Il professore e il pazzo 8845932605, 9788845932601

Nel cuore di quella grande impresa dello spirito moderno che fu la redazione dell'"Oxford English Dictionary&q

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Il professore e il pazzo
 8845932605, 9788845932601

Table of contents :
Simon Winchester - Il professore e il pazzo
Risvolto 1
Risvolto 2
Frontespizio
Colophon
Indice
IL PROFESSORE E IL PAZZO
Prefazione
1. Nel cuore della notte a Lambeth Marsh
2. L'uomo che insegnava il latino alle mucche
3. La follia della guerra
4. La raccolta delle figlie della terra
5. Come fu concepito il grande dizionario
6. L'intellettuale del blocco 2
7. Parole, parole, parole
8. «Annulated, art, brick-tea, buckwheat»
9. L'incontro di due menti
10. Il taglio più crudele
11. Poi, solo i monumenti
Post scriptum
Nota dell'autore
Ringraziamenti
Letture consigliate
Traduzione dei testi in esergo

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Simon Winchester

IL PROFESSORE E IL PAZZO Adelphi

Nel cuore di quella grande impresa dello spirito moderno che fu la redazione dell’Oxford English Dictionary è nascosta da sem­ pre ima storia straordinaria. Il primo a sco­ prirla, e in parte a viverla, fu il professor James Murray, anima e responsabile del maestoso progetto. Dopo anni di lavoro, Murray si rese infatti conto di come una parte consistente dei lemmi - che qualsiasi «letterato» poteva redigere, su base volon­ taria - arrivassero alla redazione da un uni­ co posto in Inghilterra, e recassero in calce sempre la stessa firma: «W.C. Minor». A questo punto Murray decise di incontrare il suo prezioso e infaticabile collaboratore, salvo scoprire che il luogo da cui tutte quel­ le lettere partivano era Broadmoor, e ü lo­ ro autore uno degli ospiti più in vista del te­ mibile manicomio. Sì, anni prima, per le strade di Londra, W.C. Minor - un medico militare reduce dalla Guerra di Secessione, e vittima di una gravissima sindrome paranoide - aveva ucciso un passante, e adesso era rinchiuso in una cella dove gli era stato concesso di trasferire la sua collezione di li­ bri antichi. L’incontro fra questi due per­ sonaggi era già materia per un grande ro­ manzo vittoriano. A Simon Winchester, in fondo, non è rimasto che scriverlo. Ma, d’al­ tra parte, solo lui avrebbe potuto farlo.

Di Simon Winchester, nato a Londra nel 1944 e residente oggi negli Stati Uniti, Adelphi ha pubblicato L’uomo che amava la Cina (2010) e Atlantico (2013). H professore e il pazzo è apparso per la prima volta nel 1998.

LA COLLANA DEI CASI 126

DELLO STESSO AUTORE:

Atlantico L'uomo che amava la Cina

Simon Winchester

IL PROFESSORE E IL PAZZO Traduzione di Maria Cristina Leardini

ADELPHI EDIZIONI

TITOLO originale:

The Professor and the Madman A Tale of Murder, Insanity, and the Making of the « Oxford English Dictionary »

© 1998

SIMON WINCHESTER

All rights reserved

© 2018 ADELPHI EDIZIONI S.P.A.

MILANO

www.adelphi.it

ISBN 978-88-459-3260-1

Edizione

Anno 2021

2020

2019

2018

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INDICE

Prefazione

11

1. Nel cuore della notte a Lambeth Marsh 2. L’uomo che insegnava il latino alle mucche 3. La follia della guerra 4. La raccolta delle figlie della terra 5. Come fu concepito il grande dizionario 6. L’intellettuale del blocco 2 7. Parole, parole, parole 8. Annulated, art, brick-tea, buckwheat 9. L’incontro di due menti 10. Il taglio più crudele 11. Poi, solo i monumenti

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Post scriptum Nota dell’autore

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Ringraziamenti Letture consigliate Traduzione dei testi in esergo

'ZAl

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IL PROFESSORE E IL PAZZO

alla memoria di G. M.

Ogni capitolo è preceduto in esergo da una voce originale dell’ Oxford English Dictionary, La traduzione dei testi si trova al termine del volume.

PREFAZIONE

Mysterious (mistùrias), a. [f. L. mystêrium Mystery1 + ous. Cf. F. mystérieux.] 1. Full of or fraught with mystery; wrapt in mys­ tery; hidden from human knowledge or under­ standing; impossible or difficult to explain, solve, or discover; of obscure origin, nature, or purpose.

Narra la leggenda che una delle più straordinarie conversazioni nella storia della letteratura moderna eb­ be luogo nel 1897, in un pomeriggio tardoautunnale freddo e brumoso, a Crowthome, un paesino nella con­ tea del Berkshire. Uno degli interlocutori era nientemeno che il profes­ sor James Murray, direttore editoriale dell’ Oxford En­ glish Dictionary. Quel giorno egli aveva percorso ottanta chilometri in treno da Oxford per incontrare un perso­ naggio enigmatico, il dottor William Chester Minor, uno dei più prolifici tra le migliaia di collaboratori volonta­ ri le cui fatiche costituivano una colonna portante della creazione del dizionario. Da quasi un ventennio questi due uomini corrispon­ devano regolarmente sulle più sottili questioni di lessi­ cografia inglese, ma non si erano mai incontrati. Ogni volta, sembrava che il dottor Minor non volesse o non potesse lasciare la sua casa di Crowthorne, che non voles­ se recarsi a Oxford. Non dava mai alcun tipo di giustifi­ cazione, né faceva altro se non esprimere il proprio ram­ marico. Il professor Murray, tuttavia, che dal canto suo riusci­ va a liberarsi solo di rado dalle incombenze del lavoro nel quartier generale del suo dizionario, il famoso Scrip­ torium di Oxford, desiderava ardentemente e da lungo tempo incontrare e ringraziare questo misterioso colla­ boratore che tanto stuzzicava la sua curiosità. E ancor 11

più verso la fine degli anni Novanta, quando ormai il dizionario si avviava al compimento della prima metà: piovevano riconoscimenti ufficiali su tutti i suoi creato­ ri, e Murray voleva essere sicuro che a ogni singola per­ sona coinvolta, anche a quelle così palesemente schive come il dottor Minor, venisse riconosciuto il prezioso lavoro che aveva svolto. Pensò dunque di fargli visita.

Una volta presa la decisione, gli telegrafò le sue inten­ zioni, aggiungendo che gli sarebbe stato più comodo prendere il treno che arrivava alla stazione di Crowthome (allora conosciuta, a dire il vero, come la stazione del Wel­ lington College, in quanto serviva la famosa scuola ma­ schile che sorgeva in quel paese) subito dopo le due di un certo mercoledì pomeriggio di novembre. Il dottor Mi­ nor mandò un telegramma a giro di posta per dire che lo attendeva con molto piacere e che sarebbe stato il benve­ nuto. Durante il viaggio da Oxford Murray trovò bel tem­ po e treni in orario; tutto, insomma, prometteva bene. Alla stazione ferroviaria c’erano ad attenderlo un luci­ do landò e un cocchiere in livrea, che insieme a lui riper­ corsero a ritroso i sentieri delle campagne del Berkshire. Dopo una ventina di minuti la carrozza svoltò in un lun­ go viale fiancheggiato da alti pioppi e infine si fermò da­ vanti a un edificio di mattoni rossi, imponente e alquanto minaccioso. Un servitore dal fare solenne accompagnò il lessicografo al piano di sopra, in uno studio tappezzato di libri dove, dietro un’immensa scrivania di mogano, sede­ va un uomo di indubbia importanza. Il professor Murray fece un inchino formale e si lanciò nel breve discorso di saluto che tante volte aveva provato: « Buon pomeriggio a voi, signore. Sono il professor James Murray della Philological Society di Londra, di­ rettore editoriale deW Oxford English Dictionary. È un ve­ ro onore e un vero piacere fare finalmente la vostra co­ noscenza, perché voi siete senza dubbio il mio più assi­ duo collaboratore, il dottor W.C. Minor, vero? ». 12

Ci fu una breve pausa, un’aria di momentaneo e reci­ proco imbarazzo. Un orologio ticchettava rumorosa­ mente. Si udirono passi attutiti neU’ingresso. Un lonta­ no sbattere di chiavi. E poi l’uomo dietro la scrivania si schiarì la voce e parlò: « Me ne rincresce, signore, ma non sono io. Non è af­ fatto come pensate. In realtà io sono il direttore del ma­ nicomio criminale di Broadmoor. Il dottor Minor è qui, senza dubbio. Ma è un detenuto. E ricoverato da più di vent’anni. E il nostro paziente di più antica data».

Benché i documenti governativi ufficiali che riguarda­ no questo caso siano segreti, e siano rimasti sotto chiave per più di un secolo, mi è stato recentemente permesso di vederli. Ciò che segue è la storia strana, tragica e tutta­ via spiritualmente edificante che essi svelano.

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NEL CUORE DELLA NOTTE A LAMBETH MARSH

Murder (nre-jdai), sb. Forms: a. i morpor, -ur, 3^4 morire, 3-4, 6 murthre, 4 myrjjer, 4-6 murthir, morther, 5 Se. murthour, murthyr, 5-6 murthur, 6 mwrther, Se. morthour, 4-9 (now dial. and Hist, or arch.) murther; ft. 3-5 murdre, 4-5 moerdre, 4-6 mordre, 5 moordre, 6 murdur, mourdre, 6- murder. [OE. mordor neut. (with pl. of masc. form morpras) = Goth, maurpr neut.:OTeut. *wwr/?rom:-pre-Teut. *mrtro-m, f. root *mer-\ mor-’, mr- to die, whence L. morì to die, mors (morti-) death, Gr. popxôç, ftporôç mortal, Skr. mr to die, marò masc., mrti fem., death, mòr­ ta mortal, OSI. mïrëti, Lith. mirti to die, Welsh marw, Irish marp dead. The word has not been found in any Teut. lang, but Eng. and Gothic, but that it existed in Conti­ nental WGer. is evident, as it is the source of OF. murdre, murtre (mod. F. meurtre) and of med. L. mordrum, murdrum, and OHG. had the derivative murdren Murder v. All the Teut. langs, exc. Gothic possessed a synonymous word from the same root with different suffix: OE. mord neut., masc. (Murth1), OS. mord neut., OFris. morth, mord neut., MDu. mort, mord neut. (Du. moord), OHG. mord (MHG. mort, mod. G. mord), ON. mord neut.:-OTeut. *wwr/?o-:-pre-Teut. *mrto-. The change of original d into d (contrary to the general tendency to change d into d before syllab­ ic r) was prob, due to the influence of the AF. mur­ dre, moerdre and the Law Latin murdrum. 1. The most heinous kind of criminal homicide; also, an instance of this. In English (also Sc. and U.S.) Law, defined as the unlawful killing of a hu­ man being with malice aforethought; often more explicitly wilful murder.

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In OE. the word could be applied to any homi­ cide that was strongly reprobated (it had also the senses ‘greatwickedness’, ‘deadly injury’, ‘torment’). More strictly, however, it denoted secret murder, which in Germanic antiquity was alone regarded as (in the modem sense) a crime, open homicide being considered a private wrong calling for blood-re­ venge or compensation. Even under Edward I, Brit­ ton explains the AF. murdre only as felonious homi­ cide of which both the perpetrator and the victim are unidentified. The ‘malice aforethought ’ which enters into the legal definition of murder, does not (as now interpreted) admit of any summary defini­ tion. A person may even be guilty of ‘wilful murder’ without intending the death of the victim, as when death results from an unlawful act which the doer knew to be likely to cause the death of some one, or from injuries inflicted to facilitate the commission of certain offences. It is essential to ‘murder’ that the perpetrator be of sound mind, and (in England, though not in Scotland) that death should ensue within a year and a day after the act presumed to have caused it. In British law no degrees of guilt are recognized in murder; in the U.S. the law distin­ guishes ‘murder in the first degree’ (where there are no mitigating circumstances) and ‘murder in the second degree’.

Nella Londra vittoriana, persino in un posto tanto malfamato e notoriamente infestato dal crimine come Lambeth Marsh, il rumore di colpi d’arma da fuoco era un evento rarissimo. Lambeth Marsh era un luogo sini­ stro, un guazzabuglio di baracche e peccato che si ac­ quattava fosco e minaccioso sulle rive del Tamigi, pro­ prio di fronte a Westminster; ben pochi londinesi ri­ spettabili avrebbero mai ammesso di esservisi avventura­ ti. Era inoltre una parte della città decisamente violenta: a Lambeth si appostavano i briganti, una volta c’era sta16

ta una serie di strangolamenti, e in ogni vicolo affollato c’erano borseggiatori della peggior specie. Fagin, Bill Sikes e Oliver Twist sarebbero stati perfettamente a pro­ prio agio nella Lambeth vittoriana: era la Londra dickensiana all’ennesima potenza. Ma non era un posto per uomini armati di pistola. Ai tempi del primo ministro Gladstone, il criminale arma­ to era un fenomeno poco conosciuto a Lambeth, e an­ cor meno in tutta la vastità metropolitana di Londra. Le armi da fuoco erano costose, ingombranti, complicate da usare, diffìcili da nascondere. Allora, e ancora oggi, l’uso di un’arma del genere in un’azione criminale era considerato in qualche modo un atto poco britannico, qualcosa di cui scrivere e da registrare fra gli eventi rari. « Fortunatamente » proclamava un compiaciuto edito­ riale del foglio settimanale di Lambeth « in questo pae­ se non abbiamo alcuna esperienza del reato di “omici­ dio a mano armata”, tanto comune negli Stati Uniti ». E così, il 17 febbraio 1872, quando una breve scarica di tre colpi di revolver risuonò poco dopo le due di un sabato notte rischiarato dalla luna, quel rumore fu inu­ sitato, inaudito, sconvolgente. Le tre esplosioni (forse quattro) furono forti, molto forti, e riecheggiarono nell’aria fredda, umida e velata della notte. Vennero udite (e, considerata la loro rarità, solo per caso imme­ diatamente riconosciute) da un poliziotto giovane e ze­ lante di nome Henry Tarrant, allora assegnato alla divi­ sione L del comando di polizia di Southwark. Gli orologi avevano da poco battuto le due, avrebbe spiegato in seguito il suo verbale; lui stava svolgendo con la consueta flemma gli incarichi del turno di notte: camminava lento sotto gli archi del viadotto vicino alla stazione ferroviaria di Waterloo, scuoteva le serrature dei negozi, e malediceva il freddo che lo gelava sin nel­ le ossa. Quando udì gli spari, Tarrant usò il fischietto per al­ lertare i colleghi che sperava fossero di pattuglia nelle vicinanze, e iniziò a correre. In pochi secondi aveva già 17

attraversato il labirinto delle stradine misere e scivolose di quello che ai tempi veniva ancora considerato un sob­ borgo ed era sbucato vicino al fiume, sull’ampia spiana­ ta di Belvedere Road, da cui era sicuro che fossero venu­ ti i colpi. Due poliziotti, Henry Burton e William Ward, senti­ rono il fischio acuto e si precipitarono sulla scena. Secon­ do il suo verbale, Burton si slanciò in direzione dell’eco di quel suono e si imbattè nel suo collega Tarrant, che a quel punto stava trattenendo un uomo come per arre­ starlo. « Presto! » gridò Tarrant. « Correte sulla strada: è stato colpito un uomo! ». Burton e Ward corsero verso Belvedere Road e in pochi secondi trovarono il corpo im­ mobile di un uomo morente. Si inginocchiarono, e dei passanti notarono che avevano scagliato via casco e guan­ ti e stavano curvi sulla vittima. C’era del sangue che si allargava sul marciapiede, macchiando un punto che per molti mesi a venire sa­ rebbe stato descritto dai giornali londinesi più sensazio­ nalisti come il luogo esatto di un crimine orrendo, di Un FATTO TERRIBILE, di UH CASO ATROCE, di UD VILE OMICIDIO.

«La tragedia di Lambeth»: così i giornali giunsero infine a chiamarla, come se la semplice esistenza di Lambeth non fosse già in sé qualcosa di simile a una tragedia. E tuttavia questo fu un avvenimento davvero insolito, anche per gli standard molto bassi degli abitan­ ti di Lambeth. Poiché, sebbene il luogo dove era avve­ nuto l’assassinio fosse stato negli anni testimone di mol­ ti strani episodi, del genere narrato con dovizia di parti­ colari nei romanzacci gialli da quattro soldi, proprio questo dramma doveva dare inizio a una catena di con­ seguenze assolutamente senza precedenti. E mentre al­ cuni aspetti di questo crimine e dei suoi strascichi si sa­ rebbero rivelati tristi e quasi incredibili, non tutti, come dimostrerà questo resoconto, sarebbero risultati total­ mente tragici. Anzi. 18

Ancora oggi Lambeth è una zona della capitale bri­ tannica singolarmente sgradevole, del tutto anonima, stretta tra l’ampio ventaglio di strade e linee ferroviarie che portano i pendolari delle contee meridionali den­ tro e fuori dal centro cittadino. Vi sorgono la Royal Fes­ tival Hall e il Southbank Centre, costruiti sui terreni del­ la fiera organizzata nel 1951 per risollevare gli animi dei londinesi, provati dal razionamento dei viveri e ri­ dotti allo stremo. Per il resto, è un posto sgradevole e senza carattere: file di caseggiati che sembrano prigioni dove sono ospitati ministeri governativi minori, il quar­ tier generale di una compagnia petrolifera, frustato cru­ damente dai venti invernali, pochi pub senza importan­ za, qualche edicola, e l’opprimente presenza della sta­ zione di Waterloo (recentemente ampliata con il termi­ nal per gli espressi del tunnel sotto la Manica), che eser­ cita una cupa attrazione magnetica su tutta la zona cir­ costante. Le autorità ferroviarie di un tempo non si curarono mai di costruire qualche hotel sontuoso vicino alla sta­ zione di Waterloo, pur avendo invece realizzato delle strutture mostruose e lussuosissime nei pressi delle altre stazioni londinesi, come Victoria e Paddington, e persi­ no St. Paneras e King’s Cross. Lambeth è da molti anni una delle parti peggiori di Londra: sino a pochissimo tempo fa, prima dell’ulteriore riqualificazione dell’area della Festival Hall, nessun personaggio della benché mi­ nima importanza o distinzione ha mai voluto soffermar­ visi, né un viaggiatore vittoriano ai tempi delle coinci­ denze fra treno e battello, né altri, per nessuna ragione, ai giorni nostri. Sta gradualmente migliorando, ma la sua reputazione la perseguita. Cento anni fa era decisamente sordida. Era ancora bassa, paludosa e non bonificata, un gorgo acquitrinoso di sentieri dove un triste fiumiciattolo detto Neckinger colava nel Tamigi. Il territorio era posseduto congiuntamente dall’arcivescovo di Canterbury e dal duca di Cornovaglia, proprietari terrieri che, ricchi abbastanza per 20

diritto ereditario, non si preoccuparono mai di svilup­ parlo alla maniera dei grandi signori di Londra (Gros­ venor, Bedford, Devonshire), che crearono sulla riva opposta del fiume piazze, palazzi e case a schiera. Era invece una zona di magazzini, baracche e file mise­ revoli di case mal costruite. C’erano fabbriche di lucido da scarpe (come quella dove lavorò il giovane Charles Dickens), saponifici, bottegucce di tintori, fornaciai pro­ duttori di calce, e concerie dove per scurire le pelli si usa­ va una sostanza raccolta sulle strade ogni notte dai più immondi tra gli indigenti del luogo: la merda di cane. Un odore nauseante di lievito e luppolo aleggiava sul­ la zona, spandendosi dai camini del grande birrificio Red Lion che si trovava in Belvedere Road, appena più a nord dell’Hungerford Bridge. E questo ponte ben rappresentava ciò che circondava tutta l’area paludo­ sa: le ferrovie, alte sopra gli acquitrini, su viadotti dove sbuffavano e ansimavano i treni (compresi quelli della London Necropolis Railway, la linea ferroviaria costrui­ ta per trasportare i cadaveri ai cimiteri del sobborgo di Woking) e traballavano e sobbalzavano chilometri di va­ goni. Lambeth era considerata da tutti come una delle zone più rumorose e sulfuree di una capitale che aveva già una pessima reputazione per il frastuono e la spor­ cizia. Di fatto, Lambeth Marsh era anche appena al di fuori della giurisdizione legale sia della City sia di Westminster. Dal punto di vista amministrativo apparteneva, almeno fino al 1888, alla contea del Surrey, il che significava che le leggi relativamente severe in vigore per i cittadini della capitale non valevano più per chiunque si avventuras­ se, attraversando uno dei nuovi ponti come Waterloo, Blackfriars, Westminster o Hungerford, nella babele di Lambeth. Perciò il sobborgo divenne in breve noto come luogo di baldoria e dissolutezza, un posto dove abbonda­ vano pub, bordelli e teatri osé, e dove un uomo poteva trovare sollazzi per tutti i gusti (e malattie di ogni specie) spendendo non più di una manciata di penny. 21

Per vedere uno spettacolo ritenuto non accettabile dai censori di Londra, per poter bere assenzio fino alle prime ore dell’alba, per comprare la pornografia più ricercata giunta fresca di contrabbando da Parigi, o per avere a disposizione una ragazza di qualsiasi età senza preoccuparsi di essere rincorsi da un poliziotto o dai suoi genitori, si andava «dalla parte del Surrey», come si soleva dire, a Lambeth.

Tuttavia, come la maggior parte dei sobborghi, per la sua economicità Lambeth attirava anche persone rispet­ tabili in cerca di casa e lavoro e, a detta di tutti, George Merrett era fra queste. Faceva il fuochista al birrificio Red Lion; era lì già da otto anni, reclutato nella squadra che teneva accesi i fuochi giorno e notte per mantenere i tini in ebollizione e trasformare l’orzo in malto. Aveva trentaquattro anni e viveva poco distante, nei Cornwall Cot­ tages, al numero 24 di Cornwall Road. George Merrett, come tanti dei lavoratori più giovani della Londra vittoriana, veniva dalla campagna, e così pure sua moglie Eliza. Lui era originario di un villaggio nel Wiltshire, lei del Gloucestershire. Entrambi avevano lavorato in una fattoria e, senza la protezione di un sin­ dacato, senza la solidarietà dei loro compagni, erano stati pagati un tozzo dì pane per svolgere lavori umilian­ ti sotto padroni spietati. Si erano incontrati a una fiera nelle colline dei Cotswolds e avevano giurato di partire insieme per cogliere le infinite opportunità offerte da Londra, che si trovava ormai a sole due ore di viaggio sul treno espresso che partiva da Swindon. Andarono a vi­ vere inizialmente nella zona settentrionale di Londra, dove, nel 1860, nacque la loro primogenita, Clare; poi si spostarono verso il centro della città; infine, nel 1867, quando la famiglia era diventata ormai troppo grande e dispendiosa e il lavoro manuale troppo scarso, si ritrova­ rono a vivere vicino alla sede del birrificio, nel laido bru­ lichio di Lambeth. 22

L’ambiente in cui viveva la giovane coppia e il loro al­ loggio sembravano usciti da uno dei disegni realizzati da Gustave Doré nelle sue inorridite spedizioni da Parigi: un mondo indistinto di mattoni rossi e fuliggine e ferraglie stridenti, di casamenti ammucchiati l’uno sull’altro, di minuscoli cortili sul retro con il gabinetto e il pentolone per bollire il bucato e i fili per stenderlo, e ovunque nell’aria un fetore umido e sulfureo, e quel buonumore tipicamente londinese, grossolano, esuberante, confu­ sionario e strafottente. Se i Merrett sentivano la mancan­ za dei campi e del sidro e delle allodole, o se pensavano che questo ideale corrispondesse veramente al mondo che avevano lasciato, non lo sapremo mai. Nell’inverno del 1871 George ed Eliza, come molti abitanti dei quartieri più squallidi della Londra vittoria­ na, avevano già una famiglia assai consistente: sette figli, da Clare, di quasi dodici anni, a Freddy, di uno. La si­ gnora Merrett era vicina al termine dell’ottava gravidan­ za. La loro era una famiglia povera, come quasi tutte a Lambeth: George Merrett portava a casa ventiquattro scellini la settimana, una ben misera somma anche per quei tempi. Con l’affitto da pagare all’arcivescovo e il cibo necessario per le sette (quasi otto) bocche sempre spalancate, la loro era una vita grama davvero. Quel sabato notte, poco prima delle due, Merrett venne svegliato, come stabilito, da un vicino che batteva alla finestra. Si alzò dal letto e si preparò per il turno dell’alba. Era una mattina gelida e si vestì con le cose più calde che aveva: un cappotto liso sopra la giacca da lavoro, una logora camicia grigia, pantaloni di fustagno legati alle caviglie con lo spago, calze pesanti e stivali neri. Gli abiti non erano affatto lindi, ma doveva spalare carbone per le successive otto ore, e non c’era da preoc­ cuparsi troppo per le apparenze. Sua moglie ricordò poi che prima di uscire di casa aveva acceso un fiammifero: lo vide per l’ultima volta sot­ to una di quelle luminose lampade a gas di cui le strade di Lambeth erano state recentemente dotate. Si distin­

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gueva il suo fiato nell’aria fredda della notte, o forse sta­ va solo fumando la pipa, e camminava con decisione verso la fine di Cornwall Road, per poi svoltare in Belve­ dere Road. La notte era chiara e stellata e, una volta sva­ nito il rumore dei passi di George Merrett, immersa nel silenzio, tranne che per gli sbuffi e lo sferragliare delle immancabili locomotive.

La signora Merrett non aveva motivo di preoccuparsi: presumeva che, come nelle venti notti precedenti in cui suo marito aveva fatto il turno dell’alba, sarebbe andato tutto bene. George stava semplicemente dirigendosi co­ me al solito verso l’alto muro di cinta e i cancelli decora­ ti del birrificio dove lavorava, spalando carbone all’om­ bra del grande leone rosso che era uno dei punti di rife­ rimento meglio conosciuti di tutta Londra. Il suo incari­ co poteva anche rendere poco, ma a lavorare in un’isti­ tuzione tanto famosa quanto il birrificio Red Lion, eb­ bene, c’era di che essere orgogliosi. Quella notte, però, George Merrett non giunse a de­ stinazione. Mentre attraversava Tennison Street, dove il lato meridionale delle fonderie di piombo Lambeth confinava con il muro settentrionale del birrificio, si le­ vò un grido improvviso. Un uomo gli urlava contro, sembrava che stesse dando la caccia proprio a lui, sbrai­ tando furiosamente. Merrett ebbe paura: era qualcosa di più di un semplice brigante - una di quelle figure si­ lenziose e minacciose che si appostano nel buio con il volto coperto da una maschera e in mano un manganel­ lo con la punta di piombo; era qualcosa di assolutamen­ te fuori del comune, e Merrett iniziò a correre terroriz­ zato, scivolando e sdrucciolando sui ciottoli resi viscidi dal gelo. Si guardò alle spalle: l’uomo gli stava ancora addosso, gridando come un forsennato. Poi, cosa del tut­ to incredibile, si fermò, gli puntò contro una pistola, pre­ se la mira e sparò. Il proiettile mancò il bersaglio, gli sibilò vicino e andò 24

a colpire il muro del birrificio. George Merrett cercò di correre più in fretta. Chiamò aiuto. Ci fu un altro sparo. Forse un altro ancora. E poi un ultimo sparo che colpì 10 sfortunato Merrett al collo. Cadde pesantemente sull’acciottolato, la faccia a terra, una pozza di sangue che si allargava intorno a lui. Qualche istante dopo si udirono i passi dell’agente Burton che accorreva: trovò l’uomo, lo tirò su, cercò di fargli coraggio. L’altro poliziotto, William Ward, fermò una vettura pubblica che passava in Waterloo Road, un’arteria stradale ancora molto trafficata. Sollevarono 11 ferito con delicatezza, lo sistemarono sulla vettura e ordinarono al cocchiere di portarli il più in fretta possi­ bile all’ospedale di St. Thomas, circa cinquecento me­ tri più a sud in Belvedere Road, di fronte alla residenza londinese dell’arcivescovo. I cavalli fecero del loro me­ glio, gli zoccoli sprizzavano scintille sui ciottoli mentre galoppavano verso l’entrata del pronto soccorso. Fu una corsa inutile. I dottori visitarono George Mer­ rett e cercarono di chiudergli la ferita aperta sul collo. Ma la carotide era stata recisa e la spina dorsale spezzata da due proiettili di grosso calibro. L’uomo che aveva perpetrato questo crimine senza precedenti era già stato arrestato, pochi minuti dopo averlo commesso, dall’agente Tarrant. Era un uomo alto, ben vestito, di « aspetto militare », dal portamento eret­ to e l’aria altera, secondo la descrizione del poliziotto. Nella mano destra teneva un revolver ancora fumante. Non fece alcun tentativo di fuga: restò fermo e silenzio­ so mentre il poliziotto gli si avvicinava. « Chi ha sparato? » chiese l’agente. «Sono stato io» disse l’uomo, e mostrò l’arma. Tar­ rant gliela strappò di mano. «A chi avete sparato? » gli chiese. L’uomo indicò in direzione di Belvedere Road la figura accasciata e immobile sotto un lampione, pro­ prio accanto al deposito del birrificio. Fece l’unica os­ servazione grottesca che la storia gli attribuisca, ma era 25

un’osservazione che, in effetti, tradiva una delle debo­ lezze che l’avrebbero segnato per tutta la vita. « Era un uomo » disse in tono sdegnato. « Non mi cre­ derete tanto codardo da sparare a una donnai ». A questo punto gli altri due poliziotti erano giunti sul­ la scena, come anche della gente del posto, a curiosare: tra essi l’esattore dei pedaggi dell’Hungerford Bridge, che sulle prime non aveva avuto il coraggio di uscire «per timore di beccarmi una pallottola», e una donna che si stava svestendo nella sua camera in Tennison Street (una strada in cui evidentemente non era affatto insolito per le donne svestirsi a qualsiasi ora). L’agente Tarrant, indicando la vittima e ordinando ai suoi due colleghi di vedere cosa potevano fare per lui e di impe­ dire alla folla di radunarsi, scortò il presunto assassino, che non apriva bocca, al comando di polizia di Tower Street. Lungo la strada il prigioniero diventò invece piutto­ sto loquace, sebbene Tarrant lo descrivesse calmo e controllato, e indubbiamente non in stato di ubriachez­ za. Si era trattato di un terribile incidente: aveva sparato all’uomo sbagliato, insisteva. Stava inseguendo qualcun altro, una persona completamente diversa. Qualcuno si era introdotto nella sua stanza e lui lo stava semplicemente cacciando via, si stava difendendo, come chiun­ que aveva il sacrosanto diritto di fare. «Non mi toccate! » esclamò, quando Tarrant gli mise una mano sulla spalla. Ma poi, in tono un po’ più gentile, disse al poliziotto: « Non mi avete perquisito, sapete ». « Lo farò al comando » replicò l’agente. « Come fate a essere certo che non ho un’altra pistola e che non vi sparerò? ». Il poliziotto, imperturbabile, continuando a cammi­ nare col suo passo cadenzato, gli rispose che, se vera­ mente aveva un’altra pistola, forse sarebbe stato tanto gentile da tenersela in tasca, per il momento. « Però ho un coltello » ribattè il prigioniero.

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«Tenetevi in tasca anche quello» disse impassibile l’agente. Risultò poi che non c’erano altre pistole, ma nel cor­ so della perquisizione saltò fuori un lungo coltello da caccia in un fodero di pelle assicurato alla cintura del­ l’uomo, dietro la schiena. « Uno strumento chirurgico » fu la spiegazione. « Non lo porto sempre con me ». Tarrant, una volta completata la perquisizione, spie­ gò al sergente in ufficio che cosa era successo in Belve­ dere Road pochi istanti prima. I due poi si accinsero a interrogare formalmente l’arrestato.

Si chiamava William Chester Minor. Aveva trentasette anni e, come il poliziotto aveva intuito dal suo portamen­ to, era un ex ufficiale dell’esercito. Era anche un chirur­ go abilitato. Stava a Londra da meno di un anno e aveva trovato una sistemazione in quella zona: viveva da solo in una stanza arredata in modo semplice al primo piano del 41 di Tennison Street. Era chiaro che non viveva in modo tanto parco a causa di problemi finanziari, perché in realtà era un uomo di notevolissimi mezzi. Accennò al fatto che era venuto in questo lubrico quartiere della cit­ tà per ragioni diverse da quelle puramente economiche, ma quali potessero essere queste ragioni non emerse nel corso dei primi interrogatori. Verso l’alba venne tradotto alla prigione di Horsemonger Lane con l’accusa di omi­ cidio. Ma c’era un’ulteriore complicazione. William Minor, si scoprì, veniva da New Haven, Connecticut. Era un uf­ ficiale di nomina nell’esercito degli Stati Uniti. Era ame­ ricano. Questo gettava sul caso una luce del tutto diversa. Ora si doveva avvertire l’ambasciata americana. E così, in tar­ da mattinata, nonostante fosse sabato, il ministero degli Esteri notificò formalmente all’ambasciatore degli Stati Uniti a Londra che un medico del loro esercito era stato

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arrestato e trattenuto con l’accusa di omicidio. La spara­ toria di Belvedere Road, a Lambeth, già un caso famoso per la sua rarità, ora era diventata un incidente intema­ zionale. I giornali britannici, sempre ansiosi di accanirsi sui rivali d’oltreoceano, batterono proprio su questo parti­ colare aspetto della storia. « La scarsa considerazione in cui gli americani tengo­ no la vita umana » deplorava il « South London Press »

può essere vista come uno dei più significativi elementi di diversità tra loro e gli inglesi, e questo ne è l’esempio più sconvolgente, arrivato sin nelle nostre case. La vitti­ ma di un errore crudele ha lasciato alla misericordia del mondo una moglie in avanzato stato di gravidanza e sette figli, la maggiore dei quali appena dodicenne. E conso­ lante poter scrivere che persone caritatevoli si stanno già facendo avanti con solerzia in soccorso della vedova e de­ gli orfani, ed è auspicabile con tutto il cuore che chiun­ que possa offrire anche soltanto pochi spiccioli faccia del proprio meglio per aiutare le vittime di questa terribile tragedia. Il viceconsole generale americano, con la massi­ ma sollecitudine, ha aperto una sottoscrizione e lanciato un appello agli americani presenti a Londra affinché fac­ ciano quanto è loro possibile per alleviare l’atroce dolore causato dal gesto di un connazionale.

I detective di Scodand Yard vennero tempestivamen­ te messi al lavoro sul caso: all’improvviso era diventato fondamentale far giustizia su entrambe le coste dell’Adantico. Poiché Minor, silenzioso nella sua cella, non collaborava se non per dire che non conosceva la vitti­ ma e che l’aveva uccisa per errore, essi iniziarono a inve­ stigare su ogni possibile movente. Così facendo, portaro­ no alla luce le origini di una vita tragica e straordinaria.

William Minor era arrivato in Inghilterra nell’autun­ no precedente perché era malato: soffriva di un distur­

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bo che, come dissero alcuni giornali, era causato alme­ no in parte « dalla dissolutezza della sua vita privata ». L’avvocato successivamente assegnatogli per la difesa lasciò intendere che lo scopo del viaggio in Inghilterra era stato quello di calmare una mente «infiammata», per usare una parola cara ai medici vittoriani. Si disse che aveva subito « una lesione cerebrale » e vennero avanzate molte ipotesi sulle possibili cause. A quanto rife­ rì il suo avvocato, era stato in manicomio negli Stati Uni­ ti ed era in congedo dall’esercito per motivi di salute. Veniva descritto da coloro che lo avevano incontrato co­ me « un gentiluomo di buona cultura e di grande talen­ to, ma con abitudini eccentriche e dissolute ». Inizialmente si era stabilito al Radley’s Hotel, nel West End, da dove si spostava in treno verso le principa­ li città europee. Aveva portato con sé una lettera di un amico dell’università di Yale che lo raccomandava a John Ruskin, l’illustre artista e critico britannico. I due si erano incontrati una volta e Minor era stato incorag­ giato a portare con sé gli acquerelli durante i suoi viaggi e a dipingere per distendere i nervi. La polizia riteneva che Minor si fosse trasferito dal West End poco dopo il Natale del 1871 e si fosse stabilito a Lambeth: una scelta molto dubbia per un uomo della sua estrazione e della sua educazione, se non fosse che, come egli stesso ammise più tardi, gli garantiva l’accesso a donne di facili costumi. Le autorità americane comu­ nicarono a Scotìand Yard che avevano già dei dati in ar­ chivio sul suo comportamento come ufficiale dell’eser­ cito: vantava un lungo passato di frequentatore dei bas­ sifondi delle città nelle quali veniva inviato, in particola­ re New York, dove era stato assegnato a Governors Is­ land e dove, nei giorni di permesso, andava regolarmen­ te in alcuni dei bar e dei music-hall più sordidi di Man­ hattan. Aveva, si diceva, prodigiosi appetiti sessuali. Aveva contratto almeno una volta tutte le malattie vene­ ree, e a un esame medico condotto nella prigione di Horsemonger Lane risultò che anche allora era affetto

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da gonorrea. L’aveva presa, disse, da una prostituta del luogo e aveva cercato di curarla iniettandosi vino bianco del Reno nell’uretra, un tentativo gustosamente creati­ vo che, come prevedibile, era fallito. La sua stanza, comunque, non tradiva nulla di questo suo lato più abietto. I detective riferirono di avervi trova­ to i suoi pesanti bauli-armadio in cuoio profilati in otto­ ne, una grande quantità di denaro, principalmente va­ luta francese in banconote da venti livre, un orologio d’oro con catena, alcuni proiettili Eley per la pistola, l’abilitazione come chirurgo e la lettera di nomina a ca­ pitano nell’esercito americano. C’erano anche la lette­ ra di presentazione indirizzata a Ruskin e un gran nu­ mero di acquerelli, chiaramente eseguiti dallo stesso Minor. Tutti quelli che li videro li giudicarono della mi­ gliore qualità: vedute di Londra, prevalentemente, spe­ cie dalle colline dietro il Crystal Palace. La padrona di casa, la signora Fisher, disse che era stato un inquilino perfetto, ma strano. Di tanto in tanto se ne andava per diversi giorni e, quando tornava, con una cer­ ta ostentazione lasciava in giro le ricevute degli alberghi (la signora Fisher ricordava, tra gli altri, il Charing Cross e il Crystal Palace) in modo che tutti le vedessero. Sembra­ va, disse, un uomo molto ansioso. Spesso ordinava di spo­ stare i mobili nella sua stanza. Sembrava anche spaventato dall’idea che qualcuno vi si potesse introdurre. Aveva una preoccupazione in particolare, disse la si­ gnora Fisher alla polizia: il dottor Minor, a quanto pare­ va, aveva terrore degli irlandesi. Le chiedeva incessante­ mente se aveva dei domestici irlandesi in casa e, se c’era­ no, pretendeva che fossero licenziati. Aveva forse degli ospiti o degli inquilini irlandesi? Lui doveva sempre es­ serne tenuto al corrente, ma era una possibilità che a Lambeth (con la sua vasta popolazione di lavoratori ir­ landesi occasionali, reclutati nelle miriadi di cantieri edili di Londra) era in effetti sin troppo realistica.

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E tuttavia fu soltanto al processo per omicidio, svolto­ si all’inizio di aprile, che le vere proporzioni della ma­ lattia del dottor Minor divennero nettamente evidenti. Una ventina di testimoni si presentò in tribunale davan­ ti al presidente della Corte d’assise di Kingston (Lam­ beth era ancora giurisdizione del Surrey, non di Lon­ dra) e tre persone raccontarono a un’aula stupefatta ciò che sapevano dell’infelice capitano. La polizia di Londra, tanto per cominciare, ammise che in un certo modo egli era già una loro conoscenza, e che già qualche tempo prima dell’omicidio sapevano di avere a che fare con un soggetto difficile. Un detective di Scotland Yard di nome Williamson testimoniò che Minor era andato al comando tre mesi prima, denun­ ciando il fatto che degli uomini entravano nella sua stanza di notte cercando di avvelenarlo. Lui pensava che si trattasse di membri della società segreta dei feniani, nazionalisti irlandesi militanti, intenzionati a introdursi nel suo alloggio nascondendosi fra le travi del tetto o entrando di soppiatto dalle finestre. Aveva fatto analoghe dichiarazioni parecchie volte, disse Williamson; poco prima di Natale Minor aveva persino convinto il commissario di polizia di New Ha­ ven a scrivere una lettera a Scodand Yard in cui ribadiva i timori nutriti dall’americano. Anche dopo il trasferi­ mento in Tennison Street, il medico si era tenuto in contatto con Williamson: il 12 gennaio 1872 gli aveva scritto di essere stato drogato e di temere che i feniani stessero elaborando un piano per ucciderlo, facendo passare la sua morte per un suicidio. Un classico grido di aiuto, si potrebbe pensare oggi. Ma l’esasperato sovrintendente Williamson non fece niente e non ne parlò con nessuno: scrisse soltanto sul suo registro un appunto dal tono un po’ sprezzante se­ condo il quale Minor era senza dubbio (e questa fu la prima volta che l’espressione venne usata per descrivere lo sventurato americano) malato di mente. Poi ci fu un testimone che aveva qualcosa di molto

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singolare da riferire sul dottor Minor, che aveva tenuto sotto osservazione nel periodo in cui si trovava in custo­ dia cautelare nelle celle di Horsemonger Lane. Il testimone, che si chiamava William Dennis, lavorava a Londra, all’ospedale per i malati di mente di St. Mary of Bethlehem (un posto tanto orribile che il suo nome ci ha lasciato la parola bedlam, manicomio o pandemonio), dove tra i suoi doveri rientrava la sorveglianza dei pazien­ ti-prigionieri durante la notte, per assicurarsi che si com­ portassero bene e che non cercassero di beffare la giusti­ zia suicidandosi. Era stato assegnato alla prigione di Horsemonger Lane a metà febbraio, disse, per sorveglia­ re le attività notturne di quello strano ospite. L’aveva sor­ vegliato, testimoniò, per ventiquattro notti. Era stata un’esperienza estremamente singolare e in­ quietante, raccontò Dennis alla giuria. Ogni mattina il dottor Minor si svegliava e lo accusava di essere stato as­ soldato da qualcuno con lo scopo specifico di molestarlo mentre dormiva. Poi sputava, decine di volte, come se cercasse di rimuovere qualcosa che gli fosse stato messo in bocca. Quindi balzava giù dal letto e vi frugava sotto a tentoni, a caccia di persone che, insisteva, vi si erano na­ scoste con l’intenzione di importunarlo. Dennis aveva detto al suo superiore, il medico della prigione, di essere assolutamente certo che William Minor fosse pazzo. Dal verbale deH’interrogatorio della polizia emerse la prova di un movente immaginario per il crimine, e con esso un’ulteriore conferma dell’evidente instabilità mentale del dottor Minor. Ogni notte, Minor aveva rac­ contato ai suoi inquirenti, degli uomini sconosciuti, spesso di bassa estrazione sociale, spesso irlandesi, en­ travano nella sua stanza mentre lui dormiva. Lo maltrat­ tavano, gli facevano violenza in modi che non poteva nemmeno descrivere. Da mesi ormai, da quando questi visitatori notturni avevano iniziato a tormentarlo, aveva preso l’abitudine di dormire con la sua Colt d’ordinan­ za, caricata con cinque cartucce, sotto il cuscino. La notte in questione si era svegliato di sobbalzo, sicu­

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ro che ci fosse un uomo nell’ombra, ai piedi del letto. Aveva afferrato la pistola: l’uomo l’aveva visto e se l’era data a gambe, precipitandosi giù per le scale e fuori di casa. Minor lo aveva inseguito il più velocemente possi­ bile e, quando aveva visto un uomo correre lungo Belve­ dere Road, certo che fosse lui l’intruso, aveva gridato, poi fatto fuoco per quattro volte, finché l’aveva colpito e l’uomo era rimasto immobile a terra, ormai incapace di fargli altro male. La Corte ascoltava in silenzio. La padrona di casa scosse il capo. Nessuno poteva entrare in casa sua di not­ te senza chiave, disse. Tutti avevano il sonno molto leg­ gero; non ci potevano essere intrusi. A definitiva conferma la Corte ascoltò poi il fratella­ stro del prigioniero, George Minor. Era stato un incu­ bo, disse George, avere suo fratello William in giro per casa a New Haven. Tutte le mattine accusava qualcuno di aver cercato di introdursi nella sua stanza durante la notte per molestarlo. Lo perseguitavano. Uomini mal­ vagi cercavano di ficcargli in bocca dei biscotti metallici ricoperti di veleno. Facevano lega con altri che si na­ scondevano in soffitta e scendevano di notte, mentre lui dormiva, per fargli cose oscene. Tutto ciò era la punizio­ ne, diceva, per un atto che era stato costretto a compie­ re mentre era nell’esercito americano. Solo andando in Europa, diceva, sarebbe potuto sfuggire ai suoi demoni. Avrebbe viaggiato, e dipinto, e vissuto la vita di un uomo rispettabile amante dell’arte e della cultura - e forse i persecutori sarebbero svaniti nella notte. La Corte ascoltava in melanconico silenzio; il dottor Minor, intanto, sedeva al banco degli imputati, cupo, umiliato. L’avvocato procuratogli dal console generale americano disse soltanto che il suo cliente, con ogni evi­ denza, era malato di mente, e che la giuria lo doveva considerare come tale. Il presidente della Corte annuì. Era stato un caso bre­ ve ma doloroso, essendo l’accusato un uomo di educa­ zione e cultura, uno straniero e un patriota, una figura

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del tutto diversa da quei disgraziati che più comune­ mente stavano al banco degli imputati davanti a lui. Ma la legge doveva essere applicata con correttezza ed equi­ tà, a prescindere dalle condizioni o dallo stato sociale dell’imputato; e la sentenza in questa storia era in un certo senso un finale scontato. Da trent’anni la legge in tali casi era guidata da quelle che erano conosciute come le norme McNaughton, co­ sì chiamate dal nome dell’uomo che, nel 1843, aveva ucciso il segretario di Sir Robert Peel ed era stato assolto sulla base del fatto che era tanto pazzo da non saper di­ stinguere il bene dal male. Quelle norme, che giudica­ vano la responsabilità criminale più che la colpa, dove­ vano essere applicate a questo caso, disse il presidente alla giuria. Se erano convinti che l’imputato « non era sano di mente » e che aveva ucciso George Merrett sotto l’effetto di una fissazione del genere che avevano appe­ na sentito, allora dovevano fare quello che le giurie erano solite fare in quel periodo straordinariamente cle­ mente della giustizia britannica: dovevano dichiarare William Chester Minor non colpevole per motivi di in­ fermità mentale, e consentire al giudice di applicare le sanzioni detentive che riteneva opportune e necessarie. E fu proprio questo che fece la giuria, senza dibatte­ re, in quel tardo pomeriggio del 6 aprile 1872. Il dottor Minor venne dichiarato legalmente innocente, per un omicidio che tutti, lui compreso, sapevano di sua mano. Il presidente della Corte, poi, emise l’unica sentenza che avesse a disposizione: una sentenza occasionalmen­ te emessa ancora oggi e che ha un fascino seducente nel­ le parole, nonostante la terribile atrocità delle sue impli­ cazioni. «Verrete custodito in luogo sicuro, dottor Minor,» disse il giudice « sinché piacerà a Sua Maestà». Era una decisione che avrebbe avuto conseguenze inimmagina­ bili e imprevedibili, effetti che hanno continuato a rie­ cheggiare e propagarsi in tutto il mondo letterario in­ glese sino a oggi.

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Il ministero dell’interno prese atto brevemente della sentenza e decise inoltre che la detenzione del dottor Mi­ nor, la quale, considerata la gravità della malattia, avreb­ be probabilmente occupato il resto della sua vita natura­ le, doveva essere scontata nel nuovo pezzo forte del siste­ ma penale britannico, un esteso complesso di edifici di mattoni rossi situato dietro alte mura e recinzioni appun­ tite nel villaggio di Crowthome, nella regia contea del Berkshire. Il dottor Minor doveva essere tradotto non appena possibile dalla sua temporanea prigione nel Sur­ rey al manicomio criminale di Broadmoor. Il dottor William C. Minor, capitano e medico nell’e­ sercito degli Stati Uniti, membro orgoglioso e reietto di una delle famiglie più antiche e in vista del New En­ gland, d’ora in poi doveva essere formalmente chiama­ to in Gran Bretagna con il suo numero di matricola di Broadmoor, il 742, e tenuto sotto custodia permanente come « pazzo criminale conclamato ».

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L’UOMO CHE INSEGNAVA IL LATINO ALLE MUCCHE

Polymath (pplimæjj'), sb. (a.) Also 7 polumathe. [ad. Gr. itokvpafiïiç having learnt much, f. Ttohj- much + pad-, stem ofpavOàveiv to leam. So F. polymaths.} A person of much or varied learning; one acquainted with various subjects of study. 1621 Burton Anat. Mel. Democr. to Rdr. ( 1676) 4/2 To be thought and held Polumathes and Polyhistors. a 1840 Moore Devil among Schol. 7 The Polymaths and Polyhistors, Polyglots and all their sisters. 1855 M. Pattison Ess. I. 290 He

belongs to the class which German writers .. have denominated ‘Polymaths’. 1897 O. Smeaton Smollett ii. 30 One of the last of the mighty Scots polymaths. Philology (flip- litoti). [In Chaucer, ad. L. philo­ logia', in I7th c. prob. a. F. philologie, ad. L. phi­ lologia, a. Gr. û.o),oyia, abstr. sb. from