Il sardo in movimento [1 ed.] 9783737011327, 9783847111320

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Il sardo in movimento [1 ed.]
 9783737011327, 9783847111320

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Wiener Arbeiten zur Linguistik

Band 5

Herausgegeben von Alexandra N. Lenz, Melanie Malzahn, Eva-Maria Remberger und Nikolaus Ritt

Advisory Board: Peter Auer, Universität Freiburg, Deutschland Ina Bornkessel-Schlesewsky, Universität South-Australia, Australien Olga Fischer, Universität Amsterdam, Niederlande Junko Ito, UC Santa Cruz, USA Hans Kamp, Universität Stuttgart, Deutschland Johanna Laakso, Universität Wien, Österreich Michele Loporcaro, Universität Zürich, Schweiz Jim McCloskey, UC Santa Cruz, USA John Nerbonne, Universität Groningen, Niederlande Peter Trudgill, Universität Agder, Norwegen

Eva-Maria Remberger / Maurizio Virdis / Birgit Wagner (a cura di)

Il sardo in movimento

Con 14 illustrazioni

V&R unipress Vienna University Press

Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über https://dnb.de abrufbar. Veröffentlichungen der Vienna University Press erscheinen bei V&R unipress. Gedruckt mit freundlicher Unterstützung des Rektorats der Universität Wien und des Rosita Schjerve-Rindler-Gedächtnisfonds. Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali dell’Università degli Studi di Cagliari. © 2020, Vandenhoeck & Ruprecht GmbH & Co. KG, Theaterstraße 13, D-37073 Göttingen Alle Rechte vorbehalten. Das Werk und seine Teile sind urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung in anderen als den gesetzlich zugelassenen Fällen bedarf der vorherigen schriftlichen Einwilligung des Verlages. Umschlagabbildung: Photo: Birgit Wagner, Text: Stefano Fogarizzu, Bearbeitung: Eva-Maria Remberger, Graphik Design: Simon Remberger Vandenhoeck & Ruprecht Verlage | www.vandenhoeck-ruprecht-verlage.com ISSN 2365-7731 ISBN 978-3-7370-1132-7

Indice

Eva-Maria Remberger / Maurizio Virdis / Birgit Wagner Il sardo in movimento – un’introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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I. Il sardo in movimento: Variazione di dati e approcci metodologici Mappa linguistica della Sardegna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Sociolinguistica Maurizio Virdis Problemi di diatopia e di diacronia della lingua sarda. Un’ipotesi di sociolinguistica storica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

31

Fonologia Laura Linzmeier Strutture fonetiche che resistono al contatto linguistico nel sassarese . . .

49

Maria del Mar Vanrell / Francesc Ballone / Teresa Cabré / Pilar Prieto / Carlo Schirru / Francesc Torres-Tamarit La ricerca sull’intonazione del sardo: stato attuale e prospettive future . .

71

Morfologia Lucia Molinu Il passato remoto irregolare in sardo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

99

Carminu Pintore Lo sviluppo di [ŋkɛ] in sardo orgolese: dalla deissi spaziale alla semantica verbale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115

6

Indice

Simone Pisano Nuovi dati per una delimitazione geografica e funzionale del fenomeno dell’infinito flesso in Sardegna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131

Sintassi Kim A. Groothuis Gli infiniti flessi sardi nelle strutture a controllo

. . . . . . . . . . . . . . 151

Michael Allan Jones Accusativo preposizionale in sardo: elementi strutturali e semantici Franck Floricic Object marking e predicazione possessiva in sardo campidanese

. . . 169

. . . . . 187

Guido Mensching La doppia serie di complementatori in sardo. Considerazioni dialettologiche e diacroniche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 205

Lessico Antonietta Dettori I colori nel sardo. Percezione e denominazione . . . . . . . . . . . . . . . 229

II. Bilinguismo e plurilinguismo nella letteratura e nella cinematografia sarda Letteratura Gloria Turtas I gosos ottocenteschi del sacerdote Francesco Macario Marongiu: la tradizione dei canti paraliturgici ne Il Libro dei gosos di Olzai . . . . . . 259 Gigliola Sulis Bilinguismo e plurilinguismo nel romanzo di formazione sardo: Deledda, Fiori, Ledda, Atzeni, Murgia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 275 Stefano Fogarizzu Ziu Paddori e Bellas mariposas: plurilinguismo e spazio in Efisio Vincenzo Melis e Sergio Atzeni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 297

Indice

7

Cinematografia Antioco Floris Un linguaggio per più lingue. Come parla il cinema sardo . . . . . . . . . 315 Gonaria Floris Tempesta in Asinara e Calibano sardo nella Stoffa dei sogni di Gianfranco Cabiddu . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 333

Eva-Maria Remberger / Maurizio Virdis / Birgit Wagner

Il sardo in movimento – un’introduzione

1.

Il sardo in movimento?

Il presente volume è una selezione di contributi presentati al Secondo incontro per una rete di lavoro sul sardo, organizzato da Silvio Cruschina, Stefano Fogarizzu, Eva-Maria Remberger e Birgit Wagner, tenutosi a Vienna dal 27 al 29 di settembre 2017. Questo secondo incontro ha rappresentato la continuazione, interrotta per un po’ di anni, del primo Incontro per una rete di lavoro sul sardo, che era stato organizzato all’Università di Costanza, in Germania, nel settembre del 2012. Benché una parte dei relatori che avevano partecipato al primo incontro fosse presente anche al secondo, quest’ultimo era esplicitamente rivolto soprattutto ai giovani filologi e linguisti che si occupano del sardo, in modo da promuovere e assicurare la continuità degli studi linguistici sul sardo nelle prossime generazioni. I lavori dei giovani ricercatori sono stati presentati in una sessione di poster, ma poi, per la loro alta qualità, sono entrati parzialmente anche in questo volume. La promozione degli studi sulla lingua sarda era uno degli obiettivi principali dell’incontro; un altro era quello di discutere la questione della messa a disposizione dei dati linguistici del sardo già esistenti, della raccolta di nuovi dati, possibilmente attraverso un progetto, nonché della creazione di una piattaforma in rete con vari scopi connessi sia a quanto appena menzionato sia alla realizzazione di un corpus del sardo. Questi argomenti però, benché vivacemente discussi nell’ambito della conferenza, non sono confluiti in questo volume, che si concentra maggiormente sui dinamismi del sardo in continuo contatto con altre lingue e nelle vicissitudini dei tempi. Un’ulteriore novità ha caratterizzato questo secondo incontro: la sezione linguistica della conferenza ha preceduto un workshop che aveva come obiettivo l’esplorazione del bilinguismo e del plurilinguismo nella letteratura e cinematografia sarda. Vale a dire che l’incontro è stato caratterizzato dall’interdisciplinarità e il tema che collegava le due sezioni è stato, infatti, la situazione dinamica della lingua sarda in tutti i sensi possibili, dal contatto e cambio linguistico odierno e in diacronia, al plurilinguismo, sempre presente anche nelle

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produzioni culturali e nella vasta gamma delle varietà e dei registri della lingua sarda: diatopici e diafasici, ma anche stilistici ed estetici. Il sardo è appunto “in movimento”. Un episodio illustra vividamente questa situazione particolare del “Sardo in movimento”: alla ricerca di un’immagine per la nostra locandina che doveva annunciare il convegno, abbiamo trovato una foto, scattata da Birgit Wagner, di un murales a Fluminimaggiore. La foto in questione adesso si trova sulla copertina di questo volume, ma con una piccola modifica: Corto Maltese, sul murales originale, parlava italiano. Per il nostro convegno si è deciso di farlo parlare sardo. Però, siccome il sardo è in movimento, cioè in continuo contatto con l’italiano, non solo in Corto Maltese, ma anche in Stefano Fogarizzu, che ci ha fornito la traduzione, non è più il sardo di una volta, il sardo codificato nelle grammatiche. È un sardo influenzato dall’italiano. E perciò Corto Maltese, invece di dire, “carchi cosa già b’at cambiadu”, con la selezione del verbo ausiliare ‘avere’, come vuole la grammatica sarda, dice “carchi cosa già est cambiadu”, e con la struttura sintattica, che, sulla falsariga della costruzione italiana, muta la selezione dell’ausiliare, selezionando ‘essere’ anziché ‘avere’. A Fluminimaggiore si possono ammirare parecchi murales anche con testi in sardo, come in altre località dell’isola. Ed è bello che Corto Maltese in questo modo sia entrato nella memoria culturale sarda, come testimone: il sardo in movimento si manifesta in molteplici forme e mezzi di comunicazione, compresi quelli popolari. Questa molteplicità forgia il carattere interdisciplinare del presente volume. Tre persone che erano state attivamente presenti al primo incontro non erano più fra di noi: Rosita Schjerve-Rindler, Peter Koch ed Eduardo Blasco Ferrer. Non di persona, ma presente come linguista sardo citato in tutti i lavori che si occupano del sardo era anche Massimo Pittau, anche lui recentemente venuto a mancare. Questo volume è anche dedicato alla loro memoria. In particolare, vista la tematica del convegno e il luogo dove si è tenuto, l’Istituto di Romanistica dell’Università di Vienna, vorremmo ricordare qui la nostra cara collega, Rosita Schjerve-Rindler, troppo prematuramente scomparsa il 13 settembre 2013, proprio due settimane prima che andasse in pensione ufficialmente – ma sicuramente non come linguista esperta di plurilinguismo, e non solo per quello che riguarda il sardo: perché Rosita voleva continuare a lavorare anche in questo nuovo periodo promettente per lei, la sua pensione, come si è compreso da un suo messaggio di posta elettronica del 16 luglio 2013, che citiamo qui e che dice: “Per quanto riguarda la mia partenza, posso soltanto dire che un periodo pieno di soddisfazioni volge alla fine e una nuova porta si apre in uno spazio che sarà più tranquillo ed esclusivamente mio. Lo aspetto con ansia.” Purtroppo le sue parole sulla sua partenza si sono avverate, ma in un senso del tutto inaspettato. In tale contesto vorremmo anche citare una delle sue informatrici sarde che in un nastro registrato da Rosita nel lontano agosto 1991 sicuramente ci parla di qualcosa del

Il sardo in movimento – un’introduzione

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tutto diverso, nel suo bell’italiano regionale della Sardegna, ma con un collegamento sorprendente che si può proiettare sullo schermo della nostra vita in generale e quella di Rosita in particolare: “Piuttosto che questi filmi finiscono così …come se tu sei andando in una strada e non trovi la porta… si finisce prima di arrivare…” Rosita, non in un film, ma nella vita vera “la nuova porta” non l’ha trovata; se n’è andata così, prima di arrivare. Uno dei primi lavori di Rosita come sociolinguista è la sua pubblicazione sul contatto linguistico in Sardegna (Rindler Schjerve 1987). Negli ultimi anni era soprattutto coinvolta in progetti europei, come il progetto LINEE – Languages in a Network of European Excellence (cfr. Rindler Schjerve 2008, 2009) e poi A Toolkit for Transnational Communication in Europe. I risultati dei suoi lavori per il plurilinguismo europeo si possono consultare nella pubblicazione Rindler Schjerve & Vetter (2012). Nel 2017, proprio poco prima del nostro incontro a Vienna, è apparso l’ultimo articolo, postumo, di Rosita nel Manuale di linguistica sarda1 (cfr. Rindler Schjerve 2017). Fra le prime pubblicazioni di Rosita e l’ultimo suo articolo, proprio sulla “Sociolinguistica e vitalità del sardo” si estende una vita piena di lavoro con innumerevoli pubblicazioni e attività di ricerca, non solo sul sardo ma anche sulla situazione plurilingue dell’Europa e i contesti pubblici e politici che la riguardano. Se volessimo descrivere i suoi successi accademici in modo soddisfacente, sicuramente falliremmo. Ma quello che possiamo fare noi editori, e sicuramente anche i nostri autori, è dedicare a Rosita questo libro. Comunque, a parte la cara memoria e i suoi tantissimi lavori linguistici, Rosita ci ha lasciato qualcosa in più, qualcosa di materiale: continua a finanziare progetti, soprattutto di giovani ricercatori, ma anche eventi organizzati presso il nostro istituto, come ha finanziato parte del nostro Secondo incontro per una rete di lavoro sul sardo e il presente volume: lei ci ha lasciato dei fondi, destinati ai suoi progetti, che non ha potuto interamente utilizzare, che sono ora quindi confluiti nel Rosita Schjerve-Rindler Gedächtnisfonds (RSRG), il Fondo in Memoria di Rosita, che continua ad aiutarci in tanti aspetti. A questo punto ringraziamo tutti i nostri autori per i loro contributi e la loro cooperazione. Ringraziamo anche i 16 valutatori esterni che ci hanno mandato le loro opinioni nel processo del peer reviewing. Per la preparazione del manoscritto e tutto il lavoro di formattazione, correzione e revisione vorremmo anche ringraziare Irene Fally, Stefano Fogarizzu e Paolo Izzo. Quest’ultimo, inoltre, ha anche competentemente tradotto l’articolo di Michael Allan Jones dall’inglese in italiano. In quanto al finanziamento di questo volume, oltre a Rosita, ringraziamo il Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali 1 In quanto al Manuale di linguistica sarda abbiamo colto l’occasione di presentarlo, in collaborazione con la casa editrice De Gruyter (e qui ringraziamo Ulrike Krauß), alla fine della prima giornata lavorativa con un piccolo ricevimento.

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dell’Università di Cagliari, il Rettorato e il Decanato della Facoltà di Filologia e Scienze umanistiche dell’Università di Vienna.

2.

Il sardo in movimento: variazione di dati e approcci metodologici

Si è soliti pensare la lingua sarda, e così anche un po’ tutta la cultura della Sardegna, come qualcosa di immobile, cristallizzato nel tempo, quasi fuori dalla storia. Così non è. La lingua e la cultura sarda sono soggette, come praticamente tutte le lingue, alla dinamica e alla dialettica della storia. E ciò fin dalle sue origini quando la lingua sarda ha visto diversi registri sociolinguistici concorrere fra loro, fino a determinare la facies diatopica attuale, che è la proiezione sullo spazio di ciò che era stata la dimensione diafasica e diacronica. Il medioevo, per il tanto che ci è dato oggi conoscere, ha creato un registro linguistico giuridico di ampio impiego, anche istituzionale e diciamo pure “ufficiale”, per almeno tre secoli, basato sulle strutture dell’oralità e sul lessico “comune”, ma entrambi elaborati secondo le necessità espressive e comunicative; e, relativamente al medioevo, disponiamo anche di qualche testo cronachistico narrativo. Il Cinquecento, almeno per ciò che concerne la produzione scritta, vede il formarsi di un registro colto e letterario che prende le distanze dall’oralità, sia a livello lessicale che a livello sintattico, oltre che una forte ristrutturazione nella morfologia verbale anche nel parlato (si veda l’intervento di Lucia Molinu); e i prodromi di questo processo sono già visibili nella Carta de Logu del tardo XIV secolo. In quest’epoca il sardo attinge a larghe mani dall’italiano e in misura un po’ minore dallo spagnolo, e dà luogo a una produzione letteraria, quasi esclusivamente in versi, che, sia pure con esiti e quantità/qualità produttiva alterna nello svolgersi dei tempi, dura fino ai nostri giorni. La lingua parlata si ispanizza fortemente, soprattutto nei registri alti, ma con fortissime ricadute anche nella parlata quotidiana, con creazioni sinonimiche (parola originaria ~ ispanismo). E si viene in quest’epoca a creare anche una duplicità di rango stilistico all’interno del sardo stesso, con una varietà alta e formale e un’altra quotidiana e colloquiale, duplicità, fino a non molto tempo fa in vigore, e, in pur assai ridotta misura, ancor oggi. Sul finire del secolo XVIII si pone la questione del sardo che si voleva elevare a lingua nazionale della nazione sarda: la quale tale era proprio in grazia della sua lingua; questione che proseguì in maniera sottaciuta, dati i tempi post-rivoluzionari improntati al moderatismo, anche per buona parte dell’Ottocento. Come noto, il sardo è stata lingua quasi universalmente parlata da tutte le classi sociali, o quanto meno largamente compresa, fino al secondo conflitto mondiale del Novecento. Successivamente è cominciato un lungo periodo di regresso e di

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decrescita, per le ragioni a tutti note: l’aumento della popolazione scolarizzata, ovviamente in italiano; la progressiva pervasività dei mezzi di comunicazione di massa, televisione in primo luogo; il cambiamento dei costumi sociali e culturali che marginalizzano sempre più il sardo entro la sfera di un codice familiare, ritenuto “insufficiente” e pertanto povero e inadatto alla vita moderna, sì che il sardo scade al rango di “dialetto”; la conseguente mancata trasmissione, da parte dei genitori, della lingua sarda ai loro figli, i quali sempre più apprendono il sardo, se lo apprendono, come lingua seconda e in genere fuori dall’ambito familiare, oppure dalla generazione antecedente a quella dei loro padri/madri. E tuttavia non mancano chiazze di resistenza, anche forti: in certe aree della Sardegna per specifiche condizioni sociali e antropologiche; nella acquisita consapevolezza del valore della lingua, anche come segno culturale identitario; nella aumentata capacità e competenza di taluni intellettuali nello scrivere e produrre, anche oralmente, testi di ottima qualità; o all’impiego del sardo quale bandiera identitaria, fatto che magari genera talora deviazioni dalla norma tradizionale, o ipercorrettismi ipercaratterizzanti: interessante, a questo proposito, l’intervento di Laura Linzmeier sul Sassarese. Si assiste così a fenomeni contraddittori entro un quadro culturale e sociale ampio, variato e movimentato. Se da una parte assistiamo, come appena detto, all’acquisita capacità di produrre testi, anche letterari, di elevata qualità, dall’altra si registra la forte e condizionante presenza dell’italiano sul sardo che, innanzitutto, ha generato e seguita a generare un fortissimo processo di rilessificazione, con annessi fenomeni di codeswitching e codemixing: Rosita Schjerve-Rindler ha scritto pagine di assoluto interesse e valore scientifico in proposito. Tale rilessificazione genera sostanzialmente la perdita non solo del patrimonio lessicale, ma soprattutto la progressiva scomparsa della rete concettuale, di quella griglia semantica che è il ritaglio originale imposto sull’universo del significabile, che ogni lingua ha in sé quale tratto di autenticità e di unicità. Interessantissimo a tal proposito il contributo di Antonietta Dettori su un campo molto specifico, ma certo significativo, quale quello dei cromonimi. Ma una tale pressione si rileva anche a livello fonetico: per esempio, alla perdita della nasalizzazione vocalica che è in genere concomitante alla caduta della nasale -N- intervocalica, per cui oggi si sente spesso una parola che presenta la caduta di -N- ma non la nasalizzazione (sentita come rustica e quindi da evitare) della vocale (CANEM > [ˈkãi] > [ˈkai]); sempre più marcata è la perdita della retroflessa [ɖ:] (< LL) che in molti contesti è ormai passata stabilmente a dentale [d:] ([ˈkaɖ:u] > [ˈkad:u]) ; e così pure la progressiva perdita della vibrante uvulare [ʁ] (< L intervocalica) sostituita da una laterale rafforzata [L.], ma con dinamiche sociolinguistiche che sarebbero da indagare; o ancora, soprattutto nelle generazioni giovani, l’obliterazione, nel macrosistema meridionale, della regola per cui le vocali medie [e] e [o] in sillaba finale sono innalzate a [i] e [u], regola che, in sardo, si applica in successione dopo

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quella della metafonesi: per cui la [i] e la [u], presso molti parlanti, sono trattate come originarie e non quale esito di un innalzamento, dando luogo a stringhe quali [ˈbeni] < BENE, [ˈfrori] < FLOREM e [ˈbonus] < BONOS, contro i ‘corretti’ e comunque originari e tradizionali [bεni], [ˈfrɔri] e [ˈbɔnus]. Entro la progressione e l’evoluzione degli studi di una linguistica sarda in movimento è certamente interessante il contributo di Maria del Mar Vanrell, Francesc Ballone, Teresa Cabré, Pilar Prieto, Carlo Schirru e Francesc Torres-Tamarit sull’intonazione del sardo, campo d’indagine fin qui poco frequentato. Nell’àmbito della morfologia si osserverà la sempre minor competenza dei parlanti riguardo al futuro e ancor più al condizionale; la crescente scomparsa degli infiniti coniugati (si veda, per quest’ultimo fenomeno gli interventi di Simone Pisano e di Kim A. Groothuis); la perdita del singolare collettivo: apo boddiu olia (‘ho raccolto (delle) olive’), est intrendi musca (‘stanno entrando (delle) mosche’) che diventano, per pressione dell’italiano, apo boddiu olias e sunt intrendi muscas: il singolare collettivo si volge cioè al plurale; e sempre meno sono coloro che usano forme come dhoi at/b’at (‘c’è/ci sono’) sostituiti dall’italianizzante c’est, p. es., b’at bénniu zente (‘è venuta gente, son venute (delle) persone’) che diventa (‘nc’) est bénnia zente. Andrà inoltre ricordato una duplicità di atteggiamento relativamente a forme verbali composte con l’ausiliare in frasi che presentano un dativo di vantaggio coreferenziale col soggetto; frasi come m’apo comporadu unu istire nou (‘mi sono comprato un vestito nuovo’), con ausiliare ‘avere’, da un lato sono soppiantate, per influsso dell’italiano, da forme come mi so’ comporadu un’istire nou; d’altro lato esse influenzano l’italiano regionale di Sardegna, dando luogo a forme, devianti dallo standard e dalla norma dell’italiano, del tipo mi ho comprato un vestito nuovo. E Guido Mensching ci dice qui molto felicemente della deriva e della dinamica cronologica del doppio complementatore in sardo. Così pure si trova coinvolto entro una specifica dinamica grammaticale l’accusativo preposizionale (si vedano i contributi di Michael A. Jones e di Franck Floricic); Carminu Pintore esamina l’uso del clitico [ŋkɛ] e il suo complesso e dinamico meccanismo, in cui si intrecciano morfosintassi e semantica, entro un quadro assai mosso. Al di là dei fenomeni grammaticali, non andrà taciuta la produzione letteraria recente, cui poche righe sopra si accennava, che ha dato luogo a prodotti di elevata qualità, a partire dalla creazione di opere narrative in prosa, il che è praticamente una novità per il sardo e per la cultura della Sardegna, e che farebbe ben sperare, se non fosse lasciata a se stessa, ignorata, senza che si riesca/si voglia suscitare intorno ad essa il dibattito o l’attenzione critica: e ciò a causa della mancanza di una politica avveduta e lungimirante nei confronti di un movimento che, pur reale e indubitabile, resta però sottotraccia e underground.

Il sardo in movimento – un’introduzione

2.1

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Sociolinguistica

Come ideale apertura del volume, l’articolo di Maurizio Virdis Problemi di diatopia e di diacronia della lingua sarda. Un’ipotesi di sociolinguistica storica considera l’attuale frammentazione dialettale della Sardegna su una scala diacronica. Questo contributo tratta i dati linguistici con un approccio socio-storico, che apre nuove prospettive: l’idea radicata del carattere conservativo di alcune varietà sarde di contro all’innovazione di altre varietà, sarebbe infatti da vedere sotto una nuova luce quando si considerino anche le diverse stratificazioni diacroniche che possono dimostrare, in alcuni casi, che un tratto conservativo ha una origine più recente, mentre una caratteristica che potrebbe apparire innovativa può avere le sue radici in fenomeni già antichi. Così le apparenze sincroniche si capovolgono sull’asse diacronico. L’articolo contiene anche una mappa geolinguistica, un ulteriore sviluppo della già nota mappa in Virdis (1988:905); una versione rielaborata di quest’ultima è stata posta all’inizio del volume, giacché molti degli altri contributi quivi contenuti contengono riferimenti alla situazione dialettale della Sardegna, e poiché potrà inoltre fornire degli orientamenti ai lettori, ai quali non sempre è familiare la geolinguistica della Sardegna.

2.2

Fonologia

Il contributo di Laura Linzmeier Strutture fonetiche che resistono al contatto linguistico nel Sassarese fa luce su alcuni aspetti fonologici del Sassarese, sulla sua “erosione”, dovuta, come spesso accade, a fenomeni di contatto fra lingua non dominante (nel caso studiato il sassarese) e lingua dominante (in questo caso l’italiano). Quel che soprattutto emerge in questo studio è, oltre un atteso livellamento del sassarese sull’italiano, non soltanto una sia pur relativa permanenza del sassarese fra le generazioni più giovani, ma anche una sottolineatura da parte dei “semi-speaker” di certi tratti fonologici tipici di questa parlata, come le fricative laterali, intese e percepite quali marche “ipergeneralizzate” e assai spesso ipercorrette, usate anche impropriamente rispetto alla tradizione, quali bandiere di “sassaresità”. L’articolo La ricerca sulla prosodia del sardo: stato attuale e prospettive future del gruppo Maria del Mar Vanrell, Francesc Ballone, Teresa Cabré, Pilar Prieto, Carlo Schirru e Francesc Torres-Tamarit riguarda un aspetto non molto studiato del sardo, e perciò d’interesse per la comunità scientifica, cioè l’intonazione e i diversi campioni prosodici, dei quali dispone. Lo stesso gruppo ha anche sviluppato il sistema ToBI per il sardo (Tones and Breaks Indices ‘Toni e Indici Pausa’; cfr. Vanrell et al. 2015). Non si osservano grandi differenze fra l’intonazione del campidanese e quella del logudorese, ma entrambe le varietà sono

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particolari, dato che esse non ricorrono né al tono alto per marcare continuazione né a toni di confine ascendenti nelle frasi interrogative. Oltre a ciò gli autori osservano anche molti toni extra alti e prominenze iniziali, mentre nelle lingue romanze di solito l’accento nucleare si realizza sull’elemento più a destra della frase.

2.3

Morfologia

Un bel tassello per la conoscenza della lingua sarda in prospettiva diacronica è offerto dall’articolo di Lucia Molinu Il passato remoto irregolare in sardo. L’articolo è proficuamente condotto e metodologicamente impostato sulla base di un retroterra scientifico ampio e sulla scorta della Morfologia Distribuita (Distributed Morphology), nonché della documentazione testuale storica. Vi si discute in particolare il passaggio da una fase medievale in cui il perfetto – oggi praticamente scomparso e soppiantato quasi ovunque, con eccezione di un’area relativamente ristretta all’interno del dominio logudorese, da forme composte di ausiliare + participio passato – presentava anche forme “irregolari” e atematiche, a una fase in cui tutti i perfetti vengono regolarizzati e diventano “tematici”, passando per una fase intermedia nel sec. XVI: momento critico, questo, nella storia linguistica del sardo, in cui la lingua è sottoposta a diverse ristrutturazioni, anche come riflesso di forti sommovimenti storico-culturali. Carminu Pintore Lo sviluppo di [ŋkɛ] in sardo orgolese: dalla deissi spaziale alla semantica verbale prende in considerazione il clitico sardo [ŋkɛ] (dal latino hinc, un avverbio deittico) e la sua grammaticalizzazione; tale clitico dal significato di distanza spaziale, attraverso quello di distanza temporale/aspettuale, giunge ad una funzione incoativa e successivamente causativa. Concentrandosi soprattutto sul verbo sardo mòrrere, polisemico non solo perché può fungere sia da intransitivo (‘morire’) che da transitivo (‘uccidere’), l’autore dimostra come vi siano diversi parametri che interagiscono con le diverse funzioni del clitico: le proprietà del soggetto, l’aspetto lessicale e quello grammaticale, il tempo, nonché la presenza o meno del clitico riflessivo si. Pertanto questo contributo rappresenta non solo un buon esempio di ricerca entro l’area della grammaticalizzazione, ma anche uno studio dettagliato sull’interazione dinamica fra i diversi livelli della grammatica e la semantica lessicale. Una bella e interessante analisi dialettologica su un aspetto particolare della morfologia sarda, l’infinito flesso, è contenuta nel contributo di Simone Pisano Nuovi dati per una delimitazione geografica e funzionale del fenomeno dell’infinito flesso in Sardegna, frutto di indagini sul campo, e con resoconto della variazione diatopica. Il fenomeno è rilevato nell’area centro-orientale dell’Isola (è oggi presente in buona parte della Barbagia e in alcuni centri dell’Ogliastra), ed

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appare recessivo e spesso addirittura percepito da diversi parlanti come inaccettabile o quanto meno strano o desueto; il che mostra, in vivo, una tendenza evolutiva in atto all’interno di una particolare area geolinguistica della Sardegna, tendenza che in altre aree si è già conclusa con la scomparsa di tale forma infinitivale. Interessanti sono i raffronti con l’imperfetto congiuntivo, che presenta forme similari e diatopicamente variate, ma, per lo più, non coincidenti; imperfetto congiuntivo che è spesso realizzato con un tempo composto, e più d’una volta anche con sovraestensione dell’ausiliare ‘essere’ su ‘avere’. Il fenomeno dell’infinito flesso si presenta inoltre interessante in prospettiva linguistica comparativa, ove si tenga conto che esso si riscontra, sia pure in forma diversa di caso in caso, anche in altre aree, come per esempio, fra tutti, nel Portoghese.

2.4

Sintassi

Quattro articoli propongono nuove analisi su alcune particolarità sintattiche (o morfosintattiche) del sardo, sulle quali esistono già diversi studi. Il contributo di Kim A. Groothuis Gli infiniti flessi sardi nelle strutture a controllo descrive il ruolo, nel sardo logudorese-nuorese, degli infiniti flessi in strutture a controllo, cioè nelle frasi complesse con un infinito subordinato il cui soggetto è coreferenziale col soggetto della frase principale. Gli infiniti flessi, simili e accostabili alle antiche forme latine del congiuntivo imperfetto, sono forme non finite che tuttavia si accordano in numero e persona con il soggetto dell’infinito, spesso non realizzato, della frase infinitiva subordinata. L’uso degli infiniti flessi nelle strutture a controllo si trova solo in contesti ristretti, ma comunque rilevabili e attestati. Inoltre è da tenere in considerazione la variabilità dei giudizi da parte dei parlanti relativamente a tali forme: cosicché un’analisi univoca risulta difficile. La duplice analisi proposta dall’autrice si basa da un lato sull’asimmetria, molto ben attestata anche in altri contesti, fra soggetti e oggetti, e perciò anche fra controllo del soggetto versus controllo dell’oggetto; dall’altro lato sull’osservazione degli effetti di referenza obbligatoriamente disgiunta fra i due soggetti della frase complessa, il che ricorda ed è confrontabile con una simile variabilità di giudizio relativa a diversi fenomeni, nelle lingue romanze: più in specifico nelle costruzioni di frasi subordinate che fanno uso e sono marcate dal congiuntivo. I successivi due lavori si occupano del cosiddetto accusativo preposizionale, ma lo analizzano secondo modelli e in contesti alquanto diversi: Michael A. Jones Accusativo preposizionale in Sardo: elementi strutturali e semantici riconduce la scelta o l’obbligo dell’accusativo preposizionale a pochi e perspicui parametri: per l’autore, che si muove nell’ambito della grammatica generativa, e che parte dall’ipotesi relativa al sintagma del determinante, la presenza della preposizione accusativale a dipende dall’assenza di un determinante: per la qual cosa in sardo

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l’accusativo preposizionale non tanto è condizionato dalle proprietà semantiche dell’oggetto, quanto è invece un effetto di una costellazione sintattica. Quei dati che non sono compatibili con questa ipotesi puramente sintattica, possono trovare spiegazione nell’àmbito della variazione dia-sistematica del sardo, che si trova in una situazione di vivace movimento, sempre, fra l’altro, condizionata dall’esposizione al contatto linguistico. L’accusativo preposizionale, chiamato pure marcatura differenziale dell’oggetto, è anche argomento del contributo di Franck Floricic Object marking e predicazione possessiva in sardo campidanese. L’autore si concentra sul sardo campidanese di Senorbì e interpreta l’accusativo preposizione secondo parametri che dipendono dalla semantica dell’oggetto – approccio complementare a quello di M. A. Jones. Nella seconda parte del contributo l’accusativo preposizionale è discusso nel contesto del predicato possessivo tenni ‘avere’, verbo che, come ben noto, è caratterizzato da una transitività molto debole. Dati dallo spagnolo (specificamente il verbo tener ‘avere’) possono essere utilizzati come punto di riferimento per spiegare le differenze fra le due lingue nell’àmbito di un fenomeno simile, benché non uguale, e comune a entrambe. A questo punto andrà anche detto che i dati di Floricic e di Jones non sempre coincidono, e mostrano così nuovamente come anche in questo caso bisogna tenere in considerazione la variazione dinamica riscontrabile fra i parlanti del sardo. Il contributo di Guido Mensching La doppia serie di complementatori in sardo. Considerazioni dialettologiche e diacroniche è uno studio areale diacronico sul sistema dei complementatori. Mentre nel sardo antico, due complementatori con due funzioni diverse erano ancora ben presenti in tutta l’isola – ca per le frasi complemento con contenuti non-modalizzati, chi per frasi complementari modalizzate e marcate con il congiuntivo – oggi esiste solo un’area ristretta che presenta questo sistema a due complementatori. Tramite dati provenienti dai documenti sardi medievali, l’autore mostra come l’estensione dell’uso di ca nei contesti di frasi con il congiuntivo sia un’innovazione, mentre alcune eccezioni di chi + indicativo si trovano già negli antichi Statuti Sassaresi.

2.5

Lessico

L’articolo di Antonietta Dettori I colori nel sardo. Percezione e denominazione punta la sua attenzione e il suo interesse su un settore ben preciso della lessicografia sarda. Il contributo ben si inserisce nel campo d’indagine del “sardo in movimento”, impostato com’è con prospettiva tanto diacronica quanto diatopica. Esso getta infatti una luce storica sui cromonimi sardi, taluni dei quali sono giunti ad estinzione nell’odierna parlata viva o a una sopravvivenza solo parziale, altri invece perdurano, altri ancora sono sostituiti con introduzione di diversi

Il sardo in movimento – un’introduzione

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cromonimi recenti generati dal contatto con l’italiano, o con nuove e moderne acquisizioni tout court. L’articolo fornisce un’ampia esemplificazione relativamente ai cromonimi di maggior frequenza (benché non solo a questi) e alla diversa sinonimia all’interno di ciascun campo cromatico, anche in dipendenza dei referenti portatori del singolo cromonimo esaminato. L’argomento è di particolare rilievo nell’ambito del panorama assai mosso del lessico sardo, oggi sottoposto a forti pressioni da parte dell’italiano, e soggetto a una forte e dinamica rilessificazione, ma che manifesta pure tenaci resistenze.

3.

Bilinguismo e plurilinguismo nella letteratura e cinematografia sarda

Fin dal tempo di Grazia Deledda, i romanzi e racconti sardi in lingua italiana hanno quasi sempre incorporato enunciati ascrivibili al sardo: cominciando con toponimi e antroponimi, continuando con sintagmi e frasi intere fino a frammenti di testo, a volte adagi oppure canzoni popolari. Ovviamente le autrici e gli autori sardi si rivolgono a un pubblico eterogeneo: in primis, a quello autoctono, che percepisce gli enunciati in sardo come una conferma dell’identità isolana e dell’inclusione in una comunità. Inoltre i testi sono dedicati anche ai “continentali” oppure a lettori stranieri. Per questo settore di lettori gli inserti in sardo, a livello di ricezione, possono essere interpretati secondo uno spettro che va dall’incomprensione totale all’intuizione spontanea per analogia con l’italiano, dai cosiddetti falsi amici fino alla produzione di un effetto esotico. Inevitabile cominciare con Grazia Deledda, la scrittrice che ha portato la Sardegna “al mondo”: è testualmente questo il proposito che la giovane autodidatta ha espresso già dal suo esordio letterario, si tratta quindi di un progetto che oggi si potrebbe definire traduzione culturale, trasmissione di un sapere locale, per citare Carlo Ginzburg. La presenza assai scarsa del sardo, nelle sue novelle e romanzi, assume comunque la funzione doppia di marcare la differenza culturale per i lettori non-sardi, effetto che Homi K. Bhabha chiama “staging of difference” (Bhabha 1994), e di comunicare intimamente con quelli sardi, progetto destinato a fornire il punto di partenza di molti testi successivi. Questo punto di partenza con il tempo diventa sempre più diversificato ed estremamente raffinato. Bisogna però prima parlare del “libro indimenticabile” con le sue “parole irripetibili e definitive”, come lo definisce lo scrittore Salvatore Mannuzzu, il libro nel quale tutti i sardi si riconoscerebbero, cioè Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, uscito nella versione conosciuta nel 1979 (Mannuzzu 1998:1219). Questo racconto sofferto di una città, Nuoro, capoluogo al centro o

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Eva-Maria Remberger / Maurizio Virdis / Birgit Wagner

pressappoco al centro della variante logudorese del sardo, che spazio dà alla limba? Uno spazio esiguo, va detto, la stagione del bilinguismo letterario esteso non era ancora raggiunta. Negli anni ottanta e novanta del Novecento, prende forma il fenomeno che alcuni critici chiamano la nouvelle vague sarda, adoperando la celeberrima nozione della storia cinematografica per la nuova letteratura sarda: parliamo di Sergio Atzeni, Marcello Fois, Salvatore Mannuzzu e Giulio Angioni, più tardi anche di Michela Murgia, Salvatore Niffoi, Milena Agus, Flavio Soriga e Mariangela Sedda. Nei loro libri, troviamo in misura diversa le forme del bilinguismo nuovo, meno didattico, più “straniante”, adoperato anche dalle letterature di paesi e culture ex-coloniali. La sezione sul bilinguismo e plurilinguismo nella letteratura e cinematografia sarda si apre con l’articolo di Gloria Turtas, I ‘gosos’ ottocenteschi del sacerdote Francesco Macario Marongiu: la tradizione dei canti paraliturgici ne ‘Il Libro dei gosos’ di Olzai. I gosos (lodi, dallo spagnolo gozos) sono stati cantati in Sardegna in varie lingue, prevalentemente in spagnolo e in sardo. L’autrice si interessa di un manoscritto, redatto tra il XIX e XX secolo a Olzai, contenente 103 componimenti, e particolarmente a uno dei sette copisti, probabilmente anche autore di una parte dei testi, il sacerdote Francesco Macario Marongiu Sanna, parroco a Olzai dal 1794 al 1831. Al margine del suo studio accurato del manoscritto, Gloria Turtas dà informazioni rilevanti sulla prassi del canto e della creazione dei gosos nel Novecento: una delle tante tradizioni vive della cultura popolare sarda. Gigliola Sulis invece si dedica a un sottogenere del romanzo, il romanzo di formazione: Bilinguismo e plurilinguismo nel romanzo di formazione sardo: Deledda, Fiori, Ledda, Atzeni, Murgia. Dopo una breve introduzione sulla storia del romanzo di formazione in Italia, alquanto diversa da quella in aree anglofone e germanofone, si concentra sui cinque romanzi delle autrici e autori contenuti nel titolo del suo intervento. Il risultato delle sue letture evidenzia che il plurilinguismo italiano-sardo aumenta progressivamente, senza riguardo all’ambientazione della trama (cittadina in Atzeni, contadina in Murgia, per fare un esempio): tanto nell’ onomastica e topomastica quanto in inserti di sintagmi o frasi in sardo o anche nell’uso dell’italiano regionale, caratterizzato da interferenze con il sardo. Di Atzeni, l’autore sardo forse più importante per quanto riguarda il bilinguismo e il plurilinguismo, scrive anche Stefano Fogarizzu: ‘Ziu Paddori’ e ‘Bellas mariposas’: plurilinguismo e spazio in Efisio Vincenzo Melis e Sergio Atzeni. La novità di questo articolo sta nell’accostare il racconto di Atzeni (messo in scena a teatro con molto successo) alla tradizione della commedia sarda in italiano e non, come quella di Melis. Fogarizzu sa provare che Atzeni era un profondo conoscitore e amante delle commedie di Melis, per poi proseguire a un confronto dei due testi e del loro uso del bilinguismo, comunque insolito nella letteratura di

Il sardo in movimento – un’introduzione

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provenienza sarda: insolito soprattutto per le sfumature umoristiche valorizzate dai due autori. Che lingue parlano invece i film sardi? Le origini della cinematografia sarda non sono facili da collocare. Esistono anche piccoli documentari girati già dai cosiddetti operatori Lumière, quindi agli albori della produzione cinematografica. Ma qui parliamo della cinematografia sarda che muta l’ambientazione isolana da location interessante per gialli o altri generi cinematografici in un’occasione per parlare della cultura sarda nei suoi vari aspetti, tradizionali o meno, intorno agli ultimi anni del Novecento. Iniziatore di questo sviluppo è senz’altro il film del siciliano Vittorio De Seta Banditi a Orgosolo (1961), girato in sardo, per poi essere doppiato in italiano. Nell’articolo di Antioco Floris, verrà tematizzata anche la ricchissima tradizione di film antropologici, girati in Sardegna da registi sardi o non, patrimonio custodito dall’Istituto Superiore Regionale Etnografico a Nuoro (v. http://www.isresardegna.it/), film nei quali la presenza della lingua sarda è viva e frequente. Per i film di finzione, bisogna sottolineare che il cinema moderno dispone della prassi internazionalmente consolidata di comunicare con un pubblico esogeno: i sottotitoli in italiano, oppure in inglese, di cui fanno ampio uso registi come Giovanni Columbu, Salvatore Mereu, Gianfranco Cabiddu o Enrico Pau. Esistono film girati esclusivamente in sardo, come Su Re (2013) di Columbu, ma la gran parte dei film utilizza l’italiano, in cui viene inserito qualche enunciato in sardo. La comunicazione col pubblico è garantita attraverso la prassi dei sottotitoli, ma il sardo fa sentire la sua presenza con forza, portando all’attenzione degli spettatori non-isolani il bilinguismo della Sardegna. Si tratta, perciò, di un’operazione politico-culturale di profonda importanza. Il volume si chiude dunque con due articoli sulla cinematografia: il primo, di Antioco Floris, prende il titolo Un linguaggio per più lingue. Come parla il cinema sardo. L’autore si occupa per primo del “caso” di Banditi a Orgosolo, primo film narrativo che mostra le realtà contadine sarde, ma che non parla sardo, visto che le battute degli attori non professionisti del film sono state successivamente doppiate in italiano. Antioco Floris discute le perplessità della critica a proposito di questa scelta. Segue un panorama della produzione cinematografica sarda, che mette l’accento sulla nascita del “nuovo cinema sardo” intorno al nuovo Millennio: Salvatore Mereu, Giovanni Columbu, Piero Sanna fanno parlare il sardo ai loro personaggi, là dove il contesto socio-culturale lo suggerisce. L’autore constata che questa scelta sia oramai considerata come normalità, aiutata dallo sviluppo parallelo della cinematografia internazionale. Floris dedica anche spazio al documentario, molto importante per la Sardegna, come accennato sopra, discutendo fra l’altro Tempus de baristas (1993) dell’australiano David MacDougall, e il frutto del suo proprio lavoro, Bella e dìnnia (2011).

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Eva-Maria Remberger / Maurizio Virdis / Birgit Wagner

Infine, Gonaria Floris propone una lettura del pluridecorato film di Gianfranco Cabiddu, La stoffa dei sogni (2016). La prima parte del suo articolo concerne la rilettura, da parte del regista, della Tempesta di Shakespeare, e la sua scelta di spostare la trama nel passato recente, quando l’Asinara (isola all’nordovest della Sardegna), era ancora una colonia penale. La seconda parte tratta invece di questioni di lingua, cominciando con la riscrittura del napoletano Edoardo De Filippo della commedia shakespeariana, che ha un ruolo importante nel film per via della troupe napoletana che naufraga sull’isola dell’Asinara. Ma Gonaria Floris discute soprattutto il ruolo e la funzione del Calibano di Cabiddu, unico personaggio che parla sardo, e procede a una puntuale analisi accurata delle battute di questo personaggio, accompagnato dalla traduzione italiana.

Bibliografia Atzeni, Sergio (1996): Bellas mariposas. Palermo: Sellerio. Bhabha, Homi K. (1994): The location of culture. London. New York: Routledge. Manuzzu, Salvatore, Finis Sardiniae (o la patria possibile), in: Berlinguer, Luigi & Mattone, Antonello (a cura di) (1998): Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna. Torino: Einaudi. Melis, Efisio Vincenzo (1977b): Ziu Paddori: commedia in tre atti. Cagliari: EDES. Rindler Schjerve, Rosita (2008): LINEE WP0 Position Paper, Research Platform Theories and Methods on Multilingualism; to European Commission and the public. Rindler Schjerve, Rosita (2009): LINEE WP0 Position Paper, Research Platform Theoretical and Methodological Issues; to European Commission and the public. Rindler Schjerve, Rosita (1987): Sprachkontakt auf Sardinien. Soziolinguistische Untersuchung des Sprachenwechsels im ländlichen Bereich. Tübingen: Gunter Narr. Rindler Schjerve, Rosita: Sociolinguistica e vitalità del sardo, in: Blasco Ferrer, Eduardo, Koch, Peter & Marzo, Daniela (a cura di) (2017): Manuale di linguistica sarda. Berlin / New York: Mouton De Gruyter, 31–44. Rindler Schjerve, Rosita & Vetter, Eva (2012): European Multilingualism: Current Challenges and Perspectives. Berlin / New York: De Gruyter. Satta, Salvatore (1979): Il giorno del giudizio, Milano: Adelphi. Vanrell, Maria del Mar, Ballone, Francesc, Schirru, Carlo & Prieto, Pilar: Sardinian intonational phonology: Logudorese and Campidanese varieties, in: Frota, Sonia & Prieto, Pilar (a cura di) (2015): Intonational Variation in Romance. Oxford: Oxford University Press, 317–349. Virdis, Maurizio: Sardisch: Areallinguistik, in: Holtus, Günther, Metzeltin, Michael, & Schmitt, Christian (a cura di) (1988), Lexikon der romanistischen Linguistik, IV. Tübingen: De Gruyter, 897–913.

Il sardo in movimento – un’introduzione

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Filmografia Cabiddu, Gianfranco (2016): La stoffa dei sogni, DVD, 103 m., Roma: Paco Cinematografica. Columbu, Giovanni (2013): Su re. Italia: Luches. De Seta, Vittorio (1961): Banditi a Orgosolo. Italia: Produzione Vittorio De Seta. Floris, Antioco (2011): Bella e dìnnia. Italia: Università di Cagliari, CELCAM. MacDougall, David (1993): Tempus de Baristas. Italia: ISRE.

I. Il sardo in movimento: Variazione di dati e approcci metodologici

Mappa linguistica della Sardegna

gallurese

sassarese

SASSARI Catalan.

logudorese

Alghero

nuorese NUORO

alborense

ORISTANO

campidanese

ligure

CAGLIARI

Isola di S. Pietro Isola di S. Antioco

ulteriori isoglosse nuorese logudorese campidanese arborense altre lingue

Mappa linguistica della Sardegna (cfr. Virdis 1988:905, modificata)

Sociolinguistica

Maurizio Virdis

Problemi di diatopia e di diacronia della lingua sarda. Un’ipotesi di sociolinguistica storica

Abstract: È un luogo comune che il sardo sia una lingua conservativa e che alcune varietà della lingua sarda siano più conservative rispetto ad altre. Tuttavia, anche volendo procedere oltre termini, spesso fluidi se non ambigui, quali ‘conservativo’ e ‘innovativo’, il sardo, pur mantenendo certamente diversi tratti di conservatività, mostra pure dati di innovatività e di originalità. Ma è soprattutto il rapporto diacronico fra le diverse varietà sarde che ormai andrebbe visto sotto una luce diversa. Si è detto, anche fino a tempi recenti, che più conservative sarebbero le varietà centro-settentrionali, le quali rappresenterebbero il sardo ‘genuino’, mentre le varietà meridionali (il diasistema campidanese) sarebbero meno conservative e largamente toccate da influssi di superstrato (dall’italiano soprattutto). Non tutto ciò che è o appare conservativo è però ipso facto fenomeno ‘più antico’, ma può essersi affermato e diffuso in data seriore; d’altra parte l’innovazione, o almeno ciò che appare tale, può avere alla radice o sottostantemente fatti anteriori: può essere, cioè, un risultato recente di fenomeni più antichi. Quanto intendo proporre in questo articolo nasce dalla convinzione che l’evoluzione diacronica delle lingue, come anche la sociolinguistica ormai da tempo ci insegna, è il frutto di un processo dinamico e non lineare. A mio avviso, al di sopra di questa bipartizione areale sarda starebbe storicamente, per buona parte del medioevo, una sorta di super-standard valido per tutta l’Isola, pur diversamente declinato nelle diverse aree, con maggiore o minore tolleranza, in esse, della variazione intrinseca ad ogni lingua; al di sotto e al di là di questo (super)standard vi erano poi, naturalmente, le parlate correnti. Tale diverso grado di tolleranza ha largamente determinato la variazione diatopica odierna nel diasistema linguistico sardo.

32

1.

Maurizio Virdis

Premessa

È più o meno luogo comune che non solo il Sardo sia una lingua conservativa, ma anche che all’interno del dominio del Sardo alcune varietà diatopiche siano più conservative rispetto ad altre; più specificamente è ampiamente ritenuto che le varietà meridionali (o diasistema campidanese) siano più innovative rispetto alle varietà del settentrione (diasistema logudorese); fra queste, le varietà nuoresi manterrebbero una fase di conservatività ancora più accentuata. Ora, al di là del doversi o volersi chiedere che cosa significhi ‘conservativo’ o ‘innovativo’, e pur ammettendo che il sardo mantenga certamente diversi tratti di conservatività (e magari pure di arcaicità, se vogliamo1), il Sardo mostra, d’altra parte, dati di innovatività e di originalità propria. Ma non è questo l’argomento di cui intendo parlare qui. Quel che ora in questa sede mi interessa è il rapporto che è diacronicamente intercorso fra le varietà sarde, e in linea di massima fra quelle settentrionali e quelle meridionali, anche se farò delle necessarie incursioni in altre aree più specifiche, soprattutto quelle dell’anfizona, posta più o meno al centro dell’Isola. Tutto ciò mirerebbe a dimostrare che non si può parlare di conservatività e di innovatività in termini rigidi, ma che questi termini vanno trattati con duttilità ed elasticità. Non tutto ciò che è o appare conservativo è infatti ipso facto fenomeno di data più antica, ma può essersi affermato e diffuso in data seriore; e d’altra parte l’innovazione, o almeno ciò che tale appare, può avere alla radice o in soggiacenza fatti anteriori, essere cioè l’effetto di dati precedentemente assestati. A mio avviso – ed è ciò che qui intenderei dimostrare e proporre – al di sopra di questa bipartizione areale sarda starebbe storicamente, per buona parte del medioevo, una sorta di super-standard valido per tutta l’Isola, pur declinato diversamente nelle diverse aree, con maggiore o minore tolleranza, in esse, della variazione intrinseca ad ogni lingua; al di sotto e al di là di questo (super)standard vi erano poi, naturalmente, le parlate correnti. Quanto qui propongo poggia sulla convinzione che le lingue, la loro evoluzione e il loro mutamento nel tempo, come anche la sociolinguistica ormai da lungo tempo ci insegna, sono un processo dinamico e non lineare. Certo, fare della sociolinguistica storica può essere un azzardo: poco, e spesso assai poco si conosce delle situazioni e sulle dinamiche sociali del passato; bisogna pertanto procedere per ipotesi e per indizi, congetturando dalle tracce che possono, fra l’altro, esserci offerte dalla filologia testuale e dalla situazione dialettologica odierna proiettata su di uno schermo storico; e ovviamente dalla ricerca storica: 1 Sulla tante volte conclamata arcaicità della lingua sarda ha fatto giustizia Mensching (2004), rimettendo in discussione, e criticamente, il concetto stesso di ‘arcaicità’, e mostrando come diversi fenomeni intesi dalla tradizione della linguistica sarda come arcaici, vadano in realtà riconsiderati e ridimensionati, al di là di ciò che è da tempo diventato di fatto, anche in sede scientifica, un luogo comune.

Problemi di diatopia e di diacronia della lingua sarda

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nella convinzione, per dirla con Winter, che nel fare sociolinguistica storica, “there can be no more than hints and guesses – some of which may be tempting, but not more” (Winter 1998: 78).2

2.

Diacronia e diatopia del sardo: alcuni fenomeni

Si potrebbe cominciare questa argomentazione col prendere in esame alcuni fenomeni di variazione fonetica, che è oggi diatopica, ma che un tempo, in alcuni casi almeno, doveva essere, io credo, diafasico-diastratica. Muoverò proprio dalla questione che ha sempre avuto – nella considerazione scientifica, ma pure nella manualistica, fino ad essere diventata luogo comune – maggior visibilità e più ampia conoscenza: quella relativa alla evoluzione delle originarie velari latine. I testi provenienti dalla Sardegna meridionale (area in cui le velari hanno subito un processo di palatalizzazione) mostrano anch’essi, nelle loro grafie (, ), una indubbia realizzazione velare, così come i testi delle varietà centro-settentrionali dell’Isola. Tuttavia è più che probabile che, già in epoca tardo latina o altomedievale, la pronuncia dei foni velari [k] e [g] davanti a vocale anteriore ([ke], [ki], [ge], [gi]) presentasse quanto meno un intacco palatale: è probabile cioè che i foni velari sia sordo che sonoro ([k] e [g]) fossero realizzati come delle affricate alveolpalatali [ʨ] (cioè: [ˈʨentu] < centum, [ˈpaʥe] < pacem). Una tale articolazione, sia pur recessiva, è infatti udibile ancor oggi in alcuni dialetti della Barbagia meridionale: Belvì e parzialmente Aritzo, e soprattutto Désulo (centro quest’ultimo dove è in atto l’evoluzione della alveopalatale [ʨ] e [ʥ] in postalveolare [ʧ] e [ʤ]: [ˈʨe:lu] > [ˈʧe:lu]; [ˈde:ʥe] > [ˈde: ʤe]), e ne ho notizia, di cui devo però trovare conferma, anche per alcuni centri d’Ogliastra (Perdasdefogu, p. es.). Anche i testi medievali mostrano alcune spie, sia pure indirette ed episodiche, di palatalizzazione delle velari: si vedano alcune grafie presenti nel CSMB3, quali angilla (129.3) e ançilla (123.2, 205.13, 205.14, 205.15), bingi (85.3) (per binki) e kergidore (99.11) (per kerkidore); e inoltre batuier (< ADDUCERE [ad:ˈukere]) diverse volte presente in CSPS. Inoltre ricorre in diversi testi sardi la variante grafica muchere per mujere/muiere < mulierem: che compare (ben cinque volte in una delle due redazioni della Carta di donazione di Pietro de Athen (CaPAthen, redazione B) e in CSNT, (320) e che foneticamente doveva corrispondere a un [muˈʥe:re]; (> [muˈʤe:re]); inoltre mucere in CaTorbeno, (10) e mughere nella Carta de Logu, tanto, almeno una 2 Sulla problematica epistemologica in questione si veda Putzu (2015a), Baldi & Cuzzolin (2015) e Varvaro (1970); più in particolare per la Sardegna si veda Putzu (2015b). 3 CSMB = Condaghe di Santa Maria di Bonarcado (si veda l’edizione Il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado, a cura di Maurizio Virdis, Sassari-Cagliari, 2002, Centro di Studi Filologici Sardi/ CUEC).

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Maurizio Virdis

volta, in CdLA.Ms, quanto, e ancor più, in CdLA.Inc. Si tratta in tutti questi casi, bene evidentemente, di grafie ipercorrette che riportano a velare un suono che è palatale per normale evoluzione e generale diffusione; oltre che ricondurre significativamente, nel caso di muchere/mucere, la sonora [g] a sorda [k]: come a dire che un suono alveopalatale [ʥ] doveva essere riportato a velare [k], secondo l’equazione per cui se paʥe era variante di un più corretto pake, anche muʥere doveva essere variante di mukere. E significative sono pure le frequenti varianti di CSNT / , che mostrano la convergenza e la covariazione di g+e e di j+e. Vi è inoltre da aggiungere che ben difficilmente si può pensare, come spesso si è pensato, che l’influsso del superstrato linguistico toscano sia la causa della palatalizzazione delle velari nella macroarea meridionale. È infatti alquanto arduo pensare che un tale influsso abbia dato luogo a tre esiti diversi nella palatalizzazione delle velari: affricata postpalatale [ʧ] in posizione iniziale, e, in posizione intervocalica, fricativa postpalatale [ʒ] nell’area più ampia, [ʤ] in Ogliastra, e [ʥ] nella Barbagia meridionale; insomma da un decem latino avremmo in Sardo meridionale tre esiti distinti: [ˈdεʒi], [ˈdεʤe] e [ˈdεʥe]; per di più tutto questo sarebbe avvenuto in un arco di tempo in cui il reale e insistito contatto fra le due lingue, Sardo e Italiano-Toscano, è stato relativamente breve, meno di cento anni; difficile dunque pensare a un influsso di superstrato. Inoltre anche l’evoluzione del suono [c] – o [kj] se si preferisce – di origine italiana in [ʧ] – p. es., acchiappare [acaˈp:are] > acˇapài [aʧ aˈpai]; secchia [ˈseca] > sìcˇa [ˈsiʧa]; vecchio [ˈveco] > bècˇu [ˈbeʧu] – fa pensare che il fono italiano [c] (o [kj che dir si voglia) fosse interpretato come simile all’alveopalatale sorda [ʨ] ed abbia subito la sorte delle alveopalatali indigene: insomma se [ˈʨentu] evolveva in cˇéntu [ˈʧentu], anche secchia [ˈseca] (o [ˈsek:ja] se si vuole) andava ad evolvere in sìcˇa [ˈsiʧa]. Che cosa significa tutto ciò? A mio avviso, ciò vuol dire che le consonanti velari avevano già una realizzazione con un primo intacco palatale davanti alle vocali [e] ed [i], ossia una realizzazione alveopalatale [ʨe/i] e [ʥe/i]; questa realizzazione doveva verisimilmente però essere associata ad un valore sociolinguisticamente basso, la cui controparte alta era invece la velare piena [ke/i]; le aree periferiche di cui parlavo prima (Barbagia meridionale e Ogliastra) manterrebbero la variante con tale intacco palatale; il settentrione linguistico isolano avrebbe generalizzato la variante alta e corretta, anche se talvolta sfuggivano, come abbiam visto, delle grafie che manifestano una pronuncia palatale; il meridione, invece, avrebbe mantenuto la variante già palatalizzata proseguendo in tale evoluzione: [ʨ] > [ʧ], pur mantenendo, in fase medievale, nel registro alto e scrittorio, la variante velare [k]. Insomma la palatalizzazione delle velari sarebbe, nell’area sarda meridionale, un fatto indigeno e non indotto esogenamente. Viceversa, se così è, il mantenimento medievale e odierno delle velari nelle aree logudorese e nuorese e arbo-

Problemi di diatopia e di diacronia della lingua sarda

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rense sarebbe non tanto la conservazione ininterrotta di un suono velare latino originario, ma la categorizzazione relativamente più recente e di tipo scrittorio ‘standardizzante’. Altri dati indicano, a mio parere, la recenziorità linguistica della macro-area settentrionale rispetto alla meridionale. Per esempio, fra quelli più rilevanti, possiamo annoverare alcuni dati propri della macro-area meridionale: 1) i diversi esiti succedanei della laterale latina, quali [ʁ], [β], [ʔ], suoni contraddistinti tutti dal tratto [+grave] e che proseguono la laterale velare [ʟ], anch’essa [+grave], originaria latina (che può ancora udirsi nella parlata popolare di Cagliari), laddove invece l’area centro-settentrionale ha una seriore laterale alveolare [l]; 2) le forme del clitico di 3ª mostrano nell’area centro-settentrionale la forma recenziore, aferetica e degeminata, lu, contro il meridione che mantiene invece la forma primitiva, spesso (e ancor oggi) in forma piena non aferetica, e col mantenimento della laterale geminata, sia pure volta in retroflessa: (i)ddu/-a/-us/-as < illum/-am/-os/-as, e (i)ddi/-is < illi/-is. ˙˙ ˙˙ 3) si possono aggiungere varianti lessicali che nel Logudoro presentano una fase più moderna furru (contro Campidanese [ˈfor:u]), e [ˈfrit:u] < *frigˈdu, con caduta della postonica (contro Campidanese [ˈfri(i)ðu] < frigidus), con mantenimento della postonica magari poi contrattasi con la tonica; benché non manchino casi contrari in cui è il meridione a presentare una variante lessicale più recente, una su tutti janna < janua a nord, contro il meridionale ènna < jenua; 4) e ancora il fatto che l’area centro-settentrionale faccia un uso più parsimonioso di forme metatetiche (p. es. pórku ~ próku), e che vi sia assente la prostesi vocalica davanti a r- iniziale (p. es. rìu ~ arrìu / errìu; ròsa ~ arròs˙a / orròs˙a): fatti di innovazione rispetto al latino e allo standard medievale, ma certo ben radicati e quasi certamente di origine preromana iberica, quindi diacronicamente anteriori a quelli del centro-settentrione. 5) più delicato il caso della regolare presenza, nell’area centro-settentrionale, logudorese-nuorese, della prostesi vocalica (i-) davanti a S+Cons (iscàla, iskùdere, ischìre, ispìna) in posizione iniziale, contro il meridione dove la prostesi vocalica, pur non assente, non è la regola ((i)scàla, (i)skùdi(ri), (i)scìri, (i)spìna) (Paulis 1983: VII–XXVIII)); ma anche qui a me parrebbe che il centro-settentrione segua una regola recenziore (Virdis 2014). Le meridionali CV oscillano fra la presenza e l’assenza della i- prostetica. 6) lo stesso esito bilabiale sonoro [b] della labiovelare originaria kw e gw (aqu̯ a > àbba, qu̯ attuor > bàttor(o), lingua > lìmba; anguilla > ambìdda), ˙˙ generalizzato su tutta l’area centrale e settentrionale, è certamente più innovativo (e comunque non tradizionale) rispetto al mantenimento di

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quest’ultima a meridione; e più recente anche rispetto al passaggio di kw / gw in ki / gˆi (aquila > àkili), come meglio si vedrà più avanti. 7) l’area settentrionale logudorese- nuorese sembrerebbe mostrare conservatività per quanto concerne il trattamento delle vocali medie -E ed -O in sillaba finale di parola: quest’area mantiene infatti le vocali medie di sillaba finale come -e ed -o, mentre al meridione esse mutano in -i ed -u rispettivamente: p.es.: log.-nuor. òmines bonos ~ camp. òminis bonus; log.-nuor. timet male ~ camp. timit mali. Tuttavia, il fenomeno proprio del Campidanese e in genere dell’area meridionale dovette avvenire per gradi: La variazione dialettale [della Sardegna] mostra ancor oggi sul terreno che la graduale diffusione del mutamento [innalzamento delle vocali medie in posizione finale di parola] non s’è completata: fra il Logudoro, che all’innovazione ha resistito, e il Campidano che l’ha accolta e generalizzata, resta ancor oggi una fascia di transizione (Loporcaro 2003:193).4

Dunque il fenomeno dell’innalzamento delle vocali medie finali, nell’area meridionale, avrebbe proceduto per gradi; e questa gradualità ci è documentata dalle carte medievali provenienti dal Cagliaritano e dall’Arborea (a cominciare dalla CgrM, sulla quale vedi ancora Loporcaro (2002–2003: 192), che vi riscontra, riguardo al fenomeno in questione, la stessa situazione che è ancor oggi verificabile a Baunei, nell’Alta Ogliastra), e, appunto, dalle odierne parlate della fascia di transizione, dislocata su tutta la Sardegna centrale da est a ovest: dall’Alta Ogliastra al Basso Montiferro. Per quanto riguarda l’area del Logudoro e l’area nuorese si potrebbe pensare, e in questa ipotesi mi arrischio, che il mantenimento delle finali -e ed -o più che un fenomeno di conservazione, sia un fenomeno dovuto a un recupero o alla selezione della forma standard (e conservativa) come parrebbero mostrare alcune voci che sembrerebbero ipercorrettismi, dato che risolvono in -e una originaria latina -i: forme quali ùve / ue < ubi, o il nuorese [ˈtiβe] (alternante, è pur vero, con [ˈtiβi] e il logudorese [ˈtie] < tibi. E aggiungerei pure il toponimo Frotoriane (l’odierna Fordongianus), del CSMB (132.22), e varianti Frodoriane (161.16, 162.6), Fodoriane (176.4), Frontoriane (145.8), ma anche, va pur detto, Fotoriani (122.6) < forum traiani. E forse andrebbero prese in considerazione le forme verbali della seconda persona plurale -ates/-aδes e -ites/-iδes < -atis, -itis che indurrebbero a pensare in questo senso; e forse pure le forme di 4ª in -mos < -mus. Spia di un travaglio che dovette essere socio- e storico-linguistico, sono ancora i diversi esiti della labiovelare originaria latina kw e gw. È noto che, anche riguardo 4 Sulla variazione riguardo al fenomeno dell’innalzamento delle vocali medie in posizione finale, nella ‘fascia di transizione’ nella Sardegna centrale, si veda l’ottimo e dettagliatissimo studio di Loporcaro (2011).

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a questo fenomeno, il dominio linguistico sardo si presenta bipartito: a nord i nessi evolvono in occlusiva labiale [b], o talvolta [p]: quattuor > bàttor, aqua > àbba, equa > èbba, siliqua > tilibba / tilimba ‘baccello delle fave, carruba’, quinque > kìmbe, anguilla > ambìdda, lingua > lìmba; a sud invece si ˙˙ mantiene in genere la labiovelare: àkkwa, silìkkwa ‘carruba, spicchio d’aglio o d’arancia’, k(u̯)àtru , angwìdda, lìngwa. La tesi formulata dal Wagner (1941: § 218) ˙˙ è che l’esito della originaria labiovelare latina fosse stato un tempo, e per tutto il Sardo, quello che è oggi proprio dell’area settentrionale (ed ogliastrina, come vedremo): e cioè l’occlusiva bilabiale [b]. Le odierne labiovelari dell’area meridionale sarebbero invece dovute all’influsso del superstrato toscano-pisano, durante il medioevo. Prova ne sarebbe il fatto che in Campidanese si conservano alcune voci lessicali con esito labiale a partire dalla labiovelare originaria: bàttili ‘panno sottosella’< coactile (> *quactile), e potremmo aggiungere, con esito bilabiale sordo, pàrdula ‘focaccina dolce a base di formaggio’ < *quadrula (derivato di quadra ‘fetta di pane o di formaggio, focaccia’), arpàu ‘scorpione’ < arcuatu (> *arquatu). Va notato che voci lessicali con evoluzione kw> [p] si riscontrano anche in Logudoro: coagulare (> *quaglare) > padzàre ‘mettere il caglio nel latte’; aspìdda / asprìdda / spìdda, ‘cipolla marina’ < squilla (camp. ˙˙ ˙˙ ˙˙ arbìdda / aβrìdda / askwidda).5 ˙˙ ˙˙ ˙˙ La situazione pare però a me più sfumata di quanto pensasse il Wagner. Va infatti tenuto presente che l’isoglossa che divide l’area della labializzazione kw e gw da quella in cui la labiovelare è di fatto mantenuta, come kw e gw, scende alquanto più a sud, nel suo tratto orientale rispetto all’andamento delle isoglosse che separano lo spazio settentrionale da quello meridionale: queste ultime infatti si collocano tutte più o meno al centro dell’Isola; l’isoglossa relativa alle labiovelari scende invece fino all’Ogliastra, area di tipo meridionale. L’Ogliastra, essendo assai probabilmente una zona scarsamente romanizzata e di latinità recenziore, e con forse un passato di autonomia (semi)istituzionale (cfr. Serreli 2013:73), e solo dopo il sec. XI rientrata nel diasistema meridionale, non avrebbe tuttavia conosciuto una dialettica fra esito conservativo [kw] ed esito innovativo [b]: il quale si sarebbe invece imposto immediatamente e naturalmente nel centrosettentrione isolano e, appunto, in Ogliastra. Inoltre le grafie della CGrM, della fine dell’XI secolo (intorno al 1089), e (ossia [ˈak:wa]), difficilmente mi paiono potersi ascrivere, data l’epoca così alta, a un influsso di superstrato pisano. Si possono inoltre aggiungere alcune scritture medievali come egua e equa nelle CV. Inoltre, forme meridionali come silìkwa e àkili ‘aquila’ (< aquila, da confrontare con il logudorese àbbile), e una voce, con variazione fonetica, come aβrìdda e askwìdda (Wagner: § 225) < SQUILLA ‘cipolla marina’, ˙˙ ˙˙ con molta difficoltà si possono ritenere forme rifatte sulla fonetica dell’Italiano, 5 Sul passaggio di kw e gw in [b] e, sporadicamente, in [p], in sardo, cfr. Paulis (1981).

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che pure ha voci lessicali quali aquila, siliqua e squilla, con praticamente lo stesso significato. Qui l’influsso dell’italiano può semmai aver rafforzato un fenomeno già in essere. E ancora, voci campidanesi come àkili, ‘aquila’ < aquila (log. àbbile); sàngˆini / sànguni, ‘sangue’ < sanguen (log. sàmbene); ìnguna, ‘inguine’ < inguina (log. ìmbene/-a), più che dovute a influsso esogeno si mostrano aderenti alla tendenza latino volgare secondo la quale la labiovelare tendeva a perdere l’appendice labiale anche davanti alle vocali anteriori [e] ed [i] (cfr. Väänänen [19823]: 105, e Paulis [1981:1119]; che riportano esempi dalla Appendix Probi: coquens non cocens, exequiae non execiae; o grafie inverse come requesquet per requiescit, o ciscued per quiescit). L’area meridionale presenta dunque una pluralità di soluzioni/ varianti per la labiovelare originaria, tutte attestate nella latinità volgare, contro l’area centro-settentrionale-ogliastrina in cui ha prevalso l’esito bilabiale: omologazione che, a questo punto, parrebbe dunque essere proprio recenziore.

Figura 1. Le principali isofone della lingua sarda Area meridionale: affricata postpalatale sorda, se iniziale o postconsonamtica [ʧ]: [ˈʧelu], [ˈʧentu] fricativa postpalatale sonora se intervocaliche [ʒ]: [ˈpaʒi], [ˈdeʒi] Ogliastra: affricata postpalatale sorda, se iniziale ˈ[ʧelu], [ˈʧentu]; affricata postpalatale sonora se intervocalica [ˈpaʤi], [ˈdeʤi]; pronome atono di terza persona (i)ddu (< illum) ˙ ˙ sorda se iniziale [ˈʨe:lu], Barbagia meridionale: (e in parte Ogliastra): affricata alveopalatale [ˈʨentu]; affricata alveo palatale sonora se intervocalica [ˈpaʥi], [ˈdeʥi]; pronome atono di terza persona (i)ddu (< illum). ˙˙ Arborea: Mantenimento delle velari; evoluzione di tj e cj in [ts]; pronome atono di terza persona (i)ddu (< illu). ˙˙

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Dunque, se, come apparirebbe più che verisimile (cfr. Mastino 1999), la Sardegna più interna e quella settentrionale sono di romanizzazione più o meno relativamente tarda, o, forse meglio, hanno avuto una seconda romanizzazione in epoca più avanzata in epoca tarda e cristiana, dopo una prima pur indubbia fase di latinizzazione linguistica, certo però più tenue ed episodica, se insomma tutto ciò è così, si spiegherebbe allora la standardizzazione, al centro-settentrione isolano, di varianti stilistiche più tarde ma di registro più alto, che non entravano né in dialettica, né tanto meno in conflitto con varianti stilistiche anteriori, in quanto, queste ultime, deboli, erano state obliterate e sopraffatte dalla nuova ondata. Al contrario, l’area meridionale, o campidanese che dir si voglia, più intensamente romanizzata, assumeva certamente il nuovo (super)standard come registro alto, ma non obliterava i tratti più antichi della sua latinizzazione, che permanevano nelle sue parlate e che hanno finito per imporsi nelle varietà odierne. Le principali isofone della lingua sarda possono essere rappresentate dalla mappa qui sopra (cfr. figura 1).

3.

La romanizzazione della Sardegna

Per comprendere tutto ciò bisogna tenere presenti le dinamiche storiche relative alla romanizzazione dell’Isola, una romanizzazione che dovette verosimilmente essere differente nelle diverse aree della Sardegna. Il settentrione e le aree centrali isolane dovevano certo essere, almeno in una fase iniziale, meno romanizzate, rispetto a quelle meridionali (Ogliastra a parte). Di sicuro interesse sono le pagine di Attilio Mastino (1993), di cui qui sotto riporto alcuni passi: Molto differente era la realtà economica e culturale della Barbaria interna, collocata nelle zone montane più chiuse alla romanizzazione, che hanno mantenuto consuetudini religiose preistoriche fino all’ età di Gregorio Magno. Due iscrizioni, una rinvenuta a Preneste (75: CIL, XIV, 2954 = Dessau, 2684) ed un’altra a Fordongianus (76: ILSard, I, 188 = AEp, 1921, 86 cf. 1971, 118.) ricordano all’inizio del I secolo d.C. le civitates Barbariae, al di là del fiume Tirso, presso le Aquae Hypsitanae: un gruppo di tribù indigene, al cui interno, durante il regno di Augusto, non era ancora comparsa un’élite sufficientemente romanizzata ed affidabile, se il governo ed il controllo militare del territorio era affidato non più ai principes locali ricordati da Livio durante la guerra annibalica (77: Liv., 23, 32, 10), ma ad un praefectus equestre comandante della coorte I dei Corsi. (Mastino 1993:469–470) L’insediamento interno della Sardegna fu viceversa limitato da un lato a piccoli centri agricoli di scarsa romanizzazione […], dall’altro lato ad alcuni campi militari posti a controllo della rete stradale, almeno in età repubblicana e nei primi decenni dell’impero; per il resto, vaste aree collinari e montuose erano occupate dalle popolazioni non urbanizzate, dalle tribù bellicose della Barbaria, gli Ilienses, i Balari, i Corsi, ma anche i

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Galillenses o gli altri popoli enumerati da Tolomeo, distribuiti in villaggi collocati in latifondi di uso comunitario. È evidente che i centri costieri, più aperti verso l’esterno e fondati su un’economia prevalentemente commerciale e di scambio, hanno conosciuto uno sviluppo culturale assai più accentuato rispetto ai villaggi dell’interno. Pertanto la cultura scritta e l’alfabetizzazione hanno avuto una diffusione differente, non omogenea, sul territorio. Le iscrizioni favorirono una crescita culturale di cui oggi esse stesse sono testimoni; più ancora l’instrumentum, come sostiene Giancarlo Susini, svolse un ruolo importante nel processo di acculturazione, dal momento che la conquista di un mercato si doveva accompagnare all’informazione alfabetica. Credo debba essere innanzi tutto rilevato come la produzione epigrafica nella Barbaria si sia prevalentemente limitata a documenti emanati dal potere centrale. (Mastino 1993:487–489)

E interessanti sono altresì le considerazioni di Mastino (1999): Il IV secolo, l’età successiva alle grandi persecuzioni, fu dunque il momento più significativo per lo sviluppo del cristianesimo in Sardegna, almeno nei municipi e nelle colonie collocati sulla costa, più aperti verso l’esterno e fondati su un’economia prevalentemente commerciale e di scambio, mentre invece ancora nell’età di Gregorio Magno la regione interna abitata dai barbari – la Barbaria – appare tutta da evangelizzare, se in ambito rurale continuavano ad essere praticate antiche consuetudini religiose pagane, forse risalenti direttamente o indirettamente al passato nuragico: particolarmente vitale appare ad esempio il culto agricolo di Demetra-Cerere praticato ancora nel IV secolo d.C. in numerosi nuraghi dell’isola, come è dimostrato dal frequente ritrovamento di oggetti in terracotta di carattere votivo dedicati in età romana entro edifici più antichi (si pensi al nuraghe Lugherras di Paulilatino oppure al nuraghe Sa Turricula di Muros). (Mastino 1999:275)

È dunque possibile pensare che le aree centrosettentrionali avessero acquisito uno standard latino solo in epoca relativamente recente: uno standard che aveva da un lato una facies conservativa (eminentemente: il mantenimento delle originarie velari [k] e [gˆ] anteposte a vocale anteriore, e il mantenimento delle vocali medie [e] ed [o] in ultima sillaba, con i connessi fenomeni di ipercorrettismo visti qui sopra); ma uno standard che, d’altra parte, aveva però ormai acquisito diversi tratti innovativi (eminentemente: la laterale alveolare [l] che scalzava la precedente laterale velare [ʟ]; il fono [b] quale esito unico e generalizzato della labiovelare latina kw; la forma aferetica e degeminata (a partire da illum) del clitico di 3a (contro il meridionale antico illu, e odierno (i)ddu); e probabilmente ˙˙ l’anteposizione di una i- prostetica davanti a [s] preconsonantica. Uno standard che doveva essere stato imposto dalla conservatività della Chiesa sarda del IV secolo; e che rifuggiva quei tratti percepiti come più volgari, quali la metatesi di r (porcum > próku), o la prostesi di a- davanti alla r- iniziale, con paritetico rafforzamento di quest’ultima (ROSA > orrosa/arrosa); uno standard che man-

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teneva intatte le velari davanti a vocale anteriore, e che non alterava le vocali medie in sillaba finale (contrariamente al meridione, dove -e, -o mutavano in -i, -u), ma uno standard che pure aveva assunto quei tratti innovativi che abbiamo visto appena qui sopra. Un tale standard era per altro mediato dal ceto colto e alfabetizzato dei possessores, facoltosi uomini integerrimi, legati alla Chiesa sarda, e protettori dei poveri6, intermediari sociolinguistici nei confronti delle masse popolari, e verosimilmente uno degli elementi propulsori di questo nuovo standard di registro alto, conservativo da tanti punti di vista, ma che pure aveva accolto quelle innovazioni che appena qui sopra abbiamo visto. Il Logudorese – e con esso il Nuorese, che per molti versi ne è la proiezione su di una fase più antica, sebbene in maniera non supina né automatica, ma con una sua precisa identità – potrebbe essere quindi considerato come la continuazione di un registro linguistico in cui convergono il conservatorismo della Chiesa sarda delle origini e la parlata e/o lo stile di quei possessores, di cui sopra si diceva, che mediavano con le masse popolari in e su di una popolazione scarsamente, o più debolmente romanizzata, e sulla quale imponevano uno standard recenziore. Questo registro standard ‘arcaizzante’, ma di fatto recenziore e per tanti versi innovativo, fondamentalmente si imponeva anche nel sud ‘campidanese’, dove però esso andava a interferire con una più profonda e più antica romanizzazione: il che significava, al sud, da un lato il più debole allignamento del nuovo standard e quindi la conservazione di tratti, oggettivamente, più arcaici (mantenimento della laterale velare [ʟ] che ha prodotto i succedanei [ʁ], [β], [ʔ]; mantenimento della geminata nel clitico di 3a: illu > (i)ddu; mantenimento della, assai pro˙˙ babilmente, preromana prostesi vocalica dinnanzi a R- iniziale: rosa > orrosa/ arrosa), ma dall’altro anche una predisposizione a tratti innovanti (palatalizzazione delle velari davanti a vocale anteriore; accettazione del mutamento di -e ed -o > -i ed -u, che le carte medievali già manifestano anche a livello scrittorio, sia pure in una situazione di oscillazione), in una dinamica sociolinguistica più complessa di quella che si dovette avere nel Logudoro (si veda quanto detto sopra sugli esiti di qu̯ nel meridione sardo, e di -e, -o di sillaba finale nel Logudorese). Il che può significare una diversa dinamica sociolinguistica, fra, da un lato, stili (e ceti?) più tradizionali e ‘antichi’, e, dall’altro, stili (e forse ceti) nuovi e più ‘moderni’, ma per tanti versi, come s’è visto, più che arcaici, ‘arcaizzanti’. Le anfizone, come sempre, testimoniano questa dialettica e questa dinamica, per cui avremo nell’Arborea il mantenimento integrale delle consonanti velari, e il passaggio tj e cj > [ts] come tutto il meridione, contro il sentettrionale log6 Cfr. Mastino (1999: 274–275, e Maninchedda 2012). Per una più ampia visione della problematica concernente i rapporti fra latino e volgare in epoca pre- e protoromanza si veda Banniard (1992), nonché Wright (1982); sulla Sardegna altomedievale si veda Paulis (1997); sui rapporti fra greco, latino e sardo si veda Lewis (1979) e Paulis (1983). Sulle scritture sarde medievali si veda Serra (2012a, 2012b, 2015).

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udorese [t:] o [tθ] e i dialetti centrali [th]: puteum > [ˈputsu] contro [ˈput(θ)u] / [ˈputhu]. Con rottura della simmetria che vede la copresenza della palatalizzazione delle velari e dell’affricata [ts] < tj/cj a meridione, e, al centrosettentrione il mantenimento delle velari e il passaggio alle non affricate [t:] o [tθ] dei nessi tj/ cj.7 Per quanto concerne l’Ogliastra già si è detto del passaggio delle labiovelari kw e w g alla bilabiale sonora [b:]. Aggiungeremo che i nessi tj/cj evolvono qui nella sibilane [s:] ( puteum > [ˈpus:u]) che pare essere un adattamento della consonante interdentale [th] dai tratti [+continuo; -stridulo] propria dei dialetti centrali in cui il tratto [-stridulo] passa a [+stridulo] proprio anche dell’affricata [ts] dei dialetti meridionali. Caso notevole è quello della evoluzione di lj in [dʒ] (poi evolutasi in [dz]), graficamente resa come o , dell’Arborea (dove pure si registrano sporadiche grafie ‘campidanesi’

  • ) e soprattutto del Logudoro; contro la norma appunto campidanese che rende graficamente , nelle scritture medievali, l’originario nesso lj con
  • , che foneticamente doveva forse corrispondere a uno standard [lj], ma forse di fatto realizzato come [lʥ], o magari [ɭ:i̯ ], come potrebbe testimoniarci nella CgrP, la scrittura μουλλγɛρη (= mul(l)ieri), con la geminazione di λ e con la γ che potrebbe rappresentare tanto una [ j], o magari una [i̯ ], quanto una [ʥ]: [mul:ˈje:ri] o [mulˈʥe:ri]; si veda nella medesima carta Μαργηανη (= Mariani), dove la consecuzione grafica γη parrebbe proprio indicare un’affricata, forse alveopalatale [ʥ]. La consecuzione fonetica [lʥ], o [ɭ:i̯ ] ha finito in seguito, nella più gran parte dell’area meridionale, per diventare [l:] o [ɭ:]. L’Ogliastra si è invece allineata ai dialetti centrali per cui lj > [dʒ] (filium > [ˈfidʒu]; lasciando però traccia della situazione primitiva, per cui in alcuni centri riscontriamo la significativa e arcaica consecuzione [lʥ] ([ˈfilʥu]), a partire dalla quale, in altri centri, si ha l’evoluzione in [ʎ] ([ˈfiʎu]). Né andrà dimenticato che in Ogliastra la laterale latina l perde il tratto velare [+grave] proprio del meridione sardo, per assumere quello dentale [-grave], proprio del centro-settentrione: non si hanno qui dunque quei succedanei [ʁ], [β], [ʔ], così tipici del Campidanese.

    4.

    Per concludere

    Per concludere, non possiamo oggi più accettare il quadro tradizionalmente consegnatoci dalla linguistica del secolo scorso che vede un settentrione sardo fedele continuatore di una latinità antica, mantenutasi nella sua purezza, contro un meridione più soggetto alle influenze esterne, più ‘imbastardito’, come alcuni 7 Sulla diatopia sarda contemporanea sono importanti Contini (1987) e Cossu (2013). Nella Figura 1, a fine della sezione 2, riproduciamo l’andamento delle principali isoglosse areali.

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    hanno detto, e quindi meno genuinamente sardo. Le dinamiche storiche, sociali e linguistiche furono molto più complesse e molto meno lineari di quanto non potesse pensare e di quanto fosse a conoscenza la linguistica sarda del secolo XX, e lo stesso Wagner. Oggi la sociolinguistica rimette in questione, anche in prospettiva diacronica, il quadro epistemologico di un passato anche relativamente recente. Senza poi considerare che questo mito di una Sardegna e di una lingua sarda arcaica, che trova la maggior purezza nelle parlate settentrionali, e nel Logudorese, è appunto un mito, creato entro i confini isolani dagli stessi intellettuali sardi a partire dal Cinquecento e fino al Settecento e all’Ottocento, che vedevano nella conservatività del sardo un segno di elezione e di alto valore, proprio per la sua vicinanza al Latino. Un mito che ha poi influenzato più o meno consapevolmente il quadro scientifico della linguistica sarda del Novecento; mito al quale andava ad aggiungersi il fascino esotico di una lingua arcaica di un’isola lontana. Ma la lingua sarda ci deve interessare tutti, la lingua sarda tutti la possiamo e la dobbiamo amare, nella sua totalità, così com’è: tutti, sardus e istràngius; anche se essa non è poi così arcaica, ed anche laddove essa non lo è. Anche se non è così inossidabilmente e pertinacemente fedele al Latino; anche se non è, né è mai stata così pura. Perché, in fin dei conti, il sardo è una lingua: una lingua normale.

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    Problemi di diatopia e di diacronia della lingua sarda

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    Fonologia

    Laura Linzmeier

    Strutture fonetiche che resistono al contatto linguistico nel sassarese1

    Abstract: Questo contributo prende in esame alcuni cambiamenti fonetici-fonologici in corso nel repertorio del sassarese. Il sassarese – una varietà sardocòrsa diffusa nel nord-ovest della Sardegna – è rimasta a lungo esclusa dagli studi scientifici e dalla ricerca. Il sassarese di oggi è considerato una lingua “sicuramente minacciata” (traduzione propria di: “definitely endangered”; Moseley 3 2010:mappa 10), in quanto perde continuamente domini d’uso e parlanti che ormai sono cresciuti/crescono con l’italiano regionale come lingua materna e primaria. L’articolo si basa su un’analisi fonetica-fonologica di dati raccolti durante una ricerca sul campo in due località dell’area del sassarese (cfr. Linzmeier 2018). Il contributo si concentra su determinate peculiarità fonetichefonologiche e mette in luce perché né le condizioni già presenti all’interno di una lingua né i fattori esterni che influiscono su un idioma sono necessariamente sufficienti per spiegare il cambiamento o il mantenimento di tratti foneticifonologici in situazioni di erosione linguistica. Come l’analisi dei dati (cfr. Linzmeier 2018) dimostra, alcuni suoni riescono a resistere all’erosione benché siano considerati innaturali e deboli secondo il concetto di marcatezza. Il mantenimento di queste strutture complesse e marcate può essere attribuito alla salienza e alla rilevanza sociolinguistica di tali suoni.

    1.

    Introduzione

    Il sassarese è una varietà neolatina del gruppo italoromanzo parlato nel nordovest della Sardegna (a Sassari, a Sorso, a Porto Torres, a Stintino e nella Nurra); esso può essere descritto come lingua di minoranza compresa e diffusa nel territorio di un’altra minoranza linguistica d’Italia, cioè quella sarda. Si tratta di una varietà rimasta a lungo esclusa dagli studi scientifici e dalla ricerca – anche perché la questione dell’origine del sassarese (varietà sarda? varietà còrsa?) non è 1 Ringrazio Giulia de Savorgnani e Simona Fabellini per la correzione del testo italiano.

    50

    Laura Linzmeier

    stata risolta in modo soddisfacente.2 Sulla base di studi recenti (cfr. Maxia 2006a/ b, 2008, 2010, 2012)3 possiamo affermare che il sassarese è una varietà sardo-còrsa originata da un complesso scenario di contatti tra il còrso, il sardo e altre varietà che interagivano intensamente nel contesto urbano di Sassari a partire dal Trecento (cfr. Linzmeier & Selig 2016:164). Dal Trecento al Cinquecento ci fu un forte afflusso di immigranti còrsi che per ragioni diversi (ragioni economici, sopporto militare degli aragonesi ecc.) s’installarono nel Nord-Ovest della Sardegna.4 Dobbiamo presumere che sin dal principio i còrsi cominciarono a mescolarsi con i sardi logudoresi residenti a Sassari e nei suoi dintorni. In un tale contesto la complessa interazione di diverse varietà nell’ambiente urbano portò allo sviluppo di una nuova varietà – cioè il futuro sassarese. Questa varietà – originariamente di matrice còrsa – si intrecciò continuamente con il sardo (ed in parte anche con il pisano ed il genovese). Probabilmente cominciò ad avere il sopravvento sul logudorese a partire dal Cinquecento (cfr. Maxia 2012:65).5 Fin dalla sua genesi, questa varietà di contatto ha sempre avuto prima di tutto la funzione di varietà della prossimità6 e il suo uso scritto è rimasto limitato a poche sfere di produzione letteraria (soprattutto poesia, prosa, satira, commedia) (cfr. p.es. Toso 2012:66, 2019:paragrafo 39). Fino ad oggi il sassarese gode però di una grande popolarità sui palcoscenici dei teatri locali ed in canzoni tradizionali durante le feste locali (cfr. Toso 2012:67, 2019:paragrafo 40). A tutt’oggi – nonostante la legislazione regionale preveda la tutela del sassarese (cfr. RAS 1997, 2 Gli studi sul sassarese più importanti a partire dal Novecento sono tra altri Sanna (1975), Sole (2003), Toso (2012:49–76, 2019) e soprattutto Maxia (p.es. 2010, 2012). Cfr. p.es. Sanna (1975:49–84), Maxia (2010:54–63) e Linzmeier (2018:38–47, 2019:65–107) per una visione generale delle opinioni diverse quanto alla genesi e la classificazione del sassarese. 3 Abbiamo molta più chiarezza quanto all’importanza della componente còrsa nello sviluppo del sassarese grazie a Maxia (2006b) che ha analizzato una moltitudine di fonti storiche. 4 Cfr. Meloni (1996:193–196) e soprattutto Maxia (2002:14 s., 64) per i periodi e le ragioni economiche, politiche e demografiche dell’insediamento dei coloni còrsi. Maxia (2006b:251) sottolinea che già nel Cinquecento i còrsi ed i liguri che vivevano a Sassari rappresentarono il 60% della popolazione della città. Mentre i còrsi che s’installarono a Sassari e nei suoi dintorni erano originari delle zone di Ajaccio e Sartena (cfr. Maxia 2006b:110s.), coloro che s’insediarono in Gallura vennero soprattutto dal sud della Corsica. Il gallurese viene considerato una varietà còrsa (cfr. Lai & Dalbera-Stefanaggi 2005:33), invece il sassarese – presentando un inventario linguistico ibrido (cfr. Maxia 2010:198) – non può ascriversi facilmente ad un unico sistema linguistico (quello sardo o còrso) (cfr. Linzmeier 2018:47–51, 2019:109–140). 5 Comunque non sostituì il sardo completamente: soprattutto come lingua scritta il logudorese, varietà del sardo molto prestigiosa e parlata/conosciuta da un’ampia popolazione residente nei centri del nord e nel loro circondario (cfr. p.es. Atzori 1985–87:155; Maxia 2008:358), rimase a lungo usato in ambito amministrativo (cfr. Sanna 1975:45). In un tale contesto in cui il sardo logudorese e le lingue dei dominatori che si seguirono nei secoli (pisano, genovese, catalano, spagnolo) servirono da lingue scritte ufficiali l’uso del sassarese rimase a lungo limitato all’ambito parlato. A partire dal Settecento nacquero poesie in lingua sassarese (cfr. Toso 2012:66, 2019:paragrafo 39). 6 Si veda, in proposito, il modello prossimità-distanza di Koch & Oesterreicher (22011:6–10).

    Strutture fonetiche che resistono al contatto linguistico nel sassarese

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    26/97 Art. 2.4) – non sono state prese misure degne di nota per il mantenimento e la pianificazione linguistica della lingua (cfr. Linzmeier 2014, 2018:91–101). Questo però potrebbe cambiare con la più recente legge regionale 22/3 del luglio 2018 (cfr. RAS 2018) che si rivolge non solo alle varietà sarde ed il catalano di Alghero, ma contiene anche “[…] misure di promozione e valorizzazione del sassarese, gallurese e tabarchino” (RAS 2018, 22/18 Art. 2.2b).7 A causa del crescente monolinguismo italiano, il sassarese di oggi viene considerato dall’UNESCO Atlas of the World’s Languages in Danger una lingua “sicuramente minacciata” (traduzione propria di: “definitely endangered”; Moseley 32010:mappa 10). Il sassarese è ancora usato da circa 90.000 parlanti (cfr. Maxia 2010:205, nota 328),8 però dobbiamo presumere che essi dispongano di livelli di competenza linguistica molto differenti e che ci sia una sempre crescente stratificazione sociale del sassarese.9 Si aggiunga che il sassarese parlato dalle giovani generazioni – ormai cresciute con l’uso dell’italiano regionale come lingua materna e primaria – è sottoposto a intensi e rapidi processi di cambiamento, di erosione e di ibridazione (cfr. Linzmeier 2018:§6). L’espansione dei domini d’uso dell’italiano e la limitazione dell’uso del sassarese a pochi campi di interazione stanno portando ad un graduale avvicinamento strutturale del sassarese all’italiano. Dato questo contesto di cambio di lingua (shift linguistico), mi occuperò innanzitutto degli aspetti teorici relativi allo studio del mutamento linguistico. Mi limito a una sintesi di approcci teorici che riguardano la fonetica e il lessico quale supporto delle strutture fonetiche (§2). In seguito presenterò quelle peculiarità fonetiche del sassarese degne di analisi particolareggiata ed i criteri per cui queste ultime sono state scelte (§3). La quarta sezione presenterà la base di dati e il metodo per la raccolta degli stessi. La quinta sezione darà una sintesi dei risultati 7 A tale scopo la Regione si impegnerà di “organizza[re] ogni anno una conferenza aperta (Cunferentzia aberta) sulla lingua sarda, il catalano di Alghero e il sassarese, gallurese e tabarchino […]” (RAS 2018, 22/18 Art. 6.2) e di promuovere “la standardizzazione del sassarese” (RAS 2018, 22/18 Art. 8.9). Inoltre promuove delle attività educative in sassarese e la creazione di materiale didattico (cfr. RAS 2018, 22/18 Art. 21.1). In più incentiva l’uso del sassarese tramite programmi radiofonici e televisivi (cfr. RAS 2018, 22/18 Art. 23.2). 8 Nel quadro dello studio sociolinguistico guidato da Oppo (2007) il 41,4 % delle persone interrogate nell’area del sassarese (N =575) ha indicato di avere conoscenze attive del sassarese, il 40,3 % conoscenze passive ed il 18,3 % non ha affatto conoscenze (cfr. Spiga 2007:70, Tab. 8.3). La vitalità del sassarese è più alta a Porto Torres, Sorso e Stintino e continua a diminuire a Sassari (cfr. Maxia 2017b:30, 45). 9 Nell’ambito del campione di Oppo (2007) l’uso del sassarese è più diffuso tra gli uomini (cfr. Spiga 2007:70, Tab. 8.4). Quanto più alto è il livello di istruzione dei parlanti tanto meno diffuso è l’uso del sassarese (cfr. Spiga 2007:70–71, Tab. 8.6; Tab. 8.7). La stratificazione sociale si manifesta soprattutto a Sassari, ma meno a Sorso e a Porto Torres (cfr. Maxia 2010:221). Cfr. anche Linzmeier (2018:83–86) per un riassunto degli studi esistenti sulla situazione sociolinguistica del sassarese.

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    Laura Linzmeier

    più importanti di Linzmeier (2018) e porrà l’accento sulla rilevanza dei singoli fattori del mutamento linguistico prendendo in esame particolarmente le strutture fonetiche che sembrano resistere al contatto linguistico.

    2.

    Mutamento fonetico nei contesti di shift linguistico

    A partire dalla seconda metà del XX secolo l’italiano è diventato la lingua madre e primaria per la maggioranza delle generazioni più giovani. Dopo una fase di diglossia instabile, oggigiorno si possono osservare un graduale passaggio al ricorso esclusivo dell’italiano e la restrizione dei contesti d’uso del Sassarese (cfr. p.es. Sole 1997:20).10 In contesti di shift linguistico – cioè di graduale abbandono dell’idioma precedente in favore di un’altra lingua più prestigiosa all’interno di una comunità linguistica – i parlanti successivi spesso acquistano buone conoscenze dell’idioma dominante mediante i genitori bilingui, la scuola e i media, però non viene data loro la possibilità di acquisire una competenza ampia dell’idioma tradizionale,11 per cui spesso vengono caratterizzati come semispeaker:12 Quindi, i semi-speaker sono parlanti che dispongono di una competenza parziale (o a volte quasi soltanto passiva)13 della lingua tradizionale e di minoranza, mentre padroneggiano ed usano ampiamente la lingua di prestigio, cioè nel presente caso l’italiano. I contesti di acquisizione e quindi anche il grado di competenza linguistica della lingua tradizionale possono variare considerabilmente da un semi-speaker all’altro.14 Nella loro produzione orale della lingua

    10 Cfr. specialmente Loi Corvetto & Nesi (1993:95–102) per l’espansione dell’italiano in Sardegna a partire dal secondo dopoguerra. 11 Cfr. Linzmeier (2017, 2018:§1.4.2) per la situazione sociolinguistica del sassarese e le ragioni dello shift linguistico verso l’italiano. 12 Il termine semi-speaker è stato coniato originalmente da Dorian (1973:417). Un altro termine usato spesso è quello del heritage speaker (cfr. p.es. Montrul 2008; Polinsky 2014). Per Montrul (2016:2,17) i heritage speaker sono quei parlanti che erano esposti alla lingua di famiglia (heritage language) e contemporaneamente alla lingua ufficiale e di maggioranza durante la loro infanzia. Però nel corso della loro vita la lingua di maggioranza è diventata dominante (cfr. Montrul 2016:17). I heritage speaker possono comunque anche acquisire una competenza ampia della lingua di famiglia se l’ambiente di famiglia e/o le strutture sociali e politiche ne favoriscono l’uso (cfr. Montrul 2016:17). Senza questo supporto, però, la lingua di famiglia viene acquisita solo incompletamente (cfr. Montrul 2016:4 s.). 13 In questo caso si può anche parlare di utenti passivi (passive users; Tsunoda 2006:118). 14 Per questo motivo Sasse sottolinea che “non c’è un semi-speaker prototipico” (traduzione propria di: “[t]here is no prototypical semispeaker” (Sasse 2001:1670). Quello che i semispeaker normalmente hanno in comune è la loro capacità di capire passivamente la lingua tradizionale, mentre il grado delle loro competenze attive può variare considerabilmente (cfr. Grinevald 2001:303f.). Intanto esiste una gamma enorme di termini per denominare i parlanti a seconda dei loro vari livelli di competenze attive e passive (cfr. p.es. Linzmeier 2018:106–108).

    Strutture fonetiche che resistono al contatto linguistico nel sassarese

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    tradizionale si possono osservare delle peculiarità strutturali che spesso indicano un graduale processo di erosione strutturale. Paragonati al mutamento linguistico in generale – il che interessa due o più idiomi vitali che nonostante i cambiamenti in corso non si trovano in pericolo di estinzione – in situazioni di shift linguistico si tratta di processi di cambiamento molto intensi e dinamici (cfr. p.es. McMahon 1994:302; Sasse 2001:1670; Dal Negro 2011:47). Mediante questi processi l’idioma meno parlato manifesta sempre più somiglianze strutturali con la lingua dominante mentre quell’ultima non subisce cambiamenti enormi e rimane funzionalmente intatta e vitale (cfr. Dressler & de Cillia 22006:2260f.). Si tratta quindi di “cambiamenti normali che emergono in maniera accelerata” (traduzione propria di: “ordinary changes speeded up”; Romaine 1989:380). Le ricerche che si occupano del mutamento linguistico spiegano i processi di cambiamento soprattutto basandosi sui seguenti approcci teorici:15 il mutamento si può spiegare in quanto causato da condizioni già presenti all’interno di una lingua e che possono favorire e accelerare un cambiamento in corso (cfr. Linzmeier 2018:115–118, 147–151, 161): si tratta in pratica di fenomeni linguistici che per la loro struttura interna assecondano il cambiamento. Tali strutture, secondo il concetto di marcatezza (cfr. Trubetzkoy 1931; Jakobson 1941; Greenberg 1966), vengono definite come marcate in quanto sono strutturalmente complesse, difficili da percepire al parlato, meno frequenti e/o di bassa funzionalità.16 Il mutamento può così portare all’abbandono di regole o strutture asimmetriche in favore di un aumento della regolarità, ma anche alla riduzione di strutture linguistiche, senza che ci sia compensazione, così che il sistema linguistico può subire una limitazione di funzionalità.17 Inoltre va registrato il cambiamento condizionato dal contatto con un altro sistema linguistico, che in contesti di shift linguistico sicuramente gioca un ruolo molto importante relativamente alla direzione del mutamento (cfr. Linzmeier 2018:119–121, 151f., 160–162): lingue in via di erosione tendono ad adottare fonemi dell’idioma di prestigio e ad abbandonare fonemi che, pur facendo parte del repertorio fonetico di entrambe le lingue, vengono percepiti nella lingua dominante come stigmatizzati. Spesso le lingue in pericolo di erosione sopprimono le opposizioni fonematiche che il sistema di contatto non conosce mentre mantengono le opposizioni fonematiche esistenti in entrambe lingue. In seguito la lingua non dominante si muove sempre di più in direzione della lingua dominante con cui è in contatto rendendosi ad essa più affine.18 Il contatto lin15 16 17 18

    Cfr. più in dettaglio Linzmeier (2018:§2) e l’articolo di Loporcaro (2009). Cfr. p.es. Campbell & Muntzel (1989), Cook (1989) e Holloway (1997). Cfr. p.es. Dressler (1988:188) e Seifart (2000:10). Cfr. p.es. Sasse (2001:1670), Jones & Singh (2005:38, 91), Matras (2009:223, 227) e Palosaari & Campbell (2011:112–114).

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    Laura Linzmeier

    guistico può anche portare alla formazione di forme lessicali ibride che possono essere descritte come forme di compromesso tra i due sistemi in contatto. Simili processi si compiono soprattutto se due parole afferenti a due lingue in contatto sono geneticamente imparentate e vengono articolate in modo simile. Tendenzialmente sono soprattutto fonemi con basso rendimento funzionale e bassa frequenza come anche realizzazioni allofoniche che sono colpite dall’abbandono. Inoltre il mutamento linguistico si può manifestare tramite la presenza massiccia di varianti in ambito fonetico e fonologico (cfr. Rindler Schjerve 1989:11; Cook 1989:252f.; Dressler & de Cillia 22006:2262) e nell’uso non sistematico di nuove varianti fonetiche, così che regole che in ambito fonologico originariamente erano da considerare obbligatorie spesso diventano facoltative (cfr. Campbell & Muntzel 1989:189). Comunque non si deve dimenticare che il mutamento linguistico interessa anche il contesto sociale e la consapevolezza dei parlanti. Le ricerche che si occupano del contatto linguistico e dell’erosione linguistica mostrano che esistono tratti fonetici che nella consapevolezza dei parlanti spesso vengono considerati salienti (cfr. Linzmeier 2018:122–126, 157–160). Le forme salienti sono quei tratti di una lingua che vengono percepiti come tipici, speciali e diversi da un altro idioma (cfr. Trudgill 1986:11; Kerswill & Williams 2002:82). Questa salienza può essere positiva o negativa, nel senso che si può trattare di strutture che vengono percepite come tipiche e/o ben fatte/ben formate, oppure come tipiche in modo negativo – cioè stigmatizzate e inaccettabili. In contesti di intenso contatto linguistico i parlanti spesso si rendono conto dell’‘annacquamento’ dell’idioma tradizionale per cui tendono a fare ricorso oltre misura ai tratti salienti per mantenere la distanza tra le due lingue in contatto e per mostrare la loro attitudine positiva verso la lingua originaria (cfr. Sasse 1992:72). La salienza ha anche ripercussioni sugli atti linguistici dei semi-speaker: ciò trova espressione nell’uso ipercorretto e ipergeneralizzato di strutture salienti, il che serve ai semi-speaker per evidenziare la loro identità linguistica multiforme, ma anche la loro appartenenza alla comunità linguistica tradizionale. La direzione che il mutamento prenderà non è mai prevedibile: ogni caso di mutamento linguistico che si svolge in contesto di contatto linguistico è unico e dipende da una molteplicità di fattori (cfr. p.es. Chamoreau & Léglise 2012:9). Inoltre le condizioni interne ed esterne non necessariamente si escludono a vicenda, ma spesso agiscono contemporaneamente sul mutamento linguistico (cfr. Dorian 1993:135; Rindler Schjerve 2002:26; Linzmeier 2018:134–137), nel senso che mutamenti già innescati da strutture interne possono essere “accelerati con tutta probabilità dal contatto” (traduzione propria di: “most likely accelerated by contact”; Silva-Corvalán 1994:5, corsivo nel testo originale).

    Strutture fonetiche che resistono al contatto linguistico nel sassarese

    3.

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    Peculiarità fonetiche analizzate e criteri di scelta

    Lo scopo primario di questo studio consiste nell’esame e nella verifica della presenza ovvero dell’assenza, del cambiamento e dell’ibridazione di determinate peculiarità fonetiche registrate nella pronuncia dei parlanti sottoposti a inchiesta a Sassari e a Sorso. Le peculiarità vocaliche e consonantiche sono state descritte dettagliatamente in Linzmeier (2018:§3.2) sulla base delle ricerche già esistenti sulla fonetica del sassarese/sorsese (cfr. Gartmann 1967, Contini 1987, Sanna 1975, Doro 2001, Sole 2003, Toso 2012 e Maxia 2010, 2012).19 I tratti vocalici analizzati in questo studio sono i seguenti: 1) la nasalizzazione di /a/ davanti a consonante nasale nel dialetto sorsese (p.es. c[ã]ni; it. ‘cane’), 2) la vocalizzazione di /l/, /r/ e /s/ davanti a /b/, /v/, /p/, /f/ e /m/ a [ j] (p.es. ve[ j]mmi/u; it. ‘verme’) come anche j-parassitico (nel sorsese) (p.es. ba[ j(x)x]a; it. ‘barca’) e 3) la i protetica davanti ad alcuni nessi consonantici (p.es. ischora; it. ‘scuola’). L’inventario consonantico è stato esaminato quanto ai tratti seguenti: 1) la retroflessa [ɖɖ] (p.es. caba[ɖɖ]u; it. ‘cavallo’), 2) le laterali fricative alveolari [ɬ]/[ɮ] (p.es. a[ɬ(t)]u; it. ‘alto’) e le fricative velari [xx]/[ɣɣ] (p.es. ba[xx]a; it. ‘barca’), come anche 3) la mutazione di consonanti iniziali di parola in posizione intervocalica (p.es. lu [ɡ]ani; it. ‘il cane’) (cfr. Linzmeier 2018:§3.2.2 e 3.2.3). I criteri che hanno portato alla scelta delle peculiarità fonetiche-fonologiche analizzate nel lavoro qui citato sono stati dedotti dalle ricerche condotte negli ultimi anni intorno al contatto linguistico e all’erosione linguistica (cfr. §2; Linzmeier 2018:195f.). 1) criterio della marcatezza e dello status fonematico instabile: per l’analisi sono state scelte delle strutture fonetico-fonologiche che secondo il concetto della marcatezza sono caratterizzate come marcate/innaturali e sono più spesso sottoposte all’erosione. Perciò sono stati presi in considerazione suoni che si distinguono per la loro complessità articolatoria, scarsa percettibilità, basso sfruttamento funzionale e bassa frequenza; 2) criterio della non concordanza con il sistema della lingua dominante di contatto: dato che le strutture fonetiche sono particolarmente sottoposte all’erosione, nel caso in cui non facciano parte del repertorio fonetico-fonologico della lingua dominate di contatto, sono state analizzate delle peculiarità fonetiche del sassarese/sorsese che la lingua italiana non conosce; 3) criterio della variabilità: suoni la cui realizzazione fonetica può variare spesso si avvicinano nella loro articolazione. Per questo motivo sono state esaminate anche delle peculiarità allofoniche;

    19 Inoltre ho preso in considerazione altri lavori del XIX e del XX secolo. Si rimanda, per maggiori dettagli, a Linzmeier (2018:167f.).

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    4) criterio della variabilità diatopica: visto che il sassarese varia – anche se solo poco – quanto alla dimensione diatopica, sono stati esaminati tratti fonetici che si realizzano diversamente nel sassarese e nel sorsese. In questo modo si può controllare la distanza reciproca fra le due varietà; 5) criterio della salienza: la salienza dei tratti linguistici e il modo in cui parlanti li percepiscono giocano un ruolo fondamentale nel mantenimento ovvero nella perdita di suoni specifici. Nonostante la loro marcatezza e la pressione di convergenza alcuni suoni riescono comunque a resistere all’erosione. Perciò lo studio si è anche concentrato sull’analisi di peculiarità fonetiche del sassarese/sorsese che nei lavori già esistenti sul sassarese venivano descritte come spiccate e tipiche (in campo sia diatopico sia diastratico) e in grado di mantenere la distanza tra sassarese e italiano.

    4.

    Base di dati e metodo

    Con lo studio di carattere qualitativo da me condotto (cfr. Linzmeier 2018) mi sono proposta di rilevare sistematicamente i cambiamenti linguistici in corso, riscontrabili nella lingua dei parlanti sassaresi/sorsesi, e di metterli a confronto con l’inventario fonetico postulato nei lavori già esistenti.20 A questo scopo ho eseguito registrazioni fonetiche con un gruppo di semispeaker e di parlanti competenti del sassarese/sorsese. Le registrazioni fonetiche sono state realizzate nel 2014 a Sassari – che, con i suoi 130.000 abitanti circa, è la città più grande del nord della Sardegna – e a Sorso, un comune di circa 15.000 abitanti situato a 10 km da Sassari. I dati sono stati raccolti tramite registrazioni semi-spontanee eseguite con 10 parlanti per ogni località.21 Queste sono state esaminate facendo particolare attenzione alla presenza, all’assenza, al cambiamento e all’ibridazione di determinate peculiarità vocaliche e consonantiche del repertorio fonetico del sassarese/sorsese. Come metodi di raccolta dati sono stati applicati il Map Task22 e quattro frasi con spazi da riempire (frames/carrier phrases), in cui i parlanti dovevano inserire 20 Cfr. più in dettaglio Linzmeier (2018:§4). 21 Il gruppo campione di Sassari era composto da sei semi-speaker (nati tra il 1986 ed il 2000, cinque maschi e una femmina) e quattro parlanti competenti (nati tra il 1947 ed il 1960, due maschi e due femmine). A Sorso sono stati interrogati cinque semi-speaker (nati tra il 1980 ed il 1989, due maschi e tre femmine) e cinque parlanti competenti (nati tra il 1955 ed il 1981, due maschi e tre femmine). 22 Cfr. Anderson et al. (1991). Due parlanti legati da reciproca conoscenza ricevevano ognuno un piano di gioco (una mappa) sul quale gli venivano presentate piccole immagini. Gli stimoli dipinti miravano a indurre i parlanti ad articolare nomi specifici. I due parlanti dovevano guardare solo il proprio piano di gioco e non quello dell’interlocutore. Uno dei parlanti (il

    Strutture fonetiche che resistono al contatto linguistico nel sassarese

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    parole che gli venivano presentate sotto forma di piccole immagini. Gli stimoli da inserire nelle lacune erano quelli usati prima sul piano di gioco del Map Task, però questa volta presentati sotto forma di una tabella contenente tutte le immagini numerate da 1 a 42.23 F1 Veggu un/a ________ ni la/i ra tabella/mappa/listha. F2 Veggu lu/la ________ ni la/i ra tabella/mappa/listha. F3 Lu/la ________ v’ha lu numaru/l’innumaru _______. F4 Un/a ________ è ni la/i ra tabella/mappa/listha. Figura 1. Carrier Phrases24

    Questi item sono stati scelti sulla base della loro struttura fonologica e sillabica postulata dai lavori sulla fonetica e la fonologia del sassarese (p.es. Gartmann 1967; Bazzoni 1999; Doro 2001; Sole 2003; Coradduzza 2004; Toso 2012; Maxia 2012). Altri criteri impiegati per la scelta delle parole/immagini sono: 1) la possibilità di presentare la parola sotto forma di un’immagine concreta,25 2) l’appartenenza delle parole al lessico quotidiano, che ne garantisce la conoscenza da parte della maggioranza dei (semi-)parlanti (p.es. animali, piante, cibo, corpo umano, vestiti, utensili domestici, ecc.), 3) criteri fonetici-fonologici (le parole contenevano nel migliore dei casi due tratti fonetici da esaminare; la maggior parte delle parole consisteva di due sillabe con accento sulla prima sillaba (ed in alcuni casi di tre sillabe con accento sulla penultima); per ogni tratto fonetico da

    cosiddetto instruction giver) trovava sul suo piano di gioco un percorso che lo guidava attraverso il labirinto delle immagini e che doveva spiegare al suo interlocutore (il cosiddetto instruction follower) usando il sassarese. L’instruction follower doveva tracciare questo percorso sul proprio piano di gioco secondo le spiegazioni dell’instruction giver. I due piani di gioco, però, non erano identici: alcune immagini mancavano su una mappa, venivano presentate parecchie volte, si trovavano in un altro luogo sulla mappa oppure avevano un colore diverso. Il fatto che le mappe non fossero identiche creava confusione tra i parlanti, il che li spingeva a discutere e ad articolare le parole richieste parecchie volte. Si immergevano nel gioco e dimenticavano di trovarsi in una situazione di registrazione vocale, il che portava ad un comportamento spontaneo e naturale. In situazioni in cui non si riusciva a trovare coppie di parlanti, è stato chiesto al singolo parlante di guardare il piano di gioco con il percorso dipinto sopra e di raccontare una storia della sua vita facendo riferimento alle immagini. Per lo studio qui citato sono state eseguite due varianti di piano di gioco che si trovano in Linzmeier (2018:244f.). 23 Le due tabelle con le immagini si trovano in Linzmeier (2018:605f.; appendice B). 24 F1: ‘Vedo un(’)/o/a ___ nella tabella/mappa/lista’; F2: ‘Vedo il/lo/la/l’ ___ nella tabella/mappa/ lista’; F3: ‘Il/lo/la/l’ ___ ha il numero ___’; F4: ‘Un(’)/o/a ___ è nella tabella/mappa/lista’. 25 Per questo motivo non sono state scelte parole che descrivono concetti astratti come amore, fortuna ecc.

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    Laura Linzmeier

    analizzare sono state usate 3–4 parole; le vocali da esaminare si trovavano all’inizio della parola, per lo più in sillaba accentata).26 Inoltre, ai parlanti è stato richiesto di compilare un questionario sociolinguistico contenente, tra l’altro, delle domande sulla propria competenza e sulla frequenza d’uso del sassarese come anche sul loro atteggiamento nei confronti di questa varietà.27

    5.

    Strutture fonetiche che resistono al contatto linguistico

    Qui di seguito mi limiterò a discutere in sintesi due fenomeni che sembrano resistere al contatto linguistico nelle varietà del sassarese parlato a Sassari e a Sorso: la i protetica e le fricative del sassarese, cioè le laterali fricative alveolari [ɬ]/ [ɮ] e le fricative velari [xx]/[ɣɣ].28

    5.1

    La i protetica ed il problema della durata consonantica

    Anche per quanto riguarda il fenomeno della i protetica il sassarese presenta una struttura ibrida che evidenzia di nuovo la situazione generale del sassarese – una varietà che si trova al crocevia fra varie lingue in contatto. Il fenomeno della vocale d’appoggio richiede un’analisi diacronica e sincronica più approfondita. Qualora, all’inizio di parola, la sibilante s sia seguita da un’occlusiva è da considerare impura in molte lingue romanze e richiede la prostesi di una vocale in tutti i contesti fonologici per riparare il nesso illecito (p.es. in sardo logudorese iscola /isˈkɔla/; it. ‘scuola’). Per quanto riguarda il sassarese bisogna tenere conto 26 Cfr. Linzmeier (2018:§4.3.2). La lista con tutte le parole analizzate si trova in Linzmeier (2018:606–619; appendice C). Le registrazioni vocali sono state analizzate a orecchio. Si veda Linzmeier (2018:§4.5) per il metodo e i criteri di trascrizione e di presentazione dei dati raccolti. 27 Il questionario consisteva in sette parti: A) Dati biografici: domande sulla provenienza, sulla famiglia, sulla biografia e sulla situazione sociale dei parlanti; B) Apprendimento del sassarese e dell’italiano: domande sull’acquisizione del sassarese/sorsese e dell’italiano; C) Uso attuale del sassarese: domande sulla competenza attiva del sassarese/sorsese e sui contesti di uso della varietà; D) Media: domande sull’uso di media quali programmi radio, televisione locale e letteratura e sull’uso di lingue nello scrivere e nel leggere; E) Identità ed attitudine verso la lingua: domande sull’identità linguistica e sull’attitudine verso il sassarese; F) Peculiarità del sassarese/ del sorsese: domande sui tratti caratteristici della fonetica del sassarese/sorsese, sulla salienza delle strutture fonetiche e sulla valutazione delle due varietà; G) Legame al luogo di residenza: domande sul legame al luogo di residenza, sulla rete sociale, sulla vita quotidiana e sul libero tempo dei parlanti. Il questionario si trova in Linzmeier (2018:597–604; appendice A). 28 Presenterò qui di seguito una sintesi dei risultati. Per ulteriori dettagli ed esempi si veda Linzmeier (2018:§6).

    Strutture fonetiche che resistono al contatto linguistico nel sassarese

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    della natura ibrida della varietà che è il risultato del contatto linguistico del còrso con il sardo, pisano, genovese e catalano-spagnolo. Quindi, accanto ai propri cambiamenti fonetici, la varietà sassarese si è formata anche attraverso apporti lessicali da tutte queste lingue. Data la penuria di fonti scritte è difficile assodare l’origine esatta dell’inventario lessicale del sassarese. In molti casi si tratta infatti di parole sarde o di lessemi importati che già contenevano la prostesi (p.es. catalanismi).29 Nel sassarese i nessi consonatici /s/ + occlusiva – cioè p.es. /sk/a,o,u, /sk/r e /st/, /st/r – risultano in [xx] e [ɬ(t)] ed in alcuni contesti fonologici – che vengono qui discussi – sono accompagnati da una i protetica (p.es. ischora [iˈxxora]; it. ‘scuola’, ischritta [iˈxxritta]; it. ‘scritta’, isthudenti [iɬ(t)uˈdenti]; it. ‘studente’, ilthrea [iɬˈ(t)rea]; it. ‘strega’).30 In contesto intervocalico la i protetica non è obbligatoria nel sassarese (p.es. la schora; it. ‘la scuola’, pizoni di la sthrea; it. ‘allocco’). Per questo motivo possiamo ipotizzare nel primo caso la forma fonologica /ˈxora/ che dopo vocale presenta la fricativa lunga e adotta la realizzazione fonetica [laˈxxora] (la schora; it. ‘la scuola’). Per sthrea /ˈɬtrea/ abbiamo p.es. [laɬˈ(t)rea] (la sthrea; it. ‘la strega’). Questo fenomeno si manifesta nel lessico del sassarese conservato nei dizionari come il Dizionario universale della lingua di Sardegna di Rubattu (22006) che in molti casi indica la copresenza di due grafie: p.es. ischora accanto a schora e isthella accanto a sthella (it. ‘stella’). In tutti i casi in cui il lessema si trova all’interno del discorso ed è preceduto da una parola/un determinante che finisce 29 Cfr. Maxia (2012:234–243; 269 s.). Nel dizionario di Solinas (2016:738) si trova p.es. isthamèntu dal catalano estament (it. ‘stamento’). Ci vorrebbe ancora un’analisi più approfondita della variazione diatopica del fenomeno, cioè dell’impiego della i protetica nelle varietà di Sassari, di Sorso, di Porto Torres e di Stintino. Inoltre sarebbe da chiarire se oggigiorno – in contesti in cui l’uso della i è generalmente facoltativo – l’origine dei lessemi (come p.es. sardismi, catalanismi ecc.) abbia un effetto sulla presenza della i e se la vocale venga concepita come parte indispensabile del lessema o no. 30 Per ragioni di spazio non tutti i nessi consonantici che richiedono la protesi possono essere rispettati in questo contributo. Rinvio soprattutto allo studio di Maxia (2012:234–243; 269f.) che offre una panoramica esaustiva dello sviluppo dei singoli nessi consonantici con /s/ e la loro testimonianza in fonti storiche. Cfr. anche Gartmann (1967:69–74) per la varietà di Sorso. La i protetica si presenta anche spesso davanti a /n/ o /r/ (p.es. innìcciu; it. ‘nicchia’; irradizi; it. ‘radice’) (cfr. Maxia 2012:270). Inoltre in molti casi ci sono due interpretazioni diverse per spiegare la presenza della i all’inizio di una parola. Davanti a molte consonanti non sempre la i è identificabile come vocale d’appoggio che si aggiunge a un nesso consonantico assimilato, ma la sua presenza può anche essere attribuita ad un altro processo: la i può anche essere il risultato della vocalizzazione di /s/ (e di /l/, /r/) davanti a /p/ e /b/, come p.es. in veip(p)a (it. ‘vespa’). In questi casi ed anche all’inizio di parola ci vorrebbe però un’analisi più approfondita della lunghezza consonantica di /p/ e /b/. La durata sembra variare considerabilmente (cfr. p.es. Gartmann 1967:73) è viene trascritta in modi diversi nei lavori che trattano la fonetica del sassarese (cfr. per più dettagli Linzmeier 2018:199). Anche i dizionari del sassarese propongono o la grafia (cfr. Rubattu 22006) o

    (cfr. Solinas 2016) (p.es. vs. ; it. ‘spalla’).

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    Laura Linzmeier

    per consonante l’appoggio tramite i è invece obbligatorio davanti ai nessi qui in questione (cfr. Maxia 2012:269): p.es. /ˈxudu/: [uniˈxxudu] (un ischudu; it. ‘uno scudo’), /ˈxobburu/: [uniˈxxobburu] (un ischobburu; it. ‘una scopa’), /ɬtuˈdenti/: [uniɬ(t)uˈdenti] (un isthudenti; it. ‘uno studente’). In questi sintagmi la i aiuta ad aprire il cluster triconsonantico. La i protetica generalmente vige anche all’inizio di un discorso e dopo una pausa, anche se – come menziona Maxia (2012:269) – “[…] il suo impiego costituisce una scelta del parlante, per es. sass. (i)ɬta […]”.31 La non-obbligatorietà del fenomeno dopo vocale come anche il fatto che la i protetica non venga consolidata dal sistema fonologico della lingua di contatto (cioè l’italiano) – che conosce solo pochi relitti lessicali contenenti la i protetica (p.es. per iscritto) – lasciano presumere che la vitalità del fenomeno sia cambiata nella produzione orale dei parlanti del sassarese più giovani. Anche nell’ambito della i protetica si può vedere che il sassarese presenta una struttura ibrida, visto che coincide con il sardo (nei contesti obbligatori) e con l’italiano (nei contesti facoltativi). L’analisi delle registrazioni vocali ha dimostrato che la i protetica è molto vitale nella pronuncia dei parlanti competenti e dei semi-speaker del sassarese/sorsese davanti ai nessi [xx] e [ɬ(t)] e che i contesti in cui la i è obbligatoria vengono rispettati.32 Ciò nonostante sono soprattutto i parlanti competenti che rinunciano più spesso all’impiego della i se non è obbligatoria (p.es. la schora al posto di l’ischora, lu schobburu al posto di l’ischobburu). Sono soprattutto i semi-speaker ad impiegare la i protetica più frequentemente nei contesti facoltativi: ricorrono 31 Anche se non possiamo ricostruire esattamente lo sviluppo della struttura sillabica di s + occlusiva nel sassarese, dobbiamo presumere che almeno da un punto di vista sincronico il nesso [ɬt] rappresenti oggi un attacco autorizzato. Manca ancora uno studio che si dedichi dettagliatamente alla struttura sillabica del sassarese e soprattutto alla domanda se in contesto intervocalico si tratti di cluster eterosillabici. Nei lavori sul sassarese si trovano trascrizioni diverse per i nessi [xx] e [ɬt]: p.es. Toso (2012:62) nota [iˈxxɔra] (it. ‘scuola’) mentre Sole (2003:57) documenta [ixˈxina] (it. ‘schiena’). Maxia (2012:235) usa la trascrizione [piˈxːina] (it. ‘piscina’) ma anche [ixˈxora]) (it. ‘scuola’) (cfr. Maxia 2017a:434). Possiamo presumere che i oggigiorno non serva più alla riparazione della configurazione /sk/, visto che nel sassarese risulta nel nesso assimilato [xx]. Per [ɬt] nel corpo di parola si trova [paɬˈtɔ] (e [paˈɬtɔ] in cui l’assimilazione delle due consonanti è più progredita; it. ‘paletot’) (cfr. Maxia 2012:213 s.; Sole 2003:57). Molinu (2017:348) nota [iɬˈtiu] (it. ‘estate’) per la “geminata parziale” [ɬt] nella varietà logudorese di Ozieri. Possiamo anche presumere che in parole isolate la i protetica possa servire ad evitare lo scontro di troppe consonanti e a facilitare la pronuncia (cfr. Toso 2012:62, 2019:paragrafo 27), p.es. in nessi triconsonantici non-assimilati come [ɬtr] (isthrea [iɬ ˈtrea]; it. ‘strega’). In questo contributo interpreto il nesso assimilato [xx] come monosillabico (quindi [iˈxxora]), mentre tratto [ɬ(t)] come eterosillabico (quindi [iɬˈ(t)ella]) – anche se, come abbiamo visto, sarebbe da chiarire quale effetto abbia il grado di assimilazione sulla struttura sillabica nel sassarese di oggi e quale influsso eserciti la struttura della lingua di contatto (cioè dell’italiano). 32 Inoltre ci sono due token (uno prodotto da un semi-speaker e uno articolato da un parlante competente) in cui la regola secondo la quale la i protetica è obbligatoria dopo consonante non è stata rispettata: in schora, con schrittu.

    Strutture fonetiche che resistono al contatto linguistico nel sassarese

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    tendenzialmente più spesso a l’ + i protetica ed evitano la/lu davanti ai sostantivi, il che può avere varie spiegazioni (cfr. Linzmeier 2018:531f.): – La regola che dice che la i protetica è obbligatoria, solo nei casi in cui il lessema in questione è preceduto da una parola/un determinante che termina per consonante (cfr. Maxia 2012:269) è stata abbandonata dai semi-speaker. Dato che hanno perso la regola di alternanza che fissa i contesti in cui la prostesi è obbligatoria o facoltativa, usano i in tutti e due casi in modo generalizzato. In questa maniera la vocale i permette la stabilizzazione della simmetria un ischobburu – l’ischobburu (al posto di un ischobburu – lu schobburu). Qualora i nessi [xx] e [ɬ(t)] appaiano all’inizio di parola sembrano suscitare automaticamente la prostesi di i; – due semi-speaker (uno sassarese, uno sorsese) hanno applicato la i in maniera ipercorretta, cioè l’hanno usata in lessemi che iniziano con /p/, /k/ o /dʒ/ (p.es. poipu, pani, coddu, gesgia; it. ‘polpo, pane, collo, chiesa’ → un ip(p)oipu, un ip(p)ane, un ic(c)ollu, un’ig(g)esgia). La realizzazione di forme ipercorrette può essere interpretata come testimonianza della salienza del fenomeno nel sassarese/sorsese; – visto che il sassarese non si evolve nella direzione delle lingua dominante di contatto, per quanto riguarda la i protetica, c’è anche da presumere che il sardo logudorese – lingua in cui vige la regola della i-protetica davanti a parola iniziante con s + consonante in tutti i contesti fonologici – funga da fattore stabilizzante e generi nella consapevolezza dei parlanti del sassarese/sorsese la percezione che la i protetica, sentita come tratto tipico delle varietà sarde confinanti, vada mantenuta anche laddove è agrammaticale, irregolare o non necessaria.

    5.2

    Laterali fricative alveolari [ɬ]/[ɮ] e fricative velari [xx]/[ɣɣ]

    Le laterali fricative alveolari [ɬ]/[ɮ] e le fricative velari [xx]/[ɣɣ] sono da considerarsi degli sviluppi particolari del sassarese, e hanno da lungo tempo suscitato l’interesse dei ricercatori.33 Le laterali fricative alveolari [ɬ]/[ɮ] sono il risultato di /l/, /r/, /s/ + /t/ e /d/ (p.es. cabbisthuria [kabbiɬˈ(t)urja]; it. ‘tetto’ e sardhu [ˈsaɮ(d)u]; it. ‘sardo’). L’articolazione di questi nessi consonantici può variare considerevolmente da un par33 Cfr. Contini (1987). Queste fricative fanno anche parte del repertorio fonetico del castellanese e del logudorese del nord-ovest (cfr. Contini 1987:338); esse sono però assenti nelle varietà sarde centrali, per cui i ricercatori le considerano piuttosto come fenomeni non indigeni del sardo, ma piuttosto indotti dal contatto linguistico esogeno (cfr. Linzmeier 2018:209).

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    Laura Linzmeier

    lante all’altro (cfr. Sole 2003:134).34 Secondo Sole (2003:134) nel sassarese predominano le strutture [ɬ]/[ɬt] come in a[ɬ]u/a[ɬt]u (it. ‘alto’) e [ɮ]/[ɮd] come in so[ɮ]u/so[ɮd]u (it. ‘sordo’). Maxia, invece, descrive degli sviluppi individuali per /rt/, /st/ e /lt/: /rt/ → [ɬt], /st/ → [ɬt] e /lt/ → [ɬt]/[ɬt] (cfr. Maxia 2012:230, 241, 214), mentre afferma che /rd/, /sd/ e /ld/, al contrario, danno sempre [ɮd] (cfr. Maxia 2012:221, 238, 209). Dato che il grado di assimilazione delle consonanti /l/, /r/, /s/ con /t/ e /d/ può variare, non è possibile attribuire alle laterali fricative alveolari lo status di fonemi:35 Nel caso dell’articolazione [ˈsaɬtu] e [ˈsaɮdu] ossia [ˈsaɬtu] e [ˈsaɮdu] (salthu e saldhu; it. ‘salto’ e ‘saldo’) non si tratta infatti di fonemi, ma di varianti combinatorie (di /l/ davanti a /t/ e /d/ nei due esempi qui presentati).36 Se le due consonanti si assimilano completamente e risultano nelle fricative – come p.es. in salthu [ˈsaɬ(ɬ)u] e saldhu [ˈsaɮ(ɮ)u] – possiamo identificare alcune coppie minime. L’opposizione dei due suoni, però, si manifesta solo se essi si presentano sotto forma di fricative assimilate ed in contesto intervocalico (cfr. Linzmeier 2018:217). Nel lavoro qui citato – che si concentrava più sull’analisi della presenza o dell’assenza delle fricative [ɬ]/[ɮ] e meno sul grado dell’assimilazione e lunghezza del nesso consonantico – si è deciso di ricorrere sempre alla trascrizione [ɬ(t)] e [ɮ(d)]. Le fricative velari [xx]/[ɣɣ] derivano dai nessi etimologici /l/, /r/, /s/ + /k/ e /ɡ/.37 Questi suoni sono il risultato di meccanismi assimilatori che il sassarese condivide con alcune varietà sarde parlate nel nord della Sardegna (cfr. Contini 1987:296). A differenza dell’evoluzione di /l/, /r/, /s/ + /t/ e /d/ i nessi consonantici /l/, /r/, /s/ + /k/ e /ɡ/ si realizzano più generalmente in fricative lunghe. L’opposizione con altri nessi si manifesta in realizzazioni come p.es. sulchu [ˈsuxxu] (it. ‘solco’) vs. succu [ˈsukku] (it. ‘minestrina’) (cfr. Contini 1987:569) e larghu [ˈlaɣɣu] (it. ‘largo’) vs. lardhu [ˈlaɮɮu] (it. ‘lardo’) (cfr. Linzmeier 2018:219).38

    34 Inoltre il grado di assimilazione dipende anche dalla velocità dell’eloquio (cfr. Contini 1987:351). 35 Cfr. l’inventario fonologico del sassarese postulato da Contini (1987:567). Cfr. anche Maxia (2017a:432–435). 36 Rispettivamente in altri esempi si tratta di realizzazioni allofoniche di /r/ o /s/ davanti a /t/, /d/. Visto che /l/, /r/ e /s/ danno tutti [ɬ] e [ɮ] possiamo parlare di neutralizzazione delle consonanti in questione se appaiono davanti a /t/ e /d/. Per questo motivo ne risultano spesso parole omofone come p.es. sardhu e saldhu (it. ‘sardo’ e ‘saldo’) che possono essere articolate tutte e due [ˈsaɮ(d)u]. 37 Cfr. Maxia (2012:207 s., 210s., 217 s., 222, 235, 238 s.; 2017a:434 s.) e Gartmann (1967:69 s.). C’è da precisare che lo sviluppo di /lk/, /rk/ e /sk/, a rigore, risulta in una fricativa palatale dopo le vocali /i, e, ԑ/ e in una fricativa velare dopo /u, o, ɔ, a/ (cfr. Contini 1987:295, 297; Sole 2003:57): p.es. po[xx]u (it. ‘porco’) vs. i[çç]ina (it. ‘schiena’). Nel quadro del lavoro qui citato si è usata la trascrizione [xx] in tutti e due i contesti. 38 Contini (1987:567) menziona /x/ tra i fonemi del repertorio consonantico del sassarese. Maxia (2017a:434) menziona /xː/ e /ɣː/ tra gli esiti di /l/, /r/, /s/ + consonante.

    Strutture fonetiche che resistono al contatto linguistico nel sassarese

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    L’analisi delle registrazioni vocali ha dimostrato che i parlanti competenti e i semi-speaker di tutte e due le varietà del sassarese padroneggiano la pronuncia delle laterali fricative alveolari [ɬ]/[ɮ] e che impiegano i due suoni soprattutto nelle parole che fanno parte del lessico quotidiano (p.es. castheddu, cultheddu, cordha, lardhu39). Secondo il concetto di marcatezza (cfr. §2), i due suoni possono essere descritti come marcati visto che sono poco diffusi nelle lingue del mondo (cfr. Moran et al. 2014) e si distinguono per la loro complessità articolatoria. Inoltre, come abbiamo visto, è dubbio se possa essere attribuito loro lo status di fonemi, il che li rende ancora più fragili nel sistema fonetico-fonologico del sassarese (cfr. Linzmeier 2018:217). Per lo più [ɬ]/[ɮ] non fanno parte del repertorio fonetico-fonologico della lingua dominante di contatto, cioè dell’italiano, per cui ci si sarebbe potuti aspettare che molti più parlanti abbandonassero i suoni fricativi nella loro pronuncia e che il sassarese si muovesse in direzione del sistema consonantico dell’italiano. In un tale contesto la vitalità delle fricative è infatti molto sorprendente e deve essere spiegata sulla base di altri meccanismi che sembrano consolidare il mantenimento dei suoni in questione. Oltre a ciò, dall’analisi delle registrazioni vocali è risultato che i parlanti competenti e i semi-speaker del sassarese e del sorsese in generale sanno anche pronunciare le fricative velari [xx]/[ɣɣ]. Comunque si è mostrata la tendenza ad evitare [xx] in parole che si usano meno frequentemente (p.es. falchu, palchu, zirchu, buschu, furchittoni40) e a sostituire i lessemi, in parte o completamente, con nessi o parole della lingua italiana. Per quanto riguarda la [ɣɣ] sonora, si è potuto osservare la tendenza a sostituire [ɣɣ] con [ɡɡ] nel lessema algha ([ˈaɣɣa] → [ˈaɡɡa]) mentre la sorda [xx] non è mai stata spostata in direzione di [kk]. Nel caso di algha i fattori che hanno portato al mutamento [ɣɣ] → [ɡɡ] si possono eventualmente trovare nella debole percettibilità di [ɣɣ] e nel fatto che la fricativa velare sonora non fa parte del repertorio dell’italiano.41 Comunque questa se39 It. ‘castello, coltello, corda, lardo’. 40 It. ‘falco, palco, circo, bosco, forchettone’. 41 Quindi anche nei casi in cui i parlanti non mantengono le fricative in questione non significa automaticamente che i nessi consonantici sassaresi diventino completamente identici a quelli dell’italiano. Dall’analisi dei dati risulta nettamente che alcuni semi-speaker creano forme ibride impiegando consonanti che tutti e due i sistemi (cioè quello sassarese e quello italiano) conoscono. Alla fine però risultano dei lessemi che sono composti contemporaneamente da elementi dei due sistemi in contatto: questo succede tramite lo spostamento del luogo di articolazione (come p.es. in mine[ɬtr]a forma presente nei dati anche come mine[ʃʃ]a con fricativa allungata post-alveolare – mentre in italiano si dice minestra) o tramite il cambiamento del modo di articolazione (come p.es. in algha [ˈaɣɣa], che nei dati compare spesso come [ˈaɡɡa] con occlusiva velare allungata – e non come alga [ˈalɡa] che sarebbe l’equivalente italiano). Per quanto riguarda le parole sassaresi che contengono [ɮ(d)], sono state identificate sporadicamente alcune forme in cui [ɮ(d)] risulta in [ld], cioè la frizione complessa di [ɮ] viene soppressa, mentre la lateralità della consonante viene mantenuta tramite l’impiego di [l]. Così si trovano nei dati le forme colda [ˈkɔlda] e raldo [ˈraldo], la cui

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    conda ragione non sembra valere per [xx] (cfr. Linzmeier 2018:534): visto che il sassarese/sorsese subisce la pressione dell’influsso dell’italiano, il cui sistema fonetico-fonologico non prevede le fricative velari, il mantenimento di [xx] nella pronuncia dei semi-speaker è infatti sorprendente. Come abbiamo visto, possiamo attribuire lo status fonematico alla fricativa velare sorda almeno sotto forma di fricativa lunga, il che potrebbe servire come fattore stabilizzante. Però dobbiamo anche considerare altre cause. Un fatto molto importante è che soprattutto i semi-speaker non solo sono in grado di articolare le fricative e le impiegano nel lessico più quotidiano, ma che come risulta dall’analisi, essi usano soprattutto tali suoni per creare delle forme ibride e ipercorrette. Una forma ibrida è una creazione di un compromesso, cioè una nuova forma lessicale che combina regole di costruzione dei due sistemi in contatto. Queste forme sono spesso il risultato di una pronuncia ipercorretta che si manifesta in situazioni in cui i parlanti estendono l’impiego di certe regole di pronuncia a contesti atipici (cfr. Linzmeier 2018:274). Qui di seguito presenterò alcuni esempi di forme ibride enunciate dai semi-speaker sassaresi/sorsesi:42 (1) cabaddu (it. ‘cavallo’) → li gabaldhi [ɡaˈbaɮ(d)i]: invece di articolare [dd] ossia [ɖɖ], il parlante impiega [ɮ(d)] in modo ipercorretto creando così una nuova forma ibrida. (2) predda/peddra (it. ‘pietra’) → li pedhri [ˈpeɮri]: il parlante sostituisce [d] con [ɮ] anche se non si tratta del nesso -rd-, ma di -dr-. (3) gianna → it. porta → una/la bortha [ˈboɬ(t)a]: in questo esempio la base lessicale non è sassarese bensì italiana. Il parlante ignora la parola sassarese gianna e impiega l’equivalente italiano porta. Poi trasforma -rt- in [ɬ(t)] secondo le regole del sassarese. (Inoltre sonorizza [p] intervocalica in [b].) (4) crasthu (it. ‘pietra’) → li craschi [ˈcraxxi]: invece di impiegare la laterale fricativa alveolare [ɬ(t)], il parlante fa ricorso alla fricativa velare [xx]. (5) ippau (it. ‘spago’) → l’ischpagu [ixˈpaɡu]: in questo esempio sembra che la base lessicale impiegata sia l’italiano spago. Pare che il parlante conosca la regola sassarese secondo la quale spesso si impiega la i protetica davanti a s + consonante. È probabile che per analogia con parole sassaresi come ischara, ischora, ischudu faccia ricorso a [x]. Quindi si tratta di una forma ipercorretta perché la i protetica davanti a sp- normalmente non risulta in una fricativa velare. Lo stesso vale per l’esempio seguente. (6) ippadda (it. ‘spalla’) → l’ischpalda [ixˈpalda]: anche in questo esempio l’uso della velare [x] è ipercorretto (cfr. l’esempio precedente). articolazione è meno complessa dell’originale pronuncia sassarese [ˈkɔɮ(d)a] e [ˈlaɮ(d)u]. Nonostante questi mutamenti, la lingua sassarese riesce ancora, in questi contesti, a mantenere la distanza dalla lingua italiana, che direbbe corda e lardo con la [r] (cfr. Linzmeier 2018:533). 42 Cfr. Linzmeier (2018:§6.5.1) per ulteriori forme ibride.

    Strutture fonetiche che resistono al contatto linguistico nel sassarese

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    (7) predda/peddra → it. rocca → una/la [ˈroxxa]: il parlante fa ricorso alla parola italiana rocca e in modo ipercorretto assimila -[kk]- in [xx]. Questi esempi di forme ibride e ipercorrette ci mostrano che l’uso delle fricative (cioè di suoni che per la loro complessità articolatoria e la loro assenza nel repertorio fonetico-fonologico della lingua dominante di contatto danno motivo di presumere che siano eventualmente sottoposte all’erosione) non viene evitato, ma persino esteso a nuovi contesti. Il ricorso frequente a questi elementi fonetici può essere interpretato come testimonianza della salienza del fenomeno nel sassarese/sorsese e della volontà dei semi-speaker di mantenere una certa distanza strutturale tra sassarese e italiano (cfr. Linzmeier 2018:555, 2020:85f.). Per lo più la salienza delle fricative è stata provata anche dai numerosi commenti dei parlanti competenti e dei semi-speaker ottenuti tramite il questionario sociolinguistico. L’analisi dei dati sociolinguistici (cfr. nota 27) ha mostrato che la ragione del mantenimento e dell’uso frequente delle fricative è da ricercare nella percezione dei parlanti. Alla domanda F1 Ci sono dei suoni tipici del sassarese/ sorsese diversi dall’italiano o dal sardo? Potrebbe fare un esempio? 11 dei 20 parlanti interrogati (≙ 55 %) hanno indicato una fricativa. Alla domanda F643 12 parlanti (≙ 60 %) hanno risposto che le fricative si trovavano tra i suoni che un parlante dovrebbe saper pronunciare per essere un vero sassarese/sorsese.44 Le fricative sembrano quindi essere dotate di una salienza ampia: nella percezione dei parlanti fungono da marker, cioè da peculiarità tipiche del sassarese/sorsese che si vogliono mantenere. Inoltre, durante la ricerca sul campo svolta nel 2014 si è potuta fare un’altra osservazione molto interessante: molti parlanti (competenti e imperfetti) del sassarese/sorsese che padroneggiavano l’articolazione di [ɬ] sottoponevano interlocutori non sassaresofoni a un test di pronuncia chiedendo loro di pronunciare la parola cabbisthuria ([kabbiɬˈ(t)urja]; it. ‘tetto’). Anche quest’osservazione illustra bene che i parlanti hanno coscienza della complessità e peculiarità di tale suono, il che testimonia di nuovo la sua salienza (cfr. Linzmeier 2018:214).45

    43 F6: Quali suoni un parlante dovrebbe saper pronunciare per essere un vero sassarese/sorsese? 44 Cfr. Linzmeier (2018:552–555) per ulteriori domande e commenti. 45 Già Sole (2003:134) ha indicato la complessità delle laterali fricative alveolari che rappresentano una vera sfida di pronuncia per chi non padroneggia bene il sassarese.

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    6.

    Laura Linzmeier

    Conclusione

    Con il presente contributo ho cercato di mettere in rilievo lo sviluppo attuale del repertorio fonetico-fonologico del sassarese, una varietà che si trova in un contesto di intenso contatto linguistico con la lingua italiana. Di particolare interesse è il comportamento linguistico dei semi-speaker, parlanti la cui lingua madre è l’italiano e che dispongono solo di una competenza parziale o passiva del sassarese. Benché il tradizionale repertorio fonetico-fonologico del sassarese contenga dei suoni che non sono presenti nel repertorio dell’italiano e che secondo il concetto di marcatezza dovrebbero essere considerati come deboli, l’analisi dei dati del lavoro qui citato (Linzmeier 2018) ha dimostrato che la salienza gioca un ruolo importantissimo per la vitalità di queste strutture. La salienza trova espressione nell’uso ipercorretto e ipergeneralizzato di strutture tipiche e nei commenti sull’attitudine verso la lingua originaria, il che serve ai semi-speaker a mantenere la distanza tra le due lingue in contatto.

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    Maria del Mar Vanrell / Francesc Ballone / Teresa Cabré / Pilar Prieto / Carlo Schirru / Francesc Torres-Tamarit

    La ricerca sull’intonazione del sardo: stato attuale e prospettive future

    Abstract: Quest’articolo ha due obiettivi principali. Il primo è quello di offrire una panoramica sulle ricerche attuali nell’ambito dell’intonazione del sardo. Il secondo consiste nell’analizzare alcuni possibili benefici applicativi della ricerca sulla prosodia. Tra gli aspetti più caratteristici dell’intonazione del sardo segnaliamo il mancato utilizzo sia del tono alto per marcare continuazione che dei toni ascendenti nelle frasi interrogative e l’uso abbondante di toni extra alti (nelle frasi interrogative) e di prominenze iniziali (nelle dichiarative di focus contrastivo e nei vocativi). È inoltre interessante ricordare che spesso in sardo l’accento nucleare non è realizzato sull’elemento più a destra, ma su quello più a sinistra. Tra le varietà considerate, il logudorese e il campidanese, non sono state riscontrate chiare differenze dialettali di intonazione, differenze invece riscontrabili nel maggior uso per il logudorese della particella interrogativa a, e nell’uso relativamente più raro in campidanese del troncamento vocativo. Per quanto riguarda la ricerca linguistica teorica e applicata siamo in grado di immaginare un futuro pieno di possibili applicazioni pratiche per tutte le lingue, sardo incluso. Il nostro auspicio è che la raccolta di dati su quest’ultima lingua e la loro applicazione in ambiti come la didattica e le nuove tecnologie possano favorirne un uso che tenda sempre più alla piena normalità.

    1.

    Introduzione

    Il sardo è una lingua romanza parlata approssimativamente da un milione di parlanti in Sardegna, la seconda isola più grande del Mediterraneo. La lingua sarda, che secondo Bartoli (1903) è “forse il più caratteristico fra gli idiomi neolatini”, è spesso considerata come la più conservativa delle lingue romanze principalmente perché vi si osservano molti tratti arcaici dal latino, come la /k/ velare, anche quando è seguita da una vocale palatale (p. es.: centum > chentu [Èkentu] ‘cento’), o la -s del nominativo singolare in alcune parole neutre della terza declinazione (p. es.: tempus > tempus ‘tempo’) (Tagliavini 1969:390–391, fra

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    Maria del Mar Vanrell et al.

    altri). È stato argomentato che la presenza di tali tratti linguistici conservativi potrebbe giustificarsi dalla scarsa influenza di altre lingue romanze (Jones 1988), sebbene altri autori tendano a ridimensionare l’idea che il sardo sia una lingua particolarmente arcaicizzante, visto che presenta anche diverse innovazioni fonetiche (Bolognesi & Heeringa 2005). Nonostante il sardo sia stato riconosciuto dalla comunità scientifica come lingua a sé già dall’inizio del secolo XX (Meyer-Lübke 1901), fu solo tra il 1997 (Legge Regionale 26/971) e il 1999 (Legge Nazionale 482/992) che ottenne lo status di lingua ufficiale della Repubblica Italiana (Grimaldi & Remberger 2001). Nonostante negli ultimi anni siano state portate avanti alcune iniziative tendenti all’elaborazione di standard linguistici per il sardo, e la recente approvazione della Legge Regionale 22 del 20183 per la disciplina dell’insegnamento del sardo e delle varietà alloglotte della Sardegna nelle scuole elementari e medie inferiori, gli indicatori sociolinguistici a disposizione sembrano confermare la classificazione UNESCO del sardo come lingua “sicuramente minacciata”4, a causa del sempre più evidente processo di interruzione linguistica intergenerazionale che limita fortemente l’acquisizione di tale lingua da parte delle generazioni più giovani (Oppo et al. 20065). È verosimile pensare che tali risultati siano oggi ancora più critici. In Sardegna sono presenti anche lingue storiche alloglotte: il catalano, nella città di Alghero; il tabarchino (varietà ligure originaria del quartiere genovese di Pegli), nei comuni di Carloforte e Calasetta; il còrso (in una varietà sardizzata), nell’area denominata Gallura, nel nord dell’isola. Inoltre, è presente il sassarese, un idioma parlato nella Sardegna nord-occidentale e considerato da un lato come un’altra varietà di còrso sardizzato (Maxia 1999), dall’altro come una lingua creola nata dalla fusione di sardo e varietà di toscano (Sole 1999). Sebbene siano possibili molte classificazioni dialettali, in termini generali è usuale suddividere il sardo nelle due macrovarietà: logudorese6 (parlata nel 1 Disponibile a https://www.regione.sardegna.it/j/v/86?v=9&c=72&file=1997026. 2 Disponibile a https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1999;482. 3 Disponibile a https://www.regione.sardegna.it/j/v/2604?s=374982&v=2&c=93175&t=1&an no=. 4 Disponibile a http://www.unesco.org/languages-atlas/en/atlasmap/language-id-337.html. 5 Questo studio indica come, in generale, il numero totale dei sardofoni sia ancora abbastanza alto, in una percentuale prossima al 70% dei residenti, mentre più allarmanti sono i dati sulla competenza linguistica intergenerazionale. In tal senso (cfr. fig. 1.1; i dati però sono da considerarsi meramente indicativi, in quanto includono anche altre varietà alloglotte della Sardegna) si veda in particolare la discrepanza tra le parlanti di sesso femminile, che dichiarano di parlare una lingua locale nell’83,1% dei casi nella fascia d’età più elevata (65+), percentuale che quasi si dimezza nella fascia d’età 15–24 anni (45,8%). 6 Non è infrequente trovare, anche nelle trattazioni di carattere macrodialettale, l’ulteriore partizione della macrovarietà logudorese in nuorese (parlato nelle aree centro-orientali dell’isola) e logudorese.

    La ricerca sull’intonazione del sardo: stato attuale e prospettive future

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    centro nord dell’isola) e campidanese (parlata nel centro sud), tassonomia questa che utilizzeremo anche nel presente studio. I lavori sull’intonazione del sardo si sono principalmente occupati della variazione dialettale (Contini 1992; Lai & Zucca 2004; Zucca 2005), differenze intonative secondo il tipo di frase o significato pragmatico (Contini 1976, 1984; Bolinger 1989; Lai 2002; Jones 1993; Zucca 2005; Vanrell & Cabré 2011; Kim & Repetti 2013; Cabré & Vanrell 2013) o dell’intonazione della varietà di italiano parlato in Sardegna, detta anche italiano regionale sardo (Canepari 1980, 1992; Schirru 1981–1982, 1992). La maggior parte degli studi che hanno investigato la curva melodica o F0 nelle frasi interrogative totali e nelle dichiarative, sia in sardo che nell’italiano regionale sardo concordano sulla caratterizzazione intonativa discendente di tali tipologie di frasi. Sul piano strutturale, ciò che appare rilevante nella distinzione fra dichiarative e interrogative totali di tali sistemi linguistici è l’altezza tonale della sillaba finale pretonica, che nel caso delle interrogative è realizzata con un tono extra alto. Questo avviene sia nelle domande con nessun marcatore lessicale/ sintattico specifico – nel qual caso il tono extra alto è seguito, nella varietà sarda dell’italiano, da una caduta tonale repentina (Schirru 1982) –, ma anche nel caso delle domande introdotte dalla particella a. Per contro, le domande polari che presentano anteposizione di costituenti (p. es.: Bidu l’as? ‘L’hai visto?’) sono spesso caratterizzate da un’intonazione ascendente-discendente (Contini 1984). Per quanto riguarda i vocativi, possono essere pronunciati in due forme alternative: (a) attraverso il troncamento, un processo consistente nella cancellazione del materiale che segue la vocale accentata, p. es.: Gòsamu > Go’, Bainzu > Bai’, insieme a un accento enfatico ascendente allineato con la prima sillaba del nome; o (b) attraverso l’intonazione cantata (chanted tune), quando la base del nome non è troncata (Cabré & Vanrell 2013). La variazione dialettale intonativa, sia in sardo che in italiano, è ancora una questione insoluta. Mentre sembra che i pattern di F0 finali trovati nelle dichiarative delle interrogative totali di Nuoro (logudorese) siano molto simili a quelli di Cagliari (campidanese) (Lai & Zucca 2004), ci sono ancora delle peculiarità nella F0 prenucleare o nella durata che potrebbero essere considerate come evidenza in favore dell’esistenza di variazione dialettale (Lai & Zucca 2004). Per quanto ne sappiamo, non ci sono studi specifici sul fraseggio prosodico in sardo, mentre sono disponibili alcune note descrittive che suggeriscono che in sardo i cambiamenti nell’ordine delle parole si manifestano a livello prosodico mediante le pause o la presenza di “un contorno intonativo basso e abbastanza piatto” dopo le dislocazioni a destra o l’anteposizione di costituenti (Jones 1993:333). Tali note descrittive, supportate a livello (per ora meramente) intuitivo dai due coautori sardofoni di quest’articolo, ci portano a supporre l’esistenza di un costituente prosodico intermedio tra la parola prosodica (PW) e la frase

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    Maria del Mar Vanrell et al.

    intonativa (IP). Il nostro argomento in favore della frase intermedia (ip) è che i parlanti nativi possono percepire un livello di giuntura che è meno stringente di quello esistente tra le parole, ma più stringente di quello che c’è tra le unità tonali. Due sono gli obiettivi di quest’articolo. Il primo è quello di introdurre il sistema di notazione ToBI (abbreviazione di Tones and Breaks Indices ‘Toni e Indici Pausa’) applicato al sardo, Sard_ToBI (Vanrell et al. 2015), che si è sviluppato recentemente. Il secondo è quello di analizzare alcuni possibili benefici applicativi della ricerca sulla prosodia in generale e, nello specifico, dello sviluppo di un sistema standard di trascrizione dell’intonazione, com’è il sistema Sard_ToBI. L’articolo è strutturato come segue: nella sezione 2 si presenta il sistema ToBI sviluppato per il sardo a partire dal 2010; nella sezione 3 si analizza l’impatto che le ricerche sull’intonazione del sardo possono avere nell’ambito della ricerca applicata; infine, nell’ultima sezione si presentano le conclusioni.

    2.

    Sviluppo del sistema Sard_ToBI

    Intorno al 2010, ricercatori dell’Universitat Pompeu Fabra di Barcellona proposero l’idea di sviluppare un atlante dell’intonazione romanza (Prieto et al. 2010–2014). Quest’atlante aveva l’obiettivo di presentare materiali audio e video per lo studio dell’intonazione di diverse lingue romanze: conversazioni, interviste ed enunciati che rappresentassero distinti tipi di frase, i quali dovevano costituire la base per la descrizione della fonologia intonativa delle lingue romanze (Frota & Prieto 2015). Il sardo è entrato a far parte del progetto insieme ad altre otto lingue della famiglia romanza: il catalano, il francese, il friulano, l’italiano, l’occitano, il portoghese, il rumeno e lo spagnolo. L’intonazione e i modelli di fraseggio usati per trasmettere specifici significati pragmatici in ciascuna di queste lingue sono stati codificati secondo il modello Autosegmentale-Metrico, attraverso adattamenti del sistema ToBI (Tones and Breaks Indices ‘Toni e Indici Pausa’) per ogni lingua considerata, sviluppato per la lingua inglese dalle ricercatrici americane Janet Pierrehumbert e Mary Beckman (Pierrehumbert 1980, Pierrehumbert & Beckman 1988). Nel modello fonologico metrico e autosegmentale si presume che i toni costituiscano un livello separato, associato al livello segmentale, cioè al testo, mediante regole specifiche (Goldsmith 1976). Se osserviamo l’esempio in (1) in una lingua ipotetica, preso da Hualde (2003:156), possiamo notare come l’elisione del segmento a, percepibile a livello segmentale, non ha causato nessuna modifica a livello tonale. In altre parole, sebbene sia stato eliso un segmento della frase, il tono associato a questo stesso segmento vocalico si è preservato e si è associato alla sillaba seguente.

    La ricerca sull’intonazione del sardo: stato attuale e prospettive future

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    (1) p a t a k a i m o → p a t a k i m o | | | | | | | | | H L H L H H L HL H

    Il modello si chiama anche “segmentale” perché la maniera in cui i toni si associano alla catena fonica dipende, in larga misura, dalle relazioni che si stabiliscono sia tra le sillabe di ogni parola che tra le parole dell’enunciato. Così, nell’esempio (2) (Hualde 2003:257), la sillaba percepita come più prominente è -fan-, mentre in (3) è la sillaba accentata di africanu che si percepisce più prominente rispetto alla corrispondente tonica di elefante. (2) elefante ‘elefante’ (3) elefante africanu ‘elefante africanu’

    Nel modello metrico e autosegmentale si propongono due tipi di unità: accenti tonali e toni di confine. Gli accenti tonali si associano tipicamente alle sillabe accentate e sono rappresentati con un asterisco (*), mentre i toni di confine si associano ai confini prosodici e vengono rappresentati dal simbolo percentuale (%) quando sono associati ai sintagmi intonativi e col trattino (-) se si associano ai sintagmi intermedi. La rappresentazione fonologica di una sequenza specifica è, pertanto, il risultato di una catena di accenti tonali e toni di confine. Le regole d’implementazione fonetica sono responsabili della generazione del continuum melodico. Gli accenti tonali possono essere monotonali (L*, H*) o bitonali (L+H*, H+L*).7 Un enunciato può avere più di un accento tonale. In questo caso, l’ultimo accento è l’accento nucleare, mentre i restanti accenti tonali sono chiamati accenti tonali prenucleari. È opportuno rilevare che non tutte le sillabe accentate portano anche accento tonale; quest’ultimo, infatti, può essere il risultato di una scelta pragmatica che permette al parlante di evidenziare alcune parole più di altre. Per esempio nella figura 18, cfr. (4), il parlante ha deciso di produrre un accento tonale soltanto sulla parola devent e non su qu[á]nts, din[é]rs e acab[á]r. (4) Quants diners va acabar devent, al final? (catalano) Quanti soldi ha finito dovendo alla fine ‘Alla fine quanti soldi doveva?’

    7 L e H significano, rispettivamente ‘basso’ (L(ow) in inglese) e ‘alto’ (H(igh) in inglese). 8 Nella segmentazione delle parole si è seguito un criterio grafemico, mentre nella segmentazione delle sillabe con accento tonale il criterio è stato fonetico-fonologico.

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    Figura 1. Curva di F0, trascrizione tonale e ortografica della frase in (4). I confini delle sillabe con accento tonale sono indicati nella tier 1.

    Per la maggior parte delle lingue romanze sono stati proposti due livelli di frase: il sintagma intonativo (IP) e il sintagma intermedio (ip); riguardo a tale proposta, è stato argomentato che un diverso allineamento del tono di sintagma intermedio potrebbe generare una differenza di significato in frasi apparentemente ambigue (esempio (5) per il catalano, cfr. Prieto 1997). Pertanto, in (5a) il tono H- si allineerebbe con la fine della parola vella ‘la vecchia’, mentre in (5b) lo farebbe con la fine di llança ‘lancia’. (5) a. [La vella]Sintagma Nominale [llança la vecchia lancia ‘La vecchia lancia la minaccia.’ b. [La vella llança]Sintagma Nominale la vecchia lancia ‘La vecchia lancia la minaccia.’

    l’amenaça]Sintagma Verbale la minaccia [l’amenaça]Sintagma Verbale la minaccia

    Con lo scopo di raccogliere i dati di base per sviluppare il sistema ToBI per il sardo, è stato elaborato un questionario basato sul metodo del Discourse Completion Task o Compito di Completamento del Discorso (CCD) (Vanrell et al. 2018). Il CCD è un metodo induttivo in cui il ricercatore presenta all’informatore una serie di situazioni pragmatiche diverse, che ricalcano il più possibile la vita reale, con lo scopo di ottenere dal parlante risposte quanto più naturali possibile (cfr. (6)):

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    (6) Intras in una butega a inue no ses intrada mai e preguntas si b’at mandarinu, però sa pisedda no at cumpresu bene ite cheres, si cheres limone. Li torras a nàrrere mandarinu. – Cherzo unu chilu de mandarinu. – Limone? – Apo nadu mandarinu! ‘Entri in un negozio, dove non sei mai entrata e chiedi se hanno dei mandarini, ma la commessa non ha capito bene cosa vuoi, se vuoi dei limoni. Le dici di nuovo che vorresti dei mandarini. – Vorrei un chilo di mandarini. – Limoni? – Ho detto mandarini!’

    Le situazioni specifiche (31 in totale) sono state pensate per ottenere diversi tipi di frasi: dichiarative, interrogative, ordini e richieste, e vocativi prodotti con intenzioni diverse. Il questionario è stato sottoposto a 9 informanti sardofoni, di entrambi i sessi e rappresentativi delle due macroaree dialettali di riferimento (cinque per il logudorese e quattro per il campidanese). L’intervista è stata condotta in sardo da parlanti madrelingua9 di ogni varietà; per aumentare il senso di adattamento alla vita reale di ogni situazione, i questionari sono stati adattati alle microvarietà dialettali degli intervistati (ossia, Ittiri, Oschiri, Lodè, Iglesias, Sinnai). Le registrazioni sono state effettuate con un registratore digitale Marantz Professional PMD660 e un microfono Rode NTG-2. Nella trascrizione ortografica delle frasi è stato utilizzato un criterio che includeva alcune, seppur parziali, indicazioni della Limba Sarda Comuna (Regione Autonoma della Sardegna 2006), lo standard proposto a suo tempo per i documenti in uscita dell’amministrazione regionale. I contorni intonativi che saranno discussi nei paragrafi seguenti sono rappresentativi delle due macro-varietà di riferimento. Nella maggior parte dei casi i pattern intonativi del campidanese e del logudorese coincidono; quando si verifica tale condizione mostreremo solo uno dei due pattern, scelto in maniera aleatoria tra le due varietà. Per limiti di spazio, ci limiteremo a presentare i contorni intonativi delle tipologie di frasi più prototipiche, come le asserzioni (sezione 2.1), le domande (sezione 2.2) e i vocativi (sezione 2.3). Nella tabella 1 possiamo osservare un quadro riassuntivo di tutte le configurazioni nucleari nel sistema Sard_ToBI attestate in sardo così come i significati pragmatici associati a tali configurazioni, rimandando il lettore a Vanrell et al. (2015) per una presentazione più dettagliata dello stesso modello.

    9 Gli intervistatori per l’area logudorese sono Francesc Ballone e Gianni Muroni, e per l’area campidanese Amos Cardia. I primi due autori di questo capitolo hanno presenziato a tutte le sessioni di registrazione.

    78 2.1

    Maria del Mar Vanrell et al.

    Asserzioni

    In tutti gli esempi considerati, il focus ampio, cioè, un focus che si estende alla frase intera, è marcato da un accento prenucleare L+H* e un accento nucleare H+L* seguito da un tono di confine L%. A volte la frase può avere una lunghezza particolarmente marcata, condizione che ne determina la divisione in due o più frasi intermedie. La figura 2, per esempio, illustra una dichiarativa con focus ampio nella quale sono realizzate due diverse unità, cfr. (7). In questo caso la prima unità tonale è separata dalla seconda tramite un tono di confine !H-, che in sardo indica continuazione. Si noti, a questo proposito, che la prima unità tonale della figura è composta da un tono discendente H+L* allineato con la sillaba accentata di bidende ‘vedendo’ e un tono ascendente L+H*, seguito dal tono di continuazione !H-, che si allinea con la sillaba accentata di pisedda ‘ragazza’. La seconda unità è caratterizzata da tre toni discendenti H+L* allineati alle sillabe accentate di biende ‘bevendo’, tatza ‘bicchiere’ e nieddu ‘rosso’ (riferito al vino). Il tono di confine finale è basso (L%). (7) So bidende custa pisedda chi s’est biende una tatza sto vedendo Questa Ragazza che si sta bevendo un bicchiere de binu nieddu. (logudorese) di vino rosso ‘Sto vedendo questa ragazza che sta bevendo un bicchiere di vino rosso’.

    Figura 2. Curva di F0, trascrizione tonale e ortografica della frase in (7). I confini delle sillabe con accento tonale sono indicati nella tier 1.

    Il focus di tipo contrastivo riguarda i casi in cui il parlante seleziona un’opzione tra un insieme di alternative; un’opzione, definita “costituente focalizzato”, che contrasta appunto con le alternative disponibili. Com’è noto, in sardo il focus contrastivo si esprime sintatticamente mediante l’anteposizione del costituente focalizzato, come in (8). A livello prosodico, il costituente focalizzato è prodotto con un accento tonale ascendente-discendente (H*+L) e seguito da un accento di

    La ricerca sull’intonazione del sardo: stato attuale e prospettive future

    79

    confine basso (L-). Il materiale postfocale è realizzato generalmente con un’ampiezza frequenziale molto ridotta. La figura 3, cfr. anche (9), mostra il pattern del focus contrastivo prodotto da una parlante di Ittiri (area logudorese), in cui il costituente focalizzato, ossia mandarinu ‘mandarino’ (usato in senso plurale), presenta un accento ascendente-discendente. Inoltre, i parlanti tendono a produrre anche un accento ascendente in corrispondenza della prima sillaba del costituente focalizzato, cioè man-. Questa strategia si usa spesso per indicare enfasi, e si trova anche nei vocativi (cfr. sezione corrispondente qui sotto). Il materiale presente dopo il focus è caratterizzato da un contorno melodico compresso. (8) [Su babbu de Zuanne]F appo vistu. il padre di Giovanni ho visto ‘Ho visto il padre di Giovanni’. (9) Mandarinu cherzo. Non limone! (logudorese) mandarino voglio non limone ‘Voglio mandarini. Non limoni!’

    Figura 3. Curva di F0, trascrizione tonale e ortografica della frase in (9). I confini delle sillabe con accento tonale sono indicati nella tier 1.

    2.2

    Domande

    Le frasi interrogative totali sono quelle che richiedono una risposta affermativa (“sì” o termini corrispondenti) o negativa (“no” o termini corrispondenti). Nonostante la teoria standard degli atti linguistici (Searle 1976) consideri le interrogative esclusivamente come “richieste” (poiché il parlante fa una richiesta d’informazione che l’interlocutore deve soddisfare), sappiamo che tali richieste possono in realtà essere formulate con intenzioni diverse: la necessità di conferma di assunzioni precedenti, il desiderio di formulare un invito o di esprimere sorpresa, contrarietà, ecc.

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    Maria del Mar Vanrell et al.

    In sardo le frasi interrogative totali coinvolgono un’ampia gamma di strutture nella periferia di sinistra: possono seguire la stessa strategia usata nelle dichiarative (cfr. (10a)), possono includere l’anteposizione di costituenti (cfr. (10b)), o l’uso di particelle interrogative (cfr. (10c)), come evidenziato – tra gli altri – da Blasco Ferrer (1984), Contini (1984), Jones (1993), Cruschina & Remberger (2008), Mensching (2010), Remberger (2010), Virdis (2012). Nei casi in cui era attesa la produzione di interrogative totali riscontriamo un uso importante della particella a, sebbene circoscritto alla varietà logudorese (cfr. (11a) per il logudorese e (11b) per il campidanese). In ogni caso analizzato, le due strategie sono state sistematicamente accompagnate da un accento tonale discendente, ¡H+L*, la cui sillaba preaccentata è stata realizzata in un tono extra alto. Il diacritico upstep (¡) è usato per indicare una differenza in altezza tonale che è sistematica e rilevante nella marcatura di un significato pragmatico specifico. In questo caso la differenza tra il tono H+L* e il tono ¡H+L* permette distinguere la dichiarativa con focus ampio dalla domanda totale informativa introdotta dalla particella a. La figura 4 mostra un esempio di domanda totale informativa prodotta da una parlante di Ittiri (cfr. anche (12)). La prima unità tonale contiene l’elemento mandarinu ‘mandarini’, che è dislocato a sinistra, mentre la seconda unità contiene la frase principale introdotta dalla particella a. Entrambe le unità sono caratterizzate da un accento tonale discendente con la sillaba preaccentata realizzata in un tono extra alto e seguito da un tono di confine basso. L’accento nucleare è quello localizzato sull’ultima parola della clausola principale (at ‘ha’).10

    10 Questi dati concordano con i risultati ottenuti in Vanrell et al. (2014), in cui vengono analizzate le marcature lessicali, sintattiche e intonative del condizionamento (bias) epistemico (evidenza presente nel contesto situazionale presente) e evidenziale (la credenza o aspettativa del parlante) nelle frasi interrogative totali del sardo. I dati sono stati raccolti mediante il CCD (Compito di Completamento del Discorso). I risultati dimostrano che le interrogative totali non-orientate, cioè domande finalizzate alla raccolta di informazioni, sono introdotte dalla particella a e sono caratterizzate dalla configurazione nucleare discendente ¡H+L* L%. Per contro, le frasi interrogative orientate, sia dal punto di vista epistemico che da quello evidenziale, presentano l’intonazione ¡H*+L. La marcatura sintattica dipende dalla polarità del condizionamento: anteposizione del costituente focalizzato per la polarità affermativa e l’uso della negazione per la polarità negativa.

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    La ricerca sull’intonazione del sardo: stato attuale e prospettive future

    (10) a. As intoppadu unu pitzinnu chin hai incrontrato un ragazzo con ruios? rossi ‘Hai incontrato un ragazzo con i capelli rossi?’ b. Ammentatos bos seis a ricordati vi siete a sa lìttera? la lettera ‘Vi siete ricordati di mandare la lettera?’ c. A bos nde seis a ve ne siete sa lìttera? la lettera ‘Vi siete ricordati di mandare la lettera?’

    sos i

    pilos capelli

    nche ci

    mandare mandare

    ammentatos, de imbiare ricordati di mandare

    (11) a. Mandarinu, a che nd’ at? (logudorese) mandarino a ce ne ha ‘Avete dei mandarini?’ b. Mandarinu teneis? (campidanese)11 mandarino avete ‘Avete dei mandarini?’ (12) Mandarinu, a che nd’ at? (logudorese) Mandarino a ce ne ha ‘Avete dei mandarini?’

    Figura 4. Curva di F0, trascrizione tonale e ortografica della frase in (12). I confini delle sillabe con accento tonale sono indicati nella tier 1.

    Le frasi interrogative parziali, invece, esprimono una domanda specifica alla quale non si risponde solo con “sì” o “no”. Possono essere introdotte da pronomi o avverbi come chie ‘chi’, itte ‘che’, cando ‘quando’, cale ‘quale’, in ue ‘dove’, 11 Secondo Carlo Schirru, coautore del presente lavoro e parlante nativo di campidanese, ma anche secondo una comunicazione personale di Amos Cardia, la particella a è alquanto rara, sebbene possibile, nelle domande totali del campidanese.

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    comente ‘come’. In sardo, le parole-Q (ossia pronomi o avverbi che introducono le interrogative parziali) costituiscono il focus della domanda, sebbene non sempre portino l’accento tonale più prominente (Ladd 2008). Per il rumeno, Ladd (2008) ha descritto una situazione molto simile a quella che abbiamo trovato in sardo: l’accento più prominente della frase ricade sulla parola-Q nelle interrogative corte, mentre si posiziona più anteriormente nelle interrogative lunghe. Pertanto, le interrogative parziali neutre corte sono caratterizzate dal tono ascendentediscendente H*+L sulla parola-Q e da un tono basso L* sull’ultima parola lessicale della frase, seguito di un tono di confine L% (figura 5, cfr. anche (13a)). Quando la domanda è più lunga l’accento tonale nucleare si sposta sull’ultima parola prosodica (figura 6, cfr. anche (13b)). Come si può osservare nella figura 6, le interrogative parziali lunghe presentano un tono alto che si estende dall’inizio della frase fino all’ultima sillaba accentata, dove troviamo un accento discendente H+L* allineato con la sillaba accentata dell’ultima parola dell’enunciato, ossia comporare ‘comprare’. Entrambe le frasi illustrate nelle figure 5 e 6 sono state prodotte da una parlante di Ittiri. (13) a. E a in ue andas? (logudorese) e a dove vai ‘E dove vai?’ b. Itte li potto comporare? (logudorese) che le posso comprare ‘Che le posso comprare?

    Figura 5. Curva di F0, trascrizione tonale e ortografica della frase in (13a). I confini delle sillabe con accento tonale sono indicati nella tier 1.

    La ricerca sull’intonazione del sardo: stato attuale e prospettive future

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    Figura 6. Curva di F0, trascrizione tonale e ortografica della frase in (13b). I confini delle sillabe con accento tonale sono indicati nella tier 1.

    2.3

    Vocativi

    Il vocativo è forse uno degli aspetti grammaticali più caratteristici del sardo. L’intonazione cantata (chanted tune), caratterizzata da due note, delle quali la prima è posizionata a un intervallo di tre semitoni dalla seconda, è probabilmente lo schema melodico-intonativo più comune tra quelli usati nelle lingue europee. Le lingue però possono ricorrere ad altri schemi, la cui scelta può essere collegata a diversi fattori pragmatici e grammaticali. In sardo, nel catalano di Alghero e nelle parlate dell’Italia centro meridionale i vocativi sono caratterizzati, oltre che da schemi intonativi specifici, anche da un processo di troncamento. In sardo questo processo di troncamento interessa tutto il materiale segmentale, di lunghezza variabile, che segue la vocale accentata (p. es.: Isperàntzia > Ispera’, Zùlia > Zu’). È importante sottolineare come il processo di troncamento vocativo non abbia niente a che fare con la categoria degli ipocoristici troncati (Molinu 2015, Cabré et al. in pubblicazione), i quali sono orientati da un trocheo disillabico che comprende una posizione prominente, rappresentato dalla sillaba con accento lessicale (Frantziscu > Chicu, Filumena > Mena). Per contro, i vocativi troncati si pronunziano con due posizioni prominenti, rappresentati dalla sillaba iniziale e dalla sillaba con accento lessicale (Fortunadu > Fortuna’, Gòsamu > Go’, Maria > Mari’, Eleonora > Eleono’). Nel questionario, il corpus relativo ai vocativi è stato ottenuto attraverso due situazioni differenti ad intensità crescente, come risulta chiaro dagli esempi (14a) e (14b), il cui obbiettivo era l’ottenimento di vocativi che definiamo, rispettivamente, “meno insistenti” e “più insistenti”.

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    (14) a. Intras in sa domo de s’amiga tua, Maria, però, da chi ses a intro, no la bides. Pensas chi siet in s’appusentu. Giama·la. Maria! ‘Entri in casa della tua amica, Maria, però, una volta dentro, non la vedi. Pensi che sia in camera sua. Chiamala.’ b. Passant deghe segundos e no b’essit nisciunu. Pensas chi fossis siet subra, e la torras a giamare. ‘Passano dieci secondi e non si vede nessuno. Pensi che forse sia al piano di sopra, e la richiami.’ ‘O Mari’!!

    Nei vocativi meno insistenti del sardo si trovano due pattern diversi a seconda della varietà dialettale: mentre i parlanti logudoresi tendono a usare il troncamento, i parlanti campidanesi sembrano evitarlo, forse per la resistenza più forte di questa varietà alle parole ossitone (cfr. Pittau 1972). Il pattern intonativo riscontrato sia nelle basi troncate che nelle non troncate è identico, ed è costituito da un accento tonale secondario ascendente (L+H*) allineato con la prima sillaba del nome seguito da un accento tonale basso (L*) associato alla sillaba tonica del nome. Il tono di confine è sempre basso. La figura 7 illustra il pattern intonativo L+H* L* L% su una base troncata (cfr. (15a)), prodotto da una parlante logudorese, e la figura 8 illustra lo stesso pattern su una base non troncata (cfr. (16a)), prodotto da una parlante campidanese. In entrambi i casi si osserva un accento tonale ascendente allineato con la prima sillaba del nome e poi un accento tonale basso associato con la sillaba tonica dei nomi seguito da un tono di confine basso. (15) a. Eleono’! (fig. 7) b. Eleonora!! (fig. 9) (16) a. Annamaria! (fig. 8) b. Annamaria!! (fig. 10)

    Figura 7. Curva di F0, trascrizione tonale e ortografica del vocativo meno insistente in (15a). I confini delle sillabe con accento tonale sono indicati nella tier 1.

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    Figura 8. Curva di F0, trascrizione tonale e ortografica del vocativo meno insistente in (16a). I confini delle sillabe con accento tonale sono indicati nella tier 1.

    Possiamo considerare la melodia per i vocativi più insistenti come analoga a quella trovata nei vocativi meno insistenti ma prodotta con un’ampiezza tonale maggiore. In alternativa troviamo anche l’intonazione cantata, cioè un accento tonale ascendente allineato con la sillaba accentata del nome seguito da un tono di confine sostenuto (L+H* !H%), ma sempre prodotto su una base non troncata. Le figure 9 e 10 illustrano l’intonazione cantata prodotta da, rispettivamente, una parlante logudorese (cfr. (15b)) e campidanese (cfr. (16b)).

    Figura 9. Curva di F0, trascrizione tonale e ortografica del vocativo più insistente in (15b). I confini delle sillabe con accento tonale sono indicati nella tier 1.

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    Figura 10. Curva di F0, trascrizione tonale e ortografica del vocativo più insistente in (16b). I confini delle sillabe con accento tonale sono indicati nella tier 1.

    Chiudiamo la presente sezione con un quadro riassuntivo (cfr. tabella 1) delle diverse configurazioni nucleari attestate in sardo e dei significati associati a queste configurazioni. Segnaliamo d’altro canto che le ricerche condotte fino ad ora non hanno evidenziato in generale una corrispondenza univoca tra pattern intonativi e significati, ragione per cui dobbiamo al momento considerare i primi come polisemici. Tabella 1. Configurazioni nucleari attestate in sardo e significati associati a queste configurazioni.

    H+L* L%

    Dichiarative di focus ampio (p. es.: So bidende custa pisedda chi s’est biende una tatza de binu nieddu ‘Sto vedendo questa ragazza che sta bevendo un bicchiere di vino rosso’), interrogative parziali neutre lunghe (p. es.: Itte li potto comporare? ‘Cosa le posso comprare?’) e ordini (p. es.: Beni inoghe! ‘Vieni qua!’).

    H*+L L%

    Dichiarative di focus contrastivo (p. es.: Mandarinu cherzo. Non limone! ‘Voglio mandarini. Non limoni!’), dichiarative di incertezza (p. es.: Mancari non l’agradat ‘Forse non gli piace’) e richieste (p. es.: Tocca, beni, fai·mì cumpangia ‘Dai, vieni, fammi compagnia’). Frasi esclamative (p. es.: Itte fàmine chi appo! ‘Che fame che ho!’).

    L+H* L%

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    ¡H+L* L%

    ¡H*+L L%

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    Interrogative totali (p. es.: Mandarinu, a che nd’at? ‘Avete dei mandarini?’) e interrogative eco parziali (p. es.: Itte m’as dimandatu? A in uve so andande? ‘Cosa mi hai domandato? Dove sto andando?’). Interrogative eco totali (p. es.: Ma male appo intesu? Sa una est? ‘Ho sentito bene? È l’una?’), richieste di conferma (p. es.: Frius tenis? ‘Hai freddo?’) e interrogative parziali neutre corte (p. es.: A in ue andas? ‘Dove vai?’). Vocativi su basi non troncate (p. es. Maria!).

    L+H* !H%

    Vocativi su basi troncate o non troncate (p. es.: Eleono’! o Eleonora! (in campidanese)). (L+H*) L* L%

    3.

    Benefici della ricerca teorica e possibili implicazioni pratiche degli studi sulla prosodia

    Come ben noto esiste un’importante differenza tra la ricerca teorica (detta anche ricerca pura o fondamentale) e la ricerca applicata. La ricerca di base ha come obiettivo il progresso della conoscenza collegata al fenomeno studiato. In maniera complementare, la ricerca applicata mira a sviluppare gli strumenti per rendere accessibili, nella vita di tutti i giorni, i progressi della ricerca pura. Nel campo della linguistica teorica, una migliore conoscenza del funzionamento dei codici verbali può riverberarsi positivamente in numerosi ambiti, tra i quali ricordiamo l’apprendimento di lingue seconde, la linguistica clinica o le tecnologie di riconoscimento vocale. In tema di apprendimento di lingue seconde, alcuni studi (Gordon et al. 2013, Gordon & Darcy 2016) suggeriscono che, come previsto, i gruppi di studenti che ricevono istruzioni esplicite sul funzionamento di fenomeni determinati dell’L2 studiata pervengono a risultati migliori rispetto ai gruppi che non ricevono tale tipo di istruzione. I dati più interessanti emersi dagli studi citati riguardano il miglioramento delle prestazioni, a livello di comprensione, del gruppo che aveva ricevuto istruzioni esplicite di tipo soprasegmentale. Tale miglioramento è ri-

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    sultato infatti più evidente rispetto al gruppo che aveva ricevuto istruzioni esplicite di tipo segmentale. Indipendentemente da quest’ultimo risultato, e nella consapevolezza che l’acquisizione di competenza in una L2 va certamente al di là della dimensione prosodica – per l’area sarda si veda, ad esempio, quanto emerso dalla tesi di laurea sulle Interferenze vocaliche della parlata di Villanovatulo nell’apprendimento del francese (Schirru, 1972–1973) –, è indubbio che la conoscenza, tra l’altro, da parte dei docenti, delle analogie e delle differenze tra i pattern intonativi della L1 dei discenti e della lingua studiata contribuisce ad aumentare la qualità del processo di apprendimento. Per citare un esempio legato al sardo, è noto che quest’idioma presenta un’intonazione interrogativa discendente, che si conserva anche nell’italiano regionale sardo (Schirru 1981– 1982). Questo contorno contrasta fortemente con il contorno ascendente delle interrogative di tipo informativo di lingue come il francese, l’inglese, l’olandese, lo spagnolo o il tedesco. In alcuni casi, lo studente sardo che non abbia una formazione esplicita su tali differenze potrebbe produrre interrogative calcate sulla propria L1, correndo il rischio che queste possano essere interpretate come dichiarative dai parlanti della L2. In altre parole, il raggiungimento di una piena competenza nella L2 necessita di una didattica che includa, nello specifico del presente studio, aspetti di intonazione (comparata). Per quanto riguarda la linguistica clinica ci riferiremo brevemente alla dislessia. Com’è noto, la dislessia12 è un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) che riguarda la capacità di transcodifica fonemico-grafemica, e si manifesta con la difficoltà, in soggetti con un quoziente intellettivo non inferiore alla norma, di poter effettuare una lettura fluente e/o accurata, con ripercussioni negative anche in fase di scrittura. Il sistema educativo italiano ha cominciato già da qualche anno a sensibilizzarsi sui DSA e in genere sui bisogni educativi speciali, e ha mutuato dalla ricerca dei modelli che permettano ai dislessici di ottenere miglioramenti significativi in termini di prestazioni nella lettura, come il modello a due vie (Sartori 1984) e il modello di Uta Frith (Frith 1985). Questi e altri modelli considerano lo sviluppo della capacità di decodifica in termini principalmente segmentali (suono-fonema-grafema) e lessicali (attraverso il riconoscimento globale, con l’esperienza, di alcune sequenze grafemiche familiari). In tal senso, la ricerca di metodologie sempre più efficaci per aiutare i dislessici a migliorare le proprie prestazioni non può non beneficiare di alcune scoperte recenti nell’ambito della prosodia. Citiamo a titolo esemplificativo il lavoro di Goswami et al. (2010), che suggerisce come i giovani dislessici siano meno sensibili rispetto agli altri coetanei alla percezione delle alterazioni graduali nelle fluttuazioni di energia dell’onda sonora prodotte dagli organi articolatori. La possibile corre12 Nel presente studio utilizziamo il termine dislessia per riferirci alla tipologia evolutiva (congenita) e non a quella acquisita.

    La ricerca sull’intonazione del sardo: stato attuale e prospettive future

    89

    lazione tra difficoltà discriminatoria in termini soprasegmentali e segmentali suggerisce che un training specifico mirato al miglioramento della percezione delle fluttuazioni melodiche, e anche ritmiche, che si avvalga di strumenti come la musica, può apportare benefici anche in termini di decodifica fonologica, soprattutto in quelle attività che mettono in collegamento il ritmo della produzione musicale con il ritmo dell’attività linguale (Bhide et al. 2013). Come accennato all’inizio della presente sezione, la ricerca prosodica può avere ripercussioni positive anche nell’ambito delle tecnologie di riconoscimento vocale. In tal senso, ricordiamo che sistemi di conversione di testo in parlato sogliono includere un modulo prosodico che presenta informazioni sull’evoluzione della curva melodica, sulla durata e l’ampiezza dei suoni, e sull’inserzione di pause. Con riferimento al sardo, in merito all’importanza dello studio finalizzato all’implementazione di tali tecnologie, segnaliamo il prototipo relativo al progetto SINTESA13 dell’Università degli Studi di Cagliari, finalizzato alla costituzione di un database linguistico mirato alla strutturazione di modelli di sintesi e riconoscimento vocale. Riteniamo che la qualità (naturalezza, intelligibilità, ecc.) del parlato generato dai processi di riconoscimento delle produzioni orali dipenderanno in larga misura dell’informazione linguistica a noi disponibile circa il comportamento dei correlati prosodici nel parlato naturale. In merito alle aree di applicazione del riconoscimento vocale, queste sono molteplici: accessibilità per persone con esigenze speciali, educazione (apprendimento di lingue, accessibilità dei testi non in braille per studenti non- e ipovedenti), assistenza sanitaria (promemoria di appuntamenti, applicazioni di assistenza personale per guidare i pazienti nell’esercizio fisico, posologia e tempistica sull’assunzione di medicinali), trasporti (GPS, notizie sul traffico), turismo (chioschi interattivi), ecc. Teniamo a far notare come l’aumento della raccolta di informazioni da parte della ricerca pura possa aiutare a “democratizzare” i benefici tecnologici citati nel paragrafo precedente. Se per esempio consideriamo come punto di riferimento i confini dello stato Italiano, è lecito supporre che le industrie che si occupano di tecnologie vocali concentreranno il loro interesse verso un unico codice di riferimento, commercialmente più spendibile, ossia l’italiano standard. Tale scelta, legittima e commercialmente comprensibile, potrebbe compromettere la fruizione di tali tecnologie da parte di alcune frange della popolazione, come i parlanti alloglotti, gli anziani dialettofoni e i cittadini caratterizzati da una pronuncia italiana marcatamente regionale. Nel merito, non potendo pretendere che tali industrie facciano ricerca autonoma per includere nel database informazione linguistica più articolata e adattata a esigenze anche di tipo territoriale, sarebbe del tutto lecito pensare che queste possano perlomeno usufruire delle informazioni messe a disposizione da altri centri di ricerca. 13 Cfr. http://www.sardegnacultura.it/sintesa/.

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    Infine, non possiamo non rilevare come l’aumento dell’interesse per la ricerca prosodica in generale, e, nello specifico, la codifica del sardo attraverso il modello ToBI, abbia avuto ripercussioni positive anche in ambiti affini alla linguistica. Tanto per citare qualche esempio, ricordiamo che lo sviluppo del sistema Sard_ToBI ha favorito la comparsa di articoli accademici e libri che trattano aspetti diversi della lingua sarda, come il contatto linguistico (Roseano et al. 2015, Vanrell et al. 2020), lo studio delle interfacce grammaticali (Vanrell et al. 2014, Vigário 2016, Cabré et al. in pubblicazione), aspetti metodologici (Vanrell et al. 2018) e questioni connesse alla tipologia linguistica delle lingue romanze (Prieto et al. 2010–2014, Frota & Prieto 2015, Bonet & Torres-Tamarit in pubblicazione).

    4.

    Conclusioni

    In questo studio abbiamo offerto una panoramica sulle ricerche attuali nell’ambito dell’intonazione del sardo, e abbiamo anche accennato ad alcune possibili applicazioni pratiche della ricerca prosodica. Tra gli aspetti più caratteristici dell’intonazione del sardo (messi in luce grazie allo sviluppo del Sard_ToBI) ricordiamo: il mancato uso del tono alto per marcare continuazione, sostituito da un tono con scaglionamento discendente (downstep); dal mancato uso di toni ascendenti nelle frasi interrogative; uso abbondante di toni extra alti14 (nelle frasi interrogative) e di prominenze iniziali (nelle dichiarative di focus contrastivo e nei vocativi). È inoltre interessante ricordare che spesso in sardo l’accento nucleare non è realizzato sull’elemento più a destra, come succede in altre lingue romanze come l’italiano, lo spagnolo o il catalano, ma su quello più a sinistra. Il nostro studio ha considerato due macro-varietà di riferimento, il logudorese e il campidanese, tra le quali non sono state riscontrate chiare differenze dialettali di intonazione, differenze invece riscontrabili nel maggior uso per il logudorese della particella interrogativa a, e nell’uso relativamente più raro in campidanese del troncamento vocativo.

    14 Com’è stato suggerito da uno dei due revisori, la differenza tra i toni ¡H+L* e H+L* o i toni ¡H* +L e H+L* potrebbe semplicemente attribuirsi a questioni di implementazione fonetica. Se in linea di principio tale considerazione resta pienamente valida, soprattutto per motivi prudenziali legati alla inesistenza, nella letteratura di cui disponiamo, di studi sperimentali in materia, la sistematica correlazione tra differenza nell’altezza tonale e differenza (netta) nel significato pragmatico propendono per la chiara evidenza della natura fonologica di questi contrasti. Inoltre, la presenza di livelli di tono differenti rispetto ai canonici L e H è un aspetto per nulla inusuale tra i diversi sistemi linguistici, sia a livello di accenti tonali che in quello dei toni di confine (cfr. Vanrell 2011 per un approfondimento su questo argomento).

    La ricerca sull’intonazione del sardo: stato attuale e prospettive future

    91

    In termini generali (cfr. tabella 1) notiamo come il sardo presenti un inventario ridotto di configurazioni tonali nucleari, soprattutto se lo confrontiamo con lingue come l’italiano o il catalano, ma sopperisca a questa riduzione utilizzando l’altezza tonale (includendo cioè nell’inventario un tono extra alto) per distinguere le frasi dichiarative dalle interrogative totali senza marcatura lessicale, cioè, senza la particella a, e le dichiarative con focus contrastivo dalle interrogative con anteposizione di costituente. Un altro aspetto degno di nota è l’uso del pattern intonativo L+H* L* L% nei vocativi. L’intonazione sarda interagisce con strategie sintattiche (anteposizione, dislocazioni) e lessicali (uso di particelle), e perciò è necessario effettuare un’analisi congiunta di tutti i componenti grammaticali per ottenere una visione integrativa di come i pattern prosodici interagiscono con la sintassi e la pragmatica (cfr. Vanrell et al. 2014 per una discussione sulla interazione tra prosodia, sintassi e lessico nelle domande totali del sardo). Il nostro auspicio è che il sistema Sard_ToBI possa essere considerato uno strumento sempre più efficace e adatto all’esplorazione di diversi fenomeni linguistici e anche al confronto tra il sardo ed altre lingue, siano esse tipologicamente vicine o distanti. Per quanto riguarda la ricerca linguistica teorica e applicata siamo in grado di immaginare un futuro pieno di possibili applicazioni pratiche per tutte le lingue, sardo incluso. Il nostro auspicio è che la raccolta di dati su quest’ultima lingua e la loro applicazione in ambiti come la didattica e le nuove tecnologie possano favorirne un uso che tenda sempre più alla piena normalità.15

    15 Ringraziamenti: Una versione preliminare di questo lavoro è stata presentata al Workshop on Romance ToBI (giugno 2011, Tarragona), al Sardinian Network Meeting (settembre 2011, Costanza) e al convegno Il sardo in movimento (settembre 2017, Vienna). Il primo ringraziamento va agli assistenti in questi eventi per i loro commenti e proposte. Meritano una menzione particolare gli informanti sardi che hanno partecipato nelle interviste ed anche facilitatori che ci hanno permesso di entrare in contatto con loro. Tali facilitatori, Amos Cardia e Gianni Muroni, hanno anche portato a termine alcune interviste in prima persona, fornendo commenti interessanti sul materiale ottenuto. Altre valutazioni e commenti stimolanti sui dati raccolti sono pervenuti da Eduardo Blasco Ferrer, Franck Floricic, Guido Mensching, Lucia Molinu ed Eva-Maria Remberger, ma anche dai due revisori del presente articolo e dai curatori del presente volume. A tutti loro vanno i nostri più sentiti ringraziamenti. Questa ricerca è finanziata con il sostegno dei progetti FFI2016-76245-C3-1-P e FFI2017-87699-P (conferiti dal Ministero Spagnolo di Economia, Industria e Competitività).

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    Maria del Mar Vanrell et al.

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    Morfologia

    Lucia Molinu

    Il passato remoto irregolare in sardo1

    Abstract: Il nostro contributo si propone di studiare, nel quadro della Distributed Morphology (cfr. Halle & Marantz 1993), un cambiamento morfologico che ha causato la ristrutturazione del passato remoto irregolare in sardo. In sardo antico, i verbi che appartengono alla seconda coniugazione in -er presentano, nella totalità del paradigma del passato remoto, un’allomorfo specifico a questo tempo (appimus ‘avemmo’, iscripsit ‘scrisse’, tennit ‘tenne’, lessirunt ‘lessero’, etc., cfr. Wagner 1939: 15). Oggi, nei dialetti in cui il passato remoto sopravvive, tali verbi hanno perso questo allomorfo a vantaggio del radicale del presente ([isˈkrio] ‘scrivo’, [iskriˈei] ‘scrissi’). Ispirandoci all’analisi fatta da Calabrese sul passato remoto in italiano (cfr. Calabrese 2013, 2015a, 2015b), cercheremo di dimostrare che la regolarizzazione del passato remoto in sardo moderno deriva da un cambiamento morfologico che generalizza la vocale tematica a tutto il paradigma di questo tempo. In sardo antico, i verbi caratterizzati dal passato remoto irregolare sono atematici e il radicale subisce dei cambiamenti morfofonologici, mentre in sardo moderno, la presenza della vocale tematica consente l’apparizione del radicale che viene regolarmente utilizzato negli altri tempi.

    1.

    Introduzione

    Con il nostro articolo vorremmo analizzare, nei limiti dei dati a nostra disposizione, l’evoluzione del passato remoto irregolare in sardo. Come in altre lingue romanze (cfr. de Dardel 1958), anche in sardo antico il passato remoto irregolare appare in verbi come avere (appimus ‘avemmo’), venire (bennit ‘venne’), tenere (tennit ‘tenne’), stare (stettit ‘restò’), fare (fecimus ‘facemmo’), scrivere (iscripsit 1 Quest’articolo è stato presentato nel corso dell’incontro Il sardo in movimento tenutosi a Vienna nel settembre 2017. Ringraziamo gli organizzatori e in particolare Eva-Maria Remberger per averci invitato a partecipare e il pubblico per i commenti e i suggerimenti. Esprimiamo inoltre la nostra gratitudine a Franck Floricic e ai due anonimi reviewers che con i loro consigli hanno contribuito a migliorare la versione iniziale del nostro contributo.

    100

    Lucia Molinu

    ‘scrisse’), leggere (lessirunt ‘lessero’), portare (batussi ‘portai’) appartenenti alla seconda coniugazione (cfr. Wagner 1939:15–16). Tali verbi presentano uno specifico allomorfo del radicale che deriva dai tipi di perfetto forte latino in -ui, -si e -ı¯ e non conoscono l’alternanza tra allomorfi forti e deboli tipica dell’italo-romanzo (cfr. it. uccisi/uccidesti) come mostrano gli esempi in (1): (1) a. occisit/okisisti (CSNT 205, 305)2 vs occisit/*okidisti b. batusi/batusisti (CSNT 140) vs batusi/ *batuguisti c. posit/posimus (CSNT 56) vs posit/*ponimus

    ‘uccise/uccidesti’ ‘produssi/ producesti’ ‘pose/ponemmo’

    Attualmente, il passato remoto sopravvive solo in alcuni dialetti logudoresi e tali verbi non hanno più un allomorfo specifico (come in (2a)) ma presentano lo stesso radicale del presente (cfr. (2b)): (2) a. sardo antico: iscripsit ‘scrisse’, lessirunt ‘lessero’, batussi ‘portai’, visi ‘vidi’, stettit ‘restò’ b. sardo moderno: iscrié(s)it (iscrío ‘scrivo’), leggéin (lèggio ‘leggo’), baté(s)i (báto ‘porto’), bidéi (bído ‘vedo’), isté(s)i (ísto’sto’).

    A nostro avviso, la perdita dell’allomorfo del passato remoto è il risultato di un cambiamento morfologico che comporta l’estensione della vocale tematica all’intero paradigma. Riteniamo, sulla base dell’analisi di Calabrese sul passato remoto in italiano (cfr. Calabrese 2012, 2013, 2015a, 2015b), che esista una correlazione tra la flessione regolare e irregolare del passato remoto e la presenza / l’assenza della vocale tematica. In sardo antico le forme irregolari di passato remoto sono caratterizzate dall’assenza di vocale tematica (cfr. (3)) e il radicale subisce delle modificazioni morfofonologiche. In sardo moderno invece, la vocale tematica è presente e questo permette l’apparizione di un radicale regolare che si ritrova negli altri tempi (cfr. (4)):

    2 Diamo qui di seguito i titoli completi dei documenti in sardo antico (XI–XIII secolo) che appaiono in forma abbreviata nell’articolo: CSP: Condaghe di San Pietro di Silki (cfr. Soddu & Strinna 2013), CSNT: Condaghe di San Nicola di Trullas (cfr. Merci 2001), CSMB: Condaghe di Santa Maria di Bonarcado (cfr. Virdis 2002), CV: Antiche carte volgari dell’Archivio Arcivescovile di Cagliari (cfr. Guarnerio 1892–1894).

    101

    Il passato remoto irregolare in sardo

    (3) sardo antico iscriver a. irregolare (atematico) [[[[iscriv]root __ ]V -s-]T] i]AGR iscrissi ‘scrivere-prf-1sg’

    lebare b. regolare (tematico) [[[leb]root -aTV- ]V - Ø -]T-i]AGR lebai ‘prendere-prf-1sg’

    (4) sardo moderno iscrier a. regolare (tematico) [[[[iscri]root -eTV- ]V - Ø -]T] i]AGR iscriei ‘scrivere-prf-1sg’

    leare b. regolare (tematico) [[[le]root -eTV- ]V - Ø -]T-i]AGR leei ‘prendere’-prf-1sg’

    2.

    La situazione in sardo antico

    La differenza tra passati remoti deboli e passati remoti forti che caratterizza la flessione nelle lingue romanze è presente in sardo già da epoca antica (cfr. Wagner, 1939:11, Mensching & Remberger 2017:365). Le forme deboli che appartengono alla prima e terza coniugazione, rispettivamente in -are e -ire (cfr. Wagner 1938, Molinu 1999, 2013), presentano una vocale tematica tra la radice e la desinenza, invece le forme forti che appartengono alla seconda coniugazione in -er sono atematiche.3 Diamo qui di seguito (cfr. (5)) alcuni esempi di flessione debole delle due coniugazioni in sardo antico: (5) coniugazione in -are: a. lebai, lebait (CSNT, 56) b. cambiedi (CV, IX: 6)

    ‘presi’, ‘prese’ ‘cambiò’

    (6) coniugazione in -ire a. parthivimus, parçirun (CSNT: 56, 52) ‘dividemmo’, ‘divisero’ b pidii (CV: XII 1) ‘chiesi’

    Il cosiddetto perfetto forte, che caratterizza i verbi che appartengono alla seconda coniugazione in -er, è costituito dagli esiti dei perfetti latini in -ui (cfr. (7)), di quelli sigmatici (cfr. (8)) e di quelli in -ı¯ (cfr. (9)):4 3 Tradizionalmente i due tipi di passato remoto sono definiti deboli (regolari) e forti (irregolari). Tale definizione rinvia alla posizione dell’accento: sulla desinenza nelle forme deboli, sul radicale nelle forme forti. A dire il vero, anche nelle cosiddette forme forti, già in latino, l’accento non cadeva sempre sul radicale. Infatti la seconda persona singolare e plurale, e, a seconda degli usi, la terza plurale erano accentate sulla desinenza (cfr. Pope 1934). Dal momento che la posizione dell’accento non ha alcuna rilevanza nell’evoluzione del passato remoto in sardo, l’impiego di questi due termini nel corso dell’articolo rinvia alla regolarità o all’irregolarità delle forme prese in esame. 4 Il verbo ‘essere’ aveva in sardo antico un radicale suppletivo fui (cfr. Wagner 1939:17). Tale radicale si è conservato in sardo moderno ma col valore di imperfetto (cfr. Pisano 2016:76).

    102

    Lucia Molinu

    (7) Esiti dei perfetti in -ui Infinito

    1SG

    3SG

    1PL

    aer(e) ‘avere’

    apit (CV, XIII, 12), appit (CSNT, 232)

    appimus apperun (CSNT, 232) (CSNT, 194)

    benne(r) ‘venire’

    bennit (CSNT, 140; CV, IX: 8; XVI: 4)

    creer(e) ‘credere’

    bennerun (CSNT, 140) creterun (CSNT, 117)

    tenne(r) ‘tenere’

    tennit (CV, XI: 4; CSNT, 140)

    poder ‘potere’ kerre(r) ‘chiedere’

    3PL

    poterun (CSNT, 140) kerbi (CSNT, 151) kerfidimi (CV, XV: 2)

    kervit (CSNT, 293)

    parre(r) ‘sembrare’

    pparuitili (CSNT, 179)5

    voler(e) ‘volere’

    voluit (CSNT, 276)

    kerfirunt (CV, XII: 1)

    5 Nelle forme pparuitili e voluit, il grafema u rende molto probabilmente la fricativa labiodentale [v] o [f]. Precisiamo inoltre che pparuitili è una forma composta da verbo + enclisi del pronome atono (paruit-li), per la legge Tobler-Mussafia che nel Medioevo vige anche per il sardo (cfr. Virdis, 2006:CLXV, CLXVII).

    103

    Il passato remoto irregolare in sardo

    (8) Sigmatici (< -si) Infinito

    1SG

    2SG

    3SG

    battuier ‘portare’

    batusisti batussi (CSNT, 140), (CSNT, 140) (CV, XII:4)

    iscriver ‘scrivere’

    3PL

    bactusimus batu-serun (CSNT, 80) (CSNT, 140) iskripsit (CSMB, 8a)6

    leger(e) ‘leggere’

    lesimus (CSNT, 80)

    occider(e) ‘uccidere’ ponne(r) ‘porre’

    1PL

    lesserun (CSNT, 270)

    okisisti occisit (CSNT, 305) (CSNT, 205) posimi, (CV, XVII: 2)

    posit posimus poserun (CSNT, 56; (CSNT, 56) (CSNT, 140) CV, VIII: 4) posirunt (CV, XIII: 10)

    kerre(r) ‘chiedere’

    kersit (CV, IX: 5)

    parre(r) ‘sembrare’

    parsit (CV, XVII: 2)

    remaner(e) ‘rimanere’

    remasit (CSNT, 5)

    ckerserun (CSNT, 140)

    (9) esiti dei perfetti in -ı¯ Infinito

    1SG

    vider ‘vedere’

    3SG

    1PL

    3PL

    vidit (CSMB, 55b)

    viderun (CPS, 8) benderun (CSP: 9.1)

    bender ‘vendere’

    bendî (CSP, 183; 3)

    bendit (CSP, 146.1: 6)

    faker(e) ‘fare’

    feci (CSNT, 330) fegi (CV: I: 1)

    fecit (CSNT, 15) fegit (CV, XI:1)

    fecimus fegirunt (CNST, 163) (CV, XIII: fegimus 1,5) (CV, I: 7)

    Come già osservava Wagner (1939), in sardo antico non è presente l’alternanza di radicale che caratterizza invece le forme del passato remoto forte italo-romanzo (ebbi / avesti, cfr. Lausberg 1976:244). Le forme che ci sono state consegnate dai

    6 Segnaliamo che iskripsit è una grafia latineggiante per iscrisit.

    104

    Lucia Molinu

    documenti in sardo antico, mostrano la presenza di un unico radicale specifico a questo tempo (cfr. (1a-c)).7 In sardo moderno il passato remoto sopravvive in alcune varietà nord-orientali tra cui quella di Buddusò (cfr. Molinu 1989, 1999, Pisano 2016) e non presenta più una flessione regolare e una irregolare (cfr. (2a-b)): le forme forti sono scomparse a causa di un processo di regolarizzazione che comporta la generalizzazione a tutto il paradigma del radicale del presente (cfr. Wagner 1939:15, 19–21). L’esame dei documenti (cfr. Wagner 1939:19–20, Manca 2002, Meloni 2005, Virdis 2006, Soddu & Strinna 2013), mostra che tale regolarizzazione inizia ad apparire verso il XVI secolo, subendo due processi: il suffisso temporale s diventa l’esponente non marcato del passato remoto per tutte le forme verbali (cfr. Virdis 2006: sentisi ‘sentii’, dormisi ‘dormii’, trattesi ‘trattai’) e un certo numero di verbi della seconda coniugazione presenta la vocale tematica preceduta dal radicale del presente (cfr. Virdis 2006: ardisit ‘bruciò’, pargisint ‘sembrarono’, pongisi ‘posi’). Lo studio del processo di regolarizzazione dei cosiddetti perfetti forti si svilupperà all’interno della Distributed Morphology (cfr. Halle & Marantz 1993) che è stata applicata da Calabrese (cfr. Calabrese 2012, 2013, 2015a, 2015b) per l’analisi del passato remoto in italiano. Nel paragrafo seguente illustreremo i principi generali di questa teoria.

    3.

    Distributed Morphology

    Nella teoria della Distributed Morphology (Halle & Marantz 1993) che è piecebased (basata su elementi), la sintassi non manipola degli oggetti simili degli items lessicali ma dei morfemi che consistono di tratti semantici e sintattici come [plurale], [passato] e non possiedono un contenuto fonologico sottostante (cfr. Halle & Marantz 1993, Harley & Noyer 1999, Embick 2015).8 Oltre ai morfemi esiste un altro primitivo: le radici, che invece hanno un contenuto fonologico e eventualmente dei diacritici per evitare confusioni dovute all’omofonia o che specificano delle caratteristiche particolari. Le radici non sono categorizzate ma ricevono una categoria N(ome), V(erbo), A(ggettivo), ulteriormente, a livello sintattico (Marantz 1997).

    7 Tale situazione si riscontra ugualmente in altre aree romanze (cfr. Lausberg 1976:243–247). 8 Diamo qui di seguito uno schema generale dell’architettura della grammatica secondo la DM: Sintassi / \ Morfologia Forma Logica | Fonologia

    Il passato remoto irregolare in sardo

    105

    La Distributed Morphology (DM d’ora in poi) è quindi una teoria sintattica della morfologia in cui radici e morfemi astratti si combinano per formare degli oggetti sintattici più larghi. La rappresentazione morfosintattica è l’input per il componente morfologico che assegna una realizzazione fonologica ai nodi terminali in un processo chiamato Vocabulary Insertion. Nel corso di questo processo, vengono consultate delle regole, Vocabulary Items (VI d’ora in poi), che abbinano un esponente fonologico a un morfema in un contesto morfosintattico. Se c’è una competizione tra VI, la regola più specifica si applica per prima al morfema secondo il principio del Subset (Halle 1997). Le operazioni morfologiche operano nel rispetto della condizione di località che può far riferimento all’adiacenza tra morfemi o all’adiacenza tra esponenti (Embick & Halle 2005, Embick 2013, 2016). A questo si aggiunge il fatto che, oltre alle regole di VI, possano rendersi necessarie altre regole che modificano gli esponenti. Si tratta delle Regole di Riaggiustamento che sono regole fonologiche che hanno la particolarità di essere sensibili a condizionamenti morfosintattici o a delle informazioni specifiche alle radici o ai morfemi. La buona formazione dell’output di una forma è quindi determinata dal processo di Vocabulary Insertion e dall’applicazione di regole fonologiche e morfofonologiche nel rispetto delle condizioni di località. La derivazione di una forma come andavat ‘andava’ (CSP, 46.1), può essere schematizzata nel modo seguente (cfr. (10)–(11)): (10) Schema della struttura morfosintattica di andavat ‘andava’ T e i V T g i g i V VT T AGR g e i Radice T VT and–a– –v– –a– –t

    La struttura gerarchica in (10) che si compone di morfemi astratti e della radice che ha ricevuto la categoria verbale, comporta un altro elemento, la vocale tematica che è richiesta dalla testa di ogni categoria funzionale, nel nostro caso V(erbo) e T(empo) (cfr. Oltra-Massuet 1999, Arregi 2000). A questo punto la struttura viene linearizzata e vengono inseriti gli esponenti tramite consultazione delle VI:9 9 Per ragioni di spazio non diamo le VI che abbinano gli esponenti ai rispettivi morfemi ma rimandiamo a Oltra -Massuet (1999), Calabrese (2012, 2013). La scelta dell’imperfetto non è casuale. Qui infatti tutti i morfemi ricevono degli esponenti. Nel presente, invece, un processo di fusione accorpa in un unico nodo t e agr (cfr. Oltra-Massuet & Arregi 2005).

    106

    Lucia Molinu

    (11) [[[[and]R -aVT ]V -v- aVT]T -t]AGR → andavat

    4.

    Evoluzione del passato remoto in sardo

    Calabrese (2012, 2013, 2015a, 2015b) analizza il passato remoto irregolare in italiano sulla base dei principi della DM per render conto delle alternanze del tipo ebbi/aveste, scrissi/scrivesti. Nella sua analisi, Calabrese rifiuta l’idea di un’alternanza di radicali (stems) memorizzati la cui selezione è regolata da proprietà accentuali delle desinenze come vorrebbe, per esempio l’approccio morfomico adottato da Maiden (2000, 2005, 2010, 2018). L’intuizione di Calabrese è che esiste una correlazione tra l’assenza della vocale tematica e la presenza di forme morfologicamente irregolari come mostrano gli esempi in (12): (12) Calabrese (2015a: 70–71) a. Irregular vs. [[[[pérd]root __ ]V -s-]T] -i]AGR pérsi ‘lose-prf-1sg’ Athematic

    b. Regular [[[part]root -iTV- ]V -Ø-]T-sti]AGR partisti ‘leave-prf-2sg’ Thematic

    Cosa permette a certi verbi di essere atematici? Nell’analisi sviluppata da Calabrese il fatto che perd non abbia una vocale tematica è determinato dalla presenza nella radice di un diacritico [TVpruning] ‘cancellazione della vocale tematica’. In italiano, la presenza di tale diacritico determina l’atematicità e quindi l’irregolarità morfologica della 1a persona singolare e della 3a persona singolare e plurale del passato remoto (cfr. (13)).10 Nelle altre persone, invece, la flessione è regolare. Secondo Calabrese, in questo caso tale diacritico è eliminato per cui la vocale tematica può essere inserita. Un tale risultato è l’effetto di Impoverishment, un’operazione che semplifica le rappresentazioni morfosintattiche sopprimendo dei tratti dei morfemi nei nodi terminali (cfr. Oltra-Massuet 1999, Calabrese 2013:36).11 A questo punto entrano in gioco la competizione tra VI e le condizioni di località. La VI che inserisce l’esponente s che è specifico a delle radici come perd-, pon- ecc. deve essere adiacente alla radice. La presenza della vocale tematica interrompe tale adiacenza provocando la “vittoria” della VI di default quella che è abbinata al morfema di passato nelle coniugazioni regolari dopo la vocale te10 Bisogna aggiungere che l’irregolarità di tali forme è dovuta anche alle Regole di Riaggiustamento (RR) che modificano il radicale localmente adiacente all’esponente di passato remoto. 11 Impoverishment (Halle & Marantz 1993) è utilizzato nella DM per bloccare, tramite la semplificazione di tratti, la Vocabulary Item più specifica, e permettere l’inserzione di quella meno specifica. Calabrese (2012, ecc.) utilizza tale operazione anche per eliminare dei diacritici dalle radici.

    Il passato remoto irregolare in sardo

    107

    matica, cioè Ø. Da qui l’apparizione della morfologia regolare per la 2a persona singolare e la 1a e 2a plurale (cfr. (13b)): (13) Calabrese (2013:35, 37) a. /Roote/i [+TV- pruning]__ Past, Root[+TV- pruning] = korr, perd, ven,… i. [[[[pérd s ]root __ ] + PAST TV ]T + part, ]AGR [+TV- pruning] TV +author, -PL ii. [[[[pérd s ]root __ ] + PAST TV ]T + part, ]AGR TV pruning [+TV- pruning] +author, -PL iii. [[[[pérd s ]root __ ] s ]T i]AGR VI iii. [[[[pér ]root __ ] s ]T i]AGR RR pérsi ‘lose-PRF-1SG’ Output b. Delete diacritic [+TV- pruning] in the environment __ [+ participant, -author]AGR c. root [+TV- pruning] → Impoverishment → root i. [[[[pérd s ]root __ TV] + PAST TV]T + part, -author, -PL]AGR [+TV- pruning]

    ii. [[[pérd s

    ]root __ TV] + PAST TV + part, -author, ]AGR Impoverishment -PL iii. [[[pérd s ]root __e] -Ø- sti ] ]AGR VI perdesti ‘lose-prf-2sg’ Output

    Se applichiamo questa ipotesi al sardo, possiamo analizzare le forme di passato remoto irregolare e regolare in sardo antico, secondo lo schema seguente (cfr. (14)): (14) poner a. irregolare (atematico) [[[[pon]R ]V s]T] i]AGR posi ‘porre-perf-1sg’

    lebare b. regolare (tematico [[[leb]R aTV]V Ø -]T i]AGR lebai ‘levare-perf-1sg’

    Le forme regolari presentano una vocale tematica che invece è assente nelle forme irregolari a causa del diacritico [TVpruning]. L’assenza di vocale tematica comporta in un radicale come pon- l’abbinamento, tramite VI, del morfema di Tempo [passato] all’esponente s di passato remoto.12 Una Regola di Riaggiustamento provoca il cancellamento della nasale e produce l’output posi. Nella forma regolare, tematica, invece, il morfema di tempo riceve l’esponente Ø, come in italiano, e otteniamo lebai. In sardo antico, il diacritico [TVpruning] non viene mai eliminato, il che rende conto delle forme irregolari del passato remoto. La sua rimozione a partire dal XVI secolo, via Impoverishment, comporta, con l’apparizione della vocale tematica, la violazione della condizione di adiacenza e la regolarizzazione delle forme forti di passato remoto. Tale regolarizzazione non si produce immediatamente, ma procede lentamente e inesorabilmente attraverso i secoli (cfr. Wagner 1939:15–21). 12 Per ragioni di spazio limitiamo la nostra analisi al solo esponente s anche se, come in italiano, anche in sardo antico esistono altri esponenti.

    108

    Lucia Molinu

    Innanzitutto l’esame dei documenti mostra un’estensione progressiva dell’esponente sigmatico a scapito degli altri. In un primo momento la variazione è sporadica. Come osservava già Wagner (1939:16), nelle CV (area campidanese) si trovano kersit al lato di kerfit (chiese) e parsit (apparve) di contro al logudorese paruit.13 Nel corso dei secoli l’esponente sigmatico si estende ai verbi aprire, tenere, vedere, volere e anche fare, come mostrano i dati seguenti:14 (15) Condaghe di S. Gavino (fine medioevo XIII–XIV secolo) (cfr. Meloni 2005) a. apersit (3, 6.27) ‘aprí’ c. visirunt (6, 7.6) ‘videro’ b. tensirunt (6, 11.2) ‘tennero’ d. volsit (3, 9.2) ‘volle’ (16) Il registro di San Pietro di Sorres (XV secolo) (cfr. Turtas, Piras & Dessì 2003) a. tensit (37,2) ‘tenne’ b. bolsit (148,1) ‘volle’ c. fesit (273,1) ‘fece’ (17) Sa Vitta et sa Morte, et Passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu (XV secolo) (cfr. Manca 2002) a. aparsit (3, 816) ‘apparí’ b. tensit (3, 72)/tensint (6, 220) ‘tenne’, ‘tennero’

    Ma il XVI secolo mostra una svolta (cfr.Wagner 1939:19–20). Le opere di Araolla (cfr. Virdis 2006), attestano infatti accanto ai passati remoti atematici sigmatici (cfr. (18)), dei perfetti sigmatici con vocale tematica (cfr. (19)) e l’apparizione dell’esponente s in alcuni verbi regolari che erano dunque caratterizzati da un esponente zero (cfr. (20): (18) sigmatici senza vocale tematica (2a coniugazione)15 a. accensint (VI.59) ‘accesero’ f. intesi (V.1) b. cobersit (I.15) ‘coprí’ g. morsit (VI.217) c. compresi (VI.77) ‘capii’ h. parsit (int.22) d. si diffusit (II.25) ‘si diffuse’ i. rusit (III.209) e. exposit (II.30) ‘espose’ l. visi (I.28)

    ‘intesi’ ‘morí’ ‘sembrò’ ‘cadde’ ‘vidi’

    (19) Sigmatici con vocale tematica (2a coniugazione) a. ardisit (I.43) ‘ardè’ e. happisit (IV.48) b. currisit (IV.52) ‘corse’ f. pargisint (I.4) c. discobrisi (V.5) ‘scoprii’ g. pongisi (VI.48) d. leisi (II.22) ‘lessi’ h. potisi (int.34)

    ‘ebbe’ ‘sembrarono’ ‘posi’ ‘potei’

    (20) Verbi della 1a e 3a coniugazione a. trattesi (VI.79) ‘trattai’ c. sentisi (I.44) b. dormisi (III.3) ‘dormii’ d. s’unisit (II.24)

    ‘sentii’ ‘si uní’

    13 A dire il vero parsit è attestato due volte anche in area arborense nel CSMB (Wagner 1939:16). 14 Nella DM questo stato di cose potrebbe essere trattato come un cambiamento del diacritico della radice che ‘seleziona’ l’esponente sigmatico a scapito degli altri. 15 Tutti gli esempi sono tratti dalle Rimas diversas spirituales (1597) di Araolla (cfr. Virdis 2006).

    Il passato remoto irregolare in sardo

    109

    La modificazione delle regole nella distribuzione dell’esponente di passato remoto è all’origine di un vero e proprio cambiamento linguistico che non procede in modo automatico ma che non crea numerose eccezioni. L’esponente s diventa progressivamente l’esponente regolare di passato remoto che può, per il momento, associarsi a forme atematiche e tematiche come accadeva in latino per l’esponente -u- (amaui, habui). Quali sono le ripercussioni sui radicali? Se in alcuni verbi è ancora presente il diacritico che elimina la vocale tematica ([TVpruning]), in altri verbi tale diacritico è cancellato, via Impoverishment, per cui la vocale tematica può essere inserita. Di conseguenza la presenza della vocale tematica elimina tutte le regole di riaggiustamento e il radicale del presente può regolarmente apparire.16 Qualche eccezione turba il quadro che abbiamo appena descritto. Dobbiamo infatti registrare le forme seguenti che appaiono ipercaratterizzate da un radicale irregolare seguito da una vocale tematica e dall’esponente s (cfr. 21): (21) forme ipercaratterizzate a. istetisit (IV.10) allato di istetit (I.32, II. 26, III. 8, II. 206) e di istait (II.21) ‘stette’ b. querfisit (int.4, VI.16) accanto a querfit (VI.98) ‘volle’ c. querfisint (int.4) ‘vollero’

    Queste forme, rare a dire il vero, saranno regolarizzate un secolo più tardi. Come mi è stato segnalato opportunamente da uno dei reviewer, tali strutture possono essere messe in relazione con il participio passato italiano vissuto < viv-s-u-t-o, e con i participi futuri del latino tardo missiturus, viciturus (vs. missurus, victurus in latino classico, cfr. Vincent 2011:428) da mitt-s-i+t+ur-, vic-i-t-ur-. In effetti esse mostrano un’accrezione di materiale morfologico che, nella DM, potrebbe essere analizzato come una regola di Fission (cfr. Noyer 1992, Halle 1997), che crea nuovi morfemi attraverso la scissione di un singolo morfema. I testi del XVII–XVIII secolo di area campidanese (cfr. De Martini 2015:214) mostrano che le forme irregolari di passato remoto sono scomparse, per cui abbiamo biesi da biri ‘vedere’, bolesi da bolliri ‘volere’, ecc. Il passato remoto è formato dal radicale del presente seguito dalla vocale tematica e dall’esponente s del morfema di passato come in sardo moderno: con l’apparizione della Vocale

    16 Tali innovazioni e regolarizzazioni non sono tipiche del sardo ma si ritrovano anche in area italo-romanza come mostrano i dati della varietà di Colle Sannita (cfr. Rohlfs 1968:324–325, Calabrese 2015a:96–97): i. vənize ‘venne’ ii. morize ‘morì’ iii. təneze ‘tenne’ iv. faceze ‘fece’ v. magnaze ‘mangiò’

    110

    Lucia Molinu

    Tematica si perdono le regole di aggiustamento che generavano le forme irregolari di passato remoto.

    5.

    Le forme attuali

    Come abbiamo detto in precedenza (cfr. (2a-b)), nelle varietà in cui il passato remoto sopravvive, tutti i verbi hanno una flessione regolare e, in certe varietà, l’esponente di passato s viene omesso (cfr. Molinu 1989, 1999, Pisano 2016:113).17 Diamo in (22) il paradigma completo del passato remoto per le tre coniugazioni nella varietà di Buddusò (cfr. Molinu 1989) e in (23) lo schema della sua struttura: (22) -are leare ‘prendere’ I le-ˈe-i II le-ˈe-i-s III le-ˈe-i-t IV le-ˈe-mus V le-ˈe-dzis VI le-ˈe-i-n

    -er iscrier ‘scrivere’ -íre drommire ‘dormire’ iscri-ˈe-i dromm-ˈe-i iscri-ˈe-i-s dromm-ˈe i-s iscri-ˈe-i-t dromm-ˈe i-t iscri-ˈe-mus dromm-ˈe-mus iscri-ˈe-dzis dromm-ˈe-dzis iscri-ˈe-i-n dromm-ˈe-i-n

    (23) sardo moderno iscrier a. regolare (tematico) [[[[iscri]root -eVT- ]V - Ø -]T i]AGR iscriei ‘scrivere-prf-1sg’

    5.

    leare b. regolare (tematico) [[[[le]root -eVT- ]V - Ø -]T-i]AGR leei ‘prendere’-prf-1sg’

    Conclusioni

    In questo articolo abbiamo cercato di analizzare l’evoluzione dei passati remoti irregolari del sardo nell’ottica della Distributed Morphology. Come in altre lingue romanze, anche in sardo antico il passato remoto irregolare appare in verbi appartenenti alla seconda coniugazione (cfr. Wagner 1939:15–16). In sardo 17 Nel processo di regolarizzazione resta da capire la scelta dell’allomorfo del radicale per una manciata di verbi quali aer ‘avere’, aberrer ‘aprire’, baler ‘valere’, benner ‘venire’, dever ‘dovere’, creer ‘credere’, doler ‘aver male’, fagher ‘fare’, parrer ‘sembrare’, poder ‘potere’, cherrer ‘volere’, tenner ‘tenere’ (cfr. Molinu 1999). Tali verbi erano caratterizzati da un perfetto forte in sardo antico ma già a partire dal XVI secolo (cfr. 19e–h), presentano un allomorfo del presente proprio del congiuntivo e della prima persona dell’indicativo (cfr. Wagner 1938:153– 160): i. [ˈbεndz-o] ‘vengo’/[ˈben-is] ‘vieni’, [ˈbεndza] ‘che io venga’, [benˈdz-e-i] ‘venni’. Uno dei punti chiave della DM è di evitare il più possibile il ricorso a basi memorizzate, suppletive (Embick & Halle 2005, Embick 2013, 2015, 2016). Le alternanze allomorfiche sono analizzate come una modificazione contestuale della radice sulla base delle condizioni di località sui morfemi o sugli esponenti, e lo studio di tali alternanze sarà l’oggetto di future ricerche.

    Il passato remoto irregolare in sardo

    111

    moderno il passato remoto sopravvive in alcune varietà nord-orientali tra cui quella di Buddusò (cfr. Molinu 1989, 1999, Pisano 2016) e non presenta più un tipo regolare e uno irregolare: il passato remoto forte è scomparso a causa di un processo di regolarizzazione che attraverso l’applicazione dell’operazione di Impoverishment (cfr. Oltra-Massuet 1999, Calabrese 2013:36) elimina l’atematicità e quindi l’irregolarità morfologica degli allomorfi. Ben inteso si renderanno necessari studi ulteriori per rendere conto in modo più adeguato delle allomorfie dei cosiddetti verbi ‘polimorfici’ come aer ‘avere’, aberrer ‘aprire’, baler ‘valere’, benner ‘venire’, ecc. (cfr. Molinu 1999).

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    Carminu Pintore

    Lo sviluppo di [ŋkɛ] in sardo orgolese: dalla deissi spaziale alla semantica verbale

    Abstract: L’obbiettivo di questo articolo è descrivere la trafila di grammaticalizzazione che ha interessato il clitico [ŋkɛ] in sardo orgolese e analizzare i suoi effetti sulla semantica verbale. Il clitico [ŋkɛ], originario avverbio deittico, si è grammaticalizzato fino ad assolvere funzioni aspettuali, la funzione incoativa e quella causativa. Al fine di descrivere il profilo funzionale del clitico medesimo si sono indagate le modalità di interazione fra [ŋkɛ] e il verbo mòrrere (‘morire/ uccidere’), caratterizzato dall’alternanza incoativo/causativo. La funzione del clitico dipende primariamente dalle caratteristiche semantiche dei verbi con cui interagisce. L’analisi effettuata mostra come alla presenza o assenza del clitico nel sintagma verbale corrispondono strutture argomentali differenti. Le occorrenze del clitico [ŋkɛ] sono legate anche alle caratteristiche semantiche degli argomenti, come l’animatezza e la deliberatezza.

    1.

    Introduzione

    In questo articolo si propone un’analisi del profilo funzionale del clitico [ŋkε] in sardo orgolese e i suoi effetti sulla semantica verbale. Il punto di partenza è costituito da Pintore (2015) e Pintore (2017), il cui fine era mostrare come la polifunzionalità di [ŋkɛ] possa essere spiegata sincronicamente analizzando il legame fra le sue diverse occorrenze; e diacronicamente individuando un significato basilare originario dal quale il clitico ha espanso il suo alveo funzionale, passando a codificare valori azionali, temporali e aspettuali per via di grammaticalizzazione. Le fonti sono costituite dal corpus ottenuto attraverso la ricerca sul campo effettuata a Orgosolo tra dicembre 2013 e gennaio 2014 e da enunciati illustrativi frutto dell’interazione con sardo parlanti di Orgosolo. Il primo obiettivo del presente articolo è di motivare l’evoluzione del clitico [ŋkɛ] attraverso lo studio degli effetti del processo di grammaticalizzazione che lo ha interessato e di descrivere le modalità di interazione fra il clitico medesimo e la semantica del verbo mòrrere (‘morire/uccidere’).

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    Carminu Pintore

    Un obbiettivo ulteriore è quello di completare la trafila di grammaticalizzazione che ha interessato il clitico, la quale procede dalla codifica del tratto [distale] alla semantica lessicale, in particolare all’alternanza incoativo/causativo. Nella definizione di Haspelmath (1993:90): An inchoative/causative verb pair is defined semantically: it is a pair of verbs which express the same basic situation (generally a change of state, more rarely a going-on) and differ only in that the causative verb meaning includes an agent participant who causes the situation, whereas the inchoative verb meaning excludes a causing agent and presents the situation as occurring spontaneously.

    In questo articolo il termine incoativo viene utilizzato, nonostante la sua possibile ambiguità, seguendo Haspelmath (1993 (come nella nota 3):108): The term inchoative is not very felicitous because it is often (and originally) used in the sense ‘inceptive, beginning’. The reason for this terminological confusion is that inceptive verbs that are formed from stative expressions are inchoative verbs in the above sense, e. g. Latin verbs in -escere (rubescere ‘begin to be red, become red’ from rubere ‘be red’). I use the terms inchoative/causative for want of a better alternative and because they have recently come to be used in this way (e. g. Marantz 1984; Guerssel et al. 1985; Croft 1991).

    Quando agisce nel dominio spaziale, [ŋkɛ] serve principalmente a indicare un luogo (o un elemento) distante o inaccessibile alla vista, perciò si ha un’opposizione fra: (1) a. [ˈɛst inˈnɔʔɛ] b. [ˈk ɛst iŋkuɖˈɖaɛ] essere:prs.3sg qui [ŋkε] essere:prs.3sg laggiù ‘È qui.’ ‘È laggiù.’

    Nonostante il clitico occorra ancora in alcuni dei contesti originari, l’alveo funzionale di [ŋkɛ] si è esteso portando il clitico ad assolvere nuove funzioni, tra cui quella incoativa: (2) a. [ˈɛstɛ mˈmannu] b. [ˈk ɛstɛ mˈmannu] essere:prs.3sg grande [ŋkε] essere:prs.3sg grande ‘È grande.’ ‘È diventato grande.’

    In (2a) si descrive una qualità fisica del soggetto, mentre l’elemento marcato in (2b) indica che la qualità in questione è il frutto di un processo che ha comportato un cambiamento di stato. Tali forme possono essere usate per esprimere rispettivamente concetti come: (3) [ˈɛstɛ mˈmannu ðɛ ʔaˈrɛna ] essere:prs.3sg grande di corporatura ‘È grande di corporatura.’

    Lo sviluppo di [ŋkɛ] in sardo orgolese: dalla deissi spaziale alla semantica verbale

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    (4) [ˈk ɛstɛ mˈmannu ðɛ ɛˈðaðɛ] [ŋkε] essere:prs.3sg grande di età ‘È diventato grande di età.’

    Si tratta di un procedimento della stessa natura di quello riportato da Comrie (1976:20) riguardante il cinese mandarino: “a number of predicates, both adjectives and verbs, that normally refer to a state can have ingressive meaning in the Perfective, e. g. ta¯ ga¯o ‘he is tall’, ta¯ ga¯o-le (Pfv.) ‘he became tall, has become tall’”. La trafila di grammaticalizzazione del clitico [ŋkε] verrà trattata in maniera più estesa nella sezione (§2), mentre la sezione (§3) è dedicata all’interazione fra il clitico e il verbo mòrrere, il quale presenta un’alternanza incoativo/causativo. In questa sezione si evidenzierà come l’occorrenza del clitico sia collegata a parametri semantici quale [€deliberato] e [€animato]. La sezione (§4), quella conclusiva, riprende i punti cruciali della trattazione e indica possibili sviluppi delle argomentazioni presenti in questo articolo.

    2.

    La grammaticalizzazione di nche

    Un elemento deittico, per via di grammaticalizzazione, può arrivare ad indicare tutte le dimensioni della situazione comunicativa. L’evoluzione semantica e funzionale che ha luogo durante un processo di grammaticalizzazione è in parte motivata dal suo significato originario. A questo proposito, Comrie (1976:11) afferma: “Where a form is said to have more than one meaning, it is often the case that one of these meanings seems more central, more typical than the others. In such cases, it is usual to speak of this central meaning as the basic meaning”. Hopper & Traugott (1993:96) evidenziano come la persistenza del significato originario determini restrizioni nella distribuzione grammaticale della forma grammaticalizzata: “[…] when a form undergoes grammaticization from a lexical to a grammatical function, so long as it is grammatically viable, some traces of its original lexical meanings tend to adhere to it, and details of its lexical history may be reflected in constraints on its grammatical distribution. This phenomenon has been called ‘persistence’ (Hopper 1991)”. La forma sarda [ŋkɛ] ha origine dall’avverbio latino hinc, il cui significato originario di moto a luogo ‘da qui’ si estese fino a valere come avverbio di tempo, di origine o causa. A tale riguardo, Wagner (1960–64:s.v.) afferma: “Ma pure non si può dubitare che originariamente inke risale a HINC, perché occorre anche nel significato di ‘da qui’”. (5) Haec mulier, quae hinc exit modo. dem donna che di qui uscire-prs.3sg ora ‘Questa donna che esce adesso di qui.’

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    Carminu Pintore

    In questo esempio, tratto dal Miles Gloriosus, si evidenzia che il significato egressivo sembra legato alla semantica del predicato: il verbo uscire implica l’allontanamento (in particolare l’uscita) da una fonte. Potrebbe essere questo il contesto originario da cui ha preso piede il processo di arricchimento funzionale che ha interessato il clitico [ŋkε]. hinc era un avverbio polifunzionale, traducibile non solo col significato di ‘di qui, di qua, da questo luogo, da questa parte, da questo punto’ ma pure come ‘da questo momento, da qui in poi, d’ora in poi’ e, ‘da ciò, per questo, quindi’. Ciò che accomuna tutti questi significati è l’allontanamento da una fonte, sia essa identificabile sul piano spaziale, temporale o causativo. Tale generalizzazione è giustificata dall’estensione metaforica che dal dominio spaziale porta a quello logico attraverso il dominio temporale. Hiraga (1994:16) descrive una estensione metaforica analoga in giapponese: One of such metaphorical transfers is a spatial-temporal-causal extension in polysemy and other grammatical constructions. The Japanese particle kara (‘from’), for example, displays a polysemy which can be explicated by a metaphorical extension from place to time, and to causation. […] the grammatical constructions produced by the polysemic metaphorical extension of the Japanese particle kara are motivated by the cognitive metaphors such as time is place, causation is place, and proposition is place.

    L’assunzione da parte di un elemento deittico di valenze tempo-aspettuali è motivato dalla metafora space is time. Un’espressione direzionale che indichi il moto da luogo, può essere usata per indicare l’aspetto perfetto. A questo proposito, lo stretto rapporto concettuale fra la direzionalità e l’aspetto verbale è indicato già da Comrie (1976:106): Similar to, though apparently less common than, the use of locative expressions for progressive meaning, is the use of directional expressions for prospective aspectual meaning and for perfect meaning, or at least a subset of these: motion towards serving as a model for prospective meaning, and motion from as the model for perfect meaning. […] In French, venir de, literally ‘come from’, is used to express recent perfect meaning, as in je viens d’écrire la lettre ‘I have just written the letter’, as if I were emerging from being engaged in some activity.

    Nel processo di grammaticalizzazione ha ovviamente luogo una ridefinizione del contenuto semantico che ha come risultato una sostituzione graduale dei significati concreti della forma con significati di tipo grammaticale. Si ha, in breve, uno slittamento di questo genere: (6) significato → funzione;

    semantica → grammatica;

    concreto → astratto.

    Lo sviluppo di [ŋkɛ] in sardo orgolese: dalla deissi spaziale alla semantica verbale

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    La maggior parte delle occorrenze di [ŋkɛ] può essere ricondotta a una funzione deittica estremamente generalizzata, riassumibile nell’indicazione di un referente di qualsiasi natura nel contesto comunicativo. Il significato originario di allontanamento dalla fonte, nella parlata orgolese, è stato generalizzato per includere il moto a luogo, il riferimento a un referente distante e/o non visibile. Limitandoci alla generalizzazione in ambito locativo possiamo notare come [ŋkɛ] occorra sia con verbi che indicano un allontanamento dalla fonte sia il raggiungimento di una meta; quindi, saranno possibili sia (7) che (8): (7) [primiðiβ ˈɛɔ ˈʔa mi kk esˈsiɔ ˈʔiθɔ ]. tempestivo io perché refl [ŋkε] uscire:pst.1sg presto ‘Io ero mattiniero (o tempestivo) perché uscivo presto (di casa).’ (8) [ziˈ si

    naraða dire: prs.3sg ˈɣazu ʔi caso che

    ˈittɛ kk cosa [ŋkε] kˈk appa [ŋkε] avere: aux.sbjv.3sg

    a avere: aux.prs.3sg ˈʣuttu portare: pst.ptcp.m.sg

    ʣˈʣuttu portare: pst.ptcp.m.sg una ˈʔɔza una cosa

    ˈissu nel

    a ˈʔalʔi ˈloʔuz]. a qualche luogo ‘Si dice “cosa ([ŋkɛ]) ha portato” nel caso in cui ([ŋkɛ]) abbia portato una cosa verso qualche luogo.’

    In virtù di questa generalizzazione, il clitico [ŋkɛ] ha guadagnato il monopolio delle espressioni di movimento. Nella formula: [(luogo a) → (luogo b)] [ŋkɛ] sostituisce il movimento stesso, perciò abbiamo: [fonte–[ŋkɛ]–meta]. Questa è ciò che definiamo struttura basilare sottostante al clitico [ŋkɛ]. [ŋkɛ] indica un movimento, quindi, in potenza, indica contemporaneamente il moto da luogo e il moto a luogo. La struttura basilare sottostante a [ŋkɛ] motiva il suo profilo funzionale. Oltre a questa funzione locativa generalizzata, il clitico ha assunto nuove funzioni riconducibili al suo significato basilare e frutto di un avanzamento nel cline di grammaticalizzazione. Se assumiamo che [ŋkɛ] indichi una direzione o codifichi un movimento, quando estendiamo il suo uso al dominio tempoaspettuale il clitico potrà essere impiegato per indicare un’azione telica, un cambiamento di stato o l’aspetto perfettivo. Un esempio della funzione telica del clitico [ŋkɛ] è: (9) [ˈk ammɔs ʔoˈlau z isʔansaˈðorʝu] [ŋkε] avere:aux.prs.1pl passare:pst.ptcp.m.sg il bivio ‘Abbiamo oltrepassato il bivio.’

    Il clitico [ŋkɛ] funziona come un selettore, ossia come un dispositivo che consente di operare una selezione tra funzioni semantico-pragmatiche diverse. Le funzioni

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    Carminu Pintore

    sono connesse al verbo a cui il clitico si lega, che ha nelle sue connotazioni modalità alternative di funzionamento. Ad esempio, se consideriamo il verbo [ʔɔˈlarɛ], presente in (9), possiamo rilevare tra le sue connotazioni ‘passare’, ‘transitare’, ‘filtrare’, ‘trascorrere’, ‘oltrepassare’, ‘sorpassare’. Il clitico [ŋkɛ], applicato al verbo [ʔɔˈlarɛ], seleziona quei significati che implicano semanticamente un cambiamento di locazione o una situazione telica. Questa espansione semantica (l’acquisizione da parte di [ŋkɛ] del tratto semantico [+telico]) fa parte del processo di grammaticalizzazione del clitico, durante il quale il suo contenuto semantico si è riorganizzato muovendo verso concetti più astratti. In questo caso il clitico non indica più una meta identificabile come il punto finale di un movimento fisico nello spazio ma come il punto finale di una situazione (vedi Comrie (1976:23): “In the present work the term ‘situation’ is used as this general cover-term, i. e. a situation may be either a state, or an event, or a process”), il suo telos. Tale espansione si rivelerà cruciale per l’evoluzione del clitico, aprendogli la strada verso la codifica dei tratti [puntuale] e [egressivo]: (10) [apˈpompia za lavaˈtriʧɛ zi kˈk a guardare:imp.2sg la lavatrice se [ŋkε] avere:aux.prs.3sg ssappuˈnau] lavare:pst.ptcp.m.sg ‘Guarda se la lavatrice ha finito di lavare.’

    L’ipotesi formulata in Pintore (2015) è che il clitico [ŋkɛ] abbia seguito due percorsi principali nel suo processo di grammaticalizzazione: il primo basato sulla generalizzazione e astrazione del concetto di direzionalità e il secondo basato sulla generalizzazione e astrazione del concetto di distanza dal centro deittico. Nella definizione di Vanelli (1992:7): “[…] si parlerà di centro deittico, intendendo con ciò il punto d’incontro dei tre parametri essenziali per la determinazione delle espressioni deittiche, l’ego, l’hic e il nunc, vale a dire il tempo e il luogo in cui il parlante produce il suo enunciato”. A tal proposito, è importante sottolineare che i locativi distali e i direzionali sono semanticamente legati dal concetto di distanza, intesa come intervallo spaziale o come distanza del referente rispetto al centro deittico. Quando indichiamo una direzione, implichiamo un cambiamento di locazione [loc¹ → loc²] e fra questi referenti spaziali, almeno uno è necessariamente diverso dal centro deittico. Considerata, dunque, l’estensione semantica che ha portato il clitico ad assolvere la funzione di locativo distale oltre alla funzione direzionale originaria, in questo articolo proponiamo di integrare i due percorsi ipotizzati in Pintore (2015) in una sola trafila di grammaticalizzazione:

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    (11) deissi distale spaziale > deissi distale temporale/aspettuale > funzione incoativa > funzione causativa1

    Ciò che rende coerente e omogeneo il profilo funzionale di [ŋkɛ] è il riferimento a un punto o a un’entità localizzati o concepiti come distali rispetto al centro deittico, o meglio ancora al here-space (vedi Enfield (2003:89)) implicato nei contesti d’uso. Anche gli aspetti perfettivo e imperfettivo sono collegati a un’idea di distanza. Segnatamente l’aspetto imperfettivo, per così dire, codifica una situazione con il parlante al suo interno ossia tende a codificare il coinvolgimento del parlante nel flusso evenemenziale o coscienziale in atto: di conseguenza la situazione verrà percepita dal parlante come facente parte del proprio qui ed ora. Al contrario, l’aspetto perfettivo presenta una situazione vista dall’esterno, in sé conclusa, appartenente al non qui del parlante. A questo proposito, infatti, Comrie (1976:4) afferma: Another way of explaining the difference between perfective and imperfective meaning is to say that the perfective looks at the situation from outside, without necessarily distinguishing any of the internal structure of the situation, whereas the imperfective looks at the situation from inside, and as such is crucially concerned with the internal structure of the situation, since it can both look backwards towards the start of the situation, and look forwards to the end of the situation, and indeed is equally appropriate if the situation is one that lasts through all time, without any beginning and any end.

    Possiamo dunque parlare di una prospettiva interna legata all’aspetto imperfettivo e di una prospettiva esterna correlata all’aspetto perfettivo. La prospettiva esterna del parlante rispetto alla situazione ne permette una visione completa, la distanza concede una visuale della situazione nella sua interezza. Se consideriamo l’alveo funzionale del clitico [ŋkɛ], qui siamo al livello più alto di astrazione e, con buona probabilità, allo stadio più recente del suo processo di grammaticalizzazione. Concentriamo la nostra attenzione sulla codifica, da parte di [ŋkɛ], del tratto [distale], e ripercorriamo il suo processo evolutivo così come è presentato in Pintore (2015:110):

    1 Nella sezione seguente (§3) vedremo quali siano le restrizioni semantiche per l’occorrenza del clitico con funzione causativa.

    122

    Carminu Pintore

    (12) a. La forma indica un punto lontano nello spazio, il punto indicato da [ŋkɛ] è non qui. b. La forma indica un periodo o un istante lontani nel tempo, il periodo o l’istante indicati da [ŋkɛ] sono non ora. c. Il clitico non indica più un punto dello spazio-tempo ma si riferisce a una situazione, ossia a un’entità (seppur astratta) dotata di struttura. In quest’ultima fase il clitico [ŋkɛ] è funzionale alla codifica di una situazione la cui struttura è compatta, completa, conchiusa. Il clitico localizza la situazione ‘non ora / non qui’, in posizione [distale] rispetto al parlante.

    Il cambiamento di stato è strettamente legato al significato deittico, ciò che cambia rispetto a una situazione locativa è il referente: non si indica più un luogo ma un referente di natura temporale. Formalizziamo questo cambiamento del referente: [(luogo a) → (luogo b)] → [(tempo a) → (tempo b)]. Se applichiamo questo schema a una situazione stativa diventa chiara la funzione di [ŋkɛ]: lo stato espresso è frutto di un movimento (cambiamento) da uno stato precedente, come avviene nei costrutti del tipo ‘[ŋkɛ] + essere + SN’: (13) a. [ɛst essere: prs.3sg ‘È un uomo.’

    un ˈomminɛ] b. [ˈk ɛst un ˈomminɛ] un uomo [ŋkε] essere: un uomo prs.3sg ‘È diventato un uomo.’

    Nella forma marcata è evidente la funzione incoativa del clitico [ŋkɛ]. Peraltro, l’uso di elementi locativi per esprimere un cambiamento di stato è segnalato già da Comrie (1976:103–106).

    3.

    Interazione tra il clitico [ŋkɛ] e il verbo mòrrere

    La coppia verbale mòrrere (intr: ‘morire’)/mòrrere (tr: ‘uccidere’) rappresenta un caso di alternanza incoativo/causativo. Prima di iniziare l’analisi dell’interazione fra il clitico [ŋkɛ] e mòrrere motiveremo la scelta di focalizzare la nostra attenzione proprio su questo verbo. Le ragioni sono essenzialmente tre: (14) (a) il verbo kill (‘uccidere’) ha un ruolo canonico nelle trattazioni dedicate ai tratti semantici. Questo fatto ci offre solide basi teoriche da cui partire, oltre a fornire un modello di comparazione. A titolo esemplificativo riportiamo l’analisi del verbo kill presente in Lyons (1977:321): For example, McCawley (1971) has suggested that the sense of the verb ‘kill’ can be analysed into cause, become, not, and alive, and that those elements are not simply conjoined (as, let us say, male, adult, and human are conjoined in the sense of ‘man’), but are combined in a hierarchical structure which might be represented here (with the omission of certain variables) as (cause (become (not (alive)))).

    Lo sviluppo di [ŋkɛ] in sardo orgolese: dalla deissi spaziale alla semantica verbale

    123

    (b) Il verbo mòrrere ha un profilo argomentale variabile, perciò ho ritenuto interessante indagare la relazione fra l’occorrenza del clitico e l’attualizzazione di profili argomentali diversi. (c) La polisemia di [ŋkɛ] comporta delle difficoltà nel definire la sua funzione in determinate occorrenze; nei casi in cui indica un movimento verso la meta, il clitico [ŋkɛ] ha una certa ambiguità funzionale. In alcune sue occorrenze non è perfettamente chiaro se il clitico abbia una funzione deittica (indicale / direzionale) che potremmo formalizzare come [verso la meta], o se abbia invece una più marcata funzione telica, che formalizzeremo come [fino alla meta]. Per questo motivo la scelta è ricaduta su un verbo (mòrrere) la cui semantica ha poco a che fare con la deissi, se non in via metaforica o in una visione localistica (vedi Lyons (1977:718)) che riconduca ogni significato a locazioni e movimenti astratti. Anche se è plausibile concepire la morte (in quanto passaggio da uno stato all’altro) nei termini propri alla nozione localistica di journey e allo schema valenziale ‘move (entity, source, goal)’, in questo lavoro non si assume questa prospettiva. Le uniche interferenze fra deissi e profilo semantico di mòrrere riguarderanno, da una parte, l’opposizione temporale fra presente e passato e, dall’altra, il riferimento a una situazione precedente a quella presente nel momento dell’enunciazione.

    Di seguito riportiamo le definizioni del verbo mòrrere estrapolate dai dizionari di sardo di Wagner e Puddu. Scegliamo come punto di partenza la definizione che Max Lepold Wagner dà del verbo mòrrere nel DES (cf. Wagner (1960–64):s.v.): mòrrere log.; mòrriri camp. ‘morire’; log. ant. morre (CSP 252: e ppus co aet morre; Stat. Sass. I, 75 (27 r): si … aen morre; CV XIII, 5: daa k’edi morri donnu Saltoro), contratto da *MORE˘RE (HLS, § 31); oggi allungato secondo l’analogia degli altri verbi in –´ ere. Il verbo si usa anche come transitivo per ‘uccidere’ (CSP 110: Petru Manata mortu l’aueat s’omine; Stat. Sass. I, 75 (27 t r): cussos qui … aen morre sos dictos cauallos; CdL e: icussu c’at auir mortu su homjni) e così anche oggi: ‘in mesu su camminu Mortu t’a zente mala’ (Ferraro 259: Nuoro); […]. Anche per ‘spegnere, ammorzare il fuoco’ si usa talvolta (‘mòrinke su focu!’: Valla, ATP XII, 542 (Nuoro) […].

    Le indicazioni più precise e più dettagliate, fra quelle esaminate, appartengono a Puddu (2015:s.v.): mòrre, mòrrede, mòrrere, mòrri, mòrriri , vrb ispaciare o acabbare de bívere, bènnere mancu, ma fintzes leare sa vida o bochire: in poesia, fintzes morre; dhu narant fintzes de cosas allutas, abbruxandho (lampadinas, fogu) in su sensu de dhas firmare de fàere lughe, de abbruxare […] csn: morririsí = morreresiche (si funt mortus, s’est mortu = si che sunt mortos, si ch’est mortu: nadu de su late, chi no at rézidu a lu còghere, chi s’est acasadu); s’est mortu = s’est bociu (= leàresi sa vida de manu sua etotu) […] abbusinare, bochí, bochíere / studai / acragare […] ◊ morta si ch’est e solu mi at lassadu ◊ […] 2. chi emu iscípiu una cosa aici dh’emu mortu! […] ◊ no apo coro de mòrrere un’anzone […] 4. móriche sa lughe, móriche sa televisione! ◊ ◊ […] ltn. *morere […] morire, perire, uccìdere […].

    Sia Wagner che Puddu illustrano la complessità semantica del verbo mòrrere che può essere:

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    Carminu Pintore

    (15) a. transitivo b. intransitivo c. riflessivo

    Si propongono di seguito alcune coppie oppositive basate sul parametro [€ŋkɛ] che saranno utilizzate per illustrare come il clitico interagisca sintatticamente e semanticamente col verbo mòrrere. Iniziamo col descrivere la funzione incoativa del clitico, già anticipata in (§1) nell’esempio (2b): (16) a. [ˈεr ˈmortu] b. [ˈk εr ˈmortu] essere:prs.3sg morto [ŋkε] essere:aux.prs.3sg morire:pst.ptcp.m.sg ‘(He) is dead.’ ‘(He) died.’2

    A livello sintattico, notiamo una chiara differenza nelle strutture delle due proposizioni: (16a) è una struttura ascrittiva del tipo ‘(sn) + cop + adj’ mentre (16b) è una struttura intransitiva del tipo ‘(sn) + sv’.3 A questo proposito Jones (2003 [1993]:246) scrive: “con alcuni verbi sinche serve a distinguere l’uso verbale, perfettivo, del participio passato da quello aggettivale: per es. Sinch’est mortu ‘È spirato’ vs. Est mortu che può solo significare ‘È morto’”. Concordiamo con Jones (che tuttavia applica la sua analisi alla forma composta sinche4) nell’accordare al clitico la proprietà di selezionare un valore verbale, piuttosto che aggettivale, al participio. Si dovrebbe inoltre considerare che la funzione del clitico è quella di aggiungere alla struttura in (16a) il tratto semantico [+telico] e, di conseguenza, di caratterizzare la situazione come completa in quanto giunta a termine; pertanto, la struttura in (16b) assume una funzione verbale piena. Riassumiamo il meccanismo attivato dal clitico [ŋkɛ]: la forma (16a) indica una qualità del soggetto o uno stato, mentre la forma (16b) indica un cambiamento di stato; pertanto: ‘stato + [ŋkɛ] = cambiamento di stato’. Se sostituiamo il participio mortu con un aggettivo, la funzione del clitico appare ancora più chiara; si veda quanto dicevamo sopra in (§1) a proposito della coppia oppositiva (2a) / (2b). Durante le interazioni con informatori orgolesi, si è chiesto in quali contesti userebbero le forme presenti in (16a) e in (16b). Gli informatori usano il clitico [ŋkɛ] nel caso in cui nel contesto sia presente un momento di riferimento5 passato:

    2 L’inglese grammaticalizza l’opposizione aspettuale. 3 sn = sintagma nominale; cop = copula + adj = aggettivo; sv = sintagma verbale. 4 sinche è una forma composta dalla forma atona del pronome riflessivo di terza persona si e dal clitico [ŋkɛ]. 5 La relazione sussistente fra la compiutezza e la presenza di un momento di riferimento è ben trattata in Bertinetto (1986).

    Lo sviluppo di [ŋkɛ] in sardo orgolese: dalla deissi spaziale alla semantica verbale

    (17) a. Su fogu est Il fuoco essere:prs.3sg ‘Il fuoco è spento.’ b. Su fogu nch’ est Il fuoco [ŋkɛ] essere:aux.prs.3sg ‘Il fuoco è spento / si è spento.’

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    mortu.6 morire:pst.ptcp.m.sg mortu. morire:pst.ptcp.m.sg

    La forma (17a) verrebbe usata nel caso in cui il soggetto entra in una casa e il fuoco nel camino è spento. Al contrario, userebbero la forma (17b) nel caso in cui il fuoco presente nel contesto comunicativo fosse acceso in un momento precedente e spento nel momento dell’enunciazione. Lo stesso è valido anche per gli animati: la forma (16a) verrebbe usata nel caso in cui si entri in una casa e si trova un cadavere, la forma (16b) se si assiste alla morte di una persona. Nel secondo caso si fa riferimento a una situazione precedente e al cambiamento che ha portato alla situazione attuale. Anche in questo caso concordiamo con Jones (2003 [1993]:246) quando afferma: “Più specificamente, proponiamo che nche presenti l’evento secondo la prospettiva di una situazione precedente. […] nche allude a una circostanza precedente che costituisce la motivazione […]”. Quando il momento dell’avvenimento (cfr. Reichenbach (1947), Bertinetto (1997:9)) coincide con un momento di riferimento esplicitato o dato contestualmente, il verbo mòrrere occorre senza il clitico [ŋkɛ]; ad esempio: (18) Est mortu mandighende. essere:aux.prs.3sg morire:pst.ptcp.m.sg mangiare:gerund ‘È morto mentre mangiava.’

    In questo caso, una frase identica a (18) ma arricchita dal clitico [ŋkɛ], come ‘*Nch’est mortu mandighende’, sarebbe agrammaticale. Se analizziamo la relazione fra [ŋkɛ] e le caratteristiche semantiche del verbo e dei suoi argomenti, notiamo come la forma (16a) e (16b) sono caratterizzate da strutture semantiche diverse; se utilizziamo gli stessi termini usati da Lyons, descriveremo (16a) come (not (alive)) e (16b) come (become (not (alive))). La funzione incoativa del clitico [ŋkɛ] consiste proprio nel cambiamento che effettua nella struttura semantica degli stativi. Come evidenziato nella sezione precedente (§2), la trafila di grammaticalizzazione che ha interessato il clitico [ŋkɛ] ha come punto finale l’assunzione da parte del clitico della funzione causativa. A questo proposito, si consideri la seguente opposizione:

    6 Gli esempi estrapolati dal corpus sono riportati in trascrizione fonetica, mentre le frasi elicitate tramite interazioni con parlanti nativi orgolesi sono riportate in ortografia, seguendo le norme della Limba Sarda Comuna (LSC).

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    Carminu Pintore

    (19) a. Mòri-lu! b. Mori-nche-lu! uccidere:imp.2sg-lo uccidere:imp.2sg-[ŋkɛ]-lo ‘Uccidilo!’ ‘Spegnilo!’

    L’applicazione del parametro [€ŋkɛ] alla forma imperativa ‘mori’ va a creare un’opposizione semantica: [ˈmori] ‘uccidi’ vs. [ˈmorikkɛ] ‘spegni’. La forma (19b) affissata con il clitico [ŋkɛ] occorre quando l’oggetto è [-animato], come un televisore o la corrente elettrica, e non può significare ‘uccidilo’. A questo proposito, consideriamo un esempio tratto dal dizionario di Puddu (2015): (20) Móriche sa lughe! uccidere:imp.2sg-[ŋkɛ] la luce ‘Spegni la luce!’

    Il clitico non viene affissato alla forma ‘mori’ neanche con oggetti caratterizzati da un bassissimo gradiente di animatezza come insetti o aracnidi. In questo caso è importante notare come l’animatezza sia gerarchicamente più importante della deissi nella selezione del clitico. Infatti, mentre l’occorrenza di [ŋkɛ] è sistematica quando ci si riferisce a un elemento distale, in questo caso, anche quando un ragno è localizzato in posizione distale rispetto alla diade conversazionale, la forma corretta è: (21) [ˈmori ˈʔuss aranˈʣolu] uccidere:imp.2sg quel ragno ‘Uccidi quel ragno!’

    Nell’opposizione (19a) / (19b) il verbo mòrrere è coniugato all’imperativo. In questo caso, mancando un momento di riferimento nel passato, l’occorrenza di [ŋkɛ] è motivata da ragioni puramente lessicali. In prospettiva futura sarebbe logico far tesoro di questa considerazione. In particolare, durante una futura ricerca sul campo, si dovrebbero proporre agli informatori frasi coniugate all’imperativo laddove si vogliano escludere le proprietà deittico-temporali del clitico [ŋkɛ], in modo da isolare le proprietà semantiche di quest’ultimo. Sulla base dei dati raccolti finora, sembrerebbe che la funzione causativa del clitico sia limitata ai casi in cui occorre con un verbo all’imperativo e con oggetti inanimati. Il parametro dell’animatezza è saliente anche in:

    Lo sviluppo di [ŋkɛ] in sardo orgolese: dalla deissi spaziale alla semantica verbale

    (22) a. A Pasolini l’ ant acc Pasolini lo avere:aux.prs.3pl ‘Pasolini è stato ucciso.’ b. Su fogu nche l’ ant il fuoco [ŋkε] lo avere:aux.prs.3pl ‘Il fuoco è stato spento.’7

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    mortu uccidere:pst.ptcp.m.sg mortu uccidere:pst.ptcp.m.sg

    La forma priva di clitico (22a) occorre con un oggetto [+animato], mentre la forma in (22b) occorre quando l’oggetto della frase è [-animato]. Una spia ulteriore della relazione tra le occorrenze del clitico e il parametro [€animato] è il fatto che il clitico [ŋkɛ] non può occorrere con la forma riflessiva del verbo mòrrere: (23) a. S’ est mortu rifl essere:aux.prs.3sg morire:pst.ptcp.m.sg ‘Si è suicidato.’

    Il verbo riflessivo in (23a) descrive un’azione deliberata compiuta dal soggetto/ agente. Logicamente, solo un soggetto [+animato] può agire con deliberatezza. Haspelmath & Müller-Bardey (2004:7) includono il riflessivo tra le valence-decreasing categories: “In reflexive verbs, the number of semantic participants remains strictly speaking the same, but since subject and object participants are referentially identical, only one participant (the subject) is expressed”. Il cambio di valenza operato dal riflessivo si in (23a) non modifica la natura dei ruoli semantici, siamo sempre in presenza di un agente e di un paziente; tuttavia, i partecipanti sono referenzialmente identici. La forma (23a) è da confrontarsi con la seguente: (23) b. Si nch’ est mortu. rifl [ŋkε] essere:aux.prs.3sg morire:pst.ptcp.m.sg ‘È spirato./Si è spento.’

    Nella forma (23b) il clitico [ŋkɛ] neutralizza la deliberatezza dell’agente, tanto che (23b) può riferirsi anche ad inanimati. Il soggetto di (23b) non è un agente ma può essere a seconda dei casi un esperiente o un tema e quella in (23b) non è una struttura riflessiva ma inaccusativa. Prendendo esempio dai modelli presenti in Haspelmath & Müller-Bardey (2004:7), formalizziamo le strutture valenziali delle forme (23a) e (23b): (24) a. referenti: ruoli: funzioni:

    S’est mortu. b. Si nch’est mortu. A A agente paziente esperiente/tema soggetto soggetto

    7 In orgolese (e in sardo in generale) si tende ad evitare la forma passiva, utilizzando una forma attiva impersonale.

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    Carminu Pintore

    Il rapporto fra il pronome si e il clitico [ŋkɛ] meriterebbe un’indagine a ciò dedicata, in questa sede ciò che ci preme sottolineare è la funzione incoativa del clitico [ŋkɛ], funzione espletata anche quando esso occorre in combinazione con ‘si’. Le occorrenze del clitico avverbiale [ŋkɛ] in strutture pronominali di questo genere sembrano avere a che fare con un gradiente di animatezza: (25) a. [z ɛr rifl essere:aux.prs.3sg ‘Si è girato.’ b. [z ɛr rifl essere:aux.prs.3sg ‘È caduto.’

    ˈʣirau ] girare:pst.ptcp.m.sg ˈruttu ] cadere:pst.ptcp.m.sg

    Le forme (25a) e (25b), al pari di (23a), non sono applicabili a inanimati, per i quali l’uso del clitico [ŋkɛ] è obbligatorio. Un soggetto come [zu televisorɛ] (‘il televisore’) richiede questi sintagmi verbali: (26) a. [zi kˈk ɛr rifl [ŋkε] essere:aux.prs.3sg ‘Si è capovolto.’ b. [zi kˈk ɛst rifl [ŋkε] essere:aux.prs.3sg ‘È caduto.’8

    ʣiˈrau ] girare:pst.ptcp.m.sg arˈruttu ] cadere:pst.ptcp.m.sg

    L’occorrenza/non occorrenza di [ŋkɛ] agisce semanticamente anche sulle forme verbali a struttura pronominale rispetto ai parametri semantici [€deliberato] e [€animato]. L’importanza della deliberatezza appare più chiara quando confrontiamo la struttura valenziale della coppia verbale mòrrere (intr: ‘morire’) e mòrrere (tr: ‘uccidere’). Ciò che differenzia il significato di mòrrere (intr: ‘morire’) e mòrrere (tr: ‘uccidere’) è che la valenza aggiuntiva della forma transitiva è un agente che compie un’azione deliberata: (27) Tue as mortu a isse. tu avere:aux.prs.2sg uccidere:pst.ptcp.m.sg acc lui ‘Tu hai ucciso lui.’

    8 Nonostante le traduzioni di (25b) e (26b) siano identiche (‘è caduto’), le situazioni implicate sono diverse: mentre (25b) può riferirsi solo a animati, (26b) può riferirsi sia a un soggetto inanimato che a un soggetto animato. Nel caso in cui (26b) si riferisca a un soggetto animato, il clitico [ŋkɛ] ha funzione deittica: mentre (25b) occorre in un contesto nel quale l’evento (la caduta del soggetto) avviene all’interno di un’area considerata facente parte del centro deittico, (26b) occorre nel caso in cui il soggetto cade da un punto localizzato in posizione [distale] rispetto al centro deittico.

    Lo sviluppo di [ŋkɛ] in sardo orgolese: dalla deissi spaziale alla semantica verbale

    129

    La deliberatezza da parte dell’agente è parte integrante del significato di mòrrere quando esso è inserito in questo tipo di struttura. Per questo motivo traduciamo (25) come ‘Tu hai ucciso lui’ e non come ‘Tu hai fatto morire lui’. A una prima analisi, il sardo orgolese sembra abbondare di verbi che, come rùghere (‘cadere/far cadere’), bolare (‘volare/far volare’), dormire (‘dormire/far addormentare’), presentano un’alternanza sistematica fra una forma intransitiva e una forma transitiva. In prospettiva futura, sarebbe interessante analizzare un campione di verbi caratterizzati dall’alternanza incoativo/causativo per verificare se parametri quali [€deliberato] e [€animato] incidano stabilmente sulla distribuzione del clitico [ŋkɛ].

    4.

    Conclusioni

    In questo articolo è stata descritta la trafila di grammaticalizzazione che ha interessato il clitico [ŋkɛ] in sardo orgolese (§2) ed è stata analizzata la relazione fra [ŋkɛ] e la semantica verbale, utilizzando mòrrere (‘morire/uccidere’) come esempio primario di verbo con cui il clitico in esame può combinarsi (§3). La trafila ipotizzata è: deissi distale spaziale > deissi distale temporale/ aspettuale > funzione incoativa > funzione causativa. Si è dimostrato come la funzione incoativa del clitico modifichi la semantica verbale, trasformando situazioni stative in cambiamenti di stato. Si è anche descritta la funzione causativa del clitico nella sua interazione con il verbo all’imperativo, funzione limitata a oggetti diretti [-animati]. In seguito all’analisi fin qui compiuta, si può dire che i parametri [€deliberato] e [€animato] sono determinanti per la selezione del clitico in co-occorrenza con il verbo mòrrere. Il fine ultimo della descrizione effettuata nel presente articolo è quello di fornire un modello utile alla comparazione, nella prospettiva che questa analisi possa essere applicata ad altri verbi sardi (a partire dalla varietà orgolese). In tale auspicabile futura prospettiva sarebbe interessante analizzare altre coppie verbali caratterizzate dall’alternanza incoativo/causativo, segnatamente verbi che codificano un cambiamento di stato o un cambiamento di locazione (vedi Levin (1993:30)). Una volta individuato un campione di verbi adatto all’analisi, sarebbe possibile indagare più profondamente l’interazione tra il clitico [ŋkɛ] e la semantica verbale.

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    Carminu Pintore

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    Simone Pisano

    Nuovi dati per una delimitazione geografica e funzionale del fenomeno dell’infinito flesso in Sardegna*

    Abstract: Le forme flesse di infinito rappresentano uno dei temi di maggior interesse della linguistica romanza sia dal punto di vista diacronico che di quello più strettamente sincronico. In alcune varietà sarde di area nuorese e ogliastrina l’infinito flesso è ancora abbastanza vitale; sebbene non manchino studi teorici e tipologici su questa particolarità della morfologia verbale del sardo centrale, non si dispone ancora di una precisa delimitazione geografica del fenomeno. L’intervento, per quanto non possa essere esaustivo, si ripropone di discutere alcuni nuovi dati raccolti nella Sardegna centro-orientale e centro-settentrionale al fine di dare maggiori dettagli sulla precisa estensione areale di queste forme.

    1.

    Premessa

    L’infinito flesso, secondo quanto mi è possibile dire in base alle inchieste compiute in diverse aree della Sardegna centrale e settentrionale, sembra essere un fenomeno tipicamente orientale che, a sud, si estende grosso modo sino

    * In apertura di questo contributo desidero rivolgere un pensiero riconoscente a tutti coloro hanno messo a disposizione la loro competenza di parlanti nativi rispondendo alle mie tante (e spesso noiose!) domande. Senza le loro conoscenze, la loro sensibilità metalinguistica ed epilinguistica l’opera di documentazione della morfologia e della sintassi delle varietà sarde moderne non sarebbe possibile. In particolare mi preme ricordare: Paolo Berria, Caterina Moledda, Pasquale Frogheri, Giovanni Piga, Severino Puggioni (Nuoro), Bastianina Canu, Giuseppe e Pietro Delogu, Giovannina Ruiu (Orune), Angela Corbeddu, Giovanni Lovicu, Filippo Puligheddu, Annamaria Garipa (Oliena), Michele Battacone, Gaetano Cossu, Assunta Dessì, Nicoletta e Franca Menneas (Orgosolo), Francesco Crisponi, Natale Gungui, Monica Piras (Mamoiada), Silvio (Sìrbiu) Orrù, Oliviero Nioi (Olzai), Caterina Cuguru, Manuela Mereu, Andrea Nonne (Fonni), Lina Manca, Maria Mulargia (Siniscola), Antioco, Costantino, Gianluca Pisanu (Galtellì), Sebastiano (Bustianu) Pilosu (Torpè), Carmine Barrili, Maria Nunzia Demurtas (Villagrande Strisaili), Giovanni Cucca (Lanusei).

    132

    Simone Pisano

    all’Ogliastra centrale (Tertenia e Lanusei) mentre nel nord è documentato in tutta la Baronia sino a Torpè.1 Per quanto in letteratura (cfr. Pittau 1972:83; Jones 1993:82; Mensching 2017:381, 383) le forme di infinito flesso siano considerate omofone a quelle dell’imperfetto congiuntivo, i due paradigmi non sono totalmente coincidenti nella gran parte delle varietà indagate. In questo contributo mi soffermerò ancora sulla situazione geolinguistica e sulle funzioni dell’infinito flesso discutendo dati inediti soprattutto di area baroniese. Dal momento che le forme flesse di infinito risultano fortemente recessive in alcune varietà della Barbagia di Ollolai, rimane un obiettivo quello di delimitare bene l’area di diffusione di questa peculiarità morfo-sintattica ascrivibile al sistema verbale sardo; appare infatti evidente che, nell’assegnare o meno alla varietà indagata la presenza di una forma flessa di infinito, un criterio meramente binario (sì/no) rischia di non farci cogliere pienamente la natura multiforme del fenomeno in tutte le sue articolazioni.

    2.

    Metodologia, informatori, questionari

    Nell’indagare aspetti complessi del sistema verbale in parte sfuggenti, talvolta avvertiti come evanescenti dagli stessi parlanti, frequentemente (anche se non necessariamente) regressivi nelle nuove generazioni, nonché spesso relegati a espressioni stereotipate, ho ritenuto utile avere un numero di informatori ampio di tutte le classi di età per ogni varietà indagata, contrariamente a quanto accade per gli studi sul lessico, non escludo a priori informatori capaci di intuizioni metalinguistiche (ovviamente diversamente valutabili in sede di analisi dei dati)2 e scolarizzati. Per ogni parlata indagata ho ritenuto di dover sentire almeno 4 informatori (due maschi e due femmine) di differenti le fasce d’età (grosso modo a partire dai 30 ai 90 anni di età). Ho potuto avvalermi di registrazioni di parlato spontaneo o, specialmente con informatori anziani, talvolta non ho escluso la possibilità di colloqui semidirettivi (cfr. Grassi, Sobrero & Telmon 1997:277), ma, di norma, ho sottoposto agli informatori un questionario (suscettibile di piccole variazioni a seconda dell’informatore e della sua disponibilità di tempo) appositamente elaborato per lo studio del fenomeno indagato. A diversi informatori 1 Ricerche più dettagliate sono necessarie in area ogliastrina, dove ho potuto documentare il fenomeno in alcuni informatori anziani di Lanusei e a Tertenia grazie alle indicazioni dell’amica Rosangela Lai. Ci sarebbe bisogno tuttavia di verificare maggiormente le possibilità funzionali di queste forme dal momento che, per quanto emergano facilmente nel parlato spontaneo, sono tuttavia escluse dagli informatori nelle richieste di accettabilità. 2 In altre parole, ho cercato di evitare i possibili errori di valutazione che, specialmente nell’indagare fenomeni morfo-sintattici, possono essere fatti avendo un solo informatore (cfr. Grassi, Sobrero & Temon 1997: 290).

    Nuovi dati per una delimitazione geografica e funzionale del fenomeno

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    sono stati richiesti anche giudizi di accettabilità di alcune frasi e, in qualche caso, ho ritenuto opportuno ripresentare una stessa frase al medesimo informatore in tempi differenti. In varie occasioni, infine, sono stati richiesti giudizi di accettabilità partendo da frasi somministrate in sardo in varietà prossime a quelle della persona intervistata. Bisogna rilevare che il fenomeno appare largamente recessivo nella maggior parte delle aree oggetto di questa analisi (per ulteriori osservazioni si veda §3 e §4), anche se, perlomeno in area baroniese, le forme flesse di infinito sono ancora assai diffuse anche nei parlanti più giovani. Alcuni informatori (non sempre i più giovani ma spesso anche gli anziani) ritengono le forme dell’infinito flesso poco “naturali” magari attribuendole ai parlanti dei centri vicini. Le forme flesse di infinito sono talvolta ritenute grammaticali ma “non preferibili” (si podet narrer ma non lu namus ‘si può dire ma non lo diciamo’ è una delle osservazioni che mi sono state spesso fatte quando richiedevo giudizi di accettabilità). In condizioni di grande variabilità sarà forse indicato stabilire delle distinzioni tra enunciati e forme considerati non agrammaticali dai parlanti (e quindi “virtualmente” possibili), anche se non usate comunemente, e quelli più ricorrenti e preferibili. Per una valutazione di questo tipo, tuttavia, occorrerebbero più raccoglitori e una mole di dati maggiore rispetto a quella che ho messo insieme pur in tanti anni di campagne di inchieste.

    3.

    Problemi di “forme”

    Come accennavo in apertura di questo contributo le forme flesse di infinito sono soggette a una certa variazione diatopica, riporterò pertanto schematicamente i paradigmi di imperfetto congiuntivo e infinito flesso di alcune località che ho indagato. Non è raro che, dati i medesimi parametri sintattici, alcune frasi mi siano date come possibili e pienamente accettabili in alcune località e siano state avvertite come innaturali in altre. Se a livello segmentale le forme piene di imperfetto congiuntivo e di infinito flesso degli ausiliari ‘essere’ e ‘avere’ sono spesso coincidenti, si noterà che, altrettanto frequentemente, emerge una notevole differenza nella posizione dell’accento.

    3.1.

    L’imperfetto congiuntivo

    Le funzioni di imperfetto congiuntivo vero e proprio, se si escludono i soli verbi ausiliari ‘essere’ e ‘avere’, sono di norma ricoperte da forme analitiche nelle quali un ausiliare all’imperfetto congiuntivo è seguito dal participio passato del verbo lessicale (cfr. Pittau 1972:93; Jones 1993:82 e 308). Le forme flesse degli ausiliari,

    134

    Simone Pisano

    tuttavia, sono soggette a una progressiva erosione del corpo fonico che può portare anche alla totale coincidenza di ‘essere’ e ‘avere’ (cfr. 1c e 1d). Come segnalato anche da Pittau (1972:106, 138, 151, 155 e 157), in alcune varietà, si riscontra inoltre una frequente sovraestensione dell’ausiliare ‘essere’ (cfr. 1a e 1b). A questo proposito si considerino i seguenti esempi: (1) a. (Mamoiada)

    b. (Galtellì)

    c. (Nuoro)

    d. (Nuoro)

    ʔería ʔi ɛssɛ´rɛs traballáu inɔ´ʔɛ volere.impf.1sg che essere.cong. lavorare. qui impf.2sg p.p.m.sg ‘vorrei che lavorassi qui’ tambéne lu zɛ´rɛ llassátu magari lo.cl=essere.cong. lasciato.p.p.m.sg impf.3sg ‘magari lo lasciasse/lo avesse lasciato!’ ti l áppɔ náu im móðu a te.clit=lo.clit=avere.1sg dire.p.p.m.sg in modo ki m ɛ´rɛzɛ lassáu im pákɛ che me.clit =ausiliare. cong. lasciare. in pace impf.2sg p.p.m.sg ‘te l’ho detto in modo che tu mi lasciassi in pace’ kreðía ki ɛ´rɛs taŋkáu túɛ credere. che ausiliare. cong. chiudere. tu impf.1sg impf.2sg p.p.m.sg ‘credevo che chiudessi (o ‘avessi chiuso’) tu’

    Una situazione inedita è quella che si può segnalare per l’alta Baronia; nella parlata di Torpè, infatti, per quanto si siano affermate forme con un formante in -ɛ´rɛ-/-ɛ´ra- estese a tutte le coniugazioni (cfr. 2a) continuano a affiorare anche nella sincronia forme etimologiche (cfr. 2b) oggi assai rare e diffuse, a quanto risulta dai miei dati, nella sola varietà di Dorgali (cfr. 2c) o, in espressioni fortemente stereotipate, in qualche varietà barbaricina e baroniese (cfr. Pisano 2010:132 e esempio in 3): iŋkɛ´ra a ssu vincere.cong. a il impf.1sg ɣɔmpɔrárɛ úna ðɔ´mmɔ nɔ´a comprare.inf una casa nuova ‘se vincessi al lotto mi comprerei una casa nuova’ b. (Torpè) noŋ krettía ɣi torrárɛl non credere. che tornare.cong. impf.1sg impf.2sg ‘non pensavo che tornassi così in fretta’ c. (Dorgali) kreðío xi θɔrrárrer credere. che tornare.cong. impf.1sg impf.2sg ‘non pensavo che tornassi subito’

    (2) a. (Torpè)

    si si

    lɔ´ttɔ mi ðía lotto mi.cl= cond.1sg

    ɡói im prɛ´ssɛ così in fretta ðeréttu subito.m.sg

    Nuovi dati per una delimitazione geografica e funzionale del fenomeno

    135

    A Galtellì, come nella gran parte delle varietà indagate, nelle coniugazioni regolari si è affermato il tipo analitico visto in (1); tuttavia le forme etimologiche di imperfetto congiuntivo si registrano esclusivamente nel parlato spontaneo (ma non se le si chiede esplicitamente) in espressioni fortemente stereotipate. Gli informatori più giovani, spesso, le attribuiscono alle persone anziane: (3) (Galtellì) si kapitárɛtɛ | l ípo vístu kim pjaɣɛ´rɛ si capitare. lo.cl=essere. vedere. con piacere cong.impf.3sg impf.1sg p.p.m.sg ‘se capitasse lo vedrei con piacere’

    In questo tipo di enunciati, i parlanti preferiscono l’allomorfo paragogico (ovvero la forma piena con vocale paragogica di solito riscontrabile in posizione assoluta o prepausale).3 In alcune varietà della Barbagia di Belvì (cfr. Pisano 2008:33–39 e 2010:149– 152)4 il congiuntivo imperfetto etimologico è stato sostituito da un paradigma analitico innovante in cui le forme flesse degli ausiliari traggono origine dal più che perfetto latino (cfr. Desulo ʧi ɛ´sse ppróppiu ‘se piovesse’ o ‘avesse piovuto’) mentre in alcune parlate ogliastrine si notano fenomeni analogici che, tuttavia, non hanno intaccato la totale coincidenza del paradigma dell’infinito flesso con quello dell’imperfetto congiuntivo; a questo proposito si presti attenzione agli esempi in (4) e in (7): (4) a. (Villagrande tʃi Strisaili) se

    ɣapitáɛrɛðɛ a attoβiáe úna capitare.cong. a incontrare.inf una impf.3sg bbɛ´lla βittʃɔ´kka bella ragazza ‘magari capitasse di incontrare una bella ragazza!’ b. (Villagrande a ssu máŋku βrɔ´ɛreð iŋ kústu Strisaili) a il meno piovere.cong.impf.3sg in questo moméntu momento ‘almeno piovesse in questo momento!’

    Infine, mi preme segnalare alcune “forme fantasma” delle quali si ha una qualche attestazione per la varietà di Nuoro. Durante le prime inchieste fatte nei primi anni 2000 qualche informatore anziano diceva di ricordare le forme sintetiche 3 Nelle varietà baroniesi non è infrequente l’estensione dell’ausiliare ‘essere’ anche ai tempi composti del modo indicativo. Si noterà che la forma ípo può essere esclusivamente un imperfetto indicativo del verbo ‘essere’ dal momento che l’imperfetto indicativo del verbo ‘avere’, alla prima persona, suona sempre aía(po)/aío. Non posso dilungarmi qui sull’argomento ma mi ripropongo di affrontare meglio la questione in altra sede. 4 Ai miei lavori, per quanto incompleti, rimando per una trattazione più approfondita della situazione della Barbagia di Belvì.

    136

    Simone Pisano

    etimologiche (cfr. esempi in 2b, 2c e 3) che oggi sono considerate totalmente agrammaticali. Se non ci sono state serie incomprensioni tra me e gli informatori (cosa che non posso escludere a priori) è probabile che il paradigma di imperfetto congiuntivo etimologico sia stato scalzato dalle forme analitiche che sono di gran lunga produttive nel sistema nuorese. A Nuoro, specialmente nella lingua poetica, non sono del tutto escluse le forme innovanti con sequenza -ɛ´rɛ- estesa a tutte le coniugazioni. Recentemente ho avuto modo di sentirle in alcuni mutos nuoresi5 citati da alcuni informatori e se ne ha attestazione scritta sia nei sonetti di Pasquale Dessanai (1868–1919; cfr. Porcu 2000) sia negli appunti di Ugo Pellis che annotò il congiuntivo imperfetto in -ɛ´rɛ- nel corso della sua inchiesta a Nuoro compiuta nel maggio del 1933.6

    3.2.

    Infinito flesso

    In termini generali ricorderò che in sardo, in tutte le sue varietà, si registrano proposizioni subordinate infinitive con un infinito non controllato e con soggetto postverbale che può essere espresso (cfr. Blasco Ferrer 1986:158–159; Mensching 2017:393; Virdis 2015:466). Nell’area dialettale che abbiamo individuato, inoltre, il verbo all’infinito può essere opzionalmente flesso. Come nota Maurizio Virdis (2015:469) le proposizioni infinitive sono sempre precedute da un complementatore che seleziona l’infinito e tra esso e il verbo subordinato non è possibile inserire “altro materiale, neanche dislocato, almeno che non si tratti di clitici”. Possiamo iniziare la nostra trattazione da quelle varietà nelle quali si riscontra una piena identità formale tra le forme di imperfetto congiuntivo e quelle di infinito flesso. Questa piena coincidenza si riscontra nella varietà di Dorgali: (5) a. (Dorgali) keríana xi aɳɖáreð volere.impf.3pl che andare.impf.cong.3sg b. (Dorgali) keríana a aɳɖáreð volere.impf.3pl a andare.inf.3sg ‘volevano che andasse lui’

    íssu lui íssu lui

    Bisogna inoltre notare che gli ausiliari ‘essere’ e ‘avere’ alla I, II e III singolare e plurale mantengono inalterata l’accentazione sulla prima sillaba sia nelle forme di imperfetto congiuntivo che in quelle dell’infinito flesso come si vede negli schemi in (6): 5 Si tratta di componimenti poetici, spesso improvvisati, formati da due distici di endecasillabi. 6 Così risulta nel manoscritto di Pellis (1933) inerente all’inchiesta di Nuoro, in fase di redazione e conservato presso la sede dell’ALI a Torino.

    137

    Nuovi dati per una delimitazione geografica e funzionale del fenomeno

    (6) a. ‘essere’ infinito infinito flesso ɛ´ssɛr(ɛ) ɛ´ssɛrɛ -ø ɛ´ssɛrɛ -s ɛ´ssɛrɛ -t [ɛ´ssɛrɛðɛ] esseré -mus esseré -is ɛ´ssɛrɛ -n b. ‘avere’ infinito infinito flesso áɛr(ɛ) áɛrɛ -ø áɛrɛ -s áɛrɛ -t [áɛrɛðɛ] aeré -mus aeré -is áɛrɛ -n

    imperfetto congiuntivo ɛ´ssɛrɛ -ø ɛ´ssɛrɛ -s ɛ´ssɛrɛ -t [ɛ´ssɛrɛðɛ] esseré -mus esseré -is ɛ´ssɛrɛ -n imperfetto congiuntivo áɛrɛ -ø áɛrɛ -s áɛrɛ -t [áɛrɛðɛ] aeré -mus aeré -is áɛrɛ -n

    Forme identiche sono riscontrabili anche nelle varietà ogliastrine nelle quali ho accertato con regolarità la presenza di un paradigma di imperfetto congiuntivo sintetico e di infinito flesso. Nel dialetto di Villagrande Strisaili esiste una forma estesa e rideterminata di infinito in -áe(re); -e(re); -íe(re) (cfr. anche gli esempi di Talana in Blasco Ferrer 1988:124) che influenza direttamente non solamente i paradigmi dell’infinito coniugato e dell’imperfetto congiuntivo sintetico, ma anche le forme di imperativo di seconda persona plurale (per approfondimenti sulla questione si veda Pisano 2010:146–147 e 2016:53–54) 7. Si presti ora attenzione agli esempi in (4) e in (7): (7) a. (Villagrande Strisaili) b. (Villagrande Strisaili)

    c. (Villagrande Strisaili)

    préðu Pietro

    ɔ´lɛð volere.3sg

    ‘Pietro vuole che ci vada tu’ ɖɖiz áppɔ a loro.cl=avere.1sg

    a a

    ɖɖu aɳɖáeres túi ci.cl=andare. tu inf2sg

    βreparáu z apozéntu preparare. lo stanza.M p.p.m.sg ormíɛrɛnt a inɔ´ɛ dormire.inf.3pl a qui ‘ho preparato loro la stanza perché dormano qui’ nɔz ántɛ attíu za ɣaðíra ci.cl=avere.3pl portare. la sedia p.p.m.sg βo zi zetʧeréuz a inɔ´ɛ per ci.cl=sedere.inf.1pl a qui ‘ci hanno portato la sedia affinché ci sediamo qui’

    βo per

    7 Per la genesi di queste forme imperativali seguo la spiegazione prospettatami in una discussione privata da Emanuele Saiu (cfr. Pisano 2010:146 e 2016:54) e non quella, a mio avviso meno convincente, data da Blasco Ferrer (1988:121–122 e 201–202).

    138

    Simone Pisano

    Non sono in possesso di informazioni abbastanza dettagliate per avere un’idea compiuta della situazione nelle varietà ogliastrine centro-meridionali; senza dubbio posso dar conto di forme flesse di infinito (ed è anche probabile che si sentano ancora forme estremamente residuali di imperfetto congiuntivo sintetico per lo meno per gli ausiliari8) poiché, durante una conversazione con un informatore anziano di Lanusei (G.C. 1932, m), ho registrato il seguente enunciato: (8) (Lanusei) si vaíanta essíri βɔ tʧi stupparéuz ci.cl=fare.impf.3pl uscire.inf. per lì.cl=saltare fuori.inf.1pl a píssu9 a sopra ‘ci facevano uscire per venir fuori in alto [con un ascensore]’

    L’infinito coniugato, infine, mi è stato confermato anche per la varietà di Tertenia10. Diversità di ordine formale tra i due paradigmi emergono nelle varietà di Nuoro, Orune, e della Barbagia di Ollolai (Oliena, Orgosolo, Mamoiada). Negli schemi in (9)11 do conto della situazione di Nuoro che, con poche varianti formali, può essere osservata anche a Oliena, Orgosolo e Mamoiada. Dagli schemi si evince come, in queste varietà, le forme dell’infinito coniugato mostrino una maggiore regolarità rispetto alle forme dell’imperfetto congiuntivo analitico viste in (1): (9) a. ‘essere’ infinito ɛ´ssɛr(ɛ)

    b. ‘avere’ infinito áɛr(ɛ)

    infinito flesso ɛ´ssɛrɛ -ø ɛssɛ´rɛ -s ɛssɛ´rɛ -t esseré -mus esseré -dzis ɛssɛ´rɛ -n

    imperfetto congiuntivo ɛssɛ´rɛ -ø; sɛ´rɛ -ø; ɛ´rɛ -ø ɛssɛ´rɛ -s; sɛ´rɛ -s; ɛ´rɛ -s ɛssɛ´rɛ -t; sɛ´rɛ -t; ɛ´rɛ -t esseré -mus; seré -mus; eré -mus esseré -dzis; seré -dzis; eré -dzis ɛssɛ´rɛ -n; sɛ´rɛ -n; ´ɛrɛ -n

    infinito flesso áɛrɛ -ø aɛ´rɛ -s aɛ´rɛ -t aeré–mus aeré -dzis aɛ´rɛ -n

    imperfetto congiuntivo aɛ´rɛ -ø; ɛ´rɛ -ø aɛ´rɛ -s; ɛ´rɛ -s aɛ´rɛ -t; ɛ´rɛ -t aeré -mus; aeré -mus aeré -dzis12 aɛ´rɛ -n; ɛ´rɛ -n

    8 Wagner (1939: 20) attestò “resti dell’antico cong. imperf. frammisti a forme del cong. più che perfetto” a Perdas de Fogu. Al momento non sono in grado di dire molto di più. 9 L’informatore parla del suo lavoro nelle miniere del Belgio. 10 Per le informazioni sulla varietà di Tertenia sono grato all’amica Rosangela Lai. 11 Per le coniugazioni regolari, a titolo esemplificativo, fornisco solamente la prima coniugazione. 12 Alcuni informatori ammettono anche aɛrɛ´–dzɛs/ɛrɛ´-dzɛs che si sente anche a Orgosolo.

    Nuovi dati per una delimitazione geografica e funzionale del fenomeno

    c. favɛɖɖárɛ ‘parlare’ infinito infinito flesso favɛɖɖárɛ favɛɖɖárɛ -ø favɛɖɖárɛ -s favɛɖɖárɛ -t favɛɖɖaré -mus favɛɖɖaré -dzis/-dzɛs favɛɖɖárɛ -n

    139

    imperfetto congiuntivo (ɛss)ɛ´rɛ -ø favɛɖɖáu13 (ɛss)ɛ´rɛ -s favɛɖɖáu (ɛss)ɛ´rɛ -t favɛɖɖáu (ess)eré -mus favɛɖɖáu (ess)eré -dzis/(ɛss)ɛrɛ´ -dzes favɛɖɖáu (ɛss)ɛ´rɛ -n favɛɖɖáu

    Negli esempi in (10) si notino le diverse forme di infinito flesso introdotte sempre da complementatori che selezionano l’infinito: (10) a. (Orune) a a

    l iskírepo lo.cl=sapere. inf.1sg

    ti l ɛ´rɛpɔ ti.cl=lo.cl=ausiliare. cong.impf1sg

    náðu14 dire.p.p.m.sg ‘a saperlo te lo direi!’ b. (Nuoro) nɔ ɛs kɔ´za ðɛ akkɔndzáres túe no essere. cosa di aggiustare. tu 3sg inf.2sg bbi kɛ´ret únu prátiku ci.cl=volere.3sg un pratico ‘non è il caso che lo aggiusti tu, ci vuole uno che sia pratico’ c. (Orune) lu ðeppíapɔ lassárɛ ðaɛ mɛ´ða prɔ nɔ lo.cl=dovere. lasciare. da molto per non impf.1sg+-po inf. arribbárɛt a tántu arrivare. a tanto inf.3sg ‘lo dovevo lasciare da molto prima perché non arrivasse a tanto!’ d. (Nuoro) imbɛ´tsɛr ðɛ aɳɖarému nnóis sun invece di andare. noi essere.3pl inf.1pl aɳɖáoz íssɔzɔ andare. loro p.p.m.pl ‘invece di andare noi sono andati loro’ 13 Nell’ausiliare sono possibili anche le forme con s– iniziale. 14 Per la possibilità della presenza del congiuntivo imperfetto analitico nella apodosi nella varietà di Orune si veda Pisano (2010:138). Nella parlata di Orune, inoltre, le forme flesse di infinito mantengono l’accento originario in tutta la flessione: Orune: i. ána náðu a aɳɳáremusu avere.3pl dire.p.p.m.sg a andare.inf.1pl ‘hanno detto che andiamo’ ii. ána náðu a aɳɳárɛdzɛsɛ avere.3pl dire.p.p.m.sg a andare.inf.2pl ‘hanno detto che andiate’

    140

    Simone Pisano

    e. (Orgo- áppo solo) avere.1sg

    βizóndzu ðɛ

    ʔɔlarɛ´ddzez innɔ´ʔɛ | vóizi

    bisogno di

    passare. inf.2pl

    ‘ho bisogno che voi passiate di qui’ f. (Nuoro) so timɛ´ɳɖɛ a andzárɛn essere.1sg temere. a figliare. gerund. inf.3pl prima e ssu témpuzu prima di il tempo ‘temo che le pecore figlino prima del tempo’

    qui

    voi

    sar le

    βerbékes pecore

    Una situazione che possiamo definire di compromesso tra quelle sin qui esposte possiamo rilevare a Fonni. In questa varietà, per quanto riguarda gli ausiliari ‘essere’ e ‘avere’, riscontriamo una piena coincidenza tra le forme flesse di infinito e quelle di imperfetto congiuntivo (cfr. schema in 6 a. e b.), mentre per le coniugazioni regolari si registra la medesima situazione vista in 9 c. Le varietà della Baronia mostrano un elevato grado di polimorfismo e meritano di essere trattate a parte. Il paradigma di infinito flesso è infatti soggetto a notevoli differenze di accento in diatopia. Secondo alcuni informatori di Siniscola (come a Orune), per esempio, esiste la possibilità che lo schema accentuale delle forme infinitive rimanga invariato per tutta la flessione: (11) a. (Siniscola) imbɛ´dzɛr ðɛ aɳɖáremor invece di andare.inf.1pl béntoz íssɔzɔ venire. loro p.p.m.pl ‘invece di andare noi sono venuti loro’ b. (Siniscola) téndzo bizóndzu ðɛ tenere.1sg bisogno di ‘ho bisogno che passiate qui’

    nóizi| som noi essere.3pl

    kɔláredziz passare.inf.2pl

    inɔ´kɛ qui

    In realtà, come mostrano gli esempi in (12), nelle varietà della Baronia, assai più frequentemente, le forme flesse di infinito sono accentate nella sillaba che precede la desinenza personale. Assai spesso, inoltre, i parlanti preferiscono gli allomorfi paragogici anche in contesti fonosintattici in cui non sarebbe strettamente necessario (cfr. 12 c e 12 d):

    Nuovi dati per una delimitazione geografica e funzionale del fenomeno

    pɛssáɔ ðɛ ɛssɛrɛ´pɔ pensare. di essere. impf.1sg inf.1sg ‘non pensavo che sarei tornato subito’ kɛ´ʎʎɔ a bbɛnnɛrɛ´zɛ volere.1sg a venire. inf.2sg ‘voglio che tu venga’ l áppɔ náðu ðɛ bbɛɳɖɛrɛ´ðɛ gli.cl= dire. di vendere. avere.1sg p.p.m.sg inf.3sg ‘gli ho detto di vendere a quelli di fuori’ náraliz a kkɔlarɛ´nɛ ɣráza a passare. domani dire.imp. 2sg=a inf.3pl loro.cl ‘di’ loro di passare domani’

    (12) a. (Galtellì) nɔm non b. (Torpè)

    c. (Torpè)

    d. (Torpè)

    141

    tɔrrátu ðeréttu15 tornare. subito. p.p.m.sg m.sg

    a ssɔl ai

    ðɛ vɔ´raza di fuori

    È probabile che il punto di partenza dello spostamento dell’accento sia dovuto all’influsso della prima e seconda plurale che, anche nelle varietà barbaricine e nella parlata di Nuoro, portano l’accento prima delle desinenze -mus e -dzis (cfr. esempi in 10). La predilezione per l’allomorfo paragogico nel singolare e nella terza plurale previene l’ossitonia, non frequente in sardo. Tale possibilità non è tuttavia esclusa nell’eloquio spontaneo (cfr. anche darerét in 14.c): (13) (Torpè) nɔ að a kkɔlárɛ mɛ´ða ðémpuz a non avere.3sg a passare.inf. molto tempo a ɛssɛrɛ´ bbattíða in iskɔ´la za límba essere. portare. in scuola la lingua inf.3sg p.p.f.sg ‘non passerà molto tempo che sarà portata nelle scuole la lingua [sarda]’

    Infine, segnalo alcune particolarità riscontrabili nella varietà di Galtellì nella quale si riscontra assai frequentemente una reduplicazione del formante -re(frutto di una risegmentazione) (14)16:

    15 La subordinata con il complementatore finito ki suona, in bocca del medesimo informatore (A.P. 1988, m) come segue nɔm pɛssáo ki zɛ´rɛpɔ torrátu ðeréttu non pensare.impf.1sg che essere.cong.impf1sg tornare.p.p.m.sg subito.m ‘non pensavo che (io) tornassi subito’ La forma del congiuntivo imperfetto, dunque, oltre che per il corpo fonico ridotto è riconoscibile anche dalla diversa posizione dell’accento. 16 Sono grato all’amico Càrminu Pintore che, per primo, mi ha segnalato questa peculiarità del galtellinese.

    142

    Simone Pisano

    bbi tɛ´nɛt a istudiarɛrɛ´pɔ ci.cl= a studiare.inf.1sg tenere.3sg ‘mamma ci tiene che io studi’ t áppɔ prɛparátu z istántzja po ti.cl= preparare. la stanza per avere.1sg p.p.m.sg ðrommirɛrɛ´zɛ inɔ´kɛ dormire. qui inf.2sg ‘ti ho preparato la stanza perché tu dorma qui’ pro li darɛrɛ´nɛ ɔnɔ´rɛ| e nom per a lui.cl= onore e non dare.inf.3pl zi lu darerét íssu si.cl= lui lo.cl.dare. inf3sg ‘per fargli onore e non per farselo lui [da solo]’ imbɛ´tsɛr ðɛ aɳɖarerému nnóis invece di andare. noi inf.1pl sɔm bɛ´ntoz íssɔzɔ essere.3pl venire.p.p.m.pl loro ‘invece di andare noi sono venuti loro’ áppo βizóndzu ðɛ kɔlarerédziz avere.1sg bisogno di passare. inf.2.pl ‘ho bisogno che passiate di qui’ náraliz a kkɔlarɛrɛ´nɛ kráza dire.imp.2sg= a passare. domani a loro.cl inf.3pl ‘di’ loro di venire domani’

    (14) a. (Galtellì) máma mamma b. (Galtellì)

    c. (Galtellì)

    d. (Galtellì)

    e. (Galtellì)

    f. (Galtellì)

    po per

    inɔ´kɛ qui

    Tale reduplicazione, per i verbi in -/ɛr/ in cui la -ɛ finale è opzionale (cfr. Molinu 1999:132), non è di norma ammessa nel parlato spontaneo: è probabile che in questo caso il fenomeno fosse originariamente bloccato dalla struttura soggiacente di questi verbi nei quali, dal punto di vista fonologico, la sequenza finale non è -/rɛ/ ma esclusivamente -/r/:

    Nuovi dati per una delimitazione geografica e funzionale del fenomeno

    143

    (15) a. (Galtellì) d ɛssɛrɛ´t aɳɖátu íssu nom mi l ípɔ di essere. andare. lui non me.cl=lo.cl= inf.3sg p.p.m.sg essere.impf.1sg mai izettátu mai aspettare.p.p.m.sg. ‘che fosse andato lui non me lo sarei aspettato’ b. (Galtellì) kk áppo júttu úna kaðíra po zi zɛðɛrén lì.cl=avere1sg portare. una sedia per si.cl= p.p.m.sg sedere.inf.3pl íssɔzɔ loro ‘ho portato una sedia affinché si sedessero loro’

    In parziale controtendenza rispetto a quanto succede nelle altre parlate indagate, a Galtellì ho riscontrato un’alta frequenza e accettabilità delle forme flesse di infinito anche nei parlanti più giovani (di età inferiore ai 35 anni). La rianalisi che ha prodotto il processo di reduplicazione, è stata probabilmente innescata dalla frequenza di queste forme (Bybee 2006, Bybee & Thompson 1997) che, infatti, come si vedrà anche in (16) hanno anche avuto un’estensione dei loro ambiti funzionali a contesti sintattici solitamente non ammessi nelle altre varietà censite.

    4.

    Qualche osservazione su alcuni contesti sintattici parzialmente inediti

    Michael Allan Jones (1993:280) nota che l’infinito flesso è di norma evitato “when control is obligatory by virtue of semantic properties of the main predicates”. Questa caratteristica sintattica si nota di solito nella gran parte delle varietà che sono state oggetto di questo lavoro. È necessario tuttavia notare che, nella parlata di Galtellì, le forme flesse di infinito sono state rilevate, nel parlato spontaneo, anche in perifrasi conative (cfr. 16a) o fasali17 (cfr. 16b) che prevedono identità di soggetto tra la reggente e la completiva: (16) a. (Galtellì) provámuz a travallarerémur provare.imp.1pl a lavorare.inf.1pl ‘proviamo a lavorare meglio’ b. (Galtellì) íssu iŋkumintsáit a lui incominciare.impf.3sg a ‘lui cominciò a farlo’

    méndzuzu meglio l akɛrɛ´tɛ lo.cl=fare.inf.3sg

    17 Per la nozione dei costrutti fasali rimando a Bertinetto (1991:152) e Jansen & Strudsholm (1999:373–388).

    144

    Simone Pisano

    L’uso dell’infinito flesso, invece, in tutte le varietà censite, è assolutamente escluso, da tutti gli informatori, dopo i verbi modali e nelle perifrasi futurali18: *a pɔ´ttɔ bɛnnɛrɛ´pɔ a potere.1sg venire.inf.1sg b. (Galtellì) a pɔ´ttɔ bɛ´nnɛrɛ a potere.1sg venire.inf ‘posso venire?’ c. (Nuoro) *no íski kkantárɛtɛ non sapere.3sg cantare.inf.3sg d. (Nuoro) no íski kkantárɛ non sapere.3sg cantare.inf ‘non sa cantare’ e. (Villagrande Strisaili) *oléur benneréuzu volere.1pl venire.inf.1pl f. (Villagrande Strisaili) oléur bɛ´nnɛ(rɛ) volere.1pl venire.inf. ‘vogliamo venire’ g. (Nuoro) *an a ɛssɛ´rɛn sas avere.3pl a essere.inf.3pl le h. (Nuoro) an a ɛ´ssɛs sas avere.3pl a essere.inf le ‘saranno le cinque’

    (17) a. (Galtellì)

    kímbɛ cinque kímbɛ cinque

    Nelle proposizioni indipendenti introdotte dal complementatore a seguite dall’infinito con valore iussivo che sono rivolte “not to some specific person or persons but rather to whoever may be concerned” (cfr. Jones 1993:29) le forme flesse di infinito consentono invece una piena individuazione del soggetto, come ben si vede nei seguenti esempi: (18) a. (Nuoro) a llu vakerémuzu a lo.cl=fare.inf.1pl ‘facciamolo!’ b. (Nuoro) a mmikk intrarédziz iŋ kúlu mi.cl=qui.cl=entrare.inf.2pl in culo volgarmente: ‘che possiate andare in malora’ c. (Nuoro) a mmi lassáren im pákɛ a mi.cl=lasciare.inf.3pl in pace ‘che mi lascino in pace!’ 18 Ricordo qui, succintamente, che nella varietà di Seneghe, nella perifrasi che esprime il futuro ho invece notato una contaminazione sintattica ristretta alla sola terza persona plurale del verbo ‘essere’ (cfr. Pisano 2018:14–15): ant a ɛ´ssɛntɛ zas kímbi avere.3pl a essere.inf.3pl le cinque ‘saranno le cinque’ Il fenomeno non è dunque raffrontabile con quello dell’infinito flesso ma può essere considerato come uno slittamento in superficie della desinenza di terza persona plurale dell’ausiliare ‘avere’ a quella del verbo ‘essere’ possibile per l’alto grado di grammaticalizzazione del costrutto.

    Nuovi dati per una delimitazione geografica e funzionale del fenomeno

    145

    Frequentemente si trovano altre espressioni che precedono il complementatore a nonché la terza singolare impersonale del verbo ‘essere’ all’indicativo o al congiuntivo presente:19 (19) a. (Orgosolo) ajó a aɳɖarémuzu suvvia.prep a andare.inf.1pl ‘forza! Andiamo!’ b. (Orgosolo) a aɳɖarémuz ɛ´stɛ / síaða a andare. inf.1pl essere.3sg essere.cong.3sg ‘bisogna che andiamo !’

    Tali locuzioni sono peraltro presenti anche nelle varietà in cui non si riscontra l’infinito flesso. In questo caso troviamo quindi l’infinito non coniugato, queste locuzioni, infine, sono presenti, talvolta, anche nell’italiano regionale.

    5.

    Conclusioni

    Il lavoro di documentazione delle varietà sarde è ancora incompleto per quanto riguarda l’esatta delimitazione di fenomeni e la conoscenza delle forme. I dati qui esposti, tuttavia, possono essere utili a mostrare come, in sardo, il processo di differenziazione dei paradigmi verbali, sostenuto spesso da fenomeni analogici e di rianalisi, sia ancora ampiamente produttivo. La possibilità di un’agevole segmentazione dei morfemi, infatti, innesca spesso un loro riutilizzo arbitrario che sembra essere un motore inarrestabile del mutamento anche in situazioni ritenute assai conservative. Se imperfetto congiuntivo e infinito flesso traggono origine dagli stessi prototipi (e la cosa mi pare francamente probabile) la situazione presente mostra un processo di diversificazione inarrestabile, perlomeno nella maggior parte delle varietà oggetto di questa analisi. Un grazie speciale a chi ha letto la versione preliminare di questo scritto, dandomi indicazioni e suggerimenti per me preziosissimi: Silvio Cruschina, Vittorio Ganfi, Franco Fanciullo e i revisori anonimi di questo articolo. Se, nonostante i buoni consigli, si riscontreranno ancora errori o omissioni di questi, ovviamente, sono io il solo responsabile. Se non specificato diversamente, il materiale sardo discusso nel presente lavoro è tratto dalle registrazioni delle inchieste sul campo operate tra il 2009 e il 2018 a Torpè, Siniscola, Galtellì, Nuoro, Oliena, Orgosolo, Mamoiada, Fonni, Desulo, Tonara, Villagrande Strisaili.

    19 Le forme verbali sono inserite in espressioni idiomatiche e non conservano una piena referenzialità.

    146

    Simone Pisano

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    Nuovi dati per una delimitazione geografica e funzionale del fenomeno

    147

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    Sintassi

    Kim A. Groothuis

    Gli infiniti flessi sardi nelle strutture a controllo1

    Abstract: Alcune varietà logudoresi-nuoresi del sardo, così come altre lingue romanze quali il portoghese, il galiziano e il napoletano antico, si caratterizzano per la presenza di una forma flessa dell’infinito, che si accorda in persona e in numero con il soggetto. Il presente lavoro presenta e analizza la relazione tra gli infiniti flessi e il controllo, ossia il fenomeno dell’interpretazione del soggetto implicito di un infinito come coreferenziale a un argomento della frase principale oppure del più ampio contesto del discorso. Generalmente si assume che l’infinito flesso non possa essere utilizzato nei contesti di controllo (cfr. Jones 1993; Pires 2006), ma per quanto riguarda gli infiniti flessi portoghesi ne è stato dimostrato l’utilizzo in specifiche costruzioni a controllo (cfr. Raposo 1987; Madeira 1994; Sitaridou 2002; Modesto 2010; Sheehan 2014; 2018; Sheehan & Parafita Couto 2011). L’evidenza empirica esaminata in questo lavoro dimostra che gli infiniti flessi sardi possono essere usati in strutture di controllo. Tuttavia, la loro distribuzione in tali strutture è ristretta. Gli infiniti flessi sono ritenuti sistematicamente agrammaticali dai parlanti nei complementi di una serie di verbi a controllo del soggetto, vale a dire, quei verbi di controllo a soggetto che causano la ristrutturazione. Con gli altri casi di controllo a soggetto, c’è molta variazione tra i parlanti, anche tra parlanti della stessa varietà di sardo, in quanto preferiscono la forma flessa o la forma semplice dell’infinito. Inoltre, nei casi di controllo parziale, quando i due soggetti si differenziano nel numero ma non nella persona, si può avere un infinito flesso, anche nei casi di controllo del soggetto. Nei casi di 1 Vorrei ringraziare tutti i miei informatori, contattati grazie all’aiuto di Maurizio Virdis, di Guido Mensching, di Eva-Maria Remberger, di Carminu Pintore e di Salvatore Baingiu. Inoltre, sono molto grata ad Adam Ledgeway, Michelle Sheehan e Giuseppina Silvestri per i loro commenti alle versioni precedenti di questo lavoro. Vorrei ringraziare anche tutti coloro che mi hanno dato consigli durante le presentazioni di questa ricerca tenutesi presso le università di Nantes, Cambridge, Bras,ov e Vienna. Infine, mi preme ringraziare l’Arts and Humanities Research Council che ha gentilmente contribuito economicamente alla mia ricerca sul campo, rendendo possibile questo studio.

    152

    Kim A. Groothuis

    controllo non obbligatorio o controllo dell’oggetto, l’infinito flesso è comunemente accettato. La situazione del sardo è pertanto simile a quella descritta per il portoghese. In questo articolo vengono valutate due possibili analisi della distribuzione dell’infinito flesso nelle strutture a controllo in sardo.

    1.

    Introduzione

    Alcune varietà logudoresi-nuoresi del sardo, così come altre lingue romanze quali il portoghese, il galiziano e il napoletano antico, si caratterizzano per la presenza di una forma flessa dell’infinito, che si accorda in persona e in numero con il soggetto (cfr. Maurer 1968; Gondar 1978; Loporcaro 1986; Raposo 1987; Jones 1992; Vincent 1996; Ledgeway 1998; 2009; Mensching 2017; Groothuis 2018). Si veda l’esempio in (1), nel quale l’infinito cantare ‘cantare’ si accorda con il soggetto alla 2a persona singolare (tue ‘tu’), che risulta nella desinenza -s; in (2), l’infinito è nella prima persona plurale: (1) Non cheljo a cantares tue. non volere.1sg a cantare.inf.2sg tu ‘Non voglio che tu canti.’ (2) Juanne nos at natu a colaremus. Juanne ci=avere.3sg detto a passare.inf.1pl ‘Juanne ci ha detto di passare.’

    (Jones 1992:297)

    (Jones 1993:278)

    L’infinito flesso è attestato nel nuorese, nel bittese, nei dialetti settentrionali dell’Ogliastra e in alcune varietà parlate nella Barbagia di Belvì2 (Pittau 1972; Blasco Ferrer 1988; 2002; Jones 1993; Pisano 2008:28), anche se l’uso è in forte recessione e talvolta considerato ‘innaturale’ dai parlanti (Pisano 2008:29). Il presente lavoro si propone di presentare e analizzare la relazione tra gli infiniti flessi e il controllo, ossia il fenomeno dell’interpretazione del soggetto implicito di un infinito come coreferenziale a un argomento della frase principale oppure del più ampio contesto del discorso. Un esempio è dato in (2), dove il soggetto dell’infinito è coreferenziale all’oggetto indiretto della frase principale (nos ‘a noi’). Generalmente si assume che l’infinito flesso non possa essere utilizzato nei contesti di controllo (cfr. Jones 1993; Pires 2006), ma per quanto riguarda gli infiniti flessi portoghesi ne è stato dimostrato l’utilizzo in specifiche costruzioni a controllo (cfr. Raposo 1987; Madeira 1994; Sitaridou 2002; Modesto 2010; Sheehan 2014; 2018; Sheehan & Parafita Couto 2011). L’uso di forme flesse 2 Si veda la mappa in Pintus (2017:557).

    153

    Gli infiniti flessi sardi nelle strutture a controllo

    in contesti di controllo è problematico per l’analisi del controllo come movimento sintattico (movement theory of control) proposta da Hornstein (1999), poiché gli infiniti flessi si danno anche in casi di controllo parziale (Landau 2000; 2004; Sitaridou 2002; Modesto 2010; Sheehan 2014; 2018). L’uso dell’infinito flesso nei contesti di controllo non è ancora stato studiato in modo sistematico nel sardo; il presente lavoro ha lo scopo di colmare questa lacuna.

    2.

    Alcune caratteristiche morfosintattiche dell’infinito flesso sardo

    Il paradigma dell’infinito flesso è esemplificato per il verbo cantare ‘cantare’ in (3): (3) (deo) cantare-po (tue) cantare-s (issu) cantare-t (nois) cantare-mus (bois) cantare-dzis (issos) cantare-n

    (io.nom) cantare.inf.1sg (tu.nom) cantare.inf.2sg (egli.nom) cantare.inf.3sg (noi.nom) cantare.inf.1pl (voi.nom) cantare.inf.2pl (loro.nom) cantare.inf.3pl

    Le desinenze sono uguali per le altre coniugazioni (in -ere e -ire, cfr. Jones 1993:80–82), e per i verbi irregolari come per esempio essere ‘to be’ o áere ‘to have’. La desinenza -po non è usata in tutte le varietà e sembra essere limitata alle varietà baroniesi. L’infinito flesso, oltre ad accordarsi in persona e in numero con un soggetto sottinteso, può anche assegnare il caso nominativo a un soggetto referenziale. Quindi, l’infinito flesso è, per tali aspetti, simile al cosiddetto ‘infinito personale’ che si attesta in diverse lingue romanze (si vedano p.es. Ledgeway 1998; Mensching 2000; Sitaridou 2002). Il soggetto dell’infinito flesso può essere un sintagma nominale lessicale (4a), nullo (4b), o pronominale (5), e si trova sempre in posizione postverbale, seguendo anche altri costituenti come il participio passato o l’oggetto diretto (Ledgeway 1998; Jones 1992; Virdis 2015, Groothuis 2019): (4) a. Non credo de ésseret ghiratu Juanne. non credere.1sg di essere.inf.3sg tornato Juanne ‘Non credo che Juanne sia tornato.’ b. Non cheljo a cantaren. non volere.1sg a cantare.inf.3pl ‘Non voglio che loro cantino.’

    (Jones 1993:280)

    (Miller 2003:61)

    154 (5) Non cheljo a (*tue) cantares tue. non volere.1sg a tu.nom cantare.inf.2sg tu.nom ‘Non voglio che tu canti.’

    Kim A. Groothuis

    (Jones 1992: 297, 299)

    L’infinito flesso è introdotto da un complementatore, a ‘a’ o de ‘di’, rispetto al quale dev’essere sempre adiacente; tra infinito e complementatore possono essere inseriti solo la negazione no(n) e i pronomi clitici. Se l’infinito appare in un sintagma avverbiale, anche preposizioni come pro ‘per’ o chene ‘senza’ possono fungere da congiunzione. L’uso dell’infinito flesso è opzionale: la presenza dell’accordo morfologico non è richiesta dalla presenza di un soggetto esplicito, come nel caso del portoghese. Infatti, il sardo presenta gli infiniti personali, ossia infiniti (non flessi) che ammettono un soggetto referenziale al nominativo (Jones 1992; 1993; Mensching 2000; Virdis 2015), si vedano gli esempi (6) e (7): (6) Non cheljo a vennere(s) tue. non volere.1sg a venire.inf.2sg tu.nom ‘Non voglio che tu venga.’

    (Jones 1993:279, 281) (7) Su postinu est colatu prima de arrivare(po) jeo. Il postino essere.3sg passato prima di arrivare.inf(.1sg) io.nom ‘Il postino è passato prima che arrivassi io.’ (Jones 1992:295, 297)

    Jones (1992:302–305; 1993:281–282) suggerisce per tale motivo che la presenza della marca di accordo sia un fenomeno legato al PF3 piuttosto che puramente sintattico, perché l’infinito flesso e l’infinito personale dimostrano le stesse proprietà sintattiche. Un complemento verbale in sardo può essere, pertanto, di diversi tipi: può contenere un verbo finito all’indicativo o al congiuntivo, oppure un infinito, flesso o meno. L’infinito semplice si preferisce nel caso in cui il soggetto incassato è coreferenziale con un argomento della frase principale (Jones 1993:252). Ciononostante, come si vedrà nella sezione 3, l’infinito flesso può essere usato anche nelle strutture a controllo.

    3 PF (phonological form) è il livello di rappresentazione mentale che assegna alle strutture la realizzazione fonetica che sarà pronunciata dal parlante.

    Gli infiniti flessi sardi nelle strutture a controllo

    3.

    Il controllo e gli infiniti flessi

    3.1

    Ipotesi e metodologia

    155

    Come già accennato sopra (§1), gli infiniti flessi portoghesi possono essere usati solo in un sottoinsieme di strutture a controllo. Nello specifico, è stato dimostrato che c’è una scissione tra il controllo obbligatorio locale del soggetto e altri tipi di controllo (Sheehan 2013, 2018). Gli infiniti flessi sono agrammaticali nel primo tipo di controllo, ma ammessi negli altri, anche se presentano diversi gradi di accettabilità. La stessa suddivisione in tipi di controllo è stata trovata per gli infiniti flessi in galiziano (Sheehan & Parafita Couto 2011) e altre lingue, incluso il russo, che non presentano infiniti flessi pur mostrando una suddivisione simile tra tipi di infiniti (Sheehan 2013). Questi risultati confermano l’ipotesi di Landau (2000, 2004) secondo la quale ci sono due tipi di controllo obbligatorio. Il sardo non è stato oggetto di studi esaustivi sul controllo; Jones (1993:280) menziona soltanto che, in generale, l’infinito flesso non appare nei contesti di controllo. Miller (2003:62), invece, sostiene che la possibilità di avere un infinito flesso distingua il controllo dell’oggetto da quello del soggetto: i verbi dichiarativi possono essere usati in strutture a controllo del soggetto; tuttavia nel caso in cui ci sia l’accordo sull’infinito sono interpretati come a controllo dell’oggetto. Il presente studio si prefigge lo scopo di colmare questa lacuna, investigando su una serie di verbi a controllo (sia del soggetto che dell’oggetto, sia controllo obbligatorio che non obbligatorio) al fine di verificare se ammettono o meno un complemento infinitivale flesso. L’ipotesi da testare è che ci sia la stessa scissione in tipi di controllo che è stata descritta per il portoghese europeo, il galiziano e il russo. I dati qui riportati sono stati raccolti durante le inchieste sul campo che ho condotto nell’aprile 2018, durante le quali 12 parlanti di diversi paesi nella provincia di Nuoro sono stati intervistati seguendo un questionario che richiedeva traduzioni dall’italiano e giudizi di grammaticalità per diverse frasi in sardo, con un voto da 1 (possibile) a 3 (impossibile). I parlanti provenivano da Bitti, Dorgali, Orgosolo, Orosei, Siniscola e Torpè. I dati raccolti saranno messi a confronto con quelli presenti in vari studi sulla sintassi sarda (principalmente Jones 1993), e con dei dati dello studio online riportati in Groothuis (2017).

    156 3.2

    Kim A. Groothuis

    Risultati: infiniti flessi nelle strutture a controllo

    3.2.1 Strutture a controllo del soggetto Secondo gli studi, l’infinito flesso non può essere usato con i verbi modali o aspettuali, che sono verbi a controllo del soggetto, vale a dire, un controllo locale e esaustivo (cfr. Landau 2000, 2004). Dopo questi verbi, solo l’infinito semplice è ammesso: (8) a. Provo a travallare(*?po). provare.1sg a lavorare.inf(.1sg) ‘Provo a lavorare.’ b. Sos pitzinnos an accabbatu de jocare(*?n). i ragazzi avere.3pl finito di giocare.inf(.3pl) ‘I ragazzi hanno finito di giocare.’

    (Jones 1999:199–200)

    Questi risultati sono stati confermati dai nostri informatori, che sistematicamente rifiutano l’uso dell’infinito flesso con verbi modali (9–10), ausiliari temporali (11), verbi aspettuali (12) e conativi (13), indipendentemente dalla presenza o assenza della salita del clitico (12–13): (9) Juanne no ischit faeddare(*t) sa limba sarda. Juanne non sapere.3sg parlare.inf(.3sg) la lingua sarda ‘Juanne non sa parlare sardo.’ (10) Cheres mandicare(*s) sa pasta chin casu? volere.2sg mangiare.inf(.2sg) la pasta con formaggio ‘Vuoi mangiare la pasta con formaggio?’ (11) Su dottore det/at a travallare(*t). il medico dovere.3sg/avere.3sg a lavorare.inf(.3sg) ‘Il medico deve lavorare/lavorerà.’ (12) (Lu) comintzo a (lu) fachere(*po) lo=cominciare.1sg a lo = fare.inf(.1sg) ‘Lo comincio a fare.’ (13) (Lu) provo a (lu) fachere(*po). lo=provare.1sg a lo = fare.inf(.1sg) ‘Lo provo a fare.’

    Verbi aspettuali e conativi sono restructuring verbs opzionali, che presentano quindi opzionalmente la salita del pronome clitico. La posizione del clitico, che sale in una struttura a ristrutturazione (Jones 1993:149) non influenza la grammaticalità dell’infinito flesso: sia in un complemento ristrutturato che in un complemento non ristrutturato (con il clitico sull’infinito), l’infinito flesso non è ammesso, come si vede in (12) e (13). La grammaticalità dell’infinito flesso non dipende, quindi, dall’assenza della ristrutturazione. Gli informatori consultati variano invece nei giudizi sulle seguenti frasi, in cui si ha sempre controllo del soggetto:

    Gli infiniti flessi sardi nelle strutture a controllo

    157

    (14) %Sunt contentos de me videren. sono.3pl contenti di mi=vedere.inf.3pl ‘Sono contenti di vedermi.’ (adattato da Manzini & Savoia 2005:II, 677)4 (15) %Credo de me esserepo irballatu. credere.1sg di mi=essere.inf.1sg sbagliato ‘Credo di essermi sbagliato.’

    Nei casi in cui il controllore sia un soggetto non locale, ossia un soggetto che non c-comanda il soggetto infinitivale, si preferisce l’infinito semplice. I giudizi di grammaticalità sono però meno severi rispetto ai casi di controllo locale e gli informatori variano nel giudizio sulla seguente frase: (16) %Sos pizzinnos an cumbintu su professore de esseren i ragazzi avere.3pl convinto il professore di essere.inf.3pl abbistos. svegli ‘I ragazzi hanno convinto il professore di essere svegli.’

    3.2.2 Controllo dell’oggetto Le strutture a controllo dell’oggetto in genere ammettono l’uso dell’infinito flesso (Jones 1993; Manzini & Savoia 2005:II, 676ff.), come si può concludere dall’esempio di Jones (1993:278), qui riportato in (17), che è stato giudicato come ‘grammaticale’ dagli informatori, e da (18): (17) Juanne nos at natu a colaremus. Juanne ci=avere.3sg detto a passare.inf.1pl ‘Juanne ci ha detto di passare.’ (18) Su professore nch’at cumbintu sos istudiantes a impararent sa il professore loc= avere.3sg convinto gli studenti a imparare.inf.3pl la limba sarda. lingua sarda ‘Il professore ha convinto gli studenti a imparare il sardo.’

    Concludiamo, pertanto, che l’infinito flesso sia ammesso in casi di controllo dell’oggetto. 3.2.3 Contesti di controllo non obbligatorio Per quanto riguarda il controllo non obbligatorio (NOC, non obligatory control), come i soggetti di verbi impersonali (19) e aggiunti frasali, come in (20), vediamo che gli infiniti flessi sono grammaticali (anche se non obbligatori):

    4 L’esempio originale è riportato nell’Alfabeto fonetico internazionale (IPA).

    158

    Kim A. Groothuis

    (19) Est diffitzile (pro sos italianos) a faeddaren sa limba sarda. essere.3sg difficile (per gli italiani) a parlare.inf.3pl la lingua sarda ‘Per gli italiani è difficile parlare la lingua sarda.’ (20) Màriu at cunzau sa ventana pro no intenderet fritu. Màriu avere.3sg chiuso la finestra per non sentire.inf.3sg freddo ‘Mario ha chiuso la finestra per non sentire freddo/perché non senta freddo.’

    In aggiunti, quindi, gli infiniti flessi possono essere usati anche in casi di controllo da parte del soggetto. 3.2.4 Controllo parziale Con controllo parziale (PC = partial control) si definisce quella configurazione in cui il riferimento del PRO (cioè del soggetto logico della frase infinitivale) include il controllore pur non riferendosi esclusivamente a quello (Landau 2004:833). In genere, si presenta questa situazione quando il controllore è al singolare, mentre il soggetto infinitivale è (semanticamente) al plurale. In sardo è possibile trovare degli esempi di controllo parziale come ad esempio in (21): (21) Non cherzo a andaremus impare. non volere.1sg a andare.inf.1pl insieme ‘Non voglio che andiamo insieme.’

    (Blasco Ferrer 2002:469)

    I parlanti intervistati accettano quasi tutti le seguenti frasi con controllo parziale: (22) Su professore at cumbintu su mere a se zuviaren il professore avere.3sg convinto il capo a refl=incontrare.inf.3pl prus tardu. più tardi ‘Il professore ha convinto il capo a incontrarsi più tardi.’ (23) Juanne essit chin Maria dae duas chittas et cherret a Juanne uscire.3sg con Maria da due settimane e vuole a si basaren como.5 refl=baciare.inf.3pl ora ‘Juanne esce con Maria da due settimane e vuole che si bacino ora.’

    3.3

    Conclusioni parziali

    In seguito ai dati riportati fin qui, si può concludere che gli infiniti flessi possono apparire in contesti di controllo; essi sono grammaticali in contesti di controllo non obbligatorio, come con sintagmi avverbiali e infiniti impersonali. Inoltre, gli infiniti flessi possono essere usati in caso di controllo obbligatorio, soprattutto 5 Questo esempio si basa su una frase in portoghese riportata da Sheehan (2018).

    159

    Gli infiniti flessi sardi nelle strutture a controllo

    quando il controllore è l’oggetto indiretto della frase principale. Nel caso di controllo del soggetto, la situazione è meno chiara. Verbi modali, conativi e aspettuali non ammettono mai la presenza di flessione dell’infinito. Su altri verbi a controllo del soggetto i parlanti hanno dei giudizi meno netti, anche se tendenzialmente si preferisce l’infinito semplice. L’unico caso in cui l’infinito flesso è totalmente accettabile è quando si ha controllo parziale. I dati rilevanti sono riassunti nella tabella 1: Tabella 1 Grammaticalità dell’infinito flesso per tipo di controllo Tipo di struttura a controllo Controllo del soggetto locale Controllo del soggetto non-locale

    Infinito flesso? Impossibile Possibile per alcuni

    Controllo parziale del soggetto Controllo dell’oggetto Controllo dell’oggetto parziale Controllo non-obbligatorio

    Possibile Possibile Possibile Possibile

    La situazione del sardo è quindi molto simile a quella del portoghese europeo e del galiziano (Sheehan 2013, 2018; Sheehan & Parafita Couto 2011), anche se in sardo sembra esserci una preferenza netta per un infinito semplice in caso di controllo del soggetto.

    4.

    Proposte di analisi

    4.1

    Controllo del soggetto e altri tipi di controllo

    Come concluso nella sezione precedente, il sardo mostra una scissione tra il controllo da parte del soggetto da un lato, nel qual caso di preferisce l’infinito semplice, e gli altri tipi di controllo dall’altro lato, come il controllo da parte dell’oggetto, caso in cui si può avere la flessione sull’infinito. I verbi a ristrutturazione prevedono sempre coreferenza tra i due soggetti (Rizzi 1982; Cinque 2004). Nello specifico, i modali potere ‘potere’, ischire ‘sapere’ e cherrere6 ‘volere’, e gli ausiliari del futuro áere ‘avere’ e dovere ‘dovere’ selezionano un complemento ridotto, come è stato dimostrato da Jones (1988). La classificazione di questi verbi come verbi a ristrutturazione è basata sul fatto che 6 Supponiamo che ci siano due usi del verbo cherrere ‘volere’, come in italiano: uno come verbo a ristrutturazione (p. es. ‘ci voglio andare’), con un unico soggetto, e uno senza controllo, che seleziona il congiuntivo (p. es. ‘voglio che ci vada’). Questi usi si distinguono in sardo dalla presenza o assenza del complementatore a ‘a’, come discusso nella sezione 4.4.

    160

    Kim A. Groothuis

    essi permettono la salita del clitico, la passiva lunga, non permettono la negazione indipendente dell’infinito, e non selezionano il complementatore infinitivale a.7 I verbi modali sono, pertanto, verbi a ristrutturazione, poiché formano una struttura monoclausale con il verbo principale (l’infinito), che si trova nel VP (o un costituente che esclude le proiezioni funzionali relative al tempo, modo e aspetto, come p.es. v-VP), mentre il verbo modale è saldato direttamente come testa funzionale (cfr. Cinque (2004), che analizza i verbi a ristrutturazione come verbi a sollevamento). La frase contiene quindi soltanto una sonda-ϕ (ϕ-probe), il che permette l’accordo sul verbo flesso ma non sull’infinito incassato. L’assoluta impossibilità dell’infinito flesso in questi complementi può quindi essere spiegata dalla loro struttura ridotta. Questa spiegazione però non può essere estesa ad altri casi di controllo del soggetto, come, per esempio, i verbi aspettuali e conativi, il cui stato di ausiliari è meno chiaro (Jones 1988). Inoltre, altri verbi a controllo del soggetto come ‘convincere’ (16) selezionano complementi frasali (SC), come dimostra anche la presenza del complementatore infinitivale. Questi casi presentano quindi una struttura funzionale più robusta. Tuttavia, si preferisce l’infinito semplice. Nelle strutture a controllo dell’oggetto invece, gli infiniti flessi sono sempre possibili, il che ci fa supporre che ci sia una differenza più generale tra controllo del soggetto e quello dell’oggetto. Nelle prossime due sezioni (§4.2–4.3), si valuteranno due ipotesi che potrebbero spiegare questa differenza.

    4.2

    Località

    La differenza tra controllo del soggetto e quello dell’oggetto potrebbe essere legata alla loro posizione nella derivazione di una frase: un soggetto si trova nel TP/dominio flessionale, mentre un oggetto rimane in una posizione più bassa, nel sintagma verbale. I due argomenti si trovano quindi a distanze differenti da un soggetto incassato. Chomsky (1973) propone il concetto di subjacency, che si può definire informalmente come una condizione di località (locality) che proibisce che un movimento sintattico superi più di due nodi limiti (bounding nodes). Quest’ultimi possono essere parametrizzati, come proposto da Rizzi (1982). Si potrebbe tradurre quest’idea in termini di fasi derivazionali (Chomsky 1995; 2001): si può ipotizzare che il rapporto di controllo che ha come risultato la possibilità di accordo sull’infinito si possa stabilire attraverso due fasi al massimo. 7 L’ausiliare del futuro aere a è un’eccezione, ma in questo caso a può essere non espresso, il che non è mai possibile, invece, con il complementatore normale (Jones 1988:187). Inoltre, un verbo come provare a ‘provare a’ sembra un ‘semiausiliare’ che dimostra opzionalmente caratteristiche di ristrutturazione (Jones 1993:149–153).

    Gli infiniti flessi sardi nelle strutture a controllo

    161

    L’oggetto della frase principale si trova in un’altra fase rispetto al soggetto incassato; il soggetto della frase principale, invece, si trova in una terza fase, ancora più alta. Secondo la versione debole della Phase impenetrability hypothesis (PIC II, Chomsky 2001:14), il complemento di una testa di fase rimane visibile alle operazioni sintattiche finché non sia saldata la prossima testa di fase. L’oggetto, trovandosi nella fase subito sopra la frase incassata, può quindi ‘vedere’ il soggetto infinitivale. Il soggetto della principale invece si sposta in una fase più alta ed è quindi troppo distante perché venga coinvolto nell’operazione Agree che è responsabile dell’accordo morfologico sull’infinito. Quest’idea potrebbe essere adottata sia in un approccio che analizza il controllo come movimento sintattico (Hornstein 1999) che in un approccio in cui il controllo corrisponde a una forma dell’operazione Agree (Landau 2000; 2004). Il punto fondamentale della proposta è che nelle strutture rilevanti del sardo l’accordo morfologico tra soggetto controllato e controllore non si possa stabilire attraverso più di due fasi nella frase sarda. Tutte e due le analisi presentano aspetti problematici per gli infiniti flessi in sardo. Come già dimostrato da Modesto (2010) e Sheehan (2013, 2014, 2018), gli infiniti flessi possono apparire in strutture a controllo parziale; se il controllo fosse un caso di movimento sintattico, non ci aspetteremmo una possibile differenza in tratti tra il soggetto incassato e il controllore, come invece è il caso quando si ha controllo parziale. Una possibile soluzione è l’interpretazione di casi di controllo parziale come strutture contenenti un argomento comitativo nullo, come è stato proposto per le altre lingue romanze (si veda Sheehan 2014 per ulteriori dettagli). Anche l’approccio al controllo come un aspetto di Agree è problematico e non spiega tutte le occorrenze dell’infinito flesso controllato. Come si è visto sopra, il controllo del soggetto è dato in sardo. Se questo controllo fosse un caso di Agree, bisognerebbe ipotizzare una differenza tecnica tra l’operazione di Agree che stabilisce il controllo e quello che causa la presenza dell’accordo morfologico tra controllore e l’infinito flesso. Il controllore può essere il soggetto della principale, quindi questa dipendenza può stabilirsi anche tra due argomenti distanti; l’accordo morfologico invece, è limitato in termini di località.

    4.3

    L’effetto dell’obviation

    L’esclusione, da parte dei parlanti, della forma flessa dell’infinito nei casi in cui il soggetto incassato è coreferenziale a quello matrice, ossia in casi di controllo del soggetto, richiama il cosiddetto obviation effect, ossia la necessità di una referenza disgiunta del soggetto (Kempchinsky 2009). Tale referenza si presenta con

    162

    Kim A. Groothuis

    l’impiego del congiuntivo nella maggioranza delle lingue romanze.8 Un soggetto del congiuntivo è generalmente interpretato come non coreferenziale al soggetto della frase principale. Quest’effetto può presentarsi anche con l’infinito flesso in sardo. Si confrontino gli esempi in (24) e (25), tratti da Groothuis (2017:89): (24) Giannii cheret a andaret pro*i/j a domu. Gianni volere.3sg a andare.inf.3sg a casa ‘Gianni vuole che vada a casa.’ (25) Giannii cheret andare(*t)i a domu. Gianni volere.3sg andare.inf(.3sg) a casa ‘Gianni vuole andare a casa.’

    L’infinito semplice è usato quando i due soggetti coincidono (cf. Jones 1993:280, 1999:118–121), mentre l’uso dell’infinito flesso in questo caso implica una referenza disgiunta dei due soggetti; il soggetto incassato non può essere coreferenziale a quello della frase principale. Occorre precisare che in questo caso le strutture si differenziano anche per la dimensione del complemento. Nel caso in cui i due soggetti siano coreferenziali si ha la ristrutturazione. I parlanti invece variano nell’interpretazione del seguente esempio: (26) %Sunt contentos de me videren. sono contenti di mi=vedere.inf.3pl ‘Sono contenti di vedermi.’ /‘Sono contenti che mi vedano.’ (Manzini & Savoia 2005:II, 677)

    Per alcuni parlanti, questa frase può contenere solo un infinito flesso nel caso di due soggetti disgiunti; per altri, questa non è una condizione necessaria per l’uso della forma flessa. Questo effetto della referenza obbligatoriamente disgiunta si può spiegare con l’origine dell’infinito flesso, che deriva dal congiuntivo imperfetto (Pittau 1972; Blasco Ferrer et al. 1988; Jones 1993; Miller 2003; Pisano 2008). In genere, nelle lingue romanze, il congiuntivo impone una referenza disgiunta al suo soggetto, come succede anche con il congiuntivo presente in sardo (Jones 1993:252). Lo stesso effetto è attestato con gli infiniti flessi portoghesi in contesti NOC (Sitaridou 2007; Sheehan 2018). Un’analisi del genere spiegherebbe anche perché l’infinito flesso sia possibile nei casi di controllo del soggetto parziale, ma non negli altri casi di controllo del soggetto. In questi casi, i due soggetti non sono completamente coreferenziali ma il soggetto della matrice è solo una parte del soggetto incassato. Dal punto di vista teorico, invece, non è chiaro come si dovrebbero unificare i fenomeni di controllo e di obviation nello stesso tipo di frase; in un certo senso, i due fenomeni sono 8 Fanno eccezione il rumeno e i dialetti meridionali estremi che presentano un uso molto limitato dell’infinito, impiegando invece il congiuntivo anche nei casi di controllo.

    Gli infiniti flessi sardi nelle strutture a controllo

    163

    opposti (Hornstein & San Martin 2013). Non si trovano normalmente nella stessa costruzione; infatti, in molte lingue romanze (eccetto il rumeno, il salentino, e il calabrese meridionale), si usa l’infinito per il controllo e il congiuntivo per un’interpretazione disgiunta. Questo è un punto che va chiarito in ricerche future.

    4.4

    Il ruolo del complementatore a/de

    Come già accennato sopra (§2), l’infinito flesso è introdotto da un complementatore, a ‘a’ o de ‘di’, rispetto al quale dev’essere sempre adiacente. L’uso di questo complementatore infinitivale è quasi sempre obbligatorio; gli unici casi in cui non si usa sono le interrogative infinitivali, le frasi introdotte da chene ‘senza’ o pro ‘per’, e i complementi ai verbi causativi (Jones 1993:260). La presenza o assenza del complementatore a ‘a’ distingue i due usi del verbo cherrere ‘avere’ menzionati nella nota 6. Come ‘volere’ in italiano, e i suoi equivalenti in altre lingue, cherrere può essere usato come un verbo a ristrutturazione/sollevamento (p. es. ‘ci voglio andare’), ma può anche selezionare un complemento frasale (p.es. ‘voglio che ci vada’). In sardo, il complemento può essere infinitivale in entrambi i casi, i quali si distinguono per la presenza o assenza del complementatore. Si considerino gli esempi in (27): (27) a. Sas fadas non cherian a toccare s’abba issoro. le fate non volere.ipfv.3pl a toccare.inf l’acqua loro.poss ‘Le fate non volevano che qualcuno tocchi la loro acqua.’ b. Sas fadas non cherian toccare s’abba issoro. le fate non volere.ipfv.3pl toccare.inf l’acqua loro.poss ‘Le fate non volevano toccare la loro acqua.’ (Mensching 1992:42)

    Nella frase (27a), l’unica interpretazione possibile è che il soggetto incassato abbia una referenza disgiunta dal soggetto della frase principale (obviation). Questa interpretazione è segnalata dal complementatore a. Invece, nella frase (27b), il complementatore è assente, il che fa capire che in questo caso il verbo cherrere è usato come verbo a ristrutturazione, con coreferenza obbligatoria tra i due soggetti. La stessa differenza si nota negli esempi (24) e (25). Infine, consideriamo un esempio come (21), qui ripetuto in (28): (28) Non cherzo a andaremus impare. non volere.1sg a andare.inf.1pl insieme ‘Non voglio che andiamo insieme.’

    (Blasco Ferrer 2002:469)

    164

    Kim A. Groothuis

    Anche qui non c’è una completa corrispondenza tra i due soggetti, il che viene segnalato dalla presenza del complementatore. Il soggetto della frase principale è incluso nel soggetto infinitivale. Verbi del tipo ‘volere’ costituiscono un caso speciale, nel senso che ammettono sia la ristrutturazione, con un unico soggetto, che controllo parziale (cfr. Grano 2015: cap. 4). Inoltre, possono anche selezionare un complemento frasale. Altri verbi a ristruttuzione (verbi modali come dévere ‘dovere’ e pótere ‘potere’) ammettono solo la struttura monoclausale, in cui c’è solo un soggetto (Cinque 2004). Il complementatore a/de indica la natura non-finita della frase (cfr. la nozione ‘anchoring’ discussa in Groothuis 2020: una frase non-finita dipende dalla frase matrice per alcuni aspetti dell’interpretazione, come il tempo). Si può supporre che lessicalizzi la testa Fin (Rizzi 1997), come in italiano. La sua presenza indica che la frase è un sintagma del complementatore (SC) e non una struttura ridotta (come i complementi dei verbi a ristrutturazione). Per tali aspetti, il complemento infinitivale introdotto da a o de presenta una struttura molto simile a un complemento al congiuntivo. Normalmente questa struttura più complessa (con il SC presente) blocca il controllo (eccetto in rumeno), e si ha l’obviation effect (come in (24)); si è visto però che in sardo questo non è il caso per tutti i parlanti. Con alcuni verbi l’effetto non è tanto forte; p.es. la frase (25), per alcuni parlanti, può essere interpretata come ‘Sono contenti di vedermi’ (controllo del soggetto) ma anche come ‘Sono contenti che mi vedano’ (referenza disgiunta).

    5.

    Conclusioni

    L’evidenza empirica esaminata in questo lavoro dimostra che gli infiniti flessi sardi possono essere usati in strutture di controllo. Tuttavia, la loro distribuzione in tali strutture è ristretta. Gli infiniti flessi sono ritenuti sistematicamente agrammaticali dai parlanti nei complementi di una serie di verbi a controllo del soggetto, ovverosia quei verbi che prevedono il controllo a soggetto e che causano la ristrutturazione. In questi casi, manca semplicemente la struttura funzionale nella frase infinitivale che permette la flessione, e pertanto è ammesso solo un complemento v-VP, che corrisponde a un infinito semplice. Con gli altri casi di controllo a soggetto, c’è molta variazione tra i parlanti, anche tra parlanti della stessa varietà di sardo, in quanto preferiscono la forma flessa o la forma semplice dell’infinito. Diversamente da quanto concluso nello studio precedente (Groothuis 2017), solo una parte dei parlanti ha problemi con l’infinito flesso. Inoltre, si è dimostrato che nei casi di controllo parziale, quando i due soggetti si differenziano nel numero ma non nella persona, si può avere un infinito flesso, anche nei casi di controllo del soggetto.

    Gli infiniti flessi sardi nelle strutture a controllo

    165

    Due possibili analisi sintattiche sono state valutate. La prima propone che la differenza di località tra soggetto e oggetto spiega perché la flessione sia ammessa nel caso di controllo di oggetto ma sia più rara nel caso di controllo del soggetto; il soggetto incassato si trova in una posizione troppo distante dal controllore se quest’ultimo è il soggetto della frase matrice. Se invece è l’oggetto indiretto dalla frase matrice a controllare il soggetto infinitivale, la dipendenza di controllo può essere stabilita. Questo approccio, però, non arriva a spiegare perché i parlanti giudicano non grammaticale l’infinito flesso in certi casi di controllo da parte del soggetto, soprattutto quando c’è controllo parziale. La seconda spiegazione proposta lega la differenza tra accettabilità dell’infinito flesso in strutture a controllo del soggetto e dell’oggetto alla referenza obbligatoriamente disgiunta (obviation) che si attesta con il congiuntivo in gran parte delle lingue romanze. Quest’effetto viene confermato da alcuni parlanti, che preferiscono usare l’infinito flesso proprio in quei casi in cui il soggetto infinitivale non sia (completamente) coreferenziale al soggetto della frase principale. Questo potrebbe anche spiegare l’uso dell’infinito flesso nei contesti di controllo parziale. La presenza dell’obviation effect non è del tutto inattesa, vista l’origine dell’infinito flesso sardo, che è l’esito dell’evoluzione del congiuntivo imperfetto latino.

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    Michael Allan Jones1

    Accusativo preposizionale in sardo: elementi strutturali e semantici

    Abstract: Questo contributo prende in esame due approcci divergenti all’accusativo preposizionale (l’uso della preposizione a davanti ad alcuni tipi di oggetto diretto) in sardo. Il primo approccio suppone una corrispondenza diretta tra la distribuzione dell’a accusativo e le proprietà semantiche dell’oggetto diretto che possono essere definite in termini di gerarchie di ‘animatezza’ e ‘definitezza’. Essenzialmente, gli oggetti diretti che si collocano in una posizione alta in queste scale gerarchiche dimostrano una più stabile presenza di accusativo preposizionale rispetto a quelli con un grado inferiore, con soglie che delimitano l’uso obbligatorio o impossibile. Il secondo approccio segue un’ipotesi strutturale che associa l’accusativo preposizionale all’assenza di un determinante (casi evidenti sono i nomi propri e i termini di parentela usati da soli o seguiti da un aggettivo possessivo). Questo approccio può essere esteso ad elementi con le caratteristiche dei pronomi (quantificatori ‘nudi’ e dimostrativi, così come pronomi personali, negativi e interrogativi), ricorrendo a una distinzione categoriale (nome vs determinante) che è correlata con la distinzione [€animato]. Nello specifico, in quanto nomi ‘nudi’, elementi di questo tipo hanno un referente animato e richiedono l’a accusativo, concordemente con la generalizzazione strutturale. Si sostiene che il secondo approccio fornisce un’analisi coerente degli usi dell’accusativo preposizionale, generalmente considerati obbligatori. Tuttavia, ci sono ulteriori casi, con determinanti espliciti in cui l’accusativo preposizionale è facoltativo e variabile, che sono ampiamente coerenti con il primo approccio. Ulteriori complicazioni sorgono da varietà dialettali che sembrano discostarsi dal modello ‘standard’ presentato nelle grammatiche descrittive, nonché da presunte discrepanze rilevate tra dati attestati (in discorsi spontanei) e giudizi elicitati dagli informatori (parlanti nativi).

    1 Si ringrazia Paolo Izzo (Università di Vienna) per la traduzione e revisione specialistica dell’originale in inglese.

    170

    1.

    Michael Allan Jones

    Introduzione

    Questo capitolo vuole investigare le condizioni che determinano l’uso dell’accusativo preposizionale in sardo (l’uso della preposizione a davanti ad alcuni tipi di oggetto diretto).2 Nella letteratura possiamo distinguere due approcci generali in merito. Il primo approccio, che viene adottato dalla maggior parte degli studi di questo fenomeno in sardo (ed effettivamente anche in altre lingue), presume una diretta corrispondenza tra la distribuzione dell’a accusativo e le proprietà semantiche o pragmatiche dell’oggetto diretto che può essere definito in termini di gerarchie di animatezza, definitezza e specificità (Bossong 1982, Floricic 2003 in questo volume, Putzu 2005, Mardale 2008, 2010, Boeddu 2017, 2020). Il secondo approccio, sviluppato nel mio lavoro (Jones 1993, 1995 1999), avalla l’ipotesi che l’accusativo preposizionale in sardo sia condizionato primariamente da fattori strutturali (l’assenza del determinante). In questo articolo sostengo che elementi di entrambi i tipi influiscono sulla distribuzione dell’a accusativo in sardo. Un ruolo centrale di questo argomento viene ricoperto dalla distinzione tra usi obbligatori (riassunti nella sezione 2) e da una serie di usi facoltativi che mostrano un alto livello di variazione dialettale o ideolettale (discussi nella sezione 3). Nella sezione 4 vengono riesaminate alcune analisi a base semantica, identificando un numero anomalo di casi, in particolare all’interno del dominio obbligatorio, che non si adattano esattamente a una gerarchia di animatezza e definitezza, ma che risultano spontaneamente da un’analisi strutturale, mentre il modello di accettabilità per i casi di variabile facoltativa corrisponde ampiamente con una gerarchia semantica. L’analisi strutturale si sviluppa più dettagliatamente nella sezione 5. Nella sezione 6 si discutono brevemente le varianti dialettali che si allontanano dal modello generale e vengono suggeriti alcuni modi per adattarle.

    2.

    Usi obbligatori dell’accusativo preposizionale

    I tipi principali di oggetto diretto che richiedono l’accusativo preposizionale sono illustrati di seguito, suddivisi per tematiche generali con brevi commenti.3 2 L’a accusativo occorre anche con i complementi di alcune preposizioni, principalmente con quelli che esprimono paragoni o somiglianze; vedi Jones (1995) per una discussione dettagliata sulle proprietà del predicato reggente che condiziona l’accusativo preposizionale. Qui ci concentreremo sulle proprietà interne dell’argomento nominale che determinano l’occorrere dell’a accusativo. 3 Gli esempi sono trascritti secondo la convenzione della ‘Limba Sarda Comuna’ (Regione Autonoma della Sardegna 2006) ad eccezione degli esempi tratti da altre fonti, in cui è stata mantenuta l’ortografia originale. Tuttavia, si utilizzano forme dei dialetti locali per alcuni

    Accusativo preposizionale in sardo: elementi strutturali e semantici

    171

    (1) Pronomi personali disgiuntivi: Non connosco a issa. ‘Non la conosco’ (2) Pronomi interrogativi e negativi ([+umano]): a A chie as bidu? ‘Chi hai visto?’ b No apo bidu a neune/nemos/nisciunu. ‘Non ho visto nessuno.’ (3) Gli oggetti inanimati corrispondenti non permettono l’a accusativo: a (*A) ite as bidu? ‘Cosa hai visto?’ b No apo bidu (*a) nudda. ‘Non ho visto niente.’ (4) Nomi propri (senza determinante): a Connosco a Zuanne. ‘Conosco Giovanni.’ b An furadu a Èrcole. ‘Hanno rubato Hercules.’ (p.es. un cavallo) c %Apo visitadu a Nàpoli. ‘Ho visitato Napoli.’

    Questo uso include nomi propri di animali (4b) e umani (4a)4 e, in alcuni dialetti logudoresi-nuoresi5 (ma non in campidanese secondo Putzu 2005), si estende a nomi propri di oggetti inanimati come nomi di città o paesi (4c). I nomi di regione e paese che richiedono un articolo determinativo non prendono l’a accusativo (vedi sezione 4, esempio (14)). (5) Nomi di parentela (senza determinante): a Apo bidu a Babbu. ‘Ho visto papà.’ b Connosco a frade tuo. ‘Conosco tuo fratello.’

    La costruzione senza determinante si limita ai casi in cui il nome occorre da solo (di solito esprimendo una relazione con il parlante), come in (5a), o è accompagnato da un aggettivo possessivo6, come in (5b). Quando il possessore è identificato da un SP (sintagma preposizionale) è necessario un determinante e l’a accusativo non è richiesto, nonostante il suo uso sia possibile secondo alcuni parlanti (vedi sezione 3, esempio (9)).

    elementi funzionali (pronomi e determinanti) che a volte indicano significative differenze grammaticali (vedi sezione 6). 4 L’a accusativo è obbligatorio anche con i nomi di persona formati da più di un sostantivo (p.es. Professore Pittau, Zia Maria, Michelangelo Pira). In questo contributo verranno considerati come nomi propri. 5 Da questo punto in poi i riferimenti alle aree dialettali tradizionali devono essere considerati come approssimativi. Putzu (2005) nota che l’uso dell’a in esempi come (4c) è escluso anche in alcune varietà logudoresi (p.es. il dialetto logudorese meridionale di Margine). 6 La classificazione dei ‘possessivi’ come aggettivi (piuttosto che come determinanti) in sardo è cruciale per l’analisi presentata nella sezione 5. Essa è basata sulle seguenti osservazioni: (i) con la maggior parte dei nomi comuni richiedono un determinante (di solito l’articolo determinativo), (ii) sistematicamente seguono il nome, (iii) possono essere usati predicativamente. Tutte queste proprietà in sardo sono eccezioni per i determinanti, ma sono tipiche degli aggettivi. Questa classificazione distingue chiaramente questi elementi anche dai loro corrispondenti in lingue come l’inglese o il francese (su libru meu vs ing. my book, fr. mon livre).

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    Michael Allan Jones

    (6) Dimostrativi e quantificatori ‘nudi’ ([+umano]): a No apo saludadu a custu/cuddu. ‘Non ho salutato questa/quella persona.’ b Devimus rispetare a totu(s). ‘Dobbiamo rispettare tutti.’ c Apo bidu a carcunu in s’ortu. ‘Ho visto qualcuno in giardino.’

    L’uso obbligatorio di a con il dimostrativo in (6a) è circoscritto ai casi in cui l’oggetto si riferisce a una persona che è presente fisicamente; alcuni dialetti si avvalgono di forme distinte custe/cudde per questo uso. Gli elementi in (6) possono anche essere utilizzati per identificare o quantificare membri di una serie contestualmente determinata; in questo caso l’a accusativo è normalmente assente: (7) a B’aiat tres candidados e an isseberadu custu/cudda. ‘C’erano tre candidati e hanno scelto questo/quello.’ b Los apo saludados totu(s). ‘Li ho salutati tutti.’ c Nde connosco carcunu. ‘Ne conosco qualcuno.’

    Con un referente inanimato questi elementi, o il loro corrispettivo inanimato, non ammettono l’accusativo preposizionale: (8) Cheljo mandigare (*a) custu/cuddu/totu/carchicosa ‘Voglio mangiare questo/quello/tutto/qualcosa’.

    3.

    Usi facoltativi dell’accusativo preposizionale

    Oltre ai casi esposti precedentemente, in cui l’a accusativo è obbligatorio (con i moniti riportati), esiste una serie di oggetti diretti dalla struttura [Determinante + … Nome …] con referenti animati (di solito umani) 7 in cui l’accusativo preposizionale è, nel migliore dei casi, facoltativo e soggetto a variazioni dialettali o idiolettali. In alcuni dialetti (o per alcuni parlanti) l’a accusativo è inaccettabile in tutte le costruzioni di questo tipo, mentre altri lo ammettono a diversi gradi, a seconda del tipo di determinante o delle proprietà referenziali dell’oggetto. Negli esempi che seguono, il numero di simboli % è inteso come un’indicazione approssimativa di accettabilità relativa della variante con a. Con oggetti diretti di questo tipo, i casi più largamente accettati sono quelli in cui l’articolo determinativo è seguito da un nome di parentela (con un SP che denota il possessore), come in (9), o casi come (10) in cui l’articolo determinativo si combina con un nome singolare che indica professione o status per formare un 7 Non è chiaro se la distinzione [€umano] qui costituisca un parametro linguistico o se rifletta semplicemente diverse attitudini nei confronti degli animali, assimilandoli alla classe degli umani (p.es. animali domestici) o alla classe delle cose. Blasco Ferrer & Ingrassia (2003) citano alcuni esempi di a accusativo con nomi comuni inanimati. Quest’uso sembra essere altamente idiosincratico.

    Accusativo preposizionale in sardo: elementi strutturali e semantici

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    titolo che può essere semplicemente utilizzato per identificare uno specifico individuo all’interno di una comunità: (9) Connosco (%a) su frade de Maria. (10) a Apo bidu (%a) su dutore. ‘Ho visto il dottore.’ b An assassinadu (%a) su re. ‘Hanno assassinato il re.’

    L’uso dell’a accusativo sembra essere meno accettato con altri tipi di espressioni determinative che si affidano ad elementi contestuali o deittici o modificatori restrittivi per stabilire una referenza:8 (11) a Connosco (%%a) custu professore. ‘Conosco questo professore.’ b An arrestadu (%%a) su ladru. ‘Hanno arrestato il ladro.’ c Apo criticadu (%%a) s’òmine chi at iscritu sa lìtera. ‘Ho criticato l’uomo che ha scritto la lettera.’ d Apo saludadu (%%a) (totu(s)) sos òspides. ‘Ho salutato (tutti) gli ospiti.’

    L’a accusativo con oggetti indeterminati, come in (12), è ancora più marginale ed è esplicitamente escluso secondo alcuni autori (p.es. Bossong 1982, Jones 1993, 1995, 1999): (12) a So chirchende (%%%a) unu dutore. ‘Sto cercando un dottore.’ b Apo bidu (%%%a) medas sordados. ‘Ho visto tanti soldati.’

    Ciò nonostante, studi successivi (Floricic 2003, Putzu 2005, Blasco Ferrer & Ingassia 2010, Boeddu 2017, 2020) dimostrano che quest’uso è possibile in alcune varietà del logudorese e campidanese. In alcuni dialetti (Putzu 2005, Boeddu in stampa), la presenza di a impone un’interpretazione [+specifico] (per esempio in (12a) il parlante ha in mente un dottore in particolare).9 Daniela Boeddu mi ha indicato (in una comunicazione personale) che nel suo dialetto (arborense, nella zona di Oristano) lo stesso effetto si ottiene con oggetti determinati, come in (13), dove a presuppone che l’identità del ladro sia conosciuta mentre la variante senza a permette anche l’interpretazione [-specifico] “chiunque abbia commesso il crimine”: (13) Sun chirchende (a) su ladru. ‘Stanno cercando il ladro.’

    8 Ci potrebbe essere un ulteriore grado di accettabilità o di diffusione dialettale all’interno di questa classe. Generalmente, i plurali sembrano permettere l’a accusativo meno facilmente rispetto agli oggetti singolari. 9 Una teoria simile è sostenuta da Mardale (2008); tuttavia, in un lavoro posteriore (Mardale 2010), egli sostiene che in sardo (a differenza dello spagnolo) l’accusativo preposizionale è impossibile con tutti gli oggetti indefiniti.

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    D’altra parte, Floricic (2003:262–263) sostiene che l’uso facoltativo di a con oggetti indeterminati non dipenda dalla specificità; ovvero la variante in (12a) con a è compatibile con un’interpretazione [-specifico]. Anche se i giudizi sono spesso incerti e nonostante le apparenti contraddizioni dei fatti, come riportato nella letteratura, possiamo identificare un modello di accettabilità relativa o diffusione dialettale, per i casi facoltativi, lungo una scala di definitezza o specificità come nella figura 1 (i numeri tra parentesi si riferiscono ad esempi rilevanti). I II III [+determinato] [+determinato] [–determinato] > > > Parentela (9) [+specifico] (11) [+specifico] (12) Titoli (10)

    IV [–specifico] (13)

    Figura 1. Accettabilità relativa dell’accusativo preposizionale con nomi [+animato] e determinanti espliciti.

    I giudizi conflittuali notati sopra rispetto agli esempi come (12) possono essere rappresentati da diverse soglie di accettabilità lungo questa gerarchia. Bossong (1982) sostiene che la soglia cade tra le classi II e III; secondo il giudizio di Putzu (2005), Boeddu (2020) cade tra le classi III e IV mentre nelle varietà analizzate da Floricic (2003) la scala di accettabilità include tutte e quattro le classi. In alcuni dialetti nuoresi nessuno di questi usi facoltativi è possibile (Putzu 2005).10

    4.

    Analisi semantica

    Un potenziale vantaggio dell’approccio semantico definito sopra è che fornisce un quadro comune per l’analisi di usi sia obbligatori sia facoltativi dell’a accusativo. Le espressioni nominali possono essere classificate in una gerarchia simile a quella proposta nella figura 1, ma ampliata per includere gli usi obbligatori con soglie adeguate, per delimitare i tipi di oggetto diretto che richiedono, permettono o escludono l’a accusativo. Un tipico esempio di quest’approccio ci viene fornito da Aissen (2003), che propone una doppia gerarchia secondo il tipo di SN (sintagma nominale) per ricercare la distribuzione dell’accusativo preposizionale e altre forme di Differential Object Marking (DOM) in diverse lingue, pur non prendendo in considerazione il sardo. 10 Putzu (2005:235) cita l’esempio *Apo vistu a su duttore come agrammaticale nei dialetti nuoresi di Fonni e Lula, in apparente contraddizione con il giudizio dato da Jones (1993,1995). Infatti, anche molti dei miei informatori lulesi respingono questo esempio, così come gli altri usi facoltativi riportati in questa sezione. Pittau (1972:129) cita … a su duttore come grammaticale nel dialetto stesso di Nuoro.

    Accusativo preposizionale in sardo: elementi strutturali e semantici

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    Scala di animatezza: umano > animato > inanimato Scala di definitezza: pronomi > nomi propri > SN determinati > SN specifici indeterminati > SN non specifici indeterminati Figura 2. Una doppia gerarchia (Aissen 2003)

    Il sardo può essere classificato come quello che Aissen chiama una lingua a “DOM bi-dimensionale” (Two-Dimensional DOM); le soglie che delimitano gli usi obbligatori, facoltativi o esclusi dell’a accusativo sono soggette ad entrambe le scale gerarchiche. Questa struttura viene ripresa, seppur con qualche piccola modifica specifica per le costruzioni trattate, da Mardale (2008, 2010), il quale confronta l’uso dell’accusativo preposizionale in sardo, spagnolo e rumeno. Bossong (1982) e Putzu (2005) ipotizzano una gerarchia diversa, basata sul concetto, alquanto elusivo, di ‘inerenza’, che combina parametri quali deissi, animatezza e discretezza. Boeddu (2017) assume un approccio più tassonomico basato su costruzioni nominali particolari che esemplificano diversi gradi di animatezza e definitezza e che vengono utilizzate per dimostrare tendenze generali attraverso queste due dimensioni (frequenza relativa dell’a accusativo in vari corpora e variazione diacronica e dialettale). Blasco Ferrer & Ingrassia (2010) propongono una gerarchia in 10 punti più esplicita nella quale le varie classi sono definite da combinazioni di proprietà morfosintattiche e semantiche abbastanza eterogenee che contengono, in alcune classi, delle sotto-gerarchie. Sebbene gli studi sopracitati mostrino un modello generale per il sardo ampiamente conforme alle gerarchie semantiche esaminate nei paragrafi precedenti, vi sono delle anomalie lampanti, specialmente all’interno del dominio dell’obbligatorietà. Per esempio, si è notato nella sezione 2 che l’a accusativo è obbligatorio (in alcuni dialetti) con i nomi propri inanimati (p.es. Nàpoli in (4c)). In questo caso sembra che l’alto livello di definitezza e specificità abbia la precedenza sul basso livello di animatezza, nonostante in tutti gli altri casi gli oggetti inanimati escludano l’a accusativo, inclusi i nomi di luogo che denotano paesi o regioni (introdotti dall’articolo determinativo): (14) *Apo visitadu a sa Corsica. ‘Ho visitato la Corsica.’

    Al contrario, con il pronome indefinito carcunu ‘qualcuno’ l’alto livello di animatezza sembra avere la precedenza sul basso grado di definitezza, esigendo così l’a accusativo (come in (6c)) anche se il suo uso con espressioni indefinite sarebbe, nella migliore della ipotesi, facoltativo e marginale (cfr. esempio (12)). Un problema simile sorge con altri tipi di pronomi [+umano] che esigono l’a accusativo, ma che dimostrano un grado relativamente basso di definitezza, variatamente caratterizzato nella letteratura come indeterminato, non-specifico o generico: chie ‘chi’, neune / nemos / nisciunu ‘nessuno’ e totu(s) ‘tutti’. Da una

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    prospettiva grammaticale questi elementi assumono la funzione di pronomi; appartengono ad una classe chiusa di parole funzionali che rappresentano argomenti. Pertanto, si potrebbe sostenere che l’a accusativo con questi elementi è coerente con la scala di definitezza che posiziona i pronomi sopra tutte le altre espressioni nominali. Ciò nonostante, Aissen (2003:444) mette in chiaro che questa posizione alta nella scala gerarchica è giustificata solo per i pronomi personali (e forse per i dimostrativi), cui referente è “fisso”, denotando i partecipanti alla situazione discorsiva o i ‘non partecipanti salienti’; anche per l’esistenza di lingue come il catalano, in cui il DOM (obbligatorio) è limitato ai pronomi personali (Aissen 2003:451–452). Pertanto, nonostante gli elementi sopra elencati siano privilegiati per quanto riguarda l’accusativo preposizionale in sardo, questo può essere ricondotto al loro status grammaticale di pronomi piuttosto che all’alto grado di definitezza. Quest’ipotesi viene corroborata dal confronto in (15) tra il pronome chie, che richiede l’a, e il determinante interrogativo cale ‘quale’, che la esclude anche quando il nome seguente è omesso: (15) a A chie an isseberadu? ‘Chi hanno scelto?’ b (*A) cale (candidadu) an isseberadu? ‘Quale (candidato) hanno scelto?’

    Queste e altre anomalie vengono discusse in dettaglio da Floricic (2003), il quale argomenta che possono essere spiegate semanticamente. In riguardo al primo problema su presentato, Floricic confronta (4c) … a Nàpoli con la descrizione definita (definite description) … (*a) sa idda inue so naskidu ‘la città in cui sono nato’ (Floricic 2003:251) che egli relaziona per somiglianza a referenti [+umano] in cui la distinzione è tra uso obbligatorio e facoltativo di a: … a Chirac, … (a) su presidente de sa Repubblica ‘Il presidente della Repubblica’ (Floricic 2003:258). Come Floricic correttamente osserva, mentre i nomi propri in questi esempi hanno referenti fissi, il referente delle espressioni frasali dipende dalla situazione in cui queste vengono utilizzate (identità dell’emittente, tempo dell’enunciato, paese in questione, …). Floricic (2003:260, nota 20) confronta anche … a Nàpoli in (4c) con …(*a) sas Balearese ‘le isole Baleari’. Egli attribuisce questa differenza al fatto che Nàpoli designa un’entità individuale, mentre sas Baleares denota un’entità collettiva composta da elementi individuali; inoltre fa notare che anche questa interpretazione collettiva esclude l’a accusativo con i nomi di persona, come nel seguente esempio (= Floricic (21°)): (16) Appo invitadu sos Melas a sa domo de mare. ‘Ho invitato i Melas (nome di famiglia) alla casa a mare.’

    Ciò nonostante, questo fattore non implica l’esclusione dell’a accusativo con nomi singolari di paesi o regioni (cfr. (14) sopra)), che Floricic non discute nella sua argomentazione. Anche se le osservazioni semantiche fatte da Floricic pos-

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    sono avere un influsso su tipi e usi di nomi propri che richiedono l’articolo determinativo, non prendono in considerazione il più palese problema dell’‘inanimatezza’ postoci all’inizio di questa discussione. Inoltre, il suo tentativo di attribuire la distribuzione dell’a accusativo direttamente a fattori semantici elude una generalizzazione molto più ovvia: l’a accusativo è obbligatorio con tutti i nomi propri (indipendentemente dall’animatezza) che, per una qualsiasi ragione, mancano di un determinante. Un modello simile si riscontra nelle costruzioni con nomi di parentela negli esempi (5) e (9), illustrati di seguito usando gli esempi di Floricic in (17b, c): (17) a Apo bidu a Babbu. ‘Ho visto papà.’ b Custu mandzanu appo acciappadu su frade de Lughia. ‘Stamattina ho incontrato il fratello di Lucia.’ c Appo vistu a frade tuo. ‘Ho visto tuo fratello.’

    Floricic (2003) argomenta (plausibilmente) che i nomi di parentela ‘nudi’, Babbu in (17a), sono analoghi ai nomi propri; quindi l’uso obbligatorio dell’a accusativo in questo caso è coerente con la posizione dei nomi propri più in alto nella scala di definitezza rispetto ad altre espressioni determinate. Per il confronto tra (17b), che non richiede l’a accusativo, e l’uso obbligatorio in (17c), Floricic nota che in (17c) il referente dell’intera espressione è mediato dalla relazione con un partecipante dell’atto comunicativo (il destinatario), mentre in (17b) ciò richiede l’identificazione di una terza parte (Lucia) che è esterna alla situazione comunicativa. Ciò nonostante questa considerazione non vale per i casi con la terza persona dell’aggettivo possessivo (… a frade suo ‘suo fratello’) in cui a è altrettanto obbligatorio (Floricic 2003 non menziona questo caso). Inoltre, non è chiaro il fatto che i fattori postulati da Floricic siano correlati con le differenze nel grado di definitezza e specificità. Ancora una volta, questa considerazione elude l’ovvia generalizzazione che i nomi di parentela (come i nomi propri) richiedono l’a accusativo in assenza di un determinante. Per i pronomi [+umano] trattati sopra, Floricic riconosce che l’uso obbligatorio dell’a accusativo non è correlato con la definitezza o specificità. Piuttosto, egli argomenta che la motivazione è data dal modo in cui gli elementi stabiliscono referenzialità, in contrasto con esempi in cui questi (o simili) elementi funzionano da quantificatori o operatori accompagnati da un nome comune, come nel seguente esempio (= Floricic (26)): (18) Berlusconi at ingannadu (*a) tottu sos elettores. ‘Berlusconi ha ingannato tutti gli elettori.’

    In questo esempio l’interpretazione dell’oggetto diretto procede in due fasi: in un primo momento una serie di entità (gli elettori) viene identificata; poi, il quantificatore tottu indica che la proposizione “B. ha ingannato x” si riferisce a tutti i

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    membri di questa serie. D’altro canto, Floricic argomenta che nel suo uso pronominale totu(s) ‘tutti’ (come in (6b), Devimus rispetare a totu(s)) non include una suddivisione di questo tipo, bensì quantifica in maniera olistica una classe aperta. Floricic fa delle osservazioni simili riguardo il pronome negativo nesciune ‘nessuno’ e il contrasto tra … a chie ‘chi’ e … (*a) cale ‘quale’ in esempi come (15), sebbene non prenda in considerazione carcunu ‘qualcuno’ (per una discussione più specifica su quest’ultimo caso rimandiamo al contributo di Floricic di questo volume). Ciò nonostante, non è chiaro perché l’interpretazione olistica associata all’uso pronominale forzi la presenza dell’a accusativo, dato che il riferimento a una serie di elettori o candidati negli esempi (18) e (15b) aggiunge un elemento determinato che manca nell’uso pronominale. Inoltre, questa distinzione può essere tratta in termini puramente sintattici. Dal momento che i pronomi costituiscono espressioni nominali complete, non ammettono la presenza di un nome che denoti una classe ristretta. Di conseguenza, l’appello diretto a fattori semantici che condizionano l’uso obbligatorio di a in questi casi può essere dispensato in favore di una generalizzazione dell’effetto che l’accusativo preposizionale è obbligatorio con i pronomi [+umano]. Per riassumere, nonostante gli usi facoltativi dell’a accusativo in sardo siano chiaramente retti da animatezza e gradi di definitezza, come rappresentato nella figura 1, gli usi obbligatori possono essere delimitati da due condizioni che sono (ampiamente) basate su strutture sintattiche: (19) In sardo l’accusativo preposizionale è obbligatorio con a nomi di parentela e nomi propri senza determinante (indipendentemente dall’animatezza)11 b pronomi [+umano] (indipendentemente dalla determinatezza).

    5.

    Un approccio strutturale

    In Jones (1993, 1995, 1999) argomento che le due condizioni in (19) possono essere ridotte ad una singola generalizzazione strutturale che non si riferisce all’animatezza o a particolari classi di nome:

    11 Bisogna fare alcune precisazioni sull’uso metonimico dei nomi propri, che non ammettono l’a accusativo, come negli esempi seguenti in cui Gramsci si riferisce ai “lavori di Gramsci” e Elias Portolu è il titolo di un romanzo: (i) Apo lèghidu (*a) Gramsci. ‘Ho letto Gramsci.’ (ii) Apo lèghidu (*a) Elias Portolu. ‘Ho letto Elias Portolu.’ Per i nostri obiettivi, si presume che la metonimia rappresenti un tipo speciale di denotazione indiretta alle quali condizioni non si applica l’accusativo preposizionale (vedi Floricic 2003:251 per alcune considerazioni).

    Accusativo preposizionale in sardo: elementi strutturali e semantici

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    (20) In sardo, l’accusativo preposizionale è obbligatorio con oggetti diretti che mancano di determinante.

    Eccezioni evidenti a questa generalizzazione sono i complementi di verbi copulativi (come in (21)) e plurali ‘nudi’ e nomi collettivi (come in (22)), che non contemplano l’a accusativo, nonostante l’assenza di un determinante: (21) a b (22) a b

    Est (*a) pitzinnu mannu. Est diventadu (*a) dutore. Apo bidu (*a) sordados. Apo bidu (*a) gente.

    ‘È un ragazzo grande.’ ‘È diventato dottore.’ ‘Ho visto soldati.’ ‘Ho visto gente.’

    Il caso in (21) viene facilmente risolto. I complementi di verbi copulativi (p.es. èssere e diventare) sono predicati, non argomenti (quindi non sono oggetti diretti). Infatti, non permettono mai l’a accusativo, neanche quando sono di un tipo che lo richiederebbe in altri contesti: (23) Est (diventada) (*a) mugere mea. ‘Lei è (diventata) mia moglie’.

    L’esempio in (22) può essere risolto presupponendo la presenza di un determinante indefinito nullo, approssimativamente equivalente all’inglese some ‘alcuni’. D’altra parte, non vi sono evidenze semantiche chiare per ipotizzare un determinante nullo con nomi propri o nomi di parentela. I pronomi corrispondono alla situazione in (20) in senso lato, dato che non sono accompagnati da un elemento separato che possa essere identificato come un determinante. Comunque, trattando tutti i pronomi come ‘privi di determinante’ mancherebbero elementi per individuare la distinzione cruciale tra pronomi [+umano], che richiedono l’a accusativo, e gli elementi [–animati], che lo respingono.12 Sebbene il termine “pronome” suggerisca che questi elementi sono tipi di nome, Postal (1996) argomenta che (in inglese) questi vengono più propriamente classificati come determinanti che occorrono senza un nome che segue. La distinzione richiesta concernente l’accusativo preposizionale può essere fatta postulando che (in sardo) la categoria di questi elementi è sensibile all’animatezza, come in (24): (24) a I pronomi [+umano] sono nomi. b I pronomi [–animato] sono determinanti.

    C’è una parziale ragione di fondo a questa classificazione. Generalmente, i determinanti non hanno il tratto di animatezza; per esempio, non ci sono chiari esempi di determinanti che possano essere seguiti soltanto da nomi [+umano]. Se [€umano] e [€animato] non fanno parte dell’inventario dei tratti possibili dei 12 Non si approfondisce qui la questione dei pronomi che si riferiscono agli animali non-umani per le ragioni date nella nota 7.

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    determinanti, ne consegue che i pronomi con referente umano devono essere classificati come nomi. Al contrario, i pronomi che fungono da determinanti vengono automaticamente interpretati come inanimati. Data la distinzione in (24), i pronomi [+umano] (chie ‘chi’, neune/nemos ‘nessuno’, totu(s) ‘tutti’, carcunu ‘qualcuno’ e i pronomi personali) occupano la posizione di nome indicata da X nella struttura (25a), mentre i pronomi inanimati (ite ‘cosa’, nudda ‘niente’, totu ‘tutto’ e carchicosa ‘qualcosa’) fungono da determinanti ‘nudi’, come in (25b):13 (25) a [NOM [N

    X ]] b [NOM [D X ]] [+umano] [–animato]

    Dato che la struttura in (25a) non contiene un determinante, essa rispetta le condizioni esposte in (20), richiedendo l’a accusativo quando questi elementi occorrono come oggetti diretti, mentre (25b) non soddisfa questa condizione occupando il pronome stesso la posizione di determinante. Inoltre, dato che questi pronomi sono inanimati, non permettono l’uso facoltativo dell’a accusativo discusso nella sezione 3 di questo contributo. Similmente, i dimostrativi custu/cuddu occorrono nella struttura (25a) quando si riferiscono a umani e nella (25b) quando inanimati, con lo stesso effetto sull’accusativo preposizionale. Alcuni elementi di questo tipo possono essere utilizzati come determinanti adnominali (seguiti da un nome, possibilmente accompagnati da un modificatore o complementi), come nella struttura (26), in cui [α] è una variabile oltre i valori [+] e [–] del tratto di animatezza: (26) [NOM [D X] … N… ] [α animato] [α animato]

    Questo schema cattura l’osservazione triviale che l’animatezza dell’intera espressione nominale dipende dal significato del nome (p.es. custu dutore ‘questo dottore’ è [+animato] in virtù del significato del nome dutore, mentre custu libru ‘questo libro’ è [–animato]). In strutture di questo tipo, secondo la condizione (20), l’a accusativo è, nel migliore dei casi, facoltativo, dipendendo dall’animatezza e dal grado di definitezza, come discusso nella sezione 3. In contesti opportuni alcuni elementi consentono l’omissione del nome, dando un’interpretazione ‘legata al discorso’ in cui il referente inteso è circoscritto a un gruppo definito contestualmente, come nell’esempio (7) ripetuto qui: 13 Il termine “NOM” nella struttura sottostante viene utilizzato come un’etichetta ufficiosa per ‘espressione nominale completa’ (complete nominal expression) e deve essere intesa come ‘neutrale’ a proposito del fatto se il nome o il determinante è la testa sintattica. In analisi formali ci sono problemi di endocentricità con le strutture in (25) anche per le supposizioni fatte riguardo i nomi propri e le espressioni di parentela, che lascio qui da parte. Vedi Jones (1995 e 1999) per altri dettagli su queste analisi rispettivamente entro le ipotesi NP e DP.

    Accusativo preposizionale in sardo: elementi strutturali e semantici

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    (7) a B’aiat tres candidados e an isseberadu custu/cudda. ‘C’erano tre candidate e hanno scelto questo/quello.’ b Los apo saludados totu(s). ‘Ho salutato tutti.’ c Nde connosco carcunu. ‘Ne conosco qualcuno.’

    Esempi di questo genere possono essere distinti da altri usi ‘nudi’ dei pronomi, di cui si è discusso sopra, attraverso una struttura che include un nome nullo le cui proprietà di animatezza vengono ereditate da un antecedente nel discorso, come in (27): (27) [NOM [D X] [α animato]

    [N Ø] ] [α animato]

    Esempi con referenti inanimati sono illustrati in (28): (28) M’an dadu tres libros … a … e apo giai lèghidu custu. b … e los apo lèghidos totu(s). c … e nde apo lèghidu carcunu.

    ‘Mi hanno dato tre libri …’ ‘.. e ho già letto questo.’ ‘… e li ho letti tutti.’ ‘… e ne ho letto qualcuno.’

    Dato che la struttura (27) contiene un determinante, la condizione in (20) predice correttamente che l’a accusativo non è obbligatorio neanche con un referente umano, come in (7), sebbene il suo utilizzo potrebbe essere possibile per alcuni parlanti, parimente agli esempi con un nome esplicito. La capacità di particolari pronomi/determinanti di occorrere in diverse strutture proposte sopra (con i relativi effetti semantici) varia da un elemento all’altro. Per esempio, i dimostrativi possono occorrere in tutte e quattro le strutture (anche se le forme custe e cudde menzionate nella sezione 2 ammettono solo la struttura (25a)). Chie ‘chi’ ammette solo la struttura (25a) mentre il determinante interrogativo cale ‘quale’ occorre in (26) e (27) (vedi gli esempi in (15)). Con alcuni altri elementi ci sono varianti dialettali che possono riflettere differenze morfologiche. Per esempio, le forme neune/nemos ‘nessuno’ sono circoscritte alla struttura (25a), mentre varianti del tipo nisciunu possono fungere anche da determinante (struttura (26) e possibilmente (27)): nisciunu dutore/ libru ‘nessun dottore/libro’. Per i miei informatori, carcunu ‘qualcuno, alcuni di loro’ non può cooccorrere con un nome aperto (essendo la forma richiesta in questo caso carchi: carchi dutore/libru), ma varianti di questa forma cali(n)cunu/ cabancunu ammettono questo uso (p.es. in calincunu logu ‘in qualche luogo’ (Puddu 2000, s.v. cabancunu)); vedi Mensching (2005:89–94) per una discussione dettagliata. Una possibile spiegazione di questo contrasto, nel quadro qui proposto, è che il partitivo carcunu può essere sintatticamente scomposto in [NOM [D carchi] [N unu]], dove unu è una controparte aperta del N nullo in (27), mentre cali(n)cunu viene analizzato come un elemento singolo nella posizione di determinante, ammettendo un nome esplicito: [NOM [D cali(n)cunu] N]. Nel loro

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    uso pronominale (= ‘qualcuno’) entrambe le forme devono essere analizzate come una singola parola che occupa la posizione di N: [NOM [N carcunu/cali(n)cunu]]. Un’analisi simile può essere adottata per altri elementi con -unu in cui il primo elemento può funzionare da determinante alla sua stessa destra; p.es. [N donzunu/cadunu] ‘tutti quanti’ vs [D donzi/cada] [N unu] ‘ognuno di loro’ [€animato].14 I dati esposti nel paragrafo precedente sono abbastanza complicati e forse piuttosto confusionali. Ciò nonostante, questa complessità risiede nella natura stessa delle cose e non nell’analisi proposta. Qualsiasi grammatica esaustiva del sardo deve in qualche modo tenere conto della diversa distribuzione sintattica di questi elementi (usi ‘nudi’ vs adnominali) e delle loro proprietà semantiche (animatezza, connettività discorsiva). L’analisi proposta sopra collega queste proprietà distribuzionali e semantiche in modo sistematico ed inoltre definisce la gamma di elementi e usi che richiedono l’accusativo preposizionale a seconda della condizione strutturale proposta in (20).

    6.

    Variazione dialettale; grammatica vs uso

    Come abbiamo visto nella sezione 3, esiste una considerevole variazione dialettale rispetto all’uso facoltativo dell’a accusativo. Alcuni dialetti (principalmente le varietà nuoresi) non permettono nessuno di questi usi, altri sembrano permetterlo con tutte le classi elencate nella figura 1, mentre altri ancora delineano una demarcazione su diversi punti intermedi lungo questa gerarchia. D’altra parte, l’uso obbligatorio dell’a accusativo è notevolmente coerente nei vari dialetti. Quest’osservazione potrebbe di per sé sostenere l’opinione che gli usi obbligatori e facoltativi siano retti da fattori diversi (assenza di un determinante vs animatezza/definitezza), come discusso nella sezione 5. Tuttavia, vi sono delle differenze dialettali all’interno del dominio dell’obbligatorietà che potenzialmente discreditano l’analisi strutturale presentata sopra. Di seguito verranno riesaminate queste differenze molto brevemente e si proverà a suggerire modi per adeguarle. Come notato nella sezione 2 il campidanese non permette l’a accusativo con nomi propri inanimati (p.es. Nàpoli nell’esempio (4c)), nonostante sia obbligatorio in alcune altre varietà. Si ricorda che questo caso è stato evidenziato come problema per gli approcci semantici nella sezione 4 e come prova a favore di un’analisi puramente strutturale nella sezione 5. Comunque, i dati campidanesi

    14 Cfr. l’inglese everyone (= ‘tutti’) vs every one (‘tutti loro’ [€animato]), anche in francese quelqu’un ‘qualcuno’ vs quelques-un(e)s ‘alcuni di loro’ [€animato].

    Accusativo preposizionale in sardo: elementi strutturali e semantici

    183

    possono essere adattati aggiungendo una restrizione semantica alla generalizzazione strutturale proposta in (20), come in (29): (29) In campidanese, l’accusativo preposizionale è obbligatorio con oggetti diretti [+animato] che non presentano un determinante.

    Questo perfezionamento non influisce sull’analisi strutturale di altri usi obbligatori dell’a accusativo, che sembra essere (secondo gli esempi forniti da Putzu 2003 e da Boeddu 2017) lo stesso in campidanese e nelle altre varietà. Un discostamento più radicale dal modello generale descritto nella sezione 2 si ritrova nel dialetto arborense (una varietà campidanese parlata nell’area di Oristano), come descritto da Boeddu (2017, 2020), dove l’a accusativo è facoltativo in alcuni casi in cui è obbligatorio in altri dialetti, specialmente con nomi propri e termini di parentela. Pertanto, insieme a tanti esempi con la a, Boeddu cita esempi attestati come quelli di seguito, in cui la a è assente (gli esempi sono tratti da Boeddu 2017): (30) Aiant acumpanzau Zusepe a domo de dottor Sechi. (136g) ‘Hanno accompagnato Giuseppe a casa del dottor Sechi.’ (31) a Zeo no apo connotu tantu iaia cantu apo connotu a issa. (138c) ‘Non ho conosciuto nonna così bene come ho conosciuto lei.’ b Due tengio trogu meu. (138d) ‘Lì ho mio suocero.’

    I pronomi personali e chie ‘chi’ esigono l’a accusativo, sebbene Boeddu citi alcuni esempi con altri pronomi [+umano] senza a. Tuttavia, alcuni di questi possono essere interpretati come casi di tipo legato al discorso (che non richiedono l’a) o comprendono elementi il cui status di pronomi è contestabile (p.es. unos e àteros nel suo esempio (160e)). Nella misura in cui i pronomi si conformano al modello “standard” in questo dialetto, la condizione generale proposta in (20) può essere adattata limitandola a elementi funzionali (escludendo i nomi propri e i termini di parentela): (32) Nel dialetto alborense, l’accusativo preposizionale è obbligatorio con gli oggetti diretti costituiti da elementi funzionali che mancano di determinante.

    Boeddu (2017:271–272) fa un’osservazione interessante dicendo che, sebbene gli esempi come (30)–(31) siano attestati nel suo corpus, i giudizi intuitivi dei parlanti nativi del dialetto arborense sono largamente in linea con il modello generale discusso nella sezione 2 di questo contributo; ovvero, l’a accusativo viene considerato obbligatorio con i nomi propri e i nomi di parentela senza determinante. Le ragioni di questa discrepanza sono poco chiare. Sembrerebbe poco probabile che i giudizi intuitivi dei parlanti siano offuscati da nozioni prescrittive di ‘correttezza grammaticale’; tantomeno gli esempi attestati senza la a possono

    184

    Michael Allan Jones

    essere esclusi come errori di formulazione. Inoltre, Boeddu fornisce prove diacroniche considerevoli per dimostrare che questa flessibilità non è un’innovazione recente. La linguista suggerisce l’ulteriore possibilità che il modello flessibile rilevato nei suoi dati non sia una peculiarità di questo dialetto ma rifletta una discrepanza generale tra la grammatica interiorizzata dai parlanti e l’uso effettivo che può ben essere rilevato tramite un’investigazione basata su corpora di altre varietà. Lascerò aperta questa questione.

    7.

    Conclusioni

    Le prove riportate in questo capitolo mostrano che fattori sia semantici che strutturali giocano un ruolo fondamentale nella distribuzione dell’accusativo preposizionale in sardo. Tuttavia, i fattori semantici (animatezza e determinatezza) sono largamente circoscritti agli usi facoltativi e variabili discussi nella sezione 3, mentre gli usi obbligatori vengono retti da una condizione che è essenzialmente sintattica (assenza di determinante), con una condizione addizionale di animatezza per quanto riguarda il campidanese. Il contrasto netto tra pronomi umani e inanimati rispetto all’uso dell’accusativo preposizionale può essere spiegato tramite la distinzione categoriale (nomi vs. determinanti), che porta anche alla più sottile differenza tra gli usi puramente ‘nudi’ di questi elementi e quelli legati al discorso.

    Fonti Aissen, Judith (2003): Differential Object Marking: Iconicity vs Economy, Natural Language and Linguistic Theory 21: 485–483. Boeddu, Daniela (2017): Estudio Diacrónico del Acusativo Preposicional Sardo, Tesi di dottorato, Universidad del País Vasco. disponibile al data di ultima consultazione: 23–10–2018. Boeddu, Daniela (2020): The Differential Object Marking of the Arborense dialect of Sardinian in language contact setting, Journal of Language Contact 13/1: 17–56. Blasco Ferrer, Eduardo & Ingrassia, Giorgia, Sardo e lingue romanze a confronto. Nuove prospettive per la genesi dell’accusativo prepozionale, in Iliescu, Maria, SillerRunggaldier, Heidi & Danler, Paul (a cura di) (2010): Actes du XXVe Congrès International de Linguistique et de Philologie Romanes. Berlin & New York: De Gruyter, 145–158. Bossong, Georg, Der präpositionale Akkusativ im Sardischen, in Winkelmann, Otto & Braisch, Maria (a cura di) (1982): Festschrift für Johannes Hubschmidt zum 65. Geburtstag. Bern: Franke, 579–597.

    Accusativo preposizionale in sardo: elementi strutturali e semantici

    185

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    Franck Floricic1

    Object marking e predicazione possessiva in sardo campidanese

    Abstract: Oggetto di questo contributo è presentare i dati del sardo campidanese riguardo alla problematica della marcatura dell’oggetto. Se i lavori consacrati all’“accusativo preposizionale” sono ormai numerosissimi e se molte lingue tipologicamente diverse conoscono una strategia di marcatura differenziale dell’oggetto, l’esplorazione sistematica di tale problematica in campo romanzo rimane tuttora da realizzare. È cosa nota che il sardo richiede la presenza della preposizione a davanti all’oggetto diretto quando il suo referente presenta tutta una serie di caratteristiche sintattiche e semantico-referenziali sulle quali ci soffermeremo in un primo tempo. Dopo aver presentato tutta una serie di dati generali sulle condizioni della marcatura dell’oggetto in sardo campidanese (varietà di Senorbí), ci interesseremo in particolar modo alla questione della predicazione possessiva. È risaputo che il castigliano conosce coppie come Tengo (a) un amigo que es catedrático de biología ‘Ho (a) un amico docente di biologia’ / Conozco a una persona que vive en Caracas ‘Conosco una persona che vive a Caracas’, nelle quali in condizioni morfo-sintattiche identiche si osserva una certa asimmetria nella marcatura dell’oggetto. Mentre nel secondo esempio la specificità del referente sembra far scattare la marcatura dell’oggetto, la situazione sembra molto più variable e fluttuante nelle costruzioni possessive con tener. Dato che il sardo campidanese ricorre all’ausiliare tenni nei contesti in cui il sardo logudorese ricorre all’ausiliare aere ‘avere’, ci interrogheremo sul modo in cui il sardo campidanese codifica il secondo attante delle predicazioni possessive.

    1 Tengo a ringraziare Eva-Maria Remberger per l’invito e l’organizzazione del Convegno Il Sardo in movimento, nonchè i partecipanti e i rilettori per le osservazioni e i suggerimenti. Un ringraziamento particolare va agli informatori senorbiesi che hanno accettato di rispondere alle mie infinite domande: Gianni Contu, Iolanda Contu, Paola Contu, Virginia Contu, Peppinu Cirina, Luisangela Congiu, e in particolare Gerardo Piras e Giovanni Garofalo dell’ITCG ‘Luigi Einaudi’ di Senorbì. Questo articolo è dedicato a Virginia Contu, scomparsa il 12 giugno 2020.

    188

    1.

    Franck Floricic

    Introduzione

    In questo contributo si vogliono presentare i dati del sardo campidanese riguardo alla problematica della marcatura dell’oggetto. Se i lavori consacrati all’accusativo preposizionale sono ormai numerosissimi e se molte lingue tipologicamente diverse conoscono una strategia di marcatura differenziale dell’oggetto (Differential Object marking, DOM), l’esplorazione sistematica di tale problematica in campo romanzo rimane tuttora da realizzare. È cosa nota che il sardo richiede la presenza della preposizione a davanti all’oggetto diretto quando il suo referente presenta tutta una serie di caratteristiche sintattiche e semantico-referenziali sulle quali ci soffermeremo in un primo momento (cfr. Rohlfs 1971, Bossong 1982 e 1991, Jones 1995a, b, in questo volume, Floricic 2003, ecc.). Dopo aver presentato tutta una serie di dati generali sulle condizioni della marcatura dell’oggetto in sardo campidanese (varietà di Senorbí), ci interesseremo in particolar modo alla questione dei costrutti possessivi e della predicazione possessiva. Cercheremo di mostrare come e secondo quali modalità la marcatura dell’oggetto e i costrutti possessivi interagiscono e come si manifesta la marcatura dell’oggetto in contesti particolari. La sezione 2 e i paragrafi successivi presentano dati generali sulla marcatura dell’oggetto in sardo e i parametri che la condizionano (definitezza, topicalità, ecc.). La sezione 3 inquadra il fenomeno del DOM sardo nella problematica più generale della transitività. Nella sezione 4 e nei paragrafi successivi vengono discussi DOM e predicazione possessiva in campidanese e in castigliano: nella misura in cui una predicazione possessiva può manifestarsi tramite una frase transitiva (cfr. Stassen 2009), cercheremo di indagare sino a che punto nella predicazione possessiva sia possibile riconoscere la relazione tra agente e paziente che caratterizza i costrutti transitivi e sino a che punto la predicazione possessiva con avere / tenere si discosta da tali costrutti. La sezione 5 conclude l’articolo.

    2.

    La marcatura dell’oggetto in Sardo: dati e problemi

    Una prima restrizione fondamentale cui è sottoposto il nostro studio – ma a dire il vero qualsiasi studio di natura dialettologica si imbatte sugli stessi problemi – riguarda i dati e le condizioni della loro raccolta. Come sottolinea Séguy (1973:430): ‘On ne pêche pas la syntaxe au questionnaire’: tous les dialectologues sont pénétrés de ce principe et ils ont raison. Les corpus des syntaxes dialectales (Remacle, Camproux, celui qu’étudie M. Rohlfs) ont été constitués à partir de phrases spontanées, saisies sur le vif, ou par l’exploration de l’écrit. Demander à un informateur de traduire dans son ver-

    Object marking e predicazione possessiva in sardo campidanese

    189

    naculaire un énoncé en français standard, c’est faire exactement ce qu’il faut pour obtenir un calque.2

    In altri termini i questionari presentano l’inconveniente di favorire la traduzione letterale delle domande cui si richiede l’elicitazione, inconveniente tanto più problematico quanto sono strutturalmente vicine la lingua di colui che realizza l’inchiesta e quella che cerca di descrivere. Ed Allières (1992:84) sottolinea come questo genere di situazione può favorire un atteggiamento molto particolare da parte dell’informatore: questi infatti può essere tentato di individuare, tra le costruzioni che produce, delle differenze semantiche che magari non esistono ma che conferiscono una specie di giustificazione a posteriori alla variazione strutturale. Naturalmente potremmo allungare notevolmente la lista dei problemi metodologici e pratici cui è confrontato il dialettologo, ed è chiaro che i dati da noi raccolti lo sono stati tenendo presenti questi problemi e cercando di evitarli quanto possibile.

    2.1.

    Il parametro della definitezza

    La definitezza è stata riconosciuta da tempo come parametro fondamentale nella fisionomia della marcatura dell’oggetto: il referente di un sintagma nominale definito (i. e. introdotto da un determinante definito) offre generalmente un grado di individuazione elevato,3 anche se va precisato che di per sé tale sintagma non dice niente del modo in cui viene costruito semanticamente il referente (cfr. il caso degli enunciati generici del tipo l’uomo è mortale o quello dei proverbi come il cane è il migliore amico dell’uomo). Nel caso del sardo campidanese, un oggetto diretto rappresentato da un sintagma nominale definito il cui referente è non umano esclude assolutamente la preposizione a, come mostrano gli esempi (1)–(4): (1) ˈeuzu papˈpau̯ zu ˈβãı˜ ‘Abbiamo mangiato il pane’. 2 “La sintassi non si afferra con i questionari. Tutti i dialettologi assumono questo principio ed hanno ragione. I corpora di sintassi dialettale (Remacle, Camproux, quello che studia M. Rohlfs) sono stati costituiti in base a frasi spontanee, colte sul vivo, o in base all’esplorazione dello scritto. Chiedere a un informatore di tradurre nella propria varietà un enunciato del francese standard, è fare proprio il necessario per ottenere un calco.” 3 Non è questa la sede per discutere il concetto di individuazione, che fa parte dei concetti più interessanti e più discussi in linguistica e filosofia: in che senso un’entità è quella che è e quali sono i tratti o le proprietà che la distinguono dalle altre; in che senso o in che misura due entità sono la stessa entità o sono entità distinte; l’ancoraggio spazio-temporale basta per identificare un’entità? (cfr. tra altri Strawson 1996:31–32).

    190

    Franck Floricic

    (2) miɳ ˈɖ anti vuˈrau̯ s attɔˈmɔbbili ‘Mi hanno rubato la macchina.’ (3) ˈissuzu ˈanti ˈeɳɖju s attɔˈmɔbbili ɛ ˈanti βiˈɣau̯ sa mɔtɔʧiˈklɛta ‘Loro hanno venduto la macchina e hanno preso la moto.’

    Si noti che negli esempi (1) e (2), il sintagma nominale che compare come oggetto diretto ha come referente un’entità specifica, come dimostra anche l’ancoraggio spazio-temporale del processo descritto dal verbo. Nel caso dell’esempio (3), l’espressione referenziale [s attɔˈmɔbbili] può certo indicare una macchina specifica, ma siccome la macchina è un’istituzione può anche darsi che [s attɔ ˈmɔbbili] faccia riferimento a quell’oggetto che ogni famiglia italiana possiede. Del resto nella seconda proposizione della frase il sintagma nominale [sa mɔtɔʧi ˈklɛta] non coglie un referente specifico, bensì un’entità astratta, un tipo ideale elaborato in base alle occorrenze particolari coinvolte in uno stato di fatto (proto)tipico.4 Orbene, che un sintagma nominale oggetto faccia riferimento a un’entità specifica o meno, la marcatura dell’oggetto non si verifica, e non si verifica nemmeno quando il referente è specifico e umano (cfr. gli esempi (4)– (5)): (4) ˈappu ˈβiu zu ðatˈtɔri ‘Ho visto il medico.’ (5) ˈmi zu ˈziɳɖiɣu ‘Ecco il sindaco!’ (6) ˈissa ɣɔnnɔʃˈʃiaða sa ˈʤɛnti ðɛ ˈβiɖɖa ‘Lei, conosceva la gente del paese.’ (7) su guˈvɛrnu nɔ ˈɔlliði adʤuˈðai is pasˈtɔrizi ‘Il governo non vuole aiutare i pastori.’

    Si noti fra l’altro che, benché espressioni come [zu ðatˈtɔri] ‘il medico’ o [zu ˈziɳɖiɣu] ‘il sindaco’ siano definite, rappresentano delle funzioni o dei ruoli nel senso di Fauconnier (1984:40–41), e in questo senso presentano un grado di individuazione minore rispetto ai valori colti dall’espressione definita. Negli esempi (6)–(7) invece, l’oggetto diretto è rappresentato da espressioni che o presentano un valore collettivo – cfr. [sa ˈʤɛnt ɛ ˈβiɖɖa] ‘la gente del paese’ – o presuppongono una frammentazione del campo referenziale: in effetti il sintagma nominale plurale [is pasˈtɔrizi] ‘i pastori’ non coglie un individuo unico ma l’insieme degli individui di una classe. Da questo punto di vista è perfettamente comprensibile, tenendo conto delle restrizioni semantiche sull’object marking 4 “Type as contrasted with class is a concept upon which in particular the differential psychologists have been working recently. It is an ideal or imaginative embodiment of certain predominant characteristics conceived to be raised to their highest power and to be untrammeled and undisturbed” (Collinson & Morris 1937:40).

    Object marking e predicazione possessiva in sardo campidanese

    191

    (i. e. la definitezza, l’animatezza, la topicalità, ecc.), che negli esempi (4)–(7) l’oggetto diretto non sia marcato. In un esempio come (8), dunque, dato che l’oggetto diretto [su ˈziɳɖiɣu] non è marcato, non lo è nemmeno nel caso dei sintagmi nominali alla sua destra, il cui grado di individuazione è minore: (8) ˈȝu̯ ãı˜ ɛ tʧikˈkɛɳɖi su ˈziɳɖiɣu ðe zenɔˈβriðiɖi/ su ˈziɳɖiɣu / is pasˈtɔrizi / unu βasˈtɔri ðe zenɔˈβriði ɣi ɣɔnˈnɔʃʃu / unu βasˈtɔri ‘Gianni sta cercando il sindaco di Senorbì / il sindaco / i pastori / un pastore di Senorbì che conosco / un pastore.’

    Si osserverà che al contrario di quanto succede in castigliano, la specificità o meno di un sintagma nominale indefinito non sembra costituire un tratto suscettibile di far scattare la marcatura dell’oggetto (cfr. tra l’altro Bossong 1982:581–582, 1991). Un po’ diverso è il caso dei pronomi indefiniti che verranno discussi più avanti. Intanto i nomi propri, per la loro intrinseca definitezza e per il loro alto grado di individuazione, richiedono solitamente la preposizione quando compaiono in funzione di oggetto diretto. Come illustrato negli esempi seguenti, questo vale non solo per i nomi propri di persona ma anche per i nomi di parentela, che semanticamente presentano proprietà molto affini: (9) (10) (11) (12) (13) (14)

    is karabiˈnjerizi ˈvunti ʒikˈkɛɳɖi a peppiˈneɖɖu ‘I carabinieri stanno cercando Peppinu.’ a peppiˈneɖɖu ɖˈɖ anti ˈpostu aˈintru ‘Peppinu, l’hanno messo in prigione.’ a ˈʒu̯ ãı˜ ɖɖu ɣɔnˈnɔʃʃizi ‘Gianni, lo conosci?’ ˈmi a luˈʧia ‘Ecco Lucia!’ nɔ isˈtruβisti a sˈsɔrrɛ ˈðua / nɔ isˈtruβisti (a) ˈfraðis ˈtuzu (meglio con “a”) ‘Non disturbare tua sorella ! / non disturbare i tuoi fratelli.’ ˈɖazi zalluˈðau̯ a bbabˈbai / babbu / sɔrˈrɛsta ˈðua ‘Hai salutato nonno/papà / tua cugina?’

    Se però i nomi propri di persona ammettono solo marginalmente la pluralizzazione, i nomi di parentela, invece, possono essere pluralizzati, e come ricordato in precedenza la pluralizzazione abbassa il grado di definitezza e di individuazione del referente. Tale parametro spiega senz’altro l’oscillazione nell’uso della preposizione a dell’esempio (13): [ˈfraðis ˈtuzu] ‘i tuoi fratelli’ è meno individuato di [ˈsɔrrɛ ˈðua] ‘tua sorella’ e si sarà notato che questo tipo di entità non richiede l’uso dell’articolo definito (cfr. invece [iz aˈmiɣu mˈmiuzu] ‘i miei amici’, dove l’articolo definito identifica e seleziona un insieme di entità all’interno della classe di individui).

    192 2.2.

    Franck Floricic

    Il problema dell’indefinitezza

    Più complesso e variegato è invece il comportamento dei pronomi indefiniti riguardo alla problematica della marcatura dell’oggetto. Con i pronomi indefiniti non umani, l’oggetto diretto non è marcato, come mostra l’esempio (15). Invece l’interrogativo personale [ˈkini] ‘chi’ e gli indefiniti personali totalizzanti [niʃ ˈʃunuzu] / [nˈnɛmɔzɔ] ‘nessuno’ e [ˈtottuzu] ‘tutti’ richiedono la presenza della preposizione a (cfr. (16)–(18)): (15) ˈita z ɛ tʧikˈkɛɳɖi ‘Cosa stai cercando?’ (16) a kˈkini z ɛ tʧikˈkɛɳɖi ‘Chi stai cercando?’ (17) nɔŋ ˈkrɛdasta a nniʃˈʃunuzu / nˈnɛmɔzɔ ‘Non credere nessuno!’ (18) im ˈbiɖɖa ˈtsiu ˈmiu ɣɔnˈnoʃʃið a tˈtottuzu ‘A Senorbí (i. e. in paese), mio zio conosce tutti quanti.’

    Evidentemente la particolarità degli indefiniti [+ umano] risiede nel fatto che due dimensioni in un certo senso contradditorie – l’indefinitezza e i tratti [+ animato] / [+ umano] – si intrecciano cosí da produrre un quadro referenziale particolarmente complesso. In Floricic (2003:265) si osserva che tottu kantos e nesciune costruiscono un dominio referenziale concepito e còlto nella sua integralità – cioè con un’estensione massima. In altri termini, abbiamo a che fare con degli exhaustive indicaters (cfr. Collinson & Morris 1937:25) che segnalano lo scanning mentale di una classe di individui finché l’insieme sia stato percorso esaustivamente. Quando la proprietà predicata non è valida per nessuno (ne ipse unu!) degli individui in questione, l’esito dello scanning è negativo.5 Nel caso delle interrogative introdotte da [ˈkini] ‘chi?’, viene percorsa ugualmente la serie delle entità suscettibili di occupare la posizione argomentale del predicato, ma l’ascoltatore è sollecitato per effettuare un’identificazione che il parlante non è in grado di compiere (cfr. (16)). Più complessa è invece la situazione con gli indefiniti come kaliŋˈkunu ‘qualcuno’: quest’indefinito presuppone in effetti lo stesso tipo di scanning mentale, uno scanning in virtù del quale una serie aperta di oggetti è percorsa senza riguardo delle proprietà distintive che li differenziano. Il percorso può tuttavia risolversi in due modi diversi: selezione aleatoria di uno qualsiasi degli oggetti della serie, o selezione di un oggetto particolare all’interno della serie. 5 Nel caso specifico degli indefiniti negativi come nessuno, Collinson & Morris (1937: 26) utilizzano il concetto di exhaustive rejecter: “In English we use not one, not a single one, no, no one, none (of them) as an ‘exhaustive rejecter’ which we can define as an indicator which draws attention away from the items of a plurality until all have been thus treated.”

    Object marking e predicazione possessiva in sardo campidanese

    193

    Ambedue le soluzioni corrispondono rispettivamente al valore generico o specifico dell’indefinito. Come mostrano gli esempi (19)–(20), non sembra che in senorbiese la specificità sia un parametro operativo nella marcatura degli oggetti diretti rappresentati da pronomi indefiniti [+umano]: (19) ˈassu ˈmɛrkau ˈappu ˈβiu (a) kaliŋˈkunu / kaŋˈkunu / ˈunu ɣi ɣɔnˈnɔʃʃizi ‘Al mercato, ho visto qualcuno che conosci.’ (20) ˈzɛu ʒikˈkɛɳɖi ɣaliŋˈkunu / ɣaŋˈkunu ɣi ɣisˈtjɔ˜iði z itaˈljanu ‘Sto cercando qualcuno che parli italiano.’

    Nell’esempio (19), il contesto indica chiaramente che gli indefiniti [kaliŋˈkunu] / [kaŋˈkunu] / [ˈunu] selezionano un individuo specifico, singolarizzato per dirla con Pottier (1960:673), identificato insomma in base a proprietà distintive, come si evince anche dalle coordinate spazio-temporali dell’enunciato. Invece nell’esempio (20), l’oggetto diretto del verbo cercare non fa riferimento ad un individuo specifico: anche in questo caso l’operazione mentale è un’operazione di scanning, ma di scanning che si risolve in una scelta aleatoria all’interno della classe degli individui. In questo senso, se si considera che la lettura di [kaliŋ ˈkunu] / [kaŋˈkunu] è in questo caso di tipo free-choice, si capisce che escluda più radicalmente la preposizione di quando offre una lettura specifica.

    2.3.

    Il parametro della topicalità

    Ceteris paribus, è più probabile che un DP definito in funzione di oggetto diretto sia introdotto dalla preposizione a se è topicale: in diversi lavori, vari autori come Iemmolo (2010, in corso di stampa) insistono sul fatto che nelle varietà esaminate (il catalano, il siciliano, i dialetti dell’Italia settentrionale, il francese), la marcatura dell’oggetto si verifica fondamentalmente e primariamente quando l’oggetto diretto rappresentato da un pronome di 1a o 2a persona è topicale. La topicalità costituisce però più che altro una tendenza, poiché come mostrano esempi come (21), in sardo campidanese l’uso della preposizione non è per niente obbligatorio davanti a un oggetto diretto topicale rappresentato da un sintagma nominale definito: (21) su ðatˈtɔri ɖˈɖ azi ˈβiu ‘Il medico l’hai visto?’ (22) a i bˈbiʒı˜u˜zu ˈðɔkkaða ˈzɛmpri a ɖˈɖuzu zalluˈðai (meglio con a) ‘I vicini, bisogna sempre salutarli.’ (23) a lwiˈzɛlla / a sɔrˈrɛsta ˈðua ɖˈɖ azi zalluˈðaða ‘Luisella / tua cugina, l’hai salutata.’

    194

    Franck Floricic

    (24) a ˈissu ɖɖu ɣɔnˈnɔʃʃizi ‘Lui, lo conosci?’

    Abbiamo segnalato in Floricic (2003) che i nomi propri di persona e i pronomi personali fanno parte dei contesti che tipicamente fanno scattare la marcatura dell’oggetto, come confermano gli esempi (23) e (24). Niente di strano, dunque, che in funzione di oggetto topicale queste espressioni siano marcate. Fra l’altro un esempio come (22) mostra che un sintagma nominale definito pluralizzato, se topicale, può favoreggiare la marcatura dell’oggetto. È altrettanto vero, però, che in quei contesti si osserva une certa oscillazione nell’object marking. Come bilancio provvisorio possiamo ricordare che i tratti [+umano] e [+animato] non costituiscono di per sé fattori sufficienti per far scattare la marcatura dell’oggetto. Il tratto [€definito] non costituisce una condizione sufficiente dato che a) nominali definiti possono non essere marcati; b) indefiniti come [ˈnɛmɔzɔ] / [niʃˈʃunuzu] in funzione di oggetto diretto richiedono la preposizione a. Ciò che è individuato, indiviso, omogeneo (nella struttura interna) e umano ha più probabilità di essere marcato rispetto a ciò che è non individuato, non umano e frammentato.

    3.

    I fondamenti della marcatura dell’oggetto

    Abbiamo discusso in Floricic (2003) la questione del fondamento della marcatura dell’oggetto e in questa sede possiamo solo ricordarne alcuni aspetti essenziali. Fondamentalmente una predicazione transitiva presenta uno stato di fatto nel quale un’entità (volitiva) che controlla l’evento esercita una modificazione della realtà per cui l’entità in funzione di oggetto viene in qualche modo condizionata o trasformata dal processo espresso dal verbo. Il soggetto della predicazione transitiva è dunque prototipicamente agentivo e l’oggetto diretto prototipicamente pazientivo (cfr. Hopper e Thompson 1980). Nel caso in cui l’oggetto diretto della predicazione sia rappresentato da un termine che offre tutte le proprietà di entità agentive, viene in qualche modo rovesciato l’ordine o l’orientamento ‘naturale’ della predicazione. Come sottolineato in Floricic (2003:270), in un evento che mette in scena due entità, esiste un’asimmetria tra il terminus a quo e il terminus ad quem della relazione, e tale asimmetria risiede nel contrasto tra un’entità fortemente individuata e un’entità poco individuata. Pottier (1968:89, 1992:174–175) illustra tale contrasto con esempi come Juan vio las flores in castigliano, dove le entità Juan e las flores assumono rispettivamente il ruolo di agente e quello di paziente all’interno della predicazione:

    Object marking e predicazione possessiva in sardo campidanese

    (25)

    Juan + i

    195

    vio las flores –

    Quando invece il punto di arrivo della relazione oggettiva è rappresentato da un partecipante ugualmente “dotato di potenza” per dirla con Pottier, il contrasto tra le due entità non è più assicurato: l’elemento in funzione di oggetto presenta allora tutte le caratteristiche di entità che prototipicamente assumerebbero il ruolo di agente (cfr. p.es. Bossong 1991:158 e 162, Herslund 1999:45–46, Naess 2007:155, Iemmolo 2010:241). Dunque più l’oggetto diretto presenta proprietà tipiche del soggetto, più è probabile che sia marcato dalla preposizione, e la sua marcatezza assicura in qualche modo l’asimmetria fondamentale tra un soggetto agentivo, da un lato, e un oggetto diretto pazientivo dall’altro. Questo tipo di ‘differenziale’ evoca naturalmente quello della dissimilazione in fonologia: dato un contesto che corrisponde al piede o alla Parola Fonologica, l’identità di due segmenti in una stessa posizione (i. e. l’attacco o il nucleo) in sillabe adiacenti o quasi adiacenti fa scattare una strategia di differenziazione. Da questo punto di vista, la marcatura differenziale dell’oggetto andrebbe ascritta a una restrizione quale l’Obligatory Contour Principle, che in fonologia proibisce l’adiacenza di elementi identici all’interno di uno stesso dominio (cfr. la problematica dell’Identity “Avoidance” discussa fra l’altro da Yip (1998)). Si osservi che negli esempi (21–24) – ad esempio (21) [(a) su ðatˈtɔri ɖˈɖ azi ˈβiu] ‘il medico l’hai visto?’ – l’oggetto diretto topicale è ripreso presso il verbo con un clitico oggetto co-indicizzato. In sardo però tale ripresa non ha raggiunto il grado di sintatticizzazione che mostrano le varietà in cui vige una strategia di DOM e per le quali un oggetto diretto topicale fortemente individuto è obbligatoriamente co-indicizzato presso il verbo. Del resto, Meillet (1995:103) segnalava che questo tipo di co-indicizzazione si manifesta anche in francese, seppur in modo residuale, in costrutti come il l’apporte le pain ‘(egli) lo porta il pane’. E lo stesso tipo di fenomeno lo menzionano in basco Gavel & Lacombe (1937:8–9), che però sottolineano come il basco abbia spinto più in là una tendenza insita in guascone e in castigliano, dove Le he hablado a Juan ‘ho parlato a Juan’ o Le he visto a Pedro ‘ho visto Pedro’ sono più naturali di He hablado a Juan o He visto a Pedro. Un aspetto fondamentale della coindicizzazione nei costrutti sovra-menzionati è che essa emerge fondamentalmente nelle costruzioni topicali. Ma dal momento in cui l’elemento topicale perde il suo statuto topicale, allora viene integrato sintatticamente e rimane solo in superficie il legame tra un argomento e il morfema che ne riprende il referente presso il verbo (cfr. Iemmolo in corso di stampa). Va da sé che i pronomi personali assumono un ruolo fondamentale sia nella genesi della marcatura dell’oggetto (cfr. in particolare il sincretismo delle

    196

    Franck Floricic

    forme pronominali di accusativo e dativo) che nei fenomeni di coindicizzazione (cfr. Kuryłowicz 1962:460, nota 4).

    4.

    DOM e predicazione possessiva

    Fra i verbi transitivi, un posto particolare spetta ai verbi esprimenti il possesso. Con questo tipo di verbo la relazione oggettiva offre delle particolarità che meritano una discussione a parte. Uno degli aspetti più interessanti del sardo campidanese è che ricorre all’ausiliare tenni ‘tenere’ per esprimere la possessione tramite un costrutto transitivo. Caratteristica che condivide con il castigliano, come vedremo nel paragrafo 4.3. Inutile precisare che la problematica della possessione e della predicazione possessiva è stata oggetto di molteplici lavori, sia in chiave teorica che storica o tipologica. Si parla generalmente di predicazione possessiva quando viene asserito il rapporto di possessione tra un possessore e un posseduto, la nozione di possessione in senso lato essendo intesa come rapporto di localizzazione per cui un termine Y è localizzato rispetto a un termine X nella cui sfera rientra in modo permanente o transitorio (sul concetto fondamentale di sfera personale, cfr. Bally 1926).

    4.1.

    Generalità sulla predicazione possessiva

    In effetti è stato ripetutamente osservato che le relazioni possessive espresse nelle lingue naturali non vanno ridotte al rapporto di possessione stricto sensu (Creissels 1979). Un verbo come il verbo avere, che è tutt’altro che raro a livello delle lingue del mondo (cfr. Creissels 1996: 151), è solo uno dei mezzi di cui dispongono le lingue per esprimere l’annessione di un elemento alla sfera personale di un individuo. Le frasi possessive possono essere allineate o meno sulla frase transitiva prototipica, i. e. con soggetto agentivo e oggetto pazientivo – le lingue possono ricorrere anche a costrutti esistenziali, locativi, comitativi, ecc. (cfr. Creissels 2013). Ad esempio, l’oggetto diretto delle predicazioni possessive espresse tramite il verbo avere difficilmente ammette la passivazione (cfr. Stassen 1999: 63), e questa restrizione è senz’altro da addurre al minor grado di dinamicità di questo verbo.6 Come osservano Keenan & Dryer (2007:332), “(…) it should be noted that

    6 Non va sottovalutata però la variabilità degli usi e valori di questo verbo: è evidente che in una frase come Ho un palloncino in mano, il verbo avere presenta un valore semantico e funzionale

    Object marking e predicazione possessiva in sardo campidanese

    197

    passives are often not formed freely on transitive verbs whose objects are not patients, not portrayed as being affected. Thus English verbs such as be, become, lack and have (in its possessive sense, e. g. John has a new car) do not easily passivize (*A new car is had by John)”. E già Benvéniste (1966:198–199) aveva sottolineato come l’‘avere’ fosse un ‘essere a’ rovesciato: avere un figlio malato non stabilisce una relazione oggettiva, segnala bensì uno stato del soggetto che nel caso specifico è affected dalla proprietà attribuita al figlio. E lo stesso discorso lo possiamo estendere ai casi in cui avere segnala uno stato psicologico, mentale, fisico, ecc. del soggetto (cfr. avere vergogna, fame, freddo, ecc.). Ora la statività relativa del verbo avere nelle predicazioni possessive comporta tutta une serie di implicazioni semantiche e distribuzionali.

    4.2.

    La predicazione possessiva in sardo campidanese

    Come abbiamo segnalato all’inizio della sezione 4, il sardo campidanese ricorre all’ausiliare tenni ‘tenere’ per esprimere la possessione. Va inoltre precisato che quest’ausiliare è richiesto in vari altri contesti: nei costrutti deontici / necessitivi e nei costrutti perifrastici resultativi (Blasco Ferrer 1986:163). E Blasco Ferrer (1986) segnala anche l’uso di [tenniri + participio] per indicare uno stato compiuto senza riferimento temporale (cfr. enunciati come non mi tochist su dinai, ca ddu tengiu contau ‘non toccarmi i soldi, che li ho contati’). Il verbo tenni ‘tenere’ non è però l’unica espressione di cui dispone il sardo campidanese per esprimere la possessione: il verbo pɔttai ‘portare’ è ugualmente disponibile e accomuna il campidanese con il logudorese (cfr. Seifert 1930:24–25). A prima vista sembrerebbe che il sardo campidanese tratti diversamente i casi di possessione “alienabile” e i casi di possessione “inalienabile”7: nel primo caso ricorre al verbo tenni ‘tenere’; nel secondo caso ricorre al verbo pɔttai ‘portare’ se la proprietà è transitoria, e a tenni ‘tenere’ se è inerente. Ma nel rapporto tra tenni e pɔttai, tenni sembra estensivo nel senso di Hjelmslev (1933:40–41): la sua sfera di impiego può ricoprire quella di pɔttai senza che il contrario sia vero:

    che non ricopre esattamente quello che affiora in frasi come Ho fame oppure Ho mio figlio che è autistico. 7 Utilizziamo tra parentesi queste nozioni perché danno l’impressione errata di una dicotomia semplice tra due tipi di relazioni. Ma come sottolinea Seiler (1981:2), “(…) the distinction [i. e. tra possessione alienabile e possessione inalienabile] cannot be reduced to a categorial one: Within one and the same language, a possessive relation to one and the same object (e. g. a kinsman) can be represented as either ‘inalienable’ or ‘alienable’; and different languages are not likely to make the distinction between ‘inalienable’ and ‘alienable’ in the same way. Thus, the distinction needs to be revised and rephrased in more appropriate terms.”

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    Franck Floricic

    (26) ˈfillu miu ˈtɛ˜˜ıði u˜a ˈðɔmu in sarˈdiɲɲa ‘Mio figlio ha una casa in Sardegna.’ (27) kusˈs omini βotˈtaða ˈunu ɣotˈteɖɖu in imˈmãu˜zu ‘Quest’uomo aveva un coltello in mano.’ (28) ˈtɛŋgu trɛ ffilluzu / unu ˈvillu iɱ ˈfranʧa ‘Ho tre figli / un figlio in Francia.’

    Certo una casa si può vendere e non costituisce in questo senso una possessione inerente. Va però sottolineato che il tipo di rapporto tra un individuo e la sua casa è molto più stabile e perenne di quello che corre tra un individuo e un oggetto qualsiasi che tiene in mano. Come mostra l’esempio (27), in quest’ultimo caso viene per lo più utilizzato il verbo pɔttai ‘portare’. La distribuzione dei due verbi è tuttavia molto più complessa di quanto sembri di primo acchito e nei costrutti più o meno idiomatici nei quali il nome / l’aggettivo esprime uno stato psicologico / mentale del soggetto, viene invariabilmente utilizzato il verbo tenni (cfr. gli esempi (29)–(30)): (29) ˈtɛŋgu / ˈtɛnʤu ˈzonnu / ˈvamini / ˈvriuzu / ziði ‘Ho sonno / fame / freddo / sete.’ (30) ˈtɛ˜˜ıði ˈβrɛssi ‘Ha fretta.’

    Si potrebbe però osservare che, pur non riferendosi a degli stati permanenti, la fame, il freddo, il sonno, ecc. costituiscono delle proprietà indissolubilmente associate agli esseri umani e che in un certo senso l’uso del verbo tenni codifica questo tipo particolare di rapporto. Comunque sia, va ribadito che in alcuni contesti tutti e due i verbi sono ammessi, come illustrato in (33)–(34): (31) ˈpɔttu za ˈɣamba uɱˈfraða ‘Ho la gamba gonfia.’ (32) ˈpɔttaða iz ˈgambaza βiˈuðaza ‘Ha le gambe velute.’ (33) ˈpɔttu / ˈtɛnʤu / ˈtɛŋgu is ˈpɛizi iʃˈʃustuzu (le persone anziane interrogate accettano solo ˈpɔttu) ‘Ho i piedi bagnati.’ (34) ˈluʧia ˈtɛ˜˜ıði / ˈpɔttaða iz ˈɔɣu ˈnjɛɖɖuzu / is ˈpiuzu ˈbjaŋkuzu ‘Lucia ha gli occhi neri / i capelli bianchi.’8

    Se negli esempi (31)–(32) la proprietà predicata, in quanto delimitata dal punto di vista spazio-temporale, può giustificare l’uso di pɔttai, gli esempi (33)–(34) in-

    8 Anche in questo caso le persone anziane sembrano utilizzare spontaneamente pɔttai. Che i capelli siano tinti o che siano naturalmente bianchi non sembra un fattore suscettibile di spiegare l’oscillazione registrata in esempi di questo tipo.

    Object marking e predicazione possessiva in sardo campidanese

    199

    vece, pur coinvolgendo ugualmente parti del corpo, mostrano che pɔttai e tenni sono ambedue ammessi nello stesso contesto. Visto che però le persone anziane sembrano favoreggiare il verbo pɔttai, è possibile che la forma tenni abbia ulteriormente esteso il suo campo funzionale a quello di pɔttai. Più complesso è il quadro della predicazione possessiva quando l’oggetto del verbo è un’espressione il cui referente è [+animato] / [+umano]. Nella varietà campidanese di Senorbí non è stato facile ottenere dagli informatori enunciati come ‘Ho mamma / Giovanni in casa’, poichè al posto di [ˈtɛŋgu (a) mamˈmai̯ / ˈȝu̯ ãı˜ iɳ ˈɖɔmu] producono molto più spontaneamente [ˈʧ ɛsti mamˈmai̯ / ˈʒu̯ ãı˜ iɳ ˈɖɔmu], con una predicazione esistenziale che segnala la presenza di un’entità in uno spazio determinato (cfr. Cruschina 2012:82, Creissels 2014).9 Nei contesti che illustrano gli esempi del tipo (35)–(37) viene regolarmente utilizzato tenni, ad esclusione di pɔttai. (35) a pˈpuru a pˈpuru ˈtɛnʤu / ˈtɛŋgu ɣaŋˈkunu ‘Finalmente ho qualcuno.’ (36) ˈtɛnʤu / ˈtɛŋgu u˜n aˈmiɣu / (a) luˈʧia ɣi mi ˈβɔiði adʤuˈðai ‘Ho un amico / Lucia che mi può aiutare.’ (37) ˈbabbu ˈðu ɖɖu ˈtɛ˜˜ızi aŋˈkɔra? ‘Il tuo babbo, ce l’hai ancora?’

    Nell’esempio (35) l’oggetto del verbo ‘avere’ è un indefinito il cui referente è specifico; abbiamo visto però che in questo tipo di contesti la specificità o meno del referente non costituisce un ingrediente suscettibile di far scattare il marcaggio dell’oggetto. La stessa osservazione vale per l’esempio (36), dove tuttavia gli informatori preferiscono chiaramente formulare in altro modo la frase, i. e. con una costruzione presentativa (cfr. [ˈʧɛsti u˜ŋ aˈmiɣu / luˈʧia ɣi mi ˈβɔiði adʤu ˈðai]). Il punto interessante – che segnaliamo con le dovute precauzioni dato l’aspetto marginale del costrutto – è che nell’esempio (36) il nome proprio in funzione di oggetto diretto può essere preceduto o meno dalla preposizione a, e la stessa oscillazione si osserva nell’esempio (37), dove per il suo carattere altamente 9 La questione del rapporto tra localizzazione e esistenza oltrepassa il quadro di questo contributo. Il rapporto strettissimo che lega i due concetti è dovuto al fatto che un’entità esistente esiste per forza in qualche luogo o in qualche porzione dello spazio. In una prospettiva come quella di Partee & Borschev (2007:155–156), una situazione di esistenza / localizzazione può essere strutturata sia dal punto di vista della cosa (thing), sia dal punto di vista della localizzazione (loc). In una frase esistenziale, l’elemento scelto come Perspectival Center è la localizzazione e si asserisce a proposito di quest’ultima che contiene o coinvolge una cosa. In una frase dichiarativa / locativa invece il punto di partenza dello scenario è la cosa di cui l’esistenza è presupposta, e la frase fornisce la localizzazione di tale entità o ne asserisce qualche proprietà. In questo senso C’è mamma in casa è una predicazione esistenziale mentre Mamma è in casa è una predicazione di localizzazione. Del resto solo quest’ultima è suscettibile di rispondere a una domanda come Dov’è mamma?.

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    individuato l’espressione topicale [ˈbabbu ˈðu] ‘tuo babbo’ dovrebbe in teoria richiedere la preposizione. In questo senso sembrerebbe che la predicazione possessiva del sardo campidanese espressa tramite tenni presenti un grado debole di transitività e che si avvicini a più di un titolo alle costruzioni stative / esistenziali con le quali, del resto, gli informatori le scambiano spontaneamente.

    4.3.

    La predicazione possessiva in castigliano

    I dati che precedono evocano immancabilmente il caso del castigliano, che nelle predicazioni possessive ricorre ugualmente al verbo tener, impostosi come concorrente di haber sin dal XIIIo secolo. Come sottolinea Pountain (1985:345): “The Thirteenth century is also the time, according to Seifert, when tener undergoes a dramatic expansion to become the equivalent of haber in all major contexts and even begins to be attested as a modal (tener de) and to be used itself as a Perfect Auxiliary”. Che l’espressione della possessione possa svilupparsi da verbi il cui significato fondamentale è quello della ‘prensione’ (i. e. tenere, portare) non ha nulla di eccezionale e Creissels (1996:152) sottolinea come questi verbi, al contrario di verbi come cogliere, ricevere, trovare, ecc. mettono l’accento su uno stato più che su un processo dinamico di cui tale stato sarebbe il risultato. Ora Creissels (2013) segnala coppie come (38) e (39), che presentano un contesto strutturale identico ma dove l’oggetto diretto del verbo tener è marcato nel secondo esempio e non nel primo: (38) Tiene un hijo invidente. (= Un hijo suyo es invidente.) (cfr. (1a-b) in Creissels (2013)) ‘Suo figlio è cieco.’ (39) Tiene a un hijo enfermo (= Un hijo suyo está enfermo). ‘Suo figlio è ammalato.’

    Difatti contesti come quelli in (39) sono contesti “stage-level”, in cui alcuni tratti o alcune proprietà hanno una validità ristretta dal punto di vista spazio-temporale. In altri termini la proprietà predicata, anche se applicata a un individuo specifico, non è una proprietà inerente o permanente del suo referente, al contrario di quanto accade in (38), che presenta una proprietà – la cecità – valida senza limitazioni spazio-temporali. A far scattare il marcaggio dell’oggetto in (39) sembrerebbe dunque, oltreché l’identificazione / estrazione di un individuo singolare / singolarizzato (i. e. selezionato in base a proprietà che lo distinguono dagli altri), la specificità e la puntualità dell’ancoraggio spazio-temporale nel senso che la proprietà predicata non si estende oltre l’istante specifico cui lo stato di fatto descritto viene ancorato. Va però sottolineato che in contesti in cui ci si

    Object marking e predicazione possessiva in sardo campidanese

    201

    aspetterebbe che l’oggetto diretto fosse marcato dalla preposizione a, il costrutto con tener sembra invece escluderla (Creissels 2013:464): (40) Tengo un amigo que te puede ayudar. (cfr. (2a-b) in Creissels (2013)) ‘Ho un amico che ti può aiutare.’ (41) Conozco a una persona que te puede ayudar. ‘Conosco una persona che ti può aiutare.’ (42) Tengo (a) mi hermano en Alemania. ‘Ho mio fratello in Germania.’

    In entrambi gli esempi (40)–(41), l’individuo a cui rinvia il sintagma nominale indefinito è in effetti un individuo particolare, identificato e identificabile in base alle informazioni contestuali (cfr. la relativa dipendente dal sostantivo). In realtà anche nei contesti come (40) una rapida ricerca su internet e su corpora della lingua spagnola mostra che il marcaggio dell’oggetto rimane possibile. Tale possibilità risulta però molto più limitata e un esempio come (42) mostra che, incluso nei casi in cui la marcatura dell’oggetto si realizza regolarmente (i. e. con i nomi di parentela), può anche non verificarsi.10 Evidentemente il valore semantico-funzionale del verbo utilizzato – e nel caso specifico quello del verbo tener – assume un ruolo fondamentale nella (non)marcatura dell’oggetto. Come osserva Creissels (2013:464–465): (…) in present-day Spanish, the possessive construction with tener ‘have’ is not fully identical to the prototypical transitive construction. Historically, tener is a transitive verb originally expressing the meaning ‘hold’, which in the expression of possession replaced the Romance possession verb haber, but in the development of the differential object marking system of Spanish, tener has acquired properties that distinguish it from other transitive verbs.

    Del resto è anche merito di Pottier (1968:87) l’aver sottolineato come il grado di attività / dinamicità del verbo determinasse un più o meno alto grado di ‘efficienza’ dello stato di cose espresso dal lessema verbale. In questo senso risulta evidente che verbi come matar ‘uccidere’ e tener ‘avere’ si collocano nei due estremi della scala: (43) +



    matar ver considerar tener

    10 Una ricerca molto rapida su internet mostra che sono attestati sia tengo a mi hijo conmigo ‘ho mio figlio con me’ che tengo mi hijo conmigo. Non è possibile indagare in questa sede questo tipo di costrutto, ma andrebbe senz’altro esaminata l’estensione funzionale e geolinguistica delle due opzioni.

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    In altri termini, a causa del loro valore semantico-funzionale, verbi come tener si discostano dal prototipo della relazione transitiva espressa dai verbi a sinistra della scala, con un soggetto agentivo fortemente individuato e con un oggetto diretto pazientivo il cui referente presenta un grado di individuazione debole.

    5.

    Conclusioni

    Le modalità di marcatura dell’oggetto in sardo coincidono in gran parte con quelle attestate in altre varietà romanze. In sardo campidanese – come del resto in logudorese – la definitezza non costituisce un parametro suscettibile di render conto del marcaggio dell’oggetto. Nemmeno il tratto [+ umano] può condizionare, di per sé, la marcatura dell’oggetto. Solo la congiunzione di questi parametri può favorire il marcaggio dell’oggetto: [+ umano] ∪ [+ definito] ∪ [+ puntuale] ∪ [+ topicale]. I vari parametri non hanno però lo stesso peso nel senso che il tratto [+ umano] / [+ animato] ha più peso del tratto [+ definito] (cfr. il caso degli indefiniti totalizzanti). L’oggetto diretto delle predicazioni possessive può essere marcato in modo diverso dalle predicazioni transitive prototipiche. In effetti la predicazione possessiva si differenzia dal prototipo delle costruzioni transitive per la sua minore dinamicità e per il minor grado di trasformazione dello stato di fatto cui riferisce. Tale differenziazione può senz’altro spiegare il diverso comportamento di verbi come tenni e tener in campidanese e in castigliano.

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    Guido Mensching

    La doppia serie di complementatori in sardo. Considerazioni dialettologiche e diacroniche

    Abstract: Il presente contibuto è incentrato sui complementatori sardi ca e chi, che, nel campidanese moderno ed in alcune varietà centrali del sardo, presentano generalmente una distribuzione complementare: il “sistema regolare”, ancora in vigore in molte località, usa ca per introdurre le completive con il verbo all’indicativo, mentre chi si trova all’inizio delle completive che selezionano il verbo al congiuntivo. In un primo momento l’articolo descrive, in maniera approssimativa, la distribuzione geografica attuale della doppia serie di complementatori e la co-occorrenza di ca e chi con i modi indicativo e congiuntivo nel sardo odierno. Questa parte serve da sostegno per la parte principale, in cui si presentano i risultati di una ricerca basata su corpus del sardo medievale. Si esamineranno a) i predicati delle proposizioni principali seguiti, rispettivamente, da chi e ca e b) la correlazione fra ca/chi e il modo del verbo nel sardo medievale. L’esame qualitativo delle strutture in questione insieme ai risultati quantitativi dimostrano, da una parte, che la doppia serie di complementatori era presente in tutta l’isola nel medioevo, e, dall’altra, che il funzionamento del sistema di complementazione (salvo alcune eccezioni verso la fine della documentazione medievale) corrispondeva già a quello delle varietà moderne che hanno conservato il sistema regolare. L’articolo si conclude con alcune riflessioni ulteriori di carattere diacronico.

    1.

    Introduzione

    Come è noto, il sardo campidanese, per rendere il complementatore italiano che nelle proposizioni subordinate completive, dispone di due complementatori diversi, ca e chi:1 1 Per ragioni di spazio, dobbiamo tralasciare qui la situazione simile, ma non identica, dei dialetti italiani meridionali, per i quali si possono consultare tra l’altro Rohlfs (1983) e Ledgeway (2003, 2006) nonché il riassunto in Bacciu & Mensching (2018:323–324).

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    Guido Mensching

    (1) a. Narat ca Maria benit (ind.).2 ‘Dice che Maria viene.’ b. Narat chi Maria bengiat (cong.). ‘Dice che Maria venga.’

    I fatti principali su questi complementatori sono ben conosciuti (cfr. p.es. Blasco Ferrer 1986:195–197, 1989; Manzini & Savoia 2005:467–469; Damonte 2006; Mensching 2012, 2017:391–392, 2019; Mensching & Remberger 2016: 287–288): ca deriva dal latino quia3 ed esprime un tratto [+realis], con il verbo della subordinata all’indicativo (cfr. (1a)), mentre chi deriva da quid (usato al posto di ut) ed esprime [-realis] con il verbo della subordinata al congiuntivo (cfr. (1b)). Per quanto riguarda la distribuzione diatopica, si legge di solito che la doppia serie di complementatori in campidanese si oppone a un sistema a un solo complementatore (chi) in logudorese e nuorese. In realtà, la situazione è più complessa. In primo luogo, la correlazione fra ca +ind. e chi+cong., a giudicare da ciò che sappiamo, è stabile in molte località (cfr. §2.2), ma non sembra essere presente ovunque (cfr. Damonte 2006 per Baunei e Manzini & Savoia 2011:60 per Laconi). Secondo, il sistema con la doppia serie di complementatori non è esclusivamente campidanese, ma è conosciuto in quasi tutto il territorio ‘arborense’ ed in alcune varietà centrali (nuoresi, barbaricine) confinanti con il campidanese. Inoltre, i sistemi con la doppia serie di complementatori possono essere divisi in vari subsistemi, come si può vedere nella figura 1 tratta da Mensching (2019): (C ≠ ‘what’) ei I one complementizer two complementizers (chi) (chi – ca) ei II relative clauses relative clauses introduced by chi introduced by chi or ca ei III ‘if ’ = si IV ‘if ’ = chi Figura 1. Sistemi di complementazione sardi, da Mensching (2019)4

    Una prima divisione fra le varietà che dispongono di due complementatori distinti deve essere fatta fra quelle che presentano la distinzione tra ca e chi anche 2 In tutti gli esempi, ho evidenziato i complementatori sotto investigazione in corsivo. Anche le indicazioni di modo e/o di tempo in corsivo sono state aggiunte dall’autore. 3 Al posto di quod o l’assenza del complementatore nella struttura dell’accusativo con infinito; per dettagli cfr. Blasco Ferrer (1989). 4 Con “C ¹ ‘what’” mi riferisco al fatto che i complementatori in sardo, a differenza delle altre lingue romanze, non sono identici all’elemento interrogativo ‘che cosa’, che in sardo si dice ite/ ita (dal lat. quido deu).

    La doppia serie di complementatori in sardo

    207

    nelle relative5 (sistemi III e IV) e quelle che introducono le proposizioni relative solo con chi (sistema II). Con la riserva che sono necessarie ulteriori ricerche, sembrerebbe che soltanto le prime si possano suddividere fra varietà che usano chi al posto di si nelle proposizioni condizionali (sistema IV) e quelle che hanno conservato il complementatore condizionale si (sistema III) (cfr. Mensching 2019, basato soprattutto sui dati di Manzini & Savoia 2005, 2011). L’uso di ca nelle relative e l’uso condizionale di chi nonché ca in funzione causale e chi in funzione finale non verranno trattati nel presente articolo, in cui considereremo soltanto le proposizioni completive. Oltre alla distribuzione diatopica attuale della doppia serie di complementatori e alla co-occorrenza dei due complementatori con i due modi indicativo e congiuntivo, ci interessa inoltre l’aspetto diacronico, e più specificamente la presenza e distribuzione di ca e chi nel sardo medievale. Finalmente, il presente articolo si propone di ricostruire/ analizzare lo sviluppo della distribuzione di ca e chi dal sardo medievale a quello odierno. La situazione medievale finora non è stata studiata a fondo. Dai pochi studi a nostra disposizione, sembrerebbe che la correlazione fra ca+ind. e chi+cong. non fosse stabile (cfr. p.es. Blasco Ferrer 2003:219). Per questo articolo,6 abbiamo usato il corpus ATLiSOr, che ci ha permesso di ottenere, per la prima volta, una visione completa della distribuzione sintattica dei due complementatori nel sardo antico. Nella sezione 2 vedremo, in maniera approssimativa, la distribuzione geografica attuale della doppia serie di complementatori e la co-occorrenza di ca e chi con i modi indicativo e congiuntivo nel sardo odierno. Queste due sezioni sono basate, in linea di massima, sull’articolo recente di Bacciu & Mensching (2018) e servono da sfondo per la parte principale, la sezione 3, in cui si presentano i risultati della ricerca di corpus sul sardo medievale. La sezione finale presenta alcune riflessioni di carattere diacronico.

    5 In particolare, ca è usato nelle proposizioni relative appositive e chi in quelle determinative. 6 Ringrazio i curatori del presente volume e un recensore anonimo per alcune annotazioni utili a una versione anteriore di questo articolo. Inoltre sono grato a Rosangela Lai per la revisione dell’articolo ed alcuni consigli.

    208

    Guido Mensching

    2.

    La situazione attuale dei complementatori ca e chi

    2.1

    Distribuzione geografica

    L’estensione del sistema (o più precisamente dei sistemi, cfr. la figura 1) a due complementatori distinti all’interno del dominio campidanese è ancora sconosciuta. Sulla base dei dati presenti in letteratura, soprattutto in Manzini & Savoia (2005) ed alcune altre fonti, p.es. l’atlante linguistico VIVALDI, si può individuare una vasta area che presenta sia ca che chi e che si estende dalle zone di transizione arborense e barbaricina fino all’altezza di Terralba, Orroli e Perdasdefogu. Più a sud, la doppia serie di complementatori è attestata almeno in alcune zone (p.es. Siliqua/Narcao e Settimo S. Pietro), ma la questione della distribuzione esatta nell’estremo sud resta aperta per mancanza di dati.7 La situazione risulta invece più chiara nel caso del limite settentrionale di questo fenomeno. Una prima ipotesi fu presentata in Mensching & Remberger (2016:280, cartina 17.3), secondo cui l’isoglossa in cui la presenza di ca e chi finisce per lasciare spazio solo a chi comincia ad ovest sopra Oristano e va in diagonale fino al golfo di Orosei, compresi Fonni e Dorgali come varietà centrali che possiedono ancora la distinzione fra ca e chi. La cartina in questione si basava sui dati degli studi già menzionati (e, inoltre, su Blasco Ferrer 1988, Kampmann 2010, Vahl 2012), ed era dunque provvisoria. L’abbiamo potuta confermare a grandi linee in Bacciu & Mensching (2018) attraverso un’inchiesta sul campo, con alcuni ulteriori chiarimenti. È mostrata nella figura 2. L’isoglossa che divide i territori di lingua sarda che possiedono solo il complementatore chi (nord) e quelli a due complementatori (sud) è chiamata “linea Riola–Dorgali” in Bacciu & Mensching (2018) perché, vista da sud a nord, l’ultima località ad ovest dove abbiamo ancora potuto trovare la doppia serie di complementatori è Riola Sardo, mentre ad est, la località più settentrionale è Dorgali. Il percorso della linea resta ancora ipotetico per la parte settentrionale del territorio classificato come “arborense” da Virdis (1988), perché rimangono alcune località in un quadrato formato dalle località di Macomer, Santu Lussurgiu, Ottana e Nughedu che non abbiamo visitato, sicché è possibile che uno studio ulteriore possa mostrare che, nella parte occidentale dell’isola, l’isoglossa in questione coincida più o meno con la frontiera settentrionale dell’arborense (Bacciu & Mensching 2018:355). Alla frontiera linguistica fra l’arborense e il 7 Sembra che alcuni luoghi periferici del campidanese (Cagliari, Sant’Antioco), ma anche altri come Arbus, Villacidro e Donigala, non possiedano il sistema a due complementatori. Per Cagliari, si veda DES (I,334, s.v. ki), dove Wagner dice che “nel parlare cittadino” esiste solo chi. Questo è ribadito in una grammatica del cagliaritano (Maxia 2010:113–115) scritta da una docente di lettere italiane e latine, parlante nativa del sardo di Cagliari. Ringrazio Rosangela Lai per questa informazione.

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    Figura 2. Isoglossa settentrionale della doppia serie di complementatori (da Bacciu & Mensching 2018:355, cartina 12.5)

    nuorese la linea passa a nord di Teti ed Austis (due paesi appartenenti alla parte settentrionale del “Gruppo del Gennargentu” secondo Wagner 1907:78). Nell’area dialettale nuorese, la linea attraversa la Barbagia, più particolarmente la parte centrale dell’area che Wagner (1907:3) chiamò “gruppo di Fonni”, dove la linea passa esattamente tra Lodine e Fonni (cfr. Bacciu & Mensching 2018:355). Ad est, la varietà più settentrionale che conosce la doppia serie di complementatori è quella di Dorgali, una varietà nuorese, ma che forma anche parte, secondo Wagner (1907:2) del “gruppo di Urzulei”, insieme ai paesi dell’Alta Ogliastra di varietà campidanese (Urzulei e, parzialmente Triei e Baunei), che mostrano tutti il sistema a due complementatori distinti (cfr. anche Blasco Ferrer 1988:133–134, 153 e Vahl 2012). Come vedremo nella sezione 3, nel sardo medievale la distinzione tra ca e chi era la regola in tutte le varietà. L’isoglossa attuale è dunque una linea di ‘ritirata’ che, infatti, nel sec. XIX e nei primi del XX doveva situarsi ancora più al nord (cfr. Bacciu & Mensching 2018:361–363).

    2.2

    La correlazione fra ca/chi, predicati sovraordinati e modo del verbo

    Nelle varietà che hanno la doppia serie di complementatori, come è stato detto nell’introduzione, il complementatore ca dovrebbe introdurre delle proposizioni subordinate all’indicativo, mentre chi co-occorrerebbe con il congiuntivo. A giudicare dai pochi esempi, quasi tutti i paesi sardi studiati in Manzini & Savoia

    210

    Guido Mensching

    (2005) mostrano questa regolarità,8 tranne Laconi. Abbiamo effettuato un’ampia inchiesta a Dorgali usando il questionario del progetto ASIt, descritta in dettaglio da Bacciu & Mensching (2018) e che mostra (sulla base di circa quaranta frasi) una concordanza al cento per cento fra ca+ind. e chi+cong. I predicati che scelgono ca +ind. sono soprattutto i verbi dichiarativi come nàrrere ‘dire’ ma anche dei predicati nominali come su contu ‘la storia’ (su contu ca ‘la storia secondo la quale’) nonché dei predicati epistemici (èssere sicuru ‘essere sicuro’), èssere cumbintu ‘essere convinto’). Invece, i verbi che esprimono un ordine, i predicati volitivi (chèrrere ‘volere’, isperare ‘sperare’) e deontici (p.es. bi cheret ‘ci vuole’) richiedono chi+cong. (cfr. Bacciu & Mensching 2018:331–335). La concordanza tra complementatore e modo verbale si mostra anche con quei verbi che permettono entrambi i modi: (2) a. Ais narau ca Mario non benit (ind.). ‘Avete detto che Mario non viene.’ (Bacciu & Mensching 2018:332) b. Nàra∙li chi telèfonet (cong.). ‘Digli di telefonare.’ lett. ‘Digli che telefoni.’ (Bacciu & Mensching 2018:333) (3) a. Totus an pessau ca proiat (ind.). ‘Tutti pensavano che avrebbe piovuto.’ (Bacciu & Mensching 2018:336) b. Pesso chi los apan (cong.) aprovaos totu. ‘Penso che li abbiano approvati tutti.’ (Bacciu & Mensching 2018:336)

    In (2), il modo, e dunque anche il complementatore, cambia con il senso del verbo, cioè nàrrere ha un senso dichiarativo in (2a), ma esprime un ordine in (2b). Negli esempi in (3), si vede che i verbi epistemici possono apparire sia con l’indicativo, sia con il congiuntivo, in base al grado di sicurezza (per una descrizione più esatta, cfr. Jones 1993:254), ma a Dorgali questo ha un riscontro anche nella scelta del complementatore (cfr. Bacciu & Mensching 2018:335–338; in cui si mostra un funzionamento simile anche per il verbo pàrrere ‘parere’). L’allineamento preciso fra ca e indicativo e chi e congiuntivo è stato confermato anche per la maggior parte dei paesi visitati nell’inchiesta di cui si è già parlato nella sezione 2.1. Più precisamente, abbiamo potuto confermare le stesse regolarità di Dorgali anche a Austis, Nughedu, Santu Lussurgiu e Seneghe (cfr. Bacciu & Mensching 2018:341–354). A questa regolarità o stabilità del sistema a due complementatori distinti si oppongono, invece, alcuni dati che mostrerebbero che, almeno in qualche altra varietà, l’allineamento fra complementatore e modo verbale possa essere meno rigido. È da notare, in generale, che le eccezioni che si trovano nella letteratura sono sporadiche, cioè si riferiscono a poche frasi accanto ad altre che presentano il sistema regolare. Così, nella nostra inchiesta a 8 Non si considerano qui gli usi di chi e ca in combinazione con espressioni temporali e causali del tipo innantis chi ‘prima che’ e sicomente ca ‘siccome’ che funzionano in modo diverso (cfr. Manzini & Savoia 2005:I,464; Bacciu & Mensching 2018:338–339; Mensching 2019).

    La doppia serie di complementatori in sardo

    211

    Narbolia, in un esempio con il verbo (i)sperare, un parlante ha usato l’indicativo presente e un altro il futuro, nei due casi con chi: (4) Spero9 chi arribbaus (ind. pres.) / eus arribbai (fut.) in tempus. ‘Spero che arriviamo / arriveremo puntualmente.’ (Bacciu & Mensching 2018:353)

    Blasco Ferrer (1986:196) mostra un esempio con pentzai ‘pensare’ seguito da ca con indicativo o congiuntivo e un esempio con crèiri seguito da ca o chi + condizionale. Infatti, per Laconi, Manzini & Savoia (2011:60) affermano che ca e chi (pronunciato [tʃi] a Laconi) si possono usare indifferentemente con l’indicativo o con il congiuntivo dopo il verbo crèiri ‘credere’: (5) a. dɛɔ krɛɔ ka/tʃi issu βuru / kraza ˈeniði (ind.) b. dɛɔ krɛɔ ka/tʃi issu βuru / kraza ˈɛɳdʒaða (cong.) ‘Credo che verrà anche lui.’ / ‘Credo che lui verrà domani.’

    Inoltre, in maniera simile, per Baunei, Damonte (2006:76–77) mostra esempi con ca + cong. e chi + ind. dopo pàrriri, cfr. (6a,b), citati nella versione LSC di Bacciu & Mensching (2018:330): (6) a. Mi paret ca custas cadiras sient (cong.) meda comodas. ‘Mi sembra che queste sedie siano molto comode.’ b. M’est partu chi totu funzionàt (ind. impf.) bene. ‘Mi è sembrato che tutto funzionasse bene.’

    Concludiamo che di fronte a un sistema stabile con una concordanza perfetta fra complementatore e modo, troviamo anche delle varietà in cui questo sistema sembra essere meno consolidato. A causa della scarsità di dati, la natura esatta di questa instabilità, di cui abbiamo soltanto alcuni esempi isolati, resta da stabilirsi in studi futuri. Qui ci limitiamo a osservare che l’uso del futuro o del condizionale, che si trova sporadicamente nelle frasi con chi in alcune varietà, può essere spiegato per il fatto che, similmente al congiuntivo, anche il futuro e il condizionale possiedono un tratto [-realis].

    3.

    I complementatori ca e chi nel sardo medievale

    Non ci sono finora degli studi approfonditi sulla situazione medievale. Wagner (1997 [1951]:326–327) si interessa esclusivamente dell’uso di ca nel discorso diretto (cfr. anche Remberger 2014); per un esempio, cfr. (7a) nella sezione 3.1. Nel DES (I,334, s.v. ki2), Wagner suggerisce che chi non esistesse affatto nel sardo 9 Narbolia si trova già al di sotto dell’isoglossa che separa is + consonante (nord) da s + consonante (sud).

    212

    Guido Mensching

    medievale, ma potrebbe essere che si riferisse soltanto al discorso diretto: “ki2 log. e camp. ‘che’, come introduzione delle proposizioni dirette, non figura nei testi antichi, dove si ha solo –> ka1, […]”. Blasco Ferrer (1989) conferma l’uso di chi e ca nella documentazione medievale e dà qualche esempio, specialmente con ca, interessandosi, per il resto, piuttosto della competizione posteriore fra le completive finite e la costruzione infinita con a dopo i verbi volitivi negati (Blasco Ferrer 1989:202–207). Blasco Ferrer (2003:219) scrive che “[c]on i verbi dicendi, sentiendi e voluntatis la congiunzione più usata è quı˘a > ca, che nelle oggettive concorre col modulo infinitivale, seguita da quı˘d > ki, che seleziona il congiuntivo”, suggerendo così che la distinzione non fosse netta (cfr. anche Mensching & Remberger 2017:370–371). In Bacciu & Mensching (2018:359–360) abbiamo contato tutte le occorrenze di ca e chi che introducono delle completive nell’antologia di Blasco Ferrer (2003). Si tratta di 23 occorrenze di ca e 30 occorrenze di chi. Delle 23 occorrenze di ca, 13 introducono il discorso diretto e quindi non sono utilizzabili per studiare la cooccorrenza con il modo verbale. I risultati erano: 1. Contrariamente alla situazione attuale, la doppia serie di complementatori è documentata in tutte le varietà del sardo medievale, cioè anche nel logudorese antico,10 2. La semantica dei predicati reggenti che scelgono ca e chi, rispettivamente, era già molto simile al sardo attuale (cfr. §2.2); la constatazione di Blasco Ferrer (2003:219) che i verba voluntatis preferivano ca non è confermata: con i verbi volitivi, chi si trova 11 volte e ca solo una volta. 3. Il complementatore ca appare quasi sempre con l’indicativo (tranne 2 eccezioni). 4. Il complementatore chi va con il congiuntivo in 26 casi e con il futuro in altri 4, non apparendo mai con l’indicativo del presente o del passato. I testi dell’antologia di Blasco Ferrer (2003) non sono numerosi, per cui si è proceduto, ai fini del presente articolo, a un esame di corpus più ampio, usando il nuovo corpus elettronico ATLiSOr. Con le funzioni di ricerca, sono state localizzate tutte le occorrenze di chi e ca con le loro varianti grafiche (ci, ki, qui; ca, ka, qua). Sono stati poi scelti e valutati soltanto i casi di complementazione. Non considerando il discorso diretto, sono stati trovati 148 casi di ca e 335 casi di chi; si veda la tabella nell’appendice. A continuazione, dopo aver chiarito qualche generalità strutturale (§3.1), si procede ad esporre i risultati relativi ai predicati delle proposizioni principali (§3.2) e alla correlazione fra ca/chi e modo del verbo (§3.3).

    10 La presenza di ca nel logudorese antico fu già notata dal Meyer-Lübke (1902:71–71).

    La doppia serie di complementatori in sardo

    3.1

    213

    Alcune generalità strutturali

    Le strutture basilari della complementazione con ca e chi nel sardo antico erano già le stesse del sardo moderno. Il complementatore ca è frequentemente usato dopo il verbo narre ‘dire’ per introdurre il discorso diretto (cfr. 7a), e indiretto (7b), cioè il caso che ci interessa ed in cui il verbo è sempre all’indicativo. Lo stesso vale, con pochissime eccezioni, anche quando ca è usato dopo predicati non dichiarativi che ancora oggi si costruiscono con ca (si veda (7c) e ancora il secondo ca del (7a)). Per dettagli, si vedano 3.2 e 3.3. (7) a. e nnaraitimi ca “donna, pus co vio ca vos inde paret male, torratemi su ki vi dei […]” ‘e mi disse: “Donna, dopo che vidi che vi pare male, rendetemi ciò che vi diedi […]”’ (Cond. SPS [fine XI sec.–metà XIII sec.] 146/172.29)11 b. naravat ca l’aviat (ind.) tenta isse inna(n)ti meu ‘diceva che egli l’aveva posseduta (cioè questa terra) prima di me’ (Cond. SPS [fine XI sec.–metà XIII sec.] 414/334.1) c. mi parvit male ca mi la furarat (piuccheperfetto ind.) ‘mi parve male che me l’avesse rubata’ (Cond. SPS [fine XI sec.–metà XIII sec.] 43/ 116.16

    Con i predicati nominali, ca è preceduto qualche volta dalla preposizione de, diversamente dall’uso moderno. Questa costruzione si trova spesso nell’espressione formulare testimonios12/testes de ca ‘testimoni del fatto che’: (8) a. Judicarunimi a battuier destimo(n)ios de ca fuit (ind.) coiuvatu Juste de Cora cun Susanna Cotroske e de ca fuit (ind.) fattu in furrithu su fetu in Elene Gathia, ki fuit ankilla mea ‘Mi obbligarono a presentare testimoni per il fatto che Juste de Cora fu sposato a Susanna Cotroske e che il figlio fu concepito in adulterio con Elene Gathia, che era una mia serva’ (Cond. SPS [fine XI sec.-metà XIII sec.] 272/240.6) b. T(e)st(e)s de ca vinki (ind.): donnu Mariane de Maroniu, in cuia corona binki in Kitarone, e Furatu Canbella e […] ‘Testimoni del fatto che vinsi: donno Mariane de Maroniu, nella seduta giudiziale di cui vinsi su Kitarone, e Furatu Canbella e […]’ (Cond. SPS [fine XI sec.-metà XIII sec.] 101/150.28)

    Il complementatore chi compare soprattutto dopo i verbi che esprimono un ordine (ciò è evidente per il carattere giuridico dei testi sardi medievali); ed in questi casi il modo è normalmente il congiuntivo (per dettagli ed altri verbi, anche eccezionalmente con l’indicativo, cfr. 3.3). Si trova spesso la sequenza formulare di due verbi di questo tipo davanti chi:13 11 Le referenze alle fonti seguono le indicazioni nel corpus ATLiSOr. Se non altrimenti specificato, le traduzioni sono mie. 12 Per lo più scritto destimonios. 13 Spesso si trova la formula statuit e ordinat, come in (9) e (10), ma anche altre, come, p.es., volemus et ordinamus (CdLA IX, 64.2).

    214

    Guido Mensching

    (9) Item statuit e ordinat qui nexiunu cumonargiu minore non uset (cong.) nen presumat (cong.) vender nen alienare, over in manera nixiuna tra(n)sportare […] ‘Item statuisce ed ordina che nessun contraente minore del contratto di soccida14 possa usare né presumere di vendere né togliere né trasportare in nessuna maniera […]’ (StSS [1316] L.II-60/85.4)

    I periodi assumono frequentemente una forma molto complessa, per esempio con una frase relativa incassata nella completiva come in (10a) oppure una frase condizionale, caso in cui il complementatore può essere ripetuto, come si vede in (10b): (10) a. Item statuit e ordinat qui sos cumonargios minores a qui est dadu su cumone depiat (cong. pres.)15 ogni a(n)no sinnare su bestiamen ‘Item statuisce ed ordina che i contraenti minori del contratto di soccida a cui è dato il gregge debba [sic] marchiare il bestiame ogni anno’ (StSS [1316] L. II-59/ 84.40) b. Item statuit et hordinat qui si algunu bestiame(n) si furet, qui in spaciu de octo dies su cumonargiu minore lu depiat (cong.) denu(n)ciare assu cumonargiu maiore ‘Item statuisce e ordina che, se si rubasse del bestiame, il contraente minore del contratto di soccida lo debba denunciare al contraente maggiore entro otto giorni’ (StSS [1316] L. II-58/84.30)

    3.2

    Predicati delle proposizioni principali

    Come si può osservare nell’appendice, oltre il verbo narre ‘dire’ [8]16 già menzionato nel 3.1, altri predicati sovraordinati dichiarativi che selezionano ca sono clamare ‘appellarsi’17 [2] e iscriver ‘scrivere’ [1]. Spesso si usano con ca anche dei predicati dichiarativi complessi del settore giuridico: ponne(r) in su condake ‘scrivere nel condake’ [5], faker memoria [2] / faker recordatione [5] ‘mettere a verbale’, torrare verbu ‘replicare’ [3]. Un predicato dichiarativo nominale (cfr. 3.1) con ca è carta ‘documento’ [3]. Si usano con ca anche alcuni predicati piuttosto performativi, come confessare [1], oltreché i già menzionati (in 3.1) predicati nominali testimonios [41] e testes [2]. I verbi epistemici che reggono ca sono connosker ‘conoscere’ [1], recordare·si [1] ‘ricordarsi’ e, soltanto nelle subordinate positive, anche iskire ‘sapere’ [4] (tranne un’occorrenza isolata con chi +ind., cfr. 3.3). Con ca, si trovano anche il verbo percettivo vider ‘vedere’ [5], il predicato complesso di modalità aer(e) ausancia ‘osare’ [1] e due verbi che 14 Cfr. DES I,429, s.v. kumone. 15 Cfr. Blasco Ferrer (2003:213); Bacciu & Mensching (2018:361). 16 Fra parentesi sono indicati i numeri delle occorrenze nel corpus. Si sono esclusi gli usi di ca per introdurre il discorso diretto. 17 DES I,397. Nei due passaggi (Cond. SMB 100/72.16 e 100/72.21) clamare mi sembra che sia usato nel senso di ‘appellarsi (per il fatto) che’, ma non escludo che questo ca sia causale, caso in cui non si dovrebbe considerarlo qui.

    La doppia serie di complementatori in sardo

    215

    esprimono un’interazione (chertare [19] ‘litigare (sul fatto che)’ e acordare·si ‘mettersi d’accordo’ [2]. Il complementatore chi è molto più frequente, fatto dovuto soprattutto alla funzione direttiva dei documenti giuridici. Soltanto i verbi ordinare, statuire e constituire (anche in combinazione (cfr. 3.1), danno un totale di 209 casi di chi e nessuno di ca. Altri predicati direttivi con chi sono ponne(r) ‘fissare’, mandare ‘incaricare’ [1], cumandare ‘ordinare’ [3], petere/petire ‘chiedere’ [4], pregare [3], rincherre(re) ‘richiedere’ [1], più narre, che – come ancora oggi – si usava con chi [5] quando esprimeva un ordine. In alcuni casi, il senso direttivo è soltanto implicito, come in aiungher ‘aggiungere (un obbligo)’ [1] e conten(n)e(r) ‘contenere (l’obbligo [che]’) [1]: (11) a. Ajun[ghendo] [qui cussu a qui ad esser chertadu deppiat (cong.) respondere] pro sa parti sua ‘Aggiungendo [l’obbligo] che colui che sarà citato in giudizio debba rispondere per la parte sua’ (CdLA [fine XIV sec.] LXVI/110.25) b. Et si i(n) su c(on)tractu s’aet c(on)te(n)ner q(ui) su reu no(n) siat (cong.) tentu i(n) alcunu casu dare securtate […] ‘E se nel contratto è contenuto [l’obbligo] che il reo non sia in nessun caso tenuto a dare sicurezza […]’ (StSS [1316] L. II–XXV/74.10

    Chi si trova anche con dei predicati di modalità che esprimono un obbligo, come esse(r) costrictu ‘essere costretto’ [1] o un permesso, come consentire [6], assolber [1]/dare assoltura [2] ‘autorizzare’ e ispiiare·si ‘risolvere’18 [1]. Al primo gruppo appartengono i predicati nominali debitu ‘obbligazione’ [1] e bandu ‘bando’ [2], mentre fa parte del secondo il nome consentimentu ‘consenso’ [1]. Chi compare inoltre con i verbi volitivi voler ‘volere’ [19] (tranne 1 con ca+cong., cfr. 3.3) e desiderare [2], con i verbi performativi proponne(r) ‘proporre’ [1] e iscusare·si ‘scusarsi’ [1] (con ind., cfr. 3.3) e con i verbi di attività mentale plaker ‘piacere’ [2] e oppone(r)·si ‘opporsi’ [1].19 Anche certi verbi epistemici si costruiscono con chi: intender ‘capire (una legge/un ordine nel senso [che]’, frequentemente con la negazione) [9] e considerare [1]. Che allegare ‘addurre’ [1] e il verbo performativo testificare ‘testimoniare’ [1] appaiano con chi è particolare, visto che la semantica dichiarativa, anche nel sardo antico, è abbastanza legata a ca (vedi sopra), salvo che si ipotizzi che i complementi di questi due verbi (nei contesti giuridici concreti) affermino dei fatti messi in dubbio o ad esame. Un caso simile sono i 18 Cfr. DES I,678, secondo il quale ispiiare significa “liberare dalle altrui pretese, rispondere per evizione”, “dispigliare, disbrigare”. Secondo Virdis (2003:301), come verbo riflessivo significa “risolvere una questione (più o meno controversa) per accordo e consenso reciproco che lascia le parti soddisfatte nei propri diritti”. L’attestazione in questione, dove il senso del verbo non è del tutto chiaro, si trova più avanti nella sezione 3.3 come (16a). 19 È possibile che i verbi plakere e oppone(r)·si presentino dei tratti volitivi nei testi giuridici del corpus, come osserva un recensore anonimo.

    216

    Guido Mensching

    verbi mustrare ‘dimostrare’ [2] e provare [15] (tranne un caso con ca). Inoltre notiamo l’uso di chi con dei predicati impersonali quali a(d)ven(n)it ‘avviene’ [3] per descrivere un evento futuro o ipotetico ed il predicato complesso negato non est rexone ‘non è giusto’ [1]. L’aspetto ipotetico o futuro è anche presente nel predicato nominale casu ‘caso’ [9] e nella formula adbengiat deu ‘Dio faccia’ [2]. Infine, notiamo un caso isolato di faker male et peccatu ‘fare male e peccato’ [1]. Riassumendo, possiamo dire che i predicati che scelgono chi sono soprattutto legati all’obbligo, al permesso, alla volontà, ma anche ad eventi o stati futuri e ipotetici o fatti messi in dubbio o da prendere in considerazione. Invece, i predicati che scelgono ca si riferiscono innanzitutto alla percezione ed al resoconto orale o scritto di fatti avvenuti o considerati come certi. Tutto ciò indica una forte connessione con i tratti [+realis] per ca e [-realis] per chi, concetto che nella letteratura si è impiegato anche per il sardo moderno (cfr. l’introduzione). È emblematico il caso di iskire ‘sapere’, che, come abbiamo visto, occorre fondamentalmente con ca nelle subordinate positive ([4] vs. [1] con chi), mentre si usava con chi quando il verbo iskire è alla forma negativa [4]. Non sembra dunque strano l’uso di chi dopo dei predicati in cui la verità o certezza dipende dal punto di vista oppure può anche essere soggetta a menzogna. Un tale verbo è il verbo performativo iurare ‘giurare’,20 che compare 28 volte con ca (più 2 del predicato composto dare iura) e 7 volte con chi. Il componente semantico fattuale di ca è confermato dal fatto che il verbo della frase subordinata dipendente di iurare introdotta da ca è in un tempo del passato in 26 casi,21 e soltanto due volte al presente. Queste due eccezioni si trovano nella stessa parte degli Statuti Sassaresi (StSS L.II–V/65.27) e sono identici: “cha no lu fachet i(n) frodu”, ‘che non lo fa in frode’, insistendo dunque sulla verità. Nel caso del verbo iudicare/iuigare ‘giudicare’ la selezione del complementatore dipende dal senso di questo verbo. Con il significato di ‘dare un giudizio (nel senso di una valutazione su un fatto o evento)’ prende ca [2], come in (12a), mentre nel senso performativo di ‘sentenziare’ prende chi [2], cfr. (12b): (12) a. (Et) ego battussili destimonios in co mi e iudicarun ca mi los deit (ind. perf. sintetico) sos ho(m)i(n)es d’Enene […], e binki ‘Ed io gli addussi testimoni per ciò di cui mi accusava e giudicarono che me li avevano dati, gli uomini di Enene [….], e vinsi’ (Cond. SPS [fine XI sec.-metà XIII sec.] 85/140.29) b. Et p(ro)ssa bagadia siat iuigadu qui paguit (cong.) (liras) CC ‘E per la donna nubile sia sentenziato che paghi duecento lire’ (CdLA [fine XIV sec.] XXI/78.6)

    20 Di solito seguito dall’espressione a gruke ‘sulla croce’, occasionalmente da ad bangeliu ‘sul vangelo’ e in anima sua ‘per la sua anima’. 21 Anche nelle due occorrenze di dare iura.

    217

    La doppia serie di complementatori in sardo

    Come nel sardo odierno, il verbo parre(r) ‘parere’ (cfr. 2.2) già nel sardo antico poteva prendere sia ca [7] che chi [4]. Osserviamo che, nei casi con ca, questo verbo appare sempre alla terza persona singolare del perfetto sintetico parsit (parvit nei Cond. SPS), mentre nei casi con chi si trova alla terza persona del futuro analitico a(e)t parre/parri, sicché il contenuto della subordinata è necessariamente [-realis].

    3.3

    La correlazione fra ca/chi e modo del verbo

    Come è stato già accennato all’inizio di questa sezione e a conferma dell’esame molto ridotto di Bacciu & Mensching (2018), si è potuto provare in questa analisi di corpus che la correlazione di ca con l’indicativo e chi con il congiuntivo era già sostanzialmente fissa nel sardo medievale. La tabella 1 mostra i risultati quantitativi: Tabella 1: Occorrenze totali ca + ind.

    ca + cong.

    chi + ind.

    chi + cong.

    146

    2

    18

    317

    Le eccezioni di ca sono minime (2 su 146, equivalente a 1,35 %). Si tratta di queste due attestazioni: (13) a. “De custus homines in uve chertat S(an)c(t)u Petru de Silki, ki […] non bennerun, gitteu volites ca ’nde fatha (cong.)?”. ‘Di questi uomini di San Pietro di Silki, che non vennero […], che cosa volete che ne faccia?’ (Cond. SPS [fine XI sec.-metà XIII sec.] 205/208.28) b. Et q(ui) aet punnare et dicere aet et sterminare ca non siat (cong.), siat ille exterminatu de magine sua in isto s(e)c(u)lo et post morte sua no(n) appat paradisu […]22 ‘E chi si adopererà, dirà e distruggerà [sic]23 che non sia, egli sia distrutto nella sua persona in questo mondo, e dopo la sua morte non entri in paradiso […]’ (Cond. SMB [XII–XIII sec.] 131/87.7)

    In quanto al (13a), insieme con l’unica eccezione trovata da Bacciu & Mensching (2018),24 dobbiamo ammettere l’uso molto eccezionale di ca+cong. dopo il verbo 22 Negli esempi dei Cond. SMB ho sostituito la marcatura delle abbreviazioni medievali originale in corsivo con delle parentesi. 23 Letteralmente ‘distruggerà, sterminerà’, cf. Blasco Ferrer (2003:243), s.v. sterminare. 24 Si veda la statistica in Bacciu & Mensching (2018:360). L’attestazione stessa non è menzionata. La riproduco qui: (i) sa volontate nostra, ci non volemus ca-nde siat minus dessa ecclesia de Sanctum Nicolaum ‘la nostra volontà che non vogliamo che sia meno (di quella) della chiesa di San Nicola’

    218

    Guido Mensching

    voler (che di solito prende chi+cong. [19]). Il (13b) è un caso problematico. Virdis (2003, 179) traduce: “E chi farà in modo e si adopererà perché questa ordinanza non sia applicata, sia questi distrutto nell’integrità della sua persona in questa vita, e dopo la morte non acquisti il paradiso […]”. La selezione della congiunzione perché (cioè la traduzione tramite una subordinata finale) sembra essere dovuta alla scelta del verbo adoperare, usato per tradurre tutta la formula punnare et dicere et sterminare, in cui risulta difficile assegnare un senso all’ultimo verbo. La costruzione è particolare anche perché ognuno dei tre verbi richiederebbe un’altra costruzione: punnare una costruzione infinitivale, o, in ogni caso (come verbo volitivo), chi; il latinismo dicere esigerebbe ca, mentre sterminare non seleziona nessun argomento frasale. L’attestazione (13b) sembra dunque un anacoluto e può essere considerata come erronea. La spiegazione, però, potrebbe essere un’altra: in un’altra parte dello stesso testo, nel Condaghe di Santa Maria di Bonarcado, troviamo un passaggio quasi identico, scritto in una mescolanza di sardo e latino,25 in cui la parte rilevante dice “Et qui ad pugnare ad isterminare et dicere quod non sit”. Questa frase oppure una frase latina sconosciuta che era alla sua origine deve essere servita come modello per il (13b), ma, rispetto ai verbi sovraordinati, fu resa in forma sbagliata. Il complementatore quod fu tradotto con ca in (13b), conservando il modo congiuntivo, che era già inusitato nella versione latina. Anche se chi va quasi sempre con il congiuntivo (317 di 335 occorrenze), le eccezioni sono più frequenti che con ca: l’indicativo compare in 18 casi, cioè nel 5,4 % delle occorrenze di chi. Si tratta di 5 occorrenze dopo iurare ‘giurare’ (di fronte a soltanto 2 con congiuntivo e 28 con ca+ind.), 1 occorrenza di iskire ‘sapere’ in una subordinata positiva (vs. 5 con ca+ind), 4 di provare (vs. 11 con cong., 1 con ca+ind.), 4 dopo il predicato nominale casu ‘caso’ e un’occorrenza di ciascuno di questi predicati: iscusare·si ‘scusarsi’, a(d)ven(n)it ‘avviene’ (vs. 2 con cong.), testificare ‘testimoniare’, ispiiare ‘risolvere’26, faker male et peccatu ‘fare male è peccato’. In un caso (cfr. l’esempio (14b) qui sotto) il verbo principale ha due proposizioni completive coordinate con la congiunzione e, una con chi e una con ca, ambedue con l’indicativo. Si osservi che queste occorrenze con chi e indicativo si trovano quasi esclusivamente in alcuni documenti del trecento, dunque abbastanza tardi: dei 18 casi, Carta di donazione di Pietro di Athen, 29 ottobre 1113 (Blasco Ferrer 2003:33); la stessa frase appare quasi identica nella copia di questa carta (Blasco Ferrer 2003:35). 25 Et q(ui) ad pugnare ad isterminare et dicere quod no(n) sit, siat ille exterminatu de magine sua in istu seculum et de via de paradisu (Cond. SMB 148 [100,7]) “E chi tenterà di vanificarla dicendo che non venga applicata, sia questi distrutto nella sua integrità fisica in questa vita e stornato dalla via del paradiso” (traduzione di Virdis 2003:199). Si osservi che qui, al contrario della sua traduzione del (13b), Virdis usa una completiva, e non una subordinata finale. 26 Cfr. la nota 18.

    La doppia serie di complementatori in sardo

    219

    9 si trovano nella Carta de Logu d’Arborea (scritta verso la fine del detto secolo) e 7 negli Statuti Sassaresi (copia del 1316), di cui si sa che la lingua è abbastanza italianizzata. È da notare inoltre, per la maggior parte delle attestazioni di chi con indicativo, che il tempo del verbo della proposizione subordinata è il presente (9 casi) come in (14a,b) o il futuro (5 casi, includendo 2 con il fut. ant.) come il (15a,b), dunque due tempi compatibili con il tratto [-realis] (cfr. §3.2): (14) a. multas boltas ave(n)it q(ui) inte(r) issos lieros qui sunt in sas d(i)ttas coro(nas) e(st) (ind. pres.) divissione, discordia o differencia in su juigari ‘molte volte avviene che tra i liberi che si trovano nelle dette sedute giudiziali c’è divisione, discordia o differenza nei loro giudizi’ (CdLA [fine XIV sec.] LXXVII/ 120.17 b. iuretilu q(ui) ciò q(ui) narat (ind. pres.) e(st) veru et cha no lu fachet (ind .pres.) i(n) frodu ‘lo giuri che ciò che dice è vero e che non lo fa in frode’ (StSS [1316] L.II–V./ 65.27) (15) a. cusu tav(er)narju a c’at p(ro)vadu q(ui) ad bendere (fut.) cu(n) att(e)ra mesura si no de cusas qui naradas su(n)t ‘quel taverniere a cui sarà provato che venderà [il vino] con altra misura che quelle che sono enumerate’ (CdLA [fine XIV sec.] CV/144.14) b. sa quale lite mover deppiat i(n)fra unu mese dave su die q(ui) aet isq(ui)re q(ui) su dannu l’aet ess(er) factu (fut. ant.) ‘la quale lite dovrebbe muovere entro un mese dal giorno in cui saprà che il danno gli sarà fatto’ (StSS [1316] L.I–CVI/44.6)

    Restano soltanto 4 occorrenze (quasi tutte tardive cioè del Trecento), in cui chi appare con l’indicativo di un tempo del passato, non compatibile con [-realis]. Per completezza, li enumeriamo tutti: (16) a. Ispiiarus·nos27 de pare dave Montes(an)c(t)u ki no(n) bi arramasit (ind. perf. sintetico) serbu apus iudice. ‘Risolvemmo (la questione) di comune accordo per Montesanto (in forma /decidendo) che non rimase nessun servo dal giudice.’28 (Cond. SMB [XII–XIII sec.] 100/73.7) b. e no(n) si ischusari(n)t legitimame(n)ti qui issos no(n) furu(n)t (ind. perf. Sintetico) culpabilis e no(n) co(n)sentibilis assa mo(r)ti de cussu tali homini ‘e non si scusassero legittimamente (dicendo che) essi non furono colpevoli né confessi della morte di tale uomo’ (CdLA [fine XIV sec.] III/58.12) c. testifico qui su p(re)sente processu est istadu closu (ind. perf. analitico.) et sigilladu ad dies ……. dessu mese ……. M. …….’ ‘Testimonio che il presente processo è stato chiuso e sigillato il giorno ……. del mese di …….. M. ………’ (StSS [1316] L.II–XXXIX/79.33) d. siat tentu de iurare q(ui) sa d(i)c(t)a carta f(a)c(t)a no(n) fuit (ind. imp.) i(n) frodu et q(ui) de cussu deppitu pacam(en)tu alcunu factu no(n) ’d’est (ind. pres.) i(n) tottu nen i(n) pa(r)te ‘sia tenuto a giurare che la detta carta non fu fatta in frode e che, di questo debito, non è stato effettuato nessun pagamento né intero né parziale’ (StSS [1316] L.II– XXXII/76.39) 27 Cfr. la nota 18.

    220

    4.

    Guido Mensching

    Conclusioni

    In questo articolo, siamo partiti dalla situazione attuale delle varietà sarde rispetto ai sistemi a due complementatori distinti, fenomeno tipicamente campidanese ma che si estende fino alle zone di transizione fra il campidanese ed il logudorese ed arriva fino alle manifestazioni più meridionali del sardo centrale (Fonni, Dorgali). In alcune varietà è stato provato che si tratta di un sistema che distingue nettamente fra ca + ind. e chi + cong., mentre in altre si trovano degli esempi di instabilità. Nella sezione 3 di questo articolo, attraverso un’analisi di corpus, abbiamo potuto mostrare per la prima volta, come l’allineamento tra complementatore e modo verbale fosse stabile, con scarsissime eccezioni fino al secolo XIII. Alcuni segni di instabilità si manifestano sporadicamente soprattutto a partire del secolo XIV. Questa instabilità non era caotica, cioè non consisteva in una semplice confusione tra ca e chi o tra indicativo e congiuntivo: mentre ca rimase fissamente legato all’indicativo, si danno in questo secolo, almeno nelle zone arborensi e logudoresi, delle attestazioni anche con chi + ind., che rimangono legate, comunque, soprattutto a dei contesti di [-realis]. I pochissimi casi trovati con l’indicativo nei tempi del passato (che sono dunque [+realis]) possono essere interpretati come i primi segni dello sviluppo settentrionale e centrale posteriore, in cui chi si è generalizzato a tutti i contesti precedentemente riservati a ca, conducendo infine alla perdita di ca in logudorese e nella maggior parte delle varietà nuoresi. Secondo Blasco Ferrer (1989:203), la tendenza del “costrutto con quid […] ad affermarsi all’infuori dei suoi limiti funzionali a scapito del costrutto con quia […] è già reperibile negli scritti dell’Araolla (sec. XVI).” Sulla base dei nostri risultati possiamo anticipare l’inizio di questo sviluppo a due secoli addietro. In questa luce, si può affermare che le varietà sarde che ancora oggi presentano una distinzione netta tra ca + ind. e chi + cong. continuano la situazione medievale di prima del Trecento. Invece, per quelle varietà attuali in cui si sono trovate delle eccezioni (cfr. §2.2), gli esempi di chi + ind. come (4), (5a) e (6b) entrerebbero nello schema ritrovabile negli Statuti Sassaresi e nella Carta de Logu, mentre l’estensione di ca al congiuntivo (cfr. (5b) e (6a) nella sez. §2.2) si rivela come un’innovazione.

    28 La costruzione di questa frase è poco chiara e forse difettosa. Virdis (2003:155) traduce: “Risolvemmo la questione e ci separammo a Montesanto perché non vi rimase alcun servo da parte del giudice.” Se chi avesse un senso causale qui, questa attestazione si dovrebbe togliere dalla nostra statistica.

    La doppia serie di complementatori in sardo

    221

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    Appendice Risultati della ricerca di corpus predicati reggenti

    ca +ind.

    ca +cong.

    chi +ind.

    chi +cong.

    narre ‘dire’

    8

    -

    -

    -

    clamare ‘appellarsi’

    2

    -

    -

    -

    iscriver ‘scrivere’

    1

    -

    -

    -

    allegare ‘addurre’

    -

    -

    -

    1

    ponne(r) in su condake ‘scrivere nel condaghe’

    5

    -

    -

    -

    faker memoria ‘mettere a verbale’

    2

    -

    -

    -

    faker recordatione ‘mettere a verbale’

    5

    -

    -

    -

    torrare verbu ‘replicare’

    3

    -

    -

    -

    3

    -

    -

    -

    connosker ‘conoscere’

    1

    -

    -

    -

    recordare·si ‘ricordarsi’

    1

    -

    -

    -

    iskire ‘sapere’

    4

    -

    1

    -

    non iskire ‘non sapere’

    -

    -

    -

    4

    verbi dichiarativi

    predicati dichiarativi composti

    predicati dichiarativi nominali carta ‘documento’ verbi epistemici

    224

    Guido Mensching

    Risultati della ricerca di corpus (continuazione) predicati reggenti

    ca +ind.

    ca +cong.

    chi +ind.

    chi +cong.

    intender ‘capire’

    -

    -

    -

    9

    considerare

    -

    -

    -

    1

    5

    -

    -

    -

    1

    -

    -

    -

    kertare ‘litigare’

    19

    -

    -

    -

    accordaresi ‘mettersi d’accordo

    2

    -

    -

    -

    verbi direttivi

    -

    -

    -

    -

    -

    -

    -

    209

    ponne(r) ‘fissare’

    -

    -

    -

    2

    mandare ‘incaricare’

    -

    -

    -

    1

    cumandare ‘ordinare’

    -

    -

    -

    3

    petere/petire ‘chiedere’

    -

    -

    -

    4

    pregare

    -

    -

    -

    3

    rincherre(re) ‘richiedere’

    -

    -

    -

    1

    narre ‘dire (esprimendo un obbligo)’

    -

    -

    -

    5

    aiungher ‘aggiungere (un obbligo)’

    -

    -

    -

    1

    conten(n)e(r) ‘contenere (un obbligo)’

    -

    -

    -

    1

    -

    -

    -

    1

    debitu ‘obbligazione’

    -

    -

    -

    1

    bandu ‘bando’

    -

    -

    -

    2

    -

    -

    -

    6

    verbi percettivi vider ‘vedere’ predicati di modalità aer(e) ausancia ‘osare’ verbi che esprimono un’interazione

    ordinare, statuire, constituire

    29

    predicati complessi d’obbligo esse(r) costrictu ‘essere costretto’ predicati nominali d’obbligo

    verbi permissivi consentire

    29 Spesso coordinati tra di loro (tipo “constituimus et ordinamus”) o anche con boler: “ordinamus et bolemus”.

    225

    La doppia serie di complementatori in sardo

    Risultati della ricerca di corpus (continuazione) predicati reggenti

    ca +ind.

    ca +cong.

    chi +ind.

    chi +cong.

    assolber ‘autorizzare’

    -

    ispiiare·si ‘risolvere’

    -

    -

    -

    1

    -

    1

    -

    -

    -

    -

    2

    -

    -

    -

    1

    voler ‘volere’

    -

    1

    -

    19

    desiderare

    -

    -

    -

    2

    confessare

    1

    -

    -

    -

    proponne(r) ‘proporre’

    -

    -

    -

    1

    iscusare·si ‘scusarsi’

    -

    -

    1

    -

    iudicare/iuigare ‘giudicare (nel senso di sentenziare)’

    -

    -

    -

    2

    testificare ‘testimoniare’

    -

    -

    1

    -

    28

    -

    5

    2

    2

    -

    -

    -

    testimonios ‘testimoni’

    41

    -

    -

    -

    testes ‘testimoni’

    2

    -

    -

    -

    plaker ‘piacere’

    -

    -

    -

    2

    oppone(r)·si ‘opporsi’

    -

    -

    -

    1

    iudicare/iuigare ‘giudicare (nel senso di dare un giudizio’)

    2

    -

    -

    -

    mustrare ‘dimostrare’

    -

    -

    -

    2

    provare

    1

    -

    4

    11

    predicati complessi permissivi dare assoltura ‘autorizzare’ predicati nominali permissivi consentimentu ‘consenso’ verbi volitivi

    verbi performativi

    iurare ‘giurare’ predicati composti performativi dare iura ‘giurare’ predicati nominali performativi

    verbi d’attivita mentale

    verbi dimostrativi

    226

    Guido Mensching

    Risultati della ricerca di corpus (continuazione) predicati reggenti

    ca +ind.

    ca +cong.

    chi +ind.

    chi +cong.

    7

    -

    -

    4

    1

    2

    verbi impersonali paret ‘pare’ a(d)ven(n)it ‘avviene’ predicati complessi impersonali non est rexone ‘non è in conformità con la legge’

    -

    -

    -

    1

    -

    -

    1

    -

    -

    1

    -

    -

    -

    -

    3

    9

    altri predicati verbali faker male et peccatu ‘fare male e peccato’ punnare et dicere et sterminare

    30

    altri predicati nominali casu ‘caso’

    30 Si veda la discussione dell’esempio (13b) in §3.3.

    Lessico

    Antonietta Dettori

    I colori nel sardo. Percezione e denominazione

    Abstract: Il contributo analizza la percezione dei colori nel sardo, ricostruita attraverso l’analisi del lessico cromatico fondamentale. Facendo riferimento all’ipotesi evolutiva di Berlin & Kay (1969), vengono messi in evidenza i diversi stadi in cui si è articolato in diacronia il settore terminologico esaminato. La descrizione del lessico di base è condotta all’interno delle rispettive aree cromatiche, che evidenziano la produttività linguistica e culturale della categorizzazione dei colori. La ricerca – di cui il presente contributo costituisce uno studio preliminare – si basa su materiali linguistici provenienti dallo spoglio di atlanti, vocabolari, letteratura scientifica, ma si avvale anche di materiali di prima mano, raccolti sul campo a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso.

    1.

    Lo stato degli studi

    La rassegna degli studi deve fare prioritario riferimento ai grandi atlanti linguistici del Novecento, per l’importanza che la documentazione raccolta ebbe nella ricerca sulle terminologie cromatiche isolane.1 La prima documentazione sistematica del lessico dei colori nel sardo è infatti quella rilevata per l’AIS negli anni venti del secolo scorso. I materiali raccolti confluirono nel Dizionario etimologico sardo (DES) del Wagner, studioso che, come è noto, condusse tra il 1925 e il 1927 le inchieste programmate nell’isola da Jaberg e Jud. 1 Nella trascrizione del sardo adotto con qualche adattamento la grafia semplificata – modellata sulla grafia italiana – proposta dalla Rivista Italiana di Dialettologia (cfr. Sanga 1978:167–176). Sottolineo che la sibilante intervocalica si realizza come sonora e che, nelle attestazioni del log. e del camp., le occlusive sorde intervocaliche si sonorizzano e spirantizzano; il grafema -ddtrascrive le occlusive retroflesse sonore che continuano -ll- e sgi la fricativa palatale sonora. Secondo consuetudine, non si accentano le parole piane; l’accento grave o acuto delle vocali medie toniche ne rappresenta l’articolazione aperta o chiusa. Uso la grafia IPA per i tipi lessicali di base e per forme di più complessa articolazione. Le parole riprese da altre fonti conservano la grafia originaria.

    230

    Antonietta Dettori

    La documentazione dell’atlante – compresa la parte non cartografata custodita dall’Università di Zurigo2 – costituì una delle fonti fondamentali dei materiali analizzati dal Kristol (1978, 1979, 1980) nei suoi lavori sui cromonimi romanzi, che includono ovviamente anche il sardo. In riferimento ai cromonimi isolani lo studioso ne sottolinea la distribuzione diatopica rappresentativa di stratificazioni in diacronia. Si sofferma in particolare sull’ “azzurro” alla cui ricostruzione – rappresentata anche attraverso una schematica carta linguistica dei tipi lessicali – concorrono la possibilità di delineare l’ordine cronologico, seppur approssimativo, di introduzione dei termini e la loro distribuzione geografica moderna. A parere del Kristol (1978:53), è proprio la cronologia del lessico sardo che consente di trarre informazioni importanti per la comprensione della diacronia del lessico cromatico post-latino relativo all’ “azzurro”. Di particolare importanza sono due antichi fenomeni che la lingua sarda presenta: a) l’impiego di termini latini con slittamento semantico, tratto rappresentato dal romanista con le forme variu (< varius), usato a designazione di occhi glauchi, azzurrognoli, e sambing˘u (