Il Professore dei Segreti. Mistero, medicina e alchimia nell'Italia del Rinascimento 9788843071036

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Il Professore dei Segreti. Mistero, medicina e alchimia nell'Italia del Rinascimento
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Carocci editore

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Ambientato nell'Italia del tardo Rinascimento, questo "thriller storico" esplora la medicina e la cultura dell'epoca attraverso la vicenda biogranca del primo "medico delle celebrità", Leonardo Fioravanti. William Eamon- che per questo libro è stato candidato al Premio Pulitzer- segue i numerosi viaggi di Fioravanti attraverso l'Italia e l'Europa, guidandoci in un mondo in cui medici, maghi, alchimisti e ciarlatani si confondono. Ne emerge un affresco gustoso che non mancherà di appassionare quanti fra i lettori s'interessano di Rinascimento e in particolare di storia della medicina.

William Eamon

Il Professore di Segreti Mistero, medicina e alchimia nell'Italia del Rinascimento

Carocci editore

@ Sfere

para Elbita con amor,

y para Miguelito con esperanza

L'editore è a disposizione per i compensi dovuti agli aventi diritto Traduzione di Anna Maria Paci

The Professar q[Secrets. Mystery, Medicine, and Alchemy in Renaissance ltaly 2010 William Eamon. Ali rights reserved. Reproduction of the whole or any part of the

Titolo originale: ©

contents without written permission from the publisher is prohibited.

1' edizione italiana, aprile 2014 2014 by Carocci editore s.p.a., Roma

©copyright

Impaginazione: I magi ne s.r.l., Trezzo sull'Adda Finito di stampare nel mese di aprile

2014

da Eurolit s.r.l., Roma ISBN

978-88-430-7103-6

Riproduzione vietata ai sensi di legge {art.

171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Siamo su Internet:

www.carocci.it

http://

(MI)

Indice

Prologo. Esperienza e memoria

9

I.

« Mia dolce patria»

17

2.

L'impero della malattia

24



Bologna, capitale della medicina

3S



Leonardo e gli anatomisti

42



La formazione di un chirurgo

48

6.

La via dell'esperienza

s6



Il medico di Carnevale

6o

8.

Il novello Esculapio

66



Le meravigliose virtù del precipitato

73

IO.

Ciarlatano o uomo dei miracoli ?

81

II.

Un'operazione ingegnosa

8s

1 2.

Le meraviglie di Napoli

9S

13.

Un'accademia di maghi

102

14.

L'università della guerra

112

IS.

La casa del cardinale

1 22

16.

Un chirurgo a Roma

1 27

17.

Un'occasione persa

I3 S

18.

Curiosità veneziane

141

19.

Il fascino del

ciarlatano

20. Uno scrittore immortale 21.

A Venezia, il mondo sommerso della scienza

148 156 167

22. Magia matematica

174

23. Alla ricerca della pietra filosofale

181

24. È nata una stella

186

25.

194

Medico e imprenditore

26. L'ambizione, la gloria 27.

Una cospirazione di medici

202 214

28. Leonardo il camaleonte

222

29. Vita e arte

230

3 0. Alla corte del re cattolico

236

3 1.

I padroni del fuoco

245

32.

Il processo al ciarlatano

251

33·

«Il mio sacco è vuoto»

260

34 · Il giudizio della storia

267

Epilogo. Tracce

279

Ringraziamenti Note Bibliografia Appendice. Catalogo delle edizioni delle opere di Leonardo Fioravanti

349

Indice analitico

351

Prologo Esperienza e memoria

Leonardo Fioravanti misurava a grandi passi la cella. Era fuori di sé dalla rabbia per l'affronto subito. E chi non lo sarebbe stato ? Era dal suo arrivo a Milano, nei primi anni settanta del Cinquecento, che i medici della città complottavano contro di lui, medico bolognese. Ma stavolta si erano spin­ ti ben oltre: avevano mandato gli ufficiali dei Provveditori alla Sanità ad arrestarlo e a gettarlo in galera con la discutibile accusa di «non medicare canonicamente » . Fioravanti non era un cerusico qualsiasi. Né uno di quei ciarlatani va­ gabondi che apparivano sulla pubblica piazza, smerciavano qualche tocca­ sana e poi sparivano senza lasciar traccia. Era un medico, laureato nella più prestigiosa facoltà di medicina d' Italia, quella dell'università di Bologna. Eppure da otto giorni languiva in cella e nessuno pareva badare alle sue proteste di innocenza. Incapace di trattenere la collera un minuto di più, Fioravanti chiese al secondino carta e penna e scrisse una lettera al ministro della Pubbli­ ca sanità di Milano, curando di apostrofarlo come si conviene, vale a dire adulandolo. Si presentò come « leonardo fioravanti bolognese, delle arti et medicina dotore, et cavaliere » . Scrisse la sua protesta in tono misurato, ma non poté fare a meno di chiedere che gli fosse consentito di « medicare come à dotor legitimo che io sono» . Poi sigillò la lettera, appose la data, 2.2. aprile 1573, e pagò il secondino perché l'affidasse a un messaggero che doveva consegnarla all'ufficio della Sanità, al palazzo ducale di piazza del Duomo'. Il giorno seguente Niccolo Boldoni trasse la lettera di Fioravanti tra le numerose carte che ingombravano la sua scrivania. In qualità di protofisi­ co di Milano, ovvero ministro della Pubblica sanità, Boldoni sovrinten­ deva a ogni aspetto della professione medica cittadina. Egli era chiamato a svolgere una serie apparentemente infinita di mansioni burocratiche :

I L PROFESSORE DI SEGRETI

IO

controllare cerusici e ostetriche, riscuotere tasse, imporre sanzioni, ispe­ zionare farmacie, deliberare in merito a istanze e ricorsi. A vederla, non c'era nulla di insolito nella lettera che Boldoni si ac­ cingeva ad aprire: non faceva altro che ricevere rimostranze di guaritori scontenti. Tuttavia, dopo aver infranto il sigillo di cera che teneva uniti i margini della lettera ed averla aperta, Boldoni dovette rendersi conto che la supplica che aveva dinanzi a sé era diversa da tutte le altre. Era stata ordita una vile congiura, protestava l'irato supplicante. Ad ope­ ra dei medici della città. Lo avevano accusato di avvelenare i suoi pazienti, ma il vero motivo della sua carcerazione era la «pura e mera invidia» . Vedendo, che io con belissimi e t ecc.m i rimedij aloro incogniti, ho curati et sanati molti infermi così in questa come in molte altre cita de italia et vedendo che il nome mio va crescendo, non vorebbero, che io essendo forestiero dimorasse in milano, a dimostrare quelle virtu che jddio, la natura et la longha esperienza mi hanno insegnate'.

Per dimostrare il valore della propria dottrina, che egli definiva « il nuovo modo di medicare» , Fioravanti proponeva una sfida: «che mi siano con­ signati 2.0 o 25 amalati di diverse infermita a me solo, et altri tanti delle istesse infermita à tutti li medici di Milano, et se io non curo li miei piu presto, et meglio di loro voglio esser bandito per sempre di questa, cita » . I risultati, pronosticava Fioravanti, avrebbero dimostrato una volta per tutte che «la medicina non si puo provare se non con la esperienza » . Non possiamo che immaginare quel che Boldoni abbia pensato di que­ sta sfida insensata. I medici della città accettarono la sfida di Fioravanti ? Appare improbabile, e i documenti storici non rivelano nulla. In ogni caso, il tribunale lo rimise in libertà.

Leonardo dei miracoli

Non era certo la prima volta che Leonardo Fioravanti si scontrava con l'e­ stablishment medico. Nel 1 5 7 3 il suo sprezzo della medicina tradizionale era già leggendario. Prima di recarsi a Milano era stato a Venezia, dove il Collegio dei Medici lo aveva accusato di impostura e di mettere a repenta­ glio la salute delle persone con le sue cure poco ortodosse. Prima ancora, Fioravanti era stato cacciato da Roma, sempre da una congiura di medi-

PROLO GO

II

ci. Eppure, quando era stato in Sicilia nel 1548, le sue cure miracolose gli erano valse l'appellativo di «novello Esculapio » . E quando aveva servito come chirurgo militare nella Marina spagnola durante la guerra ai corsari turchi, in Africa, Fioravanti era diventato celebre per la sua inedita cura delle ferite d'arma da fuoco. Qualche anno dopo la vicenda milanese, si sarebbe recato in Spagna alla corte di Filippo n, dove a furor di popolo sarebbe stato proclamato santo, profeta e negromantel. I contemporanei si profondevano in analoghi panegirici sulla sua abilità di guaritore. Un poeta veneziano lo definì « Un angelo del paradiso, inviato da Dio sulla Terra per la salute e la salvaguardia della vita umana » , perché Fioravanti lo aveva guarito "come per miracolo" da una brutale ferita d'ar­ ma da fuoco alla testa. Corrosivo e polemico, Fioravanti si faceva nemici ovunque andasse; le sue battaglie contro i circoli della medicina ufficiale ne fecero un vero e proprio simbolo del ciarlatano rinascimentale: una fama che lo avrebbe perseguitato ancora molto tempo dopo la sua morte4• Per qualcuno Leonardo Fioravanti era un ridicolo e pericoloso impo­ store; per altri un vero e proprio salvatore. Diversamente dal tipico ciarla­ tano dell'epoca, Fioravanti non saliva su un palco improvvisato per vanta­ re i suoi rimedi nella piazza gremita di folla. Ma fu uno scrittore prolifico che promosse le sue cure con una notevole dose di originalità e teatralità. Con i suoi libri, scritti per un pubblico medio, lanciò la pubblicità "medi­ ca� un genere che sarebbe durato per secoli, anche quando delle sue cure si era ormai persa la memoria. Fioravanti era un oscuro chirurgo come tanti, che arrivò a essere considerato uno dei più famosi guaritori del Rinasci­ mento. Fustigatore dei medici ufficiali, si scagliava contro i loro "abusi" accusandoli di aver spento la luce della "vera medicina". Fu così che diven­ ne una delle prime celebrità della storia della medicina. Per i suoi lettori era « Fioravanti de ' miracoli »1 e, grazie a quel miracoloso mezzo che è la stampa, si guadagnò una folta schiera di seguaci. Il successo di Fioravanti non era però solo frutto della sua capacità di farsi pubblicità. Nel bene e nel male, il suo modo di fare medicina indicò la strada alle pratiche moderne. Anche se la medicina premoderna non offriva cure granché efficaci per la maggior parte delle malattie, Fioravanti perseverò nell 'aggredire ogni malanno a testa bassa, impiegando farmaci potenti che era convinto avrebbero debellato il male e riportato il corpo alla sua salute "originaria". Per lui le malattie non erano benigni squilibri umorali, come pensavano i medici dell'epoca, ma forze aliene che inva­ devano il corpo e che andavano respinte con violenza. Le sue energiche

1 2.

I L PROFESSORE D I SEGRETI

terapié prepararono il terreno a un'epoca di farmaci prodigiosi capaci di miracolose guarigioni; d'altro canto annunciarono anche la comparsa sulla scena dei santoni della medicina, che sfruttano senza pietà pazienti inermi e desiderosi di guarire a ogni costo7 •

La passione per i segreti

Fioravanti fu anche un appassionato sperimentatore rinascimentale - non il genere che viene solitamente associato alla grande rivoluzione scientifica che ha dato il via alla scienza moderna, ma piuttosto quello che esercitava uno stile di sperimentazione più tipicamente rinascimentale: avido, audace, vorace - e incredibilmente casuale. Per tutta la vita, scrisse Fioravanti, ave­ va seguito le orme dei « maestri di esperienza » , che egli identificava nella scuola dei medici che esercitarono nell'antichità. Tra i maestri di esperienza suoi contemporanei egli citava naturalisti come Vincenzo Cantone da Siena, il quale «ha caminata quasi tutte le parti della terra, solcato diversi mari, et scoperto varii ed diversi secreti nella medicina et cirugia », e molti altri i cui nomi sono stati messi in ombra dai giganti della scienza rinascimentale. Senza queste esuberanti figure, tuttavia, la nostra visione del mondo della medicina e della scienza del XVI secolo sarebbe incompleta. Per molti versi esse incarnano l'aspetto più innovativo della scienza rinascimentale: per un numero crescente di uomini e donne che si interessavano alla filo­ sofia naturale (come all'epoca veniva chiamato lo studio della natura), la fedeltà alla natura non andava misurata secondo i parametri dettati dalle autorevoli figure del passato, bensì con l'esperienza diretta. Per loro i se­ greti della natura andavano scoperti con l'esperimento - un concetto vago che non di rado consisteva nel tentare una procedura che non era mai stata tentata prima. Queste persone, che avevano nei confronti della scienza un approccio che potremmo definire da "piccolo chimico", erano note ai loro contem­ poranei con l'appellativo di «professori di segreti » . Il soprannome era stato loro conferito dal frate domenicano Tommaso Garzoni, il cui libro pubblicato nel 1s8s, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, identificava nella ricerca dei segreti della natura una delle "professioni" o occupazioni dell'epoca. Nel suo tomo enciclopedico, Garzoni dipingeva la società come una piazza brulicante di un' infinita varietà di occupazioni e professioni, ciascuna unica nel suo genere. In questa caotica moltitudine,

PROLOG O

13

fra Tommaso collocava i «professori di segreti » , dei quali fece un indi­ menticabile ritratto: « si veggono alcuni attendere a questa professione de ' secreti, con tutto il cuore brammar piu questo che il vitto quotidiano, si necessario all'uomo » . Tre decenni prima che Garzoni scrivesse La piazza universale, il primo professore di segreti - un modello per tutti gli altri - era stato ritratto in uno dei più popolari libri scientifici del Rinascimento italiano, De' secreti del R. D. Alessio Piemontese. L'autore del libro diceva di essere un nobile piemon­ tese che aveva trascorso la vita viaggiando da un luogo ali' altro e raccoglien­ do centinaia di segreti ed esperimenti, alcuni presi dai libri e altri dall'espe­ rienza diretta. Alessio li aveva raccolti «non solamente da grandi huomini per dottrina, et da gran Signori, ma ancora da povere feminelle, da artegiani, da contadini, et da ogni sorte di persone » . Tra i suoi segreti vi erano rime­ di sconosciuti ai medici, profumi esotici e formule alchemiche ricavate da Alessio in persona. Come altri collezionisti, egli aveva sempre salvaguardato le sue scoperte perché non fossero profanate dalla gente qualunque. Un giorno Alessio fu avvicinato da un chirurgo che aveva sentito par­ lare della sua raccolta di segreti rari. Questi lo implorò di rivelargli un se­ greto che gli consentisse di guarire un artigiano suo paziente: tormentato da un calcolo alla vescica, il pover'uomo era prossimo alla morte. Alessio esitò, temendo che il chirurgo si prendesse il merito della guarigione. Que­ sti dal canto suo rifiutò l'offerta di Alessio di curare gratuitamente l'uomo; temeva infatti che se si fosse sparsa la voce del suo consulto con un altro guaritore, la sua reputazione ne sarebbe uscita distrutta. L'artigiano pagò un prezzo estremo per la vanità dei due, soccomben­ do al suo doloroso male. Tormentato dal rimorso per la parte avuta nella vicenda, Alessio cedette le sue ricchezze e si ritirò in una villa appartata, vivendo come un monaco. Qui rinunciò alla segretezza e giurò solenne­ mente che avrebbe pubblicato i suoi segreti a beneficio del mondo. Garzoni lascia intendere che i professori di segreti come Alessio Pie­ montese vagassero su e giù per l' Italia della prima età moderna, membri di una rete di sperimentatori vasta quanto l' Europa; una sorta di mondo sommerso della scienza cinquecentesca. L'oscurità dei professori di segreti ha reso però difficile per gli storici ricostruirne i percorsi. Tra questi « maestri di esperienza » Leonardo Fioravanti si distingue per­ ché rivela moltissimo di sé, cosa che lo rende di fondamentale importanza per la storia della nascente scienza moderna. Autore prolifico, pubblicò li-

14

I L PROFESSORE DI S EGRETI

bri che furono ristampati e tradotti in varie lingue fino a tutto il Settecen­ to. In realtà, quasi tutto ciò che sappiamo di lui lo dobbiamo ai suoi scritti. Benché i documenti storici costituiscano un riscontro alle sue esuberanti e spesso abbellite reminiscenze, essi non offrono che pochi accenni alle sue peregrinazioni. Fioravanti lavorò sodo per lasciare ai posteri una immagi­ ne degna di sé, evitando con cura di rivelare difetti e manchevolezze. Epi­ sodi melodrammatici, sopra le righe, poco credibili, sono controbilanciati da esasperanti silenzi. Leonardo Fioravanti fu un maestro nel creare e nel ricreare la propria immagine.

Ricostruire un mondo perduto

Un mio amico, lo storico Andrea Carlino, ha osservato una volta che Fio­ ravanti è un trucco. Con lui, ciò che credi di vedere non è mai ciò che è veramente: quando pensi di essere arrivato alla verità, quell'imbroglione cambia le carte in tavola. Nel leggere i frammenti autobiografici di Fiora­ vanti mi sono spesso trovato in imbarazzo di fronte al modo spudorato in cui ingigantisce, nasconde o fa in modo che i medesimi fatti servano scopi diversi a seconda di ciò che gli conviene. Più tentavo di trovare un senso alla vita di Fioravanti, più mi tornava in mente il parere di Andrea. Che ge­ nere di trucco avrei potuto impiegare io, mi chiedevo, per svelare l' ingan­ no dietro le sue contraddittorie e a volte discutibili rappresentazioni di sé ? Che stratagemma avrei dovuto usare per convincere Leonardo Fioravanti a confessare la verità su se stesso ? Ho deciso di stare al suo gioco: avrei sondato i suoi ricordi attraverso le opere e cercato di far loro raccontare una storia, esattamente come Fio­ ravanti aveva manipolato i fatti per creare il proprio personaggio. Alcuni elementi possono essere ricavati dalla sua autobiografia, Il tesoro della vita humana, pubblicata nel 1570. Altre notizie possono essere racimolate nei ricordi contenuti nei suoi sette libri sulla medicina e la filosofia naturale, dei quali l'ultimo, Della fisica, completato a Napoli di ritorno dalla Spa­ gna, nel IS77· Opera cupa, oscura e pessimistica, riesce a stento a celare che qualcosa era andato terribilmente storto. Documenti d'archivio e testimonianze dei contemporanei possono aiutarci a far luce, ma Fioravanti è stato il principale testimone della pro­ pria vita - cosa che rende quasi impossibile una biografia tradizionale. Os­ sessivo biografo di se stesso, alterò continuamente gli eventi del suo passa-

PROLOGO

rs

to per costruire di sé un' immagine vincente presso un pubblico adorante. Nel migliore dei casi ci resta la testimonianza incompleta e selettiva della sua memoria. Benché io mi affidi ai ricordi di Fioravanti e me ne serva come di una guida, non li prendo per oro colato. Ho invece cercato di inserirli in una narrazione molto più complessa della versione unidimen­ sionale, distorta dei suoi scritti. Proprio perché si conosce così poco di figure marginali come Fioravan­ ti, lo sforzo di ricostruire i suoi ricordi può avvicinarci a un mondo altri­ menti perduto. Essendo Fioravanti la principale fonte di informazioni su di sé e sui membri del suo ambiente culturale, la sua versione dei fatti è per noi preziosa. Anche se i suoi ricordi non possono essere presi alla lettera, il nostro ripercorrere la sua vita può aprire una finestra sullo straordinario mondo dell' Italia tardorinascimentale.

I

«Mia dolce patria»

« Mia dolce patria » , così Leonardo Fioravanti ricordava Bologna, sua cit­ tà natale. Dal punto di vista storico è però difficile immaginare una de­ scrizione più inverosimile di Bologna e dell' Italia tardorinascimentale in generale. Come molte altre città della penisola, la Bologna cinquecentesca mostrava da un lato un passato glorioso legato al primo Rinascimento, dall'altro i detriti di decenni di conflitti sociali e di tumulti politici. "Misera Italia" era l'appellativo più comunemente usato dai contem­ poranei di Fioravanti. Non a caso sui mali dell' Italia tardorinascimentale esiste un' intera letteratura, profetizzata dalla famosa invocazione dante­ sca, «Ahi serva Italia, di dolore ostello l nave sanza nocchiere in gran tem­ pesta l non donna di province, ma bordello! » '. Le riflessioni sulla triste situazione italiana raggiunsero l'apice nel Cinquecento, quando scrittori e poeti non facevano che deplorare il caos in cui versava il paese mentre ne esaltavano la gloria passata. Machiavelli considerava l' Italia una schiava battuta, spogliata, depredata, ridotta a uno stato miserevole dal quale solo un leader forte avrebbe potuto sollevarla. «Rimasa come senza vita, aspet­ ta qual possa esser quello che sani le sue ferite» scriveva nel Principe, « e la guarisca di quelle sue piaghe già per il lungo tempo infistolite» '. Che cos'era accaduto alla povera Italia, che potesse giustificare questa cupa descrizione di una terra che un tempo era stata, tutti ne convenivano, la culla della civiltà? In che modo l'epoca che aveva prodotto Leonardo da Vinci aveva potuto trasformarsi nell'epoca di Leonardo Fioravanti ? Per molti versi, ha evidenziato lo storico Guido Ruggiero, il Rinasci­ mento è sempre stato poco più di « una fantasia, un sogno» l. Intellettuali e scrittori del Trecento pensavano di far rivivere la magnificenza della ci­ viltà del passato e, come scriveva Boccaccio, rimossero «gli spini e gli ar­ busti, dei quali lo aveva ingombro la negligenza dei mortali » 4• Boccaccio descriveva Dante come il poeta « il qual prima dovea al ritorno delle Muse

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sbandite d' Italia aprir la via » 1• L'idea di far rivivere un'epoca gloriosa nac­ que nel periodo comunemente definito come Rinascimento. Se il Rinascimento italiano era stato un sogno, il tardo Rinascimento fu un incubo. Essendo una scacchiera di principati indipendenti, l' Italia costi­ tuiva un allettante territorio per le potenti monarchie centralizzate da poco arrivate sulla scena europea. La monarchia francese, che aveva consolidato il proprio potere interno con la Guerra dei Cento anni, e i monarchi cattolici spagnoli - Ferdinando di Aragona e Isabella di Castiglia, che nel 1492 aveva­ no completato la reconquista della penisola spagnola vincendo l'ultima roc­ caforte musulmana, Granada - consideravano l'Italia una regione di grandi ricchezze e di grande importanza strategica. Per Francia e Spagna, la prospet­ tiva di espandersi nella penisola italiana costituiva un fortissimo richiamo. Ogniqualvolta fronteggiavano una crisi, le città-Stato italiane chiama­ vano in aiuto un alleato straniero per far pendere la bilancia del potere a proprio favore. Nel 1 494, il duca di Milano Ludovico Sforza, "il Moro", invitò il re di Francia a invadere Napoli per punire il suo antico rivale, il re aragonese di Napoli Ferrante 11. Il re di Francia Carlo VIII, da poco maggiorenne, voleva fare qualcosa di temerario e il Moro gliene offrì la possibilità. Avanzando un'antica pretesa sul Regno di Napoli, Carlo radu­ nò un esercito di 25.000 uomini e invase la penisola. Inaspettatamente, le città capitolarono una dopo l'altra e nel giro di pochi mesi Carlo entrava a Napoli, dopo aver conquistato praticamente tutta l ' Italia. L'invasione francese inaugurò una fase di ingerenza straniera negli af­ fari italiani che sarebbe durata oltre sessant 'anni. Machiavelli trovava la situazione talmente disperata da esortare «un nuovo Principe» - un rife­ rimento appena velato a Lorenzo de' Medici - a farsi avanti e a « liberare la Italia da' barbari ». Ciò che accadde invece fu una serie di incursioni straniere che culminarono nell'umiliante Sacco di Roma del 1 5 27, che dà l'esatta misura dell' impotenza italiana. Anche se era stata solo un sogno, per molti contemporanei di Leonardo Fioravanti l'età gloriosa dell' Italia pareva ormai un lontano passato.

L'ascesa di Bologna

Le origini storiche di Bologna, come quelle di altre città-Stato italiane, furono contrassegnate da violenze e discordia politica. Fondata come

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comune indipendente nel 1 1 2 3 , quando le classi privilegiate avevano sot­ tratto il potere al loro grande feudatario, l'imperatore del Sacro romano impero, la città ebbe inizialmente un governo signorile. Nel 1 27 8 entrò a far parte dello Stato della Chiesa; nei due secoli successivi, mentre popo­ lo e nobiltà lottavano per il potere, Bologna passò più volte dal governo della Chiesa a quello aristocratico a quello repubblicano6• Di questo in­ cessante conflitto politico ne è testimonianza l'architettura urbana, per­ ché i castelli fortificati della campagna feudale furono portati sin de.ntro la città: altissime fortezze appartenenti alle famiglie nobili spuntarono ovunque. 1 4 5 torri - alte anche 97 metri, come nel caso della Torre degli Asinelli - dominavano la città come sentinelle pronte all'ennesimo scop­ pio delle ostilità. I tumulti politici del XVI secolo dimostrarono che la sopravvivenza del­ la città era legata alla concentrazione del potere nelle mani di un unico leader. Oppressa dal conflitto politico interno e dal possibile passaggio al papato, Bologna cedette infine al governo della signoria. Nel 1446 Sante Bentivoglio divenne, di fatto, principe di Bologna. Governò fino alla sua morte, avvenuta nel 146 3, assicurando così il controllo della famiglia Ben­ tivoglio sulla politica bolognese. Il Quattrocento, sotto il benevolo dispotismo della famiglia Bentivo­ glio che governò la città fino al 1 506, fu per Bologna un'età d'oro. Come osserva uno storico moderno, tuttavia, i Bentivoglio «non furono tra le più fulgide dinastie principesche » d' ltalia8• Non stabilirono una corte e, come i Medici di Firenze, non avevano una carica ufficiale. Erano tuttavia generosi mecenati: sotto Giovanni 11 Bentivoglio, che governò la città per quasi mezzo secolo, Bologna subì una radicale trasformazione urbanistica. Di Giovanni si disse che aveva ricevuto una Bologna d'argilla e legno grez­ zo e ne aveva restituita una di mattoni e fulgido marmo9• Durante il governo di Giovanni l'università di Bologna conobbe un prestigio mondiale10• Con un numero di iscritti che oscillava tra i mille e i duemila studenti, oltre a centinaia di studiosi stranieri con la loro servi­ tù, l'università era per la città una stabile fonte di reddito e di rinomanza internazionale. Bologna divenne una città eminentemente universitaria, la cui principale attività economica ruotava attorno alla presenza degli studenti. Il prestigio dell'università si respirava ovunque. Medici in sontuose toghe purpuree figuravano in ogni cerimonia civile e ogni candidato alla laurea veniva condotto in pompa magna alla cattedrale, dove esponeva la

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IL PROFESSORE DI S EGRETI

Benché all'epoca della nascita di Leonardo Fioravanti il condottiero rinascimentale Gio­ vanni Bentivoglio non fosse più al potere da oltre un decennio. era ancora viva a Bologna la memoria del suo benevolo dispotismo.

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2.1

sua tesi e dove (se tutto andava bene) riceveva le insegne del dottorato. La città ospitava l'università anche con la sua architettura: i famosi portici di Bologna, che danno alla città il suo distintivo fascino moderno, fungevano originariamente da riparo agli studenti costretti a dormire all'addiaccio per la penuria di alloggi. All'epoca di Leonardo Fioravanti la situazione politica di Bologna in realtà, di tutta l'Italia - era a dir poco deprimente. Il papato, deciso a portare lo Stato della Chiesa (fino a quel momento governato solo no­ minalmente dal papa) sotto il governo diretto di Roma, sfruttò questa debolezza. Nel 1506, pochi giorni dopo essere diventato papa, Giulio n rese note le sue intenzioni. Giovanni resistette, e il papa lanciò l'interdetto contro la città, impedendo ai cittadini di partecipare ai sacramenti. Ma il popolo era stanco di armarsi a proprie spese e così Giovanni ricevette ben poco sostegno. Le chiese furono chiuse. Il clero cominciò ad abbandonare la città. Su Bologna calò un velo di tristezza. Finalmente, il giorno di Ognissanti, Giovanni, accompagnato da figli e nipoti, abbandonò la città. Undici giorni dopo Giulio n assunse per­ sonalmente il controllo di Bologna, ponendo fine a un lungo periodo di indipendenza e prosperità. Dopo l' invasione francese del 1 494, le ostilità si trascinarono quasi ininterrottamente per altri sessantacinque anni. La guerra era resa an­ cora più devastante dali' introduzione di una serie di innovazioni, la co­ siddetta "rivoluzione militare"11• Tra i principali mutamenti strategici e tecnologici dell'epoca, vi furono il declino della cavalleria e l'ascesa della fanteria; nuovi modi di progettare le fortificazioni; il fare sempre più assegnamento sulla potenza di fuoco nel campo di battaglia; il cospicuo aumento delle dimensioni degli eserciti e le nuove tattiche militari che sfruttavano l'artiglieria. La distruzione causata dalle guerre incessanti suscitava sgomento in tutti quelli che ne furono testimoni. I becchini dissero di aver sepolto 1 6.500 cadaveri dopo la battaglia di Marignano del 1 5 1 5, quando le forze francesi al comando di Francesco I sconfissero un esercito di mercenari svizzeri capitanati dal duca di Milano Massi­ miliano Sforza". Nel 1 5 12. a Ravenna furono trucidati più di 1 3 . 0 0 0 sol­ dati spagnoli e francesi. Le guerre si conclusero nel 1 5 5 9 con la pace di Cateau-Cambrésis, che ratificò il dominio spagnolo in Italia attraverso il controllo di Milano e Napoli, e la sua alleanza con il papato. Con que­ sto trattato la Repubblica di Venezia rimase l'unica entità indipendente della penisola italiana.

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IL PROFESSORE D I SEGRETI

«Una scabbia violentissima»

Con gli orrori della guerra arrivarono anche carestie e malattie fino allora sconosciute. La più spaventosa fu la sifilide, forse introdotta in Spagna dai marinai tornati con Colombo dal Nuovo Mondo. I soldati spagnoli por­ tarono il morbo a Napoli, infettando le truppe di Carlo VIII, che a loro volta lo diffusero in Francia. La malattia si guadagnò dunque il nome di mal francese per l'erronea convinzione che gli italiani l'avessero contratta dali'esercito d'oltralpe. I francesi, pensando di averla presa dagli italiani, la definirono mal napolitain. Qualsiasi nome avesse, la sifilide devastava le sue vittime, !asciandole orrendamente deturpate ed emarginate dalla società per via del disprezzo morale legato alla malattia. Oggi il ceppo della sifilide è relativamente poco aggressivo (e curabile), ma nel Rinascimento la malattia era un flagello mor­ tale. Non esisteva morbo più contagioso, diceva Erasmo, più terribile per le sue vittime, più difficile da curare. « È una scabbia violentissima » esclama un personaggio in uno dei suoi Colloqui, «che non è da meno della lebbra, dell'elefantiasi, deli' impetigine, della podagra, della sicosi » '3• Anche il tifo epidemico, che aveva fatto la sua comparsa in Spagna e in Italia negli anni novanta del Quattrocento, costituiva una novità per l'Eu­ ropa rinascimentale. Un'epidemia più vasta si verificò nel 1 5 27-28, nel cor­ so della quale furono riportati casi a Napoli e Milano'4• Legato alla carestia e alla sporcizia, il tifo accompagnava sempre gli eserciti in ogni campagna. La popolazione europea era predisposta alla malattia a causa delle guerre incessanti, del clima rigido e dei magri raccolti, tutti fattori che contribui­ vano a diminuire le scorte alimentari e a indebolire il sistema immunitario. Nella sua pittoresca storia del tifo dal titolo Rats, Lice, and History (Ratti, pidocchi e storia), Hans Zinsser - il batteriologo che isolò il germe responsabile della malattia e che sviluppò il primo vaccino contro il tifo - scriveva che quando la malattia esplose in Europa « si diffuse in lungo e in largo tra le sventurate popolazioni afflitte da carestie, miseria, vagabon­ daggio e guerre incessanti: condizioni ideali per lo sviluppo del tifo» '1• Questo era lo stato delle cose neli' Italia del primo Cinquecento, una terra dove sofferenza e disperazione erano tanto profonde da far esclamare a Pietro Aretino: «le guerre, le pesti, le carestie, et i tempi [ ... ] hanno im­ puttanita tutta ltalia» '6• È come se i quattro cavalieri dell'Apocalisse Guerra, Pestilenza, Carestia e Morte - avessero galoppato per la penisola, lasciandosi alle spalle una scia mortale.

«MIA DOLCE PATRIA»

Nel gennaio del 1 5 1 4 , circa tre anni prima della nascita di Leonardo Fioravanti, nei pressi di Bologna era nata una bambina deforme. Diversa­ mente dai tanti "mostri" più o meno stravaganti che si dice fossero nati a Ravenna, Firenze e in altre città (e considerati presagi di future sventure), questa bambina era un essere umano vero e proprio. Era la figlia di un certo Domenico Malatendi, che coltivava un orto nei pressi della città. Secondo i cronisti che descrissero la nascita, la bambina aveva due volti, due bocche, tre occhi ed era priva di naso. Sulla sommità della testa aveva un'escre­ scenza « in modo de una cresta rossa » o di « una vulva» '7• La bambina fu battezzata nella cattedrale di San Pietro il 9 gennaio e le fu imposto il nome di Maria. Quattro giorni dopo morì. La vita della piccola Maria, seppur breve, aveva provocato un grande subbuglio. Secondo i contemporanei, gli astrologi bolognesi interpreta­ rono la neonata come un «segno di gran peste e guerra» . Un osservatore romano, avendo visto un'illustrazione stampata della bimba, interpretò il corpo di Maria come un simbolo della «calamitosa Italia; da poi così pro­ strata et con la vulva aperta, sono venuti a luxuriar et debacar tanti externi che abbiamo visti in facia » '8• Analoghe espressioni di allarme vennero da Venezia e Firenze. Maria Malatendi divenne parte del folclore bolognese. Certamente il giovane Fioravanti doveva aver sentito queste storie, ed è quindi ragio­ nevole concludere che il corpo deforme di Maria abbia avuto per lui un significato speciale. La "corruzione" del corpo umano - causa di malat­ tia e deformità - sarebbe diventata un simbolo non soltanto del declino dell' Italia, ma anche del misero stato in cui versava la medicina dell'epoca. Leonardo Fioravanti avrebbe dedicato la sua vita alla ricerca di un modo per tornare alla gloria del passato - a un'epoca nella quale le fal­ se teorie non avevano ancora contaminato la medicina originaria e pura dell'antichità. Lui l'avrebbe fatta rivivere, perfezionandola e ribattezzan­ dola « il nuovo modo di medicare » .

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L'impero della malattia

Verso la fine della vita Leonardo Fioravanti scriveva di aver trascorso gli ultimi quarant'anni vagando per il mondo in cerca della Magna Medici­ na'. Nei suoi tanti libri e in numerose lettere documentò copiosamente, seppure non sempre puntualmente, quella lunga ricerca, ma i testi rivela­ no anche molte elusioni. Fioravanti conduceva i lettori esattamente sino a dove voleva lui, e non oltre. Era un professore di segreti, anche in questo. Il suo atto di battesimo dice che Leonardo Fioravanti nacque a Bologna il IO maggio 1 5 17'· Il documento registra anche i nomi dei genitori, Gabrie­ le e Margarita Fioravanti. Era, ed è tuttora, un cognome molto diffuso a Bologna e in Emilia Romagna. Quasi a voler cancellare i primi anni della sua vita, Leonardo rivela ben poco della sua infanzia. L'unico evento di quel periodo da lui registrato è la violenta epidemia di tifo del 1 5 27-28 che colpì Bologna quando lui era appena decenne. Le malattie costellavano i ricordi della sua vita. Sotto questo aspetto Leonardo non faceva eccezione. Agli inizi dell'epoca moderna, la gente contrassegnava le fasi della vita non soltanto con i riti di passaggio - bat­ tesimi, matrimoni, iniziazioni e funerali - ma anche con guerre, carestie, disastri naturali e malattie a cui era sopravvissuta. Il medico Girolamo Cardano registrò nella sua autobiografia tutte le malattie contratte nel corso della sua lunga esistenza, dalla peste avuta a due mesi di vita ai ricorrenti attacchi di gotta della mezz'età. Pochi furono diligenti nell'annotare i propri disturbi quanto Cardano, un ipocondria­ co che, per sua stessa ammissione, riteneva che il piacere consistesse nel sollievo dopo una grande sofferenza\ Tuttavia la meticolosità con la quale Cardano annotava ogni malanno rivela, più che un bisogno irrefrenabile di capire la malattia (o di esercitare una sorta di controllo psicologico su di essa), una completa rassegnazione alla sua capricciosa natura.

' L IMPERO DELLA MALATTIA

Per la gente dell'epoca la malattia era arbitraria, inevitabile e onnipre­ sente. Le epidemie colpivano all'improvviso, uccidendo senza pietà, men­ tre le malattie croniche perduravano e debilitavano le loro vittime esauren­ dole al punto da far loro desiderare di rendere l'anima a Dio. Le malattie infettive mietevano un gran numero di vittime, ma anche gli acciacchi minori, come le eruzioni cutanee, le ulcere, le piaghe e i dolori da traumi, opprimevano quotidianamente la vita. I manuali di automedicazione dell'epoca fanno luce sulle malattie co­ muni. Secreti nuovi, un libro del popolare scrittore Girolamo Ruscelli, pubblicato nel 15 67, contiene circa un migliaio di trattamenti per malattie che vanno dalla scabbia al vuoto di memoria. Circa il 20 per cento sono dedicati a malattie cutanee come eruzioni e tigna. Anche i disturbi oculari e le malattie di denti e gengive erano molto comuni, come anche i vermi intestinali, le ferite, le fratture e le punture. I disturbi patiti dagli italiani del Cinquecento erano dolori cronici che affliggevano la vita ma raramen­ te portavano alla morte. Contrariamente all'opinione di Leonardo Fioravanti, i medici erano solo parzialmente responsabili dell'elevata incidenza delle malattie nell'I­ talia della prima età moderna. Ben più colpevoli erano le deplorevoli con­ dizioni di vita dell'epoca. La stragrande maggioranza delle persone viveva appena al di sopra del livello di sussistenza, priva com'era di cibo e alloggi adeguati. Le carestie, un regime alimentare scadente e la malnutrizione cronica debilitavano la popolazione urbana come quella rurale. L' igiene personale e pubblica era deplorevole, soprattutto nelle città dove i liquami venivano scaricati nelle strade e i rifiuti umani e animali inquinavano le falde acquifere. Agli inizi dell'età moderna le città generavano un robusto microcosmo di microbi che vivevano alle spalle della popolazione, dando luogo a un'ampia varietà di malattie con le quali la gente conviveva, non avendo altra scelta.

La peste in casa

I comuni acciacchi erano talmente diffusi da non lasciare quasi un segno nella memoria della gente, che si ricordava invece delle epidemie. La peste bubbonica, l'infezione più temuta del secolo, conservava ancora la sua vi­ rulenza un secolo e mezzo dopo l'esplosione della cosiddetta "peste nera"

IL PROFESSORE DI SEGRETI

del 1 347-48. Ma erano tante le malattie epidemiche che colpivano la popo­ lazione con quasi altrettanta violenza - talmente tante che per i contem­ poranei erano tutte, indistintamente, peste. Il termine "peste" indicava una lunga serie di malanni: si riferiva non solo alla peste bubbonica ma anche a influenza, tifo, meningite, vaiolo e a una moltitudine di altre malattie contagiose. Né i nomi usati per distinguere una forma di peste dall'altra - pestilenzia, moria, mal de zucho ci aiutano a identificare quelle antiche epidemie in termi­ ni medici moderni. Spesso le epidemie coesistevano con altre malattie infettive e croniche, rendendo ne così estremamente difficile l' iden­ tificazione. Durante l'epidemia del 1 5 2 8 che devastò la Val Padana, i contemporanei riferirono di quattro diversi tipi di peste4• Basandosi su questi racconti è quasi impossibile determinare con un minimo di precisione quali fossero realmente le malattie sperimentate all' inizio dell 'età moderna. E se anche fosse possibile determinarle, da sole non servirebbero co­ munque a spiegare le sofferenze provate dalle persone. L'esperienza della malattia è condizionata da fattori sociali e culturali, oltre che biologici. La nostra interpretazione delle malattie riveste per l'esperienza che ne facciamo la stessa importanza degli agenti patogeni che ne sono all'origi­ ne. La lebbra - ritenuta una punizione di Dio per la depravazione morale - stigmatizzava le sue vittime rendendole oggetto di paura e repulsione. Il lebbroso era l'archetipo del reietto, condannato a essere "morto per il mondo", ai margini della società1• I lebbrosari, rifugio dei disprezzati, era­ no onnipresenti nell' Europa rinascimentale. Anche dal punto di vista strettamente biologico, l'esperienza della ma­ lattia nel Rinascimento era spesso radicalmente diversa da quella odierna. In generale, le malattie che rappresentano una novità per una popolazio­ ne colpiscono con più virulenza delle malattie conosciute. Con il tempo le popolazioni sviluppano immunità naturali contro i focolai ricorrenti di epidemie, mentre i microbi, che si evolvono costantemente, adottano nuove strategie che consentono loro di vivere alle spalle degli ospiti senza ucciderli. Sifilide e tifo, malattie nuove nell' Europa agli inizi dell'età mo­ derna, furono pertanto molto più virulenti e diffusi allora di quanto lo furono in seguito. La gente viveva nella paura mortale delle epidemie. Le lettere ai figli della gentildonna fiorentina Alessandra Strozzi, scritte tra il 1 4 47 e il 1 470, epoca di ricorrenti epidemie di peste, rivelano il panico che attanagliava -

' L IMPERO DELLA MALATTIA

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le persone quando giungeva loro voce dell'arrivo della temuta malattia. «Ancora ce n' è en due case qui appresso; che pochi n'è rimasi» scriveva la nobildonna al figlio Filippo nel novembre del 1 4 6 5 . « Sì che ella comin­ cia, e siàno nel verna. Iddio ci aiuti » . Riflettendo sulla morte di un pa­ rente durante la peste del 1 4 5 8, la Strozzi scriveva « Non so ne fa guardia, e tutti v 'andiàno»6• La repentinità della morte la sconcertava: «Benchè alcun dì prima avessi chiocciata, non era in modo, che sempre andò per casa, e non pareva che avessi male » . La morte dominava l a vita, e il mistero della morte rendeva la sua pre­ senza inquietante e minacciosa. Praticamente tutti concordavano sulla causa implicita della peste: il peccato. Nessuno nel Cinquecento avrebbe messo in dubbio che un'epi­ demia, come ogni disastro naturale, fosse mandata da un Dio incollerito quale castigo per i peccati dell'umanità. Secondo il medico veneziano Pro­ spero Borgaruccio, la peste era «un grandissimo flagello di Dio verso noi altri peccatori » 7• In pochi mettevano in dubbio la giustizia di questo durissimo giudizio. Certamente non Leonardo Fioravanti che, scrivendo negli anni sessanta del Cinquecento, così ragionava sulla peste: La principale, e più potente cagione, per la cui viene la peste, è mossa dalla divi­ na bontà: e che ciò fia il vero, non si può negare che il Creatore del tutto Iddio benedetto, non sia lui il vero Motore di tutte le cose create: come in tutti i secoli s'è visto, si vede e si vedrà, per le sacre et divine historie. [ . ] Noi vediamo, ch'egli ha mandato infinite volte la peste al mondo per castigare quei popoli che si sono ribellati, e allontanati da lui: e però quando noi vediamo venir la peste, infermità tanto spaventosa, e che mette tanto terrore nel mondo, possiamo dire con verità, questa essere opera d'Iddio, e non cosa naturale: percioche noi vediamo che mai non viene tale infermità, se non quando piace a sua divina Maestà, e la manda a noi per castigarci de' nostri enormi peccati che di continuo commettiamo verso la sua Divina bontà8• ..

La medicina coesisteva con questa fosca interpretazione teologica della malattia. Persino i papi reclutavano i medici - a decine. Scipione Mercurio che, in quanto medico e frate aveva il piede in due staffe, insisteva che reli­ gione e medicina dovessero andare di pari passo: « Ma Iddio ha ordinato, che la sanità, si ricuperi per la medicina »9• Chiedere la guarigione senza la medicina sarebbe stato come chiedere un miracolo - il che, in effetti, sarebbe stato come sfidare Dio.

IL PROFESSORE DI SEGRETI

Alla ricerca di una causa

Se i medici accettavano l'origine sovrannaturale delle epidemie, erano però molto meno sicuri delle cause naturali, secondarie, della malattia. Molti concordavano con la teoria del medico greco Galeno secondo cui la peste era originata da una sorta di corruzione dell'aria. Borgaruccio assunse il fatto che la peste colpiva tutti allo stesso momento quale prova che fosse causata dall'aria impura, perché cos'altro hanno in comune le persone se non il fatto di respirare l'aria ? Una volta inalati, continuava Borgaruccio, questi mi asmi procedono «in una certa forma occulta» e « seguono li nostri humori, et mafSime l' innata h umidità de cuori: alla cui putrefatione segue poscia una febbre accesa, come dico, pernitiosif5ima, et pe1Sima » '0• Alcuni medici assegnavano grande importanza ai fattori astrologici, che ritenevano liberassero le arie immonde che davano origine all'epide­ mia. Le congiunzioni di Marre e Saturno erano considerate particolar­ mente perniciose. Altri sostenevano che gli eventi astrologici fossero meri presagi di una futura epidemia, non cause in se stesse. I medici notarono anche una relazione tra carestia e peste, benché non fossero sicuri se fosse la carestia a causare la peste oppure se, indebolendone la costituzione, ren­ desse le persone più predisposte. L'unico principio sul quale tutte le autorità concordavano era che la pestilenza potesse essere trasmessa attraverso il contatto con le persone in­ fette o con i loro oggetti. La teoria rinascimentale del contagio riprende un tema antico: la convinzione che la malattia fosse portata dal mondo esterno, da viaggiatori e vagabondi". Non ci volle molto, in termini psico­ logici, ad addossare la colpa della malattia agli emarginati: i mendicanti, le prostitute, i poveri e il tradizionale capro espiatorio dell' Europa, gli ebrei. Questi gruppi "inferiori" della popolazione erano considerati particolar­ mente vulnerabili alla malattia perché attiravano il contagio e il vizio". Gli orribili sintomi della peste rafforzavano la visione della malattia come corruzione corporea. Nella peste bubbonica (Yersinia pestis), una malattia dei roditori, le pulci trasmettono l'agente patogeno dai topi in­ fetti all'uomo. Quando la persona viene colpita, il microbo si moltiplica velocemente nell'area della puntura, provocandone l'annerimento e il ri­ gonfiamento del linfonodo più vicino. Questi rigonfiamenti, o bubboni caratteristica che dà alla peste l'appellativo di "bubbonicà' - gradualmen­ te si ingrandiscono, raggiungendo anche le dimensioni di un uovo o di una mela e sono molto dolorosi. I pazienti hanno la febbre alta e sono alterna-

' L IMPERO DELLA MALATTIA

tivamente apatici o agitati. Le palpebre diventano blu e il viso plumbeo. Quando i bubboni suppurano, secernono un pus maleodorante. Nel 9 0 per cento dei casi insorge il delirio, la vittima va in coma e muore. Non desta meraviglia che tra i rimedi prescritti dai medici contro la peste vi fossero purganti per eliminare le corruzioni corporee. Erronee o no, le eziologie (le spiegazioni delle cause delle malattie) rinascimentali condizionarono la risposta delle comunità cittadine alle epidemie. Gioseffo Daciano, medico di Udine, scriveva: «Prima e subi­ tamente bisognerebbe ricorrere con cordiali orazioni, voti, e digiuni al Signor Dio clementissimo Redentor nostro, che ce lo rettificasse alla sua pristina e buona temperie, per la conservazione nostra, secondo che alle quattro stagioni del anno naturalmente se ti conviene » . Legni odorosi e profumi dovevano essere bruciati per tutta la città per purificare l'aria. Durante la peste del 1556, ricordava Daciano, la Commissione della sanità pose severe restrizioni alla vendita di frutta fresca, carne e altre merci depe­ ribili. Macellerie e pescherie furono chiuse; il mercato fu rigidamente re­ golamentato. Temendo che anche l'abbigliamento potesse essere infetto, la Commissione della sanità vietò persino la vendita di tessuti e pelletterie. La teoria del contagio portò inoltre all'obbligo della quarantena per i malati. I cittadini temevano e odiavano queste prescrizioni, quasi quanto la peste. Le misure prese a Udine nel 1556, descritte da Daciano, sono simili a quelle di altre città: Quarto provedimento fù, che in pena della forcha, non fusse alcuno, che cami­ nasse per la Città, ne che alcuno pratticasse, ch'avesse, ò si sentisse haver il male. onde fu fatto un pubblico proclama, che qualunque che nell'avvenire se infer­ masse, subito all'offìcio dare si dovesse in nota, sotto la pena suddetta. Oltre che erano anco costituiti due visitatori per contrada, che ogni giorno nel levare del sole, visitavano tutte le case della !or contrada, e poi subito rifferivano lo stato di quelle alli Magnifici Provveditori. [ ... ] Dipoi ogni giorno si cavavano le police di tutti gli infermi, che denunciati erano, e si davano al Medico dell'offìcio, il quale io all'hora ero a cio deputato [ ... ] . Niun corpo era sepolto, se prima il Cadavere non era da me minutamente veduto: che se appestato non era, li Pretti con licentia in scrittura lo sotterrava in chiesa con le solite cerimonie. ma se poi erano morti di Peste, li Beccamorti soli gli sotterravano al Lazaretto. Quinto, che quelli che si trovavano haver pratticato con persona ammorbata, si tenevano per ogni minimo sospetto sequestrati, e in casa serrati per almeno ll giorni. Ma le case nelle quali era morto, ò ammorbato alcuno, rimanevano chiu­ se non manco di quaranta giorni. [ ... ] Sesto, che quelli, che di giorno in giorno

IL PROFESSORE DI SEGRETI

s'infettavano, ò che alcuno infettato moriva, subicamente si mandavano fuori al Lazaretto delli ammorbati, ove al bisogno del corpo, e dell'anima sua con ogni carità gli era provisto: e li restanti di casa, che sani erano, si riponevano in un'altro Lazaretto, che sano era, ma però di sospetto. ove prima subito con diligemia erano cucci lavati con l'aceto, e acqua rosata, e mutati di mondi vescimenci. poscia erano cucci ottimamente purgati secondo la età e lo stato dei pazienti, e secondo che ricercava la preservazione di tal morbo. e cucce le famiglie scavan (senza però le robbe loro infette ) appartate l'una dall'altra; perche le robbe che di poco valore, ò di molto sospetto erano, subito dalli Magnifici Signori Providitori erano per bon rispetto mandate al fuoco. Ma le altre che di qualche valore erano, pur che non fussero di molto sospetto, con grandissima diligentia cura e arte furono fidelmen­ ce nettate, e con custodia purgace'3•

Qualcosa di malefico si avvicina

A Bologna le prime voci sull'epidemia giunsero da Roma, ricorda Fiora­ vanti. Nell'estate del 1527 il notaio modenese Tommasino Lancellotti così riassumeva le inquietanti notizie che gli giungevano, mentre l'epidemia si spostava rapidamente verso il Nord: «tute le case abandonate, deserte, piene de ledamo de homini e bestie morte, e non se ge celebra mesa, el non ge botege, se non poche, se uno è infirmo el more de stento per non ge essere medico, nè medicine, nè ove, nè polastri; carastia grande e morbe grande, cose inaudite dapoichè el mondo è mondo» '4• L'epidemia si diffuse rapidamente e con straordinaria virulenza nel Nord dell' Italia. Un terrorizzato contemporaneo riferiva che a Bologna erano morte 2o.ooo persone - una cifra probabilmente gonfiata dal pani­ co, dato che la popolazione bolognese contava all'epoca 6o.ooo residenti. Altri cronisti riferivano di 12.ooo persone, lo stesso numero di morti della città di Mantova. Il morbo appestò l' Italia settentrionale per tutta l'estate, l'autunno e l'anno successivo, mietendo centinaia di migliaia di vittime'1• Che cosa aveva provocato l'epidemia del 1527-28 ? Anche se una dia­ gnosi delle malattie storiche è nel migliore dei casi puramente speculativa, le descrizioni dell'epoca paiono più compatibili con il tifo che con la peste, sebbene questa fosse probabilmente presente in alcune aree (le malattie sono notoriamente opportunistiche: quando un parassita infetta una po­ polazione e ne abbatte la resistenza, altri parassiti sfruttano lo stato di de­ bolezza dell'ospite) . Il dettagliato elenco dell'epidemia del 1527 del medi­ co Girolamo Fracastoro pare quasi preso da un manuale sul tifo: nei primi

' L IMPERO DELLA MALATTIA

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giorni febbre e spossatezza, seguite da prostrazione generale e delirio, poi il corpo si ricopre di eritemi simili a punture di pulce o, in qualche caso, di macchioline grandi come lenticchie - il sintomo tipico da cui derivò il nome cinquecentesco del morbo, mal di petecchie. Un altro medico, Nic­ colò Massa, fece un'analoga descrizione, osservando che le macchioline apparivano in tutto il corpo'6• Ma la cronologia dell'epidemia del 1 5 2.7 pare smentire il tifo. Diffuso dai pidocchi del corpo umano, il tifo solitamente ricorre in inverno inol­ trato o agli inizi della primavera, quando infagottarsi nei vestiti favorisce lo sviluppo dei pidocchi. L'epidemia del 1 5 2.7 scoppiò invece nella tarda primavera e proseguì per tutta l'estate. Tuttavia, il 1 5 2.7 fu un anno inso­ litamente freddo e umido'7• Gli strati di vestiti pesanti e umidi indossati in condizioni simili creavano l'ambiente ideale per la proliferazione dei pidocchi. I raccolti furono scarsi a causa del tempo cattivo e provocarono una grave carestia che indebolì ulteriormente la popolazione, rendendola più sensibile all'infezione. Ma le sofferenze di Bologna non erano ancora finite. In quella stessa primavera i mercenari che costituivano l'esercito di Carlo v, imperatore del Sacro romano impero, avevano fatto tappa a Bologna, acquartierandosi nei dintorni della città, prima di recarsi a Roma, dove avrebbero saccheg­ giato la città: lo scellerato Sacco di Roma'8• Non remunerati e indisciplina­ ti, vivevano di razzie ed estorsioni. Benché a Bologna venisse risparmiato il destino di Roma, grazie a una sostanziosa elargizione pagata con il te­ soro cittadino, le truppe mercenarie erano impossibili da controllare. Un testimone raccontò che 3 2..000 soldati tedeschi e spagnoli entrarono nel territorio bolognese a marzo e «comenzono a robare galine, robare bestie grosse e menute, rompere casse et scrigni, robare, assassinare el contado de Bologna, svergognare le dane, brusare le case del contado, amazare et ferire di li contadini» '9• Che ricordo aveva di questa devastazione Fioravanti, che all 'epoca era un bimbo di dieci anni ? Sorprendentemente egli rivela ben poco di quell'annus horribilis. Forse avrà pensato che sulla povera Bologna fossero calati gli unni. Zotici e ubriachi, la parlata rozza dai suoni duri, gutturali, i soldati imperiali si comportavano da barbari, requisendo le case e rubando il cibo. Come se non bastasse, il gelo e l'umidità arrivavano alle ossa. Da due anni imperversava una terribile carestia. Il prezzo del pane, sempre che lo si potesse comprare, era così alto che la gente moriva di fame. Infine, le

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IL PROFESSORE DI SEGRETI

autorità cittadine avevano tassato i generi alimentari - un'imposta che la gente chiamava il « bolognino de' morbo» . Talmente derelitta era la città, da assumere un aspetto ultraterreno. Con gli occhi infossati, le persone vagavano macilente, più simili a fanta­ smi che a esseri umani. Alcune morivano sulla strada, marcendo per giorni prima che le autorità, sopraffatte dagli eventi, mandassero qualcuno a rac­ cogliere i corpi'0•

Il caos visto da un bambino

Anche se l'epidemia aveva ucciso migliaia di persone, non è della morta­ lità che Leonardo si ricordava. Piuttosto, ricordava le severe misure prese dalle autorità sanitarie". Gran parte della paura generata dall'epidemia era causata dalle rigide restrizioni alla vita quotidiana, dalle minacce e dal­ le vessazioni dei funzionari incaricati di farle rispettare, e dagli abusi che inevitabilmente ne seguivano. Il mercante Romolo Amaseo, scrivendo da Bologna nel settembre del 1527, riferiva che ->9•

IL PROFESSORE DI SEGRETI

Non solo, diceva Fioravanti, ma squartare un corpo e metterne in mo­ stra le varie parti non avrebbe mai potuto provare le asserzioni dei medici in merito alle cose che stanno al di sotto della pelle e sono quindi invisibili all'occhio, come gli umori biliari e gli spiriti vitali. « Quando ho visto fare l'anotomia, non ho mai visto, ch' habbino mostrato, Aemma, nè colera, nè malenconia, nè spiriti vitali, ma si bene hanno mostrato la lingua, il canarozo, il polmone, il core, il fegato, la milza, il ventricolo, la diafragma, le budella, i rognoni, la vescica, i nervi, le vene, i tendoni, la carne, la pelle, e l'ossa, ma non giamai le cose sopradette; come dunque potiamo prestar fede a quelle cose che sono cosi occulte che non possono trovare ? » 10• L'unica cosa che la lezione di anatomia dimostrava, secondo Fioravan­ ti, era che i medici insegnano e scrivono di cose che non esistono. Le idee estremiste di Fioravanti cozzavano contro quelle della comuni­ tà accademica. In quei giorni, il rinascimento dell'anatomia introdotto da Vesalio e da altri stava portando molto in alto quella disciplina ali' interno delle facoltà di medicina. Vesalio ottenne una cattedra a Padova e più tar­ di sarebbe diventato medico personale dell'imperatore del Sacro romano impero. Negli anni settanta, grazie soprattutto alla richiesta degli studenti, tutte le facoltà di medicina italiane insegnavano l'anatomia secondo i me­ todi proposti da Vesalio. Lo scontro tra Vesalio e Corti, entrambi uomini vanitosi e presuntuosi, incarnava per Leonardo la futilità della medicina dotta. Il fatto che nes­ suno dei due si scostasse dalla propria versione della verità - uno con un libro aperto e l'altro con un corpo altrettanto aperto - persuase Fioravanti che la medicina accademica non fosse altro che una fantasia. I medici «di continuo disputano e leggono queste materie favolose, e nessuno di loro è mai stato bastante di poter sapere come opera questa de gli interiori con tutte le particolarità del fatto» protestava. «Ma solamente alla ventura, e per imaginationi e chimere loro, che si vanno imaginando nel cervello »". Per Fioravanti il problema della medicina accademica era il suo essere fatta di troppa teoria e troppi libri - troppa argomentazione e troppa poca pratica. Essa non aveva alcun fondamento nell 'esperienza e serviva soltan­ to a mantenere i medici in alto. «Veggiamo adunque come i Fisici si usur­ parono la medicina, & tennero modo tale, che fecero privare di tal grado tutti gli altri, & essi si fecero laureare, & questa fu una malignità grande » . La medicina era un dono di Dio per tutti gli uomini, affermava Fioravanti: chiunque avesse le capacità per esercitare questa arte doveva essere lasciato libero di farlo.

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LEONARDO E GLI ANATOMISTI

L'anatomia, per Fioravanti, è «contra l'ordine di natura >> perché la natura vuole che le parti siano unite e non separate". Il ruolo del chirurgo non è quello di sezionare il corpo ma di aiutare la natura a guarire il corpo. Che l'anatomia sia un crimine contro la natura, sosteneva Fioravanti, lo si può vedere chiaramente osservando gli animali: Noi vediamo i cani, che mai non danno molestia alcuna a i corpi de cani morti, e così i lupi, le volpi, i gatti, e tutte le sorti di uccelli, che sono nel mondo; e questo è perche la natura noi comporta, e noi altri sotto spetie di imparare, usamo una tan­ ta crudeltà; della qual siamo ben puniti, e castigati; imperoche la più parte di quel­ li che fanno detta notomia, si muoiono di morte violenta, e quasi disperati come ben continuamente si vede: e però io consiglierei ciascuno, non si impacciasse mai in questa materia di notomia per non disfar i corpi humani, i quali ha fatto Iddio nostro Signore, e perche si pecca in legge di natura, e si offende il prossimo suo'1•

Molti contemporanei di Fioravanti condividevano la sua ripugnanza all'i­ dea di squartare i cadaveri per la pubblica ispezione. Come suggerito dallo storico Andrea Carlino, la resistenza cinquecentesca alla dissezione non era religiosa ma antropologica: « Il problema risiede [ ] nel contatto con il morto e con il sangue (contrectare) e nella profanazione della compagi­ ne corporea »'4• Per Fioravanti, l'anatomista non era tanto diverso da un macellaio - anzi quest'ultimo godeva di un lieve vantaggio morale poiché svolgeva un mestiere essenziale per il sostentamento degli uomini. Possiamo dunque ipotizzare alcune delle ragioni per le quali Leonardo lasciò l'università e, presumibilmente, fece la gavetta per diventare chirur­ go o empirico. Il suo severo giudizio sulla dissezione umana - una reazione morale (e forse religiosa) che sentiva nel profondo di se stesso - esempli­ ficava la sua avversione alla medicina accademica in generale: a Fioravanti ripugnava non solo l'anatomia ma anche quella che per lui non era che una tradizione accademica sterile e priva di senso. Entrando nel mondo sotterraneo della medicina, Leonardo Fioravanti scelse un percorso diverso. Sarebbe diventato il fustigatore dei medici e il difensore degli empirici. . . .

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La formazione di un chirurgo

Le reminiscenze di Leonardo degli anni bolognesi non sono di grande aiuto per ricostruire il periodo della sua formazione di medico; sulla vita professionale di quegli anni Leonardo rivela solo di aver iniziato a stu­ diare medicina all'età di sedici anni e di aver cominciato a esercitare a ventidue. Sappiamo anche che a quel tempo non era ufficialmente un medico perché non si era laureato alla facoltà di medicina e non compa­ riva nell'albo dei medici cittadini. Questo però non gli avrebbe impedito di fare il medico. Come tanti altri praticanti della medicina, potrebbe aver esercitato da empirico (un guaritore privo di formazione accademi­ ca). In ogni città dell' Italia rinascimentale, e non sempre legalmente, gli empirici esercitavano il mestiere vendendo le loro specialità medicina­ li, i cosiddetti "segreti", che a sentir loro erano in grado di guarire dai più svariati disturbi. Come sappiamo da osservatori come Boccaccio', la schiera dei guaritori era aumentata nei decenni successivi alla peste nera, quando i medici non avevano potuto assorbire la crescente domanda di assistenza. Vagando di città in città, gli empirici sfuggivano spesso alle maglie delle autorità. Oppure, come appare più probabile, Fioravanti potrebbe aver fatto la gavetta da cerusico. La sua notevole conoscenza della chirurgia suggerisce che egli possa aver appreso i rudimenti di quell'arte prima di lasciare Bolo­ gna in cerca di fortuna. Al di là della formazione, la sua acrimoniosa visio­ ne dell'establishment medico era evidentemente dettata dalla sua perso­ nale esperienza dell'oligarchia medica bolognese. Nel 1 5 1 7, anno di nascita di Fioravanti, la città aveva posto tutti coloro che esercitavano la medicina sotto il controllo di una Commissione di pubblica sanità, gli Assumpti contra empyricos, o Protomedicato, composta dal preside della facoltà di medicina e da due professori scelti a sorteggio. Oltre a rilasciare la licenza ai guaritori, i tre protomedici avevano il compito di compilare laAntidota-

LA FORMAZIONE DI UN CHIRURGO

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ria, ovvero la farmacopea della città - la lista dei composti medicinali che potevano essere venduti nelle farmacie. I protomedici erano parimenti ob­ bligati a visitare le spezierie per verificare che i medicinali fossero realizzati in conformità con le specificazioni. I protomedici ispezionavano i farmaci alla dogana, stabilivano i prezzi di vendita e autorizzavano i venditori am­ bulanti che volevano vendere i segreti medicinali•. Un'oligarchia accademica controllava praticamente ogni aspetto del­ la professione medica a Bologna, dalle licenze agli empirici al prezzo dei farmaci. Se nelle altre città il potere dei medici non era apertamente col­ legato all'establishment accademico, il controllo della pratica medica era però altrettanto elitario. Empirici, chirurghi e speziali non potevano far altro che accettare la propria inferiorità sociale rispetto ai medici. Come scrisse nel suo trattato sull'arte del "barbiera" il cerusico napoletano Cin­ tio d'Amato, «Ciò che il dotto Medico col giudicio propone; il diligente Barbiero con la mano adopera » \ Le autorità posero ripetutamente in atto le normative che separavano il dominio terapeutico del medico da quello del chirurgo. Questa divisione del lavoro nella medicina rinascimentale era inoltre dominata dalla teoria di Galeno, che suddivideva la terapia in dieta, far­ macia e chirurgia, organizzate secondo una gerarchia che ne rispecchiava il grado di universalità e di efficacia. Mentre i farmaci e la chirurgia era­ no ritenuti interventi a livello locale, la dieta era un trattamento mirato all'intero organismo. Il significato di dieta nel greco antico era molto più ampio di quello odierno: comprendeva non solo ciò che si mangia e si beve ma anche quello che il medico veneziano Giovanni della Croce definiva «il modo, & reggimento di vivere », e cioè esercizio, riposo, escrezione, bagni e attività sessuale. Pietra angolare della terapeutica rinascimentale, la dieta era dominio esclusivo del medico il quale, pur non occupandosi direttamente di terapia farmacologica e chirurgia, decideva quando queste dovessero essere impiegate4• La gerarchia delle attività terapeutiche rispecchiava la fondamenta­ le distinzione tra malattie interne ed esterne al corpo. Questa fisiologica divisione determinava a sua volta la separazione tra i rimedi del medico e quelli del chirurgo. Soltanto il medico poteva trattare il corpo interna­ mente - per esempio prescrivendo farmaci da assumere per boca. Tale nor­ ma fu sempre fatta rispettare non solo nei decreti emanati dal Protome­ dicato e dai collegi di medici, ma anche nelle licenze concesse a empirici, chirurghi, ostetriche e ciarlatani1•

so

IL PROFESSORE DI SEGRETI

Un tavolo operatorio (munito di anelli e funi per assicurare gli arti dd paziente) mostra una serie di strumenti usati dal cerusico rinascimentale: forbici per tagliare i capelli, aghi e fili per le suture, lame per smembrare e, in alto a destra, un trapano per perforare il cranio. Da William Clowes, A Profitable an d Necessarie Booke cif'Observations (London 1637 ) .

Purificare il corpo

L'arte della chirurgia differiva dalla scienza della medicina per un altro importante aspetto: quasi tutti i chirurghi non avevano una formazione universitaria ufficiale. Benché la chirurgia venisse insegnata in alcune uni­ versità, non c'era bisogno di una laurea per praticarla. Nel Rinascimento, i chirurghi imparavano il mestiere attraverso l'apprendistato6• La modalità della formazione e il grado di alfabetizzazione aprivano un grosso divario tra le due funzioni: mentre i medici si formavano in discipline intellettuali e curavano le malattie con la mente, i chirurghi esercitavano un mestiere e curavano le malattie con le mani. Come in altri mestieri, i cerusici erano organizzati in una gilda, che de­ finiva i compiti e stabiliva i criteri della formazione. Lo statuto della gilda dei cerusici, o barbieri, affermava: «Dell'essercicio di Barbiera [ ] non importa solo el radere le barbe et lavare, et tosare le teste, ma etiarn il cavar . . .

LA FORMAZIONE DI UN CHIRURGO

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denti o sangue a gl'huomini in qualcunque modo, et in qualcunque mem­ ber, et ponere ventose»7• Nella sua enciclopedica opera sulle professioni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Tommaso Garzoni collegava l'arte del cerusico alla «politezza » del corpo, e aggiungeva che « servono anco i Barbieri per cavar sangue a gli amalati, & per mettergli le ventose, medicar le ferite, far le stappate, cavare i denti guasti, & simili altre cose: onde l'arte loro [ . ] è subalternato per questo alla scienza della Medicina» 8• In qualità di apprendista cerusico, Leonardo avrebbe appreso il mestie­ re da un mastro barbiere, come stabilito dalla gilda dei cerusici. Questi, che esercitava in una bottega sulla cui insegna erano effigiati un braccio e un bisturi, esibiva un contegno professionale che era da esempio per l' ap­ prendista. Per il cerusico romano Pietro Paolo Magni, autore di un ma­ nuale professionale, Discorsi sopra il modo di sanguinare, il cerusico deve « essere pulito, così della persona come de vestimenti, affabile e modesto, [ ] costumato, alieno da brutti gesti, e da sporche parole; non bugiardo, non curioso di vedere, ò d' intendere minutamente le conditioni delle per­ sone e delle case dove egli praticherà, ma discreto e circonspetto in tutte le cose» 9• Per non recare offesa ai clienti, il cerusico doveva inoltre essere sobrio ed evitare profumi e odori forti. Per prima cosa Leonardo avrebbe imparato i ferri del mestiere. Li co­ nosceva bene e li descrive uno per uno in un capitolo sull'arte del cerusico nello Specchio di scientia universale: un bacile, due rasoi, una lancetta, un gamaut (o bisturi, un coltellino chirurgico per incidere gli ascessi), un for­ cipe per estrarre i denti, forcine, una spazzola, due grembiuli, un fornello rovente e un po' di carbone, lisciva e una sacca con un beccuccio per sciac­ quare il viso. Come l'arte del cerusico, anche i ferri del mestiere erano al tempo stesso igienici e chirurgici: nella bottega del cerusico non veniva fatta alcuna distinzione tra le due funzioni. Quello che Garzoni descrive come «politezza del corpo» era ben più di una semplice rasatura o di un taglio di capelli. Voleva dire estrarre denti marci, espellere con il salassa la materia corrotta dal corpo e curare eruzioni e lesioni cutanee. Tutte cose che rientravano nel dominio dell'igiene'0• Poi l'apprendista imparava le tecniche chirurgiche. Ogni mastro bar­ biere seguiva un metodo particolare, sviluppato nella regione in cui si era formato. Magni, ad esempio, individuava almeno quattro tecniche diverse per cavare il sangue: romana, napoletana, siciliana e calabrese. Nella Prat­ tica nuova che al diligente barbiero s 'appartiene, il cerusico napoletano Cin..

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IL PROFESSORE DI S EGRETI

tio d'Amato avvertiva che una certa lancetta usata dai barbieri spagnoli poteva essere pericolosissima; molto più sicura era la zingardola, usata nel­ la città natale di d'Amato e inventata intorno al 1590 dal mastro barbiere napoletano Salvatore di Rosa". Quale che fosse la scuola di salasso segui­ ta dall'apprendista, il mestiere richiedeva una spiccata abilità: il barbiere doveva aprire le vene e incidere con la lancetta le fistole senza intaccare le arterie o danneggiare i nervi. Non era certo un mestiere per pavidi. Per quanto umile potesse essere il loro status professionale, i cerusi­ ci rappresentavano la prima linea di difesa dalle malattie11• Il salasso - la principale mansione chirurgica del barbiere - era per la cultura popolare il trattamento di elezione, perché si riteneva che il sanguinamento perio­ dico purificasse l'organismo e contribuisse alla salute generale. Il salasso era generalmente eseguito con la flebotomia, ma in alcuni casi venivano applicate le sanguisughe. Il principio medico alla base di questa antica pra­ tica terapeutica era l'idea che il salasso drenasse dal corpo la materia cor­ rotta. Poiché il sangue era in grado di trasportare gli umori, il salasso era considerato anche un mezzo efficace per eliminare gli umori superflui che mettevano in pericolo la salute'\ La flebotomia era una sofisticata procedura che richiedeva una consi­ derevole conoscenza dell'anatomia superficiale e delle vene da incidere, a seconda dei vari disturbi. Così, come apprendiamo dai Discorsi di Magni, una certa vena della fronte andava incisa per curare la pazzia o il delirio, mentre cavar il sangue dalla vena sotto la lingua era utile per curare l'angi­ na (squirentia). Alcune procedure, come cavare il sangue dalla vena basili­ ca del braccio, potevano servire come terapie preventive, cosa che si faceva spesso in primavera per purificare il corpo. Alcune vene sono estremamen­ te difficili da individuare, osservava Magni. Erano pochi i barbieri capaci di cavare il sangue dalla vena nella parte esterna del piede, per esempio una procedura raccomandata per la sciatica e i disturbi renali. Il salasso era solo uno dei tanti mezzi con i quali i barbieri drenavano all'esterno i fluidi interni del corpo; essi usavano anche il bagno bollente per provocare abbondanti sudorazioni, i vescicanti per drenare il pus, il cauterio per dissolvere gli umori, le coppette di vetro per portarli in su­ perficie e la scarificazione per farli spurgare. Tutte queste tecniche erano basate sul principio di attirare le impurità interne alla superficie corporea al fine di eliminarle, purificando così l'organismo dalla contaminazione. Oltre a cavar fluidi dal corpo, i cerusici erano chiamati a interrompere il flusso di sangue in caso di ferite, e a suturare queste ultime'4•

LA FORMAZIONE DI UN CHIRURGO

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Una medicina ai margini

I cerusici erano dunque confinati ai margini, sia del corpo umano che della gerarchia medica. Essendo negata loro la facoltà di prescrivere i farmaci che andavano introdotti nell'organismo, i cerusici esercitavano il mestiere alla superficie del corpo, guarendo ferite, aggiustando ossa rotte, radendo barbe e tagliando capelli, nonché somministrando cataplasmi, unguenti e balsami per curare eruzioni cutanee, eritemi e tigna. Il mestiere porta­ va quotidianamente il cerusico a contatto con i fluidi corporei, e questa opera di pulizia del corpo assumeva un rilievo non solo medico ma anche sociale. Il cerusico aveva il compito di ordinare il corpo fisico e condurlo entro i confini delle convenzioni sociali. Far salassi, tagliare barba, capelli e unghie erano tutte funzioni della politezza - pulire il corpo per render!o socialmente accettabile. «L'arte del Barbiere, fù un'altra molto necessaria per il polito vivere [ ... ] non essendo i barbieri, molti huomini viverebbono sporcamente » scriveva Fioravanti nello Specchio di scientia universale'\ All'epoca della giovinezza e dell'apprendistato di Leonardo, tuttavia, il si­ stema che disciplinava il dominio del cerusico era in declino. Nel rapporto tra medico e cerusico si stava verificando un grande cambiamento. La chirurgia un'arte tradizionalmente associata al barbiere, e che adempiva quindi una fun­ zione eminentemente igienica - andava sempre più delineandosi come una branca della medicina, cosa che la poneva nella sfera di competenza del Pro­ tomedicato. A Bologna la separazione tra chirurgo e barbiere fu completata soltanto nel Settecento, quando ai chirurghi fu accordata la completa dignità di medici, ma l'invasione dei medici nel territorio tradizionalmente presidiato dai barbieri era già iniziata all'epoca di Fioravanti. Nel corso del Cinquecento, il Protomedicato, con una serie di decreti, assunse gradualmente il controllo delle licenze ai chirurghi - ponendosi spesso in conflitto con la gilda dei bar­ bieri. Con il tempo la chirurgia sarebbe diventata una materia universitaria, mentre l'arte del barbiere sarebbe rimasta un semplice mestiere'6• Il mutamento della condizione sociale dei chirurghi incise profon­ damente su Fioravanti, modificando non solo la sua visione dell'establi­ shment medico ma anche le sue idee sulla medicina. Che cosa pensava Fioravanti di questo mutamento epocale ? Egli lo faceva risalire all'anti­ chità, quando alcuni dottori avevano inventato la teoria della medicina e si erano dati l'autorità di "medici razionali" per distinguersi dagli empiri­ ci. Essi "usurparono" la medicina e fecero delle leggi che impedivano agli empirici di esercitare la medicina secondo gli antichi metodi, sperimentati

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IL PROFESSORE DI S E G RETI

Tenendo una lancetta tra i denti, un cerusico prepara una donna per il salasso. Si riteneva che questa antica pratica drenasse dal corpo la materia corrotta. A destra, un medico indi­ ca la vena da incidere. Da Cintio d'Amato, Prattica nuova, et utilissima di tutto quello, che

al diligente barbiera s 'appartiene (1669).

nel tempo. Si formarono quindi delle sette e ben presto i medici si misero a litigare su chi fosse il detentore della teoria più valida. Infine la teoria ebbe la meglio e i metodi «de li antichi medici » - che avevano appreso la loro arte dalla natura, attraverso l' imitazione degli animali - furono dimenti­ cati. In seguito a questi cambiamenti, scriveva Leonardo, la medicina « al dì di oggi è tanto confusa, che pochi sono coloro che la intendano» 17• Per Fioravanti l'usurpazione della medicina da parte dei medici razio­ nali era un grave torto morale, che aveva fatto finire la medicina «dritta al

LA FORMAZIONE DI UN CHIRURGO

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bordello » . La sua riforma della medicina mirava a riparare quel torto e a ritornare ai metodi «de li antichi medici » . Per far questo, allargò i prin­ cipi igienico-terapeutici dell'arte cerusica a tutta la medicina. Negli anni dei suoi viaggi, dopo aver lasciato Bologna, Fioravanti iniziò a considerare tutte le malattie come il prodotto della contaminazione e del disordine e applicò quindi la teoria igienica dei cerusici a ogni forma di malattia. All'interno del sistema di medicina da lui messo insieme alla meglio, che era basato sulle esperienze di cerusico e sulla interazione con le persone del popolo, la purgazione aveva un ruolo centrale. Egli dava la massima importanza al sangue e al suo potere curativo, definendolo « il succo della vita » ; inventò persino un metodo di distillazione del sangue per farne una "quintessenza" che, secondo lui, aveva miracolosi poteri di guarigione. Per tutta la vita, Fioravanti nutrì un profondo rispetto per l'arte del chirurgo, rammaricandosi per la sua subordinazione alla medicina. Persi­ no dopo aver ottenuto la laurea in medicina, nelle sue opere sfoggiava con orgoglio il titolo di "chirurgo". Leonardo contrapponeva la sagacia empi­ rica del chirurgo alla vana sapienza teorica del medico. La chirurgia, nata dalle vicissitudini della guerra e da eventi fortuiti della vita quotidiana, ri­ chiedeva abilità, assennatezza e coraggio. La medicina era invece talmente impantanata in dispute dogmatiche da aver perduto il suo originario fon­ damento nell'esperienza. Medicina e chirurgia avevano lo stesso intento, insisteva Fioravanti, il quale deplorava la divisione delle due arti in sfere separate con queste parole: Non si volevan [ i dottori] imbrattar le mani intorno alle piaghe, per non puzzare, & separorno quella parte che è la più importante di tutte, cioè, la cirugia: non di­ meno essi si riservorno il grado, di poterla usare a suo beneplacito ma non volsero già concedere a cirugici, che potessero usare la fisica'8•

Come la rabbia dei diseredati, l'antipatia di Fioravanti nei confronti dei medici era un rancore sordo che non l'abbandonava mai. Il fanatismo con il quale sosteneva l'empirismo rispetto alla teoria nasceva dal risentimento nei confronti del potere politico dei medici. E la pietra angolare di quel potere, Leonardo era convinto, era la subordinazione della pratica alla teoria. L'aura pretesca che circondava i medici, gli unici a laurearsi nella Cattedrale di Bologna, alimentava la sua indignazione. Difendere "la vera medicina" contro i "falsi medici" divenne la crociata che avrebbe animato la sua ricerca di un nuovo modo di medicare.

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La via deli'esperienza

Son già passati molti anni che io come per avanti ho detto, mi partì della mia dol­ ce patria Bologna, solamente con intentione di andare caminando il mondo per haver cognitione della natura! filosofia, aedo potessi meglio esercitare la medicina e cirugia, di quello che io facevo in quei primi tempi, che gli incominciai a dare opera. E cosi, ho caminato in varie e diverse provintie, sempre essercitando l 'arte dove mi son trovato, nè mai mi son stancato di studiare e andar cercando bellis­ simi esperimenti, cosi di dottissimi medici, come ancora di simplici Empirici, e d'ogni altra sorte di gente, come villani, pastori, soldati, religiosi, donniciole, e d'ogni altra qualità'.

Così inizia l'autobiografia di Leonardo, esuberante e autocelebrativa testimonianza del suo percorso da oscuro barbiere a celebre guarito­ re. Aveva trent 'anni e un mondo sconfinato lo attendeva. Salvatore Muzzi, cronista bolognese del XIX secolo, ripercorrendo l'anno 1548, scriveva : « Se mai vi fu anno in cui le cose di Bologna passassero quie­ te e regolari sì che nulla a dire se ne abbia, egli fu il presente » 1• Ma per Leonardo Fioravanti fu un anno importantissimo, l' inizio del suo ap­ prendistato da filosofo naturale ; anni dopo ricordava che solo quando « era andato per il mondo » , lasciandosi alle spalle libri e lezioni, i suoi occhi avevano iniziato ad aprirsi alla verità. Fioravanti aveva seguito l'esempio dell'antico filosofo Apollonia di Tiana\ che aveva viaggiato nei luoghi più remoti del mondo per conoscere i segreti della natura. A coloro che volevano essere chiamati filosofi, Leonardo dava questo consiglio: Sarà necessario che andiate peregrinando per il mondo, venendo diverse genti, per intender le !or nature, et complessioni, et per intendere i loro medicamenti: et cosi facendo, trovarete gran diversità nelle cose di natura, gran varietà di gente, et gran differentie nella medicina. E quando voi harete visto tutto questo, harete acquistato questo nome di filosofo4•

' LA VIA DELL ESPERIENZA

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Leonardo datava la sua partenza da Bologna neli 'ottobre del 1548; ricorda­ va il mese perché coincideva con l'arrivo a Genova del principe Filippo di Spagna, che stava facendo il suo primo grand tour dell'impero che avrebbe ereditato da suo padre Carlo v, sovrano del Sacro romano impero. Nella speranza di vedere il giovane principe, Leonardo partì per Genova, dove si sarebbe trattenuto qualche giorno prima di imbarcarsi per la Sicilia. In che modo arrivò a Genova non sappiamo. Molto probabilmente a piedi, il mezzo di locomozione più diffuso del XVI secolo (a meno che non ci si potesse permettere un cavallo). Solo i ricchi viaggiavano in carrozza o in portantina1• Nel parlare dei suoi viaggi, Fioravanti usa quasi sempre i verbi camminare o andare camminando. Anche quando viaggiava a ca­ vallo, come fece in Sicilia per andare da Palermo a Messina, il viaggio era comunque disagevole: raccontava Leonardo di aver dormito « alla paglia co i cavalli » e cenato «con le capre » 6• È anche possibile che Fioravanti preferisse viaggiare a piedi per essere più in contatto con la natura. Egli racconta di «caminar la terra, e solcare

Tiziano dipinse questo ritratto del principe Filippo ne! Jsso. Due anni prima Fioravanti aveva visto il principe a Genova. La corazza celebra simbolicamente il principe quale per­ fetto esempio di cavaliere e di paladino della fede.

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IL PROFESSORE DI SEGRETI

il mare» in cerca dei segreti della natura7• E così dobbiamo immaginarlo, mentre "cammina il mondo", cammina da Bologna a Genova, da Napoli a Roma e da Roma a Pesaro, dove si imbarca su una nave che attraversa il mare.

Uno spettacolo principesco

Negli ultimi giorni di ottobre, nel pieno di un gelido autunno, Leonardo iniziò quello che, evidentemente, fu il suo primo viaggio lontano da Bo­ logna. Verosimilmente impiegò una decina di giorni per percorrere circa 2. 40 chilometri8• Forse partì che era ancora notte, per coprire con il buio un tratto di strada a lui familiare. Raggiunta Genova dopo un viaggio este­ nuante, rimase « alquanti giorni» in attesa dell'arrivo del principe Filippo. Quando la flotta spagnola veleggiò nel porto, una grande folla si riversò sul molo per dare il benvenuto al principe. Filippo era accompagnato da decine di nobildonne spagnole e da capitani e principi, più o meno impor­ tanti, di ogni parte d' Italia. Ad accoglierlo c'erano il Doge di Venezia, i duchi di Mantova e Ferrara, il principe di Salerno e il capitano Giordano Orsini di Roma. Il suono dei flauti e il fuoco degli archibugi riempivano le orecchie degli astanti. Per l'occasione era stata costruita una scalinata di marmo che conduceva il corteo dal porto in città attraverso un ponte, edificato su due chiatte e decorato con arazzi e tappeti. Quando il princi­ pe, giovane e bello, discese dal ponte, fu un bel colpo d'occhio. Indossava una tunica di velluto nero in stile spagnolo, una giubba di seta bianca dal colletto ricamato in oro, calze bianche, stivaletti allacciati e un copricapo di velluto nero ornato da una piuma bianca. Il corteo giunse in città passando sotto un arco trionfale edificato per l'occasione9• Secondo le testimonianze dei contemporanei, l'arco occu­ pava l' intera strada. Le sue quattro colonne dorate formavano un ampio portale. Sul piedistallo dell'arco, due macchine del vento a forma di zefiri soffiavano fiori al passaggio delle persone. Sul fregio era incisa una dedi­ ca a Filippo, mentre su un lato era effigiato il principe a cavallo tra le fi­ gure di Giove e Apollo. Nella parte sottostante erano raffigurate palme e ninfe e allori verdi, simbolo dei trionfi e delle virtù del principe. Sui due lati dell'arco erano rappresentati i popoli conquistati dal padre di Filip­ po, Carlo v: tedeschi, turchi, persino indiani del Nuovo Mondo. Anche l'imperatore era effigiato, seduto sul trono imperiale presso la porta di un

LA VIA DELL' ESPERIENZA

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grande tempio. Lungo la strada che conduceva alla cattedrale erano stati innalzati altri archi trionfali, meno imponenti ma altrettanto ingegnosi. Volto anonimo tra la folla, Leonardo osservava ipnotizzato il giovane principe mentre questi, superato l'arco, percorreva le strade salutando i suoi futuri sudditi. Per un cerusico mai uscito da Bologna, doveva essere stato uno spettacolo magnifico. Leonardo incrociò lo sguardo del princi­ pe ? Sarebbe stata un'esperienza esaltante osservare il volto dell'uomo nelle cui mani era il futuro dell' Europa cattolica. Ospite nella villa fuoriporta del principe Andrea Doria, Filippo rimase a Genova per due settimane, ma l' 8 dicembre riprese con il suo seguito il grand tour nel Sacro romano impero, che sarebbe durato altri sette mesi. Anche Fioravanti non aveva alcuna fretta. Mentre saliva a bordo della prima nave diretta in Sicilia, non poteva sapere che avrebbe rivisto il prin­ cipe solo ventotto anni dopo.

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Il medico di Carnevale

Forse Fioravanti aveva scelto la Sicilia come prima meta del suo lungo pel­ legrinaggio perché quella remota isola vantava una grande tradizione di guaritori empirici. Il suo fulgido ritratto di Acrone di Agrigento, fondato­ re dell'antica setta di medici empirici, lo lascerebbe intendere. Riflettendo sull'epoca d'oro della medicina, Leonardo scriveva: Ma quando ancor non vi erano fisici rationali, non resta però, che non fussero li rimedii al mondo; e pur si usavano. Et che sia il vero, leggiamo, che noi trovaremo, che Creonte Agrigentino, e suoi discepoli, seppero solamente la esperientia, e non seppero altramente Teorica. Dunque saria bene, che tutti noi altri appresso quello, che havemo studiato, cercassimo di havere alcune belle esperientie, che accom­ pagnassero il metodo e la sciemia. Et in questo modo la medicina saria gloriosa'.

Acrone era un medico del v secolo a.C., forse discepolo del filosofo sicilia­ no Empedocle, il quale sosteneva che l'esperienza debba essere l'unica gui­ da del nostro indagare la natura. Gli empirici seguaci di Acrone asserivano che ciò che è invisibile è inconoscibile e ci si può affidare quindi solamente ai sensi". Poiché è impossibile conoscere le cause della malattia, che sono nascoste, il medico deve fare affidamento unicamente su quello che osser­ va al momento, i sensi protesi a cogliere i sintomi individuali del paziente. La sagacia, non il sapere filosofico, è il migliore alleato del medico. Tra le colline siciliane Leonardo sperava forse di imbattersi in un no­ vello Acrone, qualcuno che avrebbe potuto insegnargli le cure tradizionali degli antichi ? Lo scenario concorda perfettamente con la sua ricostruzio­ ne delle origini della medicina. Egli negava che la medicina fosse stata in­ ventata da Esculapio, dio dell'antica Grecia. Una simile sciocchezza era in contrasto con il racconto biblico della creazione, secondo il quale Dio aveva infuso le piante di virtù medicinali e dato agli animali un' istintiva conoscenza di esse:

IL MEDICO DI CARNEVALE

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Ma ben è vero, che la natura dotò tutti gli animali d 'un grandissimo dono, e fu questo, che ogni animale da se senza aiuto, ne consiglio d'alcuno, si sà medicare nelle sue infermità [ ... ] . Il cane quando si sente male, se ne và alla foresta, e truova una certa sorte d 'herba la quale egli per naturale instinto conosce, e la mangia, e quella herba subito lo fa vomitare e evacuar di sotto, e subito è sanato. Il bue, e il cavallo, e il mulo, quando si sentono aggravati da alcune infermità, si mordono la lingua in fino a tanto, che ne fanno uscire il sangue, e sono sanati. Le galline, quando sono ammalate segli cava una certa pellicola di sotto la lingua, e ne esce sangue, e subito sono sanate, e molti altri animali fanno il simile per sanarsi da diverse infermità3•

Così gli animali, senza aver mai srudiato medicina, sanno per istinto, come un "dono di naturà: di poter guarire dalle malattie con purghe e salassi. «E cosi ogni volta, che gli huomini vedevano di queste cose, l'osservavano, di modo, che vennero a conoscer, che l'evacuatione, e il salasso era molto giovevole». Fioravanti si faceva nostalgico quando rifletteva sui bei tempi andati. Allora, pensava, la medicina era perfetta e la gente si manteneva in salute con metodi naturali. «Et in quel tempo trovo io, che certo furno felici quel­ le etadi, et non si legge giamai, che in quei tempi niuno patisse tanto, et si longhe infirmità, come al di d'hoggi» 4• Solo molto tempo dopo i greci avevano codificato le "regole di vità' empiriche scoperte in quei tempi re­ moti, mettendole per iscritto. lppocrate scrisse i suoi Aforismi, Galeno i suoi commentari su quell'opera, e così via. Ben presto spuntarono scuole e sette, e le dispute misero in ombra i fondamenti empirici dell'arte di medicare. La medicina divenne una scienza, la teoria prese il posto dell'esperienza. Tut­ tavia, pur essendo perseguitati dai medici, i valorosi empirici resistettero e, Leonardo ne era convinto, avrebbero resistito per sempre. Così era andata la scoperta della medicina secondo la versione di Leonardo Fioravanti. Per lui era quindi naturale che la Sicilia, un' isola distante dai centri del­ la cultura (e tuttavia, in un remoto passato, la parte d' Italia che più ave­ va subito l'influenza greca) fosse la patria della medicina empirica. Nella Magna Grecia il mitico Acrone radunò la sua folla di sperimentatori e li spedì per il mondo a insegnare la « dottrina dell'esperienza » . Fioravanti era convinto che la Sicilia ospitasse ancora i discendenti di quegli antichi empirici. Vecchi, pastori, donne che raccoglievano erbe medicamentose, chirurghi e artigiani chini sui banchi di lavoro: erano loro che, non con­ taminati dal sapere scolastico, erano più vicini alla natura. Non avendo un'università né una scuola di medicina, la Sicilia poteva essere idealizzata come il luogo nel quale era sbocciata la vera medicina.

IL PROFESSORE DI SEGRETI

Leonardo esce allo scoperto

Viaggiare per mare era più sicuro, ora che la pace era finalmente tornata. L'anno prima che Fioravanti lasciasse Bologna, era morto l'acerrimo ne­ mico di Carlo v, Francesco I, il re guerriero di Francia; un mese prima era passato a miglior vita anche Enrico VIII d' Inghilterra. Con la morte di questi grandi antagonisti, le tensioni internazionali si erano notevolmente attenuate. L'anno precedente, il 1546, aveva visto la morte di Martin Lu­ tero, la cui radicale riforma religiosa aveva scisso l'Europa in due fazioni contrapposte. Quello stesso anno era morto anche Ariadeno Barbarossa, il corsaro ottomano considerato il flagello del Mediterraneo. Un'intera fase della storia europea si era dunque conclusa. La Sicilia e il regno di Napoli erano in mano agli spagnoli. Sebbene le coste del Mediterraneo fossero an­ cora minacciate dai pirati, Leonardo si avventurò in una traversata di una settimana verso il remoto e «fertilissimo regno di Sicilia » 1• Per la prima volta nella sua vita, Leonardo sperimentava la condizione di forestiero in una terra straniera. Sbarcato a Palermo, principale porto della Sicilia e residenza dei viceré spagnoli, Fioravanti si spacciò per turista. « Stetti molti giorni con mio gran piacere, et solazo, senza che huomo nissuno sapesse la profession mia » 6• Leonardo sfruttava l'anonimato ascoltando, osservando, aspettan­ do il momento giusto per rivelarsi. Dopo qualche mese arrivò il Carnevale, un tempo in cui è d'obbligo essere severamente giocosi e gaiamente irrive­ rentF. La gente si riversava per le strade e nelle piazze in costumi strava­ ganti per giocare a sovvertire le regole. Le persone comuni si vestivano da persone importanti, i nobili da contadini, gli uomini da donne, le prosti­ tute da uomini. Ovunque regnava l'anarchia. Uscendo allo scoperto, Leonardo impersonò un medico. Ovviamente non un vero medico, stava solo indossando una maschera, come si fa a Carnevale. Quando però alcuni medici del posto lo scambiarono per un dotto medico bolognese e gli chiesero aiuto in un caso particolarmente difficile, Fioravanti colse al volo l'occasione: Et passato che fu il Carnevale, fui scoperto che io era medico, e di nation Bolognese. E in quel tempo era di età di 30 anni: et ancora non sapeva piu di quello che comu­ namente sanno tutti li medici, per non haver ancor'acquistato il dono della verità, si come dapoi hò fatto in longo spatio di tempo; nondimeno essendo già scoperto per medico e forestieri; furono molti che desideravano, che io li curasse di diverse

IL MEDICO DI CARNEVALE

infermità; pensando che io per esser venuto di lontan paese, fossi qualche huomo di gran dottrina, e molto esperto nell' infermità, ancor che in buona parte si ingannas­ sero, perche come ho detto, la esperienza mia era poca, et con tutto ciò fu un gen­ tilhuomo Palermitano, il qual stava appresso San Francesco, e si chiamava messer Alessandro Sanpier di rosa, il qual gentilhuomo pativa di una longa e crude! specie di infermità di febre quartana doppia, e era già ridotto à tale, che era poco lontano dalla morte. e io essendo soprachiamato da medici valenti di quella città, restai quasi mezo confuso. li medici erano Pietro Apparo, e Saetta medici ambedui valentissimi. e io essendo in casa dell' infermo ragionando co i detti medici, doppo molti ragiona­ menti di diverse materie, mi pregorno, che se io come forestiero havesse avuto alcun secreto per guarire tal febre, che esso infermo mi haveria benissimo rimunerato8•

Armato di pochi libri e della sua approssimativa teoria della malattia, Fio­ ravanti acconsentì a fare un tentativo. Benché non avesse idea di come pro­ cedere, si ricordava che Pietro Mattioli e altri botanici raccomandavano in casi come questi di far vomitare il paziente, soprattutto con l'ausilio del precipitato, ovvero l'ossido di mercurio9• Sfruttando lo spirito carnevale­ sco, Fioravanti si dava arie da grande professore bolognese ed escogitò un breve discorso. Lui stesso descrive comicamente l'avvenimento, invitando il lettore a credere che la sua improbabile tirata avesse tratto in inganno i medici. Ecco il suo discorso: Eccellentissimi dottori, non è dubbio nessuno, che questa infermità non sia dop­ pia quartana, e che ella non sia causata da humor malenconico. la cura della quale dicono gli antichi, che sia difficilissima, e che però i poeti favoleggiando l' hanno dipinta fra un medico, e uno speciale. e che à tutti dui fa le fica. volendo inferire che non ha paura della scientia del medico, ne teme le medicine del speciale; non­ dimeno se così vi piace, mi pareria che li dovessimo dare l 'uno ò l'altro, percioche evacuando la malenconia, facilmente la febre si solverà'0•

I medici, molto compiaciuti dell'orazione di Leonardo, acconsentirono a seguire le sue raccomandazioni attaccando a testa bassa «l'humor malen­ conico» : con un potente emetico lo avrebbero messo in fuga. Il mattino dopo, non sapendo bene cosa ne sarebbe seguito, i medici somministraro­ no al paziente uno sciroppo fatto con dieci grani di precipitato in mezza oncia di acqua di rose. Con loro grande stupore, l'uomo si mise subito a vomitare «gran copia di cholera e flemma » . Il trattamento diede un certo sollievo al paziente e così i medici decisero di somministrargliene un'altra dose. Sei giorni più tardi, dopo l'ennesimo accesso di vomito, « fu fatto sano e gagliardo come prima » .

IL PROFESSORE DI S EGRETI

La catarsi del carnevale

Man mano che il nome di Leonardo si andava diffondendo per la città, la gente cominciava a cercare il suo consiglio. Ne seguì una serie di sensaziona­ li guarigioni (o presunte tali) caratterizzate da purghe, vomiti, sudorazioni. Nel reinventare se stesso, Fioravanti attingeva a una lunga tradizione di personaggi carnevaleschi, un ricco filone legato alla cultura e allo spet­ tacolo popolare che l'autore di ballate e panflettista Giulio Cesare Croce avrebbe più tardi portato a effetti cornici irresistibili". I libelli di Croce sono popolati da stravaganti caricature di cortigiani servili, amanti svene­ voli, sciocchi sernpliciotti, avvocati conniventi, lascive prostitute e accade­ mici rnagniloquenti. In uno di questi, Secreti di medicina mirabilissimi, un medico sussiegoso, il dottor Braghetton, reclarnizza le sue « mirabilissi­ me » prescrizioni. I versi sono composti più per essere recitati o cantati che letti. Ecco la ricetta di Croce per una medicina contro la sifilide: Recipe le sciocchezze di un buffone, Con le lusinghe di una concubina, E dramme tre di succo di minchione, Songia di bosco, e canto di gallina, E fagli sopra il petto un'ontione. E se non giova simil medicina, Fallo stare a la brina un anno e un mese, Che questo il guarirà del mal francese'".

Il linguaggio maccheronico dei parnphlet di Croce - puro Carnevale scimmiottava la comica parlata dei ciarlatani. La parola ciarlatano deriva da ciarlare un riferimento agli attori girovaghi che vendevano rimedi per la scabbia, la rogna e a volte per disturbi anche più seri'l. Per attirare i clienti, gli imbonitori salivano su palchi improvvisati nella pubblica piazza e mettevano in scena farse grossolane impiegando caratteri e intrecci che avrebbero più tardi costituito la Commedia dell'arte'4• È su questo sfondo che dobbiamo immaginare il famoso dottor Gra­ ziano, un personaggio tipico della tradizione della Commedia dell'arte: in farsetto e brache strette al ginocchio, il mantello sgargiante, Graziano sale sull' impalcatura e dice una sfilza di dotte insulsaggini e strambi giochi di parole. «Un inferrn se può dir' arnalad», enuncia in tono serniserio, parodiando i medici, «e l'homo che camina n'n'è rnort ». Per il suo me-

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dico carnevalesco, Leonardo si ispirava proprio a questa ricca tradizione comica. Il suo istrionico monologo snocciolato ai dottori riecheggiava i personaggi che intrattenevano il pubblico nelle piazze. Tuttavia la guarigione del suo primo paziente fece una profonda im­ pressione su Fioravanti: due robuste dosi di precipitato avevano fatto espellere all'uomo una quantità stupefacente di robaccia dallo stomaco, portandolo a completa guarigione. L'avvenimento era il principio, con­ fessava Fioravanti, della sua "buona sorte" nell' impiego di potenti farmaci per sconfiggere le malattie. Il precipitato era un farmaco potente, senza dubbio: efficace emetico a piccole dosi, l'ossido di mercurio diventa un veleno mortale in quantità maggiori. Fioravanti non avrebbe potuto scegliere un momento migliore per pro­ vare il rimedio. Durante il Carnevale si faceva un gran parlare di purifica­ zione del corpo, cosa che certamente non era sfuggita a un acuto osservato­ re come lui. Così come il Carnevale, secondo lo storico Piero Camporesi, «è la terapia idonea al corpo sociale infetto» - un immenso purgante che purificava la società dagli «umori corrotti » - così le purghe del medico liberavano il corpo fisico dai putridi umori che provocavano la malattia'1• Graziano, il dottore della commedia, era spesso contrapposto nella let­ teratura popolare a Bertoldo, il saggio contadino del famoso pamphlet di Giulio Cesare Croce, Le sottilissime astutie di Bertoldo. Erano i due oppo­ sti del Carnevale: uno rappresentava la vuota dottrina e l'altro la saggezza contadina. Rifiutando il sapere scolastico, Fioravanti si volse alla saggezza popolare. Lo spirito liberatorio del Carnevale divenne un altro strumento utile per forgiare il nuovo se stesso'6• Ovviamente il Carnevale non voleva dire anarchia, poiché il rito permetteva la baldoria ma poneva anche dei confini. Il Carnevale consentì a Fioravanti, secondo lo studioso di Rabe­ lais Michail Bachtin, di trovare una «posizione dalla quale fosse possibile vedere l'altra faccia delle forme di pensiero e di giudizi dominanti, dalla quale poter guardare il mondo in modo totalmente nuovo» '7• Leonardo aveva visto l'altra faccia. Adesso era pronto per guardare il mondo con occhi nuovi.

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Il novello Esculapio

Leonardo Fioravanti era un uomo fortunato. Per puro caso, il primo pa­ ziente da lui curato a Palermo era un gentiluomo spagnolo, Alejandro San Piero. Il suo secondo paziente, che lui identifica solo come Sefior Ximenes, era un cortigiano del viceré spagnolo. I due conoscevano molti spagnoli che vivevano in città e il nome di Leonardo cominciò a girare. Ben presto iniziarono a consultarlo per i soliti malanni di competenza di un cerusico, che lui curava al solito modo: un balsamo per risolvere un'eruzione cuta­ nea, un cataplasma corrosivo per sgonfiare una tumefazione e un unguen­ to per alleviare il dolore. Poi vennero altri e più gravi disturbi che richiesero interventi più in­ cisivi, e fu attraverso casi come questi che Fioravanti forgiò la sua nuova identità. Nell'aprile del 1 549 accadde un episodio che gli fece credere che la sua mano fosse divenuta uno strumento di Dio. Un mercante di seta, il genovese lacomo Sandese, chiese a Leonardo di visitare il suo schiavo nero, un giovane di ventidue anni che aveva sviluppato un "tumore" che Fioravanti descrive come qualcosa di simile a una tela sottile che gli rico­ priva gli occhi (evidentemente una cataratta). « Caro M. lacomo, questa è una strana infermità » disse Leonardo al mercante dopo aver visitato lo schiavo'. Chiese poi da quanto tempo fosse in quelle condizioni. «Già un'anno questo schiavo haveva gli occhi scoperti come noi altri » rispose Sandese. «Et vi so dire che lui ha gli occhi sani, e che la luce non è guasta, però egli è cieco» . Guardando negli occhi velati del pover'uomo, Fioravanti dichiarò: «Appresso di me la tengo per incurabile. Si che è sta­ to tempo perso in venirlo a vedere » . Sandese insistette. « lo so che vostra Signoria ha gran fama in questa città, et sapete assai. questo come ho detto è cieco, et per tal ve lo dò, ac­ ciò tentiate in qualche modo di ricuperarli la vista. È uno schiavo molto

IL NOVELLO ESCULAPIO

valoroso. si che vi prego à doverlo medicare, e non guardate a spesa nè ad altra cosa » . Di fronte alla promessa di una ricompensa di centocinquanta scudi d'oro nel caso fosse riuscito a guarire lo schiavo, Leonardo si domandò se non potesse dissolvere i tumori con qualche sorta di soluzione caustica. Ricordava di aver sentito dire che la pellicola che ricopre gli occhi poteva essere rimossa in quel modo. Come ricordava nelle sue memorie: Mi sovenne l'appio riso, che è una erba molto conosciuta per tale effetto. Tolsi adunque di questa, la pistai, e ne applicai sopra l'occhio destro, e gli la feci tenere per l4 hore continue. E poi la levai via, et trovai che havea uiscigato quel pannico­ lo, e quasi cauterizato. e io gli messi butiro con foglia di cavolo, e tanto purgò, che quella tela si consumò, e se ne uscì tutta: e l'occhio restò scoperto. et il schiavo ri­ cuperò la luce di quell'occhio. Feci il simile all'altro, e cosi ricuperò la vista di tutti due. hor quanta fosse l'allegrezza del schiavo et del padrone, lo lascio considerare à ciascuno; ma fu cosa che si divulgò subito per la città essendo stato conosciuto il detto schiavo dalla maggior parte della città per huomo valente con l'armi in mano: tutti si maravigliorno quando viddero, che di cieco havea ricuperata la luce. et da questa cura andò tanto rumore per la città, che prima che passassero dieci giorni, credo che tutti i ciechi non solo di Palermo, ma di Carinulo di Termine, et altri luochi circonvicini fossero condotti tutti quanti di me, acciò gli rendessi la luce, pensandosi, eh' io potessi operare, come operò il nostro Redentor Christo Giesu quando fecit lutum, e lo pose a gli occhi di quel cieco a natività, et lo mandò in siloe alla fonte a lavarli, e vide lume>.

Fioravanti racconta di altri casi dai risultati altrettanto eclatanti. Descrive il caso di un barone trentaquattrenne afflitto da una scabbia talmente gra­ ve da essere costretto a letto. La scabbia è una malattia solitamente legata alla povertà e alla scarsa igiene, ma nel Rinascimento attaccava anche i ric­ chi, dato che vivevano in condizioni di identico squallore. La malattia è causata da un' infestazione di acari microscopici che provocano un intenso prurito. Se non trattata, può diffondersi all 'intero corpo e diventare estre­ mamente dolorosa. Il male era così avanzato che Fioravanti dubitava di riuscire a guarire il barone. Ma un amico di quest'ultimo lo implorò di tentare, e così prepa­ rò un linimento di litargirio, ovvero monossido di piombo - dall'azione molto corrosiva - e lo strofinò sul corpo del barone. Con grande stupore di tutti gli astanti, i sintomi cominciarono a regredire nel giro di pochi

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IL PROFESSORE DI SEGRETI

giorni. «Tutta la città ne restò maravigliata » racconta Leonardo «percio­ che tutta quella vernata era stato in letto» 3•

Una posizione strategica

Sperando che la sua buona sorte gli procurasse un posto alla corte del viceré, Fioravanti si trovò una casa vicino alla chiesa di Santa Maria del­ la Catena, non lontana dal porto di Palermo: una posizione strategica per entrare in contatto con soldati, marinai e cortigiani spagnoli. Da casa sua poteva vedere le galee giungere in porto e scaricare i prodotti prove­ nienti dai luoghi remoti della terra. Dalla Spagna arrivavano navi cariche di mercanzie del Nuovo Mondo e da Oriente venivano spezie esotiche, medicine e tinture. Leonardo imparava lo spagnolo e ascoltava avida­ mente soldati e marinai che raccontavano di terre lontane. Reclutò un alchimista perché gli insegnasse l'arte della distillazione e approntò un laboratorio in casa, dove condusse esperimenti per scoprire nuovi farma­ ci. Ben presto, racconta Leonardo, la sua casa fu gremita di persone che cercavano il suo parere. Fioravanti intanto continuava la sua ricerca degli antichi metodi em­ pirici. Parlava con vecchi, barbieri, speziali ed empirici per saperne di più sulle epidemie di quella regione e sui metodi usati per curarle. Da uno speziale ottantaseienne, Giannuccio Spatafora, «huomo di grandissima dottrina » \ apprese molte cose sulla qualità dell'aria e dei venti di Paler­ mo, sulle piante medicinali delle campagne e sulla peste che aveva visitato la Sicilia in passato. Scalò il monte Pellegrino, dove scoprì erbe dalle virtù miracolose. In nessun altro posto d' Italia, scriveva Leonardo, si trovava la palma usata per fare la vera diapalma, il raro unguento efficace nella cura delle piaghe provocate dal mal francese1• La gente del luogo chiamava la pianta za.lfaioni. «Et questo è il vero unguento diapalma. Et non è come si usa in varii e diversi luoghi d' Italia, nelle speciarie, che 'l si vende grandissi­ ma quantità de unguento diapalma. Et quello è tanto unguento diapalma, come un gatto è un cavallo ». Un altro anziano empirico gli insegnò come curare le ferite, in modi a lui del tutto sconosciuti. L'uomo non era soltanto capace di guarire i pazienti « ma quasi ardisco dire, che suscita i morti » esclamava Leo­ nardo.

IL NOVELLO ESCULAPIO

Mentre accumulava sapere, la sua fama di chirurgo aumentava ogni giorno di più. Non passò molto tempo, racconta Leonardo, che la gente prese a chiamarlo «un'altro Esculapio»6•

li misterioso morbo di Marulla Greco

Lnbaldanzito, Fioravanti accettava tutti i pazienti, anche quando i medici li davano per spacciati. Nell'aprile del 1 549, si presentò a Leonardo un capi­ tano della marina imperiale, Matteo Greco. Sua moglie, la ventiquattrenne Marulla - che aveva fama di essere la donna più bella della città - era terri­ bilmente malata. Mesi addietro, riferì il capitano Greco, Marulla aveva con­ tratto una febbre maligna che le aveva gonfiato la milza e «causava che tutte due le gambe erano ulcerate, malissimamente ». La donna era terribilmente debilitata. Molti medici avevano visitato Marulla e sentenziato che occorre­ va asportarle la milza. L'operazione non era pericolosa, assicuravano, anche se, osservava Fioravanti in tono pragmatico, nessuno aveva voluto farla. In termini medici moderni, Marulla soffriva di splenomegalia ( anche megalosplenia) o "milza ingrossata", caratterizzata da un massiccio rigonfia­ mento della milza e da dolore addominale acuto. La milza può aumentare enormemente, fino a Bo volte la sua dimensione naturale, dilatando grotte­ scamente la regione addominale. La causa più comune della splenomegalia è la malaria, all'epoca di Fioravanti endemica in Sicilia e nel Sud d' Italia. La splenomegalia si cura facilmente con i farmaci antimalarici. Se non tratta­ ta, tuttavia, può diventare una malattia seria: il rapido ingrossamento della milza può determinare la rottura splenica e una grave splenomegalia mette a rischio il sistema cardiocircolatorio. Laddove una milza normale assorbe solo il s per cento della portata sanguigna, una milza ingrossata può assor­ birne più del so per cento. La splenomegalia provoca inoltre un aumento del volume plasmati co, che può portare all'anemia. Può inoltre causare dolori acuti all'addome e alla schiena, soprattutto quando la milza è talmente in­ grossata da comprimere gli altri organi. E questo era evidentemente il caso della povera Marulla, la quale soffriva talmente tanto, scrive Leonardo, che «fece deliberatione di voler morire o guarire ». La donna implorò il mari­ to di trovare un chirurgo che potesse effettuare l'operazione raccomandata. Consapevole della fama di Fioravanti, il capitano Greco gli chiese se aveva il coraggio di cavare la milza. Ecco cosa rispose Leonardo:

IL PROFESSORE DI SEGRETI

E io le dissi di sì allegramente, ancor che per avanti non ne havea mai cavata nes­ suna. [ ... ] E io, per dire il vero, se bene gli havea promesso, non li voleva attendere per non fare qualche farfallone. ma non ostante questo, io mandai à chiamare un certo vecchio del regno di Napoli di una città, che si chiama Palo. il qual vecchio havea nome Andriano Zaccarello, che in quella città operava di taglio, cavava cata­ ratte, e simil cose, e era molto esperto in tal professione. E il detto vecchio subito venne alla casa mia, e io gli dissi, Caro messer Andriano, l'è venuta una bizaria alla moglie del Capitan Mateo greco, di volersi far cavare la milza, vorrei saper da voi s'egliè cosa che si potesse fare senza pericolo. mi rispose il vecchio, Signor sì che si può fare, perché è cosa che si è fatta più volte in vita mia. soggionsi io, orsu bastavi l'animo à voi, di far questo ? mi rispose che insieme con meco, lo faria, ma altramente nò. E cosi pigliassimo lo apontamento di volerlo fare?. E io andai à trovare la donna, e messi ordine con essa e col marito, e messo l'ordine andai alla giustitia, à darla per morta, come s'usa di fare. et havuta licenza andassimo una mattina in casa di detta donna, et il buon vecchio tolse un rasoio e tagliò il corpo della donna, sopra la milza. e tagliata la milza, saltò fuori del corpo. l'andassimo separando dalla reticella, e la cavassimo tutta fuora, e cuscissimo il corpo, !asciandoli solo un poco di spiracolo, e io la medicai con l'olio d' ipericon composto, e polvere d' incenso, mastici, mirra e sarcacola, et gli ordinai bevanda di acqua cotta con mel comune, consolida, ipericon, betonica e cardo santo. e ogni giorno la facevo pigliare una presa di teriaca. e cosi l'andai aiutando, di modo tale, che la poveretta, in ventiquattro giorni fu sanata. et andò a messa alla Madonna de i miracoli, appresso la dovana, e fu sana e salva.

Avendo compiuto l'inimmaginabile, Fioravanti ideò una stupefacente tro­ vata pubblicitaria per promuovere i suoi talenti di chirurgo: portò l'organo deforme alla loggia dei mercanti, nel cuore della città, dove fu esposta per tre giorni. La milza di Marulla, che pesava W1 chilo (normalmente non arriva a due etti) costituiva una visione stupefacente. Mentre la gente si avvicinava per osservarla, Leonardo avrà detto e ridetto la storia della sua incredibile opera­ zione chirurgica, ricamando sulle sue gesta fino a farle diventare W1a leggenda di eroismo chirurgico. «Et la gloria di tale esperimento fu data à me» gongo­ lava «et da questo le genti concorreano à me, come ad uno oracolo».

« Curar a los que podiera»

Diventato dall'oggi al domani una celebrità, Fioravanti attirò l'attenzione di Dona Eleonora de Vega, moglie del viceré spagnolo8• La viceregina « ami­ ca de i poveri » era benefattrice di numerose attività caritatevoli e aveva fon-

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dato l' Ospedale degli Incurabili, uno dei tanti ospedali istituiti per la cura dei sifilitici, che doveva il suo nome all'altissima mortalità della malattia9• Un giorno di maggio del 1549. Dona Eleonora convocò a Palazzo Fio­ ravanti. « Signor dottor» implorò « io chiero che vostra mercè per amor de dios vaia con migo, à los incurables, para veer a queglios dolientes y curar a los que podiera y io haro che darà muy bien satisfechio de sus mer­ cedes, y le prometto pro vita di Don Giovan mi marido che todas las mer­ cedes che chera da nos otros non le faltaremos nada, y pero magnana muy de magnanica io tengo de yr aglià y el tanbien vendra con migo y ve remus placiendo à dios curar muchios di eglios» . La mattina dopo, di buon'ora, Leonardo andò a messa nella vicina chiesa di Santa Maria della Catena. Poi procedette verso l'ospedale dove rimase in attesa della viceregina. Quando questa arrivò, entrarono insie­ me per far visita agli infermi. Ce ne erano tantissimi, racconta il chirurgo, tutti afflitti da orribili piaghe. «Chi avesse udito i gridi, per causa de i gran dolori che pativano, credo che nello inferno non siano tanti stridori tra l'anime dannate, quanto si sentì quella volta in quell'ospitale » ricorda Fioravanti. La viceregina disse: « Signor dottor, io soi quan grande es su saber y pero io chi ere che agga todo su poder para sanarles à todos y esto la hara para amor di dios y aum por amor mio» '0• Per curare gli infermi dell'ospedale Leonardo adoperò un elaborato procedimento: per prima cosa fece un decotto di lignum sanctum con erbe, miele e vino, poi somministrò a ciascun paziente quattro once di questa medicina, mattina e sera. Il lignum santum era una cura molto dif­ fusa all'epoca e consisteva nel bollire i trucioli del legno di guaiaco, che cresce nelle Indie occidentali". Efficace diaforetico, il medicamento pro­ vocava una forte sudorazione che allontanava la malattia. Assieme al mer­ curio costituiva il trattamento più usato nell'Europa cinquecentesca nella cura della sifilide. Evidentemente la medicina funzionò, perché i pazienti cominciarono a sudare copiosamente. Fioravanti dette poi a ciascuno la sua famosa purga, una dose di precipitato in acqua di rose. Proseguì la cura per 2.0 giorni, incoraggiando i pazienti a mangiare bene così da sopportare sudate ed evacuazioni. Seguendo questo regime, racconta Fioravanti, 31 pazienti guarirono e lasciarono l'ospedale. Per i pazienti rimasti, fece un preparato di sublimato di arsenico, sale ammoniaca e aceto e lo applicò sulle piaghe. Il sublimato di arsenico e il sale ammoniaca erano trattamenti minerali che i chirurghi europei ave­ vano appreso dagli arabi nel XIII secolo. Il sublimato di arsenico era un

IL PROFESSORE DI S EGRETI

agente cauterizzante altamente efficace. Arnaldo da Villanova, medico di Montpellier attivo nel XIV secolo'\ riteneva che il composto fosse in grado di cauterizzare la pelle «come il fuoco» ; per questa ragione veniva impiegato per guarire ulcere e fistole (ma era letale se ingerito) . Il sale am­ moniaca o cloruro d'ammonio, era un blando agente caustico. All'epoca di Fioravanti le due medicine non potevano mancare nel corredo tecnico del chirurgo. Leonardo lavò infine le piaghe con aceto caldo e le strofinò con unguen­ ti. Una volta finito il suo lavoro, scrisse: «De' quali alcuni, ma pochi, ne morsero, e tutti i vivi restarono sani. e ne restò maravigliata tutta la città » 'l. Leonardo aveva appena iniziato a bearsi della propria fama, quando il viceré trasferì la corte a Messina e chiese, o meglio ordinò, a Fioravanti di seguirlo. «lo fui forzato lasciar la impresa, e andare con la corte. e così mi partì di Palermo contra mia voglia, e andai a Messina, dove il Vicerè don Giovanni da Vega, mi fece dare alquanti scudi, e volse che io stessi tutto quell'anno a Messina » '4• Sollevato dalla necessità di curare i pazienti, Fioravanti si dedicò agli esperimenti alchemici che aveva intrapreso a Palermo. Attraverso i so­ gni fiammeggianti dell'alchimia Leonardo avrebbe forgiato la sua nuova identità.

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Le meravigliose virtù del precipitato

Dedicandosi ali' alchimia, Leonardo si consacrò a un'arte che nel corso della Rivoluzione scientifica fu praticata dai più fervidi studiosi della natu­ ra'. Entrò a far parte di una multiforme comunità di adepti che propugna­ vano vari generi di alchimia, perché non vi era una sola scuola alchemica, né un unico modo di praticare quell'arte. Alcuni alchimisti erano medici. Altri artigiani. Alcuni consacravano la vita, e spesso anche le ricchezze, alla ricerca di una pietra filosofale che avrebbe miracolosamente tramutato i metalli vili in oro. Altri sudavano nella fornace per scoprire nuovi medicinali attraverso il processo della di­ stillazione. Vi erano poi quelli che approfondivano le dottrine esoteriche. Altri ancora si facevano beffe di simili eccessi mistici e preferivano più re­ alisticamente andare alla scoperta di nuovi procedimenti per fare metalli e sostanze chimiche. L'alchimia era praticata in laboratorio, nella distilleria, in cortile e in cucina. Anche dalle donne. Alcuni alchimisti vivevano ai margini della società, altri godevano di posizioni privilegiate nelle dimore di signori e principi che ne ricercavano la perizia come antidoto alle loro disavventure economiche in un'epoca di fortissima inflazione. Noi moderni associamo quasi sempre l'alchimia all' impostura. Indub­ biamente esisteva anche il raggiro, ma c'erano alchimisti per bene e alchi­ misti imbroglioni, alchimisti di successo e alchimisti falliti'. Anche se nel Cinquecento le teorie alchemiche venivano ampiamente dibattute - come osserva lo storico Bruce Moran - l'alchimia non era qualcosa in cui la gen­ te credeva, ma piuttosto qualcosa che la gentefaceva3• Praticamente ogni alchimista maneggiava una serie di sostanze e materie diverse per produrre effetti nuovi. Era un'arte manuale, non un esercizio contemplativo. Per gli alchimisti l'arte che professavano consisteva nel ridurre le materie ai loro componenti costitutivi, ricombinandoli poi per creare sostanze diverse.

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IL PROFESSORE DI SEGRETI

Quando distillavano qualcosa, separavano le parti "pure" di una sostanza da quelle "impure" per ottenere un prodotto finale più efficace. Gli alchimisti hanno contribuito allo sviluppo della scienza moderna? Indubbiamente hanno arricchito l'elenco delle sostanze e dei processi chi­ mici. Con i loro esperimenti hanno raffinato le tecniche di laboratorio e perfino i critici più severi hanno riconosciuto il contributo dato dagli alchi­ misti alla conoscenza dei processi di produzione delle materie. In uno scrit­ to del 1540, Vannoccio Biringuccio, ingegnere minerario senese, biasimava la fabbricazione dell'oro definendola «una volontà vana, et un pensiero imaginato » e tuttavia, « dir si può, questa esser arte, origine, et conditrice di molte altre arti: e pero haver si debbe in riverentia et esercitarla» 4• Per la stessa ragione gli storici della scienza hanno cominciato a prende­ re più seriamente il genuino interesse nei confronti dell'alchimia mostrato da gran parte dei protagonisti della scienza moderna. Quando veniamo a sapere che scienziati del calibro di Robert Boyle e lsaac Newton ebbero dei laboratori alchemici e inserirono concetti alchemici all' interno delle loro cosmologie, cominciamo a renderei conto della distanza tra la nascente scienza moderna e la scienza contemporanea1• Non erano soltanto i ciarla­ tani a soccombere alle lusinghe dell'alchimia. Come molti alchimisti dell'epoca, Biringuccio faceva una distinzione tra il «pensiero imaginato» della trasmutazione alchemica e il duro lavoro del produrre risultati concreti in laboratorio. Fare l'alchimista richiedeva un grandissimo impegno. Il rischio di insuccesso era grande e, in quasi ogni impresa alchemica, le probabilità di successo erano scarse. Un alchi­ mista doveva possedere una discreta audacia perché sapeva che sarebbe sta­ to oggetto del sarcasmo dell"'establishment" scientifico, che continuava a considerare l'alchimia un' impresa illegittima e fraudolenta. Leonardo Fioravanti accettò di buon grado il rischio di tanto vituperio. L'alchimia lo iniziò a segreti della medicina mai neanche immaginati.

Scherzando col fuoco

Tra tutte le medicine alchemiche sperimentate da Leonardo, il precipitato (ossido di mercurio) era quello che lo affascinava di più6• Dopo la scoperta fortuita dei prodigiosi effetti del farmaco, con l'esperienza Fioravanti era andato sempre più convincendosi che purghe ed emetici potenti, capaci

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di liberare il corpo dalle sostanze tossiche, fossero più efficaci di diete e regimi prescritti dai medici. Il precipitato era un farmaco miracoloso che imitava le virtù dei rimedi erboristici impiegati per purificare il corpo in modo naturale, dei cui risultati Fioravanti era stato testimone?. Il potente farmaco, secondo Leonardo, «s'adopera nelle piaghe marcie per tirare la materia corrotta dalle parti profonde » . Il precipitato era la sua panacea: la cura miracolosa che avrebbe adoperato per scacciare ogni corruzione e ricondurre il corpo allo stato naturale originario8• Gli alchimisti preparavano l'ossido di mercurio riscaldando il mercu­ rio in una soluzione di acido nitrico, che loro chiamavano "aqua fortis". L'argento vivo, o mercurio, era considerato la madre di tutti i minerali, «uno spirito materiale che comprende tutti i metalli», per dirla con Leo­ nardo - e quando si modifica alchemicamente, le sue trasformazioni sono improvvise, violente, spettacolari, rivelando le sue nuove proprietà istan­ taneamente, come nella Creazione. Fioravanti descrive la preparazione del precipitato nei suoi Capricci medicinali: Piglia acqua forte da partire, e per ogni tre onde, mettivi onde due d'argento vivo, che non sia falsificato con altri minerali e metti in una bozzetta dal collo lungo, che sia benissimo lutata, e dalli fuoco fino a tanto, che sia benissimo desiccato: e che non fuma più la bozza: all'hora farai gran fuoco per un'hora continua, e poi rompi la bozza, e trovarai in fondo una massa della materia, che sarà rossa come minio, macinala benissimo nel mortaro, che si faccia quasi impalpabile, e questo sarà il precipitato commune9•

La reazione chimica è di grande effetto. Se si riscalda una soluzione di ar­ gento vivo e aqua fortis in un contenitore chiuso, in superficie apparirà un denso vapore di colore rosso. Quando la soluzione raggiunge la tempera­ tura di 3 5 0 gradi Celsius, cristalli, rossi e brillanti, precipitano sul fondo del contenitore. Questo era il genere di reazione che convinse gli alchimi­ sti che il mercurio, la madre multiforme di tutti i metalli, trascendeva lo stato liquido e quello solido, cielo e terra, vita e morte. Il precipitato ha mille utilizzi, diceva Leonardo. Fa meraviglie contro la sifilide perché «purga il corpo completamente » . Lo usava per sbaraz­ zare lo stomaco dalla putrefazione provocata dal cibo guasto. Lo metteva nei suoi unguenti per curare ulcere e ferite. Lo usava persino per curare il malcaduco'0, perché era convinto che l'epilessia, come molti altri ma­ lanni, fosse causata dalla putrefazione nello stomaco, i cui miasmi rag-

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giungevano il cervello provocando i sintomi della malattia11• L'ossido di mercurio veniva usato per trattare l'epilessia forse perché convulsioni e attacchi erano sintomi ricorrenti nello stadio avanzato della sifilide; le due malattie potevano quindi essere confuse. Per i chirurghi il mercu­ rio era la cura di elezione per il mal francese. I medici, che preferivano il trattamento a base di guaiaco, sostenevano che gli unguenti a base di mercurio provocassero la malattia. Fioravanti doveva usare il farmaco con estrema cautela. Come tutti i sali di mercurio inorganici, l'ossido di mercurio è estremamente tossico. Poiché può risultare velenoso anche attraverso l'assorbimento cutaneo, il suo impiego negli unguenti per la cura delle ulcere (una pratica medievale relativamente comune) non era privo di rischi. Il dosaggio abitualmente usato da Fioravanti (10-12. grani dissolti in acqua di rose) sarebbe stato al­ tamente tossico se fosse stato ingerito tutto in una volta". Tuttavia l'ossido di mercurio è solo parzialmente solubile in acqua: se Leonardo sommi­ nistrava un dosaggio composto dalla sola soluzione, priva della sostanza solida non disciolta, i suoi pazienti assumevano il farmaco in forma molto più diluita. La "soluzione in acqua di rose" da lui prescritta era una purga robusta ma non letale. Senza contare che l 'ossido di mercurio è un poten­ tissimo emetico, e vi sono quindi ampie possibilità che il composto fosse espulso con il vomito prima di essere assorbito dall'organismo. Cionono­ stante, in più di un'occasione Leonardo fu accusato di aver ucciso i suoi pazienti con i suoi potenti medicinali. Insomma, prescrivere il precipitato era come scherzare col fuoco.

Il segreto speciale di Leonardo

Fioravanti era arrivato a Messina da poco tempo, quando gli capitò l'occa­ sione di dimostrare le proprietà "miracolose" del suo farmaco. Ecco come lui stesso racconta l'episodio: In questo istesso anno 1549, al principio di luglio havendo già curati molti infermi nel!' istessa città di Messina, fui chiamato à visitare una donna Spagnuola di età di 62 anni, quale era di complessione colerica e malenconica, e già tre anni era stata vessata da una crudelissima infermità di stomaco, con continui accidenti di febre, e gia era ridotta à tale che era poco lontano dalla morte. e essendo sopra chiamato io, a un medico gia mio amico in Bologna, che si chiamava Armeleo, huomo di

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gran dottrina, e anco molto pratico, mi fu da lui raccontata la infermità e i rimedii fatti à quella donna, e mi disse che tutti i rimedii gli erano contrari i e mi soggionse queste parole. Voi havete inteso gli accidenti di questo male, e i rimedii applicati, se voi havete mò alcun secreto particolare, lo potreste usare, perche ad ogni modo in quanto à me la tengo per espedita. e io udendo tutto questo, gli proposi di darli il precipitato preparato, dicendoli, la infermità di questa donna non è dubbio nis­ suno, che ella è nello stomaco. e essendo cosi, il precipitato sarà molto à proposito: percioche provoca il vomito e sgrava lo stomaco da molte materie offensive, il che non fanno gli altri medicamenti. e questo piacque molto al detto eccellente Arme­ leo, e io la mattina seguente gli feci pigliare xii grani di precipitato col mel rosato. e preso che l 'hebbe, io me ne andai per i fatti miei. e quando tornai à casa, mi messi insieme con gli altri à desinare. e cosi stando a tavola, venne un soldato Spagnuolo à chiamarmi, che io andassi subito à vedere quella donna, se io desiderava vedere un caso grandissimo. Et io subito montai à cavallo, e con prestezza mi transferì alla casa di quella. Et trovai che ella havea vomitato gran quantità di materie cattive. Et fra l'altre havea vomitato una mola [cioè del bolo ) grande, come una mano, et era viva. Et io vedendo cosa che mai più havea visto, restai stupefatto. La tolsi, e la feci portare alla speciaria del!'eccellente medico Leonardo Testa, e la lasciai là, che tutta la città l'andò à vedere per miracolo. Et visto quella, volevano ancor vedere la donna, che l'havea vomitata. Et detta mola visse due giorni intieri, dentro l'acqua tepida. Et questa fu cosa, che dette da dire à tutta la città. Et la detta Spagnuola si risanò, et stette benissimo. et da questa cura, io acquistai tanta fama a Messina, che vi prometto, che non mi mancavano facende e guadagno'3•

Fioravanti era arrivato a credere nelle virtù del precipitato dopo aver stu­ diato le pratiche curative tradizionali diffuse in Sicilia e nel Sud d' Italia. Aveva intervistato i vecchi della regione perché voleva conoscere le regole di vita che li avevano resi tanto longevi'4• A Palermo conobbe un uomo di novantotto anni che si purgava regolarmente con l'elleboro. A Messina Leonardo conobbe un altro uomo che aveva centoquattro anni ed era in buona salute. «Ditemi» domandò all'uomo mentre cena­ vano insieme una sera, «ditemi per vita vostra caro padre havete mai usato nessun rimedio medicinale ? » . « Mi rispose, et disse, i o non h o mai tolto medicina in vita mia, ma l'è ben vero, che sempre la primavera ho usato pigliar una volta sola la solda­ nella [convolvulus soldanella, o convolvolo, un purgante] che qua noi ne havemo assai. et ogni volta, che io la piglio sappiate, che mi fa vomitare per fino alle budella, et mi lassa lo stomaco tanto netto, che per un'anno non posso star male [ . .. ] et questo lo faccio ogni anno, et adesso mi par mille anni per fino alla primavera, per poter farne questi rimedii, che poi con

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l'aiuto de Dio pensarò star bene tutto l'anno» '1• Alcuni anni dopo, nel suo periodo napoletano, Leonardo incontrò un uomo di ottantasette anni che assumeva di tanto in tanto l'elleboro bianco ( veratrum album, emetico e purgante) con una mela cotta « il quale lo faceva vomitare, et andar del corpo assai volte, di modo, che lo purgava benissimo» '6• Da simili osservazioni Leonardo concluse che emetici e purganti po­ tenti fossero validi mezzi per purificare il corpo dalla putrefazione. Per i vecchi del Meridione le purghe non erano medicine ma "regole di vita" da seguire per restare in buona salute. Se il purgarsi con regolarità man­ teneva in buona salute, ragionava Leonardo, perché non avrebbe potu­ to anche rimettere in salute ? Si trattava, ne era convinto, di una regola sperimentata della medicina che risaliva addirittura ai leggendari « anti­ chi medici» i quali, osservando gli animali che si purgavano per istinto quando erano malati, avevano fatto della purga la principale arma con­ tro le malattie. L'attenzione dedicata alla purificazione del corpo dai veleni che vengo­ no continuamente prodotti era parte integrante della visione del mondo dei cerusici, assimilata da Fioravanti al tempo del suo apprendistato'7• Per un cerusico, purificare il corpo per mantenerlo in salute non voleva dire soltanto tagliare e lavare capelli in disordine ma anche eliminare i prodotti di rifiuto che si accumulavano al di sotto della pelle provocando varie pa­ tologie. Tagliare i capelli e le unghie, nettare le orecchie e le altre mansioni del barbiere avevano una finalità estetica, ma erano anche ritenute essen­ ziali per rimanere sani. In questo senso tutte le pratiche igieniche erano considerate forme di purificazione. Oltre ad attingere alla propria esperienza professionale, Fioravanti in­ dividuò nella putrefazione (un elemento ben noto della vita quotidiana) una possibile causa di malattia. L'esperienza che la società rinascimentale aveva dei cadaveri putrescenti, del cibo marcio e delle immondizie era ben più ravvicinata di quanto lo sia nei paesi sviluppati dell'età moderna, nei quali la materia decomposta viene disinfettata e inertizzata. Le città e i paesi rinascimentali erano saturi del fetore proveniente dagli escrementi umani e animali che riempivano le strade, dalle pile di frat­ taglie e dal sangue davanti alle botteghe dei macellai, dalle fogne a cielo aperto, dai pozzi neri, da letamai e immondezzai. L'esperienza quotidiana della putrefazione e della decomposizione era una metafora perfetta per spiegare la misteriosa origine della malattia e offriva a Fioravanti un lin­ guaggio comprensibile a tutti.

LE MERAVIGLIOSE VIRTÙ DEL PRECIPITATO

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Del purgatorio e del purgare

I medici non erano sempre d'accordo con i metodi di Leonardo. Un a volta, durante il suo soggiorno messinese, venne consultato in merito al caso di un mercante ragusano chiamato Lazaro Scuti, il quale soffriva di quello che Fioravanti identificò come.flusso epatico ( probabilmente dissenteria) . Dopo aver fatto l'anamnesi del paziente, il chirurgo concluse che il disturbo era stato causato da un attacco di sifilide avuto in passato, e consigliò al medico spagnolo del paziente, Andrea Santa Croce, di somministrargli una purga. Santa Croce tergiversò, sostenendo, non senza ragione, che occorresse un rimedio per costiparlo. Leonardo rievocava così la controversia: E io gli risposi, che il restringere era male. et gli addussi quel testo di Galeno, che dice fluxus fluxum curar. Et gli allegai molte altre ragioni potentissime: alle quali si lasciò condescendere. Et così la prima cosa che io gli ordinai, fu una presa di precipitato col zuccaro rosato [ ... ] et poco stette, che cominciò a vomitare, e vomitò cinque o sei volte, e ancor'andò per abbasso tre volte, e con quel solo ri­ medio ricevette grandissimo beneficio. [ ... ] Et quando esso medico lo vidde cosi ben risanato, restò rutto stupefatto, parendoli cosa miracolosa'8•

Né questo fu l'ultimo atto della purificazione interna che il povero Laza­ ro Scuti dovette sopportare. Il chirurgo prescrisse un decotto, che lo fece andare « quattro o cinque volte il giorno» per altri dieci giorni, a base di colloquintide (coloquintida), una zucca selvatica la cui polpa è un poten­ te purgante idragogo'9• Il potere purgante della pianta è tale che in dosi massicce può provocare sanguinamenti e grave infiammazione intestina­ leo. Il decotto diluito di Fioravanti aveva prodotto effetti più blandi ma non meno clamorosi. Il regime inflitto a Scuti dovette quindi essere molto doloroso e debilitante. Leonardo non prendeva certo alla leggera la putrefazione provocata dal feroce assalto della malattia. Per lui esisteva un parallelo tra la minaccia fisica alla salute dell'uomo provocata dalla corruzione corporea, e la mi­ naccia morale alla Cristianità, costituita dall'eresia. Entrambe andavano attaccate con mezzi estremi. Per Fioravanti, più violenta era la purga, tanto maggiore sarebbe stata la purificazione. Altrimenti, perché avrebbe dovu­ to annotare con tanta diligenza il numero di volte che i suoi pazienti vo­ mitavano o defecavano dopo una delle sue purghe ? La quantità di sostanza fetida espulsa dagli intestini era per lui la misura del successo della cura.

So

IL PROFESSORE D I SEGRETI

Nei documenti storici non v'è traccia del soggiorno di Leonardo in Sicilia, possiamo però essere certi di una cosa: la Sicilia gli aprì lo sguar­ do non solo al mondo dell'alchimia, ma anche a un modo più teatrale di medicare. Fioravanti si ritrovò al centro di un palcoscenico sul quale rap­ presentare le azioni drammatiche delle purghe purificatrici: in prima fila, le meravigliose virtù del precipitato.

IO

Ciarlatano o uomo dei miracoli ?

Leonardo si era fatto la fama di uomo dei miracoli. Eppure a volte le rea­ zioni della gente lo sorprendevano. In realtà, ammetteva rievocando il suo arrivo a Palermo, sapeva solo quello che aveva letto nei libri e aveva ben poca esperienza'. La gente credeva veramente in lui ? Le sue cure funziona­ vano davvero ? Oppure quello che racconta sono solamente le imposture di un ciarlatano ? Possiamo fare un parallelo con le esperienze di un altro settentriona­ le che sarebbe andato nel Sud d' Italia quattro secoli più tardi. Alla metà degli anni trenta del Novecento, Carlo Levi, medico e scrittore, era stato esiliato in un paesino della Lucania per la sua attività antifascista. Era una «terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive nella miseria e nella lontananza la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte » . Nella sua opera che ripercorre quel periodo, Cristo si efermato a Eboli, Levi descrive la meraviglia che la sua presenza destava nella gente del luo­ go. Benché laureato in medicina, Levi non esercitava da anni e inizialmen­ te era riluttante a curare i malati del paese. E tuttavia, solo per aver offerto un'assistenza medica assai modesta, della quale i dottori locali parevano incapaci, Levi era diventato l'uomo dei miracoli. «Una speranza, una fi­ ducia assoluta era in loro. Mi chiedevo che cosa avesse potuto generarle » . Persino quando non era riuscito a salvare un uomo affetto da malaria, le persone lo sollecitavano comunque a prendersi cura dei figli «pallidi, ma­ gri, con dei grandi occhi neri e tristi nei visi cerei » . Era forse il prestigio naturale del forestiero che viene da lontano, e che è perciò come un dio; o piuttosto si erano accorte che, nella mia impotenza, mi ero tut­ tavia sforzato di far qualcosa per il moribondo e l'avevo guardato con interesse, e con reale dispiacere ? Ero stupito e vergognoso di questa fiducia, tanto piena quanto immeritata'.

IL PROFESSORE DI S EGRETI

Alcuni mesi dopo, raccontava Levi, «la mia fama di medico andava crescen­ do; e spesso venivano dei malati anche da paesi lontani, per consultarmi». È dunque meno credibile che nel Cinquecento, in una parte d'Euro­ pa nota ai gesuiti come "le altre Indie" per il suo isolamento geografico e culturale, uno straniero come Leonardo Fioravanti potesse aver provocato una reazione analoga?l Tutti, soprattutto i medici, dovevano essere rimasti a bocca aperta quando non solo aveva osato operare Marulla Greco, ma aveva persino rimosso la milza con successo. Che grande miracolo dovette appa­ rire l'aver salvato la vita di quella bellissima ragazza! E che fortuna che fosse la moglie di un capitano spagnolo. Diversamente da Carlo Levi, la cui umil­ tà è così eloquente, Fioravanti fece di tutto per far sapere ali ' intera città la sua impresa, omettendo ovviamente un non trascurabile dettaglio: era stato Andriano Zaccarello, e non lui, ad aver materialmente eseguito l'intervento. Sotto il profilo fisiologico, l'operazione non era impossibile. Benché ri­ schiosa per il pericolo di infezioni e indubbiamente dolorosissima senza ane­ stesia, una splenectomia non si traduceva necessariamente nella morte del paziente. Nel Seicento, il chirurgo Giuseppe Zambeccari dimostrò empiri­ camente che la milza non è un organo vitale. Benché ricopra un'importante funzione nel sistema immunitario immagazzinando linfociti che producono anticorpi, rimuovere chirurgicamente la milza non è necessariamente letale. In realtà è storicamente provato che le splenectomie erano interventi di routine in epoca pre-moderna. Plinio osservava che gli atleti romani si facevano a volte togliere la milza perché se ingrossata è d' intralcio nella corsa4• E Benedetto Ramberti, che aveva fatto parte del seguito dell'am­ basciatore veneziano in visita al sultano ottomano a lstanbul nel 1 5 3 4, ri­ feriva che i chirurghi turchi eseguivano la splenectomia sui peik, i corrieri, affinché potessero correre più veloci.

Una cura per gli incurabili ?

Abbiamo invece più di un buon motivo per essere scettici in merito all'as­ serzione di Fioravanti di aver guarito, nell'ospedale palermitano degli Incurabili, i pazienti affetti da mal francese, ovvero da sifilide. Benché al tempo di Fioravanti la malattia fosse incurabile, è verosimile ch'egli possa aver creato l' illusione di guarire i pazienti. Fioravanti curò la seconda e la terza generazione di vittime dell'epidemia, la cui esperienza della malattia

CIARLATANO O UOMO DEI MIRACOLI ?

era ben diversa da quella delle generazioni precedenti. La sifilide era an­ cora un terribile flagello che lasciava deturpate le sue vittime, ma non era più virulenta come in passato: i sintomi erano meno severi, il periodo di remissione più lungo. La gente cominciava a pensare che la malattia fosse, in fin dei conti, curabile1• Per i chirurghi ed empirici del Cinquecento, la sifilide era dunque una malattia che offriva l'opportunità a un guaritore ambizioso (o privo di scrupoli) di sfruttarla a proprio uso e consumo. I medici avevano ben po­ che cure da offrire. Discettavano se fosse una malattia antica o moderna, se provenisse dal Nuovo Mondo o da qualche altro luogo, ma non riuscivano a concordare una cura. La sifilide pareva sfuggire al sistema di Galeno, cosa che faceva addirittura dubitare che fosse una malattia vera e propria. Per lo più i medici scansavano gli infermi che, essendo loro negata ogni possibi­ lità di cura presso gli ospedali normali, venivano portati nelle strutture per "incurabili". La medicina rinascimentale ortodossa non era fatta per il mal francese : o meglio era del tutto incapace di affrontarlo. Si affacciarono quindi sulla scena gli empirici. Erano in pochi a dubita­ re che il mal francese fosse curabile: tutti sembravano possedere un rime­ dio infallibile. Scoprire la cura per questa malattia era una sorta di Santo Graal per il guaritore rinascimentale, e in questa gara per la cura giusta la storia naturale della sifilide premiò gli empirici. I primi dolorosi sintomi della malattia regrediscono dopo qualche settimana; i sintomi secondari, che possono presentarsi dalle sei alle otto settimane dopo, sono relativa­ mente lievi. Dunque la malattia "guarisce" spontaneamente e resta latente per un periodo che va da uno a venti anni. La terza fase della malattia, che ricorre in un terzo dei pazienti non trattati, è caratterizzata da lesioni pro­ gressivamente distruttive della pelle, delle mucose, delle ossa e degli organi interni, che conducono infine alla demenza e alla morte. Sotto il profilo culturale la sifilide è stata una malattia che ha favori­ to i rimedi specifici più eclatanti. Può darsi che gli eroici interventi degli empirici non avessero migliore effetto dei regimi della medicina galenica, ma diversamente da quest'ultima produssero cambiamenti fisiologici vi­ sibili. Quando ad alterazioni corporee macroscopiche (come i prolungati accessi di vomito) seguiva la cessazione dei sintomi, gli infermi erano por­ tati a stabilire un nesso tra il medicinale e la guarigione. Perfino quando la "guarigione" era semplicemente una remissione spontanea dei sintomi della malattia, i rimedi degli empirici apparivano più "efficaci" dei blandi regimi dei medici, che non sembravano determinare alcun cambiamento

IL PROFESSORE DI S EGRETI

fisiologico. Il mal francese si adattava dunque perfettamente alla medicina fai-da-te degli empirici, i quali sfidavano la medicina ortodossa con rimedi che sembravano funzionare sul serio. C 'era poi una perfetta corrispondenza tra i guaritori dotati di spirito imprenditoriale come Fioravanti e la nicchia creata nell'economia della medicina da una temuta malattia che pareva rispondere a un farmaco mi­ racoloso. Il guaiaco, il "legno sacro" del Nuovo Mondo era uno di questi farmaci, e la sua popolarità portò immensi profitti ai banchieri Fugger, che lo importarono in Europa6• Il precipitato, il prodigioso emetico di Leo­ nardo, era un altro di questi farmaci miracolosi. Il precipitato induceva sicuramente risultati clamorosi, ma la "guarigione" era probabilmente un' illusione creata dai lunghi periodi di remissione della malattia. I sin­ tomi riapparivano successivamente, ma solo molto tempo dopo, quando il famoso guaritore itinerante era ormai lontano. Negli archivi della storia è sopravvissuta solo la sua versione. Fioravanti godeva della propria celebrità. Convinto di possedere la « vera medicina de li antichi medici» (un dono che Dio aveva dato prima alle bestie e poi a lui), era in grado di confutare i dogmi della medicina ufficiale. L'esibizione di meraviglie quali la milza ipertrofica di Marulla sulla piazza del mercato, o il bolo "vivo" miracolosamente espulso dalla pancia della donna spagnola, fu l'ennesimo esempio di opportunismo au­ topromozionale. Lo spettacolo era fondamentale per l'arte del guaritore itinerante. Ma c'era dell'altro. La netta contrapposizione descritta da Fioravanti (e do­ cumentata, grazie alle sue prodigiose guarigioni) tra le diete inefficaci e le vuote discussioni dei medici da una parte, e i suoi rapidi e affidabili rimedi dall'altra, dovette trovare terreno fertile tra gli abitanti delle città siciliane. Evidentemente i suoi metodi avevano un legame molto più profondo con la realtà culturale del popolo di quanto non ne avesse la medicina galenica ufficiale.

II

Un 'operazione ingegnosa

Non furono le purghe violente a determinare la fama di Leonardo. Egli continuava infatti ad accumulare saggezza popolare e fu in Sicilia che scoprì il «vero metodo» per curare le ferite che lo avrebbe più tardi reso famoso. A Messina fu allievo di un vecchio chirurgo, un francescano di nome Matteo Guaruccio. Secondo Fioravanti, Fra Matteo era famoso nel­ la regione per la sua perizia nel curare le ferite. Come molti altri chirurghi, faceva da sé i medicamenti che gli servivano per trattare una varietà di ferite. Una sera, mentre era a cena a casa di Fioravanti, il frate si offrì di sve­ lare il suo segreto per guarire le ferite. «Il buon vecchio mi mostrò à fare tre rimedii, co' quali medicava divinamente ogni sorte di ferite. Et questi erano acqua, polvere, et olio» ricorda Fioravanti. «E tanto gli ho raffinati et fatti con grande arte, che quello che facea colui in un mese lo faccio io in sei giorni» '. Curare le ferite era una delle procedure più rischiose, e più comuni, che il chirurgo rinascimentale era chiamato a eseguire. Le ferite facevano parte della vita quotidiana: erano legate ai rischi del lavoro manuale, ma anche alle violente risse che ricorrevano continuamente. Nel lavoro edile, le cadu­ te e gli infortuni provocati dalla caduta di oggetti erano all'ordine del gior­ no e davano luogo a un' infinità di fratture ossee, commozioni e ferite alla testa'. Il muratore fiorentino Gaspare Nadi tenne per mezzo secolo, era il Quattrocento, un diario sulla sua vita lavorativa, registrando le tante cadu­ te che lo avevano costretto a letto per settimane e anche quelle che lo ave­ vano quasi ucciso. Nadi era stato fortunato: date le deplorevoli condizioni igieniche dei luoghi di lavoro all' inizio dell'età moderna, le ferite aperte erano soggette a infezioni che potevano portare al tetano o alla cancrena. Senza cure adeguate, anche una ferita non grave poteva risultare fatale. Ma il luogo di lavoro non era mai pericoloso quanto le strade. L' Italia era un posto violento. Gli uomini erano molto lesti a sfoderare il pugnale o la

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spada per difendere il proprio onore. Per un nonnulla si scatenava improv­ visamente una rissa e le vendette esplodevano in faide sanguinose1• Bastava un semplice insulto per provocare uno spargimento di sangue. Poi c'erano le rapine e il brigantaggio, specialmente al Sud, dove regnava l' illegalità. Bande di giovani vagavano per le città armati di bastoni, coltelli e pistole per tenere alto l'onore del loro quartiere. A Roma, dove i chirurghi erano tenuti a in­ formare le autorità in merito a ogni ferita da loro curata, l'archivio è pieno di verbali di accoltellamenti, percosse, sparatorie e duelli. L' Italia rinascimen­ tale era, come scrive uno storico «una società in cui la violenza era un modo facile, quasi accettabile, di risolvere i problemi» 4• Leonardo chiamò i suoi nuovi rimedi polvere da ferite, magno elisir e oleo benedetto. Un chirurgo messinese gli mostrò come fare un unguento per curare le ferite. Dopo aver sperimentato per mesi la ricetta, Fioravanti creò un balsamo cui dette il nome di magno !icore Leonardi; occorreva quasi un anno per prepararlo, ma ne valeva la pena perché cicatrizzava mi­ racolosamente le ferite, «e guarisce ancor la tigna » 1• Leonardo impiegò questi quattro rimedi un numero infinito di volte ottenendo, così diceva, guarigioni "miracolose". Ma cosa facevano concre­ tamente ? Secondo Fioravanti, ogni trattamento aveva proprietà speciali che agivano in sinergia. Non rivelava gli ingredienti della polvere daferite, ma il fatto che la impiegasse per stagnare il sangue e per curare l' infiam­ mazione fa sospettare che si trattasse di una polvere composta da una terra minerale come la terra di Lemnia o il bolo armeno, che hanno proprietà astringenti notevoli ed erano rimedi popolari ampiamente impiegati per sanare ferite e morsi di serpenté. Il magno elisir era un composto di erbe, spezie, miele e zucchero che, fer­ mentato e distillato tre volte, produceva un liquido chiaro, sterile e profumato dal notevole contenuto alcolico. Il magno elisir aveva un'efficace azione anti­ batterica e Fioravanti lo usava per alleviare il dolore e «conservare la carne» . L ' oleo benedetto era un composto distillato dall'albume e dalla tormen­ tilla ( Tormenti/la potenti/la), una pianta le cui foglie hanno forti proprietà astringenti. La tormentilla è da tempo impiegata nella medicina tradizio­ nale e omeopatica come coagulante in caso di sanguinamento. L'olio con­ teneva anche una piccola quantità di mirra, che ha dimostrato di possede­ re proprietà astringenti, antisettiche e antimicrobiche. Il magno liquore, composto da una dozzina di erbe, aveva quale ingre­ diente principale l'iperico (Hypericum perforatum)7• Per le sue straordi­ narie proprietà astringenti, l'iperico è da tempo impiegato con successo

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nella cura delle ferite. Secondo Fioravanti il medicamento cicatrizzava le ferite, arrestava il sanguinamento e favoriva la crescita della pelle. La ricer­ ca scientifica ha dimostrato che gli unguenti a base di iperico promuovono la riduzione delle ferite e la rigenerazione dei tessuti. L'olio di iperico, dal colore rosso rubino, ha anche dimostrato di avere proprietà antifungine e antimicrobiche; per questa ragione viene raccomandato nella medicina omeopatica per trattare ustioni, lividi, ferite e tigna.

Una rinoplastica rinascimentale

Il chirurgo bolognese lasciò dunque la Sicilia armato di un arsenale di efficaci

medicamenti per la cura delle ferite. E ovviamente non vedeva l'ora di spe­ rimentarli. «Feci deliberatione di partirmi da Messina, et andare à Napoli, dove ogni giorno se ne feriscono molti». Sapeva che in quella città le sue cure sarebbero state molto apprezzate. Ma prima volle fermarsi in Calabria, perché aveva sentito parlare di certi chirurghi che avevano escogitato un ingegnoso metodo per aggiustare i nasi mutilati, e aveva una gran voglia di impararlo. I chirurghi vivevano a Tropea, un paesino di pescatori, arroccato come un nido d'aquila sulla costa tirrena. Oggi Tropea è famosa più che altro per le sue cipolle rosse, ma all'epoca di Fioravanti era famosa per una fa­ miglia di chirurghi altamente specializzati che avevano perfezionato l'arte di ricostruire i nasi rotti con la chirurgia plastica, o, come diremmo oggi, con la rinoplastica. Quando, alla fine del 1 549, Fioravanti arrivò a Tropea, quell'arte veniva esercitata con impareggiabile perizia da due fratelli che lavoravano nella stessa casa: Pietro e Paolo Vianeo. I chirurghi siciliani avevano iniziato a praticare la rinoplastica all'inizio del Quattrocento, ma le origini di questa procedura risalgono addirittura al VI secolo avanti Cristo, quando apparve nel Susruta, il testo fondamen­ tale della medicina indù. Il chirurgo catanese Branca de' Branca praticava una tecnica simile a quella indù, che consisteva nel tagliare un lembo di pelle dalla guancia e nel trapiantarlo sul naso. A suo figlio Antonio viene ascritto il merito di aver abbandonato la metodica indù e di aver prelevato il lembo di pelle dal braccio, lasciando così inalterato il volto. La tecnica venne ulteriormente affinata all'inizio del Cinquecento da Vincenzo Vianeo di Tropea. Come si usa fare, i segreti del mestiere furono trasmessi da Vincenzo a suo nipote Bernardino, che a sua volta

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IL PRO F ESSORE D I SEGRETI

li insegnò ai figli Pietro e Paolo, i fratelli che ricevettero la visita di Fio­ ravanti. I fratelli Vianeo impiegavano questa metodica per ricostruire nasi, labbra, orecchie e accomodare altri difetti facciali. In qualità di chi­ rurghi plastici polivalenti, la loro perizia era molto ricercata, sia a causa dei danni provocati dal mal francese, sia a causa della violenza della vita rinascimentale. Uno dei sintomi più devastanti della fase avanzata della sifilide era la voragine al centro del volto, dove la malattia erodeva la carne e la carti­ lagine del naso. Questa condizione, nota nella medicina moderna come deformità del naso a sella, è causata dal collasso del dorso nasale ed è rela­ tivamente diffusa tra le vittime di sifilide congenita. Allo scoppiare dell'e­ pidemia di sifilide che invase l'Europa cinquecentesca, il naso sifilitico divenne un marchio di infamia, un segno visibile di corruzione morale e corporale che emarginava le sue sfortunate vittime8• Ma si poteva perdere il naso anche in altri modi. La violenza tra aristo­ cratici, in particolare nel Sud dominato dagli spagnoli, era leggendaria. Il duello faceva parte del codice cavalleresco e la più piccola violazione del codice d'onore scatenava violenti alterchi. Lo storico Donald Weinstein osserva: «In una società ossessionata dal fare la bellafigura e formatasi sul culto della violenza, gli uomini stavano sempre in guardia contro eventuali insulti al loro onore e trovavano sempre il modo di battersi » 9• Spesso, il "duello" era poco più di una rissa di strada, ma le armi erano le stesse e la posta in gioco molto alta. Quando due focosi cavalieri sguainavano le spade, seguiva una feroce battaglia all'ultimo sangue e le probabilità di rimediare un colpo in testa erano piuttosto elevate. L'oltraggio di perdere il naso in una rissa era aggravato dal fatto che chi perdeva avrebbe portato il segno di quella sconfitta per tutta la vita'0•

Spionaggio chirurgico

Non appena arrivato a Tropea, nel novembre del 1549. Fioravanti si recò dai fratelli Vianeo. Spacciandosi per un nobile bolognese, spiegò di essersi recato lì a nome di un congiunto che aveva perso il naso nella battaglia di Serravalle; Fioravanti voleva assistere a un intervento di rinoplastica per poi riferire al parente ciò che lo aspettava. I fratelli acconsentirono alla sua richiesta. Quando i pazienti furono pronti, lo mandarono a chiamare perché potesse assistere ali'operazione. «Et io fingendo di non poter veder

UN ' OPERAZIONE INGEGNOSA

tal cosa, mi voltava con la faccia à dietro, ma gli occhi vedeano benissimo. et cosi viddi tutto il secreto; da capo a piedi, et lo imparai ». Benché nella letteratura medica rinascimentale vi siano numerosi rife­ rimenti alla famiglia Branca, Fioravanti fu il primo a descrivere la meto­ dica impiegata dai fratelli Vianeo. La sua descrizione è talmente chiara da non aver bisogno di commenti: La prima cosa che costoro facevano ad uno quando li volevano fare tale opera­ tione lo facevano purgare, et poi nel braccio sinistro, tra la spalla et il gombito, nel mezzo pigliavano quella pelle con una tanaglia, et con una lancetta grande passavano tra la canaglia et la carne del muscolo, et vi passavano una lenzetta, o stricca di tela, et le medicavano fintanto che quella pelle diventava grossissima. Et come pareva a loro che fosse grossa a bastanza, tagliavano il naso tutto pare, et tagliavano quella pelle ad una banda et la cusivano al naso et lo ligavano con tanto artificio et destrezza, che non si poteva muovere in modo alcuno fintanto, che la detta pelle non era saldata insieme col naso. Et saldata che era, la tagliavano à l'altra banda, et scorticavano il labro della bocca, et vi cusivano la detta pelle del braccio, et la medicavano fintanto, che fosse saldata insieme col labro. Et poi vi mettevano una forma fatta di metallo, nella quale il naso cresceva à proportione e restava formato ma alquanto più bianco della faccia [ . . ]. Et è una bellissima pratica, et grande esperienza". .

Si può solo tentare di immaginare quale atroce dolore provocasse l'inter­ vento, al quale si aggiungeva il disagio patito dal paziente durante il lungo processo di guarigione. L'intera operazione poteva richiedere anche 45 giorni, di cui 1 s con il braccio legato alla testa con una bardatura per fa­ vorire il trapianto di pelle. Il rischio di infezione alla ferita aperta doveva essere elevato, eppure il tasso di successo dell' intervento spronava molti a mettersi in viaggio per Tropea: quando Fioravanti andò dai fratelli Via­ neo, erano ben cinque i pazienti in attesa dell'intervento. Evidentemente coloro che si sottoponevano a quella difficile operazio­ ne ritenevano che valesse la pena di affrontare le scomodità e il disagio di quel lungo viaggio. L'umanista Camillo Porzio, che si sottopose all'in­ tervento nel 156I per aggiustare il naso mozzato durante una rissa con un marito geloso, era soddisfatto dei risultati perché il nuovo naso era « tanto simile al primo che da coloro che nol sapranno, difficilmente potrà essere conosciuto: è ben vero che ci ho patito grandissimi travagli » 'l.. La rinoplastica calabrese era una di quelle rare metodiche che solo po­ chissimi chirurghi sono in grado di svolgere. Praticata a lungo e con gran-

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In questa illustrazione del t597, è raffigurato il metodo della rinoplastica calabrese: il brac­ cio del paziente è tenuto fermo da una forma di metallo mentre il lembo di pelle si impian­ ta sul naso. La metodica poteva richiedere anche quarancacinque giorni.

de successo nel Sud d' Italia, la procedura avrebbe atteso altri vent 'anni prima di venire insegnata all'università. Di tanto in tanto i medici veni­ vano a sapere di questa tecnica, da viaggiatori o dai pazienti stessi, ma la reazione era sempre di incredulità. Non riuscivano a capire come un naso nuovo potesse essere impiantato al posto del naso originale. L'anatomista Gabriele Falloppio riteneva, in quanto «provato da Ippocrate » , che una parte recisa dal corpo non potesse essere riattaccatall. Tuttavia, tutto questo era perfettamente comprensibile per Leonardo Fioravanti, per il quale la chirurgia era un'agricoltura del corpo o, come espresse più poeticamente nello Specchio di scientia universale, « un'agri-

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coltura d'huomini» '4• Come il contadino fascia un albero per farlo gua­ rire, oppure innesta uno stelo sul tronco di un albero per accrescere il suo frutteto, così il chirurgo deve aiutare il corpo umano a ritrovare il proprio naturale cammino verso la salute. Ecco perché i medici devono seguire i modi della natura: studiando le abitudini animali, per esempio, o osser­ vando come gli agricoltori hanno cura dei loro frutteti. Come suggerisce la dottrina di Fioravanti, nella storia della scienza e della medicina il percorso verso "il moderno" è spesso lungo e tortuoso. Fioravanti diceva che «il nuovo modo di medicare » era un dono di Dio giunto a lui attraverso il popolo e riconosceva che questo genere di sapere non era razionale né teorico. Era un sapere più astuto, nato da una lunga esperienza. Gli antichi greci l'avevano chiamato metis, che essi contrappone­ vano alla sophia, la sapienza contemplativa dei filosofi. Metis era il sapere dei marinai, dei guerrieri e dei cacciatori, era la conoscenza che li rendeva capaci di reagire con prontezza nelle situazioni difficili e incerte. È l'opposto del sapere filosofico, che riguarda il mondo senza tempo dell' Essere'1• Per Fioravanti, la rinoplastica dei fratelli calabresi era l'esemplificazio­ ne della saggezza popolare, e la metis - l'arte dell' imbroglione - gli con­ sentì di scoprirla. Travestendosi per non essere scoperto, come un ladro che ruba un segreto industriale, se la svignò con la scaltrezza d'una volpe. La metis, il potere dell'astuzia e del raggiro, opera sempre sotto mentite spoglie e Fioravanti la usò con consumata destrezza. La procedura ricostruttiva perfezionata dai Vianeo richiedeva ai pa­ zienti un'estrema forza d'animo, eppure tutti quelli che si sottoposero alla snervante operazione parevano soddisfatti dei risultati. Camillo Porzio, evidentemente compiaciuto del suo nuovo naso, lamentava che la proce­ dura non fosse stata resa pubblica, a beneficio di altri chirurghi. Egli era convinto che il chirurgo che lo aveva operato «per picciol pregio rispecto alla grande utilità del rimedio il daria alle stampe » '6• Cosa che, a quanto pare, non accadde. A Leonardo Fioravanti non restò che rubare il segreto.

Il segreto si diffonde

Solo negli anni sessanta del Cinquecento la rinoplastica calabrese en­ trò finalmente nell'università. Benché il mondo accademico avesse sentito parlare di questa pratica chirurgica sin dagli inizi del secolo,

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chi scriveva di medicina ne forniva versioni più o meno incomplete e incoerenti. Stando a quel che si dice, Vesalio pensava che il nuovo naso fosse formato da un muscolo dell'avambraccio, un'assurdità che tradisce la completa ignoranza di questa metodica da parte del famoso anatomista. Si dà il caso che proprio Leonardo Fioravanti portasse la cultura ac­ cademica a conoscenza della tecnica calabrese. Decenni dopo, tornato finalmente a Bologna per prendere la laurea in medicina, Leonardo fece la conoscenza di un famoso docente di chirurgia, Giulio Cesare Aranzio, la cui abilità di chirurgo era tale che, scrisse Leonardo, era in grado di far quasi resuscitare i morti'7• Tra i due bolognesi si sviluppò una cordiale amicizia. Desideroso di condividere il proprio sapere con il più eminen­ te docente di chirurgia di Bologna, Leonardo deliziò il suo più giova­ ne collega con i racconti delle gesta eroiche dei due chirurghi calabresi. All'epoca della visita di Fioravanti, Aranzio stava iniziando a praticare la rinoplastica a Bologna'8• Tra gli allievi di Aranzio c'era lo studente di medicina Gaspare Taglia­ cozzi, anche lui bolognese. Dopo la laurea nel 1576, Tagliacozzi iniziò a insegnare anatomia all'università. Più o meno negli stessi anni, evidente­ mente spronato da Aranzio, cominciò a sperimentare la tecnica calabrese. Nel 1588 si definiva, alquanto esageratamente "narium et aurium primus reformator", il primo ricostruttore di nasi e orecchi. Nel 1597 Tagliacozzi pubblicò sull'argomento un trattato in latino, De curtorum chirurgia, in cui affermava che l' intervento non era frivolo né puramente estetico ma era inteso a « sollevare lo spirito e aiutare la mente degli afflitti » . Tali affermazioni volevano nobilitare l'arte della chirurgia, ricollegandola all' ideologia dell'autonomia dell'uomo proposta da uma­ nisti come Pico della Mirandola, nella cui Oratio de hominis dignitate, Dio dice ad Adamo ( in contrasto con la visione secondo la quale la natura umana sarebbe immutabile) : «Perché di te stesso quasi libero e sovrano ar­ tefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto» '9• L'unico riconoscimento da parte di Tagliacozzi delle radici popolari della rinopla­ stica, fu quello di osservare che era sua intenzione correggere e migliorare i metodi rudimentali dei calabresi. Per dare alla rinoplastica un lignaggio accademico, Tagliacozzi la faceva risalire a Palladio e Columella, che scri­ vevano di agricoltura ai tempi dell'antica Roma, e che avevano trattato anche dell' innesto. La rinoplastica, osservava Fioravanti, era un modo di innestare sul viso un naso nuovo.

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Qualche anno dopo la morte di Tagliacozzi, avvenuta nel 1597, la chi­ rurgia ricostruttiva parve sparire del tutto. A parte pochi casi isolati di chi­ rurghi accademici che tentavano quella procedura, l'opera di Tagliacozzi venne dimenticata. Una volta estinta la famiglia Vianeo, ben pochi furono i chirurghi che avevano voglia di cimentarsi in quella difficile tecnica, e così la rinoplastica cadde nell'oblio e fino al XVIII secolo non se ne seppe più nulla.

Il declino di un'arte vitale

Com'è possibile che una procedura tanto promettente sia sparita così re­ pentinamente ? Gli storici hanno azzardato una serie di ipotesi per spiegare la scomparsa del metodo calabrese. Alcuni hanno dato la colpa al "generale stato di sterilità" nel quale era caduta la chirurgia nel Seicento. Eppure la chirurgia era assurta al rango di materia di studio nelle facoltà di medicina. La spiegazione più plausibile al declino della rinoplastica è semplice­ mente questa: nessuno dopo i fratelli Vianeo fu capace di compiere quella complessa e dolorosa operazione chirurgica con la piena soddisfazione dei pazienti. Sebbene Tagliacozzi sostenesse di aver "perfezionato" la tecnica, sono solo cinque o sei gli interventi documentati, né furono tutti successi. Ben !ungi dal perfezionare il metodo, Tagliacozzi produsse risultati inferiori a quelli dei più esperti chirurghi di Tropeaw. I fratelli Vianeo avevano il mo­ nopolio di questa rara e difficile arte, che portarono con loro nella tomba. Questa conclusione sarebbe piaciuta a Leonardo Fioravanti. La sua de­ vozione per la « natura! filosofia de' calabresi» , pastori, empirici, ostetri­ che e contadini del Sud, era al centro della sua dottrina medica. Al cuore del suo metodo, sviluppato negli anni passati al Sud, vi era la convinzione che la medicina fosse nata come emulazione dei metodi naturali usati dagli animali per curarsi. Ecco perché Fioravanti sollecitava un ritorno al siste­ ma originario «de li antichi medici» 2', i quali «non seppero altramen­ te fisica, nè metodo niuno, ma solamente hebbero un gran giudicio» . Il primitivismo medico di Fioravanti, fondato sulle sue esperienze in Sicilia e in Calabria, lo preparò al naturalismo, più strettamente filosofico, che avrebbe incontrato nella fase successiva del suo viaggio. Quando Leonardo arrivò a Napoli nel dicembre del 1549, era già con­ vinto che la natura pullulasse di vita. Questa visione era simile alla na-

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tura animata, vibrante, della tradizione filosofica napoletana, che si era sviluppata intorno alle idee del filosofo calabrese Bernardino Telesio, da Bacone definito « il primo dei moderni» ... Telesio espresse in termini filosofici rigorosi la filosofia naturale che Fioravanti aveva cercato alla cieca: la natura va compresa e indagata « secondo i suoi stessi principi », sosteneva Telesio. Solo l'osservazione, non la ragione o I ' autorità, era la via alla conoscenza. Napoli avrebbe smussato gli angoli del naturalismo primitivo di Fio­ ravanti, che si unì a una comunità di pensatori che condividevano la sua convinzione secondo cui la natura in ogni suo aspetto è immediatamente accessibile ai sensi. Da essi Leonardo avrebbe appreso un nuovo metodo sperimentale attraverso cui perfezionare quella dottrina.

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Le meraviglie di Napoli

La Napoli cinquecentesca era una scintillante metropoli che attirava da tutta l' Italia e dal regno spagnolo mercanti, burocrati e nobili che spera­ vano di godere dei tanti privilegi che il regno di Napoli conferiva ai propri cittadini'. Uno spagnolo facoltoso viveva meglio a Napoli che in qualsiasi altro posto della Spagna, soprattutto Madrid, la squallida città mercantile in cui nel 1561, Filippo n aveva trasferito la sua corte. Napoli doveva gran parte della sua magnificenza al viceré spagnolo don Pedro de Toledo che amministrò il dominio reale dal 1 5 3 2. sino alla sua morte, avvenuta nel 155 3 . Uomo inflessibile, temprato dalle guerre in Ger­ mania, don Pedro era odiato dai nobili napoletani che, prima dell'arrivo dei viceré spagnoli, avevano governato con grande munificenza, facendo precipitare la città in un circolo vizioso di faide e guerre. «Mentre altrove la feudalità decadeva, nel regno di Napoli [ ... ] si rinsan­ guava e prendeva nuova forza e rigoglio»' osservava Benedetto Croce. Per secoli, sovrani deboli e inetti non erano stati capaci di dominare i bellicosi ba­ roni che facevano il bello e il cattivo tempo nel regno di Napoli. L'imperatore del Sacro romano impero Carlo v, padre di Filippo, inviò a Napoli Toledo per porre in atto una linea politica mirata a ridurre i baroni al rango di sudditi. Nel Settecento lo storico Pietro Giannone scriveva che il popolo accolse To­ ledo «con plauso grande, e con fama di dover governare con gran prudenza e giustizia, e riformare gli tanti abusi e le corruttele e le insolenze de' nobili»l.

Una rivolta elitaria

Toledo scoprì che decenni di lotte intestine tra i baroni, l'invasione france­ se e una pestilenza inesorabile avevano ridotto il regno « in istato pur trop­ po infelice ». Poco dopo il suo arrivo a Napoli nel 1532., emanò una serie di

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misure per ripristinare l'ordine pubblico e ridurre all'obbedienza i baroni. Proibì l'uso delle armi, istituì il coprifuoco e fece demolire i balconi che potevano dare ricetta ai criminali. Queste azioni fecero infuriare i nobili, e il successivo tentativo di Toledo di introdurre l' Inquisizione, fornì loro il pretesto per scatenare un'aperta rivolta. L' u maggio 1 547, quando ven­ ne affisso l'editto che annunciava l'introduzione dell'Inquisizione, la città esplose. «Ali' armi ! Ali' armi ! » gridava la folla, strappando il proclama. Le botteghe vennero chiuse e il popolo, sobillato dalla nobiltà, prese d'assalto la fortezza spagnola. La rivolta andò avanti per tutta l'estate. Ecco l'amaro resoconto che di quei mesi tumultuosi scrisse Giannone: Ed era cosa compassionevole a vedere la città vota de' suoi baroni e d'onesti cit­ tadini, e piena all' incontro di plebe arrogante e d' infiniti fuorusciti, i quali scor­ rendo ora in questo, ora in quell'altro luogo, facevano mille insolenze ; e chi gli riprendeva, era ingiuriato e chiamato traditor della patria, e lo sforzavano a pigliar l'armi, ed andar con essoloro; ma chi egregiamente si mostrava in piazza in giub­ bone o armato, e si offeriva di morir per la patria, minacciando il Gigante del Castel nuovo (così chiamavano D. Pietro di Toledo) quello onoravano, e chiama­ vano patrizio, e degno d'esser deputato della città4•

A centinaia vennero uccisi o arrestati prima che la rivolta fosse finalmente domata. Per Giannone i tumulti del 1 5 47 dimostravano che il governo di Toledo era rigoroso ma al tempo stesso illuminato\ laddove per Croce «furono l'ultima manifestazione della vitalità politica e della indipen­ denza napoletana » 6• La realtà dei fatti conferma entrambe le interpre­ tazioni.

Napoli come appariva alla fine del xv secolo. Questa visione panoramica, completata intorno al 1472.-73 dall'artista bolognese Francesco Pagano, descrive l'arrivo della flotta aragonese dopo la barraglia di Ischia del 1465.

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Una volta domati i baroni, Toledo varò un ambizioso piano di risanamen­ to urbano. Per realizzare il suo ideale di capitale moderna fece demolire gli edifici medievali e radere al suolo interi quartieri. Ampliò le mura cit­ tadine e ne ricostruì i bastioni per difendere la città dai turchi. Assoldò ar­ chitetti e ingegneri per edificare nuove piazze, fontane e condotte idriche; ordinò la costruzione di ospedali e orfanotrofi, il restauro di chiese e la realizzazione di un'ampia strada, via Toledo, che ancora oggi taglia la città in due per poi risalire ripida verso Capodimonte. Toledo intraprese anche il restauro dell'imponente fortezza medievale di Castel Nuovo, trasfor­ mandola nella sfarzosa residenza del viceré.

«Un paradiso abitato da diavoli»

I progetti edilizi erano in piena attività nel 1549, l'anno in cui Fioravanti rag­ giunse la baia di Napoli. Rapito dalla splendida visione della città, scriveva: «Una delle più belle, famose, et nobili città, che hoggidì sia sopra la terra » 7• La magnificenza rinascimentale non riusciva però a mascherare la di­ lagante miseria che, ieri come oggi, è la triste realtà della vita napoletana. Napoli non attirava solo i ricchi, ma anche un gran numero di poveri im­ migranti. Tra la cenere vulcanica sulla quale era edificata, la città, con i suoi 25o.ooo abitanti, celava decine di migliaia di poveri del Sud. Dietro lo splendore dei palazzi, i quartieri malfamati brulicavano di tuguri che dava­ no ricerco a pescatori, facchini, lavandaie, fabbri, falegnami, guaritrici, che vivevano di espedienti. Dei pericoli del pauperismo e del parassitismo era ben consapevole il governo. La presenza massiccia di emarginati - mendi­ canti, vagabondi, banditi, prostitute - costituiva una potenziale minaccia all'ordine pubblico perché, come osservava il viceré, essi erano soliti guar­ dare con favore ai mutamenti di governo, ritenendo di aver qualcosa da guadagnare e nulla da perdere. Un detto coniato all'epoca degli Angioini - «Napoli è un paradiso abitato da diavoli » - contrapponeva la magnificenza delle campagne allo squallore della città8• Gli estremi che segnavano così profondamente la vita politica ed economica di Napoli erano ben noti anche ai filosofi. Nessuno più di Bernardino Telesio, che ne traspose il prodigio in me­ tafisica, restò colpito dallo sgomento e dalla meraviglia del paesaggio napoletano.

IL PROFES SORE D I SEGRETI

Telesio era cresciuto a Cosenza, città collinare alla confluenza dei fiumi Busento e Crati. Aveva studiato filosofia naturale all'università di Padova negli anni trenta, gli stessi anni in cui Vesalio vi insegnava anatomia. Leg­ gendo Aristotele in greco, Telesio rimase disgustato dalla filosofia naturale degli scolastici e decise così di formulare una visione della natura che si sottraesse alle categorie arbitrarie ad essa imposte dai filosofi. La natura deve essere indagata « secondo i propri principi » sosteneva Telesio, e dev'esserle consentito di parlare da sé9. Respingendo la metafisica aristotelica, Telesio riduceva i principi del suo sistema alle forze attive, sensibili, del caldo e del freddo che agiscono sulla materia passiva. Come poli opposti, caldo e freddo lottano per il pos­ sesso della materia; da questa eterna lotta eraclitea sorgono le qualità delle cose così come noi le conosciamo. Per Telesio i principi universali del cal­ do e del freddo erano reali come le solfatare dei campi Flegrei, poco fuori le mura cittadine, e come le cime innevate dei monti calabresi. Per coloro che si riunivano nella sua casa napoletana per dibattere la composizione e la natura dell'universo, era la scoperta di un nuovo mondo. Benché la natura per Telesio fosse concreta e fisica, essa non era mai inerte come i muti atomi lucreziani. Le cose non nascevano per una sorte cieca. Dotata di sensibilità e dell'istinto di autoconservazione, la natura "percepisce" le forme e i modelli che le sono propri. Per Telesio la natura è viva, senziente e vibrante. La sua filosofia naturale celebrava l'osservazione e si sforzava di interpretare il mondo fisico attraverso i principi presenti in natura, non quelli inventati dalla mente umana. Radicalmente antiari­ stotelico e fortemente materialista (persino l'anima e la conoscenza sono per lui corporee), il naturalismo di Telesio era edificante, liberatorio e pe­ ricoloso: implicava che le norme sociali e religiose potessero essere fatte oggetto della stessa indagine empirica con la quale si giudicava la natura, e che si potesse usare la natura come un parametro per giudicare quelle stesse norme. Nella fertile terra del Sud, il naturalismo diede vita a un pro­ gramma di riforme mirato alle convenzioni sociali e religiose'0• Questo naturalismo "riformistico" culminò nel processo a Giordano Bruno, frate domenicano di idee radicali11• Arrestato dall' Inquisizione ve­ neziana nel 1 6oo ed estradato a Roma, fu processato per eresia e bruciato vivo a Campo de' Fiori. Il mito di Giordano Bruno raffigura il filosofo cam­ pano come un martire della scienza, ma è una versione poco convincente. A metterlo nei guai furono le sue idee radicali in campo politico e religio­ so, in particolare il suo progettato impiego della magia e dell'astrologia

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all'interno di un bizzarro complotto volto a stabilire una nuova religione universale. Convinto che Mosè e Cristo fossero maghi, fra Bruno credeva che, in quanto lui stesso un mago, avrebbe avuto un ruolo determinante nel preparare la strada al nuovo millennio. Telesio aveva riaperto il dibatti­ to sulle opere della magia, e si era scatenato l'inferno.

L'incanto della magia

La magia era rinata nel Rinascimento. Tutto iniziò nel 1466 quando l'uma­ nista Marsilio Ficino acquistò un manoscritto contenente una serie di testi greci noti come Ermete Trismegisto, ovvero "Ermes, il tre volte grande"". I libri ermetici, ritenuti depositari della magia degli egizi, raccontavano di come i Magi avessero attirato gli influssi benefici delle stelle utilizzando immagini, talismani e pietre preziose. Nel r6r4 lo studioso inglese lsaac Casauban avrebbe dimostrato filo­ logicamente che i testi ermetici erano apocrifi. Sugli intellettuali della ge­ nerazione di Fioravanti, tuttavia, essi esercitarono un potere talismanico. L'ermetismo trovò la sua collocazione naturale nella città di Napoli. Quando in Italia nessuno aveva ancora sentito nominare Ermete Trisme­ gisto, i vicoli di Napoli risuonavano già delle leggende di maghi. Il poeta dell'antica Roma Virgilio fu il mago preferito dai napoletani'3• Il poeta aveva vissuto gran parte della sua vita a Napoli, dove aveva composto il suo capolavoro, l'Eneide. Leggende locali narravano dei molti e ingegnosi con­ gegni realizzati con la magia naturale da Virgilio per proteggere la città, tra i quali una mosca scacciamosche in bronzo e un arciere pure di bronzo che punta la freccia sul Vesuvio. Per molto tempo, secondo la tradizione, l'arciere aveva compiuto la ma­ gia di far stare quieta la montagna, finché un bel giorno un contadino, che non capiva perché l'arciere dovesse stare sempre lì con l'arco tirato, fece scoccare la freccia che colpì il bordo del cratere provocando un'eruzione. Ma il richiamo dell'occulto non era circoscritto a Napoli. La magia naturale (l'arte di produrre effetti « maravigliosi » manipolando le forze nascoste della natura) emerse nel Rinascimento come la scienza di ricerca più avanzata d' Europa, più promettente persino dell'astronomia e dell'a­ natomia, saperi nei quali gli storici moderni individuano le origini della Rivoluzione scientifica. A conti fatti, la magia naturale appare come una

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delle più spettacolari cantonate della storia della scienza, ma nel Rinasci­ mento il suo programma era elettrizzante come la ricerca del genoma uma­ no ai nostri giorni. La magia naturale prometteva di svelare i "segreti" della natura e di consentire al mago di compiere miracolose guarigioni, di far progredire la tecnologia e promuovere il benessere umano. Pericolosa e affascinante, la magia naturale era un potere benefico. Usata smodatamente poteva tuttavia condurre in luoghi proibiti. Il più famoso tra i maghi, il napoletano Giambattista della Porta, fu per qualche tempo rivale di Galileo. Nato nel 1 5 3 5 da una famiglia della piccola nobiltà napoletana, della Porta ebbe una vita privilegiata che gli consentì di indul­ gere nelle sue passioni: scrivere commedie e dilettarsi negli esperimenti. Negli anni quaranta, ancora adolescente, fondò una "accademia dei curio­ si" che si riuniva nel palazzo avito, situato nella elegante Piazza Carità, nel cuore di Napoli, e nella sua tenuta sulla penisola sorrentina. Della Porta dette al suo gruppo di curiosi il nome di Academia Secre­ torum'4. Il suo scopo ? Ricercare i «segreti di natura » , nei libri o attraver­ so altri eruditi, provarli con gli esperimenti e registrare solo quelli che si fossero dimostrati veri. Per della Porta, la natura era un inesauribile tesoro di segreti che poteva essere manipolato per produrre meraviglie: lenti per creare illusioni ottiche, scrittura invisibile, metodi per conservare frutta e verdura tutto l'anno, acciaio temprato, ma anche la capacità di adoperare l'immaginazione per creare cavalli multicolori e bambini che parevano dei. Gli esperimenti giocosi e casuali che della Porta e i suoi aristocratici amici conducevano nella villa di famiglia possono apparire alla sensibilità moderna dei giochi da ragazzi; tuttavia, le loro attività avevano un intento serio. Il vero obiettivo di della Porta era dimostrare come i poteri della natura potessero essere diretti a scopi benefici'1• Della Porta mantenne il suo slancio per la magia naturale entro i confini della rispettabilità. Il suo contemporaneo Tommaso Campanella, di qualche anno più giovane, si fece invece prendere la mano'6• I due uomini avevano una visione della magia del tutto diversa, come diversa era la loro estrazione sociale. Figlio di un povero ciabattino analfabeta di Stilo, un paesino del­ la Calabria, Campanella entrò nell'ordine domenicano a quattordici anni. Trasferitosi a Cosenza per completare la sua istruzione, gli fu data una copia dell'opera di Telesio De rerum natura iuxta propria principia. Convertitosi subito al naturalismo telesiano, divenne uno strenuo difensore della dottrina. Campanella si trasferì a Napoli, dove si unì al circolo di della Porta, ma ben presto si stancò di quella ricerca dilettantistica'7• Che ne sanno questi

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nobili della tremenda miseria della Calabria? si chiedeva. A cosa serviva la magia se non era in grado di riparare quei torti ? Per Campanella, il pro­ gramma di della Porta non sarebbe andato lontano perché non costituiva un manifesto per cambiare il mondo. Nella primavera del 1 5 9 9, sotto la bandiera della magia naturale e della profezia biblica, Campanella convin­ se una banda di domenicani libertini, nobili decaduti, rifugiati, eretici e briganti a ordire una congiura per rovesciare il governo spagnolo in Cala­ bria e instaurare uno stato utopistico - la Città del Sole - da Campanella stesso governato. Per questo atto temerario languì in una cella sotterranea per ventisette anni. Il naturalismo "riformista" che aveva spinto all'eresia Giordano Bruno e alla rivoluzione Tommaso Campanella, ebbe un'influenza assai diversa su Leonardo Fioravanti. Prima di arrivare a Napoli aveva già giocato a fare il medico sapiente escogitando cure miracolose ed era stato ricompensato dai volti sbigottiti della folla. Fioravanti conosceva i trucchi magici. Mentre Campanella credeva appassionatamente nella capacità della magia di tra­ sformare il mondo, Fioravanti era scettico. Per lui la magia naturale non era diversa dalla magia che aveva visto praticare da ciarlatani e giocolieri nelle piazze: di grande effetto, utile, ma alla fin fine nient'altro che un trucco. Insensibile alla magia, Leonardo era però un acceso sostenitore dell'i­ dea di Telesio della natura come canone universale di verità. Troppo ci­ nico per prendere sul serio la possibilità di un'utopia come quella della Città del Sole di Campanella, Fioravanti rimpiangeva però l'epoca d'oro della medicina, quando gli empirici esercitavano liberamente e i medici non avevano ancora monopolizzato il mestiere. Come Campanella e Bru­ no, era venuto a Napoli con gli occhi ben aperti e la testa piena di stupore. A Napoli, il paradiso abitato dai diavoli, i suoi rozzi convincimenti sulla natura e sulla giustizia e la strada per la "vera" medicina trovarono una nuova voce.

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Un'accademia di maghi

Le università chiusero le porte a Bernardino Telesio. La metafisica natura­ listica radicale del filosofo cosentino era troppo audace, troppo minaccio­ sa per gli studiosi imbevuti di dottrina aristotelica. Non essendo riuscito a ottenere una cattedra a Padova, Telesio ritornò a Cosenza negli anni quaranta e fondò un' "accademia" tutta sua. L'Accademia Cosentina (che ancora oggi si riunisce regolarmente nell'elegante sala riunioni della Bi­ blioteca civica di Cosenza) divenne il centro di diffusione della filosofia radicale di Telesio. Benché la sua opera maggiore, De rerum natura iuxta propria principia, sarebbe stata pubblicata soltanto nel 156s, le sue idee cir­ colavano a Napoli sin dalla fine degli anni quaranta'. Alcuni anni prima che Fioravanti si trasferisse a Napoli, nel 1549, un gruppo di umanisti e filosofi naturali aveva costituito un'accademia scien­ tifica in quella stessa città. Essi chiamarono la loro associazione di venti­ sette uomini Accademia Segreta1• Tra i suoi membri vi era l'umanista Gi­ rolamo Ruscelli, che nel suo libro Secreti nuovi, pubblicato nel 1567, lasciò una dettagliata descrizione delle attività dell'accademia, generosamente sostenuta da un anonimo e magnanimo principe. Racconta Ruscelli che «l' intention nostra era stata primieramente di studiare & imparar noi stessi, non essendo studio nè altro essercitio alcuno, che più sia vero della Filosofia naturale, che questo di far diligentissima inquisitione, & come una vera anatomia delle cose & dell'operationi della Natura, in se stessa » . I membri dell'accademia si proponevano di fare le «vere anatomie » della natura attraverso gli esperimenti. Per favorire il suo ambizioso e innovativo programma, l 'Accademia fece costruire una dimora spaziosa con un giardino dove far crescere le erbe necessarie agli esperimenti. Nell'edificio c'era un laboratorio, la "Filo­ sofia", attrezzato con gli ultimi ritrovati alchemici: qui i «Segreti » esegui­ vano i loro esperimenti, reclutavano artigiani ad assisterli e registravano

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dettagliatamente i risultati. Effettuarono centinaia di esperimenti mirati a scoprire nuovi segreti nel campo dell'alchimia, della metallurgia e della medicina. Produssero profumi, tinte e cosmetici e sperimentarono più di un migliaio di preparati. Nel corso della breve vita dell'Accademia Segre­ ta, i suoi sostenitori spesero 7.8oo scudi per le loro attività: all' incirca tre quarti dello stipendio annuo del viceré spagnolo.

La prova del fuoco

Oggi gli esperimenti scientifici impiegano un metodo rigoroso, concepito per provare un' ipotesi in merito al modo in cui opera la natura. Tuttavia, questa interpretazione del metodo scientifico si sviluppò solo nel XVII seco­ lo. Nel Rinascimento, l'idea di usare gli esperimenti per indagare la natura era del tutto nuova e, dal punto di vista della scienza convenzionale, discu­ tibile. Le materie che costituiscono quella che oggi viene definita scienza appartenevano alla disciplina nota come filosofia naturale, che mirava a conoscere «il corso ordinario della natura » - natura così come appare ai soli sensi. Secondo l'epistemologia scolastica, che guidava la pratica della fi­ losofia naturale nelle università, il fine della scienza era spiegare i fenomeni noti, non quello di fare nuove scoperte. La scienza scolastica era, secondo la felice descrizione dello storico John Murdoch, « filosofia naturale senza natura » l. Benché Aristotele e gli scolastici sostenessero che il fondamento del sapere naturale era l'esperienza dei sensi, il genere di "esperienze" che essi avevano in mente erano osservazioni generali, come "i corpi solidi cado­ no" oppure "il sole sorge a est". Gli eventi isolati, inusuali e straordinari non svelavano come procede la natura « sempre o quasi sempre» 4• Per definizione, gli esperimenti sovvertono la natura facendole "deviare il proprio corso"; pertanto gran parte degli scolastici medievali non avreb­ bero dato molto credito a simili eventi. Secondo la logica della scienza dominante nelle università, gli esperimenti non potevano dare che infor­ mazioni distorte o fuorvianti sui meccanismi della natura. Anziché forni­ re un sapere attendibile sui processi normali della natura, gli esperimenti producevano risultati che i professori classificavano come « maravigliosi » perché non rivelavano il vero carattere della natura. Fuorilegge metafisici, gli esperimenti erano più caratteristici dell'alchimia e delle scienze occulte che non di quella che allora era considerata la filosofia naturale.

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Per i filosofi naturali che costituivano l'Accademia Segreta, tuttavia, gli esperimenti erano l'essenza stessa della scienza. La loro concreta metodo­ logia precorreva un modo del tutto nuovo di fare filosofia naturale. Il me­ todo sperimentale, elemento fondamentale della Rivoluzione scientifica che avrebbe introdotto la scienza moderna, fu adottato solo nel Seicento; ma fu nel Rinascimento, nelle accademie come quella descritta da Ruscelli, che andò in scena il primo atto della sua evoluzione. Gli esperimenti dell'Accademia Segreta erano concepiti per fare pro­ gressi nel campo della tecnologia e della medicina: scoprire nuovi metodi per temprare il ferro, inventare nuovi profumi, trovare cure per malattie vecchie e nuove. La loro appassionata ricerca dei segreti delle arti manua­ li conferma l' intuizione dello storico Edgar Zilsel: oltre mezzo secolo fa, Zilsel sosteneva da una prospettiva marxista che le radici del metodo scientifico sperimentale si trovassero in mestieri come l'arte vetraria, la tintura delle stoffe e la lavorazione dei metalli, in cui il lavoro manuale e la manipolazione delle materie naturali erano al tempo stesso essenziali e raffinati in sommo grado1• Recentemente gli storici hanno esteso queste radici all'alchimia: un'altra intuizione che viene confermata dalle attività degli studiosi dell'Accademia Segreta. Che fossero motivate dalla pressio­ ne del mercato o dalla ricerca della pietra filosofale, alchimia e arti manuali tenevano in gran conto l' innovazione, attraverso la sperimentazione e la "prova del fuoco". L' idea che le tecniche alchemiche e artigianali potessero essere im­ piegate per fare esperimenti che andavano poi convalidati dalla comuni­ tà scientifica nacque nelle accademie rinascimentali. Diversamente dalla tradizione artigianale, nella quale il sapere veniva trasmesso da individuo a individuo all'interno di un sistema di apprendistato, le accademie favo­ rivano il sapere comune. E diversamente dagli alchimisti, che erano os­ sessionati dalla segretezza e ammantavano i loro segreti con un linguag­ gio oscuro, le accademie privilegiavano il sapere pubblico e registravano il loro lavoro in scritti destinati ai posteri. Sebbene quel pubblico fosse circoscritto, come spesso accadeva, le accademie rifiutavano l'esoterismo. Erano comunità dedite a scopi e interessi comuni. Quanto all'Accademia Segreta, il suo intento era quello di usare gli esperimenti per esaudire la promessa della metafisica di Telesio: fare una « anatomia » della natura « secondo i suoi stessi principi » . Che le verità naturali potessero essere scoperte attraverso la manipolazione dei materiali era un concetto scienti­ fico radicalmente nuovo.

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Alla corte di don Pedro de Toledo

Quando Leonardo Fioravanti arrivò a Napoli, aveva con sé una lettera di presentazione del viceré siciliano Juan de Vega, grazie alla quale venne in­ trodotto alla corte di don Pedro de Toledo, dove ben presto divenne uno dei chirurghi della famiglia del viceré napoletano. Trovò alloggio in una casa vicino Castel Nuovo, nel cuore della città, non lontano dalla corte di Toledo, dove ritrovò molti degli spagnoli che aveva conosciuto in Si­ cilia. Allestì un laboratorio alchemico con fornaci e strumenti di vetro. Reclutò un alchimista per apprendere l'arte della distillazione. « In casa mia cominciarono à praticare alchimisti et distillatori di diverse nationi » ricordava Leonardo «et quivi ogni giorno si facevano cose nuove, et espe­ rimenti rari » 6• Con la repressione della rivolta nobiliare del 1 5 47, Toledo aveva colpito anche le accademie filosofiche e letterarie, considerate dal viceré vivai di sovversione politica e religiosa. I sospetti di Toledo erano fondati. Quasi tutte le accademie erano patrocinate dalla nobiltà. Orgogliosi, indipen­ denti e fieri dell'autonomia goduta in quanto sudditi del re di Napoli, i baroni mal tolleravano il governo dei viceré che li costringeva a un'assoluta sottomissione alla monarchia spagnola. Il manto di segretezza che celava gran parte delle attività delle accademie non faceva che rafforzare i timori di Toledo. Con qualche ragione, egli era convinto che gli accademici stes­ sero complottando contro di lui. La chiusura delle accademie fu solo temporanea: quasi tutte ignoraro­ no il divieto e riaprirono non appena la situazione fu tornata sotto con­ trollo. Non ufficiali e semiprivate, le accademie erano difficili da scovare. In pratica fu impossibile imporre il divieto. All'epoca in cui Fioravanti si stabilì a Napoli, le accademie erano di nuovo in piena attività. Anche se nelle sue opere Leonardo non accenna mai al tumulto del ' 47, il ricordo della rivolta era talmente fresco nella mente dei napoletani che certamente dovette esserne a conoscenza. Così come sarebbe venuto a conoscenza, forse tramite Giovanni Battista d'Azzia, marchese della Terza, della elusiva Accademia Segreta. Azzia, ex mecenate di Ruscelli, era una figura familiare nella cultura delle accademie. Era stato membro dei Sereni, un gruppo di cittadini che si riuniva nel cortile della Chiesa di Sant'Angelo a Nido, dove discutevano di poesia, filosofia e astrologia. Fioravanti conobbe una folla di accademici, tra i quali Giovanni Francesco Brancaleone, in passato medico di papa Paolo III. Brancaleone,

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anch'egli membro dei Sereni, era capo degli Eubolei, un gruppo letterario che aveva iniziato a riunirsi nel 1546 ed era stato sciolto dal viceré l'an­ no successivo. Il medico Donato Antonio Altomare, altra conoscenza di Fioravanti, ospitava nella sua casa un'accademia che discuteva di filosofia naturale e di medicina. Fioravanti era dunque immerso nella cultura delle accademie napoletane. Non sorprende, perciò, che il nostro intraprendente improvvisatore abbia ben presto costituito una propria accademia nella sua casa di Castel Nuovo. Sappiamo dell'accademia da una lettera del 1568 scritta a Venezia e indirizzata al medico napoletano Alfonso da Rienzo, nella quale Leonardo ricordava con nostalgia le attività di quel gruppo informale: « La nostra antica et dolce conversatione di Napoli, quando col signor Marchese della Terza, et il signor Cesare Mormino, fra Cambino, et il signor Mario da Penna facevamo tante esperienze di mal francese, di gotte, di ettesia, et tante distillationi, che facevamo, che in havermelo ridotto a memoria, mi parea veramente di essere nella mia accademia, con tutti voi altri » 7• Due altri nomi completavano l'anonimo gruppo di Fioravanti: fra Aurelio di Compagna e Antonello da Cifune, abili alchimisti ed esperti nell'arte di «fissare la luna in sole finissimo» 8• La somiglianza tra la piccola accade­ mia di Fioravanti e i Segreti di Ruscelli è straordinaria. La passione per l'alchimia univa i sette personaggi. L'alchimia era per loro la chiave per svelare i segreti più reconditi della natura. Facevano esperimenti con la distillazione per trovare nuovi farmaci, testavano i trat­ tamenti per le ferite e il mal francese e speculavano intorno a nuovi stru­ menti di guerra e di difesa. Eseguivano esperimenti con i metalli, tentando di trasformare metalli vili in oro e argento. Fra Cambino, diceva Fioravan­ ti, aveva inventato un metodo per tramutare l'argento in oro mentre da Cifune era in grado di fabbricare l'oro a 2.4 carati. Circa vent'anni dopo, nel 1568, da Rienzo faceva ancora gli esperimenti alchemici con i metodi sviluppati assieme ai suoi colleghi nell "'accademia" di Leonardo. Benché l'alchimia sia diventata materia di studio universitario solo nel Seicento, circolavano moltissimi libri sui segreti di quest'arte, dai più pra­ tici ai più oscuri. Fioravanti stesso dette il suo contributo a queste ope­ re. Alcune erano rigorosamente pratiche, come i sempre popolari libri di segreti, nei quali si potevano trovare ricette per ogni sorta di cose, dalla conservazione della frutta all'inchiostro dello stampatore9• Il più famoso libro di segreti fu De' secreti del R. D. Alessio Piemontese. Ma ce n'erano moltissimi altri. L'alchimia occupava un posto di primo piano nei libri

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di segreti e la biblioteca di un vero alchimista non poteva dirsi completa senza una o più copie di queste opere.

Raimondo Lullo e la pietra filosofale

Se le semplici ricette non bastavano e si desiderava esplorare i principi esoterici delle arti alchemiche, era possibile trovare libri anche su questi argomenti. Mentre era a Napoli, Fioravanti aveva certamente sentito par­ lare dei trattati alchemici attribuiti a un certo Raimondo Lullo, filosofo e mistico del XIII secolo, catalano di Maiorca. Gli scritti (tutti apocrifi) circolavano nei circoli intellettuali napoletani, dove le oscure dottrine di Lullo venivano febbrilmente dibattute'0• Essenziale per l'arte alchemica di Lullo era l'elisir, ovvero la pietra fi­ losofale, un agente trasformante che perfezionava i metalli e agiva come una medicina miracolosa". Lullo faceva dichiarazioni stravaganti in me­ rito ali'elisir alchemico. Con la pietra filosofale si potevano trasformare i metalli vili in oro, il più perfetto tra i metalli, e si potevano estrarre essenze che possedevano qualità paradisiache, capaci di preservare il cor­ po e allungare la vita. Il miti co Lullo era addirittura convinto che l' alchi­ mia potesse servire a convertire gli infedeli. «L'ambizione prometeica » dell'alchimia di perfezionare la natura in ogni suo aspetto attirava adepti da tutta Europa'l. Alcuni alchimisti misero in dubbio le grandiose affermazioni di Lui­ lo. Tra questi vi era Isabella Cortese. Che una donna praticasse l'alchimia non era un fatto straordinario in se stesso. Cucinare, distillare e cuocere al forno - tutte mansioni femminili - erano considerati processi alchemici. Cortese era tuttavia un caso eccezionale perché conosceva profondamente le opere di Lullo e di altri scrittori alchimisti. Nel suo libro I secreti de la signora Isabella Cortese (1561), rivelava di aver viaggiato in lungo e in largo alla ricerca dei segreti alchemici e di aver appreso tecniche sofisticate da al­ chimisti incontrati in Italia e nell'Europa orientale. Tuttavia, pur essendo un'appassionata alchimista, disprezzava la teoria alchemica. Così, metteva in guardia il lettore che voleva praticare l'arte dell'alchimia: «Non biso­ gna che piu seguiti l'opere di Geber, ne di Raimondo [Lullo] , ne di Arnal­ do [Villanova] , o d'altri filosofi, perche non hanno detto verità alcuna ne i libri loro [ ... ] io ho letto e riletto e non trovo se non favole, e cianci e» '3•

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Quasi senza eccezione, le opere alchemiche descrivevano l'alchimia come l'arte della trasmutazione, il che poteva comprendere quasi ogni forma di tecnologia chimica, dalla colorazione del vetro alla tintura dei metalli, per farne gioielli alla moda, alla creazione di tinte e pigmenti per i pittori. «Molte arti si conoscono esser uscite puramente di essa» scri­ veva Vannoccio Biringuccio a proposito dell'alchimia « anzi senza essa et il suo mezzo (se non per rivelatio n divina) impossibil saria stato, ch'alli huomini si fussero mai scoperti »'4• La trasmutazione poteva anche signi­ ficare la fabbricazione dell'oro alchemico, una merce avidamente ricercata da principi a corto di liquidi. Per questa ragione gli alchimisti erano par­ ticolarmente ben accolti nelle corti. Oltre a fornire servizi pratici, con la loro stessa presenza a corte gli alchimisti sostenevano (metaforicamente) le ambizioni politiche di entusiasti mecenati. La trasmutazione voleva anche dire perfezionare i farmaci attraverso la distillazione. Al tempo di Leonardo, la maggiore attrattiva dell' alchi­ mia era forse la promessa di guarire dalle malattie. La distillazione - « de­ purando il grosso dal fino e il fino dal grosso» secondo la descrizione di Hieronymus Brunschwig nel suo Liber de arte distillandi (•soo) - era po­ polarissima perché prometteva di rendere l'adepto capace di trasformare erbe normali in "quintessenze" dai miracolosi poteri di guarigione. Come afferma lo storico Bruce Moran, «erano tutti alla ricerca di una super me­ dicina, un elisir o aqua vitae capaci di depurare l'organismo dalle impurità, liberare il corpo umano dalle malattie e allungare la vita »'1• Lo spirito guida che stava dietro la piccola comunità di alchimisti ri­ nascimentali, alla quale si era unito Fioravanti, era, con ogni probabilità, il marchese della Terza. Nobile potentissimo, il marchese era un generoso mecenate e una delle menti più vivaci tra i letterati napoletani. Leonardo godette della protezione di della Terza e di altri aristocratici napoletani. Tra i suoi pazienti c'era il duca di Paliano, al quale Fioravanti aveva curato una gotta, e Cesare Mormile, un nobile di Porta Nova implicato nel tu­ multo del ' 47 e membro dell'accademia di della Terza. In breve tempo la fama di Fioravanti crebbe al punto da fargli guada­ gnare un impiego alla corte di don Pedro di Toledo. La protezione del viceré - senza contare la facoltosa clientela di gottosi aristocratici - diede a Leonardo la tranquillità economica che gli serviva per inseguire la sua pas­ sione per gli esperimenti e per la storia naturale. Liberato dal peso dell'e­ sercizio della professione medica, esplorava le campagne per osservare la flora, la fauna, l'aria e i fiumi della regione. Visitò le sorgenti termali e i

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bagni turchi di Pozzuoli, Avernia, Agnano e Baia. Annusava e assaggiava le acque, annotando le loro proprietà minerali e solforose, e conversava con la geme del posto per capire quali fossero le virtù medicinali delle terme. Distillava campioni di acqua e raccoglieva sali minerali rimasti nei reci­ pienti. Fioravanti affermò addirittura di aver inventato un « modo di far bagni artificiati simili a quelli della natura, ma di maggior virtù » '6• I sei anni passati a Napoli furono tra i più sereni della sua vita. Visitava i paesi della Campania e parlava con le persone del popolo per apprendere quelle regole di vita che consentivano loro di vivere fino a tarda età. I metodi "naturali" colpirono profondamente Fioravanti, confermando quanto aveva imparato sulla medicina empirica « de li antichi medici». Gli anziani delle campagne sapevano, come i medici dell'antichità, che le malattie nascono

In questa illustrazione stilizzata le soluzioni alchemiche vengono riscaldate nelle fornaci alla base dell'apparato, mentre l'acqua distillata medicinale viene raccolta nei recipienti in alto. La distillazione era ritenuta in grado di aumentare l'efficacia di un farmaco. Da Hieronymus Brunschwig. Liber de arte distillandi ( Strasburgo 1532.).

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da «indisposizioni» di stomaco. Leonardo si convinse che i mali che cor­ rompono lo stomaco non potevano essere convinti a lasciare il corpo con i blandi regimi prescritti dai medici. Dovevano piuttosto essere cacciati. Sco­ prire nuovi rimedi per espellere la corruzione corporea divenne la ricerca scientifica di Fioravanti, e l'alchimia fu lo strumento per trovarli.

Il mostro nello specchio

Tra il I S SO e il I SSS Leonardo conobbe un gentiluomo napoletano che gli mostrò uno specchio magico. Il congegno, avrebbe poi scritto il chirurgo, era «fatto con tale artificio, che quando una persona se gli rappresentava davanti per specchiarsi, si vedea uscir fuori di tal specchio, più d'una doz­ zina di figure, ò ombre, che mettevano spavento à coloro che dentro vi si specchiavano, cosa la più mostruosa, che mai si sia vista in tal'arte » '7• Chi poteva essere la persona che aveva mostrato questo nuovo specchio in cui apparivano immagini «mostruose» come per miracolo ? Un proba­ bile candidato era il nobile napoletano Giambattista della Porta, nel cui fa­ moso libro, Magiae naturalis, viene descritto uno specchio quasi identico a quello visto da Fioravanti'8• Della Porta sarebbe diventato il mago più famo­ so del Rinascimento, ma al tempo del soggiorno napoletano di Fioravanti stava appena cominciando le sue ricerche nell'accademia filosofica da lui istituita nella sua villa di Vico Equense, che per combinazione si chiamava I Secreti. Della Porta era stato, almeno a sentir lui, un bambino prodigio: Magiae naturalis fu pubblicato nel 1558, quando Della Porta aveva ventitré anni, ma lui sosteneva di averlo scritto alla tenera età di quindici. Al di là del misterioso proprietario dello specchio, l' incontro dimostra che Fioravanti frequentava i circoli napoletani dediti alle scienze occulte. Sebbene non fosse particolarmente impressionato dai loro trucchi magici, sapeva che la magia naturale incoraggiava la sperimentazione e adoperava le stesse tecniche artigianali da lui stesso usate. Negli anni successivi Fiora­ vanti avrebbe scritto un trattato enciclopedico sui mestieri e le professioni. La magia naturale forniva un radicale e convincente fondamento ra­ zionale alla sperimentazione come mezzo di indagine della natura. Per creare le sue meraviglie questa magia non ricorreva a interventi demonia­ ci o sovrannaturali ma alle forze naturali, e impiegava l'arte per migliora­ re la natura. La magia naturale dimostrò a Leonardo che le forze occulte

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della natura erano accessibili e potevano essere sfruttate a vantaggio del bene comune. Napoli fu il crogiolo nel quale Fioravanti tramutò il suo naturalismo primitivo in filosofia naturale. I contatti con alchimisti e distillatori, l' in­ contro con la magia naturale e il progressivo familiarizzarsi con la tradi­ zione meridionale della filosofia naturale contribuirono a formare la sua nuova concezione del rapporto tra teoria ed esperienza, elemento cruciale della sua filosofia della scienza. Per Fioravanti teoria ed esperienza erano intimamente legate, ma tra le due l'esperienza aveva un peso maggiore. La teoria era come una lampada che guida l'esperienza - altrimenti caotica e casuale - e tuttavia la teoria non poteva essere fondata sulla speculazione di cose non viste. « Credo più ad una minima esperienza, che a tutte le theoriche del mondo insieme » '9• Il marinaio che osserva le mappe ma ha poca esperienza col timone, di­ ceva Fioravanti, è un ben mediocre navigante. E tuttavia raro è il navigante che riesce a tenere la rotta in alto mare senza una mappa. Fino a Napoli, Fioravanti aveva navigato senza mappa. L'alchimia gli indicò un nuovo modo di procedere, guidandolo, come il lume di una lanterna, al porto che celava i nascosti segreti della natura. La vera filosofia, aveva scoperto Fio­ ravanti, si faceva non negli agi dello studio ma col duro lavoro, sudando dinanzi al bagliore della fornace alchemica. Tutte queste nuove certezze - compresa quella di aver scoperto « un modo nuovo di medicare », superiore a ogni altro - sarebbero state prova­ te non solo col fuoco, ma col sangue.

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L'università della guerra

In uno degli scritti attribuiti a lppocrate nel v secolo a.C., all'aspirante chi­ rurgo che voglia apprendere l'arte della chirurgia viene consigliato di segui­ re un esercito'. ln tempo di pace, dice lppocrate, neanche in una vita intera capita di curare ferite terribili come quelle inferte sul campo di battaglia. Il freddo linguaggio analitico del corpus ippocratico non riesce a celare il paradosso secondo cui la guerra, il cui fine è quello di mutilare e uccidere, co­ stituisce una eccellente palestra per il chirurgo, la cui arte è quella di curare. Ma dietro al consiglio di Ippocrate c'è la consapevolezza che per apprendere qualsiasi arte, che sia la falegnameria, il tennis o suonare il violoncello, non c'è che l'esercizio se si vuole raggiungere la perfezione. Il problema è che, nella formazione di un chirurgo, il novizio deve far pratica sulle persone. Il peso morale di far pratica sulle persone sembrava non sortire alcun effetto su Leonardo Fioravanti. Con la sua tipica spavalderia, raccontava che facendo il chirurgo nella campagna d 'Africa, aveva fatto «notomia di huomini morti, & di vivi », intendendo dire che le brutali ferite di guerra gli avevano dato la possibilità di scrutare all' interno dei corpi vivi (e anche di rovistare un po' prima di ricucirli ) •. La guerra, più che mai letale nel Cinquecento per il maggiore impiego delle armi da fuoco, fece sì che la vivisezione diventasse una pratica comune. Doveva essere uno spettacolo davvero impressionante per il chirurgo. Sulla base di quello che possiamo desumere dalla testimonianza personale di Fioravanti, la guerra fu per lui una scuola di chirurgia che gli consentì non solo di affinare le sue abilità di chirurgo ma anche di accrescere la sua tendenza all'auto-esaltazione. Anche se le guerre nella regione si erano concluse, la pace nel Medi­ terraneo portò inevitabilmente a un ritorno delle navi corsare, non meno temibile di una guerra dichiarata. Il Mediterraneo era infestato di pirati, cristiani e musulmani. I corsari turchi predavano le navi in alto mare e razzi avano le città costiere della Calabria e della Sicilial. Fioravanti scriveva

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in una lettera a Cosimo de' Medici: «li gran cane del turco è potentissi­ mo, et cerca con ogni industria ruinare la nostra povera cristianita et sotto meterla à se » 4 e offriva al granduca una serie di invenzioni per aiutarlo a difendere il suo regno dalla minaccia turca. I pirati andavano alla ricerca di un bottino, e di schiavi. Gli assalti alle navi mercantili e ai villaggi costieri costituivano un costante rifornimen­ to di grano, olio, schiavi e altre mercanzie, e trasformavano le pigre città portuali di Tunisi e Algeri in affollate metropoli mercantili. Le massicce spedizioni a bordo delle galee procuravano migliaia di prigionieri. Quelli che non erano subito condannati alle galee, erano spediti ad Algeri o in altre città e ammassati nei temuti bagni dei mercati di schiavi l. Forse più temute ancora delle grandi flotte di pirati - perché la minac­ cia era più vicina - erano le frequenti razzie dei piccoli pirati che pattuglia­ vano le coste siciliane e napoletane nella speranza di cogliere di sorpresa un villaggio e catturare un pescatore, rapinare un granaio o rapire un paio di mietitrici. I corsari turchi scorrazzarono per il Mediterraneo fino alla fine del Settecento e la loro memoria era ancora viva agli inizi del Nove­ cento, quando i vecchi raccontavano di come i turchi arrivassero in Sicilia ogni giorno e le lacrime scendessero a fiumi nelle casé.

Dragut il terribile

Negli anni cinquanta del XVI secolo il corsaro turco Turghut, o Dragut, il più temuto dei pirati berberi, era il terrore di ogni pescatore siciliano e di ogni capitano che navigasse nel Mediterraneo'. Cristiano ortodosso per nascita, era cresciuto nella costa di Karaman in Turchia, di fronte all'isola di Rodi, dove i corsari erano considerati degli eroi. La sua era la classica storia corsara del ragazzo povero che diventa ricco e potente. Adottato da genitori musulmani, Dragut servì nella flotta turca dove affinò la sua abi­ lità di marinaio. Successivamente acquistò un galeone con il quale comin­ ciò ad assaltare le navi mercantili nel Levante. Le sue imprese attirarono l'attenzione di Khai al-Din (Barbarossa), allora governatore generale di Algeri e ammiraglio della flotta turca, il quale, dopo aver fornito a Dragut un equipaggio di 2.0 galee, lo spedì a briglia sciolta per il Mediterraneo. Lo sprezzo con il quale Dragut compiva i suoi attacchi - solitamente in pieno giorno e apparentemente senza alcun timore di rappresaglie - seminò il

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terrore nelle cittadine costiere del regno di Napoli. Dragut setacciava le coste del Sud d' Italia quasi fossero un suo personale territorio di caccia. Nel marzo del I SS O, giunse voce a Napoli che Dragut aveva conquista­ to la città nordafricana di Mahdia, nota in Europa come Aphrodisium, o semplicemente Africa. A circa I2.0 miglia a sud di Tunisi sulla costa berbe­ ra, Mahdia era situata su un istmo di circa un miglio. Il lato verso terra era sbarrato da una cinta difensiva larga più di otto metri, che rendeva la città praticamente inespugnabile. Dragut riuscì a conquistarla non con l'asse­ dio, ma con la corruzione. Poiché Barbarossa si era già insediato a Tunisi, la prospettiva che Dragut stabilisse la sua base al centro del Mediterraneo provocava una forte inquietudine negli europei. Temendo che la Tunisia si organizzasse ufficialmente in uno stato ottomano, l'imperatore Carlo v inviò un'armata cristiana alla conquista di Mahdia allo scopo di cacciare Dragut dal Mediterraneo occidentale8• L'imperatore nominò a capo della flotta il vecchio ammiraglio geno­ vese Andrea Doria, già al comando delle galee papali. L'ammiraglio fu coadiuvato da don Garcia de Toledo, figlio del viceré siciliano, che era a capo della flotta spagnola, e da don Juan de Vega, figlio del viceré napole­ tano, che comandava le forze armate napoletane. Fioravanti fu incaricato di accompagnare la spedizione in qualità di medico personale di don Gar­ cia de Toledo. Desiderosi di distinguersi in battaglia, moltissimi nobili si unirono alla flotta; tra questi il principe romano Giordano Orsini, che comandava la flotta fiorentina, e don Luis Perez de Vargas, comandante del presidio spagnolo a La Goletta. Le navi provenienti da Napoli, dalla Sicilia, da Malta e da Roma costi­ tuivano una flotta imperiale di oltre 40 galee, che salparono da Napoli l' 1 1 maggio I SS O. Anche se gran parte delle caratteristiche del codice cavallere­ sco rinascimentale erano puramente immaginarie, l'enfasi posta sull'eroi­ smo e sulle gesta audaci era reale. Come nell' Orlandofurioso di Ludovico Ariosto, il cavaliere rinascimentale doveva mostrarsi intrepido in battaglia e fedele al proprio signore. Vivendo e lavorando tra soldati e cortigiani spagnoli, Fioravanti era immerso nello spirito bellicoso che permeava la cultura di corte. I viceré spagnoli coltivavano appassionatamente l'immagine dell' Orlando arioste­ sco e il suo mondo di fiaba. Fioravanti osservava quel mondo con scetti­ cismo, cogliendo i tratti caratteristici del cavaliere. Vedeva don Chisciot­ te ovunque e le sue osservazioni sui cortigiani servili dimostrano che era tutt'altro che sprovveduto circa le dinamiche della vita di corte. Non che

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le sue motivazioni fossero molto diverse da quei cortigiani. Se i cavalieri riuscivano a far colpo su un principe e a vincerne i favori con le imprese militari, allora anche lui sarebbe diventato un famoso chirurgo-guerriero. Il suo armamentario sarebbero stati i farmaci da lui stesso inventari: il suo scudo di battaglia, il suo nuovo modo di medicare le ferite. La "nuova medicina" di Fioravanti doveva esibire la stessa audacia e intrepidezza di fronte al nemico - in questo caso la malattia e la corru­ zione del corpo - dell'Orlando ariostesco. Per Fioravanti ogni malanno era un'invasione di cattivi umori, e ogni cura un assalto belligerante alla corruzione che sedimentava e imputridiva all'interno del corpo. Le ma­ lattie erano nemici che andavano attaccati a testa bassa e cacciaci con for­ za, usando gli equivalenti medici dell'archibugio e del cannone: emetici e purganti come la dia aromatica, l'elettuario angelico, e il suo fido alleato,

Ispirata a un ritratto di Tiziano, questa acquaforte che ritrae un cavaliere in armatura, il roma­ no Giordano Orsini, pronto a scendere in battaglia o a difendere il proprio onore oltraggiato, richiama la vivida descrizione del capitano fatta da Fioravanti nel Tesoro della vita humana.

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il precipitato. Una volta adoperò il precipitato per liberare lo stomaco di una donna da un grosso bolo di "corruzione", quindi portò come un tro­ feo quella massa informe alla facoltà di medicina di Salerno: era la prova dell'efficacia del suo nuovo modo di medicare. Come un cavaliere uscito vittorioso dalla battaglia, esibiva fiero il nemico sconfitto9•

Il principe Orsini ha la peggio

La guerra è piena di insidie nascoste, come scoprì il capitano Giordano Orsini durante l'assedio della città di Africa. Il principe Orsini era Or­ lando redivivo, un guerriero spaccone e testa calda. Il ritratto di Tiziano mostra un uomo dallo sguardo intenso e la mascella volitiva, la mano che stringe il bastone come se avesse appena ricevuto un'offesa. Fioravanti racconta diversi aneddoti sull'irascibilità di Orsini. Una vol­ ta che un ufficiale suo amico aveva insultato un ospite a cena, Orsini lo tramortì a furia di pugni. Chiamato a soccorrere il malcapitato, Leonardo scoprì che Orsini aveva colpito il pover 'uomo con tale violenza da farlo sanguinare dal petto e «trovai il povero Capitano mezzo morto» 10• Fiora­ vanti curò l'ufficiale con il suo balsamo, la quintessenza. Un pomeriggio, non molto tempo dopo che l'esercito si era accampato sulla costa tunisina, Orsini e alcuni suoi compagni scortavano un carro che si stava dirigendo verso un uliveto per raccogliere legna. Desiderando esplorare le campagne, il principe e il suo seguito si allontanarono dalla ca­ rovana. Nel vedere alcuni falchi volare verso un boschetto, Orsini, armato d 'archibugio, spronò il cavallo al loro inseguimento. Improvvisamente, dalla foresta apparve in sella a un sauro un africano in giubba e turbante blu, che impugnava una lancia dalla lunga lama". Il principe Orsini fece dietrofront, dirigendosi verso la carovana, ma il moro scagliò la lancia e trafisse il braccio del principe che cadde da cavallo lan­ ciando un grido. l compagni corsero a soccorrerlo. Battendo in ritirata ver­ so i boschi, il moro volse il cavallo con violenza, sollevando una seconda lancia gridando « Alla prossima volta, cani cristiani! » , quindi scomparve nel folto della foresta. Orsini, sanguinando profusamente dal braccio, fu riportato dolorante al campo. Fioravanti corse al suo capezzale, rimosse con cautela la lancia

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c: medicò la ferita con quintessenza e balsamo artificiale, e dopo cinque giorni la ferita era rimarginata. Questi erano gli atti di eroismo e di prontezza di riflessi che Fioravanti sperava gli avrebbero conquistato il favore di una coree principesca. Do­ vette essere una cocente delusione quando nel 1 5 5 3 , ormai a un passo dalla fama, il suo mecenate, don Pedro, morì nella battaglia di Siena.

Una scoperta fortuita

La più importante scoperta fatta da Fioravanti durante la guerra era stata «il vero modo di medicare le ferite » . Per lui era la dimostrazione della dottrina della natura organica appresa a Napoli. La prova più drammatica ebbe luogo durante una tregua della campagna d'Africa. In un'afosa gior­ nata di luglio, i soldati dell'esercito imperiale erano accampati vicino Mah­ dia, e attendevano nervosamente l'ordine di sferrare l'assalto finale alla città. Fioravanti e un ufficiale spagnolo stavano passeggiando per il campo quando si imbatterono in due soldati impegnati in una lite animata. Gli uomini sfoderarono le spade e si misero in guardia. Il compagno di Leonardo tentò di fermare l'alterco ma ricevette un col­ po di spada che gli tranciò di netto il naso, che cadde per terra. Mentre lo stupefatto ufficiale restava a bocca aperta sanguinando copiosamente dal volto, Leonardo raccolse tranquillamente il naso da terra. «Et io che lo ha­ vea in mano tutto pieno di arena, li pisciai suso, et lavato col piscio gli lo attaccai, et lo cuscì benissimo, et lo medicai col balsamo, et lo infasciai» '1• Benché nutrisse dei dubbi sulla riuscita dell'intervento chirurgico sul campo di battaglia, Fioravanti ricordava: «quando Io sligai, trovai che era ritaccato benissimo». Il macabro episodio pareva dimostrare, continuava Leonardo, la regola secondo cui la natura, viva e vibrante, vuole sempre riunire le sue parti divise. La conclusione era semplice : le ferite vogliono guarire, e l'organismo nutre le parti divise che sono state riattaccate per impedirne la putrefazione. Quanto al "nuovo modo" di Fioravanti di medicare le ferite, egli fa­ sciava la lesione con uno dei suoi balsami e la bagnava ogni giorno con quintessenza o balsamo artificiale - acque distillate da misture di erbe con­ tenenti elevate concentrazioni di alcol'l. Fioravanti faceva stravaganti af­ fermazioni circa i poteri curativi dei suoi balsami. Trattare le ferite d'arma

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da fuoco pulendole con una tintura alcolica e lasciare che la natura facesse il suo corso aveva almeno il merito di ridurre l'infezione. Tuttavia il suo "secreto" non era esattamente una novità. Fin dal Medioevo i chirurghi militari seguivano un principio simile per curare le ferite infette.

I balsami miracolosi

Nella storia della medicina esistono molte leggende. La più tenace è quella secondo cui il chirurgo francese Arnbroise Paré avrebbe "liberato" la chirur­ gia dalla pericolosa pratica di cauterizzare le ferite d'arma da fuoco con il ferro rovente. Paré stesso fu all'origine della leggenda, avendo pubblicato un resoconto nel suo libro La Method de traicter les playesfaites par les arque­ buses et aultres bastons aJeu (1545). Racconta Paré che durante la campagna militare in Italia del 1537 si era visto costretto a introdurre una novità. Ini­ zialmente, come gli era stato insegnato, adoperava l'olio bollente per caute­ rizzare quelle che erano ritenute ferite da polvere da sparo velenosa: Ma il mio olio finì e dovetti applicare un balsamo composto da albume, olio di rosa e trementina. Il giorno dopo dormii male, straziato al pensiero di trovare gli uomini ormai cadaveri, poiché non avevo bruciato le ferite; così mi svegliai di buon'ora e andai a visitarli. Con mia grande sorpresa, quelli trattati con il balsamo non sentivano molto dolore, non avevano infiammazione né gonfiore, e aveva­ no trascorso una notte abbastanza tranquilla; invece quelli a cui avevo applicato l'olio bollente avevano la febbre alta, dolori, gonfiori e infiammazione intorno alla ferita. A questo punto risolsi di non bruciare mai più a quel modo crudele la povera gente afflitta da ferite d'arma da fuoco'4•

La versione che dell'avvenimento fornì Paré era talmente brillante da cata­ pultarlo alla corte di Enrico 11. Ma quanto era diffusa la pratica di cauteriz­ zare le ferite d'arma da fuoco nel Cinquecento ? In altre parole, la "dottrina di Paré" era davvero di Paré ? Il suo biografo moderno, Joseph François Malgaigne, ha individuato numerosi chirurghi italiani e tedeschi contemporanei di Paré che impie­ gavano metodi analoghi al suo - a dimostrazione « dell'ampia diffusione delle idee di Paré » . Tuttavia nessuno di questi chirurghi citò mai Paré in relazione al metodo, né gli dette credito per la sua scoperta - negligenza per la quale sono stati aspramente rimproverati da Malgaigne. A quanto pare non era mai venuto in mente a Malgaigne che anziché essere la prova

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della diffusione delle idee di Paré, l'ampio uso della tecnica associata al nome del chirurgo francese non era altro che il perpetuarsi di un metodo tradizionale medievale. Fioravanti non cauterizzava le ferite d'arma da fuoco, anche se, come altri chirurghi, riteneva che fossero velenose; ma quasi certamente non lesse mai il libro di Paré, né venne a conoscenza della "scoperta" di Paré da qualche altro chirurgo. Il suo trattamento delle ferite era essenzialmente il metodo canonico medievale, descritto in dettaglio da chirurghi del Tre­ cento e del Quattrocento come Henri de Mondeville, Guy de Chuliac e Heinrich von Pfolspeundt. La procedura confutata da Paré nel resoconto della sua "scoperta" era in realtà un' innovazione introdotta dal chirurgo italiano Giovanni de Vigo, il quale nel suo manuale di chirurgia Practica in profissione chirurgica ( 1514) aveva riportato in auge una tecnica araba. Il manuale di de Vigo era un testo ampiamente utilizzato nelle uni­ versità e negli ospedali e Paré lo sapeva bene: formatosi all' Hotel Dieu, dove i professori universitari tenevano regolarmente le loro conferenze, egli aveva con sé una copia della Practica durante la campagna militare. Ma poiché la maggior parte dei chirurghi non aveva una formazione ufficiale - imparava cioè il mestiere attraverso l'apprendistato con un mastro chi­ rurgo - il metodo medievale tradizionale era stato tramandato oralmente di generazione in generazione. La maggioranza dei chirurghi non sapeva nulla dell' innovazione di de Vigo. La pratica di Fioravanti - pulire la ferita, suturarla e applicare un balsa­ mo medicamentoso - era essenzialmente il metodo medievale canonico. Perché allora asseriva di aver scoperto un "modo nuovo" di medicare le feri­ te ? La sua innovazione fu inventare nuovi balsami medicamentosi: Magno elisir, Oleo benedetto e Balsamo artificiale. Il suo impiego dell'unguento per guarire le ferite era legato non solo alla pratica chirurgica medievale ma anche alla tradizione folclorica le cui origini sono, in parte, bibliche. Il balsamo di Gilead, citato nel Libro di Geremia, era il più famoso di tutti gli unguenti, tanto da diventare sinonimo di guarigione. Acque magiche e bal­ sami che guarivano le piaghe erano motivi ricorrenti nel folclore medievale e l'antico sogno di un balsamo magico che sanasse istantaneamente le ferite senza lasciare segni era ancora molto diffuso nel Rinascimento. Cervantes ne fece una parodia con il balsamo di Fierobraccio usato da don Chisciotte, due sorsi del quale avrebbero sanato un cavaliere diviso in due da una spada. L'antica idea di un balsamo dalle magiche proprietà risanatrici'1 - lega­ to alla convinzione che le ferite causate da un nuovo genere di armi richie-

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dessero un nuovo genere di balsamo - diede il via a una ricerca alchemica alla quale Fioravanti si unì con piacere. In fin dei conti, Leonardo aveva trovato davvero un modo nuovo di medicare le ferite, fatto di quattro ele­ menti: la prassi chirurgica medievale, la scienza dell'alchimia, il folclore dei balsami risanatori e l'abilità appresa sul campo di battaglia.

L'assedio con la sambuca

La città di Africa resistette per quattro mesi prima di cadere nelle mani dei cristiani. Non riuscendo ad aprire una breccia nelle mura cittadine, i ge­ nerali si rivolsero a un ingegnere militare, Antonio Ferramolino di Berga­ mo'6. Questi conosceva bene le opere degli antichi ingegneri e ideò quindi una macchina da assedio montata su galee, simile a quella costruita per il comandante Marco Claudio Marcello nell'assedio di Siracusa del 2.11 a.C. Il dispositivo, chiamato sambuca o "arpa� era concepito per attaccare la città dal mare. La sambuca era una gigantesca scala trasportata da due navi legate as­ sieme con le funi. Un rivestimento protettivo faceva da scudo ai soldati che salivano sul congegno. Quando le due navi arrivavano in prossimità delle mura fortificate, i marinai issavano la sambuca all'altezza necessaria per mezzo di corde fissate a uno degli alberi. Quando la sambuca era in posizione, i soldati salivano sulla scala e si arrampicavano sulle mura. Questa la teoria. I siracusani, tuttavia, avevano preparato le loro astute contromisure. Archimede, il leggendario ingegnere, aveva schierato una batteria di catapulte per impedire alle navi di raggiungere le mura'7• I di­ fensori bombardarono pesantemente le galee e distrussero la sambuca. Diversamente dal congegno di Marcello, quello ideato da Ferramolino funzionò anche nella pratica. L'assedio di Africa andò a buon fine e la città si arrese il 10 settembre xsso. Fioravanti, che curava i feriti a bordo di una rudimentale nave ospedale, narra che il numero di morti e feriti da entrambe le parti fu «stupefacen­ te» '8. Tra le vittime, lo stesso Antonio Ferramolino, ucciso da una pallot­ tola che gli aveva squarciato il petto. Come tante altre volte in passato, l'audace Dragut riuscì a sfuggire alla cattura. In realtà, i cristiani non lo presero mai. Continuò a saccheggiare le coste del Mediterraneo fino al 1s6s, quando rimase ucciso nella battaglia

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di Malta, vittima di un infortunio di guerra: mentre prestava aiuto a un ingegnere, gli cadde in testa una trave e morì poche ore più tardi. La caduta di Mrica fu celebrata in tutto il Sacro romano impero come una vittoria gloriosa della Cristianità e una pesante sconfitta dei turchi'9• Gli studiosi scrissero dotte cronache sulla guerra e pubblicarono eleganti éloges in latino agli eroi cristiani che vi avevano perso la vita. In realtà fu una vittoria minore. Le forze imperiali riuscirono a mantenere il remoto pro­ montorio ancora per pochi anni; nel 1554 la fortezza venne abbandonatalo.

Medico e cavaliere

Alla fine della guerra Fioravanti fece ritorno a Napoli, dove visse per altri cinque annill. Questi furono, a detta di tutti, tra i più felici della sua vita. Nel Tesoro della vita humana, per esempio, traspare la nostalgia di Leonar­ do per le meraviglie di Napoli: i castelli e i monumenti, la terra fertile delle campagne, i miracolosi poteri curativi delle erbe. Leonardo sperimentò le proprietà medicinali delle fonti e delle terme di Napoli e, come un qualsia­ si turista, visitò i suoi monasteri e le sue chiese. Continuò a esercitare, rac­ colse intorno a sé discepoli e raggiunse la fama per essere riuscito a curare casi di mal francese in fase avanzata. Nonostante queste soddisfazioni, Leonardo decise di lasciare Napoli. Egli non lascia trapelare le ragioni di questa decisione, ma sono abbastan­ za semplici da indovinare. Nelle vicissitudini della guerra aveva stretto un forte legame con il principe Orsini, che lo convinse che il suo futuro era a Roma. Quasi di malavoglia, Fioravanti partì da Napoli nel febbraio del 1555 e si trasferì nella Città Eterna, lasciando i suoi pazienti alle cure di un allievo, Giuseppe Moletti". Nel campo di battaglia Leonardo aveva raggiunto una grande maestria in una varietà di pratiche chirurgiche: sapeva riattaccare un naso mozzato dalla spada, sapeva come ideare macchine da assedio, sapeva medicare le ferite in un "modo nuovo". Aveva assistito a orrendi massacri e aveva impa­ rato a restare calmo in mezzo al caos. Non meno importante, aveva appreso uno stile: quello del cavaliere. Molti anni dopo, quando si laureò finalmente all'università di Bologna, acquisì quel rango - e da allora in poi lo avrebbe sempre esibito con orgo­ glio accanto al titolo di dottore. Ma ben prima di ottenere la laurea, sapeva di essere «Leonardo Fioravanti, medico e cavaliere ».

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La casa del cardinale

Napoli era uno dei centri dell' impero spagnolo, il primo impero della sto­ ria sul quale non tramontava mai il sole. Pur essendo presenti alla corte del viceré, gli italiani non ricoprivano incarichi di prestigio, generalmente riservati agli spagnoli. Roma, d'altro canto, era la sede della cristianità, un centro diplomatico all'altezza di Madrid e Parigi, nonché luogo di residen­ za di molte nobili famiglie italiane'. Roma aveva inoltre un ruolo di fon­ damentale importanza per l' impero spagnolo, ed era sempre più attirata nell'orbita di Madrid. Ufficialmente una monarchia autonoma, Roma era considerata dai re spagnoli parte dei propri possedimenti. La monarchia spagnola aveva un ruolo diretto nella vita politica romana ed era la sua più generosa mecenate nel campo delle arti e delle lettere. Per un ambizioso come Leonardo Fioravanti, la Città Eterna era il luo­ go ideale. Gli anni passati nel regno di Napoli gli avevano procurato con­ tatti con aristocratici spagnoli e romani, in particolare con il valoroso ma irascibile Giordano Orsini al quale Fioravanti aveva curato le ferite ripor­ tate in battaglia col suo balsamo artificiale. Gli Orsini erano una nobile e importante famiglia e l'amicizia con il giovane cavaliere aprì a Fioravanti le porte della corte del cardinale Giovanni Angelo Medici (futuro Pio Iv)•. Leonardo probabilmente pensò di aver imboccato la strada giusta per ar­ rivare in alto. Giovanni Angelo Medici non aveva alcuna relazione con l'omonima, e più famosa, famiglia fiorentina, eppure per alcuni versi le storie delle due famiglie sono simili. Il cardinale e suo fratello Giangiacomo rappre­ sentano due diverse facce dell'ambizione rinascimentale. Erano figli di Bernardino Medici, un esattore delle imposte di Milano. Ufficialmente una famiglia nobile, nel Cinquecento i Medici di Milano erano caduti in disgrazia. Bernardino, con 1 3 figli da sfamare, fu per qualche tempo imprigionato per debiti.

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Per molti versi il suo primogenito Giangiacomo incarnava la sfrena­ ta ambizione e la sete di gloria che vengono comunemente associate al Rinascimento italiano. Soprannominato "il Medeghino" (il piccolo Me­ dici), Giangiacomo mise ben presto in luce la propria indole criminale commettendo il suo primo delitto su commissione a sedici anni. Bandi­ to da Milano, trovò rifugio in un castello sul lago di Como, organizzò un esercito di briganti e iniziò ad arricchirsi seminando il terrore con atti di pirateria. Con un'armata di sette navi e un esercito di quattromila mercenari, Giangiacomo spadroneggiava sul lago di Como quasi fosse il suo principato (cosa che in effetti poi divenne). Aveva giurato fedeltà al duca di Milano ma quando subodorò il declino della famiglia, la revocò per darla all' imperatore del Sacro romano impero che lo insignì del ti­ tolo di marchese di Marignano. A trent'anni, Giangiacomo Medici dal niente era diventato un principe, confermando così che una condotta violenta era la strada che portava dritta alla fama e ai vertici della società rinascimentale. Il Medeghino era un capitano di ventura all'antica, ma nel tardo Rina­ scimento questa figura era in netto declino. Man mano che gli Stati anda­ vano consolidando il proprio potere, i governi preferivano affidare le que­ stioni militari ad eserciti disciplinati, più leali e malleabili dei capitani di ventura. « l capitani mercenari o sono uomini eccellenti, o no» osservava Machiavelli, «se sono, non te ne puoi fidare, perchè sempre aspireranno alla grandezza propria, o con l'opprimere te che li sei padrone, o con l'op­ primere altri fuori dalla tua intenzione » 3• Il fratello minore di Giangiacomo, Giovanni Angelo, aveva scelto un percorso di vita opposto, e per certi versi la sua ambizione era più rap­ presentativa del tardo Rinascimento. Dopo la laurea in diritto canonico all'università di Bologna, si trasferì a Roma per cercare fortuna. Arri­ vato nella Città Santa nel dicembre del 1 5 27, pochi mesi dopo il Sacco di Roma, iniziò la carriera di notaio sotto il papato di Clemente VIII e rimase alla corte papale di Paolo III. Brillante amministratore, Gio­ vanni Angelo ricevette un'eccellente istruzione, divenne un eminente studioso e fece una rapida carriera. Nel 1 5 4 5 fu nominato arcivescovo di Ragusa (Dubrovnik) anche se non aveva mai messo piede in Dalmazia, né in Calabria, dove venne trasferito come arcivescovo di Cassano nel I SS 3 · Fu fatto cardinale nel 1 5 4 9 ed eletto papa, un decennio più tardi, con il nome di Pio IV.

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La malattia dei nobili

Negli anni del soggiorno romano di Fioravanti, i cardinali che risiedevano nella Città Santa erano una trentina, e Medici era uno dei più influenti. La sua corte a Palazzo Fieschi era un centro di cultura umanistica e potere politico. Il cardinale aveva stretto una solida alleanza con i filospagnoli Orsini, e una Orsini aveva sposato suo fratello Giangiacomo. Le forti sim­ patie spagnole del cardinale furono decisive per conquistare l'appoggio di Filippo n quando, nel 1559, fu eletto papa. Fioravanti potrebbe essere stato introdotto nella casa del cardinale grazie all'interessamento di Orsini o di un nobile spagnolo; in ogni caso arrivò e seppe sfruttare al meglio il nuovo status per fare carriera a Roma. Leonardo iniziò da subito a esercitare nei circoli dei romani e degli stra­ nieri che contavano4• Uno dei suoi primi pazienti romani era stato un servo dell'ambasciatore veneziano, e nel giro di poche settimane Fioravanti curava i pazienti nel palazzo del cardinale Medici. Questi, il tipico prelato rinasci­ mentale, sosteneva con munificenza le arti e le lettere e la sua corte attirava umanisti e artisti da tutta Italia. Fioravanti ricordava di aver curato un gio­ vane scultore milanese «il quale era entrato in una specie di etesia, et havea gran sputo di sangue e febre continua ». Un'altra volta, il pittore Alessandro Oliverio, discepolo di Giovanni Bellini, venne trafitto a un braccio da una stoccata che gli squarciò anche il costato1• Fioravanti lo curò con il balsamo artificiale «e in termine di quattro giorni, fu sano e gagliardo, come prima ». È possibile che anche il cardinale sia stato un paziente di Leonardo. Medici, allora cinquantenne, soffriva di gotta, una malattia ritenuta per­ lopiù incurabile. La gotta colpisce le articolazioni delle estremità, tipica­ mente l'allucé. Durante gli attacchi (che si scatenano all'improvviso, so­ prattutto di notte) le articolazioni si gonfiano provocando dolori atroci. La malattia è dovuta a eccessive concentrazioni di acido urico nel sangue, che determinano accumuli di sali urici nelle articolazioni. Naturalmente i medici rinascimentali non sapevano niente di tutto questo. Essi ritenevano che la podagra, questo il nome medico ufficiale, fosse causata dagli umori superflui che si depositavano nelle articolazioni. I guaritori dell'epoca erano consapevoli che regimi alimentari ricchi di car­ ni e di grassi contribuissero a provocare il disturbo, che è poi il motivo per il quale la gotta è storicamente una malattia che affligge perlopiù le classi agiate. L'appellativo di "malattia dei nobili" nasce quindi dalla convinzio­ ne che i ricchi e potenti si ammalassero per il loro stile di vita dissoluto.

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Si diceva che il cardinale Medici fosse patito dei cibi pesanti e dei pasticcini della sua Milano, gusti che avevano forse accelerato il corso della malattia7• Fioravanti sosteneva di aver curato con successo la gotta per mezzo di medici­ ne che alleviavano i dolori articolari legati alla malattia. E forse qualche effetto l'avevano: uno dei suoi rimedi per la gotta era ancora molto diffuso alla fine del Seicento8• Si diceva anche che il cardinale Medici soffrisse di complica­ zioni «delle cose venere », cioè di qualche sorta di malattia venerea: prima di prendere gli ordini, Giovanni Angelo aveva avuto numerosi figli illegittimi. Non è improbabile che Fioravanti, medico famoso per la sua cura del mal fran­ cese, abbia trattato la malattia venerea del cardinale con nno dei suoi rimedi9• Sponsorizzato da Orsini e prediletto dal cardinale Medici, Fioravanti divenne famoso nella cerchia della nobiltà romana e dei dignitari stranieri grazie alle sue cure poco ortodosse. Nell'agosto del i SSS fu convocato al pa­ lazzo dell'ambasciatore del Portogallo per curare un'ulcera "grande come una mano" comparsa sul braccio di un gentiluomo del seguito dell'amba­ sciatore'0. Non appena si sparse la voce dell'insperata guarigione, furono in molti a ricercare i servizi del medico. Lo stesso ambasciatore portoghese (il quale, come il cardinale Medici, soffriva di una grave forma di gotta) pensò che Fioravanti fosse stato invia­ to da Dio. I due strinsero un'improbabile amicizia, poiché l'ambasciatore si era rivelato un avido collezionista di segreti e oggetti rari: Et questo imbasciatore si dilettava o!tra modo di cose secrete et virtuose, et tanto mi stettero intorno, et con tanti prieghi, che volse che io li mostrasse il secreto delle gotte, e non solamente si contentò delle ricette, ma ancor ne volse lui medicar cinque, per vedere la vera esperienza. et tutti cinque si sanorono con gran prestezza. per il che lo imbasciatore, che avea forse da ventiquattro secreti, alti et grandi in piu professio­ ni, me gli mostrò, et me ne dette la copia; secreti, in vero di gran considerazione".

I segreti della casa di Guisa

Tra i pazienti di Fioravanti c'era Giovanni Francesco Carafa, duca di Pa­ liano e nipote di papa Paolo IV. Tramite l' influenza di Carafa, il chirurgo si trovò a ricoprire un ruolo marginale in quella che successivamente sa­ rebbe stata chiamata la guerra dei Carafa, un conflitto che lo storico Fer­ nand Braudel definisce « una svolta della storia del mondo occidentale »". Questa guerra, che deve il nome a papa Paolo IV, determinò l'alleanza del

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papato e della Spagna, assicurando così l'egemonia spagnola in Italia fino agli anni ottanta del Cinquecento. Gian Pietro Carafa, che nel ISSS dive!U1e papa Paolo IV, era nativo di Napoli. Secondo quanto scrive lo storico Michael Levin, fu «animato per tutta la vita dal desiderio di liberare la sua patria, e tutta l'Italia, dal giogo spagnolo» 'l. Papa Paolo firmò un patto segreto con Enrico II di Francia promettendogli la città di Napoli in cambio di appoggio militare contro gli Asburgo. Il papa dichiarò guerra alla Spagna, scomunicò Filippo II e invitò le truppe francesi in Italia. Francesco di Guisa, duca di Lorena, era al comando dell'esercito fran­ cese che giunse a Roma nel dicembre del 1556. La guerra andò male per il papa sin dall'inizio. Inspiegabilmente, Guisa rimandò l'avanzata su Napoli all'aprile dell'anno successivo. Lo storico Braudel attribuisce il ritardo a un intrigo politico di Guisa, ma potrebbe esserci una spiegazione più semplice. Secondo Fioravanti, il duca, che era a Roma «per guerreggiare contra la Maestà del Re catolico di Spagna » si tagliò accidentalmente il ginocchio mentre stava smontando da cavallo. Venuto a sapere dell'incidente, Giovan­ ni Francesco Carafa mandò a chiamare Leonardo, il quale curò la ferita di Guisa «con grandissima sua satisfattione, ed di tutto lo esercito». Il duca, appassionato alchimista e avido collezionista di segreti, volle che Fioravanti gli mostrasse il segreto del medicamento usato per curare la sua fe­ rita. In cambio, insegnò a Leonardo «molti secreri dari alla casa di Ghisa dal­ li maggiori medici che habbia havuro la Francia» per curare disturbi urinari, gotta e altri malanni; «et detti secreti mi furono dati con giuramento gran­ dissimo, che mai li dovessi rivelare a persona nessuna» racconta Fioravanti'4• Mentre Guisa si rimetteva in salute e scambiava segreti con Fioravanti, il duca d 'Alba conduceva a Roma un esercito spagnolo e si accampava ap­ pena fuori città. Il papa, certamente memore del disastroso Sacco di Roma del 152.7, si arrese alla Spagna e il trattato di pace, praticamente dettato dal duca d'Alba, impose al papa l'alleanza spagnola. Quali che fossero le imprese compiute da Leonardo nella casa del car­ dinale, ebbero un' influenza duratura. Nel 1564, quando Fioravanti aveva lasciato Roma già da sei anni, Battista Pelegrino gli scrisse da Genova di­ cendo che un libraio del posto gli aveva raccontato delle sue miracolose cure di una "malattia incurabile" nella casa del cardinal Medici: un riferi­ mento, senza dubbio, al mal francese'1• È probabile che il libraio, desidero­ so di vendere il libro, avesse un po' gonfiato il racconto (a ragione, poiché vendette a Battista due libri di Fioravanti) ma la storia, ricordata dopo così tanto tempo, è il segno del profondo impatto di Fioravanti sulla scena romana e un presagio della sua fama futura.

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Un chirurgo a Roma

Della carriera romana di Leonardo restano due testimonianze: una dalla sua penna e l'altra dai documenti d'archivio. Secondo Fioravanti, Fioravanti era un guaritore miracoloso che curava i pazienti abbandonati dai medici. Secondo gli archivi, Fioravanti era un chirurgo mediocre. La verità sta probabilmente nel mezzo. La testimonianza storica può sembrare più oggettiva ma è incompleta. I nomi dei chirurghi compaiono nell'archivio romano perché questi erano tenuti ad avere una licenza e a riferire alle autorità in merito alle cure effettuate per ferite causate da inci­ denti o atti di violenza. I chirurghi non dovevano aver preso i regolamenti troppo sul serio : le omissioni erano la norma e i criteri per concedere le licenze molto indulgenti. Fioravanti richiese la licenza soltanto nel settembre del 1557 - quando era nella Città Eterna già da due anni - e lo fece, parrebbe, perché vo­ leva il permesso per « effettuare le cure chirurgiche a Roma e per poter somministrare per bocca il suo decotto a base di Lignum Sanctum » '. La licenza rilasciata dal Protomedicato di Napoli persuase gli esaminatori a concedergli il permesso. Il che era inconsueto, dato che a quasi tutti i chi­ rurghi era fatto divieto di prescrivere trattamenti per bocca. Ma le autorità dovettero ritenere valida la cura di Leonardo per il temuto mal francese. Poco dopo essere giunto a Roma, Fioravanti affittò una casa nei pressi della chiesa di San Pantaleo, a pochi passi da piazza Navona, che a quei tempi era ancora un campo aperto. All'epoca di Leonardo la piazza ave­ va un aspetto del tutto diverso da quello odierno: non lastricata e priva dell'obelisco, delle fontane e del gruppo del Bernini che dominano oggi lo spazio e che furono completati solo nel Seicento. Il mercato settimanale era una fiera affollata e caotica che faceva della piazza il centro della vita commerciale romana.

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Il famosissimo Libro dei vagabondi descriveva piazza Navona come uno spazio condiviso da venditori ambulanti e bottegai e dove erbivendo­ li, straccivendoli e calderai erano fianco a fianco con mendicanti, imbro­ glioni e mangiatori di fuoco, mentre contorsionisti, acrobati e ciarlatani salivano sui loro palchi e intrattenevano la folla'. Ma era anche un luogo sul quale si affacciavano splendide dimore nobiliari come quella ideata da Antonio Sangallo per il cardinale Del Montel. La famiglia Orsini posse­ deva un palazzo a piazza Navona, come altre potenti famiglie che condi­ videvano lo spazio con notai, mercanti e artigiani. La chiesa di San Giaco­ mo degli Spagnoli era poco distante e poco più in là c'era l'ospedale degli spagnoli a Roma. Fioravanti si era dunque convenientemente sistemato a metà strada tra la nobiltà italiana e il potere politico spagnolo.

Le strade malfamate della Roma rinascimentale

I documenti storici rivelano un mondo di grande violenza. La Roma rina­ scimentale era un luogo pericoloso, molto più pericoloso delle città ameri­ cane di oggi4• Esaminando i documenti del collegio della sanità, uno stori­ co ha calcolato che nella Roma cinquecentesca, che aveva una popolazione pari a un centesimo di quella della New York odierna, venivano compiuti ogni giorno 10 ferimenti gravi e circa 3 5 omicidi all'anno. Se lo stesso tasso fosse applicato alla New York del XXI secolo si avrebbero I.ooo aggressioni e 10 omicidi al giorno! Gli uomini dell'epoca erano impetuosi ed era me­ glio stare molto attenti a non insultare la persona sbagliata. Leonardo si ritrovò nel bel mezzo di queste strade malfamate: una volta trattava un vagabondo ferito alla testa da un bastone brandito da un oste di Campo de ' Fiori; un'altra curava un frate agostiniano che nottetempo era stato brutalmente aggredito da uno sconosciuto. Il frate aveva ricevuto due coltellate al braccio (una delle quali aveva fratturato l'omero), una alla mano e una alla spalla sinistra. Fioravanti soccorreva anche le vittime di rapine, aggressioni e duelli, come il facchino aggredito a Campo Marzio e pugnalato al braccio. Fioravanti ricordava un incidente particolarmente violento accaduto nella piazza di fronte casa sua: un orafo era stato pugnalato tredici volte e lasciato a terra agonizzante. Giordano Orsini (che pare arrivare nella vita di Fioravanti sempre al momento giusto) stava per caso passando da quelle

UN CHIRURGO A ROMA

parti e fece trasportare l'uomo a casa del chirurgo. Fioravanti suturò le ferite e le curò con la quintessenza, il balsamo e la polvere segreta. « In sedici giorni fu sano e salvo di tutte le ferite » , racconta Fioravanti1• Ecco un chirurgo che non si limitava semplicemente a curare i pazienti, ma li rendeva invariabilmente «sani e salvi » . Un unico episodio narrato da Fioravanti può essere confrontato con un documento storico, e la disparità è sorprendenté. Nell'ottobre del 1555 Leonardo riferì alle autorità di aver curato una ferita d'arma da fuoco al braccio del servo di Ricardo Mazzatosta, illustre gentiluomo romano. La versione dell'incidente fornita dall'archivio storico è concisa: 19 ottobre ISSS· Mastro Leonardo Fioravanti, chirurgo, ha riferito di aver curato ieri Pompeo Pereto, servo di Ricardo Mazzatosta, il quale era stato ferito al brac­ cio, non gravemente, da un oggetto scagliatogli durante la notte.

Non sorprende che il resoconto nel Tesoro della vita humana sia ben più drammatico. Nella versione di Fioravanti la vittima era Mazzatosta e non il servo. Ecco il racconto di Leonardo: Da l'anno 1555 fino al 1558 alli 2.5 d'ottobre stetti nella città santa di Roma nel qual tempo feci varie et diverse cure stupende, et di maraviglia, cosi nell'una come nell'altra professione. Fra le quale l'una fu in persona del S. Ricardo Mazatosta, et fu che una notte venendo dalla casa del S. Paulo Giordano Ursino, gli fu spara­ to uno archibugio nel petto, da certi suoi nemici. Dentro del qual archibugio vi erano di quelle balottine picciole in gran numero, et otto se ne colsero in diverse parti della persona, et fra l'altre una gli ne dette in testa sopra il fronte, et sbrisciò drieto all 'osso, fino alla comessura coronale, et vi rimase dentro, et lo curai io in­ sieme con Maestro Iacomo da Perosa, et molti altri medici. I quali erano tutti di opinione, che la balla non vi fosse restata: imperoche non la trovavano in modo alcuno. Et io li diceva, che era cosa ragionevole, che la balla vi fosse. Pecche gli era l'entrata, ma non già la uscita; et che vedendosi dove era intrata, et non vedendosi dove era uscita, era di necessità, che vi fosse. Et cosi restassimo discordi del parere: nondimeno passando alcuni giorni, la natura mandò la balla alla sommità della carne; li tagliai sopra, et la cavai fuori, et con la quinta essenza et il balsamo la saldai in due volte, che io la medicai. Et tutte le altre ferite con lo istesso rimedio le medicai pur in quattro giorni; della qual cura tutta la Città ne restò maravigliata7•

Quale dei due racconti dice il vero? Nessuno dei due, probabilmente, rac­ conta la storia per intero. Il resoconto d 'archivio è scarno, fattuale e uffi­ ciale: fornisce unicamente le informazioni che servivano al burocrate per

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completare il suo verbale. È difficile credere che la ferita descritta da Fiora­ vanti nel Tesoro della vita humana potesse essere da alcuno ritenuta « non grave» , ma è questo ciò che egli riferì alle autorità, che redassero i verbali in base alla testimonianza diretta di Leonardo. Il quale, ovviamente, volle trasmettere ai posteri una versione degli eventi un po' più movimentata di quella dell'archivio romano. Nel Tesoro, la scialba e imparziale descrizione archivistica diventa la storia drammatica di una cura eroica. L'oggetto che nel documento d'archivio colpì Pompeo al braccio - o era Ricardo ? - si trasforma addirittura in otto pallottole d'archibugio, una delle quali gli aveva perforato il cranio. La ferita « non grave » (come il chirurgo aveva riferito alle autorità) si era fatta dunque gravissima, tanto da rendere ne­ cessaria la consulenza di una serie di medici e chirurghi, tra cui lui stesso.

Selffashioning rinascimentale Che Leonardo abbia detto la verità sull'accaduto ha, forse, meno impor­ tanza di quello che i due documenti rivelano sulla percezione che l'uomo rinascimentale aveva di sé. Nel descrivere l'episodio nel Tesoro della vita humana, Fioravanti aveva rimaneggiato un fatto storico a uso e consumo di un pubblico nuovo. Per far questo, si era consapevolmente dato una nuova identità. Il protagonista del Tesoro non è più l'oscuro chirurgo che aveva riferito alle autorità romane in merito al lieve ferimento di un servo di second'ordine in una banale rissa notturna, ma interviene in uno spet­ tacolare agguato subito da un illustre gentiluomo romano e, grazie alle sue straordinarie capacità diagnostiche e ai suoi famosi rimedi, effettua una cura per la quale « tutta la città ne restò maravigliata» . Come se non ba­ stasse, mette in scena la sua nuova identità in un foro dal pubblico ben più ampio del registro giornaliero del tribunale penale, denominato « Relazio­ ni dei medici e barbierie » : il suo libro poteva contare su migliaia di lettori. Quando Fioravanti aveva riferito dell' infortunio al tribunale penale, lo aveva fatto da professionista. Come gli altri chirurghi, era tenuto a ri­ ferire eventi come questi, pena la revoca della licenza. Nel rappresentare la sua versione degli eventi sulla carta stampata, aveva creato invece un' i­ dentità che era solo sua8• Fioravanti esprimeva così un genere di indivi­ dualità molto diverso dali' identità autonoma, moderna, le cui radici Jacob Burckhardt, storico svizzero del XIX secolo, riteneva di aver individuato

UN CHIRURGO A ROMA

nel Rinascimento italiano. Secondo lo storico John Martin, questa indivi­ dualità era l'espressione di un « sé performativo» , cioè una manifestazio­ ne teatrale e consapevole dell' individuo9• Anche se famiglia, Stato, rango sociale, professione e istituzioni religiose imponevano severe restrizioni all'esercizio dell'autonomia individuale, alcune figure rinascimentali riu­ scirono a ritagliarsi un proprio spazio di libertà. Fioravanti lo fece attra­ verso la parola stampata, indossando la nuova identità di super-chirurgo­ scrittore. L' lo rinascimentale era, per dirla con Martin, «qualcosa di più vasto della somma dei propri ruoli sociali »'0• L' impressione che si ha leggendo Il tesoro della vita humana è quella di un carismatico guaritore che, sfruttando le proprie capacità, mise a punto un abile piano per arrivare agli ambienti più esclusivi della società romana. Dalla scelta strategica di abitare a due passi dalla nobiltà romana e spa­ gnola, alla serie di sensazionali guarigioni nella dimora dell'ambasciatore portoghese, la breve carriera romana di Fioravanti pare fatta apposta per attirare lo sguardo dei potenti.

Una cricca di dottori

Nel Reggimento della peste, pubblicato nel 1s6s, Fioravanti interrompe la sua analisi delle cause della peste per inserire un immaginario "dialogo con la Fortuna". In quell'epoca misogina, la fortuna era sempre raffigurata come una donna volubile e irrazionale. A un primo sguardo il capitolo può appa­ rire stranamente fuori luogo, ma non se si riflette sul fatto che le epidemie dell'età rinascimentale, nonostante tutte le spiegazioni razionali e scientifi­ che, erano tra gli eventi più rischiosi e imprevedibili della vita: scoppiavano di punto in bianco e sparivano imprevedibilmente così come erano venute. Leonardo giocava su quest'incertezza nel suo dialogo con la Fortuna, ma il vero oggetto del dibattere era - come sempre - se stesso: La natura tua è sempre stata di fuggire quei che ti cercano, et correre drieto, a quei che ti fuggono [ ... ]. Perche mi ricordo in Roma già molti anni sono, che tu havesri cognitione di me, et ti movesti alquanto à volermi favorire, ma fu tanta la possanza della Invidia, che hebbero alcuni di quei medici, contra di me, che io fui molto grandemente travagliato, et da loro perseguitato [ ... ] peroche come tu ti scopristi a volermi favorire nelle mie operationi, subito la Invidia si oppose, et mi perseguitò molto, di modo tale che io fui cosi perse-

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guitato da lei, che poco vi mancò che io non fossi in tutto estinto. Et credo che se io non havessi havuto l'aiuto del Superno Monarca del tutto, sarei andato in precipitio".

I guai di Fioravanti con i medici romani iniziarono in maniera tipicamen­ te rinascimentale: con una sfida e un duello. Poche settimane dopo il suo arrivo a Roma, gli fu richiesto di curare lo stalliere dell'ambasciatore vene­ ziano, che era rimasto ferito in una rissa di strada. Delle ferite di Giovan Iacopo si erano occupati numerosi chirurghi, tra i quali Realdo Colombo, famoso anatomista e insigne professore universitario, ma le ferite non gua­ rivano. Le condizioni di Giovan Iacopo peggioravano. Dopo l'esperienza fatta nella guerra africana, Fioravanti si sentiva perfettamente in grado di curare l'uomo. Ecco come descrive l'episodio: Giovan Iacopo [ .. ] era stato ferito in testa, et in una mano. il quale essendo me­ dicato da altri, stava molto male, per causa della grande alteratione, che era sopra­ gionta nelle ferite: et il medico che lo medicava, era uno che si chiamava Realdo Palombo Cremonese, il qual li medicava la testa con vino et olio. Et la mano con tormentina et olio rosato: et sopragiongendo io, gli dissi che mi pareva, che si do­ vessino mutar quei medicamenti: percioche alla ferita della testa non li conveniva quel medicamento, perche l'olio crudo putrefa, et il vino è ripercussivo, et non lascia esalare la putredine che genera l'olio. E per tal ragione, quel medicamento non si dovea usare ; quanto al medicamento della mano dissi, che la tormentina non conveniva: perche dove sono offesi pelle, carne, vene, nervi et ossi, la tormen­ tina non è buona, perche è calida et putrefa col mezo dell'olio, et fa infiamma­ tione, et che ragionevolmente non si dovea operare; ma che cosi alla testa, come alla mano, si doveva applicare una sorte di medicamento, che confortasse il luoco offeso, et che assottigliasse la marcia, et incarnasse. Et che questo saria medica­ mento con ragione. Mi fu risposto dal detto Realdo, che la mia saria buona opi­ nione, quando si trovasse rimedio, che facesse tali effetti. Et io m'offersi trovare il rimedio. Et cosi lo mandai a pigliare alla casa mia, et lo medicai in questo modo, cioè. La prima cosa in testa li buttai della nostra quinta essenza fredda, e poi un poco di balsamo freddo. Il che parve strano a Realdo. Et poi sopra la medicai con il magno [icore, et sopra le pezze vi buttai un poco della nostra polvere secreta, et il simile feci alla mano: et cosi in quattordici dì le dette ferite furono guarite in tutto con gran maraviglia delli medici, et ancor dell' Imbasciatore e sua fameglia, et quel giorno istesso cominciò la invidia ad operare contra di me, ne mai mi lasciò per fin che stetti in Roma. Et per questa esperienza fatta con cosi bel successo, molti mi conobbero in quella città, et da diversi altri fui operato in diverse occorrenze, et in varii et diversi casi di più specie d'infermità". .

UN CHIRURGO A ROMA

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Se Leonardo stava cercando di farsi pubblicità non avrebbe potuto sce­ gliersi un nemico migliore di questo. Colombo - più noto nella storia della scienza per la scoperta della circolazione polmonare - era tra i più famosi anatomisti dell'epoca. Dopo aver studiato chirurgia, si laureò in medicina a Padova, dove nel 1542 subentrò a Vesalio in qualità di docente di anatomia. Tre anni dopo, ricevette l' invito di Cosimo de' Medici a in­ segnare anatomia a Pisa e nel 1548 si trasferì a Roma, dove divenne medico personale di papa Paolo m. Docente di medicina alla Sapienza e membro degli ambienti altolocati che ruotavano attorno alla corte papale, Colom­ bo era potente, ambizioso e pericoloso. Non conosciamo i dettagli della "cospirazione" che causò la partenza di Fioravanti (o, come lui affermava, la sua espulsione) da Roma. Della vicenda resta solo il suo resoconto ed è troppo lacunoso e di parte per con­ sentire un quadro oggettivo. Secondo la sua versione, la cospirazione era dovuta alla sua pubblica "umiliazione" di Colombo. Fioravanti dipinge l'anatomista come un oscuro e occulto manipolatore e racconta che nel 1557 Colombo aveva fatto pressione su 12 medici affinché lo accusassero e fornissero una falsa testimonianza. Questa "cricca'' di medici potenti e ben introdotti comprendeva tre professori, un ex protomedico e tre me­ dici papali'3• Non tutti però si schierarono contro di lui'4• Fioravanti racconta di molti testimoni venuti a deporre a suo favore. Oltre al chirurgo Giacomo da Perugia, con il quale Leonardo aveva spesso esercitato, tra i suoi difen­ sori c'erano il protomedico Cosimo Giacomelli che nel settembre del 1557 aveva autorizzato Fioravanti a esercitare la medicina a Roma. Un altro di­ fensore, dice Fioravanti, era l'anatomista spagnolo Juan Valverde de Amu­ sco, che all'epoca insegnava nel più grande ospedale romano, il Santo Spi­ rito''· Sarebbe tuttavia sorprendente se nella disputa Valverde avesse preso le difese di Fioravanti: Colombo era stato docente di Valverde a Padova e l'anatomista spagnolo lo aveva seguito a Roma dove lavorava come suo assistente. Cosa poteva motivare l'anatomista Valverde a prendere le difese di Fioravanti - non certo un esperto anatomista - non è dato sapere'6• Né conosciamo i dettagli dell'azione giudiziaria contro Fioravanti né quali fossero le accuse. Gli archivi tacciono sulla vicenda. Quale che fosse il punto in questione, Fioravanti ne uscì perdente. L' invidia lo aveva scacciato da Roma, diceva'7• I medici invidiosi dei suoi successi in casa del cardinale, sosteneva Leonardo, avevano fomentato la cospirazione per eliminarlo dalla scena.

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A posteriori, possiamo azzardare un'altra ipotesi. Fioravanti era impa­ vido e non aveva alcun rispetto dell'establishment medico. Più di una volta fu accusato di aver ucciso i suoi pazienti con dosi eccessive di farmaci. Sul­ la scia della vicenda di Giovan Iacopo, il chirurgo venuto su dalla gavetta aveva ribattezzato sprezzantemente Colombo "Palombo", con riferimento al pescecane ( molto studiato in anatomia) . Alla fine, annotò Leonardo tempo dopo, «giustizia era fatta » sulla questione della cospirazione. Tuttavia Iddio benedetto, che vuole, che gli infami, e maledetti huomini, debba­ no esser separati dal consorrio de buoni, volse mostrare un grandissimo miracolo, che Giovan da Auricola, e Realdo Palombo, prima che sia passato un'anno, Iddio gli ha chiamati a lui per saper la verità del farro, et cosi rutti due son morti, et an­ dati dove il Signor li giudicherà delle buone opere fatte al mondo'8•

Uomo di sfrenata ambizione, Fioravanti era andato a Roma sperando di farsi un nome e di essere introdotto a corte. C 'era quasi riuscito, ma non del tutto. Forse mentre era in casa del cardinale, dove esercitava il suo nuo­ vo modo di medicare tra la colta élite romana, ebbe l'intuizione che gli avrebbe cambiato la vita: solo pubblicando i suoi metodi avrebbe potuto realizzare la sua aspirazione di rendere immortale il proprio nome. Per realizzare questo obiettivo, Leonardo Fioravanti sarebbe dovuto andare dove i libri venivano fatti. Doveva partire per Venezia.

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Un 'occasione persa

L'amicizia che Leonardo aveva stretto a Roma con l'ambasciatore porto­ ghese era evidentemente molto cordiale'. Non solo ne seguì uno scambio di segreti ma anche un invito a servire il re del Portogallo, Giovanni In•. Perlomeno questo è ciò che racconta Leonardo, e non abbiamo motivo di dubitarne. Si era già distinto come chirurgo militare durante la guerra in Mrica, era stato introdotto nelle dimore dei più importanti prelati di Roma e si era fatto un nome per la sua abilità nel curare la sifilide. Perché il re del Portogallo non avrebbe dovuto interessarsi a un guaritore così celebrato ? Ma pensando al proprio futuro, Fioravanti scelse una strada diversa. Il Portogallo doveva aspettare. Più avanti, ricordava: «Et oltra i secreti, detto Ambasciatore mi voleva condurre in Portogallo dalla maestà del suo Re, et io non li volsi andare, perch' io desiderava di andare a Venetia per stampare le opere mie, et darle in luce al mondo » . Fioravanti declinò l'offerta di servire un grande monarca europeo, de­ cidendo invece di imbarcarsi nella precaria carriera di scrittore. Perché scegliere una strada tanto rischiosa? Qual era il richiamo ? Di certo non la promessa dei guadagni: gran parte degli autori rinascimentali guadagnava ben poco dalle proprie opere. La consuetudine delle royalty era lontana ancora centinaia di anni e i diritti d'autore - o "privilegi", come venivano chiamati - erano solitamente concessi agli stampatori, non agli scrittori�. Come facevano allora gli scrittori a guadagnarsi da vivere ? Alcuni facevano i redattori nelle stamperie per integrare i magri gua­ dagni derivati dai libri. È così che Girolamo Ruscelli si era fatto strada nell'attività editoriale quando si era trasferito a Venezia nel 1 549 e aveva iniziato a lavorare come redattore nella stamperia di Vincenzo Valgrisi, una delle più grandi di Venezia. Anche Fioravanti, prima di pubblicare le sue opere, si sarebbe guadagnato da vivere lavorando come redattore. La sua prima opera pubblicata da redattore, non da autore, fu una nuova edi-

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zione di un manuale di chirurgia di Pietro e Ludovico Rostinio, stampata nel 1 5 6 1. Anche se lavorare in una stamperia rendeva uno scrittore più indipen­ dente rispetto al lavoro di corre, gli autori rinascimentali non furono mai del tutto liberi dal sistema del mecenatismo4• Quasi ogni libro pubblicato agli inizi dell'epoca moderna iniziava con una serie di dediche, a uno o più potenziali me cenati, dei quali si esaltava la generosità e la saggezza. Se­ condo la logica del mecenatismo, i libri venivano presentati come "doni" ai ricchi principi e mercanti nella speranza di trame in cambio vantag­ gi concreti1• Era però un sistema imperfetto: anche quando uno scrittore riceveva una ricompensa, si trattava quasi sempre di un riconoscimento pubblico, non in denaro; si trattava tuttavia di un'attenzione che poteva sempre creare nuove opportunità di ingraziarsi qualcuno6•

La ricerca della celebrità

Un buon motivo, dunque, per diventare scrittore era la possibilità di far colpo su un principe e di essere poi introdotto a corre. Una motivazione che non doveva essere ignota a Leonardo; ma se la carriera di uno scrittore era rischiosa, la vita di corte - dove le sorti di una persona dipendevano dal capriccio di un principe - poteva essere ancora più precaria. La vita dello scrittore prometteva perlomeno un briciolo di indipendenza. Non fu que­ sta però la ragione che spinse Leonardo a scegliere una nuova carriera. Per lui diventare scrittore non era un mezzo per arricchirsi né una strategia per introdursi a corte e neanche una strada verso l' indipendenza. Lui voleva la fama. Ossessionato dall' idea della celebrità, ne scriveva continuamente. C 'erano soltanto due modi per diventare famosi, pensava Fioravanti: «L'uno è il caminare il mondo, et praticare in varie et diverse regioni et haver mezo di giovar a molti. L'altro mezo è col scrivere libri che siano dilettevoli da leggere, et che i lettori ne possino cavare qualche utilità » 7• Il mondo era troppo vasto (e la vita troppo breve) per poterlo visitare tut­ to. Per quanto grandi fossero state le sue gesta, era il timore di Fioravanti, dopo la sua morte nessuno più si sarebbe ricordato di lui. Ma l'invenzione della stampa trasformò completamente le regole che governavano la fama nel Rinascimento. La macchina da stampa consenti­ va persino a un oscuro chirurgo come Leonardo Fioravanti di diventare

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famoso in tutto il mondo. Leonardo era uno strenuo difensore di questa nuova tecnologia; attribuiva unicamente alla stampa lo stesso Rinasci­ mento - « imperoche ella è stata causa di risvegliare il mondo, il quale era addormentato nella ignorantia » . L'invenzione della macchina da stampa, secondo Fioravanti, aveva cambiato il corso della storia: Avanti che detta gloriosa arte fosse in luce, si truovavano pochissimi litterati, il che non procedeva da altro se non dalla grandissima spesa de i libri, peroche nis­ suno poteva studiare se non era ricco, et facoltoso, che potesse comperare i libri. Onde conveniva di necessità, che i poveri fossero ignoranti a loro dispetto; per­ cioche, come ho detto, per mancamento di libri, non potevano studiare, et quelli, che studiavano lettere Latine, et Greche, con la eloquentia loro, et con quel loro nuovo linguaggio, facevano stupire di maraviglia, tutti coloro che non sapevano l.ettere. I dottori di questi tempi veramente erano felici: percioche erano adorati, et riveriti come se fussero stati huomini divini8•

Le lezioni di storia erano servite a Leonardo Fioravanti. «Solamente quel­ li che sono scritti ne i libri, restano vivi per sempre » avrebbe scritto più avanti, «et il nome loro non morirà giamai»9• Partì da Roma alla fine di ottobre del 1 5 5 8 e raggiunse Pesaro, dove do­ veva imbarcarsi per Venezia. lnspiegabilmente rimase lì per sette lunghe settimane'0• Cosa lo trattenne ? Sembrava così desideroso di arrivare a Ve­ nezia, così impaziente di cominciare una nuova vita, lontano dalla vendi­ catività dei medici romani.

L'idillio di Pesaro

Si chiamava Paula. Leonardo la cita solo due volte, in una lettera del 1 5 6 8 indirizzata a un amico napoletano e in un'altra lettera, datata 1 567, a un medico della corte di Urbino". Nella corrispondenza la definisce la sua "consorte". Il significato è poco chiaro. Se fosse stata tale, Fioravanti e i suoi interlocutori avrebbero dovuto chiamarla "moglie", benché i due ter­ mini fossero intercambiabili. Probabilmente la donna visse con lui in una sorta di concubinaggio. Non ebbero figli e non sappiamo quanto tempo restarono insieme11• Probabilmente Fioravanti pensava che stabilirsi a Ve­ nezia avrebbe portato una nuova stabilità. Aveva ormai quarantun anni e forse voleva vivere una vita più stanziale. Anche se vi erano casi di uomini

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e donne che vivevano da soli, era questa una condizione che la maggior parte delle persone giudicava anomala o sfortunata. Di Paula non si sa molto. Fioravanti non parla delle sue origini né identi­ fica la sua famiglia. Accenna a Pesaro o a qualche altra località nel ducato di Urbino, ma anche questo è incerto. Che tipo di corteggiamento (o persino di matrimonio) possano aver avuto è un totale mistero. Quasi tutti i matri­ moni rinascimentali erano combinati allo scopo di creare un'alleanza tra le famiglie, di trasferire la proprietà e di procurare un sicuro sostentamen­ to alla sposa. Ovviamente capitava anche che le coppie si conoscessero per caso e si innamorassero e i matrimoni d'amore non costituivano una rarità. Tuttavia ogni regione aveva la propria versione del proverbio "Chi si piglia d'amore, di rabbia si lascia"'3• Nel periodo rinascimentale il matrimonio era un accordo fatto a fini procreativi, che lasciava poco spazio ai sentimenti. Quanti anni aveva Paula? Che tipo di personalità possedeva? Qual era il suo aspetto ? Non lo sappiamo. Generalmente le donne si sposavano gio­ vani: l'età media era intorno ai diciotto anni e quasi tutte le donne erano sposate entro i venticinque'4• Per gli uomini l'età media era intorno ai tren­ tadue anni. In base a questo criterio, Leonardo era ben oltre l'età del ma­ trimonio. Forse Paula era una vedova, Leonardo non lascia trapelare nulla in proposito. Se si sposarono, le nozze ebbero luogo con una cerimonia privata: i matrimoni in chiesa non erano frequenti nel Rinascimento'1• Ma siamo nel territorio delle congetture. Nei suoi numerosi libri e nelle decine di lettere pubblicate, Fioravanti non dice una parola riguardo alla sua vita amorosa. Per quanto ci è dato sapere, la misteriosa «madonna Paula » fu quasi un incontro secondario nella sua vita.

È tutta questione di stomaco Mentre era in attesa di imbarcarsi per Venezia, Leonardo si sarà proba­ bilmente occupato dei suoi scritti, mettendoli in ordine per presentarli a uno stampatore quando fosse giunto a destinazione. Come sempre, vi­ sitava anche i pazienti. Un incontro casuale con una pazza «che andava ramingando come sogliano fare coloro, che per alcuno accidente perdono il cervello» , gli fece venir voglia di cimentarsi nel complesso problema della possessione demoniaca. La pazzia era causata da un'entità naturale o sovrannaturale ? Alcuni ritenevano che la donna si fingesse malata, altri pensavano che fosse posseduta dai demoni.

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Leonardo non ritenne mai la pazzia qualcosa di demoniaco: «Et io ve­ dendo la furia della pazzia di questa donna » egli scrive «mi venne voglia di farle alcuno rimedio per tentare se io gli poteva giovare alcuna cosa » '6• Con il pretesto di darle un dolce, le fece prendere due grammi di dia aro­ matica, uno dei suoi più potenti emetici. Il violento accesso di vomito che seguì fece declinare per qualche giorno la pazzia che poi ritornò furiosa come prima. Fioravanti aumentò il dosaggio, somministrando la medicina in una minestra di riso, rase a zero la testa della donna e la massaggiò con il balsamo. Ben presto la donna si calmò e come per miracolo la pazzia se ne andò. «La pazzia non è altro, se non una mala qualità concetta nel sto­ maco nelle parti se crete » affermava sicuro Fioravanti « et che offendono il cuore et il cervello» '7• Pesaro era la capitale del ducato di Urbino, cosa che dette l'opportunità a Leonardo di creare dei contatti alla corte del duca, Guidobaldo n della Ro­ vere. Questo principe smargiasso e scialacquatore - quasi contemporaneo del granduca Cosimo I de' Medici di Firenze e altrettanto arrogante - era salito al potere a venticinque anni. Guidobaldo spendeva a piene mani sulla sua corte, e come ogni principe dell'epoca cercava di rafforzare il proprio prestigio assoldando artisti, musicisti e architetti di talento'8• Si fece fare il ri­ tratto da Tiziano, all'epoca il più famoso pittore di Venezia, e durante il suo regno sostenne sempre l'artista. Le tasse gravose imposte dal granduca per finanziare le sue spese esorbitanti provocarono una rivolta nel 1571; il duca la domò senza pietà, guadagnandosi il soprannome di "Guidobaldaccio". Fioravanti venne introdotto alla corte di Guidobaldo tramite il medi­ co personale del duca, Giovangirolamo Gonzaga, con il quale Leonardo strinse una duratura amicizia. I due diventarono intimi e restarono in con­ tatto. Nel 1 5 6 5 Leonardo apprese che Gonzaga aveva raggiunto la corte di Niccolò Bernardino di Sanseverino, principe di Bisignano, in Calabria. Gonzaga era stato inviato per scortare la figlia quattordicenne di Guido­ baldo, Isabella della Rovere, promessa sposa al principe con un'unione di­ nastica che aveva lo scopo di rafforzare la posizione di Guidobaldo tra la nobiltà napoletana. Povera Isabella: la sua è una di quelle tragiche storie che tanto di fre­ quente capitavano alle aristocratiche che pativano l' indegnità dei matri­ moni combinati'9• Suo marito, dieci anni più grande e famoso donnaiolo, infettò la sua giovane moglie con la sifilide che le fece ulcerare orribilmen­ te il naso. La malattia corrose poi la cartilagine del naso !asciandola grot­ tescamente sfigurata. Qualche anno più tardi, Isabella, ormai separata dal

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marito, viveva a Napoli dove dedicò la vita alla cura degli infermi nell'o­ spedale degli Incurabili, medicando le piaghe ulcerate dei malati di sifilide. Qualche anno dopo Fioravanti pubblicò una lettera di Gonzaga che si interessava della salute sua e di Paula, sua "consorte". Si tratta di una corri­ spondenza intima, segno di una cordiale amicizia. Gonzaga invia i saluti di sua madre e suo fratello, Andreazzo, e acclude una lettera per Paula da parte della di lei famigliaw. La lettera amichevole descrive il recente attac­ co di gotta del duca Guidobaldo, tanto doloroso «che gridava il giorno e la notte » . Fortunatamente, dice Gonzaga, aveva a portata di mano alcuni medicamenti di Fioravanti che usò per riportare in salute il duca. In cam­ bio, il duca riconoscente ordinò a Gonzaga di inviare alcuni doni a Leo­ nardo, tra i quali una dozzina di forme di caciocavallo, un po' di sale e una scatola di «manna di fronde» , una resina rara e costosa che stillava dalle foglie del frassino in fiore. Anche la duchessa, preoccupata più del proprio aspetto che degli strazianti dolori del marito, inviava i saluti e richiedeva altro sbiancante per i denti e un po' di acqua imperiale ( « adatta a un prin­ cipe » ) per ringiovanire il viso. Evidentemente Fioravanti scelse di non sfruttare il suo legame con la corte di Guidobaldo tramite Gonzaga, né usò quell'amicizia per trovar­ si un posto. Rinunciando all'offerta di andare alla corte di re Giovanni e rinunciando a qualsiasi prospettiva potesse aver avuto a Pesaro, puntò lo sguardo su Venezia, capitale dell' industria italiana della stampa. Finalmente la nave attesa da Fioravanti giunse nel porto di Pesaro. Era ormai metà dicembre. La nuova vita di scrittore a Venezia, anche se rinvia­ ta, lo chiamava ancora una volta a gran voce.

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Curiosità veneziane

«Venezia è un pesce » scrive uno scrittore veneziano contemporaneo'. La metafora, benché appropriata, è un po' forzata. Considerate la forma della città su una mappa: ricorda una gigantesca sogliola pescata dal profondo del mare con una lenza, lo stretto ponte che la collega alla terraferma. Se pare, in questa allegoria cartografica di Tiziano Scarpa, che Venezia abbia inghiottito l'amo e stia per essere issata a terra, non è che un' illusione. In realtà la città è inchiodata al fondo della laguna sulla quale pare galleggiare. Sul fondo melmoso della laguna poco profonda furono fissate milioni di palificate lignee, lunghe dai due ai dieci metri, con pali dal diametro fino a 3 0 centimetri. Sopra questa fitta foresta capovolta - che, con il trascorrere dei secoli, si è gradualmente pietrificata per l'azione dell'acqua marina ­ furono costruite strade di pietra e case di mattoni, ponti e canali e impo­ nenti palazzi di marmo. Le foreste di querce del Veneto furono spogliate per erigere questa favolosa città che oggi il mare minaccia di inghiottire. Ogni inverno, l'acqua alta ricorda ai veneziani questo pericolo incomben­ te. Quando la laguna si solleva minacciosa e gran parte della città è som­ mersa dali'acqua, i veneziani in calosce camminano traballando sui quattro chilometri di passerelle che vengono tirate fuori ogni anno, quasi un'avara celebrazione della realtà che li separa dalla popolazione della terraferma. L'allegoria di Tiziano Scarpa, benché non molto originale, chiarisce un fatto importante: come i pesci, i veneziani sono sempre stati un tutt'uno con il mare. Impero marittimo costruito sulla forza della propria flotta, Venezia strinse un profondo rapporto con il mare che, sin dalle origini, ha determinato il suo destino. Città senza mura, Venezia si affidava alla laguna per proteggersi dai nemici. Anche se l'impero veneziano non c'è più, i veneziani hanno comunque un profondo legame con il mare, che dà alla città il suo carattere peculiare in grado di attirare ogni anno milioni di turisti. «Strade inondate. Si accettano consigli», pare abbia scritto in

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Venezia come doveva apparire all 'epoca del soggiorno di Fioravanti. L' imponente inci­ sione su legno in sei parti (1,3 x 2,8 metri) è fra i più spettacolari esempi di incisione rinascimentale.

un telegramma al suo direttore l'umorista Robert Benchley al suo arrivo a Venezia. Il mare era l'elemento centrale del mito di Venezia, La Serenissima, e della sua apparentemente perfetta forma di governo. La Serenissima veni­ va celebrata ogni anno con un rito, la Sensa•. Nel giorno dell'Ascensione, il doge, gli alti magistrati e gli ambasciatori salivano a bordo del Bucintoro, la galea usata dal doge durante le cerimonie, e navigavano per la laguna scortati da migliaia di gondole e chiatte dai vivaci colori. Quando la com­ pagnia raggiungeva l'imboccatura della laguna, il doge si appollaiava sul cassero di poppa del Bucintoro e lanciava in mare un anello d'oro pro­ clamando «Desponsamus te Mare, in signum veri perpetuique dominii» (Ti sposiamo, o mare, quale segno del nostro vero e perpetuo dominio). La Sensa era il pezzo forte di una festa primaverile perfettamente orche­ strata che inaugurava convenientemente la stagione teatrale. Quando Leonardo Fioravanti arrivò a Venezia nell'inverno del rss8, il mito della città era nel suo pieno fulgore. Mettendo per la prima volta piede sul suolo veneziano, Leonardo dovette subito rendersi conto del fie­ ro contegno di quella città. Un ambizioso piano urbanistico rifletteva la potenza della repubblica3• Bastava guardare l' imponente ristrutturazione di piazza San Marco, secondo l'ambizioso progetto di Jacopo Sansovino. La biblioteca ducale, l'opera più raffinata di Sansovino, era in costruzio-

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ne sulla piazza, mentre il suo capolavoro, l'elegante loggetta alla base del campanile, era stato da poco completato ed era in costruzione anche la nuova facciata della chiesa di San Geminiano (demolita da Napoleone nel 1 8 07 per costruire una sala da ballo), proprio di fronte alla basilica di San Marco. All'epoca dell'arrivo di Fioravanti le ristrutturazioni dell'architet­ to avevano trasformato la piazza in una vetrina dell'impero veneziano.

Una strada davvero incantevole

Subito dopo il suo arrivo, Leonardo si trovò una casa nella strada adiacente alla chiesa di San Giuliano « acanto el frutarolo», a pochi passi da piazza San Marco4• La chiesa si affacciava sulle Mercerie, l'animata strada com­ merciale che collega piazza San Marco a Rialto1• Centinaia di botteghe vendevano cibo, spezie, oggetti di metallo, indumenti, articoli per la casa, tessuti, gioielli, orologi, cappelli, profumi e ogni varietà di articoli di lusso. Alla fine del Seicento, il viaggiatore inglese John Evelyn descrisse le Mercerie come « una delle strade più incantevoli del mondo per la sua dol­ cezza, e su entrambi i lati è come ricamata di stoffe d'oro, ricchi damaschi e altre sete che le botteghe espongono appese al primo piano, e con una tale varietà che nei sei mesi passati prevalentemente in quella città non ricordo di aver visto lo stesso pezzo esposto più d'una volta» 6• Ogni giorno, facen­ do la spola tra la sua casa e una miriade di luoghi diversi, Leonardo poteva toccare con mano il successo mercantile di Venezia. Venezia doveva il proprio status imperiale - a metà del Cinquecento oramai più immaginario che reale - al suo fiorente impero marittimo. I commerci con terre lontane recavano un flusso costante di beni da ogni parte del mondo conosciuto. L'elenco di merci e oggetti naturali commer­ ciati dai mercanti veneziani era stupefacente: vino e grano dalla Puglia; smeraldi e spezie dall' India; allume dall'Anatolia; lapislazzuli dalla Persia; profumi e incenso dall'Arabia; salsapariglia e armadilli dal Nuovo Mon­ do; velluti, damaschi e rasi da Alessandria; zenzero, pepe e chiodi di ga­ rofano dall' Oriente; balsami del Perù; porfido egiziano; ebano africano; broccati e tessuti d'oro da Bisanzio e dalla Grecia. Qualsiasi cosa suscitasse meraviglia era molto ricercata da mercanti e patrizi veneziani, i quali colle­ zionavano e mettevano in mostra nei loro mobili a vetrina oggetti naturali e artificiali, rari ed esotici, come pavoni che esibiscono fieri il loro piu-

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maggio (tra l'altro, anche le piume di pavone erano apprezzati oggetti da collezionisti)7• Questi stessi oggetti sarebbero diventati le "curiosità" della nascente scienza moderna.

Un esercito di speziali

Era soprattutto nelle piazze e nelle farmacie che le curiosità venivano esi­ bite al pubblico. Capitale del commercio farmaceutico europeo, Venezia contava a metà del Cinquecento più di so spezierie, grossomodo una ogni tremila abitanti8• Il commercio dei farmaci prosperava grazie alle nuove ed esotiche materie prime che affluivano in gran numero nella città, pro­ venienti da terre lontane: pelli di coccodrillo, basilischi, bezoar, tacchini, e mummie egiziane per fare la mumia, una medicina apprezzata per una incredibile varietà di malanni: emicrania, paralisi, epilessia, vertigini, mal d'orecchi, tosse, flatulenza, punture di scorpione, incontinenza e "passioni del cuore"9• Tale era la domanda di questo nuovo farmaco alla moda da generare un fiorente commercio di mumia contraffatta, realizzata con i cadaveri dei criminali giustiziati'0• Leonardo si trovò ben presto immerso nella cultura farmaceutica ve­ neziana. Conosceva personalmente non meno di una decina di farmacisti, molti dei quali fabbricavano e vendevano i suoi rimedi. È probabile che trascorresse buona parte della giornata alla farmacia dell'Orso a Santa Ma­ ria Formosa; qui stabilì il suo gabinetto medico e il proprietario, Sabbà di Franceschi, fu suo socio in numerose iniziative commerciali". Jacomo To­ rellis, ingegnoso alchimista e distillatore pugliese, lavorava nella farmacia di Sabbà dove realizzava le medicine di Fioravanti". Leonardo conosceva anche Giorgio Melichio, un immigrato di Augusta che aveva aperto la far­ macia dello Struzzo, uno dei principali centri di produzione di una vera e propria panacea, la teriaca. Quando Fioravanti si trasferì in una casa in Campo San Luca, cominciò a preparare i suoi rimedi nella vicina farmacia della Fenice, il cui proprie­ tario, Mastro Giovan Giacamo, era un entusiasta sostenitore dei metodi di Leonardo. Quest'ultimo apprezzava molti altri farmacisti, tra i quali Marco e lppolito Fenari, proprietari della farmacia del Saracino, Mastro Gabrielo della farmacia del Campanile, e Francesco di Bianchi della far­ macia dello Sperone'l.

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Nel Rinascimento le farmacie erano anche luoghi nei quali veniva svol­ ta la più avanzata ricerca scientifica dell'epoca; a parte le sale di anatomia, non vi furono laboratori di ricerca scientifica nelle università sino alla fine del Seicento. La ricerca sperimentale proseguiva altrove: nelle accademie, per esempio, e nelle botteghe artigiane. Gli speziali fecero esperimenti innovativi nel campo dell'alchimia e raffinarono l'arte della distillazione sino a farne una scienza sofisticata. La storica Paula Findlen osserva che le farmacie furono i primi musei di storia naturale d'Europa. Praticamente ogni farmacia era un museo in mi­ niatura. Alcune, come quella di Francesco Calzolari a Verona e di Ferrante Imperato a Napoli, erano grandi attrazioni turistiche. Oltre a contenere una straordinaria raccolta di attrezzature per la distillazione e una famosa collezione di piante e animali esotici provenienti dall'Asia e dall'America, la farmacia di Calzolari ospitava un famoso museo che vantava tra i suoi oggetti fantastici un camaleonte, un corno di unicorno e un uccello del paradiso'4• La gente andava nelle farmacie per osservare queste visioni me­ ravigliose e per dibattere sulle loro presunte virtù, come si farebbe in un museo di storia naturale.

La pillola miracolosa del XVI secolo ?

Le farmacie erano anche teatro di dimostrazioni scientifiche. Il dibattito tra medicina antica e moderna si svolgeva nel corso dell'annuale rito della teriaca - antidoto universale della notte dei tempi nonché pillola miraco­ losa dell 'umanesimo rinascimentale. Descritta per la prima volta da Gale­ no, la teriaca, "l'antidoto reale tra gli antidoti", era un medicamento raro e costoso considerato una panacea. Secondo Galeno, la teriaca era stata inventata dal medico di Nerone, Andromaco, il quale prese un'antica me­ dicina, il mitridatium, eliminò alcuni componenti, ne aggiunse altri - in particolare carne di vipera - escogitando un rimedio universale che sareb­ be divenuto famoso con il nome di Theriake'S. Composta da sessantaquat­ tro ingredienti, la teriaca, secondo Findlen, «era concepita per rispecchia­ re la complessità fisiologica dell'uomo: ogni ingrediente corrispondeva a una specifica parte o funzione del corpo umano» '6• In tutte le grandi città italiane, la produzione della teriaca aveva luogo nel corso di elabo­ rate cerimonie che iniziavano in maggio con la cattura e l'uccisione delle

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vipere e terminava in giugno con il rito solenne della preparazione, sempre pubblica e sempre sotto la supervisione dei locali ufficiali della sanità che garantivano la genuinità del prodotto'7• A Venezia il rito della preparazione della teriaca si teneva ogni primavera sotto lo sguardo severo dei Provveditori alla Sanità. Lo spettacolo si tene­ va nelle piazze delle farmacie che avevano la fortuna di ottenere una delle agognatissime licenze per fabbricare la medicina. La piazza era adorna di sfarzosi damaschi e busti di Ippocrate e Galeno. File di panche sorreggevano grandi vasi di maiolica ricolmi di erbe e gomme e spezie che servivano a fab­ bricare l'antico antidoto: pepe, mirra, gomma arabica, cannella, finocchio, petali di rosa, radici d' iris, oppio, ambra e varie erbe aromatiche provenienti dali 'Oriente. Sulla panca più alta, nella fila in fondo, sistemati ordinatamen­ te, c'erano decine di recipienti di vetro contenenti i serpenti vivi. Il princi­ pale ingrediente della teriaca - quello a cui la teriaca doveva la sua efficacia - era la carne di vipera uccisa e dissezionata secondo un metodo stabilito. Quando tutto era pronto, nelle loro toghe accademiche dai colli di ermelli­ no, arrivavano i priori del Collegio di Medicina a ispezionare gli ingredienti. Ogni cosa era studiata per esaltare la pompa e il fasto di questo rito. Una folla di spettatori si raccoglieva nella piazza per assistere alla strage di serpenti e per osservare i servi dai costumi sgargianti che macinavano e mescolavano le erbe intonando un canto di lavoro. L'aria era satura dell'a­ roma penetrante del pepe e delle spezie. Talmente tante erano le vipere raccolte e uccise per fare la teriaca a Venezia - più di 8oo al mese nei de­ cenni della sua massima produzione, tutte femmine, perché solo le fem­ mine potevano essere adoperate per fare la medicina - che nel Seicento la specie era ormai estinta nella zona dei colli Euganei, dove veniva tradizio­ nalmente cacciata'8• Assistere alla produzione della teriaca a Venezia era parte integrante degli itinerari turistici. John Evelyn, che visitò Venezia nel 1645• riferì di esser stato presente alla « straordinaria cerimonia alla quale da tempo ero curioso di assistere poiché è fastosissima e merita assolutamente di esser vista » '9• Egli considerava il suo acquisto della "melassa", così definiva la teriaca, tra i più preziosi fatti a Venezia. Leonardo avrà certamente assistito al rito e discusso - forse con il suo amico farmacista Sabbà di Franceschi - le virtù della teriaca. Dev'essere stata una discussione animata. La farmacia dell'Orso di Sabbà era molto rispettata ed egli era sicuramente al corrente del dibattito in corso sulla polifarmacia - l' impiego di medicinali composti da più ingredienti - che

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animava le opinioni dei contemporanei sulla teriaca. Forse l'amico di Le­ onardo, l'umanista Giovanni Battista Rasario, eminente studioso di gre­ co presso la Scuola di San Marco, si sarà unito alla conversazione a difesa degli antichi. Gli umanisti rinascimentali attaccavano l'uso diffuso della polifarmacia in epoca medievale, da essi considerata una degenerazione dei testi arabi, e propugnavano il ritorno ai «semplici » (rimedi derivati da una sola pianta o da un unico ingrediente vegetale, animale o minerale), presumibilmente impiegati dai medici dell'antichità'0• Per queste ragioni, la teriaca si presentava agli umanisti come un caso particolarmente stimolante. Da una parte, la medicina era citata nelle fon­ ti antiche autentiche, anche da Galeno. Ma con tutti quegli ingredienti come si poteva essere certi che tutti e sessantaquattro fossero genuini, e che non fossero in conflitto gli uni con gli altri ? Molti degli ingredienti - come il famoso opobalsum degli antichi, il balsamo di Gilead - erano esotici e difficili da reperire. Inevitabilmente si erano diffusi dei surrogati. Come si faceva dunque a distinguere la vera teriaca dalle sue scadenti imi­ tazioni vendute dai ciarlatani ? Leonardo aveva molte cose da dire su questa presunta medicina dei mi­ racoli, nessuna delle quali favorevole. La teriaca, secondo lui, era l'esempio più estremo di polifarmacia. Anche lui propugnava un ritorno ai semplici: «medicamenti naturali senza esser alterati da nessuno, in quelli è tutta la virtù, che gli ha infusa la divina Maestà » , e inveiva contro le medicine moderne « fatte di tante misture, le quali la maggior parte sono contrarie l'una dall'altra; et di queste tal cose molte ve ne sono, che più presto offen­ dono la carne humana, che giovarli » ". Quanto ai suoi di rimedi, comples­ si quanto quelli prodotti dai farmacisti moderni, Leonardo li giustificava asserendo che, realizzandoli per mezzo della distillazione, egli era in grado di estrarre le pure virtù degli ingredienti che li componevano. Col nome di "Teriaca di Venezia" furono prodotte varie versioni del farmaco fino a tutto il XIX secolo. Negli anni novanta del Novecento si poteva ancora acquistare una sostanza resinosa e appiccicosa chiamata "teriaca" nella farmacia alla Testa d'Oro, accanto al ponte di Rialto. Era lontanissima dalla teriaca rinascimentale, ovviamente, essendo del tutto sprovvista del suo miracoloso potere curativo. Era solo l'ennesima varietà di caramella venduta dal farmacista, accanto alle pastiglie per la tosse e ai bastoncini di liquerizia allineati sugli scaffali. La magia era finita.

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Il fascino del ciarlatano

La fascinazione per la novità, che caratterizzava il commercio farmaceu­ tico veneziano, era visibile anche nelle piazze, dove i ciarlatani recitava­ no scene di una primitiva commedia dell'arte ed esibivano fenomeni da baraccone per attirare i possibili acquirenti. Passeggiando per piazza San Marco, Leonardo li avrà visti ogni giorno arringare la folla sui loro palchi improvvisati'. La piazza era un mercato importante per le medicine, dove persone di ogni estrazione compravano l'ultimo ritrovato. Anche i ciarlatani facevano parte dell' itinerario del turista rinascimenta­ le, e Venezia, in particolare piazza San Marco, ne era piena. Fynes Moryson, un viaggiatore inglese che era partito da Londra e aveva raggiunto Napoli a piedi alla fine del Cinquecento, descrisse i guaritori di strada: In Italia v'è una generazione di empirici i quali vanno sovente sciamando di città in città e infestando i mercati. Vengono chiamati montibanchi o ciarlatani. Essi esaltano le loro merci dai loro banchi e per attrarre le folle hanno uno zanni con il volto coperto da una maschera e a volte una donna, per far una scena comica. La gente tira loro fazzoletti con le monete, ed essi glieli tirano indietro pieni di mercanzie [... ]. Le merci più vendute sono acque distillate e unguenti per ustioni, piaghe o altro, ma quelli per la scabbia e la rogna sono i più ricercati [ ... ]. Molti ciarlatani hanno segreti validissimi, ma di solito sono un branco di impostori'.

Saranno stati pure degli imbroglioni, ma lo stridente contrasto tra il lin­ guaggio ricercato del medico e la promessa di rimedi istantanei a effetto garantito del ciarlatano doveva colpire una corda sensibile nel pubblico che si raccoglieva attorno all'imbonitore. Empirici e ciarlatani avevano con le sofferenze della gente un legame più profondo dei medici galenici, i cui complessi regimi erano molto lontani dallo stile di vita della maggior parte delle persone. Quando stavano male, le persone volevano un'azione con­ creta, non la mera comprensione intellettuale delle cause dei loro malanni.

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I ciarlatani non venivano meno alle aspettative, o perlomeno così sem­ brava. Ma prima di analizzare questo aspetto, dobbiamo chiederci: chi era­ no i ciarlatani e cosa facevano ? Per prima cosa, parevano onnipresenti. Nell' Italia della prima età mo­ derna esercitavano migliaia di ciarlatani!. In città grandi e piccole sali­ vano su palchi improvvisati e mettevano in scena il loro repertorio per attirare il pubblico che comprava le loro mercanzie. Per la maggior parte erano itineranti, andavano di città in città per vendere i loro rimedi4• Il viaggio era un elemento talmente centrale dell' identità del ciarlatano che la mancanza di radici divenne parte dello stereotipo di questa figura, e anche motivo di insulto. Anche Leonardo Fioravanti subì attacchi del genere. Quando i medici veneziani lo condannarono nel 1s68, le accuse erano di mettere in pericolo la salute della gente con le sue cure non ortodosse, e di essere un vagabondo. I ciarlatani, tuttavia, si differenziavano dai semplici venditori ambu­ lanti per le loro innovative strategie di marketing, molte delle quali antici­ parono quelle della moderna industria farmaceutica. Usavano nomi com­ merciali per i loro rimedi, adottavano soprannomi e maschere sceniche, stampavano foglietti per promuovere i loro prodotti e mettevano in scena rappresentazioni comiche per attirare i compratori. I ciarlatani sfruttava­ no le mode del momento e ne inventavano di loro. Il proliferare di balsami artificiali, per esempio, dette il via a un'ondata di nuovi balsami. I nomi commerciali imposti dai ciarlatani ai loro balsami evocavano il sacro (Bal­ samo angelico), il biblico (Balsamo samaritano ), il mistico (Balsamo arca­ no), il filosofico (Balsamo philosofico ), il mondo naturale (Balsamo solare), le mode alchemiche (Balsamo quintessenziale) , luoghi remoti ed esotici (Balsamo del Peru ), o promettevano la guarigione universale (Balsamo universale) 1• I ciarlatani adottavano anche i nomi d'arte: "Il Fortunato", "Scam­ pamorte", "Lingua d'Oro", "Il Mangiabissi" e, per le sue presunte origini in una remota parte del mondo, "Il Turchetto". Il nome era parte della creazione di una maschera teatrale. Le rappresentazioni non erano sem­ plici trovate pubblicitarie: erano una parte importante dell'identità del ciarlatano e un elemento fondamentale della sua strategia promozionale. Secondo il viaggiatore inglese Thomas Coryat, i ciarlatani riuscivano ad attirare attorno al loro improvvisato palcoscenico un migliaio di spettato­ ri6. Recitavano i ruoli tradizionali del teatro comico di strada e i loro nomi d'arte rispecchiavano i personaggi che impersonavano nelle piazze: Zanni,

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I maravigliosi et occulti secreti naturali, una piccola raccolta di segreti a opera di Bene­ detto il Persiano, era uno dei tanti opuscoli venduti dai ciarlatani, che promettevano la guarigione da disturbi comuni come il sangue dal naso. Gli opuscoli trattavano anche di passatempi da salotto come l' inchiostro invisibile.

lo sciocco; il dottor Graziano, il borioso capitano spagnolo; Pantalone, il vecchio avaro e lussurioso, e così via. I ciarlatani furono tra i primi mercanti a capitalizzare i crescenti tassi di alfabetizzazione e a sfruttare il nuovo mezzo della stampa per promuovere le proprie mercanzie7• Opuscoli e foglietti che pubblicizzavano i loro pro­ dotti portavano il messaggio dei ciarlatani ben oltre le piazze: nelle case, nelle botteghe, nelle caverne. Stampando i loro opuscoli, spesso dissemi­ nati di parole latine e frasi ampollose, i ciarlatani cercavano di agganciarsi alla medicina ufficiale e di impressionare il pubblico pagante. Al tempo stesso però, i ciarlatani prendevano le distanze dal mondo del sapere reazionario enfatizzando la loro grande esperienza e gli innumerevoli viaggi in terre lontane. n sottotesto, neanche tanto nascosto, degli opuscoli era che non ci si poteva consegnare nelle mani di un medico, la cui cultura libresca non valeva nulla se non era corroborata dall'esperienza. Un intero mondo di rimedi era invece disponibile per chiunque avesse voluto rimettersi in salute.

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Questo dipinto di Bernardino Mei del 1656 raffigura un anziano e barbuto ciarlatano se­ duto sul suo palco improvvisato. L' immagine del ciarlatano come losco truffatore stava cominciando a prendere forma tra il pubblico.

Caveat emptor Ma le cure dei ciarlatani funzionavano ? In termini rigorosamente medici, in buona parte non erano efficaci - ma lo stesso potrebbe dirsi dei rimedi usati dai medici. Nonostante i loro stravaganti nomi commerciali, quasi tutti gli ingredienti dei rimedi dei ciarlatani rientravano nella farmacopea ufficiale. Pur mettendo in ridicolo i medici, i ciarlatani non proponevano un sistema alternativo8• Se i loro toccasana funzionavano o no dipendeva dalle aspettative e dalle percezioni delle persone. Un purgante che serve allo scopo ovviamente funziona, anche se può non curare la malattia all'o­ rigine del disturbo. A volte i rimedi dei ciarlatani producevano eclatanti mutamenti fisici: almeno facevano qualcosa, in confronto ai rimedi dei medici che funzionavano lentamente o parevano non avere alcun effetto. Il fatto che le medicine dei ciarlatani andassero a ruba vuoi dire che erano ritenute efficaci. Forse agivano a livello simbolico, esattamente

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come i placebo "funzionano" in situazioni particolari9• O forse si pensa­ va che i ritrovati dei ciarlatani funzionassero perché determinavano mu­ tamenti fisiologici (come il vomito o il temporaneo sollievo da un fasti­ dioso prurito cutaneo) che convincevano chi li usava della loro efficacia. Né va trascurato il grande carisma del ciarlatano. Nella medicina mo­ derna, l'abbigliamento del medico (camice bianco e stetoscopio attorno al collo), il modo di fare (espressione seria o ottimista), e il linguaggio (terminologia medica) sono molto importanti per l'esito dell ' incontro terapeutico10• Perché questo non avrebbe dovuto essere vero per i rimedi del ciarlatano ? Il carisma del ciarlatano è colto in modo molto realistico in un dipinto dell'artista senese Bernardino Mei. Intitolato semplicemente Il ciarlatano, il quadro descrive un anziano e barbuto ciarlatano seduto su un palco di legno, circondato da una sbalordita folla di spettatori. La scena ha luogo nella piazza del Campo a Siena. La visione dal basso accentua la figura imponente del ciarlatano e il cielo tenebroso e carico di presagi acuisce la drammaticità della scena. Sulle assi del palco c'è un assortimento di bot­ tiglie e fiale di vetro contenenti i suoi rimedi. Accanto al bastone del gua­ ritore, un foglietto con la scritta «L'olio de ' filosofi di Straccione » iden­ tifica il ciarlatano e il suo rimedio. Sul dorso della mano chiusa a pugno, protesa verso la folla, Straccione tiene in equilibrio una fiala del suo mira­ coloso elisir. Lo sguardo penetrante e il gesto autorevole incutono paura e meraviglia nella folla sottostante, che ascolta rapita il ciarlatano elencare le poderose proprietà della pozione contenuta nella fialetta. I ciarlatani sono stati molto maltrattati dagli storici della medicina. La parola stessa evoca faciloneria e impostura. Benché il termine abbia ini­ ziato ad assumere questo significato fin dal Cinquecento, la definizione giuridica della parola ciarlatano era del tutto diversa e non implicava ne­ cessariamente il concetto di impostura. I ciarlatani avevano una licenza per vendere i loro prodotti nelle città in cui allestivano la loro bottega (o meglio il loro palco). Erano operatori sanitari in piena regola e le autorità locali avevano un bel da fare a disciplinarli. Questi imbonitori non vendevano solo rimedi: commerciavano anche curiosità naturali e artificiali. Il ciarlatano Gulielmo Germerio invitava il pubblico nella sua casa veneziana per mostrare una collezione di « dieci mostri stupefacenti, meravigliosi a vedersi, tra i quali vi sono sette animali appena nati, sei vivi e uno morto, e tre bambine neonate imbalsamate » . La collezione di curiosità del famoso ciarlatano veneziano Leone Tarta-

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glini era una delle più grandi della città". Tra gli articoli venduti c'erano vari draghi e basilischi che egli fabbricava fondendo abilmente insieme le membra mummificate di razze e chetodonti. La curiosità può essere peri­ colosa: caveat emptor ('stia attento il compratore').

Una malattia chiamata curiosità

Nel IV secolo, Sant'Agostino affermò la tradizionale concezione medieva­ le della curiosità, ed era tutt'altro che positiva. Nelle Confessioni, l'avidità di sapere fu oggetto di una feroce polemica da parte del vescovo di Ip­ pona, che dette così un' impronta al dibattito sulla curiosità intellettuale. Nel suo catalogo dei vizi, Agostino includeva la curiositas, identificandola come una delle tre forme di concupiscentia che sono all'origine di tutti i peccati (concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e ambizione del mondo). La mente troppo curiosa mette in luce una « bramosia di spe­ rimentare e conoscere » non per un fine pratico ma per il solo piacere di conoscere. È per la «perversione della curiosità » che la gente va a vedere i fenomeni nei circhi, o i ciarlatani nelle piazze. Agostino non ravvisava alcuna sostanziale differenza tra questi perversi spettacoli e «la curiosità vana, ammantata del nome di cognizione e di scienza » . Non c'è differenza tra il guardare a bocca aperta un fenomeno da ba­ raccone e indagare la filosofia naturale ? « Da questa perversione della curiosità » scriveva Agostino «derivano le esibizioni di ogni stravaganza negli spettacoli, le sortite per esplorare le opere della natura fuori di noi, la cui conoscenza è per nulla utile, e in cui gli uomini cercano null'altro che il conoscere » 11• Il severo giudizio di Agostino sulla curiosità intel­ lettuale, collegato al peccato d'orgoglio, alla magia nera e alla Caduta, influenzò profondamente il pensiero medievale. Nel Rinascimento esso diede vita a personaggi memorabili come il dottor Faust, che vendette l'anima al diavolo per soddisfare la sua insaziabile curiosità e la sua sete di potere. La curiosità era il primum mobile della scienza rinascimentale. La cu­ riosità della nascente epoca moderna era insaziabile, mai soddisfatta da una sola scoperta o da un unico oggetto. La stessa passione per la sor­ presa e la novità che guidava il mercato del lusso, animava lo sfrenato sperimentalismo rinascimentale, come i bizzarri esperimenti di Fiora­ vanti e i suoi temerari interventi chirurgici. Mentre Agostino collegava

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la curiosità alla lussuria dei sensi e alla depravazione umana, per i filosofi naturali rinascimentali essa era animata dalla meraviglia, ed era il motore della scoperta. Venezia era un terreno fertile sia per la "generazione della meraviglia" sia per la crescita della scienza sperimentale. Qui Galileo realizzò il suo primo telescopio, migliorando un congegno primitivo inventato da un molatore di lenti olandese. Gli artigiani delle Mercerie erano rinomati per la loro precisione e l'arsenale della città - un immenso cantiere navale comprendeva quasi tutte le arti meccaniche, dalla falegnameria all'arte vetraria, alla metallurgia, alla fabbricaz\one delle armi. Galileo si affidava agli artigiani e li ingaggiava per costruire i suoi strumenti scientifici. Le domande che gli artigiani facevano sulla natura lo ispiravano a penetrarne ancora di più i segreti. L' impero marittimo di Venezia e la sua opulenta tradizione artigiana alimentavano copiosamen­ te la meraviglia e la curiosità. Il continuo contatto con merci esotiche, erbe del Nuovo Mondo, giocattoli meccanici dalla Persia o finti draghi e basilischi, alimentava la curiosità rinascimentale. L'ammonizione di san Paolo, nel I secolo d.C., «Noli alta sapere » cedette il passo nel Rinasci­ mento al più incoraggiante «Sapere aude » di Orazio'3• La trasforma­ zione del concetto di curiosità nell'età rinascimentale fu un presupposto della modernità. La farmacia dell'Orso, dove venivano fabbricate e vendute le medicine di Fioravanti, è ritratta in un dipinto di Canaletto, Campo Santa Maria Formosa, e ancora oggi si trova nello stesso edificio cinquecentesco. Gli attuali proprietari sostengono che il nome derivi dai brutali combattimen­ ti di cani e orsi che si tenevano anticamente nella piazza e che erano uno degli svaghi preferiti della cultura popolare della prima età moderna. Si tratta di un'etimologia pittoresca, anche se improbabile. I nomi del­ le farmacie rinascimentali erano una sorta di serraglio dell'esotico: Feni­ ce, Saraceno, Aquila d'oro, Due sirene. Da dove le farmacie prendessero i nomi resta un mistero. Oggi nelle farmacie veneziane non c'è nulla di così stupefacente. Di certo non vedrete un coccodrillo appeso al soffitto, come nella farmacia dell'Orso ai tempi di Sabbà di Franceschi. Al posto di armadilli e pietre dai poteri miracolosi, nelle vetrine ci sono poster patinati che propon­ gono gli ultimi ritrovati farmaceutici che possono essere di qualche inte­ resse per i turisti: rimedi per le vesciche dei piedi e pillole antistress. Le farmacie veneziane non possono poi fare a meno di strizzare l'occhio alla

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richiesta di "autenticità" storica che proviene dall'industria turistica, ed ecco gli "antichi" vasi di maiolica allineati ordinatamente sugli scaffali, tra i quali spicca l'etichetta "Teriaca": fedeli riproduzioni commissiona­ te dalle industrie farmaceutiche. La trasformazione della farmacia è stata una delle conseguenze dell'addomesticamento dell'esotico nella medici­ na moderna. Come un ciarlatano, Fioravanti speculò sulla fame rinascimentale di «maraviglie», ma si distinse dai comuni ciarlatani guadagnandosi il pal­ coscenico più importante: il libro stampato. Anziché salire sul palco del ciarlatano, Leonardo divenne uno scrittore popolare, autore di libri di suc­ cesso che esaltavano le prodezze di un medico fuori del comune.

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Uno scrittore immortale

Quando nel 1 5 5 9 il poeta Dionigi Atanagi arrivò a Venezia, a pochi mesi di distanza da Leonardo, una delle prime persone cui andò a far visita fu il suo amico Girolamo Ruscelli. Atanagi conosceva Ruscelli almeno dal 1541, quando quest 'ultimo - aspirante scrittore e segretario di un prelato romano - aveva contribuito alla fondazione dell'Accademia dello Sdegno, una società letteraria cui avevano aderito i più insignì letterati romani. Tra i membri del gruppo c'era Atanagi, all'epoca scrittore principiante. Nato nel 1 5 0 4 da una famiglia povera originaria di Cagli, paese dell'Appennino marchigiano, Atanagi si trasferì a Roma nella speranza di guadagnarsi un posto a corte sfruttando il proprio talento letterario'. Restò però amara­ mente deluso. Incapace di trovarsi un mecenate, cadde in povertà e perse la salute ; successivamente trovò impiego come segretario presso il prela­ to Giovanni Guidiccioni. Abile poeta, noto soprattutto per i sonetti sui dolori e le miserie dell' Italia, Guidiccioni introdusse il suo protetto nella comunità letteraria romana. Nonostante questi appoggi, Atanagi visse a Roma per venticinque anni e riuscì a pubblicare soltanto due libri. La sua carriera letteraria stentava a decollare. Anche Ruscelli, che aveva più o meno la stessa età, stava cercando di farsi un nome nel mondo delle lettere. Dopo aver cambiato vari mecenati e scritto componimenti per vari principi e prelati, si stabilì nel 1 5 49 a Ve­ nezia, dove la fortuna finalmente gli arrise: andò a lavorare come redattore nella casa editrice Valgrisi, la più grande stamperia di Venezia. Nel 1 5 5 2. Valgrisi pubblicò il Decamerone di Boccaccio nell'edizione di Ruscelli. Qualche mese dopo, la stamperia Giolito pubblicò la stessa opera con l'e­ dizione di Ludovico Dolce, il quale colse l'occasione per farsi beffe delle fatiche di Ruscelli. Ruscelli rispose con una feroce critica alla traduzione di Ovidio fatta da Dolce, facendo scoppiare un celebre duello letterario1• Nel

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bel mezzo della disputa, Dolce scrisse un'invettiva giocando sulla fama di appassionato di alchimia e magia del suo rivale: È noto non pure a tutta questa città, ma a tutta Roma e a tutta Napoli: che 'l Ru­ scelli è un gaglioffo, barro, truffatore, ignorante e ripieno di vitij, che un solo basta a far tener un huomo tristissimo: in modo che, non gli essendo riuscita punto l'al­ chimia; la pedantesca profession d' insegnar tutte le dottrine a qualunque asino; la bravura di voler tradur le Vite di Plutarco dalla lingua greca, della quale non ne è più dotto d'una gazza; la Bibia, dalla hebrea, di cui similmente ne sa quanto il mio cane; e dopo mille ricette ridicole da ciarlatano, delle quali non ho tempo di scri­ verne a V. S. alcuna, finalmente, s'è ridotto all'arte del ruffianesco, et ha empiuta la casa dove egli habita di diverse cortigiane di bella mano, accattando per questa via agramente il pane che non sono atte a fargli havere le sue virtù3•

Il duello con uno dei più celebrati scrittori di Venezia portò alla ribalta Ruscelli. Il circolo letterario da lui fondato, il cui nucleo era l'Accademia dei Dubbiosi, annoverava molti dei più insignì scrittori di Venezia. La vi­ cinanza all'industria della stampa veneziana consentì a Ruscelli di pubbli­ cat:e una serie di opere di successo nel campo della storia, della geografia e delle lettere. Incoraggiato dal successo dell 'amico, Atanagi si trasferì a Venezia in cerca di fortuna come scrittore indipendente. Situata quasi a metà strada tra Madrid e lstanbul, Venezia non era soltan­ to un grande centro mercantile ma anche un importante centro di comuni­ cazione e di informazioni4• Le notizie che giungevano a Venezia da parti re­ mote del mondo si diffondevano rapidamente attraverso bollettini stampati, manifesti, lettere e chiacchiere. La cultura politica di una città di dimensioni così ridotte era animata dalle lingue che diffondevano le notizie di piazza in piazza. Se ci si lasciava sfuggire un pettegolezzo locale, bastava una visita al Gobbo di Rialto, una statua sulla quale venivano affissi cartelli politici e commenti scandalosi di anonimi, per avere subito le ultime notizie1•

Una Mecca per i manoscritti

Fu tuttavia grazie ad altre forme di comunicazione, soprattutto alla stam­ pa, che Venezia divenne famosa al principio dell'età moderna. Nel Cinque­ cento la città pubblicava più libri di qualsiasi altra città europea6• Anche quando cominciò a perdere il primato rispetto ad altri centri di stampa, come Parigi, superava di gran lunga la produzione libraria di tutte le altre

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città italiane messe insieme. Nel XVI secolo circa soo stampatori produs­ sero complessivamente dai r s.ooo ai I 7.ooo titoli - più di r s o all'anno, e forse qualcosa come r 8 milioni di copie. Questa stupefacente produzione faceva di Venezia la mecca degli scrittori che affluivano in massa per lavo­ rare nelle stamperie e far esaminare i loro manoscritti, sperando di pubbli­ care le proprie opere - soprattutto l'opera che avrebbe portato loro fama e ricchezze o che avrebbe fatto loro guadagnare il favore di un principe. I poligraji, o artigiani della penna, vendevano parole come un mercante vende i tessuti, un tanto al metro7• In pochi diventavano ricchi ma capitava che qualcuno diventasse famoso. Il fenomenale successo di Pietro Aretino, che da misero provinciale era diventato uno scrittore popolarissimo, inco­ raggiò altri scrittori a recarsi a Venezia per cimentarsi nella scrittura di rac­ conti, poesie, lettere e parodie, cioè il fior fiore della letteratura popolare. Quasi tutti i poligrafi lavoravano per salari minimi come redattori e corret­ tori di bozze, condizione che permetteva loro di avvicinare uno stampatore, requisito indispensabile per pubblicare le proprie opere. Sfruttato dall' in­ dustria della stampa, lo scrittore professionista viveva agli ordini dello stam­ patore, senza il quale la sua professione non sarebbe mai esistita. La vita del poligrafo non era eccezionale: ore e ore di duro lavoro alla luce fioca della candela, curando un manoscritto, leggendo bozze impagi­ nate, componendo versi banali e così via. La professione poteva poi essere sorprendentemente pericolosa: le contese letterarie erano un modo eccel­ lente per accrescere le vendite di un libro ma di tanto in tanto si facevano violente. Proprio quando la sua carriera letteraria stava per decollare, Ata­ nagi rimase coinvolto in una faida che gli costò quasi la vita. L'episodio merita di essere analizzato perché, oltre a dare un' idea del lato più sordido della cultura della stampa nell'epoca rinascimentale, aprì alcune porte a Leonardo Fioravanti. La sventura di Atanagi fece la fortuna di Leonardo. Nel 1562. uno studente dell'università di Padova chiamato Mercurio Concorreggio avvicinò Atanagi tramite un comune amico. Lo studente ave­ va tradotto un'opera sulle vite dei romani famosi scritta (così credeva Con­ correggio) da Gaio Plinio Cecilia Secondo, detto Plinio il Giovane. Concor­ reggio chiese ad Atanagi di correggere le bozze del suo manoscritto che stava per andare in stampa. Si può immaginare l'aspettativa del giovane studente: per il suo primo libro aveva faticato ore traducendo il testo e accertandone la paternità - sbagliando, come poi sarebbe emerso (il testo, De viris illustribus urbis Romae, era opera di uno scrittore del IV secolo, Sesto Aurelio Vittore). Era il tipo di pubblicazione che lo avrebbe imposto come umanista e, forse,

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gli avrebbe fatto ottenere una cattedra di docente universitario. Atanagi, an­ sioso di lavorare e di farsi una reputazione, acconsentì a curare l'edizione del manoscritto. Concorreggio ritornò a Padova per riprendere gli studi e attese impaziente la pubblicazione del suo manoscritto. Il libro uscì dieci mesi dopo. L'esito non fu quello che Concorreggio si aspettava8• Anziché pubblicare l'opera con il nome di Concorreggio, Ata­ nagi la pubblicò a nome suo. Nella premessa, Atanagi ammetteva che una bozza dell'opera gli era stata portata da "un giovane studioso" - il cui nome Atanagi evitava di menzionare "per rispetto" - affermava però di aver fatto gran parte del lavoro. Non solo aveva migliorato la prosa adornandola con i dovuti abbellimenti, ma aveva anche aggiunto nuove biografie e perfezio­ nato il testo inserendo un glossario e un apparato esplicativo. Furente per il plagio di Atanagi, Concorreggio reagì con una irata in­ vettiva, accusando il poeta di aver rubato la sua opera e di averla alterata senza il suo consenso9• Ma Concorreggio non si fermò a questo. Il furibondo studente assoldò un sicario per prendersi la rivincita sullo scrittore. Armato di un pistoiese - uri corto pugnale che poteva facilmente essere nascosto tra le vesti - il sicario tese un agguato ad Atanagi e lo accoltellò ripetutamente alla testa e al collo. Tale fu la violenza dell'aggressione che uno dei fendenti penetrò nel cranio. Il chirurgo intervenuto reputò il caso senza speranza. A questo punto fu chiamato in causa Fioravanti, il quale giunse al ca­ pezzale di Atanagi, ormai prossimo alla morte. Il chirurgo bolognese curò la ferita con il balsamo, il magno liquore e la quintessenza e salvò la vita all'uomo (la testimonianza di Atanagi conferma il racconto di Leonardo). Dopo la sua guarigione, Atanagi definì Fioravanti « uno angelo di Para­ diso, mandato da Dio in terra per salute et conservazione de la vita de gli huomini» 10• In seguito a questo episodio e anche per il fervido commento di Atanagi, Fioravanti divenne l'uomo del momento tra i letterati venezia­ ni. « Faceva miracoli al mondo con tai suoi rimedii» ebbe a dire Ruscelli''.

La vita tra i poligrafì

Salvando la vita ad Atanagi, Leonardo si guadagnò l' ingresso nella comu­ nità dei poligrafi. Lui e i suoi compagni gravitavano intorno alle case edi­ trici, vero cuore pulsante della nuova cultura della stampa. La casa editrice

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non era soltanto il luogo in cui venivano prodotti i libri - era anche uno snodo sociale e culturale in cui i membri dell'emergente repubblica delle lettere si riunivano per discutere questioni letterarie e filosofiche. Il primo stampatore di Fioravanti, Lodovico Avanzo, era il tipico pic­ colo editore, specializzato nella divulgazione della letteratura scientifica. Nella sua bottega all'insegna dell'Albero, alle Mercerie, si potevano acqui­ stare traduzioni di opere latine, come Della magia naturale di della Porta e Degli occulti miracoli et varii ammaestramenti delle cose della natura di Levinio Lennio, ma anche le opere d eli' anatomista Gabriele Falloppio e del botanico Piero Mattioli. Il catalogo delle opere disponibili era perfet­ tamente in linea con lo stile brioso della prosa di Fioravanti e con il suo innovativo approccio verso la medicina'". Il primo libro di Leonardo, Capricci medicinali, fu pubblicato nel i S 6IIl. Come suggerisce il titolo, il suo intento era quello di lanciare, in un mercato che veniva alimentato dalle mode, la nuova moda della medicina - un « nuo­ vo modo di medicare », per dirla con Leonardo. Nella prefazione scriveva: Accioche i Lettori non si maravigliano del nuovo modo tenuto da me in trattare questa facultà, mi è paruto di doverli avvertire che io non ho seguito in ciò lo stile di Hippocrate, ne di Galeno, ne d'Avicenna, ne di altri antichi o moderni auttori: ma solamente il mio proprio giudicio, et la esperienza, che si suoi dire esser madre di tutte le cose: in modo tale che in questo volume mai si trovarà cosa o ragione alcuna, che non sia approbata dalla esperienza, ne sperienza che non sia accompa­ gnata dalla ragione'4•

I suoi nuovi, esotici "capricci" erano mirati a divertire i lettori e compren­ devano ogni sorta di reconditi segreti: rimedi miracolosi, ricette per fare l'oro potabile, formule cosmetiche e un segreto per prolungare la vita. Sfruttando la fascinazione della borghesia per i "segreti", Leonardo fece dell'alchimia - in particolare della distillazione - l'elemento chiave del nuovo modo di medicare. Dedicò un intero paragrafo dei Capricci me­ dicinali all'arte dell'alchimia - «la più grande, et la più nobile che mai i filosofi potessero ritrovare ». Ponendosi in netto contrasto con i medici ufficiali, Fioravanti sosteneva che i dottori dovevano essere in grado di fab­ bricare i propri medicinali, e non !asciarli fare ai farmacisti. Per pubblicizzare i suoi rimedi di nuova invenzione (che i lettori erano invitati ad acquistare alla farmacia dell'Orso) Leonardo dette loro nomi ac­ cattivanti come Elettuario angelico, Sciroppo magistrale, Oleo benedetto e

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Dia aromatico, la «dea fragrante» da lui prescritta praticamente per ogni disturbo. I farmaci distillati, fatti di miscugli di erbe o di sostanze minerali, erano di gran moda e Fioravanti sosteneva di essere un maestro nell'arte della distillazione. L'alchimia era il fondamento del nuovo modo di medi­ care - un modo del tutto sconosciuto ai dottori. «Tutti quelli a chi piacerà caminare per le nostre pedate, seguendo la nostra dottrina, & usando que­ sto nostro stile, faranno miracoli al mondo» prometteva sicuro di sé'1• La posizione antiautoritaria presa da Fioravanti nei Capricci medicinali incontrava i gusti dei lettori che si facevano sempre più diffidenti nei con­ fronti della medicina ufficiale. Leonardo si presentava come un uomo del popolo che denunciava le imposture perpetrate dalle classi colte. Assicura­ va i lettori che chiunque si fosse preso la briga di imparare, avrebbe potuto trovare la verità da solo. Per rendere più facile la lettura del libro, evitava lo stile "elegante" di certi scrittori, scrivendo con un « terso stile » , più adatto a un pubblico incolto. Il libro ebbe un successo fenomenale. Fu ristampato quattro volte da Avanzo e poi da altri stampatori per un totale di 1 5 edizioni. Tradotto in tedesco, francese e inglese, Capricci medicinali diffuse il nome di Leonardo Fioravanti in tutta Europa, facendo di lui il più eminente «professore di segreti» dell'epoca. La sua carriera letteraria era decollata. Il successo del libro attirò l'attenzione di altri stampatori, e tra questi Vincenzo Valgrisi, uno dei più importanti di Venezia, il quale assoldò il novello scrittore per un nuovo manuale di medicina. Pubblicato nel 1564, Compendio de i secreti rationali ebbe quasi lo stesso consenso dei Capric­ ci medicinali. Spronato dal successo, Leonardo ampliò i propri orizzonti. Non gli bastava più la fama di semplice autore di manuali, voleva essere considerato uno scrittore immortale.

Uno specchio di cultura italiana

Nel 1 5 6 4 Valgrisi pubblicò il progetto più ambizioso di Leonardo, Dello specchio di scientia universale, un ampio trattato sulle arti e le profes­ sioni del tempo. « Questa opera mia, la quale tratta di tutte l'arti, e sue scienze, e parimente di molte scienze, con molti discorsi sopra varie, e diverse materie, con molte nuove inventioni da me trovate » scriveva «spero, che saranno di grandissimo profitto al mondo» '6• Fioravanti

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scriveva per i lettori borghesi - specialmente per gli immigrati sempre più numerosi che, come Leonardo, si stavano adattando alla vita della città lagunare. Lo Specchio forniva informazioni pratiche sulla mutevole compo­ sizione sociale, economica e politica della repubblica. I mestieri erano tutti rappresentati, dall'agricoltura alla metallurgia, dal giardinaggio ali ' architettura, fino all'arte della distillazione, a quella del vetro e alla danza. I giovani aristocratici potevano leggere la breve storia'7 delle "compagnie della calza", le organizzazioni che improntavano la vita so­ ciale e culturale dei nobili fino al raggiungimento dei venticinque anni, quando cominciavano a indossare la nera toga del dovere. Nelle occasio­ ni di festa, questi giovani andavano in giro pavoneggiandosi in costumi teatrali ornati di emblemi elaborati e indossando calze che designavano il club di appartenenza. Fioravanti forniva persino un corso accelerato sul mito di Venezia'8• Che si trattasse di fatti relativi alle professioni o di lezioni sull'arte (come la descrizione delle varie danze eseguite nei teatri) lo Specchio offriva il genere di informazioni che potevano essere utili a una persona ambiziosa, com'era egli stesso quando era giunto a Venezia, del tutto ignaro dei costumi di quella città. Anche un umile ciabattino tedesco o un cerusico pugliese con ben poca speranza di farsi strada nel mondo, leggendo lo Specchio, avrebbero potuto aprire gli occhi su profes­ sioni alla portata dei loro figli. Dello specchio di scientia universale era un'opera guidata da zelo re­ ligioso e da un alto scopo morale, come dimostra il modo stesso in cui Leonardo la organizzò: i mestieri erano presentati secondo una gerarchia che andava dall'utile e onesto al superfluo e vano. Leonardo esaltava i mestieri "onesti" come l'agricoltura, il lavoro in miniera, l'arte muraria e la metallurgia ma anche le dotte arti della cartografia e dell'alchimia, mentre condannava l'anatomia (questa era peggiore della macelleria, che almeno era fatta per necessità) e «questa indiavolata arte di ballare » . La madre di tutte le arti era l'agricoltura, «la prima arte che si facesse al mondo doppo la creatione d'Adamo: la quale fu ordinata di bocca d' Id­ dio, quando disse ad Adamo, che con il sudore del volto suo si guadagna­ rebbe il Pane » . Poi venivano la medicina, la chirurgia e le arti militari, tutte fondamentali per la sopravvivenza. Ma con l'avanzare della civiltà, tanti mestieri si erano corrotti. Erano salite alla ribalta professioni inso­ lite e alla moda. Anziché occuparsi delle cose necessarie, gli esseri uma­ ni inventavano arti frivole come la «golosa arte del Cuoco » , che aveva

UNO SCRITTORE IMMORTALE

cagionato tante infermità. Quello che ci fa ammalare non è il cibo che mangiamo per necessità, sosteneva Leonardo, ma quello che mangiamo per desiderio. In qualità di filosofo morale, i suoi severi giudizi risentiva­ no dell'austerità della Controriforma. Nello Specchio della scientia universale, Leonardo trattava quasi ogni argomento di interesse dei suoi curiosi contemporanei: politica, medici­ na, arti, professioni, ordini religiosi, donne, matrimonio e amore - ma­ terie «che faranno di gran profitto alli Lettori » . Fioravanti le affrontava tutte, anche quelle di cui sapeva ben poco. Posava a uomo di mondo, con­ vinto che l'esperienza, non la cultura libresca, fosse il fondamento dell' ar­ te e della scienza. Su gran parte degli argomenti che riguardavano la vita sociale e cultura­ le, le opinioni di Leonardo erano convenzionali, anche se a volte formulate inseguendo complicate traiettorie. In una breve ed elegante dissertazione sull'origine della società civile, Fioravanti osservava che gli esseri umani, come gli animali, rifuggono per natura dalla solitudine e si riuniscono in gruppi. « Ma quello ch'è di maggior maraviglia è, che tutte le generatio­ ni d'animali terrestri, acquatici, et volatili, tutti si fanno Republica » '9• Spesso i loro governi sono ordinatissimi e molto pacifici: basti osservare l'ordine perfetto del volo delle gru e come queste pongano una di loro a guardia del loro sonno. Gli esseri umani, emulando gli animali, crearono le repubbliche e le repubbliche divennero città. Ma ben presto gli uomini si fecero ambiziosi e l'ambizione condusse alla ribellione e al malgoverno. Le repubbliche declinarono in tutta Italia e furono conquistate da principi ambiziosi, tutte eccetto «la felicissima repubblica Venetiana ». Nella sua personale celebrazione del mito di Venezia, Fioravanti considerava il re­ pubblicanesimo la forma naturale di governo, e soltanto a Venezia, di tutti gli Stati italiani, esso sopravviveva ancora. La sua visione delle donne era altrettanto tradizionale: il posto della donna è a casa e il suo scopo quello di generare e crescere i figli. Leonar­ do presenta però l'argomento femminista in una luce sorprendentemen­ te favorevole. Anche se le donne dovevano essere custodi e dispensatrici e gli uomini dovevano comandarle a bacchetta, Fioravanti riteneva che «l'uomo non dovesse haver dominio sopra di lei [ ... ] non è ragionevole, che chi Natura creò libero, alcuna legge lo faccia schiavo» w. Il problema delle donne d'oggi, lamentava Fioravanti, è che sono sedotte dalle mode e dall'amore per il lusso, spesso a detrimento della salute, come quando si sbiancano la pelle con il sublimato corrosivo.

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Consigli utili per arrampicatori sociali

La sua donna ideale era Zenobia, l'antica guerriera regina di Palmira, che «fu di sì eccellente virtù » diceva Boccaccio, da aver «cacciato la morbidez­ za delle femmine»,'. La storia di Zenobia occupa una sezione importante del secondo libro, dove è inserita tra due capitoli, "Del mondo e de' suoi effetti" e "De i vani desiderii di questo mondo". Affascinante, arguta, osten­ tatamente sofisticata e piena di insegnamenti morali, la sezione dava l'oppor­ tunità a Leonardo di mettere in mostra il suo sapere umanistico e una certa familiarità con la letteratura greca e romana. Nonostante la sua traballante erudizione, la raccolta di racconti ed esempi morali del secondo libro di Del­ lo specchio della scientia universale, offriva importanti strumenti di crescita agli arrampicatori sociali che costituivano i lettori di Leonardo. Le convinzioni religiose di Fioravanti, perlomeno stando a quanto ci viene svelato, erano indiscutibilmente ortodosse: era uno strenuo difen­ sore della Controriforma. Anche le sue idee politiche erano convenzio­ nali, benché avesse parole dure per cortigiani servili e principi tirannici ( frecciate di prammatica tra i poligrafi ) . Solo nel campo della medicina e della filosofia naturale Fioravanti era eterodosso e controcorrente come un caparbio, irriducibile eretico. Parte dell'argomentazione era una posa - faceva parte del personaggio - ed era anche un modo per promuovere il nuovo modo di medicare. Fioravanti non era un impostore, ma nel creare il proprio personaggio si appropriò delle identità del ciarlatano, dell'empirico legato all'esperien­ za, del medico sapiente e del guaritore di campagna, riunendole in libri che avevano un forte richiamo. La sua concezione popolare del corpo - il parallelo tra corruzione del corpo e depravazione morale e religiosa, con la minaccia sempre incombente dell'eresia a fare da sfondo - unita al carat­ tere energico dei suoi rimedi, rendevano il suo nuovo modo di medicare estremamente intrigante in un'epoca in cui il mondo si divideva tra catto­ lici ed eretici, cristiani e turchi. Il suo eclettismo era un punto di forza anche perché era comparso in un periodo in cui la gente sentiva di doversi schierare da una parte o dall'altra, e in cui le critiche dei profani alla medicina ufficiale erano ormai all'ordine del giorno. Gli elementi chiave della sua medicina erano vecchi di millenni ma orientati ai lettori del suo tempo. La moda è sempre moderna. Il nuo­ vo modo di medicare di Fioravanti era un'invenzione (o reinvenzione) in linea con la modernità cinquecentesca.

UNO SCRITTORE IMMORTALE

Leonardo aveva una grande capacità di anticipare i gusti dei suoi lettori. Come tutti i suoi libri, Dello specchio della scientia universale apparteneva a un genere di manualistica che potremmo definire di «self-help» l\ una serie di scritti che in epoca tardorinascimentale ebbero un successo clamo­ roso e che andavano dalle guide alla conversazione elegante ai manuali sul sesso. Questi manuali non offrivano soltanto istruzioni pratiche, ma anche esempi su come parlare e comportarsi in pubblico. «Oggi nel mondo del­ le lettere » annotava un osservatore nel Seicento « Vi sono talmente tanti manuali [ .. ] che chiunque può affrontare con disinvoltura qualsiasi circo­ stanza» lJ. Lo Specchio era una nuova e importante opera di questo stesso filone. Molto letta e imitata, divenne un modello d'ispirazione per il più famoso libro delle "professioni" del Rinascimento italiano, il ponderoso Piazza universale di tutte le profissioni del mondo di Tommaso Garzonil4• .

«Un nuovo modo di scrivere»

I libri.rinascimentali recavano quasi sempre una serie di dediche che face­ vano parte della cultura dell'adulazione in voga a quell'epoca. In una delle numerosissime lettere dedicatorie de I capricci medicinali di Fioravanti, Dionigi Atanagi, con una calzante invenzione letteraria, immaginava di restare a casa a leggere Fioravanti anziché uscire a festeggiare il Carnevale: Questo Carnevale, Osservandiss. Signor mio, quando gli altri sono andati a veder le maschere i balli, et altre feste, che in simili giorni si soglion fare: io me ne sono stato in casa co' Capricci Medicinali in mano: i quali ho letti attentamente, e con maturo giudicio considerati tutti, certo con mia grandissima satisfattione: sì per essere opera di V. Eccellenza, la quale io meritamente tanto amo, et osservo; sì, et molto più, per le tante belle, et utili materie, che in essi si trattano : et per lo nuovo, presto, et sicuro modo, che v ' insegna, di medicare così in fisica, come in cirugial1•

Atanagi proseguiva poi per un pezzo sulla stessa linea, arrivando a defi­ nire il libro di Fioravanti « una gioia pretiosa » che abbracciava in poche pagine « tutto quello, che ne gli immensi volumi di Galeno, d'Avicenna, et de gli altri satrapi della medicina, appena si ritruova » . Soprattutto, Atanagi lodava lo stile semplice della scrittura, che il chirurgo aveva ac­ quisito «con tanta facilità, et simplicità di parole, senza andar dietro at lisci, et alle tarsie dell'arte retorica; attendendo solamente alla sustanza

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della cosa, et alla pura espressione de ' suoi concetti, perche sieno intesi dalla gente volgare» . In effetti, Fioravanti dichiarava di aver inventato « un nuovo modo di scrivere, quasi estratto da tutti gli altri scrittori » , così come aveva scoperto un nuovo modo di medicare che differiva dai metodi dei medici comuni: Et perche in pescaria si vendono diverse sorti di pesci; cioè di quelli, che sono carissimi. Et questi sono per quelli, che hanno buone borse. Se ne vendono de i mezzani, et questi sono per chi non può spender tanto. Ve ne sono ancor da bo­ nissimo mercato, et questi sono per quei poveri, che desiderano di spender poco. Si che tutti mangiano pesci, ogn'uno secondo il grado suo. E così anco bisogna che vi sia più sorti di scrittori, che ve ne sia per gli spiriti letterati, et grandi, et per quelli, che sono mezzani: et similmente per quelli che non intendono che più che tanto: et a questo modo vi sarà cibo per tutti. Si che Lettori miei prestantissimi, se questa opera mia non sarà per quegli spiriti elevati, e di dottrina, nè manco per quelli di mediocre qualità, almeno sarà per quelli, che intendono poco: et così, ogn'uno haverà il cibo suo'6•

Libri leggeri, di facile lettura, istruttivi e utili: queste erano le caratteristi­ che apprezzate da Fioravanti. Il suo trasferimento a Venezia, città guidata dal mercato, fu molto fortu­ nato. La città del leone di San Marco offriva esattamente il genere di ambien­ te capace di mettere in luce la spavalderia e la capacità propagandistica, carat­ teristiche della vita professionale di Fioravanti. Questi divenne sempre più critico nei confronti della medicina ortodossa, sostenendo che la disciplina doveva molto di più all'incolta esperienza che non alla scienza, per la gioia della cultura popolare veneziana. «Li medici studiaranno una bellissima te­ orica » strombazzava, indossando la maschera di Bertoldo, «trovaranno le cause delle infermità, trovaranno li rimedi da curarle e poi quando saranno sopra un qualche caso difficile, non si saperanno risolvere in curarlo» '7• Il suo pubblico, nell"'accademia" come nella casa di San Luca, era incantato e attendeva impaziente il momento clou. «E poi verrà una vecchierella prat­ tica, la quale con la regola di vivere e con un serviziale li farà cessar la febre, con una unzione li farà mancare il dolore e con qualche fomentazione lo farà dormire. E in tal causa la vecchierella saperà più del medico». Celebrare i rimedi empirici, esaltare l'esperienza popolare e mettere in ridicolo i medici dotti erano esattamente il genere di strategie che rende­ vano i libri di Fioravanti - e quelli dei suoi amici poligrafi - tanto ricercati dai nuovi veneziani del XVI secolo, affamati di novità.

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A Venezia, il mondo sommerso della scienza

L'ambiente di Leonardo a Venezia era tanto letterario quanto scienti­ fico. I suoi compagni, tra i quali vi erano farmacisti, chirurghi, distil­ latori, alchimisti e artigiani, costituivano una banda di sperimentatori che seguivano il cammino aperto da Alessio Piemontese, il leggendario professore di segreti. Nella sua cerchia vi erano anche alchimisti come Jacomo Torellis, che era emigrato a Venezia dalla Puglia, famosa per la produzione dell'acquavite. Abilissimo distillatore, Torellis lavorava alla farmacia dell 'Orso di Sabbà di Franceschi ed era, secondo Fioravanti, uno dei maggiori esperti di quell'arte'. Leonardo conosceva alchimisti come Decio Bellobuono, che aveva una distilleria a Campo dei Frari e . Giovandomenico di Fabii «huomo di grandissima dottrina, et Sapien­ za nell'arte Filosofi c a, et destilatoria » ' che aveva inventato un'acqua distillata per nutrire un albero le cui foglie, se mangiate ogni giorno, riportavano salute e vigore. Leonardo conosceva vasai, fabbricanti di strumenti, molatori di lenti, farmacisti e vetrai; uomini come Gui­ do Trasuntino, fabbricante di organi e abile alchimista, che possedeva un segreto raro per sbiancare l'argento, o il vetraio di Murano Nicolo dali 'Aquila, che fabbricava apparecchi per la distillazione destinati agli alchimisti veneziani. Questi uomini - perlopiù operai e artigiani - avevano una profon­ da conoscenza dei materiali perché li lavoravano e sperimentavano ogni giorno. Si diceva che Jacomo Torellis conoscesse le proprietà di oltre duemila sostanze vegetali, minerali e animaW. Una mole così imponente di saperi poteva essere raggiunta soltanto con una minuziosa osserva­ zione empirica. Appassionatamente dediti agli esperimenti, Leonardo e i suoi compagni appartenevano al mondo sotterraneo della scienza. In un modo o nell'altro, erano tutti professori di segreti, come Alessio Piemontese.

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Alessio si toglie la maschera

Si scoprì poi che il vero Alessio era sempre stato tra loro. In un'opera pub­ blicata postuma nel 1 567, Girolamo Ruscelli rivelò di essere l'autore della famosa raccolta di arcani di Alessio, De' secreti del reverendo donno Alessio Piemontese. In Secreti nuovi, Ruscelli svelava che gli oltre millecinquecento segreti rivelati in quei due volumi erano stati provati nell'Accademia Se­ greta da lui fondata a Napoli negli anni quaranta. L'elaborata prefazione a De' secreti del reverendo donno Alessio Piemontese ritraeva Alessio come un instancabile, ascetico cercatore di segreti, ma non era che un' invenzio­ ne, una specie di burla ai danni dell'establishment dei sapienti. I poligrafi inventavano continuamente scherzi del genere tra di loro, in una sorta di gara per la supremazia letteraria. Girolamo Ruscelli era uno dei migliori amici di Leonardo, il quale pro­ babilmente era a conoscenza del suo scherzo. Si incontravano spesso per fare esperimenti a casa dell'uno o dell'altro o alla farmacia dell'Orso. Di­ stillavano acque medicinali, facevano cosmetici e sperimentavano esplo­ sivi. Meditavano progetti di fortezze ed escogitavano invenzioni militari. Ruscelli descrisse le invenzioni militari di Leonardo nel suo Precetti della militia moderna, pubblicato nel 1568. Girolamo rivelava che il chi­ rurgo gli aveva mostrato una volta un ingegnoso giubbotto di salvataggio da lui inventato ; era fatto di cuoio e cucito a forma di palloncino, e una volta riempito d'aria e fissato al petto, manteneva a galla chi lo indossava. In un'altra occasione Leonardo aveva mostrato a Ruscelli uno strumento munito di tanti piccoli archibugi, che se tirato a bordo di una nave, provo­ cava «tanta ruina, che è cosa da far stupire » 4• Girolamo era un amico prezioso. Scrittore ben introdotto, la cui rete sociale comprendeva i più grandi scrittori di Venezia (e molti dei suoi arti­ sti, editori e uomini di affari), era uno strenuo difensore del «nuovo modo di medicare » e un entusiasta promotore dei libri di Fioravanti. Benché avesse dei nemici - soprattutto tra i medici ufficiali - Leonardo a Venezia aveva anche molti amici. Nel suo giro di conoscenze prevaleva un senso di energia positiva. Che si radunassero per conversare nelle stanze di Leonardo a San Luca o per fare esperimenti nell' "accademia", Leonardo e i suoi amici si divertivano a sperimentare e a dibattere argomenti come le virtù della teriaca, la causa del mal francese, la natura delle qualità occulte e le notizie sulle scoperte fatte in America. Tuttavia dietro questa gioiosa facciata c 'era un intento molto serio: essi credevano davvero di ricercare

A VENEZIA, IL MONDO SOMMERSO DELLA SCIENZA

gli ignoti arcani della natura ed erano convinti di essere sul punto di sco­ prire segreti di vitale importanza per l'umanità. La Venezia cinquecentesca era una città di piccole dimensioni; la si po­ teva attraversare a piedi in una manciata di minuti. Le strade brulicavano di uomini e donne che indagavano il mondo naturale o facevano esperi­ menti per scovare qualche segreto della natura. La città risuonava del ru­ more degli artigiani nelle loro officine, dei mercanti che facevano affari, dei pescivendoli ed erbivendoli che vendevano le loro merci e dei ciarlata­ ni che arringavano i passanti. I vicini chiacchieravano, facilitando così lo scambio di informazioni. Imperava il pettegolezzo. Questi canali non ufficiali di comunicazione erano essenziali per la crescita della sperimentazione rinascimentale, poiché gran parte di quello che gli sperimentatori facevano nei loro laboratori dipendeva dalla loro familiarità con i mestieri. I chirurghi, diceva Fioravanti, dovevano cono­ scere l'arte di intagliare il legno (per essere in grado di fare stecche per immobilizzare arti fratturati e stampelle), il mestiere del fabbro (per fab­ bricare gli strumenti chirurgici), del profumiere (per fare gli unguenti) e dell'alchimista (per distillare i medicinali)5 . Venezia era stracolma di botteghe. Passeggiando per le Mercerie, Leonar­ do passava davanti ai banchi degli artigiani che lavoravano il metallo, dei sarti, degli orologiai, degli orefici e dei profumieri. Poteva fermarsi a osservare gli artigiani intenti al loro lavoro e chiedere informazioni sui loro mestieri. L'esperienza, scriveva Fioravanti secondo un abusato cliché usato da innumerevoli professori di segreti, è «la madre di tutte le scientie » . Egli prometteva ai lettori che nei suoi libri (diversamente da quelli degli an­ tichi) «mai si trovarà cosa o ragione alcuna, che non sia approbata dalla esperienza, ne esperienza che non sia accompagnata dalla ragione» 6• La «scientia dell'esperienza » si acquisisce solo con anni di viaggi e di osser­ vazione: occorre parlare con empirici e contadini, osservare gli animali e andare nelle officine degli artigiani per scoprire come si fabbricano le cose, «cose tutte, che bisogna far la barba bianca prima che si intendano» 7• •

n fascino dei pubblici segreti

Un professore di segreti degno di questo nome pubblicava sempre i suoi segreti. Il paradosso nasceva dalla scoperta che pubblicare i segreti poteva

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essere un modo molto più efficace per arrivare alla fama che non il tenerli nascosti. Il leggendario Alessio Piemontese temeva che « se i secreti si sa­ pessero da ogn'uno, non si chiameriano più secreti, ma publici » 8 e la sua fama di collezionista di segreti ne avrebbe dunque risentito. n vero Ales­ sio, il celebre scrittore Girolamo Ruscelli, la pensava diversamente. Tom­ maso Garzoni, che coniò l'espressione «professori di secreti » , asseriva che "professare" i segreti voleva dire pubblicarli. Quelli scoperti da Fioravanti e dai suoi compagni veneziani furono svelati nel suo libro Compendio de i secreti rationali pubblicato nel 1 564. Con una decina di edizioni cinque­ centesche e secentesche, divenne uno dei libri più popolari di Fioravanti: con i Capricci medicinali lo collocò tra i più eminenti professori di segreti della sua epoca. Nella prefazione, Leonardo osservava che erano stati pubblicati nume­ rosi libri di segreti, scritti da uomini e donne: Ne i quali vi sono di molte cose buone & vere. Ma scritte in modo, che ancor che le genti li leggano non restano però satisfatti, perche sono scritti con tanta brevità & senza alcuna dichiaratione, che non se ne cava frutto nissuno. [ . ] Et cosi ho pigliato tutti i libri che parlano di Secreti, & fatto un Compendio di tutti quei, che àme pare che sieno degni di essere scritti, & che si possano approbare con la ragione, & con l' isperienza9• .

.

Ma il suo libro di segreti era diverso dagli altri, scriveva Leonardo; era un compendio di segreti razionali, giudiziosamente selezionati e comprovati da esperimenti. «In questo libro scriverò molte operationi di tale arte con le cause, et secreti occulti, di modo che ogn'uno ne potrà esser capace » 10• n libro veicola complessi procedimenti tecnologici con un linguaggio semplice, per un pubblico di non specialisti. Leonardo descrive unforno di ri­ verbero (un tipo di fornace alchemica) come «un forno da cuocere il pane» ". Leggendo il Compendio, pare quasi di sentire il clangore dei recipienti metal­ lici e il tintinnio delle boccette di vetro nel laboratorio alchemico. L'alchimia occupa un'ampia sezione del libro di Leonardo, che la de­ finisce come l'arte trasmutatoria - « cioè che trasmuta una cosa in un'al­ tra » '\ con ciò intendendo l' imitazione in laboratorio di come sono fat­ te le cose, come, per esempio, quando il tintore fabbrica un colore solido per la lana. Simili questioni erano "segreti" risaputi per gli artigiani che li praticavano da lungo tempo, ma per la gran parte dei lettori borghesi dell'epoca rappresentavano una novità assoluta. L'alchimia simboleg-

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giava ciò che poteva essere ottenuto con la sperimentazione. Leonardo elogiava l'alchimia come un' "arte divina", però metteva in guardia dal genere sbagliato di alchimia. Nel capitolo che tratta di un'acqua che tinge i metalli color dell'oro, si dissociava dal genere di alchimia che fabbricava l'oro: Ma non dico gia io che li faccia diventare oro, nè argento; ma io la scrivo, per mostrare la gran forza, et nobiltà dell'arte alchimica, nella quale mi son sempre af­ faticato in tutte le sue operationi, eccetto in due cose le quali non hò mai cercato, nè tentato di fare, nè mai me ne è venuto voglia; et son queste, cioè di fare oro, et argento; et però non si maravigli nissuno, se io non scriverò tal cosa, ma scriverò bene molte recette da fare operation simili'3•

Del compendio de i secreti rationali è una corposa raccolta di tecniche ar­ tigianali e di folclore ; è anche molto concreta e priva di scrupoli quando usa l'alchimia per conseguire uno scopo superiore. La preoccupazione di Leonardo di produrre cose "maravigliose" - intento essenzialmente corti­ gianesco - dà al libro un sapore squisitamente rinascimentale: pragmatico, ma inguaribilmente alle prese con le "maraviglie". In questo senso, l'obiet­ tiv