando si applica un talismano, uno degli anziani scrive al suo interno e lo da a Baba che aggiunge una specie di segno cabalistico e gli da una piega misteriosa; i nativi creduloni glielo strappano ansiosi come se fosse offerto, pagano e scappano via per nasconderlo nel più prezioso contenitore che si possono permettere» (1966:90).

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1873-1874, prima della guerra con gli inglesi, l’Ashantihene mandò una delegazione proprio a Salaga per cercare un malam hausa, originario del Califfato del Sokoto, che potesse fabbricare degli amuleti protettivi. Il sovrapporsi di vie commerciali, mercanti hausa e noci di cola delinea perfettamente l’ambiente in cui i culti che afferiscono al gorovodu nacquero e soprattutto fornisce alcuni elementi per comprenderne l’attuale sviluppo. I culti veicolarono nuove concezioni, più vicine a quelle delle religioni universali, e un approccio più individualista alla vita. Individualismo che la noce di cola ben simbolizzava. Secondo Meillassoux (1992:237), la noce di cola, che sostituì il consumo comunitario delle bevande fermentate, vietato ai musulmani, segnò il dissolversi dei rapporti sociali comunitari. La noce di cola rappresentava una società che si fondava sui valori della proprietà individuale e del successo economico. Era inoltre un dono capace di stabilire e confermare le distanze sociali; le differenti qualità di noce, determinata dal colore, dalle dimensioni e dalla forma, venivano offerte a secondo della classe sociale, creando quindi senso di appartenenza o di esclusione. La noce di cola, fulcro del gorovodu, introduceva nel culto, oltre alla valenza mistica, già sfruttata in altri ordini religiosi, anche la capacità di agire individualmente a livello politico e sociale. 5. I luoghi dell’origine del culto Kunde Kunde, detto atike o Goro, è il culto di un tron o feticcio recentemente inventato, che pretende essere un paganesimo spiritualizzato, altrettanto buono che la religione cristiana. Questo nuovo paganesimo è stato, prima della guerra, rilevato nel distretto di Kratchi. Il suo fondatore fu espulso dai tedeschi, come un pericoloso impostore. Passò quindi il Volta e si stabilì a Dukuma. […] Da qualche anno ha inviato alcuni suoi assistenti verso sud, nel distretto di Kpando, dove ha designato alcune persone come suoi luogotenenti (Cessou 1936:21).

I luoghi geografici che ricorrono nelle narrazioni delle origini sono Kpando e Kratchi – due città ghanesi, sul confine con il Togo – Dagati o Dagari e Bolgatanga, rispettivamente una regione nel nord ovest e una città nel nord del Ghana. Le popolazioni a cui più frequentemente si fa riferimento sono quelle di lingua mossi, lobi, ma soprattutto hausa. Altre narrazioni hanno spinto le origini del culto più a nord, fino a giungere alla

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Mecca e lambire le rive del Giordano. Questi slittamenti geografici verranno presi in considerazione separatamente, nell’ultimo capitolo, poiché sono un’appropriazione dello spazio geografico e storico, proprio all’ambiente sociale e culturale beninese. Le comunità ewe del nord avevano una posizione geografica favorevole agli scambi con i popoli della savana. Gli ewe abitavano l’area che si sviluppava lungo la strada commerciale che dal sud conduceva al nord, attraverso Kete-Kratchi, Yendi e Salaga. Kpando era un punto di sosta per chi viaggiava da e per Salaga e un importante centro commerciale che richiamava la gente da tutta l’Africa occidentale. Per questo motivo, gli ewe avevano frequenti contatti con la gente del nord: i mamprusi, i sissala, i gonja, i dagomba, i kassena, i tallensi e i dagaba o dagarti (A.K.P. Kludze 2000:25-26). La rotta era percorsa anche dai lavoratori stagionali; negli anni Trenta, secondo quanto riportato nel “Kratchi District Report”41 del 1935, da Kratchi transitavano centinaia di lavoratori occasionali che andavano a Accra o a Kpando in cerca di lavoro. Secondo Debrunner (1961), Kunde, detto anche Kune o Barakune proveniva da Dagati. Margareth Field scriveva «Kunde è nativo di Kaneo (o Kaleo?), vicino a Wa,42 ma in alcuni santuari si dice arrivi da Kratchi». Parker e Allman (2005) associano Kunde a un culto dedicato a una divinità locale, detta Kyaale, nello stato di Wa. Uno dei primi pellegrini che installò un’emanazione del tempio principale fu Jabah Kojo, verso la fine del diciannovesimo secolo, a Nkoranza, nella regione Bron, probabile luogo d’origine di Adjakoussi, uno degli “eroi” delle origini del tron kpeto deka. Secondo Rutherford, commissario distrettuale, Kunde era stato introdotto nei distretti di Kpando e Ho nel 1925, ma era conosciuto già prima della guerra, «nel suo vecchio quartier generale nel distretto di Kratchi».43 Nel 1933, Mr. Beeton, del “Commissioner’s Office” di Koforidua, scriveva: i preti mi hanno detto che l’altare contiene la sostanza sacra avvolta in un pacco di lino che gli è stata data dai custodi del feticcio originale, vicino, penso, a Wa, nei Northern Territories. I preti mi hanno detto che vanno dal 41. NAG, Administrative Records (d’ora in poi ADM) 11/1/1528, “Kratchi District Report”, 1935. 42. Wa è la capitale dell’Upper Western Region, al confine con l’attuale Burkina Faso. 43. NAG, CSO 21/10/4 Kunde Fetish, Kunde Worship, 13 febbraio 1932.

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feticcio originario una volta l’anno, per quanto ho potuto capire, per un corso di “aggiornamento”.44

Le testimonianze e i ricordi degli attuali sacerdoti del tron (sofo e houno) in Togo e Bénin, ricostruiscono una geografia che evoca queste località, anche se spesso situate in spazi geografici immaginari non precisamente collocati. I nomi riaffiorano in tutti i racconti, nelle preghiere recitate durante le cerimonie o nelle canzoni, assumendo spesso un valore incantatorio, più che didascalico. Secondo sofo Gbedepe III,45 ad esempio, il nome Kratchi «si chiama durante la preghiera. Si dice Kratchi Kunde oppure Mali Kunde. Secondo me il vodu ha fatto un po’ di strada in Ghana e probabilmente Kratchi è una città in cui Kunde è passato o si è insediato». Le apparenti contraddizioni che emergono nelle rievocazioni non sono segno d’ignoranza geografica, ma di una differente modalità di pensare ai luoghi e di porli al centro di esigenze politiche, sociali e religiose. Come ricorda Allen Howard, infatti: in tutte le formazioni sociali africane, il continuum spazio-temporale è stato inseparabile dai processi di rievocazione e oblio dei luoghi, dall’invenzione di storie attorno a essi e dalla contestazione delle memorie che a essi si riferiscono (Howard 2005:73).

La geografia descritta, per quanto confusa nei nomi, che si sovrappongono nelle parole di chi racconta, risulta comunque abbastanza chiara. Si tratta di un’area geografica che dal sud al nord copre la regione di confine tra il Togo francese e quello inglese e che passa per le principali città commerciali. Secondo sofo Bibio Koussiga, figlio di Zigan, Kratchi era la città verso cui il padre si diresse per cercare il “feticcio”: …secondo le informazioni ricevute bisognava andare a Kratchi Dukuma (Dacati, per semplificare). I due fratelli unirono le loro forze e decisero di mandare mio padre. Il fratello minore, che aveva un piccolo negozio, gli diede un po’ di soldi e lui partì. All’epoca era difficile muoversi, c’era solo una pista e solo due macchine una che andava e una che ritornava. Al momento della partenza aveva fretta, non aveva neppure aspettato la macchina e si era messo in cammino. Andò a piedi da qui fino a Ho, che sono circa 100 km e lì si fermò a dormire… Da li decise di prendere una macchina che lo portò fino a Kpando, che allora 44. NAG, CSO 21/10/4 Kunde Fetish, “Kunde Fetish”, 5 dicembre 1933. 45. Conversazione con Gbedepe III, Avekpozo, Baguida, Togo, 17 ottobre 2006.

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era un piccolo villaggio. Chiese quale fosse la strada ma si perse nella brousse, ma alla fine ne uscì vivo. Sulla strada per Kratchi incontrò un hausa che si chiamava Abodji Daholamà, che gli chiese: «dove vai?». «Ho un problema e cerco una soluzione, cerco il gorovodu». L’hausa gli disse che la forza era stata spostata a Kpando, ed era li che doveva andare…46

Hilaire Dohou, pur accettando questa versione, sosteneva però che la scoperta fu fatta in un lontano passato dai parenti di Mama Seidou, non a Kratchi, ma nel deserto, al nord, forse in Mali, forse nel “Black Volta”. In seguito, dopo la distruzione del suo villaggio, dovuta alla costruzione della diga, Mama Seidou portò tutti i suoi vodu a Kratchi, e per tale motivo poi tutti confluirono in questa città. Kratchi si trova a est del fiume Volta a circa 200 chilometri dalla costa. A partire dalla fine del diciottesimo secolo, la città Kete-Kratchi si sviluppò come un importante centro commerciale grazie alla sua posizione geografica. Si trovava, infatti, a ridosso del Volta, in un punto dove il passaggio del fiume risultava agevole, lungo la strada commerciale Accra-Salaga. Dopo il 1966 è stata ricostruita in una posizione meno strategica a causa delle inondazioni conseguenti al completamento della diga Akossombo e ha perso da allora gran parte della sua importanza. Le traiettorie geografiche furono tutt’altro che lineari e le reti rituali che si andavano creando attorno ad alcuni centri mutavano in funzione delle contingenze sociali, economiche e delle vicende esistenziali degli uomini coinvolti nel fenomeno religioso. Bisogna inoltre ricordare l’attitudine di féticheurs e preti vodu ad accumulare continuamente i poteri per aumentare il richiamo esercitato sui fedeli e poter quindi competere con altri féticheurs. Le divinità hanno spesso cambiato nome, sia per sfuggire alla persecuzione delle amministrazioni coloniali, sia perché le divinità si affiancavano l’una all’altra e un nome poteva prevalere sull’altro. 6. Altri luoghi e altre divinità La ricostruzione del viaggio rituale degli altri culti che si affiancarono a quello di Kunde è estremamente complessa e frammentata, a esclusione di Aberewa, la madre e la moglie di Kunde, che essendo stato un culto 46. Conversazione con Bibio Koussiga, Aflao, Ghana, 18 ottobre 2006.

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di Senyon, vicino a Bole, non lontano dalla riva sinistra del Black Volta. Senyon sorgeva nelle vicinanze dalla grande strada che da Kumasi portava, verso nord, nel Gonja. Durante il XIX secolo, come ricordano Parker e Allman (2005:139), la città era stata meta di pellegrinaggi da parte dei fedeli provenienti dall’Ashanti. Senya Kupo fu portata a sud probabilmente durante una spedizione per ottener schiavi tra i Gonja. Nel 1916, fu installata a Twenedurase nel Kwawu, che divenne in seguito uno dei più importanti centri per la lotta alla stregoneria. Da qui si diffuse nell’area della foresta e poi seguì Kunde in un tragitto verso est, fino ad attraversare il Volta. Field andò a Senyon per conoscere la divinità. I suoi informatori le raccontarono: Kupo non ha casa a parte la Terra. Vive dentro la terra e aiuta a far crescere il raccolto. Nessuno l’ha mai visto, ma lui va ovunque… Se tu appartieni alla divinità non devi mai mentire o rubare altrimenti ti ucciderà (Field 1948:181).

Si trattava di un’antica divinità locale, che aveva conosciuto tempi migliori e che, al sud, era divenuta una «drinking medicine».47 Come la maggior parte dei culti medicinali dell’epoca, i rituali di iniziazione consistevano nel bere l’acqua, trattata dal sacerdote, nel fare bagni di erbe, nel mangiare la noce di cola e nell’essere segnati sul volto con dei cerchi di argilla bianca (Field 1948:184). Nel 1928, periodo in cui iniziò, nella Gold Coast, la legittimazione dei fetish priest, che assursero al ruolo di guaritori e detentori della medicina tradizionale, venne registrata una società chiamata “Senyakupo Trading Company”. Essa raccoglieva i sacerdoti di Senyakupo, ma i detrattori sostenevano che al suo interno fossero stati incorporate anche altre divinità come Tigare, Bruku e Nana Tongo (Parker Allman 2005:176). Secondo i principali sofo Sunya assieme a Nana Wango sarebbe stata aggiunta in un secondo tempo all’interno del tron kpeto ve e fu Kodjo Kuma stesso ad andare a cercarla. Banguele, una presenza molto importante negli altari del tron kpeto ve, è «il soldato, il figlio, il protettore, ma può essere anche molto cattivo, è infatti in grado di uccidere senza difficoltà».48 Proviene dalla Gold Coast, ma purtroppo non vi sono documenti in cui si faccia riferimento a questa 47. Questa era una delle definizione utilizzate all’epoca, ad esempio da Field, per i culti medicinali. Faceva riferimento alla pratica di bere una pozione, generalmente acque con erbe, come rituale di ingresso all’interno del culto. 48. Conversazione con Hilaire Dohou, Godomey, Cotonou, Bénin, 25 ottobre 2005.

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divinità. Potremmo supporre che si tratti del feticcio “Borgya” di cui parlava, a inizio secolo Arthur Ffoulkes (1909), ma l’unico elemento a favore di questa ipotesi è la sua forte connotazione virile ed aggressiva. Borgya, dopo essere stata descritta da Ffoulkes, scompare dai documenti d’archivio e dalla letteratura successiva. Sakrabundi, chiamato Sakra o Sacraborì nel gorovodu, è in senso lato un figlio di Kunde, ma la sua identità sessuale non è mai precisata. Secondo le ricerche condotte da Parker (2004) e da McCaskie (2005), la figura chiave nella diffusione di Sakrabundi e poi di Aberewa fu Osei Kwawu, il prete dell’altare di Wirekye a pochi chilometri a nord di Bonduku. Nel 1907 il commissario distrettuale T.E. Fell interrogò Osei Kwaku il quale confermò che: in seguito a una serie di morti calamitose avvenute nella sua famiglia, avendo sentito parlare di questo feticcio in paese dagarti, andò a consultare il sacerdote. Egli ritornò portando Sakrabundi sulla sua schiena e Aberewa davanti. La regione dagarti è il territorio a nord di Buna che appartiene ai popoli lobi e dagara, considerati dagli esterni come un ramo particolarmente primitivo, ostile e isolato della “tribù pagana” dei gurunsi (Parker 2004:408).

Austin Freeman (1898), ufficiale medico al seguito della missione inglese giunta a Bondoku49 nel 1888, descrisse una danza notturna in cui usciva Sakrabundi o Sakrabuni, una divinità da poco introdotta nell’area e originaria del nord. Egli non ne parlò come di un culto il cui scopo fosse quello di combattere la stregoneria, ma come una cerimonia notturna legata a una divinità ancestrale. La danza prevedeva l’uso di maschere in legno: «la maschera era dipinta di rosso e bianco, il corno decorato con righe che alternavano questi colori e sopra a ciò c’erano due buchi attraverso cui il “fetishman” poteva guardare» (Freeman 1898:150, in Parker 2004:399). Maurice Delafosse (1908), che vide un’uscita di Sakrabundi nel 1902, sempre nelle vicinanze di Bondoku, ne parlò invece come di un culto antistregoneria e ne trasse un’impressione decisamente negativa. Egli mise in luce un aspetto che poi diventerà dominante nella percezione di questi culti da parte degli amministratori coloniali: si trattava di un feticcio che proteggeva dal male e dalla sfortuna, ma nel fare ciò obbligava i suoi 49. La città si trova nel Gyaman, nell’attuale Costa d’Avorio, sul limite della frontiera nord dell’area della foresta. Gyaman fu fondato dagli abron, un gruppo appartenente al popolo akan, che sottomisero anche i koulango e altri gruppi (Terray 1978).

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adepti a bere un liquido sacro50 che consentiva di identificare chi praticava la stregoneria e avrebbe ucciso chi, tra gli iniziati, si sarebbe in seguito macchiato di questa colpa. Delafosse, come molti dopo di lui, vide nella bevanda che gli adepti dovevano bere, quella che localmente veniva definita una medicina, una pozione avvelenata, che veniva data ai ricchi, in modo da potersi impossessare dei loro averi (Parker 2004:397-402). Secondo Delafosse, Sakara-Brou era originario dei paesi abron, da qui si era diffuso tra gli «assanti, gli agni, i koulango e fino ad alcune tribù sénufo e certi popoli della costa dove è appena giunto» (Delafosse 1908 in Tauxier 1921:187). Louis Tauxier (1921), che studiò le culture del Gyaman nell’attuale Costa d’Avorio, alla fine degli anni Dieci del Novecento incontrò Sakrabundi tra i koulango e lo definì un culto anti-stregoneria. A differenza di Delafosse, che ne evidenziò l’aspetto meramente speculativo, Tauxier (1921:189) ne mise in luce la capacità di veicolare alti valori morali. Egli notava che il culto sembrava racchiudere in sé le forze della natura (pietre, alberi, animali selvaggi) ed essere divenuto «una specie di semplificazione della divinità della terra». Sottolineò come la diffusione di questi culti dipendesse dal fatto che fossero completamente mercificati e che seguissero le rotte commerciali dell’economia coloniale: «chi compra e chi paga diventa prete della divinità nella sua nuova installazione, oppure prende con sé un féticheur più portato di lui alle cose religiose» (1921:194). Secondo gli informatori di Terray (1979), il culto era originario di Kandeo o Kandiau, a cinque chilometri a est di Wechiau e a trenta chilometri a sud-ovest di Wa:51 prima di andare a Kandiau, abbiamo fatto una colletta per ottenere lo spirito, ciascuno di noi ha dato cinque caurie […] Sakrabundi apparteneva a un uomo chiamato Dangabo. Lui è ritornato con gli inviati per insegnarci come si doveva onorare Sakrabundi, e per preparare gli uomini che si sarebbero occupati di lui. In seguito tutte le genti della regione sono venute a Welekei […] Sono venuti quelli di Bondoukou, di Amanvi, di Herebo, di Tabagne di Tedio e tanti altri ancora (1979:163).

Prima di arrivare a Welekei la reputazione di Sakrabundi era già nota ben oltre Kandiau; negli anni Sessanta del XIX secolo era un culto consolidato tra i banda nafana (McCaskie 2005:171). Giunto a Welekei fu affidato a 50. Si trattava dell’ordalia del veleno. 51. Anche Kunde è originario di Wa

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Sie Kwaku, che ne divenne il sacerdote. Egli si era già associato, durante la sua adolescenza, a un gruppo di uomini che trafficavano in amuleti contro la stregoneria e faceva parte della società di maschere Yoggon, sempre legate alla lotta alla stregoneria che, assieme ad altre maschere, era arrivata nel Gyaman dalla regione senufo (McCaskie 2005:167). Il villaggio di Welekei mantenne una certa prominenza nella pratica del culto, che però si diffuse grazie ai continui viaggi di Sie Kwaku.52 A Takyman iniziò tre uomini al culto, tra cui Yaw Atiwa che fu il suo principale emissario verso nord. Un aspetto interessante, e che ritroviamo ancora oggi nelle parole dei sacerdoti beninesi e togolesi, è il carattere “internazionale del culto”. Secondo gli informatori di Terray, «non c’è un villaggio fisso, è in tutti i paesi, e tutti lo adorano, gli abron come i kulango» (1979:64). Il culto in effetti non rispettava le frontiere politiche, etniche e le sue cerimonie erano aperte a diversi settori della popolazione. Si proponeva quindi come una risposta locale alle religioni universali. La divinità ebbe, quasi sempre, il sostegno delle alte autorità locali; ad esempio il Gyamanhene Kwaku Agyeman (r. 1850-99), re degli Abron, dichiarava: è dio (Naimian, Turry, il Grande Tomoroy) […] che ci ha inviato questo genio potente. Molto, molto tempo fa è caduto dal cielo. Gli abbiamo costruito un riparo; è sempre stato trattato bene, e ognuno dei miei villaggi ne ha voluto avere uno: così tu lo puoi incontrare dappertutto nei miei paesi, e tu puoi essere sicuro che ovunque lo vedrai, non ti sarà fatto niente di male ( Marcel Treich-Laplène in Terray 1979:164).53

Attorno al 1900, scrive McCaskie (2005), il potere di Sakrabundi si stava affievolendo. Era necessario trovare forze aggiuntive e, in seguito a una serie di visioni e sogni, Sie Kwaku capì che doveva partire verso il nord. Viaggiò fino a Bole e qui si unì a una carovana che trasportava noci di cola e che viaggiava, passando da Wa, fino a Lawra. Costeggiando il fiume Kambali, Sie Kwaku raggiunse delle paludi e sulla strada vide una 52. Tra il 1880 e il 1890 la diffusione di Sakrabundi andava dal nord del Gyaman fino alla regione dei kulango, a ovest fino al fiume Komoe, a sud, attraverso Ndenye fino alla costa e a est attraverso Duadaso fino a Takyiman e ai villagi bron a nord ovest. Nel 1890 gli ufficiali inglesi denunciarono la sua eccessiva influenza attorno a Winneba, nell’area centrale della Gold Coast (McCaskie 2005:174). 53. Marcel Treich-Laplène fu inviato in spedizione nel circolo di Bondoukou nel 1887 dalla Francia per firmare dei trattati di pace. Nello anno redisse il suo resoconto di viaggio che non fu pubblicato, ma la sua testimonianza fu raccolta in Bullock (1912).

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palla nera, delle dimensioni di una testa, che iniziò a urlare; Sie Kwaku gli parlò con dolcezza e la palla disse: «prendimi e vai!». Egli portò il nuovo potere a Weleki. Conversando con esso, scoprì che si chiamava Aberewa, cioè “vecchia signora”, in lingua twi. Le due divinità si affiancarono, ma ben presto Aberewa fu considerata la componente più anziana e più efficace; molti credettero, soprattutto gli europei, che si trattasse solo di un cambiamento di nome. Da questo momento Sakrabundi sembra scomparire, completamente sostituito da Aberewa; ma sicuramente era rimasto attivo in molti villaggi, se negli anni Trenta o Quaranta Kodjo Kuma riusci a trovarlo e annetterlo al suo culto. Secondo Tauxier, Sakrabundi era anch’esso legato al culto della terra; peculiarità che sembra aver mantenuto, dato che chi oggi venera Sacrabori, ne parla proprio come di una divinità della terra, e spesso lo assimila a Sakpata, il vodu della terra e del vaiolo. Nana Wango infine sembra un’anomalia rispetto agli altri componenti del culto. Nessuno conosce le sue origini e Hilaire Dohou presume che non sia stato Kodjo Kuma a diffonderla per primo. Nana Wango è il coccodrillo, spesso raffigurato con un uovo in bocca e un piccolo contenitore di terracotta sulla testa. L’iconocrafia di Nana Wango è differente da quella delle altre divinità: è composto da due statue in legno, due semplici tronchi su cui è stato abbozzato un volto umano. A fianco vi può essere il teschio di un vero coccodrillo, delle pagaie a forma di mano e delle palle di conchiglie caurie, che simbolizzano la pelle dell’animale. Il suo nome è assente da tutti gli scritti dell’epoca che si sono interessati ai culti antistregoneria. Secondo Hilaire Dohou, Nana Wango potrebbe avere un’origine yoruba, «perché sono loro che fanno le statue», ma è probabile che si sia ispirato a una divinità diffusa tra gli anlo e gli ewe, appartenente alla famiglia del vodu Mami Wata: Adzakpa.54 Il numero di divinità inglobate all’interno del tron kpeto ve sarebbe potuto aumentare all’infinito, data la tendenza ad accumulare in questo contesto religioso. Kodjio Kuma cercò di arrestare il processo, per mantenere più facilmente il controllo. Alcuni oggi però affermano che 54. Adzakpa vive nell’acqua e il suo nome viene invocato quando ci si trova in difficoltà in mare o nel fiume. Adzakpa, ma anche Nana Wango, arriverà e, trasformandosi in canoa, salverà chi sarebbe altrimenti annegato. Il coccodrillo trasporta infatti sulla sua schiena un piccolo contenitore in terracotta, che si ritiene contenga ama e altre sostanze magiche, necessarie alle sue attività di salvataggio. Le adepte di entrambe le versioni, durante la trance, strisciano a terra mimando l’incedere dei coccodrilli.

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Banguele, di cui si hanno poche informazioni, continue al suo interno un “esercito” di divinità. 7. Il culto Aberewa, la madre Aberewa fu “trovata” da Sie Kwaku che, in difficoltà, sentì l’esigenza di una nuova forza da affiancare a Sakrabundi. Aberewa diventerà il culto anti-stregoneria più importante della regione ashanti, durante un breve ma intenso periodo di diffusione, tra il 1904 e il 1910. Nel 1903, Sie Kwaku intronizzò come “prete capo” di Aberewa il suo antico socio Yaw Atiwa e la città di Takyiman divenne il quartier generale del nuovo culto per l’intera regione ashanti (McCaskie 2005:187). A partire dal 1904 e per circa tre o quattro anni, il culto attrasse a sé un gran numero di fedeli, ma già nel 1908 fu vietato dall’amministrazione coloniale britannica. Sie Kwaku continuò a viaggiare, per installare Aberewa, soprattutto nelle comunità a cui aveva già dato Sakrabundi; secondo McCaskie (2005), egli si prodigò per convincere i fedeli della necessità di affiancare la vecchia divinità con la nuova e più potente entità. Nel 1906, Aberewa arrivò a Edweso ed ebbe una rapida diffusione; ben presto divenne parte integrante delle pratiche ashanti relative ai poteri soprannaturali e alla stregoneria. L’ufficiale inglese, Francis Charles Fuller, Chief Commissioner per gli ashanti, aveva sostenuto da principio il nuovo culto antistregoneria, riconoscendone la capacità di lavorare a favore dell’ordine e della legge, ma all’inizio del 1907 si rese conto che Aberewa si stava diffondendo attraverso l’ashanti con eccessiva rapidità. Le proteste, che giungevano ai suoi uffici, lo indussero a consultare i capi locali per capire la loro posizione rispetto al culto. La maggior parte di essi era contraria, anche se vi erano sostenitori, come l’Edwesohene Ya Awua; egli stabilì, non volendo bandire il culto, che il suo ingresso in un nuovo villaggio doveva sottostare all’approvazione del capo locale. L’anno seguente, sollecitato dall’opposizione di alcuni capi ashanti, preoccupati dall’eccessiva autonomia del movimento, Fuller decise di bandire il culto. Le proteste dei capi furono molteplici: «se non fermate questa gente ora, tutti assieme si ribelleranno contro i loro capi»; aumentavano le denunce di ritrovamenti di corpi mutilati e soprattutto le preoccupazioni per i flussi di denaro che partivano verso il nord (Parker 2004:417).

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Un altro motivo di turbamento per i capi ashanti fu che Aberewa, nella Gold Coast, si esprimeva con il linguaggio della regalità; il santuario e le persone che vi ruotavano attorno erano strutturati in modo da “imitare” la corte e le leggi dei re (McCaskie 2005:197). Ciò aumentò la paura di una delegittimazione del potere dei capi e la sensazione di non essere in grado di controllare le persone che si univano al culto, dato che esse riconoscevano e rispettavano una diversa autorità. Inoltre, vi era un problema economico. Gli amministratori coloniali non potevano accettare che il denaro lasciasse la colonia per raggiungere il quartiere generale della divinità, che si trovava nel Gyaman francese, vicino a Bondoukou: una percentuale delle entrate, infatti, andava sempre rimessa all’altare principale di Sie Kwaku. Fuller si schernì dei capi ashanti, sottolineando come proprio i loro antichi sudditi e schiavi si stavano ora prendendo gioco di loro. Essi «battono le mani e dicono: con questo inganno del Feticcio ci stiamo facendo ridare dagli Ashanti tutti i soldi e tributi che ci presero nel passato» (Parker Allman 2005:130). Nel 1908 il culto di Aberewa fu bandito, si ordinò la chiusura dei templi e gli amministratori coloniali cercarono di arrestare Sie Kwaku, che però riuscì a fuggire. Di lui non si ebbero più notizie, almeno nel territorio inglese. Anche se un numero enorme di santuari fu distrutto, il culto continuò in segreto. Nuovi culti, con differenti nomi, emersero ma, come evidenziano i documenti d’archivio, la pratica, le regole e le finalità dei culti restarono spesso le medesime, sollevando il legittimo sospetto che si trattasse solo di processi di occultamento e che in realtà le interdizioni non venissero mai rispettate. I nomi facevano impazzire gli amministratori coloniali che, come testimoniato dai documenti, costruivano dei quadri sinottici per capire se la nuova divinità fosse o non fosse quella che era stata vietata. Anche Kunde fu sospettato di essere solo un travestimento di Aberewa. Ffoulkes (1909) notava che Abirwa (Aberewa) e Borgya erano appena giunti nella Gold Coast, da una località chiamata Tupa, nella regione Kong a «oltre nove giorni a nord di Kumasi». I due feticci, che Ffoulkes accorpava, avevano due identità sessuali differenti, essendo Borgya l’uomo e Abirwa la figlia. Probabilmente questa fu una sua deduzione, dato che il significato di Abirwa è “vecchia signora”, come anche Ffoulkes scriveva. La distinzione tra potere femminile e potere maschile si rifletteva nella collocazione degli altari delle due divinità, costruiti ai limiti del villaggio o della città. L’altare di Abirwa aveva, secondo Ffoulkes, forma circolare

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e si trovava nella parte orientale del villaggio, mentre Borgya, collocato a occidente, era di forma rettangolare. Questa distinzione nel collocare l’altare è ancora oggi valida per il tron kpeto deka: chi ottenne la divinità da Tonieviadzi ha il santuario con la porta rivolta a oriente, chi da Goka a occidente. La differente direzione che le divinità assumono, come si è visto, è interpretata proprio in funzione di una distinzione di genere che sottende una differente capacità di affrontare le forze della natura e l’energia del sole. Aberewa è considerata da tutti i sofo del tron kpeto ve, la moglie di Kunde. La relazione tra le due divinità non ha creato dei miti o dei racconti sulla coppia e sulla loro relazione. Ciò che oggi si conosce di Aberewa, chiamata Nana Blewa o Ceria,55 è la sua pratica e le sue presunte attitudini caratteriali che incarnano un certo ideale di donna e madre. 8. Viaggi rituali, spazi regionali Oggi, sia in Togo che in Bénin, non esistono più scambi e viaggi rituali tra il sud e il nord e anche in epoca coloniale, a parte le imprese degli “eroi fondatori”, i viaggi si sono sempre svolti da est verso ovest. Il riferimento al nord è totalmente incorporato nella sua pratica, ma non ha spinto gli ewe, i fon e gli altri popoli della regione interessata a intraprendere viaggi verso nord, divenuto piuttosto un luogo immaginario, aperto ad accogliere desideri e paure dei fedeli del culto. Il nord viene raggiunto solo attraverso la possessione o più precisamente, grazie alla possessione, gli spiriti e le divinità del nord giungono al sud. Che si tratti di viaggi reali o immaginari, il gorovodu può oggi essere definito come un culto regionale,56 soprattutto per la sua capacità di connettere luoghi e persone. 55. Cheriya fu descritta da Field (1948:196) tra i Nyankumasi. Tra le varie funzioni che svolgeva vi era quella di proteggere gli zii dalle macchinazioni dei nipoti (si trattava di una società matrilineare), proteggere dalle false testimonianze, dai ladri, dalle cospirazioni e di rendere immuni dal veleno dei serpenti. 56. Goody (1957) suggerì la necessità di guardare all’insieme dei culti antistregoneria secondo una prospettiva regionale, che consentisse di superare i limiti di un approccio funzionalista e quindi la chiusura all’interno di vincoli etnici e sociali, mettendo piuttosto in luce la dinamicità e la continuità storica. Richard Werbner affrontò il tema dei viaggi rituali nel 1979 prendendo in considerazione proprio uno dei culti antistregoneria ghanesi, che egli preferì definire «personal security cult», poiché il culto formava un circolo di persone

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no l’uno dall’altro in base agli oggetti rituali (gli strumenti musicali, le medicine vegetali utilizzate, le decorazioni del corpo, etc.), il tipo d’afflizione che curano e il nome della forza invisibile, venerata all’interno di ogni culto. I culti regionali, invece, condividono uno stesso idioma e le congregazioni locali sono connesse tra di loro grazie a un’organizzazione capace di garantire lo scambio e l’interazione tra gli officianti del culto. Spesso i culti hanno un centro che è la sede del leader massimo, mentre gli altri detentori del culto sono responsabili per una sezione dell’intera area. Essi comunicano regolarmente tra di loro e soprattutto con il quartier generale al fine di regolamentare l’ingresso di nuovi adepti, la formazione di leader locali e le norme comportamentali generali di accesso e pratica del culto; lo scopo è quello di controllare possibili deviazioni rituali ed eccessive autonomie locali. Di conseguenza, secondo Van Binsbergen, la leadership di un capo locale non è funzione della sua capacità di manipolare l’opinione pubblica – come nel caso dei culti non regionali – ma della carriera all’interno della gerarchia del culto, soggetta all’approvazione del potere centrale. I culti regionali spingono a un certa conformità rituale e soprattutto pongono l’enfasi sulle basi morali del loro agire (Van Binsbergen 1977:154-157). Nella pratica del tron kpeto deka, i leader hanno a disposizione lo spazio sufficiente per una manipolazione personale dei saperi mistici; la competizione tra i diversi detentori del culto è troppo esasperata perché si possa intravedere un culto regionale, nell’accezione data da Van Binsbergen. Per contro, gli oggetti rituali, le allusioni teiste e il riferimento a comuni padri fondatori rendono gli altari, in una certa misura, sostituibili l’uno all’altro. Come raccontava una giovane frequentatrice del santuario di Cosme, a Porto Novo, il tron kpeto deka è più comodo degli altri vodu, perché in qualunque città tu ti trovi, puoi avere accesso a un santuario e trovare risposta ai tuoi problemi. Quindi, nonostante le competizioni tra un leader e l’altro, che si manifestarono già all’origine del culto in Togo, tra Togneviadzi e Kodjo Kuma e poi tra Togneviadzi e Goka, il culto e i suoi fedeli producono un linguaggio comune, che riesce a superare i conflitti e le idiosincrasie individuali. Si tratta quindi di regioni estremamente fluide, che possono frammentarsi fino a giungere all’unità, ma che, almeno nell’immaginario dei fedeli, potrebbero essere sostituibili l’una con l’altra. zione dell’intervento di un agente esterno non umano e il tentativo di rimuovere l’afflizione attraverso l’iniziazione del malato al culto che venera l’agente.

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Il tron kpeto ve disegna una regione ancora oggi fortemente centralizzata attorno alla figura di Kodjo Kuma e alla città di Kpando, anche se, come si è visto, egli più che essere un punto di attrazione fu un viaggiatore e si mosse sia spinto da motivazioni religiose che da problemi politici. Non è certo se Kodjo Kuma viaggiò al nord, ma probabilmente il nord per lui fu rappresentato dall’incontro con Mama Seidou e quindi in senso lato con la religione musulmana. Egli incontrò metaforicamente il nord anche grazie alle chiese cristiane e ai testi del Vecchio testamento, a cui era stato formato durante l’infanzia. Oggi Kpando non è luogo di pellegrinaggi, ma lo fu fino ad almeno dieci anni fa. La morte del figlio di Kodjo Kuma, che gestiva il santuario e i conseguenti problemi di successione, non ancora totalmente risolti, hanno fatto sì che i legami si siano allentati. Nel marzo del 2008 fu organizzato un kpeta – la festa periodica del culto – con lo scopo proprio di rafforzare il potere della famiglia e commemorare il padre fondatore. In tale occasione, molti giunsero a Kpando dalla Costa d’Avorio, dal Togo, dal Bénin e dalla Nigeria. Nel santuario di Kpando, che ho visitato nel 2008, non ferveva l’attività religiosa, anche perché non vi erano fedeli tra gli abitanti della città; secondo Gabriel Anibra, figlio di Kodjo Kuma, la pressione delle chiese era infatti molto forte e pochissimi avevano il coraggio di rendere pubblico il loro legame con un vodu; i pochi che ancora erano legati ai culti “ancestrali” andavano a pregare durante la notte, di nascosto dagli occhi dei più.58 Kpando è ancora un importante centro nella rete che si articola attorno al culto, anche se appare sempre più come un luogo della memoria piuttosto che un reale centro di attrazione per i fedeli. Secondo Hilaire Dohou, alcuni elementi necessari alla realizzazione degli oggetti rituali, si possono ottenere solo a Kpando, per cui, anche se oggi l’installazione di un nuovo altare è un avvenimento molto raro, ognuno ha al suo interno una materia comune, che crea un indissolubile legame con il luogo dell’origine e rafforza la comune identità di tutti i fedeli. Kpando ha sostituito altri luoghi, che erano stati importanti o mitici, come Kratchi, e che hanno negli anni perso d’importanza, facendo cambiare forma allo spazio regionale. Il tron kpeto deka, pur facendo ancora riferimento a Kratchi, non ha un legame forte con un luogo, capace di rappresentare anche solo simbolicamente il culto. Le conseguenze sono state 58. Conversazione con Gabriel Anibra, Kpando, Ghana, 18 febbraio 2008.

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una maggiore frammentazione e la formazione di uno spazio geografico e storico dai contorni molto più fluttuanti. Secondo Van Binsbergen (1977), iI detentori periferici di un culto regionale devono essere meri esecutori di un codice già definito (Van Binsbergen 1977). Nelle intenzioni dei fondatori e di chi oggi assume una posizione più conservatrice, il tron kpeto ve è un culto regionale. Secondo Hilaire Dohou, ad sempio, si sarebbe dovuto limitare al minimo la nascita di nuovi altari e impedire qualsiasi tipo d’innovazione. Era quindi per lui motivo di orgoglio che i sofo di Cotonou gli facessero visita per avere dei consigli rituali e delle indicazioni su come allestire il santuario. Ma, in conformità alla struttura gerarchica, sovente si definiva come puro esecutore di compiti che gli erano stati insegnati in passato ma di cui non conosceva appieno il significato. Il culto è regionale poiché connette in una rete gruppi di persone eterogenee, unite solo dalla comune pratica del culto, coniugando quindi una tendenza all’inclusione con una all’esclusione (Werbner 1979), un’aspirazione all’universalismo con un desiderio di particolarismo, che si esprime attraverso continue contrapposizioni, dispute e scismi. L’appartenere al tron kpeto ve crea una nuova identità, oppositiva rispetto agli altri culti e alle altre fedi religiose, anche se i detentori del culto dichiarano che chiunque può essere accolto, a prescindere dalla fede religiosa o dall’appartenenza etnica, attraverso un semplice atto di volontà. Gli adepti e i responsabili del tron kpeto ve, seguendo la strada tracciata dal loro fondatore, sono estremamente mobili e dedicano buona parte della vita a viaggiare da un santuario all’altro. Il viaggio fonda la loro formazione mistica e misura l’adesione che i singoli hanno nei confronti del culto. Il viaggio è un motivo di entusiasmo per i fedeli: nel santuario di Klikame, a Lomé, periodicamente venivano comunicate le date delle più importanti cerimonie e, a parte possibili complicazioni economiche, la partecipazione era un piacevole obbligo. Come mi faceva notare Bella, una giovane trosi di Klikame, i viaggi erano l’occasione per rincontrare gli altri adepti e per conoscere persone nuove; erano anche l’occasione per rinsaldare alleanze o crearne di nuove, e soprattutto per costruire nuovi legami famigliari. I kpeta – le feste periodiche – sono la principale occasione per i viaggi di fedeli e dignitari. La politica delle alleanze si esprime nel numero degli inviti e nella decisione delle feste a cui partecipare: è soprattutto importante essere presenti ai kpeta organizzati dai sofo dei santuari più prestigiosi e allo stesso tempo assicurarsi una numerosa partecipazione al proprio kpeta.

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I luoghi di maggiore influenza oggi sono quelli che hanno una più antica tradizione, come il santuario di Hilaire Dohou a Godomey, o quello di Zigan ad Aflao, in Ghana, oppure quelli che hanno un più stretto legame con Kodjo Kuma. Esistono altri strumenti, per chi non ha connessioni con la storia delle origini, per cercare di emergere nella competizione. Thomas Animavo, sofo di Cotonou, invitò, nel 2005, più di duecento persone, che ospitò in parte nella sua casa e in parte in un vicino albergo. La maggior parte dei leader del culto arrivarono con i loro fedeli. Hilaire, pur vivendo a meno di un chilometro di distanza dal santuario di Thomas, sebbene invitato, ripeteva: «io non vado ovunque». Nonostante fosse a conoscenza del fatto che sarebbe stata un’importante occasione, aveva deciso di mandare suo figlio con un gruppo di adepti. Secondo Hilaire il potere che Thomas cercava di ottenere era illegittimo, poiché egli «non sapeva nulla», aveva acquisito il tron recentemente e mirava soprattutto a farne uno strumento di potere e arricchimento personale. Di fatto Thomas nel 2005 era il segretario dell’associazione “Comunité religieuse Lahori-Kounde du Bénin” (CO.RE.LA.KO.BE.) alla cui presidenza un tempo era stato proprio Hilaire; questo era il motivo principale di disaccordo con tutti quelli che avevano un ruolo ufficiale al suo interno. Le voci sulla ragione per cui Hilaire era stato estromesso erano molteplici e secondo alcuni era stato la causa della morte di due persone. Hilaire non fece mai riferimento a questa storia, anche se non nascondeva la sua ostilità, corrisposta, verso tutta l’associazione. Quando mi diede l’indirizzo del santuario dell’attuale presidente dell’associazione, mi consigliò di non fare il suo nome, perché a suo parere questo avrebbe inibito gli informatori. Il nome di Hilaire, soprattutto in Togo, è stato invece un incredibile lasciapassare, che mi ha consentito di incontrare e parlare con molti dignitari e adepti. Ad Aflao, Bibio Koussiga, nel salutarmi mi disse: nel nostro vodu oggi ci sono molti sofo, che non sanno molto o dicono cose che non sono vere. Il poco che so te lo ho detto, perché certo non potevo mentire a chi mi è stato mandato da Hilaire. Ti ho dato una chiave che devi ben proteggere e utilizzare.59

I problemi per Hilaire Dohou erano soprattutto in Bénin; ma la domenica della festa di Thomas, nel tardo pomeriggio, alla fine si unì alle 59. Conversazione con Bibio Koussiga, Aflao, Ghana, 18 ottobre 2006.

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celebrazioni. La sua eleganza lasciò tutti stupiti. Indossava un enorme e prezioso tessuto kente, drappeggiato con eleganza, un cappello in pelo, anomalo rispetto ai copricapo abituali, e procedeva sostenuto dal vecchio bastone del padre. Giunse per ultimo, attraversò lo spazio dove gli adepti stavano danzando e si sedette al centro, insieme a tutti i dignitari presenti; era radioso e felice, il vero protagonista. Venne egli stesso a salutarmi, riconoscendo pubblicamente la nostra amicizia e, dopo poco più di due ore, se ne andò. Il giorno dopo mi disse che aveva solo ceduto alle insistenze di Thomas. La strategia di Hilaire consisteva nel gestire con intelligenza il proprio capitale simbolico, costruito grazie al suo nome e rafforzato dalla sua anzianità. Volutamente si contrapponeva alla strategia di Thomas, basata sull’ostentazione e condivisione del proprio capitale economico, cercando di denunciare un uso mercificato del culto religioso, che implicava una totale ignoranza dei saperi mistici. Nel 2006 il kpeta più importante si tenne invece in Togo, a Akumape, nel santuario gestito dal figlio di Kossi Ndedjita, Kokou, l’uomo che passò la vita a Kpando, a fianco e in sostituzione di Kodjo Kuma. Si parlò di questa cerimonia a lungo, sia prima sia dopo l’inizio della festa. Hilaire Dohou non andò per motivi di salute, ma inviò tutta la sua famiglia. Nei giorni successivi la fine della festa, la gente di ritorno dal Togo si fermava da lui per raccontarne i dettagli. Egli mi disse che era pentito di non aver partecipato, perché «c’erano proprio tutti, anche quelli di Kpando, quelli di Aflao e tutti si sono chiesti perché io non fossi là». Anche Kokou, colui che aveva organizzato il kpeta, intraprese a sua volta un viaggio per ringraziare chi era stato suo ospite; lo incontrai nel cortile di Hilaire Dohou soddisfatto e desideroso di confermare ulteriormente il suo potere e la sua posizione di centralità.60 Il viaggio continua a essere al centro delle strategie politiche dei dignitari del culto: non è infatti sufficiente fermarsi al centro per confermare e legittimare il proprio potere. Il pellegrinaggio è multidirezionale e il centro si sposta in funzione di chi organizza la festa più importante. Le feste più attese sono quelle di coloro che gestiscono i santuari più antichi e prestigiosi; ma esistono anche altri modi per entrare nella schiera dei “grandi”, come 60. Secondo alcuni sofo Kokou Ndedjita e Hilaire Dohou sono le persone più importanti oggi nel tron kpeto ve; Hilaire per la sua saggezza e anzianità, Kokou per le sue conoscenze esoteriche acquisite a Kpando.

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nel caso di Thomas, che grazie alla sua intelligenza e ai mezzi economici a disposizione, riuscì a richiamare a Cotonou gente da Abijan, Lagos e Accra. Le dinamiche, i poteri e il capitale simbolico che agiscono all’interno e all’esterno del culto cambiano, intrecciandosi con il tessuto sociale e politico; è dunque necessario che gli attori posti al vertice siano in grado di cogliere il peso che le diverse forme di capitale hanno nel campo specifico, e che le sappiano gestire con naturalezza, dissimulando le strategie sottese. Il potere simbolico esercitato dai capi vodu è indubbiamente «inscritto nei corpi dei dominati, sotto forma di schemi di percezione e di disposizione (a rispettare, ammirare, amare, ecc.), cioè di credenze che rendono sensibili a certe manifestazioni simboliche, come le rappresentazioni pubbliche del potere» (Bourdieu 1998:179), ma è un potere estremamente effimero che deve essere negoziato sia con i “dominati” che con i rivali, restando sempre attenti alle mutevoli richieste, desideri e immaginari proiettati dai fedeli sulle pratiche religiose. Il viaggio resta però un elemento costante nella gestione del potere, che caratterizza sia i detentori del culto sia le divinità che lo compongono. Il movimento permane il motore che consente al culto di continuare a vivere e rigenerarsi e ai suoi leader di ridefinire in continuazione i confini del proprio agire.

3. Oggetti, corpi e materia nel vodu

Les statues et les symboles des dieux sont, comme les divinités qu’ils représentent, des monstres, des objets ridicules, des figures d’oiseaux, des reptiles ou autres animaux et ces images souvent honteuses ou scandaleuses… R.P. Baudin, Fétichisme et féticheurs

Oltre alle idee e alle persone, si spostarono anche le sostanze necessarie alla realizzazione di nuovi altari: i culti antistregoneria ebbero successo anche grazie alla loro facilità di movimento. Come ad esempio il culto Boghar (uno dei culti ancestrali praticati nella regione abitata dai tallensi, nel nord del Ghana) «fu una religione al contempo capace di legare gli individui a un luogo e liberarli da esso» (Werbner 1979:668). La libertà di movimento era intrinseca alla facilità con cui la materia e gli oggetti sacri riuscirono a circolare da una regione all’altra. Gli studi, che si sono interessati al vodu e alle religioni tradizionali africane, hanno però dato poco rilievo agli aspetti più materiali delle espressioni rituali e religiose, anche se proprio gli oggetti con il loro muoversi furono agenti attivi della trasformazione del panorama religioso. Oltre alle parole e alle rappresentazioni, agite dagli uomini, gli oggetti portarono con sé, nella materialità e nel modo d’uso o di realizzazione, i segni delle trasformazioni economiche, culturali e sociali e lentamente li fecero penetrare nella vita rituale, mettendo così in contatto panorami culturali apparentemente troppo distanti per comunicare. La cultura materiale – gli oggetti, i corpi, i colori – aiutano ad ampliare i soggetti con cui dialogare e a intuire le incertezze e imprevedibilità che la materia – intesa in senso lato – può attivare. Essa traccia un percorso, seguendo il quale si può cercare di avvicinare e integrare una quantità di fatti etnografici che altrimenti resterebbero esclusi dalla narrazione, privandola quindi, nel nostro caso, della ricchezza degli stimoli percettivi degli spazi africani.

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In questo capitolo, partendo dagli strumenti che gli studi sulla cultura materiale mettono a disposizione, si cercherà di articolare un discorso che parli effettivamente degli oggetti come agenti dello spazio rituale e non solo come forme di rappresentazione. Assistere a una cerimonia, entrare nel luogo dove sono contenuti i vodu, stringere la mano a una trosi in trance significa avere una percezione immediata di come il linguaggio verbale non possa cogliere che una minima parte dei codici comunicativi che i rituali attivano e mettono in condivisione. Partendo dalle cerimonie a cui ho partecipato e dalle persone che ho incontrato durante la ricerca sul campo, cercherò di rendere significativi oggetti e corpi in una trama di parole. 1. I vodu attraverso gli studi sulla cultura materiale “Fare un vodu” è un’espressione che indica un processo di apprendimento pratico: bisogna imparare a danzare, a parlare, a cucinare, a soddisfare la divinità nelle sue specifiche esigenze e, come il grado d’iniziazione e di intimità aumenterà, a “costruirlo”. L’iniziato deve apprendere sia le “tecniche del corpo” sia i saperi necessari alla realizzazione e “gestione” dei vodu. Esistono due principali campi di sapere e di azione nei quali si esprime l’azione umana in relazione al divino: il savoir faire del sacerdote, che costruisce il vodu, dando avvio a un processo che continuerà autonomamente, e il sapere dell’adepto, che dovrà imparare negli anni a dialogare con il suo vodu. Anch’egli “farà il vodu”, nel senso che ne sarà parte, ma probabilmente non acquisirà mai le competenze per costruirne materialmente uno. Nonostante l’invasiva materialità della vita religiosa vodu, non si è sviluppata una tradizione di studi attenta alla cultura materiale.1 La trascendenza, che si voleva intrinseca al pensiero religioso, non poteva infatti essere conciliata con la bruta immanenza della materia. Il discorso può essere però generalizzato: Daniel Miller (1987) ha imputato la mancanza di studi sulla cultura materiale e una certa difficoltà a utilizzare questo termine, a 1. Importanti eccezioni sono costituite dal lavoro di Preston Blier (1995) e di Rouget (1980).

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due motivi principali. Il primo dipenderebbe proprio dalla materialità degli oggetti: «l’estrema fisicità dell’oggetto che lo fa apparire così immediato, sensuale e assimilabile, falsa la sua natura», facendone «una delle forme dell’espressione culturale più resistente ai nostri tentativi di comprensione» (Miller 1987:3). Il secondo motivo di disinteresse dipenderebbe dall’aver associato gli studi sulla cultura materiale a una tendenza al materialismo e a un’attitudine feticista, che avrebbe messo in secondo piano proprio l’analisi sociale, rispetto a una più semplice analisi della superficie dell’oggetto, tipica ad esempio degli studi sull’arte africana tradizionale. I primi studi sulla cultura materiale si sono concentrati sulla relazione tra persone e oggetti e consumo nelle società moderne (Douglas e Isherwood 1978, Bourdieau 1984, Miller 1986). Gli oggetti hanno poi lentamente acquisito una vita sociale, una «biografia» (Appadurai 1986, Arnoldi, Geary e Hardin 1996) e sono diventati parte di pratiche creative e attive. È stata infine loro riconosciuta una agency e quindi sono stati integrati – incorporati – nel genere umano, diventando parte attiva del processo di soggettivazione (Gell 1998, Warnier 2005). L’oggetto smette quindi di essere un veicolo dell’espressione umana, grazie a un suo uso iconografico. Esiste, oltre la superficie, un messaggio latente e non facilmente comunicabile «attraverso il quale l’oggetto diviene un artefatto dell’interazione umana in quanto residuo di una relazione sociale» (Pellegrin 1998:103). Nella materia possono sedimentare, quasi in silenzio, i segni di azioni apparentemente contrastanti, provenienti da differenti panorami culturali. Essi possono continuare a parlare al presente e aprire orizzonti verso nuovi percorsi futuri, non riconducibili esclusivamente alla volontà umana. La loro opacità può consentire all’uomo di fare scoperte su se stesso, ma gli oggetti possono anche esprimere una forza capace di resistere ai progetti umani o essere addirittura oppositiva (Keane 2006:201). Nel campo religioso questo approccio teorico diventa particolarmente significativo, dato che gli studi sulla cultura materiale sembrano condividere parte del linguaggio e dell’ineffabilità della magia. L’oggetto è stato infatti definito «resistente» (Miller 1987), si è parlato di «residuo» (Pellegrin 1998), di «opacità» e di «oggetti autonomi rispetto ai progetti umani» (Keane 2006:201). Latour (1996) scrive che l’uomo viene sempre sorpassato dai suoi artefatti mentre Warnier (1999, 2005) afferma che esiste un rapporto attivo «evidente e indicibile» tra l’uomo e la materia, strutturante e destrutturate allo stesso tempo. Infine, secondo Alfred Gell (1998:17) gli

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oggetti d’arte, ma il discorso è valido per tutti gli oggetti, sono efficaci, poiché sono «agenti secondari», nel senso che estendono le intenzioni di chi li ha fabbricati o di chi li utilizza,2 intenzioni che possono restare oscure o nebulose. Gli oggetti non comunicano quindi idee ma volontà, ripercuotendo con forza le loro intenzioni sull’ambiente circostante. Gli strumenti teorici degli studi sulla cultura materiale appaiono quindi particolarmente pertinenti per analizzare la materialità del vodu: il punto di contatto è una disposizione ad ascoltare gli oggetti riconoscendo loro un’esistenza che prescinde dall’esperienza e interpretazione umana. L’oggetto diviene soggetto in grado di modificare l’uomo e la realtà circostante. Dal disprezzo nei confronti dei féticheurs, definiti degli sporchi imbroglioni, potremmo dire che il percorso teorico attuale sta portando a osservare tutti gli oggetti con occhi non dissimili da quelli di chi pratica il vodu. L’oggetto sacro sfida i nostri sensi e la nostra comprensione e proprio grazie a questo stupore suscita un effetto più forte sulla nostra immaginazione. L’oggetto vodu, spesso inspiegabile, seduce perché utilizza il medesimo linguaggio dell’occulto: entrambi s’interessano a ciò che non è visibile, in altre parole a ciò che non può essere rappresentato (Gell 1974:26). La teorizzazione di Latour risulta particolarmente utile alla comprensione dell’oggetto vodu. L’idea di “fatticcio”, illustrata nel primo capitolo, consente infatti di avvicinarsi al vodu o al “feticcio” secondo una prospettiva capace di superare la distinzione tra pensiero selvaggio e pensiero moderno. Il soggetto creativo è sempre superato dalle sue stesse azioni; non può esistere né per Dio né per gli uomini un controllo totale sulle proprie creazioni. Ciò non significa l’annullamento del soggetto, perché «esso riceve autonomia dando ciò che non possiede a un essere che diviene grazie a lui». Lo scarto che si viene a creare, l’impossibilità di controllare le proprie creazioni, consente di superare la separazione tra immanenza e trascendenza, tra soggetto e oggetto, per guardare piuttosto la mediazione che esiste tra essi, concentrandosi quindi sull’azione: «le divinità, 2. Gell (1998) ha cercato di sviluppare una teoria non semiologica dell’arte. Gli oggetti d’arte non sono realizzati come portatori di significati, ma attraverso un processo di “abduzione”. Si tratta di un processo che avviene nella “zona grigia dove le inferenze semiotiche (di significato dai segni) si uniscono con inferenze ipotetiche di tipo non semiotico (o non convenzionalmente semiotico) (Gell 1998:14). Di conseguenza gli oggetti oscillano tra una facile decodificazione dei significati e l’impossibilità di capire se chi li ha realizzati aveva un’intenzione di significato e, in caso, quale.

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effettivamente, non sono delle sostanze, non più d’altra parte dei fermenti dell’acido lattico. Esse sono l’azione» (Latour 1996:89). Una prospettiva che porti al centro dell’analisi la cultura materiale, l’azione e il “fatticcio” – l’ibrido di natura e cultura – consente di superare il disagio dell’antropologo le cui domande sono sovente condannate a restare senza risposta.3 L’analisi semiologica degli oggetti che “entrano” all’interno di un vodu (in una calebasse, in una terracotta o in un buco nella terra) è una pratica frustrante; al contrario guardare gli oggetti in azione – osservare le pratiche – suggerisce di pensare al vodu come a un contenitore, un dispositivo in divenire e di transito tra visibile e invisibile, capace di riassumere in sé entrambi. Jean Pierre Warnier (1999, 2005) ha concentrato le sue analisi sull’incorporazione della cultura materiale come forma di soggettivazione,4 prendendo come punto di partenza le «tecniche del corpo» di Marcel Mauss (1936). La cultura materiale è in tal senso «l’insieme degli oggetti materiali co-inventati e prodotti con le condotte sensorio-motrici5 che ne consentono l’incorporazione e l’uso» (Warnier 2005:34); il corpo diviene il focus cui guardare per comprendere l’importanza della cultura materiale e le sue interazioni con l’oggetto e il movimento. Integrando questo approccio teorico nell’ambito della pratica religiosa, un rituale diviene l’insieme delle «tecniche del corpo, dei gesti, materie e parole» (Warnier 2005:34) un complesso di fattori che partecipano al processo di costruzione dell’individuo. È interessante ricordare che l’attenzione di Mauss per le tecniche del corpo crebbe proprio assieme a quello per la magia. Il mago, secondo Mauss, è infatti una sorta di artigiano che solo attraverso il continuo eserci3. Il «serviteur», vale a dire il fedele del vodu, scriveva Deren, poteva capire i principi perché li metteva in atto: «niente infatti è più privo di significato o più imbarazzante per l’haitiano che essere interrogato su ciò che un’azione rituale rappresenti, o stia a raffigurare o simbolizzi» (Deren 1959:232). 4. Per Warnier il soggetto umano, non è un «soggetto che possa qualificarsi come “nudo”, a cui si aggiungerebbero via via oggetti a lui esteriori. Il soggetto, grazie alle sue condotte sensorio-motrici, è sempre un soggetto con i suoi oggetti incorporati. Questo insieme forma una sintesi del movimento, incorporando e scorporando di volta in volta gli oggetti. Gli investimenti sensoriali, motori e psichici del soggetto riguardano appunto questa nebulosa da analizzare in blocco» (Warnier [1999] 2005:26). 5. Le condotte sensorio-motrici sono «gesti o serie di gesti che, a forza di ripetizioni, possono essere compiuti senza sforzo e attenzione particolare, con efficacia, nella più grande economia di mezzi» (Warnier [1999] 2005:245).

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zio delle proprie abilità, può esercitare la magia. Nella pratica corporea dei suoi segreti, nel continuo realizzare “pozioni”, egli diviene mago. Questa prospettiva sarà dunque utile per comprendere la possessione, l’iniziazione e le pratiche legate al vodu, mentre l’idea di “fatticcio”, suggerita da Latour, può essere più pertinente per cercare di immaginare quello spazio d’indeterminatezza che gli oggetti creano e la loro capacità di agire sull’uomo e sull’ambiente. Il tentativo di codificare i segni ha indotto a concentrarsi prevalentemente sull’idea di perdita e impoverimento, trascurando l’aleatorietà insita nelle “cose” e la loro apertura verso un mondo di possibilità, positive e negative, da analizzare nel contesto specifico, cogliendone anche la storicità e le implicazioni politiche. Per quanto riguarda il gorovodu, l’incorporazione di differenti inventari di cultura materiale ha permesso ai suoi fedeli di esprimere, molto più chiaramente di quanto non facciano le pratiche discorsive, il lento allontanamento dalle rappresentazioni condivise in ambito vodu e l’acquisizione di una posizione eccentrica, senza per questo dover adottare discorsi di aperta rottura, che avrebbero implicato un troppo pericoloso – e non desiderato - allontanamento dalle idee di tradizione e di ancestralità. Attraverso il cambiamento estetico, gli oggetti e i luoghi di culto diventano capaci di dare voce alle aspirazioni degli individui e delle comunità che in essi si riconoscono, esprimendo ad esempio un certo desiderio di modernità e di ordine. L’introduzione di nuove pratiche rituali e differenti oggetti di culto ha dato vita a percorsi non prevedibili e ha, nel corso degli anni, creato un nuovo spazio politico e religioso, che è sicuramente andato anche al di là della volontà dei suoi sostenitori. Le azioni motrici consentono di «assoggettare, fare e disfare i soggetti» (Warnier [1999] 2005:112), di esprimere volontà contrastanti e differenziate, rispetto a quelle prodotte dai discorsi ufficiali e condivisi, ma anche di dare l’avvio a nuove realtà, che non erano parte delle consapevoli intenzioni di chi pensò e creò le nuove soggettività religiose. 2. Gli “dei oggetto” In Le dieu objet (1988), Marc Augé ha unito in modo brillante ed efficace l’idea di materia e di divinità, abbandonando la parola feticcio, ma reintroducendo quella di oggetto, di cosa fatta. Nel dio oggetto di Augè, viene però a mancare la processualità, l’azione del fare il vodu. La “mate-

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ria” rimane pensiero, concetto, simbolizzazione, che continua a trascendere la concretezza in divenire del vodu. Dinamizzare il vodu significa invece concentrarsi sulle modalità della sua realizzazione e sulle pratiche dell’incontro tra divino e umano. Gli storici dell’arte africana d’altra parte hanno definito in vario modo l’estetica corrosiva dei luoghi e degli oggetti vodu. Suzanne Preston Blier ha parlato di «arte dell’assemblaggio», definendola, tra l’altro, come una delle maggiori espressioni artistiche africane. Assemblare fu anche una strategia politica e religiosa particolarmente efficace, praticata dai sovrani di Abomey, i quali incorporavano le divinità dei popoli sottomessi, inglobandole e sovrapponendole all’interno del loro sistema religioso (Bay 2008). Le più recenti prospettive (Drewel 2005, Blier 2005), che si rifanno a Stoller (1997), hanno messo in luce la necessità di valutare la multi-sensorialità dell’esperienza artistica africana, liberandosi dell’egemonia della sola dimensione visiva, mentre Dana Rush (2010) ha parlato di estetica dell’incompiuto. L’idea d’incompiuto è significante perché coglie la processualità dell’esperienza vodu, il suo continuo divenire e trasformarsi. La non fissità degli oggetti sacri, oltre ad avere delle evidenti ricadute estetiche, da un punto di vista dell’analisi antropologica consente di intuire l’impossibilità di un totale controllo umano nei confronti della materia e in tal senso una riduzione del potere simbolico di tali oggetti, incapaci di proiettare visioni gerarchiche totalmente incontestabili. D’altra parte la precarietà e casualità del rapporto tra esseri umani ed entità invisibili caratterizza la genesi di molte divinità. Nel vodu il caso ha un ruolo importante, ma è altra cosa rispetto all’ingenuità, denunciata dagli osservatori europei. Non si tratta infatti di puro caso, ma piuttosto della consapevolezza dell’agentività che gli oggetti possono incorporare. Perché l’incontro tra uomo e oggetto sia proficuo è necessario che si tratti dell’individuo e del momento adeguato, proprio come se fosse «un regalo che l’oggetto fa alla persona» (Sansi Roca 2005:143). Sansi Roca (2005:148-152) s’interroga sulla possibilità, per una pietra chiamata ota – un importante oggetto all’interno di un santuario del candomblé – di avere agency. Non si tratta, continua Sansi Roca, di immaginare una mente interna e neanche l’“abduzione” da una mente esterna (Gell 1998), perché l’agency proviene dall’evidenza della presenza fisica, che si pone in relazione dialettica con il corpo umano. Il nuovo valore che la pietra acquisisce dipende dall’evento e dall’incontro. Ciò che si produce non può essere ridotto alla somma degli elementi presenti prima dell’incontro

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– una pietra, un uomo, un luogo – perché tutti gli attori sono stati modificati dall’evento. Trovare un feticcio è un avvenimento non prevedibile, che cambia definitivamente sia l’uomo sia l’oggetto: l’uomo riconosce nell’oggetto qualche cosa che sa appartenergli e, in tal modo, l’oggetto riesce a intraprendere il suo percorso. È il caso, ad esempio, dei braccialetti in ferro, in ottone o in avorio, che sanciscono l’incontro con il vodu Tchamba.6 Trovare uno di questi braccialetti, che si presume siano appartenuti nel passato a uno schiavo domestico, lungo la strada, nel cortile o nei campi, è un chiaro segno della chiamata di uno spirito. Chi trova il braccialetto dovrà interrogare la memoria orale della famiglia o consultare l’oracolo, in modo da delineare l’identità del precedente proprietario e iniziare con lui un dialogo che continuerà per sempre. L’oggetto si è fatto trovare e resterà unito al corpo di chi l’ha trovato, cambiandone in modo irreversibile l’esistenza. Il dio oggetto viene quasi sempre realizzato dall’uomo ma nel corso della sua esistenza si espande, cambia forma, vive, di fatto, una vita propria, come quella di ciascun uomo. Le sovrapposizioni di materia sono infinite, si tratta di un gioco di scatole cinesi che, una volta iniziato, non è più percorribile in senso inverso, ma può soltanto continuare a crescere o finire per sempre. È impossibile ricostruire la biografia, la «carriera» (Appadurai 1986), di un oggetto vodu, poiché significherebbe ricostruire la storia di centinaia di oggetti differenti. Si possono però immaginare storie fatte di metafore e metonimie, di viaggi e d’incontri: merci che si muovono da un mercato all’altro, uomini che s’inoltrano nella boscaglia a cercare erbe, ma anche oggetti e luoghi immaginari, paure ed emozioni. Ogni tappa della costruzione di un vodu, dall’incontro dell’uomo con le erbe adatte, fino alla realizzazione della statua in legno o del contenitore in terracotta, crea delle relazioni che modificano e plasmano tutti gli attori coinvolti. Gli oggetti vodu sono “dispersi” nelle parti che li compongono, li circondano e con cui sono in relazione. L’uomo è apparentemente l’artefice-demiurgo, ma il suo potere è limitato e transitorio, poiché i risultati del suo agire non sono mai certi. Gli 6. Il vodu Tchamba è diffuso soprattutto tra la popolazione di lingua ewe-mina. Si ritiene che raccolga al suo interno gli spiriti degli schiavi che furono acquistati dalla famiglia che oggi deve gestire l’altare e organizzare le cerimonie. Si tratta principalmente degli schiavi domestici che lavorarono nella famiglia che ospita Tchamba, ma, nel caso di famiglie largamente implicate nel commercio di schiavi, si fa riferimento a tutti gli schiavi che furono acquistati, quindi anche quelli che furono costretti ad attraversar l’Atlantico (Brivio 2008).

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houno e i bokono apprendono i propri segreti direttamente dalla natura o da uomini che rapiti e “assorbiti” dalla natura hanno imparato a dialogare con le foglie e le radici, ad ascoltare la loro voce e seguire i loro suggerimenti. Se la biografia dell’oggetto non è scrivibile, resta la dinamica tra visibile e invisibile, tra una superficie in continua trasformazione e una parte interna, segreta e inconoscibile. 3. Gli “dei oggetto” nel gorovodu Il caso del gorovodu è differente. I santuari riproducono lo slittamento semantico verso la semplificazione e l’ordine, verso un desiderio di “senso” e di modernità che il culto vuole incorporare. Iniziamo dall’osservazione degli oggetti che compongono gli altari del gorovodu, comunemente chiamati tron. Essi, almeno nella loro dimensione più superficiale, si discostano dagli altri vodu. Sono delle palle di materiale organico e vegetale, lucide, levigate e nere. Nella loro forma indecifrabile sembrano mettere in gioco proprio la forza di ciò che non si vede. Cosa nascondono queste palle nere? La dinamica che unisce un interno misterioso a una superficie esterna in continua espansione, a causa del sangue e del grasso animale con cui l’oggetto è ricoperto, potenzia la forza occulta interna, capace di modificare l’esterno. L’espansione della superficie consente di occultare la forma originale, che negli anni diviene sempre più intellegibile. Anche nel caso di alcuni oggetti rituali mande – i boliw – che condividono un’estetica simile a quella dei tron, la dialettica tra superficie e contenuto: «è un modello più generale della nozione mande di potere, applicabile agli stregoni e ad altre persone dotate di capacità straordinarie» (Ferme 2001:162). Questa dinamica è evidente in quei tron che ancora svelano una forma, sotto gli strati di sangue coagulato: un corno, un campanaccio, un ammasso di conchiglie, la coda di un cavallo, ma anche un fucile, un arco con le frecce, dei coltelli. Gli oggetti sono tutti rivestiti da una patina di sangue, che a ogni sacrificio viene con cura distribuito sull’oggetto, in modo che il rivestimento resti brillante e che le forme, con gli anni, si arrotondino e risulti sempre più difficile riconoscere la loro originaria natura. I tron sono ancora più indecifrabili degli altri vodu, poiché non alludono a forme umane, animali o a elementi della natura: sono opere puramente concettuali. Gli oggetti sono esposti per essere visti e per comunicare, a chi visita il tempio, la forza della loro ambigua presenza.

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Nel gorovodu il sangue è l’unica materia che sedimenta sull’oggetto. La sua forma esprime, oltre al mistero insito nella dinamica tra visibile e invisibile, anche un senso di ordine e di razionalità. Le armi del vodu, come spesso sono chiamate, trovano la loro forza evocativa proprio nell’estraneità alle forme comuni e nell’ordine che la loro superficie “pulita” e lucida evoca: c’è qualche cosa di tecnico e moderno in questi contenitori, che racchiudono ordinatamente il caos materico, comunque sempre sotteso. Gli oggetti sono anche in grado di generare delle relazioni gerarchiche; lo scambio che si viene a creare tra l’oggetto, appeso nell’altare, e il fedele che lo vede è diverso da quello che s’instaura quando si trova un vodu lungo la strada. Si tratta di una differente relazione di potere, perché il fedele non potrà mai possedere l’oggetto o identificarsi con esso. Potrà solo proiettare sulla superficie i suoi desideri e le sue ansie, ma la sua relazione sarà subordinata a quella con il leader del culto, unico detentore di quel particolare vodu. Per tale motivo il vero vodu continuerà a restare immobile e nascosto sotto la superficie, frutto dell’evento che l’ha creato e il fedele vedrà solo le lente modificazioni della sua superficie. Esiste poi un’altra opposizione che contribuisce a dare maggiore forza al vodu e a confermare le differenti posizioni di potere: il vodu, come oggetto, è immobile, mentre nella sua apparizione durante la trance, è danzante, scuote il corpo dei suoi fedeli (Sansi Roca 2005). Durante le cerimonie il vodu appare pubblicamente, si mostra agli occhi di tutti i fedeli e in alcuni casi parla, ma la sua presenza è transitoria, mentre l’oggetto vodu è silenzioso, nascosto, costantemente presente e scosso solo da una lieve espansione del suo stesso corpo. I santuari accolgono i fedeli che amano trascorre parte del loro tempo all’interno di essi; il santuario del gorovodu è un luogo che rassicura e accoglie, anche grazie all’ordine e alla pulizia che esibisce. La continua dialettica tra opposti, che il vodu sottende, non viene meno nel momento in cui tutti i sensi sono allertati. Gli oggetti del gorovodu emanano un odore di sangue che stagna nel santuario e assale immediatamente con la sua pesantezza chi vi entra. 4. Lo spazio: santuari vodu e gorovodu L’architettura dei santuari vodu è una parte integrante di questo sistema di credenze, in quanto pratica e sentimento intimo. Si pone infatti in un

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rapporto biunivoco e di scambio con i soggetti che la vivono e frequentano, nella quotidianità o durante le cerimonie. Si tratta, per l’adepto, di una reciprocità più stretta, rispetto a quella instaurata con i singoli oggetti, poiché è proprio dentro al santuario che si esperisce l’immanenza e la trascendenza dei vodu. Qui l’adepto giunge vulnerabile e aperto, saturo di emozioni che verranno alterate anche dalla tipologia dell’ambiente che lo accoglierà. Il santuario è poi il luogo in cui ogni leader può – nei limiti imposti dal suo ordine vodu – esprimere la propria personalità, attraverso un’appropriazione creativa degli oggetti rituali e non, a sua disposizione. L’azione di entrare in un santuario impone sempre un cambiamento corporeo e sensoriale: passare dalla luce al buio, abbassare il proprio corpo oppure spogliarlo, significa inoltre entrare in un contenitore, che a sua volta contiene altri oggetti e altra materia e quindi mutare temporaneamente la percezione di se stessi. Chi entra incorpora il rispetto e la sottomissione al vodu, che si riflette nel rispetto del suo sacerdote. La sottomissione è espressa sulla soglia dell’ingresso, ma si dissolve una volta che ci si trova all’interno, che si è parte del tutto. Non esiste il rispetto timoroso di fronte all’immensità e trascendenza del sacro. Nei santuari si può urlare o litigare, ci si addormenta e si sbadiglia; si beve il gin per le divinità, ma anche per il proprio piacere e divertimento. I molti significati che la parola kpome (in ewe) o kpame (in fon) assume, possono aiutare a comprendere questo processo di adesione al tutto. Kpome indica il luogo in cui le divinità e gli uomini s’incontrano, e viene tradotto in francese come couvant, cioè convento, mentre abitualmente in inglese si parla di shrine, cioè santuario.7 Kpome significa mettere insieme delle persone, contenerle; si usa anche per indicare il recinto dove vengono raccolti gli animali e lo spazio protetto dove si fa la doccia, e infine la stessa parola è utilizzata per indicare il luogo dove il cibo viene cotto, il forno. Quando l’uomo e la donna entrano al suo interno ne diventano parte, come le sostanze organiche e inorganiche sono parte di un vodu, in un continuo processo di contenimento. Entrare nel kpome significa diventare parte di quel mondo e ritornare a essere e sentirsi un ingrediente insieme a molti altri. 7. La parola francese couvant è utilizzata talvolta, anche localmente, per indicare quei santuari nei quali vi sono anche delle stanze per ospitare gli iniziati che devono passare lungo tempo a contatto con i vodu. Un tempo tutti i vodu prevedevano un periodo di residenza all’interno del santuario. Oggi il significato di couvant si è esteso anche per quei culti, come il gorovodu, che non prevedono uno spazio per alloggiare le vodussi. In quest’ultimo caso risulterebbe quindi più adeguato il termine inglese shrine, santuario.

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I santuari vodu, kpome, appaiono, generalmente, come un corpo organico unico, costituito dalla terra del suolo, dagli oggetti e dai cumuli di argilla che da esso sembrano naturalmente emergere. Si tratta di un corpo in continua espansione e capace di mutare nel tempo. Le offerte, le sovrapposizioni materiche, i vodu che si aggiungono negli anni, le ossa, le sostanze vegetali e minerali che fuoriescono dalle grosse calebasse, tutto collabora a creare “un’estetica del disordine”, che esprime la continua tensione tra ciò che è visibile e ciò che non lo è, ricordando ai fedeli che si trovano di fronte a un’entità in divenire. Nel kpome il disordine e l’anomalia sono elevati a oggetto di venerazione. L’ambiguità sottesa alla vita è un discorso fondante nella pratica e nel sentire vodu. Sembrerebbe quindi assente il desiderio di attenuarla, a favore di una sua accettazione ontologica che costringerebbe gli esseri umani a un confronto costante con quello che potremmo definire le incoerenze del cosmo e della vita. Il vodu appare quindi come un dispositivo che non tende a sfuggire la complessità dell’esistenza, ma piuttosto a dispiegarla e riproporla attraverso le sue pratiche e la sua cultura materiale. La materia, come detto, è aggressiva e il disordine disorienta, poiché impedisce di comprendere e attribuire deterministicamente un senso. I kpome sono generalmente spazi chiusi, angusti, bui o in penombra, dove oggetti dalle forme incomprensibili, o solo allusive, possono emergere dal pavimento o pendere dal soffitto. Entrare nel kpome significa diventare parte di quel mondo e ritornare a essere e sentirsi un contenitore insieme ad altri. Il caso del gorovodu è diverso. I kpome riproducono lo slittamento semantico verso la semplificazione e l’ordine, verso un desiderio di “senso”, che il culto vuole incorporare. La pulizia e la semplicità sono i valori morali continuamente enfatizzati dai suoi sacerdoti, che cercano di opporsi all’ambiguità etica tipica del vodu. L’ambiente, pensato per accogliere le divinità, si ispira quindi a questi valori. Vi sono due tipologie prevalenti per i santuari del gorovodu. Nella prima tipologia, la stanza che ospita gli altari dei vari vodu è ampia e luminosa. Si tratta di edifici indipendenti rispetto alle abitazioni adiacenti, le cui dimensioni sono sovente maggiori di quelle delle abitazioni civili. Sono strutture che ricordano piccole chiese o moschee, costruite in modo da poter ospitare un certo numero di fedeli. All’interno del kpome vi è sempre una costruzione in cemento con delle piccole aperture che costituiscono le case delle singole divinità, un’architettura che ricorda quella di un tabernacolo in una chiesa cattoli-

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ca. Gli osservatori d’epoca coloniale descrissero con disprezzo gli altari definendoli dei canili, poiché l’apertura quadrata che accoglie ciascuna divinità evocava a loro parere, per le ridotte dimensioni e la prossimità al suolo, la cuccia di un cane. I primi altari erano realizzati all’aperto, non ancora inglobati in un edificio. I kpome che appartengono alla seconda categoria sono molto semplici. Sia in città sia nei villaggi, sono generalmente costituiti da una grossa vasca in cemento al cui interno si accumulano le noci di cola, che spesso germogliano, grazie all’acqua offerta dai fedeli. La superficie può essere quindi verde di foglie e in alcuni casi al centro cresce un albero di cola. I kpome presentano sempre un’apertura nel soffitto, proprio in corrispondenza dell’altare, in modo da lasciare il «vodu in contatto con il cielo» e, se necessario, consentire all’albero di crescere. I kpome di campagna sono completamente aperti, privi di soffitto, pur mantenendo le pareti laterali. L’apertura verso l’esterno e verso l’alto, la luminosità, diventano la prova di un’etica positiva e di comunanza con le forze cosmiche. Il tron esiste solo ed esclusivamente per proteggere i suoi fedeli e per tale motivo è in grado di dialogare con le altre religioni. Come affermano i sacerdoti, «in questo vodu non ci sono segreti», motivo per cui nei kpome si può intravedere un desiderio quasi didascalico di dare senso. In molti kpome del gorovodu, il nome delle divinità viene scritto al di sopra di ciascuna apertura, cosa che rende ancor più ordinato e funzionale l’ambiente. L’altare è poi arricchito da altri oggetti, come le vecchie adu (le giacche dei cacciatori), un arco con le frecce, le mascelle dei buoi sacrificati e altri oggetti che evocano il mondo della savana. Il pavimento del kpome è regolarmente spazzato, coperto da tappeti, gli stessi usati dai musulmani per la preghiera, oppure da pelli di capra o di pecora. Sono ambienti accoglienti, luminosi, in cui i fedeli amano passare il tempo e trattenersi in chiacchiere. In alcuni kpome della seconda tipologia, soprattutto in Bénin, l’affinità con le religioni monoteiste viene ribadita attraverso l’accumulo di immagini e oggetti. In molti di essi vi sono foto della Mecca e scritte in arabo, segni della Cabala e affreschi che riproducono scene bibliche: Eva con la mela e il serpente, Abramo e Isacco nel momento del sacrificio. Si tratta di manipolazioni delle rappresentazioni che implicano l’appropriarsi del potere in esse racchiuso. Eva, che dialoga con il serpente, diventa una delle tante forme assunte da Mami Wata, una delle divinità dell’oceano, che gli houno ritengono sia parte del gorovodu. Dio che salva Isacco e lo sostitui-

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sce con un montone è la prova della necessità di sacrificare gli animali alle divinità. Un particolare comune alla maggior parte dei kpome del gorovodu beninesi è l’uso di piastrelle bianche per rivestire le case delle divinità. La piastrella, oltre a essere una scelta coerente con l’idea di pulito e di ordine che il tron vuole esprimere, evoca una certa idea di “modernità”. La piastrella appare come lo spartiacque tra “tradizione” e “modernità”, secondo l’immagine che hanno di queste due categorie i praticanti del gorovodu. Essa esprime il desiderio di ciò che Banégas ha definito la «civilizzazione materiale del successo e la modernità importata» (2003:398). Egli si riferisce a un altro contesto, quello della città di Cotonou e al processo di pavimentazione delle strade che si sviluppò parallelamente a quello di democratizzazione; ma il valore simbolico della “piastrella” resta il medesimo. La piastrellatura degli altari esprime anche altri significati, che riconducono, ancora una volta, al rapporto dialettico tra esterno e interno, tra visibile e invisibile. La piastrellatura forma una superficie continua, ordinata e apparentemente immutabile. I sofo e gli houno spesso affermano che «il tron è per tutti», che «non vi sono segreti», perché tutto è esplicito, tutto è conoscibile. Questa retorica, oggi molto incisiva, era già presente alle origini, se si ricorda che Sakrabundi, secondo le parole di Sie Kwaku, doveva «fare del bene a tutti, portando la benedizione della pace e della prosperità, attraverso la distruzione della stregoneria in ogni città» (McCaskie 2005:173). Il “feticcio” non aveva condizionamenti etnici né di lignaggio, e parlava, già a inizio secolo, il linguaggio universale della pace. L’esperienza sensoriale che il fedele del gorovodu prova è di ordine, un ordine che non appartiene né agli altri spazi comuni, né alle abitazioni private, né in generale alla percezione quotidiana dello spazio urbano. L’ordine può sicuramente suscitare estraniamento, ma al contempo veicola l’idea di appartenere a una realtà differente, nuova, e proprio in questi termini, moderna, che progredisce e migliora la condizione del singolo. L’enfasi sull’idea di pulito esprime l’adesione a un insieme di valori, che collaborano a rafforzare la fiducia nel tron in quanto portatore di successo e denaro. Il desiderio di pulizia indica la volontà di tenere sotto controllo l’ambiguità, mettendola ai margini dello spazio condiviso La superficie lucida e bianca dona l’illusione che sotto, all’interno, non vi sia nulla di nascosto, perché nulla traspare attraverso la superficie compatta, nessuna metamorfosi è concessa dalla rigidità del materiale. Il mistero e il segreto sono paradigmi fondanti il vodu; essi restano validi an-

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che nel tron, ma la necessità di trovare una posizione rispetto alle religioni universali, il particolare percorso storico, lo hanno arricchito di valenze etiche con le quali i detentori del tron devono mediare. Il prezzo è stato un impoverimento estetico e una certa tendenza all’omologazione. Il disordine da elemento fondante scivola lentamente nella sfera del pericolo, ai margini dello spazio condiviso, assieme alla stregoneria. La piastrella, scelta come espressione di una modernità compiuta, ha probabilmente superato le intenzioni dei suoi utilizzatori. Al consapevole desiderio di scegliere un materiale moderno e d’importazione, le caratteristiche materiche delle piastrelle apportano altri mutamenti estetici e semantici. Innanzitutto, con la loro perfetta geometria, stanno imponendo un ordine estetico di tipo cartesiano, dove gli assi paralleli disegnati dalle piastrelle amplificano un’idea di ordine e razionalità che indubbiamente gli altri altari vodu, dalle forme arrotondate e irregolari, non potevano comunicare. In secondo luogo, oltre a non assorbire le offerte, il sangue e l’alcool che è depositato sugli altari, le piastrelle sono lavabili, impedendo quindi ogni forma di stratificazione e inibendo un’estetica dell’incompiuto, presupposto di un rapporto dinamico e processuale con le divinità. In tal senso, si riconferma il potere e l’agentività dell’oggetto, capace di superare la volontà dell’utilizzatore e talvolta di trasgredire le sue stesse intenzioni. 5. Il corpo nella possessione La pratica della religione africana «si focalizza sul corpo come recettore e trasmettitore di forze reintegrative, un processo dinamico che si manifesta innanzitutto attraverso il movimento rituale e la danza» (Brenner 1989:99). La possessione, la presa del corpo del fedele da parte di un vodu, esprime la fattualità e legittimità del rapporto tra uomini e divinità. Si tratta di un argomento classico dell’antropologia, che ha per lungo tempo visto il corpo posseduto come oggetto passivo e sacrificato per il bene della comunità. Gli studi hanno mostrato le contraddizioni e spesso l’incapacità di trovare una spiegazione razionale a un fenomeno apparentemente irrazionale, dando vita a una vera e propria «proliferazione dei paradigmi» (Beneduce 2001:16). I primi studi che s’interessarono alla possessione vodu, la lessero come un sintomo di dissociazione della persona, una sorta di crisi isterica; il corpo era il semplice contenitore di una mente momentaneamente “malata”, affetta da una crisi psichica o nervosa,

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che poteva essere controllata ritualmente.8 Come suggeriva ironicamente Métraux (1955) però, ciò avrebbe implicato credere che, ad esempio, l’insieme della popolazione haitiana fosse affetta da turbe psichiche. Métraux s’interrogò sulla sincerità della trance, notando come la perdita di coscienza in molti soggetti non fosse che parziale. La crisi nervosa iniziale, che segnava l’arrivo della divinità non era subita dai posseduti, ma piuttosto recitata. Alla base vi era un meccanismo mimetico, una tecnica del corpo che, all’interno di una cornice rituale di condivisione dei comportamenti e di adesione a un modello culturale – «un imperativo rituale», poteva provocare e realizzare realtà “altre”. Bastide (1957) analizzò la possessione vodu, in contesto brasiliano, come conseguenza ed espressione della pressione sociale sull’individuo. Attraverso il candomblé, gli individui si liberavano dei conflitti interiori, delle loro inclinazioni nascoste e delle costrizioni sociali che inibivano l’emergere della loro reale personalità. I fedeli potevano scegliere di essere posseduti dalla divinità più in sintonia con la loro natura: «il cambiamento di personalità prodotto dalla trance è come una fuga dalla vita quotidiana; un modo per qualcuno di realizzare un altro “sé”, che è stato frustrato dalla vita»9 (Bastide 1957:90). L’appartenenza degli adepti alle classi inferiori della società confermava questa ipotesi. L’iniziato aveva quindi una volontà e capacità d’agire che si esprimeva nella scelta del vodu, ma il suo agire sembrava condizionato solo dalle costrizioni imposte dalla società e la trance diveniva una forma di liberazione catartica dai suoi vincoli.10 Già nelle parole di Bastide s’intuiva però la centralità del corpo agente 8. La contiguità tra possessione e disturbi psichici della personalità multipla hanno indirizzato molti studi scientifici in questa direzione, creando una nuova entità nosografia (Beneduce 2001:16). Al contrario, come ricorda Olivier de Sardan (1994), non esiste fraintendimento, nelle rappresentazioni locali, tra possessione e follia. Si tratta di due categorie distinte e che spesso si escludono l’una con l’altra, essendo la follia spesso la conseguenza dell’interruzione non biunivoca del dialogo tra uomo e divino. 9. Secondo Verger questa interpretazione della trance non era applicabile in contesto africano poiché l’orisa o vodu non poteva essere scelto, ma veniva imposto in base all’appartenenza al lignaggio. In Brasile, la condizione di “sradicati” dalla propria terra, che caratterizzava gli adepti, rendeva possibile questa scelta (1957:79). 10. Molti studi hanno messo in evidenza come la possessione coinvolga generalmente le donne, i membri delle classi inferiori e in genere i gruppi sociali subordinati e devianti. Un modo quindi di richiamare l’attenzione su chi è meno visibile, di riequilibrare gli squilibri e ottenere benefici materiali, nonché un riconoscimento sociale e uno “status” in altro modo assente (Crapanzano 1973, Lewis 1971, 1986).

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attivo del fenomeno trance: «i movimenti del corpo, la misteriosa agilità, l’ancheggiare della donna, la violenza ritmata del gesto, rivelano una partecipazione segreta dell’anima tutta intera, compresi i suoi più intimi turbamenti, al modello divino» (1957:90). Il dibattito, tra chi ha interpretato la possessione come fenomeno di dissociazione psichica o come una forma di recitazione e riproduzione di modelli culturali condivisi, ha interessato per anni la discussione antropologica, lasciando però sempre in secondo piano la dimensione corporea. Il corpo era solo una rappresentazione di altro da sé, un supporto su cui scrivere dei segni – tatuaggi, scarificazioni, decorazioni – o attraverso cui la società stabiliva delle relazioni con il sacro. Alla base di quest’assunzione vi era l’accettazione della divisione cartesiana tra corpo e mente, la rimozione del corpo dal campo della coscienza e la sua conseguente oggettificazione; il corpo non si emancipava quindi dal suo ruolo di metafora del sociale (Douglas 1970:65-81). A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, gli studi sulla possessione si sono appoggiati a nuovi strumenti teorici, che hanno consentito di superare la dicotomia tra corpo e mente, tra conscio e inconscio, trasformando il corpo in soggetto senziente. Recuperando le concezioni di habitus e di tecniche del corpo di Marcel Mauss11 e l’ulteriore elaborazione fornita da Pierre Bourdieu, il corpo viene posto al centro di una dialettica dell’incorporazione che non si situa più al livello della rappresentazione, della volontà informata dall’intelligenza, ma di una pratica mimetica che non ha nulla a che vedere con l’imitazione: «[il corpo] non rappresenta quello che mette in atto, non memorizza il passato, lo fa agire, riportandolo in vita» (Bourdieu 1990:72-73). 11. Mauss ([1936] 1991:409) scriveva in “Tecniche del corpo”: «io credo, appunto, che anche al fondo di tutti i nostri stati mistici, ci siano delle tecniche del corpo che non sono state studiate, ma furono perfettamente studiate dalla Cina e dall’India, fin da epoche antichissime». Dal lavoro di Mauss hanno preso l’avvio gli studi di tecnologia culturale, in cui si indaga il rapporto transitivo del lavoratore sulla materia lavorata per mezzo del saper fare e degli strumenti specifici. La prospettiva proposta da Wernier (2001, 2005) ricorda che le tecniche del corpo sono applicabili all’uomo totale, per cui è possibile uno sdoppiamento: ci sono le azioni tradizionali ed efficaci sulla materia e le azioni tradizionali e efficaci sul soggetto. Wernier (2005:212-223) passando anche da Foucault, pone l’attenzione sulle tecniche del sé, le tecnologie del potere indotte dalla «condotte sensorio motrici» e dalla cultura materiale. Queste ultime sono utili per comprendere la forza e la persistenza dell’iniziazione, dell’apprendistato, della pratica e quindi vedere sotto una luce differente la possessione e tutte le pratiche corporee di apprendimento.

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In questa prospettiva la possessione diventa una pratica culturale incorporata (Jackson 1989, Taussig 1993, Stoller 1995), dove è il corpo a mettere in atto la mimesi dell’altro. È quindi un modo per conoscere il presente e il passato dell’uomo; un modo per «comprendere il mondo attraverso il nostro corpo» (Stoller 1995:41). Le pratiche corporee espresse durante la trance non sono il risultato dell’adesione e dell’ubbidienza a ruoli prefissati, quanto «la conseguenza dei modi in cui i corpi sono informati dagli habitus, instillati all’interno di un ambiente condiviso» (Jackson 1989:128). L’iniziazione è un momento di formazione del corpo, durante il quale le condotte motrici, la cultura materiale e le elaborazioni fisiche si articolano, in cui, parafrasando Warnier, ha luogo la “soggettivazione”, in termini foucaultiani, dell’adepto vodu. L’apprendimento avviene per una combinazione di sensazioni, emozioni e motricità, che garantiscono una profonda penetrazione nel soggetto, della cultura materiale e delle pratiche (Warnier 2001:16). Questa incorporazione può avvenire anche al di fuori di uno spazio coercitivo come quello del convento vodu, attraverso l’apprendimento quotidiano, il gioco infantile o il semplice partecipare alla vita di una comunità. La paura è un sentimento che emerge sempre dalle parole delle vodussi e delle trosi che vogliono raccontare ciò che provano nel momento in cui il vodu arriva a prenderle. Le adepte generalmente affermano di non ricordare nulla dell’intervallo temporale, si può trattare anche di ore, che passano in trance. Una totale perdita di coscienza sembra caratterizzare queste esperienze; le adepte ammettono che si tratta di una sensazione simile a uno spavento molto forte, almeno nel momento iniziale dell’incontro, spesso violento e improvviso con la divinità. Durante la possessione, l’adepta raggiunge la fusione fisica con il mondo del non visibile, cedendo il proprio corpo e, in alcuni casi, i propri occhi e la propria voce per vedere ciò che solo il vodu può vedere. L’arrivo della divinità nel corpo dell’adepto sembra sancire il momentaneo annullamento della personalità di quest’ultimo. Bisogna però fare attenzione a non leggere questa sostituzione tra uomo e divino come una negazione o un annullamento del primo, poiché ancora una volta rischieremmo di sottovalutare la dimensione corporea e soggettiva del fenomeno. Gli spasmi del corpo, che esprimono dolore e stupore allo stesso tempo, precipitano l’adepto a terra come se fosse colto da un dolore tanto improvviso quanto dilaniante; sembra di percepire una resistenza da parte

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del corpo dell’adepto, che divincolandosi, talvolta emette suoni anomali e disturbanti. La trance arriva come una folata di vento improvviso, che travolge una dopo l’altra le adepte. Oppure la trance può giungere lentamente, tracciando sul viso dell’adepto dei segni progressivi di distacco e assenza, che condurranno poi alla perdita di coscienza. L’adepta, dopo la trance, è stanca e spossata, in preda a un’amnesia che le impedisce di ricordare quello che le è successo o quello che ha visto. Ciò che si ricorda viene sempre espresso attraverso la descrizione di sensazioni fisiche, proprio a sottolineare la centralità del corpo. Madeline, trosi del tron kpeto ve, incontrata nel kpome di Klikame a Lomé, parlando della possessione raccontava: è difficile dire quello che si prova, perché non ti ricordi nulla di quello che ti è successo. Una sensazione di caldo, freddo… vedendo le altre si capisce che è qualcosa di faticoso e doloroso, ma non ce lo ricordiamo.12

Hilaire a cui posi la medesima domanda, mi disse: quando il vodu arriva si sente un forte calore, poi un fastidio fisico, qualcosa che tira il tuo corpo, per cui ti dimeni, ti devi stirare. Ci sono delle canzoni, delle musiche, che al solo sentirle ti turbano profondamente e puoi andare in trance.13

Anche per Deren, la trance era un’oscurità bianca, contro cui cercava di resistere: l’aria sembrava greve, umida, e il respiro affannoso non rinfrescava i polmoni affaticati. Il cuore batteva in cadenza con il ritmo. Le mie gambe erano incredibilmente pesanti, i muscoli si contraevano in uno spasimo doloroso che mi trafiggeva sempre più profondamente a ogni movimento (Deren 1959:304).

Poi la forza esterna ebbe la meglio: «l’oscurità bianca inondava tutto il mio corpo, giunse alla testa, mi sommerse. Fui succhiata giù ed esplosi, di colpo, verso l’alto. Fu tutto» (Deren 1959:306). La questione centrale sono le forme di apprendimento del corpo. Le concezioni locali, infatti, pur attribuendo il fenomeno a una forza incontrollabile ed esterna, riconoscono la necessità di addomesticare lo spirito, cioè di imparare a conoscerlo ed entrare in sintonia con le sue attitudini caratteriali e fisiche. I corpi, che durante le cerimonie entrano in contatto con le divinità, sono già stati segnati e trasformati dall’iniziazione. 12. Conversazione con Madeline, Klikamé, Lomé, Togo, 4 settembre 2006. 13. Conversazione con Hilaire Dohou, Godomey, Cotonou, 14 dicembre 2005.

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6. Forme di iniziazione L’iniziazione vodu è la conseguenza necessaria e inevitabile di una chiamata o di un segno: è un dono, un talento e sovente una predestinazione. Nel gorovodu diventare adepti è facile, strettamente connesso alla volontà e alla scelta individuale. Ma non tutti gli adepti possono andare in trance – diventare trosi – perché non tutti sono, anche in questo ordine, scelti dal vodu. Bisogna esserne capaci: «non è solo training, è arte» (Sansi Roca 2005:142). Il corpo durante l’iniziazione diviene un soggetto attivo, poiché esperisce emozioni ed è costretto ad apprendere le tecniche per affrontarle e controllarle. Durante l’iniziazione, si acquisiscono pratiche corporee che consentono di perdere controllo e possesso di se stessi; l’esperienza centrale è imparare a convivere con emozioni di paura e violenza che trasformano radicalmente il sé. Le diverse forme d’iniziazione, oltre a basarsi, come vedremo, proprio sul gioco, creano dei “traumi”, che attivano ciò che Warnier (2001:13) definisce «medium sensorio-affettivo-motorio», capace di agire con maggiore incisività rispetto a quelli basati sulla parola o sulle immagini. Anche se la trascrizione etnografica non è certo lo strumento più adeguato per comunicare questo fenomeno, alcuni cenni alle esperienze raccontate dalle adepte possono aprire spiragli di comprensione. Un’anziana trosi di Atikesimé, un piccolo villaggio togolese vicino alle rive del fiume Mono, evocava le difficoltà che aveva dovuto affrontare durante il suo lungo processo d’iniziazione. Nella congregazione di cui lei faceva parte – le xoyoto14 – l’uscita15 dal convento (restò nel convento per quattro anni), 14. Le xoyoto sono delle sacerdotesse, divinatrici e necromanti. (proprietarie to, delle evocazioni yo nella scatola xo), cioè detentrici di una forma di divinazione che sono in grado di praticare grazie all’esistenza di uno spirito guida che usa il loro corpo per comunicare con i viventi: esse esercitano una sorta di ventriloquio. Nella foresta apprendono i segreti per comunicare con gli spiriti e conoscono il loro spirito-guida, colui che le accompagnerà tra i morti, nel momento della divinazione. Sono anche in grado di contattare gli antenati dei clienti e attraverso la loro guida – dotsovi – tutti gli spiriti coinvolti nel problema da risolvere. I dotsovi sono spiriti morti di morte violenta, generalmente appartenenti alla categoria degli Adela – i cacciatori – o di Tchamba – gli schiavi – che appartennero alla loro famiglia. Si tratta di spiriti caldi, quindi aggressivi, irruenti e imprevedibili. Si veda a riguardo anche il recente lavoro di Hamberger (2009). 15. L’uscita dal convento sancisce il cambiamento di identità della donna che diviene adepta e la fine della fase più intensa del processo di iniziazione.

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comportava il passare una notte nella foresta sacra vicino al luogo dedicato ai morti di morte calda, lo zogbe.16 Le donne venivano – la stessa pratica è ancora in uso17 – avvolte in un lenzuolo, quindi in una stuoia e poi legate con una corda, secondo lo stesso processo usato per preparare i morti. Con il corpo completamente immobilizzato e nascosto, dalla testa fino ai piedi, la novizia è trasportata nella foresta e intrattenuta per qualche ora dalla musica e dai canti. A notte fonda tutti rientrano a casa, mentre la donna è lasciata sola, ad affrontare l’incontro con gli spiriti terrificanti e minacciosi, che si ritiene abitino lo zogbe e popolino la notte. L’anziana trosi definiva quella parte dell’iniziazione come l’esperienza più terrificante della sua vita. Nonostante fossero trascorsi forse più di sessant’anni, emergevano ancora dalla sua voce e dalle espressioni del suo volto le emozioni indelebili che aveva provato in quei momenti: paura, disperazione e intenso dolore fisico. Le iniziate restano immobilizzate, con difficoltà respiratorie, costrette nella stuoia, nel buio più completo, in un luogo che la comunità ritiene abitato dai morti di morte violenta; durante la notte gli uomini si aggirano attorno alla foresta, aumentando i rumori e le voci, che già abitano la notte; ciò, si dice, al fine di spaventare e allontanare gli spiriti più pericolosi ma di fatto aumentano lo sgomento delle adepte. I sensi sono inibiti – la vista, il tatto, la motricità, l’udito – e allo stesso tempo ne è esasperata la loro percettività, date le condizioni estreme a cui il corpo è sottoposto. La trosi mi raccontava che oltre ai suoni disumani e spaventosi, era stata percossa, schiacciata, trasportata in luoghi lontani dove aveva visto cose spaventose e irripetibili. Una notte di visioni e allucinazioni sensoriali, di cui però le protagoniste conoscono il fine. Viaggiano in luoghi pericolosi perché devono apprendere a muoversi e a dialogare con i morti. La mattina, gli uomini le vanno a prendere e, ancora avvolte nella stuoia, le riportano nel couvant. Quando vengono liberate dai tessuti in cui sono state rinchiuse sono mute, con lo sguardo assente e incapaci di 16. I corpi dei mauvais morts venivano un tempo, e ancora oggi quando possibile, interrati nello zogbe, termine che indica la savana e che significa “luogo del fuoco”. Zogbe è uno spazio incolto ai margini del villaggio o in un angolo di un cimitero. I morti sepolti nello zogbe – i morti di morte violenta, gli schiavi e chi moriva per volere di un vodu – erano condannati, secondo le credenze prevalenti tra gli ewe mina e i fon, a vagare nella natura, privati della possibilità di divenire antenati e reinserirsi nel ciclo della vita. 17. Ho assistito a una cerimonia di “uscita” dal convento nell’ottobre del 2002, nelle vicinanze di Atikesimé, in Togo.

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reggersi in piedi. Benché l’iniziazione non si esaurisca nella notte passata nella foresta, questo è descritto come il momento di maggiore turbamento e disorientamento emotivo. Alla fine del lungo processo d’iniziazione le donne saranno in grado di divinare, parlando con gli spiriti dei morti. Oltre ad avere incontrato l’indicibile sono diventate, per sempre, parte di esso. Il «medium sensorio-affettivo-motorio» ha messo in atto una condotta di simbolizzazione, attraverso la quale le iniziate hanno elaborato e incorporato tutto ciò che sapevano e immaginavano attorno alla morte, tutto ciò che avevano appreso nel corso della loro vita e negli anni d’iniziazione. Ogni vodu segue un differente processo iniziatico, che può comportare mesi oppure anni di reclusione in un convento. Oggi i tempi dell’iniziazione si sono radicalmente ridotti, per cercare di far fronte alle esigenze delle famiglie e alle pressioni della società. La velocizzazione della pratica rituale nel suo complesso e di quella d’iniziazione in particolare, pone degli interrogativi sulla possibilità e sul senso dei fenomeni di possessione oggi. Come possono i corpi apprendere, se i tempi si sono contratti? I fenomeni di possessione continuano a caratterizzare il campo religioso anche in spazi interetnici vasti e “globalizzati”, dimostrando la capacità di oltrepassare i confini culturali, uscire dalla comunità e penetrare ambienti apparentemente estranei a questi fenomeni. La capacità di transitare e contenere la dissociazione rende la possessione particolarmente adatta ad assimilare l’alterità, a incorporare ciò che è sconosciuto e alieno (Kramer 1987). Sono spiriti stranieri, distanti e poco conosciuti quelli che prendono, ad esempio, gli adepti del tron kpeto ve: spiriti della savana, divinità del nord che irrompono nello spazio geografico delle aree costiere e forestali, con i loro corpi completamente coperti, per proteggersi dal sole della savana. Il gorovodu nella sua forma kpeto ve narra la storia di un incontro che si originò nel nord e della forza con cui queste divinità continuano a imporre il loro linguaggio agli adepti del sud. La mancanza di una vera iniziazione, all’interno di quest’ordine, apprezzata come un segnale di “modernità”, è sostituita, per le donne che diventeranno trosi, da un apprendistato che consiste nel partecipare alle cerimonie, alle preghiere settimanali e frequentare assiduamente la comunità. Come Hilaire mi raccontava: Le trosi, quando sono in trance, vedono il futuro e parlano con la voce delle divinità. Ma prima di arrivare a questo livello devono essere eseguite alcune cerimonie. Innanzitutto deve essere loro aperta la bocca, cioè si fanno delle

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piccole scarificazioni ai lati della bocca e si inseriscono le polveri necessarie. Prima dell’apertura della bocca, le trosi possono cercare di comunicare, ma solo con i gesti e i movimenti del corpo. Questo di solito succede nella fase iniziale, quando l’adepta va in trance per le prime volte e non si è ancora identificato a chi appartiene. Oltre all’apertura della bocca, devono essere inserite delle sostanze anche ai lati degli occhi. Le trosi, infatti, vedono nell’oscurità, e lì vedono ciò che gli altri non sono in grado di vedere. Ma se non fossero protette da queste polveri, rischierebbero di impazzire. Diventare adepti, qui da me, è semplice, sono necessarie 1250 CFA, una bottiglia di gin, le noci di cola e 5 polli. Ma molti sofo chiedono cifre più alte di denaro. Nel momento dell’iniziazione una cola viene tagliata in due, una metà appoggiata sul tron e l’altra data al tron stesso (gettata nella sua casa). L’adepto deve prendere con la bocca quella appoggiata sul tron e mangiarla. Il tutto viene ripetuto per tutti e cinque i tron. Poi vengono eseguite le cicatrici. Ma la prima fase fondamentale è la confessione. L’adepto deve liberarsi, purificarsi, altrimenti il tron non accetterà la cerimonia. Bisogna confessare se si è ucciso, se si è fatto del male, se si è impuri, se si è abortito o commesso altri atti che sono vietati dalle regole del tron.18

La futura adepta sovente appartiene all’entourage della famiglia che gestisce e possiede il kpome. Si tratta di famigliari, vicini di casa, parenti lontani, oppure di persone già iniziate a un altro ordine vodu. Si diviene trosi comunque dopo un lungo periodo di pratica e di conoscenza sia del culto, delle sue pratiche e regole, sia delle persone che lo animano. Questo processo è particolarmente evidente nelle bambine, come nel caso di Ida, una bambina di undici anni – incontrata a Cotonou nel novembre del 2006 – che era stata “presa” per la prima volta dal tron all’età di otto anni. Ida ballava con abilità e ripeteva alla perfezione i gesti delle altre due donne, anch’esse in trance, che stavano partecipando a una cerimonia mattutina. La sua danza era controllata e i movimenti essenziali, senza aggiunte personali, senza scatti improvvisi o movimenti che potessero esprimere eccessi di energia. Quando i tamburi si fermavano, Ida restava in piedi, in mezzo allo spazio vuoto che la circondava, muovendo leggermente i piedi, avanti e indietro, come scossi da un leggero fremito, con lo sguardo assente e rivolto altrove, in attesa che la musica ricominciasse. La bambina frequentava da anni il kpome, seguendo la zia che abitava nella casa a fianco, e conosceva i movimenti, i gesti, le espressioni del vol18. Conversazione con Hilaire Dohou, Godomey, Cotonou, Bénin, 30 novembre 2005.

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to e i tempi dei movimenti delle divinità. Come mi disse una delle donne presenti, vi erano buone probabilità che si trattasse di Nana Blewa perché i movimenti corporei controllati di Ida facevano pensare proprio a lei. Non si trattava di un’impacciata imitazione o di un tentativo di riproduzione. Il suo corpo aveva appreso negli anni le danze e i ritmi della musica. Durante le cerimonie, i kpome sono sempre affollati di bambini che accompagnano madri, nonne o zie. Dormono, giocano, oppure osservano affascinati, a volte spaventati, a volte divertiti, quello che succede davanti ai loro occhi. I bambini cercano di imitare i grandi, ballando, suonando, riproducendone i gesti e suscitando ilarità o rabbia. Riproducono i movimenti del corpo che la divinità richiede, imparano a riconoscere il linguaggio dei tamburi e lentamente, attraverso il gioco, imparano a confrontarsi con il mondo dell’invisibile. Incorporano negli anni ciò che nel momento del primo contatto con la divinità apparirà come del tutto naturale. La nozione di copia non è sufficiente a «spiegare la naturalezza con cui le capacità di mimesi appaiono […] il comportamento è generato da principi innati e incorporati che hanno bisogno solo di un ambiente alterato per essere afferrate ed entrare in gioco» (Jackson 1989:130). Jackson (1989) interpreta l’iniziazione come un momento di rottura delle abitudini che lascia quindi spazio ad altri habitus incorporati,19 che appartengono sempre e comunque a un universo dato. La trance di Ida era controllata, senza eccessi di energia e di furore, perché come dicevano le altre donne: «la divinità capisce che è una bambina». Negli anni Ida, probabilmente, apprenderà altre tecniche, nuovi linguaggi, svilupperà uno stile personale e sperimenterà trance violente e pericolose. Ida non aveva subito un complesso rito di iniziazione e di 19. Le donne possedute da Kunde, detto anche togbe – padre, antenato – hanno solitamente un comportamento austero e moderato che ben incarna la forza e il carattere che un antenato deve avere. L’andatura è quella maschile, così come tutti i movimenti del corpo, dal modo con cui fumano la pipa, allo sguardo e al movimento altero della testa. Vi sono poi divinità più femminili, come la già menzionata Aberewa, oppure con una femminilità molto infantile, come Sunia, la figlia. Le adepte prese da quest’ultimo vodu spesso si comportano come delle bambine capricciose e dispettose, hanno atteggiamenti apparentemente insensati e possono diventare aggressive e irrispettose delle gerarchie. Anche Ceghé, vodu legato alla foresta e parte di Banguele, è uno spirito pieno di energia che salta, gioca, corre e si esibisce in danze quasi acrobatiche. Nessun atteggiamento è incomprensibile o estraneo all’esperienza corporea degli adepti: tutti appartengono al loro vissuto e quasi sempre sono stati incorporati durante i giochi infantili.

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destrutturazione del corpo,20 ma aveva appreso, dalla prima infanzia, un habitus condiviso da parte della sua famiglia e del suo entourage. Si è trattato di un apprendimento corporeo graduale, che ha reso il fenomeno, al suo apparire, come del tutto “naturale”. Anche l’esperienza di Paulette, una vodussi di Heviossou e Mami Wata, sottolinea il ruolo fondamentale che il gioco infantile può assumere nell’incontro con il sacro: quando ero piccola amavo tutto quello che era legato al vodu […] all’età di sette anni avevo fatto il vodu Gu e Da, senza sapere che erano dei vodu e che queste divinità erano venute proprio per me. Avevo fatto questa cosa di nascosto, senza sapere cosa stavo veramente facendo, e poi sono diventati dei vodu per tutta la famiglia. […] Prendevo del cemento, della sabbia… avevo fatto il serpente, cioè l’arcobaleno, poi messo insieme dei ferri e avevo fatto Gu, ma non lo sapevo… la casa era, all’epoca, piena di animali, polli, galli… quando i grandi non c’erano, io chiamavo mia sorella maggiore e portavamo tutto il necessario ai vodu e di nascosto sgozzavamo un pollo a Da e a Gu, poi lo cucinavamo e lo mangiavamo, e se non finivamo tutto perché eravamo sazie, nascondevamo il cibo e lo mangiavamo in un altro momento. Poi danzavamo, cantavamo, facevamo i vodu, facevamo delle false trance, come le adepte, dicevo a mia sorella: «ti devi mettere in trance per danzare, come fanno i vodu». 20. Nei vodu, cosiddetti “tradizionali”, come Heviossou o Sakpata, il processo di iniziazione segue un percorso differente e più classico. Ludwina Meyer, adepta di Shango (Heviossou), mi raccontava (Porto Novo, Bénin, dicembre 2006) che il suo mese di iniziazione era stato incentrato innanzitutto nello sforzo di destrutturare il corpo e “espropriarlo” dal suo controllo: ritmi di sonno e di veglia completamente alterati e privi di regolarità, inversione di ogni abitudine, impossibilità di decidere quando riposarsi o quando mangiare. Cambiamento delle abitudini alimentari, olfattive e motorie. La danza incessante, i rituali, l’apprendimento dei saperi esoterici, la sottomissione totale alla propria sacerdotessa, la perdita di ogni potere decisionale, sono gli elementi che inducono un radicale apprendimento corporeo e che fanno spesso pensare alle iniziande come a delle schiave, a cui appunto viene sottratto tutto, anche il controllo del proprio corpo. Solo in questo modo, infatti, un’adulta può acquisire e naturalizzare nuovi comportamenti corporei. Una simile situazione viene vissuta tutte le volte che le adepte, in occasione delle cerimonie più importanti, passano alcuni giorni nel santuario. Secondo Paulette, anch’essa adepta di Heviossou (Cotonou, Bénin, 11 marzo 2008), l’essere chiuse nel santuario, danzare, vegliare, pregare, restare «fuori dal mondo» giorno e notte, impone uno stato d’animo di distacco e di tranquillità, che le rende insensibili agli abituali stimoli della vita: rabbia, riso o desiderio. Lo sguardo severo, distaccato e regale delle vodussi, nasce proprio da un interiore allontanamento dalle cose del mondo, da un ulteriore avvicinamento al mondo dell’invisibile. Ciò non deve far credere che i periodi passati nei santuari siano contraddistinti da una mistica astrazione, perché come mi raccontava Paulette stessa, il piacere di ritrovarsi, anche dopo lunghi periodi, crea un clima di gioia e di complicità.

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Ingenuamente facevamo tutto questo, non sapevamo allora che era già espressione di una grande forza che si manifestava per tutta la famiglia […]. Si fanno delle cose senza sapere, ma non c’è mai il caso, si fanno perché si devono fare, ma non si sa che si devono fare, ma si fa comunque e ciò può essere negativo e positivo, dipende, la vita è sempre doppia.21

Secondo Paulette, proprio l’imitazione e il gioco sono stati l’inizio della sua vita con il vodu. La mimesi degli altri, dei grandi nel suo caso, non ha nulla di eticamente scorretto, non è finzione né rappresentazione, perché è già il segno del palesarsi di una forza spirituale. Secondo le categorie emiche, la vita è percorsa da indizi materiali e immateriali, connaturati con la natura immanente e quotidiana del sacro, che devono semplicemente essere ascoltati e assecondati. Il dispositivo della possessione, nonostante la violenza con la quale irrompe nell’esistenza degli adepti, ha una dimensione di normalità e quotidianità che deve essere ricordata. Non si tratta solo di un fenomeno eccezionale o spaventoso, ma piuttosto dell’attuazione di una relazione esistente tra uomini e dei. È interessante la distinzione che Michael Lambek (1993:313 e sgg.) ha proposto tra «possessione manifesta» e «possessione latente», poiché ci restituisce proprio la possibilità di pensare a un processo continuo, che si costruisce nel corso di tutta l’esistenza, più vicino dunque ai ritmi della vita quotidiana. La possessione manifesta ha luogo quando la divinità s’impadronisce attivamente del corpo dell’adepto, modificandone lo stato di coscienza. La possessione latente caratterizza invece tutta la vita dell’adepto, irrimediabilmente mutata in tutti i suoi momenti dalla relazione che ha intessuto con la divinità. La latenza del fenomeno è importante per comprendere come il momento manifesto sia solo l’apice o appunto il palesarsi di un rapporto scandito nel quotidiano. La possessione non nasce al centro di una folla presa da furore mistico, ma piuttosto nel mezzo di chiacchiere, di gente che fuma sigarette o sgranocchia annoiata del cibo; essa è parte della normalità della vita umana e per tale motivo non crea stupore (Métraux 1955:141). Condividere la propria esistenza con il divino è un fatto quotidiano e tutti sono in grado di riconoscere le persone che intrattengono questa relazione da piccoli indizi e segni corporei. Durante le cerimonie, quando il legame si manifesta e viene esibito, i fedeli riuniti colgono e giudicano la qualità di tale rapporto, qualità che si esprime ad esempio nell’abilità nella danza, 21. Conversazione con Paulette, Cotonou, Bénin, 11 marzo 2008.

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nell’eleganza dei vestiti e delle decorazioni del corpo oppure nell’intensità e profondità della trance. Nell’ambito vodu, la possessione veicola senso anche per la sua assenza. Nell’ultimo capitolo, si vedrà come il gorovodu, nella forma kpeto deka, non dia vita a fenomeni di trance. I suoi fedeli e sacerdoti sostengono che non sia necessario; la forza di Kunde è talmente incommensurabile che la possessione risulterebbe secondo alcuni inutile, secondo altri troppo pericolosa. Per molti fedeli la mancanza di trance è un segno della “modernità” del culto, del suo amore per l’ordine e la pulizia. I corpi che si scuotono senza controllo, enragées, suscitano in alcuni lo stesso sgomento che suscitarono nei primi viaggiatori europei. Come vedremo, l’etica del tron kpeto deka si concentra su valori d’individualismo, efficienza, successo che non possono coniugarsi con la generosità e diseconomia, tipici della possessione. Inoltre, come mi faceva notare Elisabeth, curatrice di un importante museo beninese e praticante occasionale di un kpome del tron kpeto deka, nei culti, come il gorovodu tron kpeto ve, Mami Wata, Kokou, Tingali, le possessioni sono troppo violente e troppo frequenti, rispetto ai vodu “tradizionali”. In questi eccessi vi è il segnale di un’anomalia, di una degenerazione a cui una buona fetta della popolazione preferisce sottrarsi. Questo sospetto di eccesso, talvolta interpretato come una trasgressione verso la stregoneria, può essere conseguenza del maggiore spazio di libertà che un’iniziazione meno coercitiva lascia. Il tron kpeto deka consente invece ai suoi fedeli di partecipare ai misteri e alla forza del mondo vodu, mantenendo quel giusto distacco corporeo che la società contemporanea parrebbe chiedere. 7. La musica e la danza La musica e la danza sono pratiche centrali nella ritualità vodu. La nostra civiltà, notava Maya Deren, non possiede delle danze “morali” o “etiche”. I movimenti del corpo di un valzer ad esempio inducono emozioni sentimentali e degli atteggiamenti eleganti, mentre la rumba suscita comportamenti più provocanti e nell’uomo il desiderio di conquistare più che di corteggiare. Ma non esiste una danza religiosa, il cui scopo sia mettere in connessione con il divino. La danza vodu: deve essere intesa come una meditazione del corpo, in cui l’intero organismo è costretto a concentrarsi su un’idea definita e vera come l’umore del valzer, ma più complessa e meno accessibile alle espressioni verbali. La variazione

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del manan (il tamburo) è appunto volta a concentrare la meditazione fisicopsichica (Deren 1957:284).

Il tron kpeto ve è in questi termini una religione danzante: all’interno e all’esterno della trance, la danza anima la maggior parte dei momenti rituali. Al contrario, il tron kpeto deka esclude la danza dalla prassi religiosa quotidiana. Il corpo del fedele che si avvicina al kpome del tron kpeto deka mantiene il controllo su se stesso; lo spazio religioso è saturato di parole sussurrate o apertamente espresse, di richieste, confessioni, preghiere e canzoni. Il corpo appare più impermeabile al sacro, si offre a esso pulito, profumato ma essenzialmente chiuso. Nel tron kpeto ve la danza può avere un ritmo incalzante ma pur sempre controllato. Esiste indubbiamente uno scarto tra le danze praticate nel tron kpeto ve e negli altri vodu, cosiddetti ancestrali (faccio riferimento ai più popolari nella regione in questi anni come Heviossou, Dan, Sakpata). In questi ultimi il numero di movimenti corporei e di passi che ogni adepto deve saper comporre è molto più ricco e coreograficamente complesso. Le vodussi sembrano mantenere permanentemente il controllo del loro corpo, sia quando eseguono passi semplici, sia quando il ritmo incalza e i corpi sembrano poter esplodere seguendo un climax inarrestabile. La flessione delle spalle (viene chiamata la danza del pollo) e delle anche può diventare spasmodica, ma il viso non deve cambiare espressione e come la musica rallenta il ritmo, le vodussi tornano lentamente a movimenti tranquilli e si spostano in un angolo, sedute o in piedi, in attesa di una nuova chiamata dei tamburi. L’alto valore estetico di una performance di danza è apprezzato e ripagato da chi partecipa alle cerimonie e per le vodussi è motivo di orgoglio; l’esibizione consente infatti di mostrare alla comunità la qualità della loro relazione con il mondo dell’invisibile e di rendere manifesta l’immanenza delle divinità. L’abilità nella danza non è un dono e nessuno crede che sia la semplice incorporazione delle divinità a rendere le vodussi esperte: è naturale che debbano apprendere negli anni l’arte della danza. Nel tron kpeto ve l’energia ha un differente modo di fluire, come se l’alienità delle divinità imponesse ai corpi movimenti più violenti e strazianti. Conseguenza di tale energia è anche una minore ricchezza nei gesti e una semplificazione simbolica della danza, che implica anche un maggiore spazio all’improvvisazione. Un movimento tipico di questo ordine vodu è l’avvitamento del corpo su se stesso che ampliato, come vedremo, dagli abiti, crea un impatto di grande effetto scenico. Si tratta di un movimento che mette alla prova l’equilibrio e il controllo della trosi ed esalta il senso

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di rottura che l’arrivo di questi spiriti sembra implicare. Nelle danze della regione è raro, totalmente assente tra i vodu, mentre connota le danze di Egungun e di alcune maschere Gelede. Il brekete, il tamburo sacro del tron kpeto ve, ha un ruolo fondamentale rispetto alle altre percussioni, i kplikpli e gli adzigan, propri anche ad altri ordini vodu. Brekete fu anche uno degli appellativi con cui fu chiamato il culto: Goro, Kunde, Alafia o Brekete. Il brekete è un tamburo di origine ghanese, cilindrico che può essere suonato sulle due basi, con le mani o con una bacchetta in legno ricurva. Brekete, che nella regione d’origine viene chiamato gungon, è il nome in lingua twi di un tamburo originario dell’area dagomba, nel nord ovest del Ghana, ai confini con il Burkina Faso.22 I brekete utilizzati durante le cerimonie del gorovodu sono ottenuti dall’assemblaggio di materiale di riciclaggio. La cassa è sempre costituita da un bidone cilindrico in ferro, del tipo utilizzato per contenere oli lubrificanti, di circa quaranta centimetri di diametro per un metro d’altezza. Il tamburo è abbastanza ingombrante per cui è dotato di cinghie – ottenute grazie al recupero di vecchie cinture di sicurezza per autovetture – che consentono di appoggiarlo sulla spalla del musicista. Suonare i tamburi è un ruolo esclusivamente maschile ed è spesso l’occasione per mettere in scena una forte ed esuberante mascolinità. Il suonatore è muscoloso e infaticabile, dato che deve suonare senza sosta per ore. Le sue doti di musicista sono riconosciute pubblicamente ed egli viene ripagato in funzione di esse. La personalità del suonatore è la più dominante durante tutta la cerimonia; il suo compito è dare “vita” alla cerimonia, integrando una comunità, a volte annoiata o stanca, in un unico corpo; il carisma dei musicisti è un fattore determinate per il successo o il fallimento di ogni festa. I suonatori di brekete – aukou – sono sovente costretti, data la forma del tamburo, a suonare in piedi. La loro presenza fisica è il polo d’attrazione, soprattutto durante le cerimonie più intime del venerdì, quando sono i soli musicisti presenti. I brekete si dice che parlino; attraverso il loro suono, secondo Hilaire, si chiama il nome segreto delle divinità, si emette cioè il suono che permette alle divinità di unirsi alla cerimonia. La melodia emessa dai brekete è violenta, discontinua e sincopata; evoca voci e suoni carichi di dram22. Sul linguaggio musicale utilizzato nelle cerimonie del gorovodu e del tron kpeto ve in particolare si veda Friedson (2009).

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maticità, che sembrano giungere da un luogo remoto. Gli aukou, un ruolo che si acquisisce da piccoli e che si esercita negli anni, parlano attraverso i loro tamburi e danno vita a un discorso violento, che sembra percuotere dall’interno i corpi di chi danza e che ha il potere d’ipnotizzare chi sta ascoltando. I suoni emessi sono profondi e viscerali. L’impeto di questi tamburi esprime la forza e il dolore di una coltellata, ricevuta e inferta allo stesso tempo. D’altra parte il movimento delle braccia di chi danza può sottolineare la violenza delle percussioni, tagliando energicamente l’aria come se la fendessero con un macete. Tra i musicisti e i danzatori si può instaurare una relazione simbiotica e molto sensuale, poiché il corpo dei danzatori, soprattutto di chi è in trance, è dominato dal suono del brekete; il brekete decide le pause del corpo, i gesti, come se fosse la musica stessa a possedere l’adepto. Quando la simbiosi è alta la qualità artistica della danza emerge in tutte le sue potenzialità. I movimenti del corpo possono essere poco codificati e ricordare piuttosto un’improvvisazione di danza contemporanea. Le capacità e l’interpretazione del singolo possono dunque prevalere sui movimenti più convenzionali. Le divinità arrivano da luoghi distanti, sia geograficamente sia culturalmente; alcuni capi del tron rimpiangono la scarsa confidenza e dimestichezza con gli spiriti che ospitano nei loro altari, possibile impedimento a una più simbiotica intesa e reciproca soddisfazione. La distanza epistemologica tra nord e sud lascia quindi maggiore spazio al cambiamento e, nella danza, all’improvvisazione del singolo. Molto più disciplinata è la “danza dei coltelli”,23 praticata con veri coltelli o solo con il movimento delle braccia: è la danza dei cacciatori, gli ade, incaricati di immolare gli animali. I loro movimenti sono codificati, e ogni gesto è controllato. È un esercizio di mascolinità; i cacciatori non sono dominati dai brekete, poiché condividono con essi la violenza dei coltelli e i misteri della foresta, anche se possono essere sopraffatti e diventare vittime della loro stessa forza. La caccia, continuamente evocata durante tutta la cerimonia, non è solo un simbolo o un ricordo di un’epoca passata, è il mezzo con cui si combatte la stregoneria. Hilaire, mi diceva che il brekete serve: 23. Si tratta di una danza che appartenne anche ai culti antistregoneria della Gold Coast. In un documento degli anni Venti si legge: «non ho visto i danzatori maschi ballare la “danza del coltello”, a differenza di quanto probabilmente avveniva nelle cerimonie dedicate a Aberewa» (NAG, ADM 11/1/1243, District Commissioner J.A. Jones, Ewe-me-so Fetish,1922).

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a scacciare la stregoneria, perché il suo suono colpisce il cuore di chi la possiede, li costringe ad allontanarsi. La musica, il ritmo, corrisponde a delle parole, con il brekete si parla, con il brekete si minaccia.24

Infine la musica è l’ingrediente imprescindibile per poter creare “un buon ambiente” in grado di intrattenere il più a lungo possibile gli ospiti. Le feste non dovrebbero mai finire e solo lo sfinimento fisico dei partecipanti può sancirne la conclusione. 8. Le pratiche del vestire: abiti in viaggio I vestiti sono “significanti”, non solo in funzione di quello che dicono e simbolizzano ma anche in funzione di quello che fanno: alterare la coscienza, i corpi, i sistemi di valore e le azioni. Intervengono attivamente nello spazio rituale, interagiscono in esso e lo influenzano. Vestire l’adepta è un’operazione di assemblaggio complessa, attraverso cui si raccontano storie, si mediano relazioni tra gli uomini, tra gli uomini e le forze sovrannaturali, tra i luoghi geografici e le differenti epoche storiche. I devoti del tron kpeto ve riconoscono, senza esitazioni, i vodu incarnati temporaneamente nei loro medium, osservandone i gesti, le attitudini e soprattutto l’abbigliamento. La costruzione del nord e dell’identità che gli spiriti si presume abbiano è un vero lavoro etnografico svolto localmente, un processo antropopoietico (Remotti 1996) di arricchimento dell’identità religiosa. Il nord viene rappresentato e geograficamente traslato al sud, attraverso un insieme di immagini, di oggetti e di gesti: le noci di cola, gli strumenti musicali, i gioielli, le teiere, le pelli, le borse in cuoio: tutto contribuisce a creare un’«etnografia del nord» (Wendl 1999:116). I veli colorati, le casacche indossate sui pantaloni larghi, i turbanti, i fez, i rosari per la preghiera portati come collane, oppure messi attorno alla testa, i braccialetti di ferro o d’avorio, sono parte del travestimento a cui i fedeli in trance si sottopongono, e attraverso i quali si evoca il lontano mondo della savana e ci si connette con la religione musulmana.25 Il collage che gli adepti eseguono, esprime la capacità di ricordare e incorporare, modificandola, l’alterità. Il corpo 24. Conversazione con Hilaire Dohou, Godomey, Cotonou, Bénin, 30 novembre 2005. 25. Gli abiti utilizzati durante le cerimonie del gorovodu sono presenti solo in un’altra cerimonia vodu, quella per Mami Tchamba, il vodu degli schiavi. I due ordini vodu con-

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può condividere significati provenienti da differenti orizzonti culturali, esprimendo una «corporeità transculturale» (Hendrickson 1996:14). Tale dimensione può declinarsi anche in una forma di «resistenza implicita», se intendiamo il corpo come il «luogo nel quale i processi semiotici non possono essere pienamente controllati» dal potere (Hendrickson 1996:14). Nel contesto specifico del gorovodu, l’acquisizione di linguaggi e simboli dalle religioni considerate dominanti è stata una strategia per conquistare una posizione di potere da opporre o affiancare, in un contesto di forte competizione e pressione, come quello dell’epoca coloniale, alle nuove e preesistenti forme religiose. Vestire è un dispositivo di cambiamento, sia perché attraverso il rivestimento superficiale del corpo si possono esprimere saperi o volontà, meno consapevoli e meno esplicite, sia perché si può acquisire dall’abito qualche cosa che non si può prevedere, poiché è sedimentato nella materia stessa. Gli abiti del gorovodu nascondono completamente il corpo dell’adepto, mentre una caratteristica di tutte le altre vodussi è di avere sempre le spalle e la testa scoperte. Si tratta appunto di spiriti alieni al panorama locale, che hanno imparato dall’Islam e dal Cristianesimo a coprire i propri corpi, facendoli scomparire sotto pesanti strati di tessuto. L’abito è una pelle che si sovrappone a quella dell’adepto ed entra quindi in relazione biunivoca con il corpo delle iniziate. Queste, pur contribuendo a scegliere uno stile dato dall’assemblaggio degli oggetti a disposizione, sono condizionate dall’abito che chiude, nasconde oppure amplifica il loro corpo. Il rapporto è dialettico e l’adepto è al contempo artefice del proprio aspetto e intrappolato da una materia che non gli appartiene e che supera le sue capacità di controllo. Proverò ora a percorrere alcuni dei tragitti che gli abiti delle trosi suggeriscono. Gli abiti della maggior parte delle divinità sono molto ampi e ottenuti sovrapponendo più tessuti. L’estetica della sovrapposizione esprime il desiderio di espandere il proprio corpo e si ispira a un gusto che si è originato dall’incontro tra cultura hausa, nupe e yoruba (Perani e Wolff,1999). Sovrapporre strati consente di proiettare nell’ambiente esterno forza e potere: è un linguaggio estetico proprio alla regalità e al comando, a cui spesso i vodu si rifanno. Le trosi indossano sempre un enorme dividono un’iconografia simile, poiché in entrambi si ritiene che gli spiriti siano originari del nord.

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turbante colorato. Si tratta di metri di tessuto o in alcuni casi di più tessuti sovrapposti. L’effetto finale è quello di imporre una postura del corpo e dei movimenti della testa più misurati e controllati, donando un’eleganza e un portamento regali. Alcune si coprono il volto o parte dell’abito con altri veli, che incessantemente muovono nell’aria. Le lunghe collane, di fatto si tratta dei rosari per la preghiera musulmana, e i braccialetti contribuiscono anch’essi a sottolineare e ampliare i gesti. Gli adepti, d’altra parte, devono incorporare anche valori ineffabili, essendo un’emanazione temporanea del mondo dell’aldilà. I loro gesti evocano pratiche corporee non proprie alla quotidianità. Ogni gesto e ogni passo è amplificato dai movimenti dei tessuti che contribuiscono a creare una coreografia molto fluida. Quando le trosi ballano, avvitandosi su se stesse, gli abiti si trasformano in enormi girandole colorate26 Le trosi volano e i loro abiti tagliano l’aria aprendo lo spazio a un’altra dimensione; essi ampliano lo spazio sacro che si sviluppa attorno al corpo, regalando con la loro presenza, una maggiore superficie attraverso cui entrare in contatto con il mondo del non visibile. Gli abiti degli adepti del gorovodu sono sovente realizzati con materiali di recupero. Bella mi raccontava che talvolta per trovare i foulard e i tessuti si rifornivano al mercato dell’usato di Lomé, anche perché comprare gli abiti dai mercanti hausa era troppo costoso. Al mercato si trovano abiti provenienti da quasi tutto il mondo, in primo luogo dall’Europa e dall’America, ma vi è un certo numero di venditori specializzati in abiti provenienti da India, Pakistan e altri paesi musulmani orientali. Qui, i fedeli del gorovodu possono comprare foulard realizzati con tessuti leggeri, colorati e decorati con perle o ricami, pantaloni larghi da indossare sotto le tuniche e soprattutto la kefiah, utilizzata come turbante. L’ingresso nel mercato dell’abbigliamento africano dell’usato proveniente da altri paesi ha in parte cambiato lo stile, soprattutto dei più giovani. I mercati sono enormi e sempre più persone comprano qui i loro abiti perché sono più economici rispetto alla somma del costo dei tessuti 26. Gli abiti di una delle divinità del gorovodu, Banguele, sono realizzati cucendo a spicchi tessuti di colori differenti e contrastanti (blu e bianco, rosso e nero, giallo e verde etc.), in modo che durante l’avvitamento, il veloce alternarsi dei colori crei un effetto quasi ipnotico. Durante le danze questi abiti, analogamente a quelli indossati dagli egungun (spiriti dei morti che ritornano in occasione di feste collettive organizzate proprio in loro onore) ruotando su se stessi sembrano catturare e proiettare gli spiriti dell’aldilà (Perani, Wolff 1999).

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e delle fatture dei sarti. Il nuovo fenomeno ha contribuito ad amplificare l’immaginario “nordico” dei fedeli del tron. Esso si è infatti arricchito di oggetti “orientali” che riconducono al subcontinente indiano. I vestiti usati sono «attivi partecipanti nel trasformare la vita dei loro nuovi indossatori» (Hansen 2005:107-119); nel caso degli adepti del gorovodu, la maggiore disponibilità di vestiti confezionati che appartengono al mondo arabo e indiano, ha contribuito ad ampliare ed estendere la percezione del nord, cambiando quindi il rapporto con il mondo dell’invisibile, che si è esteso oltre i limiti della savana. Purtroppo non esistono descrizioni dell’abbigliamento che le trosi indossavano all’inizio del secolo scorso. Dai documenti disponibili e dalle poche foto possiamo dedurre che gli uomini o le donne che appartenevano al culto si vestivano prevalentemente in bianco. Probabilmente il tron kpeto ve fu influenzato anche ad altre espressioni rituali. Gli spiriti che animano il gorovodu evocano in modo a tratti inequivocabile gli spiriti bori.27 Sono proprio gli abiti – intesi come corpi delle divinità – che avvicinano questi due culti di possessione. Si può supporre che Kodjo Kuma nei suoi viaggi al nord, o semplicemente grazie ai frequenti contatti con gli hausa, abbia acquisito parte dell’abbigliamento e delle pratiche proprie ai culti bori. Oltre ai riferimenti al mondo islamico che, come abbiamo visto, si estendono dalla vicina moschea fino all’estremo oriente, il nord evocato dal gorovodu è abitato anche dai colonizzatori e dai missionari d’inizio secolo. Gli spiriti femminili, Aberewa e Sunia, madre e figlia, indossano, almeno al primo livello di stratificazione, dei costumi espressamente cuciti per loro. Sono ampi vestiti bianchi, realizzati con tessuti industriali, tagliati in vita, con una gonna arricciata e un corpetto attillato, con le maniche lunghe e una moderata scollatura sul petto. Sotto la prima gonna, ve ne sono altre, arricchite da volants, che aiutano a estendere le dimensioni trosi, facendo scomparire temporaneamente la persona che indossa il vestito. Ricordano gli abiti che i missionari imponevano a chi si convertiva e iniziava a frequentare la chiesa.28 27. Il culto bori è praticato tra gli hausa del nord della Nigeria e sud del Niger. Si tratta di un culto curativo che conduce attraverso la musica, alla danza e alla trance. Le donne e gli uomini in trance indossano gli abiti propri a ciascuno spirito bori e parlano alla comunità impartendo consigli e suggerimenti (Masqueilier 1996:66-93). 28. Gli abiti delle danzatrici di Ewe-me-so, negli anni Venti del Novecento, erano descritti con queste parole: «Le donne indossano una gonna bianca a volant e si distinguono dagli uomini per il nastro di tessuto bianco stretto attorno al loro petto. Gonne simili nel

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9. Le pratiche del vestire: la materia spirituale Gli abiti del gorovodu, in quanto oggetti rituali, hanno uno statuto particolare, poiché creano un legame tra corporeità e forza spirituale, sono la “trama” attraverso cui il visibile e l’invisibile si incontrano. Il passaggio dall’identità dell’adepta a quella della divinità è sempre sancito da un cambiamento estetico nel corpo del posseduto. Non solo l’atteggiamento, i gesti e lo sguardo dell’uomo o della donna sono differenti, ma anche l’abbigliamento deve mutare. L’adepta non viene semplicemente abbigliata o travestita secondo lo stile, i colori o i tessuti del vodu: in qualche modo il vodu viene creato e costruito dall’insieme degli abiti e oggetti che si accumulano sul corpo. Il temperamento, l’eleganza, la compostezza, l’abilità nella danza e la capacità di assemblare in modo sapiente gli abiti sono tutti fattori che conferiscono prestigio alla trosi. Il suo corpo non è un semplice supporto passivo della forza della divinità ma è uno strumento attraverso cui onorare il vodu e farsi stimare dalla comunità religiosa. Durante le cerimonie del tron kpeto ve, a fianco delle trosi vi sono sempre le sentrewa, le adepte incaricate di occuparsi di chi viene preso dal vodu. Le sentrewa controllano che i movimenti della danza non siano troppo violenti, che la trance non degeneri, che le trosi non si sporchino: gli spiriti del gorovodu sono infatti bizzarri e capricciosi. Esse dovranno anche vigilare sulla condotta morale e i comportamenti delle adepte fuori dagli spazi rituali. Sentrewa Adjowa del kpome SuperTako di Lomé, così definiva il suo ruolo: …quando gli adepti vanno in trance, ti devi occupare di vestirli, renderli eleganti, fare in modo che non siano sporchi. Se le lasci sporche, oppure mal vestite, magari lasci anche che si feriscano, sarà per te una vergogna, ti potranno accusare di non aver fatto il tuo lavoro, non aver avuto cura dei vodu, per cui poi diventa anche una cosa pericolosa per te. Ma in generale bisogna prendersi cura della vita degli adepti. Se non si comportano bene, hai il diritto di dirlo al sofo, se no poi saranno problemi tuoi. Ad esempio, il vodu dice che è vietato ubriacarsi, allora se vedi che un adepto è spesso ubriaco allora lo devi dire al sofo che prenderà dei provvedimenti,

modello ma fatte di erba intrecciata sono usate dai danzatori di “Aberewa”» (NAG, ADM 11/1/1243, District Commissioner J.A. Jones, Ewe-me-so Fetish,1922).

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consulterà Fa per vedere cosa bisogna fare. Se non agisci per fare qualche cosa, per salvare la vita dell’adepto, allora i problemi ricadranno su di te.29

La trosi assieme alla sentrewa sceglie gli abiti da indossare e sovente ne cambia anche due o tre nel corso di una cerimonia. In occasione delle grandi cerimonie, i fedeli di ciascun kpome portano i propri costumi; il prestigio del gruppo dipende anche dalla bellezza, ricchezza e originalità degli abiti che si riescono a esibire. I fedeli, giunti da città lontane, hanno l’opportunità di giudicare la qualità della relazione che le diverse famiglie del gorovodu intrattengono con le divinità. Vi possono quindi essere contemporaneamente più divinità Kunde da osservare, comparare e giudicare. Da ciò evidentemente dipenderà il prestigio di tutta la comunità. Gli abiti, i cappelli, le sciarpe, le casacche e i molti accessori indossati dai vodu sono ritenuti carichi di spiritualità, sono oggetti sulla cui superficie si è accumulata la storia delle persone che appartengono al culto e il sudore di chi li ha indossati durante la trance. La sacralità degli abiti e la loro dimensione spirituale è un tema che accomuna molte società, anche se spesso relegato alla sfera delle pratiche “tradizionali”. La spiritualità è attribuita esclusivamente ai tessuti artigianali, come tali legati a un mondo preindustriale. Tessere, modellare la creta, fondere i metalli, intagliare il legno non sono attività spiritualmente neutre ma intrise di associazioni mitologiche, storiche e mistiche. Gli abiti del vodu possono essere anche acquistati al mercato dell’usato o realizzati con tessuti industriali, senza che la loro natura ”sacra” venga sminuita. Separando la pura materia e la spiritualità si rischia di riproporre ancora una volta una dicotomia tra gli oggetti prodotti nelle società industriali e quelli ottenuti dal lavoro dell’artigiano, quindi tra modernità e tradizione. Tale opposizione non ha senso di esistere se si ricorda che anche nella società “occidentale” gli oggetti, e quindi anche gli abiti, possono «acquisire sentimenti accumulando uso sociale e fisico» (Schneider 2006:205), cioè creare una sorta di patina spirituale fatta di odori, superfici consunte e ricordi che si fissano sull’oggetto, rendendo le emozioni tangibili. Ancora meno sensato è pensare a una dicotomia tra materia e spirito nell’ambito vodu, dove visibile e invisibile si compenetrano, rendendo impensabile l’esistenza di una materia inanimata. Un giorno due vecchie signore che riposavano fuori dal kpome di Klikame, a Lomé, si arrabbiarono con me perché avevo fotografato gli abiti 29. Conversazione con Sentrewa Adjowa, Lomè, Togo, 13 ottobre 2006.

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stesi su due lunghi fili che attraversavano il cortile. Dopo le cerimonie, i vestiti del gorovodu vengono stesi al sole, per un’intera giornata, perché l’aria li pulisca. Nel corso degli anni l’abito si espande, acquisendo forza ed energia. Non lo si può lavare perché gli umori della donna o dell’uomo e della divinità si sono uniti, sedimentando nella trama del tessuto. L’irritazione delle due donne, nasceva proprio dal fatto che non avessi rispettato la forza spirituale che quei costumi incorporavano. I vestiti non ricevono il sangue dei sacrifici ma il sudore sembra assumere un significato analogo. Tra una cerimonia e l’altra, gli abiti sono conservati nel kpome, non solo per comodità, ma anche perché hanno assorbito l’energia vitale che l’incontro ha liberato e mantengono memoria di tutti gli incontri precedenti. Per tale motivo, quando una trosi muore, all’interno della sua bara, troveranno posto anche gli abiti che indossò durante la sua vita di adepta. Sono la sua “pelle”, la sua seconda identità, che non potrebbe, per nessuna ragione, passare a un’altra adepta. Come scrive Adeline Masqueilier, riferendosi ai culti bori, spiriti affini agli spiriti del gorovodu tron kpeto ve: dopo che gli spiriti hanno abbandonato il loro contenitore, i vestiti restano una prova non solo della possessione ma di tutte le comunicazioni e transazioni che sono avvenute tra loro e la gente con cui hanno interagito. L’abito di uno spirito non solo pone il suo padrone o colui che lo indossa in un campo privilegiato di relazioni, esso assorbe anche tutte le essenze morali e materiali e i processi che definiscono la propria relazione con lo spirito (Masqueilier 1996:89).

Anche per tale motivo gli indumenti di questo ordine religioso sono particolarmente ricchi e capaci di invadere in modo quasi prepotente lo spazio rituale. Abbandonati a terra, nel locale adibito a spogliatoio, o appesi nei cortili delle case dove le cerimonie hanno avuto luogo, sembrano le spoglia di entità temporaneamente assenti, ma che potrebbero improvvisamente riprendere vita. 10. Le pratiche del vestire: la multisensorialità dei colori I colori sono un facile codice attraverso cui riconoscere le divinità ma assumono anche altri significati, più sfuocati. Le tinte sgargianti, accostate con cura, gli abiti che si trasformano in girandole e i veli che disegnano ampie ed eleganti forme dipingono lo spazio rituale. Nelle cerimonie pubbliche i vodu, i tron, diventano finalmente visibili, belli ed esotici. Il colore

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esalta la loro presenza, il loro essere in uno spazio e in un tempo determinato. Creano un vortice all’interno del quale i fedeli trovano un possibile percorso verso il mondo dell’invisibile e verso luoghi esotici e lontani. Siamo sempre nell’ambito della possessione manifesta, dell’esibizione della relazione con la divinità, momento rituale sensibilmente opposto a quello più statico e contemplativo del dialogo che avviene tra fedele e divinità all’interno del kpome, dove le forze mistiche sono temporaneamente incorporate negli oggetti. Nel gorovodu, come abbiamo visto, gli “dei oggetti” sono delle palle nere, aliene e imperscrutabili. Superfici lucide, statiche ma in espansione, all’interno delle quali il tron si nasconde, mentre nel corpo della trosi si manifesta con forza, imponendosi allo sguardo dei partecipanti alla cerimonia. Il vodu mette in scena un mondo abitato dalla transizione, dove quindi i segni consapevoli e quelli che più sfuggono al controllo e all’interpretazione, coesistono. Può essere dunque interessante cercare di comprendere i colori secondo una prospettiva fenomenologica, che li analizzi come un’amplificazione dell’essere umano, né simbolo, né pura decorazione ma strumento d’attivazione delle percezioni corporee. I colori, come in un dipinto, agiscono sulla realtà e creano delle connessioni tra gli uomini che li indossano e quelli che osservano il loro dispiegarsi. Le emozioni che essi veicolano e amplificano sono evidenti e contribuiscono al successo della cerimonia. Una festa che nessuno ricorderà, mal riuscita, dove la gente se ne andrà annoiata è una festa in cui i partecipanti non danzano, la musica non dialoga con le forze dell’invisibile, i vodu non arrivano e i colori non riescono a esprimere la loro vitalità e a comunicare i loro messaggi. Il nero, il rosso e il bianco sono i colori di tutti i vodu. Accostati in una tenda, indicano la presenza di un altare all’interno di una stanza, in piccole strisce di stoffa sanciscono la sacralità dei contenitori d’argilla, delle statue di legno, o dei piccoli bo, installati per proteggere la casa o i campi. Possono sventolare nel cielo, racchiusi in una bandiera, segnalando la presenza di un kpome. Molte sono state le analisi di tipo simbolico sull’importanza e il linguaggio dei colori. Turner (1967:59-92), ad esempio, studiò il rosso, il bianco e il nero come espressioni delle universali esperienze organiche umane. Il bianco simbolizzerebbe il latte e lo sperma, il rosso il sangue e il nero, che può essere sostituito anche dal blu, le feci e lo sporco. All’interno del vodu, il significato dei colori è un sapere acquisito e condiviso dai fedeli. Il rosso simbolizza la forza, l’energia e la violenza ed è associato a

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vodu combattivi e pericolosi, come Heviossou-Shango. Il bianco è il colore che placa gli animi, il colore dell’equilibrio e della saggezza, che evoca gli antenati o i vodu dell’acqua. I tre colori alternati ricordano invece l’arcobaleno, quindi una sintesi di tutte le forze del cosmo. La dicotomia bianco-rosso viene espressa anche in termini di freddo e caldo, criterio di classificazione applicabile sia agli elementi che compongono il mondo, sia alle divinità. Il rosso di alcune divinità non è una proiezione simbolica ma una percezione corporea che si esperisce attraverso il calore e l’irritazione della pelle. Gli adepti di Sakpata – il vodu della terra e del vaiolo – cercano durante la trance delle erbe urticanti, con cui irritare e scaldare il proprio corpo. Anche il vodu Kokou, caldo, forte e aggressivo, spinge i suoi iniziati a sdraiarsi sulle foglie dei fichi d’india, a tagliarsi il corpo con cocci di bottiglia, coltelli e qualsiasi superficie tagliente a disposizione, in modo da sentire l’estremo calore della divinità. I fedeli di Heviossou, durante la trance, per dimostrare la loro invulnerabilità, si passano sulla lingua la lama di un macete che, con cura, viene preventivamente scaldata sulla brace. Nei vodu freddi prevale invece l’acqua, come dimostrano le vodussi di Mami Wata che si tuffano nell’oceano, freddo e pulito, pur non essendo capaci di nuotare. Lo slittamento dalle percezioni visive a quelle termiche, in prima istanza ridimensiona la componente simbolica e in secondo luogo evidenzia come l’egemonia della vista sugli altri sensi non sia universalmente condivisibile. La combinazione dei tre colori, una costante transculturale di molte espressioni rituali (Young 2006:181), è cercata e riproposta in differenti contesti culturali grazie all’effetto spaziale che l’accostamento produce: se è vero che i colori hanno un significato che rappresenta altro e comunica sapere, ciò non significa che sia il solo linguaggio con cui sono capaci di agire. Merleau Ponty (1963) sosteneva fosse necessario smettere di interrogarsi sul perché il rosso significasse violenza e il verde pace, e iniziare piuttosto a riscoprire i meccanismi attraverso cui il nostro corpo vive questi colori, vedendo quindi nel colore un’amplificazione del nostro stesso essere. Esperire il colore in quanto sensazione individuale, anche se non aiuta a comprenderne i significati e le costruzioni sociali, ci avvicina all’uso del colore come risposta emotiva a specifiche realtà sociali. I colori possono essere uno strumento per riprodurre forme di potere e trasmettere conoscenza: il loro effetto è immediato. Ciò non significa che abbiano un significato universale e dato a priori, oppure che siano la semplice superficie aggiunta di un significato interno o l’abbellimento di una forma. Il colore ha evidentemente una sua capacità

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d’azione, in grado di modificare l’esterno, gli uomini e gli spazi. I colori sono infatti, come scriveva Cezanne «il luogo dove il nostro cervello e l’universo si incontrano» (Young 2006:180). Il bianco, colore degli spiriti degli antenati, che esprime saggezza, capacità di controllo ed equilibrio viene spesso indossato dai sofo. Non è un obbligo, dato che le eccezioni e il prevalere di uno stile personale su un altro sono frequenti, ma è comunque il colore che domina tra le gerarchie del culto. L’impatto visivo è forte, soprattutto quando vi sono dieci o quindici sofo, seduti uno di fianco all’altro, oppure quando si muovono in gruppo, come sospinti dal vento. La scelta del bianco riconduce al mondo degli antenati e dei fondatori del culto. I sofo in tal modo amplificano il loro potere, evocando la continuità del culto e l’autorità suprema. Il bianco legittima la loro presenza nelle posizioni di potere, conferisce forza alle loro parole, esprimendo allo stesso tempo tranquillità e equilibrio. La scelta degli abiti bianchi riconduce poi alla religione musulmana. Il colore diventa quindi una scelta condizionata dalla storia del culto e dal suo percorso di dialogo e posizionamento nei confronti delle religioni universali. Il bianco funziona da connettore con il mondo musulmano anche in un altro importante momento delle cerimonie del tron kpeto ve: la preghiera – salah – che precede l’inizio di ogni kpeta e che viene eseguita ogni venerdì mattina. Le donne in bianco riproducono, in uno spazio separato ed esclusivamente femminile, la preghiera mussulmana. È un momento necessario a ricordare il padre fondatore Mama Seidou e invocare assieme a lui Allah. Le donne, con i volti contriti e un atteggiamento austero, restano sedute sulle stuoie, disposte di fronte a un uomo che dirige la preghiera. Esse incorporano l’atteggiamento remissivo e timoroso che ritengono tipico delle donne musulmane. Il bianco è anche il colore dell’equilibrio e della saggezza e la preghiera è, di fatto, un momento di pace, in antitesi con le successive fasi della festa, dove prevalgono invece il rosso del sangue, che cola sul nero dei tron, e i colori caldi degli abiti. Il gorovodu, con la sua natura alloctona e le aspirazioni universalistiche, deve evocare nel suo complesso il distante e l’esotico. Per tale motivo l’accostamento dei colori, dei tessuti e dei motivi è spesso pensato per stupire e sorprendere i fedeli, che restano affascinati dalla bellezza esotica degli spiriti. Il colore e gli abiti contribuiscono con enfasi alla costruzione rituale; non si tratta di una semplice ripetizione di un canovaccio, ma di una forma d’arte che, attraverso la ripetizione, assume un valore morale e didattico che penetra nella coscienza dei partecipanti.

4. Uomini, animali e donne: il sacrificio e la morte nel vodu

…e poi potevi vedere una, che stringeva nelle mani una giovenca muggente gonfia nelle mammelle, e la spezzava in due pezzi: e altre, che laceravano a brani le vitelle; potevi vedere fianchi di buoi, zampe con lo zoccolo bifido, gettati in alto e in basso: e pendevano, sotto i rami degli abeti, e gocciolavano, luridi di sangue: e i tori violenti, che prima portavano il furore nelle loro corna, erano abbattuti, con i loro corpi, per terra, e trascinati da innumerevoli mani di fanciulle: e quelle facevano a brani le polpe delle carni, più rapide che le tue palpebre, quando tu le chiudi sopra le tue pupille di re… Euripide, Le Baccanti

Il vodu è un sistema di credenze basato sulle relazioni, gli incontri e gli scambi. In questo capitolo partirò dalle connessioni tra uomini e animali e tra uomini e natura in generale, per poi indagare la posizione assegnata alla donna all’interno di queste relazioni. Come già messo in luce parlando di feticismo, il vodu è una pratica attraverso la quale gli esseri umani cercano di addomesticare la natura, non al fine di ridurne la complessità ma piuttosto per dispiegarla, ammettendo l’impossibilità di un controllo totale. Metterò al centro dell’analisi il rito del sacrificio, perché è una costante della pratica vodu ed è lo strumento necessario per dare inizio a qualsiasi dialogo con il mondo dei non umani. Il rapporto violento e apparentemente subordinato tra uomini e animali, che il sacrificio implica, impone di interrogarsi proprio sullo statuto ontologico di questi ultimi. Cercherò di articolare differenti livelli di analisi: il sacrificio come strumento epistemologico attraverso cui indagare la relazione tra umani e non umani, tra cultura e natura, il sacrificio come topos della pratica vodu e infine il sacrificio nel gorovodu come espressione di un culto portatore di pratiche allogene e alla ricerca di uno spazio sociale differenziato. Quando chiesi al bokono di Hilaire Dohou, Assou Mughihou, perché fosse necessario sacrificare gli animali per nutrire i vodu, mi rispose: Dio li ha messi al mondo come noi. Ma gli animali non si sono dimostrati come l’uomo. Gli animali fanno l’amore per la strada, fanno la cacca e la pipì

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in mezzo agli altri. Non si sono evoluti, non c’è stato cambiamento in loro, non fanno le cose che fanno gli uomini. Quindi invece di dare il sangue degli uomini, si dà quello degli animali, per dare la potenza alle divinità. Perché l’energia della vita (gbogbo) è nel sangue. Nei tempi antichi, ai tempi del Dahomey, non si sacrificava il montone, ma gli uomini, ed è per questo che c’era la schiavitù. Ma non era solo nel Dahomey, in tutto il mondo. Ma poi è arrivato Gesù, è lui che ha detto di smettere di uccidere gli uomini. Lui si è sacrificato per tutti gli uomini del mondo. Quindi, al posto degli uomini, si uccidono gli animali, che non sanno costruire le case, gli aerei, la radio, la televisione; gli animali non sanno scrivere.1

Dalle parole di Assou Mughihou intuiamo che animali e uomini sono ontologicamente simili. Gli animali oggi possono essere uccisi, senza rimorsi, perché sono rimasti selvaggi, insensibili al messaggio di Gesù e a quello dello sviluppo tecnico e scientifico. D’altra parte, all’epoca del regno del Dahomey, che con una notevole libertà cronologica Assou Mughihou collocava prima di Cristo, gli uomini venivano uccisi, poiché l’uomo e l’animale erano totalmente sostituibili. Entrambi assolvono infatti al debito di sangue nei confronti dell’aldilà, ma indubbiamente gli animali rappresentano una riserva di sangue «a basso costo» rispetto agli uomini (Terray 1994, Valsecchi 2004). Un uguale statuto tra uomini e animali è alla base dell’etimologia stessa del termine animismo (Descola 2005:183). L’animismo implicherebbe un’ontologia in cui umani e non umani siano accomunati dalla medesima identità interiore, autorizzando in tal modo l’estensione dello stato di cultura anche ai non umani. Secondo le classificazioni proposte da Philippe Descola esistono, oltre all’animismo, altri tre modi per suddividere gli esseri viventi. Il “totemismo” che nell’accezione meno classificatoria accentua la fusione e la rassomiglianza di interiorità e di esteriorità. Il naturalismo, in netta opposizione all’animismo, riconosce la continuità e universalità della materia che compone tutti gli esseri, definitivamente separati invece dall’attitudine culturale. Infine, l’analogismo che mette in rete tutti gli elementi del mondo, partendo dal principio di una frammentazione universale e atomica, per cui esisterebbe una differenziazione graduale di tutte le componenti, sia interiori sia esteriori, degli esseri viventi. L’Africa occidentale sarebbe dominata da ontologie di tipo analogico, necessarie laddove «un mondo reso friabile dalla molteplicità delle sue parti» (Descola 2005:315) 1. Conversazione con Assou Mughihou, Cotonou, Bénin, 4 ottobre 2005.

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ha bisogno della sistematicità dell’analogia, che agisce e rinsalda il mondo sia nella dimensione spaziale, sia in quella temporale. Per tale motivo il ruolo degli antenati, in queste società, sarebbe importante, perché grazie a loro si creerebbero delle catene di solidarietà intergenerazionale e si svilupperebbe una tendenza alla crescita verticale, in una continua sovrapposizione di classi, divinità e poteri. La società vodu sembra inscriversi in questo tipo di ontologia, all’interno della quale si procede per metafore e metonimie continue, allo scopo di interpretare e controllare una realtà particolarmente frammentata. Allo stesso tempo esiste una continua possibilità di metamorfosi e di scambio tra umani e non umani, segno della condivisione del medesimo mondo culturale e quindi di un’essenza che, pur essendo internamente differenziata, non esclude un’ontologia di tipo animista. Nelle tre possibilità proposte da Descola, la natura rischia di rimanere comunque essenzialmente «buona da pensare», un utile e fertile serbatoio per l’emergere e lo svilupparsi delle più importanti pratiche sociali, dalla religione, alle politiche di genere, all’economia. In tal senso l’oggettivazione della natura è necessaria alla sua domesticazione e socializzazione, ottenute incorporando la natura nel dominio umano. Già Claude Levi-Strauss in Les structures élémentaires de la parenté (1949) metteva in dubbio che la distinzione natura cultura fosse un dato naturale quanto piuttosto un prodotto culturale. La linea di demarcazione diventava dunque molto incerta, posizione avvallata dagli studi di etologia che avevano mostrato come la cultura fosse una dimensione propria anche al comportamento animale (Remotti 1993:40). L’uomo avrebbe quindi un bisogno illusorio ma irrinunciabile di differenziarsi dalla natura, per affermare, sovente con violenza, la propria identità. Le comunità umane elaborano modi e pratiche nel tentativo di darsi un senso che li allontani dalla natura, di cui inevitabilmente sono parte. Gli esseri umani sono però parte integrante dell’ambiente in cui vivono e sono continuamente coinvolti in pratiche situate (Ingold 1995, 1996). Sono le pratiche a condizionare i risultati finali e non lo sforzo razionale (Jackson 1996). La biologia fenomenologica supera, attraverso una circolarità tra conoscenza ed esistenza, la separazione tra il sapere e il fare e tra questi e l’essere. Ciò consente di mettere in discussione il dualismo cultura e natura, teoria e pratica, e anche maschile femminile, attraverso concetti come quello di performatività, apprendimento e incorporazione (Escobar 1999).

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Si tratta indubbiamente di paradigmi più vicini agli argomenti etnografici e al sentire degli attori sociali che si stanno qui considerando. Infatti, la dicotomia tra natura e cultura, che nasce dal riconoscere l’anima o lo spirito come peculiarità distintive ed esclusive dell’uomo (Descola 2006), non ha senso ad esempio nel contesto in esame, dove l’uomo non è concepito come dotato di un’essenza individualizzata ancorata in un’unità corporale, ma, come abbiamo visto nel primo capitolo, è disperso, capace di fluttuare tra umano e animale, tra visibile e invisibile e di trasgredire anche le distinzioni di genere e di età. La natura è continuamente presente all’interno della società e la necessità che l’uomo ha di appropriarsene, ad esempio attraverso il sacrificio, dimostra il bisogno di mantenere vivo un dialogo dagli esiti spesso imprevedibili. La separazione tra natura e umanità «è la conseguenza della mancanza di negoziazioni, relazioni e transazioni, non la sua causa» (Tim Ingold [1993] 2001:162). In tal senso non è fallace il pensiero di chi pratica con le cose non umane lo stesso tipo di transazioni che si possono intrattenere con gli umani; non è il segno di un pensiero prelogico, magico o feticista. Più fallace appare invece la polarizzazione tra società e natura, sintomo del fallimento del dialogo tra uomo e ambiente. Per cui, tanto più l’uomo perde i suoi strumenti di comprensione situazionali, tanto più importante sarà il suo sforzo per delineare i limiti della sua cultura. Alcuni studiosi delle società pastorali del Nord America (Ingold 2000, Nadasdy 2007), si sono posti l’obbiettivo di «prendere sul serio le idee» delle popolazioni studiate, chiedendosi anche come queste teorie locali possano influenzare le nostre, piuttosto che essere studiate come delle mere costruzioni simboliche. Le prospettive più radicali leggono, ad esempio, la caccia come una reale istanza di reciprocità, da non interpretare all’interno di un sistema di credenze o in base alla loro funzionalità sociale, ma come fatti appartenenti alla sfera del reale (Nadasdy 2007:26). Nei paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea, la foresta (la brousse) è spesso solo uno spazio residuale, sopravvissuto all’urbanizzazione, all’agricoltura e al disboscamento. La capacità di negoziare con la natura è indubbiamente in crisi. Il rapporto con gli animali non appartiene più alla sfera della vita quotidiana, quanto piuttosto all’ambito della vita religiosa; in tal senso la pratica vodu fornisce ancora la possibilità di interrogarsi sul rapporto tra natura e cultura e di mettere in dubbio l’esistenza di una stabile e incisiva differenziazione tra le due.

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I miti che raccontano l’origine di un vodu o che narrano la scoperta di una nuova medicina non evocano mai un passaggio irreversibile da natura a cultura, un taglio definitivo ma un momento fondante e ripetibile in cui umani e non umani sono stati prossimi, spesso confusi gli uni con gli altri. Quando i sacerdoti vodu e i bokono affermano di essere in grado di riconoscere le erbe (ama) necessarie per realizzare i vodu o curare i malati, poiché hanno imparato negli anni di formazione-iniziazione a capire la voce delle piante, le loro parole non indicano un percorso simbolico o metaforico ma fattuale. Si tratta quindi di cercare di superare una concezione che veda l’animale come una macchina biologica oppure come un potente simbolo della società, per guardare alla relazione tra uomini e animali come effettivamente attiva e biunivoca. È necessario ripercorrere la strada intrapresa per l’analisi della materia e degli oggetti, perché sembra sia stato più facile per gli antropologi conferire un’agentività proprio all’oggetto, in quanto strumento di scambio o di dono, piuttosto che agli animali (Nadasky 2007). Partirò ora da alcune leggende proprie alla tradizione locale, che possono svelarci la transitorietà, complessità e mutevolezza delle identità umane e non umane. 1. «Ci sono animali per i quali devi offrire un sacrificio, quando li uccidi»: prede e cacciatori Ci sono degli animali che un uomo può uccidere e ci sono degli animali che un uomo non può uccidere. E ci sono animali ai quali devi offrire un sacrificio, quando li uccidi. C’era un cacciatore che andò nella foresta a caccia. C’era un animale chiamato afianku. Quando uccidi questo animale, lui ti dirà: «dammi qualche cosa in modo che io possa cadere al suolo (per te). Dammi tuo padre o tua madre o tua moglie o tuo figlio». Il cacciatore a questa domanda rispose: «non ho niente da darti». L’animale disse: «se non mi dai nulla non cadrò». Il nome del cacciatore era Amusu. L’animale disse: «Amusu, non mi puoi dare un uomo?». Amusu disse: «no, non ho niente per te. Devi cadere senza alcun regalo. Quando lo farai, ti taglierò a pezzi e ti mangerò». […] Il cacciatore iniziò a tagliare l’animale a pezzi. Afianku si trasformò in un uomo. Il cacciatore che stava tagliando l’animale non si rese conto che

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l’animale si era già trasformato. Quest’uomo prese due pezzi della carne che il cacciatore aveva tagliato e andò a casa, dalla moglie del cacciatore e le disse: «qui c’è la carne che tuo marito ti manda…». La donna prese la carne e la cucinò. […] Il cacciatore tornò a casa molto affamato. La donna gli diede il benvenuto e disse: «ho del cibo già preparato per te». […] Il cacciatore finì la carne. Chiese velocemente: «Che tipo di carne è questa?». Lei rispose: «è la carne di afianku che tu mi hai mandato». Il marito disse: «ah, l’ho ucciso io stesso». […] Dopo poco il cacciatore aveva già la febbre. Mandò a cercare il dega del suo villaggio e gli altri cacciatori. Il dega gli chiese cosa aveva fatto. Il cacciatore glielo disse. Il dega disse: «Quando hai colpito l’animale, che cosa ti ha detto?». Ora questo cacciatore era sufficientemente vecchio per uccidere un animale di questo tipo. «Mi ha chiesto di dargli qualche cosa», rispose il cacciatore malato al dega. […] I cacciatori hanno una polvere magica da gettare agli animali per calmarli. Ma questo cacciatore non era veramente un grande cacciatore per sapere cosa fare con un animale come questo. Il dega disse: «Tu sei perduto. Niente ti può salvare. Hai mangiato la carne di questo animale, senza fare nulla. Prima, saresti dovuto andare da un divinatore e chiedergli di vedere se era un animale che si poteva mangiare». Mandarono a chiamare un divinatore. Ma era troppo tardi. Disse che non c’erano sacrifici possibili per quanto era successo. Il cacciatore doveva morire. […] Afianku non è come gli altri animali. Se una persona lo uccide deve consultare un divinatore e trovare il sacrificio appropriato, prima di tagliare la carne. Inoltre i cacciatori semplici non devono uccidere questo animale. È riservato solo ai dega (Herskovits 1957:220).

L’animale, afianku, che intuiamo avere uno statuto eccezionale, non può essere ucciso senza ricevere in cambio un sacrificio. Dopo la morte si trasforma in uomo, non tanto perché quella fosse la sua vera natura, ma per mostrare al cacciatore la reciprocità del loro rapporto. Il cacciatore paga la sua inesperienza con la morte. La leggenda ha diverse assonanze con alcune pratiche analizzate da Valerio Valeri (1994), tra gli huaulu dell’arcipelago delle Molucche, in Indonesia. Uccidere un animale era per gli huaulu un atto sacrilego e il cacciatore doveva convincere le forze dell’occulto a concedere la preda, se non voleva diventare una vittima della vendetta delle forze della natura. Tali forze dovevano quindi essere neutralizzate attraverso gli strumenti ri-

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tuali a disposizione, alcuni dei quali erano, secondo la definizione data da Valeri, delle forme metonimiche di sacrificio. Offrendo la testa dell’animale ucciso, la sua parte più importante, alla natura, si preservava, anche se solo parzialmente, la sua sacralità. Se tale processo non veniva eseguito, il cacciatore rischiava di morire, come nel caso di Amusu, colpevole di non avere rispettato le regole del gioco. Il cacciatore deve essere in grado di convincere i non umani a rendersi prede, compito per nulla scontato. In questi termini, bisognerebbe iniziare a considerare gli utensili della caccia come degli strumenti di rivelazione, attraverso cui l’uomo cerca di conoscere, ma non di cambiare, il mondo e le sue intenzioni (Ingold [1997] 2001:163-165). La leggenda illustra la reciprocità della caccia: l’animale si offre al cacciatore, ma poiché questi non rispetta le sue richieste è costretto a pagare con la sua stessa vita. Il cacciatore non conosce le regole del dialogo con i non umani e l’animale provoca – necessariamente – la sua morte. Superando sia la barriera ontologica tra umani e non umani che una prospettiva meramente simbolica, si può inscrivere la leggenda al di fuori di un sistema di credenze e interpretarla come un monito per quei cacciatori che utilizzano i loro strumenti di conoscenza in modo inappropriato. La letteratura d’area ha sempre interpretato le pratiche legate alla caccia secondo un codice simbolico, che faceva esclusivo riferimento alla sfera del religioso. I dati etnografici forniscono, al di là di questo livello interpretativo, delle indicazioni per comprendere la caccia come pratica di transizione tra non umani e umani. La caccia è un’attività eroica, virile e molto pericolosa anche perché l’uomo nella brousse difficilmente può distinguere gli uomini dagli animali e questi dagli spiriti, poiché la foresta è il luogo in cui il mondo del visibile e quello dell’invisibile si avvicinano e si confondono l’uno nell’altro. Tra gli anlo ewe si riteneva che gli spiriti degli animali uccisi durante la caccia potessero perseguitare chi li aveva uccisi. In particolare ciò valeva per i leoni, i leopardi, gli elefanti, gli ippopotami, i facoceri e gli animali carnivori, cioè tutti quegli animali che avevano l’audacia di affrontare l’uomo quando venivano attaccati. Chi uccideva uno di questi animali per la prima volta, si sentiva minacciato, cadeva in uno stato di destabilizzazione psichica ed era costretto a chiedere l’aiuto di chi aveva già superato prove simili. Talvolta il cacciatore inesperto tornava al villaggio con la coda dell’animale, in modo da consentirne il riconoscimento e quindi con un gruppo di anziani andava in brousse per celebrare i necessari rituali.

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Il cacciatore doveva mettersi in bocca delle erbe protettive e non parlare con nessuno. Solo dopo la cerimonia di ritorno a casa, aveva il diritto di raccontare il suo esordio. Presso gli anlo del Ghana, l’iniziazione del nuovo cacciatore era più severa e prevedeva l’obbligo di restare isolato in brousse per tre o sette giorni, sotto il controllo dei cacciatori anziani (Surgy 1988:146-150). In entrambi i casi, il periodo di segregazione si concludeva con la costruzione dell’altare dedicato alla divinità della caccia: il vodu Ade. Su di esso si poneva la testa dell’animale ucciso. Era poi necessario sacrificare degli animali domestici e con le interiora grigliate del pollo sacrificato fabbricare una polvere, che serviva come protezione dagli spiriti degli animali uccisi. I cacciatori che trascuravano le cerimonie rischiavano di diventare folli o cadere ammalati fino a quando non accettavano di andare in brousse a farsi purificare, compiendo i sacrifici necessari e installando poi Ade nella propria casa. I rischi impliciti nella caccia, in quanto attività di rilevazione e conoscenza, erano più che altro legati all’inesperienza. Ogni errore veniva pagato, ma l’uomo aveva degli strumenti sussidiari per cercare di riparare. Il vodu Ade sembra quindi essersi diffuso tra i cacciatori proprio come strumento per sopperire alle evidenti difficoltà nel dialogo con il mondo degli animali. Era una misura di riparazione a posteriori. Nell’altare di Ade confluivano gli spiriti degli animali uccisi ma anche gli spiriti degli antenati cacciatori, che grazie alla loro saggezza e conoscenza erano stati un tramite con il complesso mondo degli animali. 2. Metamorfosi Il vodu Ade è quasi sempre associato a un altro importante vodu, chiamato Tchamba (Brivio 2008), che raccoglie al suo interno gli spiriti degli uomini comprati come schiavi e morti lontano dalla loro terra d’origine. La pratica e il significato di Tchamba permettono di interrogarci sull’indeterminatezza della natura umana e di quella animale. La contemporanea presenza di queste due divinità nei medesimi santuari parrebbe essere connessa a un presunto naturale slittamento dal ruolo di cacciatore di animali a quello di cacciatore di uomini. L’associazione ha delle evidenti ricadute etiche e simboliche, attribuendo allo schiavo lo statuto di preda e quindi di animale. Gli uomini, cacciati per essere ven-

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duti, acquisivano infatti uno statuto periferico e differenziato, anche grazie agli slittamenti ontologici che i riferimenti al mondo animale sembravano consentire. Un prete asante negli anni Venti raccontava a Rattray: Tu vai nella foresta, vedi degli animali selvaggi, gli spari, li uccidi e poi scopri di avere ucciso un uomo. […] Ci sono persone che si possono trasformare in leopardi; la gente della savana2 è particolarmente adatta a trasformarsi in iena (Parker 2005:358).

Al di là di un discorso che affonda il suo senso nella de-umanizzazione dello schiavo, che doveva assumere lo statuto «d’étranger absolu» (Miellassoux 1986:68), lo schiavo poteva essere ritenuto anche inferiore agli animali, per i quali, abbiamo visto, era necessario negoziare misticamente la cattura. Lo schiavo, a differenza dell’animale, non avrebbe mai accettato di essere cacciato e catturato. La caccia allo schiavo era quindi più vicina a una battuta di caccia condotta da un cacciatore inesperto, incapace di dialogare con l’altro e quindi portatrice di conseguenze nefaste. Quando lo schiavo veniva catturato poteva capitare, come raccontano oggi i sacerdoti di Tchamba, che morisse e il suo corpo fosse abbandonato in brousse; non si riteneva però necessario celebrare alcuna cerimonia né installare alcun altare. Tale necessità divenne impellente solo anni dopo la fine della schiavitù, quando i padroni furono costretti a confrontarsi con le conseguenze di un iniquo rapporto di dominio e con la rabbia degli spiriti degli antichi schiavi, morti in modo violento. Fu in questo contesto che il vodu Tchamba si diffuse nelle case degli ex mercanti di schiavi e poi di chi aveva usufruito del lavoro degli schiavi domestici. La cattura e l’addomesticamento dello schiavo erano pratiche più vicine all’allevamento che alla caccia, dato che nell’allevamento si passava dalla fiducia alla dominazione, dal rapporto paritario a quello subordinato (Ingold 2000:61-76). Come gli animali domestici, gli schiavi avevano uno statuto inferiore perché la loro vita teoricamente dipendeva esclusivamente dalle cure del padrone e mai viceversa, come invece accadeva nel caso della caccia. Il vodu Ade, consacrato agli animali cacciati, e il vodu Tchamba consacrato agli uomini cacciati, mostrano quanto l’opposizione tra umani e non umani abbia confini percorsi da continue trasgressioni. È possibile passare dall’uno all’altro, essere uomini e diventare animali, oppure da animali trasformarsi 2. Con “gente della savana” si definivano gli abitanti delle regioni poste a nord del regno degli Asante, che furono un ricco serbatoio di schiavi per le popolazioni del sud.

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in uomini, oppure come uomini essere considerati inferiori agli animali. Lo statuto animale e umano sono essenzialmente situazionali. Si tratta di relazioni di potere che come tali devono essere costantemente negoziate. Essere animale non preclude una posizione di superiorità, come l’essere umano non assicura una condizione di dominio. In ogni situazione è la relazione e il contesto in cui entrambe si verificano a determinare l’uno e l’altro ruolo. 3. Cultura e natura: “animali favolosi” insegnano agli uomini i segreti del mondo invisibile Vediamo ora gli intrecci che uniscono i vodu, i cacciatori e la brousse. L’essenza dei vodu, la loro capacità di agire, risiede negli ama e nelle altre componenti organiche e inorganiche, che hanno gbogbo (essenza, soffio vitale) e sono quindi in grado di condizionare il mondo esterno. L’azione di introdurre ama, all’interno del contenitore vodu mette in atto la relazione tra le molte intenzionalità del mondo, tra quelle degli umani e quelle dei non umani. Gli ama devono entrare nel vodu per sancire la continuità del passaggio e il perpetuarsi delle negoziazioni. Le molte leggende che narrano il passaggio tra natura e cultura non raccontano di un processo irreversibile, di una cesura profonda e senza ritorno ma piuttosto di un cauto, difficile e reciproco passaggio di informazioni. Leggende passate e presenti mostrano come la natura e la cultura siano fuse l’una nell’altra e come l’uomo, ancora oggi, si definisca a partire da questa stretta correlazione. Inoltre, qualora possibile, questi miti devono essere letti in prospettiva storica, onde evitare di universalizzare significati comprensibili solo in specifici contesti di potere. Secondo una versione sull’origine dell’oracolo Fa – arbitro della vita morale, religiosa e politica di chi appartiene al mondo vodu – raccolta da Maupoil (1943) negli anni Trenta del Novecento – furono alcuni “animali favolosi” a raccontare ai cacciatori i segreti di Fa: Un cacciatore della città di Ife si accorse della presenza di un agbali (antilope) durante la caccia. La volle uccidere, ma, nel momento in cui il colpo stava partendo, l’animale si trasformò in uomo: «non tirare» – disse – «ho una bella cosa da darti». Insegnò così al cacciatore tutti i segreti di Fa, innumerevoli leggende e tutto ciò che concerneva Fa da vicino e da lontano; […] Il cacciatore fece ritorno a Ife e provò il nuovo mestiere. Si trovava bene e quindi continuò a esercitarlo. Ma, quando un giorno dovette celebrare le cerimonie prescritte per

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Agbali, le trovò meno efficaci di quanto gli era stato promesso. La volta successiva decise di andare a operare nella foresta e il suo sacrificio ebbe un’estrema efficacia. Per questa ragione e fino ai nostri giorni le cerimonie in onore di Fa hanno luogo di preferenza nella foresta, soprattutto la cerimonia principale, cioè la ricerca e la consegna del segno individuale che contiene il destino della persona. Perché Fa è un vodu della foresta (Maupoil 1943:39).

Agbali portava, disegnati sul suo manto, due dei simboli di Fa. L’importanza dell’animale non impediva ai cacciatori d’ucciderlo ma, scriveva Maupoil (1943:39-40), se la pallottola o la lancia avessero colpito proprio il “segno” di Fa, allora il cacciatore sarebbe sicuramente impazzito. Maupoil continuava ricordando che nella foresta oltre ad agbali si riteneva vi fossero altri animali in grado di praticare Fa: l’afyaku, re di tutte le antilopi, il glezi, un roditore dei campi, e te, l’antilope rossa. Anche il porcospino era considerato una sorta di bokono, un tempo consultato dagli uomini, e che negli anni aveva lasciato solo due segni del suo sapere: Yeku Meji e Jiobe, due delle 256 figure che compongono il corpus di leggende correlate alla divinazione di Fa. La vita dei cacciatori era allo stesso tempo pericolosa e ricca di opportunità. La caccia, basata sulla fiducia, implicava «rischio, tensione e ambiguità» (Ingold 2000:75). Il rischio di uccidere l’animale sbagliato, di colpirlo in modo non appropriato o di scoprire troppo tardi che si trattava in realtà di altro, si univa alla possibilità di scoprire nuovi saperi e apprendere incredibili segreti. La foresta, luogo dove è necessario svolgere le cerimonie di iniziazione a Fa – Fa stesso fu scoperto grazie all’aiuto degli animali – diviene il luogo da cui dipende il processo di “civilizzazione” dell’uomo e con cui egli si deve mantenere in costante dialogo. Maupoil (1943:321) riportava le parole di Gedegbe, bokono di corte ad Abomey, secondo cui: «chi entra nella foresta [per conoscere il proprio Fa] ascolta ciò che sarà la sua vita, quando avrà termine e gli avvenimenti che la segneranno, buoni e cattivi che siano. […] Chi fa ritorno da Fazu [la foresta di Fa] è diventato un uomo». Nella foresta si diventa uomini, perché qui si apprendono le regole del potere, del comando e della vita sociale. Come vedremo Fa è dominio esclusivo degli uomini, non perché le donne siano ritenute estranee alla natura ma perché la divinazione di Fa è divenuta uno strumento di potere che si è proposto come egemone rispetto ai vodu, ambito d’azione prevalentemente femminile. Le parole di Gedegbe devono quindi essere lette come prodotto di una pratica di potere, che ci mostra tra l’altro come la natura sia tutt’altro che politicamente neutra. Se in questo caso viene usata

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come strumento di legittimazione del potere maschile, quando connessa al femminile può, al contrario, diventare prova di comportamenti devianti e illegittimi. Nella leggenda che narra degli aziza – Origin of medicine: little folk of the forest give man their gods (Herskovits 1958) – si narra di un’epoca in cui gli uomini morivano di malattia perché non avevano ancora incontrato gli aziza (entità con uno statuto di transizione tra uomini e animali), conoscitori dell’uso di foglie e radici. Ancora una volta fu un cacciatore, che passando a fianco di un cumulo di terra, sentì una debole voce. Si trattava di un aziza, che gli consegnò delle erbe curative e gli disse: «quando qualcuno nel tuo villaggio è ammalato, vieni a riferirmelo e io ti darò la cura». La voce giunse al Re, che andò di persona dall’aziza con delle offerte, fece alcuni sacrifici e disse: «nel mio paese non abbiamo vodu. Ti voglio portare da me per essere un vodu. Se qualcuno nel mio regno si ammalerà, lo manderò da te per le medicine». Aziza diede al Re le medicine e i vodu e disse che in futuro chiunque avesse voluto un vodu avrebbe dovuto semplicemente andare nella foresta e prendere un po’ della sua terra. Il narratore terminava, ricordando che: «i vodu e la magia in questo mondo furono tutti donati da aziza» ( Herskovits 1958:217-218). Gli aziza, secondo gli Herskovits (1931), apparivano in passato agli uomini come creature simili alle scimmie, ed erano in qualche modo ritenuti «l’anima dei Loko», il vodu degli alberi, poiché vivevano in essi. Negli anni, persero le sembianze di scimmie e smisero di vivere nella foresta. Apparivano invece come stranieri nei villaggi e distribuivano medicine per aiutare le persone malate: «questi sono gli aziza, nella forma moderna» (1931:67). Oggi gli aziza, secondo le rappresentazioni locali, sono uomini molto piccoli, ricoperti da lunghissimi capelli che nascondono il volto e con i piedi messi in senso contrario rispetto al resto del corpo. I loro capelli si possono acquistare al mercato e hanno un ruolo importante in molte preparazioni rituali e medicinali. Sono causa di morte, perdita di memoria e talvolta possono decidere di rapire un malcapitato, al solo fine di istruirlo ai segreti nelle erbe e della brousse. 4. La natura nel gorovodu Ritornando al gorovodu è interessante notare come, nonostante il suo statuto di vodu moderno ed eteronomo, si continui a produrre una mitolo-

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gia che si radica nei temi sopra illustrati. La relazione con la natura resta fondante e i cacciatori tornano a essere il tramite imprescindibile del dialogo tra l’uomo e il mondo selvaggio. Mama Seidou è descritto come un cacciatore, che trovò il vodu proprio nella brousse. Secondo alcune versioni, raccolte tra i leader del gorovodu, egli apprese le pratiche del culto proprio osservando le scimmie: durante la caccia Mama Seidou ha visto dei macachi e delle altre scimmie che sembrava stessero adorando qualche cosa. Allora si è nascosto per vedere cosa facevano, perché si comportavano come se fossero degli uomini. Prendevano degli oggetti, li appendevano, cosi come facciamo noi adesso; avevano creato uno spazio come se fosse il loro kpome e lì raccoglievano gli oggetti che realizzavano. Le scimmie urlavano e ballavano intorno a questo spazio, come se stessero facendo una cerimonia. Mama Seidou allora è tornato a casa e ha raccontato a Kodjo Kuma quello che aveva visto, perché gli sembrava una cosa importante. Il giorno dopo è tornato nella foresta e ha deciso di prendere gli oggetti che le scimmie avevano lasciato e le ha portate a casa. Poi le ha aperte per vedere cosa c’era al loro interno e per poter rifare la medesima cosa; aveva visto la cerimonia e poteva riprodurla; aveva passato tanto tempo a osservarli e aveva anche visto come si realizzava la parte esterna degli oggetti. All’epoca aveva registrato le canzoni che le bestie cantavano, perché era proprio così, gli animali cantavano. Le scimmie cantavano in hausa e in ashanti. Dalle scimmie aveva anche imparato la danza, quella che oggi fanno i cacciatori e così ha iniziato a spiegare agli altri come fare. 3

Si può accedere ai saperi mistici anche attraverso percorsi esistenziali che sconfinano nella follia. Si narra sovente di persone che, impazzite, scompaiono nella foresta per anni, per poi ritornare trasformate. La fuga o il perdersi nella foresta è un topos nei racconti vodu e rappresenta una forma d’iniziazione che ne rispetta tutte le fasi simboliche. Spesso, infatti, chi scompare dopo qualche mese viene considerato morto dai parenti. Quando la persona tornerà nel villaggio la sua metamorfosi sarà sia fisica – avrà i capelli lunghi e arruffati, sarà privo di abiti e coperto solo da erbe e radici – che spirituale, poiché porterà con sé una nuova divinità o comunque nuovi saperi che condividerà con la comunità.

3. Conversazione con sofo Gbedepe III, Avepozo, Baguida, Togo, 17 ottobre 2006.

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Anche la narrazione di Cosme, houno del tron kpeto deka di Porto Novo, circa l’origine del tron, si fonda sui temi ricorrenti4 della fuga nella brousse, la follia, spesso prossima alla morte, la presenza degli animali e il ritorno al villaggio: La prima persona che ha incontrato e riconosciuto il tron è stato Ajakoussi. In seguito alla morte di tutta la sua famiglia, morte dovuta alla stregoneria, Ajakoussi era rimasto solo e disperato nella sua casa e aveva iniziato lentamente a impazzire di dolore e di paura. Temeva, infatti, che la stregoneria uccidesse anche lui. Un giorno decise di scappare e nascondersi nella brousse. Così visse per molti anni, senza mai uscire dalla brousse, dormendo sotto un baobab e nutrendosi di radici. I suoi capelli erano lunghissimi e così la sua barba, i vestiti ormai stracci e la sua pelle ferita e rovinata dalla vita nel bosco. Chi lo incontrava, pensava fosse un pazzo. Dopo qualche anno che faceva questa vita, si accorse che durante la notte, verso le due, in un punto silenzioso, una specie di cimitero, si riunivano tutti gli animali selvaggi : il leopardo, il leone, la tigre, l’elefante e tutti, nel silenzio assoluto, nell’armonia e nella pace reciproca, restavano fermi a guardare in un punto. Questo fatto si verificava tutte le notti e Ajakoussi iniziò a incuriosirsi, finché un giorno, dopo che gli animali se ne furono andati, decise di avvicinarsi al punto verso cui tutti guardavano. Lì vide un uomo senza testa che iniziò a parlargli. Riconobbe in lui un hausa, perché nelle mani aveva il rosario per la preghiera. L’uomo vedendolo gli chiese cosa gli fosse successo, da cosa stesse scappando. Dopo le prime esitazioni, Ajakoussi iniziò a raccontare la tragica storia della sua famiglia e della sua fuga. L’uomo senza testa gli disse che doveva ritornare nella sua casa e che lì avrebbe ritrovato la pace. Ma Ajakoussi aveva paura, paura di morire, per cui esitava di fronte all’invito dell’uomo senza testa. Questi, vista la sua paura, gli disse che lungo il cammino verso casa, ad ognuna delle cinque curve che disegnavano la strada, avrebbe trovato un oggetto che avrebbe dovuto raccogliere e portare con sé. Ajakoussi si decise a partire e fece ciò che l’uomo senza testa gli aveva detto. Ritrovò la sua casa, ormai un rudere, ma vi entrò e inizio a viverci. Ormai abituato alla vita nella foresta, il suo aspetto era ancora quello di un folle e la gente del paese effettivamente pensava che lo fosse. Un giorno, una donna del paese, il cui bambino era stato preso dalle streghe ed era quindi gravemente malato, stava camminando disperata con il bambino tra le braccia, non sapendo cosa fare per salvarlo. Improvvisamente si mise a correre ed entrò nella casa di Ajakoussi, dove nessuno entrava, e gettò il bambino tra le sue cose. Il bambino immediatamente iniziò a stare meglio e presto 4. Si veda ad esempio Field (1960:65).

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guarì. Le chiesero come le fosse venuto in mente di entrare in quella casa e lei disse che non era stata una decisione, ma una forza che l’aveva spinta a correre in quella direzione. Dal quel momento la gente, e Ajakoussi stesso, capirono che l’incontro con l’uomo senza testa era stato un incontro con una forza incredibile, con una divinità che da quel momento bisognava iniziare a venerare. Fu così che nel 1880 iniziò il culto del tron in Gold Coast e ben presto si diffuse in tutto il paese.5

Queste narrazioni, diffuse in tutta la regione, sono sempre state interpretate come delle metafore, come rappresentazioni della sfera del sacro lontane dall’esperienza reale, spesso dimenticando che la foresta è una realtà concreta, che gli uomini si sono realmente mossi e persi nella brousse e che al suo interno si celebrano importanti rituali. Oggi il rapporto con la natura e con la brousse è cambiato, anche nei villaggi prevalgono i campi coltivati e gli spazi aperti, piuttosto che i boschi. I pericoli, i misteri e soprattutto gli animali sono sensibilmente diminuiti e anche il rapporto dell’uomo con essi. Nelle città il rapporto con gli animali è quello di tipo industriale che «ha ridotto, in pratica e non solo in teoria, gli animali a semplici “oggetti”, cosa che i teorici della tradizione occidentale hanno sempre ritenuto che essi fossero» (Ingold 2000:75). Oggi è sicuramente più difficile vivere la reciprocità tra uomini e animali, anche se la natura continua a informare i saperi e le rappresentazioni locali. Le mediazioni tra natura e cultura, le trasgressioni tra la brousse e il villaggio – classica dicotomia dell’antropologia africanistica – devono essere reiterate in continuazione. In un mondo dove la caccia è un’attività sempre più rara, le foreste meno pericolose, i vodu rimangono l’espressione di un pensiero e di una pratica che tenta di esprimere le complessità del mondo, e il sacrificio lo strumento preferenziale di dialogo e mediazione. 5. Il sacrificio vodu Hou – sangue – in fon ed ewe, può essere utilizzato come sinonimo di vodu ed è la radice di molti termini appartenenti al medesimo campo semantico. Il sangue, nelle antiche culture greche ed ebraiche, era il simbolo al contempo di vita e di morte, liquido invisibile, poiché nascosto all’interno del corpo e visibile fuori da esso ma solo nel momento della 5. Conversazione con Cosme Houndekon, Portonovo, Bénin, 22 agosto 2005.

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sofferenza o della morte (Camporesi 1997).6 Nelle sue ambivalenze il sangue è l’elemento più prossimo all’essenza impalpabile e contraddittoria del vodu. Anch’esso si palesa e si rende visibile attraverso la morte, ma l’uomo lo venera in quanto strumento invisibile di vita e di rigenerazione. Come il sangue, il suo stato è simile a quello di un fluido in continuo movimento; il vodu scorre come energia in infiniti luoghi differenti, ma non per questo perde le sue potenzialità. Il sangue nel mondo vodu non è stato simbolizzato. Il sangue versato come sacrificio necessario a salvare l’uomo, non può essere evocato come un’idea, ma deve essere vissuto come un’esperienza sensibile. Il sangue, ma soprattutto il suo scorrere fuori dal corpo della vittima, è il fulcro del sacrificio. L’animale viene sgozzato, proprio perché il sangue possa scorrere e passare dall’animale alla divinità, ancora carico di forza vitale. Il sacrificio mette in scena e rende sensorialmente percepibile il passaggio dalla vita alla morte; la vita, ancora presente nel sangue che cola dalle vene dell’animale sgozzato, non va persa poiché, mentre lentamente e inesorabilmente abbandona l’animale, viene raccolta o versata sulla divinità. Il sangue deve provenire dal sacrificio, dallo spreco di una vita (in realtà niente è mai sprecato) e deve contenere ancora al suo interno l’energia vitale della vittima. Possiamo quindi immaginare il sangue come il fluido che media la transizione, che conduce al di là del visibile, dato che la sua stessa natura rende esplicita l’esistenza della vita nella morte e consente di trasgredire il confine che divide i vivi dai morti. È il ponte che consente tutti i passaggi, elemento imprescindibile in quasi tutte le forme di sacrificio. Il sacrificio è un argomento classico dell’antropologia e come tale è stato spesso soggetto a formulazioni semplificanti e adottato come un paradigma universale. Marcel Detienne (1982:174) denunciava un atteggiamento «cripto cristiano», presente in tutte le trattazioni sul sacrificio, che sarebbe divenuto: una categoria del pensiero di ieri, altrettanto arbitraria quanto quella di totemismo; una categoria costruita in modo artificiale per mettere insieme 6. François Rabelais nel suo inno al sangue scriveva: «L’intenzione del creatore di questo microcosmo (il corpo) è di mantenerci l’anima, che egli vi ha messo come un ospite, e la vita. La vita consiste nel sangue; e il sangue è la sede dell’anima. Perciò una sola è la fatica di questo piccolo mondo, cioè forgiare continuamente sangue» (Gargantua e Pantagruele, III, 4, in Camporesi, 1997:6).

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elementi di diversa provenienza etnologica e che ben dimostra l’egemonia sotterranea esercitata dalla visione cristiana su storici e sociologi convinti d’inventare una nuova scienza.

Il sacrificio è un atto che mette in relazioni una serie di rappresentazioni che legano gli esseri umani, il mondo animale e il mondo ultraterreno. Racchiuderlo in una definizione o in un modello significa rischiare di «considerare ogni specifico caso come una variante di un sacrificio fondamentale e originario» (Bloch [1992] 2005:44). In realtà ogni sacrificio deve essere analizzato come un atto capace di svelare una complessa stratificazione di significati, poiché l’uccisione di un animale fa emergere le concezioni ontologiche attraverso le quali gli esseri umani pensano alla loro relazione con la natura e giustificano la loro esistenza terrena. Maupoil (1943) evidenziava all’interno dei rituali vodu due tipi di sacrifici: il vo, vosisa o vossa e il nu-wiwa. Il vossa7 (vo sacrificio, sa offrire) è la conclusione di un processo di divinazione e si rivolge sempre a forze impersonali. Il secondo tipo di sacrificio – nuwuwu o elawuwu (uccidere la cosa – nu – la cosa – wuwu, uccidere; oppure uccidere l’animale, dove ela è animale) è invece diretto alle divinità o agli antenati, quindi a entità specifiche e conosciute. Lo scopo di questi sacrifici è stabilire, attraverso la mediazione della vittima, una relazione tra chi effettua il sacrificio e il suo vodu. Si tratta di sacrifici periodici, che vengono celebrati in prefissate occasioni rituali. Nella descrizione delle due tipologie di sacrificio Maupoil sembra ispirarsi al modello di Hubert et Mauss (1889). Per i due autori, il sacrificio, sacrum facere, era un movimento verso il divino, culminante nella morte della vittima, grazie alla quale l’uomo poteva raggiungere la fusione con il sacro. La fase successiva era la ridiscesa dell’uomo nel mondo del profano. Il sacrificio era immaginato come una parabola che attraverso la sacralizzazione raggiungeva il culmine dell’unione con le divinità per poi, attraverso la desacralizzazione, ricondurre l’uomo alla sua condizione mortale. Nella prima fase – la sacralizzazione – si voleva entrare in contatto con il divino e ottenerne dei benefici, mentre nella seconda – la desacralizzazione – la comunicazione con il sacro aveva lo scopo di porre fine a un intervento indesiderato e pericoloso del divino nella sfera umana. In 7. Vossa è il termine che è stato utilizzato dai missionari per tradurre il concetto di sacrificio cattolico ed è utilizzato quindi nei testi in ewe della Bibbia.

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entrambi i casi attraverso il sacrificio, l’uomo transitava tra il sacro e profano, seguendo la medesima logica dei riti di passaggio. Il sacrificio comportava l’ingresso in una zona isolata, all’interno della quale l’animale da sacrificare veniva “consacrato” e il sacrificante, attraverso un fenomeno di identificazione con la vittima, si purificava ed entrava con quest’ultima nella sfera del sacro. Luc De Heusch (1986) mise in discussione questo modello, troppo condizionato da una visione etnocentrica di tipo indo-europeo. Mauss e Hubert avevano, infatti, attinto i dati per l’elaborazione teorica essenzialmente dal sacrificio vedico. Secondo de Heusch, il punto cruciale delle errate interpretazioni del sacrificio, in particolare di quello africano, era l’aver confuso il sistema dei divieti con l’idea di contaminazione.8 Nella morale cristiana il peccato, ossia la trasgressione del divieto, esprime una contaminazione metaforica, che affligge l’anima. Le religioni africane invece non assumono la medesima prospettiva, poiché la contaminazione non è una condizione di lontananza dal divino, anzi appartiene pienamente alla sua sfera. Il sacrificio può dunque avere lo scopo di ripristinare un equilibrio compromesso da un eccesso di sacro e non di guarire una supposta corruzione morale. Tale prospettiva è pertinente nell’ambito vodu, ontologicamente estraneo a una visione aprioristicamente morale della realtà e a una dogmatica divisione tra sacro e profano o tra bene e male. 8. La critica di de Heusch (1986) si fonda sull’analisi dell’etimologia del termine latino sacrificio, sacrificium, che significa rendere sacro, cioè sacer la vittima. In latino sacer si oppone a profanus; ma sacer, come emerge dagli studi di Emile Benveniste (1969) ha uno statuto ontologico ambiguo. Significa, infatti, consacrato a dio, ma è un termine caricato di una valenza al contempo sublime e maledetta, un segno «degno di venerazione e di orrore». In tale prospettiva il sacrificio è un gesto estremamente pericoloso. L’uomo sacro, come l’animale sacro, è separato dalla società umana, dal mondo profano, è qualcosa d’impensabile, «augusto e maledetto» quindi contaminato. De Heusch mette in gioco un altro termine, sanctus, che si accompagna a sacer completandolo, designando ciò che è difeso attraverso una pena o una sanzione. Significa definire un campo d’applicazione e renderla inviolabile. Il sanctus è un prodotto dell’uomo, anche se posto sotto la protezione e il giudizio della divinità. Hubert e Mauss (1889) avrebbero quindi unito nelle loro ipotesi i due termini, sacer e sanctus, confondendo in tal modo il sacro, contaminato, con il divieto umano; ciò che è contaminato, che è sacer non è automaticamente soggetto alle interdizioni dell’uomo. Il concetto di sanctus ha avuto diffusione con il Cristianesimo, ed è proprio la morale cristiana, che avrebbe associato, in modo universale, il divieto al sacro, al contaminato, nell’idea di peccato.

Fig. 1. Una fase dell’installazione di tron kpeto deka, Porto Novo, Bénin, dicembre 2005.

Fig. 2. Una fase dell’installazione di tron kpeto deka, Porto Novo, Bénin, dicembre 2006.

Fig. 3. Interno di un santuario vodu, Abomey, Bénin, dicembre 2007.

Fig. 4. Interno di un santuario vodu, Abomey, Bénin, dicembre 2007.

Fig. 5. Santuario tron kpeto ve, Klikamé, Lomé, Togo, ottobre 2006. Fig. 6. Santuario tron kpeto deka, Atikesimé, Togo, agosto 2005.

Fig. 7. Oggetti rituali del tron kepto deka, Porto Novo, Bénin, luglio 2005. Fig. 8. Hilaire Dohou durante una cerimonia in un santuario del tron kepto ve, Ouedà, Bénin, ottobre 2006.

Fig. 9. Trosi durante una cerimonia a Klikamé, Lomé, Togo, ottobre 2006.

Fig. 10. Trosi durante una cerimonia del tron kpeto ve, Ouedà. Bénin, ottobre 2006.

Fig. 11. Arrivo delle adepte con le offerte durante una cerimonia del tron kpeto ve, Cotonou, Bénin, novembre 2005.

Fig. 12. Salah, la preghiera durante una cerimonia del tron kpeto ve, Ouedà. Bénin, ottobre 2006.

Fig. 13. Adepta vodu in trance, Gran Popo, Bénin, gennaio 2011.

Fig. 14. Trosi durante una cerimonia del tron kpeto ve, Cotonou, Bénin, novembre 2005.

Fig. 15. Alcuni adepti rivestono il ruolo dei cacciatori durante una cerimonia del tron kpeto ve, Cotonou, Bénin, novembre 2005.

Fig. 16. Il sacrificio di un bue sugli oggetti rituali durante una cerimonia del tron kpeto ve, Cotonou, Bénin, novembre 2005.

Fig. 17. Alcune adepte durante la Festa nazionale dei vodu, Gran Popo, Bénin, gennaio 2007.

Fig. 18. L’altare del padre di Hilaire Dohou, in una foto degli anni Quaranta del Novecento.

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Il culto dei vodu non lascia spazio alla compassione, alla pietà e alla consolazione. Il fedele vodu vive in uno stato di costante incertezza ed è continuamente spinto a negoziare un equilibrio tra sfera del visibile e dell’invisibile, senza poter mai raggiungere una posizione di tranquillità psicologica o fisica. Questa condizione d’instabilità sembra però caratterizzare sia gli umani sia i non umani (le divinità). Se l’anelito al superamento della primordiale rottura con l’aldilà esprime l’essenza della tragedia umana anche nelle religioni cristiane, qui la nostalgia nei confronti di uno stato di reciproca unione è anche parte della condizione dei vodu (Wole Soyinka 1976). Maupoil (1943:56), a tal riguardo, scriveva: numerose fra queste divinità sembrano essere vissute un tempo sulla terra; l’elemento terrestre e quello celeste si riconoscono meglio l’uno nell’altro, e questa credenza esprime una segreta e reciproca nostalgia che quasi spinge i vodu a tornare a essere uomini, e gli uomini a elevarsi verso la conoscenza e l’esercizio delle cose divine.

La nostalgia diventa per gli umani una ricerca corporea del divino che supera i limiti di un discorso puramente simbolico, ma proprio in quanto esperienza fisica estrema e talvolta dolorosa, può allo stesso tempo generare il desiderio di liberare il proprio corpo da un eccesso patogeno di presenza divina. D’altra parte, tale presenza se non è mediata ritualmente, può sfociare nella malattia. La contraddizione tra desiderio e rifiuto è solo apparente e comprensibile anche ricordando che l’attitudine divina verso l’uomo non è aprioristicamente positiva. Proprio l’omologia tra uomini e dei, fa sì che questi ultimi siano caratterialmente scostanti, permalosi e spesso crudeli e quindi la loro presenza non sia garanzia di pace. Nel sacrificio vodu, come vedremo, esiste un momento di climax, nel quale l’uomo entra prepotentemente nella sfera del sacro, ma manca la fase di ritorno. Gli umani entrati ritualmente in contatto con il vodu non ritorneranno più in una condizione cosiddetta profana, anche se la percentuale di “sacro” si andrà affievolendo nel tempo. Per tale motivo il contatto tra il dio e l’uomo deve essere continuamente rinnovata, in un rapporto di cui entrambe le parti hanno bisogno. Il sacrificio non può dunque essere ricondotto alle due dimensioni di sacralizzazione e desacralizzazione, poiché gli umani sono irreversibilmente segnati dai vodu. Le forze dell’invisibile possono infatti irrompere inaspettatamente nella vita dell’iniziato, durante la sua vita “profana”, al di fuori dei limiti spaziali del “sacro”.

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6. Il sacrificio nel gorovodu: il tron kpeto ve Il sacrificio nel gorovodu non si discosta in modo sostanziale da quello praticato negli altri vodu, se non per il tipo e la quantità di animali sacrificati, per un più esplicito legame tra il gorovodu e il mondo animale9 e per la presenza della figura rituale del cacciatore. Nell’analizzare il sacrificio collettivo nel gorovodu, svolto durante le cerimonie pubbliche dette kpeta, adotterò lo schema proposto da Valeri, in prima istanza perché amplia il paradigma fino a includere un’intera “galassia” di fenomeni interrelati, e in secondo luogo perché, riuscendo a includere anche la caccia come forma di sacrificio, permette di meglio descrivere il sacrificio del gorovodu, durante il quale avviene una riproduzione mimetica di alcuni momenti di una battuta di caccia. Valeri individua quattro atti fondamentali che caratterizzano ogni forma di sacrificio: l’induzione, la presa della vita, la rinuncia e il consumo. Si tratta di una definizione ampia, che consente di includere tutte le forme significanti di “presa della vita”, celebrate sia al fine di produrre ulteriori elaborazioni simboliche sia, più pragmaticamente, per nutrirsi. I dati etnografici che utilizzerò sono relativi a un kpeta, cui partecipai nel novembre del 2005, ad Ahita, una località a circa 20 chilometri a nord di Porto Novo. Ahita è un piccolo villaggio che sorge tra i campi di mais e manioca, a ridosso della strada nazionale che porta a Ketu, lungo il 9. Ogni divinità che compone il gorovodu ha un legame, più esplicito rispetto agli altri vodu, con un animale. Kunde ama ed esige il sangue dei cani. È una divinità maschile, padre e cacciatore ed è proprio la sua natura, che rende necessaria la scelta del cane come animale sacrificale. Il cane, infatti, aiuta l’uomo durante la caccia e lo protegge dagli animali selvaggi. Ricordava Pazzi (1976) che il cane «è il guardiano della casa, il messaggero tra il mondo degli uomini e gli animali della foresta: lo si considera anche l’intermediario tra il mondo dei viventi e l’aldilà, associandolo a Legba, a cui viene sacrificato». Durante la cerimonia per l’installazione di Kunde si versa sangue di cane e tra le differenti sostanze organiche e inorganiche che ne costituiscono il nucleo vitale, deve esserci un cane intero o alcune sue parti. Dopo i sacrifici, gli iniziati, possono mangiarne la carne o berne il sangue, condividendo il pasto con la divinità, anche se il consumo di carne di cane non è una consuetudine. Si tratta di una pratica accettata tra i popoli del nord. Il sacrificio di un gatto è ancora più anomalo nei rituali vodu, più difuso invece nella realizzazione di oggetti magici, come i bo. All’interno del gorovodu si ritiene che il gatto sia in grado di compiere i lavori più difficili e pericolosi, addentrandosi nei terreni della stregoneria. Si potrebbe supporre, cercando di “vedere le connessioni” tra fenomeni distanti, che si tratti di un’eredità acquisita dai missionari cristiani, dato che la metamorfosi delle streghe in gatti appartiene alla tradizione occidentale medioevale e non sembra così radicata in quella africana, ma questa ipotesi non ha evidenze.

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confine con la Nigeria.10 Il kpeta,11 presieduto da Hilaire Dohou, fu anche l’occasione per l’intronizzazione12 del sofo dell’altare in cui si celebrava la cerimonia. Hilaire Dohou, presentandomi gli invitati che stavano giungendo, mi consigliò di non fidarmi di ciò che vedevo, poiché, mi disse, ai kpeta arrivano anche gli “spiriti” nascosti sotto un’apparenza umana. Le forze dell’invisibile sono dunque presenti alla festa sia come uomini che si confondono tra gli altri uomini, sia come spiriti che s’impossessano dei corpi degli iniziati, sia come presenze che restano invisibili all’occhio umano ma comunque percepibili. Hilaire Dohou, prima di dare inizio alle immolazioni degli animali, seguito da tutti i dignitari presenti, s’incamminò verso l’ingresso del villaggio. Fermo all’incrocio delle vie che conducevano alla casa, iniziò a chiamare gli spiriti ritardatari e in particolare quelli che arrivavano da lontano, perché si affrettassero e potessero partecipare anch’essi alla festa e all’imminente immolazione. I sacrifici dei piccoli animali – capre, diverse specie di volatili, cani e gatti – furono eseguiti, come sempre succede, all’interno del santuario, 10. Ho assistito ad altri kpeta, presieduti sia da Hilaire, sia da altri sofo, in Togo e in Bénin. Le tappe rituali sono abbastanza codificate e si ripetono nelle differenti occasioni, anche se ogni festa rappresenta un’esperienza unica, poiché mai la combinazione dei molti elementi che costruiscono un kpeta produce il medesimo risultato. Le cerimonie sono poi vincolate, in modo sostanziale, dalle risorse economiche a disposizione degli organizzatori. 11. I kpeta si svolgono generalmente nell’arco di quattro o cinque giorni, ma nel caso in cui i mezzi economici a disposizione siano elevati, possono anche superare la settimana. Il venerdì e il sabato notte si veglia in attesa della domenica, il giorno di massima affluenza degli invitati. 12. L’intronizzazione è l’ultima tappa dell’iniziazione di un sofo. Solo con questa cerimonia si ottengono tutti i poteri. In questa occasione il sofo riceverà e potrà indossare la adeu, completamente rivestita di talismani di protezione contro le pallottole, i coltelli, etc. Secondo Hilaire, un tempo, alla fine dell’intronizzazione, una volta consegnata la giacca, il sofo, all’interno del tempio, si doveva sedere sull’altare di Sacra bori e prendere nella mano Banguele. I suoi famigliari dovevano, per mettere alla prova la forza dei talismani cuciti sulla giacca, sparare su di lui. Una volta, in presenza di Kodjo Kuma, il sofo che venne messo alla prova, si ferì gravemente. Egli infatti: «non aveva l’animo puro, non aveva rispettato le interdizioni, ed aveva avuto dei rapporti sessuali la notte precedente; Banguele gli ha rotto la mano ed lo aveva fatto cadere mentre Sacrabori ha fatto uscire dal talismano che proteggeva il cuore tutte le erbe. Il sofo non è morto, ma da allora Kodjo Kuma ha eliminato questa fase dell’intronizzazione, perché troppo rischiosa e oggi sarebbe ancora più pericolosa, perché è più difficile essere puri» (Conversazione con Hilaire Dohou, Godomey, Cotonou, Bénin, 30 novembre 2005).

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mentre per l’uccisione del bue fu necessario portare le divinità all’esterno, al centro del cortile. Prima dell’uccisione, i sofo illustrarono i motivi del sacrificio e i suoi principali destinatari. Sulla terra, a fianco delle divinità, Hilaire aveva disegnato, seguendo uno schema abbastanza codificato, un cerchio diviso in quattro quadranti, che Hilaire mi disse rappresentare il mondo e le direzioni cardinali. Rivolgendosi al mondo, raffigurato ai suoi piedi, invocò la terra, i fiumi, i mari e tutte le divinità del mondo, perché potessero unirsi al sacrificio.13 Secondo Hilaire Dohou era infatti necessaria la loro presenza perché la festa potesse procedere con successo e perché tutti ne potessero beneficiare. Le modalità di preparazione e persuasione dell’animale sono parte della fase di induzione. È una categoria più ampia rispetto a quella di consacrazione, definita da Hubert e Mauss, all’interno della quale trova posto ad esempio anche la fase di preparazione di una battuta di caccia. Durante i kpeta, l’invocazione è pubblica mentre in occasione dei sacrifici indirizzati a una sola persona può risolversi attraverso un dialogo diretto con l’animale, ad esempio, sussurrando alcune frasi al suo orecchio. Alla fase di induzione segue la «presa della vita»,14 momento cruciale di ogni sacrificio. Il sacrificio del bue, a Ahita, fu eseguito dagli ade, i cacciatori. Il bue, trascinato dai cacciatori verso il centro del cortile, in corrispondenza delle bacinelle in cui erano contenuti i tron, venne sollevato e poi sgozzato, in modo che il suo sangue potesse colare direttamente sugli oggetti. Contemporaneamente, altri “cacciatori” riempivano di sangue le bacinelle più piccole e correvano all’interno del santuario per versarlo sui tron che non potevano essere trasportati. Il sacrificio eseguito dai cacciatori è vissuto come una prova d’abilità e di coraggio. Essi devono trascinare il bue, sollevarlo e domarlo, vincendo la sua resistenza di fronte alla morte. I cacciatori mettono in scena le difficoltà della cattura dell’animale selvaggio, lottando, in qualche misura, con l’animale e riproponendo le gesta di un passato ormai lontano. Il sangue che cola sui loro corpi, il correre frenetico dalla bestia morente al santuario 13. Hilaire Dohou citava i fiumi delle terre dell’origine mitica del gorovodu, il Volta in Ghana, ma anche il Giordano e il Nilo, per evocare i legami con le origini della religioni universali. 14. Valeri usa questa espressione e non “uccidere” per includere nell’ampia categoria del sacrificio include anche quello vegetale, dove appunto vi è presa della vita ma non uccisione. Il termine uccisione è più appropriato nel caso degli animali e degli uomini perché meglio esprime la violenza e il conseguente stato emozionale che il sacrificio può indurre.

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contribuiscono a creare un clima di estrema tensione e l’idea di un possibile esito incerto. Proprio la dimensione di “duello personale” tra umani e non umani dà alla caccia una valenza più prossima alla guerra e quindi una maggiore reciprocità tra la preda e il cacciatore. Nel gorovodu le figure del cacciatore e del guerriero si sovrappongono. Durante la cerimonia di Ahita, i cacciatori arrivarono cantando, armati di coltelli e di finti fucili. Il loro ingresso improvviso e spettacolare, sottolineato dal fumo dell’esplosione della polvere da sparo, creò forte emozione tra i presenti; i cacciatori, con lo sguardo assente, esprimevano un’energia distante e latente. In quel momento erano uomini che giungevano da molto lontano, che avevano combattuto battaglie inspiegabili e superato i confini del visibile.15 I cacciatori erano molto eccitati e la loro energia si trasmise subito tra i presenti. A Ahita, il loro arrivo fu un momento di climax, il ritmo dei brekete aumentò e in pochissimi minuti almeno una decina di donne cadde in trance, prese dalla medesima energia che sembrava avvolgere tutti i presenti. Le donne, una dopo l’altra, venivano catturate dai vodu, che causavano spasmi degli arti, gesti violenti e innaturali. Lo spirito cercava un posto all’interno del loro corpo, che sembrava troppo piccolo per poter contenere una tale esplosione di energia. I cacciatori oltre a danzare, riproducevano la tensione di una battuta di caccia, mimandone i momenti più intensi, la ricerca, l’appostamento e l’agguato. Due cacciatori furono presi, come mi disse Hilaire, dal vodu Ade. Ciò provocò un ulteriore picco nell’energia rituale che sfociò in un momento di apparente caos. Due furono gli eventi importanti di questo momento rituale. Uno dei cacciatori, superando i limiti della mimesi fino ad allora messa in scena, catturò un cucciolo di cane che si aggirava nel cortile. Lo prese, lo sgozzò e si portò il collo dell’animale verso la bocca, per berne il sangue.16 Un secondo caccia15. Durante un altro kpeta a cui ho assistito nel quartiere Keghe, di Lomé, (15 ottobre 2006) gli invitati all’arrivo dei cacciatori cantarono: «Benvenuti, come è andato il viaggio? E laggiù come va?» e ancora: «Se qualche cosa succede bisogna chiamare i cacciatori, se qualche cosa succede bisogna chiamare Kodjo Kuma […]». 16. Scene simili erano anche parte della ritualità legata all’esibizione degli asafo. Come scriveva Field (1960:56) durante una danza cui assistette, uno degli uomini cadde in uno stato di trance, prese un pollo che stava passano in quel momento «lo fece a pezzi e lo mangiò, in parte, vivo». Gli asafo sono compagnie militari diffuse tra i popoli fante delle aree costiere del Ghana. La maggior parte delle città fante avevano almeno una compagnia, ma si poteva arrivare anche a quaranta compagnie per città. Giocavano un importante ruolo politico ad esempio nella scelta dei capi e s’identificavano in una serie di simboli e proverbi che prendevano forma nelle bandiere che contraddistinguevano ciascuna compagnia.

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tore rivolse invece il coltello contro se stesso, simulando il gesto di tagliarsi la gola. Come mi disse in seguito Hilaire Dohou, Ade stava cercando di mettere alla prova la forza dell’uomo: «una volta mio figlio Hevié fu preso da Ade e iniziò a puntare i coltelli contro il suo corpo, non riuscivamo a fermarlo, ma i coltelli si rompevano uno dopo l’altro». Puntando il coltello contro se stessi, i cacciatori sfidavano la forza che grazie al sangue ingerito o versato sulle loro giacche, avevano acquisito; i coltelli generalmente si spezzavano o comunque non riuscivano a penetrare nella carne, a riprova della forza mistica acquisita. Il gesto consente la mimesi con la vittima-preda. L’ambiguità delle due categorie animale e umana diviene qui esplicita; il cacciatore, diventando anche animale, esprime una tripla sovrapposizione tra divinità, animale e sacrificatore. I cacciatori erano infatti posseduti dal vodu Ade, sul cui altare trovano spazio sia le prede sia i cacciatori. Ade ricordava a tutti i labili confini tra le sfere del visibile e dell’invisibile e tra l’umano e l’animale. Se l’uomo può uccidere se stesso, a causa della transitorietà dei ruoli, anche i vodu esprimono, durante il sacrificio, una sorta di cannibalismo sacro, in cui ciascuna divinità mangia parte di se stessa. Ciascun vodu del gorovodu ha un legame con un animale: Kunde è un cacciatore e si muove con il suo cane, animale inserito nella preparazione di Kunde stesso, che ne chiede il sangue; Banguele e Sacrabori sono capaci di scacciare la stregoneria e quindi il gatto è il loro animale e il suo sangue il loro nutrimento. La pratica rituale del gorovodu sembra riecheggiare l’inversione dionisiaca, secondo la quale tornare alla condizione animale e divorarsi a vicenda, significava cercare l’estrema unione con il divino e rifiutare l’ordine politico costituito, che aveva separato definitivamente gli uomini dagli dei.17 Si tratta quindi di un’ulteriore prova del reciproco anelito tra uomini e divinità, e 17. Il sacrificio greco, secondo Detienne (1982), riproduce la rottura, che grazie a Prometeo, si aprì tra dio e gli uomini; il sacrificio consacrava la distanza insuperabile che ormai li separava. Il dionisismo si definì proprio come opposizione a questa concezione che definiva l’ambito dell’uomo e accettava i limiti del suo campo d’azione. Attraverso l’omofagia, il consumo di carne umana, ottenuta simulando la caccia, l’uomo diventava animale selvaggio. L’inversione simbolica, messa in atto dai rituali, consentiva di esprimere il rifiuto delle regole imposte dal sacrificio prometeico. Mangiando carne cruda e carne umana, i dionisiaci, diventavano bestie e inselvatichendosi, sfuggivano alle regole politico-religiose imposta dalla società e ottenevano l’unione con le divinità. Per Detienne il sacrificio greco era una pratica attraverso cui riconfermare i miti di fondazione della società, o, in un contesto politico di opposizione, uno strumento per negarli.

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dell’esigenza, almeno durante le cerimonie, di accumulare il maggior quantitativo possibile di energie provenienti dal mondo del invisibile. L’animale, dopo il sacrificio, viene subito macellato dagli stessi cacciatori, i quali tagliano e preparano i pezzi che saranno cucinati dalle donne della famiglia con la salsa e la pate (dzesikli).18 La testa e le zampe del bue sono portati sull’altare di Kunde perché, come ricordava Hilaire Dohou, «queste parti dell’animale devono sempre essere date a chi ha cacciato, e lui è un cacciatore». Anche le teste degli altri animali uccisi, i gatti e le capre, vengono depositati sugli altari delle divinità che hanno bevuto il loro sangue. La rinuncia di parte dell’animale è il terzo momento del sacrificio. Si tratta di sottrarre una percentuale della vittima e talvolta la sua totalità al consumo umano. Non bisogna però confondere l’azione di “rinunciare” con quella di “donare”. Infatti, anche se il dono presuppone sempre una rinuncia, quest’ultima non sempre implica l’idea di dono. Il sacrificio quindi non si fonda obbligatoriamente sulla regola del dare per ricevere e anche quando l’idea di dono è presente, il destinatario può non essere “messo a fuoco”. Può prevalere l’idea di dover rinunciare a qualche cosa per ottenere dei benefici, oppure la consapevolezza che «uccidere è un atto pericoloso e “sacrilego” proprio perché richiede, da parte dell’ucciso o meglio dei poteri che lo rappresentano, una retribuzione» (Valeri 1994:121). Il sacrificio del gorovodu, adottando una pratica che riconduce ed evoca alcune fasi della caccia, sembra aderire all’idea della restituzione come forma di retribuzione alle generiche forze della brousse. Il cacciatore uccide un essere che ha uno statuto ontologico prossimo a quello umano, inferiore o superiore a seconda della situazione e delle relazioni di potere in atto. L’apparente banale gesto di rinunciare alla testa dell’animale ucciso è un’azione connotata da una forte valenza morale che coinvolge l’uomo in un complesso di relazioni capaci di connettere il mondo e ricordare la sua posizione all’interno di esso. La testa può essere restituita, più pragmaticamente, anche per “convincere” le forze invisibili a “desacralizzare” ciò che resta dell’animale e renderlo quindi commestibile. L’interpretazione di Terray (1994) dei sacrifici nell’area akan, in termini di pagamento di un debito agli antenati e alla Madre Terra, è in sinto18. Si tratta di una pate, cioè una polenta di mais, che si prepara solo in occasione delle cerimonie vodu. Dzesikpli, significa polenta segnata, dove dzesi indica il segno, il simbolo, la scarificazione.

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nia con l’idea espressa da Valeri del sacrificio come forma di retribuzione alle forze della natura. Nell’area akan il pagamento del debito avviene, oltre che con la restituzione di parte dell’animale o dell’uomo sacrificato, essenzialmente con l’effusione di sangue che deve scorrere e ritornare alla terra mentre, nel caso dei vodu, deve tornare agli oggetti raccolti sugli altari. Il sangue quindi e non l’animale è il vero perno del rituale sacrificale (Valsecchi 2004). La parte più consistente degli animali sacrificati viene consumata, dando inizio alla quarta e conclusiva fase del sacrificio. La suddivisione del corpo dell’animale, la cottura e la ripartizione, sono importanti dettagli della “cucina” rituale. Nell’antica Grecia, proprio attraverso la «cucina divina» (Vernant 1982), il sacrificio enfatizzava la sua valenza prettamente politica, differenziandosi dal sacrificio vedico, prototipo dell’atto creativo e fondante. Anche nel gorovodu e nel vodu più in generale, il sacrificio mette in luce delle importanti ricadute politiche e sociali; in tal senso, la ripartizione delle vittime agisce all’interno della comunità, ristabilendo i ruoli e le posizioni che ognuno deve incarnare.19 I suoi effetti si possono allargare oltre i confini della comunità religiosa, nel villaggio o nella città, tra i vicini e i capi locali. Si tratta del momento più festoso dell’intera cerimonia, che mette in gioco proprio le relazioni tra i partecipanti, ridefinendo le gerarchie e mostrando la capacità economica di condivisione con la collettività convenuta. Nel prossimo paragrafo si cercherà di mostrare l’importanza delle fasi di rinuncia e consumo nel sacrificio del gorovodu, dove le relazioni sociali e le strategie politiche sembrano sempre prevalere sulla dimensione mistica della cerimonia. 7. Il sacrificio nel tron kpeto ve come forma di eccesso Tra il leader del gorovodu, l’ostentazione dell’abbondanza delle risorse disponibili, che si tratti del numero di offerte e di animali sacrificati, 19. Ekplododo, cioè “preparare la tavola”, è un momento molto importante del kpeta. All’interno dell’altare si allestisce un tavolo o più semplicemente si portano le pentole con la pate, la cassawa, il riso, la carne – le parti più prelibate degli animali uccisi –, le bevande – il gin, le bibite dolci e le bevande fermentate, – e chiamati tutti i vodu e gli antenati, i sofo e eventuali capi religiosi o politici presenti, si uniscono e condividono con essi il cibo.

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del numero degli invitati o della pubblicità diffusa alla radio, appare oggi come lo strumento più adeguato per affermare il proprio statuto politico e la propria forza mistica. Il sacrificio di molti animali, alcuni dei quali non commestibili, evidenzia l’importanza dello “spreco” in queste cerimonie ed evoca i sacrifici umani, spesso citati dai fedeli del gorovodu. A tal riguardo è interessante ricordare George Bataille in Théorie de la Religion (1948), il quale individuava il fondamento del sacrificio proprio nella distruzione e nello spreco: attraverso il sacrificio si annulla la “cosalità” della cosa, restituendo la vittima al regno da cui proviene – l’immanenza20 – e sottraendola all’ambito dell’utilità e della vita. Il sacrificio autorizzerebbe, in tal modo, ad articolare il tempo del consumo sacro della ricchezza con quello dell’accumulo del tempo profano. In particolare Bataille prendeva in considerazione il potlatch21 in quanto rituale sociale di scambio e di distruzione dei beni materiali, capace di ricordare alle mentalità occidentali che a fianco dell’economia di produzione e accumulazione, vi è un’altra modalità di funzionamento possibile, che procede per abbandono e distruzione. Una modalità di agire che mostra un’aspirazione al ricongiungimento e all’annullamento delle distinzioni tra vita e morte. Non avrebbe alcun senso negare oggi in Africa l’esistenza di un’economia di accumulazione, ma pare d’altra parte evidente che le diseconomie tipiche di molti rituali vodu, o di altre cerimonie come i funerali, appartengano più a una logica “distruttiva” che a una di tipo capitalista. D’altra parte queste cerimonie collettive, oltre al significato d’intima unione con il mondo del divino, consentono di accumulare capitale simbolico e sociale, che il sacerdote vodu, il sofo, potrà spendere nei mesi successivi alla cerimonia. Esibendo il proprio potere, il sofo accrescerà la sua reputazione e quindi anche la sua capacità di fare affari, sia all’interno del “mercato” 20. Secondo Bataille le cerimonie rituali hanno lo scopo di ridurre l’opposizione tra l’uomo e ciò che lo circonda. La cesura è avvenuta nel momento in cui la coscienza umana ha iniziato a identificare gli oggetti come distinti da sé; così facendo egli ha perso l’intimità e la continuità che invece dovrebbe ancora essere propria allo stato animale. Tale opposizione tra il mondo delle cose e l’indistinto, di cui l’uomo ha coscienza e nostalgia, si traduce secondo Bataille nella divisione tra il mondo profano e quello divino. In tal senso il sacrificio, riconduce verso le divinità l’animale e chi esegue il sacrificio, sottraendoli almeno temporaneamente al mondo delle cose. Nell’immanenza la morte pervade la vita senza che vi siano resistenze, perché tra le due condizioni non vi è differenza. 21. I potlach, diffusi tra le popolazioni della costa nord-occidentale del Nord America, furono studiati tra i primi da Boas (1897) e Barnett (1938).

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vodu sia all’esterno; incrementerà il numero di persone che gravitano a diverso titolo attorno al suo santuario e che contribuiscono a creare un’importante rete di relazioni sociali. Bourdieu (1972) ricorda come l’economia precapitalistica delle società cosiddette arcaiche, erroneamente immaginata come idilliaca, dissimula in realtà il calcolo economico attraverso pratiche, come quelle rituali, che non smettono di obbedire a una strategia basata sull’interesse. In tal senso l’eccesso delle cerimonie contemporanee s’inscrive in una logica che affianca all’accumulo di capitale economico, quello simbolico e sociale. Il gorovodu nasce e si diffonde grazie alle reti di relazioni che i leader seppero e sanno ancora tessere, all’interno delle cui trame avvengono matrimoni, transazioni economiche, alleanze e ovviamente guerre. Lo spreco, messo in scena durante alcuni kpeta, mostra sia la forza sia la debolezza di queste trame sociali. Si tratta infatti di una strategia attraverso la quale alcuni sofo cercano di incrementare il loro capitale simbolico e cambiare “le carte del gioco” interne al campo sociale dell’ordine del tron kpeto ve, spostando l’attenzione dal prestigio legato alla tradizione verso quello prodotto dalla ricchezza. Laddove risulta difficile rivendicare l’appartenenza a una famiglia di tradizione vodu e laddove le conoscenze esoteriche sono deboli, l’ostentazione e lo spreco diventano un’alternativa possibile. Il sacrificio diviene quindi, in alcune occasioni, una sorta di potlach. La quantità di sangue versato, gli enormi pentoloni dentro cui si cuoce la carne per centinaia di persone, le offerte portate dagli altri partecipanti, i litri di gin, i chili di noci di cola, di caolino, di uova, nonché la ricchezza dei costumi indossati dalle trosi, contribuiscono a stabilire il valore e quindi il successo di un kpeta e del suo promotore. L’insieme di queste offerte convoglia un valore simbolico tutt’altro che disinteressato poiché tramutabile in un inspessimento della rete sociale. L’abbondanza di sangue versato evoca, talvolta in modo esplicito nelle canzoni dei cacciatori, la pratica delle uccisioni a scopo rituale in area akan,22 e il significato politico e religioso che tale violenza implicava (Valsecchi 2004). 22. Vi sono molti rimandi tra il linguaggio rituale del gorovodu e quello che probabilmente i fondatori del culto, tra gli ewe dell’area occidentale più akanizzata, avevano mutuato dalle pratiche connesse all’intronizzazione dei capi politici locali. I cacciatori avevano un ruolo cruciale nel momento della morte dei capi. Si narra, infatti, che partissero a caccia di uno straniero, per riportare al villaggio la sua testa. Era una pratica indispensabile per la creazione di un “seggio”, cioè di una nuova posizione di comando. Si riteneva che il sangue

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Nel dicembre del 2005, Thomas Animavo, sofo di kpeto ve a Cotonou, organizzò un kpeta grandioso, costato circa tre milioni di CFA (circa 4.500 euro). Thomas era un uomo ricco e molto ambizioso, impiegato alla dogana del porto di Cotonou. La sua posizione gli imponeva di organizzare un kpeta inportante. Durante le settimane precedenti la cerimonia, aveva fatto ristrutturare il tempio, e i suoi invitati, capi e sofo, arrivati dal Ghana, dal Togo e dalla Nigeria, furono ospitati nelle stanze di un vicino albergo. Thomas ricordava come in passato fosse sufficiente sacrificare un montone, mentre oggi era richiesto come minimo un bue. Sacrificò tre buoi, tre montoni, diverse capre e un numero enorme di piccoli animali. Nell’arco di mezz’ora, i cacciatori uccisero i buoi, creando un flusso incessante di sangue che scorreva dagli animali verso le divinità. Anche il gin scorreva con la medesima intensità, sulla terra e sugli oggetti.23 Che il successo e la “bellezza” di un kpeta dipendessero esclusivamente dai soldi dovesse essere di un uomo piuttosto che di una donna, essendo un atto più facile, che poteva apparire come un gesto di codardia, inadatto alla cerimonia che si stava eseguendo. Generalmente si sacrificavano schiavi, prigionieri di guerra o stranieri di passaggio. Dopo aver versato il sangue sul seggio, lo si ricopriva con una polvere nera, che secondo alcuni era preparata a partire dall’essiccazione e polverizzazione di un cuore umano o semplicemente di sangue (Kludze 2000:103-104). È verosimile pensare che chi fissò le regole della pratica del tron kpeto ve, secondo i più Kodjo Kuma, s’ispirò proprio ai riti di intronizzazione dei capi ewe. Il processo d’iniziazione di un sofo implica infatti la sua intronizzazione, durante la quale egli assume uno statuto “regale”, almeno dal punto di vista simbolico. I sofo, in seguito a questa cerimonia, oltre al copricapo, potranno indossare i sandali dei capi, fiafokpa. Per quanto riguarda la caccia alla testa di uno straniero, è interessante notare come alcuni riferimenti a questa pratica emergano ancora oggi. Durante un kpeta, svoltosi nel quartiere Keghe a Lomé (15 ottobre 2006) i cacciatori al loro ingresso in scena cantavano «sia la persona piccola, sia la persona grande, l’importante è avere la sua testa». Secondo alcune persone presenti alla cerimonia, era una canzone che i cacciatori cantavano in occasione dei funerali dei capi villaggio, sempre tra gli ewe occidentali. Gli ablafo, i cacciatori di teste, sono ancora oggi attivi e sicuramente sollecitano l’immaginario dei fedeli del tron kpeto ve. Nel marzo del 2008 a Kpando, nell’altare di Kodjo Kuma, era stato organizzato un importante kpeta a cui avevano partecipato molti fedeli, dal Bénin alla Costa d’Avorio. Il problema che aveva rischiato di mettere in dubbio il successo del kpeta erano proprio gli ablafo, che nei medesimi giorni dovevano organizzare le loro cerimonie, che prevedevano, appunto, andare a caccia di teste umane. La notizia veniva discussa in tutti i couvant, dal Togo al Bénin, e infine fu trovato un accordo: gli ablafo avrebbero rimandato le loro cerimonie di una settimana, in modo che gli stranieri potessero raggiungere Kpando senza timori. 23. Come ricorda Rosenthal, descrivendo alcuni kpeta tenutisi in Togo, nei primi anni Novanta, la festa «deve essere eccessiva… se non è fuori dai limiti, si tratterà di un fallimento. Deve essere sorprendente, straripante di piacere, non eccessivamente control-

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a disposizione, perché soli i soldi consentono l’abbondanza e lo spreco, era l’opinione prevalente tra i fedeli. Thomas doveva accumulare capitale sociale e simbolico perché le sue ambizioni di potere all’interno dell’ordine religioso erano ostacolate dal suo recente ingresso nel culto; a differenza di altri colleghi di Cotonou non poteva sfruttare il capitale rappresentato da un passato che si radicava all’origine del culto. Era un parvenu delle gerarchie vodu e doveva quindi legittimare la sua nuova posizione di potere. La storia di Thomas è esemplare per cercare di comprendere l’utilizzo pragmatico del rituale, al fine di accumulare prestigio e ricchezza. La festa del 2005, come egli stesso mi disse, era stata troppo dispendiosa, ma era necessaria, poiché tra l’altro, grazie all’intervento e alla protezione del tron, Thomas aveva vinto una causa e finalmente ottenuto un terreno conteso da anni. Fu effettivamente un successo, di cui si continuò a parlare anche nei mesi successivi. Thomas era un uomo di potere ma, dopo pochi mesi, in seguito alle elezioni politiche e alla vittoria di Yayi Boni alle presidenziali, rimase senza lavoro. La maggior parte dei funzionari della dogana, uno dei settori più corrotti dello stato, furono infatti trasferiti ad altra mansione e lui, a cui restava ancora un anno prima della pensione, fu lasciato a casa anticipatamente. Quando lo rincontrai, nel settembre del 2006, mi raccontò le sue disavventure, manifestando apertamente la sua preoccupazione, poiché in quell’anno in dogana avrebbe potuto guadagnare ancora molti soldi e sistemare diverse “cose”. Aveva quindi deciso, in vista delle elezioni legislative del 2006, di impegnarsi in politica, proprio nel partito di Yayi Boni, sperando di essere eletto e riconquistare in tal modo la posizione di prestigio, momentaneamente perduta. L’attività politica comportava moltissime spese – frequenti viaggi, distribuzione di denaro tra i possibili elettori, organizzazione della campagna stessa – per cui Thomas si trovò, alla vigilia del kpeta del 2006, in serie difficoltà economiche. Come mi confessò, non aveva molte risorse da investire nella cerimonia, ma non poteva neppure deludere le aspettative, soprattutto dopo il successo dell’anno precedente. Non poteva mostrare a tutti la sua “sconfitta”, ma il suo capitale economico non era sufficiente. Organizzò comunque il kpeta, che fu un fallimento. La partecipazione degli uomini, delle donne e dei vodu fu molto scarsa. Come mi disse lata. Il surplus e le uccisioni (il carnevale) sono essenziali alla cerimonia e al sacrificio» (1998:243).

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qualche suo collega, nei giorni successivi, Thomas aveva esagerato l’anno precedente e ora, non essendo stato all’altezza, aveva deluso tutti. Oggi il benessere economico dei capi è la prima dimostrazione della forza del vodu stesso; un kpeta viene apprezzato se si mangia e beve bene, se i fedeli si divertono e partecipano numerosi: un couvant povero non potrà mai organizzare una festa di successo. Oggi l’eccesso appare come la prova certa della ricchezza accumulata, della generosità nel ridistribuirla e in ultima istanza della forza ed efficacia del vodu stesso. L’eccesso consente inoltre di sostituire o meglio di bilanciare l’impoverimento delle pratiche, dei simboli e delle narrazioni che i soggetti stessi talvolta denunciano. A conclusione di questo paragrafo è interessante volgere brevemente l’attenzione al sacrificio nel tron kpeto deka, in quanto espressione di un interessante cambiamento semantico; qui la fase del “consumo” è stata completamente eliminata, perché ritenuta troppo pericolosa per gli uomini. Il compito dell’animale è quindi solo quello di andare a caccia nei territori del mondo invisibile e liberare il fedele dai suoi problemi. Gli animali morti vengono seppelliti in una fossa, che si scava all’esterno dell’altare. La fase del consumo si annulla in quella della rinuncia. La dimensione del dono è in questo caso molto più esplicita. L’animale diventa quindi uno strumento di aggressione e un modo per riattivare e potenziare le energie della divinità, mentre l’uomo rimane al di fuori di ogni possibile contatto, in attesa che il suo dono sia ricambiato dall’azione della divinità. Lo scarto tra i due ordini del gorovodu e il desiderio di mantenere un distacco “fisico” dalla divinità è confermato dalla pratica rituale, che esclude anche la trance e le scarificazioni. Il sacrificio stesso non viene eseguito sull’altare, ma in un’altra stanza, come se il sangue non dovesse contaminare il luogo in cui vive la divinità. Oggi i fedeli del kpeto deka non apprezzano il disordine causato dalla possessione e la pericolosità delle scarificazioni, evidenziando il desiderio di mantenere visibile e invisibile il più possibile separati. Tale spostamento si può interpretare come una ricerca da parte dei leader di questo ordine di un posizionamento sempre più prossimo alla religione cristiana e musulmana,, come cercherò di illustrare nel prossimo capitolo. Si tratta di un linguaggio rituale più apertamente utilitaristico, più semplice e meno generoso. I due ordini hanno seguito un percorso differente, segnato profondamente da contingenze storiche, scelte politiche e di potere, che sembrano poter modificare anche in futuro la prassi dei rituali.

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Il sacrificio quindi, pur mettendo in gioco temi universali, è un rituale che l’uomo riesce a rielaborare attivamente, cambiandone i significati o aggiungendone di nuovi. 8. La donna verso il mondo della natura Una prospettiva che cerchi di superare la dicotomia tra cultura e natura implica allo stesso tempo una rimessa in discussione delle identità e delle costruzioni di genere. La possessione e la stregoneria sono due aspetti della vita religiosa e sociale che sembrerebbero dimostrare la discriminazione di genere insita nelle società africane. Entrambi i fenomeni, secondo un quadro teorico di netta separazione tra natura e cultura, riconducono la donna alla sfera del selvaggio, dalla parte della natura e in contrapposizione alla posizione dell’uomo, artefice e padrone della cultura. La maggiore naturalità delle donne, come argomentava Sherry Ortner (1974) in uno dei primi saggi di antropologia femminista, troverebbe origine nel corpo femminile e nella sua funzione procreatrice. L’inconfutabilità del dato biologico e la presunta superiorità della cultura rispetto alla natura avrebbe costretto la donna a incarnare un ruolo sociale di subordinazione, riscontrabile in varia misura in tutte le società. Nell’ambito degli studi sulle religioni tradizionali in Africa e del vodu in particolare, i discorsi che parlano della maggiore religiosità delle donne, della loro propensione alla trance, sembrano iscriversi in una dicotomia femminile-maschile, che ricalca proprio quella di natura-cultura. La vicinanza del femminile al mondo religioso si spiegherebbe, infatti, secondo un’innata propensione verso l’irrazionale e quindi una maggiore affinità nei confronti delle cose della natura. Le sfere del comando resterebbero quindi naturalmente maschili, poiché gli uomini sarebbero biologicamente capaci di trascendere l’immanenza del fatto naturale a favore dell’astrazione culturale. La stregoneria, simbolicamente immaginata come forza selvaggia, destrutturante e che si oppone all’ordine sociale, sembrerebbe quindi il regno d’elezione della femminilità. Tali suddivisioni, qualora valide e accettate dalle rappresentazioni locali, devono comunque sempre essere comprese all’interno di uno specifico contesto storico, in grado di legittimare i discorsi prodotti (Moore 1994:25). Sovente l’antropologia applicando categorie predefinite ha mancato la complessità delle implicazioni politiche e

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storiche dei fenomeni che osservava e soprattutto ha perso di vista la soggettività degli individui coinvolti, soprattutto quelli femminili. L’assenza di una prospettiva di genere ha impedito di uscire da una contrapposizione tra femminile e maschile che non lasciava fuoriuscire le intenzioni, i desideri e l’agentività dei soggetti. L’antropologia della religione ha senza dubbio contribuito a rafforzare alcuni stereotipi, relegando le donne a posizioni di marginalità e passività. Ad esempio, la sovrapposizione tra l’animale sacrificale e l’adepto posseduto dalla divinità (Bloch 2005, Zempleni 1987, Lewis 1966, Verger 1957) sembra ricollocare con forza la donna al centro della natura, data la preminenza femminile in questo settore della vita religiosa africana. La possessione riconfermerebbe inoltre il ruolo di “preda”, che la donna sembrerebbe incorporare nella società umana (de Beauvoir 1956). La possessione è stata inoltre interpretata come un’inversione delle forme di potere a favore delle classi subalterne che, nella nuova dimensione spirituale, riuscirebbero a trovare uno spazio di azione sociale, da cui altrimenti sarebbero escluse: la possessione, quindi, è divenuta la religione delle donne, degli schiavi e degli emarginati in genere. D’altro canto, a partire dagli anni Settanta del Novecento, la “religione tradizionale” è stata al centro dell’interesse di parte dell’antropologia femminista in quanto luogo privilegiato del potere e della forza spirituale femminile e quindi prova della progressiva emarginazione della donna, di fronte all’avanzare delle religioni universali (Cornwall 2005). La realtà fenomenica è evidentemente più complessa. In primo luogo, entrambe le posizioni non hanno tenuto conto della possibile partecipazione femminile alle forme egemoni di potere, che servono a consolidare le istituzioni considerate “oppressive”, dimenticando come le differenze siano anche interne al genere femminile, dettate dall’età, dalla classe e dalla razza. In secondo luogo, gli studi sulle religioni locali, non avendo tenuto in considerazione la dimensione soggettiva del fenomeno, non poterono che evidenziare la subalternità della posizione femminile: le donne erano quindi passivamente possedute dalle divinità di cui diventavano le spose, erano penetrate dalle divinità, montate come cavalli o oggettificate come altari portatili. Il loro corpo è effettivamente invaso, spesso con violenza, da forze non sempre pacificate. Ma quasi a voler contraddire la violenza, immaginata quale parte integrante dei fenomeni di possessione, i fedeli vodu, per indicare la trance usano il termine vodupopo, che significa “giocare con il

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vodu”, mettendo in luce una dimensione di gioia e di passione che altrimenti resterebbe nascosta. Esaminando il legame tra donne, vodu e natura, è interessante seguire l’analisi di Lovell (2002) poiché, pur adottando una prospettiva simbolica e lontana dalla soggettività delle protagoniste, riesce comunque a mettere in discussione, non tanto le dicotomie natura-cultura e femminile-maschile, quanto le posizioni gerarchiche e di potere a esse sottese. Secondo gli studi di Lovell, svolti tra gli ouatchi del Togo meridionale, le donne sono ontologicamente più prossime agli elementi naturali come la brousse, i fiumi, il mare e alcuni animali. Tale prossimità al mondo della natura non viene però letta come segno di subordinazione, poiché le donne, grazie al loro legame con la natura e con il vodu, ai processi di iniziazione cui sono sottoposte e all’appartenenza alle società segrete, sarebbero in grado di acquisire un maggiore livello di conoscenza e quindi sarebbero le vere produttrici della cultura. Come messo in luce da Ortner, la posizione femminile è sempre d’intermediazione tra natura e cultura e quindi di grande ambiguità simbolica, per cui uno stesso sistema di pensiero può attribuire alla donna significati contradditori, se non addirittura opposti. Ciò ancora una volta costringe a riflettere sui sistemi di potere che producono determinate rappresentazioni di genere e anche sul potere di chi queste rappresentazioni le riproduce attraverso la pratica antropologica. Per Lovell (2002:72): le donne sono i contenitori dentro i quali i vodu discendono e all’interno dei quali sono racchiusi; esse permettono alle divinità di dimorare al loro interno, in una copulazione rigenerativa carica di senso, che consente il perpetuarsi dell’universo attraverso la cooperazione e l’azione umana, mentre all’universo umano viene assicurata la continuità grazie all’intervento e all’approvazione divina.

Rapite e possedute dalle divinità, le donne sono sì dei contenitori, ma sono anche le artefici dei contenitori all’interno dei quali i vodu sono contenuti. Le donne producono infatti le terrecotte, che trovano posto negli altari vodu. Il gioco di reciproco contenimento diventa ancora più complesso nel momento in cui si ricorda che le donne sono il recipiente della vita delle future generazioni. Ma anche nell’ambito riproduttivo non sono semplici contenitori, poiché il sangue mestruale fornisce la materia che genera l’uomo, il cui colore, tra l’altro, evoca proprio il rosso della terra con cui si plasmano le potteries (Lovell 2002:72-76).

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La donna è quindi un contenitore come ogni essere umano, ma con un maggiore livello di complessità: al suo interno possono abitare futuri uomini, future donne e antiche divinità. Grazie alla sua capacità rigeneratrice, è più completa dell’uomo e più facilmente predisposta ad accogliere i vodu. Vi sono più donne vodussi, poiché la donna è già doppia, contiene al suo interno, sia il principio maschile sia quello femminile, che sono in lei latenti e possono esprimersi nel momento in cui diventa madre. Entrambi i principi sono necessari per accogliere i vodu nella loro identità sessuale ermafrodita. Gli uomini non sono naturalmente dotati di una doppia identità ma in loro, grazie all’iniziazione e a complesse cerimonie, si può attivare il secondo principio, rendendoli quindi adatti ad accogliere al loro interno il vodu.24 Gli uomini e le donne sono dunque intercambiabili nel loro ruolo di “contenitori” della divinità. Gli uomini che vanno in trance sono definiti anch’essi vodussi, cioè “spose del vodu”. Non esiste una differenza tra uomini e donne nel ruolo di “spose” del vodu e la fusione messa in atto durante la possessione tra divinità e uomo-donna annulla ogni confine di genere. Il doppio, nelle concezioni locali è un’espressione di perfezione, come il culto dei gemelli e come l’ermafroditismo o la specularità femminilemaschile delle divinità confermano. Le donne, in quanto ricettacolo prediletto dei vodu, dimostrano la loro maggiore vicinanza al mondo dell’invisibile, nonché la loro strutturale facilità a dialogare con esso che, ancora una volta, si origina nella loro predisposizione all’attività riproduttiva. Ciò non toglie che anche l’uomo possa “simbolicamente” generare, accogliendo il vodu al proprio interno. La possessione è un momento di trasgressione delle identità, durante la quale i generi si fondono, ritrovando la pienezza dell’essere completo. Non si tratta di differenze categoriche, ma piuttosto processuali, che ci ricordano quanto le differenze siano interne ai corpi piuttosto che tra i corpi stessi (Moore 1994:14). Le divisioni di genere possono essere continuamente rinegoziate rispetto alla specifica realtà sociale e politica. La presunta maggiore vicinanza della donna alla natura, si declina, soprattutto in contesti di conflitto, in una maggiore famigliarità con la stregoneria, categoria grazie alla quale si è riuscito a marginalizzare e meglio controllare il potere femminile. Il gorovodu, a tal riguardo, è paradigmatico nell’illustrare un processo di cambiamento semantico che ha reso l’accesso ai ruoli di potere più difficile 24. Conversazioni con Ludwina Meyer, Porto Novo, Bénin, dicembre 2006.

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per le donne. Ma prima di affrontare questo aspetto del culto, è necessario analizzare alcune delle implicazioni che la stregoneria comporta nella costruzione dell’identità femminile: le donne sono sovente oggetto delle accuse di stregoneria e in molte aree, ad esempio tra gli yoruba25 della Nigeria, la stregoneria, veicolata dal sangue mestruale, si ritiene venga passata solo matrilinearmente. Proprio nel suo ruolo di strega, la donna con forza e violenza è ricondotta nella sfera del selvaggio e della natura. 9. Il potere femminile nella stregoneria Nell’ottobre del 2006 stavo assistendo a una piccola cerimonia in un altare gorovodu, a Plakodji, uno dei più antichi quartieri di Cotonou, quando giunse una donna con una foto da mostrare a tutti. Immediatamente i presenti si strinsero attorno a lei, passandosi di mano in mano la foto, ridendo, indignandosi e discutendo animatamente. Quando arrivò il mio turno, vidi che si trattava di una giovane donna, ritratta a metà busto, nuda, con il volto gonfio e lo sguardo allucinato. Mi spiegarono che era una strega, catturata qualche giorno prima, in un santuario gorovodu. Durante la notte, mentre con sembianze d’uccello sorvolava la città per andare a un convegno di streghe, era stata sconfitta dalla forza del vodu, che l’aveva attratta a sé, fatta precipitare e ritrasformata in donna. 25. La letteratura antropologica relativa alle popolazioni di lingua yoruba è ricca di riferimenti alle àjé (streghe). Secondo le concezioni locali praticamente ogni donna è potenzialmente una àjé, «perché le madri controllano il sangue delle mestruazioni», un flusso energetico che unisce tutte le donne, rendendole potenzialmente raggiungibili dal potere mistico delle madri, cioè le streghe. Le madri sono delle figure importanti nella mitologia yoruba e legate soprattutto al culto delle Gelede. La funzione principale di questo culto era quello di placare Iyanla. L’identificazione di Iyanla non è univoca, in alcune aree è la moglie di Obatala, quindi la prima donna dell’universo yoruba, ma più in generale racchiude in sé i principali attributi delle divinità femminili e spesso viene identificata con la Grande Madre chiamata anche Onile cioè “la padrona della terra” (Drewal 1983). La comune credenza secondo cui è più facile che le donne anziane siano delle streghe deriva dal fatto che esse, avendo superato il periodo fecondo, sono in grado di trattenere il loro sangue, quindi energia vitale, ase, al loro interno. Le donne, madri, sono pensate come benigne e terrificanti, nutrici e divoratrici allo stesso tempo. Le ambiguità messe in scena esprimono lo stupore e la paura nei confronti del potere femminile. Il sangue spesso viene citato nelle canzoni dedicate alle madri e nei versi in cui si parla delle àjé; sono immaginate lavarsi e lavare i propri vestiti con il sangue, dimostrando la capacità di controllare e manipolare questo flusso vitale.

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La stregoneria è comunemente considerata una prerogativa femminile, anche se nessuno esclude che gli uomini possano “averla”. La fluidità e ambivalenza insita nell’idea stessa di stregoneria consentono una continua reinvenzione attraverso cui si possono incorporare i cambiamenti della società (Geschiere 1995:7-35). Esiste oggi una stregoneria “moderna” e mercificata che uomini e donne possono comprare per conquistare potere economico, sociale o politico. La stregoneria deve essere contestualizzata sia per comprendere le ragioni dell’intensificarsi del fenomeno sia per dare un senso alle divisioni di genere che ha sempre implicato. Le metamorfosi cui è stata sottoposta la divinità Minona sono un esempio eloquente di un generale processo di reinterpretazione dei ruoli femminili. La rappresentazione comune a molti fedeli vodu ha trasformato Minona (nostra madre Na, dove Na è sia il vodu della fertilità sia l’appellativo riservato alle donne della famiglia reale di Abomey) in madre della stregoneria. Minona o Na è una divinità legata alla fertilità e alla procrezione che incarna, secondo la duplice ambiguità dei vodu, anche il suo opposto, quindi la possibilità di rendere le donne sterili, impedire le nascite, fare morire i bambini. Minona è anche un appellativo per indicare l’organo genitale femminile e per tale motivo viene da alcuni associata a Legba, vodu sempre rappresentato con il fallo eretto. Oggi, sembra però più facile pensare a Minona come alla padrona della stregoneria, piuttosto che affrontarne le ambiguità; si tratta della medesima logica semplificatoria che trasformò, nelle prime traduzioni della Bibbia nelle lingue locali, Legba, vodu ambiguo e dispettoso, connesso ai momenti e al luoghi di transizione e passaggio, nel diavolo, evidenziando solo un aspetto della sua complessa personalità. Seguendo l’attuale tendenza a spianare le ambiguità, la maggiore famigliarità femminile con la sfera del mondo invisibile può essere facilmente interpretata come capacità di agire nell’ambito della stregoneria. Si ritiene quindi che la stregoneria, così come il vodu, si tramandi di generazione in generazione, ma solo di donna in donna. In lingua fon ed ewe si chiama aze, in nago-yoruba àjé. Le azeto si nutrono di carne umana e di sangue, oppure d’olio rosso di palma, che metaforicamente sostituisce il sangue. I fedeli vodu con cui ho discusso di stregoneria, sia in Togo che in Bénin, non ritengono che la stregoneria sia solo femminile, ma ne constatano la prevalenza tra le donne.26 26. Jacques Berthò a tal riguardo (1936:363-364), scriveva: «Ci sono alcune persone, uomini o donne, che sono in relazione con Minona o Na e che sono considerati degli strego-

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Secondo Bella, la stregoneria è più diffusa tra queste: perché le donne hanno il coraggio di fare cose che invece gli uomini non osano fare. Poi ad esempio la stregoneria si passa di donna in donna, ad esempio se una mette al mondo cinque figlie, vuole che la sua stregoneria non muoia con lei, quindi la passa a due o tre delle sue figlie, in modo che il potere non scompaia. […] Le donne hanno molto coraggio, cioè se le donne si arrabbiano possono arrivare a fare cose terribili, mentre l’uomo si controlla… puoi immaginare che proprio una donna che mette al mondo i bambini, ha poi il coraggio di farli prendere dalla stregoneria… è una cosa orribile. […] Per gli uomini è molto raro, perché nel loro caso devono andare a cercarla, a comprarla, o perché sono dei ladri, che rubano molti soldi o perché vogliono proteggere la famiglia […]. Spesso gli aladji e gli ibo fanno della stregoneria per arricchirsi ma non mangiano gli esseri umani. Fanno però dei bo (amuleti, talismani). Ci sono tanti bambini che scompaiono, loro li vanno a prendere, ad esempio in Nigeria, li fanno a pezzi, oppure li trasformano in legno, e li mettono in una stanza. Non sono né vivi né morti, ma sono degli esseri che vomitano o defecano dei soldi. […] Ma questi sono tempi duri, per cui ci sono anche le donne che vanno a comprare la stregoneria dai féticheurs, ad esempio, per avere successo al mercato. Oggi il mondo è un po’ rovinato e la gente vuole avere subito i soldi, oggi più le donne che gli uomini […] Allora, anche un piccolo commercio, una piccola vendita lungo la strada, fuori da casa, senza un segreto che ti aiuti a vendere le cose in fretta, non potrà funzionare e non avrai i soldi. In questo modo, passando da una consultazione all’altra si arriva alla fine alla stregoneria. […] Chi ha la stregoneria vive in gruppo e ciascuno di loro ha avuto la stregoneria da qualcuno che appartiene allo stesso gruppo… tutti si conoscono. C’è una specie di tontina27 che fanno, vivono in comunità e spesso bevono del sangue ni. Queste persone formano, secondo i neri, delle società segrete. La potenza malvagia degli stregoni risiede nella loro testa; questa potenza si trasmette solamente attraverso le donne, per eredità uterina: da madre a figlio o figlia; un ragazzo stregone non trasmette il suo potere ai figli. Gli stregoni esercitano il loro potere attraverso l’intermediazione di gufi di piccola taglia, che sono messaggeri di Minona o Na e si chiamano aze. Per tale motivo gli stregoni sono chiamati azeto, cioè proprietari di aze. Il gufo entra durante la notte nella casa dove è stato inviato dallo stregone, fa dei giri bruschi al di sopra della vittima designata e porta via con sé la sostanza intima del suo essere. La vittima comincia, da quel momento, a dimagrire e al termine di sette o quattordici giorni muore, cioè alla fine del tempo necessario ai membri della società degli stregoni per saziarsi della sostanza intima della vittima». 27. Le tontine sono delle forme di risparmio, molto diffuse nella regione. Periodicamente chi vi aderisce affida parte dei suoi risparmi a una persona incaricata di raccogliere, conservare ed eventualmente investire il denaro, I cui utili verranno ridistribuiti tra i partecipanti.

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umano e tutti mandano il loro contributo, vale per tutti e a turno si porta il sangue, oggi lo porto io, domani tu […] e questo sangue dove si trova? Attraverso i propri figli. Se hai quattro figli e arriva il tuo turno, ne devi portare uno, è obbligatorio. E loro verificano, perché tra di loro ci sono delle persone che vedono nelle stelle, controllano che quello che tu doni sia il migliore, perché loro vogliono il migliore […] In questo modo, attraverso la tontine riescono a mantenere la loro stregoneria e il loro potere.28

La stregoneria appare, nelle parole di Bella, come un fenomeno banale, nonostante la sua crudeltà, perché ineluttabile come la povertà e la morte. Secondo un’altra opinione, ampiamente diffusa, è invece la gelosia e la competizione nei confronti delle co-spose, che spinge le donne verso la stregoneria. Secondo Hilaire, infatti: le donne prendono molto più spesso la stregoneria, sono più predisposte. Ad esempio se due donne al mercato si fanno concorrenza e continuano a crearsi dei problemi a vicenda, cercheranno di risolverli con la stregoneria. Esporranno il problema agli altri associati alla stregoneria e si terrà una sorta di processo, alla fine del quale verrà emessa una sentenza, può essere una sentenza di morte, ma anche una sentenza che dice di bloccare con una pietra i piedi della rivale. In tal modo, con i piedi bloccati, la donna non potrà più far nulla, non potrà più andare al mercato e il problema dell’altra sarà risolto. Il capo di tutte le streghe è Minona.29

Le donne sono il bersaglio preferito del mondo dell’invisibile, che si tratti dei vodu o delle forze destrutturanti della stregoneria, i cui confini, come abbiamo visto, sono estremamente fluidi. Poche sono però le donne di potere all’interno del mondo vodu contemporaneo e ancora meno in quello del gorovodu.30 Il gorovodu nasce come culto antistregoneria e ancora oggi è considerato uno dei migliori strumenti di protezione a disposizione. Lavora quindi in un terreno estremamente pericoloso e violento, dove la morte e il cannibalismo sono ritenute pratiche comuni. La sua origine pone già un discrimine nei confronti delle donne, che in epoca coloniale erano sempre dalla parte delle accusate.

28. Conversazione con Bella Amouzouvi, Klikamé, Lomé, Togo, 3 settembre 2006. 29. Conversazione con Hilaire Dohou, Godomey, Cotonou, Bénin, 27 dicembre 2005. 30. Un’importante eccezione è rappresentata dal vodu Mami Wata; si vedano a tal riguardo Frank (1995), Masquelier (1992), Drewel (2008), Brivio (2011).

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10. Le ambiguità dei liquidi corporei Il vero limite al potere delle donne, sembra essere, almeno per quanto riguarda il gorovodu, il sangue mestruale. Nella sua polisemicità questo è la chiave che ci consente di comprendere il rapporto privilegiato tra donne e vodu e allo stesso tempo la causa del discrimine che, a livello di rappresentazioni, esiste nei confronti delle donne. Il sangue mestruale partecipa infatti della forza del mondo invisibile e mistico. È il liquido generativo per definizione e, in quanto tale, estremamente pericoloso; è innanzitutto sangue, l’elemento senza il quale tutti i vodu e tutti gli uomini morirebbero. La prossimità tra vodu e sangue è testimoniata anche, come abbiamo visto, dall’etimologia della parola hou e houno. Houno significa la madre (no) del sangue/vodu (hou), dove l’inversione di genere da madre a padre – gli houno sono prevalentemente uomini – rende evidente la necessità di incorporare, in questo ruolo, entrambe le identità, maschile e femminile. In ambiente ewe ouatchi, si ritiene che il sangue sia dato dalla madre e le ossa dal padre, per cui il sangue designa sempre l’appartenenza matrilineare (Lovell 2002:41-47). I sacerdoti vodu sono metaforicamente e fisicamente imbevuti del sangue delle antenate. Hounka, letteralmente la corda di sangue, è il termine utilizzato per designare chi diviene adepto di un vodu. Ricordando che anche i vodu sono hou, cioè sangue, secondo Lovell si può identificare hunka, come il meccanismo attraverso cui si commemorano le antenate: i vodu servono a commemorare la componente femminile dell’individuo mentre quella maschile viene ricordata citando il nome dei singoli antenati nelle occasioni cerimoniali. Il sangue mestruale ha uno statuto ambiguo e di difficile definizione. Secondo i fedeli del gorovodu, ha il potere di attivare delle reazioni pericolose. I sofo lo considerano una costante minaccia, generalmente spiegata nei termini di una ricerca di purezza: il gorovodu è un vodu «propre», pulito e non amerebbe il sangue sporco delle donne. Prima di consentire a una donna di entrare o anche solo di avvicinarsi a un altare del gorovodu, i sofo si informano sul suo stato, soprattutto nel caso di una straniera che potrebbe ignorare le interdizioni. Questa pratica non è per altro così evidente negli altari degli altri vodu. I dignitari del gorovodu non sembravano tanto preoccupati per l’incolumità femminile quanto per quella dei loro vodu. Al contrario, Bella spiegava in questi termini i divieti del gorovodu:

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Non si può venire [all’altare] con le mestruazioni, devi lavare bene i vestiti che hai messo durante quel periodo, prima di ritornare, perché poi devi essere pulita. Non puoi neppure, in quel periodo, mangiare la carne degli animali sacrificati per il vodu, perché se lo fai il tuo sangue non si fermerà mai più. Se vuoi vedere cosa succede ed entrare nell’altare… allora puoi entrare, ma a tuo rischio… perché tu entri e poi magari inizierai ad avere mal di pancia, ti sdrai per riposarti, ma poi continui ad avere mal di pancia [ad avere le mestruazioni] fino a morire. Non è stato il vodu a ucciderti, ma te stessa che non hai rispettato le sue regole.31

Le adepte del gorovodu, dopo la fine del ciclo devono eseguire un rito di purificazione – afla – che impone di lavare se stesse, i propri vestiti, le stoviglie e l’area da cui si prende abitualmente l’acqua, con una miscela d’acqua, caolino e afla (secondo Pazzi si tratta bryophyllum pinnatum), un’erba considerata fredda e purificante.32 Il sangue mestruale è dunque oggi parte di un discorso che parla di sporco e d’impurità e sembra ricondurre in modo esplicito alla dicotomia tra puro e impuro. Secondo Douglas (1966:39-67), una sostanza è ritenuta contaminante in base a una percezione condivisa di anomalia rispetto a un dato ordine o sistema culturale. Per cui un inquinante è, allo stesso tempo, il prodotto e la minaccia a uno specifico ordine sociale; in quanto tale, esso diviene oggetto di proibizioni, volte a garantire e proteggere l’ordine sociale. Il sangue mestruale, se si assume che il corpo fisico sia 31. Conversazione con Bella Amouzouvi, Klikame, Lomé, Togo, 3 settembre 2006. 32. Esistono interdizioni comuni alla pratica dei popoli di lingua ewe che regolano i fluidi e i contatti reciproci. Alcune sono ancora oggi rispettate, mentre altre sono uscite dalla pratica corrente. Una donna fertile, ad esempio, deve purificarsi dopo aver toccato il corpo di un morto, poiché altrimenti il contatto con la morte può provocare mestruazioni perpetue e quindi l’infertilità (Fiawoo 1974:272); si tratta di una pratica ancora rispettata e che prevede un processo di purificazione, afla, del tutto simile a quello eseguito dalle donne del gorovodu dopo la fine del ciclo. La necessità, per queste ultime, di lavare con afla il luogo da cui si prende abitualmente l’acqua, ricorda l’interdizione d’andare al pozzo a prendere l’acqua per il marito, che le donne mestruate dovrebbero rispettare. Anche in questo caso non si tratta di norme igieniche, ma del pericolo di essere vittima del potere femminile. Tra gli anlo ewe del Ghana, scrive Sandra Greene (2002), verso la fine dell’Ottocento, i fluidi prodotti, sia dagli uomini che dalle donne, erano considerati delle sostanze potenzialmente pericolose. Si credeva, ad esempio, che se due uomini avessero dormito con la stessa donna il loro sangue si sarebbe unito e ciò avrebbe portato a risultati fatali. Il mestruo, inoltre, aveva il potere di togliere la virilità agli uomini, di rubare potere agli oggetti caricati spiritualmente e di aggravare gli ammalati (Greene 2002:88).

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una metafora del corpo sociale, ben incarna questa teoria, soprattutto se interpretato come anomalia simbolica, come un liquido fuori posto: un sangue sporco. Aderendo a una visione strettamente dicotomica, si rischia però di non cogliere la natura ambigua del sangue mestruale e le diverse implicazioni del concetto di “impurità”. Le adepte e le trosi del gorovodu sembrano infatti accettare l’impurità del sangue mestruale, senza però trasformarla in un giudizio etico o morale. Per le adepte infatti il sangue sacrificato ai vodu può interferire con il loro sangue, causando delle mestruazioni perpetue che, in una specie di «ipersimbolizzazione della fertilità» (Gottlieb 1988:68), le potrebbe rendere sterili. Le donne stanno lontane dall’altare per proteggere la propria fertilità e in termini più generali la propria vita. Gli uomini, al contrario percepiscono la donna come una minaccia e temono che la sua presenza “contaminante” possa “rovinare” le divinità, cioè togliere potere all’altare e in ultima analisi a loro stessi. Ciò che è importante sottolineare è la possibile inversione di prospettiva che si produce cambiando il punto di osservazione. La paura maschile emerge anche da altre interdizioni, come ad esempio, quella che vieta alle donne del gorovodu, durante il ciclo mestruale, di preparare i pasti. Questa interdizione svela non tanto la paura dello sporco e dell’impuro, quanto la potenziale minaccia che ogni uomo vede nella propria moglie. Se fosse una strega potrebbe contaminare il marito, renderlo proprio schiavo, distruggerlo lentamente o sottrargli la virilità. La percezione femminile di questi divieti è differente. Secondo Agbassi Agbeko, una delle rare donne sofo, che acquisì il vodu quando era ancora in età fertile, l’interdizione all’accesso all’altare sarebbe solo l’acquisizione di una pratica straniera. Il divieto: interessa solo questi vodu perché loro sono puliti. È la stessa interdizione che hanno i musulmani e il vodu ci è stato dato dagli hausa, quindi ha le stesse abitudini. Se vieni a pregare e hai le mestruazioni, le tue preghiere non funzioneranno e il vodu ti renderà malata.33

Anche Adzrobassa, una trosi di circa cinquant’anni, che frequentava il medesimo altare di Bella, raccontandomi di sua sorella, che divenne sofo da giovane, mi disse: 33. Conversazione con Agbassi Agbeko, Keghe, Lomé, Togo, 7 settembre 2006.

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Un tempo la legge non era così rigida e si poteva diventare sofo anche da giovane. Lei (la sorella) aveva un bosofo34 e quando aveva le mestruazioni era lui ad entrare nell’altare. Poi lei si purificava. Bastava mettere le mani nell’acqua che c’è all’ingresso, la stessa cosa che bisogna fare se si tocca un cadavere. Ora la regola è un po’ più difficile e rigida.35

Sia Agbassi sia Adzrobassa accettavano le regole del loro vodu ma non consideravano la donna mestruata impura. Le regole apparivano una “novità” legata all’origine straniera della divinità o a un irrigidimento avvenuto negli ultimi anni, che esse accettavano nel rispetto delle peculiarità del loro vodu. L’idea di sporco è un concetto che il gorovodu ha reso più centrale, in sintonia con l’anelito verso una pratica religiosa pulita, ordinata e moderna. Il sangue non è l’unico liquido che può interferire con le divinità. Analizzando la letteratura etnografica d’area, è facile evidenziare come i tabù legati al sangue mestruale abbiano un riscontro in quelli riguardanti lo sperma. Queste interdizioni sono importanti, poiché da una parte ricordano quanto la procreazione non sia un’esclusiva prerogativa femminile, ma piuttosto un processo durante il quale umori differenti e carichi di vitalità ed energia si incontrano. Ciò consente innanzitutto di ricondurre anche l’uomo alla sfera della natura (MacCormack 1980:17) e di mettere in luce quanto ogni individuo sia il prodotto della variabile e composita unione di principi femminili e maschili. In secondo luogo, l’enfasi data dai fedeli del gorovodu alla pulizia, alla purezza e al valore contaminate del sangue, e una certa amnesia nei confronti dei liquidi maschili, ricorda l’importanza di esaminare la specificità e storicità dei discorsi prodotti. Il sangue mestruale (la, sia in ewe sia in fon),36 così come lo sperma (vitsi in ewe o visin in fon, cioè “l’acqua dei ragazzi”), sono liquidi corporei dotati di una forza propria, spesso indipendente dalla persona che li produce. La loro funzione e il loro valore cambia in funzione del contesto e delle relazioni in atto. Il problema non è quindi legato al solo 34. Si tratta dell’aiutante del sofo, cioè colui che sta effettivamente sempre a disposizioni della gente che arriva all’altare. Il sofo invece interviene solo per casi gravi e importanti. 35. Conversazione con Adzrobassa, Klikame, Lomé, Togo, 5 settembre 2006. 36. Comunemente si usano altre espressioni, in ewe, per definire il sangue mestruale e la donna nel periodo mestruale: tame (sopra la testa), tchevie (nome di una città ewe, dove la terra è rossa), me le gpo letchi (vedo la luna), me y dzi (sono partita in alto), me hu me (sono nel sangue).

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sangue, ma all’insieme di liquidi corporei, carichi di potere generativo, la cui essenza potrebbe reagire in modo catastrofico con quella, altrettanto materiale dei vodu. Non esiste una condanna assoluta dei liquidi in quanto tali, ma la consapevolezza, quasi chimica, delle potenzialità della materia. I vodu sono delle realtà complesse, costituite dall’accumulo di sostanze vegetali, organiche e minerali, e analogamente lo è l’uomo, grazie alla complessità delle componenti interne del suo corpo. Lo sperma e il mestruo sono gli elementi che più avvicinano gli esseri umani alle forze dell’invisibile. I “tabu mestruali” pur essendo in qualche misura universali, come le mestruazioni stesse, hanno significati ambigui e spesso multivalenti: possono limitare le azioni delle donne oppure quelle delle persone o delle cose che le circondano. Infatti il sangue mestruale può anche essere percepito come un simbolo positivo di fertilità (Alma Gottlieb 1988:7-10).37 Anche nell’area geografica in analisi, il sangue mestruale può avere valenze positive.38 Innanzitutto come liquido creatore e in secondo luogo perché utilizzato per produrre pozioni, filtri d’amore e, ad esempio, aggiunto nel sugo della carne o del pesce, può aiutare le venditrici ambulanti ad acquisire un sempre maggior numero di clienti. Tra gli ashanti, secondo quanto scriveva Rattray, le interdizioni a cui erano sottoposte le donne mestruate erano molto rigide, dato che si riteneva che esse potessero sottrarre potere ai seggi degli antenati; la punizione per chi infrangeva le regole era la morte. D’altro canto, il sangue mestruale veniva utilizzato da alcuni preti ashanti per realizzare dei kunkuma, «il più potente suman (talismano) degli ashanti» (Rattray 1927:13). L’associazione sangue – impurità – sfera femminile è di più facile gestione e risulta strategica ai fini delle gerarchie, prettamente maschili, del gorovodu e delle loro originarie priorità antistregoneria. Il discorso dicotomico, che tende a procedere per opposti, consente una notevole semplifi37. Si veda ad esempio Hanssen (2002) per i baul del Bengala indiano e Gottlieb (1988) per i beng della Costa d’Avorio. Anche in occidente, nell’Italia del Cinquecento, la donna durante il ciclo mestruale, fu liberata dalla macchia dell’impurità. Il mestruo divenne un privilegio, assumendo un segno decisamente positivo: un dono divino che aiutava a regolare l’equilibrio fisico e psicologico della donna (Camporesi 1997:94-95) 38. Anche in occidente, nell’Italia del Cinquecento, la donna durante il ciclo mestruale fu liberata dalla macchia dell’impurità. Il mestruo divenne un privilegio, assumendo un segno decisamente positivo: un dono divino che aiutava a regolare l’equilibrio fisico e psicologico della donna (Camporesi 1997:94-95).

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cazione della realtà fenomenica e una più facile gestione delle relazioni di potere. La tendenza a una certa esclusione delle donne dai ruoli di comando è diffusa in tutti gli ordini vodu, ad eccezione di Mami Wata che storicamente si è costruito come un vodu che esalta la bellezza, la cura del corpo e l’eleganza femminile, un ambito che sembrerebbe meglio rappresentare i moderni ideali di femminilità. Nonostante la marginalizzazione femminile, la comunità vodu resta uno spazio di forte omosocialità, all’interno del quale le donne trovano le energie emotive e materiali per cambiare vita, sfuggire da situazioni difficili, viaggiare, conoscere gente, trovare un uomo da sposare o una comunità femminile con cui confrontarsi. Essere una trosi è percepito come un privilegio da molte donne, soprattutto da quelle che dedicano parte della loro vita al culto dei vodu. La maggior parte delle sacerdotesse vodu che ho incontrato non avevano marito, alcune erano separate, altre vedove; come alcune di esse mi dissero, l’attività era incompatibile con una normale vita famigliare, per cui spesso decidevano di cercarsi una nuova casa in cui vivere con i loro vodu. Essere nel vodu, e soprattutto essere una trosi o una vodussi, consente quindi di crearsi uno spazio indipendente, anche esterno alla famiglia e, nel caso delle sacerdotesse, negoziare una posizione sociale di prestigio. Dal punto di vista femminile, la maggiore presenza nella sfera vodu non è solo sintomo di una particolare predisposizione all’invisibile o di una vicinanza al mondo selvaggio. Le rappresentazioni, secondo qui la donna sarebbe un soggetto passivo, parte della natura, non sono condivise e non fanno parte dell’immaginario comune: il limite tra visibile e invisibile, tra umano e animale, tra culturale e naturale è, come abbiamo visto, sfumato e inafferrabile; in ambito rituale anche quello tra femminile e maschile sembra assumere altri significati, aprendo la strada a una logica di trasgressione piuttosto che di differenziazione. Una logica simbolica e dicotomica (Héritier 1996, Augé 1988, Zempleni 1987, Verger 1957) non può aiutare a comprendere la complessa nonché difficile posizione femminile nell’ambito religioso quanto piuttosto la capacità di osservare le pratiche, interrogare l’uso dei simboli (Moore 1994) e gli scostamenti soggettivi ed eccentrici (De Lauretis 1999). Un prospettiva storica serve poi a svelare i processi di oggettificazione di fenomeni che in realtà dipendono dalle forze e dai potere in gioco.39 39. Si veda a tal riguardo, nell’ambito yoruba, Lorand Matory (1994b).

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Ritornando al rapporto tra natura e cultura, per quanto gli animali siano altro dagli umani, tra uomini e natura esiste una relazione di reciprocità che nei momenti rituali diventa bisogno d’incorporazione. Il sangue dell’animale scorre sul corpo del fedele, penetra la sua pelle, viene ingerito oppure essiccato e quindi incorporato sotto la pelle: tutto ciò implica riconoscere agli animali e alla natura una forza e una potenza che giustifica la violenza del sacrificio. Gli animali sono soggetti e non oggetti della realtà. Ci troviamo quindi ben distanti da un desiderio di protezione o da un sentimento di amore, di cui l’animale sia, appunto, oggetto. Nel gorovodu contemporaneo, si sta assistendo a una semplificazione dei significati e delle pratiche; l’accettazione di alcune opposizioni dicotomiche è di più facile gestione. I corpi si appiattiscono verso una maggiore attenzione alle superficie rispetto alla complessità delle reazioni interne. Prevale una visione semplificata della realtà fenomenica, all’interno della quale le donne vengono progressivamente spinte verso ruoli subordinati, marginali, contaminanti e quindi ancora una volta pericolosi.

5. Fenomenologia di un vodu “moderno”

Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvadòs. Il Duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti. Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane. I Normanni bevevan calvadòs. Tutta questa storia, – disse il Duca d’Auge al Duca d’Auge, – tutta questa storia per un po’ di giochi di parole, per un po’ d’anacronismi: una miseria. Non si troverà mai via d’uscita? R. Queneau, Fiori Blu

Il nord, nelle rappresentazioni degli adepti del gorovodu, è uno spazio fluido e polisemico che racchiude al suo interno idee e preconcetti spesso in contraddizione tra di loro. È il luogo dei popoli della savana, meno evoluti, più selvaggi, un tempo adatti alla schiavitù e al lavoro stagionale. È uno spazio esotico e «gotico» (Parker 2005:354), centro di poteri mistici forti e misteriosi. La sua collocazione geografica è incerta e spostando il suo significato oltre i limiti regionali, è divenuto l’immagine mistificata di un generico mondo altro, saturo di eterogenei poteri: è lo spazio del denaro e del commercio, del potere politico e del successo, la meta verso cui emigrare. Il nord è l’Europa, e il mondo arabo, la religione cristiana e l’Islam. Il gorovodu, dopo aver adottato gli spiriti della savana, oggi vuole impossessarsi degli spazi storici e geografici delle religioni universali, dilatando i propri confini storici e geografici. In questo capitolo prenderò in considerazione prevalentemente il contesto beninese, dove il tron kpeto deka ha acquisito una posizione preminente all’interno del panorama religioso del paese, anche grazie alla sua vitale capacità di rinnovamento. La velocità dei suoi rituali, la facilità di approccio, l’ordine e la pulizia dei suoi altari e la semplificazione delle pratiche hanno spinto alcuni houno verso nuovi terreni di sperimentazione

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rituale. I riferimenti al mondo musulmano e a quello cristiano sono oggetto di continue elaborazioni che se da una parte frammentano il culto in molteplici manifestazioni, dall’altra diventano l’espressione delle aspirazioni e degli immaginari condivisi da parte della società. Per comprendere la contemporanea fenomenologia del vodu tron e la sua modernità, rivendicata quale elemento di forte differenziazione identitaria, è necessario interrogare il percorso storico e il substrato culturale e religioso che hanno portato alle attuali forme rituali. Alcune tematiche che appartengono al linguaggio del vodu tron erano infatti già parte del panorama religioso beninese di inizio Novecento. Una precedente ondata di “modernizzazione” era stata introdotta dalla divinazione dell’oracolo Fa. L’oracolo, che ben presto conquistò una posizione egemonica nel panorama religioso dell’intera regione, veicolava una concezione mistica più vicina a quella delle religioni universali; proprio per tale motivo i missionari lo scelsero come riferimento per il processo di traduzione e conversione al Cristianesimo. Fa giunse dal nord Africa, probabilmente influenzato dalla cultura del mondo arabo; fu introdotto dai mercanti hausa tra gli yoruba nel corso del XVIII secolo e quindi si diffuse verso ovest, tra i fon e gli ewe. Anche i culti medicinali o antistregoneria, gli atike vodu, intrisi di saperi vicini all’Islam, con qualche secolo di scarto, giunsero al sud, tra gli ashanti, e da qui si spinsero verso est, introducendo una nuova visione etica e rafforzando l’idea di una entità spirituale superiore. L’incontro tra questi due flussi apparentemente sconnessi sia storicamente sia geograficamente, fece sì che i culti atike fossero accolti con entusiasmo, anche perché parlavano un linguaggio che già permeava la sfera culturale e religiosa. Il terreno sociale era dunque pronto perché un vodu “hausa” e moderno potesse avere successo; non si trattò quindi tanto dell’espressione dei rapidi e traumatici mutamenti dovuti all’incontro coloniale, quanto dell’espressione puntuale di un processo in atto da secoli. La fenomenologia del vodu tron è inoltre un esempio di quei processi ermeneutici di rielaborazione e rilettura dei temi, delle pratiche rituali e dei racconti storici e mitici a disposizione, che possono produrre ciò che viene poi definito “tradizione” (Hervieu-Léger 1993:128), un concetto fluido il cui «essere senza tempo può essere costruito situazionalmente» (Linnekin 1983:242). Recuperando parte delle tracce del lavoro di assemblaggio che i detentori del tron hanno realizzato negli anni, è poi possibile interrogarsi sulla profondità delle incorporazioni, sulla varietà e sul significato dei cambiamenti e sulle dinamiche che l’incontro con l’altro innesca. Le incorporazioni possono essere superficiali oppure

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più profonde, fino a portare all’abbandono di interi modi di pensare il sé e il proprio mondo (Greene 2002:83-108). La presunta modernità del tron kpeto deka, per i fedeli non è una categoria filosofica ma una parola che sembra convogliarne desideri, frustrazioni e paure. È sinonimo di progresso, di miglioramento delle condizioni di vita e di fiducia in un futuro e prossimo benessere. Per i fedeli del tron kpeto deka, la modernità del loro culto si esprime in contrapposizione all’arcaicità del vodu nel suo complesso, che si vorrebbe superare, pur restando all’interno della medesima prospettiva religiosa. La modernità diviene quindi un desiderio di realizzazione individuale e uno strumento di superamento della barbarie, qui identificata con il feticismo e con una tradizione incapace di emanciparsi da se stessa. 1. Il goro è un vodu “hausa”: le influenze dell’Islam Il gorovodu, come abbiamo visto, trasgrediva i confini corporei, geografici, politici e metafisici, creando forte disagio tra missionari e amministratori coloniali. In generale questi non si interrogarono sulle influenze delle religione musulmana, né sul senso di ciò che sostenevano i fedeli: «Le Goro est un fétiche haoussa»,1 piuttosto si inquietarono per le pratiche che venivano mutuate dalla religione cristiana.2 L’avversione dei missionari cristiani nei confronti dell’Islam aveva radici antiche e in Togo, ad esempio, era stata esasperata da un atteggiamento da parte delle amministrazioni coloniali molto disponibile verso chi praticava l’Islam. I tedeschi avevano assecondato le autorità musulmane e confermato, al nord, i capi islamici che esercitavano un’importante influenza nella sfera politica, impiegandoli ad esempio come ausiliari a cavallo delle 1. Nei documenti d’archivio il culto era spesso definito Kunde Lafia o semplicemente Alafia. Alafia è una parola hausa, di origine araba, utilizzata nei saluti, che significa pace, salute. Ancora oggi è ripetuta durante la pratica del tron kpeto deka, che viene da molti perciò chiamato tron alafia (NAG, CSO 21/10/4, Kunde Fetish). 2. Il Discrict Commisioner della Gold Coast, P.W. Rutherford scriveva, nel 1932: «questa nuova religione crede di essere una religione spirituale come quella cristiana; sembra soddisfare i giovani pagani più che la venerazione dei vecchi idoli. Imitano le celebrazioni cristiane della domenica, suonano una piccola campana, si radunano nei loro templi, pregano assieme e insistono sull’osservanza di alcuni precetti di un decalogo» (NAG, CSO 21/10/4, Kunde Fetish, 13 febbraio 1932).

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truppe di polizia. L’approccio dei missionari cristiani fu nutrito essenzialmente da una visione delle due religioni universali come realtà profondamente antagoniste e radicalmente differenti (Arthur Knoll 1978:112-117). D’altro canto la cecità verso le tracce lasciate dalla religione musulmana fu tipica anche degli studi sulla “religione tradizionale africana”. L’Africa occidentale fu infatti “disconnessa” dal centro arabo musulmano e, con un analogo processo, i paganesimi furono depoliticizzati e destoricizzati (Amselle 2001:52). I culti autoctoni e quelli “stranieri” avevano già da secoli aperto un dialogo con le religioni universali e con l’Islam in particolare. L’introduzione di elementi musulmani recenti spesso respinge nelle tenebre quelli precedenti, «attribuendo loro tratti di un culto africano autoctono, alimentando con ciò stesso le speculazioni degli antropologi sull’esistenza di un paganesimo premusulmano o precristiano» (Amselle 2001:61). I culti medicinali atike, viaggiando da nord verso sud, non trasportarono solamente talismani e oggetti legati alla religione musulmana, ma anche le influenze culturali e il modo di sentire di chi praticava questa religione. Volgere lo sguardo, ancora una volta, verso la savana, all’epoca della diffusione dei culti antistregoneria, può aiutare a immaginare un mondo percorso da una fitta trama di relazioni commerciali e umane, che continuavano a unire da secoli popoli di cultura e religione differenti. Nel XIX secolo la regione della savana era caratterizzata da un panorama di dinamica condivisione culturale tra le comunità locali e quelle dei mercanti hausa. Fino al XVIII secolo, l’area compresa tra le reti commerciali jula e hausa – l’area di origine dei culti che confluirono nel gorovodu – rappresentò un’eccezione, restando relativamente isolata e non toccata dall’Islam (Wilks 1961:25-34). La tradizione suwarian3 dei musulmani e la resistenza delle comunità locali, limitò l’impatto della religione, per cui, ad eccezione, in minima misura, proprio di Gonja e Wa «i regni restarono fermamente al di fuori del dar al-islam e furono guardati dai cronisti musulmani come bastioni del paganesimo» (Parker, 2005:29). Con l’insediamento di alcune comunità di migranti provenienti dall’odierno Niger nei regni Gonja e Mossi-Dagomba diversi governanti iniziarono a mostrare un nuovo attaccamento all’Islam.

3. Su questo tema si veda Wilks (1968). La tradizione Suwarian in Africa occidentale non praticava un proselitismo attivo e cercava di conciliare la coesistenza tra “fedeli” e “infedeli” arrivando ad accettare che questi ultimi continuassero a praticare la loro religione.

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Le vicende che accompagnarono il diffondersi del culto Sakrabundi sono paradigmatiche e aiutano a comprendere il clima culturale e politico dell’epoca. Sakrabundi fu descritto dai primi testimoni come un culto ”pagano”. Già Tauxier (1921:184) però notava che se un tempo i sacerdoti di Sakrabundi indossavano una tunica di foglie e una maschera in legno raffigurante il muso di un coccodrillo, all’epoca dei suoi viaggi, il costume si era “modernizzato” ed era composto da boubou bianco, mutuato dai musulmani, e da un cappello, anch’esso bianco e ornato da caurie. Nonostante Sakrabundi avesse generalmente l’appoggio delle autorità locali, sovente il suo progredire veniva ostacolato da forti resistenze che nascondevano conflitti di natura politica (Terray 1979). Alcune aree islamizzate avevano infatti accolto Sakrabundi e, come scriveva Treich-Laplène (1887): «i musulmani stessi, anche se rigorosi osservanti delle pratiche dell’Islam, si uniscono volentieri alle solenni feste di Sakaraburu (Sakrabundi) e partecipano come musicisti o spettatori» (Terray 1979:164). Nel 1894, Samori Touré,4 incoraggiato dai francesi, invase la regione al fine di ottenere il controllo del commercio nel bacino del Volta nero, nel corridoio Bonduku-Buna-Wa. In quegli anni, Sakrabundi venne dunque sempre più permeato dalla religione musulmana.5 Si trattò di un processo d’arricchimento necessario a un culto in espansione e che voleva ampliare la sua sfera di influenza, attraverso l’incorporazione di pratiche e oggetti provenienti da un più ampio orizzonte culturale (McCaskie 2005:177-179). Quando Sie Kwaku sentì la necessità di andare a cercare una nuova “medicina” – Aberewa – da affiancare a Sakrabundi, si spinse ancora più a nord, giunse a Lawra, oltre Kandia. Qui, si narra, udì delle voci che gli suggerirono di chiedere a un musulmano erudito quale fosse la direzione da seguire per portare a termi4. Si veda sulla figura di Samori Toure, ad esempio, Jansen (2002). 5. Nel 1895 Samori Touré sconfisse il Gyaman, coinvolgendo anche Welekei, la città in cui vi era l’importante altare di Sakrabundi, gestito proprio da Sie Kwaku. Il Gyaman, suddiviso tra i poteri coloniali francesi e inglesi, visse un periodo di caos, distruzione e povertà che coinvolse anche le città ai confini del Gyaman, come Buna, Wa, Takyiaman e le città bron. Welekei non subì forti danni in seguito all’invasione del jula Samori Touré, grazie alla forte presenza di musulmani jula nella città. Si giunse a una mediazione politica con gli invasori, come testimoniato tra gli altri da Sie Kwaku, che per tale motivo pensò di convertirsi all’Islam, passo che non compì per la fedeltà a Sakrabundi. Da allora però mantenne ottimi rapporti con i membri della comunità musulmana, li portò con sé in alcuni viaggi al nord e si fece preparare molti talismani da indossare per la sua protezione personale (McCaskie 2005).

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ne la sua ricerca; gli fu detto di procedere verso oriente forse, suggerisce McCaskie (2005:180), proprio in direzione della Mecca. Quando riportò la nuova forza a Welekei, fu essa stessa a spiegare il motivo della sua presenza sulla terra, dicendo di essere giunta dal paradiso e mandata agli uomini dal Creatore (McCaskie 2005:180). Anche se il riferimento alla Mecca era solo sottinteso, il nuovo culto fu descritto proprio come un’epifania salvifica, inviata dal Creatore e portatore quindi di un anelito monoteista e universalista. Quando i culti, che poi confluirono nel gorovodu, giunsero lungo la costa, trovarono un terreno pronto a rispondere a una religione che si proponeva come universale e aveva delle aspirazioni monoteiste; soprattutto nella colonia inglese della Gold Coast, i missionari e i pastori cristiani stavano svolgendo un lavoro di conversione ed evangelizzazione particolarmente aggressivo e tenace (Meyer 1999, Greene 2002). Nel prossimo paragrafo si sposterà l’attenzione verso oriente, verso il mondo yoruba, all’interno del quale la scienza divinatoria di Fa si sviluppò. Ciò al fine di mostrare come, anche in quest’area culturale, il sentire religioso fosse già stato permeato dall’Islam. Quando il gorovodu arrivò nella regione dominata dal vodu, i leader locali riconobbero un’affinità con la divinazione Fa sia perché entrambi fungevano da oracoli sia per la loro comune aspirazione monoteista. In alcuni casi, i sacerdoti del gorovodu cercarono di sostituirsi ai bokono (i sacerdoti di Fa) ma più spesso cercarono di integrare i due culti, riconoscendo l’egemonia mistica di Fa. Nella pratica attuale resta questa divergenza, oggetto di continue negoziazioni e contrapposizioni. La continuità tra gorovodu e Fa era costituita proprio da quella traccia lasciata dall’Islam, che gli osservatori dell’epoca non vollero vedere, preferendo interpretare i nuovi culti esclusivamente come un segno di rottura rispetto alla precedente tradizione. Ancora oggi, i difensori della “religione tradizionale” preferiscono vedere nel culto di Fa un esempio della ricchezza del sapere africano e il tron semplicemente come un fenomeno sincretico e solo recentemente apparso all’interno del panorama religioso locale. 2. L’oracolo Fa: «…è come un vodu, ma non è un vodu» Il gorovodu iniziò a diffondere un linguaggio palesemente vicino a quello delle religioni universali che disturbò soprattutto i missionari. La

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sua forza di rottura e di cambiamento, più facilmente percepibile leggendo l’archivio coloniale piuttosto che ascoltando i discendenti dei protagonisti di un tempo, si integrò in un discorso già presente all’interno del mondo religioso. Fa aveva infatti introdotto un pensiero e delle pratiche prossime alle religioni universali e al pensiero monoteista. Fa è l’oracolo posto al centro di un complesso sistema di divinazione, che connette gli uomini a tutte le divinità – orisha o vodu – e più in generale a tutte le forze del mondo invisibile. Solo grazie a Fa, l’uomo può conoscere il proprio destino – se – e per quanto possibile cercare di controllarlo e direzionarlo. I bokono o babalawo – i sacerdoti di Fa – grazie al ruolo cruciale di interpreti del mondo invisibile e di guide dell’esistenza umana, hanno assunto una posizione egemonica in campo politico e religioso. Nelle aree dove viene praticata la religione vodu e degli orisha, il culto dimostrò infatti, da quando se ne ha testimonianza, la sua aspirazione a divenire il punto di articolazione di tutti gli altri culti (Peel 1990:343). Come Maupoil mise in luce, Fa (Ifa per gli yoruba) arrivò nel Dahomey all’inizio del XVIII secolo, portato da una carovana di commercianti nago (così vengono chiamati in Bénin gli yoruba); ad Abomey ebbe un successo che egli definì «quasi inquietante» (Maupoil 1943:46). L’oracolo Fa, impregnato di saperi e allusioni al mondo musulmano, dalla Nigeria si diffuse nel Dahomey e in Togo, andando a sostituirsi o affiancandosi ai preesistenti sistemi di divinazione. Ebbe un momento d’ulteriore potenziamento grazie all’incontro con i missionari cristiani nel XIX secolo. Anche gli studi sulla “religione tradizionale” yoruba accordarono un posto centrale al culto che divenne, per gli yoruba istruiti e moderni, uno strumento attraverso cui staccarsi da ciò che musulmani e cristiani definivano, in modo dispregiativo, paganesimo (Peel 1990:338). I pastori africani che volevano spingere gli “indigeni” sulla strada della conversione, considerarono Fa un precursore di Cristo. I babalawo assunsero di conseguenza il ruolo degli intellettuali della società tradizionale e divennero un importante punto di riferimento nel processo di conversione e di traduzione della religione cristiana.6 6. La liturgia di Fa non è accompagnata dalla danza, anomalia che conferma la scarsa corporeità della sua pratica, a favore di una maggiore – spesso solo presunta – elaborazione teorica. La divinazione è associata a un corpus di poemi e leggende – ese – che i bokono recitano o cantano durante la consultazione e a una nucleo, estremamente complesso, di segni e simboli che sono stati ricondotti all’idea di scrittura e alla complessità della logica matematica. I bokono, oltre a essere stimati come detentori della saggezza tradizionale, del-

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Il successo di Fa consentì anche di dare una nuova direzione alle dinamiche di genere. Esempio unico nel panorama dei culti della regione, Fa non è un culto di possessione. Questi non furono necessariamente un palliativo per la sofferenza e l’emarginazione femminile, ma sovente uno strumento attraverso cui le donne riuscirono ad accedere attivamente alle maglie del potere politico, come ad esempio, in epoca precoloniale, tra gli yoruba di Oyo (Matory 1994a e 1994b). La divinazione Fa, oltre ad avere escluso la possessione, interdì i suoi vertici alle donne. Fa si connota quindi come il polo del potere e dell’egemonia maschile, all’interno della sfera religiosa. Ancora una volta le parole di Maupoil, nel paragrafo Le Fa des femmes, aiutano a meglio comprendere: A causa della sua impurità e della sua affinità con la stregoneria, la donna partecipa molto meno dell’uomo al culto di Fa. Non si tratta, in questo caso, di un’esclusione formale […], ma di una consuetudine, ammessa tra l’altro da tutte le donne: il loro posto non è né nella società dei bokono né nell’intimità di Fa (Maupoil 1943:327).

Fa, oltre a escludere completamente le donne dalle sue gerarchie, aspirando a diventare potere capace di coordinare tutti gli altri culti, auspicava un controllo più generalizzato della presenza femminile nella sfera religiosa. I babalawo erano dei veri professionisti e intellettuali, in breve tempo diventati indispensabili agli oba – i capi yoruba – di ogni città ed erano anche dei grandi viaggiatori. Per tale motivo furono portatori di una visione regionale e cosmopolita del loro sapere; disinteressati “all’etnicità yoruba”, percorsero il Dahomey e il Togo per diffondere il loro sapere, trascurando invece altre località periferiche di lingua yoruba (Peel 1990:343-345). L’attitudine al movimento era stato indubbiamente mutuato dai mallam così come l’apertura verso uno spazio sociale più ampio, che trascendeva le ristrettezze del villaggio: Se qualcuno vuole veramente diventare divinatore, deve cambiare maestri, collezionare le molte esperienze degli altri e scegliere. Gli sarà utile a questo fine viaggiare di città in città, per studiare le differenti manifestazioni di Fa ovunque ciò sarà possibile. Questi viaggi di studio – che Fa non impone, ma le leggende e delle cosmogonie, conoscono le proprietà delle erbe e delle piante, che usano anche a scopo terapeutico. Infine la loro iniziazione prevede un periodo di formazione e apprendistato di sette anni – periodo oggi radicalmente ridotto – che contribuiva a costruire un’idea d’uomo erudito, più vicina alle concezioni occidentali.

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circa i quali verrà consultato – sono fruttuosi soprattutto se il futuro bokono andrà a Ife, Jebu, Oyo e Abomey (Maupoil 1943:128).

L’interesse di missionari e studiosi nei confronti di Fa contribuì negli anni a renderlo da una parte ancora più egemonico e distante dai vodu e dall’altra un patrimonio culturale da preservare, simbolo dalla ricchezza e profondità di un sapere che oggi viene considerato endogeno. Le affinità tra l’universo religioso prodotto da Fa e quello del gorovodu contemporaneo sono molteplici e testimoniano il progressivo spostamento verso un sentimento più universalista e individualista al contempo. Non va infatti dimenticata la possibilità di miglioramento sociale che l’adesione a Fa comportava e che, come misero in luce alcuni antropologi (Morton Willians 1956; Ward 1956) e missionari (Cessou 1936), anche i seguaci del gorovodu intravidero, soprattutto i giovani che cercavano di posizionarsi all’interno di una società gerontocratica ma in rapido cambiamento. Il gorovodu giunse nel Dahomey negli anni Trenta del Novecento, nei medesimi anni in cui Maupoil svolgeva le sue ricerche sull’oracolo Fa. Egli ebbe notizia del nuovo culto ed espresse un giudizio di netta condanna, non immaginando che il gorovodu avrebbe cercato, con alterni risultati, di assimilarsi e inglobare Fa. 3. Il tron kpeto deka: le narrazioni e i miti di fondazione Il gorovodu si è dunque innestato in un universo che, grazie alla diffusione del sistema di divinazione Fa, stava gradualmente cambiando il proprio sguardo religioso. Un latente monoteismo e una minore centralità delle pratiche andavano già pervadendo il mondo dei vodu. Non fu un fenomeno di rottura poiché si inserì in un processo di lento cambiamento culturale; ciò non toglie che le mutazioni furono talvolta esasperate dai leader stessi, che cercarono di esaltarne le peculiarità di fenomeno moderno e straniero, come strategia per differenziarsi ed emergere nell’arena politica e religiosa. Anche se gli amministratori coloniali7 percepirono i culti atike come potenzialmente sovversivi, i culti furono piuttosto parte di un riassestamento sociale che implicava un certo livello di scontro tra giovani e anziani, donne e uomini. 7. NAG, CSO 21/10/4, Kunde Fetish.

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Oggi le esigenze sono mutate e la persistente necessità di un differente spazio identitario deve essere coniugata con quella di una legittimità che solo la “tradizione”, pensata come «l’insieme di rappresentazioni, immagini, saperi teorici e pratici, comportamenti, attitudini, etc. che un gruppo o una società accetta nel nome della continuità necessaria tra il passato e il presente» (Hervieu-Léger 1993:217) sembra garantire. La necessità di inventare una tradizione impone un continuo gioco di rimandi tra presente e passato: l’aggancio al passato costituisce un titolo d’autorità nel presente, ma, al tempo stesso, deve assicurare una continuità in grado di incorporare anche le innovazioni e reinterpretazioni, aprendo quindi le porte a un possibile e differente futuro. Tale dinamica bene si applica ai vodu, che sono il risultato di processi di dinamica rielaborazione dei temi disponibili, secondo uno schema dove «non esiste né un inizio né una fine» (Barnes 1997:7). La libertà con cui si estende il tempo e la storia hanno un corrispettivo anche nella dimensione spaziale. Le formazioni sociali africane nascono proprio da una dialettica che associa e riassocia tradizioni e luoghi. Le narrazioni che ricordano le passate migrazioni, evocando un lontano luogo d’origine, sono parte della mitologia propria a ciascun gruppo sociale o che come tale vuole definirsi. La storia è movimento, per cui i processi di costruzione identitaria riconducono sempre a un altrove geografico.8 La tradizione e i luoghi sono dunque oggetto di continui aggiustamenti attorno ai quali si sviluppano le formazioni sociali africane (Allen 2005:74), anche di piccola scala, come quella di un ordine vodu. All’interno di questa dinamica tra presente e passato, tra luoghi reali ed immaginati, deve essere letta l’esigenza di alcuni dignitari del tron kpeto deka di estendere i confini spaziali e temporali delle loro cosmologie, rendendole molto più antiche di quanto normalmente venga ricordato dalla tradizione orale che, come abbiamo visto, non riesce a inoltrarsi oltre l’epoca coloniale. I miti di fondazione condivisi dai capi religiosi del tron kpeto deka in Bénin, si sono appropriati di luoghi come Medina, la Mecca o il monte Sinai. Medina è divenuta il centro di una vasta regione, all’interno della quale i leader del tron si muovono con familiarità, riuscendo così a meglio 8. Uno degli esempi più importanti in questa regione è la città nigeriana di Ife, ancoraggio mitologico della ricostruzione identitaria della maggior parte dei gruppi che si definiscono diasporici e che oggi occupano un’area che va dal Ghana fino alla Nigeria.

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connettere il culto con l’Islam e a giustificare la definizione di vodu hausa. Tale processo di sconfinamento era, d’altra parte, già proprio ai dignitari di Fa9 e parte di un complesso discorso politico di costruzione identitaria e nazionale.10 I discorsi, che i detentori del culto stanno elaborando, sono anche la testimonianza dell’esigenza, molto forte nel Bénin contemporaneo, di ricostruire uno spazio storico che sia documentato dai testi scritti. La parola è divenuta sempre più importante, così come la necessità di una storia scritta, soprattutto in un culto che pare voler marginalizzare la corporeità e i cui rappresentanti hanno sovente accesso ai mezzi di comunicazione, alla radio e alla televisione. Le connessioni con le religioni universali sono molteplici e il tron sembra il punto di accumulo di immaginari che appaiono talvolta frutto di un’eccessiva fantasia o di un desiderio bulimico di appropriazione dell’altro. Il tron kpeto deka ha assunto un’identità multiforme, che lo rende spirito, profeta o Dio unico. Secondo Adrien Awouekoun, houno di kpeto deka di Cotonou: il tron era all’inizio un uomo e viveva a Medina, molto prima dell’arrivo di Maometto. Medina allora era una città piena di stregoneria e di malfattori e una volta all’anno gli abitanti sacrificavano un montone per cercare di combattere queste forze negative. […] Lui si nutriva di noci di cola. Tanti anni dopo il tron è comparso nuovamente in Ghana, in un villaggio, di cui non 9. Maupoil registrò a Porto Novo la narrazione di un bokono chiamato Zuno, secondo cui, Fa fu tracciato, nei suoi sedici segni principali, da Mawu (Dio), su una pietra che lui stesso poi installò alla Mecca. Il racconto continuava: «La Mecca, secondo Zuno, fu la prima contea che Dio popolò. Da là gli uomini si diffusero sulla terra, ciascuno portando il proprio alfabeto. Le genti di Ife furono le prime ad accorrere quando appresero dell’esistenza della pietra misteriosa; si iniziarono alla conoscenza di Fa e dei suoi segni, poi tornarono a Ife e a loro volta passarono la conoscenza ad altri. Si creò un centro di studi su Fa a Ife e in seguito i Neri giudicarono più comodo venire qui piuttosto che affrontare l’Hadj» (Maupoil 1943:41). 10. Samuel Johnson (1960:3-5) riporta la leggenda sulla formazione della “nazione” yoruba, secondo cui gli yoruba si sarebbero originati da Lamurudu, uno dei re della Mecca che mise al mondo Oduduwa, l’antenato di tutti gli yoruba, il re di Gogoboro e di Kekawa, due popolazioni hausa. Oduduwa decise di «trasformare la religione di stato in un paganesimo e quindi di trasformare la grande moschea in un tempio di idoli e il suo Asara, il suo prete, divenne un’immagine tempestata di idoli». Quando fu costretto a fuggire dalla Mecca, in seguito a una guerra civile, si diresse proprio verso Ile Ife, dove arrivò dopo novanta giorni di cammino. Secondo Johnson questa era la versione condivisa, a dimostrazione di come gli yoruba fossero effettivamente giunti da oriente e si connettessero con il centro dell’Islam.

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ricordo il nome, vicino a un grande fiume. Anche qui gli abitanti avevano lo stesso problema che avevano a Medina…11

Una versione simile mi fu raccontata anche da Eugène Koumagnon12 di Cotonou, un fedele di kpeto deka, che stava cercando di scrivere la “storia ufficiale” del tron, e di aprire un sito internet sullo stesso tema: Mama Seidou è apparso molte volte nella storia dell’umanità, con diversi nomi e in differenti contesti, ma ciò non cambiava la sua realtà. Egli è rivenuto in diverse reincarnazioni. L’ultimo volta è apparso a Nafrigo,13 nella foresta dei peul in Ghana. Quando viveva alla Mecca si chiamava Mama Said e sono stati i peul che lo hanno riconosciuto, quando l’hanno incontrato in Ghana. Un tempo la Mecca era una regione di barbari. C’era uno stagno dove gli abitanti della regione erano costretti ad andare a sacrificare, una volta all’anno, la più bella giovane del villaggio. Solo in questo modo ottenevano i diritto all’acqua. Un giorno Mama Said arrivò nel villaggio […].14 Da quel giorno nel villaggio c’è l’acqua, lo stagno è diventato un fiume che oggi si chiama Giordano. […] Secoli dopo una personalità simile comparve nella foresta, faceva le medesime cose, mangiava la cola, usava il caolino, batteva la pietra, mangiava poco e beveva tanta acqua. I peul lo riconobbero come Mama Said, ma gli cambiarono nome e lo chiamarono Papa Kunde. La gente, dal sud del Ghana, iniziò ad arrivare da Kunde con i propri problemi, per farsi curare. Un giorno qualcuno che era stato guarito da Kunde, tornò per sacrificare una

11. Conversazione con Adrien Awouekoun, Cotonou, 30 luglio 2005. 12. Eugène Koumagnon è Presidente-Fondateur, Chief Executive della una rivista beninese Journal vodoo in Bénin e del sito internet www.journal.vodoo-benin.info. 13. Sul sito internet www.journal.vodoo-benin.info c’è una versione simile, nella quale tra l’altro si legge: «Mama Saïd (mama Seidou) era il suo nome. Era considerato il settimo profeta della sua epoca». 14. Tralascio nel testo la parte del racconto in cui si descrive il miracolo attraverso cui Mama Seidou fece avere agli abitanti del villaggio l’acqua. Mama Seidou chiese a una vecchia signora un bicchiere d’acqua e scoprì che nel villaggio era difficile approvvigionarsi; un passaggio simile si trova anche nella leggenda che racconta l’arrivo del “feticcio” Dente a Kratchi. Dente era un oracolo noto nella regione di Kratchi già nel 1817, Bowdich (1819) ne parlò come uno dei tanti figli dell’antica divinità Bruku. Nel XIX secolo divenne un “oracolo” con una forte influenze politica e sociale, strettamente legato al territorio e alla sua originaria localizzazione a Kratchi. Moltissime sono le affinità, nelle pratiche e nella mitologia, tra Dente e Kunde e si può ipotizzare che Kunde nel suo percorso verso sud, fermandosi a Kratchi, abbia acquisito parte del linguaggio rituale di Dente. Si veda, per quanto riguarda il culto di Dente, Donna J.E. Maier (1981, 1983).

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capra, ma Kunde era scomparso. Al suo posto restava solo la pietra e una montagna di noci di cola […].15

Altri houno hanno invece elaborato un immaginario, che riconduce il tron ad Abramo, spesso dipinto sulle pareti degli altari nel momento del sacrificio del figlio Isacco. Interessante è la versione, anche se unica nel suo genere, fornita da Abla Meji,16 un anziano sacerdote del tron di Cotonou.17 Abla Meji, illustrando due affreschi presenti nel suo santuario, che raffiguravano rispettivamente l’esodo degli ebrei dall’Egitto e Mosé sul Sinai, disse: «Mosè ha scoperto per primo il tron». Mosè incontrò Aron e gli disse: dobbiamo andare a cercare il nostro Dio, ma Aron disse: «perché? Noi qua stiamo bene, perché dobbiamo andarcene?». Mosé disse: «dobbiamo partire». Arrivato al monte Sinai Mosé disse ad Aron: «abbiamo lasciato l’Egitto, ma ora ci vuole una legge». Mosé restò sul monte Sinai. Aron disse alle donne: «portate i vostri anelli e i vostri orecchini e così faremo il nostro dio, il nostro vodu, il veau d’or» (vitello d’oro, vodu e veau d’or si pronunciano praticamente nel medesimo modo). La legge fu mandata a Mosé attraverso la geomanzia, Futrekpe. Allora, davanti al veau d’or la comunione si faceva con delle gallette senza lievito. Come è arrivato in Africa il culto è cambiato e ora si usa la noce di cola. È arrivato in Africa grazie ai nomadi, è arrivato prima sul terreno degli inglesi. Tron vuole dire vodu e vodu è veau d’or. Il veau d’or viene dall’Egitto e la c’erano gia tutti i vodu, Sakpata, Dan, Heviossou […].18

Abla Meji rimproverava molti suoi colleghi di diffondere una versione tronca dell’origine del tron parziale, che partiva solo da Mama Seidou, a suo parere uno degli ultimi emissari: «La gente conosce solo la storia che inizia nel XIX secolo e tutto si ferma lì».19 Le mitologie di Abla Meji, come quelle di altri sofo, che dipingono le piramidi nei loro altari, si inscrivono 15. Conversazione con Eugène Koumagnon, Cotonou, Bénin, 11 dicembre 2006. 16. Abla Meji è il nome di uno dei segni di Fa: il settimo. Simbolizza la forza e la persistenza di tutto ciò che l’uomo può fare. All’origine il segno era il re del vento, ma si fa riferimento anche al re degli hausa (Maupoil 1943:482). 17. Si può trovare un ritratto di Abla Meji su internet, sempre sul sito www.journal. vodoo-benin.info, a cui collabora il suo adepto Eugène Koumagnon. 18. Conversazione con Abla Meji, Cotonou, Bénin, 11 dicembre 2006. Egli raccontò una versione simile alla televisione, qualche settimana dopo il nostro incontro, in occasione di un dibattito televisivo su Golfe TV. 19. Conversazione con Abla Meji, Cotonou, Bénin, 11 dicembre 2006.

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in un recupero delle “connessioni” con l’Egitto tipiche anche dei discorsi afrocentrici. Adrien Awouekoun continuava il racconto sulle origini del tron: Molti anni fa il tron è comparso nuovamente in Ghana, in un villaggio, di cui non ricordo il nome, vicino a un grande fiume. Anche qui avevano lo stesso problema che a Medina: gli abitanti del villaggio potevano andare a prendere l’acqua solo una volta all’anno, dopo aver offerto in sacrificio al mostro acquatico una giovane, bella e vergine fanciulla. In quel periodo c’era la carestia, quindi il tron arrivò e uccise il caimano, salvando gli abitanti del villaggio dalla morte. Gli altri villaggi, invidiosi della fortuna del villaggio vicino, si unirono per catturare il tron e arrestarlo, così come avevano fatto con Gesù. Per ottenere il loro scopo utilizzarono la magia, trasformandosi in animali e cercando di sorprendere il tron. Ma lui, lo spirito, sapendo quello che stava per succedere, e non volendo essere catturato, si trasformò in roccia. In tal modo nessuno avrebbe potuto prenderlo. Da quel momento lo spirito rimase nella roccia, ed è per questo che, a fianco dell’altare, vi è sempre una roccia. Prima di diventare roccia scelse un assistente, una persona che lo potesse aiutare nella sua nuova condizione di pietra. L’assistente si chiamava Mama Seidou, che è un nome musulmano e infatti lo spirito era in parte musulmano. Lo spirito insegnò a Mama Seidou come comunicare con lui: bisognava battere sulla pietra, come ancora oggi si fa, per chiamare e parlare con lo spirito. Attraverso Mama Seidou il tron iniziò a diffondersi per la regione e raggiunse prima il Togo poi il Bénin.20

Durante una trasmissione televisiva, diffusa il 10 gennaio del 2006, in occasione della festa nazionale del vodu, uno degli ospiti presenti, houno del tron kpeto deka, collocava il tron all’epoca di Adamo ed Eva, nel paradiso terreste, tra i mille animali che popolavano allora la terra. Eva con il serpente avvolto attorno al corpo è una raffigurazione presente in alcuni altari e la si può trovare affiancata a Mami Wata, una divinità dell’acqua strettamente connessa a Dan, il serpente. La competizione, esistente oggi tra i differenti capi vodu, porta ad appropriazioni spesso fantasiose, che localmente sono talvolta giudicate eccessive o aberranti. Nondimeno esse esercitano un certo impatto sulla società. Un esempio è Saint Ahmed, houno di Gbangnito, località al confine con la Nigeria. Autoproclamatosi profeta, Saint Amhed ha avuto un discreto successo, soprattutto grazie ai giornali locali che nel dicembre 20. Conversazione con Adrien Awouekoun, Cotonou, Bénin, 30 luglio 2005.

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2005 gli avevano dedicato spazio, in concomitanza all’apertura del “Siege Mondial” del tron kpeto deka Saint Amhed, definendosi profeta e portatore di carismi puramente personali, non riconosceva le versioni diffuse e sottoscritte dalla maggior parte degli altri houno. Rivendicava piuttosto un dialogo diretto ed esclusivo con il tron, è lo Spirito Thron (sic) che mi ha dato e spiegato i segreti della religione in piena notte. Mi ha detto «ecco la religione che aiuterà il mondo a ricostituirsi. Perché c’è troppa sofferenza nel mondo». Ha aggiunto che la mia missione è di adoperarmi affinché l’uomo ritrovi la via della verità e della felicità. […] Tutto quello che faccio viene dallo Spirito Thron con cui sono in contatto permanente. […] Questa religione è nata con il mondo e contiene tutte le cose buone della terra. Ma nessuno l’ha saputo fino a quando lo Spirito mi ha parlato.21

Conformemente a molti suoi colleghi, per Saint Amhed il tron era un’entità superiore, aiutata nel suo lavoro dagli angeli, ma egli aggiungeva: «il Thron è uno spirito e non un Vaudou [sic] come la gente ha sempre creduto. Lui è all’inizio di tutte le cose sulla terra e tutto finirà con lui (è l’Alpha e l’Omega)».22 A capo di tutti gli angeli, Saint Amhed23 collocava il Metatron, un angelo di pelle bianca, la cui effige era quella della divinità indù, Shiva.24 Egli non aveva elaborato una narrazione mitologica, dato che il suo rapporto con il divino, con il tron, era frutto di una chiamata personale e di cui non poteva rivelare in alcun modo i dettagli. L’appropriazione di Shiva e dell’idea di Metatron è un esempio di «manipolazione delle rappresentazioni» (Bogumil Jewsiewicki 1995:335), il cui fine è quello di incorporare il potere magico e mistico delle immagini proprie ad altre religioni e a luoghi esotici e distanti. Per gli houno beninesi e soprattutto per quelli di Porto Novo, gli angeli sono una presenza importante e familiare, essendo fondamentali nella liturgia del Cristianesimo Celeste, nato proprio in questa città.25 Diversi houno, 21. Sossou S. “Entretien avec le prophéte Saint Amhed”, L’Action, 2 dicembre 2005. 22. Ibidem. 23. Conversazione con Saint Amehed, Gbamgnito, Porto Novo, Bénin, 9 dicembre 2005. 24. Shiva è spesso raffigurato negli altari di Mami Wata, come una delle divinità del suo pantheon. 25. Abla Meji, nel suo tempio, aveva realizzato un pannello sul quale vi era un elenco che illustrava l’associazione tra tron e angeli. Egli aveva scelto solo i nome degli angeli

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pur dichiarandosi nemici del Cristianesimo Celeste, ne hanno infatti acquisito alcune pratiche. L’adozione del Metatron è un ulteriore passo verso la contaminazione con le religioni monoteiste e apre un accesso verso i misteri della cabala e i saperi alchemici, che esercitano un forte fascino soprattutto tra i giovani frequentatori dei santuari del tron kpeta deka. Questi citavano come loro riferimenti alcuni film e diversi siti internet; la diffusione di una cultura popolare incentrata sulla cabala potrà in futuro aprire nuove strade e ulteriori approfondimenti mitici con le religioni universali. Prima di continuare l’analisi degli scivolamenti semantici e delle nuove pratiche che si stanno sviluppando attorno al tron kpeto deka, è utile contestualizzare il culto nel panorama politico beninese. Inizierò con la descrizione di un santuario del tron kpeto deka di Porto Novo. 4. Un santuario del tron kpeto deka: l’eclettismo di Cosme, houno a Porto Novo Incontrai houno Cosme Houndekon per la prima volta nel 2005. Cosme era un uomo alto, sempre elegante e con una leggera barba che gli circondava il volto. Era vestito con un ampio boubou bianco e attorno al suo collo brillava un grosso ciondolo dorato, raffigurante il simbolo del dollaro. Nonostante il suo abbigliamento dall’apparenza aggressiva, fu molto cordiale. Mi diede subito il suo biglietto da visita, dove a fianco di una sua foto in abiti tradizionali, si leggeva: medico tradizionale, veggente, presidente dipartimentale de l’Ouémé (per la congregazione nazionale del “Vaudou Thron”), capo quartiere. In occasione del nostro ultimo incontro, nel marzo del 2008, mi ricevette nella sede della società che aveva da poco aperto con i figli, poco lontano dal tempio. Cosme voleva condividere con me il suo successo e rimanemmo a chiacchierare nel suo ufficio, sulla cui porta campeggiava un cartello su cui si leggeva «Directeur General», e D.G. era l’appellativo con cui la gente nell’ufficio lo chiamava. Mi diede il suo nuovo biglietto da visita, dove appariva in giacca e cravatta e sotto il cui nome ora aveva fatto scrivere: «fondé de pouvoir». decaduti, cioè dei demoni: «Lucifer est Kunde; Belzebuth est Banguele; Astorod est Nana Ceria; Liciguge est Mossi; Satanachia est Nana Wango; Agaliarept est Bagnini; Fleurety est Surgu; Sargatanas est Cenghe; Nebiros est Koffi».

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In tre anni Cosme, nonostante tre mogli e i quindici figli, si era arricchito e, come mi spiegò, l’aver costruito la sede della società – un palazzo di tre piani completamente rivestito di piastrelle bianche – era una prova importante di quello che lui aveva ottenuto per la sua famiglia proprio grazie al tron. La società era un segno duraturo, che sarebbe rimasto anche dopo la sua morte. Il palazzo a tre piani era il simbolo del suo successo e della potenza del suo tron. Il santuario di Cosme è stato un buon punto di osservazione da cui cercare di comprendere le dinamiche interne al culto e a una parte della società di Porto Novo. Si trattava di un santuario relativamente piccolo ma che attraeva moltissimi fedeli, anche dalla vicina Nigeria. Durante il fine settimana, l’attesa nella sala esterna, simile alla sala d’attesa di un medico della mutua, era molto lunga. La stanza era ampia e la gente aspettava senza fretta, dormendo e chiacchierando. Era frequentato da molti giovani, forse anche perché i suoi figli ventenni lo aiutavano nello svolgimento dei rituali. Durante il periodo degli esami di baccalaureato, gli studenti arrivavano per chiedere aiuto al tron, lasciando sull’altare le loro penne Bic, all’interno delle quali riponevano dei foglietti su cui scrivevano le loro aspirazioni scolastiche; altri chiedevano la soluzione a problemi amorosi e altri ancora cercavano una risposta alla disoccupazione e alla precarietà oppure semplicemente «un modo per diventare ricchi». Da Cosme arrivavano anche vecchie signore assillate da malattie ambigue, possibili conseguenze di atti di stregoneria, persone affette da disagi psichici, bambini ammalati e donne che non riuscivano a portare a termine la gravidanza. Nella sala d’attesa, dove tutti si spogliavano per prepararsi ad entrare nel santuario, si susseguivano donne di successo cariche di gioielli, famiglie di contadini, giovani vestiti all’ultima moda hip-hop, donne maltrattate e soprattutto tantissimi bambini. Il santuario di Cosme era lontano dalle complesse, esotiche e affascinanti pratiche di altri altari vodu. I cellulari qui squillavano in continuazione; talvolta, durante la preghiera, i fedeli che dovevano rispondere alle domande di Cosme, usavano proprio il telefono per raccogliere le informazioni necessarie o per mettere in contatto un parente lontano con il sacerdote. I soldi erano centrali sia per i fedeli sia per Cosme, che non nascondeva affatto la necessità di presentarsi con somme consistenti. Un giorno espressi il mio stupore per le richieste, a mio parere eccessive, che aveva

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fatto a un suo cliente ed egli mi disse, senza apparente malizia: «il tron è forte e importate e quindi ha bisogno di tanti soldi». Da Cosme arrivavano anche fedeli appartenenti ad altre confessioni religiose, sette, chiese indipendenti, cattolici e adepti di altri vodu. Grazie al tron, mi veniva detto, si risolvono più in fretta i problemi, si possono porre domande semplici, come ad esempio quando partire per un viaggio, se fidarsi di un amico, come aumentare i clienti del proprio negozio o il numero di fedeli della propria chiesa. Ma si raggiunge il tron soprattutto come terapia preventiva, per essere protetti contro tutti i mali, visibili e invisibili e soprattutto contro gli attacchi della stregoneria. Gli uomini e le donne che passavano dal santuario di Cosme erano parte di un’umanità insicura e vulnerabile, che viveva le difficoltà e contraddizioni della società contemporanea. Buona parte dell’economia del paese si basa sulla vicinanza del “colosso” nigeriano ed è fondata, almeno nell’area costiera, essenzialmente sul commercio, sul contrabbando e sulle attività informali. Il prezzo dei trasporti e di molte merci, come il pane, fluttua in funzione della disponibilità di petrolio. Il petrolio arriva in Bénin, portato dai contrabbandieri che incessantemente attraverso la laguna trasportano illegalmente i bidoni, prima sulle spalle e sulla testa delle donne e poi a grappoli sui motorini, che poi si aggirano per la città come delle bombe, pronti ad esplodere al primo incidente. I taxi brousse, caricati all’inverosimile d’ogni tipo di merce, si muovono incessantemente attraverso i confini internazionali. Vestiti usati, polli congelati, pesce, frutta, verdura, prodotti per l’edilizia, pezzi di ricambio, tessuti, mais, igname, riso, macchine usate si spostano tra Nigeria, Bénin, Togo e Ghana. I commercianti sono alla continua ricerca del paese in cui le merci sono meno care, per acquistarle e poi rivenderle nel loro paese. I mercati vivono grazie allo scarto nei prezzi tra un paese e l’altro e la possibilità di guadagno dipende dalla conoscenza dei flussi economici, dall’offerta e dalla domanda di ciascun mercato. Aspettando che il taxi brousse parta, si ha la possibilità di acquistare di tutto: l’acqua, lo yogurt, un paio di scarpe, dei fiori di plastica, il pesce secco, il pane, CD musicali e video, un uovo sodo, un estintore o un’immagine sacra. Nuove attività si sviluppano, come i moto taxi – gli zemijan – grazie ai quali, gli abitanti delle città, soprattutto Cotonou, possono muoversi rapidamente nel traffico. Gli zemijan portano la gente al lavoro, al mercato, i bambini a scuola e rendono velocemente disponibili le merci, sfrecciando pericolosamente attraverso la città. Trasportano di tutto: lavagne, bare, pol-

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li e carichi di forme e dimensioni imprevedibili. In città ogni nuova attività ne induce altre: i venditori di camicie gialle per gli zemijan di Cotonou, gli accessori per i motorini e soprattutto i ristoranti ambulanti, che a bordo strada si devono occupare di nutrire tutti quelli che sulla strada passano la maggior parte della loro vita. L’illegalità delle attività che animano il paese non è semplicemente tollerata, ma accettata come parte integrante dell’economia dello Stato. Se il contrabbando di benzina cessasse, l’economia del Bénin, dicono in molti, crollerebbe. Le frontiere lasciano passare di tutto, fino ad arrivare al traffico di droga che giunge dal mare, per poi essere indirizzato, attraverso la laguna, verso l’interno del paese e quindi l’Europa. Dal mare arrivano poi gli scarti dell’Occidente: capi d’abbigliamento e automobili, ma anche elettrodomestici, giocattoli, biciclette e tutto ciò che la società europea getta. Gli abiti arrivano nei container, imballati, e poi resi disponibili in cumuli lungo le strade dell’enorme mercato di Missegbo, a Cotonou. Qui sono selezionati da differenti venditori: i vestiti di prima scelta finiscono nelle boutique che propongono capi alla moda e di buona qualità; c’è chi si specializza in scarpe per bambini, oppure in scarpe da ginnastica; alcuni riescono addirittura a vendere una sola marca come un venditore di Cotonou, specializzato in scarpe da ginnastica Converse. Altri comprano pochi capi e si aggirano per le strade in cerca di clienti; altri ancora scelgono quelli più economici e li portano nei mercati dei villaggi. L’economia beninese si fonda sulla creatività: ogni uomo e ogni donna deve inventarsi un lavoro e mai uno solo. La molteplicità e il sovrapporsi di possibilità, dalla vita economica a quella privata e religiosa, contribuiscono a costruire degli individui indubbiamente dotati di spirito di iniziativa, di molta fantasia e abituati a perdere tutto e a dover affrontare ogni giornata come una sfida per la sopravvivenza. Gli altari del tron kpeto deka sono in sintonia con questo mondo: sia da un punto di vista estetico, nel loro assemblaggio di oggetti, pratiche e simboli, sia nella facilità di accesso che offrono. Rispecchiano una società fluida, dinamica, aperta e priva di qualsiasi forma di tutela sociale. Il tron offre una facile protezione, risponde velocemente alle domande e inserisce l’individuo all’interno di una comunità, anch’essa aperta e poco esigente. «Il tron è per tutti», disponibile e tollerante, dato che le regole che impone ai suoi fedeli sono poche e semplici. Non chiede all’adepto di abbandonare altri culti o chiese – a esclusione della stregoneria – acco-

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gliendolo all’interno delle sue comunità. Il tron, soprattutto il kpeto deka, lascia liberi i propri fedeli, senza stringerli in una trama di paure e minacce latenti. Le relazioni sociali sono monetarizzate e quindi anch’esse apparentemente più libere. Gli houno del tron kpeto deka non chiedono molto tempo ai loro fedeli che partecipano in modo spesso frettoloso alle cerimonie, secondo orari precisi e prestabiliti. La generosità nell’offrire il proprio tempo o il proprio corpo alle divinità è stata barattata con il denaro. 5. Il contesto politico beninese La dinamica del culto tron kpeto deka in Bénin può essere meglio compresa se inserita all’interno del percorso storico e politico del paese Un’analisi sincronica tra Togo e Bénin, evidenzia come il particolare contesto politico postcoloniale beninese abbia contribuito alla creazione di un panorama religioso dinamico, all’interno del quale il tron ha trovato una posizione di spicco, proprio grazie ai suoi attributi eteronomi e alle sue rivendicazioni identitarie, che lo hanno ricondotto a un’idea di nord fluttuante e aperta a differenti stratificazioni semantiche e, infine, al processo di normalizzazione che i sacerdoti del tron hanno sostenuto. In Togo, dove il processo di rinnovamento della vita religiosa non è stato una priorità politica, il tron kpeto deka appare oggi mimetizzato e confuso tra gli altri culti vodu. Le manipolazioni della sfera religiosa volute dal presidente Gnassingbe Eyadéma, in carica dal 1967 al 2005, miravano a legittimare il suo potere personale e non divennero mai parte di un discorso di rinnovamento o democratizzazione del paese, come nel caso del Bénin. Non vi furono spinte politiche verso un cambiamento interno alla religione vodu, che mantenne quindi le sue ambiguità ontologiche. Il vodu risultò funzionale alle esigenze del presidente che, a seconda delle contingenze politiche, ne divenne alleato, trasformandosi in presidente “stregone”, oppure accanito oppositore (Brivio 2007). Eyadéma non sentì mai l’esigenza di smentire le voci che favoleggiavano circa le sue connessioni con la sfera dell’invisibile e con la stregoneria, incorporando senza timore l’ambigua logica dei vodu. Allo stesso tempo, quando lo ritenne necessario, mise in atto dure politiche di controllo e terrore nei confronti dei leader vodu. In altre parole, in Togo è mancata la fase politica, fondamentale invece in Bénin, mirante alla patrimonializzazione della cultura

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e della religione tradizionale, che ha consentito a molti sacerdoti vodu di entrare attivamente nel mondo della politica. In Togo, le politiche di conservazione del patrimonio tradizionale hanno iniziato a interessarsi al vodu solo a partire dal 2006.26 La politica postcoloniale beninese fu dominata, per circa trent’anni, dalla figura di Kérékou, il camaleonte.27 Egli fu infatti dittatore militare, dai primi anni Settanta fino alla fine degli anni Ottanta e poi presidente democraticamente eletto dal 1996 al 2006. Nel 1989, la crisi del regime Kérékou, che diede inizio al processo di democratizzazione, non fu dovuta solo al fallimento economico e politico del paese, ma anche alle crescenti voci che accusavano lui e alcuni suoi ministri di fare uso della stregoneria. Queste nascevano in un contesto sociale in forte crisi; la società civile chiedeva le dimissioni del governo militare di ispirazione marxista leninista. Nel 1990, dopo diversi mesi di proteste, conflitti e pressioni da parte dell’opposizione, Kérékou fu costretto a convocare una Conferenza Nazionale, che avvio il paese sulla strada del rinnovamento democratico.28 26. La più importante festa del sud del paese è Epe Ekpe (chiamata anche la festa della pietra), celebrata a Glidji, tra i guin mina, ha, soprattutto negli ultimi quindici anni, assunto il valore di forza antagonista e di resistenza rispetto al potere centrale di Eyadéma, che spesso cambiò il suo rapporto con la cultura vodu, da cui si allontanò negli ultimi anni della sua vita (Brivio 2007:212-220). L’attuale presidente, il figlio Fauré, partecipò alla festa del 2005, pochi mesi dopo la sua discussa elezione, in un clima di forte tensione, proprio per testimoniare il cambiamento di direzione della politica e la sua vicinanza alla gente del sud. Dal 2006 si celebra tra Glidji e Aneho una festa che, ispirandosi alla Festa del vodu beninese, è dedicata a tutte le divinità del paese: “Festival des Divinités Noires” e si vuole proporre come attrazione turistica e apertura verso la Diaspora. Nel sito dedicato al Festival si legge che lo scopo è quello di liberare il vodu dai pregiudizi che lo hanno confuso con pratiche di stregoneria o con «riti barbarici» e di affermare e accettare la cultura e l’identità che a questa religione sono legate (www. festivaldesdivinitesnoires.org). Come già successo in Bènin, anche qui si vuole definire il vodu come cultura nazionale e accogliere tutte le divinità del paese al suo interno. 27. Sulle ambiguità e i significati politici dell’appellativo camaleonte di veda Strandsbjerg (2005). 28. All’inizio degli anni Novanta François Mitterand, durante il summit franco-africano tenuto nel 1990 in Francia a La Baule, invitò gli africani di lingua francese ad aprirsi alla democrazia multipartitica. Seguendo una tendenza comune a tutta la regione, la popolazione si mobilitò a favore di un sistema democratico multipartitico, così come stava succedendo anche in Togo e in Camerun.

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6. La lotta contro il vodu Il regime di Kérékou ebbe inizio nell’ottobre del 1972, quando il triumvirato retto da Ahomadegbé, Maga e Apithy fu rovesciato da un colpo di stato. Kérékou era un militare, originario della regione somba, nel nord nel paese.. Tra il 1960 e il 1972, il Bénin aveva subito numerosi colpi di stato e si era susseguiti nove governi differenti. (Sulikowski 1993:382, Banégas 2003:44-46). Kérékou fece proprie istanze nazionalistiche e antimperialiste, proponendosi di sradicare il sistema politico vigente. L’assunzione di una dottrina marxista-leninista rappresentò una rottura totale con il passato regime coloniale e post-coloniale.29 Il paese cambiò nome e da Dahomey divenne Repubblica popolare del Bénin, governato dal partito unico PRPB (Parti de la révolution populaire du Bénin). Alla fine del 1975, Kérékou diede l’avvio alla lotta antifeudale cioè, come si leggeva su Ehuzu, l’organo di stampa del partito, alla «distruzione totale […] eliminazione completa […] della feudalità tradizionale e delle sue manifestazioni: feticismo, ciarlatanismo, conventi e tutte le pratiche retrograde e oscurantiste».30 Il bersaglio principale era proprio il vodu, che nei messaggi diffusi dai mezzi di comunicazione veniva sempre più assimilato alla stregoneria. Sempre sulle pagine di Ehuzu, il regime sancì il divieto di indire cerimonie ufficiali, l’abolizione dei cortei reali e l’interdizione dell’intronizzazione di nuovi re o capi religiosi. Inoltre: per scoraggiare le pratiche religiose retrograde, il feticismo e la stregoneria che sono gli alleati fedeli del feudalesimo, si ordina la soppressione del noviziato nei conventi: tutti quelli che sono rinchiusi in un convento devono essere liberati, […] è vietato bere il feticcio e si ordina l’eliminazione degli adepti della stregoneria e di tutti quelli che ne fanno uso […].31

Ben presto, sempre sulle pagine di Ehuzu, si iniziarono a leggere i risultati della campagna antifeudale. Centinaia di persone furono accusate, 29. Nonostante il regime si definisse marxista e adottasse un linguaggio appropriato all’ideologia, la Repubblica popolare del Bénin è generalmente considerata semplicemente una variante di un tipico sistema africano centralizzato e non un esperimento africano di un sistema politico di ispirazione marxista. Si trattò di un regime centralizzato e burocratico, mantenuto in vita al fine di assicurare l’autorità e il potere del presidente (Banégas 2003:5051). Si veda anche Allen (1992). 30. Ehuzu, 26 dicembre 1975, p. 6. 31. Ehuzu, 17 marzo 1976, p. 4.

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imprigionate e anche i grandi alberi, come l’iroko e il baobab, sospettati di ospitare i convegni notturni delle streghe, furono tagliati. Dotato di una reputazione d’inviolabilità fondata su circa un secolo di leggende saggiamente tenute vive, l’albero (un iroko) si è ritrovato al suolo come un arbusto inoffensivo. […] Sotto le ovazioni della popolazione accorsa per assistere all’avvenimento il grande albero dalle mille leggende è crollato alle 11 e 20 nel fracasso, portando via anche le ultime e magre speranze delle streghe di Djèrigbè e dintorni.32

La politica di Kérékou mirava a ridurre il potere dei capi religiosi e a diminuire le diseconomie tipiche delle cerimonie tradizionali. Lo stato ne fissò la durata massima, stabilì il numero di animali che potevano essere sacrificati e l’ammontare del denaro da spendere per le offerte alle divinità; tale politica fu applicata anche ai funerali, ai matrimoni e ai battesimi. Il mondo vodu resistette e non smise mai le proprie pratiche nell’ambito domestico, che scomparirono però dalla sfera pubblica. La caccia alle streghe ebbe d’altro canto un certo successo anche tra la popolazione, diventando uno strumento attraverso il quale regolare i conflitti familiari e generazionali (Sulikowski 1993:385; Tall 1995:197). Secondo un immaginario comune e condiviso, la reazione del mondo vodu non tardò a farsi sentire e nel 1976 iniziò una grave siccità. Il disastroso fenomeno atmosferico fu da tutti interpretato come una dimostrazione del potere dei vodu e dei vodunon, che reagivano contro i soprusi del potere, bloccando la pioggia (Sulikowski 1993:385). Aderendo, ben presto, alla medesima logica, le gerarchie politiche domandarono ai sacerdoti e ai féticheur, di arrestare il loro sabotaggio nei confronti dello Stato, diffondendo il sospetto che fossero stati assoldati dai vecchi uomini politici e dai nemici della rivoluzione.33 Oggi l’avvenimento è ricordato, nel sud del paese, come la vittoria del vodu su Kérékou. Effettivamente nel 1977 il regime si dichiarò neutrale nei confronti delle confessioni religiose, a patto che queste non ostacolassero il processo rivoluzionario.34 L’attenzione fu spostata contro le sette impor32. “Pour la liquidation totale des forces obscurantistes”, Ehzu, 6 settembre 1976, p. 4. 33. Ehuzu, 16 giugno 1976, p. 1. 34. La neutralità politica nei confronti delle confessioni religiose divenne un articolo della “Loi Fondamentale de la République Populaire du Bénin”. L’art. 12, punto1, sanciva: «l’appartenenza o la non appartenenza a una religione è una scelta individuale di fronte alla quale la Rivoluzione beninese mantiene una stretta neutralità». Al punto 2 si ricordava

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tate, d’ispirazione cristiana e anche contro la chiesa del Cristianesimo Celeste – nata in Bénin – che fu comunque messa al bando.35 Nel medesimo anno Kérékou fece direttamente appello ai capi religiosi e, riconoscendone il potere, chiese loro di collaborare alla costituzione di una commissione tecnica verso la quale indirizzare le forze invisibili e i “segreti” taumaturgici, che avrebbero potuto collaborare al successo della Rivoluzione, invocando soprattutto i poteri ancestrali e autoctoni.36 Questo momento cruciale segnò profondamente il mondo vodu, poiché implicitamente si chiedeva di creare una frattura interna che sancisse un confine tra il bene e il male, tra i féticheurs che guarivano e quelli che uccidevano. La figura del guaritore tradizionale, riabilitata nell’ambito della politica di recupero dei saperi endogeni legati alla medicina tradizionale, divenne l’espressione dell’emisfero positivo del vodu.37 Questi saperi furono collocati sotto il controllo del Ministero della Sanità Pubblica. La politica di quegli anni ebbe due principali conseguenze. Da un lato mise in luce la contraddizione insita nel regime stesso che, pur dichiarando guerra al “feudalesimo” del vodu, ne riconosceva il potere e quindi ne utilizzava, in modo occulto – durante la notte, secondo l’opinione popolare – gli strumenti (Sulikowski 1993:387). In secondo luogo, la dicotomia imposta tra forze del bene e del male, pur essendo ontologicamente estranea al vodu, ne condizionò i futuri discorsi, costringendo i suoi esponenti ad assumere, almeno pubblicamente, una posizione conforme alle richieste politiche. Kérékou nel 1979 nominò tre rappresentanti della religione “animista” e un rappresentante rispettivamente per la religione musulmana, protestante e cattolica all’interno dell’Assemblea Nazionale Rivoluzionaria.38 Ma comunque che «nessuno ha il diritto di pregare contro la Rivoluzione con il pretesto di difendere la propria religione» e al punto 3 si rimarcava la necessità della lotta antifeudale (Ehuzu, 29/30 agosto 1977). 35. La messa al bando rispondeva all’art. 12, punto 3 che sanciva: «Sono messe al bando tutte le pratiche oscurantiste, create dalla forse feudali per terrorizzare, opprimere e sfruttare le masse tramite la religione. La lotta antifuedale è un dovere rivoluzionario che lo Stato deve con determinazione perseguire» (Ehuzu, 29/30 agosto 1977). 36. «Voi che siete dei capi spirituali, i detentori dei poteri degli antenati, perché voi non siete dei seguaci delle religioni importate dall’Occidente o dall’Asia, voi dovete costituirvi come commissione tecnica per svelare alcuni dei vostri segreti a sostegno dell’interesse della rivoluzione» (citato in Sulikowski 1993:385-386). 37. Si veda Hountondji (1994:1-34). 38. L’Assemblea Nazionale Rivoluzionaria fu istituita, con il compito di governare il paese attraverso il suo presidente, in seguito alle legislative del novembre 1979, avvenute

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il dialogo, più personale, che Kérékou intrattenne con le forze dell’invisibile fu mediato soprattutto da marabutti stranieri, come ad esempio il maliano Mohammad Cissé, che fu direttamente coinvolto nel governo del paese (Strandsbjerg 2005:77). In Bénin, Kérékou rinsaldò il suo legame con Dagbo Houno – capo supremo del vodu – già convocato ai tempi della siccità, e con Yaountcha Gankpé, sacerdotessa di Shango, entrambi nominati rappresentanti all’Assemblea Nazionale. La sua politica camaleontica aveva abbandonato la lotta contro le forze feticiste e aveva iniziato a incorporare all’interno delle strutture del potere centrale gli esponenti del mondo vodu. In realtà, egli mantenne un rapporto ambivalente con esso, poiché solo una ristretta élite era stata integrata nelle gerarchie dello stato (Sulikowski 1993, Banégas 2003). Kérékou si era comunque definitivamente compromesso con le forze dell’invisibile e, nel momento della crisi economica e politica, questa alleanza fece emergere le proprie vulnerabilità. Secondo un modello diffuso nella seconda metà del Novecento in Africa (Geschiere 1995, Ellis-Ter Haare 2004, Bellagamba 2008), egli fu percepito come “vampiro”. Associato simbolicamente alla stregoneria, non riuscì a sostenere l’impatto delle nuove forze politiche emergenti. Con l’inizio degli anni Ottanta, Kérékou aveva incoraggiato la riattivazione delle autorità tradizionali e soprattutto della cultura – storia, danza, musica – tradizionale. Il processo parallelo di rinascita del vodu e della tradizione assunsero però una dimensione spettacolare con l’avviarsi del “rinnovamento democratico” e l’elezione alla Presidenza della Repubblica di Nicéphore Soglo nel 1991. Egli fu il vero promotore di un processo di “reinvenzione della tradizione”, che riattivò i titoli e le funzioni della regalità e incoraggiò il ritorno delle religioni tradizionali, in particolare del vodu, come soggetti della sfera pubblica. A partire dagli anni Novanta, la religione vodu e soprattutto i suoi rappresentanti ottennero un ruolo di rilievo nei discorsi e nelle pratiche della democrazia pluralista, in un processo che auspicava la «vodunisation della democrazia e la democratizzazione del vodu» (Banegas 2003:357). Soglo aprì le porte ai capitali stranieri e richiese il supporto del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, dove tra l’altro aveva lavorato in veste di funzionario. Il turismo culturale divenne un’importante sempre sotto il controllo del partito unico PRPB di Kérékou. Nel febbraio del 1980 l’Assemblea elesse Kérékou quale presidente, carica che sarà riconfermata nel 1984 e nel 1989.

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risorsa per lo sviluppo economico del paese. Con il supporto di differenti organizzazioni culturali internazionali, tra cui l’UNESCO, venne promossa la conservazione e promozione dei luoghi e della memoria della tratta atlantica degli schiavi.39 Il processo di recupero della storia della schiavitù, in atto in Africa Occidentale dai primi anni Novanta, portò, in Bénin, all’organizzazione di “Ouidah 92: 1er Festival Mondial des Arts et Cultures Vaudou” e al progetto per la costruzione della “Route de l’esclavage” (Bako-Arifari 2000, Araujo 2010:138-152), che ebbe inizio nel 1994. In quell’occasione si coniugò la memoria della schiavitù con il recupero della tradizione vodu, accorpandoli secondo un’idea di patrimonio “immateriale” e cercando di farne un fattore d’unificazione culturale tra Africa e Diaspora. In occasione del primo “Festival mondial des art et des cultures vodoun”, l’abbé Barthélémy Adoukonou fece un intervento dal titolo “Vodoun et democratie en contexte pluraliste”. La sua posizione è particolarmente interessante essendo Adoukonou un dirigente del movimento cattolico “Mèwihwendo – Sillon Noir – Mouvement african de recherche pour l’inculturation de la foi chrétienne”,40 interessato a un dialogo con la religione tradizionale. Tre erano gli aspetti del sapere che interessavano Adoukonou: etico morale, mistico ed epistemologico. La religione vodu aveva avuto nella storia due importanti funzioni: era stata un mezzo di resistenza all’alienazione della società contemporanea e uno strumento d’integrazione sociale. Il movimento, unendosi all’opinione condivisa dai più – anche al di fuori del movimento stesso – proponeva di distinguere il livello magico da quello religioso, pur riconoscendo anche al primo un sapere farmacopeico che poteva essere indagato e restituito alla scienza universale. Esso accusava chi cercava di porre una distinzione tra religioni autoctone e religioni importate, ricordando le molte affinità che esse condividevano e l’importanza invece di liberarsi delle pratiche di stregoneria.41 Nel 1993 si tenne per la prima volta il Festival vodu. Nel 1995 fu istituita la festa nazionale dei culti vodu, che si svolge, da allora, il 10 gennaio 39. Ephrcm Dossavi-Messy, “Le Président Soglo à l’UNESCO: M. Federico Mayor assure la jeune démocratie béninoise du soutien de son institution”, La Nation, 26 novembre 1991, p. 7. 40. Si tratta di un’associazione cattolica fondata, negli anni Settanta, al fine di riflettere sui temi dell’inculturazione. 41. “Vodun et democratie en contexte pluraliste”, La Nation, 18 febbraio 1993.

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di ogni anno. Il rinnovamento del vodu, voluto da Soglo, lo liberò, anche se solo parzialmente, dalle connotazioni che l’epoca di Kérékou gli aveva attribuito. 7. Verso la patrimonializzazione e democratizzazione del vodu Da un punto di vista politico, il vodu divenne un simbolo della cultura nazionale, consacrando il Bénin come “culla del vodu”. Fu istituito il CNCVB (Communauté nazionale du culte vodun du Bénin), che si cercò di gestire secondo i principi della nuova democrazia. Si addomesticò così la modernità, radicando il nuovo corso politico nella tradizione e nella religione, ma riconducendo, allo stesso tempo, il vodu a «valori universali di umanesimo e progresso» (Banégas 2003:360). La costruzione di quest’autorità, che doveva essere accettata a livello nazionale e internazionale, implicava che il vodu si liberasse di tutti i sospetti di complicità con la stregoneria. La volontà politica del governo e dei vodounon che furono parte di questo processo, immaginò quindi un vodu democratico, privo di eccessivi esoterismi, eticamente ed esteticamente accettabile. Sulla testata nazionale più diffusa, La Nation, si leggeva parte del discorso tenuto da un sacerdote di Heviossou, in occasione della sua intronizzazione: È necessario realizzare un ambiente favorevole alla riabilitazione dei valori ancestrali, alla valorizzazione del culto vodu il quale, per riuscire nella sua nuova missione, deve adattarsi alle leggi nella nuova società, cioè allo Stato di diritto. È quindi assolutamente necessario incoraggiare una nuova dinamica per i culti vodu al fine di liberarli dalle pratiche vergognose e opera di qualche incosciente, che ignora l’importanza, il posto e il ruolo, giocato dalla religione vodu nella nostra tradizione. Bisogna farli cambiare in modo che partecipino a loro modo al processo democratico. Ciò obbliga gli officianti della religione vodu a fare di tutto per spiegare cosa è e cosa non è il vodu, a ripensare alle vecchie pratiche poco ortodosse, in modo da ridare valore a tutti gli aspetti di questa religione, parte integrante della nostra cultura.42

La tradizione divenne quindi il garante del rinnovamento vodu, come risultava esplicito dalle parole del giornalista che continuava scrivendo: 42. Gnanvi, “Adapter le culte Hebiosso aux lois de la societé”, La Nation, 5 febbraio 1992.

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«dall’epoca del simposio di Ouidah, durante il quale è stato raccomandato d’adattare la religione vodu alle leggi della società contemporanea, le pratiche ancestrali ritornano in superficie».43 Le retoriche di chi partecipò al processo di rinnovamento del vodu ritornarono a un tema che già aveva agito all’interno dei discorsi sulla religione tradizionale, quello del monoteismo e dell’essenza prettamente spirituale della religione africana. Sempre su La Nation si leggeva: il Nero è monoteista come tutti gli altri uomini del mondo. Non ha conosciuto e non ha adorato che un solo Dio, l’essere supremo, Mahou in adja fon. […] Certamente la teologia vodu non è ancora totalmente pensata e scritta e neppure insegnata. Ma il Bénin dovrà fornirsi degli strumenti per fare una ricerca teologica sul vodu al fine di meglio rafforzare ciascun beninese e ciascun africano nel compito del progresso. E questo appuntamento con la storia rischia di essere rinviato perché il vodu non è solo apparenza, è mistico, filosofico, morale e regge l’organizzazione sociale. Non riducete quindi, nuovamente, il vodu alla nozione di feticcio.44

In occasione del “Symposium national à Ouidah sur le culte vodun”, svoltosi nel 1991, l’allora ministro ad interim della cultura, M. Vieyra, incitava i capi vodu a riflettere circa il modo attraverso cui potrete valorizzare la vostra religione facendola partecipare agli obiettivi concreti richiesti per lo sviluppo del nostro paese. A tal fine dovrete da principio circoscrivere le basi dottrinali di questa tradizione religiosa, uniformare le vostre opinioni su cosa sia il vodu […].45

La religione tradizionale, insomma, doveva diventare un patrimonio comprensibile, riproducibile e uniforme, da poter utilizzare per lo sviluppo del paese, attraverso l’accesso ai fondi degli enti internazionali; questo bene sarebbe stato condivisibile anche dalla Diaspora, in quando testimonianza di un passato comune. Soglo chiese ai capi vodu di organizzarsi in associazioni, secondo un modello già adottato dai guaritori. Ci si auspicava inoltre che guaritori e capi vodu potessero superare i conflitti che li dividevano. «Una differenza profonda oppone le due categorie di persone che si rifanno alla religio43. Ibidem. 44. Sodogandji, “Ouidah ’92” et la question Vodoun”, La Nation, 21 gennaio 1993. 45. Vieyra, “Symposium national à Ouidah sur le culte Vodoun. Retrouver le mode de redynamisation du culte vodoun”, La Nation, 29 maggio 1991.

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ne dei nostri antenati e alle virtù delle piante. Si tratta di una differenza d’identità, di rappresentazioni e di responsabilità».46 I due fronti dovevano confrontarsi per definire i rispettivi campi d’azione e superare una situazione di conflitto imputata alla politica del regime di Kérékou. Al di là delle retoriche di potere, l’ambiguità e la frammentarietà del vodu restavano caratteri non così facilmente normalizzabili; il vodu ha mantenuto intatto, sia nell’opinione dei beninesi sia nella pratica il suo potere ambivalente. Per molti rappresenta ancora un residuo del passato, una pratica da contadini, soprattutto per la sua materialità e corporeità troppo invasive. I fenomeni della trance, il sangue dei sacrifici e le scarificazioni sono da molti percepiti come una forma di arretratezza, sintetizzabile in una generica definizione di sporco e disordine. La stregoneria è universalmente temuta e condannata, anche se molti ammettono che in tutti i vodu vi sia un po’ di stregoneria. In molti santuari del gorovodu, che pur rappresenta una risposta più moderna e più “pulita” alle esigenze religiose della popolazione, esiste una stanza isolata ma collegata all’altare principale, in cui vengono accolti i “personaggi influenti”, che non vogliono essere visti mentre entrano in un santuario vodu. Allo stesso tempo, i rappresentati del vodu sono parte della società civile, sempre consultata dal governo e sono integrati nelle strutture nazionali e internazionali, come ad esempio l’Unesco e l’Unicef. La festa del vodu rimane un momento importante per tutti quelli che si riconoscono in questa religione e per chi cerca di inserirsi nei flussi economici internazionali. Il processo iniziato da Soglo è ancora in atto, nonostante esista il rifiuto, da parte di una fetta della popolazione, di riconoscersi personalmente nella pratica vodu. La sua patrimonializzazione, così come il tentativo di estrapolare un pensiero filosofico forte, sono entrambi processi che consentono a diversi intellettuali di allontanarsi dalla sua ancora troppo contaminante materialità. Già nel 1992, vi furono però delle voci dissonanti, come quella del filosofo beninese Paulin Hountondji, allora Ministro della cultura, che cercò di problematizzare la valorizzazione della cosiddetta religione tradizionale, mettendo in discussione la religione vodu in quanto portavoce della cultura beninese e terreno su cui far crescere la solidarietà con la Diaspora. 46. “Vers la mise sur pied d’une association des adeptes du culte vodoun”, La Nation, 22 giugno 1990.

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Il suo intervento,47 che s’inscriveva proprio in un dibattito sul rapporto tra Africa e Diaspora, mise in luce anche l’errato approccio alla religione e alla cultura che si stava adottando: …non bisogna congelare i culti. Ciò implicherebbe almeno due cose: dal punto di vista diacronico, riconoscere l’evoluzione di ogni cultura nel tempo, così come la sua dinamica interna ed evitare di fissarla a uno stadio determinato del suo sviluppo; dal punto di vista sincronico, riconoscere i differenti e complementari livelli, le tensioni interne, gli orientamenti a volte contraddittori di ciascuna cultura e non cedere alla tentazione di eliminarne mentalmente alcune a discapito di altre; complessivamente evitare di etichettare questa o quella cultura secondo dei termini che rifletterebbero solo una tappa particolare del suo sviluppo o ne rappresenterebbero solo uno dei tanti aspetti. Sotto questa prospettiva la nozione di “cultura vodu” diventa altamente problematica. Traduce un approccio riduzionista tanto della cultura haitiana che delle culture del Golfo del Bénin.48

La democratizzazione del vodu, da tutti auspicata, dimostrò da subito le sue contraddizioni.49 Le elezioni del presidente del CNCVB furono uno dei punti deboli del processo; Sossa Guédéhoungué fu eletto nel 1992 vincendo contro Daagbo Hunon, che aveva ereditato il titolo di “gran capo vodu” dai suoi antenati, ma non certo come capo di tutti i vodu, e che – bisogna ricordare – era stato negli anni politicamente rafforzato dall’alleanza con Kérékou. Daagbo Hunon, originario della città “ancestrale” di Ouidah non riconobbe mai il potere di Sossa, originario invece di un villaggio nella regione del fiume Mono; secondo molti, quest’ultimo non aveva le competenze necessarie, dato che non era un vero vodouno, ma piuttosto un guaritore che aveva acquisito i suoi poteri e i suoi vodu solo grazie ai soldi (Banégas 2003:363-368). Non era quindi legittimato dagli antenati. La disputa tra i due uomini non fu 47. L’intervento fu esposto, nel quadro delle commemorazioni per i cinquecento anni dalla sbarco di Cristoforo Colombo in America, a un colloquio internazionale, dal titolo “L’identité des peuples d’Amériques 500 ans aprés”, tenutosi nella Repubblica domenicana nel novembre del 1992. 48. Hountondji, “Non, les cultures du Bénin ne sont pas des cultures du vaudou”, La Nation, 27 novembre 1992. 49. In un articolo apparso su La Nation, 25 settembre 1992 si leggeva: «Nessun centro accetterà che un individuo detto “capo” si introduca per dare degli ordini, regolare le cerimonie, dato che non potrà conoscere i segreti dei rituali del vodu che lì si venera».

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mai risolta e, dopo la loro morte, il solco creato dai due contendenti si è ulteriormente approfondito. Dalla democratizzazione è derivata anche una frammentazione continua delle forme di rappresentanza: si è sviluppata la tendenza tra i capi vodu a creare associazioni sulla base della comunanza di divinità. Analogamente al moltiplicarsi di partiti politici, che stanno saturando l’arena politica beninese (alle legislative del 2007 se ne sono presentati 80), i leader vodu si disperdono, creando associazioni e ONG, oppure dissociandosi da ogni forma di rappresentanza e facendo riferimento solo ai propri adepti. L’idea di un’organizzazione nazionale è infatti antitetica alla natura stessa dei culti vodu, che si connotano per la loro eterogeneità e per il loro carattere locale. Il legame tra politica e vodu sembra oggi più superficiale e il potere appare meno malefico e spaventoso (Banégas 2003:421). I rappresentanti del vodu continuano però a interessarsi alla politica del paese e ad animare la società civile. Le posizioni acquisite, anche grazie ai processi di patrimonializzazione e di reinvenzione della tradizione, sono mantenute con tenacia e le lotte intestine per l’acquisizione di ruoli di potere continuano a essere spietate. Nel settembre del 2006 una delegazione di più di settecento dignitari e rappresentanti della religione tradizionale fu ricevuta dal presidente Yayi Boni, con lo scopo di dissipare i timori di chi lo accusava di voler accantonare «i valori della fede tradizionale».50 A capo della delegazione c’era Dah Gbediga, houno del tron kpeto deka e uomo di punta della religione tradizionale che, secondo molti, avrebbe attualmente più autorità dei rappresentanti del CNCVB.51 50. Dossou Hountondji, “Les principales composantes de la religion traditionnelle à l’audience du chef de l’Etat”, Djakpata, 11 settembre 2006. 51. Le cariche che Dah Gbediga ricopre sono paradigmatiche delle aspirazioni politiche nazionali e transnazionali di alcuni capi vodu e bene illustrano il risultato del processo di democratizzazione del vodu. Egli, tra gli altri, ricopre i seguenti incarichi: Ministre des Cultures Afro-Américaines au sein Conseil National des Rois du Bénin et du Conseil Supérieur de Rois d’Afrique; Secrétaire Permanent du Grand Conseil de la Religion Vodoun; Membre de la Commission Programmatique Mixte ONG-UNESCO; Porte-parole des Vodounnons du Bénin au sein du Mécanisme Africain d’Evaluation par les Pairs (MAEP/NAPAD); Membre du Conseil Consultatif des organisations de la Société Civile; Superviseur Spécial des Election Présidentielles 2006 au sein de la CENA; Président fondateur ONG Alafia Gbediga.

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8. Costruzione di un vodu moderno e monoteista Tre sono i temi principali che continuano ad agire nei discorsi oggi prodotti in Bénin attorno alla religione e alla tradizione: la necessità di purificare il vodu dalle contaminazioni con la stregoneria, aderendo quindi a una visione dicotomica della vita e della morale, la necessità di valorizzare e patrimonializzare il vodu, aprendolo a un orizzonte trasnazionale e la suddivisione tra vodu autoctoni, perché acquisibili solo attraverso il lignaggio d’appartenenza e vodu che si possono invece comprare. Quest’ultimo punto, benché spesso presente nei discorsi della gente del vodu, non ha costruito una stabile gerarchia di valori: sia perché i vodu “comprati” sono riusciti a ricostruire, come abbiamo visto, a loro volta una logica lignatica, sia perché i soldi hanno un valore che compete con quello degli antenati. La separazione che Kérékou contribuì a costruire tra vodu “buoni” e “cattivi”, rafforzata dai discorsi politici successivi, accrebbe il prestigio dei culti curativi, dei guaritori ed erboristi, consolidò ulteriormente il potere dell’oracolo Fa e i leader del gorovodu riuscirono in quegli anni a trovare un ruolo politico, che fino ad allora non avevano conquistato. In quanto culti antistregoneria furono, in generale, ignorati dal potere, che capì, mi disse Hilaire, il ruolo positivo che potevano giocare nella società e quindi li “lasciò in pace”. Durante la dittatura, il potere utilizzò ogni strumento a disposizione contro la stregoneria. Su Ehuzu del 1976 si leggeva: si è presa la decisione di combattere il feticismo, il ciarlatanismo,52 la stregoneria, insomma le forze che opprimono e sfruttano le masse laboriose delle nostre città e campagne. Il seminario raccomanda il censimento dei ciarlatani e dei guaritori tradizionali, in particolare quelli che possono agire contro la stregoneria al fine di identificare e neutralizzare le streghe, in collaborazione con i Comitati di lotta contro la stregoneria.53

I leader del tron, data la peculiarità curativa del culto, tentarono di inscriversi all’interno del sapere scientifico endogeno piuttosto che di quello esoterico. 52. Charlatan è la traduzione francese di bokono. Pur non avendo la medesima connotazione negativa che ha in italiano, conserva comunque, ancora oggi, un significato ambiguo. 53. “Bope engagè la lutte contre les forces obscurantistes”, Ehuzu, 16 febbraio 1976.

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La pratica rituale del tron kpeto deka risultò essere in sintonia soprattutto con le esigenze politiche di trasparenza, pulizia e modernità, avviate dal governo di Soglo. I discorsi prodotti sulla religione dei vodu divennero carichi d’implicazioni politiche e ideologiche. L’obiettivo era quello di creare un solido corpus teologico, paragonabile a quello delle religioni universali. In un articolo del 1998, su Progres, Julien Affondji, oggi braccio destro di Joseph Guendehou, houno di kpeto deka, ritornava sui temi del monoteismo e sulla omologia tra vodu e religione cristiana. In Bénin, il vodu rappresenta, per alcuni, Dio. Merita tutta l’adorazione riservata al Dio “bianco”. […] Il vodu ha un giorno dedicato, durante il quale nessuno lavora. Tra i vodounsi (sic) tutto è organizzato e strutturato come tra i cristiani. La gerarchia all’interno di questa religione è rispettata e non esistono “tormenti d’amore”. Perché non ama l’impudicizia. È salvatore e protettore. Secondo un vodouno che noi abbiamo contattato, il dio beninese è un dio che ha una forza attiva e a cui lui dedica una messa ogni otto giorni. Questo dio da figli alle donne sterili, salva i malati… ed è anche misericordioso.54

Affondji, ex seminarista, è oggi l’ispiratore ideologico di Guendehou e ardente sostenitore di un discorso di rivalsa nei confronti dei missionari cristiani, colpevoli di avere affossato i saperi teologici endogeni. Toussaint Tchitchi (1996), professore universitario ed ex ministro dell’informazione e della comunicazione, scriveva su La Nation: per comprendere e interpretare il fenomeno del voju,55 bisogna non solo fare riferimento alla Bibbia, ma anche accettare di decolonizzare alcuni dei nostri concetti, di decolonizzarci noi stessi e gioire del fatto che Mawu è Unicità per tutte le culture. Nel momento in cui considero voju come un intermediario materiale attraverso cui accedere alla plenitudine divina, non sto profanando le sacre scritture; la chiesa cattolica ad esempio ha diversi santi che intercedono a favore dei credenti, presso la Vergine, presso suo figlio Gesù Cristo, […] questi illustri personaggi possono esistere anche nella nostra società se ci astraiamo dal preteso paganesimo, che l’ha caratterizzata e ancora la caratterizza.56

Tchichi suggeriva che i vodu dovessero essere considerati, al pari dei santi, degli intermediari verso il Dio unico. Ripensare al vodu significava 54. Affodji, “Cult au Vodoun, un cult eu “vrai dieu”, Progrés, 12 agosto 1998. 55. Con voju Tchitchi intende vodu. Per quanto a mia conoscenza è una trascrizione non adottata in altri testi. 56. Tchitchi, “Le vodun, les religions et Dieu», La Nation, 27 marzo 1996.

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valorizzare la cultura africana e, abbandonando gli ingannevoli concetti di paganesimo e di politeismo, riconoscere la sintonia con le religioni universali, nonché l’opera di svilimento portata avanti dai colonizzatori. Egli continuava: voi avete ancora il ricordo dei due significati di questa missione (si riferisce alla missione salvifica dell’Europa): la Bibbia in una mano, il bastone nell’altra, per rendere l’uomo flessibile, dominare e battere con colpi mortali la sua cultura; da quell’epoca, i nostri cumuli di terra, i nostri iroko, i nostri pitoni che non sono altro che intermediari materializzati della nostra fede religiosa, partecipano ormai dell’opinione degli europei e di quelli che sposano la loro tesi, che si tratti di un politeismo aberrante perché ignorano il ruolo e la posizione di ciascuna immagine nella manifestazione della credenza religiosa nel nostro ambiente culturale.57

Partendo dall’ipotesi che il vodu non fosse altro che un intermediario verso Dio, creato dagli antenati per sopperire alla loro incapacità di addomesticare certi fenomeni naturali e per rispondere al loro desiderio di comunicare con Dio, allora il vodu diventava un fenomeno in qualche misura accettabile. secondo noi la connotazione religiosa che possiamo leggere attraverso il voju non è certo cosa malvagia; ciò che bisogna temere è il cattivo uso che l’uomo può fare degli oggetti naturali trasformando i doni che Dio gli ha lasciato per orientarli verso delle azioni malefiche; questo sembra essere dominante nella pratica voju, ma noi siamo tutti parte della natura umana e il nostro mondo è manicheista. Se l’uomo avesse saputo gioire della sua libertà e dei doni naturali che Dio gli ha accordato per fare del bene, se l’uomo avesse saputo addomesticare la natura e interpretare i fenomeni che in essa si manifestano, la questione dei vodu farebbe parte di una storia lontana; se la colloco tra il numero dei miti moderni è perché sono persuaso che svela una condizione culturale, che partecipa di una reazione passiva contro le aggressioni culturali che il nostro popolo ha subito.58

Tutti gli ordini vodu hanno cercato di adeguarsi, almeno a livello ufficiale, ai suggerimenti della politica nazionale, ma sicuramente il tron kpeto deka è stato in grado più di altri di recepirne le indicazioni morali. Le tracce lasciate dall’incontro con le religioni universali consentirono di enfatizzare il discorso monoteistico e di costruire una retorica incentrata 57. Ibidem. 58. Ibidem.

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sulla pulizia e la purezza, da contrapporre allo sporco e al disordine degli altri vodu. Un’affermazione condivisa da molti fedeli, nel definire il tron kpeto deka è proprio: «le tron est un vodu propre». La “pulizia” si affianca poi all’idea di modernità. Come già evidenziato, il tron kpeto deka, si può acquistare e installare nella propria abitazione, vi si accede tramite un processo di iniziazione estremamente veloce e semplice, non prevede la pratica delle scarificazioni, non provoca fenomeni di possessione, esegue i sacrifici animali all’esterno dell’altare, in modo da preservarne la pulizia e la loro carne non viene consumata dagli uomini; la sua corporeità è molto blanda e le danze eseguono solo movimenti lenti e controllati. Il tron Alafia viene apprezzato perché mantiene composto e pulito il corpo dei suoi fedeli. Queste considerazioni sono valide per il tron kpeto deka, sia in Togo sia in Bénin. Ma, se in Togo la pratica e i discorsi elaborati sono restati omogenei e probabilmente conformi alle indicazioni dei primi fondatori, in Bénin il processo di reinvenzione è stato particolarmente fertile. Il percorso storico e politico del paese ha infatti catalizzato le molte “anomalie” oggi riscontrabili nella pratica del culto. Una delle principali anomalie del tron kpeto deka è stata l’introduzione, da parte di alcuni houno, della “messa” domenicale, secondo il nome da loro stessi attribuito alla cerimonia, mimesi della messa cattolica. Secondo una logica propria del discorso profetico, Joseph Guendehou, fondatore della “Eglise du thron”, sosteneva di aver avuto questo suggerimento in sogno dal tron stesso. Secondo altri, come Koumagnon Sénan Affomaussodaukpon, houno di Porto Novo, la messa è stata introdotta,59 molto pragmaticamente, perché «la gente ama stare assieme, ritrovarsi per fare delle cose all’interno di una comunità e quindi, per contrastare le chiese che continuano a rubare fedeli, era necessario introdurre questa novità!».60 Si è trattato quindi di una scelta fatta per cercare di rispondere alla concorrenza delle religioni monoteiste e adeguarsi alla situazione storica contingente.61 59. La messa sarebbe stata introdotta da houno Tchiakpe di Gakpé, vicino a Ouidah. 60. Conversazione con Koumagnon Sénan Affomaussodaukpon, Dowa, Portonovo, Bénin, 23 ottobre, 2005. 61. Anche la prossimità e l’antagonismo della chiesa del Cristianesimo Celeste hanno influenzato la pratica del tron kpeto deka. È stata introdotta, ad esempio, una celebrazioni in occasione della notte del 24 dicembre, vigilia di Natale, giorno del grande raduno dei fedeli del Cristianesimo Celeste. Alcuni altari celebrano una messa speciale, altri, come Cosme, organizzano una processione che si muove per le strade di Porto Novo.

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Il mimetismo che i leader del tron hanno avviato – «facendo come quelli della chiesa» – non va quindi letto come una forma di sincretismo quanto, piuttosto, una presa di coscienza della forte competizione con le altre religioni. Il mimetismo è portato alle estreme conseguenze e la liturgia cattolica riprodotta in modo abbastanza preciso. La teatralità della messa è rispettata, ma al posto dell’ostia i sacerdoti spezzano e distribuiscono tra i fedeli la noce di cola; l’acqua santa è stata sostituita dall’acqua del tron, arricchita d’erbe medicinali e poi, chiaramente, si cantano le gesta di Kunde e di Aberewa e non quelle di Gesù Cristo. L’introduzione della messa non impedisce ad alcuni fedeli di rispettare anche il Ramadan e ad alcuni santuari di restare chiusi fino al tramonto, durante il mese di digiuno, o di festeggiare la cerimonia del sacrificio (Tabaski). Le incorporazioni, che il culto elabora, sono continue e sintomo di una forte vitalità. Si passa dal cattolicesimo, al Cristianesimo Celeste, all’Islam con molta libertà, affiancando le immagini di Gesù Cristo a quelle della preghiera alla Mecca, i segni della cabala alle scritte arabe, Mami Wata a Eva. Le foto o i ritratti dei fondatori possono, come nell’altare di Cosme, essere appesi a fianco della foto di Gheddafi, scelto perché ritenuto un esponente di successo del mondo islamico. La frammentazione, peculiare di tutti i vodu, è qui esasperata e i cambiamenti avvengono con una velocità e frequenza non percepibile altrove. Il tron è una divinità divoratrice e attenta al mondo che la circonda, pronta ad appropriarsi di segni, pratiche e discorsi che circolano nella società contemporanea. I profumi e le candele grazie alla loro ineffabile materialità, meglio rispondono alle richieste di spiritualità e contribuiscono a confermare un discorso, che sembra voler nascondere l’odore di sangue che continua a permeare questi altari, come a coprire con un velo, il caos e la materia che agisce sotto il vodu, nel livello sotterraneo da cui ancora scaturisce la forza della divinità. Per gli houno del tron kpeto deka, modernizzare il culto significa renderlo più consono alle esigenze della società contemporanea e proporre un modello che, prossimo a quello delle chiese universali (quelle pentecostali in particolare) si distanzi dai culti tradizionali. Al contempo per accedere ai flussi economici e politici che la patrimonializzazione della cultura, basata proprio sull’idea di recupero e conservazione della cultura tradizionale, essi cercano di affiancare e coniugare la retorica della modernità a quella del sapere endogeno. Guendehou è un ottimo esempio di questa doppia attitudine. Si propone come innovatore e fondatore della chiesa del tron, ma integra nel

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suo grande santuario – che ha effettivamente le dimensioni di una chiesa – il culto di alcuni vodu “ancestrali”, i cui altari sono esposti secondo una logica museale. Sono raggruppati in un’area della chiesa e al di sopra di ognuno di essi, vi è un cartello che ne indica il nome. Un altro cartello informa circa le date d’acquisizione di ciascun vodu, un altro la strada da seguire per raggiungere l’altare di Mami Wata – «chez Mami Wata» – o degli Aziza – «chez Aziza» –, o gli orari in cui si può consultare Fa o un lungo elenco di tutti i vodu posseduti da Guendehou. Molte sono le frasi scritte sui muri a beneficio dei fedeli e dei visitatori, che invitano a essere orgogliosi delle proprie origini africane e dell’essere beninese, e fedele vodu. Guendehou, in perfetta sintonia con le indicazioni della società beninese è socio della ONG chiamata Pro.me.tra – “Promotion de la médicine traditionnelle” – che ha sede a Dakar ed è dedicata proprio alla valorizzazione dei saperi della medicina tradizionale locale. I discorsi politici e le retoriche di potere si situano a un livello distante rispetto a quello della pratica quotidiana di chi vive il culto. Vediamo ora come l’innovazione religiosa e il processo di normalizzazione auspicato hanno agito sui soggetti religiosi. 9. Innovazione religiosa e individualizzazione Secondo Emmanuelle Kadya Tall (1995), il tron kpeto deka si rivolgerebbe a una nicchia sociale di “nuovi ricchi”, commercianti di successo e imprenditori che trovano in questo culto ideali più consoni alla loro condizione sociale e alle loro aspettative individuali. Tall lo contrappone al tron kpeto ve, descritto invece come il ricettacolo dei marginali e delle classi sociali più sfavorite. Nel Bénin contemporaneo è difficile immaginare una suddivisione di questo tipo e soprattutto identificare il tron kpeto ve come il culto dei disagiati e disperati. Sicuramente il tron kpeto deka, grazie al suo linguaggio semplificato, attrae molte persone scolarizzate, molti ricchi e soprattutto giovani. La libertà con cui i beninesi si avvicinano ai vodu e con cui confrontano e valutano i poteri dei differenti sacerdoti non consente, a mio parere, nette distinzioni sociali tra i fedeli e associazioni deterministiche tra categoria di vodu e provenienza sociale. La libertà di scelta è la medesima con cui gli uomini e le donne si muovono nella società, si inventano nuovi lavori e si spostano appunto tra le differenti offerte religiose.

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Ciò non toglie che il tron kpeto deka, in Bénin, sia l’espressione e il sintomo di una società dinamica e che sta dando sempre maggiore importanza alla riuscita personale, al successo e all’arricchimento. Si tratta di un processo il cui inizio non deve però essere individuato esclusivamente nell’epoca coloniale. Gli espliciti riferimenti alla savana, percorsa in passato dai mercanti musulmani, sono a tal riguardo particolarmente pertinenti. L’Islam aveva infatti introdotto le condizioni per lo sviluppo di una «economia individualista di profitto» (Meillassoux 1986:241). L’Islam continua oggi a veicolare valori di ricchezza e successo individuale, rappresentati ad esempio dagli aladji,62 nonché un’etica puritana che ha storicamente influenzato la società africana. Il culto sembra meglio rispecchiare, rispetto ad altri, il processo d’individualizzazione63 in atto: il desiderio di liberarsi di una società collettiva per passare a una società più incentrata sull’individuo. Come ricorda Fabio Viti (2007:190): «i giovani descolarizzati delle periferie urbane sono sempre più spesso tentati di sostituire i rapporti di parentela con forme liberamente contratte di solidarietà e cameratismo tra coetanei». La riuscita personale e parallelamente un’idea più individuale della sfortuna o della malattia sono in stretta relazione con le nuove forme di rappresentazione dell’individuo. Secondo Tall, vi è nel tron kpeto deka «una dimensione etica molto più importante che nei culti antichi, che conduce l’individuo a cercare nelle sue azioni la causa dei propri mali» (Tall 1995:809). Il rapporto tra divinità e uomini sarebbe definitivamente cambiato: se nei culti ancestrali vi era una totale depersonalizzazione dell’adepto, sancita dall’annullamento dell’individuo nella trance, ora durante la possessione emergerebbe un rapporto tutto personale e intimo tra individuo e divinità, dove quest’ultima diventa uno specchio dell’uomo (Tall 1995:819). Fu la trasformazione del modo di produzione, la scolarizzazione, la burocratizzazione e l’economia di mercato a dare, negli anni Cinquanta del Novecento, nuovo spazio a quei giovani che erano stati scartati dalle 62. Aladji è il nome dato al fedele musulmano che ha effettuato il pellegrinaggio alla Mecca. Nel linguaggio comune è sinonimo di uomo d’affari, ricco, intraprendente e un po’ spregiudicato. 63. Il rapporto di dipendenza familiare e comunitario implica una sovradeterminazione dei ruoli individuali a favore di quelli collettivi. Esistono però delle vie alternative, praticate dai giovani, esprimibili ad esempio nei progetti migratori o nella scelta di aderire a forme di solidarietà differenti, tra cui anche quelle religiose (Viti 2007, Marie 1997).

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strutture del sistema sociale tradizionale e che trovarono nel gorovodu una forma religiosa più consona alle loro esigenze: la “monolatria” (di fatto propria solo al tron kpeto deka) consentiva un approccio più diretto e personale al sacro e una riduzione del sistema interpretativo simbolico (Tall 1995:809). La storia di Adrien Awouekoun, che installò il tron kpeto deka nella sua abitazione negli anni Ottanta, rispecchia il ritratto tracciato da Tall del fedele del tron alla ricerca di una dimensione religiosa privata. Adrien è a capo di un altare familiare, frequentato anche da vicini e amici. Si era avvicinato al tron per problemi connessi alla stregoneria: ero perseguitato dalla stregoneria che ha iniziato ad accanirsi contro di me a causa di mia zia. Da piccolo ero il suo preferito e crescendo abbiamo mantenuto un buon rapporto, ma la zia non aveva figli. Probabilmente a causa di questo problema fu convinta da qualcuno a unirsi alla stregoneria. Le avevano promesso la soluzione del suo problema. È possibile che loro le abbiano chiesto di portare me come sacrificio per i loro banchetti, forse proprio perché ero il nipote preferito. La stregoneria si nutre di carne umana. Grazie al tron sono riuscito a sconfiggere questa forza e a salvarmi dalla morte. Da allora la mia vita è sempre andata per il meglio. Ho insegnato per anni e ora sono diventato preside, ho sette figli maschi e una femmina e tutti i miei figli sono in buona salute, hanno studiato e ora hanno un lavoro. Il tron vuole che i suoi adepti abbiano successo, che studino, che abbiano un buon impiego e li aiuta a raggiungere questi obiettivi.64

La dinamica religiosa verso l’individualizzazione non è però un fenomeno nuovo in Bénin. La divinazione di Fa aveva già introdotto una visione religiosa più intima, consentendo infatti di interrogare direttamente le divinità e aiutando l’uomo a tracciare il proprio percorso individuale che, pur connesso alle strutture di lignaggio e alla volontà dei vodu, lasciava un importante spazio di negoziazione personale. D’altre parte, Fa era impregnato da un’etica più incentrata sull’individuo e sulla riuscita personale, spesso anche a discapito degli interessi della comunità e della famiglia allargata.65 64. Conversazione con Adrien Awouekoun, Cotonou, Bénin, 30 agosto 2005. 65. Nel 1911 Le Herisse definì sia Fa, sia il vodu Da, culti individuali, perché erano culti che creavano una relazione esclusiva con il fedele (1911:137). Maupoil (1943:17) scriveva: «Fa, più dei capricciosi vodu dei culti pubblici, soddisfa l’uomo nel suo bisogno di sicurezza, di certezza. Diviene, come un antenato, un intimo testimone dell’uomo che lo possiede. […] Si può in effetti ammettere che se Fa è la risposta, il messaggio del creatore

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Il discorso individualizzante dei nuovi culti contribuisce sia ad affermare la responsabilità personale sia a «sfumare i contorni dell’individuo» (Banégas 2003:378). La stregoneria, come linguaggio della modernità, è portatrice di una ambivalenza che se da un lato mette l’accento sulla volontarietà dell’azione umana, dall’altro rende invisibili le azioni umane, dissolvendone ogni responsabilità. La stregoneria, infatti, come i nuovi vodu, può essere acquistata; si tratta quindi di una scelta individuale e consapevole e, anche nel caso in qui venga eredita o acquisita inconsapevolmente, comporta «una personalizzazione dell’universo» (Geschiere 1995:32), cioè l’interpretazione di ogni disastro naturale o fenomeno accidentale come frutto della volontà di uno o più individui. Al contempo, la stregoneria si astrae dal singolo individuo e agendo sempre di nascosto e di notte, occulta i responsabili, dissimulando la realtà. L’unica soluzione sono le ordalie e i culti antistregoneria, che soli sono in grado di trovare un nome al colpevole. Fu ciò che successe in epoca coloniale, ad esempio, ma oggi i nuovi culti vodu, pur assicurando protezione contro la stregoneria, raramente si concentrano su un singolo individuo, combattendo piuttosto contro un’entità dai contorni sfumati e ancora impersonali. Il male dunque si diffonde, rendendosi meno identificabile e le comunità si atomizzano alla ricerca di una risposta individuale. Infine il processo di spiritualizzazione e interiorizzazione, proprio ad esempio alla modernizzazione della morale cristiana, non appartiene a queste forme religiose, in cui la salvezza e la confessione non sono questioni interiori di buone o cattive intenzioni, ma dipendono ancora da fattori esterni alla volontà individuale: gelosia, invidia, trasgressione dei tabù, rabbia degli dei o degli antenati. Le “colpe”, come la centralità del sacrificio testimonia, non sono risolvibili attraverso un’espiazione intima e tutta personale. La morale sottesa al tron non è di molto differente da quella vodu, dato che l’opposizione dicotomica tra bene e male, sembra restare solo in superficie, senza riuscire a scalfire le ambiguità e doppiezze che gli esseri invisibili, così come gli uomini, continuano a incarnare. Penetrando la superficie dei discorsi condivisi e ripetuti dai leader del tron, si percepisce quanto la sfera del sacro sia fortemente contaminata di morte e pericolo e i suoi toni non siano poi così luminosi. Il vodu quindi, come entità ambigua, frammentata e plastica continua ad agire e a essere il motore della pratica e dei sentimenti di questo sentire religioso. a ciascun essere, c’è motivo di vedere, nell’insieme delle conoscenze e del rituale di Fa, un aspetto individualizzato del culto del grande dio».

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L’asserzione di Augé ([1982] 2002:68), secondo cui, «nessun politeismo esalta l’amore di Dio o quello del prossimo» è sicuramente ancora applicabile; l’idea di peccato, in senso cristiano, è assente, mentre esiste l’errore. Astenersi da fare del male al prossimo, può essere un buon proposito, non tanto per un imperativo morale dettato dalle divinità, quanto per il timore della vendetta di altre divinità, eventualmente più potenti. Il “genio del paganesimo” è in tal senso ancora in azione e proprio grazie alla sua tolleranza, apertura e voracità ha fatto propri, oltre ad alcuni paradigmi tipici delle religioni universali, anche quelli della società occidentale e del suo bagaglio di “modernità”. Non è stato un processo di improvvisa rottura, ma di lenta accumulazione e sedimentazione di pratiche e significati. I culti nati dal gorovodu nonostante le loro aspirazioni di modernità non hanno prodotto una religione completamente interiorizzata, una separazione totale dell’individuo dal suo contesto sociale o dalla necessità di confrontarsi con gli altri. Attraverso un linguaggio e una forma in parte innovata, il culto è un ibrido che, grazie ai suoi riti collettivi, ha lo scopo di curare l’individuo dalle miserie della vita umana, continuando a mantenere un valore sociale e collettivo importante. Se i culti, in sintonia con la società, esaltano il successo, la ricchezza e la riuscita personale, ciò non toglie che collaborino a creare una comunità morale che condivide speranze e aspettative e che trova, nell’adesione al culto, una risposta alle insicurezze e alle paure contemporanee. Michel, un ragazzo che avrebbe dovuto sostenere l’esame di baccalaureato e per tale motivo si era rivolto al tron kpeto deka, mi raccontò: sono entrato nel tron da alcuni anni e da allora la mia vita è cambiata. Sono orfano di padre e figlio unico, e ora vivo a Porto Novo, perché il mio paese, dove vive mia madre è più a nord, al confine con la Nigeria. La mia vita all’inizio è stata solitaria, terribile e deprimente, e non riuscivo più ad uscire di casa. Non mangiavo, non mi vestivo, non facevo più nulla perché ero disperato. Da quando ho iniziato a venire qui i miei problemi sono scomparsi. Ora non ho più paura, esco di casa, ho degli amici, ho dei soldi e studio. Mi sento protetto e affronto le cose con coraggio, perché so che nulla mi può succedere. Grazie al tron ho scoperto anche chi era la causa del mio male. Il tron, la prima volta mi chiese infatti se c’era qualcuno che mi voleva del male, non sapevo cosa rispondere, perché ero convinto che nessuno me ne volesse. Invece scoprii che la causa era un mio parente, al villaggio. Quando mio padre morì, lasciò un fucile, che prestai a questo parente. Un giorno ritornai per chiedere che mi venisse restituito il fucile, ma lui si rifiutò e da allora iniziò a trattarmi sempre male. Il tron mi disse di andare, senza esitazione, a

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riprendermi il fucile. Così feci e mi fu restituito senza problemi e da allora il mio parente è particolarmente gentile con me, e quando mi vede passare in strada, mi chiama per scambiare due parole.66

Questa narrazione mette in luce come il processo di emancipazione dai rapporti di dipendenza familiare possa essere percepito e vissuto come un’esperienza drammatica. Spesso si tratta di «individualizzazione di necessità» (Viti 2007:127), dato che nelle situazioni di crisi, proprio quando la solidarietà sarebbe più indispensabile, questa rischia invece di diventare un lusso, inaccessibile alle classi meno favorite. 10. Processi di normalizzazione all’interno del tron kpeto deka Secondo Foucault (1975:201), nel processo di normalizzazione, ai segni che traducevano status, privilegi, appartenenze, si tende a sostituire o per lo meno ad aggiungere, tutto un gioco di gradi di normalità, che sono segni di appartenenza a un corpo sociale omogeneo, ma che contengono un ruolo di classificazione, di gerarchizzazione, di distribuzione nei ranghi. Da una parte, il potere di normalizzazione costringe all’omogeneità, ma dall’altra individualizza permettendo di misurare gli scarti, di determinare i livelli, di fissare le specialità e di rendere le differenze utili, adattandole le une alle altre.

Foucault indagava la genesi di un potere pervasivo, capace di nascondersi nella normalità e di riprodursi attraverso il discorso. Laddove la violenta politica di Kérékou aveva in parte fallito, perché di fronte alla distruzione degli altari e all’imprigionamento di alcuni leader vodu, vi era stata una reazione visibile, che con i mezzi a disposizione aveva cercato di opporsi al potere centrale, a partire dall’epoca di Soglo, il vodu è restato imbrigliato in un dispositivo politico che agisce in modo silenzioso attraverso una pervasiva retorica incentrata sulla modernità, la pulizia, l’ordine e la visibilità. La normalizzazione individualizza, permettendo di misurare con più facilità le differenze tra gli individui che, più soli davanti alle divinità, si guardano l’un l’altro con diffidenza, nonostante l’apparente uniformità. Inoltre la semplificazione dei rituali, si pensi all’iniziazione, che nel tron dura un pomeriggio, mentre in alcuni vodu è ancora questione di anni, 66. Conversazione con Michel e Cosme Houndekon, Porto Novo 2, Bénin, 3 luglio 2005.

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implica inevitabilmente una perdita di parte del complesso culturale che si è sviluppato attorno al vodu. L’iniziazione è un periodo di formazione per l’acquisizione di conoscenze terapeutiche, l’apprendimento di canti, leggende, danze, tecniche corporee, oltre ai saperi esoterici e mistici. La velocizzazione dei tempi ha reso le conoscenze molto superficiali, liberando l’adepto da un legame totalizzante con la divinità. In ciò il tron kpeto deka è sicuramente all’avanguardia, essendo diventato una sorta di veloce antidoto – un’aspirina – contro tutti i mali. Le pratiche del tron kpeto deka, le danze composte e ripetitive, che vengono eseguite nelle cerimonie o durante le “messe” domenicali, sono semplici e non partecipano al progetto cognitivo che le cerimonie vodu, anche quelle del tron kpeto ve, ogni volta ripropongono. Il tentativo di normalizzazione, compiuto a tutti i livelli, implica l’eliminazione degli estremi, il contenimento degli eccessi, l’adeguamento a ruoli convenzionali e più facilmente accettabili. Si tratta di un dispositivo che agisce lentamente sul corpo del fedele, controllandolo e quindi impedendo le espressioni che eccedono dalla norma. Il corpo, soprattutto quello femminile, viene lentamente addomesticato e il sensuale incontro con il divino definitivamente escluso. La presenza femminile è sempre più reificata, assurgendo a simbolo di purezza o al contrario di contaminazione, ma perdendo parte delle sue potenzialità agentive. Nelle cerimonie del tron le bambine partecipano in veste di ancelle: portano le offerte, eseguono delle brevi danze di intrattenimento, cantano. Abitualmente nel vodu non esistono, tra gli adepti, differenziazioni di età. Non sono oggetto di particolare attenzione, perché elevate a simbolo di purezza e innocenza. Sono presenti solo ed esclusivamente se il vodu le ha scelte e portate all’interno del convento. Nel tron le ancelle sembrano voler riprodurre una scenografia che appartiene al mondo delle chiese o a quello televisivo; la presenza e i gesti delle bambine non hanno alcun altro significato se non quello coreografico. Il loro ruolo è sintomatico di un differente sguardo verso le donne, che in questo ordine sono marginalizzate. La purezza delle bambine contrasta con l’impurità della donna, che proprio nel momento dello sviluppo diventa contaminante e perciò escludibile dalle posizioni di comando. Definire chiaramente i ruoli dei soggetti coinvolti, aiuta l’ordine, il processo di pulizia e una gestione più lineare del potere. All’interno del ricco mondo vodu, vi è una divinità, chiamata Avlekete, un vodu legato a Heviossou, che può aiutare a comprendere la normalizzazione in atto nel

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tron kpeto deka. Avlekete è un vodu che incarna ed esplicita, attraverso il suo comportamento rituale, le ambivalenze della vita. Il suo fine è quello di dissacrare, mettere alla prova gli altri vodu e i loro adepti. Durante le cerimonie,67 gli adepti di Avlekete rompono la serietà e compostezza che le vodussi generalmente incorporano. Inseguono chi sta danzando, mimano in modo grottesco i movimenti degli adepti per suscitare l’ilarità degli astanti, si prendono gioco delle divinità, dei dignitari e degli altri adepti; si vestono di stracci, oppure con capi d’abbigliamento che appartengono ad altri contesti rituali o sociali: la giacca da uomo di foggia occidentale, il cappellino da basket, il boubou musulmano; possono presentarsi con un enorme peluche in testa o con un pene di legno tra le gambe, esibito con ironia e malizia. Avlekete mette in scena la trasgressione di tutti i confini, ha la forza e il dovere di mostrare la fallacia e inutilità delle distinzioni e delle classificazioni: non teme l’ira o la condanna degli altri perché è espressione di un’ambiguità ontologica. Non è certo il solo vodu che si esprime secondo questo linguaggio68 perché, in diversa misura l’ambiguità e la contraddizione sono proprie a tutti i vodu. Il disordine, le forze destrutturati, il caos ritualizzati sono forme che esprimono la logica «dell’inversione e della conversione dei contrari» (Balandier 1988:120) e agiscono a favore della continuità piuttosto che del caos, perché sottendono il desiderio di ordine ma lasciano comunque più spazio all’espressione dei singoli individui. Nel tron kpeto deka non vi sono momenti rituali in cui la violenza latente e le contraddizioni siano esplicitate e rese pubbliche. Le inquietudini e le ambiguità si stanno cancellando dal corpo dei fedeli anche se restano ancora alla base dell’agire delle divinità stesse. L’assenza della possessione sottende il desiderio di ordine, la paura di penetrare la superficie e di conoscere i tortuosi percorsi del mondo invisibile, dove maschile e femminile si fondono e il caos ancora agisce come elemento creatore. Il disordine viene allontanato, evitando anche di confrontarsi con la sua rituale e periodica apparizione. 67. Mi riferisco in particolare a una cerimonia a cui ho assistito nel marzo 2008 a Cotonou, nell’altare di houno Anani. 68. Si pensi ad esempio a Legba, il tricheur, l’ingannatore, che pur essendo il messaggero tra gli uomini e i vodu spesso ama confondere le parole e indicare cammini errati. Legba è associato ai luoghi di passaggio (soglie, incroci, spazi pubblici, come quello del mercato) e quindi al movimento. Legba si iscrive anche nella dimensione spaziale; essendo associato a Fa e alla divinazione è un legame tra passato, presente e futuro.

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11. La “messa del tron”: cambiamento o perdita? La messa del tron a fatica può essere inscritta nell’ambito estetico di una cerimonia vodu. Rappresenta il limite estremo delle innovazioni interne al vodu, espressione di ciò che alcuni, localmente, definiscono come un’aberrazione o semplicemente un modo per fare soldi, mentre altri, un tentativo necessario di modernizzare il vodu e creare momenti collettivi. La facilità di diffusione e fruizione, che contraddistingue il tron kpeto deka, evoca lo scenario della riproduzione seriale, priva di pathos, dove il fedele diventa un mero consumatore. Secondo Walter Benjamin (1936), la riproducibilità significava la fine dell’aura quindi di quella trama che connetteva lontananza, irripetibilità e durata, tipica delle opere d’arte tradizionali, a favore di una fruizione dell’arte basata sull’osservazione fugace e distratta. Era l’unicità della sua collocazione spazio-temporale, che conferiva all’opera d’arte autenticità e autorità, in quanto esempio “originale” e unico. Il discorso benjaminiano sulla fine dell’aura non è riconducibile a una forma di nostalgia del passato, bensì è un tentativo di individuare le potenzialità, ancora non del tutto esplicitate, della riproducibilità. Uno sguardo più pessimista e più coinvolto nei meccanismi capitalistici e di consumo della modernità, come quello di Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo (1944), avrebbe annullato qualsivoglia illusione sulle potenzialità democratiche della riproducibilità e del mercato culturale: «i prodotti dell’industria culturale possono contare di essere consumati anche in uno stato di distrazione. Ma ciascuno di essi è un modello del gigantesco meccanismo economico che tiene tutti sotto pressione fin dall’inizio, nel lavoro e nel riposo che gli assomiglia» (Adorno, Horkheimer [1944] 1966:134). Il tron kpeto deka sembra riproporre il medesimo interrogativo, autopresentandosi come strumento “democratico” e di massa per la lotta alla stregoneria – facile accesso ai misteri del vodu – ma in ciò perdendo la sua ricchezza e complessità. Ciò affievolisce la sua aura, il suo valore d’opera d’arte unica e porta quindi alla «svalutazione del suo hic et nunc». D’altro canto si apre la strada, sempre seguendo Benjamin (1936), a nuove possibilità e a maggiori implicazioni politiche, dato che «la tecnica della riproduzione […] sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione», la portata rivoluzionaria, catartica della riproducibilità si accompagna ineluttabilmente a «la liquidazione del valore tradizionale dell’eredità culturale» (Benjamin [1936] 1966:23).

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Il vodu, potremmo dire, si libera dalle gerarchie e dai fardelli delle forze “tradizionali”, rendendo le sfere del suo potere accessibili a un crescente numero di persone. Dal punto di vista degli adepti, il tron kpeto deka consente una maggiore libertà e un’utenza distratta, laddove i vodu classici, attraverso l’istituzione dei couvant e di una gerontocrazia molto rigida agivano e agiscono in modo coercitivo sull’individuo e sulla collettività. D’altra parte la nuova libertà, frutto della medesima incertezza, che il tron cerca di combattere, implica la diminuzione del valore antropopoietico dei rituali. Come sostenevano Adorno e Horkheimer ([1944] 1966:126) «la civiltà attuale conferisce a tutti i suoi prodotti un’aria di somiglianza», una razionalità e standardizzazione, che sottendono una diffusa capacità di dominio. La ripetizione e la facilità d’accesso al culto sembrano aver creato un appiattimento alla superficie e aver lasciato l’uomo più solo davanti alle divinità. La lenta “fuga dagli dei”, dalla simbiosi corporea con la violenza del sacro è un segno del percorso verso la “modernità” che la gente del tron kpeto deka ha accettato di intraprendere. I saperi legati ai vodu, denunciano gli anziani, stanno scomparendo. A giudizio di Hilaire Dohou, ad esempio, non esiste praticamente più nessuno che sappia «fare un tron» e, soprattutto nel campo del tron kpeto deka, vi è tantissima gente che fa «n’importe quoi». Non conoscono le erbe, non sanno interpretare Fa, non conoscono e non rispettano le interdizione, in altre parole «imbrogliano la gente». Per quanto riguarda il destino del tron kpeto ve, Hilaire Dohou si dimostrava preoccupato: Il problema è che la gente vuole vivere di quello (del tron) e non si preoccupa di cercare un lavoro. Il tron è qualche cosa che deve accompagnare la tua vita, ma devi fare altro per vivere. Negli anni ho cercato di portare avanti la mia battaglia, cercando di evitare che il tron si disgregasse in mille forme, ma poi ho dovuto smettere e lasciare la presidenza dell’Associazione, perché rischiavo di venire avvelenato: molti erano arrabbiati con me a causa della mia politica. Un altro problema è la trasmissione dei vodu dai padri ai figli; è stato un problema anche in passato, perché oggi, i figli che hanno ereditato i vodu, come ad esempio i figli di Kodjo Kuma, conoscono ben poco, spesso lo fanno solo per soldi e a volte non se ne vogliono più occupare, perché sono entrati nelle chiese. In questo modo, tutti i saperi relativi al kpeto ve si stanno perdendo e il tempio di Kpando stesso, che è un luogo sacro, perché è l’origine, non ha in realtà più molto da dire, nel senso che non ha memoria di ciò che è stato. Si sta perdendo la memoria.69 69. Conversazione con Hilaire Dohou, Godomey, Cotonou, Bénin, 14 dicembre 2005.

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I giudizi, sempre molto severi di Hilaire Dohou, sono parte di un sentire comune e diffuso tra molti in Bénin, soprattutto tra di difensori dei “saperi tradizionali” e tra gli anziani. Sono anche parte di un gioco di potere, attraverso il quale competere per la spartizione dei fedeli. Le strategie per sopravvivere nel “mercato” religioso sono molteplici, spesso spregiudicate, a volte disoneste, ma gli uomini e le donne che le mettono in atto continuano a posizionarsi, assieme alle divinità, al centro del loro universo discorsivo e a mantenersi in un difficile equilibrio tra i molti stimoli che percorrono la società contemporanea. Le pratiche del tron kpeto deka sono quindi il frutto di un percorso storico, politico e religioso, che ha indotto i leader e i fedeli a rivendicare l’esigenza della modernizzazione, proprio per non restare all’esterno di ciò che oggi, ai loro occhi, è la realtà. Nel tessere una fitta trama di riferimenti, che si estendono dall’Islam, al mondo cristiano e a quello induista, i fedeli del tron mostrano la loro capacità di agire e di dialogare con il mondo. Nonostante la gente del tron abbia elaborato una propria idea di “moderno”, non esiste una reale distinzione tra ciò che è moderno e ciò che è tradizionale, poiché in funzione delle esigenze e dei contesti, i due paradigmi si compenetrano, confondono e sostituiscono l’uno all’altro. Il successo che il gorovodu sta ottenendo negli ultimi anni dimostra il riemergere delle inquietudini nei confronti della stregoneria ma soprattutto la pertinenza di questo culto in un contesto politico e storico di auspicato rinnovamento. In un’epoca in cui il valore endogeno della cultura e del sapere sono enfatizzati dalle politiche della patrimonializzazione della tradizione, il gorovodu, quasi in controtendenza, allarga il suo spazio mitico fino a giungere a un nord sempre più distante. L’eteronomia resta un valore aggiunto, anche se deve essere bilanciato con l’idea di appartenenza, di tradizione e di radicamento. Introdurre la “messa” è una mossa azzardata, uno sbilanciamento forte, anche se consapevole, verso pratiche non propriamente tradizionali. Il mondo è in continuo cambiamento, in Africa come altrove, e la gente del vodu e del gorovodu cerca di dare un senso e trovare una posizione all’interno di questo universo fluido e competitivo. Durante il processo di cernita e di riposizionamento, alcuni elementi vanno inevitabilmente persi e alcuni cambiamenti appaiono più ineluttabili di altri. La presenza di musulmani nel luogo da cui le divinità del gorovodu furono prese, ne ha cambiato il corso, spingendole sempre più a nord, nel loro scendere verso sud. I vodu e gli uomini hanno interagito, modificandosi a vicenda. Gli houno

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del tron kpeto deka, come ad esempio Joseph Guendehou, hanno modificato il vodu e ne sono stati radicalmente trasformati, mentre gli houno del tron kpeto ve sono restati più conformi alle indicazioni dei loro fondatori e si sono meglio mimetizzati nel panorama vodu che li aveva accolti. Il differente percorso che i due ordini hanno seguito, soprattutto in Bénin, sembra ricordare che i cambiamenti non sono prevedibili e che la realtà si mantiene complessa e ricca di contraddizioni. Il vodu, nelle sue varie forme, continua a imporre all’uomo cruciali domande di tipo esistenziale, sociale e politico. Gli dei africani, come gli dei greci sono espressione di un pensiero circa l’ordine (o il disordine) del mondo e al contempo mezzi di azione sul mondo, possibilità per capire ed eventualmente «correggere» la storia (Augé [1982] 2002:115). Resta quindi da interrogarsi sul significato di questa modernità, rivendicata e desiderata dai fedeli stessi, così come da buona parte della popolazione. Una modernità che esprime in realtà il desiderio di entrare a far parte della classe dei privilegiati, interni ed esterni all’Africa e che, come sottolinea Ferguson (2005), oggi si cerca e si ottiene attraverso lo spostamento, agendo sulla dimensione spaziale piuttosto che su quella temporale. In Africa è finito il tempo dell’attesa a favore di quello dello spostamento, interno o esterno al continente. Il gorovodu, nei suoi due ordini realizza questo desiderio, almeno nella sfera mistica, e si appropria di spazi non concessi, distrugge le barriere e esce da un isolamento nel quale si vorrebbe rinchiudere il vodu e una certa concezione della tradizione.

Conclusioni

A conclusione di questo percorso, vorrei ritornare sul tema della “modernità” ed elaborare alcune considerazioni a tal riguardo. La capacità di inventare il nuovo, riformulare l’esistente, ibridizzare o meticciare gli oggetti e i corpi sono pratiche del vivere religioso e quotidiano di questa regione costiera dell’Africa occidentale. La religione come la strada, quel luogo caotico e rumoroso in cui si svolge gran parte della vita sociale dell’Africa contemporanea, sono laboratori di sperimentazione creativa e riformulazione di senso. Confronterò la nozione di modernità che i fedeli del gorovodu hanno fatto propria e utilizzano come concetto operativo con la modernità come paradigma analitico del pensiero critico occidentale, per mettere in luce i termini, apparentemente paradossali, grazie ai quali il vodu si può definire moderno. Come scrive Zygmunt Bauman (1999) – citando Freud ne ”Il disagio della civiltà” (1929) – la modernità (la civiltà per Freud) ha obbligato l’uomo a scegliere tra principio di realtà e principio di piacere. L’uomo moderno ha scelto la realtà e, di conseguenza, la civiltà gli ha imposto tre valori da rispettare: la bellezza, la pulizia e l’ordine. La bellezza si esprime nel piacere dell’armonia e nella perfezione della forma, l’ordine implica la ripetizione continua di un modello stabilito da una norma che ha fissato quando e come una cosa debba essere realizzata. Infine la pulizia è necessaria perché la sporcizia sembrerebbe semplicemente estranea a ogni forma di civiltà. Aderire a questi tre valori implicava, per Freud, coazione, regolazione e soppressione della libertà e del piacere. Oggi, contrariamente a quanto presagito da Freud, nonostante la “modernità”, ci troviamo in una pericolosa situazione d’eccesso di libertà, produttrice però di oppressione, emarginazione e insicurezza.

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L’ordine e la pulizia non hanno perso la loro preminenza ma devono essere perseguiti attraverso sforzi e volontà tutti personali. Gli uomini e le donne del gorovodu sembrano volersi inscrivere proprio in questo modello, accettando gli imperativi di pulizia e di ordine tipici di una modernità produttrice d’insicurezza. Proprio come la società contemporanea impone, i fedeli si rivolgono al tron per placare le loro paure e diminuire il senso d’incertezza che li pervade; la pulizia e l’ordine paiono essere strumenti d’ausilio indispensabili in questa ricerca. Se i vodu hanno sempre fornito risposte alle inquietudini dell’uomo, le loro risposte possono però oggi apparire troppo complesse e ricche di contraddizioni, rispetto all’aumentata incertezza che caratterizza la società contemporanea, africana e non solo. Con la paura diminuisce il tempo e lo spazio per inventare e trovare soluzioni che richiedano un forte coinvolgimento della responsabilità personale. Il tempo per osservare e interrogare la vita si contrae e si cercano risposte semplici a un’insicurezza latente e minacciosa. Il paesaggio umano si popola di spettri, streghe e presenze demoniache, con cui non si deve dialogare o negoziare un compromesso ma che si vorrebbero semplicemente sconfiggere. La stregoneria implica un discorso etico semplificato, dove la netta dicotomizzazione tra bene e male parrebbe dare sollievo alle paure e alle incertezze umane. Il prezzo da pagare sarebbe quindi un impoverimento rituale e culturale – cioè una perdita del carico cognitivo e formativo proprio alla pratica religiosa. D’altro canto questi culti, nati per combattere la stregoneria e diffusisi all’epoca della globalizzazione coloniale, sono proprio un esempio dei fallimenti della modernità, che nel corso del XX secolo ha generato continue contraddizioni interne al suo stesso progetto di progresso inarrestabile e lineare. Laddove ci si auspicava un luminoso razionalismo, si sono invece creati nuovi fantasmi e un rinato interesse verso il mondo dell’invisibile, anche conseguenza delle marginalità e dei disequilibri che la globalizzazione in Africa è riuscita a produrre. I fedeli del tron incarnano il controsenso del progetto moderno; si definiscono moderni, sia perché detentori di un’identità costruita sull’ordine e sulla pulizia, sia perché la loro missione è combattere la stregoneria – le forze oscurantiste e retrograde – che però sappiamo essere una delle conseguenze delle contraddizioni proprie alla modernità nonché un linguaggio attraverso cui dare senso alle disuguaglianze che essa può generare. La stregoneria, d’altro canto, è ambigua e contraddittoria. Quando i leader del tron affermano “il tron protegge contro tutti i mali”, cercano di

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inscriversi in una visione del mondo, dove sia più facile riconoscere il male e controllare la realtà. Allo stesso tempo i discorsi sulla stregoneria sono polisemici e sottoposti a un processo di rielaborazione costante, che tende a sfumare i differenti domini. Anche se il giudizio di condanna nei confronti di un uso socialmente destrutturante dell’invisibile è sempre unanime, le parole lasciano spesso trapelare la fascinazione per chi conosce i segreti dell’occulto e in maggior misura per chi è in grado di sfruttarne i poteri. In tal senso la modernità del tron kpeto deka è costantemente messa in crisi nelle sue stesse fondamenta, essendo troppo prossima al caos che vorrebbe negare o sconfiggere. Vi è poi un secondo aspetto della presunta modernità del gorovodu che merita attenzione. Le connessioni che alcuni sacerdoti hanno creato con religioni distanti come quella induista e in genere con tutto ciò che appare carico di potere mistico ed esoterico, ci costringe a interrogarci su quanto questo fenomeno religioso sia parte di un più universale spostamento verso una “nebulosa mistico-esoterica” (Champion 1990). Diversi sono infatti i punti di contatto tra i processi di cambiamento che agitano i culti africani e il vario panorama di nuove forme religiose che fioriscono da decenni in occidente. In parte ciò dipende dal fatto che i movimenti occidentali, ispirandosi a dottrine “esotiche” variamente manipolate, sono più vicini a un approccio “politeista” alla vita e alla religione (fluidità degli adepti che entrano ed escono liberamente dalle comunità, contenuti in continua trasformazione, rifiuto di un’autorità esterna superiore, ricerca dell’immanenza della religione e quindi di un approccio pratico a essa). D’altra parte vi è uno spostamento tutto africano verso nuove sensibilità e differenti forme di sentire religioso, come appunto il tron kpeto deka sembrerebbe dimostrare. L’afflato verso un più facile misticismo appare come un tentativo di far coesistere ispirazioni universalistiche con esigenze di valorizzazione delle singolarità individuali. Si tratterebbe quindi di coniugare una visione secondo cui tutte le religioni sono portatrici di un pensiero positivo e quindi moralmente valide, con l’esigenza di promuovere il benessere personale, che non si esprime solo nella richiesta di salute, ma si amplia a un’idea più generale di vitalità, bellezza, successo; un’idea di benessere esprimibile nei termini dominanti all’interno della società. Tali forme religiose esprimono una sensibilità caratterizzata da una sorta di “ottimismo religioso”, spesso coadiuvato da pratiche magiche o divinatorie. Anche nei contesti più ortodossi, come quello cattolico, l’aumento delle visioni sacre testimonia l’esigenza di un riscontro immediato, di uno

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“schiacciamento del presente” conseguenza “dell’indebolimento stesso del futuro” (Apolito 2002:33). La mancanza di un futuro impone una fiducia nell’immediatezza delle risposte del sacro. I fedeli del gorovodu definiscono il loro ordine religioso moderno, evocando in tal modo la possibilità e il desiderio di una nuova dimensione epistemologica e di un differente statuto economico. Come ricorda Ferguson, oggi in Africa vi è una sorta di nostalgia per la modernità. La modernità non è più un’“anticipazione del futuro, ma un sogno che appartiene a un passato non molto distante. Il reale futuro è quasi universalmente percepito come cupo se non addirittura apocalittico”(2005:14-15). Non è più una questione di attesa di un tempo migliore o appropriato ma di spostamento verso un altrove che possa garantire ciò che il futuro “qui” sembra negare. Se la dimensione temporale non è più garanzia di cambiamento, se non al limite di peggioramento, quella spaziale resta l’ultima possibilità per cambiare status e raggiungere un nuovo orizzonte esistenziale capace di dare accesso a un presunto mondo di “prima classe”. Il movimento, motore che era già stato alla base della formazione di queste nuove forme religiose, è ancora peculiare del gorovodu, anche se si esprime in un ampliamento dello spazio immaginato e in un continuo sconfinamento delle frontiere che le religioni vorrebbero imporre. La modernità come “categoria nativa” è oggi in Africa parte di un discorso di profonda critica sociale; resta però da capire come la sua dimensione analitica assuma significato nel contesto vodu, non per dimostrare l’esistenza di una delle molte forme nelle quali la modernità di può attualizzare, ma per concludere un discorso sulle categorie che hanno caratterizzato gli studi sulla religione e in particolare su quella africana. I fedeli del tron, come dei vodu più in generale, non hanno bisogno di cercare e creare il mistero o di volgere lo sguardo verso l’invisibile, tendenza che sembrerebbe caratterizzare proprio le nuove formazioni religiose occidentali. Semplicemente continuano a esprimersi con un linguaggio coerente e familiare al loro sentire. I feticisti non sono obbligati ad acquisire il linguaggio del mistero per giustificare l’esistenza di ibridi e di fenomeni che il pensiero critico occidentale non è in grado di comprendere. Seguendo questa prospettiva potremmo dire che i fedeli del gorovodu non sono “moderni” e non lo diventeranno grazie alle rivendicazioni di modernità che oggi fanno proprie. Non sono moderni perché il loro vodu è pulito e ordinato o perché hanno incorporato alcuni dei valori dell’”occidente”. Sono “moderni”, come tutti i fedeli vodu, come tutti i “fetici-

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sti”, perché non hanno mai avuto bisogno di alzare un muro tra naturale e soprannaturale, tra conoscenza e credenza, tra singolare e plurale, tra femminile e maschile, tra rappresentazione e pratica. Sono “moderni” perché sperimentano, senza paura, la frammentazione temporale e spaziale; perché costruiscono le loro divinità e poi accettano l’idea che la loro stessa creazione li superi e li possa modificare; perché accettano la complessità dell’universo, riconoscendo la possibilità che gli oggetti, le cose, mutino i percorsi esistenziali umani. La plasticità dei feticci ha consentito ai fedeli di muoversi attraverso le religioni universali, trovando un linguaggio con cui rielaborare e interpretare le dinamiche sociali, dando così un senso a un mondo in rapido cambiamento. L’Africa occidentale è stata per secoli investita da successive fasi di globalizzazione; i mercanti occidentali arrivarono sulle coste a partire dal XV secolo e prima di loro giunsero da nord i mercanti musulmani. La tratta atlantica mutò profondamente alcune concezioni locali inerenti l’individuo e il mondo spirituale, oltre a modificare le relazioni economiche e il quadro delle relazioni geopolitiche dei paesi africani. Le credenze e le pratiche dei popoli del Golfo di Guinea sono segnate e spesso forgiate su queste esperienze, che continuano a far emergere immagini disturbanti e figure ambigue e minacciose. Il vodu stesso, con i suoi spazi oscuri, popolati da spettri e anime inquiete, che si aggirano in cerca di vendetta, non può non essere anche una risposta alla violenza di quegli incontri. L’insicurezza “moderna” o “postmoderna” è stata sperimentata con netto anticipo in questa parte del mondo e ha steso una trama duratura di paure e ansie, pronte a riemergere, quando la storia torna a stimolarle. I féticheurs, che Baudin (1884) descrisse come esseri disprezzabili, ingannatori, ipocriti, brutti, impudichi e con le mani sporche di sangue umano, continuano a stupire e costringono a interrogarsi su cosa sia l’uomo e quale il suo percorso e la sua posizione nel mondo. Liberandosi da uno sguardo troppo impaurito o troppo affascinato dal primitivismo di certe pratiche rituali, si può con più facilità osservare le oscillazioni che il mondo del visibile assieme a quello dell’invisibile, compiono nella società contemporanea africana.

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Questo volume è stampato su carta Palatina delle Cartiere Miliani Fabriano S.p.A. Finito di stampare nel mese di novembre 2012 dalla CDC Arti Grafiche s r.l. Città di Castello (PG)