Il papiro di Artemidoro
 9788842085218

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Storia e Società

© 2008, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2008

Luciano Canfora

Il papiro di Artemidoro con contributi di Luciano Bossina, Livia Capponi, Giuseppe Carlucci, Vanna Maraglino, Stefano Micunco, Rosa Otranto, Claudio Schiano e un saggio del nuovo papiro

Editori Laterza

Referenze iconografiche fig. 1a: Archivio Fotografico Soprintendenza Beni Artistici e Storici di Roma - Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini; figg. 1b, 2a, 2b, 2c, 3a, 6a, 8, 10a, 11a, 12a, 13a: Torino, Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo; fig. 1c: Firenze, Soprintendenza Speciale per il Polo Museale fiorentino; fig. 3b: Paris, Musée du Louvre; fig. 4: London, su concessione The British Library; fig. 6b: Wien, Österreichische Nationalbibliothek; fig. 10b: su gentile concessione Soprintendenza Archeologica del Lazio; figg. 14, 15, 16: Museo di Liverpool, Collezione Mayer; fig. a p. 210: su gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico per le province di Milano, Bergamo, Como, Lecco, Lodi, Pavia, Sondrio, Varese.

L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8521-8 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

«Così colui, del colpo non accorto, andava combattendo, ed era morto». Francesco Berni Orlando innamorato, LIII, 60

CANDIDO LECTORI Questo libro, caro lettore, abbisogna di una avvertenza. Mentre le discussioni scientifiche hanno il dono di essere belle perché disinteressate, il caso Artemidoro ha determinato sin dal primo momento reazioni sopra le righe. Ciò desta stupore, tanto più che le opinioni e i preannunzi espressi con briosa passionalità dalle colonne di un quotidiano romano non si sono ancora, dopo anni, tradotti in opere: in quella definitiva edizione del «nuovo» papiro che tutto avrebbe chiarito. Noi restiamo persuasi tuttavia che le discussioni scientifiche giova riportarle sul terreno che loro compete, quello – per dirla con Benedetto Croce – del «cauto e vigile filosofare». Di qui questo libro. Dunque veniamo ad Artemidoro e al «suo» papiro. Le questioni sono due, e confonderle è pessimo metodo. Prima questione. Il testo greco contenuto nel papiro «lanciato» dieci anni fa dalle pagine dell’«Archiv für Papyrusforschung» non è attribuibile ad Artemidoro. Già lo comprende chiunque abbia senso della lingua greca e della sua storia. Ma sono le contraddizioni fattuali che rendono impossibile tale attribuzione. Seconda e conseguente questione. Dunque dinanzi a quale prodotto ci troviamo? Se non ci fossero errori di fatto e un patrimonio linguistico tardo-bizantino si potrebbe ipotizzare che questo pastiche sia il postremo risultato di compendi di compendi1. Ma i dati enucleati dall’analisi portano a una cronologia compositiva talmente bassa da rendere molto più plausibile l’ipotesi che siamo di fronte all’opera di un moderno. D’altronde il discrimine tra il molto tardivo prodotto a base compilativa e il “falso” moderno è davvero impercettibile. Cos’è poi un falso se non un pastiche fatto di pezzi più o meno buoni ‘impastati’ per creare l’impressione di un ‘antico’? 1

Bene in tal senso F. Prontera in «Corriere della Sera», 15 settembre 2006, p. 57.

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A questo punto la vasta documentazione raccolta (il lettore ne troverà ampia messe nell’ultima parte del volume) permette di orientare lo sguardo verso uno dei più grandi artefici moderni di papiri greci e di palinsesti che siano mai stati attivi in Europa: Costantino Simonidis. Naturalmente chi abbia altri candidati per la paternità di questa scombinata compilazione potrà contribuire all’ulteriore progresso dell’indagine. L’unica cosa che farebbe un po’ sorridere può essere il tentativo di tagliar corto e di risolvere la questione per via «chimica», tagliando di netto il nodo gordiano delle insormontabili difficoltà linguistiche, sintattiche, storiche e fattuali, ricorrendo – come si direbbe in altro contesto – a perizie di parte. Addurre analisi chimiche degli inchiostri (a tacer di qualche incidente di percorso anche in questo campo) aiuta, nella migliore delle ipotesi, a conoscere la composizione di un inchiostro, non la sua età. Nessuno ignora che anche i falsari si servono, ovviamente, di materiale antico. Solo quelli più sciocchi si lasciano smascherare dall’analisi dei materiali. Già il vecchio e glorioso patriarca Fozio, come narra un coevo suo biografo non benevolo, pubblicò un falso per sedurre la mente dell’imperatore che lo aveva esiliato e fece ricorso appunto a materiali antichi che rendessero insospettabile il prodotto. E merita menzione, sia pure di passata, il fatto che quel medesimo biografo smaschera il falso sulla base di un argomento “filologico”: fece anche lui ricorso agli unici argomenti che abbiano valore ed efficacia, indissolubili come sono dal senso della lingua e della sintassi. Un papirologo italiano di lunga esperienza, Claudio Gallazzi, si è egregiamente cimentato, anni addietro, sul tema dei falsi portando luce su un terreno che da sempre è praticato – per necessità di lavoro o per diletto – dai filologi, dagli epigrafisti, dai papirologi. Smascherando un «papiro falso con un frammento di Bione»2, egli fece ricorso, com’è giusto, unicamente ad argomenti riguardanti lo stile grafico, le «anomalie», come egli le chiama, che rendono sospetta la scrittura di quel frammento. Neanche un cenno, in quel bel saggio, ad analisi chimiche. «Lo scritto – così si esprimeva – non può essere assegnato che alla mano di un dotto falsario, il quale ritagliò un settore in bianco da un documento già danneggiato, indi copiò sopra di esso, per quanto gli era possibile, i versi di Bione. Lo confer2

«ZPE», 34, 1979, pp. 55-58.

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ma il bordo inferiore del papiro, che sulla destra non porta traccia di fratture o erosioni, bensì mostra un profilo così netto che solo una lama può averlo segnato». Preziosa notazione, di cui si può far tesoro anche lavorando intorno a questo «Artemidoro». Qualche anno più tardi lo stesso studioso tornò sull’argomento, in un saggio scritto con R.A. Coles, e mise efficacemente in rilievo come sia ovvio, da parte dei falsari, il ricorso a materiali antichi e autentici: in primo luogo a «blank piece of genuine old papyrus»3. E opportunamente manifestava scetticismo nei confronti delle analisi chimiche degli inchiostri: «there are genuine ancient documents written in a metallic ink not much different in chemical composition from that employed by the forgers»4. Un altro vezzo dei falsari metteva in luce il Gallazzi, che merita di essere qui ricordato: lo sforzo «to produce distinctive letter forms» che talvolta si presenta «in modo esasperato»5. È il caso per l’appunto – per venire all’«Artemidoro» – della forma esasperatamente “apicata” del rho: una forma, oltretutto, palesemente tributaria del rho usuale nelle scritture minuscole (XIII/XIV secolo) e bene attestata anche nella grafia di dotti greci del XIX secolo (si pensi a numerosi autografi di Adamantios Korais) e imitata anche da coevi ellenisti non greci (si pensi ai numerosi autografi di un amico e ammiratore di Korais, Simon Chardon de la Rochette). Ovviamente ci sono stati casi di imitazione quasi perfetta di scritture antiche. Un esempio non privo di interesse è quello dei fogli palinsesti del Pastore di Erma ‘creati’ dal greco Simonidis, la cui scrittura è modellata su documenti scoperti e valorizzati proprio in quegli anni: le pergamene contenenti un brano del Fetonte di Euripide (Paris. Gr. 107B) e i grandi rotoli di Iperide. Di questo personaggio torneremo a occuparci. Qui ricorderemo invece conclusivamente l’episodio forse più istruttivo della storia delle falsificazioni: il risarcimento del Virgilio laurenziano, tanto perfetto che il Bandini, gran-

Studi Montevecchi, Bologna 1981, pp. 99-105. Ivi, p. 103. Viene in mente l’osservazione realistica e pertinente di Giuliana Calcani: «È soltanto un’illusione quella di risolvere il problema [la falsificazione] spostandolo in laboratorio, perché anche i software più sofisticati reagiranno in base ai dati, soggettivi, predisposti dall’operatore e dal consulente di turno» (L’archeologia tra verità e falsificazione, «Rivista di estetica», fascicolo speciale dedicato ai falsi, 31, 2006, p. 132). 5 Gallazzi, Studi Montevecchi, cit., p. 101. 3 4

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dissimo bibliotecario e grandissimo paleografo, vietò che fosse posto accanto ai fogli autentici, per non ingannare i posteri. A tal punto indistinguibili appaiono tuttora i fogli “falsi” da quelli “veri”, anche agli occhi di chi – come noi oggi – conosce ormai bene quella nobile vicenda6. E ora avviciniamoci, caro lettore, alle varie tappe della nostra storia, passando innanzitutto in rassegna le Dramatis personae. 6 Cfr. A.M. Bandini, Dei princìpi e progressi della Real Biblioteca Mediceo Laurenziana (Ms. laur. Acquisti e Doni 142), a cura di R. Pintaudi, M. Tesi, A.R. Fantoni, Gonnelli, Firenze 1990, pp. 167 ss.

Per gli aiuti e i consigli si ringraziano qui cordialmente: Guido Bastianini, Margarethe Billerbeck, Paulo Butti de Lima, José Cardim Ribeiro, Antonio Carlini, Albio Cesare Cassio, Federico Condello, Ashley Cooke, Gonzalo Cruz Andreotti, Valentina Cuomo, Daniel Delattre, Marcello Di Bella, Christian Foerstel, Gian Franco Gianotti, Luigi Lehnus, Gabriella Lorenzi, Margherita Losacco, Maria Jagoda Luzzatto, Giuseppina Magnaldi, Chryssa Maltezou, Didier Marcotte, Athanasios Markopoulos, Brigitte Mondrain, Ornella Montanari, Stefania Montecalvo, Massimo Moretti, Francesca Niutta, Rosario Pintaudi, Massimo Pinto, Francesco Prontera, Luigi Alberto Sanchi, Giuseppe Solaro, Niccolò Zorzi. Per la cura redazionale, sotto la guida di Claudio Schiano e Vanna Maraglino, molto hanno contribuito Maria Rosaria Acquafredda, Bianca Maria Altomare, Gaetano Dabbicco.

IL PAPIRO DI ARTEMIDORO

DRAMATIS PERSONAE

Gli autori chiamati in causa in questa indagine sono i seguenti: a. Artemidoro di Efeso, geografo e viaggiatore, fiorito a cavallo tra II e I sec. a.C. (la sua akmé si pone nel 104/100 a.C.), autore di una vasta opera geografica in undici libri, andata persa e della quale si conservano briciole, frammenti raccolti da ultimo e molto difettosamente da Robert Stiehle («Philologus», 1856). È opinione consolidata che larga parte dell’opera di Strabone sia ricavata da Artemidoro. b. Marciano di Eraclea, suo tardivo epitomatore (IV sec., ma da alcuni datato fin nel VI), creatore di un corpus di epitomi geografiche (Artemidoro, Menippo) oltre che di un’opera sua più o meno originale sul Mare esterno. Nelle sue epitomi adottò il criterio di presentare come autore non se stesso, ma, rispettivamente, Artemidoro e Menippo. c. Menippo di Pergamo, geografo di epoca augustea, autore di un compendio in tre libri, che Marciano ritoccò e riassunse («pubblicò» è l’espressione che Marciano adopera per indicare questa sua fatica). Ne è conservata soltanto la parte iniziale del libro dedicato all’Asia, preceduta dall’ampia prefazione di Marciano. La prima edizione di questo frammento fu realizzata da Hoeschel nell’anno 1600 sulla base del Palatino greco 142, nel cui foglio 211r una nota manoscritta indica Artemidoro anziché Menippo come autore. Di qui un durevole equivoco. d. Erodiano grammatico (II sec. d.C.) la cui Prosodia catholica si è conservata in grame epitomi ma è stata sciaguratamente ricreata e ampliata ad infinitum da Lentz nell’edizione (Leipzig 1897) definita «una tragedia» da Hermann Schultz nella voce Herodianus n. 3 della Realencyclopädie. e. Stefano di Bisanzio (floruit tra il 540 e il 573), autore di un lessico geografico compendiariamente citato come Ethniká, in nume-

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Dramatis personae

rosissimi libri. L’opera intera è andata persa: si è salvato un paio di bifolii contenenti l’ultima parte della lettera D (= libro X) nel manoscritto Coislin 228 (XI sec.). Però ci è giunta una Epitome ( f). f. Ermolao, presunto autore dell’Epitome a noi giunta degli Ethniká, di fatto lo Stefano adoperato dagli studiosi. Quel poco che si ritiene di sapere su Ermolao si trova nella voce di Suidas (e 3394). g. Costantino VII Porfirogenito (morto nel 959), promotore di importanti opere storico-geografiche (De Thematibus, De administrando imperio), nelle quali Stefano, Marciano etc. furono messi a frutto. Ingenuamente invalse sin dalla seconda metà del XVII secolo l’abitudine di incorporare, sull’onda della scoperta del Coislin 228, pezzi tratti dalle ora ricordate opere di Costantino VII nelle edizioni dello Stefano-Ermolao. Ciò è stato fonte di scelte testuali aberranti e deduzioni infondate.

IL FANTASMA DI ARTEMIDORO

1. Il fantasma di Artemidoro Le collezioni di geografi che incominciano ad apparire nel 1482, dieci anni prima della scoperta dell’America che ovviamente rilanciò gli studi geografici e cartografici, e proseguono con variazioni fino al 1580, non comprendono i Geographoumena di Artemidoro. Gli autori di tali raccolte infatti non avevano interesse per i frammenti: includevano opere conservate per intero ovvero larghi stralci. 1.1. «Ab Jove principium» È con David Hoeschel, il dotto luterano di Augsburg, che Artemidoro di Efeso entra in scena. Hoeschel nell’anno 1600 pubblicò ad Augsburg una raccolta intitolata Geographica, che comprendeva – a stare al frontespizio – «Marcianus Heracleotes, Scylax Caryandensis, Artemidorus, Dicaearchus, Isidorus Characenus». Ma la ricerca moderna sull’antica geografia muoveva allora i primi passi e gli equivoci pullulavano. Quello che Hoeschel chiamava «Marciano» era in realtà lo pseudo-Scimno1, e quello che lui chiamava Artemidoro era Menippo2. Quasi illusionistica è, in questa raccolta, l’apparizione del nome di Artemidoro. Esso figura infatti nel frontespizio come uno dei cinque autori compresi nel volume, ma non c’è nel corpo dell’opera, se non nell’intestazione (p. 94) del «frammento dell’Epitome degli undici libri di Artemidoro di Efeso»3 che però è presentata pur sempre 1 Si veda la magistrale edizione di MARCOTTE 2000, nel vol. I dei Géographes grecs. 2 Per l’esattezza il frammento superstite del Periplo del mare interno di Menippo di Pergamo nella edizione epitomata fattane da Marciano di Eraclea (IV sec. d.C.). 3 Temmavcion th`~ ejpitomh`~ tw`n IAV biblivwn ΔArtemidwvrou tou` ΔEfesivou.

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come «opera di Marciano»4. In sostanza «Artemidoro» appare sul frontespizio perché Hoeschel considerava quel «frammento di epitome» come riguardante Artemidoro: e reputava talmente rilevante che almeno quel frammento (sia pure indirettamente) artemidoreo si fosse salvato da giustificare la “ostentazione” del nome di Artemidoro addirittura nel frontespizio del volume. Forse anche tratto in inganno dalla praefatio posta al principio di tale frammento (dove, tra l’altro, Marciano parla a lungo del modo in cui aveva realizzato l’epitome degli undici libri di Artemidoro), Hoeschel aveva creduto che quel frammento fosse, appunto, un pezzo dell’epitome artemidorea. 1.2. I fecondi tesori dei Fugger Ma soprattutto era stato tratto in inganno da qualcosa che figura nel manoscritto Vaticano Palatino greco 142, da lui preso a base per l’edizione. Cosa in particolare? Conviene considerare più da presso tale manoscritto. Esso è composto di quattro parti e comprende, nell’ultima, i medesimi autori, e nel medesimo ordine, che figurano nel suo modello, l’odierno Supplément grec 4435: Marciano (Periplo del mare esterno), Menippo (mutilo all’inizio, come nel modello, e quindi privo dell’intitolazione e del nome dell’autore), Scilace, Isidoro, Dicearco. È bene ricordare che il Suppl. Gr. 443 una volta passato da Claude Dupuy (morto nel 1594) a Pierre Pithou rimase celato nella biblioteca di lui e dei suoi discendenti (ultimi i marchesi di Rosanbo) fino al 1837, allorché la Bibliothèque Nationale, allora Royale, di Parigi lo acquisì. Quando era ancora a Venezia, nelle mani di Paolo da Canale, all’inizio del Cinquecento, questo prezioso manoscritto, già mutilo, produsse due copie, una delle quali fu il futuro Palatino greco 142, ben presto acquistato da Henry Scrimger per conto di Ulrich Fugger. Poiché gli autori che Hoeschel incluse nei Geographica sono i medesimi che figurano nel Palatino greco 142, è evidente che è quel manoscritto il fondamento dell’edizione Hoeschel. Si può ben dire che in questo, come in altri casi, è stata ben più influente, culturalmente, la copia (il Palatino greco 142) che non il modello da cui essa era stata tratta (il Suppl. Gr. 443). 4 Che, nonostante ciò che si legge nel frontespizio, «Artemidorus desideratur», notò Scaligero (epist. a Hoeschel, 1.3.1601). 5 Su ciò DILLER 1952, pp. 19-21 e 24-25.

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Negli anni intorno al 1550 questo manoscritto figurava ormai nella biblioteca di Ulrich Fugger ed era già lì segnato col n. 1426. Nel catalogo della biblioteca Fugger (Palatino latino 1950) il nostro codice è indicato: «142 Henr.». Si è discusso se «Henr.» debba ritenersi una nota di possesso. È comunque opinione largamente accolta che debba trattarsi di Henry (Henricus) Scrimger (o meglio Scrymgeour), il dotto scozzese che era anche bibliotecario della famiglia Fugger. Ma non era il suo solo lavoro: si deve a lui infatti una edizione delle Novellae di Giustiniano; aveva insegnato diritto a Ginevra dove aveva stabilito rapporti di amicizia con Casaubon e Henri Estienne7. 1.3. Chi era «Henr.»? Che «Henr.» fosse davvero lo scozzese Henry Scrimger (Scrymgeour) è stato revocato in dubbio. Arthur Biedl ha sollevato una difficoltà. Si conosce, infatti, il destino dei libri di Scrimger: la sua biblioteca fu ereditata da suo nipote Young e passò quindi ai discendenti di lui, rimase cioè stabilmente in Inghilterra. Come spiegare dunque il ben diverso cammino di questo manoscritto dei geografi, che va a finire – come del resto la biblioteca Fugger – prima nella Palatina di Heidelberg e poi, dopo il “sacco” cattolico realizzato da Allacci (1622), nella Biblioteca Vaticana? Biedl concludeva che dunque «Henr.» non era Scrimger, ma un altro, coevo, dotto anch’egli scozzese, che ugualmente ebbe a che fare con Fugger: Edward Henryson8. Ma contro questa proposta c’è un documento, la lista elaborata da Scipione Tetti (e pubblicata da Philippe Labbe nel 1653) dei Libri Graeci nondum editi. Lì alla pagina 169 figura la voce: «Marciani peripli libri tres in Bibliotheca Henrici Scrimgeri Scoti»9. Da questa, ben solida, attestazione si dovrebbe ricavare dunque che era effettivamente Scrimger il possessore del (futuro) Palatino greco 142. Come possono conciliarsi questi due dati? La spiegazione che appare più probabile è che ci sia stata, da parte di Scrimger, una più o meno intenzionale ‘confusione’ tra i libri suoi, di sua effettiva proprietà, e Ivi, p. 25 e nota 71. La biografia di Scrimger brevemente trattata dal Moréri nel suo Dictionnaire più volte ampliato ricalca in sostanza quasi alla lettera la notizia fornita dallo ZEDLER 1732. Ma è alquanto elusiva. Molto utile invece la densa biografia di Scrimger scritta da TUCKER 2004. 8 BIEDL 1937, pp. 29-32. 9 DILLER 1935b, p. 19. 6 7

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quelli che egli acquistava per Fugger, e di cui tuttavia liberamente disponeva. La frase del presidente De Thou, che descrive l’attività di Scrimger bibliofilo, rende bene questa situazione ambigua: «Inde in Germaniam profectus Scrimgerus Huldrico Fuggero, insigni litterarum et litteratorum patrono, operam addixit, eiusque sumptibus bibliothecam magna librorum rariorum tam Graecorum quam Latinorum mss. copia instruxit». Resta perciò preferibile ritenere che il (futuro) Palatino greco 142 sia il manoscritto al quale si riferisce Scipione Tetti, e che dunque sia stato per non breve tempo per le mani di Scrimger, il quale, studiandone il contenuto, approdò alla conclusione che lì dentro ci fosse l’Artemidoro (epitomato) di Marciano. Donde la nota «Artemidorus», che egli appose al foglio 211r. Cosa lo avrà indotto a tale ipotesi? Evidentemente le parole che si leggono nell’introduzione a quella che ormai si è soliti chiamare l’Epitome di Menippo (e che fu a lungo creduta, appunto, Epitome di Artemidoro): «Io dunque, di tutti i geografi che ho prima ricordato, ho prescelto Artemidoro di Efeso e ho fatto una Epitome dei suoi XI libri»10. Dichiarazione ‘insidiosa’ che, unita ai dettagli di poco successivi figuranti nel medesimo contesto sul modo in cui tale Epitome era stata fatta, può indurre un lettore non perfettamente a suo agio nella materia a ritenere che lì Marciano stia presentando al lettore appunto l’Epitome di Artemidoro. Invece sta riepilogando, come anche altrove si compiace di fare, le sue precedenti fatiche prima di venire a parlare – alla fine della praefatio – dell’ultima, cioè il ‘Menippo’. Ancora in pieno XIX secolo11 si continuava ad incorrere nello stesso equivoco. 1.4. Effetti durevoli di una incauta postilla Scrimger dunque (poiché è lui, molto probabilmente, «Henr.») ha annotato il nome «Artemidorus» sul manoscritto di cui disponeva, cioè l’attuale Vaticano Palatino greco 14212: manoscritto che fu adoperato da Hoeschel per la sua edizione. Ed è grazie a questa erronea attribuzione che si è per lungo tempo immaginato che l’Epitome di Artemidoro fatta da Marciano si fosse conservata. L’influenza di questo malinteso è stata, si potrebbe dire, amplificata dagli spostamenti del manoscritto Palatino greco 142: da Augsburg – dove Hoeschel pubGGM, I, p. 567, 1 ss. Anche dopo HOFFMANN 1838, che aveva dissipato l’equivoco. 12 DILLER 1952, p. 26, parla prudentemente di una «second hand», ma a p. 147 ammette che dev’essere la mano di Scrimger. 10 11

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blicava la sua pionieristica raccolta dei geografi (1600) – a Heidelberg, poi a Roma, dove Lukas Holste (Holstenius) – certo influenzato dall’edizione Hoeschel – si mette a tradurre quel greco in latino (forse verso il 1627). Tale traduzione parziale, tuttora inedita, è conservata tra le «Carte Allacci» della Biblioteca Vallicelliana di Roma e reca il titolo: «Artemidori Ephesii Epitomes fragmentum Latine conversum a Luca Holstenio»13. Holste (1596-1661), a Roma dal 1627, e dal 1641 bibliotecario vaticano, ha senza dubbio messo a frutto il Palatino greco 142, che a partire dal 1622 era ormai a Roma. L’interesse di Holstenius per i geografi greci è ben noto14. Basti ricordare la celebre sua Lettre à Peiresc, più volte pubblicata15, nella quale è tracciato, con molti dettagli, un progetto di edizione, però mai realizzato. Si dovette attendere, per giungervi, la fine del Seicento, quando John Hudson, con la collaborazione di Henry Dodwell, diede vita ai quattro volumi della sua raccolta di geografi minori, Geographiae veteris scriptores Graeci (et Arabici) minores (I, 1698-IV, 1710), riprodotta, un secolo dopo, tolte le dissertazioni di Dodwell, dal greco Alexandrides a spese dei mecenateschi e patriottici fratelli Zosimadai: Sullogh; tw`n ejn ΔEpitomh`/ gewgrafhqevntwn (Vienna 1807-1808). Quale il posto di Artemidoro in queste due raccolte? Sia Hudson che, ancor più chiaramente, Alexandrides paiono presentare tutti i frammenti sino ad allora noti di Artemidoro (quelli ricavabili da Strabone e le citazioni in Stefano di Bisanzio) come frammenti dell’Epitome di Marciano. In entrambe le raccolte vi è un’ampia sezione intitolata Marciano di Eraclea. Essa si apre, in ragione del solito equivoco, con la frammentaria Epitome (che in realtà, come sappiamo, è Menippo di Pergamo); i frammenti ricavati da Strabone e da Stefano tengono dietro in forma di «Supplemento». È interessante osservare che una tale impostazione suggeriva, anche se non dichiarava, che di fatto Artemidoro ci fosse giunto unicamente grazie a Marciano. Intanto nel 1804 Franz-Xavier Berger pubblicava a Monaco16 un ampio frammento intitolato Sul Nilo, nella cui intestazione figura-

Carte Allacci XCVII, 3a, ff. 138v-156v. Si veda D’AVEZAC 1856, pp. 30-34. 15 Edizioni curate da Bredow (1812), Boissonade (1817), Fortia d’Urban (1819). Quest’ultimo aveva redatto una parziale biografia di Holstenius limitata agli anni giovanili, rimasta inedita. 16 Nel periodico «Beyträge zur Geschichte und Literatur» a cura di Johann Christian von Aretin. 13 14

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va il nome di Artemidoro (ΔArtemidwvrou gewgravfou peri; tou` Neivlou). Berger ricavava il lungo estratto da un manoscritto monacense, il greco 287 (ff. 160-161), che poco dopo (1806) veniva descritto dettagliatamente nel catalogo dei monacensi greci a cura di Ignatius Hardt17. L’estratto da Artemidoro è segnalato anche nel pinax. Il manoscritto contiene tra l’altro estratti teratologici e geografici (da Ctesia, Erodoto, Eforo etc.), alcuni dei quali riguardano specificamente il Nilo. Il più ampio è quello di Artemidoro (ff. 161v-162r), seguito da un paio di pagine (162r-v) su esseri prodigiosi: il centauro, il gigante Gerione, il ciclope. L’intestazione è: peri; terateivwn tinw`n, wJ~ lhrou`sin e{llhne~. Nel vecchio catalogo dei monacensi, notava Hardt, il manoscritto è definito «Libellus astronomicus ex variis auctoribus collectus» (p. 210). Infatti una parte dei materiali raccolti riguarda lo Zodiaco e trattazioni astronomiche. Il trattato posto in apertura termina con «nomina planetarum et signa astronomica». Segue Psello (sul fulmine e sui tuoni). Quindi un estratto dal trattato di Cleomede peri; metewvrwn, qui (f. 25) intitolato peri; kovsmou; c’è una «sinossi dello zodiaco e dei pianeti» (ff. 38-44); e c’è anche lo pseudoaristotelico Peri; kovsmou (ff. 45-56) che si apre con un proemio sulla superiorità della filosofia, definita qei`ovn ti kai; daimovnion o[ntw~ crh`ma (entità davvero divina e spirituale) rispetto alla geografia, accusata, quest’ultima, di fornire solo una visione settoriale della realtà di contro alla visione “totale e divina” propria della filosofia18. Ci sono i giambi di Tzetzes sul sorgere e declinare degli astri. C’è Dionigi Periegeta. C’è una parte dell’astronomia di Tolomeo. C’è un po’ di dottrina orfica (f. 133) e pitagorica (ff. 135 ss.), l’Observatio astronomica di Giuliano di Laodicea (f. 140), frammenti di Eraclito (ff. 146-150), la Isagoge di Erone alla geometria (f. 155), frammenti di Ctesia (f. 158) e infine un gruppo di frammenti poetici e prosastici Sul Nilo che precedono il lungo estratto del falso Artemidoro (ff. 161v-162r) seguito senza soluzione di continuità dalle descrizioni di alcuni esseri mostruosi (f. 162r). Il foglio 162v è occupato da una specie di preghiera a carattere pedagogico. Con quest’ultimo foglio il manoscritto termina. Insomma si tratta di un mélange di astronomia, mostri rari, figure zodiacali, geografia, disceptatio sulla priorità filosofia/geografia, e infine un (falso) Artemidoro che non può non suscitare il nostro interesse19. 17 L’identificazione del copista del Monac. Gr. 287 (Michele Suliardos, attivo nell’ultimo scorcio del XV secolo) è dovuta a HARLFINGER 1971, p. 416. 18 Su tutto ciò e sul senso dello pseudoaristotelico peri; kovsmou va visto il saggio di PINTO 2007. 19 Torneremo a parlare del manoscritto Monac. Gr. 287 nell’ultima parte di questo volume (vedi infra, cap. XXI).

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Berger notò l’ampio testo inedito di Artemidoro racchiuso dentro il manoscritto 287 e lo estrasse pubblicandolo integralmente nel secondo tomo dei Beyträge con traduzione latina e un breve commento. Era convinto, come tutti, sulla scia di Hoeschel, che di Artemidoro si fosse salvata una parte dell’Epitome dovuta a Marciano, segnalava un paio di frammenti trascritti da Van Goens nel commento al De antro nympharum di Porfirio (p. 87) e soprattutto auspicava che questo frammento estratto dal Monacense greco 287 entrasse a far parte di una futura, necessaria, raccolta dei geografi minori. In verità, nel suo breve commento, Berger (p. 51, nota) si accorse non solo di un grossolano errore contenuto nel nuovo frammento, a proposito della lunghezza in stadi dell’intero corso del Nilo, ma osservò anche una pedissequa coincidenza con la prima pagina del XVII libro di Strabone (XVII, 1, 2), dove Strabone, sulla scorta di Eratostene, descrive il corso del Nilo. In sostanza Berger notava una coincidenza del nuovo frammento di Artemidoro con Strabone («quem Artemidorus [...] presso pede sequitur»): notazione che, ovviamente, non intendeva sovvertire la cronologia ma istituire un rapporto tra Artemidoro ed Eratostene attraverso Strabone, constatando al tempo stesso la stretta vicinanza tra Artemidoro e Strabone in questo passo. Circostanza sospetta. Nel 1856, in un saggio per «Philologus» intitolato Der Geograph Artemidoros von Ephesos, Robert Stiehle realizzò l’auspicio formulato da Berger e incluse quell’estratto Sul Nilo tra i frammenti di Artemidoro (pp. 220-222)20. Alexandrides invece l’aveva ignorato (1807) perché si era limitato a recepire l’impianto e il contenuto della raccolta di Hudson e Dodwell. Circa un secolo più tardi Aubrey Diller (1969) sostenne che quell’estratto peri; tou` Neivlou era un falso21. «It is quite unlikely that both Artemidorus and Strabo followed Eratosthenes’ words so closely» osservò (p. 29). Diller metteva a frutto quanto sin dal primo momento Berger aveva osservato: e cioè la ripresa quasi letterale delle parole di Strabone (prima pagina del libro XVII). Difficilmente tale ripresa – egli sostenne – poteva spiegarsi pensando che sia il presunto Artemidoro che Strabone riproducessero allo stesso modo le parole di Eratostene. Lì Strabone non sta adoperando Artemidoro ma direttamente Eratostene, come dichiara in apertura e chiusura del20 Stiehle ripete fedelmente e senza molta consapevolezza critica l’osservazione di Berger sulla identità con Strabone. 21 DILLER 1969, pp. 29-30.

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la lunga parafrasi22. La sola spiegazione – conclude Diller – è che un falsario [tardo-antico? medievale?] avrebbe utilizzato, ritoccandola, la pagina di Strabone, e però si è voluto presentare come Artemidoro. Diller non manca di osservare che, dopo Stiehle, anche W. Ruge, nelle dotte Quaestiones Strabonianae (1888) aveva preso molto sul serio questo lungo e sospettabile brano di Artemidoro23. L’ipotesi di un falsario «imposing on modern scholars»24 troverebbe conforto nella presenza, nelle pagine subito precedenti, di altri due pastiches: un falso Ctesia costruito a partire dagli estratti foziani (Bibliotheca, cap. 72), e un altro «anonimo sul Nilo» costruito su Diodoro, I, 37-3925. In quest’ultimo caso il falsario si è clamorosamente tradito perché ha usato un codice diodoreo nel quale il nome Nasamon era privo del N iniziale (spettante al rubricatore) e perciò ha scritto Asamon26. Prima, però, che Stiehle desse vita a una raccolta – nella quale ancora l’Epitome di Menippo passava per artemidorea e inoltre era subentrato il lungo estratto Sul Nilo – un lungo e contorto cammino, ricco di equivoci e di fraintendimenti, era stato percorso. Ne consideriamo qui sommariamente solo alcuni momenti. L’idea erronea che Artemidoro avesse compilato egli stesso l’epitome della sua opera è dichiarata apertamente da Thomas De Pinedo, il benemerito editore portoghese di Stefano di Bisanzio (1678) nel ricchissimo repertorio finale sugli autori citati da Stefano (p. 757), ma molto probabilmente la spinta a creder questo gli era venuta dal De historicis Graecis di Gerard Vos (Leiden 16512), dove Vos elenca th;n ejpitomh;n tw`n e{ndeka tra le opere di Artemidoro (p. 143). Quest’idea sbagliata vigoreggiava ancora al tempo di Stiehle, che la adottò27. Un altro problema sempre aperto era la identificazione o meno di Artemidori diversi. Nelle Pandectae Brandenburgicae, che escono di fatto contemporaneamente (1699) al primo volume di Hudson, Christophorus Hendreich distingueva il geografo dall’astronomo ci22 «Bisogna esporre qui innanzi tutto quanto dice Eratostene [...] Ecco dunque quanto dice Eratostene». 23 RUGE 1888, pp. 99-102. 24 DILLER 1969, p. 29. 25 Un testo che era già stato messo a frutto, anzi integralmente incorporato da Teofilatto Simocatta (VII secolo) nelle sue Storie (VII, 17). 26 Meno netto intorno all’origine dell’estratto Sul Nilo si è mostrato PÉDECH 1975, che ha fornito anche un’accurata descrizione degli ingredienti di cui è composto questo Peri; Neivlou. 27 Ancora dieci anni più tardi la Realencyclopädie del Pauly (I, 1866, p. 1790) divulgava tale opinione.

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tato da Seneca in un paio di luoghi delle Questioni naturali. Al contrario nel grande manuale di Friedrich August Ukert, Geographie der Griechen und Roemer (I, 1816), Artemidoro geografo e Artemidoro astronomo vengono identificati (I.2, p. 141)28. Questa autorevole veduta viene accolta e in certo senso codificata dalla maggiore enciclopedia del tempo (e forse di tutti i tempi), la Allgemeine Encyklopädie der Wissenschaften und Künste di Ersch e Gruber (V, 1820, s.v. Artemidoros, p. 440). Tra gli equivoci che si addensano intorno agli Artemidori va segnalata anche l’anticipazione alla fine del I sec. a.C. di Artemidoro Onirocritico (detto da lui medesimo “di Daldi”, ma anch’egli di Efeso) nell’importante repertorio neogreco di Bouturas (1869) Lexiko;n iJstoriva~ kai; gewgrafiva~ (vol. I, p. 700). In questo modo29 i due più noti Artemidori, il geografo e l’onirocritico, diventavano contemporanei oltre che conterranei. Ma soprattutto restava ben salda la convinzione, codificata da autorevoli repertori, secondo cui dell’Epitome artemidorea dovuta a Marciano si fosse conservata una parte non piccola (praefatio, Bitinia, Ponto). È quanto si legge nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert (VII, voce Géographie, p. 609) nonché nell’ampia e dotta prefazione di Adamantios Korais all’edizione di Strabone voluta dal Bonaparte (I, 1815, p. ndV) e nella Geographie der Griechen und Römer di Ukert (I.1, p. 156). La svolta decisiva ebbe luogo nel 1838. In quell’anno il dotto bibliografo Samuel F.W. Hoffmann pubblicava una dissertazione, Die Iberer im Westen und Osten, nella quale – oltre a raccogliere in appendice i frammenti di Artemidoro (compreso Sul Nilo: fr. LXVI) – dimostrava che l’Epitome di Marciano su Bitinia e Ponto, riferita, a partire da Hoeschel, all’opera di Artemidoro, riguardava in realtà il Periplo di Menippo di Pergamo. E pochi anni dopo integrava la sua dimostrazione con il saggio monografico Menippos, der Geograph aus Pergamon (1841a). A quel punto Artemidoro si dissolveva, ridiventava – per così dire – un fantasma. Non vi erano più opere sue tramandate (sia pure parzialmente) ma solo un pulviscolo di frammenti30. Con riferimento a Seneca, Naturales Quaestiones, VII, 13. Per un refuso di stampa, probabilmente. 30 Ciò non ha impedito a opere enciclopediche, anche di un qualche valore, di continuare a ignorare il risultato conseguito da Hoffmann, il quale inoltre assai correttamente aveva attribuito all’Epitome di Marciano anche i frammenti citati da Stefano come «Artemidoro nella Epitome» (HOFFMANN 1838, pp. 270-273). 28 29

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2. Dal fantasma al papiro Curioso destino. Artemidoro è quasi del tutto assente dalla raccolta tuttora fondamentale di Karl Müller Geographi Graeci minores (I, 1855)31, forse destinato – a giudicare dalla praefatio posta al principio del primo volume – a un secondo tomo che non è mai nato. Müller si limitò a includere, nelle ultime tre pagine del primo tomo dei Geographi (pp. 574-576), un piccolissimo numero di frammenti attribuibili all’epitome artemidorea di Marciano. Si tratta di un manipolo di citazioni, per lo più toponimi, tratte da Stefano di Bisanzio: per l’esattezza quelle nelle quali Stefano (cioè il ‘suo epitomatore’) afferma di basarsi su ΔArtemivdwro~ ejn th''Ê ΔEpitomh/32 ' . Müller non si era posto la questione se fosse concepibile che Stefano avesse adoperato, accanto e oltre all’epitome artemidorea di Marciano, anche un Artemidoro “integro” (nei casi cioè in cui non cita «Artemidoro nell’Epitome», ma semplicemente «Artemidoro nel libro tale»). Non aveva cioè valutato le conseguenze del fatto che Marciano, nell’Epitome, si era per così dire “nascosto” come autore (lo dice nella praefatio al Menippo) e aveva fatto circolare l’Epitome appunto sotto il nome di Artemidoro. Sta di fatto che, limitata la scelta ai soli passi di Stefano in cui il rinvio è esplicitamente all’Epitome artemidorea («Artemidoro nell’Epitome»), Müller aveva confinato quei pochi frustoli di Artemidoro in una posizione ultramarginale. La presenza di Artemidoro nella autorevole raccolta di Müller è dunque del tutto irrilevante, mentre la sua sostanziale assenza (a parte le tre pagine dall’Epitome di Marciano) è foriera di equivoci. Come si è detto, l’anno successivo (1856) una nuova raccolta dei frammenti di Artemidoro (compreso Sul Nilo) apparve nelle pagine della rivista «Philologus» a cura di Stiehle, che aveva già dato altre prove della sua acribia. Al di là dei meriti di questa raccolta (indubbio progresso rispetto a Müller), Stiehle, come abbiamo già ricordato nel paragrafo precedente, accreditava, facendo su questo punto un passo indietro rispetto a Hoffmann, una tesi inverosimile causata dalla formula ΔArtemivdwro~ ejn th'/ ΔEpitomh/' usuale in Stefano: che cioè ci fossero state due epitomi dell’opera di Artemidoro, una ad

Il secondo tomo comprende gli autori tardi e bizantini incluso Eustazio. Anche un paio di scolii ad Apollonio Rodio recano la stessa intestazione e Müller include anche questi. 31 32

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opera di Marciano, e l’altra ad opera dello stesso Artemidoro. Questa idea stravagante appare ancora33 in un’autorevole opera di riferimento quale la Realencyclopädie del Pauly (I, 1866, s.v. Artemidoros [1]), dove si legge: «Einen von Artemidoros selbst aus diesem Werk gemachten Auszug erwähnt häufig Steph. Byz.»; e poco dopo l’articolista soggiunge che però lo stesso Stefano, alla voce Malavkh, «cita anche una seconda Epitome fatta da Marciano di Eraclea» (p. 1790). Siffatta situazione contraddittoria e foriera di equivoci era, potenzialmente, propizia all’eventuale «creazione» di un papiro «antico» che «restituisse» per l’appunto parti di questa immaginaria Epitome di Artemidoro «par lui-même». I falsi nascono molto spesso per «colmare un vuoto». Tale sembra essere il papiro di oscura origine lanciato all’attenzione degli studiosi nel 1998 dalle autorevoli pagine dell’«Archiv für Papyrusforschung»34. Il periplo della Spagna che esso contiene è talmente schematico ed esangue, oltre che esiguo, da non poter certo pretendere – nemmeno, è da pensare, nelle intenzioni di chi lo concepì – di passare per un pezzo dell’opera integra di Artemidoro. Per rendersene conto basta comparare il misero contenuto delle colonne IV e V (il periplo)35 con il periplo della Betica e della Lusitania nel Mare esterno di Marciano, opera con cui Marciano intendeva ‘proseguire’ quella di Artemidoro: risulterà immediatamente chiaro che chi concepì questo papiro intendeva creare non più che un pezzo dell’Epitome. Del resto lo dice esplicitamente (col. V, 14-15: lhyovmeqa de; nu'n to;n paravploun aujth'~ [= della Spagna] ejn ejpitomh'/). Il ‘vero’ Artemidoro invece non si limitava affatto a un periplo. Ce lo spiega Marciano, che leggeva integralmente i Geographoumena. Dal punto di vista del tipo di narrazione e dell’ampiezza dei dettagli – spiega Marciano – Artemidoro e Strabone appaiono molto simili (GGM, I, p. 566, 5-6). Dunque il proposito di chi creò questo papiro era di «fare» l’auto-epitome di Artemidoro (mai esistita), non certo quella di Marciano (IV d.C.). Infatti, in questo secondo caso, a tacer d’altro, già il tipo di scrittura apparirebbe incongruo. Se poi Se n’è fatto cenno nel paragrafo precedente. GALLAZZI-KRAMER 1998. 35 Le prime tre contengono un “magniloquente proemio” generale sull’importanza della geografia. 33 34

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si deve prestar fede alla notizia divulgata36, secondo cui, insieme al testo geografico – nel «conglomerato», o «maschera», o «papier mâché» che racchiudeva il papiro – c’erano documenti addirittura di età neroniana, saremmo di fronte ad una ben singolare combinazione: pezzi anteriori di circa tre secoli sarebbero confluiti nel fatato conglomerato. Cosa contiene questo papiro? Sul recto ci sono cinque colonne di scrittura e una serie di disegni. Per l’esattezza: due teste barbate sull’agraphon iniziale; uno schizzo paesaggistico (pomposamente definito “mappa” o “carta”) tra la colonna III e IV; una serie molto ricca di mani e piedi umani dopo la colonna V; e, all’altro capo del rotolo, altre tre teste (due che si fronteggiano e la gran barba di una terza, in parte perduta, che le sovrasta). Sul verso invece ci sono 42 figure animalesche accompagnate da didascalie in greco (la scrittura è diversa da quella del testo geografico). Dinanzi a tale caotica congerie, i (futuri) editori37 di questo strano oggetto hanno elaborato una teoria divenuta ormai celebre per il suo alquanto temerario carattere: hanno immaginato che questo rotolo avesse, al tempo suo, vissuto “tre vite”38. Ecco, in sintesi, come tali vite si svolsero. 1. Qualche decina d’anni dopo la morte di Artemidoro, verso il 50 a.C., qualcuno, su commissione, incominciò ad allestire un’edizione “di lusso” dei Geographoumena, o comunque del libro II (la Spagna). 2. Il testo terminò con la colonna V e il rotolo passò dall’atelier del copista a quello di un artista-disegnatore incaricato di inserire, inframmezzate alle colonne di scrittura, delle carte geografiche. Qui avviene un “incidente”. Il disegnatore si applica, intraprende il suo lavoro e disegna tra la colonna III e la IV dei fiumi e delle casette. Il disegno dovrebbe rappresentare una parte della Spagna, ma non è quella la parte che si desiderava figurasse lì: se ne voleva un’altra. Il committente s’indigna. Il lavoro viene interrotto, il papiro viene gettato via. (Prima vita.) Rendendosi conto dell’assurdità di un tale comportamento il primo saggista del Tre vite azzarda una spiegazione psicodrammatica:

GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 190. D’ora in avanti, tout court, «gli editori». 38 Cfr. Tre vite, catalogo della mostra tenutasi a Torino, Palazzo Bricherasio (8 febbraio-7 maggio 2006). 36 37

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«Si potrebbe immaginare – scrive – che il committente, venuto a conoscenza dell’errore, si sia rifiutato di ritirare il rotolo [che dunque era concluso! altro che spazio lasciato bianco «per le ulteriori carte» dopo la col. V] e ne abbia imposto [sic] un completo rifacimento» (p. 18, col. III). 3. Il rotolo, rimasto bianco per largo tratto (a destra della colonna V), viene derelitto e giace abbandonato per moltissimo tempo. Parecchi decenni dopo però viene ripescato, nell’atelier dell’artistadisegnatore. Si constata che il verso è bianco e si prende la decisione di utilizzare appunto il verso per farne un “quaderno” o “prontuario” di disegni esclusivamente animaleschi. A qual fine? Per clienti unidirezionali nel gusto, protesi cioè a decorare le proprie ville unicamente con figure di animali. (Seconda vita.) 4. Ma, com’è fatale, i gusti cambiano. Clienti interessati a decorare le proprie ville con quelle figure di animali scarseggiavano o addirittura non ce n’erano più. Il rotolo venne di nuovo abbandonato e daccapo giacque. E tuttavia, un mezzo secolo più tardi, qualcuno lo andò a ripescare e si accorse che sul recto c’erano ancora degli spazi bianchi e decise – forse anche per un acuto senso dell’economia – che se ne potesse fare ancora uso: come spazio in cui potessero esercitarsi dei «giovani allievi disegnatori» intenti a studi del corpo umano a partire da pezzi di statue. Il sofisticato obiettivo ha prodotto in tutto cinque mani, sei piedi e cinque (o forse sei) teste, infilati dovunque c’erano spazi utili, persino nella striscia iniziale dell’agraphon. Ben modesto risultato, a pensarci bene, per una intera “scuola”. A meno che non si debba pensare ad altri metri di papiro bianco spettanti pur sempre a questo rotolo fatato e longevo ma andati persi. In tal caso dovremmo dedurre che lo spreco all’origine fu ingente: il rotolo era stato utilizzato solo in minima parte e tuttavia fu buttato via in toto. Pazienza. (Terza vita.) 5. Ancora dopo 150 anni a partire dal suo primo impiego, il rotolo era pur sempre in vita. Dopo il tempo di Domiziano (difficile dire quanto dopo) lo si ritrovò ancora una volta, da qualche parte, e ci si decise a porre fine alla sua esistenza. Fu ridotto in pezzi (addirittura 50?) e utilizzato, insieme con brandelli di ben 25 documenti (così ci viene detto), come riempitivo di una maschera funeraria. (Ancorché d’oltretomba, questa potrebbe pur sempre considerarsi una Quarta vita.) 6. Pur passando da un impiego a un altro, da un atelier a un altro, quel rotolo aveva dunque avuto vita lunga.

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Molto più lunga l’ebbe la maschera, di cui si sostiene che avrebbe celato dentro di sé il papiro. La maschera, per la verità, non l’ha vista nessuno, né il suo proprietario s’è dato pensiero di fotografarla prima di farla sventrare. Eppure sarebbe stato doveroso mostrare una foto della maschera da cui proveniva cotanto tesoro: elementare tassello dell’informazione. Ma non fu fatto, né al momento in cui il reperto, ormai disteso, veniva mostrato agli studiosi (alcuni dei quali poi se lo accollarono), né nelle molte sale del Palazzo Bricherasio di Torino, dove il papiro, attorniato da materiali illustrativi di ogni tipo, è rimasto in mostra dal febbraio al maggio 2006. Ormai è troppo tardi. Ora sarebbe privo di senso, oltre che di gusto, esibire una foto di una qualche maschera, e dire: era questa. 7. È nondimeno interessante riconsiderare quel che ci vien raccontato di codesta «maschera-cosa-in-sé». All’inizio del XX secolo (così séguita la storia), essa figurava nella collezione di un personaggio egiziano, Khashaba Pasha, noto non solo per aver fondato il Museo di Asyut, ma anche per qualche traversia (pur difeso da Maspero, fu privato dalle «autorità» del permesso di scavare)39; noto anche per aver posseduto una collezione di maschere funerarie, di cui una piccola parte è descritta in un catalogo dattiloscritto posseduto dal Metropolitan Museum di New York ma poco accessibile agli studiosi. Si potrebbe, a margine, fare una osservazione di buon senso: finché la maschera non fu ‘sventrata’ e finché non rivelò il suo prezioso e occulto carico, nessuno sapeva che contenesse quel ben di Dio; e nondimeno (chi sa mai perché) veniva – ci si passi l’espressione – tenuta d’occhio e se ne seguivano i percorsi e i passaggi di proprietà, quasi che se ne intuisse ‘dall’esterno’ l’eccezionale pregio. Come spiegare altrimenti che proprio di questa maschera, pur ignorandosene il prezioso e occulto contenuto, si sia seguito il destino, dal tempo di Khashaba a oggi? La favola prosegue infatti fino al suo ultimo proprietario, Serop Simonian, il quale notò che, esposta al sole, la maschera secerneva inchiostro; e svelò l’arcano40. 39 Cfr. REID 2002, pp. 204, 211. Sulla controversa figura di Khashaba, interessanti i diffusi riferimenti nella Correspondance Maspero, conservata nella Bibliothèque de l’Institut de France, ms. 4024, f. 329 (lettera di Ahmed Kamal a Maspero, datata «Mangabad le 2.12.1912»). 40 Le mirabolanti vicende qui riepilogate sono raccontate in varie pubblicazioni. Ne ricorderemo le principali: GALLAZZI-KRAMER 1998, pp. 191 e 195; GALLAZZI 2006, pp. 18-19; FERRERO 2006a, pp. 110-114 (= FERRERO 2006b, pp. 122-126). Ma anche altri interventi pubblicati tra il 2001 e il 2006, in giornali, riviste etc., han-

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8. È solo al principio degli anni Novanta che alcuni studiosi sono stati ammessi alla presenza di questo papiro: esso era ormai sostanzialmente restaurato e comunque disteso e ricomposto in grosse unità. Restava proprietà del collezionista Simonian, il quale aveva fatto circolare con adeguata destrezza la notizia del prezioso reperto. Il catalogo Tre vite rievoca, con pathos contenuto, l’epocale vicenda. Prende l’aire con parole che sembrerebbero riecheggiare, preterintenzionalmente, certo forse alla lontana, il Manifesto di Marx («Uno spettro si aggira per l’Europa...»): «Verso la metà degli anni Novanta, in una ristrettissima cerchia [...] cominciò a circolare molto discretamente la voce etc.» (p. 15). La “cerchia”, viene precisato, comprendeva “papirologi e studiosi di arte antica”. La “voce” era «che un collezionista non meglio identificato possedeva un papiro eccezionale, in cui, accanto a un testo greco, comparivano decine di disegni di fattura squisita [sic]». L’autore di questo incipit seguita così: «Finalmente, negli ultimi mesi del 1998, il proprietario del reperto, dimostrando una encomiabile attenzione per le esigenze della scienza41, propose a chi scrive e alla prof. Bärbel Kramer dell’Università di Treviri di esaminare il suo prezioso oggetto». Insomma la fase “maschera” appartiene a una ‘preistoria’ il cui solo testimone è Simonian. Del resto, già in apertura del Bericht per «Archiv», 1998, i due editori avevano scritto le stesse frasi riproposte, quasi un decennio più tardi, al principio di Tre vite: «Seit einigen Jahren kursiert in Fachkreisen die Fama, es existiere ein Papyrus, der [...] einzigartig sei». E ringraziavano il mecenate-proprietario per aver fornito loro delle foto e offerto l’opportunità di studiare il papiro nell’originale (p. 189, n. 1). La precisa cronologia che si cava da queste parole conferma che, già al momento della prima ‘visita’, il papiro era ormai disteso e almeno in parte ricomposto. E necessariamente lo era già quando il proprietario aveva messo in giro le primissime indiscrezioni. Insomma davvero la maschera-cosa-in-sé non l’ha vista nessuno42.

no riproposto brani di questa «misteriosa» storia. Una rassegna critica assai ben fatta delle molte dichiarazioni rese dai protagonisti di questa vicenda intorno alla provenienza e alle vicissitudini del papiro di Artemidoro è stata redatta dall’informatissimo Agatemero in «QS», 65, pp. 410-419 e 66, pp. 371-378. 41 Tournure un tantino imbarazzante. 42 Forse nemmeno il proprietario...

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9. Tra il 1999 e il 2005 c’è una lunga stasi. Cosa accade nel frattempo? Per un verso c’è la campagna promozionale intesa alla vendita del reperto. Esso era stato “lanciato” per l’appunto con l’articolo apparso sull’«Archiv für Papyrusforschung» alla fine del 1998. Il proprietario – ci informa il saggio di apertura del Tre vite – aveva chiesto ai due studiosi da lui invitati di «presentare una descrizione [del papiro] sulle pagine di una rivista specializzata» (p. 15). Ed essi agirono prontamente: «lo studio fu necessariamente rapido» (ibid.). L’obiettivo comunque fu conseguito: «far comprendere quanto fosse grande l’importanza che il pezzo aveva». Con comprensibile orgoglio il resoconto prosegue con la descrizione degli effetti mediatici dell’articolo apparso nel pur altamente specialistico «Archiv für Papyrusforschung und verwandte Gebiete». «L’eco prodotta dall’articolo – si legge ancora a p. 15 – fu davvero enorme e non restò racchiusa dentro i limiti ristretti degli ambienti accademici: quasi tutti i quotidiani italiani si occuparono della scoperta43 e anche i giornali di vari paesi europei dedicarono al papiro uno spazio sovente esteso». Segue lista: «ABC» e «Heraldo de Aragón» in Ispagna, l’«Independent» in Gran Bretagna, la «FAZ» in Germania44. Ma qui c’è forse un lapsus memoriae. La «FAZ» (o meglio il suo magazine) si occupò del papiro nella seconda ondata mediatica: quella conseguente alla compravendita. Compravendita che avvenne, finalmente, all’inizio di ottobre del 2004, e dopo innumerevoli dolorosi rifiuti (anche da parte del re di Spagna)45. S’è già detto della stasi intervenuta pur dopo «l’eco enorme» dell’articolo dell’«Archiv». Non se ne conoscono esattamente le cause, bensì gli effetti. «The owner has now withdrawn the papyrus from further study – rivelò Robert Knapp al congresso storico-geografico dell’aprile 2003, celebrato tra Siviglia e Huelva –, so that the report of Kramer and Gallazzi is all we have»46. Fortunatamente, dopo la vendita (ottobre 2004), lo slancio è tornato ed è stata, a quanto pare, pubblicata l’edizione critica e commentata del reperto, in concomitanza con l’inaugurazione a Torino delle Olimpiadi invernali (iniNelle redazioni, si sa, l’«Archiv» è pane quotidiano! È infatti nelle redazioni dei giornali italiani che l’«Archiv» miete i maggiori successi. 45 Ma su ciò Agatemero, «QS», 65, cit. ha detto l’essenziale. 46 KNAPP 2004, p. 283. 43 44

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zio febbraio 2006). E così, il saggio di apertura del Tre vite poteva annunziare con giusto orgoglio al mondo dei dotti e dei profani (ivi, p. 15, colonna II): «I risultati del lavoro compiuto sono stati raccolti nel volume Il papiro di Artemidoro (a cura di C. Gallazzi, B. Kramer, S. Settis, con la collaborazione di G. Adornato, LED, Milano 2006), che non solo presenta l’edizione commentata del papiro, ma contiene pure le riproduzioni integrali di esso, effettuate a luce bianca e all’infrarosso, sia stampate su carta sia in forma digitale ad altissima definizione. A tale pubblicazione debbono necessariamente fare riferimento non soltanto gli specialisti, ma anche coloro che vogliano trovare tutte le informazioni disponibili sul reperto». Purtroppo però questa pubblicazione dev’essere rarissima e comunque introvabile, per cui abbiamo dovuto ripiegare su quanto pubblicato nell’«Archiv» (e ripubblicato ben cinque volte negli anni 1998-2007) nonché sulle eccellenti foto presenti nel Tre vite47. Esse, data anche la elementarità della scrittura, rendono del tutto possibile a chiunque la lettura di larga parte del testo e anche la degustazione della “squisita fattura” dei disegni48.

3. Tutto poggia sulla «mappa» La ricostruzione della vicenda scandita in più «vite» che avrebbe come protagonista il cosiddetto papiro di Artemidoro ha come fulcro la “mappa” posta tra la colonna III e la IV. È con la mappa che si tenta di spiegare tutto. 1. Innanzi tutto la drastica e inelegante irregolarità delle colonne di scrittura, sconciate in quel modo (l’ultima, la V, straborda addirittura fino all’estremo lembo inferiore del rotolo) per far posto alle mappe: «[...] der Schreiber des Textes den Abschnitt [= il periplo] in zwei Kolumnen unterbringen wollte, um genügend Platz für die Landkarten freizulassen»49 [si noti il plurale! Chi sa quanMa per le ultime notizie si veda più oltre la nota introduttiva a Proevkdosi~. Non va trascurata la circostanza che i tre, o quattro, editori del papiro, «dimostrando un’encomiabile attenzione per le esigenze della scienza», hanno fornito ogni sorta di informazioni nell’imponente Tre vite. Per esempio, come si legge nella ricchissima pagina 15, il saggio di apertura «si limita a ricostruire sistematicamente le vicende attraverso cui il papiro è passato». 49 GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 193. 47 48

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te mappe pensano che sarebbero dovute sorgere a destra della colonna V]. 2. Secondo effetto. Appunto in quanto “sbagliata” e perciò motivo di drastico disappunto, la mappa “serve” anche a spiegare perché mai il rotolo fu dismesso, pur largamente incompleto e non coperto di scrittura e abbandonato, e molto più tardi ripescato e destinato ad altri usi (al «prontuario di animali»: la seconda vita). 3. Terzo effetto. L’abbandono del rotolo (in conseguenza dell’«errore di mappa») avvenuto quando una consistente parte del recto era tuttavia bianca, priva di struttura, creò, trascorso un altro manipolo di decenni, un’ulteriore possibilità di «vita»: per l’appunto del vasto tratto non utilizzato del recto («quaderno di esercizi»: terza vita). Forse mai, nella storia della scrittura in Occidente, errore risultò più provvidenziale50. Ma perché mai quello schizzo paesaggistico, arbitrariamente detto mappa, sarebbe il frutto di un errore? Dov’è, in che consistette, l’errore? La risposta a questa ovvia e necessaria domanda è stata la seguente: «La prima carta annessa ad un testo che descriveva la Spagna a partire dai Pirenei [= coll. IV e V] avrebbe dovuto essere la mappa dell’intera penisola oppure quella delle regioni orientali [= i Pirenei] da cui iniziava51 il periplo»52. E l’autore di queste righe prosegue con crescente categoricità: «Sicuramente [?] non poteva essere la mappa della Betica, che era solo una provincia dell’Iberia53, per di più ubicata a Sud-Ovest, o la mappa di una regione ancora meno estesa». E deduce: «Evidentemente il disegnatore incorse in un errore: anziché riprodurre la carta giusta, cioè la prima del rotolo che aveva davanti come modello, cominciò a copiare la seconda o una di quelle successive54, che dovevano raffigurare altre zone specifiche della penisola». In realtà proprio questo presupposto (la ‘giusta’ mappa da cui incominciare la serie delle mappe intercalate), puntello di tutta la 50

GALLAZZI 2006, pp. 18-19 ma già GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 195: Die Pha-

sen. Meglio: s’iniziava. GALLAZZI 2006, p. 18 (col. 2 in basso). La teoria sulla carta incompleta e delle successive fasi di riutilizzo è già in GALLAZZI-KRAMER 1998, pp. 199-207 (e 195). 53 Lo fu solo a partire da Augusto! 54 Ancora una volta si allude a una serie di mappe della Spagna preventivate per questo rotolo da elefanti. 51 52

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teoria55, è inconsistente. Infatti presuppone una situazione doppiamente impossibile: a) implica l’esistenza di una cartografia “regionale”, invero inesistente fino a Tolomeo; b) per giunta postula anacronisticamente la pratica di mescolare carta e testo geografico, laddove nella tradizione e trattatistica geografica antica la carta è unica e di grandi proporzioni (cfr. Strabone, II, 3, 3-10)56. Già per queste ragioni verrebbe meno il pilastro stesso su cui tutta la teoria si poggia. Quel tipo di disegno (arbitrariamente definito «carta») e collocato in quel modo è un fuor d’opera non attribuibile a un antico geografo. È, anzi, di per sé, un potente indizio di mistificazione recente. Comunque, scendiamo pure sul terreno di questa strabiliante teoria. L’assunto è: quella è la Betica, ma non ci voleva la Betica, perciò il rotolo fu dismesso. Ma nella stessa pagina (Tre vite, p. 18 colonna II, in alto) ci viene detto che non è affatto detto che quella raffigurata nello schizzo sia la Betica: «L’interpretazione della carta come quella della Betica è basata solamente su alcune analogie con le mappe moderne, suggestive ma non determinanti»; e poco dopo: «non è del tutto esclusa l’eventualità che la carta si riferisca a qualche altra zona costiera della Spagna». Che addirittura la mappa abbia a che fare con la Spagna era presentato nella prima pubblicazione57 come una mera ipotesi: «[...] doch wird (man) aus dem ungebendem Kontext den Schluß ziehen, daß es sich um eine Karte der iberischen Halbinsel handeln muß». E addirittura Bärbel Kramer ha candidamente dichiarato anni dopo (30 ottobre 2005) alla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» (magazine) che l’unica ragione per cui si può pensare che quello schizzo riguardi la Spagna è che esso si trova vicino alla sommaria delineazione di un periplo della Spagna!58 Magnifico esempio di petitio principii. Ma se così si vanificano i presupposti, dove va a finire il benefico errore che avrebbe causato la provvidenziale «reazione a catena» scandita in tre vite? GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 195: Die Phasen. Cfr. soprattutto PRONTERA 2001, coll. 205 e 213. Si aggiunga il carattere confusamente paesaggistico di quella presunta mappa, che non ha nulla a che fare con gli esempi conosciuti di cartografia, da Ecateo a Tolomeo. Su ciò cfr. FARINELLI 2007. 57 GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 199, § II Die Landkarte. 58 Ma nel momento in cui (2006) Bärbel Kramer è passata alla teoria “estratti” (= un proemio generale + una mappa + un periplo) daccapo quella mappa può rappresentare qualunque contrada. 55 56

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Ammettiamo comunque che il paesaggistico schizzo sia davvero la Betica. E perché mai sarebbe un errore aver collocato lì la Betica? Legittimamente una (ipotetica) cartografia della Spagna incomincerebbe dalla Betica, o addirittura dal punto estremo di essa, Gades o dal «promontorio sacro». In quanto punto estremo dell’occidente, Gades, o meglio il promontorio sacro, costituiva senza ombra di dubbio, per i Greci, un inizio: in particolar modo in una descrizione dell’ecumene che partiva appunto dall’estremo occidente. Anche in quella ideale e sintetica mappa dell’impero che Augusto traccia nelle Res Gestae (§ 26: «qua includit Oceanus a Gadibus ad ostium Albis fluminis») è Gades l’inizio. Per concludere su questo punto: incominciare dalla Betica l’illustrazione (a quanto si pretende, sistematica) del libro sulla Spagna – inizio della trattazione – era del tutto ragionevole. Oltre tutto, nelle due colonne poste subito accanto allo schizzo sono menzionate, in pochi righi, tutte le regioni della Spagna. Il che rende ancora più fragile l’asserito presupposto della necessaria priorità iconografica dell’una sull’altra. Nel Tre vite le ipotesi si accavallano e si elidono. Viene anche prospettato che quella “mappa” raffiguri in realtà soltanto la foce del Guadalquivir (il Baetis appunto) e che – dettaglio pittoresco – il disegnatore «non colorò di azzurro i fiumi» [sic] (p. 18, col. 2, rigo 16). In alternativa viene prospettato che la mappa si riferisca «a qualche altra zona costiera della Spagna con una foce a delta, che, al pari di quella del Baetis, diventò poi un estuario» (ibid.). Ma, a quel punto, l’allarme cresce: quante mappe avrebbe dovuto concepire e realizzare il povero disegnatore? O si andava avanti per schizzi scelti? E quali dimensioni avrebbe dovuto raggiungere il rotolo? Il quale, oltre tutto, è solo uno spezzone del libro secondo di complessivi undici. Nel capitolo IV (vedi infra) abbiamo provato a portare alle conseguenze logiche queste insensate premesse, memori di un dato notorio e assodato, che cioè l’opera geografica di Artemidoro non si limitava a questa o quella regione (la Spagna ad es.), ma comportava la descrizione di tutto il mondo conosciuto. Qui facciamo invece un altro esperimento partendo da un’altra delle ipotesi che il Tre vite profonde a piene mani: che cioè il papiro fosse destinato a contenere soltanto il periplo che vi leggiamo (p. 17, col. 3, r. 13-15: «non possiamo nemmeno stabilire se il rotolo, quando era intatto, portasse tutto il libro II o solamente la sezione inizia-

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le di esso»)59. Pertanto, con fantasia adeguatamente sbrigliata, accantoniamo la «reazione a catena» innescata dall’«errore di mappa» e procediamo alla flebile luce dell’ipotesi che il rotolo commissionato fosse soltanto il secondo libro anzi addirittura l’inizio e basta. Un’ipotesi tutta spagnola, se non proprio minimal-spagnola. Il punto di partenza, in tal caso, potrebbe essere che il committente era, per una qualche ragione, un «patito» della Spagna. Immaginiamo un manipolo di legionari, di stanza in Egitto (i “Gabiniani” per esempio), uno dei quali di origine spagnola o che a lungo aveva svolto il servizio in Ispagna. Preso dalla nostalgia di quel paese aspro e, per lui, gravido di ricordi (esperienze struggenti? paesaggi indimenticabili? ricchezze perdute o inopinatamente guadagnate?), spinto da quel povqo~ che Aristofane al principio delle Rane descrive come irresistibile, quell’uomo volle “farsi” – o meglio farsi fare – una Spagna. Ovviamente, recandosi, o soggiornando, ad Alessandria, si sarà portato in biblioteca (forse gli bastava il Serapeo). Ed eccolo ‘scoprire’ lì i Gewgrafouvmena di Artemidoro, ed eccolo commissionare una selettiva copia (di lusso) delle sole colonne che descrivono la sola forma della Spagna o poco più. Ma quell’uomo ha anche voluto – e qui l’elemento nostalgia ha pesato – un bozzetto che gli ricordasse visivamente quei luoghi. È così che ha preso vita il reperto che è oggi nelle nostre mani. Insomma la teoria-ipotesi dell’«errore di mappa», oltre che sbriciolarsi facilmente, è anche superflua. Cosa di più semplice che immaginare che il nostro legionario abbia voluto poi spegnere la malinconia di una vita di viaggi disegnando lui stesso o un suo famiglio (o un artista prezzolato) quel serraglio di animali esotici, parte visti da lui medesimo parte uditi decantare da colleghi di lui più avventurosi? E che difficoltà ci sarebbe poi a immaginare (l’immaginazione non ha confini) che quei piedi e quelle mani che ha sentito il bisogno di vergare (o far vergare) sul recto del papiro, negli spazi lasciati vuoti dalla scrittura, stiano a simboleggiare il tantissimo cammino cui egli aveva dovuto sobbarcarsi nel suo lungo peregrinare con le armi di Roma sulle spalle (e/o vendendo merci nelle più lontane contrade nel caso si sia trattato non di un soldato ma di un mercante)? E quanto poi alle teste, nulla di più lieve e di più attraente 59 Segue una frase che ha del paradossale: «non essendo conosciuta l’opera di Artemidoro [sic], qualsiasi illazione sarebbe arbitraria». Insomma Hudson, Hoffmann, Stiehle, Müller etc. sono passati invano.

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che pensare a un bisogno – che quell’uomo avvertì acuto – di fissare in qualche modo l’immagine delle persone a lui care (zii dalla severa barba riccioluta, virago dagli occhi lampeggianti, giovinetti con una benda tra i ciuffetti etc.). Pourquoi pas? Dov’è mai la difficoltà? Tutto si spiega. Come ci insegna il calcolo delle probabilità, a partire da un ristretto manipolo di elementi si possono determinare n combinazioni. C’è posto per tutti. Maiora canamus Quel che appare davvero lunare è la tesi, in verità sotto ogni rispetto indimostrabile, secondo cui, commesso l’errore all’inizio del rotolo (concesso, beninteso, che di errore si tratti!), venisse logico buttar via tutto il rotolo. È appena necessario far notare, invece, che, se davvero errore ci fu, bastava tagliare la mappa «errata» e confezionarne un’altra e incollarla tra le due sezioni di rotolo già coperte di scrittura. O comunque tagliare e buttare quanto già scritto e salvare tutto il resto. Questa considerazione, palmare, vanifica la contorta ipotesi dell’errore e delle sue incredibili conseguenze di lungo periodo. Invano Arnaldo Momigliano ha insegnato che la prima domanda da porsi non è se un’ipotesi sia possibile ma se i dati disponibili autorizzino una qualunque ipotesi. 4. Il papiro dei miracoli: «golpe de suerte»! Ai dubbi, numerosi, che via via affioravano o che si voleva fugare in anticipo, si è ogni volta risposto invocando l’unicità del reperto dai più diversi punti di vista. Ogni anomalia diventava così un pregevole unicum e ogni anacronismo una significativa anticipazione di fenomeni che la storia futura avrebbe poi inverato. Pensando di esaltare il pregio del reperto Bärbel Kramer si incaricò lei stessa di stendere una lista delle unicità. Secondo tale lista, non priva di tautologie, il papiro di Artemidoro avrebbe finora conseguito i seguenti primati: – costituisce la raccolta archeologica più antica di disegni realizzata su papiro; – offre gli esempi più antichi di disegni di animali, posti su un papiro, che servirono come campioni per mosaici e pitture murali; – offre gli esempi più antichi di teste umane disegnate su un papiro;

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– offre ugualmente disegni di parti del corpo, in assoluto i più antichi, del mondo greco-romano, che figurino su di un papiro. Inoltre il papiro ci presenterebbe per la prima volta: – parti non conosciute del testo originale della Geografia di Artemidoro di Efeso; – il testimone più antico del toponimo Hispania come sinonimo di Iberia in un originale [sic] antico; – il periplo (paraplous) più antico della Spagna, redatto da un testimone oculare intorno all’anno 100 a.C.; – l’etnico Salakeinov~, fino ad ora mai attestato60; – la menzione di un faro o belvedere situato in Salakia61; – la menzione di un faro o belvedere chiamato «Torre di Menesteo» vicino al porto, già noto, recante lo stesso nome; – i nomi e la localizzazione approssimativa delle città di “Iya e Kilivbh in un testo letterario; – il nome corretto del fiume Beliwvn di Strabone, ÔObleuivwn, trascrizione del nome latino Oblivio, traduzione a sua volta di Lhvqh62; – la mappa più antica conservatasi di epoca greco-romana e perciò, al tempo stesso, la mappa più antica conservatasi della penisola iberica63 (una formulazione quest’ultima da fare invidia a M. de La Palice). Tralasciamo per ora di considerare alcuni punti di questa singolare lista (ad esempio il carattere tardivo e postcesariano del toponimo Salacia, la urbs imperatoria di Plinio [IV, 116], che potrebbe mettere, da solo, in crisi un po’ tutta la costruzione, ovvero la incredibile compresenza tanto di Karchdw;n hJ neva quanto di kainh; Karchdwvn per giunta a distanza di pochi righi, cfr. su ciò infra, l’ultima nota alla Proekdosis) e aggiungiamo alla lista altre unicità, «miracolose», che qui di seguito elenchiamo. 1. Si può partire dall’unicità della scrittura: «Non abbiamo trovato – dichiarano candidamente gli editori – una mano letteraria uguale a questa (eine gleiche literarische Hand haben wir nicht gefunden), bensì solo un certo numero di papiri comparabili per alcune singole lettere»64. 60 E verrebbe da osservare: non a caso, visto che dovrebbe essere un derivato di Salacia, donde semmai Salakeios. 61 Sulla controversa posizione geografica di Salakia, cfr. MÜLLER 1883, p. 131. 62 Su ciò vedi infra, § 7. 63 KRAMER 2005, p. 30. 64 GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 190.

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2. Spiccata è anche la rarità delle dimensioni (2 metri e mezzo di lunghezza; cm 32,5 di altezza). Altezza insolita, riconoscono gli editori: «un’altezza di cm 32,5 per un rotolo letterario di epoca tardoellenistica è insolita (ungewöhnlich)»65. Ma c’è di più. Nel caso della colonna V si sarebbe indotti a pensare che l’altezza fosse ancora maggiore, dal momento che l’ultimo rigo conservatosi (che è anche, con spettacolare “tempismo”, l’ultimo rigo del periplo66) è scritto sull’estremo lembo inferiore: il che però implicherebbe l’esistenza (un dì) di un margine inferiore che si sarà perso. Ergo dovremmo dedurre (se ci trovassimo di fronte a comportamenti normali) che la striscia di papiro nella quale figura la colonna V proviene da un altro rotolo, la cui altezza era superiore ai già cospicui cm 32,5. La situazione è resa in certo senso ancora più curiosa dalla circostanza che le colonne I e V contengono pressoché lo stesso numero di righi (rispettivamente 44 e 45): però, mentre al di sotto della I c’è un bel margine inferiore, al di sotto della V non ve n’è affatto. Tuttavia contro la provenienza di col. V da un altro, e più alto, rotolo, c’è la circostanza della sicura unità del supporto, almeno per quanto attiene alle colonne IV e V: infatti l’ultima sillaba della parola Purhvnh (col. IV, rigo 16) si trova sullo stesso pezzo di papiro che ospita la colonna V. Si dovrà dunque tentare un altro genere di spiegazione. E l’unica, ancorché un po’ disperata, è invocare l’imperizia del copista. Imperizia che, in effetti, rifulge, visto che – come si è osservato – le colonne I e V hanno quasi lo stesso numero di righi, ma ben diversa altezza67. Giacché pretendere che s’è dovuto, nel caso della colonna V, scrivere sin sul bordo del tavolo perché si doveva tener conto dello spazio da destinare alle mappe è inetto: lo spazio lo determinava il copista nell’atto stesso del copiare. E cavarsela dicendo che era vincolato al modello significa infischiarsene della logica più elementare, significa solo spostare la insostenibile bruttura dal nostro rotolo al suo modello, e quindi fatalmente al modello del modello e così via, all’indietro, fino all’«edizione d’autore» se non proprio all’originale! Ma alla fine della catena il problema si riproporrebbe intatto. Ivi, p. 189, nota 2. Il quale terminava appunto con le parole to; de; loipo;n th'" paraliva" oujdei;" ejpeqewvrhsen. 67 A tacer della larghezza: l’una è larga cm 10, l’altra 16. 65 66

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Il fatto è che, lasciando perdere spiegazioni insostenibili, piuttosto che di inaudita imperizia di un antico copista professionale si dovrebbe qui pensare all’opera di qualcuno (un moderno) operante quando ancora non si aveva un’idea sufficientemente chiara della tipologia dei papiri letterari greci68. 3. Veniamo ora al cartonnage. Questo «Artemidoro» appare essere l’unico caso di papiro che, pur provenendo (così sostenne il venditore) da cartonnage, non presenta però alcuna, ancorché infima, traccia di gesso o di colla. Il che appare tanto più mirabolante trattandosi non già, per fare un esempio conosciuto, dell’Archiloco di Colonia69, ma di un pezzo di così grandi (anzi «ungewöhnliche»!) proporzioni. Il primo e basilare restauro di questo «Artemidoro» essendo stato attuato anteriormente all’esibizione del reperto agli eventuali acquirenti, tutto quanto attiene al cartonnage di provenienza e al suo opimo contenuto70 dovrebbe esser creduto con atto di fede sul fondamento della sola “testimonianza” del venditore71. Ancora un dettaglio, nello stesso ambito. Papiri provenienti da cartonnage risultano di norma sagomati, tagliati piuttosto geometricamente. È il caso del Posidippo, edito nel 2001, o dei Sicioni di Menandro: esempi ben noti. Qui invece nulla del genere. 4. Ovviamente, anche tutto quanto pertiene alla mappa e alla sua incongrua posizione all’interno del rotolo (su ciò vedi il paragrafo precedente) rappresenta un ulteriore unicum. 5. Pur passato attraverso vicissitudini e traversie d’ogni genere, pur ridotto (così viene asserito) in cinquanta pezzetti, il papiro con68 A questo proposito giova segnalare (torneremo diffusamente su questo punto) che nel falso papiro del Periplo di Annone, creato nel 1864 dal celebre falsario di codici e di papiri Costantino Simonidis, non soltanto abbiamo ugualmente cinque colonne, come in questo periplo della Spagna che si vuol far passare per Artemidoro, ma esse sono, rispettivamente, di righi 35, 35, 36, 38, 33. Inoltre la quinta è di circa un centimetro meno larga rispetto alla prima e alla seconda. E la prima e la seconda, pur essendo entrambe di 35 righi, sono di altezza disuguale. Insomma i due peripli (l’uno a nord l’altro a sud delle «colonne») sembrano pensati e attuati dalla stessa testa. (Né nell’uno né nell’altro si verifica quel diffuso fenomeno che si suol definire “legge di Maas”.) 69 Del quale il restauratore (in tal caso ben conosciuto) assicura che proviene da cartonnage. 70 Tra l’altro i mai visti documenti di età neroniana e domizianea. 71 È stata anche messa in giro la voce che il restauro dell’“Artemidoro” sarebbe stato realizzato a Stoccarda. Una pur accurata indagine non ha finora permesso di riscontrare la notizia.

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serva un testo intero: da col. IV, 1 a col. V, 45 c’è tutto il periplo fino alle parole conclusive, ancorché recuperate sul bordo estremo. S’è salvato lo svolgimento intero, o per meglio dire tutto quanto si vuole che l’autore avesse in animo di scrivere. Il “miracolo” del testo che si conserva per intero nonostante sia stato frantumato e impastato in un cartonnage diventa ancor più impressionante se si considera che quel poco che manca lo si può risarcire: a) con l’inizio del fr. 21 (conservato per tradizione indiretta); b) con la scrittura impressa (su cui vedi infra). In certo senso, questo fenomeno è sullo stesso piano di quello che si manifesta nella colonna IV, dove il “copista” ha scritto ben due volte (righi 24 e 25) intorno ai buchi del papiro: quella micidiale scrittura intorno a lacuna che è, a ragione, considerata la prova classica della falsificazione (su ciò vedi infra, Parte quarta, La chiave della falsificazione, nonché Proekdosis). 6. Tra i primati di questo rotolo si potrebbe anche indicare il genere di errori e la loro densità in così breve spazio. Ce n’è uno che merita il primo posto: è la sistematica grafia geografiva/geogravfo~ (righi 1 e 16 della colonna I e probabilmente rigo 3 della colonna II). Fa un certo effetto in un testo la cui prima parola era gewgrafouvmena, il titolo, da ripetersi oltre tutto a ogni nuovo libro. Un altro errore da primato è cwvran in luogo di qavlattan in col. IV, 19. In luogo di hJmetevran qavlattan (mare nostrum, formula che ricorre anche al r. 35) vien fuori un hJmetevran cwvran (il nostro paese), con l’esilarante risultato che i Pirenei «sfociano nella nostra terra» (anziché “nel Mediterraneo”)72. O siamo di fronte al più divertente errore polare dell’attività copistica antica? Non meno innaturali paiono altri comportamenti quali la adozione degli errori e lezioni singolari presenti nel Parigino greco 2009 ovvero la scelta capricciosa e puntualmente rispettata di aggiungere anche fuor di luogo lo iota dopo w e di ometterlo sistematicamente dopo h. E si potrebbe proseguire. Certo, per un’edizione “di lusso” pensata addirittura per la grande Biblioteca di Alessandria o almeno per il Serapeo (così il Tre vite, p. 17), fu scelto paradossalmente un copista ignorantissimo.

72 Il nonsense è tanto più vistoso in quanto lì il modello adoperato è – come vedremo più oltre – un passo di Marciano: dunque forse si tratta di una “trovata” intenzionalmente depistante.

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7. Un’altra ragguardevole «unicità» di questo «Artemidoro» è costituita dalla pervasiva presenza di una scrittura impressasi sul verso. È l’impronta del testo presente sul recto. Essa completa quanto sul recto risulta ormai mutilo o carente. Il fenomeno riguarda tutte le colonne superstiti, e le ha investite da un capo all’altro. Non si conoscono altri casi del genere, fatta eccezione per un piccolo frammento tucidideo (P. Yale I, 19 = inv. 360) di cm 8  11,2 contenente 15 mezzi righi dal libro VII (34, 8-36, 5)73. L’unicità del caso “Artemidoro” è data soprattutto dalla vastità del fenomeno. Ciò ha indotto gli editori a fornire, a distanza di pochi anni, contrastanti spiegazioni del fenomeno. Dapprima si è sostenuto che esso andava spiegato immaginando che il copista avesse troppo frettolosamente riavvolto il rotolo via via che procedeva nella scrittura74. È una spiegazione che lascia perplessi. L’artefice incaricato di questo oggetto «di lusso», destinato addirittura alla biblioteca di Alessandria, non si è cautelato rispetto al più banale degli incidenti: al contrario ha lasciato che esso si verificasse con esasperante regolarità. È curioso che si sia inizialmente abbracciata questa spiegazione in quanto contestualmente a essa veniva fatto rinvio proprio al caso del frammentino tucidideo (apparso sulla stessa rivista l’anno precedente) che però Babcock ed Emmel avevano cercato di spiegare con l’ipotesi di un effetto dell’«umidità»: «la parte di rotolo immediatamente precedente le colonne superstiti dev’essere diventata umida e l’inchiostro trasudò»75. E ben si comprende che Babcock ed Emmel abbiano tentato questo genere di spiegazione, non trovando peraltro nessun precedente cui rinviare. Infatti è ovvio che, in caso di riavvolgimento affrettato del rotolo, saranno al più le ultime righe della colonna, ancora fresche d’inchiostro, a lasciar traccia, non certo l’intera colonna (di ben 73 Si tratta dell’angolo superiore di una colonna. Nella prima pubblicazione (1967) il fenomeno non era stato rilevato. Lo è stato trent’anni dopo, da BABCOCKEMMEL 1997. 74 GALLAZZI-KRAMER 1998, pp. 191 e 192: parole e parti di parole (Wörter bzw. Wortteile) hanno lasciato le loro impronte (Abdrücke) a seguito del riavvolgimento del rotolo (durch das Einrollen) [p. 191]; l’inchiostro ancora fresco (die noch feuchte Tinte) della colonna appena scritta si è impresso sul verso perché il copista «die Rolle während des Schreibens von links nach recht eingerollt hat» [p. 192]. 75 BABCOCK-EMMEL 1997, pp. 239-240.

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45 righi era quella del frammento tucidideo!). Le prime, quando il copista è giunto al rigo 45, sono già asciutte. A ogni modo l’ipotesi del copista che riavvolge frettolosamente il suo rotolo è stata successivamente abbandonata. Nel Tre vite viene adottata la spiegazione «umidità»: «Il rotolo76 per qualche tempo venne a trovarsi in un ambiente umido, ovvero fu accidentalmente bagnato, al punto che sia l’inchiostro del testo che quello dei disegni persero coesione e lasciarono impronte speculari su tutta la superficie del papiro» (p. 17, colonna II, in alto). È chiaro che siamo di fronte a una immersione totale. Ma qui sorge un’altra aporia. Infatti non è vero che testo letterario (recto) e disegni (recto e verso) abbiano parimenti «lasciato impronte». Purtroppo il fenomeno si è verificato a senso unico o quasi. Mentre la scrittura letteraria del recto si è impressa in modo pervasivo e regolare sui 42 disegni del verso, non è invece accaduto l’inverso. E neanche i disegni sopraggiunti sul recto (piedi, mani, teste) sembra si siano attivati a trasmettere inchiostro. Una volta, e in modo quasi impercettibile, l’ombra di una mano disegnata sul recto s’è sovrapposta su un’anatra disegnata sul verso. E un’altra volta la coda del drago [disegno V 29 secondo la numerazione del Tre vite], dal verso, ha ‘macchiato’ la “mappa” che è sul recto. E questo sì che sa di miracolo: la macchia d’umido sapeva solo leggere ma si disinteressava dei disegni. Né si vorrà sostenere che il fenomeno «umidità» s’era verificato quando sul rotolo c’era la scrittura letteraria ma non ancora i disegni. In tal caso si dovrebbe immaginare che sia stato utilizzato, per fare un “Catalogo di animali” da usare come prontuario per clienti, il verso già sporco di un rotolo oltre tutto ormai malconcio. E comunque l’ipotesi è improponibile visto il caso isolato della “coda del drago”77. Miracolosa, s’intende, è anche la ‘tempistica’. Infatti l’esposizione all’acqua (o all’umido) è durata esattamente quel tanto che serviva ad attuare il «trasferimento» della scrittura dal recto al verso: non un minuto di più, visto che (senza interventi soprannaturali) un’im-

76 Notare: l’intero rotolo. Babcock ed Emmel erano stati più prudenti su questo non trascurabile dettaglio. 77 Dovrebbero tentare un’altra via: provvedere a dimostrare che la composizione chimica dell’inchiostro dei disegni (del recto e del verso) era diversa da quella dell’inchiostro usato per il testo letterario.

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mersione molto prolungata nell’umido avrebbe causato il deperimento di tutta la scrittura, fino alla illeggibilità (tanto sul recto che sul verso). Ma, per fortuna, il tempo di immersione dev’essere stato proprio quello giusto78. 8. Un’ulteriore peculiarità. Sarebbe stato ovvio, constatato l’«errore del disegnatore», recuperare le parti intatte del rotolo79. Invece questa volta lo si è buttato via comprese le parti recuperabili e nondimeno lo si è tenuto d’occhio a lunghi intervalli di tempo. Pur dopo un più che secolare abbandono e traversie le più varie, esso ha avuto, dalla «suerte», longevità congiunta a vitalità intermittente: per quasi (o oltre) 150 anni, da Cleopatra a Domiziano, con le più varie funzioni e in almeno tre ambienti diversi. Se non un ‘miracolo’, almeno un primato. 9. E per finire. Avevamo un frammento lungo sotto il nome di Artemidoro (il fr. 21 Stiehle di cui a lungo parleremo nei capitoli seguenti). Nel papiro ritroviamo proprio quel frammento. Anzi, con quel frammento incomincia la colonna IV, e lì ha inizio il «periplo», e l’inizio del frammento è esattamente il rigo 1 della colonna. Il fatto è che quel frammento, nel suo contesto, non era un inizio ma (come vedremo) faceva seguito a uno svolgimento che possiamo abbastanza agevolmente ricostruire. Invece nel papiro quel frammento è stato riscritto perché diventasse un inizio autosufficiente!80 Ma un incidente di percorso ha rovinato il gioco: nelle edizioni a stampa (prese a base dal ‘creatore’ del papiro) erano state adottate (in un caso inconsapevolmente) ben tre congetture moderne, non solo superflue ma depistanti. Ebbene, tutte vengono recepite nel papiro. Ci sono falsari fortunati e falsari che lo sono meno. L’incidente capitato in questo caso era particolarmente perfido; accorgersi delle modifiche peggiorative introdotte dagli studiosi moderni non era facile.

78 Ragion per cui nel Tre vite (p. 17) si escogita la esposizione “temporanea” all’umido. 79 È la struttura stessa del rotolo che rende ovvia una tale procedura. 80 Anche nel Periplo di Annone, creato da Simonidis, si osserva analoga riscrittura del testo autentico preso a base.

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5. Dalla carta geografica alla scienza geografica: l’anacronismo delle mappe regionali Aristotele non “codificò” una scienza geografica. Né prestò attenzione alla empiria cartografica, con la quale pure si erano cimentati gli «ionici»: Anassimandro, Ecateo. Fu Eratostene (276-202 a.C.) che diede vita a opere che davvero segnarono un inizio: La misurazione della terra e i Geographiká. Della prima parla Cleomede (I, 7), della seconda – e assai ampiamente – Strabone nei primi due libri della sua Geografia: le loro informazioni sono sufficienti a darci un’idea di quei due trattati. Essi si muovevano sul piano dell’empiria, piuttosto che della teoria scientifica. Nel terzo libro dei Geographiká tracciò la «carta della terra» contro cui polemizzò Ipparco. Eratostene negava l’autorità di Omero in cose geografiche e si basava sulle carte dei suoi remoti predecessori ionici. Lo sviluppo in direzione di una ‘teoria scientifica’ della geografia è dovuto con ogni probabilità a Posidonio, più anziano contemporaneo di Cicerone. Il quale anche, a un certo momento, accarezzò l’idea di comporre un’opera geografica (Ad Atticum, II, 6) ma si arrese di fronte alla difficoltà. Delle idee e delle innovazioni di Posidonio sappiamo molto grazie a Strabone suo continuatore. Strabone si schiera a favore della attendibilità di Omero come geografo e nel proemio annovera senz’altro Omero tra gli autori che dimostrerebbero, con la loro opera, il carattere filosofico della pragmateia geografica. Si può ben arguire che entrambe queste posizioni fossero proclamate e argomentate da Posidonio nei suoi scritti (il più noto è quello Sull’Oceano). Come già Zenone e Panezio, Posidonio approvava certamente la tesi della «filosoficità» di Omero: era questo un caposaldo del pensiero stoico81. E soprattutto innalzava la pratica geografica al rango di scienza. Molto probabilmente l’affermarsi di un significato alto (episteme) su quello meramente cartografico di «geografia» (gewgrafiva)82 si deve proprio a lui. È nel suo solco che si pone Strabone, la cui pagina proemiale coniuga tutti questi elementi: la “filosoficità” della geografia; la proiezione all’indietro, fino a Omero, 81 82

Cfr. BUFFIÈRE 1956. Ma soprattutto DECLEVA CAIZZI 1966, pp. 108-109. Che ancora in Plutarco, Thes., 1 significa “carta geografica”.

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di tale statuto; la determinazione di una lunga tradizione, da Omero a Posidonio, conforme a tale nozione; la difesa perciò della polymàtheia forse in opposizione alla ben nota presa di posizione di Eraclito. Un discorso a parte andrebbe fatto per gli impieghi militari. Per muoversi sul terreno non si adoperavano né carte né mappe, che non avrebbero potuto neanche alla lontana riprodurre la complessità del terreno e risultare operative. Si mobilitavano elementi locali, con mano tutt’altro che leggera, o si compravano informatori. Nessuna descrizione di campagne militari, tra le innumerevoli che ci sono conservate dalle fonti, rinvia o allude all’uso di carte, sì piuttosto all’impiego di speculatores o di indigeni. Anche un resoconto di problematica origine ma che certo intende mettere in scena una spedizione di “esploratori”, il cosiddetto Periplo di Annone83, mostra i protagonisti impegnati a procurarsi la collaborazione di elementi locali, nonostante l’indubbia difficoltà di comunicazione linguistica. Ed è appunto una pratica del genere che spiega l’adozione, nell’addentrarsi ancora in epoca moderna in terre incognite, della traiettoria lineare (“quelli che vengono dopo, poi gli altri e così via”)84. Ben dopo Strabone, la cui opera non presuppone alcun corredo di carte, e soltanto con Tolomeo, si afferma una grande innovazione: avviene il passaggio dall’unica, complessiva, «carta della terra» (gewgrafiva appunto) a una cartografia regionale. Sorge per la prima volta un «atlante» che trova posto al termine dell’intero testo e che è costituito in rigoroso rapporto con la determinazione delle distanze espressa in gradi per ciascuna località e per ciascun toponimo, la cui lista trova posto nei libri che precedono. Ecco perché non ha fondamento alcuno immaginare una sorta di precoce proliferazione di atlanti De Agostini. Ed è impensabile che davvero un rotolo, addirittura due secoli prima di Tolomeo, recasse, modernamente, schizzi paesaggistici o mappe per giunta inframmezzati nel corso del testo. È a dir poco anacronistica la creazione (il cosiddetto papiro di Artemidoro) di fronte alla quale ci troviamo. Codesta maldestra creazione appare influenzata da modelli, o meglio suggestioni, non pertinenti: per esempio dal ‘programma’ «testo + disegni» che si trova sviluppato in un imponente rotolo di argomento astronomico nel quale sono intercalate illustrazioni fan83 84

Parliamo di quello vero, non del falso papiro creato da Simonidis. Cfr. in proposito KAPUSCINSKI 2004, pp. 162-163.

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tasiose e slegate dal testo circostante: il cosiddetto “Eudosso”, il celebre ‘primo’ papiro letterario della Collection du Louvre85. Il ‘salto’ dall’unica «carta della terra» a un più ampio “Atlante”, composto anche di una serie di carte regionali, avviene dunque con Tolomeo86. Ciò si spiega proprio col peculiare carattere dell’opera di Tolomeo, che consiste in una mera lista, sapientemente costruita e rigorosamente vagliata, di toponimi e delle relative misurazioni, che non può esistere senza fare riferimento a una serie di carte87, ovviamente munite della strumentazione per la lettura (meridiani, numerazione lungo i margini etc.). Al contrario, opere narrative, come quella di Strabone o come dovette essere quella di Artemidoro, sollecitavano il lettore a immaginare la successione delle regioni e la disposizione delle singole località in ciascuna regione. Strabone, in un luogo del libro secondo, descrive sommariamente come potrebbe essere una carta dell’ecumene (II, 5, 10) e ne precisa le notevolissime dimensioni (circa due metri per un metro). Ne parla come di cosa del tutto separata dalla propria opera88. La testimonianza più significativa è forse quella di Gemino, Elementa astronomiae 16, 4. Tutto cambia dunque con Tolomeo. Ma non va dimenticato che, anche in questo caso, il supporto cartografico del testo, l’atlante, era collocato a parte89: c’erano, indipendentemente e separatamente, dopo il libro VIII, i pinakes con le relative didascalie, illustrative e sommarie. Tale assetto, che si perfezionò e fissò nel corso della tradizione a partire dalla tarda antichità, perdura nei manoscritti medievali superstiti: innanzitutto il Vatopedi 655, poi il Vaticano Urbinate Gr. 82; il Marciano greco 516 etc. Di mezzo c’è il passaggio rap85 Inv. 2325. Approdò a Parigi grazie al console Drovetti, nei primi anni Venti dell’Ottocento; fu studiato e accessibile a lungo, fu edito finalmente nel 1864/1865. Naturalmente testi e disegni (“vignette”) variamente si integrano in rotoli egizi (il Libro dei morti etc.). 86 Su ciò cfr. PRONTERA 2001, coll. 205-213. 87 La discussione moderna su questo punto è ben riassunta da STÜCKELBERGER 1994, pp. 60-61, che si richiama al fondamentale saggio di DINSE 1913. 88 Il lettore poteva, se lo desiderava, «visitare» una carta, magari esposta, come era, ad es., quella di Agrippa. La prassi corrente era, sia nel mondo scolastico che più in generale della città, quella di carte esposte: cfr. Properzio, IV, 3, 37; Petronio, 30; Plinio, III, 17; Eumenio, Oratio pro instaurandis scholis, cap. 20 (= Paneg. Lat. IX [anno 297]). Tracce di una carta «sur les murs d’une classe» (EGGER 1880, p. 43) furono trovate ad Autun. 89 In certo senso come i rotoli di commento nel caso dei testi letterari. Debbo questo pertinente accostamento a Rosario Pintaudi.

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presentato dalla ‘ricreazione’ di quelle carte ad opera di Planude90 (1255-1305). Con leggerezza gli editori del cosiddetto “Artemidoro” hanno preso per buona la mescolanza di testo e mappa. Anzi essi asseriscono che già il modello recasse il medesimo impianto, e dunque, inevitabilmente, anche il modello del modello e così, via via, fino all’originale di Artemidoro medesimo (del quale dovremmo ipotizzare anche le eventuali doti di paesaggista). La chiamata in causa addirittura dell’originale si ha esplicitamente nelle parole con cui Bärbel Kramer ha parlato di questo strano oggetto, nell’ottobre 2005, nel magazine della «Frankfurter Allgemeine Zeitung»: «Ich hatte eigentlich lange gedacht, daß diese Karte auf Artemidor selbst zurückgeht, daß der Zeichner91 also eine original Artemidor-Rolle als Vorlage gehabt hatte»92. Dal seguito dell’intervista sembra ricavarsi (ma non sono parole riferite testualmente) che un raffreddamento di siffatto colpo di fantasia fu dovuto alla saggezza di Alfred Stückelberger, appositamente consultato, il quale avrebbe fatto notare «daß die Karte aus einer späteren Zeit stammt». Stückelberger, autore di un fondamentale saggio sul libro antico illustrato93, veniva chiamato in causa già nella prima delle cinque edizioni krameriane della colonna IV del papiro (quella del 1998), in particolare nel § II Die Landkarte (p. 199). L’assunto che lì si vuol dimostrare è che le “illustrazioni librarie” (Buchillustrationen) venivano realizzate da «specialisti» (spezialisierten Fachleute) – il che, a partire da una certa epoca, è ovvio –, ma con l’implicita suggestione che questo sia stato il caso già del papiro artemidoreo. La spinta verso tale suggestione è alla nota 29 della stessa pagina dove si legge: «Così ad esempio, le carte per la Geografia di Tolomeo sono state allestite (sind [...] angefertigt worden) da un disegnatore tecnico, l’ingegnere [mhcanikov~] alessandrino Agathodaimon: cfr. Stückelberger, 1994, pp. 25, 61, 128». Chiunque legga queste parole è portato a pensare che dunque, nel quadro di una sana divisione del lavoro, Tolomeo scrisse il testo e Agathodaimon si incaricò delle carte. E dunque quid melius di un tale illustre parallelo per consolidare la fiCfr. KUGEAS 1909, pp. 115-118. L’ormai famoso, sbadato, disegnatore. 92 Cfr. l’intervista concessa a U. von Rauchhaupt, Fetzen des Wissens, in «Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung», 30 ottobre 2005, p. 77. 93 STÜCKELBERGER 1994. 90 91

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gura del “disegnatore” artemidoreo, il quale «im Zeichensaal» vergò, nei bianchi ad hoc lasciati dal copista, la provvidenziale carta sbagliata? Il problema è che Stückelberger dice tutt’altro (pp. 60-61 e 128). Dice che il nome del mhcanikov~ alessandrino, in quanto figurante nella subscriptio di vari manoscritti medievali (il Vaticano Urbinate, il Marciano etc.), va posto in relazione non già con l’autore, ma con la fase tardo-antica o protomedievale della trasmissione dell’opera di Tolomeo, dunque nel IV o V sec. d.C.94, forse in concomitanza con il passaggio dai rotoli al codice. Fermo restando – soggiunge Stückelberger – che probabilmente Agathodaimon rivendicava il merito di aver fatto la sola carta generale dell’ecumene (th;n oijkoumevnhn pa'san), non necessariamente anche le successive, cioè quelle regionali. E conclude osservando che, comunque, ogni valutazione è resa più complicata dal fatto, evidente, che l’opera ha subito rielaborazioni e ci è giunta «unfertig». Maggior prudenza si coglie nel Tre vite, dove si legge, dapprima: «la trascrizione [dell’«Artemidoro»] prevedeva che, accanto al testo, fossero inserite delle carte, prassi questa non comune, almeno a giudicare dai pochi frammenti conosciuti di epoca ellenistica o romana contenenti passi geografici [sic]» (p. 17, colonna III, in basso)95. Ma la pudica ammissione («prassi questa non comune») viene immediatamente travolta, nei righi subito seguenti, dall’incredibile ipotesi che un prodotto così anomalo e vulnerabile – proprio perché fornito di cotali ornamenti – fosse stato confezionato «per le grandi biblioteche di Alessandria»: un committente di Stato, anzi principesco. Ovviamente ogni difficoltà si supera aggiungendo anche questo unicum a tutti gli altri di cui gronda il cosiddetto “Artemidoro”.

94 Stornaiolo, nel catalogo degli Urbinati greci (STORNAIOLO 1895, p. 129), sulla scia di Fabricius e Harles (V, p. 272) propende per il VI sec. d.C. come epoca in cui collocare Agathodaimon. Su tutto il contesto, palesemente tardivo, all’interno del quale figura la subscriptio di Agathodaimon cfr. anche LENNART BERGGREN-JONES 2000, p. 43. Per completezza va segnalato che l’idea fantasiosa di un Agathodaimon che lavora gomito a gomito con Tolomeo viene riproposta in Tre vite, p. 53 (col. 1, in alto). 95 È alquanto inquietante che in questo catalogo Tre vite venga presentata al lettore, come fosse davvero un reperto antico, l’implume “mappa di Soleto” (p. 95, fig. 2).

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6. Estratti o libro II? Diagnosi in contrasto La presenza all’inizio della colonna IV dell’“Artemidoro” di quattordici righi molto simili (ma non coincidenti) con un frammento artemidoreo già noto (il fr. 21 Stiehle) ha avuto effetti rovinosi. Da un lato ha creato l’euforica, immediata, convinzione «abbiamo recuperato un bel pezzo dell’opera di Artemidoro»; dall’altro – a causa dell’erronea ma molto diffusa convinzione che quel fr. 21 fosse tramandato da ben tre fonti antiche – ha fatto nascere il falso problema di dimostrare che nel papiro quel frammento non figurava come «citazione» (o estratto) ma come parte di un discorso continuo tutto artemidoreo. Difficile immaginare un procedimento più immetodico. La prima cura avrebbe dovuto consistere nel chiedersi come mai quel che si leggeva in col. IV, 1-14 fosse così diverso, pur nella somiglianza, dal frammento già noto. Invece questa questione, indubbiamente fastidiosa, è stata del tutto ignorata. La seconda cura avrebbe dovuto consistere nel verificare in modo serio come fosse tramandato il fr. 21, se davvero lo si ritrovasse in tre fonti diverse. Diciamo subito che questo era un grosso abbaglio. Il frammento è tramandato unicamente nel cap. 23 del De administrando imperio di Costantino Porfirogenito (circa l’anno 950), e non anche, come è stato invece ossessivamente ripetuto in questi anni, nella voce ΔIbhrivai di Stefano di Bisanzio e nell’XI capitolo della Prosodia catholica di Erodiano Grammatico (III, 1, p. 288 Lentz). Bastava dare uno sguardo all’apparato dell’edizione Meineke di Stefano per constatare che lì (p. 323, 5) Meineke avverte «tutto questo brano (totum hoc tmema) lo sto prendendo di peso dal cap. 23 di Costantino Porfirogenito». E bastava capire come è follemente “gonfiata”, col ricorso a testi immaginati derivare da Erodiano, l’edizione Lentz di Erodiano e andare poi a verificare il passo in questione e constatare che anche Lentz in apparato ammette: «omnia sumpta sunt ex St. Byz.» (p. 286). Lentz prendeva da Meineke e farciva il suo Erodiano, e, per un supplemento di sventura, non notava che in questo caso già Meineke aveva compiuto, pescando in Costantino, analoga operazione. Insomma la fonte è solo una96, e dunque – a rigore – cadrebbe la ragione stessa di porsi la domanda se «anche nel caso del papiro siamo di fronte ad una citazione», e di escogitare 96

Da ciò discendono come vedremo nei capitoli seguenti molte conseguenze.

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ragionamenti privi di ogni logica per esorcizzare una tale eventualità. E invece non è andata così. Al contrario, quella prima metà della colonna IV è stata riedita, nell’ultimo decennio, almeno cinque volte, e quasi sempre col corredo alquanto allucinante di un apparato di varianti assolutamente inesistenti97, fondato sul presupposto errato che anche i manoscritti di Erodiano e di Stefano recassero quella citazione! Neanche il Tre vite si è sottratto a questa Babele e ha dedicato mezza colonna della pagina 17 a descrivere questa realtà testuale inesistente. C’è comunque di peggio. Robert Knapp, certo influenzato da questa sconcertante disinformacija critico-testuale, è arrivato a scrivere che Stefano di Bisanzio, «quoting Aelius Herodianus», «gives fr. 21»98. Fortunatamente questa errata visione delle cose è stata abbandonata da Bärbel Kramer in occasione di una presentazione pubblica del papiro (Bremen, aprile 2007), come attesta il dossier distribuito in quell’occasione ai partecipanti. Non sappiamo se anche l’altro editore prenderà atto della realtà. In ogni caso si è chiusa, con la conferenza di Bremen, una fase di errori. L’erronea convinzione che una serie di autori tramandasse quel medesimo frammento indusse gli editori a porsi il problema di esorcizzare la possibilità che anche del nuovissimo papiro di Artemidoro si potesse pensare la stessa cosa: che cioè esso includesse il fr. 21 soltanto come citazione (o estratto)99. Eventualità da combattere perché avrebbe vanificato l’illusione dell’avvenuto recupero di un ampio brano del libro II di Artemidoro, quello appunto dedicato alla Spagna. L’argomento escogitato sin dal 1998100, e variamente ripetuto in seguito, è un modello particolarmente riuscito di petitio principii: ove i righi 1-14 della colonna IV fossero lì in quanto citazione, essi dovrebbero essere preceduti da una «frase introduttiva»; questa dovrebbe di necessità trovarsi al termine della colonna III (vi97 Si veda ad es. KRAMER 2006, pp. 99-100, dove si legge tra l’altro che «tutti i manoscritti di Erodiano, Stefano etc. presentano la stessa lacuna»! Ma il manoscritto è uno solo (il Paris. Gr. 2009 di Costantino, che nel passo in questione non presenta lacune). Sconcerto creano le “varianti” raggruppate ora in un modo ora in un altro per la sola ragione che Meineke e Lentz, nelle pagine che hanno creato ex nihilo nel modo che s’è appena detto, hanno commesso anche sviste, salti di parole etc. creando così l’apparenza di una messe di varianti. 98 KNAPP 2004, p. 283, nota 36. 99 Non è noto chi avesse formulato l’ipotesi “estratti”. 100 GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 196.

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sto che la “citazione” incomincerebbe al rigo 1 della IV); ma poiché la III – come la I e la II – è riservata al proemio, ecco che non c’è posto per la “frase introduttiva”, e dunque quella di IV, 1-14 non è una citazione. Il bello è che la colonna III è quasi totalmente perduta, ne sopravvivono circa dodici lettere alfabetiche. Che dunque l’intera (non più esistente) colonna III fosse occupata anch’essa dal proemio è al più un’ipotesi se non una fantasia. E dunque poggiare su questa a dir poco fragile ipotesi la certezza che in quella colonna non vi potesse essere la frase che introduceva la “citazione” di IV, 1-14 è per l’appunto una petitio principii. Invocare il fatto che tra la colonna III e la IV ci sia la «mappa» non è ovviamente un argomento, e addurre «l’ordinato assetto del libro» [die sorgfältig geplante Anlage des Buches] è daccapo una petitio principii visto che quella «Anlage» è una creazione degli interpreti moderni certi di conoscere il contenuto della colonna III che non esiste più. Rassicurati da questi pseudoragionamenti, i due editori hanno concluso che il papiro tramanda «den Kompletten Originaltext»101 di Artemidoro. L’espressione, piuttosto infelice, intende significare che il papiro tramanda testo integro, non ridotto a citazioni, del libro II di Artemidoro. Questa opinione è stata ripetuta dai due editori, sia in pensieri congiunti che in pensieri separati (per es. ancora Tre vite, p. 17, col. 1). Invece nella redazione a stampa (fine 2006) dell’intervento svolto l’anno precedente al convegno (Madrid, Casa de Velázquez) La invención de una geografía de la Península Ibérica, Bärbel Kramer ha innovato radicalmente la sua diagnosi e ha argomentato che il papiro contiene «extractos» da Artemidoro: «una prefazione generale sulla geografia», «una mappa», il periplo della Spagna102. Nonostante questa formulazione, però, subito dopo (p. 100), replica l’antica certezza «non siamo di fronte a una citazione [nel caso di col. IV, 1-14 e del corrispondente fr. 21] perché manca lo spazio per la frase introduttiva». Come si conciliano queste due visioni? Nonostante un certo disordine terminologico, il senso potrebbe essere il seguente: in questo papiro abbiamo a che fare con brani relativaIbid. «[...] El papiro contiene extractos de la Geografía de Artemidoro, es decir, en las primeras tres columnas tenemos una introducción general sobre la tarea del geógrafo y la geografía, luego un mapa y después dos columnas con un total de 83 líneas con las que comienza la descripción de la Península Ibérica» (p. 98). 101 102

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mente ampi («extractos») che ricalcano fedelmente il testo di partenza, e non con (brevi) citazioni alle quali sarebbe stato necessario premettere la “frase introduttiva” recante il nome dell’autore epitomato. La discriminante tra estratto e citazione è oscillante e incerta. Il che rende contraddittoria questa nuova diagnosi. La vera novità interpretativa è rappresentata dalla ipotesi che non solo si tratti di estratti ma di estratti scelti tipologicamente: un proemio generale, una mappa, una descrizione geografica. È da notare che quasi contemporaneamente veniva messo in circolazione il Tre vite, dove l’altro editore dichiara che il papiro «ci restituisce la parte iniziale del secondo libro di Artemidoro» (p. 17, col. 1), ovvero «ci restituisce tutto l’inizio del II libro del trattato» (p. 17, col. 1 sub fine) e così via. Quali le conseguenze della nuova ipotesi che vede nel papiro tre estratti tipologicamente distinti (e, si deve pensare, appunto perciò trascelti e messi insieme)? 1. Il campionario tipologico così descritto, a rigore, appare completo. Tanto più che il terzo estratto termina con quelle parole conclusive che suonano all’incirca «il resto non l’ha visto nessuno» come dire: il contenuto era tutto qui. 2. Ma a questo punto la stessa attribuzione di tutti e tre gli estratti ad Artemidoro viene meno. Può trattarsi dell’esercizio di qualcuno che potrebbe aver messo insieme pezzi di varia provenienza riuniti solo per l’interesse geografico. E allora perché mai dovrebbero venire necessariamente tutti e tre da Artemidoro? 3. Più si rafforza la dimostrazione del carattere tardivo della lingua, dei concetti, del lessico del “proemio generale” (vedi infra, cap. XV), più l’idea che i tre estratti (doveri del geografo, schizzo paesaggistico, periplo della Spagna) provengano dallo stesso autore barcolla. 4. E infine una considerazione retrospettiva. Dalla tesi prospettata alla «FAZ» (ottobre 2005) che il papiro avesse come modello «l’originale di Artemidoro» alla tesi degli «extractos» il cammino è stato davvero molto lungo. L’evidente divaricazione, tra gli editori, nella diagnosi intorno alla natura del reperto, la varietà di soluzioni che l’ipotesi «extractos» a sua volta innesca, spiegano l’incertezza che regna ormai intorno alla natura – e quindi all’origine – di questo presunto “Artemidoro”.

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Si oscilla tra estremi molto distanti: si passa da un esemplare di lusso (ancorché scorrettissimo) a un gruppo di estratti. Ma all’interno di questa “forbice” ci sono molte altre possibilità: ivi compresa l’ipotesi di un esercizio scolastico (ma in quali scuole egizie si dava da trascrivere il periplo della Spagna?). E sorgono ulteriori domande: estratti fatti per chi e di quale epoca (visto il carattere così tardivo del proemio)? Si scivola molto avanti nel tempo e la possibilità di un pastiche pensato da un moderno, ma travestito da “antico” si affaccia con sempre maggior forza.

7. La linea del Piave Quando cominciarono ad affiorare i primi dubbi sulla natura e l’origine del cosiddetto Artemidoro, la linea difensiva (a parte qualche gratuita villania) si arroccò su un piccolo gruppo di cose in sé. Poiché le prime osservazioni critiche103 riguardarono la lingua palesemente tardiva e talvolta fittizia in particolare del “magniloquente proemio” (col. I, 3 talanteuvein th;n yuchvn. - I, 12-13 th/' ejpisthvmh/ sunagwnivsasqai. - I, 21 memocqhmevnon povnon. - I, 29 prosagkalivzesqai th;n yuchvn. - I, 40 aJplou'tai oJ a[nqrwpo~ tw'/ kovsmw/. - I, 43 qeoprepevstatai Mou'sai e così via), la prima cosa in sé mobilitata fu il consueto, generico, richiamo al «quanto abbiamo perso della letteratura greca». L’obiezione non tiene conto di vari fattori: a) dovremmo essere alle prese con uno scrittore tecnico104, non con un letterato dedito alla ricerca linguistica sperimentale, dunque dovremmo aspettarci un linguaggio consolidato e tendenzialmente prevedibile; b) comunque il dolore per i testi perduti non dovrebbe offuscare la legittima serenità derivante dai moltissimi che sono conservati, i quali costituiscono, dal punto di vista linguistico, un campione significativo e perciò consentono rassicuranti deduzioni sull’usus scribendi; c) si trascura forse di considerare il prezioso apporto della lessicografia antica (e tardo-antica e bizantina) che, per la sua stessa natura e funzione, ci aiuta validamente a farci un’idea anche di quello che non abbiamo più105. «QS», 64, pp. 45-52 (in particolare pp. 48-52). Se il reperto fosse autentico e davvero ci restituisse Artemidoro. 105 Può risultare fastidioso ripetere l’ovvio, ma, a quanto pare, può essere necessario. 103 104

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Una variante del «non avete idea di quanto abbiamo perduto» è stata l’evocazione di una specifica perdita: ci mancano, non abbiamo più, gli autori «asiani»106, dei quali un grande letterato come Cicerone diceva assai male. Per la verità Cicerone (De orat., III, 43; Brutus, 51; Orator, 27) parla degli oratori, non prevede una «asianicità» anche dei geografi. Non è superfluo ricordare poi che Cicerone distingueva – sempre per l’oratoria s’intende – duo genera asiaticae dictionis (Brutus, 325): l’uno virtuoso nell’escogitare frasette brevi (sententiosum et argutum), l’altro incline alle frasi ampie e complesse: flumen verborum, dice Cicerone in quel passo del Brutus. All’ambito oratorio riferisce il fenomeno, e il relativo giudizio, anche Dionigi di Alicarnasso (De oratoribus veteribus, 1). E lo stesso vale per Quintiliano (Inst., XII, 10, 1 e 16), il quale adopera l’epiteto “asiani” anziché “asiatici”. Può sembrare pedagogico ripercorrere brevemente la questione, ma diventa necessario quando a questioni precise si oppongono argomenti vaghi e leggeri. Quintiliano, dunque, cita Santra, un contemporaneo di Cicerone, autore del De antiquitate verborum. La premessa storica da cui Santra partiva, e che Quintiliano fa propria, era questa: «Man mano che la lingua greca si diffondeva nelle vicine città d’Asia, alcuni uomini, non ancora sufficientemente esperti nel linguaggio, ma che desideravano distinguersi come oratori, cominciarono a esprimere con parafrasi concettuali ciò che avrebbero potuto dire con termini propri e adeguati» (XII, 10, 16). Quintiliano aggiunge di suo una spiegazione di tipo razziale, alquanto imbarazzante ma ancor più strettamente ancorata all’oratoria: era il pubblico che pretendeva quel genere di oratoria. «La popolazione asiatica (Asiana gens) – scrive –, già di suo portata all’enfasi e alla vanagloria (tumidior atque iactantior), si esaltava di fronte a una pompa oratoria ancora più vana (vaniore dicendi gloria inflata est)» (XII, 10, 17)107. Cosa abbia a che fare tutto questo castello schematico (si pensi all’ipotesi di una “terza via” rappresentata da Rodi, per merito di Eschine esule il quale portò nell’isola «studia Athenarum») con la prosa geografica e con Artemidoro in particolare è difficile dire. Ma è forse la premessa stessa inconsistente, visto che Efeso – patria di Artemidoro – era città di antichissima cultura greca. 106 107

Sottinteso: Artemidoro era di Efeso, che è sulla costa asiatica. Trad. di R. Valenti in PENNACINI 2001, p. 751.

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La leggenda attica faceva del figlio di Codro, Androclo, il fondatore e la guida dei coloni ateniesi che diedero vita a Efeso nel 1086 a.C.108. Dell’antica Efeso-Koressos parla più volte Erodoto (I, 26; I, 142 etc.), come di fondazione greca. Alla metà del VII sec. a.C. gli Efesini superarono vittoriosamente l’assalto dei Cimmeri: il loro poeta e concittadino Callino testimonia nelle sue battagliere elegie questa vicenda. Come in altre città greche, a partire dalla fine del VII sec. a Efeso si affermò la tirannide: si conoscono i nomi di alcuni tiranni (Pitagora, Pindaro). Secondo Erodoto (I, 142-143) Efeso-Koressos era partecipe dell’«alleanza delle dodici città» (dodecapoli). Creso la conquistò intorno al 560 a.C. Aristarco, un ateniese, venne a Efeso da Atene, per introdurvi un ordinamento politico e governò con pieni poteri per cinque anni (Suidas, voce ΔArivstarco~ = A 3894). Subentrò il dominio di Ciro il Grande, vincitore di Creso, e i nuovi dominatori persiani propiziarono un ripristino della tirannide: tirannide cui volle sottrarsi un celebre poeta efesino (immaginiamo «asiano») come Ipponatte (Suidas, voce ÔIppw`nax = I 588). Durante la rivolta ionica (498/7) Efeso fu filopersiana (Erodoto VI, 16). Dal 465 a.C. entra nella lega delio-attica e daccapo ha un regime plasmato su quello ateniese (democrazia), contro cui un altro autore efesino (magari «asiano» anche lui), il filosofo Eraclito, duramente polemizzò (fr. 121 Diels-Kranz).

Non infliggeremo al lettore la successiva storia della città al tempo della guerra peloponnesiaca, o al momento del ritorno sotto controllo persiano con la pace di Antalcida (387 a.C.), o addirittura fino alla liberazione da parte di Alessandro Magno (334 a.C.). Ci chiederemo piuttosto perché mai in una siffatta città, nella quale di sicuro la lingua greca non sopraggiunse tardi a contendere faticosamente spazio all’elemento «asiatico»109, in una città – al contrario – i cui autori greci sin dall’età più remota non si contano, ma anzi si susseguono in ininterrotta serie, da Callino a Ipponatte, da Eraclito a Creofilo, da Parrasio epigrammatista a Menecrate, da Androne (storico) a Pitermo, da Museo epico al tragediografo Tolomeo, da Alessandro retore e geografo e astronomo (I a.C.) a Sorano, agli storici ecclesiastici Policrate e Apollonio per giungere a Senofonte Efesio e via via fino al bizantino Manuele Philes, il solo Artemidoro geografo – il quale oltre tutto era fortemente influenzato da Agatarchide, cioè da un aspro critico dell’“asianesimo”!110 – debba essere travestito da Pausania, VII, 2, 6; Strabone, XIV, 1, 3-4 e 21. È lo schema «Santra». 110 Fozio, Bibliotheca, cap. 250 (p. 446 a). 108 109

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scrittore «asiano» al solo fine di poter essere autore di espressioni neogreche quali memocqhmevnon povnon, cristianeggianti quali yuch;n talanteuvein, teologico-bizantine quale hJ yuch; kai; qevlhsi~, innodico-bizantine quali aJplou'sqai kovsmw/ e così via. Oltre tutto, cos’hanno da spartire i periodetti asintattici della colonna I (eij ga;r siwpa/' gewgrafiva toi'~ ijdivoi~ dovgmasi lalei')111 con il roboante, straripante e bombastico periodare dei veri «asiani»? Ironie della storia. Un altro geografo (che era anche astronomo, retore, storico e poeta) ebbe i natali a Efeso: quell’Alessandro detto luvcno~ che abbiamo prima ricordato soprattutto come retore. Strabone lo nomina insieme con Artemidoro (XIV, 1, 25-26) e nell’ambito di una lista dei più eminenti scrittori efesini a partire da Eraclito. Precisa Strabone che la Geografia di questo Alessandro era in versi e suddivisa in tre libri (Europa, Asia, Africa). Cicerone, il quale per parte sua, a un certo momento, pensò di dedicarsi a un’opera geografica (Ad Atticum, II, 6), giudicò l’opera di Alessandro con parole eloquenti: «neglegens», «sed tamen non inutilis» (Ad Atticum, II, 20, 6; II, 22, 7, di pochi mesi successive rispetto alla precedente). Altro che «asiani»! Ma de hoc satis. Si è anche cercato di valorizzare una delle frasi più indifendibili e confuse del proemio: aJplou'tai ga;r oJ a[nqrwpo~ tw/' kovsmw/ (col. I, 40-41). Qualcuno, che non molto se ne intende, ha esclamato: «Ma questo è Posidonio!»; come a dire: ma siamo nel cuore della cultura filosofico-scientifica del I a.C.!112 Nulla di tutto ciò. Il tentativo di traduzione offerto dal Tre vite è, in questo caso, risibile e proprio perciò prezioso: «L’uomo, quindi, si espande verso il mondo» (p. 157, colonna I, verso il basso). Le speranze di trovare, in questo rigo e mezzo, tracce di «Kosmos und Sympathie» sono, com’è ovvio, vane. E quanto alla ben nota teoria secondo cui l’uomo racchiude ejn mikrw'/ il cosmo («homo quasi minor mundus»), essa riguarda un ‘moto’, intellettuale o virtuale, che procede in direzione opposta rispetto alla «espansione verso il mondo» immaginata dal Tre vite. L’impossibilità di dare un senso ragionevole a quelle parole è accentuata da quel che viene subito dopo: «e si consacra tut111 Una frase (col. 1, 16-17) che per avere un qualche senso ha bisogno di una punteggiatura moderna, e che gli editori hanno finora inteso in tre modi opposti. 112 Come e cosa scriva un astronomo influenzato da Posidonio lo si può ricavare da Cleomede. La tradizione sull’uomo microcosmo comincia molto prima e seguita molto dopo!

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to intero alle virtuose ingiunzioni delle maestose113 Muse» (righi 4245), ma anche da quel che precede. Ne diamo una traduzione non occultatrice: «Uno si impegna a darsi ai dogmi della filosofia con continue sofferenze affinché uno di quelli che filosofeggiano degnamente, portando quel peso [quale?] degno di Atlante, abbia un peso che non affatica»; e subito dopo, con un trapasso sintattico insostenibile: «aver propensione per la cosa [?] mentre la sua anima e volontà non sta per nulla inerte, insonne guardando tutto intorno notte e giorno caricandosi la maggior parte dei beni dei precetti». Frase, quest’ultima, cui segue aJplou'tai ga;r oJ a[nqrwpo~ tw/' kovsmw/ etc. Chiediamo scusa al lettore che, di fronte a siffatta prosa, penserà di essere stato preso in giro, ma il “pensiero” – se così può definirsi – è proprio quello; e solo un nemico giurato di Posidonio potrebbe rifilare al filosofo di Apamea questo genere di deliri. L’unico dato di fatto disponibile è che il nesso aJplou'tai kovsmw/ si trova unicamente nei canoni del mese di luglio per Cosma e Damiano, dovuti, pare, a Giuseppe Innografo (816-886 d.C.)114. Lì la frase h{plwtai kovsmw/ panti; hJ dwrea; tw'n ijamavtwn si può intendere: «il dono delle guarigioni [dei due santi molto versati in medicina] è disteso (= si è diffuso) per ogni dove nel mondo». Qui dunque l’inventore del papiro – dovendo sganciarsi dal tema “fatiche del filosofo” e approdare a quelle del geografo, e di quest’ultimo volendo decantare la ricca esperienza di viaggi115 – deve aver semplicemente cercato di dire, utilizzando la frase (che gli sarà stata familiare) dell’innografo bizantino, che «l’uomo arriva a raggiungere tutte le parti del mondo». E si è ancora una volta tradito perché ha usato kovsmo~ nel senso di ecumène, mondo conosciuto: che è uso tardo, e si trova in Luca 12, 30 (tau'ta ga;r pavnta ta; e[qnh tou' kovsmou ejpizhtou's in) e si ritrova ovviamente poi nei commenti al Nuovo Testamento (Origene, Su Matteo etc.) e, soprattutto, nel greco moderno. Ma cos’è mai questo “magniloquente proemio”, come l’ha definito uno dei due editori?116 Ma anche “grandiose”, “degne degli dei”. Cfr. DAVID 2007, p. 397. 115 Cfr. col. II, 3-9: «allo stesso modo anche il geografo, approdato sulla terraferma di un paese e conosciutane la superficie [per kuvto" th'" cwvra" vedi infra, cap. XV, § 7], e dei paesi che stanno altrove essendo stato svolto già prima un instancabile lavoro pluriennale etc.». 116 Tre vite 2006, p. 17 (colonna II, al mezzo). 113 114

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Quando il papiro fu presentato, nell’aprile 2005, in uno degli annuali convegni madrileni di “Casa de Velázquez”, un dotto che partecipava ai lavori sollevò la ineludibile obiezione: se questo testo pretende di essere il secondo libro dei Geographoumena di Artemidoro (quello sulla Spagna), come mai esso sarebbe preceduto da un proemio che invece dovrebbe avere tutte le caratteristiche di un proemio generale? Uno dei due editori, quello che ha lanciato la definizione di “magniloquente proemio”, stans pede in uno tranquillizzò gli astanti: anche nell’opera di Tolomeo il secondo libro è preceduto da un proemio, disse. Risposta priva di valore poiché il proemio generale di Tolomeo è nel primo libro, mentre il secondo si apre con la precisazione che quanto verrà ora detto in via preliminare serve soltanto come guida all’uso e alla comprensione delle complicate tabelle che seguono. È buffo che il terzo editore, quando, nel settembre 2006, s’è discusso della falsità di questo papiro nella stampa di molti paesi (in primis in Italia), abbia pensato bene di tagliar corto tirando fuori un’altra teoria: «Siamo di fronte ad un proemio al mezzo!»117. Invece ormai anche il primo degli editori, Bärbel Kramer, riconosce che questo è un «proemio generale sul mestiere e i doveri del geografo e della geografia»118. Di conseguenza – proprio perché riconosce la natura (o pretesa) di proemio generale di questo stravagante sproloquio – Bärbel Kramer è indotta a concludere che dunque la immediata vicinanza con un pezzo del libro II (= fr. 21) impone come conseguenza logica che siamo di fronte ad estratti (un proemio generale, una mappa, un periplo). Col che tutta la teoria del «nuovo Artemidoro» – come abbiamo già osservato a suo tempo – viene meno. Ma per accorgersi che il “magniloquente proemio” non può che essere un proemio generale bastava osservare come esso sia ricalcato sul proemio generale di Strabone, anch’esso incentrato sulla profonda connessione filosofia-geografia. 8. Il ritorno del fantasma In un saggio destinato a fare scalpore, contenente, con un corredo di facsimili, di trascrizioni paleografiche, di apparati e di commenti, il falso papiro del Periplo di Annone, pubblicato a Londra nel 117 118

«la Repubblica», 16 settembre 2006, pp. 1, 54-55. KRAMER 2006, p. 98.

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1864, Costantino Simonidis ostentava la sua grande competenza nel campo della geografia antica e segnatamente greca. Tra l’altro trovava modo di citare un testo che gli era ben familiare per varie ragioni: «the Epitome of Artemidorus and Menippos»119. Lo cita come autorevole fonte su «Annone», nel quadro di una prefazione rivolta, per molte pagine, a dimostrare la storicità del sovrano cartaginese e l’effettiva pertinenza a lui del curioso periplo. Periplo che, alcuni anni prima, era stato pubblicato, con notevoli apparati, da Müller al principio del volume primo – a Simonidis ben noto – dei Geographi Graeci minores (1855)120. Cita ovviamente lo pseudo-Aristotele del Peri; qaumasivwn ajkousmavtwn (§ 37) nonché Ateneo (libro III dei Deipnosofisti): testimonianze topiche sul Periplo. E cita ampiamente Marciano, sulla base della raccolta di Müller121, nella quale Marciano chiude il primo volume. Perché dunque Simonidis ricorre a quella singolare espressione «l’epitome di Artemidoro e Menippo»? Non dimentichiamo che sta traducendo puntualmente (in inglese) una frase del proemio di Marciano all’Epitome di Menippo e che sta servendosi dell’edizione di Müller122. Müller sapeva bene, e lo dice molto chiaramente in prefazione, e conformemente presenta il testo, che quell’Epitome, per molto tempo creduta Epitome di Artemidoro, è l’Epitome di Menippo123. Dunque come spiegare quella singolare mescolanza dei due diversi autori in un unico titolo, da parte di Simonidis? La ragione di una tale scelta va probabilmente ravvisata nell’influenza, su Simonidis, della importante raccolta realizzata e pubblicata da Stiehle l’anno successivo al primo volume di Müller: la raccolta cioè, per «Philologus» (1856), di “tutti” i frammenti di Artemidoro. Lì infatti Stiehle, incredibilmente, reiteratamente definisce, nelle pagine iniziali del suo scritto, l’Epitome di Menippo come «Marciano, Epitome di Artemidoro»124. SIMONIDIS 1864, p. 16. Poco prima Simonidis discute la Suvnoyi" iJstoriva" di Giorgio Cedreno «nell’edizione del corpus Bonnense» (p. 13, nota). È sempre piuttosto aggiornato nell’armamentario filologico, e spazia tra teologia, geografia, erudizione con molta disinvoltura. 121 Usata spesso nell’apparato che adorna l’edizione del falso papiro. 122 Il brano che sta traducendo corrisponde a GGM, I, p. 565, 31-36. 123 Sulla questione vedi supra, § 1. 124 Candidamente Stiehle dichiara di non aver potuto consultare Hoffmann, Die Iberer (1838) pur sapendo che anche lì dentro c’era un’edizione dei frammenti di Artemidoro. Lì avrebbe trovato la soluzione corretta. 119 120

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La soluzione adottata da Simonidis è ibrida. Possiamo immaginare che abbia pensato a un Marciano il quale, anche nel lavoro su Menippo, seguita a giovarsi del suo precedente, analogo, lavoro su Artemidoro. Ma qui quella strana trovata ci interessa non tanto per l’estrosità, ma piuttosto come indizio della conoscenza, da parte di Simonidis, anche dell’Artemidoro di Stiehle. (Che poi Marciano potesse davvero aver operato ‘contaminando’ i vari e diversi risultati del suo alacre lavoro di epitomatore, non è nemmeno da escludere.) Il brano di Marciano che qui Simonidis mette a frutto è interessante anche per un’altra ragione. Per un verso esso comprende il nome di un geografo (Androstene), del quale a un certo momento Simonidis aveva proclamato alla stampa inglese di aver trovato un papiro e di essere in procinto di pubblicarlo. Per l’altro quell’elencazione è seguita da un’ampia presentazione elogiativa dell’opera di Artemidoro come autore della migliore descrizione disponibile del «mare interno» (I, 566, 3). Si può dire che, per questa via, Simonidis ci aiuta a entrare nel suo “laboratorio”. Androstene di Taso era stata una ‘prima opzione’, prima della decisione di dar vita al papiro di Annone. Nella lista di Marciano, riprodotta da Simonidis, si susseguono: «Androstene di Taso, Cleone siciliano, Eudosso di Rodi, Annone di Cartagine». Poco dopo, con tutti gli onori, Artemidoro. Il 6 settembre 1860, pochi giorni dopo aver annunciato la scoperta di sei lettere di Ermippo («hitherto, together with his many other writings, alluded by Suidas, but supposed to be utterly lost»), Simonidis scriveva al direttore del «Liverpool Daily Post» l’annuncio della nuova scoperta: gli Oijkistikav di Androstene figlio di Diodoro, di Taso125. La parola era inventata ma, per un testo geografico sulle fondazioni di città, ben trovata. Precisava che “fonte di molto rammarico” era che il testo ritrovato fosse “molto frammentario”, ma formulava l’auspicio che un giorno venissero fuori «other portions» se si fosse continuato a ‘scavare’ «nell’ancora inesplorata collezione che la sua bella città ha l’onore di possedere grazie al nostro amico Mr. Mayer»126. Quindi aggiungeva che Marciano «in his Epi125 Simonidis amava arricchire di fantasiose genealogie le sue “scoperte”. Cascò male quando offrì (1854) al conte di Marcellus, impegnato nella traduzione di Nonno di Panopoli, una biografia di Nonno... di Demetrio di Magnesia! 126 Su Joseph Mayer e sul suo privato Museo egittologico (ora in parte a Liverpool) c’è ampia letteratura. Ne riparleremo più oltre.

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tome of the Periplus of Menippus» (al giornale scrive in modo più semplice che nella pubblicazione ‘scientifica’ di quattro anni dopo) parla di Androstene come di un geografo «of some note», e deplorava che, al di là di Marciano, su Androstene non si avesse altro127. Affermazione troppo drastica, visto che Teofrasto, Strabone, Arriano e Ateneo qualcosa ci dicono di Androstene, compreso il vero patronimico (“figlio di Callistrato”, non “di Diodoro”)128, nonché il titolo dell’opera ΔIndikh'~ paravplou~129. L’idea di Simonidis era, evidentemente, quella di sfruttare l’eccellente sua conoscenza del Peri; povlewn (Ethniká) di Stefano di Bisanzio. Un libro, non altrimenti noto, di Androstene, tutto a base di «ecisti» e di «fondazioni di città», era quasi una festa per un minuzioso conoscitore del repertorio di Stefano, quale Simonidis: il quale non solo pretendeva di possedere un esemplare dello Stefano integro – non l’epitome attribuita a Ermolao che tutti adoperiamo –, ma creava dell’«intero» pagine e pagine (ad es. la voce folevgandro~ già nelle prime pagine dei suoi Suvmmiga pubblicati a Odessa nel 1854 e a Mosca nell’anno precedente). A tale “audacia” – o se si vuole a tale pretesa d’esser creduto – lo spingeva la conoscenza del Coislin 228 (che tramanda nei fogli finali parte della lettera D dello Stefano intero) e che a lui era ben noto sia dalle due grandi edizioni di Stefano – quella di Berkel pubblicata due volte alla fine del Seicento, e quella di Meineke (1849) – sia assai probabilmente dalla diretta ispezione del Coislin durante il soggiorno parigino del 1854 in occasione del quale nientemeno che Sainte-Beuve lo raccomandò ripetutamente ai “conservatori” dei manoscritti greci della Bibliothèque impériale130. Tenendosi alle fonti che meglio conosceva, Simonidis cavava da Marciano tutto quanto possibile. Perciò non a torto scrive che Marciano presentava Androstene come «geografo of some note»: effettivamente (il minuscolo dettaglio è sfuggito a Jacoby131) il contesto di Marciano autorizza tale deduzione, visto che lì Androstene viene annoverato tra coloro che trattarono la materia geografica meta; lovgwn132. Anzi, tra coloro le cui opere Marciano dichiara di avere La lettera è in ELLIOTT 1982, p. 137. Arriano, Indiké 18, 4. 129 Ateneo, III, 45 (p. 93 A-C). 130 Sulla vicenda e sul testo delle lettere di Sainte-Beuve cfr. MASSON 1994. 131 FGrHist 711 T 4. 132 GGM, I, p. 565, 24 («cum ratione»). 127 128

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lungamente studiato e meditato (polu;n peri; th;n touvtwn ei[dhsin ajnalwvsa~ crovnon)133, e rispetto alle quali anche l’esperienza soggettiva può essere senz’altro posposta134. Simonidis era nato nell’isola di Simi nel 1820 (o nel 1824). Dopo un’infanzia turbolenta, segnata dal suo tentativo di far fuori il patrigno e una movimentata fuga, si era addestrato come copista e familiarizzato con ogni genere di scritture soggiornando a lungo al monte Athos, dove suo zio Benedetto aveva la direzione del monastero di Panteleemon. Esordì, nella sua lunga carriera di falsario, creando testi che imitavano scritture medievali, ma anche crisobolli. E si cimentò anche nella pittura di figure variamente “ieratiche” come le due che collocò all’inizio del falso crisobollo inserito nella Symai?s, fantasiosa storia e geografia dell’isola di Simi. Un dettaglio poco noto della biografia di Simonidis è il suo apprendistato parigino come pittore. Lo rievoca il suo compiacente biografo e amico Callinico Ieromonaco nella notizia biografica posta al principio dei Symmiga (Mosca 1853): «Ma non trascurò nemmeno le belle arti, anzi anche di queste si diede pensiero e in esse sommamente primeggiò, avendo frequentato dapprima artisti insigni dell’Athos quali Damasceno e Gennadio, e successivamente altri e in modo particolare il francese Vitalis [= Jules Joseph Génie Vidal?135], uno dei celebri allievi del famoso francese David». I primi scritti, pubblicati a Odessa (se il luogo di stampa va preso sul serio) e a Smirne, riguardano la Caria – cioè la regione micrasiatica nei cui pressi è Simi – e il monte Athos: con un riguardo particolare ai manoscritti dell’Athos e ai Lukiaka; kai; Karika; gravmmata (Smirne 1843)136. Nel 1850 Simonidis diede vita a un geografo, Eulyros, il quale avrebbe (nell’invenzione di Simonidis) dedicato un’intera opera (andata persa e «fortunatamente ritrovata») alla descrizione geografica e storica dell’isola di Cefalonia: Gewgrafikav te kai; Nomika; th;n Kefallhnivan ajforw'nta (Atene 1850). Presentando questa “scoperta” Simonidis aveva fatto intravedere un’opera di migliaia di pagine e suddivisa in decine e decine di libri, ma in realtà aveva esibito solI, 565, 18. I, 565, 21-22. 135 Su questo Vidal (nato nel 1795) cfr., tra l’altro, il Neues Allgemeines Künstler-Lexikon, XX, Leipzig 1850, p. 227. 136 Non abbiamo sinora rintracciato quest’opera. 133 134

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tanto tre fogli. Il che aveva provocato incredulità e critiche. In una nuova edizione il fantasioso autore replica ai suoi critici e descrive – nella proaggeliva th'~ prwvth~ bivblou – la struttura del manoscritto. Esso comprenderebbe ben «205 mappe [“carte corografiche” le chiama] intercalate nel testo, a colori, secondo lo stile bizantino». (Avrà in mente il caso di Cosma Indicopleuste.) E si effonde nell’indicare i precedenti cui, in tale campo, Eulyros si sarebbe attenuto: da Anassimandro, a Ecateo, ad Aristocle, a Pitea, a Eratostene, al fantastico “Laostefano di Simi”. Tutti cultori della cartografia come corredo dell’opera geografica. L’opera aveva la forma di un lessico, come Stefano di Bisanzio, ma di gran lunga più ricco – vantava Simonidis –: 545 voci ha Stefano, ben 1698 Eulyros. Di questa vasta enciclopedia geografica, Simonidis dava dei campioni, le voci relative all’isola di Cefalonia. Erano, di fatto, toponimi e “distanze” (diastémata) misurate in stadi: duvw pro;~ toi'~ devka stadivou~ dievcousa tou' Leukavta ΔApovllwno~ ajkrwthrivou, tou' de; Poseidwnivou ajkrwthrivou Zakuvnqou duvw pro;~ toi'~ eJxhvkonta e così via. Né manca, alla maniera di Stefano, l’attenzione ai diversi antroponimi derivati dal medesimo toponimo (es.: Kefallhvn «attestato da Phorbas e Charmos», «ma si trova Kefaleuv~ presso Ecateo»). Tra i primi a smascherare l’inverosimile «trovata» fu Andreas Mustoxidis, greco e dotto assai stimato anche fuori del suo paese. La sua presa di distanze fu però pacata e non disgiunta da una qualche simpatia per lo stravagante patriottismo137 del falsario, le cui gesta sembravano ricalcare quelle del Kefalàs, anche lui patriota greco e falsario e ideatore di «papiri provenienti dall’Athos». Nella sua baldanza di falsario ancora provinciale, Simonidis prometteva, a margine dell’Eulyros, addirittura i primi sei libri (su diciotto) di Ecateo, dedicati all’Asia. Non va comunque dimenticato un certo clima dell’epoca. Nel 1848/9 erano venuti fuori – presumibilmente dall’Egitto – interi discorsi di Iperide (autore che si riteneva completamente perduto). Questo faceva sperare in nuove stagioni di scoperte e popolarizzava l’idea che esse fossero possibili. E poi 137 Un amico, poi avversario, di Simonidis, Alexandros Lykurgos, così spiegava la trovata di creare quel falso su Cefalonia: «L’obiettivo di Simonidis, con la pubblicazione di tale falso, era di suscitare l’attenzione del governo inglese nei confronti di alcuni cittadini di Cefalonia perseguitati dagli inglesi e in quel momento dimoranti ad Atene» (LYKURGOS 18562, p. 53).

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c’era (vedi anche il caso Kefalàs) il “mito” dell’Athos. Il governo francese organizzava missioni ufficiali al monte Athos, come quelle ad esempio affidate a Emmanuel Miller o a Minoide Mynas, sorrette dalla speranza di trovare nuovi testi o addirittura nuovi autori. E Victor Hugo nel capitolo dedicato a Eschilo (Shakespeare l’ancien) nell’ambito del suo saggio su Shakespeare (1864) ipotizzava, con piena convinzione, che la gran parte delle tragedie di Eschilo si conservasse ancora in qualche scaffale o scantinato di un monastero della «montagna sacra»138. Ma altri greci, pienamente “occidentalizzati”, non perdonavano a Simonidis la sua audacia capace, essi ritenevano, di squalificare i già mal tollerati Greci. Di qui le prese di distanze, ben più aspre di quella di Mustoxidis, da parte di personaggi quale Alessandro Rizos Rangabé. Il futuro ambasciatore di Grecia a Berlino non risparmiò le sferzate contro «i manoscritti di Simonidis (Simwnivdou ceirovgrafa)» – cioè i Kephalleniaká e tutto il ben di Dio che lì veniva prospettato o preannunziato – intervenendo ripetutamente nel periodico Pandwvra (1850/1 e 1851/2). Più tardi in forma più sintetica e ancora più drastica, Rangabé trattò Simonidis nel suo Précis d’une histoire de la littérature néo-hellénique (Paris 1877, pp. 188-191). Nel frattempo Simonidis era passato dagli ingenui e strabilianti prodotti per il “mercato” greco a ben più sofisticati prodotti destinati ai dotti occidentali. E aveva cominciato a creare palinsesti. C’era stato un soggiorno a Istanbul finito in modo turbolento (rottura con la famiglia Oikonomos); poi a Tenerife, oltre le «colonne», quindi a Madrid, poi un soggiorno a Londra, poi a Parigi e l’incontro con il conte di Marcellus (1854). Nel 1855 Simonidis approdava a Lipsia, ospite del conterraneo, studente in teologia, Lykurgos, e portava con sé due pezzi “preziosi”: alcuni fogli del Pastore di Erma sottratti all’Athos e da lui ritoccati, e soprattutto una settantina di fogli di un altro palinsesto contenente la Storia egizia di Uranios, autore noto quasi unicamente per citazioni presenti in Stefano139. Il palinsesto di Erma è ora il codice Suppl. Gr. 119 della Österreichische Nationalbibliothek di Vienna. In un caso come nell’altro è problematico sostenere che la scrittura superiore preesistesse. Come avrebbe potuto, per tante pagine, Simonidis «disegnare» negli interstizi di una scrittura già esistente la scrittura inferiore senza che ciò apparisse? 138 139

Cfr. HUGO 1990, p. 102. La fonte prediletta.

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È ineludibile la deduzione che dunque anche quella superiore fosse creazione sua. Una attestazione oggettiva della straordinaria capacità, di Simonidis, di imitare scritture vere. Anche per le scritture “antiche” doveva assumere un modello, o che si trattasse della scrittura «inferiore» di un palinsesto o più tardi, di un papiro: e l’idealtipo al quale si rifece fu quello del celebre rotolo di Iperide (il papiro Arden) del quale circolavano ormai facsimili litografati140. E poiché la versione ormai recepta a riguardo di Iperide parlava di ritrovamento nella necropoli di Tebe, anche i molti papiri creati da Simonidis negli anni Sessanta “provenivano” per lo più da Tebe. Che fosse sollecitato alla imitazione proprio dai novissimi rotoli di Iperide è confermato da una circostanza. Nel falso papiro di Matteo (1861) Simonidis inserì sistematicamente tra le colonne di scrittura delle linee verticali (cfr. infra, fig. 16a); una tale presentazione del testo non può che essergli stata ispirata dal papiro dell’Epitafio di Iperide procurato nel 1857 al British Museum dal suo amico Stobart e pubblicato l’anno dopo con un magnifico facsimile da Churchill Babington141. Ma ormai i tempi stavano cambiando. Se i primi decenni dell’Ottocento erano stati il momento delle grandi scoperte di palinsesti (Angelo Mai, Niebuhr, Mustoxidis, il palinsesto di Gaio etc.) col 1847-48 “esplode” il nuovo Iperide dalla remota Tebe in Egitto e tornano alla ribalta i papiri. Le scoperte di testi nuovi spingono tra l’altro a valorizzare le raccolte già esistenti, in primo luogo quella del Louvre, languente dopo la scomparsa di Letronne. «Non conviene più cercare a Oriente. Quello che la Turchia o la Grecia non possiedono più forse lo ha ancora in serbo l’Egitto nell’una o nell’altra delle sue tombe inesplorate», dirà Émile Egger, coeditore di lì a pochi anni della «Collection du Louvre»142, davanti alle cinque accademie dell’Institut de France in seduta congiunta il 7 ottobre 1857 all’in140 Lo notò RITSCHL 1872, p. 125: «der Uraniostext ungefähr die Kursiv Majuskel der Herkulanischen Papyrus oder der Hyperides-Reden für Lykophron und Euxenippos wiedergibt». I facsimili fatti stampare da Harris sono del 1848, quelli fatti stampare da Arden sono del 1853. Seguì Comparetti (per l’euxenippea nel 1861). 141 Cfr. anche l’edizione Comparetti del 1864. 142 E Gustave Flaubert si metterà, su consiglio di Léon Heuzey (Adjoint des antiques au Musée du Louvre), a studiare su Strabone l’antico Egitto per meglio ambientare la Tentation de Saint Antoine (1874).

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domani, si può dire, del ritrovamento dell’Epitafio di Iperide, avvenuto poco dopo il precedente clamoroso rinvenimento di altre orazioni dello stesso autore143. Uranios ebbe un successo strepitoso. L’accademia berlinese delle Scienze, popolata all’epoca dai leaders mondiali dell’Altertumswissenschaft, prese per buono l’inedito. Wilhelm Dindorf volle farci su un bel guadagno e anche un’edizione memorabile. Pagò a Simonidis 2000 talleri (che in verità Simonidis lasciò da qualche parte intatti) e rivendette all’accademia il “prezioso” manufatto per 5000 talleri. Anche il re di Prussia intervenne con una sovvenzione, mentre la Clarendon Press stampava le prime copie dell’edizione critica di Uranius a cura di Wilhelm Dindorf (gennaio 1856): Uranii Alexandrini libri tres, operis ex codice palimpsesto edendi specimina proposuit Gulielmus Dindorfius, Oxonii, e Typographeo academico, M.DCCC.LVI (10 pagine, con numerazione romana della praefatio latina, e 14 di testo con numerazione araba). «Uranii Alexandrini de regibus aegyptiorum libri tres nuper in Oriente reperti sunt in membranis scripti palimpsestis formae quadratae maioris [...]» era l’esordio della praefatio. Volutamente vago sul luogo di provenienza, come usa in casi del genere. Non si può dire che Dindorf fosse “di bocca buona”, ma in casi del genere la smania per la grande scoperta un po’ obnubila anche le menti più acute ed esperte. Sta di fatto che incluse nella sua edizione persino il Bíos di Uranios (contenente un mirabolante elenco di opere)144. In una efficace pagina della Geschichte der Philologie (1921) Wilamowitz ricorda questo episodio – che indubbiamente macchiò la reputazione dell’accademia delle Scienze di Berlino con parole ben soppesate: «imitare l’antica scrittura è difficile» – scrisse allora il “princeps philologorum” – «eppure (doch) un greco, di nome Simonidis, quasi riuscì ad ingannare (hätte... beinahe... getäuscht) i dotti dell’Accademia berlinese»145. E Droysen, nelle lezioni di Istorica (1857-82), continuò ogni anno a rievocare il caso di Uranios. Via via approfondendolo si pose la questione se, più che la critica diplomatica, fosse decisiva la critica interna del contenuto (giova raffrontare l’ed. Hübner, p. 109 con l’ed. Leyh, p. 126). EGGER 1857, p. 6. Stiamo citando dall’esemplare conservato alla British Library (c. 61, b. 11). 145 Citiamo dalla terza edizione (1998), p. 18; «Almost succeeded in imposing upon the pundits (!) of the Berlin Academy» traduce Lloyd Jones (WILAMOWITZ 1982, p. 38). 143 144

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Lo scacco bruciava ancora, visto che tra i turlupinati c’era gente del calibro di August Boeckh. Nel numero 7 dei «Grenzboten» il grande pubblicista Gustav Freytag146 così narrava la vicenda: «L’accademia fece esaminare dai più diversi punti di vista il manoscritto. A tal fine lo affidò a un buon numero di suoi componenti. Due grossi nomi analizzarono la cosa da un punto di vista chimico. Un altro grande nome procedette a un esame al microscopio, numerosi grandi dotti si diedero a un esame critico. La conclusione fu: Sì! questi sono i nostri antenati». Karl Richard Lepsius (18101884), l’egittologo principe dell’accademia berlinese, anticipò di suo ben 2500 talleri, dei 5000 pretesi da Dindorf147. «Quando però – seguita Freytag – Lepsius ebbe più tranquillamente il manoscritto presso di sé e inoltre cominciarono a giungergli voci e sospetti da molte parti, egli si decise a un accurato esame di quanto la prima mano aveva vergato»148. E presto «venne fuori che Uranios aveva accolto alla lettera, nella sua opera, una bizzarra congettura fatta alcuni anni prima da Christian Bunsen149 nel suo volume Aegyptens Stellung in der Weltgeschichte». Questo, si può dire, è stato ripetutamente il “tallone d’Achille” di Simonidis: immettere nei suoi palinsesti e papiri congetture moderne opinabili, superflue o errate. Lo stesso gli capitò con Eschilo (Persiani) che – ormai ufficialmente morto – aveva fatto giungere in Europa, dall’Egitto, attraverso le compiacenti mani di Brugsch (giugno 1871)150. Aveva ereditato gli errori di stampa dell’edizione Schütz (18271). E inoltre aveva dedotto dall’edizione Weil, che presentava i Persiani nel settimo fascicolo, che quella fosse la settima tragedia di Eschilo. Certo ereditare gli errori di stampa – come accade nell’Artemidoro rispetto al fr. 21151 – è la peggiore delle sfortune che possa capitare a un falsario, ancorché bravo. Nel caso di Uranios, vista la svolta “poliziesca” della vicenda (perquisizione in casa di Simonidis e suo temporaneo arresto seguito da una fortunosa fuga in Baviera), si poté brandire la “pistola fumante”.

Autore egli stesso di un romanzo intitolato Die verlorene Handschrift. Il resto lo mise il sovrano. 148 Erano ben 72 fogli. 149 Il segretario di Niebuhr quando Niebuhr era a Roma, e interlocutore di Leopardi. 150 Simonidis era (apparentemente) morto da 4 anni. 151 Vedi infra, cap. IX, § 1. 146 147

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Durante la perquisizione – narra ancora Freytag – furono trovati «ogni possibile strumento necessario per fabbricare falsi, alcuni inchiostri chimici152, nonché il volume di Bunsen che ci si aspettava di trovare, dove il passo in questione era addirittura sottolineato in rosso»153. Dindorf, tempestivamente informato154, tentò di salvare il salvabile. Chiese il blocco della distribuzione della pomposa «proekdosis». La sua lettera al direttore della Clarendon Press è conservata alla British Library155. Si consola, e cerca di consolare il suo interlocutore, promettendo una riedizione con aggiunte alla Praefatio: «The pages are not printed in vain; on the contrary they will be an interesting publication as soon as I shall have made some additions to the Preface from the genuine portion of the manuscript»156. Ma non ne fece più nulla. «The Athenaeum», «L’Athénaeum français», il «Journal des débats» (23 febbraio 1856) baccheggiarono su questo scacco della “scienza tedesca”. Addirittura, pudicamente, il repertorio bibliografico di Engelmann e Preuss (I, p. 769) alla voce Uranii fragmenta fa scomparire l’edizione Dindorf dell’Uranios (del quale comunque 18 copie si salvarono mentre tutto il resto fu distrutto)157. Da Monaco, dalla tollerante Baviera, Simonidis diffuse un libello in replica ai suoi smascheratori: Über die Echtheit des Uranios che si presentava come la prima di una serie di «Archaeologische Abhandlungen». Per una non evitabile coincidenza ci fu per lui un risarcimento. Il 20 gennaio 1856, mentre la situazione stava precipitando e Lepsius già preparava l’affondo distruttivo (il primo di febbraio già Dindorf si era precipitato a scrivere alla Clarendon Press), un collaboratore del «Rheinisches Museum» che si celava dietro la sigla «X.» scriveva un lungo pezzo in forma di lettera a Ritschl (condirettore della rivista) che si concludeva con un vero “inno” a Uranios: «Mentre Le scrivo, mi giunge da Berlino la sicura notizia di un inatteso meraviglioso ritrovamento, che riguarda la cronologia e la storia più antica dell’Egitto. Una stella oltremodo favorevole assiste questi studi! Un Uranios, del quale finora si Non soltanto la ruggine di cui parla FARRER 1907, p. 48. Cfr. FREYTAG 1887, p. 383. (L’articolo Der falsche Uranios, pubblicato in «Grenzboten» del 1856, è qui ristampato alle pp. 379-385.) 154 L’accademia di Berlino si riunisce in seduta plenaria il 14 febbraio 1856 e dichiara su relazione di Boeckh falso l’Uranios. 155 Ms. Additional 81080 H (non è conservata la busta). 156 Pensa che la scrittura superiore possa essere autentica. 157 Il manoscritto era a Liverpool nel 1863 (cfr. «The Parthenon», 38, 1863, nonché «Philologus», 20, 1863, p. 738). 152 153

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sapeva soltanto che aveva scritto sull’Arabia, deve aver composto un’opera anche sull’Egitto; quest’opera arriverà subito alla luce grazie ad un palinsesto e questo palinsesto approderà nel luogo dove tutto il mondo è autorizzato ad attendersi il giudizio più competente possibile sulle antiche meraviglie della terra del Nilo»158. Questo ditirambo appariva, con la data in calce, quando ormai il dramma si era consumato e di Uranios non si sarebbe più voluto parlare. Ma l’ignoto autore era davvero così ingenuo da non fermare a tempo il suo scritto in tipografia? O forse perfidamente si fingeva entusiasta e perciò concludeva il suo saggio con una questione ormai dal sapore provocatorio verso gli sfortunati accademici berlinesi: «Senza voler anticipare nulla, ci si può riproporre qui, di fronte a questo Uranios, la questione già adombrata nelle pagine precedenti: quale tipo di schiarimento ci si può ripromettere da questo palinsesto? Gli egittologi sperano certamente in una conferma delle loro dotte costruzioni (Lehrgebäude: qui l’ironia comincia a essere evidente). Io per parte mia, al contrario, mi aspetto un nuovo sistema e con esso la conferma del mio convincimento che l’antichità – poiché ogni ipotesi si scontra con grosse difficoltà – se ne crea sempre di nuove. Presto si vedrà chi ha ragione»! La stoccata era al metodo degli egittologi e più in generale agli antichisti: chi scrive sembra già sapere com’era andata a finire. Non seguiremo qui l’ulteriore, ricchissima, vicenda biografica di Simonidis159, ma solo, e sommariamente, alcune tappe della sua ulteriore produzione. Dalla Germania aveva lanciato un pamphlet in tedesco. In Inghilterra cominciò a pubblicare dotte edizioni e dissertazioni in inglese. Eppure il conte di Marcellus, che rievoca il loro incontro nel 1854, notava che questo greco triste, severo, barbuto, vestito sempre di nero «ne parle que sa langue»160. Dunque c’era una “rete” che appoggiava le sue operazioni. Vediamo come, attraverso la rievocazione biografica di Farrer. Di questa rete, per lo meno dal momento in cui Simonidis si spostò in Inghilterra e, lasciati i palinsesti, si mise, in accordo con le nuove promettenti scoperte che ormai facevano scalpore, a fabbricar pa158

X., Aegyptologische Bedenken, in «Rheinisches Museum», N.F., 11, 1857, p.

142. 159 160

157.

Ne parleremo in un prossimo volume, biografico, su Simonidis. Lettera indirizzata all’«Athénaeum Français» del 23 febbraio 1856, pp. 156-

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piri, un punto fermo dovette essere il reverendo Stobart: l’assiduo frequentatore dell’Egitto e del mondo degli scavatori clandestini. Stobart era l’uomo che nel 1857 aveva venduto al British Museum il rotolo, spezzato in quindici frammenti (poi ricomposti e pubblicati da Babington) dell’Epitafio di Iperide161. La vicenda del rapporto instauratosi tra Simonidis e il collezionista di antichità egiziane Joseph Mayer è narrata dallo stesso Simonidis, con molti dettagli, nell’introduzione al Periplo di Annone (1864). In breve sintesi da James Anson Farrer nel terzo capitolo di Literary Forgeries (1907). Non chiaro rimane un dettaglio fondamentale: chi prese l’iniziativa di stabilire un contatto tra i due. Ovviamente il candidato più forte è Stobart stesso. Vedremo perché. Il 22 febbraio del 1860 Simonidis fece dono a Mayer, conoscendo le sue predilezioni artistiche, di una sua (fantasiosa) dissertazione sui geroglifici egiziani, la ΔEpistolimai`a diatribh; peri; iJeroglufikw`n grammavtwn appena pubblicata da David Nutt. «Mayer aveva acquistato, in parte da un intermediario di nome Sams, in parte dal reverendo H. Stobart, un certo numero di papiri, che erano rimasti del tutto dimenticati. Il difficile lavoro di srotolare questi papiri, fissarli su tela e decifrarli fu realizzato da Simonidis all’interno del Museo Mayeriano e in presenza più o meno continuativa dello stesso Mayer, del curatore del Museo e del signor John Eliot Hodgkin. Fu solo in agosto che alcuni di questi papiri furono portati nell’abitazione di Simonidis con l’obiettivo di un ulteriore esame. La scoperta, perciò, il primo maggio di alcuni frammenti del Vangelo di Matteo in uno di questi papiri sembra essere avvenuta in condizioni che escludono o rendono altamente improbabile una frode»162. Ovviamente nessuno immagina di prendere sul serio il Matteo di Simonidis (nemmeno Farrer, che pure si diverte ogni tanto a smontare gli argomenti dei critici di Simonidis). Basterebbe la subscriptio inventata apposta per dimostrare che quello era il più antico manoscritto del Nuovo Testamento: il copista dichiara di aver redatto quell’eCfr. su ciò l’edizione Blass di Iperide (1869, p. VIII); BLASS-JENSEN 1917 (p. PREISENDANZ 1933, pp. 98-99. Quanto alla rete di “complici” intorno a Simonidis, si può segnalare il ruolo doppio di John Eliot Hodgkin, come risulta incrociando i dati dell’Addit. 42502A (p. 5) – lettera di Simonidis a Hodgkin («ti accludo to;n Simwnivdhn!!!») – con quelli dell’Addit. 34098, p. 9 (lettera di Hodgkin a Dowson a sostegno dell’autenticità delle Lettere di Ermippo e del Periplo di Annone), cfr. infra, cap. XXII, § 4. 162 FARRER 1907, p. 54. 161

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semplare «nel XV anno dall’ascensione, sulla base del dodicesimo esemplare di Ermodoro, uno dei 70 allievi di Gesù Cristo»163. Simonidis aveva un debole per le ampie subscriptiones: una, imponente, la collocò al termine del Periplo di Annone e una anche in calce al papiro di Tucidide, da lui creato, contenente proprio il finale dell’VIII libro. Se dunque il Matteo è un falso, ma le condizioni in cui era affiorato son quelle descritte da Farrer, è evidente che Stobart e Sams erano i complici. Stobart in particolare era colui che aveva venduto a Mayer quel lotto di papiri nel quale si trovavano sia Matteo che Annone che Tucidide VIII, 109, nonché alcune colonne di una Storia dei re cartaginesi164. Il che significherà che Stobart vendeva materiali in precedenza confezionati dallo stesso Simonidis e successivamente Simonidis veniva convocato per «scoprire» le meraviglie che Mayer aveva acquistato. La domanda cui è molto più difficile rispondere è fino a che punto Joseph Mayer fosse inconsapevole di tutto ciò. Olivier Masson, in un bel saggio bibliografico su Simonidis, ha sollevato il dubbio e prospettato l’ipotesi che Mayer di fatto “proteggesse” tutta l’attività del suo “esperto”165. «In capo a pochi mesi – seguita Farrer – Simonidis aveva scoperto frammenti delle Epistole di Giacomo e Giuda; otto capitoli della Genesi; i dieci comandamenti; il Periplo di Annone; la prima pagina di un’opera di Aristeo166; alcuni frammenti di Zoroastro; sette lettere di Ermippo; un frammento di Androstene» (e, come s’è già detto, anche Tucidide). «I papiri Mayer furono esibiti [nei locali della Royal Society of Literature di Liverpool] in un meeting che si svolse tra il 9 e il 10 gennaio 1863. C’erano Sir F. Madden, Sir H. Rawlinson, Simonidis stesso ed altri». Il giudizio di inautenticità fu reso pubblico l’11 febbraio 1863167. Circa un anno più tardi Simonidis pubblicava, sempre da Trübner (London, importante e noto editore) l’Annone. Tornava alla geografia greca, con un papiro di cinque colonne, la cui irregolarità, di lunghezza e di larghezza era stata messa in rilievo nel verdetCfr. SIMONIDIS 1861, p. 17. Cfr. GOODWIN 1863, p. 738. 165 MASSON 1992, p. 236, nota 23. 166 Si tratta della Lettera di Aristea. 167 FARRER 1907, p. 55. Il testo del Report on some of the Mayer Papyri and the Palimpsest Ms. of Uranius fu pubblicato subito dopo, a Londra, dallo stesso Trübner che l’anno seguente pubblicò Annone. Nel frattempo Simonidis aveva lanciato una sottoscrizione per una nuova edizione di Uranios. 163 164

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to negativo del juri dell’anno precedente. Cinque colonne per descrivere il periplo delle terre poste a sud delle colonne d’Ercole. Neanche Annone resistette a lungo alla critica, nonostante il dispiegamento di dottrina e l’eleganza dei facsimili. Nei mesi in cui appariva la sontuosa edizione, ancora una volta sotto l’egida di Joseph Mayer, ostentata fin dal frontespizio, e per i tipi di un editore tra i più noti in tutto il mondo anglosassone, Simonidis si spostava a Parigi (marzo 1864). Degli incontri che lì ebbe, in questo nuovo soggiorno, e delle suggestioni che ne trasse, il lettore troverà notizia nell’ultima parte di questo volume168. Gli scacchi subiti anche sul terreno dei papiri (oltre al Matteo e ad Annone aveva diffuso una ricca raccolta di frammenti storiografici di suo conio: Leivyana iJstorikav), e forse altri fattori che ci sfuggono lo indussero a una mossa abile e spettacolare: rifugiarsi in Egitto (dove era già stato più volte) e di lì diffondere la notizia della propria morte; uscire apparentemente di scena. La data prescelta per il «triste» evento fu il 19 ottobre 1867169, e la causa proclamata del decesso una epidemia di lebbra che aveva funestato Alessandria. Così egli aveva daccapo le mani libere per operare indisturbato e insospettato, in certo senso come il fantasma di se stesso. Naturalmente la cerchia per lui più sicura sapeva come stavano effettivamente le cose. E Simonidis non esitava a inviare, a persone fidate, scritti con dediche la cui data era successiva alla sua “morte”. L’esemplare dei Leivyana iJstorikav conservato presso la Sackler Library di Oxford170 reca sul frontespizio una dedica autografa di Simonidis al medico Alexander Craig Gibson datata 9/21 agosto 1869. Quanto a lungo sia durata questa vita da fantasma non sappiamo con certezza, ma forse potremmo fidarci della data della sua seconda morte, registrata – sia pure con cautela – nell’obituary del «Times» di Londra il 18 ottobre 1890. (Curioso che Simonidis morisse sempre in ottobre.) Ebbe dunque un periodo egiziano molto lungo, e lo mise a Nel cap. XIX. È la data che tuttora si legge in tante notizie biografiche su di lui: dal Lessico storico-geografico di Bouturâs alla Megále Enkyklopaideia, alla Enkyklopaideia tes Hellenikes Logotechnías. 170 Collocazione: Papyrol. 303.1 L. 58 fol. Arthur S. Hunt, possessore di questi materiali, fece legare insieme i Leivyana iJstorikav e i Fac-similes of certain Portions of the Gospel of St. Matthew etc. (London 1861). Originariamente conservati al Queen’s College di Oxford, i due opuscoli recano dediche autografe di Simonidis a Gibson. 168 169

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frutto per altri «colpi». Alcuni ci sono noti, come ad esempio il rotolo pergamenaceo dei Persiani di Eschilo, che egli, con la collaborazione non inconsapevole dell’egittologo Brugsch171, fece pervenire a Lipsia. Fu Friedrich Ritschl a lanciare l’allarme con un articolo per il «Rheinisches Museum» (27, 1872) intitolato Ein neues Simoneidon, dove ironicamente osservava che il nuovo falso proveniva da un signore che «da molti anni è annoverato tra i defunti» (p. 123) e registrava la notizia epistolare (25 ottobre 1868) del biblista Tregelles secondo cui il reverendo Donald Owen aveva appena incontrato in Russia il defunto Simonidis «occupied with the preparation of historical documents for the Russian Government» (p. 124)172. Per il nuovo Eschilo, notò Ritschl, Simonidis aveva adottato altri modelli: l’Iliade ambrosiana, senza però dimenticare il memorabile rotolo di Iperide e i frammenti del Fetonte euripideo (Paris. Gr. 107B) visti durante il secondo soggiorno parigino. Questo significa che ad Alessandria il preveggente Simonidis si era portato un po’ di “ferri del mestiere”. Della presenza di Simonidis ad Alessandria, dove tentò di diventare vescovo ortodosso dell’Etiopia173, fanno fede, tra l’altro, i manoscritti di lui conservati (uno dei due però risulta da tempo irreperibile) nella Biblioteca Patriarcale di Alessandria: il n. 366 (che reca, al termine, una allarmata nota di Papadopoulos Kerameus) e il n. 537 («copies of forgeriers of manuscripts by Simonides»174 dato per disperso). Nel periodico «Nevo~ Ellhnomnhvmwn» del 1907, Sp. Lambros denunciò come falso «simonideo» un cospicuo manoscritto sulla marineria bizantina. Se Lambros ha visto giusto, e considerate le circostanze che egli descrive, questo dato allungherebbe la vita di Simonidis. La dispersione dei materiali prosegue, purtroppo, in modo allarmante. La Forbes Public Library di Northampton possedeva una «collection of interesting letters and papers concerning K. Simonides, including some of his publications written and published in Liverpool and London 1850-1863»175, un «portfolio with cover title Simonides the literary Impostor», ma Katie Krol, bibliotecaria della Forbes Library, scrive il 26 agosto 2006: «We no longer hold this copy». Ha cercato la «de-accession date» ma non ha trovato «anything that might Cfr. DE RICCI 1909, p. 347. La notizia suscitò una irritata smentita del governo russo (ibid., p. 471). 173 Cfr. MAKRIS 1995, coll. 430-432. In effetti tali nomine, per l’Etiopia, venivano decise in Egitto. 174 MOSCHONAS 1965, p. 233. 175 Cfr. NUC, vol. 547, p. 160. 171 172

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be of help». Anche a Lipsia (Universitätsbibliothek) uno dei due manoscritti del Pastore è scomparso176. E a Liverpool non ci sono più tre rotoli di papiri “simonidei” visti ancora nel 1907 da Farrer. Ma è ora di congedarci dal nostro “fantasma”. Come ogni buon falsario – e lui lo era a un livello molto elevato – Simonidis puntava innanzi tutto a riproporre con varianti più o meno eccitanti testi già esistenti: dal Pastore, al Matteo, da Annone a Tucidide, da Nicola di Metone, alle lettere di Giacomo e di Giuda etc., oppure puntava su schemi espositivi consolidati da variare più o meno abilmente, come accade ad esempio nelle svariate battaglie navali dei frammenti papiracei editi nei Leivyana iJstorikav, ovvero nel papiro contenente lettere di Teopompo a suo figlio (Autographa, Mosca-Odessa 1854, p. XXII dalla fine del volume). Quando deve “librarsi nel vuoto”, cioè avventurarsi nel creare un testo nuovo, la sua fraseologia è molto limitata soprattutto perché il pensiero è inconsistente, e ritorna di rigo in rigo sulle stesse espressioni dando vita a un pensiero “immobile”, che non fa passi in avanti, ma reitera più o meno gli stessi (pseudo)concetti. Anche in tali casi, peraltro, la creazione prende le mosse da qualche frase di testi a lui ben noti. Con un handicap, costituito dalla sua imperfetta conoscenza della sintassi e stilistica del greco antico177. Immetteva stilemi e nessi del greco moderno, o delle lingue moderne, nel greco antico. Così ad esempio fu celebre il suo lapsus nella banale lettera prefatoria dell’Uranios (p. 5 ed. Dindorf) kat’ejmh;n ijdevan per dire «secondo me». Lì in verità è tutto il periodo che risente di una sintassi diversa da quella antica: sta dicendo che ha riservato 6 libri alle dinastie delle famiglie illustri e scrive: ta;~ de; tw`n Aijguptivwn oijkhvsei~, ta;~ kai; ma`llon tw`n a[llwn kat’ejmh;n ijdevan spoudaiva~. Ed è evidente che, a parte la “perla” kat’ejmh;n ijdevan (= «à mon sentiment» o giù di lì), tutta la frase si appoggia a delle modernissime virgole. È un po’ quello che accade, in modo assai disturbante, nella prima colonna dell’Artemidoro dove la frase che ha suscitato diverse traduzioni eij ga;r siwpa/` gewgrafiva toi`~ ijdivoi~ dovgmasin lalei` [righi 16-17] esige una qualche moderna virgola per stare in piedi. Ad esempio: eij ga;r siwpa/` gewgrafiva, pausa, toi`~ ijdivoi~ dovgmasin lalei`. E comunque nella sintassi greca sarebbe necessario un ajllav prima di toi`~ (o un ge 176 Forse si sta costituendo da qualche parte un fondo Simonidis dal quale tirar fuori, tra qualche decennio, altre meraviglie... 177 Su ciò si veda l’importante testimonianza di LYKURGOS 18562, pp. 52-53 (infra, cap. XVIII, § 2).

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dopo). Qui nulla, perché chi ha scritto quelle buffe parole pensa secondo la sintassi moderna. (E inoltre non sa che i dovgmata sono il contrario dell’ajlhvqeia: sono le contrastanti e varie opinioni delle varie scuole filosofiche.) La soluzione che a un certo punto è stata prospettata, che il soggetto di lalei' sia la filosofia, fa raccapriccio se solo si ha un’idea del periodare (non solo in greco) e della successione logica (a tutte le latitudini). In nessun testo, greco o cinese o bantu per dirla con Giorgio Pasquali, sbucano a sorpresa soggetti imprevisti. Altrettanto indifferente è l’autore dell’Artemidoro al principio basilare che un nuovo periodo si contrassegna con un dev o un gavr in seconda posizione (a meno che non sia un enfatico esordio «ohne Kopula»). Qui invece al r. 22 esplode un ejpaggevlletaiv ti~ che può reggersi solo se preceduto da un modernissimo punto fermo. E si potrebbero elencare ancora alcuni fenomeni. Quello più interessante – e che in certo senso rappresenta il ricongiungersi dei due fantasmi – è che qua e là l’Artemidoro, quando non può appoggiarsi su testi già esistenti (come accade nelle colonne IV e V di cui s’è già detto) ma deve librarsi in una creazione in proprio, ogni tanto riecheggia la fraseologia del Simonidis medesimo. Un “vivaio” in tal senso è rappresentato dall’ΔEpistolimai`a diatribhv del 1860, che si conclude con l’impegno con cui la prima colonna dell’Artemidoro si apre: e{toimo~ ga;r eijmi; i{na uJpe;r th`~ ejpisthvmh~ [...] poihvsw pa`n o{ti duvnamai (p. 25). Ma non trascureremo nemmeno l’uJpe;r th`~ ejpisthvmh~ sqevnei panti; qerapeuvwn della lettera dedicatoria di Simonidis a Joseph Mayer annoverato ovviamente tra i Mousw`n leitourgoiv (p. 1), e nemmeno il pro;" w[felo" th'" ejpisthvmh" che campeggia al termine del volantino per il rilancio di Uranios (giugno 1858). Volantino che inventa una vita di Uranios, il cui episodio cruciale (ambasceria per la sua città e statua come premio) è ricalcato sull’unico episodio conosciuto della vita di Artemidoro! Nella lettera a Mayer (p. 2) si tratta della tw`n ajqanavtwn Mousw`n` qerapeiva, mentre il finto Erriko~ Gouilielmo~, nello stesso volume, riconosce a Simonidis il merito di aver svelato i geroglifici ajgcinoiva/ ouj th/` tucouvsh/ (p. I), per concludere con un bavro~ ouj duvnamai bastavzein (p. VI)178. Nella biografia, che è scritta da lui stesso, posta al principio dei Suvmmiga si alternano espressioni quali th;n pevrix cwvran perielqwvn ovvero – poco dopo – th;n pevrix aujtou` cwvran diadramw;n pa`san: ma anche fortiko;n suvggramma nonché 178

Ma su tutto ciò si veda infra, l’apparato della Proekdosis.

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gravfei sunoptikw`~ th;n iJstorivan. E si potrebbe seguitare con i testi greci sull’Egitto raccolti nei Leivyana, come ad esempio quello che raccomanda Dei` pavnta~ ajnqrwvpou~ kaqarw/` nw/` aijnei`n to;n Kuvrion [...] sigh/`/ kai; kekaqarmevnh// yuch/`/ (p. 7). E così via. Non sappiamo quale uso pensasse di fare di queste cinque ‘artemidoree’ colonne, “speculari” delle cinque del Periplo di Annone. È sciocco pensare che necessariamente avesse tentato di smerciarle a qualcuno. Come scrisse Jacob Burckhardt179: «Le falsificazioni non sono sempre ed esclusivamente da ricondursi a mera sete di guadagno. Esistono persone che vi si sentono virtualmente portate, spinte da un irresistibile impulso interiore e che sviluppano una mirabile virtuosità nella attività in questione. Venti o trent’anni or sono, un greco, Simonidis, è riuscito a fabbricare niente di meno che l’opera completa di uno scrittore greco e a pubblicarla come autentica». Ci piace concludere con la VII «regola del gioco» di Arnaldo Momigliano: «La “pia frode” è fenomeno di vita religioso ben noto. Altrettanto nota la falsificazione per danneggiare un avversario politico. Il falso per guadagno è meno interessante, ma può essere più insidioso, perché composto a freddo con lo scopo di sorprendere la buona fede del collezionista, che è spesso competente. È parte del metodo storico di inventare tecniche per la scoperta della falsificazione. Queste tecniche si fondano essenzialmente su una sempre migliore conoscenza degli oggetti autentici. Quanto più si conoscono le caratteristiche del linguaggio e dello stile artistico di un certo periodo, tanto meno si è ingannati dai falsificatori». * Nel 2001 al Congresso internazionale di papirologia di Vienna, venne diffuso in onore dei congressisti un opuscolo ben fatto intitolato Kopie und Fälschung a cura di Christian Gastgeber. Il libretto, che contiene una breve biografia di Simonidis, dovuta allo stesso Gastgeber, si apre con un «manifesto» allarmato e allarmante: «Attenzione, i falsari sono all’opera»!180 Perché proprio allora? 179 BURCKHARDT 1882, p. 299. Si segnala qui un significativo dettaglio che dobbiamo ad un testimone d’eccezione, Seymour de Ricci, il quale, rievocando nel 1909, ad Alessandria, il Simonidis da non molto scomparso, scrive: «Il mourut dans la misère» (DE RICCI 1909, p. 347). 180 «Achtung! Fälscher am Werk».

Parte prima ARTEMIDORO DI EFESO

I PER LA STORIA DEL TESTO DI ARTEMIDORO

1. Vita di Artemidoro La storia del testo incomincia con la biografia dell’autore. Nel caso di Artemidoro di Efeso disponiamo soltanto di due notizie: l’olimpiade 169a in cui gevgone (Marciano, GGM, I, p. 566) e la missione a Roma col conseguente onorifico tributo di una statua in patria (Strabone, XIV, 1, 26). Marciano disponeva di una data (olimpiade 169a = 104-100 a.C.), cioè sapeva che Artemidoro aveva fatto in quegli anni qualcosa di rilevante, essendo in età definibile con la formula gegonwv~ (= ajkmhv). Marciano, che in quel contesto sta presentando l’opera geografica sua e di coloro che riconosce come predecessori, accosta due informazioni: 1) Artemidoro floruit nel 104-100; 2) Artemidoro viaggiò molto e scrisse 11 libri di Geografia. Ma ciò non implica necessariamente che, in Artemidoro, Marciano leggesse che l’olimpiade 169a fosse la data del viaggio o dei viaggi, o addirittura della stesura dei Gewgrafouvmena1. Non si può infatti esser certi che quei viaggi siano stati fatti tutti in un colpo: si può legittimamente, e forse più realisticamente, pensare a una serie di viaggi che si saranno realizzati in un arco di tempo2. In tal caso i Gewgrafouvmena si configurerebbero come un’opera di lunga lena, la cui redazione accompagnò Artemidoro per anni. 1 Invece, per lo più, proprio questo i repertori moderni deducono. Cfr. ad es. CHRIST-SCHMID 1949, p. 423; MALITZ 1983, p. 13. 2 Su ciò prossimamente: I viaggi di Artemidoro (prefazione alla nuova edizione dei frammenti a cura di C. Schiano).

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È possibile che quella data esatta (olimpiade 169a) venisse ricordata da Artemidoro – ché, certo, a lui risale – a proposito della memorabile sua missione a Roma. Episodio che, infatti, era narrato da Artemidoro medesimo (w{~ fhsi, dice Strabone, XIV, 1, 26), con tutta probabilità o nella praefatio o anche a proposito della Ionia e di Efeso in particolare3. Raccontando quella sua gloriosa missione, Artemidoro non può non averne fornito la data: il che appunto permetteva a Marciano di indicare una data puntuale, che interpretò come il floruit (gegonwv~) del suo autore, come il fatto di maggior rilievo biografico. Non è detto, peraltro, che Artemidoro indicasse volta per volta le date dei suoi vari viaggi dall’Egitto e dalla Trogloditica alla Spagna, all’Oceano Atlantico. Nulla esclude, beninteso, che il viaggio in Occidente sia avvenuto proprio in occasione della missione a Roma. Se poi si considera la storia di Efeso, prima e dopo la «olimpiade 169a», appare comunque più probabile che la generosità dei Romani nei confronti di Efeso (accoglimento delle richieste presentate a Roma) si sia manifestata appunto in quegli anni (104-100 a.C.). Ci troveremmo infatti alquanto dopo la fine della rivolta di Aristonico (133-129 a.C.), che ha messo in crisi l’acquisizione a Roma del regno di Pergamo4; e prima dell’attacco di Mitridate (89-88 a.C.) il quale, con la attiva e sanguinaria collaborazione degli Efesini, ha scacciato i Romani dalla provincia d’Asia. Che la missione di Artemidoro a Roma capiti appunto nell’iniziale periodo ‘felice’ delle relazioni tra Roma ed Efeso, lo si può arguire anche dal racconto di Strabone (XIV, 1, 26), un racconto che sembra senz’altro meglio inquadrabile in tale fase positiva. Ecco le sue parole: «Dopo la foce del fiume Caistro c’è una palude formata dall’acqua del mare che deborda verso l’interno. Si chiama Selinusia, e subito accanto ce n’è un’altra che mescola le sue acque con quelle della prima. Esse procurano delle consistenti entrate». Causa di tali entrate è la presenza, «nel 3 Che la Ionia occupasse molto spazio nell’economia dell’opera, è presumibile e comprensibile. Penso che gli ΔIwnika; uJpomnhvmata di Artemidoro, cui fa cenno una volta Ateneo (III, p. 111D), possano identificarsi con questa parte dell’opera. Potrebbero aver avuto vitalità autonoma. Strano che Jacoby (FGrHist 438) pensi senz’altro a un’altra opera di Artemidoro. 4 Efeso ne fa parte sin dalla pace di Apamea, del 188 a.C., e quindi confluisce, finita la rivolta, nella provincia d’Asia ma con statuto privilegiato di civitas libera et foederata (ILS 34).

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luogo più remoto della palude», di un tempio, di cui si parla poco dopo. «Poiché erano entrate sacre – seguita Strabone –, i re [evidentemente di Pergamo] le avocarono a sé e le tolsero alla dea [Artemide]. I Romani gliele restituirono [evidentemente quando presero finalmente possesso della regione]; a loro volta però i publicani si appropriarono con la forza dei tributi [il racconto è sommario, e presenta come ovvio il nesso tra “risorse” del tempio e “tributi”]. Allora, recatosi in ambasceria, Artemidoro – come egli stesso dice (w{~ fhsi) – recuperò le paludi alla dea, e inoltre riottenne per Efeso la località detta Eracleotide, che si era separata da Efeso (ajfistamevnhn): la causa fu discussa e giudicata a Roma. Al suo ritorno, come premio per tali successi, i cittadini di Efeso fecero innalzare una statua d’oro in onore di Artemidoro, da collocarsi nel tempio».

Sulla portata e sul significato del conflitto apertosi tra i publicani e la città di Efeso illuminante, come sempre, Rostovcev, il quale mette in luce che i «casi di interferenza dei publicani nelle terre di templi comprese nel territorio di città» furono «pochi»: a Priene, Tiatira, Adramittio, Smirne e, appunto, Efeso, per il quale caso rinvia appunto a Strabone, XIV, 1, 265. La rarità del fenomeno ne accresce la gravità, e dunque il prestigio di Artemidoro per aver validamente contribuito alla soluzione positiva della vicenda. Berger, come molti, pensa che la statua d’oro raffigurasse Artemidoro stesso6. Strabone non dice esplicitamente questo, dice: «innalzarono in onore di Artemidoro una statua d’oro nel tempio» (forse era una statua che simboleggiava l’evento corredata di un’epigrafe che ricordava il successo di Artemidoro?). Michel Gras, in uno scritto di alcuni anni fa, ha ritenuto probabile che Artemidoro fosse un sacerdote del tempio di Artemide7. Anche se gli argomenti non sono stringenti, la ricostruzione appare plausibile. Se essa coglie nel segno, la statua aurea di Artemidoro nel “suo” tempio assumerebbe un rilievo e un significato ancora maggiori. I moderni interpreti non prestano molta attenzione al secondo dei risultati ottenuti da Artemidoro («recuperò le paludi alla dea, e inoltre riottenne per Efeso la località detta Eracleotide») con la sua ambasceria a Roma. Ma è anch’esso significativo. L’Eracleotide do5 ROSTOVCEV 1939, p. 241 e nota 144. Sull’episodio si veda anche NICOLET 1988, pp. 57 e 75. 6 BERGER 1895, col. 1329, 66. 7 GRAS 1997, p. 68. Invece LASSERRE 1965 definiva subito, in apertura, Artemidoro «Staatsmann und Geograph». Suggestivo, ma indimostrabile.

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veva aver approfittato del caos creato a suo tempo dalla rivolta di Aristonico per staccarsi dalla dipendenza nei confronti di Efeso: non sappiamo che genere di dipendenza fosse, ma è probabile che fosse di natura tributaria. Dunque, grazie ad Artemidoro, Efeso viene pienamente risarcita sia contro i publicani romani sia contro una comunità locale. Roma diede consenso pieno alle rivendicazioni efesine. Ma col decennio che si apre con la “sedizione” di Saturnino e Glaucia e si chiude con la guerra sociale la situazione cambia completamente. Già nell’anno 95 incominciano le tensioni con Mitridate, il quale, approfittando della guerra sociale (90-88), presto occuperà tutta la provincia d’Asia e la Grecia. Nell’88 Efeso si schierava senz’altro con Mitridate e si rendeva responsabile di un massacro indiscriminato di tutti i Romani presenti in città compiuto con inaudita violenza, calpestando persino il diritto d’asilo garantito dal tempio di Artemide, e per giunta con azione simultanea e coordinata in un solo giorno. E intanto venivano abbattute tutte le statue di personaggi romani erette in città (Appiano, Libro mitridatico, 26). Mitridate fece la sua apparizione ostentando la sua speciale devozione per Artemide (Strabone, XIV, 1, 23). Nell’86 Efeso cambiò fronte (Appiano, Libro mitridatico, 48) e cercò di tornare nelle grazie di Roma (Syll.3, 742)8. Ma quando, dopo la pace di compromesso tra Silla e Mitridate, Silla fece il suo ingresso a Efeso (84 a.C.) il trattamento che inflisse alla città fu molto duro (Appiano, Libro mitridatico, 61-63) soprattutto sul piano fiscale. In questo aspro dopoguerra impegnato, possiamo immaginarlo, a far dimenticare il massacro di Efeso, male si inserirebbe la missione di Artemidoro e ancor meno la bonomia romana verso le richieste di Efeso avverse ai publicani romani. L’episodio si lascia collocare meglio nella fase precedente. Anche per questa via dunque si può giungere alla conclusione che la data che Artemidoro forniva par8 Ecco un campione della prosa ufficiale e un po’ mendace con cui tentarono l’operazione: Miqradavth" Kappadokiva" basileu;" paraba;" ta;" pro;" ÔRwmaivou" sunqhvka" kai; sunagagw;n ta;" dunavmei" ejpeceivrhsen kuvrio" genevsqai th'" mhqe;n eJautw/' proshkouvsh" cwvra", kai; prokatalabovmeno" ta;" prokeimevna" hJmw'n povlei" ajpavth/ ejkravthsen kai; th'" hJmetevra" povlew", kataplhxavmeno" tw/' te plhvqei tw'n dunavmewn kai; tw/' ajprosdokhvtw/ th'" ejpibolh'". ÔO de; dh'mo" hJmw'n ajpo; th'" ajrch'" sunfulavsswn th;n pro;" ÔRwmaivou" eu[noian, ejschkw;" kairo;n pro;" to; bohqei'n toi'" koinoi'" pravgmasin kevkriken ajnadei'xai to;n pro;" Miqradavthn povlemon uJpevr te th'" ÔRwmaivwn hJgemoniva" kai; th'" koinh'" ejleuqeriva" (Syll.3, 742, 4-14).

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lando di se stesso («olimpiade 169a») doveva riguardare appunto la fortunata sua ambasceria a Roma (104-100 a.C.). Se così è, non ci restano indizi certi sull’epoca – prima o dopo l’olimpiade 169a – in cui Artemidoro ha compiuto i suoi viaggi, da un capo all’altro del Mediterraneo e oltre, e tanto meno sull’epoca in cui ha raccolto negli 11 libri di Gewgrafouvmena il risultato di tale esperienza. Resta solo il fatto che la visione dei Gewgrafouvmena come opera che lo ha impegnato a lungo, quasi un Lebenswerk, appare piuttosto probabile. Una situazione del genere del resto la conosciamo anche per altri autori «unius libri», o quasi, da Polibio a Diodoro.

2. Le critiche di Posidonio... Già Posidonio (135-51 a.C.), nel trattato Sull’Oceano, condotto a termine poco dopo la vittoria di Pompeo sulla lunga e terribile ribellione spagnola guidata da Sertorio (72 a.C.), discuteva – a giudicare da quel che riferisce Strabone – il resoconto molto ricco e colorito di Artemidoro sulla propria visita al promontorio sacro (capo São Vicente). Lo apprendiamo da Strabone (III, 1, 4-5). Il suo resoconto si apre con un ampio e dettagliato riassunto di quel che nel libro II, sulla Spagna, Artemidoro diceva del promontorio sacro. Quando parlava del promontorio, Artemidoro precisava di esserci stato personalmente (genovmeno~, fhsiv, ejn tw/' tovpw/) – dunque vantava di aver varcato le “colonne” (che secondo lui altro non erano che lo stretto tra Gades e la costa)9 –, e inoltre si effondeva in una descrizione dei luoghi in cui faceva ricorso, tra l’altro, a un suggestivo eijkasmov~: diceva che quel luogo, definito con parola latina Cuneus, «aveva la forma di una nave» (ploivw/ eijkavzei). Aggiungeva anche che questa rassomiglianza era accentuata dalle tre isolette che sono lì vicino (proslambavnein de; tw/' schvmati nhsivdia triva), delle quali una sembra il rostro (l’e[mbolon) e le altre due i paranchi (le ejpwtivde~). Aggiungeva, sempre nel medesimo contesto, che queste isolette offrono un discreto approdo ai naviganti. Nel suo stile ricco e polemico, a questo punto Artemidoro se la prendeva con Eforo10 9 Cfr. Marciano, Mare esterno, II, 4 (= GGM, I, p. 543, 12-15) = GGM, I, p. 575, 3-5 = fr. 9 Stiehle. 10 Per le polemiche di Artemidoro anche contro Polibio su problemi di misurazioni vedi Strabone, X, 3, 5.

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rimproverandogli di aver mentito a proposito di un tempio di Eracle che si troverebbe qui: non se ne vede la traccia – diceva – (ou[q’iJero;n ejntau'qa deivknusqai ou[te bwmovn), né di Eracle né di altra divinità. C’erano invece – seguitava – gruppi di tre, quattro massi diffusi un po’ dovunque (livqou~ sugkei'sqai trei'~ h] tevssara~ kata; pollou;~ tovpou~) che, secondo il costume locale, vengono spostati dopo che si è proceduto a una libagione. Aggiungeva anche un importante dettaglio cultuale: è vietato fare sacrifici in quella zona, ed è vietato avventurarvisi di notte perché la voce corrente è che di notte ci vanno gli dei; di conseguenza i visitatori trascorrono la notte in un villaggio vicino e solo di giorno raggiungono il posto. (Evidentemente Artemidoro descriveva una pratica alla quale egli stesso si era adeguato.) Ultimo dettaglio di questa ricchissima pagina che dev’essere stata di notevole efficacia: nella zona manca l’acqua, e dunque ciascuno vi si recherà provvisto di scorte idriche11. Posidonio – seguita Strabone (III, 1, 5) – affrontava molto criticamente tutto questo resoconto. Strabone riferisce tale critica: «Può essere che effettivamente le cose stiano così, come le racconta Artemidoro. Certo però non sono credibili tutte le altre banalità ch’egli vi aggiunge in accordo con le opinioni correnti e grossolane (cudaivoi~). Riferisce infatti Posidonio che i più [e dunque anche Artemidoro] pretendono che il sole lungo le coste dell’Oceano divenga più grande al momento del tramonto e che, calando, produca dello sfrigolio, come se il mare ribollisse nello spegnerlo. Tutto ciò – secondo Posidonio – è falso, così come è falso che la notte sopraggiunga all’improvviso e in modo istantaneo [...] Posidonio dice di aver constatato la falsità di queste noti11 Nulla di questa ricchissima descrizione del promontorio sacro si ritrova, ovviamente, nell’esangue epitome contenuta nel «nuovo» papiro. Nel quale il promontorio sacro è semplicemente un toponimo di cui viene solo detto quanti stadi dista dalla «torre e porto dei Salakeinoi [1200 stadi]» (col. V, righi 37-38). Notizia, oltre tutto, alquanto sospetta, visto che Salakìa (urbs imperatoria: Plinio, IV, 116-117) è toponimo postcesariano sovrapposto, appunto, tardi, e dai Romani, a un precedente toponimo indigeno BEUIBUM (oggi Alcácer do Sal). Debbo queste puntuali indicazioni alla dottrina del collega José Ribeiro Cardim (Lisboa) che qui ringrazio. Oltre tutto Salakìa non è sulla costa, ed è solo un errore di Tolomeo, Geogr., II, 5, 2 (ereditato dall’autore del papiro) a collocarla lungo il paravplou", cioè lungo la costa, come accade appunto nel «nuovo» papiro. Quanto alla formula “torre e porto”, essa si trova invece – come del resto aJplou'tai kovsmw/ di col. I, 40-41 – nell’innografia bizantina, ovviamente con valore metaforico (Analecta Hymnica Graeca, canones Septembris: 26 settembre, canone 31, ode 9, v. 32). Ricorre anche nel Chronicon di Ippolito e in Giovanni Crisostomo (Epistulae ad Olympiadem, 12.1).

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zie soggiornando per 30 giorni a Gades e osservando puntualmente i tramonti. Artemidoro invece sostiene che il sole, in quella zona, al tramonto sia cento volte più grande e che la notte cali istantaneamente».

E a queste affermazioni Posidonio muoveva un’obiezione molto forte: come poteva Artemidoro dir questo se al tempo stesso sosteneva che nessuno di notte può mettere piede in quell’area? Insomma è evidente che Posidonio, quando – intorno al 72/70 a.C. – scriveva il suo trattato Sull’Oceano aveva davanti, e lo sottoponeva a severa e puntuale critica, il libro di Artemidoro sulla Spagna (il secondo)12. 3. ... e l’apprezzamento di Diodoro Una circostanziata e favorevole citazione della Geografia di Artemidoro ricorre nella Biblioteca di Diodoro (? - circa 35 a.C.). Quando parla delle fantasiose narrazioni sull’Egitto e sull’Etiopia, Diodoro (III, 11, 1-3) ricorda i molti autori che a tali racconti hanno prestato fede per ingenuità o col proposito di dar vita a narrazioni allettanti. Di tutti costoro – dice – si deve diffidare. Segnala invece Agatarchide di Cnido (libro II) e Artemidoro di Efeso (libro VIII) perché quanto essi in quei libri hanno raccontato su Etiopia ed Egitto coincide con quanto Diodoro stesso ha appena riferito su quei paesi e perciò ne segnala la accuratezza (ejn pa's i scedo;n ejpitugcavnousin). Diodoro si è evidentemente servito delle narrazioni di Agatarchide e di Artemidoro (quest’ultimo a sua volta si pensa che dipendesse da Agatarchide); e però ci testimonia di aver verificato quanto essi narravano con testimonianze dirette: di aver interrogato, durante il suo soggiorno in Egitto, sacerdoti del luogo e «ambasciatori» (presbeutaiv) provenienti dall’Etiopia; di aver raffrontato i loro resoconti con le narrazioni storiografiche di Agatarchide e di Artemidoro e di avere perciò trascelto, di queste, – ai fini del proprio racconto – quanto collimava con quelle importanti testimonianze dirette. 12 Questa acquisizione conferma che Artemidoro ha visitato dunque la Spagna in epoca alquanto anteriore a tale data, allorché non poteva certo sostenere che «l’intera Lusitania» fosse sotto il controllo romano, come invece gli fa dire l’autore del papiro, colonna IV, righi 12-13. Sull’uso di Artemidoro da parte di Posidonio (non di molto più giovane di lui), cfr. ad es. NORDEN 19233, pp. 466-470 e ALONSO-NUÑEZ 1979, p. 644.

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Il non molto che conosciamo sul modo di lavorare di Diodoro ci spinge a pensare che quelle due opere etnogeografiche egli se le sia procurate proprio in Egitto, dove si era recato nel 60-59 a.C. (olimpiade 180a)13 e dove, tra l’altro, si era documentato sul corso del Nilo e sulle sue sorgenti. Sarebbe invece meno ovvio ipotizzare che disponesse di un Artemidoro già ad Agirio o a Taormina (nel cui ginnasio c’erano comunque opere di storia, come testimonia una importante iscrizione). Proprio il fatto che insista sulla possibilità che ha avuto di mettere a paragone le testimonianze raccolte in Egitto con quelle due opere fa pensare che si tratti di opere procurate appunto in Egitto. Dunque nel 60/59 a.C. Diodoro disponeva già del libro VIII di Artemidoro, e certo anche dell’intera opera. Donde gli sarà venuta la suggestione a cercare quell’opera? Conosciamo la profonda dipendenza di Diodoro da Posidonio, ed è probabile che proprio la lettura di Posidonio gli abbia suggerito il ricorso ai Gewgrafouvmena di Artemidoro.

4. Da Strabone ad Agatemero La presenza di Artemidoro in Strabone è talmente imponente14 da indurre senz’altro a considerare Artemidoro una delle sue fonti principali. Strabone ha soggiornato ad Alessandria giungendovi al seguito del praefectus Aegypti Elio Gallo nel 25/24 a.C. (II, 5, 12) e vi è rimasto almeno fino al 20 a.C. (II, 3, 5). È vissuto fin dopo il 24 d.C., visto che gli è nota la morte di Giuba II (XVIII, 3, 7 e 9). È probabile che abbia composto a Roma almeno parte della sua opera geografica. Tra Strabone da un lato e Arpocrazione e Ateneo dall’altro – dunque in un periodo di circa due secoli tra la fine del lungo principato di Augusto e il fiorire della dinastia severiana –, la diffusione dell’opera di Artemidoro tra gli studiosi di geografia appare ben solida: essa ci è testimoniata, oltre che da Strabone, da Plinio il Vecchio e da Agatemero15. L’uso pliniano non si limita a singoli dati: intere sezioni dei libri II, III, IV, V, VI della Naturalis Historia presuppongono Cfr. Diodoro, I, 44, 1; 46, 7; 83, 9. Basta dare uno sguardo all’Index nominum rerumque di K. Müller al termine della sua edizione didotiana di Strabone (Paris 1853), pp. 745-746. 15 Per Agatemero sembra preferibile tenersi alla cronologia (I/II sec.) proposta da DILLER 1975b, p. 59. 13 14

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l’opera di Artemidoro16. Non si tratta soltanto di distanze e toponimi. Nel libro VII, Plinio registra un’informazione etnografica sull’isola di Ceylon: «Artemidorus [scil. ait] in Taprobana insula longissimam vitam sine ullo corporis languore traduci» (VII, 30 = fr. 107 Stiehle). Difficile non riconoscere qui tratti comuni al resoconto diodoreo sulle isole dei beati di Giambulo (II, 55-60: si tratta anche in questo caso di Ceylon). In particolare con Diodoro II, 57, 4: polucronivou~ d’ei\nai tou;~ ajnqrwvpou~ kaq’uJperbolhvn, wJ~ a]n a[cri tw'n penthvkonta kai; eJkato;n ejtw'n zw'nta~ kai; ginomevnou~ ajnovsou~ kata; to; plei'ston17. Si tratta della stessa utopia, nello stesso ambito geografico. Sembra lecito dunque pensare che il celebre racconto di Giambulo più o meno fedelmente riprodotto da Diodoro alla conclusione del suo II libro gli fosse noto appunto da Artermidoro, del quale – come sappiamo – poco oltre (III, 11) Diodoro dice che i suoi racconti (su Egitto ed Etiopia) collimavano con quanto egli stesso veniva scrivendo. Purtroppo la parte dedicata da Marciano (Mare esterno, I, 35 = GGM, I, p. 535) a Taprobane è lacunosa: non è escluso che Marciano utilizzasse anche qui Artemidoro. Se l’accostamento qui prospettato tra i due luoghi, di Plinio e di Diodoro, è fondato, ne emerge ancor più chiaramente il vero carattere del racconto artemidoreo quando era integro, non ancora epitomato. Da Stefano di Bisanzio, voce Taprobavnh, si sarebbe indotti a pensare che, a proposito di quest’isola, Artemidoro si limitasse a fornire delle distanze; analoga impressione si potrebbe indirettamente ricavare da Marciano nel Mare esterno; e invece questo luogo di Plinio così combaciante con Diodoro ci fa capire che le epitomi geografiche finirebbero col darci solo una visione distorta e unilaterale dei Gewgrafouvmena. Con Agatemero entriamo già nel campo delle epitomi. La sua Gewgrafiva~ uJpotuvpwsi~ raccoglie materiali da vari geografi, da Talete a Posidonio18, e attinge ad Artemidoro per quel che riguarda le distanze (stadiasmov~). Incomincia con lui, e dunque molto presto, 16 Segnaliamo qui che la citazione da Artemidoro in Marziano Capella (VI, 613) è, com’è generalmente riconosciuto, una ripresa indiretta, attraverso Plinio (II, 244). 17 Meno cogente il rinvio suggerito da Stiehle (commento al fr. 107) al frammento di Onesicrito citato da Strabone sugli indiani longevi. 18 Già questo è un importante indizio per la cronologia (altrimenti non nota) di Agatemero. Senza prove, nella voce Agathemerus della Realencyclopädie la data prescelta per collocarlo nel tempo è «um 350 n.Chr.».

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la tendenza a sfrondare drasticamente (come farà, secoli dopo, Marciano) l’opera di Artemidoro di ogni altro elemento per ridurla all’assetto (o scheletro) di un periplo. Ne è nata, si sa, l’illusione ottica consistente nell’immaginarsi che in realtà null’altro che «un périple de cette grande mer intérieure» Artemidoro avesse composto19. Di contro, e più fondatamente, Hugo Berger, nelle pagine su Artemidoro della Geschichte der wissenschaftlichen Erdkunde der Griechen (1893), ha fatto ben risaltare la complessità dell’opera soprattutto dal punto di vista delle approfondite discussioni coi predecessori (IV, p. 38). Con il suo proemio su coloro che, da Talete a Posidonio, tracciarono carte dell’oijkoumevnh, Agatemero (Diller 1975b, pp. 60-61) fornisce anche indirettamente un dato su Artemidoro: rende chiaro che nulla del genere Artemidoro aveva tentato20.

5. Marciano abbrevia Artemidoro Dopo una isolata e non insignificante citazione nel De antro nympharum di Porfirio (232-circa 310 d.C.)21, Artemidoro esce di scena nella superstite tradizione. Riappare con Marciano di Eraclea, nel IV sec. (le date di Marciano sono discusse, ci si deve basare su illazioni). Marciano fornisce anche notizie su Artemidoro, ma soprattutto sui criteri con cui Marciano stesso ha ricavato – dagli undici libri dei Gewgrafouvmena, a lui ancora accessibili – una Epitome. Marciano incomincia la sua opera (il Periplo del mare esterno) nel nome di Artemidoro22: «Del mare posto all’interno delle colonne d’Ercole, che è chiuso dall’oceano che circonda la terra e che entra [nel Mediterraneo] attraverso il cosiddetto Stretto di Eracle Artemidoro, il geografo di Efeso, compose – come gli era possibile – il periplo negli undici libri della Geografia. E noi [a partire da] tali libri, avendo eliminato le superflue digressioni del suddetto uomo e inoltre le città etiopiche dei barbari, abbiamo fatto

Così la pensava ad esempio DUBOIS 1891, pp. 314-315. Ma non era il solo. Ben curiosamente il «nuovo» papiro vuole ascrivere ad Artemidoro una (presunta) mappa della Spagna, intercalata nel testo. 21 Su cui vedi infra, cap. II, § 3.1. 22 GGM, I, p. 516. 19 20

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emergere nel modo più chiaro possibile, in forma di epitome, il periplo23, aggiungendo con puntuale precisione i risultati delle scoperte successive. Nostro obiettivo è stato che agli studiosi di questo aspetto della geografia non mancasse nulla ai fini di una compiuta chiarezza». Dopo di che delinea il contenuto della propria opera: «Di entrambi gli oceani, quello orientale e quello occidentale, abbiamo deciso di scrivere il periplo, in due libri: l’oceano orientale e meridionale nel libro primo, quello occidentale e settentrionale nel libro secondo. Abbiamo adoperato come fonte la Geografia del divinissimo e sapientissimo Tolomeo e lo stadiasmov~ (stadivwn ajnamevtrhsi~) di Protagora, che [Tolomeo] aveva aggiunto ai propri libri della Geografia24. La conoscenza di entrambi (gli oceani) nei limiti raggiungibili agli esseri umani è determinata dallo zelo e dalla voglia di apprendere dei più. Nell’esposizione abbiamo incluso le isole maggiori comprese in entrambi, la cosiddetta Taprobane chiamata, prima, l’isola di Palismundo, nonché entrambe le isole britanniche: Taprobane è, notoriamente, al centro del mare indiano, le altre due sono nell’oceano settentrionale»25.

Cosa si può ricavare da questo proemio? Che Marciano intese il proprio lavoro sul Mare esterno come una prosecuzione dell’Epitome di Artemidoro, mirante a completare il «periplo del mare interno», che egli stesso aveva estratto da Artemidoro, con una parte che Artemidoro aveva trascurato: appunto il periplo del mare esterno, che a sua volta è fondato sulla Geografia di Tolomeo26 e sullo Stadiasmós di Protagora che – a quanto dice – Marciano trovava nel suo esemplare di Tolomeo, di seguito, come appendice della Geografia27. Concludendo questa parte introduttiva, Marciano riepiloga ancora una volta l’andamento del suo lavoro (p. 519, 9-14): «abbiamo realizzato il periplo del mare interno grazie all’epitome degli undici libri di Artemidoro; inoltre, come abbiamo già detto, degli Oceani, orientale e occidentale, abbiamo deciso di scrivere (ajnagravyai) il

23 Cioè un’opera in forma di periplo. Per questa espressione cfr. Mare esterno, § 3 (fine). 24 Ovviamente qui c’è un errore di prospettiva: sarà stato Protagora ad annettere, a far circolare, il proprio scritto insieme con un’edizione di Tolomeo. 25 GGM, I, p. 516, 1; p. 517, 3. 26 Cfr. BUNBURY 1879, p. 660: «a mere compilation from Ptolemy». 27 Su Protagora cfr. GISINGER 1957, coll. 921-923 e Fozio, Biblioteca, cap. 188, 145b 6-145b 26, il quale leggeva Protagora in un codex contenente anche i qaumavsia di Alessandro.

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periplo svolgendo un lavoro, in questo caso, originale (oijkei'on uJpostavnte~ povnon)». È chiara l’enfasi sulla originalità del lavoro sul mare esterno, in realtà eccessiva, come s’è appena osservato. Anche al principio del secondo libro Marciano rivendica, ancora una volta, di aver già fatto l’Epitome di Artemidoro: «Di tutto il mare che si trova all’interno delle colonne d’Ercole, come ho già detto, abbiamo fatto il periplo esatto (o almeno così pare a noi) nelle Epitomi (ejn tai'~ ΔEpitomai'~) degli undici libri di Artemidoro, geografo efesino, che a nostro avviso ha fatto il miglior periplo nei suoi libri della Geografia»28. Qui però Marciano aggiunge un nuovo, e interessante, dato sull’opera di Artemidoro. Chiarisce cioè che Artemidoro trattava anche una parte del mare esterno: «Di alcune parti del mare esterno – che i più chiamano Oceano – Artemidoro trattò, anche se limitatamente». Ma era una trattazione parziale: perciò Marciano ha ricavato la materia per il mare esterno «dalla Geografia del divinissimo Tolomeo e inoltre di Protagora e di altri autori antichi» appunto perché la trattazione fornita in proposito da Artemidoro non bastava (p. 542, 24-26). Poco dopo si mette a descrivere l’Iberia, quindi la Betica e la Lusitania (pp. 543-544) attingendo probabilmente anche a quanto già aveva elaborato nell’Epitome di Artemidoro, ma mescolando questi elementi soprattutto con materiali che ricava da Tolomeo. Il riferimento ad Artemidoro è costante (p. 551, 5-9). Quando tratta della Gallia e avverte che del periplo della Narbonese ha già parlato «nell’epitome di Artemidoro», soggiunge: «però il suddetto Artemidoro non l’ha distinta (scil. la Narbonese) dalle province dell’Iberia». È qui la prova del fatto che Narbonese e Iberia erano trattate insieme da Artemidoro29. Completata la descrizione del mare esterno, Marciano ha dato vita a una ulteriore Epitome, questa volta dell’opera geografica di Menippo, cui premette un ampio proemio in forma di lettera dedicatoria, rivolta a un destinatario, ΔAmfiqavlio~, di cui non sappiamo nulla (a parte la rarità del nome). In tale importante documento, Marciano torna a parlare del proprio lavoro su Artemidoro. Ne diamo qualche stralcio30: GGM, I, p. 542, 15-21. GGM, I, p. 551, 9. Qui Müller ha fatto una correzione superflua che stravolge il senso. Su tutta la questione cfr. infra, cap. II, § 4.4. 30 GGM, p. 564, 20; p. 568, 34. 28 29

I. Per la storia del testo di Artemidoro

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«Quelli che leggono in modo non critico (ajbasanivstw~) le opere degli antichi31 o non sapendo comprendere il valore dello scritto e la consequenzialità dei pensieri, offrono [con tale loro comportamento] una grande impunità a coloro che intendono scrivere in modo banale e trasandato. [...] Coloro che paiono essersi occupati meta; lovgwn [cum ratione] di questa materia sono: Timostene di Rodi timoniere capo del secondo Tolomeo, e dopo di lui Eratostene, che i dirigenti del Museo chiamarono Beta; e inoltre Pitea di Marsiglia e Isidoro di Cavrax e Sosandro il timoniere che raccontò dell’India e Simmeas, colui che compose32 il periplo dell’intera ecumene. Ancora, Apella di Cirene ed Eutimene di Marsiglia e Filea ateniese e Androstene di Taso e Cleone siciliano, Eudosso Rodio e Annone cartaginese: gli uni narrarono solo di alcune parti, altri scrissero il periplo di tutto il mare interno, altri ancora quello del mare esterno. Né trascurerò Scilace di Carianda e Ecateo33. Entrambi indicarono le distanze non per stadii ma per giornate di navigazione. E ce ne sono ancora molti altri che è inutile, a mio avviso, enumerare».

In questa impegnativa lettera dedicatoria, Marciano offre un vero e proprio panorama della letteratura geografica. Rispetto alla lunga serie di autori di peripli, isola due autori – Artemidoro e Strabone – mettendoli sullo stesso piano per la tipologia della loro opera: li considera simili, ed è ovvio che ai moderni conviene attenersi alla sua descrizione poiché egli ebbe conoscenza diretta anche dell’opera di Artemidoro. «Al di là34 della massa di tutti costoro (meta; touvtwn tou;~ pleivstou~) si pongono Artemidoro, il geografo di Efeso, e Strabone35, essi composero opere che erano al tempo stesso geografia e periplo; nonché Menippo di Pergamo, colui che ha scritto i diavplou~36. Questi tre appaiono come i più precisi tra i vari autori citati prima. È di questi che è necessario 31 Anche Menippo dunque è un «antico», rispetto a Marciano, infatti era un contemporaneo di Strabone e del poeta epigrammatista Crinagora (cfr. infra, nota 42). 32 Nel manoscritto si legge ejnqeiv": errore per sunqeiv"? 33 È tramandato bwtqai'o", ma cfr. NENCI 1953, pp. 225-229. 34 Cioè intende «al di sopra». 35 Per il solo Strabone non ha bisogno di indicazioni specificanti. È già divenuto oJ gewgravfo" per eccellenza come per i bizantini. 36 Müller traduce «transiectorum maritimorum scriptor».

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Parte prima. Artemidoro di Efeso

parlare, affinché nulla (ne) ignorino coloro che hanno particolare interesse a questo aspetto della geografia. Timostene, quando ancora si ignoravano moltissime parti del mare [zone marittime] giacché i Romani ancora non le dominavano, compose dei libri Sui porti (peri; limevnwn), ma non fu capace di trattare in modo preciso tutti i popoli che si affacciano sul Mediterraneo (th/' kaq’hJma'~ qalavtth/). Certo, in Europa aveva compiuto il periplo del mare Tirreno, ma non ebbe la forza di conoscere la zona dello ‘stretto di Eracle’ né sul versante del mare nostro né sul versante del mare esterno. Lo stesso gli capitò per quel che riguarda la Libia: infatti ignorò tutti i luoghi a partire da Cartagine e fino allo stretto di Eracle nonché quelli – nella stessa zona – attinenti al mare esterno. Di questi dieci libri è stata fatta un’epitome in un libro, ed oltre a ciò egli compose, ugualmente in un libro, una rassegna [ejpidromhvn tina] dei cosiddetti stadiasmoiv37. In tutti questi campi non ha fatto nulla di conclusivo né di chiaro38. Quanto a Eratostene di Cirene, preso da non so quale demone39 praticamente trascrisse il libro di Timostene, facendovi solo poche aggiunte: persino dal proemio del su nominato non seppe astenersi, e lo plagiò alla lettera piazzando il proemio di lui davanti al proprio scritto. Comportamenti analoghi ebbero gli altri autori: pubblicarono opere non chiare e divaganti. Tutt’altro è Artemidoro40, il geografo di Efeso, che fiorì intorno alla 169a olimpiade, lui che aveva compiuto il periplo della gran parte del mare nostro e che aveva anche visto l’isola di Gades e parti del mare esterno detto Oceano. Quantunque sia rimasto per così dire al di qua di una geografia davvero precisa, espose tuttavia in undici libri il periplo del mare al di qua delle colonne d’Ercole, e le relative misure, con adeguata cura: di modo che il suo è il più chiaro e più preciso periplo del mare ‘nostro’. Quanto a Menippo di Pergamo, fece anche lui un periplo del mare interno, in 3 libri. Egli realizzò quanto preannunziava componendo un’opera geografica e storica al tempo stesso»41.

37 Queste notizie sono molto interessanti: a) Timostene fece la epitome di se stesso; b) dello stadiasmov" poté fare una ejpidromhv, non una ejpitomhv: una rassegna, non un riassunto! 38 È improbabile che Marciano leggesse Timostene. Forse sta copiando un proemio altrui. 39 O meglio follia: oujk oi\da tiv paqwvn. 40 Si sarebbe portati a pensare che appunto ad Artemidoro risalga la polemica contro Eratostene che qui precede immediatamente la menzione positiva di Artemidoro. 41 ÔIstorikh;n kai; gewgrafikh;n ejpoihvsato th;n ejpaggelivan (ejpaggeliva significherà che Menippo «preannunziava una determinata opera e seppe tener fede al preannunzio»).

I. Per la storia del testo di Artemidoro

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Il nuovo proemio offre a Marciano l’occasione per nuovi dettagli sul proprio lavoro intorno ad Artemidoro: «Io dunque, tra tutti gli autori che ho fin qui menzionato, ho prescelto Artemidoro di Efeso, ho fatto una epitome dei suoi 11 libri e vi ho aggiunto – traendole da altri autori antichi – le cose che lì mancavano. Ma ho mantenuto la divisione degli undici libri; il risultato è stato una descrizione dei luoghi (gewgrafiva) equilibrata, ed un periplo completissimo. Avendo poi constatato che la gran parte degli autori antichi o non parlavano affatto, o parlavano ben poco del mare esterno, e che per giunta tale menzione era per lo più oscura e ben lontana dalla verità, impegnandomi io direttamente ho composto il periplo, in due libri, dell’Oceano orientale e meridionale con riguardo a entrambi i continenti che vi si affacciano, la Libia e l’Asia, a partire dal golfo arabico e fino al popolo dei Cinesi, e altresì (nel II dei due libri) il periplo dell’Oceano occidentale e settentrionale relativamente all’Europa e ad alcune parti della Libia. Appreso quindi che Menippo, coi suoi libri, offriva ai lettori una equilibrata conoscenza, e tuttavia non sempre precisa, vi ho aggiunto tutto che quello che vi mancava (e non era poco!), inoltre chiarii meglio (intervenendo nel suo testo) la distinzione tra i varî popoli nonché la localizzazione dei varî siti – tutti elementi che normalmente completano, per i lettori, l’informazione –, e feci una edizione dei tre libri»42.

Questa non fu dunque una Epitome ma una edizione aggiornata e ampliata. Forse Marciano sperava che questo più breve scritto avesse maggior successo dell’Artemidoro. Marciano è stato un elemento determinante nella trasmissione della geografia antica (per lo meno della silloge contenuta nel Paris. Suppl. Gr. 443, distinta da quella presente nel Palatino di Heidelberg 398). Donde la sua centralità per i Bizantini: non a caso si sono conservati manoscritti (medievali) di lui ma non di Artemidoro: il quale esce di scena, mentre Stefano di Bisanzio e gli scolii ad Apollonio Rodio ormai citano l’Epitome fatta da Marciano e circolante pur sempre come Artemidoro43.

42

Su Menippo, coetaneo di Strabone e del poeta Crinagora, cfr. Anth. Pal. IX,

559. 43 La coincidenza del “Nuovo Artemidoro” con i materiali che troviamo in Costantino e in Marciano ci fa capire che chi creò il papiro lavorò su materiali ‘epitomati’ o per meglio dire aventi a che fare con Artemidoro ormai ridotto in epitomi.

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Parte prima. Artemidoro di Efeso

Marciano prosegue fornendo un dettaglio decisivo per la storia del testo delle sue epitomi: «Mi son guardato bene dal togliere dall’intestazione dell’opera il nome dell’autore44, così come mi son guardato bene dall’attribuire a me lavori altrui, come del resto avevo fatto per il non sempre impeccabile Artemidoro. Al contrario: misi i loro nomi [scil. di Artemidoro e di Menippo] nell’inscriptio dei rispettivi libri per non risultare peccatore nei confronti degli dei della cultura (eij~ tou;~ logivou~ qeouv~)45; invece ho fatto in modo che risultasse chiaro che il mio apporto consisteva in un caso nel lavoro di epitome, nell’altro nel lavoro di revisione (diovrqwsi~). Ragion per cui i lettori nulla ignoreranno né degli scritti di costoro né delle parti che io ho aggiunto ovvero ho ritenuto bisognose di accurata revisione»46.

Segue la presentazione in dettaglio dell’opera di Menippo, che infatti figura subito dopo il proemio, ma della quale sopravvive pochissimo a causa di un altro danno che ha investito il Suppl. Gr. 443.

6. Come si presentava l’opera di Marciano? Berger pensava che tutta l’Epitome artemidorea fosse compresa «in einem Buche», cioè in un codex. Penso che fosse indotto a pensare ciò dalle parole dello stesso Marciano là dove avverte di aver serbato traccia – nell’Epitome – della suddivisione originaria in undici libri. Tale frase infatti non avrebbe molto senso se l’Epitome fosse consistita essa stessa in undici più brevi rotoli. Dalla progressiva scansione che Marciano segnala e descrive, quando parla del suo lavoro, si capisce che esso si è sviluppato nel tempo. La prima impresa è stata l’Epitome di Artemidoro. Impresa per molti versi curiosa. Essa consistette non già in una semplice riduzione del testo preso a base, ma in una selezione dei materiali orientata in un senso molto unilaterale (il periplo, e via tutto il resto); path;r tou' lovgou: secondo l’usuale espressione bizantina. Sugli autori che usano questa espressione vedi infra, nota 50. 46 Questo proemio sembra indicare che Marciano ha unito le varie opere cui ha atteso (Epitome di Artemidoro, [Mare esterno], Epitome di Menippo) in un unico corpus: e perciò ne parla come se il lettore avesse sotto mano l’intero. È quel che si osserva nel Suppl. Gr. 443. 44 45

I. Per la storia del testo di Artemidoro

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inoltre nella eliminazione di tutta una parte: per esempio «le città dell’Etiopia». Insomma Marciano trasformò un’opera, quella di Artemidoro, che – come egli stesso ammette (GGM, I, p. 566, 5-6) – rassomigliava a quella di Strabone e dunque abbracciava ben più del Mediterraneo e implicava tutta la «Länderkunde» fisica e storicopolitica47, in un periplo del mare interno. Ciò facendo, egli preparava la seconda sua opera, il Mare esterno (per esaltare la quale sostiene che Artemidoro non aveva trattato che del mare interno!): opera che vanta come sua originale ma che proprio nel medesimo contesto ammette di aver ricavato essenzialmente dalla Geografia di Tolomeo, integrata dallo stadiasmos di Protagora; e possiamo star certi che avrà attinto anche a quelle parti di Artemidoro che aveva escluso dalla precedente Epitome. La terza sua fatica è stata l’«edizione»48, adeguatamente manipolata e ritoccata, del Mare interno di Menippo di Pergamo. Operazione anch’essa alquanto singolare: non era necessaria, in questo caso, una riduzione perché si trattava di un testo breve (tre libri a fronte degli undici di Artemidoro), ma anche qui Marciano dice di aver aggiunto molto di suo. La “giustificazione” che ritiene necessario addurre («visto che quest’opera piace al pubblico dei lettori49 ho deciso di farne l’edizione») è un indizio del tipo di lavoro che Marciano è venuto costituendo: una raccolta di geografi. Una raccolta di opere altrui, in alcuni casi da lui integrate – forse quelle che riteneva di maggior successo. Il Paris. Suppl. Gr. 443 conteneva probabilmente, quando non era mutilo, per l’appunto tale raccolta50. Non sfuggirà l’effetto ‘inquinante’ dell’operazione, visto che Marciano scelse di non proporsi come autore: in tal modo sia l’Artemidoro epitomato e variamente stravolto sia il Menippo edito e largamente ‘farcito’ circolarono con i nomi dei rispettivi autori, come opere da loro volute (ta;~ ejkeivnwn proshgoriva~ ejpigravya~ toi'~ biblivoi~). Marciano spiega di aver agito così «per non peccare

Così BERGER 1895, col. 1330, 29-30. th;n e[kdosin tw'n triw'n biblivwn ejpoihsavmhn scrive (GGM, I, p. 567, 22-23). 49 GGM, I, p. 567, 17-18. 50 Lo conferma il fatto che, ad esempio, il periplo che si trova subito dopo il Menippo (mutilo), quello di Scilace, presenta una notizia preliminare su Scilace dovuta a Marciano. E alla fine dello pseudo-Scilace si legge eujtucw'" Markianw/'. Debbo, su questo e altro, uno speciale ringraziamento alla dottrina di Francesco Prontera. 47 48

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Parte prima. Artemidoro di Efeso

nei confronti dei lovgioi qeoiv51», ma forse anche perché l’apporto suo personale era stato piuttosto limitato. Nel Suppl. Gr. 443 mancano, al principio, due fascicoli. L’ipotesi più probabile resta quella iniziale di Müller, poi da lui accantonata: che cioè in quei fascicoli fosse compresa l’Epitome di Artemidoro. Questa illazione – se esatta – ci aiuta a farci un’idea dell’entità, piuttosto modesta, dell’Epitome artemidorea messa in essere da Marciano col proposito, alquanto drastico, di estrarre dall’ampia Geografia di Artemidoro nulla più che il periplo del mare interno. Non deve stupire che il risultato di tale operazione occupasse soltanto due fascicoli. 7. Gli effetti dell’epitome L’Epitome ebbe, come era prevedibile, l’effetto di soppiantare il testo intero dei Gewgrafouvmena52, ma anche di creare confusione. Il fatto che Marciano avesse mantenuto il nome di Artemidoro nell’inscriptio della sua Epitome ha determinato un inconveniente: quando nel lessico geografico di Stefano di Bisanzio (anch’esso giuntoci in epitome!) ci troviamo dinanzi al rinvio ΔArtemivdwro~ non possiamo esser certi che Stefano si riferisca all’opera integra53. Anche se parecchie volte Stefano rinvia ad ΔArtemivdwro~ ejn th'/ ΔEpitomh/' questo non ci deve indurre necessariamente a pensare che Stefano usasse (cosa inusuale) sia Artemidoro sia l’epitome. Così, ad esempio, negli scolii ad Apollonio Rodio l’Epitome è citata una sola volta (in III, 859), mentre in altri tre casi (II, 946; II, 963; IV, 259) è citato senz’altro «Artemidoro». Ma chi crederebbe che anche in questo caso si debba presupporre la conoscenza di entrambe le opere (l’Epitome e l’opera intera)?

51 «In deos sermonis praesides» traduce Müller sulla scia di Hoeschel (I, 567, 27). L’espressione ricorre in Elio Aristide, nell’imperatore Giuliano, in Gemisto Pletone. 52 Per lo stesso fenomeno nel caso del Periplo di Menippo e del rifacimento dovuto a Marciano cfr. la nota di Müller in FHG, v. 1, p. 174. 53 Cfr. infra, cap. II, § 3.1, e cap. X, § 2.

II I GEOGRAPHOUMENA: STRUTTURA E STILE* di Claudio Schiano

1. Un passo avanti e uno indietro: le raccolte dei frammenti I frammenti di Artemidoro di Efeso furono raccolti per la prima volta da John Hudson, nel I volume dei Geographiae veteris scriptores Graeci minores (1698): in appendice al Periplus maris exteri di Marciano si leggevano così il Fragmentum epitomes undecim librorum Artemidori Ephesii – in realtà l’epitome di Menippo1 –, quindi i frammenti di tradizione indiretta di Menippo e di Artemidoro (pp. 75-89). Questi ultimi erano organizzati senza numerazione progressiva e senza ordinamento in libri, bensì classificati secondo gli autori citanti (nell’ordine Diodoro, Strabone, Ateneo, Porfirio, Agatemero, Arpocrazione, Esichio, gli scolii ad Apollonio Rodio, Stefano di Bisanzio, Costantino Porfirogenito2, Plinio, Marziano Capella, e infine, tra gli «omissa» in coda al volume, un frammento dall’Appendix Proverbiorum, e uno scolio vetus a Licofrone). Il frammento citato da Costantino Porfirogenito, in verità, riappare alla fine del IV * Si anticipa qui la parte essenziale dell’introduzione all’imminente nuova edizione critica dei frammenti di Artemidoro («Paradosis», 14, Edizioni Dedalo). 1 Già Dodwell, tuttavia, notò che nulla vi era di Artemidoro in quel testo: «Fragmentum nihil complectitur illius Epitomes praeter titulum ipsum, et quae sequuntur lemmata. Sequens enim Praefatio ad librum 2m spectabat Peripli maris Exterioris, ut legenti constabit» (p. 145). Sulla confusione fra le epitomi di Menippo e di Artemidoro, che risaliva già all’edizione di HOESCHEL (1600), si veda supra, Fantasma, § 1. 2 In verità, «ex Stephani fragmento in Constant. Porphyrogen. de Administratione Imperii Cap. XXIII», conformemente all’idea di Vossius e di Berkel.

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Parte prima. Artemidoro di Efeso

volume, giacché Hudson si accorse tardivamente della riscrittura di tale capitolo da parte di Isaac Vos ed erroneamente pensò che si trattasse di un altro testo (su ciò vedi infra, cap. IX, § 1). L’edizione di Hudson rimase canonica per molto tempo, benché fosse sottoposta a critiche per carenza di commento e di correttezza testuale. In una lettera indirizzata al barone de Sainte-Croix il 10 febbraio 1785, l’abate polacco Abraham Jacob Penzel (1749-1819) espose un progetto di edizione del corpus dei geografi, che avrebbe incluso, in una sezione di «geografia universale», anche i frammenti di Menippo e quelli di Artemidoro. Lo stesso de Sainte-Croix, nel «Journal des Sçavans» dell’aprile 1789, espose un proprio progetto differente in più punti da quello di Penzel; anch’egli attribuiva ad Artemidoro un ruolo di primo piano, giudicando che la perdita di quest’autore costituisse «une des plus grandes que nous ayons faites»3. Rispetto all’edizione di Hudson con l’epitome di Artemidoro (in realtà, di Menippo) e i frammenti da Strabone e Plinio, de Sainte-Croix proponeva di ampliare la ricerca per individuare «les différens passages qui se trouvent dans les Scholies publiées ou inédites, et dans d’autres écrits qu’on consulte rarement». Nel 1807-1808 i fratelli Zosimadai stamparono a Vienna una traduzione in greco dell’edizione di Hudson4: l’assetto rimaneva il medesimo, era privilegiato il raggruppamento per fonti rispetto alla ricerca di un ordine interno all’opera. Mancano però, nella ristampa degli Zosimadai, sia i frammenti di tradizione latina (Plinio e Marziano Capella5), sia i due frammenti che Hudson collocò tra gli «omissa» in coda al I volume. Artemidoro, e numerosi altri autori di peripli, vennero quindi inclusi in diversi nuovi progetti di pubblicazione dell’intero corpus dei geografi antichi; tuttavia l’ampiezza dell’impegno richiesto finì più di una volta per determinare l’abbandono dell’impresa: è il caso di Bernhardy, nel 1828, il quale dovette forzatamente limitare in modo consistente il proprio orizzonte di interessi rispetto all’iniziale progetto; ed è il caso del Corpus geographorum Graecorum et LatiDE SAINTE-CROIX 1789, p. 234. ZOSIMADAI 1807-1808, I, pp. 457-476. L’operazione fu anonimamente curata da Demetrios Alexandrides per conto dei banchieri Zosimadai. 5 Marziano Capella, in realtà, cita Artemidoro di seconda mano, impiegando Plinio, che è a noi noto. Tanto Hudson quanto Hoffmann trattano i frammenti da Marziano Capella come se provenissero da fonti autonome. 3 4

II. I «Geographoumena»: struttura e stile

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norum qui supersunt omnium di Sickler, Schirlitz e Braunhard, nel 1833, progetto del quale sopravvisse solo un prospetto pubblicitario, stampato per raccogliere sottoscrizioni. Nel 1837 la Bibliothèque royale acquisì – in occasione della vendita all’incanto dei beni del castello di Rosny – il Paris. Suppl. Gr. 443, il manoscritto già di Pierre Pithou sui cui apografi erano basate l’edizione princeps del Periplo del mare esterno di Marciano per cura di Hoeschel (1600) e poi l’edizione di Hudson (1698). La riscoperta del manoscritto indusse Emmanuel Miller a intraprendere nel 1839 una nuova edizione degli scritti di Marciano, ovvero il Periplo del mare esterno e l’Epitome di Menippo, così come apparivano nel manoscritto. Ma evidentemente, il fatto che mancassero i primi fascicoli del Parigino, nei quali si deve presumere trovasse posto la vera epitome marcianea di Artemidoro, indusse Miller a perseverare nell’errore di confondere l’epitome di Menippo con quella di Artemidoro e a scegliere di pubblicare l’epitome ‘di Artemidoro’ senza il corredo dei frammenti di tradizione indiretta. Nel frattempo, nel 1838 Samuel Friedrich Wilhelm Hoffmann pubblicava uno studio dal titolo Artemidorus, der Geograph in appendice a Die Iberer im Westen und Osten; vi raccolse anche i frammenti di Artemidoro, in maniera ben più ricca e organica di quanto si fosse fatto fino a quel momento. Egli per primo si interrogò in modo sistematico sulla natura dell’opera di Artemidoro e quindi sull’ordine dei frammenti. Le proposte di Hoffmann, come si dirà, sono in larga misura condivisibili. Egli avrebbe poi pubblicato nel 1841 anche un’edizione del Periplo del mare esterno di Marciano e dell’Epitome di Menippo, finalmente restituita al suo vero autore6. Nel 1855 apparve il primo volume dei Geographi Graeci minores di Müller, parte di un più ampio progetto che fu in certa misura ridimensionato. Vi trovavano posto il Periplo del mare esterno di Marciano, l’epitome definitivamente e correttamente attribuita a Menippo e una raccolta di frammenti artemidorei: poiché interesse di Müller era l’edizione di Marciano – suggerita dall’urgenza di mettere finalmente a frutto il Suppl. Gr. 443 (come peraltro già aveva fatto Miller) –, egli raccolse i soli frammenti di Artemidoro senza dubbio riferibili all’operazione di epitomazione compiuta da Marciano, 6 Dello stesso anno la ricerca Menippos, der Geograph aus Pergamon, dessen Zeit und Werk. Eine Untersuchung.

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Parte prima. Artemidoro di Efeso

ovvero le testimonianze ejn th`/ ejpitomh`/ tw`n e{ndeka da Stefano di Bisanzio e dagli scolii ad Apollonio Rodio, nonché i frammenti tràditi dallo stesso Marciano. Anche Müller procedette a una riorganizzazione dei frammenti per libri, in modo non dissimile da Hoffmann che verosimilmente tenne presente7. L’anno successivo, invece, apparve su «Philologus» l’articolo di Robert Stiehle, Der Geograph Artemidoros von Ephesos. Stiehle ammetteva di non aver potuto prendere visione dello studio di Hoffmann8 e con ogni evidenza ignorava il coevo volume di Müller: perciò suo punto di riferimento erano, in ultima istanza, le acquisizioni di Hudson e Dodwell, sulle quali esercitava la propria critica. La fortuna di cui godette la raccolta di Stiehle contribuì a obliterare Hoffmann, né poté essere contrastata da Müller il quale non offriva che ben scarsa messe di testi artemidorei. Lo studio di Stiehle non era, in verità, esente da limiti: innanzitutto, egli, fondandosi su Hudson, persisteva nell’attribuire ad Artemidoro il frammento dell’epitome redatta da Marciano che, come si è detto, Hoffmann aveva avuto il merito di restituire a Menippo9; inoltre, leggere Marciano in un’edizione, quella di Hudson, precedente la scoperta del Paris. Suppl. Gr. 443 non poté che causare fraintendimenti, anche di qualche rilievo10. Gli sfuggirono poi alcuni frammenti che erano pur presenti nella raccolta di Hoffmann: è il caso, per esempio, del fr. XLVII documentato dagli scolii a Dionigi Periegeta, che Hudson ignorava e che era stato segnalato da Van Goens nelle Animadversiones al De

7 È chiaro che, sebbene Müller non abbia edito tutti i frammenti di Artemidoro, pure lavorò su di essi (con ogni probabilità, attraverso l’edizione di Hoffmann) in modo da costruirsi una più chiara idea dell’opera intera: infatti, i frammenti dell’epitome non presentano numerazione dei libri. Artemidoro avrebbe probabilmente trovato posto nel II volume, mai pubblicato, dell’originario progetto (fu invece stampato, come secondo, il terzo volume inizialmente programmato). Sul progetto dei Geographi Graeci minores, cfr. MARCOTTE 1999, p. 332. 8 STIEHLE 1856, p. 193, nota 3. 9 Ivi, p. 243. Stiehle inoltre avvalora l’esistenza di due epitomi, la prima composta da Artemidoro stesso (ovvero i frammenti per i quali Stefano adopera l’espressione ΔArtemivdwro~ ejn ejpitomh`/ tw`n e{ndeka), la seconda messa insieme da Marciano (rappresentata dal frammento dell’epitome che noi sappiamo essere di Menippo, e inoltre il frammento s.v. Malavkh ove Stefano scrive Markiano;~ ejn bV tw`n ejpitomw`n ΔArtemidwvrou). Di questa erronea convinzione ha fatto poi giustizia SUSEMIHL 1891, p. 696, nota 310.Vedi supra, Fantasma, § 1.4. 10 Cfr. infra, § 4.1.

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antro nympharum di Porfirio11; ma anche del frammento attestato dall’Appendix Proverbiorum che Hudson aveva posto fra gli «omissa» e Hoffmann stampato come fr. XLV12. E soprattutto Stiehle diede una propria interpretazione della struttura dell’opera di Artemidoro, proponendo un ordine dei libri in parte diverso da quello di Hoffmann e Müller; e si segnala un certo interventismo nel correggere la tradizione, soprattutto per quel che attiene ai numeri di libro, al fine di stendere i Geographoumena sul letto di Procuste della ripartizione da lui presupposta. Dopo Stiehle nessuno ha mai più tentato un’edizione dei frammenti di Artemidoro. Felix Jacoby, nei Fragmente der griechischen Historiker, attribuì ad Artemidoro di Efeso il numero 438, ma stampò il solo passo che Ateneo, III, 76, dichiara provenire dagli ΔIwnika; uJpomnhvmata, mentre per i frammenti dei Gewgrafouvmena rinviava al V. Band, dedicato agli autori di geografia, che non vide mai la luce13. L’edizione di Stiehle, perciò, si impose come normativa: certo, più che la qualità del lavoro di Stiehle contò – come spesso accade – la sede, autorevole e di larga diffusione, in cui pubblicò i risultati del proprio lavoro, la rivista di Göttingen curata da von Leutsch, «Philologus». Sulla base di Stiehle, dunque, gli studiosi successivi continuarono a costruirsi un’immagine della geografia di Artemidoro: caso esemplare fu Gerd Hagenow, il quale, approfondendo la geografia dell’Occidente nel geografo efesino e quindi i rapporti con Strabone, partì dai frammenti di Stiehle, del quale pure riconobbe l’inadeguatezza («für quellenkritische Fragen zwar völlig unzureichend ist»)14, ma dal quale risultò gravemente condizionato, fin nelle congetture. 11 Scholia in Dionysii Periegetae orbis descriptionem, 14, GGM, II, p. 432: ΔArtemivdwro~ dev fhsi ta; duvo stovmata tou` Tanavi>do~ dievcein eJautw`n stavdia eJptav (eJbdomhvkontaÙ). To; me;n ga;r aujtou` eij~ Maiwvtida livmnhn ejkrei`, to; de; eij~ Skuqivan (cfr. Strabone, XI, 2, 2; Tolomeo, Geogr., III, 5, 4). L’appena diciassettenne Rijklof M. Van Goens, a sua volta, ne aveva ricevuto notizia da Ruhnken (VAN GOENS 1765, p. 87). La segnalazione fu ripetuta da Harles/Fabricius, da de Sainte-Croix, da F.X. Berger (nell’edizione del frammento monacense De Nilo) e, ovviamente, da Hoffmann. 12 Appendix Proverbiorum, III, 91: Kai; ΔArtemivdwro~ fhsi;n o{ti oJ Fivlippo~ e[ktise Ponhrw`n povlin kaloumevnhn, ejn h|/ pavnta~ tou;~ ponhrou;~ kolavzwn kaqeivrguen (cfr. Teopompo, FGrHist 115 F 110; Strabone, VII, 6, 2; Plinio, IV, 41; Plutarco, De curiositate, 520B8). 13 È oggi in lavorazione sotto la direzione di H.-J. Gehrke (Freiburg). 14 HAGENOW 1932, p. 6, nota 7.

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2.1. Artemidoro in Strabone Gli autori che più di altri tramandano frammenti dell’opera di Artemidoro sono Strabone e Stefano di Bisanzio: gli interessi e le modalità di lavoro di questi due autori non potrebbero essere più diversi, e diversa è altresì l’immagine che restituiscono di Artemidoro. Il nome del geografo efesino ricorre 58 volte nel testo di Strabone: più frequenti sono solo Eforo, Posidonio ed Eratostene. La Quellenforschung straboniana è stata attraversata da opposte linee di pensiero, miranti ora a ridurre Strabone al rango di ottuso compilatore di poche fonti principali, ora a riconoscere nell’autore una vasta ampiezza di letture e una forte originalità nel gestirle e integrarle nel proprio racconto. Un ruolo per nulla trascurabile è giocato, com’è ovvio, da Artemidoro: in primis, Hunrath, e poi a seguire Beloch, Pais, Däbritz, Steinbrück15, hanno riconosciuto in Artemidoro una fonte primaria, pur con diverse sfumature. Beloch, ad esempio, suggerì di rintracciare la presenza di Artemidoro in gran parte del libro V, soprattutto nella sezione sulla Campania (che, a rigore, non reca alcun riferimento esplicito all’efesino); Pais giudicò che «la geografia di Strabone è condotta, in generale, sulla falsariga di Artemidoro», benché ammettesse l’originale apporto di Strabone in alcuni «libri nei quali, non solo ha notevolmente variato e accresciuto il materiale dovuto alle fonti [...], ma in cui egli deve essere, sino ad un certo punto, un descrittore originale»16. Opinione di Däbritz, poi, è che Strabone non leggesse direttamente Timeo, ma ne conoscesse l’opera tramite Artemidoro: egli osservò, infatti, che, per la descrizione dell’Italia, Plinio, III, e Strabone, V e VI, convergono in numerosi punti, il che presuppone una fonte comune, ovvero Artemidoro; le coincidenze nella descrizione della Sicilia fra Strabone e Diodoro, XIV, dipendono da Timeo; Timeo, in Plinio, III, 85 («Sardiniam ipsam Timaeus Sandaliotim appellavit ab effigie soleae»), concorda con Agatemero, 20 (hJ de; Sardw; e[cei sch`ma wJ~ podo;~ i[cno~), che si suppone dipenda da Artemidoro; ergo Plinio e Strabone dipenderebbero da Artemidoro, tutte le volte in cui è citato Timeo17. Sostegno di quest’argomentazione parrebbe essere Strabone, XIV, 1, 22, in cui è citato Artemidoro che confuta Timeo (fr. 126 Stiehle). HUNRATH 1879; BELOCH 1882; PAIS 1887; DÄBRITZ 1905; STEINBRÜCK 1909. PAIS 1887, p. 245. 17 DÄBRITZ 1905, pp. 11-21. 15 16

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Lasserre, nell’edizione Belles Lettres di Strabone, giunge a sospettare la presenza di Artemidoro nell’intera tessitura dei libri V e VI, dedicati all’Italia, ed elenca un cospicuo numero di passi in cui Artemidoro, sebbene non nominato, agirebbe come fonte18. In particolare, egli sceglie di ricondurre ad Artemidoro ogni passo in cui Strabone introduca la descrizione di una località mediante la segnalazione del percorso via mare e delle distanze da altre località precedentemente menzionate19. Lasserre e Aujac concordano in verità su un’idea alquanto singolare: Strabone utilizzerebbe Artemidoro direttamente per Italia, Asia Minore, Egitto, tramite Posidonio per Spagna e Gallia20. Ma sulla presenza di Artemidoro nella descrizione della Spagna si dirà più avanti. A questa linea di interpretazione s’oppone chi crede in una maggiore autonomia di lavoro in Strabone. A giudizio di Hagenow, se si escludono le notizie sulle fondazioni delle città, nei frammenti sicuramente artemidorei mancherebbero vere e proprie discussioni di carattere storico21; e perciò, eccezion fatta per i luoghi in cui esplicitamente è menzionato Artemidoro, non si dovrebbe ritenere che Strabone, nei libri V e VI, desumesse informazioni dal geografo efesino22. Certo, appaiono condivisibili i recenti inviti all’equilibrio nella valutazione dell’apporto artemidoreo al testo straboniano, come quello di Filippo Coarelli, che, nel tacciare la discussione fin allora Cfr. LASSERRE 1966, pp. 15-18. Lo stesso metodo è adottato, per esempio, da BALADIÉ 1989, p. 22, che ricava un fitto elenco di passi del VII libro che potrebbero dipendere da Artemidoro. Archegeta di questo metodo fu DÄBRITZ 1905, p. 51, il quale però paradossalmente partiva da un’idea assai limitata del contenuto dell’opera di Artemidoro: «Neque in peroranda totius peripli origine reor opus esse multa ex his paragraphis adcumulare exempla unde cognoscas Boeotiae Locrorum Thessaliae periplum eadem esse institutum ratione atque ceteros quos Artemidoreos tibi venditavimus. Nam plane nihil in his habes nisi oppida marituma vel mikro;n uJpe;r th`~ qalavtth~ sita, promunturia, sinus, insulas, portus, res maritumas, res sacras, ktivsmata, fabulas; omnia narrata inveniuntur ex more periegetarum, nihil redolet grammaticum vel philosophum auctorem». Contro Däbritz, che comunque riduce Strabone al rango di un compilatore, si legga la critica di HAGENOW 1932, p. 131. 20 LASSERRE 1966, p. 7, nota 1: «les citations d’Artémidore du livre III sont toutes de seconde main». Cfr. AUJAC 1969, p. XXXIX. 21 HAGENOW 1932, pp. 91-92, nota 140; p. 101; p. 137. Ma a p. 139 chiarisce che i Geographoumena dovessero essere «mehr als eine Küstenbeschreibung, nämlich eine Darstellung der ganzen bekannten Erde», con informazioni almeno «antiquarischen oder ethnographischen Inhaltes». 22 Ivi, pp. 123-124. 18 19

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svoltasi «quasi» di «sterile esercitazione accademica di stampo ottocentesco», osservò che «Strabone convoglia nel suo testo molto materiale di prima mano, ma inoltre anche quanto egli riprende da fonti più antiche – e certamente non è poco – viene totalmente rifuso e integrato in un contesto del tutto nuovo»23. E dunque un esame corretto e prudente deve essere condotto frammento per frammento. Ma certo non altrettanto misurato appare il giudizio di chi, andando ben oltre Hagenow, sminuisce i Geographoumena di Artemidoro a semplice portolano e quindi ne esclude del tutto la presenza in Strabone, fuorché là dove sia espressamente citato. Ad esempio, ancora sul problema sollevato da Beloch è intervenuta Moscati Castelnuovo, che, a proposito di Strabone, VI, 3, 10, ha confutato la tesi secondo cui gran parte della descrizione della Puglia dipenderebbe da Artemidoro24: ella richiama l’attenzione sulla frase tau`ta me;n ou\n katΔ ΔArtemivdwron kei`tai ta; diasthvmata per dire che solo le misure delle distanze dipendono da Artemidoro e quindi altre notizie di carattere storico o etnografico devono risalire a fonti diverse o ad autopsia; la conclusione è che «dalle citazioni di Artemidoro appartenenti ai libri V e VI di Strabone appare che in nessun caso Strabone ha improntato ad Artemidoro notizie di carattere storico o erudito». Per limitarci all’espressione contestata, occorrerebbe però leggere quel che segue in Strabone: fhsi; dΔ oJ cwrogravfo~ [probabilmente Marco Vipsanio Agrippa] ta; ajpo; tou` Brentesivou mevcri Gargavnou milivwn eJkato;n eJxhvkonta pevnte: pleonavzei de; aujta; oJ ΔArtemivdwro~. Ovvero, Strabone sceglie di seguire le distanze fornite da Artemidoro, mentre altri (come Agrippa o Polibio) forniscono dati diversi. Questo non vuol dire che solo le distanze dipendono da Artemidoro, ma che solo sulle distanze Strabone riscontra una di-

23 COARELLI 1988, p. 76. Sulla stessa linea è PRONTERA 1988, p. 104. Cfr. anche HERING 1972, p. 398: «Neben Artemidor sind demnach auch jüngere Autoren nicht ausgeschlossen». 24 MOSCATI CASTELNUOVO 1983. La studiosa reputa anche che Strabone conoscesse Timeo attraverso Polibio e non attraverso Artemidoro: in qualche caso ciò è possibile, ma, almeno nel fr. 126 Stiehle, che Artemidoro citasse Timeo e che quindi Strabone desse conto di Timeo tramite Artemidoro non può essere revocato in dubbio. Vero è che ella (alquanto arbitrariamente) attribuisce il fr. 126 non già ai Gewgrafouvmena, bensì agli ΔIwnika; uJpomnhvmata; ma sulla effettiva esistenza di questi ultimi come opera a sé stante occorrerebbe ulteriore riflessione (cfr. supra, cap. I, nota 2). A una lettura diretta di Timeo da parte di Strabone pensa BIFFI 1988, pp. XLIV-XLV.

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scordanza fra le fonti cui attinge. E dunque, egli segue una fonte (o più d’una) menzionandola solo se vuole dissentire da essa o segnalare un elemento di dubbio. Non esistono dunque criteri meccanici per stabilire la dipendenza di Strabone da Artemidoro fuorché nei casi in cui l’efesino sia citato nominatim; ma non si può perciò cadere nell’ingenuità di credere che Artemidoro non sia presente che in quei soli casi. Basterebbe a dimostrarlo qualche passo in cui il riconoscimento della fonte artemidorea è favorito dalle misurazioni delle distanze: ad esempio, in VII, 4, 2, Strabone computa la distanza da Chersonesos a Tyras in 4400 stadi senza richiamare una fonte; l’anonimo Periplo del Ponto Eusino, 63 (fr. 67 Stiehle) attribuisce ad Artemidoro la misura di 4420 stadi. Così sorprendiamo Strabone nel leggere Artemidoro senza citarlo.

2.2. Da Artemidoro a Strabone, passando per Posidonio Potrebbe essere utile allora valutare l’atteggiamento di Strabone verso Artemidoro. Come ricordato supra, cap. I, § 2, Artemidoro si vantava di aver personalmente visitato alcune delle località descritte nei Geographoumena, in particolare la Spagna, e di aver soggiornato presso il promontorio sacro (capo São Vicente), a proposito del quale fornisce numerose notizie25. Confuta Eforo a proposito del tempio di Eracle, riferisce del divieto di accedere al promontorio nottetempo e della carenza d’acqua nell’area: a queste informazioni Strabone accorda il proprio consenso, non altrettanto a tutte le altre sciocchezze che quello riferisce (a} de; toi`~ polloi`~ kai; cudaivoi~ oJmoivw~ ei[rhken). Segue una citazione da Posidonio (fr. 119 E.-K.), il quale si rivolge contro tou;~ pollouv~ che ritengono che il sole al tramonto abbia dimensioni maggiori del normale (meivzw duvnein to;n h{lion) e si spenga nell’acqua dell’Oceano producendo uno sfrigolio (meta; yovfou), e che la notte giunga all’improvviso. Ricompare dunque Artemidoro, al quale si ascrivono almeno due delle fantasiose tesi ora confutate (eJkatontaplasivonav fhsi duvesqai to;n h{lion kai; 25 Si tratta dei frammenti 13 e 12 Stiehle (Strabone, III, 1, 4-5): non è chiaro perché Stiehle abbia diviso quest’unico testo in due frammenti e perché abbia operato una inversione rispetto all’ordine con cui Strabone espone il pensiero. Sul contesto, cfr. HAGENOW 1932, pp. 6-7.

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aujtivka nuvkta katalambavnein). La concatenazione logica e la coincidenza delle accuse sono troppo serrate per non indurre a pensare che sia proprio Posidonio ad accusare Artemidoro di credulità e di un metodo scarsamente scientifico26. Il passo è meglio chiarito dalla lettura dell’astronomo Cleomede. Questi, in Caelestia, II, 1, contesta a Epicuro (o, meglio, alla scuola di Epicuro: fr. 346b Usener) la tesi secondo cui le dimensioni effettive del sole coinciderebbero con quelle apparenti: «Oltre a tutte le altre assurdità, disse anche che gli astri al loro sorgere si accendono, al loro tramontare si spengono... Ma è per aver creduto a una favoletta da vecchie (gli Iberi raccontano che il sole tuffandosi nell’Oceano fa uno stridore spegnendosi, come di ferro rovente che cada in acqua) che egli solo è giunto a una tale convinzione, primo fra gli uomini e solo, scoprendo il vero» (rr. 459-462 Todd)27. Non è affatto detto, ed è anzi improbabile, che Epicuro parlasse degli Iberi: opportunamente Isnardi Parente traduce dando all’espressione valore parentetico, sicché Cleomede dice che Epicuro ha prestato credito a favole come quelle che circolano tra gli Iberi. Il richiamo alle leggende iberiche dipende senza dubbio dalla fonte di Cleomede, che è con ogni evidenza Posidonio. Cleomede, in fine del libro I, infatti, dice che «avendo affermato all’inizio della trattazione che il sole, pur essendo assai più grande, manda a noi un’apparenza di un piede di ampiezza, dobbiamo recare un congruo numero di prove per la presente introduzione, adoperando argomenti specifici di autori che hanno scritto monograficamente su questo solo tema, fra cui anche Posidonio». Cleomede allude sì ad una pluralità di fonti28, ma non si può contestare che Posidonio sia fonte privilegiata. È ben 26 Invece, KIDD 1988, pp. 462-463, ritiene che «the evidence only gives Posidonius’ criticism of oiJ polloiv, not of Artemidorus» e che «the analysis shows not an attack on Artemidorus by Posidonius, but a critical testing and explanation of commonly reported phenomena (which Artemidorus had accepted)». 27 Traduzione di M. Isnardi Parente (1974, p. 356). Il frammento manca nella raccolta di Arrighetti (19732), certo perché da ricondurre piuttosto alla scuola di Epicuro che al maestro (Cleomede, II, 1: ΔEpivkouro~ kai; oiJ polloi; tw`n ajpo; th`~ aiJrevsew~). 28 KIDD 1988, p. 138 e BOWEN-TODD 2004, p. 95, nota 39 sono dell’opinione che non tutto il capitolo II, 1 dipenda da Posidonio. È bene anche precisare che, con tutta probabilità, la polemica antiepicurea è di Cleomede, non di Posidonio, come giudicato anche da Kidd. La connessione fra Artemidoro e gli epicurei è poi estremamente labile: cfr. HAGENOW 1932, p. 7, nota 12.

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vero che Posidonio parlava di ciò in un’opera dedicata peri; megevqou~ hJlivou (ed è ininfluente che si trattasse di una monografia a sé o del libro VI del Fusiko;~ lovgo~), ma nulla vieta che egli riadoperasse in più scritti i medesimi argomenti.

A rigore da Strabone non si ricava che anche Artemidoro parlasse del yovfo~, lo sfrigolio del sole al tramonto, ma appare chiaro che le tesi di Artemidoro sono poste da Posidonio sullo stesso piano dei muqavria grawvdh degli Iberi. E in verità – a meno che non si tratti di un eccesso polemico di Posidonio/Strabone – dire, come fa Artemidoro, che il sole appare al tramonto di dimensioni cento volte maggiori che in culminazione è un’iperbole che si scontra con il senso comune: non si può fare a meno di credere, quindi, che Artemidoro qui adottasse un registro espositivo lirico, più che scientifico, nel descrivere il tramonto al promontorio sacro. Le osservazioni critiche di Posidonio, che riconduceva il fenomeno a una distorsione nella percezione ottica imputabile alla diffrazione causata dai vapori esalanti dal mare29, appartengono a un metodo di indagine radicalmente diverso da quello, più narrativo che scientifico, qui impiegato da Artemidoro. Non è questo l’unico luogo in cui Posidonio è in contrasto con Artemidoro. Una discussione sul regime fluviale in Libia è in Strabone, XVII, 3, 10 (fr. 79 Stiehle e fr. 223 E.-K.): «Non so se Posidonio abbia ragione nel dire che la Libia è attraversata da pochi e piccoli fiumi; perché quegli stessi fiumi nominati da Artemidoro tra Lynx e Cartagine lo stesso Posidonio30 li ha definiti numerosi e grandi. Ma l’affermazione è più vera per l’entroterra e ne ha fornito egli stesso la spiegazione: questa regione non è bagnata dalle piogge provenienti dalle aree settentrionali, come pure l’Etiopia stando a quel che si dice». Ancora una volta Posidonio, pur colto in apparente contraddizione, si mostra a Strabone assai più dettagliato di Artemidoro nella spiegazione dei fenomeni fisici e naturali. Soprattutto da Strabone, III, 5, 7 (fr. 14 Stiehle e fr. 217 E.-K.), possiamo intuire l’asprezza della polemica di Posidonio contro Artemidoro. Polibio parlava di una fonte d’acqua sorgiva presso il tempio di Eracle a Gades, la cui portata era inversamente proporzionaCfr. AUJAC 1966, pp. 138-139. Il soggetto del secondo ei[rhke, sebbene non espresso, è senza dubbio Posidonio. 29 30

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le all’altezza della marea, e forniva una spiegazione di questo fenomeno («quando la superficie della terra è bloccata dall’acqua durante l’alta marea, l’aria che procede dalle profondità alla superficie della terra è ostacolata nel suo naturale transito, allora ritorna all’interno e impedisce lo sbocco della fonte, causando un improvviso calo dell’acqua»); Artemidoro contraddiceva Polibio arrecando una propria spiegazione del fenomeno, sostenendosi sull’autorità dello storico Sileno31. Strabone, che neppure spiega nel dettaglio la tesi di Artemidoro, è quanto mai veemente nel giudizio: «non mi sembra che nessuna delle due tesi di Artemidoro e di Sileno sia degna di essere menzionata, dal momento che l’uno e l’altro sono, su quest’argomento, dei dilettanti (wJ~ a]n ijdiwvth~ peri; tau`ta kai; aujto;~ kai; Silanov~)». Ed ecco subito comparire il nome di Posidonio: «Posidonio, che ritiene questa storia falsa, dice che nel tempio di Eracle ci sono due pozzi ed un terzo nella città etc.». Strabone coglie poi l’occasione per introdurre un’ampia pagina di Posidonio sulle maree. È molto probabile che Strabone erediti la critica ad Artemidoro (e a Sileno) da Posidonio, dal quale però prende poi le distanze per il giudizio sulla teoria di Polibio. E ancora Strabone, IV, 4, 6 (fr. 36 Stiehle e fr. 276 E.-K.). Posidonio racconta i riti delle donne samnite (o namnite?) su un’isola dell’Oceano; seguono poi due paravdoxa da Artemidoro: il primo «ancora più fantasioso di quest’ultimo» (touvtou dΔ e[ti muqwdevsteron) a proposito di un rito divinatorio che coinvolge due corvi, in un porto della Celtica sull’Oceano che dai due corvi prende il nome; il secondo inerente il culto di Demetra e Core trapiantato dalla Samotracia su un’isola presso la Britannia. Ancora una volta l’approccio narrativo e talora paradossografico di Artemidoro contrasta con il più spiccato razionalismo di Posidonio, che emerge anche là dove questi si profonda in racconti che hanno dell’incredibile. Si può infine aggiungere – sebbene si tratti solo di ipotesi – che secondo Norden in Plutarco, Vita di Mario, 11, 6-8 e in Strabone, VII, 2, 1, si celerebbe una polemica fra Posidonio e Artemidoro sull’etnologia dei Cimbri32. Non può dunque essere casuale che tutte le volte in cui Strabone tacci Artemidoro di inattendibilità, di bizzarria, o di scarsa scientifi31 Sileno di Calatte fu autore di un’opera storica sulle imprese di Annibale (cfr. Cicerone, De divinatione, I, 48-49), nella quale la narrazione dell’assedio di Sagunto doveva ovviamente fornire l’occasione per una descrizione di località della Spagna. 32 NORDEN 19233, pp. 466-470. Cfr. KIDD 1988, p. 924.

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cità, si sia in presenza di un contesto posidoniano. È chiaro che Posidonio aveva, di Artemidoro, un giudizio particolarmente sprezzante e in particolare lo accusava di ragionare su fenomeni fisici e naturali senza avere una solida preparazione filosofica. Ed è altrettanto chiaro che Strabone, pur dipendendo da Artemidoro per così gran parte della sua opera, soggiaccia al giudizio posidoniano, che lo induce a nascondere la sua fonte, ogni volta che può. Alcuni silenzi sono significativi come prove indirette dell’efficacia della condanna posidoniana. Strabone, nel proemio, giustifica la propria scelta di intraprendere la scrittura di un’opera di geografia, vantando, rispetto ai propri predecessori, di poter aggiungere qualcosa che a essi era ignoto e che solo le conquiste romane avevano reso possibile conoscere: «se saremo costretti a contraddire quegli stessi autori che per ogni altro aspetto seguiamo più fedelmente, dovremmo essere perdonati, poiché non ha senso contraddire chiunque, ma occorre lasciar perdere molti che non vale neppure la pena di prendere in considerazione, e passare in rassegna quegli autori che sappiamo essere stati esenti da errore per la gran parte delle informazioni: non è bene intrattenersi in discussioni filosofiche (filosofei`n) con tutti, ma è bello farlo con Eratostene, Ipparco, Posidonio e Polibio e quelli della loro specie» (I, 2, 1). Colpisce l’assenza di Artemidoro da questo elenco, tanto più se si osserva il valore programmatico di questa dichiarazione: Eratostene – e Ipparco, autore di un Contro Eratostene – delimitano il campo della geografia matematica, Posidonio è autorità primaria per la geografia fisica e la riflessione filosofica e naturalistica, Polibio è colui che dischiuse la conoscenza geografica dell’Occidente e non si asteneva dal tentare di spiegare fenomeni naturali33. Ma poi, sull’idea di un costante progresso della scienza geografica, Strabone torna in X, 3, 5: «ed anche tu, Polibio, sei un autore che dà corso alle opinioni correnti per quel che riguarda le distanze, non solo al di fuori della Grecia, ma perfino nella topografia della Grecia, e perciò sei sottoposto alle correzioni di Posidonio, di Artemidoro e di parecchi altri». Il giudizio è chiaro: Strabone vuol dar a intendere che Artemidoro non è autore con cui filosofei`n, ma da cui trarre informazioni dettagliate. Il che non significa, ovviamente, che nell’opera di Artemidoro mancassero, per esempio, notizie etnografiche o spiega33

Cfr. AUJAC 1969, p. 183, nota 2.

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zioni fisico-naturalistiche: piuttosto, Posidonio aveva prescritto la svalutazione di quel genere di notizie in Artemidoro, proprio perché egli ravvisava in Artemidoro, ben più che in Polibio (al cui modello l’efesino certamente si ispirava), il rifiuto di una geografia fondata in linea di principio su basi fisiche e matematiche. Un altro indizio e silentio può essere evocato. Nell’aprile del 59 a.C. Cicerone ricevette da Attico un libro di Serapione di Antiochia, cultore di geografia matematica, e cominciò a riconsiderare l’opportunità di scrivere un trattato di geografia: «In verità i Gewgrafikav che mi ero prefisso di scrivere sono un’impresa ponderosa. Eratostene, che avevo preso a modello, è contestato da Serapione e Ipparco in modo veemente. Che penseresti se si aggiungerà anche Tirannione? Per Ercole, è una materia difficile da spiegare e monotona (oJmoeidei`~) e non può essere esposta in modo ornato (ajnqhrografei`sqai) come credevo» (Ad Atticum, II, 6, 1)34. Da Strabone risulta che Artemidoro svolse, nel suo scritto, numerosi attacchi a Eratostene, per lo più su topografia e distanze35. Nell’elenco ciceroniano dei confutatori di Eratostene non compare Artemidoro, evidentemente perché Cicerone giudicava che Artemidoro non avesse una base matematica adeguata per rappresentare un idoneo antagonista di Eratostene: Ipparco, al contrario, contestava a Eratostene l’esiguità dei dati astronomici su cui egli fondava le proprie misurazioni36. Che Cicerone non conoscesse affatto Artemidoro – quand’anche indirettamente – non sembra probabile37. Ancora Posidonio ap34 Il progetto rimase incompiuto: già in II, 4, 3, Cicerone aveva tenuto a sottolineare che «De geographia, dabo operam ut tibi satis faciam; sed nihil certi polliceor. Magnum opus est». Ultimo riferimento è in II, 7, 1: «De geographia etiam atque etiam deliberabimus». Infine, l’abbandono: «Ego me do historiae [...] Nihil me est inertius» (II, 8, 1). 35 Cfr. frr. 10, 11, 26, 48, 76, 77, 81, 86, 94, 101, 103, 110, 125, 136 Stiehle. 36 Cfr. DRAGONI 1979, pp. 118-119. Ma a giudizio di DICKS 1960, p. 31, la critica di Ipparco a Eratostene doveva essere meno dura di quanto Strabone lasci intendere. 37 Di opinione contraria è SALLMANN 2003, p. 352: «Artemidors Gewgrafouvmena, die Cicero offenbar noch nicht kennt». In verità, secondo Sallmann, Cicerone (ovvero Attico, che gli forniva i libri) non possedeva né aveva letto neppure Eratostene per via dell’ardua «Verfügbarkeit älterer Bücher» (p. 346). Eppure, la Geografia di Eratostene era direttamente nota a Cesare (De bello Gallico, VI, 24, 2) e a Varrone (Res rusticae, I, 2, 3). Di Eratostene, poi, Cicerone mostra di conoscere almeno la Cronografia (Ad Atticum, VI, 1, 18). Persuaso di una profonda influenza di Eratostene geografo e astronomo su Cicerone era invece BERGER 1893, pp. 4345 [= BERGER 1903, pp. 530-532].

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pare il tramite più probabile da cui Cicerone – che per sé dichiara di comprendere appena «millesimam partem» della geografia di Serapione (Ad Atticum, II, 4, 1) – desume il giudizio sia sulla preminenza di Eratostene, sia sulla vacuità di Artemidoro: è appena del giugno 60 la lettera in cui Cicerone ricorda il contatto epistolare avuto con Posidonio – spesso da lui definito «familiaris noster»38 – per quel che riguarda il Commentarium consulatus sui (Ad Atticum, II, 1, 2). Un ultimo dettaglio: Cicerone evoca come possibile avversario di Eratostene anche quel Tirannione che fu maestro di grammatica a Roma dopo esservi stato deportato prigioniero da Lucullo e fu curatore della biblioteca di Aristotele e Teofrasto. Di Tirannione non sappiamo che coltivasse interessi geografici39, ma Strabone, che lo definisce filaristovtelo~ (XIII, 1, 54), si vanta di essere stato suo allievo (XII, 3, 16). Tirannione era stato allievo di Dionigi Trace, forse a Rodi40, dove è possibile, sebbene non documentato, che abbia assistito anche alle lezioni di Posidonio. Si può così ricostruire una linea di dipendenza che da Posidonio conduce a Cicerone e a Strabone. Non sfugga un paradosso: Strabone concentra nei libri proemiali (I-II) il suo interesse per le questioni di geografia matematica, che non hanno però grande sviluppo nel prosieguo dell’opera. Anzi, in II, 3, 8, Strabone conclude la presentazione del Peri; wjkeanou` di Posidonio (T 76b E.-K.), chiarendo che «molto materiale, in quanto pertinente con la geografia (o{sa gewgrafikav), trova qui appropriata trattazione nelle sezioni apposite; invece, quel che riguarda piuttosto la fisica (o{sa de; fusikwvtera) dev’essere indagato in altri scritti, o dev’essere del tutto tralasciato: vi è infatti molto in lui di ricerca delle cause e molto di aristotelizzante, argomenti che i nostri (i.e. gli stoici) lasciano da parte per via dell’oscurità delle cause»41.

38 De finibus, I, 6; Tusculanae disputationes, II, 61; De natura deorum, I, 123; II, 88; De divinatione, II, 47. 39 È possibile che l’interesse per la geografia fosse mediato dall’esegesi omerica, come avvenne per Cratete di Mallo. Omero, peraltro, è il primo nome di geografo che compare nell’opera di Strabone (I, 1, 1). 40 Si veda l’analisi che DAUB 1882, pp. 99-102, compie della voce Dionuvsio~ di Suidas (d 1172). 41 Cfr. KIDD 1978, p. 11. Di un rapporto diretto e personale tra Posidonio e Strabone parla Ateneo, XIV, 75.

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2.3. Fu vero periplo? Se è vero, come abbiamo supposto, che la fortuna di Artemidoro fu condizionata dalla condanna di Posidonio, si comprende come Strabone, pur servendosi con abbondanza delle informazioni provenienti da Artemidoro, ne deprezzi alquanto l’importanza: lo cita solo quando gli serva problematizzarne le opinioni; non perde occasione per contestarne superficialità e inattendibilità; lo esclude dal novero degli autori con cui è sempre bene discutere di questioni generali. È evidente, peraltro, che la scarsa (o nulla) conoscenza dell’opera di Posidonio da parte di Marciano favorì la rivalutazione dell’impegno storiografico dell’efesino. Posidonio rimproverava ad Artemidoro scarsa scientificità, ovvero l’assenza di un solido quadro epistemologico su cui fondare le proprie osservazioni naturalistiche. E ancor più, l’interesse artemidoreo per le misurazioni – l’interesse empirico di un viaggiatore – mal si inquadrava nel metodo geografico-matematico proposto da Eratostene, e poi seguito da Tolomeo: infatti l’importanza attribuita alle misurazioni delle distanze in stadi piuttosto che alle determinazioni astronomiche era, in certa misura, il segno della distanza dal metodo di Eratostene42. Ad esempio, nel rilevamento della lunghezza complessiva dell’ecumene, Artemidoro forniva due misure («mensura currit duplici via»: Plinio, II, 243), l’una dal Gange a Gades prevalentemente per via di mare, pari a 8578 miglia, l’altra ugualmente dal Gange a Gades, ma per lo più per via di terra, pari a 8945 miglia; Marciano, Periplus maris exteri, I, 2 (in qualche modo anche sulla base dell’insegnamento di Artemidoro43) rimarcava la differenza tra misurazioni prese in linea retta o seguendo i profili delle coste. Insomma, il punto di vista del viaggiatore, più che dell’astronomo. La concezione geografica di Marciano, da questo punto di vista, è assai più affine a quella di Artemidoro: di qui il superamento della condanna posidoniana. Ma ecco il paradosso: il fatto che Artemidoro non sia più – com’era stato per Strabone e Plinio – semplice serbatoio di notizie, ma sia 42 Cfr. BERGER 1893, p. 4; p. 30; p. 38 («Bei Artemidor tritt die Abneigung gegen die mathematisch-physikalische Erdkunde noch stärker hervor, als bei Polybius») [= BERGER 1903, p. 491; p. 517; p. 525]. Si veda almeno Strabone, II, 1, 11. 43 Eppure Marciano vanta, contro tutti i predecessori e, dunque, anche contro Artemidoro, maggior perizia: tw`n peri; touvtwn spoudasavntwn oujdeno;~ ejpishmhnamevnou tou`to, ajllΔ w{sper scoinivw/ diamemetrhmevnh~ th`~ qalavtth~, ou{tw to;n ajriqmo;n tw`n stadivwn ajpaggeilavntwn (GGM, I, p. 517).

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riconosciuto come modello da Marciano, comporta lo stravolgimento dell’originario assetto dello scritto. Dopo Marciano, si legge Artemidoro in una forma che riflette gli interessi e i punti di vista di Marciano44. In un modo o nell’altro, la profonda fisionomia dei Gewgrafouvmena rimane alquanto occulta, e ci resta solo la percezione che si trattasse di un’opera assai più ricca di quel che le fonti hanno coscientemente scelto di tramandare. Che Artemidoro abbia scritto un periplo del mare interno – come ancora oggi spesso si legge – è l’idea che Marciano ha voluto trasmettere: egli sarà intervenuto in modo tutt’altro che lieve nell’adeguare Artemidoro ai propri scopi. Per quel che attiene all’Oceano, infatti, Marciano denuncia la scarsa utilità dell’opera di Artemidoro: «del mare esterno, che dai più è chiamato Oceano – sebbene il citato Artemidoro ne abbia ricordato alcune parti nella giusta misura (metrivw~) – purtuttavia abbiamo descritto il periplo nel modo più corretto nel libro precedente, desumendo informazioni dalla Geografia del divino Tolomeo, da Protagora e da altri autori antichi» (GGM, I, p. 542). A ben leggere queste parole, Marciano non dice che Artemidoro descrisse solo poche località esterne al Mediterraneo, ma denuncia che attendibilità e precisione non sono adeguate nella presentazione di quelle parti del mondo. Un giudizio, a ben vedere, non dissimile da quello espresso occasionalmente da Posidonio/Strabone. La critica è ancor più aggressiva nell’epitome di Menippo (GGM, I, p. 566): «Artemidoro manca di una scrupolosa descrizione geografica, ma espose con la dovuta cura il periplo del mare interno allo stretto di Ercole e la misurazione delle distanze relative». Dunque, mentre per il mare interno poteva essere sufficiente ripubblicare Artemidoro aggiornandolo e conservandone religiosamente il nome, l’opera di revisione scientifica necessaria per il mare esterno era tale da richiedere una creazione ex novo; ma per far ciò, e per evitare ripetizioni, occorreva che le ejpitomaiv artemidoree fossero selezionate al fine di includere solo ciò che non doveva entrare a far parte della seguente parte – quella marcianea – dell’opera. È significativo che, proprio all’inizio del luogo ora citato, Marciano dica «di tutto il mare al di qua delle colonne d’Ercole abbiamo delineato (pepoihvmeqa) un periplo esatto – crediamo – nelle epitomi degli undici libri del geografo Artemidoro di Efeso»: è tale la manipo44

Vedi supra, cap. I, § 5.

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lazione dell’assetto dell’opera artemidorea che Marciano può ben dire in prima persona pepoihvmeqa. L’immagine che risultò da quest’operazione fu quella oggi ancora corrente: Artemidoro avrebbe scritto un periplo del mare interno, con occasionali e poco significative citazioni di località a esso estranee45. Poco importa se poi Artemidoro, come sappiamo da più fonti, saccheggi Agatarchide per raccontare dell’Etiopia e del Mar Rosso, se esponga il tenore di vita degli abitanti di Taprobane, o se descriva Scizia, Sarmazia, Partia e altre località ben poco riconducibili al mare interno. Eppure, lo stesso Marciano non dice che Artemidoro scrisse un periplo, ma che fuse insieme «geografia e periplo», e che lo stesso fece anche Strabone. Anche Strabone fu dunque nulla più che un periplografo? Se rileggiamo i frammenti artemidorei nettandoli dai diversi e invasivi condizionamenti operanti in Strabone e in Marciano, ricaviamo l’idea di un’opera piuttosto ricca – certo anti-eratostenica, più ‘narrativa’ che ‘scientifica’, come dicevamo – e perfettamente rientrante nel genere corografico, ovvero «l’étude de l’œkoumène région par région, en suivant le cas échéant le fil d’un itinéraire»46. La differenza fra cwrografiva e gewgrafiva – almeno in termini di concetto, così come Tolomeo la codificò, sebbene non è detto che la terminologia fosse già nel II sec. a.C. così puntuale – è appunto nel fatto che «l’una non ha bisogno di alcun procedimento matematico, mentre per l’altra la matematica è di primaria importanza»47. Ed è, per esempio, proprio in senso antieratostenico, cioè prescindendo dalla 45 Spesso si legge che Artemidoro fu autore, sic et simpliciter, di un periplo: in primis, STIEHLE 1856, p. 197 («der natur eines werkes, in welchem ein periplus enthalten ist»), ma anche DUBOIS 1891, pp. 314-315 («un périple de cette grande mer intérieure, pour la majeure partie, avec quelques additions relatives aux pays plus lointains de l’Occident et de l’Orient») e BERGER 1893, p. 39 [= BERGER 1903, p. 526] («nicht mehr und nicht weniger, als das ausgesuchte Material einer neuen Küstenbeschreibung des inneren Meeres»); su DÄBRITZ 1905, cfr. supra, nota 19; cfr., inoltre, AUJAC 1969, p. XXXIX, che definisce Artemidoro «auteur d’un traité de géographie dans le style du périple», o DUECK 2000, p. 43, secondo la quale «two of Strabo’s main authorities, Artemidorus and Posidonius, wrote a periplous». HAGENOW 1932, p. 53 e nota 26; pp. 135-136, riteneva che Artemidoro descrivesse con accuratezza le coste, ma conoscesse molto male l’entroterra; dunque, sebbene egli ne considerasse l’opera come qualcosa più di un periplo, in più punti del suo studio è operante il condizionamento del modello periplo. 46 MARCOTTE 2000, p. LVIII. 47 Tolomeo, Geogr., I, 1, 5; cfr. PRONTERA 2001, coll. 209-210; PRONTERA 2006, p. 76.

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maqhmatikh; mevqodo~, che Polibio usa il termine cwrografiva48. Viceversa, allorché Stiehle decise di consacrare il primo libro di Artemidoro a un ampio proemio metodologico contenente la rassegna delle misure della Terra, ovvero quel che si ricava da Plinio, II, 242246, agiva in lui il condizionamento del modello della Geografia di Eratostene49, i cui primi due libri erano deputati alla storia della geografia, nonché alle misure della Terra e ai principi della rappresentazione cartografica50. Che Artemidoro fosse interessato a questioni di geografia matematica, come si è detto, non risulta dalla documentazione in nostro possesso. Proprio partendo dall’equivoco di Stiehle, Nicolet scrive che «i Geographoùmena di Artemidoro di Efeso prevedevano nell’introduzione (libro 1) delle correzioni alla “carta” di Eratostene e Ipparco – e da ciò risulta che si occupavano dell’ecumene nel suo insieme»51. Ma, al di là del problema del contenuto del primo libro, su cui torneremo, occorre fare una precisazione: dissentire con le distanze proposte da un predecessore – e farlo rivendicando l’empirica misurazione diretta – è cosa ben diversa dal correggere una carta, che presuppone l’applicazione di un modello matematico-astronomico ben più complesso. È invece ben documentabile l’interesse di Artemidoro per le distanze. Secondo il Polibio sopra citato, «il compito precipuo della corografia è relativo alle posizioni dei luoghi e alle relative distanze»; e, come sottolinea Prontera, «alla geografia di Eratostene, con le sue premesse matematico-astronomiche e fisiche, corrisponde la corografia di Polibio, che invece prescinde da quelle premesse»52. Artemidoro appare un seguace e perfezionatore di Polibio, e così Strabone ce lo mostra. Proprio come accadeva per Polibio, si ha l’impressione che per Artemidoro la descrizione dei luoghi e degli insediamenti antropici, con particolare attenzione per gli aspetti religiosi, prevalesse rispetto alla teoria geografica: per esempio, non vi è prova che egli procedesse, come Eratostene53, al frazionamento delle terre emerse in forme geoStrabone, X, 3, 5 = Polibio, XXXIV, 1, 3. Non sarà casuale che Stiehle, pochi anni dopo, avrebbe raccolto i frammenti di Eratostene (STIEHLE 1863). 50 Cfr. in particolare, BERGER 1880, pp. 99-169. 51 NICOLET 1989, p. 57. 52 PRONTERA 2006, p. 77. 53 E già prima di lui, Timeo: cfr. Plinio, III, 85. Poniamo pure che Artemidoro, citando Timeo, ne avesse ricavato notizie di tal genere – ma non può esservene 48 49

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metriche (che Eratostene chiama sfragi`de~: Strabone, II, 1, 22), un procedimento di astrazione finalizzato alla costruzione di una carta geografica su modello matematico54. Per altro verso, non siamo di fronte a un essenziale periplo, in considerazione del fatto che tutto l’ecumene era oggetto di trattazione – sebbene di alcune parti poco o quasi nulla ci sia giunto55 –, che erano descritte o nominate città anche a centinaia di chilometri dalla costa e che erano fornite notizie etnografiche e naturalistiche, con spiegazioni scientifiche dei fenomeni e digressioni storiche e mitologiche56. Queste peculiarità dell’opera di Artemidoro ne hanno causato sia la fortuna sia l’oblio: attaccata da Posidonio perché poco ‘scientifica’; usata ma alquanto sminuita da Strabone; infine oscurata proprio dall’opera di quest’ultimo – per ovvie ragioni, ben più ampia e aggiornata –, fu infine recuperata da Marciano. Ma la rinascita risultò anch’essa caduca: per alcuni secoli (almeno fino al X) circolò un Artemidoro deformato, se non sul piano del dettato testuale – poiché, in fin dei conti, di estratti da Artemidoro si trattava – certamente per il senso dell’opera nel suo complesso. E anche questo Artemidoro travisato infine si perse. 3.1. Come descriveva Artemidoro In Strabone, dunque, il testo di Artemidoro, pur fittamente messo a frutto, è sottoposto a continua rielaborazione, e in qualche caso certezza, con buona pace di DÄBRITZ 1905, pp. 19-20, poiché Agatemero, 20-26, dichiara di impiegare, oltre ad Artemidoro, anche Menippo e altri ajxiovpistoi –: a ogni modo, non era certo questo per Artemidoro il normale e metodologicamente fondato modo di descrivere una regione. 54 Non potrà certo essere considerato tale il fr. 13 Stiehle, in cui il promontorio sacro è paragonato da Artemidoro a una nave: è questo il frutto della constatazione visiva e immediata, direi quasi immaginifica, di chi visita i luoghi, non già di un processo di astrazione che prelude al disegno di una carta dell’oijkoumevnh quanto più verosimile possibile. 55 Della Partia, per esempio, non abbiamo che uno scarno frammento documentato da Stefano di Bisanzio, s.v. ÔUsiva, p. 653 M. (fr. 109a Stiehle): città forse da identificare con Sousiva (Arriano, Anabasi, III, 25, 1), al confine con l’Ariana, centinaia di chilometri nell’entroterra sia dal mare interno sia da quello esterno. 56 Possiamo citare, exempli gratia, il fr. 32 Stiehle (sull’etimologia del toponimo ΔAeriva), il fr. 22 Stiehle (sull’alfabeto in uso presso le popolazioni iberiche della costa mediterranea), i frr. 97, 98, 109 Stiehle (sulla varietà della fauna in Etiopia e Arabia), il fr. 101 Stiehle (sulle produzioni artigianali nella regione dei Sabei), i frr. 99100 Stiehle (sul regime di vita delle popolazioni della Trogloditica).

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Strabone sembra impiegare contestualmente Artemidoro e un altro autore (per lo più Posidonio) che cita o critica Artemidoro. Chi voglia avere un’idea di come scriveva Artemidoro, dovrà allora volgere l’attenzione a un passo di Porfirio, antecedente la manipolazione di Marciano, e a quei testi di Stefano di Bisanzio57 che conservano in forma ex hypothesi letterale una frase artemidorea di qualche estensione: si tratta dei frr. 3, 21, 22, 28, 38, 55, 56, 111, 113, 133 Stiehle, nonché dei frr. 7 e 9 Stiehle dell’Epitome di Marciano (= frr. 10 e 15 Müller). Naturalmente, si dovrà anche tener in conto la forte probabilità che Stefano citi in linea di massima dall’Epitome di Marciano, o altresì che tragga le proprie citazioni artemidoree da fonti intermedie – per esempio, Erodiano, ma anche Erennio Filone (peri; povlewn kai; ou}~ eJkavsth aujtw`n ejndovxou~ h[negke) o Oros (peri; ejqnikw`n)58 – il che darebbe anche ragione della varietà dei modi con cui Stefano cita Artemidoro59. Molti dei passi artemidorei in Stefano, com’è ovvio data la natura lessicografica della fonte60, riguardano l’individuazione e denominazione di luoghi: nei casi ai nostri fini più interessanti, ne viene fornita la posizione rispetto ad altre località la cui descrizione – si presume – precedeva nel testo di Artemidoro (frr. 28, 111, 113 Stiehle, nonché fr. 9 Stiehle dell’Epitome di Marciano), oppure la distanza in stadi rispetto ad altri siti (frr. 38, 133 Stiehle), o anche l’etimologia del relativo toponimo (frr. 3, 32 Stiehle). Si tratta per lo più di frasi dall’estensione molto ridotta e dal lessico convenzionale; là dove, come nel fr. 3 Stiehle, si intravede una struttura sintattica più articolata (taurofovro~ h\n hJ nau`~ hJ diakomivsasa tou;~ th;n povlin ktivsan57 Ovvero di Costantino Porfirogenito, là dove Abraham Berkel arbitrariamente adoperò il testo di Costantino per ricostruire il perduto Stefano non epitomato. Mentre Meineke (1849) ripropone le alterazioni al testo di Stefano operate da Berkel, è da ultimo apparsa, limitatamente alle lettere A-G, l’edizione di BILLERBECK 2006, che ripristina il testo genuino dello Stefano epitomato relegando Costantino tra i loci similes (cfr. s.v. Bovsporo", pp. 364-366 Billerbeck). 58 Cfr. NIESE 1873, p. 26; REITZENSTEIN 1897, p. 316; STEMPLINGER 1904, p. 618 («zweifellos sind alle drei nebeneinander verwertet»); ATENSTÄDT 1910, p. 3; p. 20 («Denn schwerlich wird St.B. neben der ejpitomhv auch das vollständige Werk direkt benutzt haben»). Atenstädt, in particolar modo, era dell’idea che Erennio Filone (I sec. d.C.) fosse il principale tramite fra Artemidoro e Stefano. 59 Cfr. infra, cap. X, § 2. Va da sé che, se Stefano cita di seconda mano, non si può essere sempre certi che quel che egli cita sia direttamente Artemidoro, piuttosto che Marciano. 60 Sulla natura dell’opera di Stefano, si veda da ultimo BILLERBECK-ZUBLER 2007.

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ta~, oi} ajporrifevnte~ ajpo; tou` stovlou tw`n Fwkaevwn kai; prosenecqevnte~ aujtovqi ajpo; tou` ejpishvmou th`~ new;~ th;n povlin wjnovmasan), si apprezza comunque una lingua attica, dall’architettura regolare e rispettosa della norma classica. Comunque, nulla di «asiano». Due passi, stampati da Berkel e poi da Meineke nell’edizione di Stefano, risalgono in realtà al De administrando imperio di Costantino Porfirogenito, sotto la rubrica Peri; ΔIbhriva~ kai; ÔIspaniva~ (cap. 23). Oltre all’ormai noto fr. 21 Stiehle sulla divisione amministrativa della Spagna, vi è il fr. 22 Stiehle, anch’esso tratto dal II libro dei Gewgrafouvmena (Grammatikh`/ de; crw`ntai th`/ tw`n ΔItalw`n oiJ para; qavlattan oijkou`nte~ tw`n ΔIbhvrwn): in ambedue i casi si osserva, in Costantino, un interesse per i passi di Artemidoro relativi agli insediamenti antropici – e alla romanizzazione del territorio spagnolo61 – più che alla geografia descrittiva. Porfirio, nel De antro nympharum, 4, racconta che nel descrivere l’isola di Itaca Artemidoro faceva menzione di un «antro sacro alle Ninfe, dove si dice che Odisseo sia stato sbarcato dai Feaci» (fr. 55 Stiehle): Peri; me;n ou\n th`~ ejgcwrivou iJstoriva~ rJa/qumovteron faivnontai ajnagravyante~ o{soi tevleon wj/hvqhsan plavsma ei\nai tou` poihtou` tov te a[ntron kai; o{sa peri; touvtou ajfhghvsato: oiJ de; ta;~ gewgrafiva~ ajnagravyante~, w|n a[rista kai; ajkribevstata kai; oJ ΔEfevsio~ ΔArtemivdwro~ ejn tw`/ pevmptw/ th`~ eij~ e[ndeka sunhgmevnh~ aujtw`/ pragmateiva~ gravfei tau`ta: «th`~ de; Kefalhniva~ ajpo; Panovrmou limevno~ pro;~ ajnatolh;n ajpevcousa dwvdeka stavdia nh`sov~ ejstin ΔIqavkh stadivwn ojgdohvkonta pevnte, stenh; kai; metevwro~, limevna e[cousa kalouvmenon Fovrkuno~: e[sti dΔ aijgialo;~ ejn aujtw`/: ejkei` numfw`n iJero;n a[ntron, ou| levgetai to;n ΔOdusseva uJpo; tw`n Faiavkwn ejkbibasqh`nai».

Anche qui riconosciamo l’essenzialità dello stile descrittivo di Artemidoro già osservata nei frammenti tràditi da Stefano, nonché la puntualità e l’ordine nell’esposizione. Nella costruzione sintattica del pensiero, l’autore parte dall’ultima località presa in esame (Cefalonia) e individua la nuova località (Itaca) indicando la direzione verso cui si viaggia (pro;~ ajnatolhvn) e la distanza da percorrere 61 Cfr. infra, cap. X, § 4. L’interesse per la struttura amministrativa che i Romani imposero alla Spagna emerge anche dal cap. 24 del De administrando imperio, Peri; ÔIspaniva~.

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espressa in stadi (dwvdeka stavdia), poi ne osserva le dimensioni (stadivwn ojgdohvkonta pevnte), la forma (stenh; kai; metevwro~), i segni della presenza antropica su un piano commerciale (il porto detto di Phorkys) e cultuale (l’antro delle Ninfe), con dettagli di ordine storico-letterario (l’identificazione della spiaggia ove, secondo Omero, fu sbarcato Odisseo: Od. XIII, 96-112). Uno schema di esposizione del medesimo genere si scorge in altri frammenti noti attraverso Stefano: fr. 28 Stiehle: meta; ga;r to; Taivnaron povli~ ejkdevcetai Yamaqou`~ (Steph. Byz. p. 700 M.); fr. 38 Stiehle: e[sti dΔ ejn mesogeivw/ kai; Tivbura povli~ ÔEllhni;~ th;n ajrch;n gegonui`a, ajpevcousa ajpo; ÔRwvmh~ stadivou~ rmzV (Steph. Byz. p. 622 M.); fr. 111 Stiehle: sunecw`~ dΔ ejsti; Stravtwno~ puvrgo~, ei\ta e[ni Dw`ra ejpi; cersonhsoeidou`~ tovpou keivmenon polismavtion, ajrcomevnou tou` o[rou~ tou` Karmhvlou (Steph. Byz. p. 255 M.); fr. 113 Stiehle: parallavxanti de; tauvthn aijgialo;~ a[llo~ ejkdevcetai stadivwn triw`n, mhnoeidh;~ kai; u{formo~, kalouvmeno~ Yeudokoravsion (Steph. Byz. p. 701 M.); fr. 133 Stiehle: ajpo; de; tou` ΔAkrivtou parapleuvsanti eu\ron stavdia eJkato;n devka a[kra kei`tai ÔUri;~ kaloumevnh, kai; nh`so~ aujth`/ paravkeitai Pituwvdh~, kai; a[llh nh`so~ kaloumevnh Calki`ti~, kai; a[llh Prw`ta legomevnh: ajpo; de; tauvth~ eij~ th;n Calki`tin legomevnhn povlin stavdia tessaravkonta (Steph. Byz. p. 685 M.).

Notiamo che, anche in questi passi, alla conclusione della descrizione di una località, la nuova è introdotta mediante una determinazione di distanza rispetto alla precedente; ed è chiaro il punto di vista di chi effettua l’osservazione, eventualmente espresso mediante un dativus judicantis (parallavxanti, parapleuvsanti). 3.2. Artemidoro nel papiro di Torino Nel testo greco consegnatoci dal papiro reso per la prima volta noto nel 199862, nelle colonne IV e V troviamo: il frammento, già noto mediante Costantino Porfirogenito, sull’organizzazione ammini62

GALLAZZI-KRAMER 1998.

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strativa della Spagna; una descrizione della forma complessiva della Spagna; dopodiché, a partire dai Pirenei (evidentemente intesi come confine con la Gallia), l’autore elenca le località che il viaggiatore poteva incontrare navigando lungo la costa, compiendo il periplo della penisola fino alla parte settentrionale della costa della Lusitania. Nella valutazione della «forma complessiva dell’Iberia» (to; me;n o{lon sch`ma th`~ ΔIbhriva~: col. V, 13-14), si avverte nel testo del papiro una visione geometrizzante della forma della penisola iberica, che presuppone un processo di astrazione63 e di trasposizione cartografica assente, come si è detto, in tutto l’Artemidoro a noi noto per tradizione indiretta. Strabone, III, 1, 3, dedica attenzione alla forma generale (to; sch`ma) dell’Iberia, che paragona a una pelle bovina, ma non allude né ad Artemidoro né ad alcun’altra fonte. Nella descrizione della Spagna, poi, mancano tutte le informazioni che le fonti ci dicono essere presenti nel testo di Artemidoro: ad esempio, Costantino Porfirogenito, a breve distanza dalla definizione dei confini amministrativi delle province iberiche, informava, citando Artemidoro, sull’alfabeto in uso presso le popolazioni costiere del Mediterraneo, una notizia che non striderebbe in una introduzione generale alla descrizione della Spagna (fr. 22 Stiehle). Inoltre, Artemidoro raffrontava la forma del promontorio sacro a una nave (Strabone, III, 1, 4 = fr. 13 Stiehle); osservava di lì le abnormi dimensioni apparenti del sole al tramonto e il rapido sopraggiungere della notte (Strabone, III, 1, 5 = fr. 12 Stiehle); descriveva l’aspetto ‘barbarico’ dell’abbigliamento delle donne spagnole (Strabone, III, 4, 17 = fr. 23 Stiehle); polemizzava con Eratostene a proposito di alcuni toponimi e della distanza da Gades al promontorio sacro (Strabone, III, 2, 11 = fr. 11 Stiehle); confutava Eforo sul supposto tempio di Eracle presso il promontorio sacro (Strabone, III, 1, 4 = fr. 13 Stiehle); contraddiceva Polibio sulla sorgente d’acqua presso il santuario di Eracle, a Gades, e sul suo regime di flussi e riflussi (Strabone, III, 5, 7 = fr. 14 Stiehle); menzionava le città interne di

63 Lo si osserva, tra l’altro, anche altrove: vedi infra, Proekdosis, col. V, 9. Inoltre, lo denuncia, in qualche modo, anche l’uso del verbo qewrei`n (col. IV, 26-29: ajfΔ w|n tovpwn iJkano;n th`~ Keltikh`~ qewrei`tai ... o{moion th`~ ΔIbhriva~ qewrei`tai), adatto più alla speculazione intellettuale che alla diretta osservazione geografica; per dire che dalla costa italica presso Piombino si vedono (o non si vedono) Corsica e Sardegna, Strabone, in un contesto artemidoreo, usa il verbo kaqoravw (V, 2, 6 = fr. 48 Stiehle). Vedi infra, cap. XII, nota 17.

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ΔWrisiva (o ΔWriva) e di Castulo (Steph. Byz. p. 710 M. = fr. 18 Stiehle), e così via. E manca parimenti la segnalazione delle isole circostanti la Spagna (frr. 24-26 Stiehle). È ben vero che, nel papiro, la rassegna delle distanze lungo il perimetro della Spagna è preceduta da un dichiarato proposito di sintesi (col. V, 14-16): «Riassumeremo (lhyovmeqa ejn ejpitomh`/) adesso il tragitto per mare lungo le sue coste, al fine di pensare in modo complessivo (kaqolikw`~ nohqh`nai) le distanze tra i luoghi». Colpisce tuttavia che, nella descrizione del periplo della penisola iberica, manchino comunque le città costiere che la tradizione indiretta ci dice esser state menzionate da Artemidoro: Abdera (Steph. Byz. p. 5 M. [p. 18 B.] = fr. 15 Stiehle; cfr. Strabone III, 4, 3 = fr. 16 Stiehle)64, Malaka (Steph. Byz. p. 429 M. = p. 243 Stiehle), Carteia (Steph. Byz. p. 358 M. = fr. 17 Stiehle)65, ma soprattutto ÔHmeroskopei`on (Steph. Byz. p. 302 M. = fr. 19 Stiehle), importante stazione commerciale per giunta situata su un promontorio, al cui posto è menzionato il vicino fiume Sucro, lo Júcar. Il nome stesso, ÔHmeroskopei`on, «là dove si osserva il sorgere del giorno», dà l’idea della rilevanza del luogo come punto di riferimento geografico. Strabone (III, 4, 6), adoperando Posidonio, definisce questo posto gnwrimwvtaton tra le colonie marsigliesi della regione e per di più kavtopton ejk pollou` toi`~ prosplevousi, «visibile da lontano ai naviganti», e parla di un tempio sfovdra timwvmenon proprio di Artemide Efesia66, che certo Artemidoro non avrebbe ignorato. A ogni modo, dovremmo immaginare che dopo questo elenco di distanze, quasi un portolano per i naviganti relativo ad alcune località poste lungo la costa, l’autore ripartisse, dopo un imprecisato numero di mappe, con un secondo periplo dal promontorio di Afrodite Pirenaica per procedere a una descrizione più dettagliata; occorrerebbe cioè pensare che questo gruppo di distanze avesse, per l’autore di questo testo, un statuto epistemologico differente dalle altre e da 64 Di Abdera, città di rango municipale, Strabone ricorda che si trattava di una fondazione fenicia e che poco sopra di essa si ergeva, in un’area boschiva, ΔOduvsseia, ove si trovava un tempio di Atena: ma la fonte, più che Artemidoro, potrebbe essere Posidonio o Asclepiade di Mirlea, lì citati. 65 La menzione di Carteia, ovviamente, non è né indispensabile, né utile, là dove sia menzionato il promontorio di Kavlph contiguo alla città. 66 Cfr. SANTIAGO 1998. È utile anche ricordare che, in virtù della sua conformazione fisica che ne faceva un naturale ancoraggio per i pirati, nel I sec. a.C. la città divenne roccaforte di Sertorio.

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ogni altro genere di informazioni e meritassero perciò una posizione prioritaria. Di qui l’anomalia di un reiterato periplo della regione. Il confronto con altri peripli, per quel che di essi è noto, non rende ragione della singolare organizzazione della materia quale dovremmo supporre in Artemidoro se suo fosse il testo contenuto nel papiro: nel Periplo di Scilace di Carianda, il passaggio da un luogo all’altro è per lo più accompagnato da una determinazione di distanza, all’inizio o alla fine della breve presentazione di ciascuna area geografica; anche Annone computa le distanze inglobandole nel contesto dell’esposizione; analoga struttura ha il Periplus maris Erythraei. Diversamente in altri scritti l’elenco delle distanze è l’unico interesse dell’autore, e perciò mancano del tutto informazioni geografiche o storiche sulle località: è il caso, ad esempio, dell’anonimo Perivplou~ th`~ Megavlh~ Qalavssh~, ma anche della Geografia di Tolomeo, il cui testo conserva esclusivamente le coordinate dei luoghi menzionati. Un caso ancora diverso è la ajnakefalaivwsi~ tw`n proeirhmevnwn aJpavntwn diasthmavtwn in coda al I libro del Periplus maris exteri di Marciano (GGM, I, pp. 539-540): qui l’autore elenca le distanze fra le regioni del mondo fin lì descritte, non fra le singole località all’interno di una regione, certamente al fine di dar percezione dell’estensione dell’ecumene, come avviene in Plinio II, 108. Nei casi citati, non accade mai che l’autore prima descriva il periplo di una singola regione elencandone gli stadiasmoiv, ed effettui poi nuovamente il periplo per fornire notizie geografiche o storiche.

È di prima evidenza che con l’ipotizzata ricostruzione dell’organizzazione della materia nel papiro non consentono i frammenti già noti di Artemidoro, nei quali le distanze sono fornite contestualmente alle altre notizie. E mancano anche – in questo repertorio di distanze – sia le indicazioni sulla direzione verso cui occorre spostarsi per incontrare le nuove località67, sia il punto di vista del viaggiatore/osservatore, che in Artemidoro – come spesso nei testi geografici – è espresso dal dativus judicantis. Ben esigua e meschina immagine dei Gewgrafouvmena restituiscono le colonne IV e V del papiro, rispetto alla ricchezza che scorgiamo dietro le tumultuose vicissitudini della tradizione: eppure, (e può essere solo un caso?) proprio la tradizione, da Posidonio a Stiehle, ne aveva foggiato un’immagine altrettanto esigua. Ma fallace. 67 Ma, seguendo il profilo della costa, di siffatte indicazioni potrebbe non esservi stato bisogno.

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4.1. Riordinare i Geographoumena È utile rimettere in questione anche la ripartizione in libri dei Gewgrafouvmena di Artemidoro. Si è soliti affermare, infatti, che i frammenti relativi alla Spagna occupavano il II libro, mentre quelli relativi alla Gallia il III libro. Questo assunto si basa sulle riflessioni di Stiehle, il quale leggeva nel fr. 7, il primo del II libro, Th;n ajrch;n wjkeanou` th;n eijsroh;n poiouvmeno~ ΔArtemivdwro~ oJ ΔEfevs io~ gaihgravfo~ ... to;n perivploun ... sunevgraye68. Siccome Marciano, corretto in questo modo, viene ad affermare che Artemidoro delineò il suo periplo cominciando dalle sorgenti dell’Oceano, ovvero dalle colonne d’Ercole, e siccome le fonti concordano nel collocare la Spagna nel II libro, Stiehle ne concludeva che occorresse collocare la descrizione della Gallia nel III libro (dove Steph. Byz. p. 161 M. [p. 334 B.] = fr. 31 Stiehle pone la Lusitania), mentre il I libro sarebbe stato occupato per intero dalla prefazione. Esistono però tre luoghi nei quali esplicitamente Stefano attribuisce la menzione di alcune città del territorio di Marsiglia al I libro di Artemidoro: Stiehle giudica che essi appartenessero alla parte finale della prefazione, il cui argomento sarebbero stati i viaggi dei Fenici nel Mediterraneo e le colonie dedotte dalle popolazioni greche microasiatiche (Marsiglia fondata dai Focesi)69. Contro l’ipotesi di Stiehle si espresse Franz Susemihl70. A suo giudizio il I libro riguardava la Gallia, il II la Spagna, il III la Lusitania e così via; confermava sostanzialmente l’ordine già suggerito da Hoffmann e da Müller71. Susemihl non discusse puntualmente gli argomenti di Stiehle, a sostegno del quale intervenne Hagenow. 68 Ovvero Marciano, Periplus maris exteri, proemio, qui letto secondo HUDSON 1698; altrimenti, GGM, I, p. 516. 69 STIEHLE 1856, p. 197: «Bei dieser gelegenheit [i.e. alla fine della prefazione nel primo libro] mochte er eine darstellung von dem allmäligen bekanntwerden des westlichen Europa geben, hierbei die reisen der Phönizier jenseits der sth`lai nach dem bernsteinlande, sowie die colonieen der kleinasiatischen Griechen im westlichen Europa berühren. Aus der stelle nun, wo er von den colonien der Phokäer in Gallien handelte scheinen mir die fragmente 3-6, welche sämmtlich Massilia betreffen, entnommen zu sein». 70 SUSEMIHL 1891, pp. 694-695, nota 302. 71 HOFFMANN 1838, pp. 208-209, distingue ciò che è possibile determinare «mit Sicherheit» da ciò che si può supporre «durch Vermuthung»: «Was sich uns als sicher ergeben hat, theilen wir mit. Im ersten Buch behandelte Artemidorus die gallische Küste, und wie es scheint, das übrige Keltenland; im zweiten Iberien, na-

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Questi giudicava impossibile che un periplo del mare interno iniziasse dalla Gallia, invece che dalla Spagna, e riteneva improbabile che il III libro contenesse solo la descrizione della Lusitania72 (peraltro – dobbiamo notare – in gran parte estranea a un periplo del mare interno). Verifichiamo in primo luogo il testo. Per quel che riguarda il fr. 7, Stiehle leggeva il Periplus maris exteri di Marciano ancora nell’edizione di Hudson (1698) e accoglieva per quel passo una congettura formulata da Dodwell, collaboratore di Hudson ( th;n eijsroh;n poiouvmeno~...)73; ma già nel 1837 la Bibliothèque royale aveva acquistato il Paris. Suppl. Gr. 443, nel quale i primi righi di Marciano fino alle parole th;n eijsrohvn erano illeggibili a occhio nudo74. Una nuova edizione del testo fu approntata da Emmanuel Miller (1839)75; sul Periplus maris exteri tornò poi Karl Müller (1855), che così ne presentò l’incipit: keimevnh~ qalavssh~, h}n oJ perievcwn th;n gh`n wjkeano;~ eJspevra~ ejpitelei`, kata; to;n kalouvmenon ÔHravkleion porqmo;n th;n eijsroh;n poiouvmeno~ ΔArtemivdwro~ oJ ΔEfevs io~ gewgravfo~ ejn toi`~ e{ndeka th`~ gewgrafiva~ biblivoi~ to;n perivploun, wJ~ a]n h\n mavlista dunatovn, sunevgrayen (GGM, I, p. 516). La ricostruzione di Müller si fonda su una cogente analogia con l’inizio del II libro. Dunque Marciano non dice affatto che l’opera di Artemidoro iniziasse dalle colonne d’Ercole: nota solo che Artemidoro in undici libri descrisse il periplo del mare interno, «che l’Oceano, abbracciando la terra, delimita a occidente affluendo presso le colonne d’Ercole». I frr. 32-36 Stiehle, relativi alla Gallia e collocati da Stiehle nel III libro, non presentano in verità nessuna indicazione del libro da cui provengono. Invece, il fr. 41 Stiehle (Steph. Byz. p. 224 M.) menziona Dekivhton, povli~ ΔItaliva~ e cita ΔArtemivdwro~ ejn aV Gewgrafoumevnwn. Stiehle, per non inficiare la propria ricostruzione della struttura dell’opera di Artemidoro, corregge A in D (correzione certo plausibile in una scrittura maiuscola)76 e così sposta Dekivhton dal I al IV libro. E invece meritava attenzione il fatto che Dekivhton sia una città nel territorio dei Liguri transalpini77, sulla costa meridionale della Gallia Narbonese, ove si collocano anche Taurovei~ (fr. 3 Stiehle) e Kabelliwvn (fr. 4 Stiehle)78, per le quali Stefano dichiara esplicitamente la provenienza dal I libro di Artemidoro. Quanto ai

pleri posse scio, nisi ex libris integris, qui fortasse in bibliothecis lateant»). Si veda anche HAGENOW 1932, p. 127. 76 La congettura appare convincente («überzeugend») a HAGENOW 1932, p. 126 (ma erroneamente a p. 125: «schließlich ist nach Steph. B. s.v. Dekivhton das Volk der Dekieten ebenfalls in Artemidors 2. Buch vorgekommen»). 77 Sulla definizione di povli" ΔItaliva", impropria sul piano amministrativo per una città a ovest di Nizza, cfr. SALOMONE GAGGERO 1979, p. 63. 78 Al fr. 6 Stiehle si parla (con rinvio al I libro di Artemidoro) di Shkoanov~, povli~ Massaliwtw`n, da cui l’etnico Shkoanoiv, ma la popolazione dei Sequani e il fiume Sequana (la Senna) si trovano nell’interno, nella Gallia Lugdunese. Una città denominata Shkoanov~ non è altrimenti nota. Già nell’Aldina (1502) di Stefano la lezione povli~, probabilmente per congettura, era stata variata in potamov~. Secondo JULLIAN 19214, p. 35, nota 1, Shkoanov~ corrisponderebbe al fiume Arc, presso Marsiglia, giacché – osserva – i Sequani non erano stanziati lungo la Senna sin dall’origine. Per altre ipotesi di identificazione cfr. BRUNEL 1945, pp. 128-129 e nota 3. Rammento, infine, l’ipotesi di CARCOPINO 1957, che congettura Shkoano;" povro" Massaliwtw`n intendendo «la Seine [...] route au commerce des Marseillais»: ma ineludibili sono le obiezioni di Louis Robert (apud CARCOPINO 1957, p. 349).

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frammenti relativi all’Italia, per i quali l’attribuzione al IV libro è certa, essi sono relativi a Tivburi~ (fr. 38 Stiehle) e a Teanovn (fr. 39 Stiehle), nell’Italia centrale79. Vi sono poi alcune citazioni, come quelle dei frr. 27, 28 e 29 Stiehle (Nevsto~ in Illiria; Yamaqou`~ in Laconia; Kavrno~ in Acarnania)80 dal II libro, ma anche quella del fr. 2 (Bou`nno~ in Illiria) dal I libro: esse si giustificano solo immaginando che Artemidoro menzionasse (e forse descrivesse compiutamente) tali località all’interno di quelle parekbavsei~, che Marciano, nel proemio del Periplus maris exteri, ricorda di aver eliminato dalla propria epitome. L’alternativa è supporre degli errori, operazione metodologicamente inopportuna nel momento in cui non abbiamo alcuna certezza sulla ripartizione in libri81. 4.2. Il primo libro Nessuno ignora che nella tradizione manoscritta le cifre sono particolarmente soggette a corruzione. Strabone non ci aiuta per quel che attiene alla divisione in libri dell’opera di Artemidoro; la nostra (quasi) unica fonte è Stefano, che non possediamo neppure per intero, ma solo in epitome. Tuttavia, è legittimo dubitare del fatto che «diese Diskrepanz läßt sich nur als ein Versehen des Stephanos oder eines Abschreibers erklären», come ritiene Hagenow82. Dovremmo pensare a errori multipli e reiterati. Alla luce di ciò, sembra infondato affermare che tutta la Gallia occupasse il III libro (piuttosto che il I) e che quindi le descrizioni geografiche iniziassero nel II libro con la Spagna, come asserivano Stiehle e Hagenow. Proviamo ad analizzarne gli argomenti.

79 Per Genova, povli~ tw`n Liguvrwn (fr. 40 Stiehle), che Stiehle pone nel IV libro, Stefano (p. 416 B.) scrive wJ~ ΔArtemivdwro~ senza indicazione di libro. Il testo è corrotto «bis zur Unkenntlichkeit» (BILLERBECK 2006, p. 417, nota 59). 80 Il fr. 30 Stiehle (Steph. Byz. p. 639 M.) è particolarmente anomalo: Trovpi~, nh`so~, ΔArtemivdwro~ ejn deutevrw/ gewgrafoumevnwn. Di un’isola denominata Trovpi~ nulla è noto; Stefano, contrariamente al solito, non riferisce neppure dove si trovasse. Ma cfr. Etymologicum Gudianum, p. 536 Sturz: Trovpi~: to; katwvtaton mevro~ th`~ nho;~ peri; o} scivzetai to; ku`ma; Suidas t 1053: Trovpi~: th`~ nhov~. Si dovrà dunque sospettare un fraintendimento da parte di Stefano, o di una sua fonte. 81 A un errore pensa HOFFMANN 1838, p. 284, nota *. 82 HAGENOW 1932, p. 126.

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Innanzitutto essi affermano che il III libro non poteva contenere solo la Lusitania. Ma, a ben vedere, vi si potrebbe (o dovrebbe) collocare anche la prosecuzione della descrizione della Spagna Tarraconese e Betica, giacché il fr. 18bis Stiehle (Steph. Byz. p. 366 M.) parla di Kastalwvn, megivsth povli~ ΔWrhtaniva~ con rinvio ad ΔArtemivdwro~ trivtw/ gewgrafoumevnwn: Stiehle ovviamente congettura deutevrw/ per uniformità, non necessaria, con Steph. Byz. p. 710 M.83. In secondo luogo, essi obiettano che un periplo non poteva cominciare dalla Gallia. Ma, in realtà, Artemidoro non scrisse un periplo – è Marciano a lasciarlo credere – e l’itinerario che egli segue non è del tutto regolare84. La Spagna è descritta nel II libro e nel III, forse all’inizio, ma nel III libro si parla anche della Lusitania (fr. 31 Stiehle)85, che è più a ovest della Spagna, e questo pone già un intralcio a chi immagini un regolare percorso da ovest (colonne d’Ercole?) a est. Al contrario, l’ipotesi di Stiehle secondo cui i frr. 3, 4 e 6 rientrerebbero in una rassegna delle colonie fondate dalle città greche microasiatiche si scontra con una difficoltà: l’origine focese è ricordata da Stefano per Marsiglia (per la quale, però, Stefano non rinvia ad Artemidoro) e per Taurovei~86, ma non per Kabelliwvn; inoltre, anche la spagnola ÔHmeroskopei`on (Dianium) era una fondazione focese, ma Stefano, nel ricorCosì anche MEINEKE 1849, in apparatu (p. 366). Cfr. PRONTERA 1984, p. 222: «Un diverso esempio di innovazione – ma sarebbe più esatto parlare di trasgressione, se si considera che lo schema del periplo sembra ormai consolidato dalla tradizione – è offerto da Artemidoro di Efeso [...] L’andamento del periplo è conservato soltanto dall’Iberia fino al Chersoneso taurico». 85 Nel contributo di GULLETTA 2006a, pp. 92-93, figura uno schema relativo alla suddivisione in libri dei Gewgrafouvmena di Artemidoro. È per lo più fondato sul lavoro e sulle scelte di Stiehle, ma opera ulteriori modifiche allo stato della tradizione: omette i frr. 3-6 Stiehle, relativi alla Gallia Narbonese; ingloba nella descrizione delle «isole dell’Iberia» i frr. 27-30 Stiehle (dal II libro) relativi a località di Illiria, Laconia, Acarnania; ascrive all’Illiria il fr. 53 Stiehle dove invece si parla di Creta con esplicito riferimento al IV libro (Stiehle pone Creta nel V libro, sebbene il fr. 62 Stiehle, riferibile a Creta, sia privo di indicazione di libro); ma soprattutto attribuisce al libro II il fr. 31 Stiehle sulla Lusitania, per il quale non Stiehle, ma HAGENOW 1932, p. 128, aveva proposto di correggere ejn trivth/ di Stefano in ejn deutevra/. Il punto è che, tra le fonti per la Lusitania, in quello schema compare anche il papiro ‘di Artemidoro’: immaginare che la descrizione della Lusitania trabordasse nel III libro forse creava qualche difficoltà. Cfr. anche GULLETTA 2006b. 86 Stiehle – per rafforzare la propria tesi – congettura in Steph. Byz. p. 608 M. un’integrazione: Taurovei~, povli~ Keltikhv, Massalihtw`n a[poiko~. Vero è che l’origine focese dei fondatori è asserita poco oltre da Stefano, ma è forse opportuno conservare la lezione Massalihtw`n a[poiko~, perché Stefano (o magari lo stesso 83 84

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darlo, rinvia ad un passo del II, non del I libro di Artemidoro. Quanto poi all’ipotesi sostenuta da Hagenow, che nel I libro si alludesse alla diffusione del culto di Artemide (cui per nascita l’autore era legato) attraverso la fondazione di Marsiglia e di altre colonie in Occidente87, nulla nella documentazione in nostro possesso consente una siffatta ricostruzione. La stessa obiezione vale per un’altra ipotesi dello stesso Hagenow: notando che Marciano dava notizia dei viaggi e della vita di Artemidoro, egli ne deduceva che nel I libro l’efesino raccontasse di sé88. Tuttavia, nulla impone che i riferimenti autobiografici dovessero trovarsi necessariamente nel libro I, piuttosto che sparsi nel corso dell’opera artemidorea, o magari nelle pagine dedicate ad Efeso.

Se, come pare potersi concludere, la Gallia Narbonese era argomento del I libro, Artemidoro avrà davvero dedicato una puntuale e informata descrizione ai territori affacciati sull’Atlantico, quelli che sarebbero poi stati dell’Aquitania, della Lugdunese, della Belgica, cui alludono i frr. 34-36 Stiehle? e se sì, in quale parte dell’opera? Forse dopo la Lusitania. Marciano (Epitome Menippi, 3) ricorda che Artemidoro esplorò to; plei`ston mevro~ th`~ ejnto;~ kai; kaqΔ hJma`~ qalavssh~, ma vide anche th;n nh`son ta; Gavdeira kai; mevrh tina; th`~ ejkto;~ qalavssh~89. Ci si dovrebbe domandare fin dove sia lecito estendere mevrh tinav. Per di più, Strabone cita Artemidoro a proposito di un’isola pro;~ th`/ Brettanikh`/ (Strabone, IV, 4, 6 = fr. 36 Stiehle) e definiva queste notizie artemidoree muqwdevstera: ciò suggerisce – come si è accennato in principio – che esse gli apparisArtemidoro), in questo come in altri luoghi, intende rimarcare la dipendenza commerciale o addirittura politica da Marsiglia delle povlei~ sulla costa gallica, come ha osservato BRUNEL 1945, pp. 128-129. Lo stesso potrebbe dirsi anche per ΔAlwniv~, detta nh`so~ kai; povli~ Massaliva~, ma in realtà da identificare probabilmente con Allonem di Pomponio Mela (II, 93) e con ΔAlwnaiv di Tolomeo (Geogr., II, 6, 14), città nella Spagna Citeriore, nel territorio dei Contestani. Secondo BRUNEL 1945, p. 130, tutti i passi di Stefano relativi a città definite «di Marsiglia» dipendono da Artemidoro, anche là dove Artemidoro non sia espressamente menzionato. Non si trascuri il forte legame, di natura cultuale, esistente tra Marsiglia ed Efeso: cfr. GRAS 1997, p. 65. 87 HAGENOW 1932, p. 128, nota 8. 88 HAGENOW 1932, pp. 128-129. 89 Si veda anche il proemio del libro II del Periplus maris exteri: Th`~ de; e[xw qalavssh~, h{ti~ wjkeano;~ para; tw`n pleivstwn kalei`tai, eij kai; metrivw~ tinw`n merw`n oJ proeirhmevno~ ejmnhmovneusen ΔArtemivdwro~, ajllΔ o{mw~ to;n ajkribevstaton tauvth~ perivploun ejk th`~ tou` qeiotavtou Ptolemaivou gewgrafiva~ [...] ejn tw`/ protevrw/ biblivw/ diexhvlqomen (GGM, I, p. 542). Del mare interno – precisa Marciano – Artemidoro descrisse il periplo con grande accuratezza, ejpimelevstaton; invece del mare esterno egli «ricordò», «fece menzione» di alcune parti.

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sero come divagazioni storico-mitografiche, sganciate da un contesto descrittivo e prive di attendibilità. Stante che, per certo, Artemidoro non visitò né la Britannia né la Germania. Marciano (Periplus maris exteri, II, 19), allorché menziona le quattro province in cui è divisa la Gallia (Aquitania, Lugdunese, Belgica e Narbonese), ricorda di aver già descritto la Gallia Narbonese nella epitome della Geografia di Artemidoro (th`~ ga;r Narbwnhsiva~ to;n perivploun ejn th`/ ejpitomh`/ th`~ ΔArtemidwvrou gewgrafiva~ h[toi perivplou safw`~ diexhvlqomen) e di aver promesso, in quella sede, di descrivere altrove il resto (tou`to ga;r to;n perivploun [i.e. dall’Aquitania verso nord, lungo la costa dell’Oceano] ajnagravyein uJpescovmeqa)90. Ne possiamo dedurre che per Artemidoro la descrizione del territorio di Marsiglia esaurisse l’esposizione relativa alla Gallia. E del resto per Artemidoro, vissuto prima della conquista cesariana della Gallia Comata, l’unica provincia gallica era la Narbonese, mentre tutto il resto della regione era un territorio piuttosto mal conosciuto91. A queste parole di Marciano segue, nel Paris. Suppl. Gr. 443, l’osservazione eij kai; oJ proeirhmevno~ ΔArtemivdwro~ th;n diaivresin tw`n ejn ΔIbhriva/ ejparciw`n oujk ejpoihvsato, che Hudson e Miller interpretavano «praefatus licet Artemidorus nullam fecerit divisionem provinciarum in Iberia»: ciò ovviamente non è vero, com’è chiaro dal fr. 21 Stiehle, ma è anche notizia fuori luogo in un capitolo sulle province della Keltogalativa. Per risolvere l’aporia Müller aveva congetturato th;n diaivresin tw`n ejn ΔIbhriva/ ejparciw`n oujk ejpoihvsato (GGM, I, p. 551), cioè riteneva che Marciano, anacronisticamente, addebitasse ad Artemidoro di non aver distinto tra le province della Gallia, come aveva invece fatto per le province iberiche92. È possibile tentare per questo 90 Infatti Stefano, allorché parla della ΔAkutaniva, ejparciva th`~ Keltogalativa v ~ (p. 65 M.; p. 126 B.), cita non Artemidoro, bensì Markiano;~ ejn perivplw/ aujth`~. 91 La stessa provincia Narbonese era stata costituita non prima della guerra condotta nel 125-120 a.C. contro i Celti che opprimevano Marsiglia, alleata di Roma, quando fu dedotta la colonia romana di Narbona (118 a.C.). Nella riorganizzazione augustea la Gallia fu divisa in tre province. Cfr. il cap. III («Die gallischen Provinzen») del V volume della Römische Geschichte di Mommsen: «Vor Caesars gallischem Krieg erstreckte die Römerherrschaft sich ungefähr bis nach Toulouse, Vienne und Genf» (p. 72). 92 Ma, in Periplus maris exteri, II, 7, là dove ricorda che le province dell’Iberia un tempo erano due, ora invece tre, Marciano non richiama affatto Artemidoro.

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passo una diversa interpretazione, che peraltro può fare a meno di intervenire sul testo. Si sta parlando della provincia Narbonese, della quale Marciano ricorda di aver già descritto il periplo nell’epitome artemidorea; egli osserva quindi che in realtà Artemidoro non ha operato una distinzione fra la provincia Narbonese e le province della Spagna93, che per lui, come si dirà poco oltre, erano un’unica entità geografica. Ovvero, Marciano invita il lettore a cercare i capitoli su Marsiglia e dintorni là dove Artemidoro cominciava a parlare della ΔIbhriva, nel I libro.

4.3. Un giro intorno al mondo Impiegando i soli frammenti con esplicita indicazione di libro – come peraltro aveva già fatto Hoffmann (1838) – si ricostruisce questo itinerario: Gallia Narbonese e Liguria, Spagna (con digressioni su Illiria, Laconia e Acarnania?), Lusitania (libri I-III), Italia, Creta (IV libro), isole del Mar Ionio (V libro), Grecia continentale verosimilmente fino al Chersoneso e alla Scizia europea (VI libro), Libia (VII libro), Egitto, Etiopia (VIII libro), Oceano Indiano, Partia (libro IX), Fenicia, Cilicia94, Licia, isola di Rodi (X libro), Bosforo, Scizia asiatica (XI libro). È un percorso che parte da ovest e termina a est ed è ripartito secondo i tre continenti: Europa nei libri I-VI; Africa ed Egitto nei libri VII-VIII; Asia nei libri IX-XI. Un percorso da un’estremità all’altra dell’ecumene.

93 Cfr. Tivna meivzw diaivresin ajgnwsiva~ te kai; gnwvsew~ qhvsomen; (Platone, Sophista, 267B); kolazomevnwn te kai; doxazomevnwn hJ diaivresi~ (pseudo-Giustino, Quaestiones et responsiones ad orthodoxos, 472C); th;n diaivresin tw`n genw`n kai; diaforw`n (Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysica, CAG, I, p. 520 Hayduck). Nel caso di Marciano, il primo termine della distinctio è enunciato al principio del periodo: th`~ ga;r Narbwnhsiva~ ktl. È pur sempre possibile congetturare, sulle orme di Müller, th;n diaivresin tw`n ejn ΔIbhriva/ ejparciw`n oujk ejpoihvsato, o, meglio, th;n diaivresin tw`n ejn ΔIbhriva/ ejparciw`n oujk ejpoihvsato: «sebbene il sunnominato Artemidoro non abbia distinto le province dell’Iberia». In modo non dissimile ragionò forse SCHOFF 1927, p. 36, il quale tradusse il testo di Müller in questo modo: «the aforesaid Artemidorus made no distinction [of Celtogalatia, as if it were one] of the provinces of Iberia». 94 La collocazione della Fenicia e della Cilicia, nel IX o nel X libro, è problematica.

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Strabone, che pure suddivide in tre parti la sua opera, pone invece l’Africa dopo l’Asia e, all’interno dell’Africa, inizia con l’Egitto e chiude con la Libia. Il percorso di Strabone è dunque idealmente circolare, ma ci attenderemmo che nel descrivere la Libia (XVII, 3) egli iniziasse da est e procedesse verso ovest in modo da giungere alle colonne d’Ercole. Ciò non accade: in XVII, 3, 1 rammenta di aver già parlato peri; Libuvh~95 e si propone di aggiungere ta; mh; lecqevnta provteron; procede perciò dalla Mauritania (XVII, 3, 2) alla Cirenaica (XVII, 3, 23), ossia da ovest verso est. Per sostenere la tesi secondo la quale sarebbe certo che Artemidoro iniziasse dalla Spagna e sarebbe dunque impossibile che nel I libro trovasse posto una descrizione delle città galliche, sono stati evocati per confronto i peripli di Scilace, dello pseudo-Scimno, di Strabone, di Plinio, di Dionigi Periegeta96. Ognuno di questi testi presenta però caratteristiche – e percorsi – diversi. Il periplo di Scilace di Carianda parte dalla Spagna e prosegue con i Liguri, i Tirreni, segue tutto il profilo del Mediterraneo lungo l’Europa fino alla Scizia, poi avanza lungo l’Asia e quindi esaurisce il giro del mare interno, percorrendone la costa meridionale attraverso l’Africa, fino a ricongiungersi al punto di partenza, a Gades. Plinio divide il mondo nei tre continenti, dedica il V libro all’Africa, il VI all’Asia, mentre i libri III e IV sono dedicati all’Europa che, con partenza dalla Spagna e dalla Gallia Narbonese, viene attraversata in senso circolare antiorario fino alla Gallia Belgica, Lugdunese, all’Aquitania, quindi alla Lusitania e alla Spagna. La distinzione dei tre continenti, analizzati separatamente, vale anche per Strabone e per Dionigi Periegeta, il quale peraltro inizia con la Libia (vv. 170-269) e poi affronta l’Europa a partire dalla Spagna (vv. 270-449). Strabone, che parte dalla Spagna, inizia con il Promontorio Sacro, to; dutikwvtaton ouj th`~ Eujrwvph~ movnon, ajlla; kai; th`~ oijkoumevnh~ aJpavsh~ (III, 1, 4), non certo dai Pirenei, e così anche Plinio (III, 6), mentre lo pseudo-Scimno (vv. 139 ss.) e Scilace (§ 1) iniziano dalle ÔHraklevou~ sth`lai. Strabone, II, 3, 4; II, 4, 3. Cfr. GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 199: «die Darstellung von Spanien in Kol. IV-V zeigt, daß Artemidor seine Beschreibung der oijkoumevnh mit der Iberischen Halbinsel begonnen hat, genau so wie Skylax, Skymnos, Strabon, Plinius und Dionysios Periegetes, und wie Stiele es angenommen hatte». Fonte di questo pensiero è HAGENOW 1932, pp. 126-127: «Alle vergleichbaren Werke, die den Charakter eines Periplus tragen, oder ihm in der Form nahekommen, beginnen ohne Ausnahme eine Beschreibung der Oikumene mit Spanien; so Skylax, Skymnos, Strabon, Plinius, Dionys der Perieget (Aviens und Priscians Uebersetzungen); Mela, der mit Afrika beginnt, schließt mit Spanien». 95 96

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Parte prima. Artemidoro di Efeso

A quel che appare, Artemidoro procede per regioni – da ovest a est – ma all’interno di ciascuna di esse si concede una certa autonomia di organizzazione della materia, come del resto fa anche Strabone. 4.4. L’ΔIbhriva e i suoi confini Consideriamo un passo di Strabone (III, 4, 19). Dopo essersi lamentato della imprecisione delle denominazioni topografiche ed etnografiche, soprattutto per le località più sconosciute e soprattutto presso gli autori greci – talora anche presso i latini –, Strabone nota che «gli autori più antichi definiscono ΔIbhriva tutta la regione che si trova di là dal Rodano e dal lembo di terra racchiuso tra i due golfi della Gallia»97, mentre «i moderni ne pongono i confini ai Pirenei e la chiamano indifferentemente ΔIbhriva e ÔIspaniva»98 e altri ancora – ma probabilmente ancora i provteroi, gli autori più antichi – collocavano la linea di demarcazione al fiume Ebro (th;n ejnto;~ tou` “Ibhro~)99. Che per molti autori, precedenti Strabone, la ΔIbhriva iniziasse dalla regione di Marsiglia, è confermato da diverse fonti100. Secondo Avieno, Ora maritima (vv. 612-614), la demarcazione tra la Hibera tellus e i Ligyes asperi correva lungo il fiume Orano, identificato con il Lez o con l’Hérault101. Plinio (XXXVII, 32) ricorda che per Eschilo (fr. 73a Radt) l’Eridano era un fiume dell’Iberia e si chiamava anche Rodano («Aeschylus in Hiberia Eridanum esse dixit eundemque appellari Rhodanum»). Erodoto, I, 163, enumerando le regioni dell’Occidente verso cui viaggiarono i Focesi, annovera th;n Turshnivhn kai; th;n ΔIbhrivhn kai; to;n Tarthssovn, e lascia così implicitamente intendere che l’Iberia (Betica esclusa), posta subito dopo la regione tirrenica, cominciasse dopo le Alpi102. Lo pseudo97 Nel passo è da sospettare, come già fece Casaubon, una lacuna, che non dovrebbe però alterare il significato della frase (cfr. LASSERRE 1966, p. 79 e nota a p. 199, e da ultimo RADT 2006, p. 384). 98 Cfr. anche Eustazio, In Dionysii Periegetae orbis descriptionem, ad v. 281 (GGM, II, p. 266) e ad v. 288 (GGM, II, p. 267). 99 Cfr. infra, cap. X, § 4. 100 Cfr. anche DOMÍNGUEZ 1983, pp. 211-212; DOMÍNGUEZ 2004, p. 158 e p. 161. 101 A che periodo risalgano le fonti di Avieno e quindi quale sia l’attendibilità della sua opera è questione controversa: cfr. KNAPP 2004, pp. 278-279. Per le ipotesi di identificazione dell’Orano, cfr. RIBEIRO FERREIRA 1985, p. 67, nota 109. 102 Cfr. MARCOTTE 2006, p. 37.

II. I «Geographoumena»: struttura e stile

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Scimno (vv. 206-210) afferma che i Focesi giunsero eij~ ΔIbhrivan e vi fondarono ΔAgavqh (Agde, alla foce dell’Hérault) e ÔRodanousivan, ÔRodano;~ h}n mevga~ potamo;~ pararrei`; poi a proposito di Marsiglia, che sorge a est del Rodano, precisa che ejn th`/ Ligustikh`/ de; tauvthn e[ktisan (come sembra giudicare anche Ecateo, FGrHist 1 F 55): dunque lo pseudo-Scimno considera il Rodano come confine tra ΔIbhriva e Ligustikhv e conferma l’idea che l’Iberia si estenda fin quasi a Marsiglia. Ha notato Marcotte che, pur distinguendo fra aree popolate da diverse etnie (Iberi, Liguri e una zona intermedia di popolazione mista), Scilace di Carianda presuppone una continuità territoriale e geografica dal promontorio di Calpe fino ad Antipolis nel territorio dei Deciates, presso il fiume Var (ΔApo; de; ÔHrakleivwn sthlw`n mevcri ΔAntivou hJ cwvra pa`sa au{th eujlivmeno~)103. In Costantino Porfirogenito, De administrando imperio, 23, il fr. 21 Stiehle di Artemidoro è immediatamente preceduto da una citazione dal libro X delle Peregrinazioni di Eracle dello storico Erodoro di Eraclea (FGrHist 31 F 2a): costui, in una rassegna etnografica dei luoghi visitati dal dio, descrive to; ΔIbhriko;n gevno~, enumera vari popoli da sud verso nord-est (Kuvnhte~, Glh`te~, Tarthvs ioi, ΔEleusivnioi, Mastinoiv, Kelkianoiv) e conclude, se la restituzione per lo più accolta è valida, e[peita de; h[dh oJ ÔRodanov~104: anche Erodoro, quindi, sembrerebbe collocare il confine geografico della ΔIbhriva alla foce del Rodano. In conclusione, il fr. 21 Stiehle di Artemidoro riferisce la divisione amministrativa effettuata dai Romani al momento in cui istituirono le due province spagnole nel 197 a.C., e in riferimento a tale disposizione formale pone il confine ajpo; tw`n Purhnaivwn ojrw`n. Sembra dunque plausibile che, nel contesto immediatamente precedente, Artemidoro considerasse, da un punto di vista geografico e antropico, la ΔIbhriva almeno a partire dal Rodano, come era consueto – ricorda Strabone – per «gli autori più antichi». Ed è molto verosimile che, nel ripercorrere la storia della nozione di ΔIbhriva in III, 4, 19, Strabone stia impiegando proprio Artemidoro. Cfr. ivi, pp. 34-35. Per la Spagna di Scilace, cfr. GGM, I, pp. 15-18. In realtà, il manoscritto Paris. Gr. 2009, f. 46v, reca la lezione hJ diorovdano~, che Jacoby e Moravcsik preferiscono lasciare fra cruces; Banduri, Bekker, Berkel e Meineke leggevano h[dh oJ ÔRodanov~; Schulten congetturava h[dh oJ porqmov~. Evidentemente, la difficoltà nell’identificazione dei popoli che precedono rende incerta la restituzione della corretta lezione. Qualunque idea ci si faccia del luogo mal tramandato, non pare esservi dubbio che vi comparisse il toponimo ÔRodanov~. 103 104

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Parte prima. Artemidoro di Efeso

Così, nel descrivere l’estremità occidentale del mondo, la Spagna, la prima delle regioni presentate nei Gewgrafouvmena, Artemidoro avrà scelto di procedere dalla costa meridionale della Gallia Narbonese (limite geografico, sebbene non amministrativo, dell’Iberia) alla Lusitania (e forse oltre), come i frammenti lasciano intendere.

4.5. Deduzioni possibili Ciò non è di poco momento per una valutazione del papiro di Torino. Il problema sollevato dagli editori nell’«Archiv» del 1998, nella prima ufficiale notizia, conserva, più che mai, la sua rilevanza: «Se davvero argomento del libro I fosse stata la Gallia, allora l’ampio proemio delle colonne I-III avrebbe finito per trovarsi tra la Gallia e la Spagna, ossia nel bel mezzo della sezione delle descrizioni. Certo, in tale collocazione, una breve introduzione sarebbe stata accettabile, ma il proemio del nuovo rotolo affronta temi generali, del genere di quelli che possono trovarsi solo nell’introduzione generale di un’opera intera o di una nuova sezione dell’opera»105. Quanto detto fin qui mostra che tra primo e secondo libro dei Gewgrafouvmena di Artemidoro non vi era affatto quella cesura contenutistica che può definire una «nuova sezione dell’opera», tanto più se si considera che i geografi anteriori a Strabone consideravano ΔIbhriva anche le terre poste tra il Rodano e i Pirenei. Una via d’uscita dall’impasse prospettata nelle righe ora riportate potrebbe essere quella di accantonare l’ipotesi, affermata quasi ex professo, secondo cui il testo conservato dal nuovo papiro sarebbe sicuramente e tout court quello dei Gewgrafouvmena di Artemidoro. L’identificazione dell’opera di Artemidoro si basa sul riconoscimento, da parte di Gallazzi e Kramer, del fr. 21 Stiehle all’inizio della col. IV: «È del tutto inverosimile che si debba trattare di una citazione; infatti una citazione avrebbe dovuto essere preannunciata da una frase introduttiva già prima della carta geografica, alla fine del105 GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 198: «Wenn wirklich Gallien Gegenstand von Buch I gewesen wäre, dann müßte das umfangreiche Proömium der Kol. I-III zwischen Gallien und Spanien, d.h. im Innern des Teils der Beschreibungen stehen. Eine kurze Einleitung wäre hier akzeptabel, doch das Proömium der neuen Rolle behandelt allgemeine Themen, wie sie nur in der Einleitung eines Gesamtwerkes oder eines neuen Werkteils vorkommen können».

II. I «Geographoumena»: struttura e stile

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la col. III. Ma a ciò si oppone l’impianto del libro, accuratamente pianificato: prima il proemio, poi la carta geografica, infine la descrizione»106. L’argomento non è dirimente. Della col. III non abbiamo praticamente nulla e non abbiamo alcun elemento che consenta di escludere che la descrizione della Spagna cominciasse già lì (o in altra parte del papiro che non si è conservata)107. Invocare la «sorgfältig geplante Anlage des Buches», l’«impianto del libro, accuratamente pianificato», è una petitio principii. Tanto più che nel suo più recente contributo (2006) Bärbel Kramer sembra esprimere una ben diversa idea del papiro là dove scrive: «el papiro contiene extractos de la Geografía de Artemidoro»108. E di estratti può ben trattarsi109: non è raro, in opere compilatorie che riutilizzano brani di varia provenienza, magari per uso privato, omettere l’indicazione degli autori cui si attinge. A ben vedere, la presenza del fr. 21 Stiehle giusto al principio della col. IV del papiro prova unicamente che l’autore (o il compilatore) conosceva di sicuro quel passo di Artemidoro.

106 Ivi, p. 196: «Es ist ganz unwahrscheinlich, daß auch hier ein Zitat vorliegen sollte; es müßte ja noch vor der Landkarte am Ende von Kol. III eingeleitet worden sein. Dagegen spricht die sorgfältig geplante Anlage des Buches – zuerst das Proömium, dann die Landkarte, dann die Beschreibung». Opinione ribadita da KRAMER 2005, p. 26, nonché nel più recente contributo della stessa KRAMER 2006, p. 100: «como no se introduce esta cita con la fórmula “Como lo dice Artemidoro de Éfeso” o semejantes, estamos bastante seguros de que tenemos aquí el texto original, es decir, el primero testimonio directo de la Geografía de Artemidoro». Ma cfr. supra, Fantasma, § 6. 107 E infatti non si può neppure esser certi che dopo la colonna III e prima della carta geografica non vi fosse altro, stante la discontinuità del supporto papiraceo: cfr. infra, cap. IV, § 3. 108 KRAMER 2006, p. 98. Corsivo mio. Già in una intervista alla «Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung» del 30 ottobre 2005 (cfr. «QS», 66, 2007, p. 372), Bärbel Kramer ammetteva che le colonne I-III parrebbero contenere «l’inizio dell’introduzione all’opera intera, e dunque al primo libro dei Geographoumena, e non un’introduzione al libro sulla Spagna» («es sich [...] um den Anfang der Einleitung zum Gesamtwerk, also zum ersten Buch der „Geographoumena“ handeln dürfte und nicht um eine Einleitung zum Spanien-Buch»). 109 Sappiamo che Artemidoro fu epitomato da Marciano intorno al IV secolo. A partire da quando si cominciarono a costruire compilazioni geografiche traendo estratti anche dai Gewgrafouvmena artemidorei?

III NOTE SUGLI USI DI GEWGRAFIA di Stefano Micunco 1. Un genere letterario? «Gewgrafiva è la rappresentazione mediante disegno di tutta la parte nota della terra assieme a ciò che in generale le è relativo»1. Nella definizione che apre l’opera geografica di Claudio Tolomeo il termine gewgrafiva ha evidentemente il significato di “carta geografica”. È alla sistemazione della carta, anzi delle carte, che quest’opera – intitolata Gewgrafikh; uJfhvghsi" (letteralmente: “guida geografica”) – è finalizzata. Essa contiene infatti una raccolta di dati e istruzioni per realizzare le carte: longitudini e latitudini dei luoghi, norme per la trasformazione piana della superficie terrestre, suggerimenti in merito alle scale di rappresentazione etc., e si pone dunque nel genere della trattatistica tecnico-scientifica, e nel novero delle opere a carattere geografico2. Ci si può chiedere se la geografia possa essere considerata essa stessa un genere letterario nell’antichità; ma la risposta a questo quesito non può essere netta e univoca3. Opere con dati di riferimento geografici esistevano già nel VI sec. a.C.: la Perihvghsi" di Ecateo di Mileto è il primo esempio a noi noto del genere periegetico e periplografico, che scaturisce dall’evolu1 Tolomeo, Geogr., I, 1, 1: ÔH gewgrafiva mivmhsiv" ejsti dia; grafh'" tou' kateilhmmevnou th'" gh'" mevrou" o{lou meta; tw'n wJ" ejpivpan aujtw/' sunhmmevnwn. 2 Naturalmente gli spunti etnografici e descrittivi non sono estranei. 3 Ci limiteremo a mettere in luce alcuni elementi utili alla storia del termine. Per uno studio dedicato specificamente al tema della geografia come genere si vedano in particolare PRONTERA 1984 e JACOB 1993. Molto utili anche i classici manuali sulla geografia antica: BUNBURY 1879, THOMSON 1948, PÉDECH 1976 etc.

III. Note sugli usi di gewgrafiva

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zione letteraria di resoconti di viaggio e diari di bordo, e che avrà ampio sviluppo nei secoli successivi; le opere che portavano come titolo Perihvghsi"4, Perivplou"5, o Perivodo" gh'"6 sono numerose e distribuite su un lungo arco di tempo (il Periplo del mare esterno di Marciano di Eraclea si colloca nel IV sec. d.C.). Numerose anche le opere “monografiche” dedicate a singole regioni, con significativa preferenza per quelle orientali, o comunque per le zone ai confini del mondo conosciuto: la lontananza accresce la curiosità per popoli e luoghi che si avvertono (o talvolta soltanto si immaginano) decisamente diversi. Ecco perché questo interesse si traduce spesso in un tipo di opera che, pur avendo un “contenuto geografico”, sfocia in un altro genere dai caratteri ben definiti, quello della paradossografia. Naturalmente anche la poesia epica, con il suo bagaglio di saperi, implicava nozioni geografiche, e Strabone (e certo altri prima di lui) individuava in Omero il fondatore della geografia7. Ma è forse nell’ambito storiografico che le ricerche geografiche hanno trovato il terreno più fertile8: gli excursus geo-etnografici nelle Storie di Erodoto, la descrizione dell’ecumene nella storia universale di Eforo, la Biblioteca storica di Diodoro con le sue ampie sezioni sulle popolazioni, sulla fauna e sull’aspetto dei luoghi descritti, Teopompo, Sallustio etc. Sulla base di esempi come questi si è portati ad abbandonare come fuorviante e anacronistico il tentativo di tracciare una netta linea di demarcazione tra i “generi” della storiografia e della geografia nell’antichità (nonostante le categorie di spazio e tempo fossero chiaramente distinte già dagli inizi). Gli autori che chiamiamo “storici” facevano ampio uso di opere di conte4 Mnasea di Patre, Eraclide Critico, pseudo-Scimno, Dionigi Periegeta, Pausania etc. 5 Periplo di Annone, Damaste di Sigeo, Carone di Lampsaco, Scilace di Carianda, Androne di Teo, Menippo di Pergamo, Arriano, Marciano di Eraclea etc. 6 Anassimandro, Dicearco di Messina, Eudosso di Cnido, pseudo-Apollodoro etc. 7 Strabone, I, 1, 2: ΔArchgevthn ei\nai th'" gewgrafikh'" ejmpeiriva" ”Omhron; I, 1, 11: ”Omhro" th'" gewgrafiva" h\rxen. 8 Il tema della presenza della geografia nella storiografia è affrontato diffusamente nella storia degli studi sulla geografia nel mondo antico. Per una trattazione specifica si segnala in particolare il recente CLARKE 1999, che analizza il ruolo e l’interazione delle categorie di tempo e spazio nel pensiero antico, soprattutto in relazione a Polibio, Posidonio e Strabone. È appena il caso di ricordare che il greco iJstoriva non coincide soltanto con la nostra idea di “storia”, ma ha la più ampia valenza semantica di “ricerca”.

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Parte prima. Artemidoro di Efeso

nuto geografico ed etnografico, integrandone i dati nelle proprie. Questo perché la “geografia” – ossia la descrizione degli aspetti fisici e climatici dei luoghi, delle risorse territoriali, dei gruppi umani, della fauna etc. – era avvertita come parte integrante, forse anche ineludibile della storia. In questi termini si esprime Polibio. Raccontando le tappe della spedizione di Annibale fino al valico delle Alpi, lo storico fa una digressione (III, 57-59), giustificandosi per non aver fornito i dati geografici (ma il termine gewgrafiva non viene utilizzato) relativi ai luoghi menzionati: tali dati costituiscono una parte della storia (tou'to to; mevro" th'" iJstoriva") che deve trovare sviluppo in un luogo dell’opera «opportunamente e specificamente dedicato ad essa»9. Dunque per Polibio la geografia non solo rientra nella storia, ma ne è parte costitutiva. Ciò risulta ancora più chiaro dal paragone da lui istituito tra storia e medicina (XII, 25D-E): come la scienza medica è costituita di tre parti, quella teorica, quella dietetica e quella chirurgica e farmacologica, «allo stesso modo anche la storiografia pragmatica consta di tre parti, una delle quali è lo studio dei documenti e il confronto dei dati che ne derivano, la seconda concerne l’aspetto delle città e dei luoghi, i fiumi, i porti e in generale le caratteristiche della terra, del mare, e le distanze, mentre la terza riguarda i fatti e la politica»10. Né qui, né in altro luogo della sua opera – stando a quanto di essa ci è pervenuto – Polibio avverte l’esigenza di utilizzare un termine come “geografia” per delimitare un ambito disciplinare, perché questo tipo di studi è esso stesso disciplina storica. La stretta commistione del lavoro geografico con la storiografia si riflette anche in ambito terminologico: Strabone denomina talvol9 Si può comunque notare che Polibio inserisce informazioni geografiche anche nel corso della narrazione degli eventi. Ad esempio, quando racconta dell’assedio di Sagunto non soltanto precisa la posizione geografica della città, ma trova spazio anche per una rapida caratterizzazione del suo territorio: «La città sorge sulla propaggine che dà sul mare della catena montuosa che segna il confine tra Iberia e Celtiberia, e dista dal mare circa sette stadi; gli abitanti occupano un territorio fertile e migliore di tutto il resto dell’Iberia» (III, 17, 2-3). 10 Polibio, XII, 25E, 1: To;n aujto;n dh; trovpon kai; th'" pragmatikh'" iJstoriva" uJparcouvsh" trimerou'", tw'n de; merw'n aujth'" eJno;" me;n o[nto" tou' peri; th;n ejn toi'" uJpomnhvmasi polupragmosuvnhn kai; th;n paravqesin th'" ejk touvtwn u{lh", eJtevrou de; tou' peri; th;n qevan tw'n povlewn kai; tw'n tovpwn periv te potamw'n kai; limevnwn kai; kaqovlou tw'n kata; gh'n kai; kata; qavlattan ijdiwmavtwn kai; diasthmavtwn, trivtou de; tou' peri; ta;" pravxei" ta;" politikav".

III. Note sugli usi di gewgrafiva

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ta gewgrafikh; iJstoriva l’attività del geografo11, e allo stesso modo Tolomeo utilizza spesso iJstoriva intendendo la “ricerca geografica”12. Conseguentemente lo stesso “geografo” è definibile iJstorikov". Plutarco comincia le sue Vite parallele con un paragone: la scelta di un limite temporale per la credibilità dei racconti, che discrimina ciò che può essere ritenuto veridico dalla materia di poeti e mitografi, è simile all’uso cartografico di marcare i margini dell’ecumene con parole come “deserti e zone infestate da belve” (il celeberrimo hic sunt leones), “palude inesplorata”, “ghiaccio della Scizia”, o “mare gelato”. Per riferirsi a coloro che operano in questo modo Plutarco usa il termine oiJ iJstorikoiv, che può dunque essere inteso come “coloro che fanno ricerche (in ambito geografico)”, vale a dire “i geografi”13. Questo spiega anche perché un’opera di contenuto geografico possa essere genericamente definita iJstorikovn. Il trattato Sul Mar Rosso di Agatarchide di Cnido, conservato prevalentemente nel compendio del capitolo 250 della Biblioteca di Fozio, dallo stesso Fozio viene chiamato iJstorikovn nel capitolo 213. Lo stesso appellativo ricorre per la Perivodo" gh'" dello pseudo-Scimno, e questo esempio è tanto più rilevante in quanto è lo stesso autore (v. 111) a denominare così la sua opera14. La geografia dunque, pur esistendo da sempre come ambito di studio e ricerca, pare prendere coscienza di sé come genere letterario piuttosto tardi.

Cfr. Strabone, I, 1, 12 e II, 5, 18. In particolare in Tolomeo iJstoriva può assumere un significato anche più specifico, passando a indicare le relazioni, i resoconti, le esposizioni dei dati ottenuti dalla ricerca, dalle indagini operate nel corso dei viaggi di esplorazione. In questo senso si può intendere, per esempio, l’intestazione del quarto capitolo del libro I, in cui si spiega che i dati provenienti dall’esperienza empirica sono migliori di quelli che si ricavano «ejk periodikh'" iJstoriva"». 13 Theseus, I, 1: «Come i geografi nelle loro carte (ejn tai'" gewgrafivai"), o Sossio Senecione, concentrano gli elementi che sfuggono alla loro conoscenza nei margini delle tavole (tw'n pinavkwn) etc.». In questo caso gewgrafiva significa evidentemente carta geografica; pivnax fa riferimento più al supporto materiale sul quale essa è realizzata. 14 Avremo modo di esaminare in dettaglio questo passo nel prossimo paragrafo. 11 12

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Parte prima. Artemidoro di Efeso

2. Prime attestazioni note del termine gewgrafiva In verità lo stesso termine gewgrafiva, con i suoi derivati gewgrafevw, gewgrafikov", gewgravfo", è piuttosto tardo. Le prime attestazioni nella tradizione diretta risalgono tutte al I sec. a.C. o poco prima15, il che naturalmente non significa che la parola nasca soltanto allora. Tuttavia pare che questa terminologia entri effettivamente nell’uso piuttosto tardi, se non a cavallo tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C.; certo per noi è con l’opera di Strabone che compaiono per la prima volta termini come cwrografiva16 e topografiva. In Strabone gewgrafiva, pur conservando il suo significato etimologico di “disegno/descrizione della terra”, e dunque anche “carta geografica”17, tuttavia viene più largamente utilizzato nel senso derivato – e alle lingue moderne più familiare – di “geografia” come ambito disciplinare. Difficile dire se questo ampliamento del significato sia dovuto a Strabone stesso, perché le attestazioni precedenti e contemporanee sono veramente scarse18. Analizziamole nel dettaglio. 15 Il verbo gewgrafevw ricorre (al participio dell’aoristo, gewgrafhvsante") nel Peri; kovsmou (p. 393b 20 Bekker), opera del corpus aristotelico generalmente ritenuta spuria e datata per lo più al I sec. d.C. (per lo status quaestionis e per una rassegna bibliografica su quest’opera e sul problema della datazione cfr. PINTO 2007). La presenza di questa parola – che, come vedremo, difficilmente sarà stata utilizzata prima di Eratostene – potrebbe essere un ulteriore elemento a conferma della non paternità aristotelica. 16 È verosimile che la parola cwrografiva che compare in una citazione straboniana di Polibio (Strabone, X, 3, 5 = Polibio, XXXIV, 1, 3) risalga effettivamente allo storico di Megalopoli (hJmei'" dev, fhsiv [scil. Polibio], ta; nu'n o[nta dhlwvsomen kai; peri; qevsew" tovpwn kai; diasthmavtwn: tou'to gavr ejstin oijkeiovtaton cwrografiva/). Del resto il termine si trova nella seconda metà del II sec. a.C. in un documento epigrafico cretese, dove le cwrografivai sono dei disegni mostrati ai giudici per risolvere una controversia territoriale (cfr. AGER 1996, pp. 431-446; il termine si trova al n. 158, II, ll. 69-71). 17 Ad esempio in XI, 1, 5 e XIV, 1, 9 gewgrafiva vale “descrizione della terra”; quanto a “carta geografica” si veda per esempio II, 5, 10, dove comunque il significato del termine è completato da pivnax (to;n pivnaka th'" gewgrafiva"). 18 Il periodo di composizione della Geografia di Strabone può con una certa sicurezza essere fissato nei decenni a cavallo tra I a.C. e I d.C.: l’ultimo evento storico databile menzionato (XVII, 3, 7; 9; 25) è la morte di Juba II (generalmente 23 d.C.), ma è probabile che l’opera – scritta in età matura o avanzata, dopo gli ÔIstorika; uJpomnhvmata – abbia avuto una prima redazione nell’ultimo ventennio del I a.C. e sia stata in sèguito rivista e integrata. Sulla questione e sulle varie ipotesi di datazione cfr. AUJAC 1969, pp. XXX-XXXIV.

III. Note sugli usi di gewgrafiva

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a) Gemino, Introduzione ai fenomeni, 16, 4-5. Della vita di Gemino non si sa quasi nulla, e la stessa collocazione cronologica è incerta. Quel che è sicuro è che sia vissuto tra il I sec. a.C. e il II sec. d.C.: infatti Gemino è citato da Alessandro di Afrodisia (II/III sec. d.C.) nel suo Commento ai Meteorologici di Aristotele; d’altra parte Simplicio nel Commento alla Fisica di Aristotele ricorda una sua epitome dei Meteorologici di Posidonio (II/I sec. a.C.). Gli studiosi, pur con differenti opinioni per il periodo preciso, concordano su una datazione al I sec. a.C. Sulla base di un passo di Gemino stesso si è ritenuto di poter evincere qualcosa di più preciso. Gemino parlava dell’erronea credenza dei Greci che «per gli Egiziani e per Eudosso il solstizio di inverno cada durante le feste di Iside, cosa assolutamente falsa, perché c’è un intervallo di un mese intero tra le feste di Iside e il solstizio di inverno»19. Molti (Pétau, Manitius, Boeckh, Schmidt, Blass...) hanno cercato, tra le date note delle feste di Iside, quelle che si combinassero con la situazione descritta da Gemino, avanzando varie proposte di datazione per l’akmé e per la redazione dell’Introduzione ai fenomeni nel decennio tra il 77 e il 67 a.C. Tannery e Aujac sono più prudenti su questo dato, che non andrebbe interpretato in maniera così vincolante. Aujac, inoltre, individua il nostro autore nel Cn. Pompeo Gemino destinatario di una lettera di Dionigi di Alicarnasso, datata al 15 a.C. circa; ne evince che Gemino avesse composto il trattato attorno alla metà del I sec. a.C.20.

La Eijsagwgh; eij" ta; fainovmena è l’unica opera di Gemino pervenutaci completa21; tratta in maniera generale questioni di astronomia e geografia matematica. La parola gewgrafiva compare tre volte di seguito nel capitolo 16, dedicato alla divisione della terra in zone, fondata sulle teorie di Eratostene. Nello specifico, si sta parlando della convenienza di utilizzare pannelli allungati per le carte geografiche: solo così – differentemente dalle carte rotonde – si può conservare il rapporto di 2:1 per le dimensioni della terra, lunghezza (mh'ko", l’estensione est-ovest) e larghezza (plavto", l’estensione nord-sud). Elementa astronomiae, 8, 20-24. Sull’intera questione si veda AUJAC 1975, pp. XIX-XXIV. 21 Manitius ritiene che l’Introduzione ai fenomeni così come la possiamo leggere sia un compendio dell’originale di Gemino, realizzato nel VI sec. d.C. (MANITIUS 1898, pp. 237-252); Aujac non condivide questo parere (AUJAC 1975, p. X, n. 1). 19 20

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«Per questa ragione coloro che disegnano correttamente le carte geografiche (ta;" gewgrafiva"), le disegnano su pannelli allungati, in modo che la lunghezza sia il doppio della larghezza. Chi invece disegna carte rotonde è ben lontano dalla verità: infatti la lunghezza diventa pari alla larghezza, e in natura non è così. Non si deve dunque badare alla proporzione delle distanze nelle carte rotonde»22.

In questo caso, dunque, gewgrafiva ha inequivocabilmente significato di “carta geografica”. b) Pseudo-Scimno, Circuito della terra, vv. 109-114. I giambi della Perivodo" gh'" eij" Nikomhvdhn basileva furono per la prima volta attribuiti a Scimno di Chio (III/II sec. a.C.) da Lukas Holste; ma nulla autorizza tale attribuzione, e anzi si sa che Scimno redasse in prosa la sua descrizione dell’Asia e dell’Europa. A partire dall’edizione di Meineke (Berlin 1846) si parla (in maniera comunque impropria) di “pseudo-Scimno”. Quanto alla datazione, si identifica solitamente il re Nicomede della dedica con Nicomede III Evergete, che regnò fino al 94 a.C., e si data perciò il componimento all’ultimo decennio del II sec. a.C.; Marcotte non esclude che possa trattarsi anche del padre di Nicomede III, Nicomede II Epifane, e comunque propone una datazione un po’ più alta23. Dopo la dedica al re Nicomede di Bitinia (vv. 1-108), e prima di entrare in argomento, ai vv. 109-127 l’autore menziona le sue fonti, gli scrittori sulla base dei quali la sua opera acquisisce credibilità; il primo della lista è Eratostene: «Vengo ormai all’inizio di questa composizione annunciando gli autori con il cui impiego rendo l’opera degna di credibilità: ho accordato fiducia soprattutto a Eratostene, che realizzò con massima cura la carta della terra (th;n gewgrafivan), sistemandola in regioni e figure»24.

22 Elementa astronomiae, 16, 4-5: DiΔ h}n aijtivan oiJ kata; lovgon gravfonte" ta;" gewgrafiva" ejn pivnaxi gravfousi paramhvkesin, wJ" diplavsion ei\nai to; mh'ko" tou' plavtou". OiJ de; strogguvla" gravfonte" ta;" gewgrafiva" polu; th'" ajlhqei'a" eijsi; peplanhmevnoi: i[son ga;r givnetai to; mh'ko" tw/' plavtei, o{per oujk e[stin ejn th/' fuvsei: ajnavgkh ou\n mh; threi'sqai ta;" tw'n diasthmavtwn summetriva" ta;" ejn tai'" strogguvlai" gewgrafivai". 23 Sugli elementi per la datazione cfr. MARCOTTE 2000, pp. 7-16. 24 Ad Nicomedem regem, vv. 109-114: “Hdh dΔ ejpΔ ajrch;n ei\mi th'" suntavxew" / tou;" suggrafei'" ejkqevmeno", oi|" de; crwvmeno" / to;n iJstoriko;n eij" pivstin ajna-

III. Note sugli usi di gewgrafiva

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Anche in questo caso pare appropriato intendere gewgrafiva come “carta geografica” piuttosto che come il titolo dell’opera di Eratostene; è soprattutto la precisazione «in regioni e figure» (toi'" te klivmasi kai; toi'" schvmasin) che induce a questa interpretazione. Come sappiamo da Strabone25, Eratostene divideva l’ecumene in due metà, una a nord e una a sud della linea immaginaria tracciata dalle colonne d’Ercole alla catena montuosa del Tauro. Queste due metà erano a loro volta ripartite in sezioni chiamate sfragi'de", per ognuna delle quali Eratostene si sforzava di definire «la lunghezza, la larghezza e in linea generale la forma, come farebbe un geometra». Pare dunque che le parole con cui l’autore connota Eratostene facciano riferimento concretamente alla concezione della carta geografica. c) Cicerone, Lettere ad Attico, II, 6, 1. Cicerone aveva promesso ad Attico (o almeno aveva affacciato la possibilità) di scrivere un’opera geografica: lo apprendiamo da tre lettere (II, 4, II, 6 e II, 7) indirizzate all’amico, tutte del 59 a.C. Nella prima di queste lettere, dopo aver ringraziato Attico per avergli procurato l’opera di Serapione26 (della quale confessa di non aver compreso che la millesima parte), comincia già a prendere le distanze dall’impegno: «A riguardo della Geografia (geographia), cercherò di soddisfarti, ma non ti prometto nulla di certo. Si tratta di un lavoro impegnativo, ma tuttavia – come tu raccomandi – mi darò da fare perché da questo mio soggiorno estero27 ne venga fuori per te una qualche opera»28. E in una lettera di poco successiva ribadisce la sua perplessità: «Quanto ti avevo promesso in una lettera precedente, che mi sarei dato da fare perché dal mio soggiorno estero ne venisse fuori un’opera, non te lo garantisco più molto. [...] Infatti i Gewgrafikav che avevo previsto sono un lavoro impegnativo. Eratostene – che mi ero proposto come modello – viene assai criticato da Serapione e da Ipparco; che ne pensi se si pevmpw lovgon: / tw/' th;n gewgrafivan ga;r ejpimelevstata / gegrafovti, toi'" te klivmasi kai; toi'" schvmasin, / ΔEratosqevnei mavlista sumpepeismevno". 25 Cfr. soprattutto II, 1, 22 ss. 26 Serapione di Antiochia, autore poco noto, è citato anche da Plinio, con l’epiteto di gnomonicus, tra le fonti del libro II della Storia Naturale (cfr. KLOTZKROLL 1923). 27 La lettera è scritta ad Anzio, nell’aprile del 59 a.C. 28 Ad Atticum, II, 4, 3.

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aggiungerà anche Tirannione? E poi, per Ercole, sono argomenti difficili a spiegarsi e monotoni (oJmoeidei'"), né possono essere scritti tanto in stile fiorito (ajnqhrografei'sqai) come mi era parso; e poi, soprattutto, ogni scusa mi pare buona per starmene a riposo»29.

Il riferimento rapido ed evasivo con cui si apre la lettera successiva è in realtà molto eloquente: «A riguardo della Geografia (geographia) ci penserò e ripenserò»30. Cicerone non ha nessuna voglia di scrivere quest’opera. Il latino non ha un proprio termine corrispondente al greco gewgrafiva. Per denominare l’opera di argomento geografico, Cicerone utilizza in due casi (II, 4 e II, 7) un calco dal greco, e una volta (II, 6) una parola greca. Il latino geographia per il periodo classico è attestato unicamente in queste due occorrenze, e non tornerà se non nel IV e nel V sec. d.C. in Ammiano Marcellino31 e Marziano Capella32, in riferimento per lo più ad autori come Eratostene o Tolomeo. È a questo punto estremamente interessante che, pur avendo adoperato geographia in latino, come termine greco Cicerone scelga gewgrafikav, e non gewgrafiva, e per giunta dichiarando immediatamente appresso di aver eletto Eratostene come modello della propria (eventuale) opera. Pare di ricavarne che il titolo del trattato di Eratostene per Cicerone fosse proprio Gewgrafikav. Inoltre, se il modello scelto era Eratostene, comprendiamo che per opera geografica va qui intesa principalmente una trattazione tecnico-matematica; è effettivamente in relazione a un lavoro del genere che si comprende la lamentela di Cicerone di non poter utilizzare uno stile fiorito. Nella letteratura latina, dunque, ancora di più che in quella greca, non c’è un genere letterario geografico come potremmo intenderlo in termini moderni: la descrizione del territorio 29 Ad Atticum, II, 6, 1: «Quod tibi superioribus litteris promiseram, fore ut opus exstaret huius peregrinationis, nihil iam magno opere confirmo. [...] Etenim gewgrafikav quae constitueram magnum opus est. Ita valde Eratosthenes, quem mihi proposueram, a Serapione et ab Hipparcho reprehenditur. Quid censes si Tyrannio accesserit? Et hercule sunt res difficiles ad explicandum et oJmoeidei'" nec tam possunt ajnqhrografei'sqai quam videbantur et, quod caput est, mihi quaevis satis iusta causa cessandi est». 30 Ad Atticum, II, 7, 1. 31 XXII, 8, 10 («geographiae totius adsensione»), XXII, 15, 4 («fabulantes poetae variantesque geographi»), XXIII, 6, 13 («ut geographici stili formarunt»), XXXI, 2, 12 («geographica perplexitate monstrata»). 32 VI, 609 («opinationem Ptolomaei in geographico opere memoratam»).

III. Note sugli usi di gewgrafiva

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è propria del lavoro storiografico, o della storia naturale (si pensi al macroscopico esempio di Plinio il Vecchio, che aveva ben presente il repertorio geografico-etnografico greco). Il termine geographia nemmeno esiste, e viene coniato dall’Arpinate per far riferimento a un tipo di trattatistica tecnico-scientifica che comunque non aveva ancora conosciuto sviluppo nella letteratura latina. d) Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, III, 11, 2. In un passo nel quale soppesa le sue fonti, Diodoro avverte che la maggior parte di coloro che si sono occupati di Egitto ed Etiopia non sono degni di credibilità, o per essersi fondati su fonti inaffidabili, o per aver loro stessi inventato cose incredibili, atte a catturare l’attenzione del pubblico. Ci sono però le dovute eccezioni: «Agatarchide di Cnido nel secondo libro del trattato Sull’Asia, e Artemidoro di Efeso, che ha messo insieme le descrizioni della terra (ta;" gewgrafiva"), nell’ottavo libro, nonché alcuni altri che abitano in Egitto, avendo raccontato la maggior parte degli argomenti che abbiamo trattato, colgono nel segno quasi sempre»33.

Se di Agatarchide (III/II sec. a.C.) fornisce senz’altro il titolo dell’opera (Sull’Asia), per Artemidoro Diodoro menziona soltanto il numero del libro in questione, e piuttosto spende due parole per caratterizzare questo autore come oJ ta;" gewgrafiva" suntaxavmeno". Forse Diodoro non conosceva l’intestazione esatta dell’opera di Artemidoro? Oppure è in quella perifrasi che va cercato il riferimento al titolo, citato con una variatio rispetto ad Agatarchide? Che Gewgrafivai fosse il titolo conosciuto da Diodoro sembra alquanto improbabile; anzitutto sarebbe poco comprensibile il ricorso al plurale (i libri della gewgrafiva?). E inoltre è la formula stessa utilizzata, con il participio medio del verbo suntavssw, a far capire che qui si sta connotando il carattere e l’oggetto del lavoro di Artemidoro. Diodoro utilizza spesso il sostantivo suvntaxi" (o suvntagma) e il verbo suntavssomai in relazione a opere letterarie. Il suo stesso la33 Diodoro, III, 11, 2: ΔAgatarcivdh" me;n ga;r oJ Knivdio" ejn th/' deutevra/ bivblw/ tw'n peri; th;n ΔAsivan, kai; oJ ta;" gewgrafiva" suntaxavmeno" ΔArtemivdwro" oJ ΔEfevsio" kata; th;n ojgdovhn bivblon, kaiv tine" e{teroi tw'n ejn Aijguvptw/ katoikouvntwn, iJstorhkovte" ta; plei'sta tw'n proeirhmevnwn ejn pa'si scedo;n ejpitugcavnousi.

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voro è chiamato suvntaxi", già nel proemio: realizzare una storia universale significa riunire in un’unica composizione (suvntaxi") tutti gli uomini, i quali – pur imparentati tra loro – sono divisi per luoghi e per tempi34. Dunque i termini suvntaxi" e suntavssomai adoperati in riferimento alla “composizione letteraria” suggeriscono l’idea dell’assemblaggio di materiali differenti, per tipo o per provenienza. A qualcosa del genere dovrebbe alludere la formula su Artemidoro. Per altri due autori Diodoro si esprime in termini simili: Dionigi di Mitilene «tw/' suntaxamevnw/ ta;" palaia;" muqopoiiva"»35, e Marsia di Pella «oJ ta;" Makedonika;" pravxei" suntaxavmeno"»36. Come si comprende, Dionigi non è l’autore delle leggende antiche, ma colui che le ha raccolte insieme, facendo di questi materiali un’opera letteraria; in modo simile, non dobbiamo ritenere che il titolo di Marsia fosse AiJ Makedonikai; pravxei", in quanto è dell’oggetto della raccolta che si sta parlando. La difficoltà interpretativa relativamente ad Artemidoro è proprio nella determinazione dell’oggetto: cosa sono le gewgrafivai che egli avrebbe raccolto, messo insieme? Sfortunatamente in nessun altro luogo della Biblioteca storica viene adoperato gewgrafiva o altra parola con quella radice (il che per lo meno è eloquente sulla scarsa diffusione del termine prima di Strabone). È piuttosto dai frammenti dell’opera stessa di Artemidoro che ci si può fare un’idea sulla sua natura. Il geografo entrava più volte in polemica con i suoi predecessori (Eratostene soprattutto, ma anche Timeo, Pitea etc.), ed era in grado di citare a suffragio delle proprie tesi anche opere non universalmente note, e per dettagli non fondamentali (si veda il caso di Sileno di Calatte a riguardo della fonte d’acqua a Gades, cfr. supra, cap. II, § 2.2), conosceva naturalmente Polibio, e molto di ciò che raccontava a proposito delle regioni del Mar Rosso gli veniva dalla lettura di Agatarchide. Insomma, l’immagine che si ricaverebbe di questo autore non è quella di un viaggiatore avventuriero, ma soprattutto di un uomo di lettere (quale Artemidoro sicuramente era, avendolo designato i suoi concittadini di Efeso per l’ambasceria a Roma), che avrebbe innestato sulle esperienze acquisite in alcuni viaggi 34 Diodoro, I, 1, 3: “Epeita pavnta" ajnqrwvpou", metevconta" me;n th'" pro;" ajllhvlou" suggeneiva", tovpoi" de; kai; crovnoi" diesthkovta", ejfilotimhvqhsan uJpo; mivan kai; th;n aujth;n suvntaxin ajgagei'n, w{sper tine;" uJpourgoi; th'" qeiva" pronoiva" genhqevnte". 35 Diodoro, III, 66, 5. 36 Diodoro, XX, 50, 4.

III. Note sugli usi di gewgrafiva

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fondamentali un lavoro erudito di confronto tra fonti. Le parole di Diodoro, III, 11, 2 oJ ta;" gewgrafiva" suntaxavmeno", e lo stesso titolo Gewgrafouvmena – su cui torneremo – potrebbero illustrare proprio questo metodo di lavoro. 3. Nascita ed evoluzione del termine gewgrafiva Il conio di un termine nuovo è un fenomeno culturalmente rilevante: è il sistema tramite cui la lingua colma le proprie insufficienze nei confronti di realtà nuove che necessitano di definizioni appropriate. Anche l’invenzione della parola gewgrafiva risponde all’esigenza di definire qualcosa che prima non c’era: non si tratta dunque della “descrizione dei luoghi”, dato che – come si è visto – questo elemento non mancava in opere già dell’età arcaica; né, a maggior ragione, il termine indica dall’inizio una nuova disciplina. La realtà nuova è la carta geografica, che in età ellenistica è tutt’altra cosa rispetto alle precedenti esperienze cartografiche (pivnake" th'" gh'"). Sostanzialmente prima di Eratostene la “carta” è un disegno, uno schema, una rappresentazione che serve a “rendere comprensibile” il mondo: quale sia la sua forma e come si collochi nel cosmo, quali siano le sue parti e come siano disposte l’una relativamente all’altra, che ruolo svolgano i fiumi e l’Oceano nella ripartizione dell’ecumene... Si avverte un intento più filosofico che geografico, e non a caso la prima carta – secondo la tradizione – risalirebbe al filosofo Anassimandro. Ciò non significa, è bene ribadirlo, che prima del III sec. a.C. i Greci non possedessero cognizioni geografiche piuttosto chiare, e che non fossero in grado di rappresentare anche le regioni del mondo nel loro corretto contesto. L’esempio più celebre è quello di Aristagora che, al tempo della rivolta ionica, per spiegare la situazione agli Spartani e convincerli all’intervento, illustrava la posizione dei popoli e le distanze dei luoghi su di una tavola in bronzo dove era rappresentata la terra. È interessante comunque notare che anche in questo caso quel che figurava sulla lastra non era soltanto la regione che si doveva illustrare, ma «il circuito di tutta quanta la terra»37. Effettivamente la cartografia regionale nasce piuttosto 37 Erodoto, V, 49: Cavlkeon pivnaka ejn tw/' gh'" aJpavsh" perivodo" ejnetevtmhto kai; qavlassav te pa'sa kai; potamoi; pavnte".

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tardi, a quanto pare con Tolomeo38, che nell’ottavo libro della sua opera geografica fornisce le indicazioni per la realizzazione delle 26 carte delle regioni nelle quali ripartisce il mondo39.

In età ellenistica il nuovo impulso di scienze come l’astronomia, la geometria e il calcolo, e l’allargamento del mondo conosciuto a seguito delle conquiste di Alessandro crearono le premesse per un’operazione culturale inedita: la gewgrafiva, una rappresentazione scientifica e sistematica della terra rispondente a teoremi matematici e osservazioni astronomiche. Sebbene questo tipo di studio sia stato avviato già nel corso del IV sec. a.C. da personalità di spicco come Eudosso di Cnido40, la svolta decisiva avviene con Eratostene. Ed è estremamente verosimile che il termine gewgrafiva nasca, se non proprio in Eratostene, comunque ad Alessandria, negli ambienti del Museo e della Biblioteca. Altra cosa è l’impiego della parola per la definizione della disciplina geografica, che è un’evoluzione successiva. Fortemente significativo è che in Aristotele – l’autore della più organica e completa sistemazione dei saperi nel mondo greco – non si avverta nemmeno l’esigenza di un termine in questo senso. Aristotele si occupò di geografia, soprattutto nei Meteorologici; ma si tratta principalmente di questioni astronomico-matematiche, o afferenti alle cosiddette scienze della terra. A riguardo dello Stagirita Paul Pédech parla di conoscenze geografiche poco originali, e di un «système dominé par le dogmatisme et le déterminisme»; il suo merito, piuttosto, sarebbe nei problemi posti, nel metodo con cui li si affronta, e nel fatto di costituire una sintesi dello stato delle conoscenze alla metà del IV secolo41. Ma la geografia non è ancora una disciplina, e non si necessita di un termine per definirla. Dopo le scoperte e le teorizzazioni della prima età ellenistica la situazione non poteva rimanere invariata. In Strabone, si è visto, l’impiego di gewgrafiva come “disciplina geografica” è un fatto acquisito: l’evoluzione del termine deve dunque essersi prodotta mol38 Cfr. PRONTERA 2001, in particolare coll. 213-215 (b. Regionale Karten). Prontera distingue giustamente l’operazione di Tolomeo dalle rappresentazioni – attestate già prima di Eratostene – di territori ristretti, delimitati da elementi fisici. 39 Sui caratteri della “cartografia tolemaica” cfr. MARCOTTE 2007. 40 P. Pédech a ragione lo definisce «un précurseur» (PÉDECH 1976, pp. 67-70). 41 Ivi, pp. 66-67.

III. Note sugli usi di gewgrafiva

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to presto, tra il III e il I secolo. È indubbio che la scuola di Posidonio abbia svolto un ruolo determinante. Posidonio fu lui stesso autore di un’opera geografica, il cui titolo tramandato dalla tradizione indiretta è Peri; wjkeanou'. Tale scritto non doveva solo occuparsi di questioni teorico-matematiche, ma conteneva anche descrizioni di luoghi, territori, popolazioni etc.: era insomma una vera e propria Geografia42. Ma Posidonio era soprattutto un filosofo, uno stoico, ed è in tale veste che egli deve aver dato un decisivo contributo alla definizione del genere geografico. Lo stoicismo considerava il mondo come un essere vivente, razionale e unitariamente concepito (zw/'on logikovn); i processi che lo caratterizzano e lo determinano sono informati a un rapporto di causalità che li concatena e li rende inseparabili (sumpavqeia). In una concezione del genere lo studio delle leggi astronomiche e dei processi fisici, l’analisi della distribuzione delle popolazioni e delle risorse sul territorio, la descrizione dei luoghi sono tutte attività di competenza di una disciplina unica e unitaria, come unico e unitario è l’oggetto in questione. Ecco dunque quando e perché può essere sorta l’esigenza di un termine teorico sotto il quale raggruppare una serie di studi pure di antica tradizione: le analisi matematiche dell’età ellenistica, le concezioni filosofiche dello Stoicismo, l’allargamento del mondo conosciuto con l’espansionismo prima di Alessandro Magno e poi di Roma, la tendenza all’unificazione dell’ecumene sotto un solo dominio... è questo il terreno fertile nel quale i differenti studi dell’ambito geografico possono essere stati raccolti sotto una dicitura disciplinare unica e generale: gewgrafiva, la descrizione della terra. Posidonio, filosofo stoico che anteponeva la fisica alla logica e all’etica43, autore di un’opera geografica tout court, fonte privilegiata di Strabone, è il più indicato per aver fatto il passo decisivo in questa sistemazione, probabilmente già nel corso dei sui insegnamenti. Non è un caso che Cicerone, che ebbe modo di ascoltarlo a Rodi, abbia coniato il calco latino geographia, e si sia interessato alla materia fino a meditare di dedicarvisi in prima persona. 42 Si veda la caratterizzazione di quest’opera da parte di Strabone: «Consideriamo anche ciò che Posidonio ha scritto nei libri Sull’Oceano; l’impressione che si ricava infatti è che in quest’opera egli tratti molte questioni di geografia, alcune in maniera più propria, altre da un punto di vista più matematico» (Strabone, II, 2, 1). Sul carattere del Peri; wjkeanou' cfr. CLARKE 1999, pp. 139-154. 43 Cfr. Diogene Laerzio, VII, 42.

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4. Titoli di opere geografiche Alla luce di quanto visto finora, si comprende perché il titolo del trattato di Eratostene non fosse gewgrafiva, ma gewgrafikav: una cosa è la carta geografica (gewgrafiva), un’altra l’opera finalizzata alla sua sistemazione, o che fonda uno studio su di essa (gewgrafikav). Ciò non toglie che, una volta invalso l’uso di gewgrafiva come “disciplina”, opere geografiche siano state indicate direttamente con questo termine: si spiega così il fatto che esse si trovino citate nelle fonti con titoli diversi. Questo fenomeno, però, interessa soltanto un ristrettissimo numero di opere, in quanto – come si è visto – la maggior parte degli scritti a carattere geografico recava come titolo o un termine “di genere” (Perihvghsi", Perivplou", Perivodo" gh'"), o, nel caso di monografie regionali, il neutro plurale dell’aggettivo afferente alla regione trattata. Invece le opere geografiche di Eratostene, Strabone, Tolomeo, che si caratterizzano per contenere – in misura diversa – dati tecnico-matematici e studi cartografici, sono attestate, più o meno assiduamente, con ciascuno dei tre titoli Gewgrafiva, Gewgrafikav e Gewgrafouvmena44. Naturalmente le citazioni antiche non erano sempre sorrette dal proposito di una precisione filologica: da quando la parola gewgrafiva vede ampliarsi il suo significato, quelle tre denominazioni divengono pressappoco equivalenti (“raccolta di dati geografici”, e dunque “opera geografica”), e può accadere che il medesimo autore citi la medesima opera in maniere differenti. Strabone, per esempio, chiama lo scritto di Eratostene sia gewgrafiva che gewgrafikav45, mentre negli Scolii ad Apollonio Rodio compaiono tutti e tre i nomi. Allo stesso modo Ateneo cita Strabone una volta come gewgrafikav e una come gewgrafouvmena46. Forniamo un quadro schematico di come vengano citate le opere geografiche di questi tre autori47.

44 Anche quella di Posidonio era un’opera di geografia matematica, oltre che di geografia descrittiva, ma il titolo attestato per essa, come si è visto, è Peri; wjkeanou'. Stesso carattere composito e stesso titolo (o, alternativamente, Perivodo" gh'") aveva il trattato di Pitea di Marsiglia. 45 Cfr. rispettivamente II, 1 ,41 e XV, 1, 10. 46 Cfr. rispettivamente III, 92 e XIV, 75. 47 L’esiguo numero di autori e attestazioni in questo schema non deve stupire: nella maggior parte dei casi queste opere sono citate direttamente con il nome dell’autore e, eventualmente, con l’indicazione del numero del libro.

III. Note sugli usi di gewgrafiva

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ERATOSTENE (Gewgrafikav): a. Gewgrafiva: Strabone, Scolii ad Apollonio Rodio. b. Gewgrafikav: Strabone, Scolii ad Apollonio Rodio (3 volte). c. Gewgrafouvmena: Stefano di Bisanzio, Vita di Arato, Scolii ad Apollonio Rodio, Scolii ad Euripide (2 volte). STRABONE (Gewgrafikav): a. Gewgrafiva: Marciano. b. Gewgrafikav: Ateneo, Costantino VII Porfirogenito. c. Gewgrafouvmena: Ateneo, Scolii ad Apollonio Rodio. TOLOMEO (Gewgrafikh; uJfhvghsi"): a. Gewgrafiva: Anonymi summaria ratio geographiae in sphaera intelligendae, Teone di Alessandria, Simplicio di Atene. b. Gewgrafikav: Stefano di Bisanzio. c. Gewgrafouvmena: Scolii a Platone. d. Gewgrafikh; uJfhvghsi": Eustazio, Scolii a Platone. Un discorso a sé meritano gli 11 libri di Artemidoro, in quanto, a parte Marciano di Eraclea che ormai parla di Gewgrafiva48, il resto della tradizione indiretta è concorde sul titolo Gewgrafouvmena (Ateneo, Stefano di Bisanzio, Costantino VII, Scolii ad Apollonio Rodio): è piuttosto probabile dunque che fosse questo il titolo d’autore. Ed è rilevante che il titolo scelto da Artemidoro non sia Gewgrafiva, termine che gli doveva sembrare ancora legato alla nozione tradizionale di “carta geografica”, e che comunque poteva creare ambiguità. Il participio medio Gewgrafouvmena, invece, pare corrispondere all’intenzionalità di un’opera narrativa, che però è altra cosa rispetto alla consueta tradizione periplografica49, e pare alludere a un metodo per il quale il geografo ricercava e confrontava quanto scritto da altri autori. Pur non raccogliendo i metodi scientifici della nuova geografia eratostenica, Artemidoro si confrontava con una disciplina profondamente rinnovata e arricchita, a partire dalla terminologia. Marciano è anche l’unico a denominare Gewgrafiva l’opera di Strabone. Cfr. supra, cap. II, § 2.3. Peraltro, anche chi tende a immaginare l’opera di Artemidoro come un resoconto di tipo periplografico sarà indotto a cercare altro genere di titolo, qualcosa come «Description (ou Périégèse) du monde» (cfr. PÉDECH 1976, p. 136). 48 49

PROEKDOSIS

Avvertenza In attesa dell’editio princeps da tempo annunciata, pensiamo che possa giovare leggere quanto sin qui disponibile. La col. IV è stata già parzialmente edita più volte («APF», 44, 1998 etc., vedi infra, cap. X, nota 1). Quanto al resto della scrittura, molti sono i materiali che i (futuri) editori hanno finora messo generosamente a disposizione degli studiosi. Innanzi tutto l’inserto fotografico dell’efficace romanzo di Ernesto Ferrero, La misteriosa storia del papiro di Artemidoro (Ed. La Stampa, Torino 2006). Inoltre, il catalogo Le tre vite del Papiro di Artemidoro (Electa, Milano 2006) contiene riproduzioni fotografiche di ottima qualità (pp. 75, 145-148), e utili immagini sono incluse in due opuscoli editi in occasione della mostra: A come Artemidoro (testi di D. Magnetti, Electa, Milano 2006) e Lia e il papiro magico (a cura di D. Magnetti, Electa, Milano 2006), così come nel video diffuso anch’esso in occasione della mostra e in altro materiale promozionale minore (poster e cartoline). Il papiro è rimasto esposto al Palazzo Bricherasio di Torino dall’8 febbraio al 7 maggio 2006, in una sala dalle pareti ricoperte di magnifiche gigantografie del testo. Preziose le foto «all’infrarosso» – per dirla con GALLAZZI 2006, p. 15 – che accompagnavano, ben illuminate, il reperto collocato in verticale. Durante i tre mesi della mostra è stato possibile, in più occasioni, esaminare, riconsiderare, verificare letture e dettagli direttamente sul papiro. Il lettore potrà trovare gli elementi principali relativi alla seconda parte della colonna V (righi 17-45) in varie pubblicazioni di Bärbel Kramer; in particolare KRAMER 2001-2003, pp. 241-244 (per il contesto in cui figura il toponimo OBLEIWN) e KRAMER 2006, pp. 102-105 (per tutto quanto riguarda le distanze tra i pochi toponimi figuranti nei 28 righi in cui consiste tutto il paraplous). Ma si veda intanto The True History of the So-called Artemidorus Papyrus by Pagina. Data la natura del testo, si è pensato di fornire al lettore un apparato di loci similes. Di norma si designano così i luoghi che un determinato autore ha inteso mettere a frutto, ovvero, anche, le riprese di cui è stato oggetto. Nel nostro caso però né l’una né l’altra via sono percorribili; eppure la stretta affinità tra i passi segnalati e quelli, corrispondenti, del papiro sussiste. Ché certo, è difficile pensare che Artemidoro di Efeso po-

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tesse, al tempo suo, imitare frasi di Costantino Simonidis o di Eustazio; e altrettanto impensabile è che Eustazio o Simonidis avessero mai a disposizione questo papiro, e nemmeno un qualunque testo di Artemidoro. Dunque ne discende che le affinità e coincidenze non possono che avere un’unica spiegazione: che cioè proprio Simonidis sia l’autore del papiro.

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Il divagante proemio [traduzione] col. I 1

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Chi si accinge ad un’opera geografica deve fornire una esposizione completa della propria scienza dopo avere in precedenza soppesato l’anima in rapporto a tale impegno con volontà ben protesa alla vittoria, e, conformemente al preannunzio e alla forza della virtù, rendersi pronto alle volontà e alle intenzioni dell’anima. Infatti non è una fatica da poco quella in grado di combattere al fianco di questa scienza. Infatti io sono pronto a porla sullo stesso piano della più divina filosofia. Se infatti tace, la geografia parla con i suoi dogmi. E perché non sarebbe possibile? Tante e tali armi di ogni tipo, mescolate tra loro, si porta addosso in vista della fatica della scienza, divenuta faticata. Uno si impegna a darsi

I, 3-4 [tal]anteuvsanta th;n yuchv[n cfr. Greg. Naz., Epist. 12, 2 yuch; metrei`tai kai; ajreth; talanteuvetai; Or. 2, PG 35, 424 B: mh; mikroi`~ staqmoi`~ talanteuvein th;n ajrethvn; Or. 43, 30, 3; Or. 32, PG 36, 189 B | 10-13 e{toimon. Ouj ga;r ejsti;n oJ tucw;n kovpo~ oJ dunavmeno~ th`/ ejpisthvmh/ tauvth/ sunagwnivsasqai cfr. K. Simonidis, Epistolimaia Diatribe, p. 25: e{toimo~ ga;r eijmi; i{na uJpe;r th`~ ejpisthvmh~ poihvsw pa`n o{ti duvnamai | 13-15 paraplhvsion ga;r aujth;n th`/ qeiotavth/ filosofiva/ e{toimo~ eijmi; parasth`sai cfr. Strab. I, 1, 1 | 14 cfr. Iamblich., Protrept., kephal. 3 | 16-17 Eij ga;r siwpa`/ gewgrafiva toi`~ ijdivoi~ dovgmasin lalei` cfr. to; simwnivdeion apud Plut., Quaest. conv. 748A; De aud. poet. 17F; De glor. Athen. 346F | 19 o{pla bastavzei cfr. K. Simonidis, Epistolimaia Diatribe, p. VI: bavro~ ouj duvnamai bastavzein | 22 ejpaggevlletaiv ti~ cfr. Orig., Selecta in Psalmos, PG 12, 1085, 35; Olympiod. Diac., In Ecclesiasten, PG 93, 540, 33 (= 42, 22-23 Boli) | I, 16 geografia P |

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con continue sofferenze, sempre, ai dogmi della filosofia affinché uno di coloro che filosofeggiano degnamente, portando quel peso degno di Atlante, abbia un peso che non affatica e abbracci la propria anima in nulla affaticata né appesantita; ancora di più [scil. si impegna] ad avere propensione per la cosa, mentre la sua anima e volontà non sta per nulla inerte, ad essere insonne guardando tutto intorno, notte e giorno caricandosi la maggior parte dei beni dei precetti. Infatti l’uomo arriva a raggiungere tutte le parti del mondo e si consacra tutto intero alle virtuose ingiunzioni

23-24 sucnai`~ merivmnai~ cfr. Eustath. Thess., Comm. ad Hom. Odyss. II, 224, 19: sucna; merimnw`nta | 26-27 ajtlavnteion fovrton cfr. Eustath. Thess., Comm. ad Hom. Odyss. I, 18, 17-18: uJpelqei`n to;n fovrton dia; filivan, kai; diadevxasqai to;n “Atlanta | 28 ajkopivaton cfr. Ps. Aristot., De mundo 391a 12 | 28-29 ajkopivaton fovrton cfr. Eustath. Thess., Comm. ad Hom. Odyss. I, 17, 23-26: To;n de; “Atlanta... oiJ me;n, ajllhgorou`si eij~ th;n ajkavmaton kai; ajkopivaton provnoian th;n pavntwn aijtivan; K. Simonidis, Epistolimaia Diatribe, p. 25: a{per pollacovqen th`~ gh`~ th`/ sh`/ ajkamavtw/ [...] pronoiva/ | 29-30 prosankalivzht[ai] th;n ijdivan yuchvn cfr. Olympiod., In Platonis Gorgiam 36, 4: th;n yuch;n prosagkalivsasqai; Basil. Caes., Epist. 50, 1; Testamentum Jobi 52, 10 | 33-36 mhde;n hjrem[ouvs]h~ aujtou` th`~ yuch`~ kai; qelhvsew~ pavnta pevrix skopou`nta a[grupnon ei\nai cfr. K. Simonidis, Leipsana Historika: Dei` to;n a[nqrwpon ei\nai ejn panti; e[rgw/ auJtou` a[grupnon… ajndrei`on th;n yuchvn | 35 pavnta pevrix skopou`nta et II, 11-12 th/` uJpokeimevnh/ cwvra/ polla; pevrix cfr. Eustath. Thess., Comm. ad Hom. Odyss. II, 57, 37: periskoph`tai ta; pevrix; K. Simonidis (sub nomine Callinici Ieromonachi), Symmiga: th;n pevrix cwvran (terque quaterque) | 36 a[grupnon ei\\nai cfr. Eustath. Thess., Comm. ad Hom. Odyss. II, 224, 12: a[u>pnon o[nta to;n ’Odusseva | 39-40 “Aplou`tai ga;r oJ a[nqrwpo~ tw`/ kovsmw/ cfr. Anal. Hymn. Graeca, XI, Canon. Iulii, p. 26 | 23 stucnai~ P ? |

33 hjrem[ouvs]h~ vel hjrevm[a t]h~

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delle maestose Muse, affinché il divino sche-

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ma della filosofia, l’uomo santissimo nella virtù, renda. Allo stesso modo anche il geografo, approdato sulla terraferma di un paese e conosciuta la superficie del paese che gli sta intorno e dei paesi che stanno altrove – essendo stato svolto già prima un instancabile pluriennale lavoro – quello [sic] fermatosi si accinge a [ri]conciliare la propria anima con il paese che gli sta sotto gli occhi molto guardando intorno

II, 5-6 gnwrivsa~ to; kuvto~ th`~ perikeimevnh~ cwvra~ cfr. Psalm. 64, 8: oJ suntaravsswn to; kuvto~ th`~ qalavssh~; Manuel. Phil., Carm. V, 52, 20-21: Kai; gnou;~ ajkribw`~ oujranou` pa`san qevsin. Th`~ gh`~ to; kuvto~, th`~ qalavssh~ th;n cuvsin | 12 polla; pevrix blevpwn cfr. Eustath. Thess., Comm. ad Hom. Iliad. I, 748, 25-27: ta; pevrix blevpoi; K. Simonidis, Symmiga, vide supra ad I, 35

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Col. IV, 1-24 [cfr. «APF» 44, 1998, p. 196] 1

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[ajpo; de; tw`n Purhnaivwn ojrw`n e{w~] tw`n k[at]a; Gav[deira tovpwn] kai; [tw']n ejndo[t]evrwi klim[avtwn hJ] suvm[p]asa cwvra sunwnuvmw~ ΔIb[h]riva kai; ÔIspaniva kalei`tai: dih/vrhtai d’uJ[p]o; ÔRwm[a]ivwn eij~ duvo ejparciva~: ka[i;] th`[~] me;n prwvth~ ejsti;n ejparceiva[~] hJ diateivnousa ajpo; tw`n Purhnaivwn [ojrw`n] a{pasa mevcri th`~ K[a]inh`~ Kar[chd]ovno~ kai; Kastolw'[no~ k]ai; tw`n to[u'] Baivtio~ phgw`n: [t]h`~ deutev[ra~] ejsti;n ejparceiva~ ta; mevcri Gadeivrwn kai; ta; kata; th;n Lusitanivan pavnta th;n d’o{lhn peri[gra-] fh;n th`~ cwvra[~] hJ fuvsi~ e[cei toiauvthn. Dievzeucen ga;r hJ P[ur]hvnh th;[n Kel]tik[h;]n kai; th;n ΔIbhr[iva]n kai; to; [me;n e}n pev]ra~ e[ij~ th;n hJ]metevran e[kkeitai cwvran neneuko;~ pro;~ th;n novtion pleura;n th;n meshmbrivan to; d’e{teron pevra~ ajpestrammevnon pr[o;~] a[rktou~ eij~ to;n wjkeano;n kata; polu; probevblht[..]ai.

1-14 cfr. Artemid. fr. 21 Stiehle | 13-14 cfr. Marcian., GGM, I, p. 544, 15: hJ me;n Lousitaniva pa'sa | 14-16 th;n d’o{lhn... toiauvthn cfr. Marcian., GGM, I, p. 544, 3132; p. 546, 40-41 etc.; Ptol. II, 4, 3 etc. | 16-17 cfr. Marcian., GGM, I, 544, 4-6 | 18-24 = Marcian., GGM, I, p. 544, 2-4 | 24-29 cfr. Vatopedi 655, f. 34r 2-3 entoterw P | 5 dieirhtai P et Paris. Gr. 2009, f. 46v | 5-6 rwimªaºiwn P | 67 eparceia" P et Paris. Gr. 2009, f. 46v | 13 luseitanian P hic et V, 5

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Col. V, 1-16 [cfr. «QS» 65, p. 399] 1

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[pa]ravllhlo~. ÔH d’ eJtevra pleurav, perik[e]cum[evnh [tw/'] kata; to;n wjkeano;n pelavgei kai; tai'~ a[rk[toi~ [fev]rousa, parhvkei mevc[r]i pro;~ th;n eJspevran [kai; [sun]avptei th/' trivth/ pl[e]ura/' th/' pe[ri; ta;~ dus[m]a;~ keimevnh/, ejn h|/ thvn te Lusita[nivan kei`sqai sumbevbhken kai; to; legovmenon iJer[o;n ajkrwthvrion kai; tou;~ kata; Gavdeira tovp[ou~. Pro;]~ aujtoi'~ de; toi'~ oJmorou'[si]n th'/ Pur[evnh/ mevr]esin parepevstraptai pro;~ th;n hjw' tin[a t]h'~ ΔIbhriva~ kai; kovlpou perigrafh;n [e]ujmegevqou[~ ajpotelei' parhvkonto~ mevcri [tw']n proded[hl]wmevnwn ojrw'n. Ou|to~ de; kai; sunavptei tw'/ Ga[latikw'/ kovlpw/. Kai; to; me;n o{lon sch'ma th'~ [ΔIbhriva~ ejsti; toiou'ton. Lhyovmeqa de; nu'n to;n [paravploun aujth'~ ejn ejpitomh'/ cavrin tou' kaqolikw'~ nohq[h'nai] ta; diasthvmat[a] tw'n tovpwn.

4-7 th'Û pe[ri; ta;~ dusm]a;~... kata; gavdeira tovp[ou~ cfr. Marcian. GGM, I, p. 543, 10: hJ nh'so~ ejn dexia'/ ta; Gavdeira keimevnh tugcavnei; 544, 15-16: hJ me;n Lousitaniva pa'sa [cfr. col. IV, 13-14: ta; kata; th;n Lusitanivan pavnta] kata; to;n dutiko;n wjkeano;n tugcavnei keimevnh 4 th trith pleura th P | 5 luseitanian P | 8 th P | 9 hwi P | spatium scripturae expers inter hw et tinªa | 10-11 prodedªhlºwimenwn P | 17-45 vix leguntur

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Note I finali di rigo alle linee 7-11 figurano su di una striscia di papiro separata dalla colonna V da una frattura. Le integrazioni qui prospettate intendono mettere alla prova l’ipotesi che si tratti di lettere spettanti alla colonna V. L’integrazione prodedªhlºwi/menwn ai righi 11-12, l’unica che consenta di connettere wi alla linea 11, presuppone erroneo impiego dello iota ascritto1. Ovviamente il senso suggerirebbe anche l’integrazione prodedeigmevnwn. I principali problemi di interpretazione sorgono ai righi 713. In particolare ci si chiede quale sia il soggetto di parepevstraptai e di ajpotelei'. L’ultima parola chiaramente leggibile nel finale del rigo 9 è th;n hjw'i≥; delle successive due lettere si è conservata solo la parte inferiore, verosimilmente tau e iota, cui segue un chiaro ny. Tra hjw'i≥ e queste ultime lettere non c’è traccia alcuna di inchiostro, c’è spazio bianco almeno per un’altra lettera. Se le lettere h~ dovessero considerarsi le finali di questo rigo 9, l’unica integrazione possibile sarebbe t≥i≥n[a2 t]h'~.

rr. 9-10: tina; th'~ ΔIbhriva~ Se il vago tina th'~ ΔIbhriva~ dovesse considerarsi soggetto sia di parepevstraptai che di ajpotelei', il senso della frase sarebbe: «In quei settori, che sono limitrofi3 ai Pirenei, alcune parti dell’Iberia piegano verso oriente e delineano un tratto di un golfo di rilevante 1 La sezione di testo qui in esame offre vari esempi di uso deviante dello iota ascritto: con i dativi femminili, ai righi 4 e 8, questa lettera viene omessa cinque volte. Nella stessa colonna V, poco più sotto, ai righi 19-20, ricorre tarrakwi/na: un caso analogo a prodedªhlºwi/menwn non solo per l’errato iota ascritto accanto all’omega, ma anche perché il fenomeno si verifica in fine di rigo. La medesima circostanza si ripete anche ai righi 5-6 della colonna IV (rwi/maiwn); e sempre al principio della colonna IV (rr. 2-3) l’avverbio ejndotevrw è scritto en/toªtºerwi. L’incoerenza nell’uso di iota ascritto è attestata anche nelle altre colonne di scrittura (per es. I, 6: th qelhseªi). Cfr. comunque GIGNAC 1976, pp. 183-186 e MAYSER 19702, pp. 103-108 (su hi) e pp. 111-114 (su wi). Del resto già Strabone, commentando un’iscrizione, osservava la tendenza da parte di molti copisti a omettere lo iota nel caso dativo: polloi; ga;r cwri;" tou' i gravfousi ta;" dotika;" kai; ejkbavllousi de; to; e[qo" fusikh;n aijtivan oujk e[con (XIV, 1, 41). 2 La lezione tina sembrerebbe confermata anche dalle tracce che la scrittura del recto ha lasciato impresse sul verso, nel punto in cui è disegnato il collo di un grifone (disegno V19). 3 L’avverbio “immediatamente” è implicito in pro;" (o par’) aujtoi'" de; toi'" oJmorou'sin ktl.

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ampiezza, che si sviluppa fino ai predetti monti». Ma questa soluzione appare insoddisfacente da ogni punto di vista. Infatti, l’idea che una parte (ma avremmo comunque bisogno di mevrh accanto a tinav) di una regione pieghi (parepevstraptai) verso una direzione non appare sensata, se non quando si descriva una carta geografica. E comunque lo si potrebbe dire meglio di una costa, di una catena montuosa, di un confine. L’inadeguatezza è ancora più evidente se si considera l’intero contesto. I Pirenei sono stati poco prima descritti come confine tra Spagna e Gallia (col. IV); ora ci verrebbe detto che le regioni della Spagna strettamente a ridosso dei Pirenei piegano verso oriente e giungono fino... ai Pirenei!

r. 1: hJ eJt evra pleurav Resta dunque l’ipotesi che soggetto di parepevstraptai sia hJ eJtevra pleurav. In tal caso ci si chiede se con tina incominci un nuovo periodo. Neanche questa ipotesi è priva di inconvenienti: manca un dev (di norma in seconda posizione) o altro collegamento con il periodo precedente4; manca pur sempre mevrh vel similia; inoltre il kaiv prima di kovlpou non dà un senso soddisfacente. Una traduzione potrebbe essere: «Nelle zone immediatamente adiacenti ai Pirenei la costa settentrionale (hJ eJtevra pleurav) si piega verso est. Alcune della Spagna formano anche (?) un contorno di un ampio golfo che giunge fino ai monti già menzionati». In questo modo si evita il nonsenso delle “regioni adiacenti ai Pirenei che arrivano ai Pirenei”, ma resta oscuro cosa sia mai ciò che «giunge ai Pirenei». Già questo basta a mettere in crisi l’integrazione tºh'~ e sconsiglia di associare quelle due lettere (h~) alla colonna V. E c’è comunque un’ulteriore possibilità da considerare: che cioè si tratti di un unico periodo, il quale ha inizio con pro;~ (ovvero par’) aujtoi'~ de; toi'~ oJmorou'sin ktl. e prosegue fino a ojrw'n (r. 12), il cui soggetto è sempre hJ eJtevra pleurav (come tutto porta a credere), ma che alla linea 9 è interrotto da un guasto, non però sanabile forzando le lettere h~ a entrare a far parte del rigo 95. 4 Non pare verosimile che lo spazio bianco prima di tinav supplisca a questa mancanza fungendo da segno di interpunzione. 5 Alla luce di tutto ciò ci si potrebbe chiedere se la lacuna che interessa i finali dei righi 7-11 della colonna V non vada sanata diversamente da come è stato prospettato. Le lettere ", e, h", wi, situate sulla striscia di papiro posta dagli editori al di là della frattura, potrebbero in tal caso spettare a un’altra colonna (che convenzionalmente chiamiamo “VI”), della quale si sarebbe salvato solo questo brandello.

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Per concludere proponiamo una traduzione il più possibile aderente al greco della frase successiva (rr. 13-16), che introduce lo stadiasmòs cui è riservato il resto della colonna V: «Tale è la forma complessiva (to; o{lon sch'ma) della Spagna. Ora considereremo in epitome (ejn ejpitomh/') il suo periplo, affinché siano pensate (nohqh'nai) in generale (kaqolikw'~) le distanze dei luoghi». Al di là della spericolata formula secondo cui le distanze «vengono pensate», e per giunta kaqolikw'~, non è possibile non vedere che qui è preannunziata una «epitome»6. (Stefano Micunco)

r. 22: ejpi; Karchdovna th;n nevan Di queste parole si leggono le lettere ej[piv], t[hvn], nev[an]. L’integrazione Karchdovna si rende necessaria per la ripresa del toponimo al rigo successivo (apo; de; th'" Karchdovno" ktl): cfr. anche KRAMER 2005, p. 26. 1) Come denominazione della colonia cartaginese fondata da Asdrubale Barca, Neva Karchdwvn (latino Nova Carthago) è ampiamente attestata in ambito greco (Diodoro Siculo, XXV, 12, 1; Strabone, III, 2, 10 etc.; Plutarco, Sert., 7, 4; Tolomeo, Geogr., II, 6, 14; VIII, 4, 5). Per altri il nome è semplicemente Karchdwvn, anche privo della specificazione «che si trova in Iberia» (Nicola di Damasco, FGrHist 90 F 127, 25-26; Appiano, Ib., 320, il quale conosce la città anche con l’appellativo di Spartagenhv" [Ib. 47]; Cassio Dione, XLIII, 30, 1, XLV, 10, 3)7. 2) Infatti, come precisa Polibio qualche decennio prima di Artemidoro, la città si chiamava Karchdwvn come la madrepatria o, in alternativa, Kainh; povli" (fenicio Qart-h.adasˇat)8: thvn te para; mevn tisi Karchdovna, para; dev tisi Kainh;n povlin prosagoreuomevnhn (II, 13, 1)9. Cfr. inoltre Ateneo, III, 121A: kata; Karchdovna th;n kainh;n povlin (citando 6 Tina; th`~ ΔIbhriva~ è sintatticamente una zeppa che interrompe una unica frase il cui soggetto è la deutevra pleurav. (Potrebbe essere una nota marginale, un titulus di questo «estratto», «qualcosa sulla Spagna», penetrato nel testo). Notevole indizio del disagio è il fatto che Gulletta (Le tre vite, p. 105, col. 1) e KRAMER (2006, p. 101) intendano in modo opposto tina; th`~ ΔIbhriva~: per Gulletta è la deutevra pleurav, cioè la costa settentrionale, e quindi il golfo è il golfo di Biscaglia; per Bärbel Kramer è quella mediterranea, cui con un bel balzo si tornerebbe ex abrupto, e in tal caso il golfo sarebbe il golfo di Leon. Ma in questo secondo caso sarebbe incomprensibile come possa la costa mediterranea della Spagna «piegarsi in direzione est». Complimenti alla Gulletta. (Luciano Canfora) 7 Cfr. ancora Plutarco (ps.), Mor. 196B; Dioscoride, De materia medica III, 60 (= Oribasio, Collectiones medicae XI K, 41); Zonara, VIII, 19. 8 Carthago = nova civitas in Livio, fr. 4 Jal. 9 Si veda il commento dell’editore teubneriano Th. Büttner-Wobst, IV, pp.

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la trattazione straboniana di Neva Karchdwvn in III, 4, 6 ss.), e Stefano di Bisanzio, voci ΔAlqaiva: Karchdovno" h}n ejkavloun kai; Kainh;n povlin10, e Karchdwvn: e[sti de; kai; a[llh Karchdw;n povli" ΔIbhriva", ejkalei'to de; kai; aujth; kainh; povli". 3) Unicamente in Costantino Porfirogenito, D.A.I. 23, la colonia iberica viene denominata Kainh; Karchdwvn (mevcri th`~ Kainh`~ Karchdovno~). È un ulteriore indizio della provenienza dall’Epitome marcianea del fr. 21 Stiehle? Cfr. infra il cap. IX, Le molte vite del fr. 21 di Artemidoro. 4) In ogni caso una indagine completa consente di affermare che nessuna fonte adopera contemporaneamente entrambi i toponimi, cioè tanto kainhv che neva come epiteti di Karchdwvn. Ciò avviene soltanto nel cosiddetto “papiro di Artemidoro”: Kainh; Karchdwvn ricorre nella colonna IV, rr. 9-10, dove il modello è il fr. 21; più oltre s’incontra appunto Karchdw;n hJ neva (col. V, r. 22), in un contesto dove è riecheggiato Strabone III, 4, 1 fasi; d’ajpo; me;n Kavlph" tou' kata; sthvla" o[rou" ejpi; Karchdovna nevan discilivou" kai; diakosivou" stadivou" (nel papiro la distanza tra Calpe e Nuova Cartagine è di poco inferiore, 2020 stadii; cfr. KRAMER 2006, p. 102, che tuttavia tacitamente uniforma le due varianti e scrive ogni volta «Kainè Karchedon»). (Giuseppe Carlucci)

XXVIII-XXIX (lo stesso Büttner-Wobst espunge come interpolata la frase th;n Kainh;n povlin e[nioi Nevan Karchdovna kalou'sin in Polibio, III, 39, 6). 10 Per la dipendenza da Polibio cfr. BILLERBECK 2006, p. 148.

Parte seconda IL NUOVO PAPIRO

IV OSSERVAZIONI BIBLIOLOGICHE SUL NUOVO ARTEMIDORO* di Rosa Otranto

1. Unicum Il cosiddetto papiro di Artemidoro [MP3 168.02] costituisce, sotto molti rispetti, un unicum. Di un’opera a oggi nota solo attraverso la tradizione indiretta sono stati recuperati ampi stralci su papiro, e proprio uno di essi (quello tramandato all’inizio della col. IV) ne ha reso possibile l’attribuzione. A riemergere è stato, infatti, tra gli altri, il brano artemidoreo più lungo e circostanziato che si sia conservato all’interno di altre opere (fr. 21 Stiehle). E dunque in ogni caso si tratta di una (ulteriore) testimonianza della fortuna che tale frammento ha conosciuto. Il rotolo, di notevoli dimensioni, recuperato, a quanto pare, dallo smontaggio di un cartonnage (vedi infra, § 4), era per di più illustrato: si possono osservare, infatti, a corredo del testo, una carta geografica – l’unica del genere che si sia conservata dall’antichità – e sempre sul recto, ma senza che esista alcun comprovato rapporto con il testo geografico, volti e schizzi di parti anatomiche: si tratta di un’assoluta novità. Sul verso, un “bestiario”, un repertorio di animali reali e fantastici: anche in questo caso si tratta dell’unica raccolta di questo tipo che ci sia pervenuta su di un papiro, cui gli editori hanno attribuito una datazione così alta. * Le riflessioni che seguono si fondano sui dati rivenienti da: GALLAZZI-KRA1998, pp. 189-208; e da Tre vite. Altri contributi degli editori sul papiro: KRA2000; KRAMER 2001; KRAMER 2005; KRAMER 2006.

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2. Le tre vite Per questo singolare reperto è stata proposta la seguente interpretazione1. [Prima vita.] «Il testo fu copiato sul papiro nei decenni immediatamente successivi alla metà del I sec. a.C., come rivela la scrittura [...]. Il copista operò in modo tale che sul papiro potessero figurare tanto il testo, quanto le carte relative ad esso. Quindi scelse un rotolo alto cm 32,5, cioè ben più della media dell’epoca, affinché il formato più grande agevolasse la riproduzione delle mappe; e trascrisse il testo lasciando dentro di esso degli ampi spazi in bianco destinati ad accogliere le carte. Ne lasciò uno dopo la colonna III, dove terminava il proemio, e un secondo dopo la colonna V, dove si concludeva il periplo della penisola. [...] Una volta che il testo del libro fu trascritto, il rotolo venne trasferito nell’atelier di un pittore, affinché qualcuno, esperto di disegno, lo completasse, inserendovi le carte nelle aree lasciate appositamente in bianco. E, in effetti, una persona dell’atelier cominciò a tracciare una prima mappa nel riquadro posto dopo il proemio, vale a dire dopo la III colonna. [...] Evidentemente il disegnatore interruppe il suo lavoro mentre era in pieno svolgimento: non completò la carta che stava tracciando, e non cominciò neppure ad abbozzare le altre; il secondo spazio libero, quello dopo la colonna V, rimase completamente in bianco e solo a distanza di anni fu riempito di schizzi senza relazione alcuna col testo di Artemidoro. Perché mai il lavoro fu interrotto? [...] Evidentemente il disegnatore incorse in un errore: anziché riprodurre la carta giusta, cioè la prima del rotolo che aveva davanti come modello, cominciò a copiare la seconda o una di quelle successive [...]. Accortosi dello sbaglio, interruppe il suo lavoro ed eventualmente cercò di porre rimedio alla spiacevole situazione creatasi. [...] Cosa sia realmente accaduto, a noi non è dato di sapere; è certo, comunque, che dopo lo sbaglio il disegnatore non continuò la riproduzione delle carte, perché il papiro non interessava più come manoscritto contenente una parte della Geographia di Artemidoro: aveva perso la sua funzione di libro prima ancora che la realizzazione fosse ultimata. Così si chiuse la prima fase dell’esistenza del rotolo». [Seconda vita.] «Il papiro, però, non fu bruciato, né venduto come carta straccia, né gettato su un cumulo di pattume: fu conservato nell’atelier del disegnatore con l’intento di poterlo prima o poi reimpiegare. Per qualche tempo il rotolo restò in una cassa, dentro una giara o su uno scaffale, fin1 I brani che seguono sono di GALLAZZI 2006, pp. 17-19. La teoria delle tre vite, tuttavia, è stata sposata anche da Bärbel Kramer, in GALLAZZI-KRAMER 1998, e da SETTIS 2006.

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ché il titolare della bottega, o qualcuno dei suoi collaboratori più provetti, lo recuperò e lo riutilizzò sul verso, che era rimasto completamente in bianco. Con la mano sicura e con l’accortezza di chi aveva esperienza alle spalle, vi disegnò sopra una serie di bestie [...]. Non passarono molti anni fra il momento in cui il testo di Artemidoro fu copiato, e quello in cui il rotolo fu riutilizzato nell’atelier per realizzare il bestiario. Questo era un repertorio da impiegare per la preparazione di cartoni per affreschi o mosaici, oppure da utilizzare per l’esecuzione di disegni quadrettati simili a quelli del P.Berol. inv. 13558 [...], che costituivano la base per realizzare figure ingrandite su pareti o pavimenti. Nello stesso tempo, però, la serie dei disegni poteva pure costituire un comodo campionario, su cui mostrare alla clientela della bottega i soggetti riproducibili a mosaico o a fresco, dando al committente la possibilità di scegliere in un ricco assortimento di figure. Così il papiro iniziò la seconda fase della sua esistenza dentro la bottega di un pittore, dove passava dalle mani del maestro a quelle degli assistenti e degli allievi, che se ne servivano per il lavoro, e dove all’occorrenza era srotolato sotto gli occhi dei clienti, che contemplavano i disegni e li commissionavano per i mosaici o gli affreschi delle loro dimore». [Terza vita.] «Mentre ancora svolgeva la duplice funzione di prontuario per la bottega e di campionario per la clientela, il rotolo fu riutilizzato per la seconda volta. Benché già portasse il testo di Artemidoro e il grande bestiario, il papiro aveva ancora degli spazi intonsi, che si prestavano a qualche impiego. Se il verso era tutto coperto dagli animali, il recto aveva l’agraphon iniziale vuoto, come era di prassi, e soprattutto presentava in bianco gli ampi tratti lasciati vuoti dentro il testo per l’inserimento di quelle carte, che non erano mai state tracciate. Di questi spazi disponibili si servirono i giovani della bottega, per eseguire le loro esercitazioni grafiche, cioè per copiare particolari anatomici di statue, o di calchi di statue [...], ovvero per copiare modelli di arti [...]. Così nell’agraphon, che precede il testo di Artemidoro, troviamo le copie di due teste; mentre nello spazio che era rimasto vuoto dopo la colonna V, abbiamo i disegni di altre quattro teste e quelli di una quindicina di piedi e di mani in varie positure. [...] I giovani della bottega eseguirono i loro esercizi in un momento imprecisato, ma di certo non molto addentro il I secolo d.C.; infatti, quando essi disegnarono sul recto, il papiro, con le bestie del verso, serviva ancora come repertorio e prontuario».

3. Tre vite? Questa ricostruzione, che nella formulazione degli autori presenta a tratti le sembianze di un racconto, non è priva di punti oscuri e, soprattutto, richiede una serie di osservazioni.

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Innanzi tutto, ritenere che tutto quello che a pezzi, o per meglio dire a brandelli, si è conservato ed è fortunosamente giunto fino a noi, sia tutto quello che ab origine fosse stato copiato, a noi appare, da un punto di vista metodologico, quanto meno ardito: accade così che – nella ricostruzione degli editori – le prime tre colonne sono il proemio, cioè l’intero proemio2, e non ad esempio una parte di esso (è peraltro lecito domandarsi di che tipo di proemio si tratti); e questo nonostante solo la colonna I sia quasi integra – ancorché oscura –, mentre le altre due siano estremamente frammentarie e per di più staccate dallo spezzone di rotolo più grande, quello cioè che contiene la carta, le colonne IV e V, e gli schizzi anatomici. Quindi ci chiediamo come si possa affermare che con «la colonna III [...] terminava il proemio», con la IV cominciava la descrizione vera e propria della Spagna, e con la colonna V «si concludeva il periplo della penisola»3. Inoltre risulta difficile intuire, tra le altre cose, come si possa ricostruire che «quando i giovani della bottega disegnarono sul recto, il papiro, con le bestie del verso, serviva ancora come repertorio e prontuario»4; come si può affermare che il papiro dopo la cosiddetta “prima vita” non fu dismesso, gettato, venduto etc.; come si può affermare con sicurezza che questo fosse un «repertorio da impiegare per la preparazione di cartoni per affreschi o mosaici, oppure da utilizzare per l’esecuzione di disegni quadrettati [...], che costituivano la base per realizzare figure ingrandite su pareti o pavimenti»5, se di tutto questo non abbiamo nessuna attestazione né letteraria, né per così dire documentaria o documentabile. E molto altro potremmo aggiungere. Da semplice ipotesi di lavoro le Tre vite sono diventate la vera storia del papiro di Artemidoro, una storia in cui pochi dati e innumerevoli ricostruzioni congetturali si fondono6.

GALLAZZI 2006, p. 16. Ivi, p. 18. 4 Ivi, p. 19. 5 Ivi, p. 19. 6 Una tale storia è giustamente diventata un romanzo: FERRERO 2006a e FERRERO 2006b. 2 3

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4. La maschera Il papiro in origine era inserito «in un ammasso di papier-mâché fabbricato con papiri divenuti obsoleti, buttati al macero e riciclati»7, ovvero ‘impastato’ insieme a una ventina di documenti in «una maschera funeraria egiziana in “cartapesta”»8: tipologia di ritrovamento, quest’ultima, pressoché eccezionale. Le modalità dell’esportazione in Europa della maschera, dall’Egitto, non sono conosciute9. Si apprende al più che essa appartenne, all’inizio del Novecento, alla collezione di antichità di Khashaba Pasha, il chiacchierato fondatore del Museo di Asyut. Si apprende inoltre che la maschera, una volta in Europa, «passò per varie mani»10, fino a entrare a far parte della raccolta privata di un collezionista e che costui, accortosi che «il cartonnage conteneva papiri iscritti e figurati»11, la fece smontare e restaurare. Anche di questa fase della storia del reperto poco si sa: non è noto, infatti, chi abbia compiuto l’operazione di smontaggio della maschera, né sono mai state divulgate fotografie di essa («Archiv», Mostra, Catalogo Tre vite). Quanto al restauro, nel 1998, al momento in cui Claudio Gallazzi e Bärbel Kramer redassero un «Vorbericht» dello studio del papiro, i cinquanta frammenti riconducibili al rotolo letterario erano già stati organizzati in quattro parti12. Si vorrebbe naturalmente conoscere la «condition nécessaire» che Alain Blanchard segnala per lo studio dei papiri estratti da cartonnages, e cioè «la disposition exacte des papyrus dans les cartonnages de momie»13. 7 GALLAZZI 2006, p. 16. Nella descrizione apparsa su «Archiv», del rotolo si dice che è costituito da numerosi frammenti, i quali «mit griechischen dokumentarischen Papyri zu einem Konglomerat zusammengeklebt waren»: GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 190. 8 Cfr. S. Settis, Il papiro di Artemidoro di Efeso: una mappa di duemila anni fa, «Il Sole 24 Ore, Domenicale», 10 ottobre 2004, p. 43, il quale in Tre vite (p. 63) parla di «materia bruta per papier-mâché». 9 Sappiamo solo che essa fu «esportata legalmente dall’Egitto nel 1972» (Settis, Il papiro di Artemidoro di Efeso, cit.) e giunse nelle mani di un anonimo collezionista di nazionalità tedesca. 10 GALLAZZI 2006, p. 16. 11 Settis, Il papiro di Artemidoro di Efeso, cit. 12 Die physische Beschreibung der Papyrusrolle, in GALLAZZI-KRAMER 1998, pp. 191-193. 13 BLANCHARD 1993, p. 30.

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Il restauro del papiro è stato completato nel Laboratorio di Papirologia dell’Università di Milano, dopo che, nel 2004, esso fu acquistato dalla neonata «Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo». L’«ammasso di papier-mâché», nella forma di «Konglomerat», ovvero nella forma di cartonnage o di «maschera», ha dunque restituito duecento frammenti di papiro, cinquanta dei quali riguardanti l’«Artemidoro»; gli altri centocinquanta – ricostruiscono gli editori – hanno permesso il recupero di venticinque documenti che da ultimo sono stati acquisiti dal Centro di Papirologia “Achille Vogliano” dell’Università di Milano14. 5. I documenti I venticinque documenti, ormai restaurati, risalgono «all’epoca che va dal regno di Nerone a quello di Domiziano»15, dunque al più tardi sono da collocarsi entro la fine del I sec. d.C. Si tratta di «circolari amministrative e pratiche concernenti l’efebia, verbali di processi e contratti di varia natura, conti e ricevute»16 riconducibili, per la maggior parte, all’area di Antaeupolis (nell’Alto Egitto, l’odierna Qawel-Kebir), o al suo distretto Antaeupolites; «almeno due» dei documenti provengono da Alessandria. Questo, tra l’altro, ha suggerito agli editori l’ipotesi, che però appare debole, in quanto priva di ulteriori riscontri, che anche il rotolo di Artemidoro possa essere stato prodotto «nel maggior centro culturale del paese, vale a dire Alessandria»17. È un vero peccato che nessuno di questi documen14 Un importante incitamento all’acquisizione dei papiri documentari venne proprio da Salvatore Settis, nel saggio dell’ottobre 2004, Il papiro di Artemidoro di Efeso, cit.: «i papiri documentari (una ventina) che facevano parte, col nostro rotulo, di uno stesso cartonnage sono restati, invenduti, presso lo stesso mercante (mentre qualche anno fa facevano parte dello stesso lotto di vendita). Essi costituiscono l’unico “contesto archeologico” noto di un papiro tanto importante, danno informazioni insostituibili sul suo luogo di provenienza e sulla sua data. C’è dunque da augurarsi che vengano anch’essi acquistati e ricongiunti al prezioso papiro di cui hanno per due millenni condiviso la sorte». 15 Herkunft und Datierung, in GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 190. 16 GALLAZZI 2006, p. 16. 17 Ibid. Anche altrove viene ipotizzato che il rotolo artemidoreo possa essere stato prodotto ad Alessandria: cfr. GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 191: «Was ihre Herkunft betrifft, so geht aus der Fundmasse lediglich hervor, daß sie sich zuletzt

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ti, i quali costituirebbero «l’unico “contesto archeologico” noto di un papiro tanto importante»18, sia stato esibito alla Mostra – peraltro ricchissima di documentazione –, neanche in fotografia. 6. Il papiro di Artemidoro I cinquanta frammenti letterari ottenuti dallo smontaggio del cartonnage erano «in qualche caso scampoli di 30 o 40 centimetri, più frequentemente frammenti di una decina di centimetri e spesso briciole delle dimensioni di un’unghia»19. Essi, una volta restaurati, hanno restituito, sul recto cinque colonne20 di varie dimensioni e in diverso stato di conservazione, vergate in una maiuscola libraria talora apicata, datata dagli editori alla metà del I sec. a.C.21 e intercalate da una mappa geografica, disegni di volti (cinque piuttosto ben conservati e i resti di un sesto) e schizzi di parti anatomiche (mani e piedi); sul verso animali, reali e fantastici, accompagnati dall’indicazione dei rispettivi nomi22. in Antaiupolis befunden hat. Sie könnte auch anderswo – etwa in Alexandria – bearbeitet und von ihrem Besitzer nach Antaiupolis gebracht worden sein»; e KRAMER 2001, p. 115. 18 Settis, Il papiro di Artemidoro di Efeso, cit. 19 GALLAZZI 2006, p. 16. 20 Sulla base della presenza di lettere che figurano alla destra della col. V, all’altezza dei righi 7-11, e constatata la problematicità di una eventuale connessione di tali lettere con i righi 9 e 11 della colonna V, Canfora ha ipotizzato che esse potessero appartenere a un’ulteriore colonna di scrittura, la VI, poi andata persa («QS», 64, p. 56). Analogo fenomeno si nota all’altezza dei righi 38-41. Ma su tutto ciò, vedi supra, Note alla Proekdosis, nota 5. L’originaria contiguità dell’ultimo spezzone di Teil III (vedi infra, § 7), l’agraphon successivamente ricoperto di disegni di mani, piedi e volti, con la col. V può essere revocata in dubbio. Né i disegni sul verso aiutano a dirimere la questione. Del resto così si esprimevano GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 193: «Ein Fragment, das Zeilenenden aus Kol. V enthält, beweist, daß die Skizzen auf den Text folgen». 21 Gli editori datavano la scrittura sulla base del confronto paleografico effettuato su singole lettere o gruppi di lettere, pur ammettendo che: «eine gleiche literarische Hand haben wir nicht gefunden» (GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 190). 22 La scrittura delle didascalie del verso, «una scrittura da libro, ma non certo calligrafica», è stata datata, «sulla base dell’analisi paleografica [...], al regno di Augusto, più ai decenni del I secolo a.C., che a quelli del I secolo d.C.» (GALLAZZI 2006, p. 19). Cfr. anche GALLAZZI-KRAMER 1998, pp. 190-191: qui viene ipotizzato che la scrittura, datata al più tardi all’incirca agli inizi del I sec. d.C., sia stata redatta dalla mano di uno scriba «ungeübt», probabilmente nella persona del disegnatore degli animali.

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7. Osservazioni bibliologiche Nel catalogo Le tre vite del Papiro di Artemidoro si legge: «Si sono ottenuti uno scampolo di una quarantina di centimetri e una striscia lunga 2 metri, l’estremità sinistra della quale è costituita da un frammento di 10 centimetri, che non è direttamente collegato, ma che è collocabile in quella posizione sulla base del contenuto. [...] Complessivamente, quindi, si è recuperato un tratto del manufatto originario che è alto cm 32,5; è lungo all’incirca m 2,55 ed è diviso in due pezzi, uno di cm 41,5 l’altro di cm 200,5, da una lacuna ampia cm 13,5, cioè tanto quanto un foglio»23. Rimane oscura l’ultima frase, dal momento che è d’uopo chiedersi come sia stato possibile, sulla base dei dati a disposizione, ricostruire «una lacuna ampia cm 13,5»: non siamo in grado, infatti, di valutare quanto papiro, e dunque quanta parte di testo (o, se si vuole, il contrario: quanta parte di testo, e dunque quanto papiro), sia andato perduto tra la col. III e il resto del rotolo. Né soddisfa la descrizione (o spiegazione) che Gallazzi fornisce subito dopo: «Sempre seguendo il contenuto e osservando i bordi regolari delle fratture, apertesi in corrispondenza delle kolleseis [...], si può anche dire che fra il primo pezzo e la striscia più lunga probabilmente si è perduto soltanto uno dei fogli che formavano il rotolo». Nel saggio apparso su «Archiv» Gallazzi-Kramer più correttamente si limitavano ad osservare che la larghezza della col. III «ist unbekannt, weil das Kollema fast vollständig verloren ist. Es besteht keine Verbindung zu Teil 3» (p. 192). L’ultima parte della succitata ricostruzione rischia inoltre di essere fuorviante, dal momento che il cosiddetto primo pezzo non è un unico pezzo e non è largo cm 41,5: tale misura è stata ottenuta sommando, ben singolarmente, la larghezza del primo spezzone, pari a cm 27,5, con quella del secondo, costituito da tre piccoli frammenti24. Nell’articolo del 1998, più correttamente, si legge che il primo spezzone [Teil I] consiste in un frammento più grande (largo cm 27,5 e alto cm 32,5) contenente l’agraphon (con due ritratti) e la colonna I; la seconda parte [Teil II] riporta tre frammenti appartenenti riGALLAZZI 2006, p. 16. Anche l’illustrazione del rotolo, in Tre vite, p. 142, avrebbe dovuto essere più chiara: i due pezzi (Teil I e Teil II) sono accostati quasi senza soluzione di continuità, lì dove invece altrove sono state mantenute in proporzione le distanze. 23 24

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spettivamente alle colonne II e III (a) e alla colonna II (b e c25). Dopo le coll. I-III e prima dello spezzone più lungo, un ulteriore frammento è stato posizionato «sulla base del contenuto»26 (carta geografica). La terza parte (Teil III) contiene la carta geografica (ampia più di cm 93,5 e ricostruita da più di venti frammenti27), le coll. IV e V, e lo spezzone con schizzi di mani, piedi e altri volti (quest’ultimo largo cm 70). Il quarto pezzo (Teil IV, cm 11 x 12), infine, contiene un altro disegno, la testa di un giovane28. Il verso è interamente coperto di disegni. Sulla base della ricostruzione presentata nel 1998, è possibile fare alcune osservazioni. Il papiro, mutilo all’inizio e alla fine, è alto ca. cm 32,529 e consta di sedici kollemata30, la cui ampiezza, oscillando tra cm 12,5 e cm 15, è da considerarsi piuttosto regolare31. Il papiro, come si è detto, conserva sul recto cinque colonne di scrittura, due delle quali (la II e ancor più la III) molto mutile. L’a25 La posizione di c, successivamente, è stata chiarita meglio, come si evince dalla riproduzione in Tre vite, p. 142. 26 GALLAZZI 2006, p. 16. 27 KRAMER 2001, p. 115. 28 Die physische Beschreibung der Papyrusrolle, in GALLAZZI-KRAMER 1998, pp. 191-193. Cfr. anche KRAMER 2001, p. 115. 29 Per quel che riguarda il formato del rotolo, quello di Artemidoro apparterrebbe al «Groupe A» codificato da BLANCHARD 1993, p. 24, che annovera solo il P.Heid.Siegmann 206 contenente Senofonte, Memorabili I,3,7-13 (MP3 1557). Dal più recente e documentato studio di JOHNSON 2004 viene la conferma che si tratta di un’altezza non comune, che tra i papiri ossirinchiti assunti come campione in tale studio sembra ricorrere con misure nel complesso comparabili alle nostre solo una volta: si tratta di P.Oxy. XI, 1376 (Brit.Libr. inv. 2445 = P.Lit.Lond. 107), datato alla metà del II-metà del III sec. d.C., [MP3 1531], che riporta brani del VII libro di Tucidide (54-68, 2; 72, 1-73, 3; 78, 5-6; 79, 5-6; 80, 2-82, 3). 30 Escluso il Teil II, per il quale, sulla base dei dati a nostra disposizione, si può ricostruire la perdita di almeno due kollemata. 31 I dati relativi alle kollhvsei~ si possono leggere nell’articolo di GALLAZZIKRAMER 1998, pp. 191-193. Nel Teil III, sulla parte ampia cm 70, sono state riconosciute cinque kollhvsei~, la quarta delle quali a una distanza irregolare rispetto alle altre. In corrispondenza di essa, infatti, a causa di una rottura del kovllhma e della successiva riparazione, mal eseguita, il foglio misura cm 13 nella parte superiore e cm 12 in quella inferiore: «In quel punto due kollemata adiacenti si erano parzialmente staccati e qualcuno richiuse la kollesis in maniera maldestra, sovrapponendo eccessivamente i bordi dei due fogli; così la figura di un animale sul verso e quella di una testa sul recto si trovarono entrambe parzialmente coperte» (GALLAZZI 2006, p. 19). Cfr. anche GALLAZZI-KRAMER 1998, pp. 193 e 205. Gli effetti della riparazione mostrano che il rotolo si spezzò quando era già ricoperto di disegni, sia sul recto che sul verso.

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graphon iniziale32, largo all’incirca cm 15, tramanda l’illustrazione di due volti, uno disegnato frontalmente e l’altro di profilo. È utile interrogarsi sulla funzione di tale agraphon. Era forse destinato a ricevere il titolo, come sembrano suggerire altri casi simili?33 O era destinato a rimanere bianco, come si potrebbe ugualmente dedurre dall’esistenza di esempi analoghi?34 L’esistenza di diverse tipologie librarie costituisce per noi l’esemplificazione di come la prassi editoriale antica fosse variegata e non riconducibile a un’unica norma. Si aggiunga che, in assenza di riscontri oggettivi, nulla impedisce di pensare che si tratti di un agraphon (o di una sezione di agraphon) non iniziale, analogo a quello successivo alla col. V35. (Una implicazione di ciò potrebbe essere che precedevano altri brani con letteratura geografica, o forse altri estratti)36. 32 Gli editori sostengono, con una ricostruzione un po’ involuta, che in origine prima dell’agraphon dovesse esserci almeno anche il protokollon (GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 191). In realtà, stando alle nostre conoscenze sulla prassi libraria antica, la presenza del protokollon non è cogente. Si veda almeno BASTIANINI 1995, pp. 33-36: «Il protocollo è un foglio di papiro, in genere non molto esteso in ampiezza rispetto all’altezza, che può trovarsi incollato sulla sinistra del primo kollema di un rotolo; la sua caratteristica è quella di presentarsi con le fibre disposte perpendicolarmente rispetto a quelle del resto del rotolo: verticali dalla parte del recto, orizzontali dalla parte del verso. Non è frequente constatare la presenza del protocollo in un rotolo letterario» (pp. 33-34). Né abbiamo elementi che ci permettano di ricostruire con certezza l’originaria presenza del protocollo in questo rotolo. 33 Esempi di agrapha iniziali con titoli sono discussi, ad esempio, da BASTIANINI 1995, pp. 27-28. Cfr. anche CAROLI 2007, pp. 52-57. 34 Si sono conservati anche agrapha iniziali bianchi, che non presentano cioè traccia di titolo: almeno in un caso fra quelli discussi da Bastianini, come nel papiro di Artemidoro, l’agraphon pressoché coincide con il primo kovllhma (P.Lit.Lond. 25 = Pack2 953, del II-III sec. d.C., con parti di Iliade S): cfr. BASTIANINI 1995, pp. 29-33. 35 Potremmo, ad esempio, essere dinanzi a una situazione analoga a quella visibile nel cosiddetto Papiro Arden di Iperide (P.Lit.Lond 132=MP3 1233), dove si può ricostruire la presenza di un agraphon interno: esso si trova subito alla destra dell’ultima colonna di scrittura dell’orazione ÔUpe;r Lukovfrono~ (col. XVI), prima che cominci l’orazione ÔUpe;r Eujxenivppou (col. XVII). 36 Questo – tra l’altro – aiuterebbe a comprendere la distanza, che è di prima evidenza, sul piano del contenuto tra quanto è scritto (almeno) nelle coll. I-II e quanto si legge nelle coll. IV-V: da una parte un brano che ha tutta l’aria di essere il proemio generale di un’opera geografica (con i suoi enunciati e i suoi dettami metodologici), un «magniloquente proemio» come è stato per l’appunto definito, dall’altra una sezione, anche piuttosto contratta, di quel che tramite «tradizione “indiretta”, ma pregevole» ci risulta essere appartenuto al II libro dei Geographoumena di Artemidoro.

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Alla destra dell’agraphon è vergata la col. I, regolare e, se si eccettuano le prime 9 linee, più lacunose, piuttosto ben conservata. Ampia cm 10-10,5 e alta ca. cm 27,5, essa riporta 44 stivcoi. Si rilevano, inoltre, i margini superiore (ca. cm 2), inferiore (cm 3), e l’intercolumnio. Della col. II si è tramandata, in diverso stato di conservazione, la parte centrale e finale delle prime 28 ll. di scrittura, il margine superiore (di cm 2,5) e l’intercolumnio (di ca. cm 2). La parte iniziale delle prime linee di scrittura, tuttavia, si può parzialmente ricostruire grazie all’impronta che ne è rimasta depositata sul verso (vedi infra, § 9), la quale permette altresì di ricostruire l’ampiezza della colonna, anch’essa pari a cm 10-10,5. Della col. III, tramandata – come si è osservato – dallo stesso fr. a del Teil II, si è conservata la parte iniziale delle prime 13 ll. di scrittura e il margine superiore (di cm 2,5). La col. IV, mutila nella parte superiore e, limitatamente alla parte destra, inferiore, con qualche lacuna nella parte centrale, è ampia cm 13 e riporta 38 stivcoi; il margine superiore si è conservato solo in parte, quello inferiore è pari a cm 2,5. Lo spazio tra la colonna IV e la V misura ca. cm 2. La col. V, con i suoi 45 stivcoi, alquanto frammentaria nella parte centrale e inferiore, è ampia cm 16 (il margine superiore è di cm 2,5) e pertanto risulta essere decisamente più larga delle coll. I-II (ampie cm 10-10,5) e IV (ampia cm 13). Nel suo insieme essa presenta tratti di maggiore irregolarità rispetto alle altre due colonne che si possono assumere a paragone, e questo non solo in relazione alla larghezza: l’interlinea sembra ridursi progressivamente man mano che ci si avvicina al finale di colonna, l’impaginazione di conseguenza appare più serrata e, a fronte della stessa altezza del rotolo (a quanto pare), il margine inferiore assente: quasi che il copista, resosi conto che l’impaginazione fin lì adottata non gli avrebbe consentito di copiare quanto doveva, ne avesse adottata un’altra (colonna ben più larga e interlinea più stretto). Se, anche in questa sezione, l’altezza del rotolo è pari a cm 32,5, la situazione che si può osservare in fine colonna è, da ogni punto di vista, anomala. Le spiegazioni che si possono addurre sono almeno due. La prima: il copista ha sfruttato tutto il margine inferiore che aveva a disposizione, anche se in nessun altro luogo del papiro si verifica una presentazione del genere, e comunque già la sola osservazione di questo fenomeno – unitamente alle altre irregolarità che si possono osservare da un punto di vista bibliologico – dovrebbe impedire di parlare di «edizione di lusso» (vedi infra, nota 39). La seconda: c’era anche il margine inferio-

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re ma si perse successivamente; in tal caso saremmo di fronte a uno spezzone di rotolo di altezza diversa, con tutte le implicazioni che questo fenomeno avrebbe sul presupposto dell’unità del manufatto. Se poi si guarda al testo greco, oltre ai numerosi rilievi linguistici e stilistici che sono stati fatti37, la col. V, così sintetica, così sommaria, sembra un brogliaccio, un insieme di appunti da sviluppare38, o, per converso, il frutto di un lavoro di epitomazione già avvenuto. L’impressione d’insieme è che, man mano che ci si allontana dalla col. I, la compiutezza tipica del prodotto librario venga meno: la sensibile oscillazione nei formati delle selivde~ – la larghezza varia dai cm 10-10,5 delle coll. I-II, ai cm 13 della col. IV, fino ai cm 16 della col. V; il numero di stivcoi va dai 44 della col. I, ai 38 della IV, ai 45 della col. V – all’interno di uno stesso rotolo/libro (secondo l’ipotesi di Gallazzi-Kramer-Settis), per di più nel volgere di così poche colonne è, a nostra scienza, quanto meno rara. Tanto più se davvero si trattò di “edizione di lusso”39. 8. Raffigurare il mondo? Come si è detto, il Teil III contiene una carta geografica, le coll. IV e V, e lo spezzone con schizzi anatomici. Sullo schizzo geografico si può osservare che, oltre a porre seri problemi di identificazione perché non è affatto perspicuo che si tratti della raffigurazione della Spagna (gli editori hanno dubbiosamente ipotizzato che si tratti in particolare della Betica, ma non c’è alcun elemento che conforti tale ipotesi), sarebbe in ogni caso l’uni37 Mi riferisco, in particolare, ai numerosissimi rilievi fatti da Canfora infra, cap. VIII, § 2, e da Bossina infra, cap. XV. 38 Cfr. supra, cap. II, § 3.2. Su «rilevamenti e misurazioni» che occorrono nella col. V, cfr. infra, cap. XIV. 39 Di «Prachtausgabe» parlano GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 189. Cfr. anche KRAMER 2001, p. 115: «It is evident that the papyrus roll was intended as a luxurious edition of the writings of the famous ancient geographer Artemidorus of Ephesus». Secondo JOHNSON 2004, pp. 155-156, caratteristica peculiare del «‘deluxe’ manuscript» è la «fine execution of the script»; altre caratteristiche riscontrabili in un libro di lusso sono: i) «a short height for the column [...]»; ii) «an excessively large upper and lower margin of 6-7 cm or more [...]»; iii) «a large script written in a tight format [...]»; iv) «a roll of excessive lenght [...]» (p. 156). Nessuna di queste caratteristiche sussiste, o è verificabile, nel papiro di Artemidoro.

IV. Osservazioni bibliologiche sul nuovo Artemidoro

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ca mappa antica pervenuta, e per di più tramandata sullo stesso rotolo che conteneva il testo geografico. Ciò che non è ad oggi documentato né da altre testimonianze pervenuteci, né dalle fonti antiche. Le quali anzi informano che le mappe geografiche erano di norma riportate su supporti materiali autonomi (pivnake~ o rotoli: cfr. ad esempio Erodoto V, 49)40.

9. La macchia d’umido e la scrittura allo specchio41 Uno dei fenomeni più disagevoli da spiegare prodottosi nel papiro di Artemidoro è quello della scrittura impressa, la cosiddetta «Spiegelschrift». Il papiro, sul verso, presenta “stampigliate” in posizione riflessa, parti delle colonne I, II, IV e V42. Tale fenomeno, che interessa sistematicamente la scrittura, si può osservare invece sporadicamente nei disegni. I casi visibili a occhio nudo sembrano essere solo due su oltre una cinquantina di disegni: una immagine del recto, una mano (il disegno R4), che si ritrova sul verso in prossimità del disegno V8

È stato ribadito in un recente studio di SMALL 2003, pp. 118-121. L’altro caso conosciuto di scrittura allo specchio evocato dagli editori (GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 191, n. 8) è costituito da un papiro di Tucidide, P.Yale I, 19 = P.CtYBR inv. 360 del II sec. d.C. (MP3 1528.1): sul recto esso riporta VII, 34, 8-35, 2 e 36, 4-5; sul verso è rimasta ‘stampigliata’ una porzione dello stesso rotolo, contenente, in particolare, VII, 33, 6-34, 2 e 34, 8-35, 2: cfr. BABCOCK-EMMEL 1997. La stampigliatura sul verso di parti del recto, prodottasi – è questa l’ipotesi dei due studiosi – a causa dell’umidità, si è potuta leggere grazie a fotografie a raggi infrarossi. Nonostante l’esplicito richiamo all’esempio tucidideo, GALLAZZIKRAMER 1998, p. 192, non ritenevano ancora la «macchia d’umido» responsabile della Spiegelschrift, la «scrittura allo specchio». Altri due esempi mi constano, anche se di tipo diverso, in cui a essere rimaste, per così dire, stampigliate sono poche lettere, e non intere colonne: in entrambi i casi si tratta di una ridottissima porzione di testo rimasta impressa sul verso del foglio di guardia iniziale. Si tratta dei codici di papiro P. Bodmer XXI [Papyrus Bodmer XXI, Josué VI, 16-25, VII, 6-XI, 23, XXII, 1-2, 19-XXIII, 7, 15-XXIV, 23 en sahidique, publié par R. Kasser, Bibliotheca Bodmeriana, 1963] e P. Bodmer XXIII [Papyrus Bodmer XXIII, Esaïe XLVII, 1-LXVI, 24 en sahidique, publié par R. Kasser, Bibliotheca Bodmeriana, 1965]. 42 In particolare la parte destra della col. I e una buona porzione delle coll. II, IV e V; il fenomeno non si può osservare per la col. III perché non si è conservato il supporto materiale che avrebbe dovuto ricevere l’impressione. 40 41

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Parte seconda. Il nuovo papiro

(chnalwvphx)43 e una del verso, il dravkwn (V29), che si ritrova impressa sul recto, all’interno della mappa geografica. Come dicevamo, il fenomeno si può osservare sistematicamente nel caso delle colonne di scrittura: infatti sul verso, in corrispondenza del disegno V40 (che raffigura la lotta tra luvgx e ai[gagro~) è visibile abbastanza chiaramente la impressione della col. II: è per di più possibile integrare le parti iniziali delle prime linee di scrittura di tale colonna proprio grazie all’impressione che si è prodotta sul verso. E, osservando attentamente, si possono scorgere tracce di questa «Spiegelschrift» anche alla destra della sezione che contiene V40, cioè in corrispondenza dell’area ricoperta dai disegni V39 e V42: evidentemente si tratta del riflesso della scrittura della colonna I. L’osservazione di questo fenomeno ha permesso agli editori innanzi tutto di accertare la successione delle coll. I-II44, e, come si è detto, di integrare parti del testo andate perdute. Il fenomeno ricorre analogamente in relazione alle coll. IV e V, la cui scrittura si ritrova riflessa rispettivamente in corrispondenza dei disegni del verso V21 (kamhlopavrdali~) e V19-20 (gruvy e oujranoskovpo~). La scrittura si dovrebbe essere impressa quando il ‘libro artemidoreo’ era avvolto strettamente45. È quanto sembravano pensare gli editori Gallazzi-Kramer, quando nel 1998 scrivevano: «Auf dem Verso von Kol. I sind Spuren in Spiegelschrift sichtbar. Hier lassen sich recht deutlich Wörter bzw. Wortteile aus Fr. a und b von Teil 2 erkennen, die durch das Einrollen ihre Abdrücke hinterlassen haben» (p. 191). Poco più oltre la spiegazione del fenomeno veniva arricchendosi: «Die spiegelschriftlichen Spuren von Kol. V erscheinen auf dem Verso links neben denjenigen der Kol. IV, welche Kol. V auf dem Recto rechts gefolgt ist. Diese Abfolge läßt erkennen, daß der Kopist die Rolle während des Schreibens von links nach rechts einge43 Le tecnologie utilizzate e i risultati ottenuti sono illustrati da CONSOLANDI 2006, pp. 74-77: figg. 4-6 (per la ricostruzione del disegno della mano R4) e figg. 23 (per la ricostruzione della scrittura di col. II, ll. 9-12). 44 La successione delle coll. II-III è assicurata dal fatto, come si è detto, che i resti delle parti superiori di queste colonne sono tramandate da uno stesso frammento (fr. a) del Teil II: cfr. supra, § 7. 45 Questo spiegherebbe anche il décalage, costante, pari all’incirca all’ampiezza di una colonna: cfr. GALLAZZI-KRAMER 1998, p. 192: «[...es] folgt daraus, daß die Differenz zwischen der Beschriftung auf dem Recto und den Abdrücken auf dem Verso immer eine Kolumne beträgt».

IV. Osservazioni bibliologiche sul nuovo Artemidoro

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rollt hat, wobei sich auf dem Verso die noch feuchte Tinte der letzten geschriebenen Kolumne links neben der vorletzten abgedrückt hat»: il copista, cioè, man mano che scriveva, avvolgeva il rotolo da sinistra a destra e l’inchiostro ancora umido si depositava sulla parte di papiro con cui veniva a contatto (cioè sul verso). Dunque, l’inchiostro non ancora asciugatosi fu il responsabile della cosiddetta impressione. Ma poiché, come s’è detto, anche i disegni presentano impressione, sia pure sporadicamente, una tale spiegazione non è del tutto soddisfacente. Forse per questa ragione nel catalogo Tre vite viene fornita una diversa esegesi del fenomeno della scrittura impressa: «[...] una parte del testo andato perduto sul recto a causa delle lacune è rimasta stampigliata a rovescio sul verso, perché il rotolo, per qualche tempo, venne a trovarsi in un ambiente umido, ovvero fu accidentalmente bagnato, al punto che sia l’inchiostro del testo sia quello dei disegni persero coesione e lasciarono impronte speculari su tutta la superficie del papiro» (p. 17). In ragione del fatto che il fenomeno, come si è detto, investe sia la scrittura del recto, che almeno due disegni della cosiddetta seconda e terza vita, allora bisognerebbe ipotizzare o che l’impressione si sia prodotta contemporaneamente su tutto il papiro in un’epoca successiva a quella della terza vita; o che invece essa si sia prodotta in zone diverse, in momenti diversi e fors’anche per cause diverse. Questa seconda ipotesi appare del tutto inverosimile. Quanto alla prima resta ancora da chiarire in che modo il fenomeno si sia potuto produrre e come mai si appalesi pressoché a senso unico. 10. Dei possibili modi di riparare un guasto Se davvero l’ipotizzato lavoro di allestimento di un rotolo geografico illustrato con mappe (cioè di un oggetto unitario oltre che finora non conosciuto nell’antichità) fu interrotto a causa di un errore, la reazione più ovvia da attendersi era che venisse tagliato e recuperato lo spezzone di rotolo non coinvolto dall’incidente (cioè le attuali colonne IV e V più l’agraphon seguente), tanto più che in parte – stando alla ricostruzione proposta – esso non era ancora scritto: il che equivale a dire che ci saremmo aspettati che venisse dismessa unicamente la parte colpita dall’errore, cioè lo spezzone di rotolo contenente la carta geografica o, al limite, come tra l’altro ipotizza il

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Parte seconda. Il nuovo papiro

Gallazzi, che «il primo tratto del rotolo» venisse «tagliato e sostituito con un nuovo pezzo appositamente approntato» (p. 18). Insomma eliminare l’errore e riutilizzare tutto il papiro riutilizzabile era la via d’uscita naturale rispetto all’“incidente” prodottosi. Alla luce dell’ipotesi che è stata presentata sin dal primo momento, ci troviamo, a quanto pare, di fronte a un rotolo costituito da un lato dall’opera letteraria (addirittura da parti di un unico libro, il II), dall’altro da un consistente spezzone, quello attiguo alla col. V, privo di scrittura, ma coperto di disegni (disegni rivestono anche tutto il verso). In una situazione del genere un’ipotesi del tutto legittima, e forse anche più economica, consisterebbe nell’immaginare che qualcuno abbia allestito un rotolo mettendo insieme spezzoni (di cui uno o più già coperti di scrittura, altri intonsi), e abbia riempito di disegni – con tempi e modalità che non ci è dato di conoscere – tutti gli spazi bianchi disponibili: per finalità che è azzardato voler precisare ad unguem e che potrebbero essere state pratiche, o contingenti, o di esercitazione individuale o, forse, di semplice divertimento.

11. Quando il rotolo era ‘intero’... È stato giustamente osservato che se su circa 2 m – tanto quanto misura cioè il Teil III – nell’originario progetto editoriale più di 1 m e mezzo doveva essere occupato dalle carte46, una delle ipotesi più che plausibili è che «l’intero secondo libro artemidoreo fosse uno smisurato rotolo di una o forse più decine di metri»; o, in alternativa, che «quel che ci è giunto sia buona parte del testo del secondo libro» del geografo efesino47. Due ipotesi legittime, eppure del tutto improbabili, le quali hanno giustamente suscitato i seguenti interrogativi: quanti rotoli dové occupare ciascun libro della Geografia, che comprendeva, oltre la Spagna, anche la Gallia, la Libia, l’Italia, la Grecia, l’Asia Minore, la Palestina, l’Egitto etc.? Come si presentava – beninteso se esistette –, nel suo insieme, l’edizione artemidorea cui il nostro papiro originariamente appartenne? Cosa conteneva il papiro quando era ‘intero’? 46 Si tratta degli oltre 90 cm della “carta geografica” cui debbono essere aggiunti i 70 cm dell’agraphon successivo alla col. V, destinato a ospitare un’altra carta. 47 Vedi infra, cap. V.

IV. Osservazioni bibliologiche sul nuovo Artemidoro

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12. Un papiro e molte domande Insieme al chiarimento di tali questioni, di non poco momento, lo studioso desidera una dilucidazione coerente, attendibile e verificabile di questo eccezionale ritrovamento. La teoria delle “tre vite”, nel suo voler raccontare a tutti i costi una storia, è inaccettabile. Qui di seguito alcune tra le domande per noi più urgenti. Quando e con quale finalità è stato allestito il rotolo ‘artemidoreo’? Come fissare la cronologia in assenza di sicuri riscontri paleografici e in assenza, ormai, della documentabile certezza che il “contesto archeologico” sia realmente rappresentato dai venticinque documenti? Su che base (non essendo verificabile quella paleografica) si può parlare di I sec. a.C.-I sec. d.C.? E che dire di come stranamente ha agito la macchia? E di tutti i problemi linguistici e sintattici che si affollano in così breve volger di righi? E delle insormontabili aporie filologiche?

V COSA CONTENEVA IL PAPIRO QUANDO ERA ‘INTERO’?

Citiamo dal catalogo Tre vite: a) «(Il copista) operò in modo che sul papiro potessero figurare tanto il testo quanto le carte relative ad esso». b) Per questo «scelse un rotolo alto cm 32,5, cioè ben più alto della media dell’epoca, affinché il formato più grande agevolasse la riproduzione delle mappe». c) «Trascrisse il testo lasciando dentro di esso ampi spazi in bianco destinati ad accogliere le carte», «uno dopo la colonna III, dove terminava il proemio [sic!] e un secondo dopo la colonna V, dove si concludeva il periplo della penisola». d) «Essendo il rotolo troncato, è impossibile sapere come il copista abbia operato nel prosieguo della stesura». e) [Nella parte di rotolo conservatasi] «le due interruzioni non cadono in punti casuali del testo, ma dopo il proemio e dopo il periplo». f) «L’impaginazione è stata adattata alla bisogna: la lunghezza delle righe è stata aumentata o ridotta e le interlinee allargate o ristrette [sic] nell’intento di far coincidere ogni interruzione con la fine di una colonna». g) «[Dunque] l’amanuense aveva di fronte un esemplare della Geographia [?] già corredato di carte, altrimenti non avrebbe saputo [?] in quali punti interrompere lo scritto per lasciare gli spazi per le mappe». h) «Una volta che il testo del libro [s’intende del libro II?] fu trascritto, il rotolo fu trasferito nell’atelier di un pittore affinché qualcuno, esperto di disegno, lo completasse inserendovi le carte» (GALLAZZI 2006, p. 18, col. 1). Poiché la prima mappa occupa almeno 93 cm e, d’altro canto, a destra della colonna V ci sono almeno altri 70 cm «destinati ad accogliere la successiva mappa», o si dovrà immaginare che l’intero secondo libro artemidoreo fosse uno smisurato rotolo di una o forse più decine di metri (già circa tre metri sono impegnati per le sole pri-

V. Cosa conteneva il papiro quando era ‘intero’?

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missime colonne), oppure si dovrà immaginare che quel che ci è giunto sia buona parte del testo del secondo libro. E cosa si dovrà poi concretamente immaginare per quel che riguarda il residuo testo che ci manca? Qualche altra colonna di scrittura, recante altri particolari su singole regioni o città della Spagna, e di seguito le relative carte? (Che se poi non c’era che un’altra sola mappa e il resto erano colonne di scrittura, l’ipotesi del fatale errore di copiatura della prima mappa, scambiata per un’altra, diventa ancora più inverosimile; e lo spreco consistente nel buttar via tutta la restante parte già scritta diventa davvero un inspiegabile, quasi irresponsabile spreco. E che fosse già scritto tutto il resto impone di crederlo la tesi – affermata dagli editori – secondo cui il rotolo fu portato dal disegnatore quando la parte scritta era ormai terminata: vedi sopra punto h. Né sembra ipotizzabile che fosse previsto un assiduo andirivieni copista/disegnatore/copista/disegnatore e così via seguitando.) C’è poi un’altra deduzione. A meno di non pensare che fosse stata commissionata unicamente “una Spagna”, si dovrà immaginare che tutto il resto dell’opera, dalla Gallia, alla Libia, all’Italia, all’Adriatico, alla Grecia, all’Asia Minore, alla Palestina, all’Egitto, alla Trogloditica etc. fosse strutturato alla stessa maniera. Erano undici libri: dunque altri dieci mastodonti illustrati. Viene, tra l’altro, in mente, per la Trogloditica, la ricca messe di animali esotici (che curiosamente ritroviamo sul verso del papiro...), cui Artemidoro – lo sappiamo da Strabone – dedicava ampio spazio. Chissà quali virtuosismi pittorici si saranno – o si sarebbero – in tal caso manifestati... Insomma, nonostante la prudenziale riserva del punto d, sembra che si debba propendere per lo scenario più economico (cui accenna il punto h): il testo era tutto lì. Finiva con la perentoria conclusione della colonna V. Non dimentichiamo poi la dinamica che ci viene descritta. Quello che siamo invitati a immaginarci è un rotolo imponente, con rade colonne di scrittura alternate a cospicui spazi bianchi di quasi un metro per volta, rotolo che viene – in tale stato – portato nell’atelier del pittore perché sia “completato”. E concentriamoci in particolare sulla dinamica della copiatura di tale (presunto) “esemplare di lusso”. Alla domanda «come faceva il copista incaricato del testo letterario a sapere quanto grandi sarebbero state le mappe?» si risponde:

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Parte seconda. Il nuovo papiro

si regolava sul modello. Ma allora come fece il disegnatore, pur disponendo di tale modello, a copiare una mappa in luogo dell’altra? Specie se le mappe non erano che due o tre, l’errore appare quanto mai inverosimile; a meno di non ricadere nell’ipotesi delle molte mappe a corredo della Spagna; ma anche in tal caso lo si immagina a stento un disegnatore che pur avendo un così elementare compito da assolvere non imbrocca la mappa giusta. Non minori riserve suscita la curiosa teoria delle variabili colonne (punto e): variabili nella larghezza, nella lunghezza e nell’interlinea (dunque con un effetto agli antipodi dall’elegante “edizione di lusso” ipotizzata dagli editori), e ciò «nell’intento di far coincidere ogni interruzione con la fine di una colonna». Il che significa in pratica che il copista, pur avendo un modello – al quale, ci viene detto, rigorosamente si atteneva –, incominciava la colonna a casaccio e poi faceva sforzi di aggiustamento per mantenersi fedele al criterio della rispondenza colonna/cesura. L’unica spiegazione possibile sarebbe che già nel modello ci fosse questa “fisarmonica” delle colonne. E nel modello del modello. E così ad infinitum. Se invece il modello era ben fatto e regolare, perché mai il nostro copista non si sarebbe semplicemente attenuto al modello anche per quel che riguarda ampiezza e lunghezza delle colonne? Eppure ci viene detto che si atteneva al modello per l’assetto stesso del manufatto che veniva allestendo, e in primo luogo proprio per la misura degli spazi da lasciare bianchi. Ma, come sappiamo, è il contenuto stesso della colonna V, e in particolare il preannunzio di una presentazione ejn ejpitomh/' del “periplo” (paravplou~), che fa crollare questa macchinosa ricostruzione. Quel preannunzio non può preludere a un secondo, più analitico, paravplou~ [cfr. infra, cap. IX, § 1, z], e dunque il testo che abbiamo non può intendersi che come pensato per apparire come una Epitome. Il che significa anche che voleva essere inteso come completo: e ciò è confermato dalla frase finale scritta sul bordo estremo del margine inferiore della colonna V. E sappiamo anche che proprio questo impianto è radicalmente difforme dalla descrizione dell’opera di Artemidoro fornita da un autore, cioè Marciano, che certo la conosceva meglio di noi. Scrive Marciano: ΔArtemivdwro~ kai; Stravbwn gewgrafivan oJmou' kai; perivploun sunteqeikovte~ (GGM, I, p. 566, 4-6). I due autori, non casualmente accostati da Marciano, avevano dunque composto opere

V. Cosa conteneva il papiro quando era ‘intero’?

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– e per Strabone questo lo verifichiamo prima facie – in cui descrizione dei luoghi, costumi etc. e periplo erano strettamente compenetrati (oJmou'). Invece il creatore di questo rotolo ha inteso più banalmente quelle parole di Marciano, che ben conosceva, come gewgrafiva + periplo. E ha perciò creato, certo con poca fatica, un testo in due parti: una breve ‘tirata’ sulla gewgrafiva (in forma di proemio), cui tiene dietro una esangue epitome di periplo. Mirando a realizzare un pezzo dell’Epitome artemidorea di Marciano se l’è cavata – come si suol dire – col minimo mezzo.

VI LE FIGURE DI ANIMALI SUL VERSO DEL PAPIRO DI ARTEMIDORO di Stefano Micunco

1. Il repertorio di immagini sul verso del papiro: caratteri generali Il verso del papiro di Artemidoro è interamente occupato da una quarantina di disegni di animali1, reali e fantastici, accompagnati da didascalie2. La maggior parte degli animali sono rappresentati a sé stanti, alcuni sono composti in gruppi, e talvolta figurano anche dei dettagli paesaggistici per lo più solo accennati. In alto, molto decentrata verso destra, al di sopra del disegno della tigre, campeggia una didascalia su tre righe, che così Settis ricostruisce: «[bestie che vivo-

1 La numerazione che seguiremo va da V1 a V42; la lettera “V” sta per verso, ed è stata utilizzata già nel catalogo per distinguere questi disegni da quelli, di genere diverso, che compaiono sul recto del papiro. Nel prospetto a p. 205 si schematizza la dislocazione dei disegni sul verso: a ogni numero è associata, quando leggibile, la didascalia. 2 Nell’ipotesi delle tre vite formulata da Gallazzi, Settis e Kramer il riutilizzo del verso come supporto per la raffigurazione degli animali costituisce la seconda fase di impiego, verificatasi a causa della «felix culpa» (SETTIS 2006, p. 60) dell’errore cartografico sul recto (cfr. supra, Fantasma, § 2). Questo riutilizzo, avvenuto nello stesso atelier del cartografo, sarebbe cronologicamente da collocare a ridosso della stesura del testo del recto, al più tardi poco dopo il 25 a.C.: «I nomi degli animali sono tracciati con una scrittura da libro, ma non certo calligrafica, che sulla base dell’analisi paleografica, è databile al regno di Augusto, più ai decenni del I secolo a.C., che a quelli del I secolo d.C. Quindi non passarono molti anni fra il momento, in cui il testo di Artemidoro fu copiato, e quello in cui il rotolo fu riutilizzato nell’atelier per realizzare il bestiario» (GALLAZZI 2006, p. 19).

VI. Le figure di animali sul «verso» del papiro di Artemidoro

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no nel]l’Oceano e che volano e [che camminano e] mostri marini»3. Questo è ciò che riusciamo a leggere: 1 2 3 kaªi

º ton wkeanon º≥ kai pthra º khth

Settis si chiede che funzione potesse avere questo che difficilmente andrà considerato un titulus, ma, incerto tra «un compiaciuto appunto, fatto per proprio uso, di un artista consapevole della vastità e varietà del repertorio che andava raccogliendo» e una «annotazione della scritta che dovesse figurare nell’opera finita», lo studioso non si pronuncia in maniera definitiva, non essendoci effettivamente elementi sufficienti per farlo. La dislocazione delle immagini non sembra a prima vista strutturata su un’idea compositiva unitaria, benché siano riconoscibili delle linee di massima. I pesci sono tutti nella fascia inferiore del rotolo, gli uccelli tendenzialmente in quella superiore, ma ciò non toglie che altro tipo di animale possa trovarsi in quelle zone: sia sopra che sotto ci imbattiamo in quadrupedi, molti dall’aspetto felino, e in un caso un uccello è stato disegnato nella fascia inferiore (si tratta tra l’altro di un uccello al quale è stato associato il nome di un pesce, muvxo"); d’altra parte il pescespada (xifiva") e il pescemartello (zuvgaina), che nella raffigurazione hanno ben poco di realistico, e anzi difficilmente li si identificherebbe come pesci, si trovano nella fascia centrale. Quanto alle coppie di animali che si affrontano, il motivo privilegiato è quello dell’intreccio dei corpi: utilissimi a questo scopo gli esseri serpentiformi (l’immaginario qunnoprivsti", avversario dello xifiva", e i vari serpenti e draghi contro cui lottano l’elefante e il muvrmhx), ma anche l’assalto del grifone ai leopardi, che occupa tutta l’altezza del rotolo, appare conforme a questo intento. Che cosa poteva mai essere una composizione di questo genere? Settis enumera le possibilità: Bilderbuch, materiale illustrativo per un testo zoologico, disegno di un progetto (per una pittura o un mosaico), libro di bottega. E dopo aver soppesato e scartato le prime due possibilità, e giudicato poco probabile la terza (a causa della disposizione eccessivamente mescolata delle figure), propende per la quarta 3

SETTIS 2006, p. 62.

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Parte seconda. Il nuovo papiro

ipotesi4. Un libro di bottega doveva servire, certo, come esercizio personale dell’artista (nel catalogo si parla di un’unica mano, per quanto si ammetta che il grado di rifinitura dei disegni o delle parti di uno stesso disegno sia discontinuo), o anche a scopo didattico (“come disegnare gli animali”); ma soprattutto come repertorio di immagini e motivi da cui attingere o perfino da mostrare ai committenti. Dall’analisi delle didascalie sorge qualche difficoltà; è dunque il caso di interrogarsi sull’origine, sulle possibili fonti delle immagini e soprattutto dei nomi che le accompagnano. 2. Alcuni raffronti tipologici Non si conoscono altri esempi di libri di bottega pervenuti dall’antichità. Possiamo però pur sempre affiancare al “bestiario” del papiro prodotti d’arte che con “libri di bottega” possono aver avuto a che fare, basandosi su di essi come modelli, prontuari, o esprimendo comunque una comune consapevolezza artistica. Esistono diverse antiche raffigurazioni di animali, in pittura e in mosaico, ma due casi – il mosaico nilotico di Palestrina5 e la decorazione pittorica di una tomba di Marissa6 – sono più interessanti per la nostra indagine, sia per la quantità di soggetti che contengono, sia soprattutto per la presenza di didascalie che, quasi sistematicamente, indicano il nome dell’animale illustrato; una circostanza, quest’ultima, non molto frequente. Non ci addentreremo in raffronti di carattere specificamente stilistico; ci limiteremo alla questione della scelta dei soggetti, e soprattutto ai nomi a essi associati. I due casi sopra menzionati (il mosaico e la pittura) hanno in comune con il papiro, oltre all’elemento della didascalia, soprattutto un certo tipo di animali più o meno esotici, come giraffa, lince, felini e serpenti vari, ma anche animali fantastici, come il grifone (pitture della tomba) o il krokodilopavrdali" (mosaico nilotico), così simiSETTIS 2006, p. 61. Sul mosaico di Palestrina si veda MEYBOOM 1995; le didascalie del mosaico, venti in tutto, sono raccolte e studiate in IG, XIV [1890], 1302, pp. 351-352. La datazione è stata a lungo dibattuta, ma la maggior parte degli studiosi ormai propende per la fine del II sec. a.C. (Meyboom: tra 120 e 110 a.C.). Non va comunque dimenticato che il mosaico, realizzato per l’abside di un edificio pubblico romano, quasi sicuramente è una copia di una pittura ellenistica perduta. 6 Tale tomba è databile al II sec. a.C.; cfr. JACOBSON 2003. 4 5

VI. Le figure di animali sul «verso» del papiro di Artemidoro

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le nel nome al panqhrokorkovdeilo" del nostro “bestiario” (cfr. figg. 10a e 10b). Per quanto si è potuto osservare, pesci e uccelli, pur largamente impiegati come elementi decorativi anche in altri prodotti artistici, difficilmente nelle raffigurazioni sono accompagnati da didascalie. Il mosaico di Palestrina, poi, sembra evitare di associare un nome agli animali più noti, mentre nel papiro l’associare nome e immagine doveva essere una costante (nei pochi casi in cui essa per noi viene meno, la mancanza è evidentemente dovuta alle lacune).

3. Artemidoro di Efeso e le descrizioni di animali «Artemidoro ha parlato di serpenti della lunghezza di 30 cubiti, in grado di avere la meglio su elefanti e tori, ed è stato misurato in questa descrizione; infatti quelli indiani e libici sono ancor più favolosi etc.» (Strabone, XVI, 4, 16). Artemidoro di Efeso, il geografo il cui più ampio frammento conosciuto si ritrova nel recto del papiro7, parlava di siffatti animali; limitandoci ai frammenti che di lui abbiamo, ne parlava in un unico contesto, la sezione sulla Trogloditica8, dove erano descritti almeno cinque degli animali che ritroviamo nel “bestiario” del verso: elefanti, leoni chiamati myrmekes, leopardi, giraffe e gli immancabili serpenti. È Strabone che dà queste informazioni, ai paragrafi 15 e 16 di XVI, 4 (cfr. ff. 97-98 Stiehle, nei quali però sono omesse alcune parti, a torto non ritenute di Artemidoro)9. È forse degna di attenzione Quanto all’estratto Sul Nilo nel Monac. Gr. 287, cfr. supra, Fantasma, § 1.4. Geographoumena, VIII libro, in cui Artemidoro si sarebbe occupato anche di Egitto, Etiopia e Arabia, cfr. frr. 81-105 Stiehle. La Trogloditica corrisponde all’incirca alla fascia costiera costituita dagli attuali stati di Eritrea, Gibuti e Somalia settentrionale, più una certa estensione nell’entroterra etiopico. 9 Tutta la sezione che va dal paragrafo 5 al 20 di Strabone XVI, 4, in cui il geografo cita continuamente come propria fonte Artemidoro, è raffrontabile a quanto Fozio (Bibliotheca, capitolo 250) e Diodoro (III, 12-48) conservano dell’opera Sul Mar Rosso di Agatarchide di Cnido, e per i contenuti, e per la successione espositiva, e per le numerose coincidenze testuali. È molto probabile dunque che Artemidoro facesse uso degli scritti dell’etnografo di Cnido (o che, al limite, entrambi dipendessero assai fedelmente da una fonte comune). La lista completa degli animali trattati nella sezione sulla Trogloditica da Agatarchide e Artemidoro, in un ordine pressoché immutato, comprende: elefante, leone, myrmex, leopardo, rinoceronte, giraffa, sfinge, cinocefalo, cepo/cebo, toro carnivoro, krokovtta"/krokouvtta", serpenti (cfr. GGM, I, pp. 158-165 e BURSTEIN 1989, pp. 118-132). 7 8

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l’ipotesi che tra il testo sul recto e il bestiario sul verso del papiro vi sia un nesso, tanto più che questa ipotesi non si basa solo sulla comune presenza di un determinato manipolo di animali. Già dalla breve frase appena citata, ad esempio, rileviamo che Artemidoro descriveva serpenti in grado di avere la meglio su elefanti, che è proprio quello che accade in corrispondenza del disegno V16: attorno a una lacuna piuttosto estesa spuntano le zampe, la proboscide e tratti del contorno di un elefante, intorno al cui corpo sono avvinte le spire di un serpente che spalanca minaccioso le fauci contro il suo avversario; per di più, immediatamente sotto le zampe dell’elefante, un curiosissimo pesce dall’aria un po’ imbronciata viene presentato sotto la dicitura TAUROÇ (V17), con il risultato che questa sezione del papiro, in tutta la sua altezza, contiene di seguito – in nome o in figura – i tre animali citati da Artemidoro nel giro di una sola frase. Il caso più indicativo è il disegno dell’animale contrassegnato dalla didascalia MUªRºMHX (V22, cfr. fig. 11a), collocato sul verso dell’estremità destra della carta geografica. Muvrmhx è il nome della formica; ma la figura nel papiro non rappresenta certo un insetto, bensì una sorta di felino alato, anch’esso intento a combattere con un grosso serpente. A giudicare da quanto si legge in Strabone a sua volta fondato su Artemidoro, questa immagine non sembra scaturita totalmente dalla fantasia del disegnatore: «La regione [la costa africana del Mar Rosso tra Deire e il capo Guardafui] è piena di elefanti nonché di leoni chiamati myrmekes: questi hanno i genitali al contrario e sono di colore simile all’oro, ma hanno il pelo meno folto di quelli dell’Arabia» (Strabone, XVI, 4, 15). La questione delle fonti sul myrmex è piuttosto rilevante, perché a questo nome – che comunque nella maggior parte delle sue attestazioni designa la comune formica – si legano ben due racconti fantastici, che originariamente non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro. Uno è quello appena ricordato del myrmex africano «con i genitali al contrario», di cui parla Artemidoro, appunto, ma già prima di lui Agatarchide, anche se non così esplicitamente10. Agatarchide dice semplicemente «quelli chiamati myrmekes»; non va comunque dimenticato che la sua opera è conservata compendiata nella 10 De mari Erythraeo, fr. 69 Müller (= Fozio, Bibliotheca, capitolo 250, 455a 2023): Tw'n de; kaloumevnwn murmhvkwn oiJ me;n plei'stoi kata; th;n ijdevan tw'n loipw'n oujde;n parallavttousi, th;n de; tw'n aijdoivwn fuvsin ajpestrammevnhn e[cousin ejnantivan toi'" a[lloi".

VI. Le figure di animali sul «verso» del papiro di Artemidoro

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Biblioteca di Fozio. Che Agatarchide stia parlando anche lui di leoni è un dato che ricavano i moderni sulla base di due elementi: 1) nel precedente frammento 68 (= Bibliotheca, 455a 15-19) si parla di leoni, e il frammento 69 andrebbe considerato in stretta connessione con esso (la maggior parte di quelli = dei leoni chiamati formiche etc.); 2) la descrizione degli animali che Strabone riporta come di Artemidoro segue quasi pedissequamente i frammenti 68-78 di Agatarchide; e se Agatarchide è fonte di Artemidoro, quest’ultimo (che diceva levousi toi'" kaloumevnoi" muvrmhxin) può essere utilizzato per chiarire il primo. In realtà, anche se rimane possibile che Agatarchide descrivesse effettivamente leoni chiamati formiche, la situazione testuale e interpretativa rimane problematica. Infatti, osserviamo anche che due delle caratteristiche attribuite da Strabone-Artemidoro al myrmex – come si è visto, una criniera poco folta e un colore simile all’oro – negli estratti foziani di Agatarchide riguardano invece i leoni del frammento 68; insomma, è anche possibile che informazioni che in Agatarchide erano separate (fr. 68: leoni dalla criniera non folta e luccicante; fr. 69: myrmekes con i genitali al contrario) si fossero confuse a un certo punto (Artemidoro? Strabone? altro?) in un’unica notizia: leoni chiamati formiche, con genitali al contrario e criniere non folte e di colore simile all’oro.

L’altro racconto fantastico riguarda il myrmex indiano, la cosiddetta «formica cercaoro» (muvrmhx cruswruvco"), la cui prima descrizione nota risale a Erodoto11, e dopo di lui menzionata da vari altri autori, tra cui Megastene (anche lui citato da Strabone, a due riprese: II, 1, 9 e, più in esteso, XV, 1, 44). I due racconti descrivono animali appartenenti a due contesti geografici diversi, e non hanno origine comune: Erodoto afferma chiaramente che l’animale indiano è un insetto, una vera formica, molto simile d’aspetto (eijs i; de; kai; to; ei\do" ojmoiovtatoi) a quella greca, anche se di dimensioni piuttosto grandi, tra quelle dei cani e quelle delle volpi (megavqea e[conte" kunw'n me;n ejlavssona, ajlwpekevwn de; mevzona); e anche in Megastene il confronto è con la taglia delle volpi, e nulla ci porterebbe ad assimilare il myrmex a un felino. Il cortocircuito tra le due tradizioni avviene solo più 11 Erodoto, III, 102, 2: «Dunque, in questa regione desertica e sabbiosa [in territorio indiano] ci sono formiche di grandezza inferiore a quella dei cani, ma superiore a quella delle volpi; se ne trovano alcune anche presso il re di Persia, catturate appunto in questa regione. Facendosi la tana sottoterra, queste formiche portano fuori la sabbia, come le formiche in Grecia, alle quali esse sono molto simili anche nell’aspetto. Tuttavia, la sabbia che portano fuori contiene oro» (trad. di A. Fraschetti).

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tardi, quando Eliano, pur utilizzando termini molto simili a quelli di Agatarchide e di Artemidoro, collocherà l’animale in territorio babilonese, senza fare peraltro alcuna precisazione sul suo aspetto12; mentre in Filostrato il myrmex sarebbe l’animale che in Etiopia custodisce l’oro13, e similmente in Eliodoro si parla di ambasciatori dei Trogloditi che offrono in dono al re Idaspe oro scavato da formiche14. Trattandosi, a quanto pare, di un fraintendimento posteriore, e dato che nessuna di queste fonti segnala che dove è scritto muvrmhx debba intendersi una specie di leone, sembra arbitraria da parte dei moderni l’idea di assimilare i due diversi myrmekes come se si trattasse dello stesso soggetto15. La tradizione di cui fanno parte Agatarchide e Artemidoro va dunque distinta da quella che fa capo a Erodoto; il dato che possiamo tener fermo è che l’unica fonte che parli esplicitamente di “leoni chiamati formica” (levousi toi'" kaloumevnoi" muvrmhxin) resta Strabone, XVI, 4, 15, in una sezione dell’opera dove il geografo di Amasea, per sua esplicita ammissione, basa le sue informazioni su Artemidoro di Efeso16. 12 De natura animalium, XVII, 42: ΔEn th/' Babulwniva/ gh/' givnontai muvrmhke", kai; e[cousi to; paidopoio;n sw'ma ej" toujpivsw metestrammevnon, ajntivw" toi'" a[lloi" kai; e[mpalin. 13 Vita Apollonii, VI, 1: Gru'pe" de; ΔIndw'n kai; muvrmhke" Aijqiovpwn eij kai; ajnovmoioi th;n ijdevan eijsivn, ajllΔ o{moiav ge, w{" fasi, bouvlontai, crusou' ga;r fuvlake" ejn eJkatevra/ a[/dontai to; crusovgewn tw'n hjpeivrwn ajspazovmenoi. 14 Aithiopica, X, 26, 2: Parh/vesan meta; touvtou" oiJ ejk th'" Trwglodutikh'", crusovn te to;n murmhkivan kai; grupw'n xunwrivda crusai'" aJluvsesin hJniocoumevnhn proskomivzonte". 15 È il caso di Karl Müller, che a riguardo del myrmex di Agatarchide nota: «indicatur haud dubie idem animal quod ex Indikôn scriptoribus tamquam formica aurum fodiens memoratur» (GGM, I, p. 158); e Germaine Aujac traduce tou;" cruswruvcou" muvrmhka" di Strabone, II, 1, 9 con «lions fouilleurs d’or», senza peraltro fornire spiegazione alcuna a questo salto interpretativo (AUJAC 1969, p. 17). 16 Anche il murmekolevwn, animale anche a noi noto come “formicaleone”, è un insetto, e non ha niente a che vedere con le fonti sin qui citate. Qualche parola va spesa comunque – per completezza – per il biblico murmhkolevwn di Job, 4, 11, che sembrerebbe proprio essere un leone. Il contesto ebraico è effettivamente molto problematico per un traduttore, visto che nell’arco dei due versetti 10-11 si usano ben cinque termini diversi per indicare questo felino (cinque nomi equivalenti? cinque specie differenti?). Il traduttore in greco ha cercato di conservare la distinzione tra i termini utilizzando, nell’ordine, levwn, levaina, dravkwn, murmhkolevwn (ebraico lajisˇ ) e di nuovo levwn. Ora, sembra che nella traduzione di questi termini non vada reperito un intento di precisione naturalistica, ma semplicemente di variazione linguistica (si veda il caso di dravkwn, utilizzato perché in quel caso c’è un

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L’elefante sopraffatto dal serpente e il singolarissimo leone chiamato myrmex sono indubitabilmente i disegni del “bestiario” che più rafforzano l’ipotesi che il recto e il verso del papiro abbiano una reciproca pertinenza (e non bisogna dimenticare che anche la giraffa, nel II-I sec. a.C., non era un animale così conosciuto). Un’ulteriore considerazione va fatta a proposito della dislocazione di queste figure nel papiro: il disegno del myrmex (V22), particolarmente curato, occupa una posizione centrale. Immediatamente alla sua sinistra campeggia la lunga figura della giraffa (V21), mentre sulla destra un felino privo della testa a causa di una lacuna (V26) ha tutta l’aria di essere un leopardo, cosa che sembrerebbe confermata dalle prime due lettere PA della didascalia, le uniche superstiti (pavªrdali"º?); le dimensioni di questo disegno, se confrontate con quelle di molti altri, sono piuttosto considerevoli. Leopardi sono anche quelli che, a sinistra della giraffa, combattono contro il GRUY (V19), formando il disegno di maggiori proporzioni nel papiro, che copre tutta l’altezza del rotolo; a fianco, un altro disegno imponente, purtroppo molto rovinato, mostra l’elefante alle prese con il gigantesco serpente (V16); e un grosso serpente (V29), questa volta solitario, ma accompagnato dalla didascalia DRAKWN, si trova anche sulla destra del leopardo V26. Càpita così che elefante, giraffa, myrmex, leopardi e serpenti, cioè tutti gli animali – tra quelli del “bestiario” – dei quali parla Artemidoro, si ritrovino nella sezione centrale del papiro, in una fascia pressoché continua (particolarmente nella successione myrmex-leopardo si verifica una perfetta coincidenza tra sequenza iconografica del papiro e ordine espositivo di Artemidoro); i disegni V18 e V20, che sembrano interrompere questa continuità, sono in realtà decisamente più piccoli e meno curati degli altri di questa fascia, ed è anche possibile che siano stati aggiunti in un secondo momento, sfruttando lo spazio rimasto libero sotto le ali spiegate del grifone. Insomma, il cuore del “bestiario” sembra avere presente Artemidoro di Efeso. Qui sorge una domanda: è possibile che le figure degli animali dovessero avere a che fare con l’allestimento di un “Artemidoro edizione de luxe”? che costituissero l’apparato iconografico del testo geografico presente sul recto? Nella forma in cui ci si presentano, sicuramente no. Non si vede che attinenza con il libro sulla Spagna – riferimento ai denti); e dunque l’impiego di murmhkolevwn può giustificarsi anche soltanto con la presenza della radice di levwn nella parola.

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il secondo – potrebbero avere animali descritti in tutt’altro libro – l’ottavo – e appartenenti a tutt’altro contesto geografico (le regioni del Mar Rosso). Conviene dunque approfondire lo studio, analizzando caso per caso le figure che affollano il verso del papiro, e soprattutto le loro didascalie. 4. Le didascalie: problemi testuali e incongruenze Nel leggere le didascalie del papiro avvertiamo spesso un certo disagio: per diverse ragioni – e nella maggior parte dei casi – esse creano difficoltà, richiedono spiegazioni e contestualizzazioni, e, talvolta per la forma in cui compaiono, talaltra per la loro stessa presenza, disorientano lo studioso. Ci sono nomi di animali esistenti (e attestati nelle fonti letterarie) associati a figure di fantasia, didascalie non congruenti con i disegni, lapsus ortografici, nomi composti non sempre comprensibili, hapax e nomi attestati solo da fonti tarde17, parole che si riferiscono ad ambiti diversi da quello zoologico. Un caso di particolare rilievo è costituito dall’uccello la cui didascalia è AIGILWY (V12). Il sostantivo aijgivlwy conosce diverse attestazioni nella lingua greca, anche precedenti al I sec. a.C. (Teofrasto, per esempio), ma mai in riferimento a un animale, bensì a varie realtà connesse al mondo vegetale, o talvolta anche a una patologia. Non è facile comprendere l’origine di questa interferenza del lessico botanico in quello zoologico, ma forse una spiegazione c’è. In una versione molto tarda dell’Etymologicum Magnum (XII secolo: è la versione denominata da F. Lasserre e N. Livadaras Etymologicum Magnum auctum18) compare il termine aijgivlwy che è correttamente definito: aijgivlwy: pova ti". kai; pavqo". A esso segue immediatamente un termine molto simile, che è in effetti un hapax: aijgivpoy: ajeto;" uJpo; Makedovnwn, l’aquila presso i Macedoni. Constatiamo, insomma, che in questo tardo lessico19 vi è la premessa per il lapsus figurante nel papiro: da aijgivlwy a aijgivpoy l’occhio è facilmente ingannato. 17 O comunque successive al periodo cui – secondo gli editori – risalirebbe l’allestimento del “bestiario” sul verso del papiro (cfr. supra, nota 2). 18 Cfr. LASSERRE-LIVADARAS 1976; sull’Etymologicum Magnum auctum cfr. in particolare pp. XVII-XXII. 19 I manoscritti che conservano entrambe le voci, aijgivlwy e aijgivpoy, sono: Par. Gr. 2654, Scor. Gr. Y III,11, Bodl. d’Orville 2 [= Auct. X.1.1.2], Haun. GkS 414, Voss. Gr. Q 20.

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ÇTROKUWN (V28), attestato Speciale attenzione merita anche AÇ nell’opera Hieroglyphica di Orapollo (IV-V sec. d.C.)20; ma in questo caso il dato più rilevante non è tanto l’elemento cronologico, né la rarità del nome, quanto il fatto che ajstrokuvwn, che altrove è oJ ajstrw'/o" kuvwn, o semplicemente oJ kuvwn21, non è una specie di cane, ma il nome greco della stella Sirio, il brillantissimo astro che fa parte appunto della costellazione Canis Maior, e che gli Egizi – ci racconta Orapollo – chiamavano Sothis e identificavano con la dea Iside22. Viste le particolari questioni che nomi e disegni sollevano, converrà approfondire l’analisi operando una rassegna sistematica dei casi che hanno peso maggiore in questa indagine. Ç. La figura che nel rotolo occupa la prima posiV1 LUKOQOAÇ zione da sinistra è un’agile bestia dall’aspetto canino: la didascalia potrebbe essere un composto di luvko" con il sostantivo qwv", “lupo-sciacallo”, oppure con l’aggettivo qoov", “lupo veloce”. Lukoqova" non è attestato se non nel IX sec. d.C., quando lo nominano Giorgio Cherobosco e Sofronio, per giunta in opere a carattere grammaticale che non hanno interesse nemmeno a precisare se si tratti di un animale. Quanto alle attestazioni di lukoqova" nel Peri; klivsew" ojnomavtwn di Elio Erodiano (II secolo d.C.), esse non esistono: sono ricavate da Cherobosco ad opera del moderno editore di Erodiano per la raccolta dei Grammatici Graeci 23, August Lentz. Il suo procedimento – che è, ormai, giustamente considerato arbitrario – è stato di ricostruire i trattati per20 Stando all’intestazione del libro I, parrebbe più corretto dire che il termine compare nella versione in greco realizzata dal traduttore Filippo ( {Wrou ΔApovllwno" Neivlou ÔIeroglufikav, a} ejxhvnegke me;n aujto;" Aijguptiva fwnh/', metevfrase de; Fivlippo" eij" th;n ÔEllavda diavlekton). La questione delle due redazioni dei Hieroglyphica è però controversa; Sbordone ritiene che entrambe fossero in greco, e che al limite solo alcune parole fossero state originariamente scritte in copto (cfr. SBORDONE 1940, pp. XXXIX-LII). 21 Per una rassegna dei loci in cui compaiono questi nomi si veda SBORDONE 1940, p. 7. 22 Hieroglyphica I, 3. Il nome di questa stella compare, in un contesto analogo, anche nel commento di Calcidio (V-VI sec. d.C.) al Timeo platonico tradotto in latino (comm. 125). I codici manoscritti riportano la forma latinizzata astrokynon (o astrokinon), ma in alcune edizioni a stampa sono state introdotte forme greche: ajstrovkunon (editio princeps, Paris 1520), a[stron kunov" (editio Fabriciana, 1718), ajstrovkuna (H. Lindenbrog, edizione di Censorino, 1614, p. 135); la editio Wrobeliana (1876), invece, ha astrum Cyneum (cfr. KLIBANSKY 1962, p. 168). 23 GG, III, 1-2.

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duti di Erodiano assemblando e rimescolando le opere degli autori che – si ipotizza – a Erodiano avevano attinto. Le attestazioni che ci interessano, del resto, ricadono tutte in una sezione che Lentz così introduce: «Sequuntur, quae apud Choeroboscum ex libro peri; klivsew" ojnomavtwn petita videntur, composita cum praeceptis, quae ab aliis epitomatoribus et in reliquis scriptis Herodiani servata sunt»24.

È possibile un confronto con un soggetto del mosaico di Palestrina, nel quale figurano due esemplari che però la didascalia definisce QWANTEÇ25. Nel suo studio sul mosaico, Meyboom dedica un’appendice a questo animale; non interessano tanto i suoi tentativi di identificazione26, quanto semmai la sua affermazione che «the name thoantes [in quanto nome di animale, riteniamo] is known only from the Nile Mosaic». ÇUDROI PANQHROKORKODEILªOIº. Nel disegno si V3 CERÇ osservano due esemplari di una stessa specie animale fantastica (cfr. fig. 10a): i loro due corpi si sovrappongono e si incrociano, uno davanti all’altro, e ricordano il coccodrillo, per la corazza e la lunga coda da rettile (anche se le zampe paiono assenti); le loro due teste feline svettano evidenti, una – quella di sinistra – di tre quarti, l’altra di profilo, e sembrano guardarsi reciprocamente. La didascalia è su due righe: dalla prima riga riusciamo a leggere CERÇUDROI, sicché possiamo agevolmente integrare anche la seconda, per le ultime due lettere, PANQHROKORKODEILªOIº. Cevrsudro" è spesso attestato come nome di un serpente, il chersidro appunto; qui è utilizzato in funzione di aggettivo, con significato di “anfibio” (cevrso", terraferma + 24 GG, III, 2, p. 648. Sui criteri generali di ricostruzione del Peri; klivsew" ojnomavtwn si veda GG, III, 1, p. CVIII. 25 Nel mosaico le lettere chiaramente leggibili sono solo le tre finali te", ma forse il gruppo qwan ha lasciato comunque una traccia (cfr. MEYBOOM 1995, fig. 9). A ogni modo il nome completo lo si legge agevolmente nei disegni ad acquerello fatti per Cassiano Dal Pozzo attorno al 1630 (cfr. MEYBOOM 1995, fig. 10). A tal proposito ricordiamo che nel 1624-26 il mosaico fu asportato a pezzi e recato a Roma, presso il cardinale Francesco Barberini; quando fu riportato a Palestrina, nel 1640, subì gravi danni, e i disegni fatti per Dal Pozzo furono determinanti per la ricostruzione. 26 MEYBOOM 1995, pp. 115-118: in sintesi, l’autore valuta la possibilità che si tratti di una variante di qwve", il plurale di qwv", “sciacallo”, e si risolve a identificare la figura del mosaico con una rara rappresentazione della iena maculata dell’Etiopia.

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u{dro", acqua). Panqhrokorkovdeilo" è invece un hapax. “Panteracoccodrilli anfibi”, dunque. Nel mosaico di Palestrina compaiono due figure la cui didascalia è un composto col nome del coccodrillo, KROKODILOPARDALIÇ e KROKODILOÇCERÇAIOÇ (cfr. fig. 10b): l’uno è adagiato sopra una roccia, l’altro sotto; i loro corpi sono orientati in direzioni contrarie; le teste si trovano agli estremi opposti della figura, ma si volgono verso l’interno e quasi incrociano lo sguardo. Il confronto di panqhrokorkovdeilo" con il primo dei due nomi è immediato, ma sembra esserci una relazione anche con l’altro, quasi con un ampliamento concettuale di cevrsaio" in cevrsudro". Due animali nel mosaico, due animali nel papiro; due nomi distinti nel mosaico, un nome unico che li contiene entrambi nel papiro; e anche nella posizione reciproca di corpi e teste, mosaico e papiro sembrano essere in relazione. V5 KR≥IAGRION. Ci sono attestazioni di a[grioi krioiv27, ma non della forma composta. Al di là di questo, kriov" è un sostantivo maschile; la didascalia sembra proporre il caso accusativo o una singolare forma neutra. Ç e QU≥NNªOºPRIÇ ÇTªIÇ Çº. Questa scena di lotta è coV9 XIFIAÇ struita con due disegni fantastici (cfr. fig. 13a). La prima didascalia, per quanto si tratti di un nome regolarmente attestato per il pescespada (dal IV sec. a.C. fino al greco moderno), è associata a una figura che con quell’animale ha poco a che fare, riprendendone solo il lungo rostro sul muso; per il resto, non sembra nemmeno un animale marino, anzi, si presenta come un possente quadrupede. Anche l’altra didascalia, che come composto è un hapax, indica una figura che ha poca attinenza sia con il tonno (quvnno") che con il pescesega (privsti"): si tratta di un mostro marino serpentiforme avvinghiato al suo avversario. V10 PRIWN. Come privsti" (o prh'sti"), questo nome indica il pescesega. Ma, a parte che anche questo animale è rappresentato in maniera fantastica (la “sega” sulla coda anziché sul muso), la forma privwn normalmente indica la sega in quanto attrezzo, e come nome 27 Erodoto (IV, 192), Pausania (X, 17, 12), i lessicografi Esichio e Suidas (s.v. ojkrivba").

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ittico conosce il suo primo utilizzo nel II-III sec. d.C., nel testo anonimo del Physiologus. Nell’ampia voce per la Realencyclopädie a questo testo dedicata28, B.E. Perry a riguardo di questo animale scrive (col. 1092): «privwn, als Name eines Seetieres, findet sich sonst nirgends bei griechischen Schriftstellern, aber er bezieht sich scheinbar auf das Tier, welches Aristot. hist. an. VI 12 p. 566 b (vgl. Ailian. hist. an. IX 49. Oppian. hal. I 370) privsti" und Plin. n. h. IX 3 (vgl. ebd. XXX 145) serra nennt». In realtà non si tratta propriamente dell’unica attestazione, ma possiamo dire che le altre poche occorrenze sono una filiazione di questo testo: il Physiologus infatti, una sorta di bestiario ricco di interpretazioni e suggestioni in chiave biblica e cristiana, fu recepito dagli autori ecclesiastici: incontriamo privwn in Gregorio di Nissa e per due volte in Basilio di Cesarea (IV sec. d.C.), nei Dialoghi dello pseudo-Cesario (VI sec. d.C.), e infine in Michele Glycas (XII sec. d.C.), che mostra chiare dipendenze verbali dal Physiologus. Inoltre, sia in Gregorio (Primo discorso sulla creazione dell’uomo, p. 18) che in entrambi i casi di Basilio (Esamerone, omelia 7, 6 e Epistole, 188, 15) i privone" sono accompagnati da xifivai e zuvgainai: si tratta proprio dei tre animali marini che nel verso del papiro sono rappresentati in maniera fantastica. La compresenza, nel papiro, della forma privwn con il più consueto privsti" (nel composto qunnoprivsti") complica ulteriormente la situazione: il disegnatore conosce il nome usuale del pescesega, ma lo utilizza per designare un mostro serpentiforme in un composto a noi altrimenti non noto; per quell’altro animale, invece, rappresentato per altro in maniera fantastica, impiega una forma utilizzata nel lessico zoologico a partire dal II-III sec. d.C., e per giunta da autori cristiani. Ç. La didascalia per il volatile rappresentato in V13 KORAKOÇ questo punto sembrerebbe proporre un caso genitivo, essendo nel greco classico kovrax la forma del nominativo. Esistono sporadiche forme riconducibili a un nominativo kovrako" (nominativo plurale kovrakoi, dativo singolare koravkw/, accusativi kovrakon e koravkou"); ma oltre Luciano (Toxaris vel amicitia, 7) – in cui il termine non ha a che vedere con il corvo, dato che Kovrakoi sarebbe l’ap-

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PERRY 1941, coll. 1074-1129.

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pellativo di Oreste e Pilade presso gli Sciti29 – tutte le altre attestazioni sono molto tarde, a partire dal VII sec. d.C. (e anche esse, in più di un caso, non hanno relazione alcuna con l’uccello). Effettivamente, il nome nel papiro sembrerebbe più vicino al greco moderno kovraka". Ç KOPO≥Ç. Questo termine (pressappoco “cercatore/ V14 UDROÇ osservatore dell’acqua”) non solo si trova per la prima volta nel IV sec. d.C. (nell’astrologo Efestione di Tebe), ma per giunta, tra le sue rare occorrenze, non è mai riferito a un uccello (nel papiro è un trampoliere dal becco lungo e diritto), né a un qualsiasi altro animale. ÇKOÇ Ç. Di per sé significa “piccolo cerchio”: nel paV15 KUKLIÇ piro designa un pesce la cui immagine appare perfettamente circolare, e che dunque parrebbe una sorta di pescepalla, ma la lingua greca ha altri nomi, non questo, per designare tale animale30. Ç EL≥ªEºFAÇ Ç. Apprendiamo dalla didascalia che V16 ÇTEIROÇ l’elefante che combatte con il serpente sarebbe stei'ro", sterile. L’unico possibile raffronto è con il già menzionato testo del Physiologus, il quale afferma che l’elefante non ha naturale desiderio di unione sessuale (ejn touvtw/ tw/' zw/vw/ oujk e[sti sunousiva" ejpiqumiva); inoltre, qualche riga più avanti, si ricorda anche l’avversione del serpente nei confronti di esso (ejcqrov" ejsti oJ o[fi" tou' ejlevfanto")31. Ç. In questo caso la perplessità è generata dalla corV17 TAUROÇ rispondenza di questo nome con la figura di uno stranissimo pesce con una lunga coda al posto della pinna caudale. V18 ZUGAINA. Questo è il nome del pescemartello, attestato, come per xifiva", sia nel greco classico che in quello moderno. La fi29 Su questo nome cfr. anche HANSLIK 1959, col. 2080, dove si propone una possibile «Verbindung mit griech. kovlax». 30 Cfr. THOMPSON 1947: il nome più specifico è toxovth" (p. 263), ma si trovano anche i nomi hJgemwvn o hJghthvr (p. 75; più propriamente designano il pesce pilota), e lagw;" oJ qalavttio" (pp. 142-44; più propriamente designa la lepre marina); in lingua latina si parla di orbis (p. 185; Plinio, XXXII, 14 e 149, Isidoro, Origines, XII, 6, 6), ma il suo corrispettivo greco, dice ancora Thompson (p. 189), dovrebbe essere lo ojstravkion di Strabone, XVII, 2, 4. 31 Physiologus, redazione I, sezione 43.

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gura però è totalmente di fantasia: non è un pesce, e il caratteristico “martello” è disegnato attaccato al muso in maniera stravagante. Ç. Si tratta di un nome di pesce piuttoV20 OUR≥ªAºN≥O≥ÇKOPOÇ sto raro: le prime attestazioni (nel complesso non sono nemmeno una decina) sono del II sec. d.C. Ç. Il nome greco della giraffa, kamhV21 KAMHLOPORDALIÇ lopavrdali", subisce nel papiro una lieve alterazione con la sostituzione della seconda alfa con un omicron. Per il sostantivo pavrdali" è effettivamente attestata la variante con omicron, povrdali"32, ma non per la giraffa; la didascalia KAMHLOPORDALIÇ è in questo senso un hapax. ÇTRAÇ ÇÇ≥UÇ. Nonostante il disegno sia conservato e la diV27 OÇ dascalia leggibile, l’identificazione dell’animale è ardua. Si tratta di una bestia marina, simile a pesce nel corpo, dotata di vistose scaglie e di lunghe mascelle da coccodrillo, e con due curiosi baffi-antenne biforcuti che partono dalle narici. Anche se leggessimo epsilon al posto del secondo sigma, incerto, questo nome rimarrebbe un hapax. Ç. La figura rappresenta un uccello molto simile a un V30 MUXOÇ fenicottero. La prima attestazione della parola muvxo", ma come nome di pesce, sembra essere in Ateneo che cita Aristotele33; oltre che in Ateneo, il termine muvxo" è raramente attestato come variante di muvxa (“muco”, o “sebesteno”, un nome di pianta) o anche come nome proprio, e soltanto in Suidas (M 1419) esso designa un animale marino34. Resta comunque il fatto che in Ateneo e Aristotele muvxo" è inequivocabilmente un pesce, non un uccello, come invece appare nel papiro.

32 Il grammatico Apione, I sec. d.C., ne faceva una distinzione di genere, indicando con pavrdali" la femmina e con povrdali" il maschio del leopardo; tuttavia le altre attestazioni, anche precedenti, non sembrano implicare tale distinzione. 33 Cfr. Deipnosophistae, VII, 77, 306f; la citazione di Aristotele fa riferimento a Historia Animalium, V, 543b 14-18, luogo per il quale i manoscritti hanno muvxwn (o smuvxwn), che è effettivamente il nome attestato anche da altri autori (cfr. anche THOMPSON 1947, p. 162, s.v. muxivno"). 34 Il myxona che compare in alcune edizioni di Plinio (XXXII, 77) è in realtà ricavato nelle Castigationes Plinianae di Ermolao Barbaro sulla base del passo citato di Ateneo; i manoscritti dell’opera di Plinio riportano lezioni diverse.

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Ç. La maestosa tigre rampante si erge su quello che, V33 TIGROÇ nel catalogo della mostra, è considerato il più curato degli inserti naturalistici, e cioè un supporto roccioso ben caratterizzato nei dettagli di sporgenze e fessure; non altrettanto accurata è la didascalia, dato che la forma corretta del nome sarebbe tivgri". Ç. Il disegno è quasi del tutto perduto: soV38 AMER≥WKAPTHÇ no conservate solo le lunghe zampe di un trampoliere. Quanto al nome, l’unico caso confrontabile riscontrato è negli Scolii a Dionigi Periegeta, 290, e riguarda il nome del monte su cui avrebbe le sorgenti il fiume Eridano (ÔO de; ΔHridano;" ejx o[rou" kaloumevnou ÔHlivou kapth'" ktl.). Ç. Anche questo termine non ricorre prima del II V42 FU≥ÇALOÇ sec. d.C. Alla categoria degli hapax si possono ascrivere anche quelle didascalie che, pur essendo conservate solo parzialmente, rivelano nelle loro lettere superstiti altri nomi inconsueti: è il caso dei tre uccelli diÇTAKª ) e V39 (ICQª ), per i segnati in V25 (KERAT≥ª ), V32 (AÇ quali i prefissi leggibili possono far pensare anche a nomi plausibili, ma a noi non altrimenti noti per degli animali. E in V24 ci doveva esÇUsere un composto di cevrsudro" con omega iniziale (WT≥ ≥ª CºERÇ Ç), ma nessun nome del genere è attestato. DROÇ 5. Raffronto con le fonti letterarie, disposizione delle figure, possibili nuclei compositivi Si è già visto che certe figure particolarmente curate e centrali nel “bestiario” sono per più di una ragione riconducibili a Artemidoro di Efeso, formando di fatto una sezione continua, o per lo meno dei gruppi coerenti che fanno pensare a degli abbozzi di un progetto compositivo. Similmente, abbiamo confrontato i disegni e le didascalie di lukoqova" (V1) e cevrsudroi panqhrokorkovdeiloi (V3) con il mosaico nilotico, riscontrando così una relazione con esso nelle prime figure del repertorio papiraceo35. 35

Anche il disegno V2 che si trova tra di essi potrebbe appartenere a questo

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Tra questi due possibili nuclei compositivi si trova una zona fittamente popolata soprattutto da pesci e uccelli (cui si aggiungono kriavgrion, V5 e kavstwr, V7) disposti come circolarmente attorno alla scena centrale – per posizione e dimensione – dello scontro di xifiva" e qunnoprivsti" (V9), una cornice di figure più o meno statiche e a sé stanti attorno a una figura dinamica e composta. A questo “corteo zoologico” appartiene aijgivlwy, una parola, a quanto s’è visto, incomprensibile in questo contesto, a meno di non metterla in relazione con il nome macedone dell’aquila aijgivpoy, attestato unicamente nell’Etymologicum Magnum. Orbene, proprio in quest’opera compaiono diversi termini (prescindendo dai loro significati specifici) utilizzati nel papiro come didascalie, e la più alta concentrazione di corrispondenze è proprio nella corona di disegni attorno a V9: stumfaliv" (V4), chnalwvphx (V8), aijgivlwy (V12), kovrax (V13), iJevrax (V11), privwn (V10), kavstwr (V7), nonché l’ariete (kriavgrion, V5) nella forma semplice kriov"36. Ancora altri testi offrono interessanti raffronti con il papiro. Un caso interessante è costituito da Timoteo di Gaza (V-VI sec. d.C.), autore di un’opera in versi sugli animali, conservata in un riassunto in prosa della metà dell’XI secolo37. La prima questione di rilievo connessa a Timoteo è l’elevato numero di nomi del papiro che compaiono in questo breve testo: nell’ordine registriamo tivgri", gruvy, pavrdali", ai[gagro", kamhlopavrdali", ejlevfa", dravkwn, muvrmhx (si tratta della formica indiana), luvgx, kovrax. In più, si nominano sia luvko" che qwv", i possibili “componenti” di lukoqova", e si menziona a due riprese la stella Sirio, una volta a riguardo del lupo, un’altra a riguardo dei cani38. In secondo luogo, rileviamo che tre degli scon-

nucleo, ma purtroppo esso è ben conservato limitatamente al corpo, mentre la testa e, verosimilmente, la didascalia sono state inghiottite da una lacuna: sulla base di ciò che vediamo (un quadrupede che, per la pelle maculata e le orecchie appuntite, sembra essere un felino) potrebbe trattarsi del krokovtta", una sorta di iena non solo illustrata nel mosaico di Palestrina, ma anche oggetto della descrizione di Agatarchide di Cnido e Artemidoro di Efeso. 36 A questi si aggiungono ejlevfa" (V16), dravkwn (V29), gruvy (V19), muvrmhx (V22) e la stella Sirio (ajstrokuvwn, V28), della quale si dice Seivrio" de; oJ kuvwn ejsti;n ajsthvr. 37 HAUPT 1869. I manoscritti che conservano questi estratti sono: Monac. Gr. 514, Barocci 50, e un manoscritto di F. Matthaei (segnalato da Haupt, p. 1). 38 Cap. 7: kruvptetai de; [scil. oJ luvko"] kata; to; kairo;n tou' Seirivou kuno;" e{w" ou| katayuvxh/ oJ ajhvr; cap. 26: o{ti kata; th;n ajnatolh;n tou' Seirivou oiJ kuvne" lus-

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tri di animali illustrati sul “bestiario” sono descritti proprio da questo autore, con variazione minima dei soggetti: anzitutto la grande scena del grifone, nella quale, rispetto al papiro, incontriamo la tigre al posto del leopardo, ma che per il resto risponde fedelmente a quanto è lì disegnato (la madre si oppone al grifone che ghermisce i suoi cuccioli)39; il leopardo, invece, lo troviamo alle prese con il capro selvatico, che nel papiro è aggredito dalla lince40 (cfr. fig. 12a); infine, Timoteo presenta il dravkwn come nemico naturale dell’elefante, e i due animali spesso si affrontano – proprio come nella figura – in scontri che si rivelano mortali ora per l’uno, ora per l’altro41. Quanto ai pesci, un riscontro utile è Oppiano di Anazarbo (II-III sec. d.C.), che compose – anche lui in versi – Halieutica in cinque libri; nel primo di questi, compaiono quattro dei nomi vergati sul verso del papiro: sau'ro" (vv. 106 e 142), xifiva (v. 182 e passim), zuvgaina (v. 367) e fuvsalo" (v. 368). Nel giro di quattro versi (I, 367370) si ritrovano tre animali del papiro: non solo gli appena citati zuvgaina e fuvsalo", ma anche prh'sti", conservato nel “bestiario” sia nel composto qunnoprivsti", sia nella variante privwn. Il terzetto fuvsalo" – zuvgaina – prh'sti" compare anche in Eliano e Manuele Philes (poeta molto tardo, XIII-XIV secolo). Tra i pochissimi autori che attestano fuvsalo" c’è Artemidoro42; non si tratta però del nostro geografo, ma di Artemidoro di Daldi, II sec. d.C., autore di cinque libri di Interpretazione dei sogni. Il fuvsalo" è menzionato in due occasioni: II, 13 e IV, 56. È la seconda occorrenza quella che desta maggiormente il nostro interesse: nel capitolo 56 del libro IV, Artemidoro spiega cosa significhi sognare certi animali, sulla base della natura e dell’indole di ognuno di essi. E dunque il fuvsalo", annoverato tra gli animali minacciosi più per aspetto e dimensioni che per effettiva potenza, è figura del fanfarone, così come gli animali piccoli, citati subito dopo, lo sono di uosw'si, pauvontai de; louovmenoi. È utile ricordare, a riguardo della ricorrenza del nome di Sirio, che Timoteo fu allievo di Orapollo. 39 Cap. 9: o{ti hJ tivgri" ejpiphdw'sa dravttetai aujtou' tou' grupov", o{te ejkei'no" aJrpavzei ta; tevkna auth'". 40 Cap. 11: o{ti [scil. oiJ pardavlei"] tevcnh/ ajgreuvousi tou;" aijgavgrou". 41 Cap. 25: o{ti ejcqrou;" e[cousi [scil. oiJ ejlevfante"] tou;" dravkonta" kai; pollavki" foneuvousiv te aujtou;" kai; foneuvontai uJpΔ aujtw'n. 42 Le attestazioni di fuvsalo" si concentrano nel periodo II-IV sec. d.C.: Oppiano, Luciano, Artemidoro, Eliano, Epifanio; a questi si aggiungono Eustazio, Costantino Manasses e il già citato Manuele Philes.

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mini spregevoli. Proponendo esempi per questa seconda categoria, si fa il nome del sau'ro": a distanza di una manciata di parole, dunque, compaiono due nomi, fuvsalo" e sau'ro", che nel verso del papiro si trovano uno sotto l’altro43. Estendendo l’indagine all’intero capitolo 56, i nomi di animali che sicuramente trovano riscontro nelle didascalie del nostro repertorio sono, nell’ordine: tivgri", pavrdali", ejlevfa", dravkwn, fuvsalo", sau'ro", iJevrax, kovrax, ai quali potremmo aggiungere kuvwn e luvko" (che nel papiro compaiono negli insoliti composti ajstrokuvwn e lukoqova"). Ma Artemidoro parlava di animali anche in altri luoghi della sua opera; due casi ancora vanno illustrati. Anzitutto anche in quest’opera figura la stella Sirio, in un contesto in cui, tentando una spiegazione del nome dell’astro (to; a[stron to;n Seivrion, o}" puretou' ai[tio" w]n prov" tinwn kuvwn kalei'tai), si crea una relazione diretta tra la stella e l’immagine del cane44. Anche il termine muvrmhx – che nel papiro, ricordiamo, è un felino alato – non è estraneo a Artemidoro di Daldi. Egli parla di muvrmhke" ptera; e[conte"45, cosa che in sé non stupisce affatto: già Aristotele parlava di formiche alate, un insetto peraltro anche oggi ben noto con questo nome. Ma constatiamo anche che questo muvrmhx ptera; e[cwn di Artemidoro di Daldi si accorderebbe perfettamente con il levwn kalouvmeno" muvrmhx del suo omonimo di Efeso, generando consequenzialmente il “leone alato chiamato formica” del papiro (cfr. fig. 11a), che tuttavia nessuna fonte ha mai descritto o raffigurato. È appena il caso di ricordare che anche l’Artemidoro del II d.C. era originario di Efeso, ma preferì definirsi, nell’opera sui sogni, “di Daldi”, paese lidio dove era nata sua madre, pur avendo scritto altre opere “firmandosi” Artemidoro di Efeso46. 43 Il nome sau'ro" può indicare sia la lucertola che un particolare pesce, come nel papiro; poco importa ai fini del nostro discorso quale sia il suo significato nel testo di Artemidoro, dato che la nostra ricerca mira a individuare nelle fonti attestazioni e compresenze dei nomi proposti dalle didascalie del papiro. 44 Onirocriticon, II, 11. Si sta descrivendo cosa significhi sognare cani e arnesi connessi alla caccia. I cani – osserva Artemidoro – erano anche figura di malattie, e sarebbe questo il motivo per cui a Sirio sarebbe stato assegnato il nome oJ kuvwn: al periodo in cui compare nel cielo corrisponde l’insorgere delle febbri, febbri che hanno natura violenta e feroce, proprio come quella del cane, e dunque Sirio, astro portatore di malattie feroci come i cani, è chiamato “il cane”. 45 Onirocriticon, II, 6. 46 Onirocriticon, III, 66: «Ciò che era necessario, Cassio Massimo [il filosofo Massimo di Tiro, uno dei dedicatarii], è stato affidato per intero a questi libri, co-

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Nella lista dei raffronti utili per lo studio del verso del papiro va naturalmente considerato anche Orapollo47 con il suo ajstrokuvwn. Resta però da spiegare, nell’ambito del bestiario, la presenza di un nome simile, che indica un astro, e non un animale, né reale, né fantastico.

6. Una proposta di lettura: l’ipotesi cosmografica Come si è visto, la stella Sirio, la più luminosa di tutto il cielo, era diffusamente conosciuta nell’antichità greca come “il Cane”; varie sono le leggende che giustificano questo nome, la più diffusa delle quali voleva che la costellazione di cui fa parte, Canis Maior appunto, rappresentasse uno dei cani al seguito del cacciatore Orione, eternato nel vicino asterisma. Se il disegno di V28 fa esplicito riferimento a una costellazione, è possibile che anche altre figure (o didascalie) vadano lette in questo senso. Gli animali che popolano il cielo notturno sotto forma di costellazioni sono numerosissimi. Delle 48 costellazioni nominate da Claudio Tolomeo, più della metà appartengono al mondo degli animali, reali e fantastici, e con i progressivi ampliamenti fino alle 88 costellazioni odierne il rapporto è pressappoco invariato. Questo processo di ampliamento non è stato univoco e lineare: alcune costellazioni prima presenti caddero successivamente in disuso e furono abbandonate, altre sono rimaste proposte occasionali, prive di successo presso il mondo scientifico. A ogni modo, opere e atlanti di astronomia, soprattutto a partire dalla fine del Cinquecento, sono riccamente corredati di tavole esplicative per visualizzare la posizione reme si conveniva; e non stupirti della sua intitolazione, perché vi sta scritto Artemidoro di Daldi e non di Efeso, come in molti dei libri finora composti da me su altri argomenti. Infatti accade che Efeso sia già famosa per se stessa, e abbia molti insigni araldi del suo nome; mentre Daldi, città della Lidia non certo illustre, è rimasta fino ai nostri tempi ignorata perché non ha avuto tali personaggi. Perciò a lei, mia patria per parte di madre, dono quest’opera come ringraziamento per avermi allevato» (trad. di D. Del Corno). 47 Segnalo qui che B.E. Perry, nel già citato studio sul Physiologus (PERRY 1941), ha ben studiato le interrelazioni tra alcuni dei testi e degli autori che ho menzionato in questa rassegna di raffronti. Lo stemma da lui redatto che schematizza queste dipendenze ha come “sbocchi” Orapollo, Physiologus e Timoteo di Gaza (cfr. coll. 1105-1111; lo stemma è alle coll. 1107-1108).

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ciproca di stelle e costellazioni, e i disegni che le raffigurano hanno molti punti in comune con le figure del papiro: l’Uranometria di Johann Bayer (1603), l’Uranographia di Johannes Hevelius (1690), ma anche opere che non sono esattamente trattati di astronomia, come l’Origine de tous les cultes ou réligion universelle di CharlesFrançois Dupuis (1795), possono giovare alla nostra indagine. Il disegno dell’oca egiziana chnalwvphx (V8) potrebbe trovare posto nella lettura cosmografica. Non esiste al giorno d’oggi una costellazione dell’oca, bensì una stella che risponde al nome latino Anser, e che attualmente fa parte di un piccolo gruppo di astri dalla luminosità piuttosto debole, noti come Vulpecula. La costellazione della Volpetta è nel numero di quelle introdotte nel 1690 da Hevelius, che più precisamente, nelle tavole della sua Uranographia, collocò il disegno di una volpe che tiene stretta tra i denti la sua preda, per l’appunto un’oca: Vulpecula cum Ansere o Anser et Vulpecula sono i nomi completi in Hevelius (cfr. fig. 11b; come si è detto, oggi il nome Anser è riferito solo a una stella del gruppo). Orbene, chnalwvphx, un composto dei termini che indicano l’oca (chvn) e la volpe (ajlwvphx), sembrerebbe l’esatta trasposizione in greco di Vulpecula cum Ansere, un nome latino del 1690. La Vulpecula si trova in cielo in prossimità del “Triangolo Estivo”, cioè vicino ai tre astri più luminosi48 delle costellazioni Aquila, Cygnus e Lyra49 (cfr. fig. 11b); in alcuni studi astronomici e in alcuni repertori zoologici sull’antichità50, queste costellazioni sono indicate come “uccelli stinfalidi”. La figura subito a destra del chnalwvphx è proprio l’uccello stinfalide stumfaliv" (V4). L’associazione dell’uccello stinfalide alle tre costellazioni pare essere stata operata per la prima volta da Charles-François Dupuis (1742-1809), professore di retorica a Parigi, al Collège de Lisieux, e appassionato studioso di astronomia e mitologia. La sua opera più importante, i quattro volumi (uno di sole tavole) della Réligion universelle51, tratta una quan-

48 Altair, “aquila volante”, nell’Aquila; Deneb, “la coda”, nel Cigno; la celeberrima Vega nella Lira. 49 La “lira” della costellazione è effettivamente lo strumento musicale di Apollo, ma lo si immaginava portato in cielo da un’aquila o da un simile rapace; questa iconografia si è conservata fino a oggi. 50 Tra essi anche THOMPSON 1932, pp. 273-274, s.v. stumfalivde". 51 DUPUIS 1795.

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tità cospicua di dati e argomenti che rispondono all’intento fondamentale «de remonter à la source de nos opinions religieuses, d’en fixer l’origine, d’en suivre les progrès, et les formes variées; de faire appercevoir la chaîne commune, qui les unit toutes, et de proposer une méthode générale pour en décomposer la masse informe et monstrueuse»52. L’obiettivo è ambizioso, come i termini con cui Dupuis ne parla: il sistema di pensiero e interpretazione che traccerà nella prima parte dell’opera – annuncia ancora nella prefazione – gli servirà «à résoudre toutes les énigmes sacrées, et à décomposer tous les monumens du culte réligieux de tous les Peuples»53. È in questo discorso che si inserisce la lettura e interpretazione delle imprese di Eracle che, come tutti gli altri racconti mitici, andrebbero spiegate con la «Théorie des paranatellons»54: esse sarebbero cioè un racconto articolato sul succedersi delle “costellazioni che sorgono assieme a” (paranatellonta) quelle zodiacali. Dodici mesi, dodici segni, dodici “fatiche”: il quinto mese, con il sole nel Sagittario, è segnato dal sorgere di Aquila, Cigno e Lira, che diventano l’oggetto della quinta impresa di Eracle: gli uccelli stinfalidi.

Alcune scene di lotta offrono possibilità di raffronto. Uno di questi soggetti è lo scontro tra la lince luvgx e il capro selvatico ai[gagro" (V40, cfr. fig. 12a). Nel suo atlante del 1690, Hevelius osservò che le stelle poste tra Ursa Maior e Gemini sono così fioche che per scorgerle serve il proverbiale “occhio di lince”; la tradizione vuole che sia questo il motivo per cui l’astronomo di Danzica collocò in corrispondenza di esse la costellazione Lynx, tuttora riconosciuta dal mondo scientifico. Essa si trova di fianco a Auriga, asterisma noto fin dall’antichità, e che si suole rappresentare con dei capretti in una mano, e una capra più grande che si arrampica sulla sua spalla. In corrispondenza della capra – la ninfa Amaltea, secondo la leggenda – è la stella più luminosa del gruppo, il cui nome latino è appunto Capella: e nell’atlante di Hevelius i disegni della capra e della lince si trovano uno di fronte all’altro. Certi tratti del disegno del papiro, poi, sembrano vicini ad altre figure dell’atlante: la postura stessa della lince che assale il capro selvatico è sovrapponibile a quella del lupo trafitto dal centauro, in un’altra zona del cielo (cfr. fig. 12b): il 52 Ivi, p. VIII (Préface); Dupuis sostiene l’inconsistenza di ogni religione rivelata («toutes sont filles de la curiosité, de l’ignorance, de l’intérêt et de l’imposture»), e l’esclusiva genuinità di un’unica religione naturale, comune a tutto il genere umano. 53 Ivi, p. XIII (corsivi miei). 54 Cfr. ivi, vol. III, p. 191.

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corpo sospeso a mezz’aria, le zampe posteriori raccolte, quelle anteriori protese; e, naturalmente, il corpo del centauro è per larga parte confrontabile con quello dell’ai[gagro". Questa corrispondenza a più livelli (nome, posizione, iconografia) tra i disegni del papiro e quelli degli atlanti stellari si ripropone per un’altra scena di lotta: xifiva" contro qunnoprivsti" (V9, cfr. fig. 13a). Anzitutto, entrambi i nomi trovano la loro precisa corrispondenza: Xiphias è il nome proposto ancora una volta da Hevelius per la costellazione oggi nota come Dorado (“Pesce dorato”), mentre i latini chiamavano Pristis (o Pistris o Pistrix)55 le stelle che disegnano in cielo il mostro marino (oggi Cetus) inviato da Poseidone contro Andromeda. Avevamo già rilevato che qunnoprivsti", avendo ben poco sia del tonno che del pescesega, appare esattamente come un mostro marino serpentiforme; in più, alcuni tratti del disegno del suo avversario xifiva" sembrano anch’essi avere relazione con il disegno di Cetus come compare in Hevelius (cfr. fig. 13b). In quell’atlante del 1690, il mostro ha un corpo da serpente marino e una cresta dorsale seghettata, caratteri che ritroviamo in qunnoprivsti"; ma la parte anteriore del corpo (sulla quale si innesta una testa deforme) è quella di un felino con le zampe protese in avanti, come per lo xifiva" del papiro: la corrispondenza con il corpo di quest’ultimo sembra estendersi persino alla descrizione delle forme muscolari sotto il collo, con un tratto a forma di y. Anche in questo caso la posizione reciproca rispetto a un altro disegno ci offre un ulteriore spunto. Nei pressi del polo sud celeste, dove si trova Xiphias, Hevelius disegna il Piscis Volans, costellazione introdotta da Bayer nel 1603 (oggi chiamata semplicemente Volans); anche nel papiro, poco più sotto di xifiva", figura il pesce volante iJevrax (V11). Sono in special modo gli animali marini a fornire raffronti più significativi, proprio per la rarità dei loro nomi: lo si osserva anche per oujranoskovpo" (V20). Nel 1754 il naturalista inglese John Hill (1707-75), nel suo Urania, propose l’introduzione di tredici nuove costellazioni che raffiguravano animali molto singolari, come il pangolino, o il mollusco gryphaea; tra questi vi era anche il pesce uranoscopo, da collocarsi tra Gemini e Lynx. Nessuna di queste proposte ebbe successo. Rileviamo inoltre che già molto tempo prima oujranoskovpo" aveva avuto a che fare con le volte celesti. Apprendiamo 55

Cfr. ad es. Cicerone, Aratea, vv. 139-144.

VI. Le figure di animali sul «verso» del papiro di Artemidoro

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da Franz Boll56 che il termine compariva nella lista dei paranatellonta di Scorpio negli estratti astrologici di Teucro di Babilonia (I sec. d.C.). Più precisamente, lo si legge in un manoscritto che è una raccolta di testi astrologici, il Laurenziano XXVIII, 34, datato all’XI secolo: gli estratti di Teucro sono ai ff. 134v-136v. Insomma, a fronte di una ricorrenza estremamente ridotta del termine (nella letteratura greca nota, una mezza dozzina di attestazioni in tutto), ben due circostanze riconducono l’uranoscopo al cielo stellato. Ma il caso degli excerpta laurenziani di Teucro è particolarmente calzante, dato che a poca distanza (non si dimentichi che questo testo è contenuto in sole cinque pagine di manoscritto), tra i paranatellonta di Cancer, compare anche il nome che è stato il motore primo della proposta di lettura cosmografica: ajstrokuvwn. I testi astrologici consentirebbero di dare una spiegazione anche alla didascalia kuklivsko" (V15), stranamente associata al pescepalla. Questo animale si chiama in greco toxovth", che è anche il nome del Sagittario, raffigurato sempre come un centauro arciere. Tra le sue zampe equine si va a incastrare un’altra costellazione di antiche origini, il cerchio di stelle Corona Australis, il cui appellativo più diffuso in lingua greca era novtio" stevfano"; tuttavia in Arato e Ipparco se ne parla come kuvklo", e altre fonti (lo scolio 400 allo stesso Arato, e Gemino, Elementa astronomiae, 3) precisano che taluni si riferivano a essa con oujranivsko"57. Nel caso del disegno V15, dunque, il pescepalla, che propriamente ha lo stesso nome del Sagittario (toxovth"), è associato a una didascalia composta da due nomi che facevano riferimento alla Corona australe, la costellazione al Sagittario più prossima (kuvklo" + oujranivsko" = kuklivsko"). ÔUdroskovpo" (V14), l’uccello “osservatore dell’acqua” che fa da pendant al pesce “osservatore del cielo” di V20, è assimilabile a una costellazione zodiacale. Particolarmente nel greco moderno, tra gli altri significati, uJdroskovpo" indica l’addetto al controllo delle acque, il “sorvegliante delle acque”, che è una delle valenze del sostantivo latino Aquarius. È poi utile rilevare che, presso certe popolazioni asiatiche, la figura corrispondente all’Acquario era l’ibis, un BOLL 1903, p. 263. Queste informazioni sono reperibili tutte assieme in vari repertori e studi (per esempio GUNDEL 1929, oppure nei commenti a Arato), tra i quali l’opera di Boll, dove, alle pp. 148-150, dedicate alla Corona australe, compaiono in un unico contesto toxovth", kuvklo" e oujranivsko". 56 57

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Parte seconda. Il nuovo papiro

uccello acquatico, appunto, a suo modo uJdroskovpo"58. Quanto alla posizione del disegno del papiro, essa appare coerente alla successione zodiacale Aries-Pisces-Aquarius sull’eclittica, possibilmente tradotta nella serie kriavgrion (V5), xifiva" – qunnoprivsti" (V9, due pesci almeno nelle “intenzioni”, cioè nelle didascalie), uJdroskovpo". Ci limitiamo a elencare le ulteriori possibili suggestioni in chiave cosmografica offerte dalle didascalie del papiro: la costellazione Lupus pare adombrata in lukoqova" (V1), che conterrebbe il nome greco (lykos) e uno di quelli arabi (thos) o anche turchi (thoë) per questo gruppo di stelle59; kavstwr (V7), oltre che il nome del castoro (cui in verità il disegno non somiglia molto), può essere Castore, uno dei due più brillanti astri di Gemini; anche Corvus (kovrako", V13) ha la sua sede nel cielo notturno; e in tau'ro" (V17) si può individuare il toro, anche se il papiro ne proporrebbe una “versione marina”; coinciderebbe invece di nome e di fatto kamhlopovrdali" (V21) con Camelopardalus, costellazione introdotta nel 1624 nel planisfero di Jakob Bartsch, genero di Keplero, e tuttora in vigore; abbiamo visto come muvrmhx (V22) sia il nome assegnato da Artemidoro a una specie di leone (nel cielo ci sono Leo e Leo Minor); e quanto alle serpi (dravkwn, V29, e i rettili disegnati in più d’una scena di lotta) non c’è che l’imbarazzo della scelta (Serpens, Draco, Hydra, Hydrus); il pesce sau'ro" (V41) ha lo stesso nome della lucertola, che, con il nome di Lacerta, figura tra le costellazioni supplementari dell’Uranographia di Hevelius. Inoltre, sfogliando gli studi sull’astrologia antica si apprende che gli zodiaci non greci erano popolati anche da coccodrilli, elefanti, tigri, pantere etc.

Con tutto questo non si vuole identificare nel verso del papiro di Artemidoro una mappa celeste; si sono volute piuttosto mettere in luce quelle che paiono significative affinità tra gli animali del “bestiario” e le costellazioni degli atlanti stellari in alcune didascalie, iconografie, posizioni, e nella scelta dei soggetti. In coda a queste osservazioni, ricordiamo l’esistenza di un Artemidoro cosmografo60. È il filosofo Seneca che ce ne parla: «Adversus hoc ab Artemidoro illa dicuntur: non has tantum stellas quinque discurrere, sed has solas observatas esse; ceterum innumerabiles ferCfr. BOLL 1903, p. 295. Cfr. DUPUIS 1795, vol. III, p. 182. 60 Cfr. KAUFFMANN 1895. 58 59

V17 V18

cersudroi | panqhrokorkodeilªoiº

stumfali"≥ ≥

V3

V4

V15

V22 V23

chna ≥lwphx

xifia" vs. qu n≥ nªoº|pristªi"º

priwn

V8

V9

V10

V27 V28

korako"

udroskopo"≥

V13

V14

V25

V42

V41

astrokuwn

ostrass≥u"

V39 V40

kerat ≥ª paª

V37 V38

wt ≥ ª≥ cºersudro"

V36

mh≥ª

muªrºmhx

V35

V34

kamhlopordali"

V33

gruy

V32

our≥ªaºno≥ s≥ kopo"

zugaina

V31

V30

tauro"

V29

kuklisko" steiro" el ª≥ eºfa"

fu s ≥ alo"

sauro"

lugx vs. aigagroª"º

icqª

amer w ≥ kapth"

ºron ≥

senza didascalia

senza didascalia

senza didascalia

tigro"

astakª

“titulus”

muxo"

drakwn

Didascalie e disposizione delle figure sul verso del papiro di Artemidoro. Si è cercato di conservare la numerazione che si ricava dal catalogo della mostra, seguendo un andamento «dall’alto verso il basso, da sinistra verso destra»; il catalogo non contiene però una lista sistematica.

V26

ierax

aigilwy

V11

V12

V24

V21

ka ≥ªsºt w≥ r

V7

V19 V20

kr≥iagrion

non leggibile

V5

V6

V16

lukoqoa"

senza didascalia

V1

V2

206

Parte seconda. Il nuovo papiro

ri per occultum etc.» (Naturales quaestiones, VII, 13). Seneca mostra di conoscere teorie astronomiche di un autore che risponde al nome di Artemidoro, e per il quale, in I, 4, si fornisce anche l’epiteto geografico, Parianus. Allo stesso autore potrebbe fare riferimento l’astrologo Palchos (V-VI sec. d.C.) in un suo frammento reperibile nel codice Angelicanus 29 (f. 141v): Babulwvnioi me;n ou\n kai; Caldai'oi scedo;n prw'ton ejfeu'ron th;n tw'n fainomevnwn gnwvs in, kaqw;" e[gnwmen ejk tw'n progenestevrwn hJmw'n. ÔIstorou's i ga;r ou|toi kai; ΔApollwvnion to;n Muvndion kai; ΔArtemivdwron [lacuna] sunevgraye de; kai; peri; touvtwn oJ Bhrwso;" kai; oJ ΔEfh'"61. Anche questa “ipotesi cosmografica”, dunque, ha un nesso con il nome di Artemidoro62. Cfr. BOLL 1903, pp. 367-69. L’assimilazione tra Artemidoro di Efeso e Artemidoro di Pario è facilitata dal fatto che studi scientifici di matematica e astronomia ben si confanno alla formazione di un geografo; Strabone, ad esempio, dedica i primi due libri della sua opera geografica alla discussione e confutazione di Eratostene, e nel libro II osserva come le branche del sapere scientifico si implichino l’un l’altra: fisica – astronomia – matematica – geografia. I due Artemidoro sono considerati come un unico autore da J.S. Ersch e J.G. Gruber nella loro Allgemeine Encyclopädie der Wissenschaften und Künste (ERSCH-GRUBER 1820) nonché nel grande e autorevole manuale di F.A. Ukert (UKERT 1846, I, 2, pp. 141-142 e 250). 61 62

VII LE TESTE FILOSOFICHE: ERACLITO E DEMOCRITO

Abbiamo già ricordato in altra parte di questo volume l’uso tardo-antico di utilizzare le pareti delle aule scolastiche per grandi pinakes contenenti le carte geografiche. L’uso dell’esposizione pubblica delle carte (gewgrafivai) era anche di molto precedente («cogor et e tabula pictos ediscere mundos» dice Properzio, IV, 3, 37), ma, per quel che riguarda l’ambiente scolastico, la documentazione è tardo-antica. Vi allude Eumenio (297 d.C.) nel Pro instaurandis scholis (20, 2: «Videat praeterea in illis porticibus iuventus et cotidie spectet omnes terras et cuncta maria») e i ruderi di una scuola romana nell’antica cittadina di Autun hanno rivelato frammenti di carte geografiche dipinte sui muri1. Sui muri delle aule scolastiche, così come dei pritanei, nel V sec. d.C. si disegnava anche dell’altro. Ne parla Sidonio Apollinare nell’Epistola al vescovo Fausto (IX, 9, 14), dove elenca esemplificativamente una serie di soggetti dei quali il vescovo non deve mal sopportare «quod per gymnasia pingantur». Tra gli altri, Eraclito che piange e Democrito che ride. La storia di questa topica coppia filosofica che troviamo effigiata sull’agraphon prima della colonna I dell’«Artemidoro» meriterebbe una trattazione accurata. Qui ci limiteremo a ricordare l’introduzione di Reinhard Brandt al suo volume Philosophie in Bildern2, nonché, per Democrito, il saggio di Thomas Rütten, Demokrit. Lachender Philosoph (1992); ma anche alcune eccellenti pagine di Mario Martelli che prendono spunto dal v. 201 della Ginestra leopardiana3. Cfr. EGGER 1880, p. 43 e nota 43. BRANDT 2000, specie pp. 6-7. 3 MARTELLI 2007, pp. 162-166. 1 2

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Parte seconda. Il nuovo papiro

La prima attestazione nota, della coppia filosofica, è nel De ira di Seneca. «Eraclito – scrive Seneca (II, 10, 5) – ogni volta che usciva di casa e intorno a sé vedeva tanto grande numero di malamente viventi, anzi di malamente morenti, piangeva e aveva pietà di quanti gli si facevano incontro contenti e beati; mite era il suo animo, ma fragile. Anch’egli era tra coloro di cui si sarebbe dovuto piangere. Invece di Democrito dicono che ogni volta che usciva in pubblico gli veniva da ridere: a tal punto nulla di ciò che gli altri seriosamente facevano gli sembrava degno d’esser preso sul serio». La stessa tradizione si ritrova, quasi alla lettera, in Giovenale (X, 28-34), il quale a proposito dei due pensatori ricorda che «l’uno rideva ogni volta che metteva il piede fuori di casa, mentre l’altro piangeva» e scherzosamente si chiede «unde ille oculis suffecerit umor»4. Ma una traccia vi era già in Orazio, anche se riferita a uno solo dei due pensatori. Nella prima Epistola del libro secondo (vv. 194197) egli inquadra in una situazione concreta il riso di Democrito di fronte alla scempiaggine umana: «Se Democrito fosse tra noi riderebbe (rideret Democritus) nel vedere le facce del volgo pervase da ammirato stupore alla vista della giraffa, animale che fonde in sé le differenti nature della pantera e del cammello (diversum confusa genus panthera camelo, in greco kamelopardalis) o dell’elefante bianco». In Luciano di Samosata il topos in cui i due filosofi vengono posti in antitesi è consolidato e ben chiaro: Vite all’incanto 13, Morte di Peregrino 7 («Pianse le lacrime di Eraclito, io invece partirò dalla risata di Democrito») e 45, Sui sacrifici 15 («cose del genere, credute dal volgo, secondo me non hanno bisogno di qualcuno che le critichi, bensì di un Eraclito e di un Democrito»). Ed è interessante osservare che esso si presenta per la prima volta come operante anche nella pittura nella già ricordata attestazione molto interessante di Sidonio Apollinare (V sec. d.C.), nell’Epistola al vescovo Fausto. Lì, come sappiamo, Sidonio cita la pratica di affrescare i ginnasi e i pritanei con una serie di ritratti di filosofi e scienziati ciascuno presentato con la sua connotazione iconografica tipica: 4 Sul topos dei due filosofi in opposto atteggiamento dinanzi alla vanità del mondo si veda la trattazione di CAMPANA 2004, p. 21 e nota 19 (dove è indicata la bibliografia fondamentale sullo schema contrappositivo tra i due filosofi e sullo specifico topos del riso di Democrito), p. 101. Giustamente Campana segnala il progressivo costituirsi del topos, a partire dal frammento di Sozione citato in Stobeo III, 550, 8.

VII. Le teste filosofiche: Eraclito e Democrito

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«Speusippo a capo chino, Arato con la testa piegata all’indietro, Zenone con la fronte corrugata, Epicuro con la pelle distesa, Diogene con la barba lunga, Socrate con la chioma candida, Aristotele con un braccio proteso, Senocrate con le gambe accavallate, Eraclito che piange con gli occhi chiusi (Heraclitus fletu oculis clausis), Democrito invece che ride a labbra aperte (Democritus risu labris apertis), Crisippo con le dita piegate perché sta contando (digitis [...] constrictis), Euclide con le dita distese perché sta misurando lo spazio (digitis laxatis), Cleante con le dita serrate per indicare che fa entrambe le cose» (Epistole IX, 9, 14). Il passo di Sidonio venne ricopiato pari pari da Pietro Crinito nel De honesta disciplina (1508), opera influentissima nel Rinascimento. Essa ha certamente influito sulle varie raffigurazioni pittoriche moderne dei filosofi. All’interno del ciclo dei filosofi, la coppia Eraclito-Democrito godette di una rinomanza privilegiata, in epoca rinascimentale e moderna. Ritorna in più luoghi delle opere italiane di Giordano Bruno (per esempio De la causa, principio, et uno, 1584)5 e ritorna nelle Facezie di Ludovico Carbone, nel Democrito et Eraclito. Dialoghi del riso e delle lacrime di Giacomo Ferrari (1627), nell’Heraclitus humanae vitae miserias lugens di Francesco Battaglini (1629) e nell’anonimo Dialogo tra Eraclito e Democrito sulla Rivoluzione politica di Venezia (1797). Se Leopardi, scrivendo al Giordani, scherzosamente lo apostrofa «Ma dimmi, non potresti tu da Eraclito convertirti in Democrito?» (18 giugno 1821), ciò significa che il topos dei due filosofi è ben presente a entrambi. E ha ragione Martelli nel rilevare che esso è sottinteso anche nel celebre verso 201 della Ginestra: «Non so se il riso o la pietà prevale»6. Il topos aveva già trovato significativa realizzazione nella pittura rinascimentale, per esempio nell’affresco del Bramante che raffigura appunto Eraclito, le cui lacrime (un paio) spiccano sulle scarne e ascetiche guance, e Democrito che se la ride «labris apertis», mentre di mezzo c’è una carta geografica: la sfera terrestre raffigurata in planimetria, a significare ancora una volta che è del mondo, dei comportamenti degli uomini, che l’uno ride e l’altro piange. Modello di tale pittura dovette essere l’analogo dipinto che figurava nella villa di Marsilio Ficino, sede delle riunioni dell’Accademia fiorentina. BRUNO 2002, p. 638. MARTELLI 2007, pp. 162-166. L’allusione implicita in quel verso era sfuggita agli interpreti precedenti. 5 6

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Parte seconda. Il nuovo papiro

Questa amplissima tradizione, vigoreggiante nel classicismo moderno, giova dunque a intendere la ormai celebre coppia di teste che figurano, in asse, nell’agraphon dell’«Artemidoro». Frontale è Democrito, raffigurato «labris apertis», e di profilo è Eraclito sulla cui guancia ascetica scivola una lacrima, che ben si addice peraltro all’atteggiamento drammatico di quel volto. I due filosofi, il cui atteggiamento costituisce la fondamentale alternativa di fronte al «mondo», sono raffigurati accanto al proemio (colonne I e II) recante appunto l’elogio della filosofia, e della geografia in quanto filosofica. Ci si potrebbe persino domandare se, nell’ingegnoso pastiche che ormai solo per convenzione chiamiamo «Artemidoro», il ruolo del geografo il quale «concilia la propria anima con il territorio che gli sta di fronte» sia anche quello di fornire una via d’uscita all’alternativa dilemmatica praticata dai due celebri pensatori.

Bramante, Democrito ed Eraclito (1477), Pinacoteca di Brera, Milano.

VIII «SE LA GEOGRAFIA TACE»

1. Artemidoro «ritrovato» Il nome di Artemidoro venne fuori immediatamente. Si parlò dal primo momento di «un caso fortunato» (ein glücklicher Zufall) giacché «la frase iniziale della descrizione della Spagna (der Einleitungssatz der Beschreibung Spaniens) figurante esattamente al principio della colonna IV è anche tramandata come citazione dal II libro della Geografia di Artemidoro di Efeso». La fonte da cui proviene la citazione di quella frase passa per essere Stefano di Bisanzio, alla voce ΔIbhrivai: con la precisazione che essa risale al grammatico Elio Erodiano (GG, III, 1, p. 288, 27 Lentz) e che «più tardi» essa «fece il suo ingresso nell’Epitome di Costantino Porfirogenito (De administrando imperio, 23)»1. Nulla di più errato. In realtà la sola fonte che tramandi la citazione da Artemidoro riguardante nome e province dell’Iberia è Costantino Porfirogenito nel capitolo 23 del De administrando imperio. Fu Abraham Berkel (1688, 16942), seguito da Westermann (1839), e poi da Meineke (1849), editori di Stefano di Bisanzio, a decidere di inserire in Stefano il brano estratto dal trattato costantiniano2. Per giunta qua e là Meineke lo ritoccò. Ecco come segnalò la sua scelta: «Totum hoc tmema a Constantino Porphyr. de admin. imp. 23 servatum etc.» (p. 323)3. Quel che ancora più aggrava la situazione è che a sua volta Lentz prese inGALLAZZI-KRAMER 1998, pp. 195-196. Invece il precedente editore secentesco di Stefano, Thomas De Pinedo (1678), aveva evitato di farcire il testo di Stefano con pezzi tratti da Costantino. 3 Procedimento adottato da Meineke, e già da Berkel e Westermann, in molti altri casi e comunque correttamente segnalato con segni diacritici e nell’apparato. 1 2

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Parte seconda. Il nuovo papiro

teri brani (tra cui il nostro) dall’edizione Meineke di Stefano e li immise nel suo inutilizzabile testo di Elio Erodiano, dando così l’impressione, del tutto falsa, che già Elio Erodiano (nel II sec. d.C.) tramandasse quella frase, e fosse così all’origine di tutta la tradizione successiva4. Lentz lo rivela nell’apparato relativo a p. 288, ll. 27-33: «... omnia sumpta sunt ex St. B.» (p. 286)5. Le conseguenze di ciò sono due: a) è solo una ipotesi che quella raccolta di citazioni (tra cui Artemidoro) che nel trattato costantiniano (cap. 23) si intitola Peri; ΔIbhriva~ kai; ÔIspaniva~ provenga davvero da Stefano; b) e, soprattutto, il testo della citazione da Artemidoro va letto come si presenta nel manoscritto Parigino greco 2009 (inizio XI secolo, dunque vicinissimo all’autore) del De administrando imperio; e non invece secondo i ritocchi apportati da Meineke. Meineke, seguendo una suggestione avanzata per incidens e dubbiosamente dal bibliotecario di Kassel, Heinrich Schubart6, aveva spostato il kaiv che figura davanti a sunwnuvmw~ e lo aveva collocato prima di ejndotevrw. Si tratta di un intervento peggiorativo. Giustamente nella sua edizione del De administrando imperio Gyula Moravcsik ha mantenuto il testo tramandato, nel quale kaiv vuol dire etiam ed ejndotevrw è (da lui) inteso come soggetto di kalei`tai e il senso è «The interior between the Pyrenees mountains and the district about Gadara is denominated alternatively Iberia and Spain»7. Ma va anche segnalata la vecchia interpretazione di Berkel: «A Pyrenaeis montibus usque ad mediterranea, quae sunt apud Gades, communi nomine Iberia et Hispania nuncupatur». (Ovvio che il soggetto di kalei'tai fosse nella parte precedente la citazione: ma su ciò più oltre.) Orbene, il testo del papiro è modellato su quello di Meineke. È come se il papiro avesse a base il testo di Meineke8. È da rilevare che nel 1856, nell’XI annata di «Philologus», apparve, a cura 4 Per colmo di sventura, Lentz ha, nel copiare Meineke, saltato la parola sunwnuvmw~ nel brano che qui ci interessa. 5 Come Lentz abbia proceduto a gonfiare il trattatello di Arcadio Peri; tonw`n creando un fittizio Erodiano farcito di vari apporti tra cui il presunto Stefano di Bisanzio è raccontato da Lentz stesso, GG, III, 1, pp. XII-XIII. E, con molta lucidità, da DYCK 1993, pp. 776-783. SCHULTZ 1912, col. 961, 43 parlò di «tragedia» a proposito di questa edizione. 6 SCHUBART 1843, col. 197. 7 MORAVCSIK-JENKINS 1962-1967, p. 99. Analoga la interpretazione di BELKESOUSTAL 1995, p. 119. 8 Integrato con Strabone, III, 4, 19-20 per l’adozione insistente di suvmpasa.

VIII. «Se la geografia tace»

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di Robert Stiehle, la raccolta dei frammenti di Artemidoro. In tale raccolta (p. 203) il frammento sulla Spagna conservatoci dal De administrando imperio è il n. 21, e si presenta nella forma modificata da Meineke senza però che il lettore sia avvertito che il testo è stato modificato. (Su tutto ciò e sulle altre modifiche subite dal frammento sin dal XVII secolo, prima che il papiro lo incastonasse nella col. IV, vedi infra, cap. IX, § 1). L’unico frammento di una certa ampiezza finora attribuibile ad Artemidoro era questa citazione, riguardante la Spagna9. Degli undici libri di Artemidoro si ritrova, nel nuovo papiro, proprio un pezzo del libro sulla Spagna (il secondo), e proprio quello che avevamo già dalla tradizione indiretta. E, sorprendentemente, la colonna dove dovrebbe incominciare la trattazione sulla Spagna (la colonna IV, le coll. I-III – ci viene detto – contenevano il proemio) incomincia esattamente con le parole tramandate da Costantino: le quali costituiscono proprio l’inizio di colonna. E invece quella frase difficilmente può essere un inizio, o l’inizio. Già solo il dev in seconda posizione rende problematica una tale eventualità; manca la determinazione geografica precedente e correlata. Difficile che il libro cominciasse con ΔApo; de; tw'n Purhnaivwn ktl.10. E comunque la notizia presuppone che il lettore sia già stato ‘ambientato’ sia pure in modo essenziale, a proposito dei principali toponimi che ‘entrano in scena’. Ed è anche curioso che la stessa espressione (ajpo; tw`n Purhnaivwn ojrw`n mevcri Gadeivrwn) al rigo 1/2 serva a indicare il territorio, la regione spagnola, mentre invece al rigo 33/34 della stessa colonna serve a indicare la costa.

2. Rilevamenti testuali sulla colonna I 1. to;n ejpiballovmenon gewgrafiva/. «Colui che si accinge alla geografia» (allo studio della geografia, o alla pratica della geografia, o, forse, a scrivere un’opera geografica). Queste parole non potrebbero essere che quelle iniziali del trattato: cioè della Praefatio generale. Infatti subito dopo, nei righi seguenti della colonna I, viene spiegato cos’è la geografia e il suo intimo nesso con la filosofia. Concetti A parte il frammento Sul Nilo (= fr. 90 Stiehle), di provenienza non chiara. Come vedremo, l’autore non manovra bene il dev (di cui gli sfugge il ruolo: cfr. l’impossibile ΔEpaggevlletaiv ti~ nella col. I). 9

10

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Parte seconda. Il nuovo papiro

esordiali (come si può notare nel proemio di Strabone), fondativi, di apertura, non da premessa a un libro successivo al primo. E invece i disegni vergati sul verso impongono di ascrivere la colonna I allo stesso rotolo delle colonne IV e V; la difficoltà che ne risulta è molto seria. Alla luce dell’evoluzione del termine gewgrafiva (su cui vedi supra, cap. III, §§ 2-3), è da chiedersi se Artemidoro, che volle intitolare la sua opera Gewgrafouvmena, già adoperasse gewgrafiva nel senso di “opera geografica” o non piuttosto, come era usuale al tempo suo, nel senso primario di “carta geografica”. Il che renderebbe il senso del r. 1 particolarmente molesto. 10/11. ouj ga;r ejsti;n oJ tucw;n kovpo~ oJ dunavmeno~ th`/ ejpisthvmh/ tauvth/ sunagwnivsasqai. L’espressione oujc oJ tucw;n kovpo~ si trova unicamente negli Acta Monasterii Iviron (§ 149) kovpwn ouj tw'n tucovntwn (X-XI sec. d.C.); in Palladio, Comment. in Hippocratis librum sextum de morbis popularibus (VI sec. d.C.) kovpou ouj tou' tucovnto~ (II, p. 105); in Eusebio, Demonstratio Evangelica VII, 1, 34 (IV sec. d.C.) kovpon movcqon te ouj to;n tucovnta; in Teofane Confessore (VIII sec. d.C.) kovpon ouj tucovnta (p. 4, 8 de Boor); in Olimpiodoro Diacono, Commento all’Ecclesiaste (VI sec. d.C.) Kovpo~ ou\n ejsti kai; oujc oJ tucwvn (PG 93, 485, 43). Ovviamente nessun greco di epoca ellenistica o romana avrebbe costruito un mostro sintattico quale oujk e[sti oJ tucw;n kovpo~ oJ dunavmeno~ ktl., avrebbe adottato l’ovvio ouj ga;r duvnatai ktl. 12/13. th`/ ejpisthvmh/ tauvth/ sunagwnivsasqai. A parte l’insostenibile contorsione concettuale consistente nell’immaginare uno «sforzo» (kovpo~) che «combatte al fianco» (sunagwnivzetai) di una scienza (in questo caso la geografia), è da rilevare che l’unica espressione simile rintracciabile è su;n ejpisthvmh/ diagwnivzesqai in una lettera (l’VIII nell’edizione Reinsch) di Manuele Gabalas, noto anche come Matteo di Efeso, metropolita di Efeso dal 1329 al 1351. 14. th'/ qeiotavth/ filosofiva/. Questa espressione, squisitamente mistico-neoplatonica, ricorre nei Kephálaia, molto probabilmente d’autore, del Protreptico di Giamblico (3: ... eij~ pa'san th;n ajrivsthn kai; qeiotavthn filosofivan parakalei'n dunavmenai) (inizio IV sec. d.C.) e nell’Epistola 1680, r. 11 di Isidoro di Pelusio (inizio V sec. d.C.) tou' mh; duvnasqai di’aujtou;~ th'/ qeiotavth/ proselqei'n filosofiva/. E riappare, cristianizzata, nella Mistagogia di Massimo il Confessore (VII sec. d.C.), cap. 33 dove si parla dell’«infallibile gnw`s i~ della kata; Cristianou;~ qeiotavth filosofiva». Non va

VIII. «Se la geografia tace»

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trascurato, forse, che nel proemio del suo trattato sul Mare esterno, Marciano, dopo aver ricordato il Periplo di Artemidoro (da lui epitomato), definiva qeiovtato~ Tolomeo, il geografo di epoca tardo-antonina. La predilezione per i superlativi inverosimili riappare anche al r. 43, dove le Muse vengono gratificate del titolo qeoprepevstatai, che, come epiteto delle Muse, è hapax in tutta la superstite letteratura antica dove, come si sa, le Muse sono spesso evocate. (Della mania neogreca per la nozione di filovmouso~ si dirà più oltre.) 15. e{toimo~ eijmi; parasth'sai. L’unico raffronto possibile che si sia potuto rintracciare di codesta espressione è negli Atti del concilio ecumenico costantinopolitano terzo dell’anno 681, dove ricorre khruvssomen kai; didavskomen kai; eJtoivmw~ e[comen ta; peri; touvtou parasth'sai, nel senso appunto di «siamo fermamente intenzionati ad affermare». Va rilevato che parasth'sai significa tanto «porre accanto» quanto «dimostrare» (per esempio in Taziano, or. 1, 31 = PG 6, 868c). L’interpretazione della frase paraplhvs ion ga;r aujth;n th'/ qeiotavth/ filosofiva e{toimo~ eijmi; parasth'sai non può che far capo a questo secondo significato; la collocatio verborum dimostra che quella iniziale è un’infinitiva (paraplhvs ion sottintende ei\nai): «contendo geographiam similem esse philosophiae». La traduzione pubblicata nel Tre vite (p. 157) è errata in quanto assume paraplhvs ion come avverbio di parasth'sai. Nel proemio contenuto nel papiro, l’autore dice dunque di «essere pronto a sostenere» che la geografia è paraplhvs io~ rispetto alla qeiotavth filosofiva. 16/17. La dimostrazione di tale assunto viene fornita in modo alquanto stravagante nei due righi seguenti: eij ga;r siwpa/' gewgrafiva (ostinatamente senza articolo, sin dal rigo 1) toi'~ ijdivoi~ dovgmasi lalei'. Di questa frase, decisamente ribelle alla sintassi greca (ci vorrebbe almeno un ajllav prima di toi'~ e un ge subito dopo), gli editori avevano fornito questa parafrasi nell’«Archiv» (p. 195): «Sie [la Geografia] wird als schweigende, durch ihre eigenen Lehrsätze (dovgmasi) sprechende Wissenschaft personifiziert»11. E alquanto spericolatamente osservavano: «Nach Sprache und Inhalt gehört das Proömium in die hellenistiche Zeit»: diagnosi insostenibile a fronte di una così fitta rete di riscontri lessicali unicamente riferibili all’epoca tardo-antica, bizantina e tardo-bizantina. Ma torniamo alla «silenziosa» geografia. Nella traduzione pubblicata nel catalogo Tre vi11 Interpretazione fatta propria da Giulio Giorello, in «Corriere della Sera», 28 giugno 1999, p. 27.

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Parte seconda. Il nuovo papiro

te il senso è completamente mutato: è la filosofia che «parla attraverso i suoi specifici enunciati». Invece, nel coevo catalogo minor, diffuso nella stessa circostanza e intitolato A come Artemidoro, viene ripristinata la precedente interpretazione e si legge: «Il papiro reca l’introduttivo e significativo discorso sul metodo in cui il geografo antico tesse l’elogio della propria “silenziosa” disciplina, che si esprime unicamente attraverso i suoi risultati» (alla lettera è l’interpretazione datane da Giorello). Quanto sia inverosimile una tale sintassi (quale che sia l’interpretazione prescelta) è superfluo notare. Chi ha scritto questo greco non sembra avere nozione del cardine della prosa greca antica: che cioè ogni elemento sintattico del periodo viene identificato attraverso “particelle” (vedi il classico volume di DENNISTON 19502). Naturalmente resta oscuro perché mai la geografia sarebbe una disciplina silenziosa (eppure Strabone definisce lalivstatoi, «sommamente ciarlieri», proprio i geografi, specie greci [III, 4, 19]). Secondo l’interpretazione prospettata nel 1998 di questa sgangherata frase, la geografia parlerebbe «coi suoi dovgmata». Ma quali saranno mai i dovgmata dei geografi? «Lehrsätze» (assiomi? teoremi?) traducevano gli editori; «che si esprime unicamente attraverso i suoi risultati» traduceva Giorello. Ma ormai l’interpretazione lanciata con il catalogo Tre vite tende, al di là dell’impervia sintassi, a stabilire una polarità geografia/filosofia: la prima tace e l’altra parla coi suoi assiomi. (Ma allora perché sarebbero «simili»? Eppure proprio questo il testo pretende di dire: «Sono pronto a sostenere che sono simili: infatti [sic] l’una tace, e l’altra parla».) All’origine di questa trovata ci potrebbe essere la polarità, delineata da Simonide di Ceo, pittura/poesia: la pittura sarebbe «poesia silenziosa» e la poesia «pittura parlante». Così Plutarco (De gloria Atheniensium, 3), il quale attesta che si trattava di un motto molto diffuso (De audiendis poetis, 17F). E ancora Plutarco dilata l’ambito del celebre raffronto quando nelle Quaestiones Convivales (IX, 748A) suggerisce di trasferire la «formula simonidea» (to; simwnivdeion) dalla coppia poesia/pittura alla coppia pittura/danza. Le ragioni per cui la geografia deve considerarsi «partecipe dell’attività filosofica» (th'~ tou' filosovfou pragmateiva~) sono espresse da Strabone (buon conoscitore dell’opera di Artemidoro) in tutt’altro modo, nel proemio generale posto al principio del I libro della sua Geografia. Quella pagina esordiale di Strabone è molto interessante ai nostri fini: tra l’altro dimostra che concetti del genere sono destinati al proemio generale (e qui saremmo, invece, nel proe-

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mio del libro II). Ma soprattutto perché il nesso tra le due discipline è indicato nella comune osservazione dei fenomeni; e viene ribadito sulla base di un elenco di geografi-filosofi, da Omero a Posidonio (Artemidoro – altrimenti molto presente – non è ricordato a questo proposito). Strabone aggiunge anche un cenno all’«utilità» peculiare della geografia, e la indica non solo nelle sue applicazioni politiche e militari, ma anche nella «scienza dei vari tipi di animali (terrestri, acquatici, volatili)». Ed è curioso osservare che proprio una serie di animali pertinenti a tutte e tre le categorie adorna il verso del rotolo di Artemidoro. Ma, per una esaltazione della geografia, accostata dapprima alla filosofia quindi alla teologia, si vedano i Prolegomena di Eustazio a Dionigi Periegeta (cfr. infra, capp. XV e XVI). Com’è chiaro da quanto detto sopra, il fr. 21 Stiehle di Artemidoro ha in questa vicenda un ruolo importante. Di esso diremo approfonditamente nei seguenti capitoli IX e X.

Parte terza PERCHÉ QUEL PAPIRO NON PUÒ ESSERE ARTEMIDORO

IX LE MOLTE VITE DEL FR. 21 DI ARTEMIDORO 1. Dal codice al rotolo! Ora che, dopo circa dieci anni dalla prima, è uscita un’ulteriore edizione critica della prima parte (righi 1-14) della colonna IV del cosiddetto papiro di Artemidoro, a cura di Bärbel Kramer1, se ne può affrontare lo studio su solide basi. L’edizione è corredata di apparato, commenti e carta geografica. Questa edizione si segnala non solo come un progresso rispetto alla precedente2, ma anche per il riconoscimento, subito al principio, del carattere del nuovo testo: «el papiro contiene extractos de la Geografía de Artemidoro» (p. 98). L’intuizione viene però persa di vista nel seguito del saggio. Secondo la ricostruzione, altra volta affermata da parte degli editori, con l’inizio di questa colonna IV saremmo al cospetto dell’inizio vero e proprio del libro (il II libro, riguardante la Spagna): «zuerst das Proömium [= coll. I-II-III], dann die Landkarte, dann die Beschreibung [= coll. IV-V]»3. A maggior ragione dunque si rivela opportuna una riconsiderazione critica di questo incipit. Il brano, che dovrà ritenersi ormai edito in forma ‘definitiva’ (?), presenta una spiccata somiglianza col fr. 21 Stiehle di Artemidoro, conservatoci unicamente dal cap. 23 del De administrando imperio di Costantino Porfirogenito4. Come si sa, è proprio tale spiccata somiglianza, che in alcuni casi diviene identità, tra i due testi che ha suggerito l’ipotesi, tuttora 1 KRAMER 2006. Per il testo, cfr. pp. 99-100. Per le altre edizioni cfr. infra, cap. X, nota 1. 2 GALLAZZI-KRAMER 1998, pp. 196-197. 3 Ivi, p. 196. 4 E non, come erroneamente scrive KRAMER 2006 (p. 99), «por tres autores antiguos». Sull’origine di questa erronea convinzione, cfr. supra, cap. VIII, § 1.

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Parte terza. Perché quel papiro non può essere Artemidoro

circolante, secondo cui il nuovo papiro (contenente un meschino e ultraselettivo periplo della Spagna preceduto da una pomposa e confusamente filosofica praefatio) sarebbe addirittura il libro II, o parte di esso, della rinomata e copiosa Geografia di Artemidoro di Efeso. Si può dunque ormai procedere allo studio comparativo dei due testi5. Il fr. 21 Stiehle di Artemidoro non è mai stato edito rettamente. La stratificazione di equivoci e di illusori doppioni che si sono accumulati su tale frammento è stata da noi descritta nel cap. VIII. In realtà – come s’è detto – l’unico autore che tramandi il frammento è Costantino Porfirogenito nel cap. 23 del De administrando imperio (pp. 99-100 ed. Moravcsik). Conviene dunque partire dal testo di quel frammento come esso si presenta nel suo unico testimonio primario, il Paris. Gr. 2009 [= P] (f. 46v) – vergato tra il 1059 e il 1088, dunque circa centocinquant’anni dopo Costantino VII – e nei suoi due fedelissimi apografi, entrambi di mano (per i fogli che qui ci interessano) di Antonio Eparco (Vat. Pal. Gr. 126, f. 26r [= V]; Paris. Gr. 2967, f. 16v [= F]). Tutti gli interventi moderni che si sono incrostati – alcuni espliciti, altri taciti – su di esso vanno rimessi in discussione. Ecco il testo da cui si deve partire. Riproduciamo qui anche l’interpunzione, oltre che l’impaginazione: Paris. Gr. 2009, f. 46v, righi 1-14 1 2 5

10

14

... e[peita de; hJ diorovdano~. ΔArtemivdwro~ de; ejn th` B B tw`n gewgrafoumevnwn: ou{tw~ diairei`sqai fhsi;n: ajpo; de; tw`n purinaivwn ojrw`n: e{w~ tw`n kata; Gavdeira tovpwn: ejndwtevrw kai; sunwnuvmw~: ijbhriva te kai; iJspaniva kalei`tai: Dieivrhtai de; uJpo; ÔRwmaivwn eij~ duBvoB ejparceiva~ diateivnousa: ajpo; tw`n purinaivwn ojrw`n a{pasa: kai; mevcrh th`~ Kainh`~ Karchdovno~: kai; tw`n tou` Baivtio~ phgw`n: th`~ de; B B ejparceiva~ ta; mevcrh Gadeivrwn kai; Lusitaniva~.

5 L’analisi qui svolta è un ulteriore approfondimento, con miglioramenti, di quella presentata nel precedente capitolo.

IX. Le molte vite del fr. 21 di Artemidoro

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La vicenda editoriale di questo brano è stata particolarmente infelice, soprattutto perché bipartita. Incomincia nel 1611 con l’editio princeps, a cura di Jan de Meurs (Meursius), del De administrando imperio di Costantino (basata sul Pal. Gr. 126, allora a Heidelberg). Meursius considerò arduo e intraducibile l’intero capitolo, e si limitò a dare il greco, replicandolo nella nuova stampa del 1617. Nel 1658 Isaac Vos (Vossius), nelle straordinarie ed eleganti Observationes ad Pomponium Melam affrontò il capitolo che aveva spaventato Meursius e ne diede una ricostruzione che si è poi affermata. Egli per primo sostenne che Costantino (meglio avrebbe potuto dire, i suoi collaboratori) non aveva che letteralmente ricopiato («descripsit») l’intero cap. 23 dal lessico geografico di Stefano di Bisanzio6. E di seguito ne diede l’edizione, «quoniam caput illud quaedam continet non spernenda»7. Vedremo più oltre quali trasformazioni Vossius impresse al testo tràdito, che Meursius quasi non aveva osato toccare. Qui segnaliamo però subito un fenomeno non meno ricco di conseguenze: con la sua ipotesi infatti secondo cui i collaboratori di Costantino avessero letteralmente ricopiato la voce Iberia del lessico di Stefano di Bisanzio, Vossius mostrava come si potessero ancora recuperare brani dal lessico intero di Stefano, opera ben più ricca della modesta epitome a noi giunta8. Nel 1669 avviene un fatto gravido di conseguenze: Samuel Ten Nuyl (Tennulius), il cognato di Gronovio, pubblica due superstiti fogli pergamenacei provenienti da un esemplare integro di Stefano di Bisanzio. Si trattava del cosiddetto “codex Seguerianus”, ora Coislin 2289, in particolare dei fogli 116122v. Fu una vera e propria rivelazione, oltre che una conferma dell’enorme divario tra lo Stefano integro e l’epitome. Tra l’altro il bifolio pergamenaceo comprendeva un passaggio di libro (dal X all’XI 6 In realtà a tale ipotesi era giunto per parte sua Lukas Holste (Holstenius) nell’ambito delle sue importanti ricerche sui geografi antichi, che tra l’altro lo avevano portato più volte sulle tracce di Artemidoro. Ma le sue note restarono inedite, nella biblioteca Barberini, e furono pubblicate soltanto nel 1684 da Theodor Ryckius. «Locus hic integer – scriveva Holste – exstat apud Constantinum Porphyrogenetam de adm. imp. cap. XXIII». 7 Citiamo dalla edizione delle Observationes ristampata da Abraham Gronovius nella sua edizione di Pomponio Mela (1722, pp. 486-487). 8 Sulla presenza di materiali provenienti da Stefano integro, presso autori bizantini (oltre Costantino VII), almeno fino a Eustazio, cfr. WESTERMANN 1839, pp. X-XIX. 9 Di lì a poco Gronovio avrebbe contribuito all’edizione di Stefano curata dal dotto portoghese Thomas de Pinedo (1678), e nel 1681 avrebbe edito e commentato la voce Dwdwvnh compresa nel frammento Segueriano.

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Parte terza. Perché quel papiro non può essere Artemidoro

libro, da D a E) e dunque anche il titolo esatto della immane enciclopedia geografica di Stefano. Cinque anni più tardi Abraham Berkel (Amsterdam 1674) ristampava il preziosissimo frammento, e gli affiancava, nello stesso volume, due importanti testi geografici come il Periplo di Annone e il «monumentum Adulitanum»10. Ed è appunto Berkel che concepisce l’idea, che realizzerà quattordici anni più tardi (1688), di dar vita a una edizione dell’Epitome di Stefano di Bisanzio integrata, o per meglio dire farcita, dei materiali superstiti dell’edizione intera: in primo luogo, ovviamente, del codice Segueriano, ma anche, sulla scia di Vossius, dei materiali ricavabili dal De administrando imperio di Costantino Porfirogenito (tra cui il cap. 23), quantunque in questo caso la provenienza da Stefano non sia dichiarata esplicitamente. Una scelta molto discutibile, realizzata, sul piano editoriale, in modo aberrante: mescolare, come se si trattasse di un’unica scrittura, epitome e testo integro. (Scelta che si è, da allora, affermata nelle successive edizioni – Dindorf 1825, Westermann 1839, Meineke 1849 – ma sarà evitata nell’edizione a cura di Margarethe Billerbeck di cui abbiamo ormai il I tomo11.) Da quel momento in poi la ricostruzione critica del fr. 21 di Artemidoro vive una seconda vita: non più solo nelle edizioni dell’opera di Costantino Porfirogenito ma anche nelle edizioni ormai farcite di Stefano di Bisanzio. E infatti la prima, incisiva, modifica avviene proprio grazie a Berkel, il quale adottò, senza rivelarlo (se non riconoscendo, in modo complessivo, in prefazione il suo debito verso le Observationes), il testo ‘rifatto’ dal 1658 da Vossius, e lo corredò, diversamente da Vossius, di una traduzione latina. Vedremo di qui a poco quali trasformazioni il frammento aveva subito, ma segnaliamo intanto un’ulteriore vicenda anch’essa ricca di conseguenze. A queste due vite, infatti, se ne aggiunse ben presto una terza, dovuta alla inclusione del fr. 21 nelle raccolte dei Geographi Graeci OGIS, nrr. 54 e 199. Né Dindorf né Westermann, diversamente da Meineke, segnalano in apparato o altrove la provenienza da Costantino, De administrando imperio, 23 della voce sull’Iberia. Nell’amplissima edizione messa in essere da Dindorf, il testo greco di Stefano si trova nel primo volume. Tutti gli altri volumi raccolgono l’erudizione fino a quel momento accumulatasi sul lessico geografico, del che gli dà atto, forse con lieve ironia, Westermann. La voce sull’Iberia è alle pp. 213-215; il fr. 21 di Artemidoro figura ai righi 1-9 di p. 214. 10 11

IX. Le molte vite del fr. 21 di Artemidoro

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minores a cominciare da quella del conservatore della Bodleiana, John Hudson, coadiuvato da Dodwell12, cui tenne dietro, dopo circa un secolo, quella promossa dai greci banchieri Zosimadai (1807-1808) – presentati dai loro ammiratori, tra cui Simonidis, come mecenateschi, munifici, filovmousoi13 –, avente come obiettivo, indicato nel frontespizio, l’acculturazione dei Greci moderni nella conoscenza del loro passato. Era, di fatto, una riproposizione peggiorata e semplificata (priva delle abbondanti Dissertationes di Henry Dodwell che Hudson aveva inserito) della raccolta di Hudson: ‘dimagrita’ da quattro a due volumi, curati da Demetrios Alexandrides. Quest’ultimo, tra l’altro, tradusse in neogreco gli estratti dalla Geografia di Abulfeda presenti anch’essi, con la traduzione latina di Greaves, nella raccolta di Hudson. L’opera è significativa soprattutto come testimonianza dell’interesse della risorgente cultura neoellenica per il corpus della geografia antica. In entrambe le raccolte, il fr. 21 – estratto dal cap. 23 di Costantino, De administrando imperio – viene incluso nella sezione intitolata Marciano di Eraclea (IV sec. d.C.), l’epitomatore di Artemidoro; nella raccolta di Hudson si tratta della sezione VI. Viene cioè considerato, al pari degli altri frammenti ricavabili da varie fonti, come proveniente dall’Epitome anziché dal testo integro di Artemidoro. Questo è particolarmente evidente nella Sulloghv degli Zosimadai visto che essa si intitola addirittura Silloge delle epitomi geografiche antiche. È inoltre assai degno di nota che in entrambe le raccolte, quella di Hudson e quella degli Zosimadai, l’intero capitolo 23 di Costantino, De administrando imperio, incluso dunque il fr. 21, venga proposto per intero, e secondo la ricostruzione di Vossius, al termine dell’ultimo volume. Nel caso di Hudson si tratta del IV volume, già edito separatamente nel 1710 e, con nuovo frontespizio, accorpato nel 1712 alla collezione degli Scriptores Geographiae veteris. Qui, come al solito, la numerazione delle pagine ricomincia daccapo a ogni nuova sezione; il testo di Costantino appare nelle ultime pagine dell’ultima sezione (pp. 38-41) di seguito agli ΔApospasmavtia tina; gewgrafika; o{son kai; hJma'~ eijdevnai ajnevkdota (pp. 38-40) e col titolo ΔApospasmavtion ejk tou' Kwnstantivnou Porfurogenhvtou kata; diovrqwsin

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Quella di Hoeschel (1600) non lo comprendeva. Su di loro: MPETHS 1990.

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Parte terza. Perché quel papiro non può essere Artemidoro

ΔIsaavkou Oujossivou (pp. 40-41). A p. 40 c’è il fr. 21 ‘rifatto’ da Vossius, affiancato dalla traduzione latina di Berkel. Identica presentazione, ma senza traduzione latina, nel II volume della Silloge delle epitomi geografiche antiche degli Zosimadai (1807-1808, pp. 471-473: il fr. 21 è alle pagine 471-472). Non può sfuggire l’enorme rilievo che quel testo otteneva, in tale collocazione. Una siffatta presentazione di questo gruppo finale di frammenti poteva addirittura suggerire l’erronea deduzione che anche il brano tratto da Costantino fosse un inedito. Così per esempio sembra intendere il pur competente D’Avezac nel suo prezioso «esquisse bibliographique» sui geografi antichi14. Uno sviluppo ulteriore di questa “terza” vita del frammento è rappresentata, infine, dalle raccolte di frammenti del solo Artemidoro (Hoffmann 1838, Stiehle 1856). a. Vediamo ora le trasformazioni che il frammento ha subito. Il primo intervento di rilievo lo operò Antonio Eparco nel 1509. In quell’anno il notevole umanista corfiota, assumendo come modello il Paris. Gr. 2009 [= P (già 2661)], diede vita all’attuale Vat. Pal. Gr. 126 [= V]. Eparco al r. 8 scrisse dihv/reitai (f. 26v), mentre nell’altra copia allestita sulla precedente, cioè nell’odierno Paris. Gr. 2967 [= F (già 2662)], f. 16v si è perso il minuscolo iota sottoscritto. (Lapsus? Correzione incompiuta? Difficile dirlo con certezza.) A sua volta Meursius si basò su V (che nel 1611 era a Heidelberg)15, e pervenne alla correzione dih/vrhtai, anche se stampò dih/vretai (p. 54, r. 1). Dopo di lui tutti gli editori hanno stampato dihv/rhtai senza nemmeno segnalare che si tratta di una correzione. Quanto alla forma ejparceiva~ che ricorre in P due volte (righi 9 e 13), Eparco mutò la prima volta in ejparciva~ ma lasciò nel secondo caso ejparceiva~. Meursius ‘normalizzò’ in entrambi i casi ejparciva~ (p. 54, righi 1 e 3). Nonostante la fortuna universale che questo ritocco ha riscosso, esso è superfluo. Infatti la forma ejparceiva è solidamente e autorevolmente attestata: innanzi tutto dai numerosi luoghi in cui il termine ricorre nelle Res Gestae Divi Augusti (capi14 D’AVEZAC 1856, p. 45: «quelques fragments inédits, un de Constantin Porphyrogénète d’après Vossius». D’Avezac era tra l’altro componente delle più importanti «società geografiche» (Parigi, Londra [cui aderì anche Simonidis], Francoforte, Berlino, Bombay etc.). 15 Cfr. la sua introduzione «Benigne Lector» alle Notae breves, p. 2.

IX. Le molte vite del fr. 21 di Artemidoro

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toli 12, 16, 25, 27 e nell’ultima sezione dell’epilogo); inoltre, negli Atti degli Apostoli (23, 34), ma anche negli Acta Alexandrinorum (cap. 7a), a tacere delle numerose attestazioni epigrafiche (Syll.3 814.25; 880.20; 700.30 etc.). Il fatto che Giovanni Filopono nel trattato De vocabulis quae diversum significatum exhibent secundum differentiam accentus (e, 9) strologasse su di una differenza di significato tra ejpavrceia = il comando provinciale ed ejparciva = il luogo, l’ambito in cui si esercita il comando, sta solo a significare che entrambe le forme erano attestate e accettate. Eparco mantenne persino le forme purinaivwn per purhnaivwn (che ovviamente Meursius rettificò) nonché ejndwtevrw (che anche Meursius mantenne). In P (rigo 12)16 c’è B B per deutevra~; ma Eparco e, nella sua scia, Meursius scrissero per esteso deutevra~, forma accolta da tutti gli editori17. Eparco riprodusse fedelmente anche la punteggiatura di P. Si sa che la punteggiatura dei manoscritti greci medievali non è gran che tenuta in conto dai moderni editori critici, ma forse una tale trascuranza – specie per i manoscritti più antichi – si risolve nella perdita di un sussidio interessante per lo meno per quel che riguarda la storia dell’interpretazione. Meursius, che dichiarava di aver rinunciato a interpretare i capp. 23 e 24 («quia nimis corrupta»)18, serbò sostanzialmente l’interpunzione che Eparco aveva fedelmente riprodotto, tuttavia semplificandola. Mantenne il segno di interpunzione dopo tovpwn (rigo 6), dopo kalei`tai (rigo 7), dopo a{pasa (rigo 10) e dopo phgw`n (rigo 12). Con la successiva edizione del De administrando imperio, 23, dovuta a Vossius (1658), la presentazione del testo e dell’interpunzione fu radicalmente sconvolta. Le innovazioni introdotte da Vossius hanno determinato in modo decisivo il destino di questo brano. Berkel, che aveva scelto di immettere tout court l’intero capitolo 23 nella sua edizione di Stefano, adottò in toto la riscrittura di Vossius, senza però dichiarare il suo “debito”: e infatti la riscrittura del frammento di Artemidoro lì contenuto (il fr. 21) fu da allora in poi attribuita universalmente a Berkel, tanto dagli editori di Costantino Come del resto al rigo 2. Però Meursius prese l’iniziativa di stampare Spaniva anziché ÔIspaniva (dei mss.), e la forma da lui adottata rimase per inerzia in tutte le edizioni successive fino a quella di BEKKER (1840). Fu MEINEKE (1849) che ripristinò ÔIspaniva. 18 Notae, p. 23. 16 17

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(Anselmo Banduri, 1711)19 quanto dai successivi editori di Stefano (Dindorf, Westermann, Meineke). Vossius, il quale intese fornire un testo compiutamente sensato là dove Meursius si era arreso, aveva introdotto le sue innovazioni tacitamente, senza rivelare al lettore in che cosa egli si discostasse dalla tradizione manoscritta. Egli dunque: 1) inserì (rigo 9) tra ejparciva~ e diateivnousa le parole prwvth me;n ejparciva; 2) fece scomparire il kaiv che si trova tra a{pasa e mevcri th`~ (rigo 10). La prima innovazione, ancorché attribuita sistematicamente a Berkel, ebbe grande ed esplicita fortuna presso tutti gli editori, almeno fino a Meineke; la seconda entrò senz’altro nel testo di tutte le edizioni successive, ma nessuno si accorse che era scomparso un kaiv, inghiottito nel nulla. Questa riscrittura era alquanto drastica. «Non sufficit» osservò Meineke (1849) a proposito dell’inserzione di prwvth me;n ejparciva (p. 324, 6). E soprattutto faceva perdere di vista due elementi preziosi per la retta interpretazione: 1) che cioè il kaiv tacitamente inghiottito, lungi dall’essere un ingombro, deve invece considerarsi l’inizio del successivo periodo20; 2) che il periodo precedente terminava opportunamente con a{pasa. Vossius aveva ben ragione di cercare, nella frase, il necessario riferimento alla prima provincia, visto che dopo è citata la seconda; ma del tutto arbitrariamente stabiliva che la lacuna dovesse localizzarsi prima di diateivnousa (rigo 9). Col che – oltre tutto – inglobava a{pasa nella descrizione della prima provincia, facendo di a{pasa un inutile e poco chiaro riempitivo, una “zeppa”, senza rendersi conto che a{pasa si riferisce invece alla «Spagna considerata nel suo insieme» (rispetto alla divisione in province stabilita dai Romani), sullo stesso piano del celebre esordio della descri19 Banduri, il quale stampò il De administrando imperio nel primo dei due robusti in-folio del suo Imperium Orientale, 1711, giunto al frammento di Artemidoro compreso nel cap. 23, alle parole prwvth me;n ejparciva aggiunte da Vossius al rigo 9 annotò: «Haec proprio marte restituit Berkelius, cum haec verba desint in editis et in ms.». Effettivamente Banduri aveva collazionato il testo di Meursius con il Paris. Gr. 2009 (che allora, e fino al catalogo di Clément [1740], era numerato Gr. 2661) e perciò segnalava di non trovare quelle parole «in editis et in ms.». Banduri adottò anche la traduzione latina che trovava in Berkel, però vanta la traduzione come sua: «Praeterea caput 23 de Iberia et 24 de Hispania, quae Meursius utpote nimis corrupta (ut ipse in notis ait) sine interpretatione Latina reliquerat, Latina fecimus». Testo e traduzione passarono di peso nell’ed. Bekker di Costantino, De administrando imperio (1840). 20 Ciò che del resto è ben chiaro nella punteggiatura di P. (Il che può comunque costituire un indizio.)

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zione cesariana della Gallia: «Gallia est omnis divisa in partes tres». Dove «omnis» è «durch die Stellung hervorgehoben» (Doberenz) – come nel nostro caso –, e indica appunto «Gallien in seiner Gesamtheit» (Dittenberger); giacché «bei omnis liegt der Gedanke zugrunde, daß das Ganze aus einzelnen Teilen besteht» (Meusel). Se non si fosse innescato un progressivo allontanamento dalla tradizione manoscritta dell’unico testimone (P) dell’unica fonte (Costantino) di questo brano, si sarebbe agevolmente osservato che il riferimento alla prima provincia si ottiene ripristinando 21 (= hJ prwvth) dopo phgw`n (rigo 12). Il risanamento è di immediata evidenza: Kai; mevcri th`~ Kainh`~ Karchdovno~ kai; tw`n tou` Baivtio~ phgw`n , th`~ de; b B ejparceiva~ ta; mevcri Gadeivrwn kai; Lusitaniva~. Una strada del genere non è stata battuta perché con Vossius il kaiv era scomparso senza lasciare traccia. Dapprima i vari editori, sia di Stefano (Dindorf 1825, Westermann 1838) che di Costantino (Banduri 1711, Bekker 1840), si sono allineati con la riscrittura vossiana (persino quando – è il caso di Banduri – avevano attinto direttamente a P). Altri poi (Meineke 1849, Stiehle 1856) si dichiararono insoddisfatti dell’inserzione prwvth me;n ejparciva, ma non erano più in grado di tentare altre ragionevoli soluzioni: per la semplice ragione che si muovevano ormai sulla base del testo trasformato da Vossius (anche se tutti convinti di avere a che fare con un intervento di Berkel)22. b. Consideriamo ora il periodo precedente, che ha inizio con ajpo; de; tw`n Purhnaivwn (rigo 4) e termina con a{pasa (rigo 10). Qui il dato da cui partire è che il soggetto era nella parte subito precedente la citazione ‘ritagliata’ da Stefano23. Questo è normale Ovvero ta; th`~ AB. L’elemento che squalifica la riscrittura offerta dal papiro (col. IV, righi 1-14) è proprio il fatto di aver continuato a manipolare a partire dalla manipolazione di Vossius. Torneremo più oltre su ciò. 23 In questo capitolo adottiamo, per semplificare il ragionamento, l’opinione corrente: che gli escertori al servizio di Costantino avrebbero preso di peso una voce di Stefano ‘integro’. Per i probabili interventi succedutisi nel X-XI secolo sul testo di questo capitolo, cfr. infra, cap. X. 21 22

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procedimento nel lessico geografico di Stefano. Il soggetto è dato per lo più, e ovviamente, dal lemma stesso24; inoltre, le frasi che precedono immediatamente le citazioni già contengono gli elementi sintattici che rendono perfettamente comprensibile la citazione, oltre tutto perché non di rado quelle frasi contengono elementi che a loro volta derivano dal contesto originario da cui la citazione è tratta25. La situazione è chiarita dal raffronto con un luogo di Strabone (III, 4, 19) nel quale si dice che «gli autori precedenti» chiamavano Iberia tutto il territorio al di là del Rodano e dell’istmo determinato dai Pirenei nel Golfo di Leon, mentre ora si considera Spagna solo il territorio a partire dai Pirenei e lo si chiama indifferentemente ΔIbhriva o ÔIspaniva. Dopo di che viene precisato che i Romani, ai quali si deve questo uso indifferenziato dei due toponimi, hanno diviso l’intero paese in Citeriore e Ulteriore. È dunque evidente che nella parte del testo di Artemidoro26 che precedeva immediatamente la citazione che leggiamo in Costantino (Stefano) si parlava per l’appunto dell’originaria estensione del toponimo ΔIbhriva anche all’area fino al Rodano. A ragion veduta dunque la voce si apre – dopo l’etimologia ajpo; “Ibhro~ potamou` – con un importante frammento di Erodoro (FGrHist 31 F 2a) sull’etnografia della Spagna che procede, in direzione sudovest/nordest, fino al Rodano27. La scelta di incominciare la voce con tale etnografia fa capire che, nella fonte, veniva accostato Erodoro ad Artemidoro perché anche Artemidoro prendeva le mosse da una nozione di Iberia estesa fino al Rodano28. E proprio perciò Artemidoro seguitava dicendo (lì incomincia la citazione di Costantino/Stefano): «Invece, per il territorio tra i Pirenei e Gades – che i Romani hanno diviso in due province – c’è anche l’uso sinonimico (kai; sunwnuvmw~) di Iberia e Hispania». Uso sinonimico non valido dunque nell’altra e più vasta accezione di Iberia a partire dal Rodano, ma solo per il terri24 Cfr. ad esempio, la voce ΔWrisiva, che dà un altro frammento dal II libro di Artemidoro che si apre ex abrupto con ajmfovteroi ga;r katoikou`si th;n paralivan ktl. 25 Perciò è ingenuo il procedimento di chi ha fabbricato la colonna IV del papiro; egli ha riscritto capillarmente la citazione artemidorea fornita da Stefano rendendola anche sintatticamente indipendente con la fornitura di un soggetto (hJ suvmpasa cwvra!). 26 È lui per eccellenza uno degli «autori precedenti»! 27 Il cui toponimo si riconosce nel tràdito hJ diorovdano~. 28 Come del resto si evince da Strabone, III, 4, 19.

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torio al di là dei Pirenei divenuti spartiacque tra Gallia e Iberia/Hispania, col riassetto romano delle province. Ché nessuno aveva, né avrebbe mai chiamato Hispania, bensì solo Iberia, il territorio compreso tra i Pirenei e Marsiglia. Questa palmare considerazione non solo fa capire perché kai; sunwnuvmw~ (parso del tutto comprensibile a Vossius29) non debba essere guastato dalla estemporanea congettura del bibliotecario Schubart fatta propria frettolosamente da Meineke30, ma fa anche capire perché Artemidoro nel primo libro parlasse di Marsiglia e della zona circostante31: non perché anteponesse, nell’esposizione del suo viaggio, la Gallia alla Spagna, ma perché – per l’appunto – partiva dalla nozione di Iberia comprendente pa`san th;n e[xw tou` ÔRodanou`32. g. Cosa significa dunque e{w~ tw`n kata; Gavdeira tovpwn ejndotevrw? Berkel (1688), la cui traduzione di questo passo fu riprodotta alla lettera da Banduri (1711) e quindi senza alcuna modifica da Bekker (1840), intese «usque ad mediterranea quae sunt apud Gades». Qui «mediterraneus» – come in Plinio III, 10 e altrove – significa, per adottare la definizione suggerita dal TLL, «plus minus procul a mari situs, opp. maritimus». E infatti ad esempio nel passo pliniano viene indicata come «in mediterraneo» la città di Obulco, a 14 miglia dalla costa atlantica. Si tratterà dunque, secondo l’interpretazione di Berkel, della «fascia costiera di fronte a Gades». A sostegno di tale interpretazione si potrebbe ricordare un ben noto passo di Marciano (Mare esterno, II, 4)33: Kavlph to; o[ro~, o{per ejndotevrw tw`n ÔHrakleivwn sthlw`n kei`tai (GGM, I, p. 543, 12-13). «Calpe mons, qui intra angustias Herculeas iacet» traduce Karl Müller. E si tratta infatti della montagna di Calpe posta nell’immediato entroterra del-

29 Non va dimenticato che Vossius riscriveva e riassestava l’intero brano col proposito di dargli un senso compiuto. 30 Cfr. supra, cap. VIII, § 1. 31 Cfr. frr. 3-6 Stiehle e vedi supra, cap. II, § 4.2. 32 Cfr. Strabone, III, 4, 19. 33 In questo medesimo luogo Marciano parla, tra l’altro, della originale visione che Artemidoro aveva delle “colonne d’Ercole”, secondo lui poste tra l’isola di Gades e la costa (fr. 9 Stiehle). Nel nuovo papiro invece (colonna IV, sub fine) Artemidoro collocherebbe le “colonne” al monte Calpe, là dove definisce il Mediterraneo «il mare che è all’interno delle colonne d’Ercole».

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le colonne d’Ercole. Nel caso del fr. 21 dunque oiJ kata; Gavdeira tovpoi ejndotevrw saranno «i territori nell’immediato entroterra di fronte a Gades». Questa interpretazione non ebbe critiche né contestazioni. Ovviamente quando, dando corpo a una dubbiosa suggestione di Schubart, Meineke spostò senz’altro, nel suo testo di Stefano, il kaiv che modifica e specifica sunwnuvmw~ e lo collocò davanti ad ejndotevrw, staccando così ejndotevrw da tovpwn, la traduzione Berkel non era più utilizzabile. Ma Meineke, e dopo di lui Stiehle (che adottò la correzione senza nemmeno avvertirne il lettore) non traducevano – né in latino né in altra lingua conosciuta –, e dunque non erano costretti a spiegare il senso del testo che con la loro correzione avevano creato. Quando però Moravcsik, nell’edizione critica del De administrando imperio (1949, 19622) ripristinò il testo, del tutto legittimo, di P e delle sue copie, la traduzione inglese elaborata da Romilly James Heald Jenkins – che si affianca al testo di Moravcsik – non tenne conto di Berkel e risultò alquanto insoddisfacente: «The interior between the Pyrenees mountains and the district about Gadara» (p. 99)34. Bärbel Kramer critica questa traduzione35, ma non si rende conto che per secoli era stata in circolazione l’altra, quella di Berkel, del tutto legittima e ben fondata. Dal punto di vista sintattico si dovrà osservare che se ejndotevrw tw`n ÔHrakleivwn sthlw`n (Marciano) significa «intra angustias Herculeas», ejndotevrw tw`n kata; Gavdeira tovpwn significherà «a ridosso della zona antistante Gades»36. In questo caso (fr. 21) ejndotevrw è retto da e{w~. Polibio dice e{w~ eij~ to;n cavraka (I, 11, 14); l’anonimo epigrammatista di Anth. Pal. V, 201, 1 (Edilo?) dice dell’allegra Leontis che hjgruvpnhse e{w~ pro;~ kalo;n eJw`/on ajstevra; così come molto più tardi Macario (o forse pseudo-Macario) nella XXXV omelia (1, 8) dirà che l’energia solare e{w~ e[ndon tou` swvmato~ cwrei`. E quanto alla collocazione di ejndotevrw dopo il genitivo che ne dipende, basti Cleomede, Caelestia, I, 4, 93: hJ dΔ Aijqiopiva e[ti tauvth~ ejndotevrw. Ed è ovvio che lo spazio sia indicato dai due punti estremi: in questo caso i Pirenei da un lato e la fascia costiera antistante Gades dall’altro. 34 Essa è stata tradotta in tedesco da BELKE-SOUSTAL 1995, p. 120: «Die inneren Gebiete vom Pyrenäengebirge bis zur Gegend von Gadeira». 35 KRAMER 2000, p. 320. 36 E il comparativo rafforza la nozione di «a ridosso» (intra).

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Anche in questo punto del testo, come vedremo, il papiro presenta una capillare riscrittura delle parole di Artemidoro note a Stefano. E commette l’ingenuità di sviluppare ulteriormente l’(arbitraria) innovazione introdotta da Meineke (kai; ejndotevrw diventa addirittura kai; tw`n ejndotevrw klimavtwn), di modo che l’indicazione dei due punti estremi divaga e si arricchisce di un generico e imprecisabile terzo elemento (ta; ejndotevrw klivmata). Dopo di che, per rendere autosufficiente la citazione, ritagliata da un contesto, viene introdotto un soggetto (hJ suvmpasa cwvra), ispirato peraltro al successivo a{pasa. Torneremo più oltre su questo sintomatico fenomeno. Qui ci limitiamo a rilevare che e{w~ e mevcri, quando si intende fornire indicazioni geografiche e topografiche, richiedono punti di riferimento precisi, quali appunto i Pirenei o la costa antistante Gades: sono espressioni adoperate per indicare un ben determinato punto di arrivo. Ma cosa potrà esattamente significare «fino alle regioni dell’interno»? Cioè fin dove? Non molti anni prima, Polibio avvertiva che ΔIbhriva designa il territorio tra i Pirenei e Gades, mentre la parte della Spagna che si affaccia sul mare esterno «non ha nemmeno una denominazione comune (koinh;n ojnomasivan) in quanto scoperta di recente e abitata da popolazioni barbare» (III, 37, 10-11). Rare volte una correzione inflitta a un testo sano (ci riferiamo a kai; ejndotevrw, adottata ‘al volo’ da Meineke) ha avuto effetti così rovinosi. d. «È stata suddivisa dai Romani in due province, estendendosi nel suo insieme a partire dai Pirenei». Cioè: quel territorio che, considerato complessivamente (a{pasa) si estende a partire dai Pirenei, è stato suddiviso dai Romani in due province. Se, come par chiaro da Strabone, III, 4, 19 e da quanto s’è detto su kai; sunwnuvmw~, nel contesto immediatamente precedente si parlava della nozione amplior di Iberia (a partire dal Rodano), è chiara la precisazione qui fornita a proposito della suddivisione in due province: essa riguardò la Iberia ormai ‘spostata’ al confine pirenaico dal riassetto amministrativo e militare romano (vedi infra, cap. X, § 4). Nel luogo più volte ricordato di Strabone si legge: ΔIbhrivan uJpo; me;n tw`n protevrwn kalei`sqai th;n e[xw tou` ÔRodanou`. Nel nostro passo è forse non indispensabile richiedere l’articolo hJ davanti a diateivnousa in conformità a th;n e[xw del passo straboniano.

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Dieivrhtai – lezione confermata anche dallo scolio marginale di P (f. 46v) – fu, come dicemmo in principio, modificato due volte: prima da Antonio Eparco, poi da Meursius. Il consenso verso la forma adottata da Meursius, dihvr / htai, è stato universale. Oltre tutto la frase introduttiva è ΔArtemivdwro~ [...] ou{tw diairei`sqai fhsivn (scil. th;n ΔIbhrivan, che si ricava dal lemma iniziale). E poco dopo, nella stessa voce, è citato Marciano a proposito della successiva divisione della Spagna in tre province, e il verbo adoperato è appunto dih/rei`to (ripetuto due volte). Ci sono dunque tutte le premesse per il ritocco di un guasto che potrebbe attribuirsi all’imperversante iotacismo di epoca bizantina. Non è comunque superfluo ricordare che dieivrhtai col valore di “è stato deciso” è frequente37, e che di lì alla nozione che esprime il contenuto della “decisione” il passo è breve. Basti pensare a un luogo platonico (Nomoi 956B): o{te de; mevrh dieivrhtai th`~ povlew~ sumpavsh~, «Une fois divisée la cité tout entière» (trad. di Gernet). Siamo dunque di fronte a un testo sostanzialmente sano, deformato da due ‘ondate’ di interventi peggiorativi: da parte di Vossius e da parte di Meineke. Incominciato nel 1658 lo stravolgimento si è definitivamente compiuto nel 1849. Possiamo dunque proporre ora una edizione del fr. 21, rispettando, per comodità, la divisione in righi di P: 1

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[...] e[peita de; hJ †dio† rJovdano~. ΔArtemivdwro~ de; ejn th`/ B B tw`n Gewgrafoumevnwn ou{tw diairei`sqaiv fhsin: «ΔApo; de; tw`n purhnaivwn ojrw`n e{w~ tw`n kata; Gavdeira tovpwn ejndotevrw, kai; sunwnuvmw~ ΔIbhriva te kai; ÔIspaniva kalei`tai, dieivrhtai dΔ uJpo; ÔRwmaivwn eij~ duvo ejparceiva~ diateivnousa ajpo; tw`n purhnaivwn ojrw`n a{pasa. Kai; mevcri th`~ Kainh`~ Karchdovno~ kai; tw`n tou` Baivtio~ phgw`n , th`~ de; B B ejparceiva~ ta; mevcri Gadeivrwn kai; Lusitaniva~».

37 Va ricordata qui, tra l’altro, la glossa di Esichio, d 1541 Latte: dieivrhtai: dihvggeltai. Glossa che presuppone, ad esempio, Epinomis 991B.

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e. Il testo stravolto, come si presenta nell’edizione Meineke di Stefano, è stato preso a base dall’autore del papiro. Riproduciamo qui l’edizione Kramer 2006: 1 4

8

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õajpo;Õ tw`n õPurhÕnajvõwnÕ ojrw`n õe{wÕ~ tw`n k^a^ta; Gavõdeira tovÕpwn k^ai; tw`n ejntotevrwj k^lim[avtw]n hJ suvmpasa cwvra sunwnuvmw~ ΔIbhriva kai; ÔIspaniva kalei`tai. dieivrhtai dΔ uJpo; ÔRwimaivwn eij~ duvo ejparceiva~, kajv th`[~] me;n prwvth~ ejsti;n ejparceiva^V hJ dja^teivnousa ajpo; tw`n Purhnajvwn ojrw`n a{pasa mevcri th`~ Kainh`~ KarõchÕdovno~ kai; Kastovlw`[no~] k^ai; tw`n tou^` Baivto~ phgw`n: õtÕh`V dΔ eJtevra^~ ejsti;n ejparceiva~ ta; mevcri G^adejvrwn kai; ta; kata; th;n Luseitanivan pavnta.

1 o õajpo; de;Õ en ekthesis 2 l. ejndotevrw 5 l. dih/vrhtai 6. 7. 12 l. ejparciva~ 13-14 l. Lusitanivan

I presupposti del rifacimento Berkel-Meineke sono qui recepiti tutti: 1) la scomparsa di kai; dopo a{pasa (rigo 9); 2) lo spostamento di kai; dopo tovpwn (rigo 2); 3) la determinazione di una ampia lacuna prima di diateivnousa (rigo 8). Per dare una patina di autenticità sono state introdotte alcune forme presenti nei manoscritti: dieivrhtai, ejparceiva (ripetuto addirittura tre volte: righi 6, 7, 12, anche nella frase aggiunta a proposito della prima provincia). Addirittura è stato creato un caso di iperiotacismo: Luseitaniva (rigo 13), che ha un che di preziosamente unico visto che dei circa duecento casi in cui ricorre Lusitaniva in fonti greche una tale forma non appare mai nei manoscritti, bensì, molto spesso, Lousitaniva (frequente in Tolomeo, Marciano, nonché in tante attestazioni epigrafiche). Ricorre anche una volta Lusitavneian in Plutarco, Aetia Romana, 272D, forma accolta nel testo sia da Nachstädt-Sieveking-Titchener (19712) che da Boulogne (2002). In Sozomeno, Hist. Eccl., IX, 11 (p. 403, 6 Bidez) il Marciano greco 917 dà Lusatanivan, in Tzetzes, Chiliad., VIII, 702 gran parte della tradizione dà Lushtanw`n: passo interessante, ripreso alla lettera da

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Tolomeo: Tw`n ÔIspanw`n tugcavnousi trei`~ ga;r aiJ ejparcivai / hJ Baitikhv, Lusitanw`n, kai; Tarrakwnhsivwn. È ammirevole come si sia voluto collocare un’altra volta Luseitaniva, anche nella successiva colonna (V, rigo 5). L’autore ha voluto trasformare in testo autosufficiente, donde l’immissione di hJ suvmpasa cwvra ai righi 3/4, quello che invece è un brano estratto da un contesto, secondo una tecnica che abbiamo prima ricordato: contesto del quale Strabone, III, 4, 19 (e forse anche l’impianto iniziale del capitolo costantiniano) ci aiutano a ricostruire il contenuto. La volontà di far intendere che siamo di fronte a un inizio è forse anche rimarcata visivamente con la collocazione «in ekthesis» di ΔApov (rigo 1). Bisogna dare atto all’autore di essersi accorto che, spostando il kaiv, restava comunque poco chiaro l’avverbio ejndotevrw («si chiama indifferentemente Iberia e Spagna nella parte interna»?). E perciò ha preso l’iniziativa di un intervento più radicale: kai; tw`n ejndotevrw klimavtwn (righi 2/3) anche a costo di andare incontro all’inconveniente della vaghezza di una indicazione che dovrebbe invece essere per definizione puntuale. Ha poi accantonato la soluzione Vossius ( prima di diateivnousa, al rigo 8), probabilmente spronato a ciò dall’apparato di Meineke (Meineke liquidava l’integrazione di Vossius con un «quod non sufficit»), nonché dal successo riscosso dal «quod non sufficit»: anche Stiehle riprende le parole di Meineke, e segna lacuna. Ha invece scritto ex novo e inserito una più ampia frase (righi 6/7: ) ricalcata sulla successiva riguardante la seconda provincia, senza rendersi conto che così a{pasa diventa pleonastico. Ma, per rimediare, ha creato un parallelo, un pavnta da aggiungere alla descrizione sommaria della seconda provincia. Così ta; mevcri Gadeivrwn kai; Lusitaniva~ è diventato incredibilmente ta; mevcri Gadeivrwn kai; ta; kata; th;n Luseitanivan pavnta (righi 12-14)38: il che crea il non lieve anacronismo di dare il controllo romano dell’intera Lusitania come realizzato già al tempo di Artemidoro, il cui floruit, non dimentichiamolo, è intorno al 100 a.C. Se non altro conveniva ricordarsi delle 38 L’espressione sembra derivare da una suggestione tratta dalle pagine di Marciano sulla Spagna: GGM, I, p. 554, 15 hJ me;n Lousitaniva pa`sa, cui segue tre righi dopo il Menesqevw~ limhvn.

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dure campagne romane in Galaecia, della durissima ribellione lusitana capeggiata da Sertorio, della notoria circostanza che il vero controllo del nord della Spagna fu realizzato solo con le campagne augustee, e che invece, ancora una trentina d’anni prima di Artemidoro, Polibio39 parlava del nord e di tutta la parte atlantica della Spagna come di un territorio «di scoperta recente e abitato da popoli barbari» (III, 37, 11). E, nella stessa linea, Artemidoro, com’è chiaro da quanto leggiamo nel fr. 21, aveva un’idea delle due province spagnole come costiere: l’una «dai Pirenei a Nova Carthago e alle fonti del Baetis», l’altra da lì fino a Gades. Dunque, altro che «tutta la Lusitania»! Introducendo tutti questi ritocchi, ha concentrato nello stesso giro di frase tre ejparceiva~ (righi 6, 7, 12) nonché suvmpasa (3) a{pasa (9) pavnta (14). Ma, una volta dilatata la sommaria delineazione delle due province, ha voluto rafforzare la prima con un ulteriore riferimento: tra Nova Carthago e le fonti del Baetis ha inserito Castulo (kai; Kastovlwno~). E infatti nella carta di Agrippa la longitudine della Citeriore veniva misurata da Castulo ai Pirenei (Plinio, III, 29)40. Immettere questo dato nella realtà descritta da Artemidoro è stata però una imprudenza41. Ecco dunque una utile sinossi. Fr. 21

Col. IV

ΔApo; de; tw`n Purhnaivwn ojrw`n e{w~ [ΔApo; de; tw`n Purhnaivwn ojrw`n e{w~] tw`n kata; Gavdeira tovpwn tw`n kata; Gavdeira tovpwn kai; tw`n ejndotevrw ejndotevrw klimavtwn [qui Meineke cambiò in: kai; hJ suvmpasa cwvra ejndotevrw] kai; sunwnuvmw~ sunwnuvmw~ ΔIbhriva te ΔIbhriva kai; ÔIspaniva kalei`tai kai; ÔIspaniva kalei`tai dieivrhtai dΔ uJpo; ÔRwmaivwn dieivrhtai dΔ uJpo; ÔRwmaivwn eij~ duvo ejparceiva~ eij~ duvo ejparceiva~. Direttamente partecipe della campagna di Numanzia. Cfr. anche HÜBNER 1899a, col. 1779, 15-17. 41 Cfr. Stefano, s.v. ΔWrisiva, e SCHULTEN 1925, p. 157. 39 40

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Parte terza. Perché quel papiro non può essere Artemidoro

diateivnousa ajpo; tw`n Purinaivwn ojrw`n a{pasa mevcri th`~ Kainh`~ Karchdovno~ kai; tw`n tou` Baivtio~ phgw`n th`~ de; deutevra~ ejparceiva~ ta; mevcri Gadeivrwn kai; Lusitaniva~

Kai; th`~ me;n prwvth~ ejsti;n ejparceiva~ hJ diateivnousa ajpo; tw`n Purhnaivwn ojrw`n a{pasa mevcri th`~ Kainh`~ Karchdovno~ kai; Kastovlwno~ kai; tw`n tou` Baivtio~ phgw`n th`~ deutevra~ ejsti;n ejparceiva~ ta; mevcri Gadeivrwn kai; ta; kata; th;n Luseitanivan pavnta

~. Come sappiamo, il brano di Artemidoro citato nel capitolo costantiniano presuppone un suo contesto, che è rimasto fuori dalla citazione. È in tale contesto che figurava il soggetto di kalei`tai. Ciò è provato, oltre tutto, dalla frase introduttiva (ΔArtemivdwro~ de; ejn th`/ B B tw`n Gewgrafoumevnwn ou{tw diairei`sqaiv fhsin), dove già il soggetto è sottinteso (th;n ΔIbhrivan). L’autore cui dobbiamo il papiro non è che non avesse compreso ciò, semplicemente ha preferito costruire un suo testo, sintatticamente autosufficiente. Credere che il novissimo papiro ci dia l’autentico testo di Artemidoro e che Stefano in Costantino ne desse una capillare e pervasiva deformazione è insensato. Bisognerebbe addurre altri casi nei quali Stefano (per giunta noto a noi per lo più dall’epitome) si comporta in modo così capillarmente arbitrario e deformante nei confronti degli autori che cita. Ma non esistono42. Analoga procedura ha seguito l’autore del papiro nella colonna IV non solo rispetto all’impegnativo frammento 21 Stiehle ma anche, subito dopo, quando immette poche righe prese da Marciano di Eraclea.

42 Si può addurre un esempio piuttosto significativo. Alla voce ΔWri`tai, Stefano (p. 710, 9-12 Meineke) presenta, preannunziandola con Stravbwn IE v, una citazione da Strabone, XV, 2, 1 (p. 720): tw`n oJrivzonti aujtou;~ ajpo; tw`n eJxh`~ ΔWritw`n. ΔIndw`n dev ejsti kai; au{th meriv~, e[qno~ aujtovnomon. In Strabone, tra ΔWritw`n e ΔIndw`n è inserito un riferimento a Nearco. Stefano – o meglio l’epitome che di lui ci è giunta – ha eliminato l’inserto da Nearco (infatti preannunziava Strabone), ma non ha ritoccato né parafrasato la citazione.

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Marciano (GGM, I, p. 544, 2-4) kai; to; me;n e}n pevra~ tou` o[rou~ eij~ th;n hJmetevran e[kkeitai qavlassan to; de; e{teron pevra~ aujtou` pro;~ ta;~ a[rktou~ kai; to;n ajrktw`/on wjkeano;n probevblhtai

Papiro, col. IV, 18-24 kai; to; me;n e}n pevra~ eij~ th;n hJmetevran e[kkeitai cwvran neneuko;~ pro;~ th;n novtion pleuravn, th;n meshmbrivan to; de; e{teron pevra~ ajpestrammevnon pro;~ a[rktou~ eij~ to;n wjkeano;n kata; polu; probevblhtai

Poiché si ripete qui lo stesso fenomeno che abbiamo appena visto verificarsi nella parte subito precedente della stessa colonna (raffronto con il fr. 21 citato in Costantino-Stefano), si dovrà concludere che abbiamo dunque a che fare con lo stesso «scrittore», il quale si comporta allo stesso modo rispetto a entrambe le fonti che mette a frutto. Sarebbe, per converso, inverosimile che, indipendentemente l’uno dall’altro, Marciano e Stefano avessero entrambi rielaborato, alla stessa maniera, Artemidoro. z. Ci si può forse stupire che questo «scrittore» abbia giustapposto un brano dell’Artemidoro «integro» (così oggi si tende a valutare il fr. 21) e un brano di Marciano (Mare esterno). Parrebbe cioè aver mescolato entità incongrue, visto che Marciano, nel Mare esterno, si sarà giovato della sua propria epitome artemidorea (di cui molto si vanta in prefazione). In realtà non vi è una ragione davvero cogente per ritenere che il fr. 21, come del resto le altre citazioni presenti in Stefano (o in Stefano-Costantino), provengano di sicuro dall’Artemidoro integro e non piuttosto dall’Epitome. Il modo in cui – a prima vista – si presentano le citazioni da Artemidoro in Stefano è tale da suggerire che egli attingesse, al tempo stesso, sia all’intero che all’Epitome. Il caso più significativo è alla voce Dw`ro~, che rientra nel bifolio del Coislin 228 (= p. 255 Meineke). Lì si susseguono (righi 16-20) due citazioni della forma Dw`ra anziché Dw`ro~ del toponimo della città fenicia: una prima

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volta Stefano segnala che Artemidoro conosce tale forma ejn ejpitomh`/ tw`n IAV, e subito dopo soggiunge kai; ejn q B gewgrafoumevnwn to; aujtov. Ciò vorrà significare che Artemidoro presentava in due passi diversi la stessa forma del toponimo. Ciò che spesso si dimentica, quando ci si avvicina un po’ troppo rapsodicamente alla storia del testo di Artemidoro, è che Marciano rivendicava di aver serbato, nella sua epitome artemidorea, «per non peccare nei confronti degli dei che tutelano le opere letterarie», il nome di Artemidoro come nome d’autore nonché la divisione in libri originale (GGM, I, p. 567, 4-5: th;n diaivresin tw`n IAV biblivwn fulavxa~; 567, 26-28: ta;~ me;n ejkeivnwn [= di Artemidoro e Menippo] proshgoriva~ ejpigravya~ toi`~ biblivoi~ ktl.). Dunque qualunque citazione del genere ΔArtemivdwro~ ejn th`/ XY può essere stata tratta tanto dall’intero quanto dall’Epitome. Ed è in effetti altamente probabile che Stefano (per fortuna da noi ‘colto’ nel suo testo intero alla voce Dw`ro~) adoperasse ormai, in epoca giustinianea, l’Epitome. Del resto non vi sono citazioni da Artemidoro tra Porfirio e Marciano. Non si vede perché mai Stefano avrebbe dovuto raffrontare ogni volta gli stessi toponimi nel testo intero e nell’Epitome. Il che vuol dire che quanto i collaboratori di Costantino VII misero a frutto a proposito dell’ΔIbhriva viene con tutta probabilità dall’Epitome di Artemidoro, non dal testo integrale della Geografia43. E dunque in certo senso ben fece l’autore del papiro (il quale – oltre tutto – aveva ottima conoscenza dell’opera di Stefano) a mettere insieme il fr. 21 e un pezzetto di Marciano. Come abbiamo osservato al principio, egli era comunque indotto dalla presentazione del fr. 21 nella sezione «Marciano» delle raccolte di Hudson e degli Zosimadai a considerare quel frammento come risalente appunto a Marciano. Del resto egli intendeva creare per l’appunto un pezzo dell’Epitome, come dichiara ai righi 14-16 della colonna V, dove preannuncia l’esangue e scombinato paravplou~ della costa spagnola (esclusa ovviamente quella settentrionale): Lhyovmeqa de; nu`n to;n paravploun aujth`~ ejn ejpitomh`/, cui segue la divertente giustificazione cavrin tou` kaqolikw`~ nohqh`nai ta; diasthvmata tw`n tovpwn. 43 Ovviamente un testo composito di pezzi di Artemidoro (in epitome) + Marciano. Marciano è collocato tra IV e VI sec., allorché certo non si allestivano rotoli letterari in scrittura del tempo di Cesare e Cleopatra... Questa considerazione mette fuori gioco l’idea che avremmo, nel novissimo papiro, un rotolo autentico del I sec. a.C.

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IX. Le molte vite del fr. 21 di Artemidoro

Va da sé che dialabei`n wJ~ ejn ejpitomh`/ significa, per esempio nel De principiis di Origene (IV, 1, 1) «trattare in modo riassuntivo»: fevre kai; peri; touvtwn ojlivga wJ~ ejn ejpitomh`/ dialavbwmen. Appunto: wJ~ ejn ejpitomh`/, cioè «come se stessimo allestendo un’epitome». (Difficilmente si potrà sostenere che epitome non significa epitome.) La questione è che non ha senso invocare, nel nostro passo, un valore generico di ejn ejpitomh`/ = «in forma riassuntiva» (ma giustamente Origene ci mette un wJ~ davanti), perché qui si tratta di un elenco di distanze. E non è sensato pensare né che, in un’ulteriore trattazione riassuntiva, le distanze presentate qui in riassunto sarebbero state omesse né che sarebbero state replicate44. Del resto, dare ejn ejpitomh`/ il paravplou~ significa proporre una «epitome», così come, per dire il contrario (cioè per offrire al lettore l’intero) si adopera oJ kata; mevro~ perivplou~. Basta mettere a raffronto da un lato il preannuncio contenuto nella colonna V, dall’altro il preannuncio con cui Marciano nel Mare esterno (cioè nella sua opera originale) presenta il periplo completo e ricchissimo della Betica e della Lusitania45. Marciano (GGM, I, p. 544, 31-33) kai; hJ me;n o{lh perigrafh; toiauvth, oJ de; kata; mevro~ perivplou~ tou`ton e[cei to;n trovpon.

Col. V, 13-15 Kai; to; me;n o{lon sch`ma th`~ ΔIbhriva~ ejsti; toiou`ton: lhyovmeqa de; nu`n to;n paravploun aujth`~ ejn ejpitomh`/.

La assidua presenza di procedimenti di questo genere nei testi creati da Simonidis è documentata più oltre (Parte sesta, cap. XVIII). 2. «Glücklicher Zufall» Il frammento di maggiore ampiezza attribuibile ad Artemidoro è la citazione, nel De administrando imperio, 23, riguardante le pro44 È proprio l’opera di Marciano (Mare esterno) che ci fa comprendere come sarebbe una sintesi compendiaria: ajnakefalaivwsi~ tw`n proeirhmevnwn aJpavntwn diasthmavtwn (GGM, I, pp. 539-540). E sono ovviamente le distanze complessive, non una manciata di distanze parziali! 45 Il paravplou~ ejn ejpitomh`/ della colonna V occupa 29 righi, quello delle sole Betica e Lusitania in Marciano ne occupa 120, fitti di toponimi.

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vince della Spagna. Degli undici libri di Artemidoro si ritrova, in un pezzo di papiro, proprio una parte del libro sulla Spagna, e proprio quella che avevano nel De administrando imperio, 23. Nel papiro la colonna dove ha inizio la trattazione sulla Spagna (la col. IV) incomincia esattamente con le parole note dal De administrando imperio, 23. Esse costituiscono proprio l’inizio di colonna: come s’è visto, invece, quello non poteva essere – nel vero Artemidoro – l’inizio della trattazione sulla Spagna. Per un singolarissimo parallelismo, anche nel manoscritto P del De administrando imperio (f. 46v), quelle parole sono all’inizio di pagina, e sono segnalate, sul margine, dallo scolio ΔArtemivdwro~. Per giunta occupano (didascalia inclusa) 14 righi, esattamente come il corrispondente brano nella col. IV. Avrebbe quasi del miracoloso il fatto che il fr. 21 sia approdato nel f. 46v di P passando attraverso due o tre tappe (da Artemidoro a Marciano, da Marciano a Stefano, da Stefano al De administrando imperio) e andando nondimeno a collocarsi nella stessa posizione in cui quei righi si trovano nella colonna IV del papiro. Sembra dunque potersi osservare che P (f. 46v) fu fonte di ispirazione per la impaginazione della col. IV. Si può pensare che P sia stato visto e tenuto in considerazione dall’autore del papiro. Lo confermerebbe anche l’accoglimento, nel papiro, di lezioni come dieivrhtai ed ejparceiva~, assunte, direi, come buone lezioni. Al fine di dare una patina di autenticità al «nuovo» testo, era una buona risorsa adottare lezioni tratte dal manoscritto dell’opera contenente il frammento: cioè dal De administrando imperio, verso cui entrambe le raccolte – Hudson e Zosimadai – esplicitamente indirizzavano. Per la scrittura adottata dall’autore del papiro, una fonte importante (non l’unica) dev’essere stato il cosiddetto “papiro di Eudosso”: un imponente illustrato peri; kovsmou. Il papiro di Artemidoro sembra insomma rispecchiare conoscenze acquisite a Parigi. Lì è documentato un non breve soggiorno – alla Bibliothèque impériale e all’Institut de France – di Simonidis (febbraio-marzo 1864), mentre Brunet de Presle, membre de l’Institut dal 1852, pubblicava, con un magnifico facsimile, il cosiddetto Eudosso, già da anni accessibile (vedi infra, Parte sesta, cap. XIX). Che la voce ΔIbhrivai di Stefano corrisponda sic et simpliciter al cap. 23 del De adm. imp. è, invero, ipotesi incauta (cfr. supra, nota 23). La effettiva situazione testuale è chiarita nel capitolo seguente.

X PERCHÉ QUEL PAPIRO NON PUÒ ESSERE ARTEMIDORO

La prima risposta è: perché sulla Lusitania dice il contrario di Artemidoro (vedi infra, Appendice II a questo capitolo). Ma procediamo con ordine. Ora che, nella sua quinta edizione della colonna IV del cosiddetto papiro di Artemidoro1, anche Bärbel Kramer ha finalmente riconosciuto che l’unica fonte che trasmette il «fr. 21» ascritto ad Artemidoro è il cap. 23 del De administrando imperio [= D.A.I.] di Costantino VII (risalente al 948-952 d.C.), il campo è definitivamente sgomberato dall’illusione che testimoni antichi tramandino quelle frasi sulla suddivisione romana della Spagna. E si può serenamente concludere, come vedremo nelle pagine seguenti, che quel fr. 21 proviene in realtà anch’esso dall’epitome artemidorea fatta da Marciano di Eraclea (IV sec. d.C.). Per semplicità diamo qui in apertura lo schema del ragionamento, che anticipa lo svolgimento analitico della dimostrazione. In coda due appendici: nella prima vi sono le voci, risalenti a Stefano 1 Le cinque edizioni della col. IV (1-14) – scaglionate nell’arco di un decennio – sono le seguenti: a) GALLAZZI-KRAMER 1998, pp. 195-196; b) KRAMER 2000, pp. 319320; c) KRAMER 2005, p. 22 (il paragrafo è addirittura intitolato La cita!); d) KRAMER 2006, p. 99; e) KRAMER 2007. Nella seconda pagina di KRAMER 2007 figura l’edizione della colonna IV, con qualche variante (per es. al r. 1). Nel preapparato si distingue, finalmente, tra l’unica fonte del fr. 21, cioè appunto «D.A.I. 23, 13 ss.», e le edizioni (del tutto ingannevoli) di Erodiano, Pros. cath., III, 1, p. 288, 28 Lentz e di Stefano, p. 324 Meineke (cfr. supra, cap. VIII, § 1). Questi due rinvii vengono finalmente e opportunamente distinti dall’unico possibile, cioè quello a D.A.I. 23, con un «vgl.». Il lettore è dunque invitato a non mettere sullo stesso piano ciò che è davvero tradizione (D.A.I. 23) e ciò che è soltanto frutto di arbitrarie – e nel caso di Lentz aberranti – manipolazioni editoriali moderne. Gutta cavat lapidem.

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di Bisanzio, Iberiai, Hispaniai, Dyrrachion (e relativa epitome); nella seconda c’è una nota relativa ad un recente libro sulla Spagna romana.

1. Schema Dato quanto si è detto sin qui, oggetto precipuo dell’analisi non può che essere il cap. 23 del D.A.I. L’analisi porta alle seguenti due conclusioni: a) è escluso che ci troviamo di fronte a una pura e semplice ripresa da Stefano di Bisanzio; b) il brano citato in D.A.I. 23 come di “Artemidoro” non proviene dall’opera integrale di lui. I. Quando siamo in grado di raffrontare Stefano intero ed Epitome, osserviamo che l’Epitome non tralascia argomenti della voce “integra”, bensì soltanto le esemplificazioni. II. Nel caso particolare, la voce ΔIbhrivai dell’Epitome di Stefano ci permette di constatare che nell’Epitome il tema divisione della Spagna in province è del tutto assente. III. I redattori costantiniani, quando usano Stefano, intervengono, integrano, innovano. La voce Durravcion è molto istruttiva in tal senso. In tal caso infatti disponiamo: a) della voce intera (nel Coislin 228); b) della corrispondente voce nell’Epitome; c) del reimpiego che i redattori costantiniani ne fecero nel capitolo 9 del De Thematibus (“Enaton qevma Durravcion). Questo ci permette di constatare che qui i redattori costantiniani hanno: a) utilizzato solo i primi 11 righi della voce (intera) di Stefano ritoccandola, modificando parole e aggiungendo indicazioni di fonti; b) premesso una parte del tutto nuova sulle ejparcivai di questo thema; c) proseguito per altri 20 righi con una parte anch’essa del tutto nuova sulla storia del merismov~ del thema. IV. Questo caso concreto ci aiuta a capire come è stato costruito il blocco D.A.I. 23 + 24. Il raffronto con la voce ΔIbhrivai dell’Epitome di Stefano ci fa comprendere che è stata compiuta un’operazione analoga a quella descritta nel punto precedente. Per giunta nel caso di questi (e altri) capitoli del D.A.I. non si tratta nemmeno di un

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tentativo di stesura ma di una raccolta di schede che sono state copiate in disordine circa un secolo più tardi. V. Nell’Epitome di Stefano non ricorre altrove il tema della divisione in province delle regioni di cui via via si tratta. E per quel che riguarda la Spagna l’argomento è l’unico oggetto della voce ÔIspanivai. Nel caso di ΔAkuitaniva ejparciva th'~ Keltogalliva~ miva tw'n dV wJ~ Markianov~ si tratta di una citazione da Marciano, non di una delineazione delle province della Gallia. VI. L’Epitome (voce ΔIbhrivai), mentre non include il tema della divisione in province, è invece incentrata sulla distinzione tra le due ΔIbhrivai (occidentale e asiatica) e la varia forma dell’etnico (“Ibhr, “Ibhro~, ΔIbhrikov~, ΔIbhriv~, ΔIbhrivth~) con precisazioni grammaticali sul meccanismo – che molto interessa Stefano anche in altre voci – della derivazione dal genitivo di un’altra forma di nominativo. VII. Cosa saranno dunque le frammentate e sparse notizie sulla divisione dell’ΔIbhriva in province che troviamo in D.A.I. 23? (Meineke tentò di disporle diversamente da come sono tramandate e di accorparle.) Si dovrà pensare all’apporto, qui come altrove, di altra fonte, distinta da Stefano, messa a frutto dai redattori costantiniani. VIII. E non può che essere Marciano (citato ai righi 27-30). Di Marciano i redattori costantiniani avevano l’opera completa, comprendente, in prima posizione, l’Epitome di Artemidoro, presentata – come Marciano ci avverte nella prefazione al Menippo – come opera di Artemidoro. Così si chiarisce l’origine delle citazioni collocate in ordine sparso lungo il cap. 23 (rr. 11-17, 22-24, e rr. 27-30): tutte provenienti dal corpus di Marciano, che aveva da tempo soppiantato (già nel VI secolo al tempo di Stefano) l’opera integrale di Artemidoro. (Per analoghe conclusioni, M. Billerbeck, Seminario sui lessici bizantini: Bologna, 14.X.2007.) IX. Un indizio utile si ricava anche dall’anacronistica affermazione in D.A.I. 23, r. 27 secondo cui «attualmente» la Spagna è divisa in tre province: cosa non vera né al tempo di Stefano, né al tempo di Costantino VII. Dunque davvero siamo di fronte a una scheda tratta di peso da Marciano e incorporata nella farragine del cap. 23.

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X. Si può concludere che dunque il cosiddetto papiro di Artemidoro (col. IV), in quanto rispecchiante il fr. 21, al più potrebbe aspirare a essere un pezzo di Marciano (IV sec. d.C.), non certo di Artemidoro. Dunque saremmo, al più, di fronte a un prodotto tardivo, sconcertante in quella scrittura. E crollano, di conseguenza, le fantasie sulle “tre vite”, botteghe etc. E si rivela un’invenzione la connessione con i fantasmatici 25 documenti databili tra Nerone e Domiziano. XI. Un volenteroso advocatus diaboli potrebbe obiettare che proprio in quel punto epitome e testo integro coincidevano. E invece la colonna IV (1-14) rappresenta una riscrittura a ritocco del fr. 212, che però sciaguratamente ingloba ben due erronee correzioni moderne (nate, tra l’altro, dalla non comprensione di kai; sunwnuvmw~)3, nonché un errore di sintassi non notato nella pur quintuplice ormai edizione della colonna IV (vedi infra, nota 41). Per non parlare dell’inclusione dell’«intera Lusitania» nella Hispania ulterior, che è una svista importante. Ecco perché il papiro non può essere Artemidoro. 2. Stefano Quando rinvia ad Artemidoro, a Marciano, a Menippo, Stefano cita le stesse opere con differenti titoli4. Nel caso di Artemidoro ciò si verifica addirittura all’interno della stessa voce (Dw'ro~) tramandata dal Coislin 228 (ff. 120v-121r), prezioso ma esiguo frammento dello Stefano “integro”. Nell’Epitome, i rinvii ad Artemidoro si presentano come segue: a) Artemidoro tout court b) ΔArtemivdwro~ oJ gewgravfo~ (per es. voce “Abarno~ etc.) c) Gewgrafoumevnwn [aV ... iaV] d) ejn ejpitomh'/ (un paio di volte) e) ejn ejpitomh'/ aV (voce Kruva) f) ejn ejpitomh'/ tw'n e{ndeka (voce ΔAstaiv etc.: molte citazioni) g) ΔArtemivdwro~ ejn tw'/ dekavtw/ [senza titolo] (voce Kavrnh). Cfr. supra, cap. IX, § 1.e-~. Cfr. su ciò, oltre supra, cap. VIII, § 1 e cap. IX, § 1.a, anche infra, § 4. 4 Il fenomeno fu già rilevato con grande precisione da Johann Albert Fabricius (FABRICIUS-HARLES 1795, pp. 643 e 647). 2 3

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In linea generale, un tale comportamento potrebbe far pensare a citazioni filtrate, o mediate, attraverso una o più fonti intermedie, ognuna delle quali citava in modi diversi. E che Stefano attingesse a una, o più, opere ‘enciclopediche’ (lessicali e geografiche) nelle quali già si trovava buona parte del materiale che incorpora nel suo lessico sembra comunque fuor di dubbio, essendo altamente improbabile che avesse proceduto a una schedatura di prima mano di oltre 270 autori. Un’opera nella quale poteva trovare già raccolti molti dei materiali che utilizza era ad esempio il Peri; povlewn di Erennio Filone (in 30 libri), gigantesco repertorio di epoca adrianea cui Stefano fa spesso riferimento. Non è superfluo ricordare che il prezioso frammento compreso nel Coislin 228 ci dà (f. 121v) il titolo esatto dell’opera di Stefano, che è appunto Peri; povlewn, nhvswn kai; ejqnw'n, dhvmwn te kai; tovpwn kai; oJmwnumiva~ aujtw'n. Dunque molto più del Peri; povlewn di Erennio (basti pensare che, appena alla lettera D, Stefano era già alla fine del libro decimo); comunque tra i due peri; povlewn deve esserci stato un notevole nesso. Ma torniamo allo specifico caso di Artemidoro. Stefano dispone di una edizione completa di Marciano (lo cita molto spesso), nella quale trova, probabilmente in prima posizione (era stata quella la prima fatica di Marciano), l’Artemidoro epitomato e recante tuttavia «Artemidoro» come autore. Per giunta in tale Epitome la divisione in libri (ciò era detto con evidenza, e Marciano lo ripete anche nella prefazione al Menippo) corrispondeva puntualmente a quella dell’opera integra. Ecco perché Stefano si sente autorizzato a citare talvolta ΔArtemivdwro~ ejn th'/ ejpitomh'/ talaltra ΔArtemivdwro~ ejn toi'~ Gewgrafoumevnoi~. Questo si verifica, nella voce Dw'ro~, restituitaci nella sua integrità dal Coislin 228 (ff. 120v-121r), addirittura in successione immediata e a proposito della stessa variante. Lì Stefano intende segnalare che quella rara forma (Dw'ra anziché Dw'ro~) si trovava in due diversi libri dell’opera di Artemidoro, cioè dell’Epitome redatta da Marciano. L’attenzione si deve dunque spostare su Marciano, autore da collocarsi al tempo di Diocleziano5, dunque per Stefano non una fresca ‘novità’ ma un’autorità consolidata risalente al tempo in cui ancora l’impero ‘reggeva’ sostanzialmente integro. È significativa la varietà 5 Marciano non conosce ancora il riordino dioclezianeo della Spagna, bensì quello del Ponto (sua patria). Vedi su ciò la prefazione di Müller in GGM, I, p. CXXX. Questo costituisce di per sé un preciso indizio cronologico.

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dei modi di citazione cui, anche nel caso di Marciano, Stefano fa ricorso. Ecco un prospetto: a) Markianov~ senza altra indicazione; questo accade in parecchie voci; b) Markiano;~ ejn toi'~ ajpo; ÔRwvmh~ ejpi; ta;~ diashvmou~ povlei~ (voce “Amisa); si tratta di una trattazione delle distanze tra le principali città e Roma; c) ejn deutevrw/ tw'n ejpitomw'n ΔArtemidwvrou (voce Malavkh); d) (ejn) perivplw/ (molte citazioni, in varie voci); e) perivplw/ della Britannia; f) perivplw/ ΔIndikh'~; g) perivplw/ Keltogalliva~; h) perivplw/ Sarmativa~ ktl. È poi notevole il fatto che anche nel caso di Menippo, l’altro autore che ci è (parzialmente) giunto nella rielaborazione dovuta a Marciano, Stefano citi allo stesso modo (Periplo, Periplo della Paflagonia, Periplo del Ponto etc.). Dunque Stefano usava un corpus di Marciano, nel quale la materia era uniformemente suddivisa in quel modo. Una suddivisione in capitoli della materia trattata, ciascuno con un titolo comprendente la parola perivplou~, è ancora attestata nel testimonio fondamentale, purtroppo mutilo, dell’opera di Marciano, il Suppl. gr. 443. Non è detto che una tale presentazione della materia risalga all’autore, ma certo così era nell’esemplare usato da Stefano. Essa agevolava la consultazione e probabilmente trovava riscontro in un pinax. Il Marciano di Stefano si presentava appunto così. L’uso diretto dell’opera ‘completa’ di Marciano, da parte di Stefano, sembra difficile da contestare: non dimentichiamo che anche i molti rinvii di Stefano ad «Artemidoro ejn th/' ejpitomh/'», nonché a Menippo, sono in realtà altrettanti rinvii a Marciano. Marciano sembra anzi, insieme a Ecateo, Apollodoro, Eudosso, tra gli autori di gran lunga più utilizzati. C’è poi il caso degli autori che conosciamo soltanto (o quasi) grazie a Stefano. Charax di Pergamo è uno di essi, ma si possono citare anche Balagros, Iolaos, Asinio Quadrato, Uranios, e ancora altri. Abbiamo perso in blocco tutti gli altri autori, antichi e bizantini, che citavano costoro? o non piuttosto Stefano vi giungeva attraverso Raccolte di scritti geografici (epitomi, gewgrafouvmena)? Il caso di Charax è sintomatico. Poiché costui appariva quasi solo in

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Stefano, si era consolidata l’idea che fosse un autore di poco a lui precedente, una ‘novità’ libraria; la scoperta però di alcuni documenti epigrafici6 ha ricollocato Charax nel tempo di Antonino Pio. Ciò rende preferibile una diversa prospettiva: che cioè quell’autore dimenticato, né da altri mai ricordato o adoperato, giungesse a Stefano non grazie a un prezioso repêchage, ma attraverso una silloge geografica (gewgrafouvmena, ejpitomaiv) che inglobava anche questi, e altri «rarissimi». In un quadro del genere sembra poco probabile che, a integrazione di tali raccolte di fonti (grandi collettori della dottrina precedente), Stefano (VI secolo inoltrato) abbia rintracciato e messo a frutto anche l’opera integrale di Artemidoro, che – oltre tutto – probabilmente non esisteva più nella Costantinopoli giustinianea7. Ai suoi fini – toponimi e soprattutto etnonimi nelle loro molteplici varianti – l’epitome marcianea, che non tagliava dati di fatto ma solo «digressioni» (come Marciano dichiara più volte), era ben sufficiente8. E si deve anche tener conto del vantaggio che poté venire – attraverso Marciano – a Stefano grazie alla imponente enciclopedia geografica che a sua volta Marciano, nelle superstiti sue prefazioni, ostenta di conoscere. Tutto ciò fa sorgere il sospetto che le ejpitomaiv cui, citando Marciano, fa cenno Stefano (s.v. Malavkh: è l’unica volta che adopera il plurale) altro non siano che la raccolta ‘completa’ di Marciano; raccolta che comprendeva, oltre alle due epitomi, anche opere di altri, come ad esempio l’edizione “ritoccata” del Periplo di Menippo (del che Marciano mena gran vanto). Il mutilo e tardivo Supplément grec 443 ne è soltanto un parziale riflesso. 3. D.A.I. 23 Adeguata attenzione va riservata a struttura e genesi del D.A.I. Qui basterà osservare che: ROBERT 1961; SEG, 18, 1962, pp. 184-185 (n. 557). Su conservazione e perdita di testi antichi nella Costantinopoli del IV secolo sempre istruttiva la testimonianza di Temistio, Or., IV, 59B-60D, dove è messo in luce che fuori pericolo erano solo i grandi autori. Per quanto attiene alle vicende del testo di Artemidoro, cfr. supra, cap. I. 8 Che Stefano adoperasse ormai Marciano e non avesse più accesso all’Artemidoro integro osservano, indipendentemente, ATENSTÄDT 1910, p. 20, e GISINGER 1935, col. 274, 13-17. E da ultimo M. Billerbeck. 6 7

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1) L’opera era nata come strumento di istruzione e di orientamento per il figlio dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito, e certo non fu pensata per la pubblicazione. Conteneva precetti «riservati». Un esempio è proprio al principio (cap. 1, 25-27 = p. 48 Mor.): mantenere buoni rapporti con i Peceneghi (Patzinakivtai) perché essi potrebbero seriamente mettere in pericolo la capitale dell’impero. Lo stesso può dirsi per il capitolo seguente relativo ai rapporti con i Russi: innocui purché l’imperatore sappia tener viva la tensione tra loro e i Peceneghi. ‘Riservata’ è anche la rivelazione, estremamente brutale nel suo realismo, da cui si apprende che l’imperatore “compra” eventualmente la pace dai Turchi pagando molto oro (cap. 4, rr. 5-7). 2) Si può datare la conclusione della raccolta dei materiali che compongono il D.A.I. al 952 d.C. Solo circa un secolo dopo la morte di Costantino VII (959), Giovanni Dukas fece ricopiare quei materiali, e l’operazione avvenne in modo talmente meccanico9 che furono messi insieme sia i materiali (capp. 23, 24, 48, 52 etc.) sia gli abbozzi: in alcuni casi furono messi l’uno accanto all’altro i materiali preparatori (cap. 48) e la stesura (cap. 47). Una tale situazione testuale aiuta a comprendere la caotica successione dei pezzi che compongono il cap. 23, che ingenuamente Vos volle “riordinare”10 e che Meineke pensò di ulteriormente “riordinare” credendo, sulla base di Berkel e di Banduri, che quella creata da Vos fosse la tradizione! Ma è tempo di addentrarsi ormai nello studio di quel capitolo. Almeno una parte del capitolo 23 rispecchia la voce ΔIbhrivai duvo di Stefano quale si presentava nella forma non epitomata11. Basti osservare la affinità verbale e di contenuto tra i capp. 23 e 24 da un la-

9 Sulla formazione del testo consegnatoci dal Paris. Gr. 2009 un punto fermo è l’analisi condotta da MONDRAIN 2002: «Constitution en ouvrage des diverses notes [...] remontant au dossier établi par Constantin mais non agencé en livre» (p. 490). La testimonianza significativa è quella, lì indicata dalla Mondrain, della lettera di Psello riguardante il modo di procedere di Giovanni Dukas, al quale per l’appunto – com’è dichiarato nella subscriptio – si deve la formazione del Paris. Gr. 2009. 10 La prudenza di Meursius fu più che giustificata, cfr. supra, cap. IX, § 1.a. 11 Che quel capitolo in blocco riproduca tale voce diedero per certo, senza troppo approfondire, VOS (1658), BERKEL (1688, 1694), WESTERMANN (1839), MEINEKE (1849).

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to e le voci ΔIbhrivai duvo e ÔIspanivai dell’Epitome di Stefano dall’altro. In particolare nel cap. 23 inizio e fine di capitolo si sovrappongono quasi alla lettera con la breve voce dell’Epitome (nel finale ovviamente Ateneo che cita Filarco viene sfrondato e c’è solo Ateneo: cfr. infra, Appendice I a questo capitolo) e la successione degli etnici per dire «iberico» è la medesima. (Nell’epitome manca ogni riferimento alla questione della divisione in province, che invece appare qua e là – sotto forma di citazioni da Artemidoro e Marciano – nel cap. 23 interrompendo reiteratamente, come vedremo, la trattazione relativa agli etnici.) I redattori costantiniani unirono a ciò che trovavano in Stefano anche altro materiale? La questione si pone già solo perché non esistono voci nel Lessico di Stefano (sia nell’Epitome che nel Coislin 228) così caotiche nella disposizione della materia, e, inoltre, perché di norma i redattori costantiniani non riprodussero meccanicamente le loro fonti ma le rielaborarono e mescolarono con diversi apporti. Conviene dunque partire da una sommaria analisi del loro modo di operare, in particolare nel De Thematibus e nel De administrando imperio (le due opere in cui il sapere geografico precedente gioca un grande ruolo), nonché dalla storia del testo del D.A.I., quindi anche dalla genesi del suo testimone, il Paris. Gr. 2009. Non è inutile un preliminare bilancio della presenza di autori antichi nel D.A.I. Essi sono presenti unicamente nei capitoli 23 e 24 (Iberia e Spagna). Tutti gli altri riferimenti (pochissimi) segnalati nell’indice di Moravcsik 1962-1967 (I, pp. 338-339) sono generiche assonanze con aneddoti divenuti topici (è il caso di D.A.I. 41, 7-19 che ritorna in Esopo, Babrio, Plutarco Mor. etc., senza che vi sia alcuna coincidenza verbale) ovvero paralleli inesistenti (D.A.I. 42, 80-83 che non ha nulla in comune né con Erodoto né con Tolomeo), ovvero luoghi comuni (46, 168-169 per il quale non ha senso ‘scomodare’ Tucidide, I, 22). Quanto poi a D.A.I. 21, 6162, la fonte sarà bizantina12, non Strabone, che oltre tutto dà i due versi citati in 21, 61-62 in forma incompleta.

Visto che solo nei due capitoli 23 e 24 appaiono numerose e letterali citazioni da autori antichi (Aristofane, Cratino, Dionigi Periegeta, Apollonio grammatico, Abrone, Apollodoro, Erodoro, Arte12 L’epigramma riapparirà nella Planudea e in Cedreno (Comp. Hist., I, p. 755, 10-16 Bekker).

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midoro, Marciano, Charax)13, e poiché il nesso tra questi capitoli e ciò che si doveva leggere nel testo integrale di Stefano è reso certo da quanto troviamo nell’Epitome, le alternative sono due: o quel ricco materiale dei capp. 23 e 24 proviene in blocco dalle voci (integrali) di Stefano (e perciò quei due capitoli ci restituiscono sic et simpliciter, come fu creduto da Isaac Vos14 e sulla sua scia da tanti, due voci di Stefano), oppure l’analisi potrà mostrare che, in particolare nel cap. 23, i redattori costantiniani immisero apporti relativi alla storia della suddivisione in province della Spagna in epoca romana. Apporti ricavati da Artemidoro-Marciano, la cui immissione nel testo costantiniano merita uno studio attento. Il fatto, ben noto e di cui s’è già detto, che per parte sua Stefano si servisse ampiamente di Marciano non comporta necessariamente che anche in questo caso particolare i rinvii ad Artemidoro-Marciano debbano attribuirsi a lui: anche i redattori costantiniani hanno fatto, in alcuni casi, ricorso a Marciano. La questione è dunque di capire la specifica condizione del capitolo 23. L’uso da parte dei redattori costantiniani della silloge di Marciano si ricava con certezza dal capitolo XVII del De Thematibus, quello relativo all’Aijgai'on pevlago~ (p. 82 ed. Pertusi). Lì essi lavoravano, per così dire, in proprio. Notano che Strabone corrisponde quasi alla lettera ad Artemidoro, e rivelano anche come hanno lavorato nel costruire quel capitolo. Incominciano col citare una fonte mitologica, cioè gli scolii a Omero («il cosiddetto Aijgai'on pevlago~ prende il nome da Aijgeuv~, figlio di Posidone, come dicono i commentatori di Omero»), dopo di che si dichiarano insoddisfatti di una fonte del genere («Ma non è questa la sede – scrivono – in cui ricorrere alle favole pagane, perché esse sono piene di falsità») e si rivolgono perciò ad altro genere di fonte: i geografi. Prima Strabone, quindi Artemidoro (ovviamente l’epitome marcianea15). Un procedimento simile ci fa, se così si può dire, vedere all’opera questi redattori. Ed è quanto mai significativo, ai nostri fini, poterli osservare mentre lasciano da parte gli scoliasti omerici e prendono in mano Strabone e Artemidoro-Marciano: un procedimento di cui converrà ricordarsi quando affronteremo più da presso D.A.I. 23. È un primato: nessuna altra voce presenta una così lunga serie di fonti. VOS 1658, p. 184: «(patet) ex Stephano grammatico, cuius locum descripsit Porphyrogenneta de Administratione imperii cap. XXIII». 15 Non a caso essa viene citata dopo Strabone. E il “capovolgimento” cronologico si evince anche dalla frase, a prima vista assurda, secondo cui «Artemidoro dice lo stesso che Strabone»! 13 14

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Il dato da non dimenticare quando si sia alle prese con l’opera promossa da Costantino VII è che ci si trova di fronte a compilazioni redazionali realizzate, appunto, da équipes. Nel caso del D.A.I. è acclarato che ci troviamo di fronte a una raccolta di materiali solo in parte rielaborati: raccolte di «dossiers», per dirla con Paul Speck, il quale tale termine a ragion veduta lo estenderebbe a larga parte della letteratura bizantina16. Basterà qui rinviare agli studi principali sul D.A.I., a partire da quello fondamentale e pionieristico di John B. Bury (1906)17. Il primo e principale merito di Bury fu di mostrare la natura di «patchwork», come egli si esprime, di gran parte del trattato, in particolare dell’ampia sezione dedicata agli Arabi (capp. 14-25), in cui sono compresi – a ragione – i capp. 23-24 sulla Spagna, nonché dell’ampia sezione sulla Dalmazia (capp. 29-36). Non entreremo nel dettaglio della sua argomentazione, ormai generalmente accolta data l’evidenza del fenomeno. Ci limitiamo piuttosto a rinviare ad una sinossi, che abbiamo pubblicato altrove18. Essa documenta in modo analitico come i redattori costantiniani hanno proceduto, mescolando brani di diversa provenienza, e una fonte principale, che nel caso dei capp. 14-21 e 25 è la Cronaca di Teofane. La sinossi fa emergere il lavoro “a incastro” compiuto dai redattori anche quando essi erano saldamente ancorati a una fonte prevalente. Tappa ulteriore, e molto significativa, fu rappresentata dagli studi di Gyula Moravcsik e Romilly James Heald Jenkins, che diedero del D.A.I. una fondamentale edizione (1949). Il loro apparato delle fonti rende immediatamente evidente il collage intricato che sta a fondamento dei capitoli 14-25. In questa prima edizione, inoltre, Jenkins mise opportunamente in rilievo (p. 12) il carattere di «secret and confidential document» del D.A.I., soprattutto per la parte che rende espliciti i criteri della politica estera dell’impero. Un dato questo che, unitamente al carattere palesemente incompiuto dell’opera, fa comprendere come mai si sia dovuto attendere oltre un secolo perché prendesse corpo un manoscritto (il Paris. Gr. 2009), nel quale i materiali raccolti per dar vita al trattato furono finalmente rico16 Mi riferisco a SPECK 1991, p. 269. Speck segnala come tale nozione debba ritenersi particolarmente pertinente «nel caso delle opere di Costantino». 17 Un accenno alle ulteriori rielaborazioni post mortem delle opere scaturite dall’atelier costantiniano era già nel bel saggio di BURCKHARDT 1886, p. 458. 18 Cfr. «QS», 66, pp. 271-300.

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piati tutti insieme, e sia pure del tutto meccanicamente e acriticamente. Il materiale costitutivo era stato messo insieme tra il 948 e il 952, il manoscritto (prima e, di fatto, unica fonte di questo importante trattato) fu allestito nel 1060/108019. Con approfondimento analitico tornò sulla genesi del D.A.I. Gyula Moravcsik nel primo tomo dei suoi Byzantinoturcica (19582). Notò (pp. 362-363), tra l’altro, che un’integrazione al capitolo sull’Iberia (cap. 23) fu realizzata dai redattori costantiniani con l’aggiunta, in coda al materiale già raccolto, di un’altra, amplissima, scheda (capp. 45 e 46) tutta dedicata agli Iberi d’Oriente. Osservò inoltre che le fonti dei vari scedavria («dossiers») che costituirono, in origine, l’insieme dei materiali destinati a formare questo trattato ci sono solo in parte note, fermo restando il ruolo preminente della Cronaca di Teofane (zio di Costantino VII) e di quella di Giorgio Monaco, soprattutto per i capitoli da 14 a 25, nonché l’utilizzo nei capp. 23-24 di voci di Stefano di Bisanzio. La difficoltà di identificazione dipende, tra l’altro, dal fatto che non sempre quelli che siamo soliti chiamare “titoli” dei vari capitoli (e che invece – come diremo in seguito – erano in origine notazioni poste sui margini dei singoli scedavria) indicano la fonte utilizzata, come accade invece al principio dei capitoli 21 (ejk tou' Cronikou' Qeofavnou~), 22, 25 etc. Il tema venne ripreso da Moravcsik e Jenkins nella seconda edizione, fornita ormai anche di un commentario (Moravcsik-Jenkins 1962-1967). Nelle rispettive prefazioni i due studiosi ricorsero più volte all’espressione «source-material» per designare capitoli quali 23 e 24 e parlarono anche, ripetutamente, di «inclusione per errore» di tali materiali al momento della copiatura del tutto. Una «deplorevole confusione», scrisse Arnold Toynbee (Constantine Porphyrogenitus and his world), è l’impressione che suscita il D.A.I.20. Tutto fu più chiaro quando Brigitte Mondrain ricostruì la genesi del primo manoscritto del D.A.I., il Paris. Gr. 2009. Ma quale sarà stata mai la ragione per cui, all’interno di un trattato che avrebbe dovuto riguardare il panorama dei potenziali nemici dell’impero e della politica da adottare nei loro confronti, furono inseriti i due capitoli sulla Spagna, in buona parte derivati – anche se in questo caso nessun “titolo” lo dichiara – dall’enciclopedia geografica di Stefano? Nel convegno svoltosi a Köln nel giugno 1991 19 20

Lo ha dimostrato MONDRAIN 2002. TOYNBEE 1973, p. 661.

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Ihor Sˇevcˇenko mise giustamente in relazione quanto si legge nel cap. 21 (largamente ma non esclusivamente fondato su Teofane) con la ‘digressione’ spagnola. Lì si dà notizia infatti del passaggio degli Arabi in Spagna, e già per questo una trattazione sulla Spagna si giustifica. Ben è vero, osservava Sˇevcˇenko, che «la cancelleria bizantina» seppe trovare ben poco in materia: «non più che due lemmi del Lessico allestito nel VI secolo da Stefano di Bisanzio», e per giunta nel ricopiarli commise errori grossolani come «scambiare Erodoro per Erodoto»21. Importante è la suggestione politica che Sˇevcˇenko propone ricordando le relazioni diplomatiche che vennero a stabilirsi, proprio intorno al 950, tra l’impero e il califfato arabo di Cordova22. Lo sforzo dunque di documentarsi sulla Spagna ben si comprende. Ma vi è un ulteriore elemento: nel medesimo contesto del cap. 21 non solo è citata la Spagna come territorio passato, almeno in parte, sotto il controllo arabo, ma viene anche lamentato che «da quando la grande Roma fu conquistata dai Goti [410 d.C.], l’impero romano cominciò a essere mutilato, e nessuno degli storici ha descritto le parti (tw'n merw'n) della Spagna, e nemmeno hanno parlato della discendenza di Mauias [il cui figlio portò gli Arabi appunto in Spagna]» (D.A.I. 21, 31-34). Dunque le notizie che figurano nel cap. 23 sulle successive suddivisioni in province stabilite in Spagna dai Romani, rispondono esattamente a questa “lacuna” indicata dai redattori nel cap. 2123, quantunque incorporate in modo decisamente caotico. Sul modo in cui quelle notizie – tratte da Marciano (epitome di Artemidoro e Mare esterno) – sono passate dal margine nel testo dello scedavrion basato su Stefano diremo tra breve. Qui mette conto osservare che, mentre il tema divisione in province è insolito in Stefano (e comunque proprio per la Spagna è l’unico tema dell’altra voce, ÔIspanivai)24, esso è invece motivo di costante interesse per i redattori costantiniani: D.A.I. 27, 6-11; 30, 90-105; 37, 15-16 etc.

21 ˇ SEVCˇ ENKO 1991, pp. 10-11. In verità lo scambio tra quei due nomi è onnipresente nella tradizione e non deve per forza imputarsi ai redattori che a suo tempo avevano allestito quello scedavrion. 22 La suggestione viene ripresa da BELKE-SOUSTAL 1995, p. 119. 23 La cosa non era sfuggita a LOUNGHIS 1990, p. 65 e allo stesso SˇEVCˇ ENKO 1991, p. 11, nota 16. 24 Il che non gli vieta ovviamente di menzionare, un paio di volte, delle regioni (Aquitania, Lugdunese) col termine ejparciva.

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Possiamo dunque ricostruire agevolmente, con l’aiuto del cap. 21, il procedimento seguito dai redattori. Conformemente a quanto accade negli altri capitoli circostanti25, dapprima hanno accorpato le due voci tratte dal lessico di Stefano ΔIbhrivai duvo e ÔIspanivai: che di ciò si tratti è chiaro dal primo scolio, poi divenuto titolo del cap. 23, che si riferisce appunto a entrambi i capitoli (Peri; ΔIbhriva~ kai; ÔIspaniva~), mentre il secondo scolio Peri; ÔIspaniva~ riguardava il solo cap. 24 e ne è diventato il titolo26. Le due voci sono state quindi collegate con una frase di passaggio che ovviamente non figurava in Stefano: povqen ei[rhtai ÔIspaniva; Lo scedavrion così risultante comprendeva una trattazione incentrata sui vari etnici derivanti da “Ibhr nonché, nella parte corrispondente ad ÔIspanivai, un riferimento alquanto confuso («la grande e la piccola») a due province spagnole, illustrato da un paio di frammenti di Charax. Era ovvio d’altra parte che Stefano facesse cenno alle province stabilite dai Romani nella voce ÔIspanivai: le «due Spagne» sono appunto le due province stabilite dai Romani, come la voce spiega. È dalla definizione romana di Hispania come territorio a partire dai Pirenei e non, come l’antica ΔIbhriva, dal Rodano, che discende la suddivisione di quel territorio in due province27. Perciò di questo argomento era logico che si parlasse nella voce ÔIspanivai, non in quella che è dedicata all’Iberia, quella d’Occidente e quella orientale (la Georgia, «che sta presso i Persiani»). Ma i redattori costantiniani – com’è detto in 21, 31-34 – cercavano un resoconto relativo ai mevrh th'~ ÔIspaniva~, e perciò andarono a pescare in Marciano (Epitome di Artemidoro + Mare esterno)28 le notizie sull’evoluzione nel tempo di tale suddivisione. E trascrissero quei brani sui margini dello scedavrion, ovviamente in prossimità di ÔIspanivai duvo. Trascelsero i due brani fondamentali: quello, tratto dall’Epitome di Artemidoro, in cui è descritta la divisione in due concomitante con la decisione romana di spostare ai Pirenei il confine settentrionale della Spagna, e quello, tratto – come possiamo tuttora constatare – dal Mare esterno di Marciano (GGM, I, p. 544, 9-12),

Il cui intreccio e collage di fonti è illustrato in «QS», 66, pp. 278-300. Per comprendere la natura di ex scolii di questi cosiddetti titoli basti considerare lo straripante “titolo” del cap. 42. 27 Su ciò cfr. infra, § 4. 28 Non disponevano ormai più dell’opera integrale di Artemidoro, come abbiamo ricordato più volte. 25 26

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in cui si dà notizia del fatto che «ora» la Spagna è divisa in tre province, non più in due, giusta l’ordinamento stabilito da Augusto dopo le guerre che portarono finalmente i Romani all’effettivo controllo del Nord e Nord-ovest del paese. Che i redattori costantiniani avessero ben chiaro il senso dell’avverbio «ora» (nu'n) potrebbe essere superfluo dimostrarlo, ma non è escluso che – pur di difendere la causa disperata del cosiddetto papiro di Artemidoro – si ricorra a ogni sorta di sofisma. È dunque opportuno rassegnarsi a dimostrare anche l’ovvio. L’inizio del capitolo 10 del De Thematibus (Devkaton qevma Sikeliva) è quanto mai illuminante: «In passato la Sicilia non era sotto l’autorità dell’imperatore di Costantinopoli, al tempo in cui c’era l’autorità imperiale anche a Roma. Ora invece si è verificato questo cambiamento per il fatto che Roma ha abbandonato il potere imperiale ed ha reggimento autonomo ed è governata legittimamente dal papa volta a volta in carica. Ora la Sicilia è sotto l’autorità di Costantinopoli, perché l’imperatore di Costantinopoli domina il mare fino alle colonne d’Ercole e, parimenti, tutto il mare che è da questa parte»29. La realtà politico-militare era un po’ diversa: con la pace dell’896 l’imperatore si era “disinteressato” dell’ormai completo predominio arabo sull’isola (nel 963 ci sarà un’effimera ripresa della presenza bizantina a Siracusa). Ma qui il linguaggio è ufficiale e propagandistico, com’è chiaro dalla pretesa di controllo sul Mediterraneo fino alle colonne d’Ercole. Ed è perciò in tale logica che l’imperatore può far dire ai redattori del trattato Sui temi che «ora» la Sicilia è sotto la sua autorità. Il capitolo siciliano del De Thematibus è ai nostri fini interessante anche per un’altra ragione: subito dopo questo preambolo sulla situazione politica pregressa e attuale della Sicilia, viene esplicitamente messo a frutto il Lessico di Stefano di Bisanzio (voce Sikeliva): «La Sicilia si chiamò così per la seguente storia, come la racconta il grammatico Stefano»; e segue una pagina ricopiata fedelmente da Stefano, che però è solo una parte (non certo la gran parte, visto che manca tutta la trattazione sugli etnici, dove Stefano normalmente abbonda). Della parte mancante ci facciamo un’idea grazie all’Epitome (p. 568 Meineke), e ci rendiamo conto che, ancora una volta, i redattori costantiniani hanno liberamente sezionato la voce che hanno inteso mettere a frutto.

Dunque nessuna ripresa sic et simpliciter dal Lessico di Stefano, e nessun insensato anacronismo nei riferimenti cronologici al presente (nu'n). 29

Them., p. 94 Pertusi.

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Neanche Stefano del resto avrebbe scritto, al tempo suo, cioè al tempo di Giustiniano, che «attualmente la Spagna è divisa in tre province» (23, 27): frase ormai da secoli priva di senso, oltre che di fondamento. Anche lui sapeva, certamente, come lo sapevano i redattori costantiniani che scrissero 21, 31-34, che «da quando la grande Roma era stata presa dai Goti» l’impero «aveva perso pezzi» e che la Spagna era persa per sempre30. Quando gli scedavria – su iniziativa di Giovanni Dukas, intorno al 1060-1080 – furono fatti ricopiare e fu “creato” il Paris. Gr. 2009, di sicuro la copiatura comportò l’immissione nel testo di quanto figurava sui margini. Ed è così che le citazioni da Artemidoro-Marciano passarono nel testo di Stefano scompaginandone il filo espositivo. Il carattere non indolore dell’operazione è confermato da una circostanza: in concomitanza con gli innesti c’è, ogni volta, un guasto testuale, come si può rilevare dall’edizione Moravcsik e dalla traduzione dell’intero capitolo 23 che proponiamo qui di seguito31. In Appendice I, qui di seguito, il lettore troverà: 1) la traduzione della voce ΔIbhrivai duvo dell’Epitome, che conferma l’estraneità del tema ejparcivai; 2) la traduzione della voce Durravcion tratta dal frammento dello Stefano integrale conservatoci dal Coislin 228. Essa dimostra: a) il rigore espositivo delle voci di Stefano (una conferma del fatto che il caos del cap. 23, che sgomentò Meursius non può essere imputato a Stefano); b) che i redattori costantiniani hanno, in questo caso, utilizzato Stefano (voce Durravcion) ritagliandone solo una prima parte, vi hanno premesso una trattazione sulle ejparcivai del tutto assente in Stefano, e aggiunto una trattazione del tutto nuova.

D.A.I. 23 consiste dunque nella voce di Stefano ΔIbhrivai duvo “farcita”, per le ragioni ora dette, di materiali tratti dal corpus di Marciano. Il ricorso a Marciano per realizzare l’auspicio espresso in 21, 31-34 era l’unica strada praticabile: l’opera integrale di Artemidoro non c’era più da un pezzo. Di conseguenza quello che leggiamo in 23, 12-17 (il cosiddetto fr. 21 di Artemidoro) non può che essere un brano dell’epitome artemidorea di Marciano (e della velocità e sinteticità dell’Epitome ha 30 Ne consegue che l’attribuzione sic et simpliciter a Stefano dell’intero D.A.I. 23 è di per sé insostenibile. 31 Si è scelto di far risaltare l’interruzione che i tre innesti determinarono adottando per i tre brani immessi una diversa giustezza del rigo.

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anche lo stile32). Ne consegue che il testo contenuto nella colonna IV, 1-14 del cosiddetto papiro di Artemidoro, proprio perché modellato sul fr. 21, al più potrebbe aspirare a passare per Marciano, se non fosse sfigurato dal fatto che recepisce ben due erronee congetture moderne. Dunque quel papiro non è di epoca tolemaica. Quel papiro non è Artemidoro.

4. Ancora sul fr. 21 ... kai; sunwnuvmw~ ΔIbhriva te kai; ÔIspaniva kalei'tai: «Anche con valore sinonimico viene chiamata sia Iberia che Hispania». Id est: «esiste anche l’uso di chiamare (quella regione) tanto Iberia quanto Hispania come se i due termini fossero sinonimi». Il contesto precedente, come è chiaro da quell’anche, riguardava il valore originario di Iberia, cioè limitato alla regione dell’Iber, dell’Ebro, o meglio – come spiega Strabone (III, 4, 19) – alla regione compresa tra il Rodano e l’Ebro. Il passo di Strabone è capitale per la comprensione del fr. 21. Lì Strabone mette in successione le varie nozioni di Iberia e le colloca in un quadro storico, di storia della geografia: distingue oiJ provteroi, oiJ de; nu'n, oiJ dΔ e[ti provteron, e in conclusione pone il riordino romano della regione che ha anche comportato l’uso sinonimico dei due termini (Iberia, Hispania), nonché il succedersi di diverse suddivisioni in province. Nell’accezione usuale presso oiJ provteroi – è questo il punto di partenza –, il termine Iberia si riferiva alla regione compresa tra il Rodano e l’Ebro. Strabone, sulla scorta evidentemente delle sue fonti, qui si esprime così: «chiamavano Iberia tutto (pa'san) il territorio al di là (e[xw)33 del Rodano e al di là dell’istmo stretto tra i due golfi gallici [= Golfo del Leone e Golfo di Biscaglia]». È implicito che «al di là dell’istmo» comporti una estensione fino all’Ebro, visto che l’Ebro (“Ibhr) è il fondamento stesso del toponimo ΔIbhriva. E solo se si intende così diviene appieno comprensibile la frase seguente: «invece oiJ nu'n pongono il confine di essa (Iberia) ai Pirenei e adoperano sinonimicamente i termini Iberia e Hispania». Strabone sembra riflettere fedelmente le sue fonti visto che quel nu'n risulta piuttosto

32 33

Su ciò vedi infra, il paragrafo seguente. «Al di là», se il punto di osservazione è Roma.

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anacronistico. Ben prima dell’età augustea il confine dell’Iberia era stato fatto “avanzare” dal Rodano appunto fino ai Pirenei. Ciò era avvenuto col formarsi stesso delle province spagnole. Al più Artemidoro avrebbe potuto esprimersi così (nu'n), non certo Strabone. La frase subito successiva movnhn ejkavloun [scil. ΔIbhrivan] th;n ejnto;~ tou' “Ibhro~34 è incrinata da un lieve danno testuale; forse c’è solo da ripristinare un dopo movnhn. La domanda da porsi è se dunque questa frase completi il pensiero relativo ai provteroi: in tal caso (il più plausibile) avremmo l’attestazione esplicita che per i provteroi l’Iberia partiva dal Rodano e giungeva appunto fino all’Ebro35. Segue un riferimento ad autori «ancora precedenti» rispetto ai provteroi, definiti perciò oiJ e[ti provteron. Questi riferivano l’etnico Iberi agli «Igleti, abitanti di un territorio non grande»36, parole che Strabone dichiara di trarre dal bitinico Asclepiade di Mirlea (II/I sec. a.C.). Dopo questo inserto erudito relativo a un uso palesemente eccentrico, e appunto in quanto tale posto all’attenzione dei lettori, Strabone torna al filo espositivo principale: ÔRwmai'oi de; th;n suvmpasan kalevsante~ oJmwnuvmw~ ΔIbhrivan te kai; ÔIspanivan to; me;n aujth'~ mevro~ ei\pon th;n ejktov~, to; dΔ e{teron th;n ejntov~. La “sovrapponibilità” con il fr. 21 è di immediata evidenza. Dopo kai; sunwnuvmw~ ΔIbhriva te kai; ÔIspaniva kalei'tai il fr. 21 séguita infatti con Dih/vrhtai de; uJpo; ÔRwmaivwn eij~ duvo ejparciva~ diateivnousa ajpo; tw'n Purhnaivwn ojrw'n a{pasa37. Il che significa: «È stata divisa dai Romani in due province assumendosi la sua estensione complessiva a partire dai Pirenei». Come si vede, sono qui stretti in unica frase i concetti che in Strabone si presentano separatamente: 1) o{rion aujth'~ tivqentai th;n Purhvnhn sunwnuvmw~ te th;n aujth;n ΔIbhrivan levgousi kai; ÔIspanivan, 2) ÔRwmai'oi th;n suvmpasan 34 La cui correttezza, a torto messa in dubbio da ATENSTÄDT 1893, p. 128, è invece difesa dalla parafrasi che ne fa Eustazio (GGM, II, p. 266, 6-8). 35 Se invece, con Atenstädt, si modifica ejntov" in ejktov" il senso diviene particolarmente oscuro. 36 Sulla questione Gleti/Igleti cfr. RADT 2006, p. 384 (non risolutivo). Radt ha però il merito di aver resa chiara la sintassi dell’intero brano poiché ha ben visto il valore parentetico della frase il cui soggetto è oiJ de; nu'n. 37 Per questa ricostruzione del testo basata sul ripristino della tradizione manoscritta cfr. supra, cap. IX, § 1. Segnaliamo in questa sede il miglioramento di alcune letture proposte a suo tempo in «QS», 65, p. 277: a) Eparco scrisse dih/vreitai (Vat. Pal. Gr. 126, f. 26v, r. 8); b) lo iota sottoscritto non fu visto dal copista di F (Paris. Gr. 2967, f. 16v); c) Meursius stampò dihv/retai (sic) ma intendeva certamente dihv/rhtai.

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kalevsante~ oJmwnuvmw~ ΔIbhrivan te kai; ÔIspanivan la divisero in due province etc. Non sfuggirà che, tra l’altro, la parafrasi che Strabone dà della sua fonte (cioè Artemidoro integro) conferma, nel fr. 21, l’ordo verborum attestato dalla tradizione manoscritta, con a{pasa in conclusione della frase38, e conferma ciò che s’è prima argomentato per altra via: che cioè nel fr. 21 abbiamo non già Artemidoro integro ma l’epitome artemidorea di Marciano; essa semplifica e stringe in due frasi ciò che da Strabone deduciamo aver avuto ben maggiore ampiezza. L’indizio sintattico del “compendio” è proprio nel nesso dih/vrhtai ... diateivnousa (che va inteso per l’appunto nel senso di a{te diateivnousa ovvero wJ~ diateivnousa o simili). In breve. Qui Strabone (III, 4, 19) parafrasa l’Artemidoro intero (è una delle sue fonti più importanti). Infatti: a) coincide anche verbalmente in vari punti col fr. 21; b) contiene di più dal punto di vista dell’informazione; c) contiene un indizio anacronistico (oiJ de; nu'n), che non può che provenire da una fonte risalente, per l’appunto, a non meno di un secolo prima: dunque ancora una volta Artemidoro. Lo stesso Marciano, nel suo Mare esterno – seconda sua opera dopo l’Epitome artemidorea –, nel ripresentare ai suoi lettori un quadro complessivo della Spagna, scrive riutilizzando gli stessi materiali: ÔH ΔIbhriva h{ti~ kai; ÔIspaniva kalei'tai a[rcei me;n ajpo; tw'n Purhnaivwn ojrw'n dihvkei dΔ ejpi; plei'ston, e poco dopo: provteron me;n ou\n hJ ΔIbhriva dih/vrhto uJpo; ÔRwmaivwn eij~ ejparciva~ duvo nuni; dΔ eij~ trei'~ (GGM, I, pp. 543-544). Espressione quest’ultima che – come s’è detto sopra – i redattori costantiniani hanno annotato sullo scedavrion riguardante la Spagna (ora D.A.I. 23). La chiave per intendere appieno il fr. 21 è dunque innanzitutto la comprensione dell’appropriato nesso kai; sunwnuvmw~, che a torto il bibliotecario Heinrich Schubart (in verità «dubitanter») e, nella sua scia, Meineke vollero eliminare guastando un testo sano39. Correzione superflua e devastante, che però ha avuto l’insperata fortuna di essere recepita nel cosiddetto papiro di Artemidoro, con le conseguenze – in ordine alla sua inautenticità o meglio seriorità rispetto a Meineke – che ognuno può facilmente intendere40. Cfr. anche Orosio (I, 2, 69): «Hispania universa terrarum situ trigona est etc.» Su ciò cfr. supra, cap. VIII, § 1 e cap. IX, § 1.b. 40 Come si sa, il disinvolto creatore del papiro di Artemidoro non aveva troppa dimestichezza col greco antico (cfr. LYKURGOS 18562, pp. 52-53) e perciò qui omise il necessario nesso ΔIbhriva te kai; ÔIspaniva, nesso indispensabile visto che il 38 39

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Conviene peraltro ricordare che la questione del valore di Iberia inizialmente ristretto e poi dilatato (e perciò coincidente con la Hispania nel quadro della provincializzazione romana della Spagna) era affrontata esplicitamente da Charax di Pergamo (II sec. d.C.) nel frammento che Stefano incorporava nella voce ÔIspanivai e che i costantiniani utilizzarono: «La Spagna, i Greci inizialmente la chiamavano Iberia, non avendo ancora appreso la denominazione di quel popolo considerato nel suo insieme (ou[pw xuvmpanto~ tou' e[qnou~ th;n proshgorivan memaqhkovte~) e indotti perciò a denominare l’intera regione (th;n pa'san ou{tw kalou'nte~) in quel modo [i.e. ΔIbhriva] sulla base di una parte soltanto del territorio, quella appunto che è vicina al fiume Ebro [Iber] e da esso prende nome» (D.A.I. 24 = Charax, FGrHist 103 F 3). Giustamente, anche se sommariamente, Charax diceva «i Greci» perché è con l’ordinamento romano che di necessità la nozione di Iberia “slitta” assestandosi al di là dei Pirenei e viene con ciò assimilata alla Hispania, che, nel linguaggio geografico-amministrativo dei Romani, indica e denota tutto quanto essi controllavano della penisola iberica. È il costituirsi, dopo la seconda guerra punica, delle due province spagnole che in certo senso impone lo “slittamento” della ΔIbhriva al di là dei Pirenei.

senso è che la regione «viene chiamata con valore sinonimico tanto Iberia che Hispania». Per un parlante greco sarebbe un riflesso condizionato adottare tale forma: cfr. KÜHNER-GERTH 1904, pp. 249-252, nonché DENNISTON 19502, p. 515. Del resto Strabone, là dove riecheggia da vicino questo passo, scrive kalevsante" oJmwnuvmw" ΔIbhrivan te kai; ÔIspanivan (III, 4, 19). E ovviamente Marciano (p. 543, 40 Müller): ÔH ΔIbhriva h{ti" kai; ÔIspaniva kalei'tai. Invece il nostro eroe scrisse ΔIbhriva kai; ÔIspaniva: il che significherebbe, assurdamente, che quella cwvra, considerata nel suo insieme (suvmpasa), è dotata di un ben singolare nome «ΔIbhriva kai; ÔIspaniva», l’analogo di un Carlo Ferdinando o di un Pasquale Massimo. È stato tradìto dalla sintassi greca moderna, in cui quel nesso non esiste più (e il te è scomparso). È sconcertante che Gallazzi e Kramer non se ne siano accorti. Infatti nelle ormai quattro edizioni della colonna IV (1-14), pur intervenendo su altri errori del papiro (ejntotevrwi, dieivrhtai, ejparceiva", Luseitanivan), lasciano indisturbato l’impossibile ΔIbhriva kai; ÔIspaniva. Non appare calzante invocare i seguenti casi – Anassimene, fr. 2 = Aezio, Placita, p. 278 Diels levgetai de; sunwnuvmw" ajh;r kai; pneu'ma; Apollonio Sofista, Lexicon Homericum, 65, 17 cei're" ga;r kai; oiJ phvcei" sunwnuvmw" levgontai; Strabone, X, 2, 10 th;n me;n povlin Savmhn kai; Savmon sunwnuvmw" ejkfevresqai – giacché in tutti e tre i casi il primo termine ha funzione di soggetto e l’altro di predicativo.

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Dopo Zama infatti (e come conseguenza della perdita, da parte dei Cartaginesi, del controllo della Spagna) i Romani stabiliscono e consolidano il loro dominio sulla Spagna costituendo – essenzialmente lungo la costa mediterranea – due province: la Citerior dai Pirenei a Nova Carthago, e la Ulterior da Nova Carthago a Gades. Non possono fare altrimenti: non possono che stabilire il punto di inizio ai Pirenei perché non hanno il controllo della Gallia Narbonese e tanto meno di Marsiglia. E in tal modo tagliano in due la originaria ΔIbhriva. Solo nel 125-118 a.C. costituiranno la Narbonese. Così l’unità ibero-ligure viene spezzata. Questo fenomeno non poté che impressionare i contemporanei e le generazioni successive per il carattere “innaturale” di tale cesura. Perciò i geografi continuavano a segnalarlo: e il kai; sunwnuvmw~ del fr. 21 così come il luogo, prezioso, di Strabone III, 4, 19 ne sono chiara attestazione. 5. In cerca di un’uscita di sicurezza Chi ha finora sostenuto che col nuovo papiro abbiamo a che fare con Artemidoro ha puntato sulla ‘identità’ col. IV = fr. 21. Ora potrebbe scegliere altre due linee difensive: a) il papiro contiene l’auto-epitome di Artemidoro (un fantasma cui ancora Stiehle dubbiosamente credeva, ma che lasciò cadere negli ultimi righi del suo importante articolo su «Philologus» del 1856); b) il papiro contiene il ‘vero’ Artemidoro, mentre il fr. 21 non è che un pezzetto di Marciano. La strada (a) sarebbe in verità soltanto un disperato repêchage: della auto-epitome di Artemidoro la ricerca ha fatto giustizia da tempo. Oltre tutto una tale auto-epitome non è mai attestata, è frutto del fraintendimento delle citazioni presso Stefano e negli scolii ad Apollonio Rodio, introdotte dalla formula ΔArtemivdwro~ ejn th'/ ΔEpitomh'/ (che invece è spiegata da Marciano quando ci informa, nella prefazione al Menippo, di aver messo il nome di Artemidoro, e non il suo, in testa all’Epitome da lui allestita). E verrebbe da chiedersi perché fare tale nuova epitome se c’era già quella d’autore; e per giunta mettendovi in testa proprio il nome di Artemidoro sì da creare due epitomi identiche nell’intitolazione ma diverse. La strada (b) non solo è demolita dal seguito del papiro (col. IV, 15 ss. e col. V) che dà di gran lunga di meno rispetto a quello che risulta dai frammenti già noti di Artemidoro relativamente alle stesse

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aree geografiche41, ma è messa fuori uso dalla constatazione che l’autore di col. IV, 1-14 ha in realtà lavorato sul fr. 21 cercando di farne un testo autosufficiente (procurandogli innanzi tutto un soggetto: hJ suvmpasa cwvra...) ed eliminando asperità (cioè facendo scomparire quello che non capiva). E in ciò veniva agevolato dall’edizione Meineke – da lui rispecchiata –, che già aveva provveduto a demolire kai; sunwnuvmw~ e nella quale la scomparsa dell’indispensabile kaiv dopo il conclusivo a{pasa non era nemmeno segnalata perché lo stesso Meineke non se n’era accorto (né ne parla in apparato). Quella piccola, ma fondamentale, congiunzione era stata tacitamente eliminata da Vos, nel lontano 1658 e da quel momento era scomparsa per sempre nelle successive edizioni. Succede. La riscrittura inflitta dall’autore della col. IV (1-14) al fr. 21 ha determinato tra gli altri un effetto molto sintomatico. Poiché l’autore recepisce la dannosa inversione di kai; sunwnuvmw~ in sunwnuvmw~ kaiv, scompare ogni cenno all’altro, e più antico, significato di Iberia, e così il confine ai Pirenei appare come l’unico e naturale confine della Spagna. Un altro effetto è la contraddizione insostenibile che verrebbe a determinarsi: un autore attivo circa il 100 a.C. mostra di avere della Lusitania una nozione compatibile soltanto alla luce del riordino augusteo (vedi infra, Appendice II a questo capitolo). Non esistono “delitti perfetti”.

41 Cfr. supra, cap. II, § 3.2. Per non parlare del molto di più che su Betica e Lusitania sa Marciano, Mare esterno.

Appendice I IBERIA/HISPANIA Riferimenti alle suddivisioni amministrative della Spagna sono in D.A.I. 23, 11-17 (è il fr. 21) e in 23, 27-30 (citazione da Marciano, Mare esterno, p. 544, 9-12 Müller). Il primo e più immediato elemento di sconcerto è che, come s’è già detto, i due passi figurano l’uno ben distante dall’altro, e sono intrusi dentro un discorso coerente che parla di tutt’altro. I due brani presentano, in sintesi, lo sviluppo della suddivisione in province prima e dopo la conquista augustea del Nord della penisola. Tanto dovette apparire inspiegabile l’attuale dislocazione dei due brani, che August Meineke trapiantò, anticipandolo, il brano ricavato da Marciano e lo sistemò al rigo 10, prima del fr. 21. Un rimedio un po’ drastico ma che segnala l’esistenza di una difficoltà. L’altra difficoltà, non minore, è data dalla reiterata interruzione, che viene a determinarsi, del filo espositivo, riguardante i varî etnici derivati da “Ibhr e le relative attestazioni letterarie. Non si conoscono altri casi del genere nell’intero lessico di Stefano: sia nelle voci giunteci in Epitome sia nelle voci «intere» del bifolio segueriano. È dunque probabile che i due brani (1. Artemidoro diceva che le province sono due, 2. invece Marciano obiettava che ormai sono tre) figurassero in origine anch’essi sul margine dello scedavrion, e che costituissero un dotto commento marginale posto accanto alle notizie un po’ schematiche sulle due province «la grande e la piccola» (D.A.I. 24). È la copiatura avvenuta oltre un secolo dopo che ha creato il disordine che ci si para davanti in D.A.I. 23.

«Le Iberie sono due; l’una vicina alle colonne d’Ercole, la quale prende nome dal fiume Iber, di cui fa cenno Apollodoro nel secondo libro del Peri; gh'~ [FGrHist 244 F 324]: “All’interno dei Pirenei c’è l’Iber, grande fiume, che scorre verso l’interno”. Di questa Iberia dicono che si distinguono molti popoli, come ha scritto Erodoro nel decimo libro Su Eracle [FGrHist 31 F 2a], esattamente così: “Questa stirpe iberica, di cui io sostengo42 che abita le zone costie42

Erodoro (fl. circa 400 a.C.) aveva una sua propria visione di ΔIbhriva fondata

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re del ‘passaggio’ [Gibilterra] è, sì, distinta in varie tribù con diverse denominazioni, ma è un’unica stirpe: innanzi tutto quelli che abitano alla punta estrema a Occidente sono chiamati Kuvnhte~ (Cineti); a partire da loro e spostandosi verso nord ci sono i Gleti; dopo ci sono i Tartessii; poi gli Eleusini; dopo i Mastini; dopo i Kelkianoí; quindi †hdio† Rodano”. Artemidoro nel libro II dei Geographoumena dice che è divisa così: “Dai monti Pirenei fino all’interno della zona antistante Gades, anche con valore sinonimico viene detta tanto Iberia che Hispania. È stata divisa dai Romani in due province nella sua complessiva estensione a partire dai Pirenei. E fino a Nova Carthago e alle foci del Baetis vi è 43; alla seconda appartengono i territori fino a Gades e alla Lusitania” [fr. 21 Stiehle].

È detto anche Iberites. Per es. Partenio nelle Leucadie [fr. 14 Lightfoot44] scrive: “Navigherai lungo la spiaggia iberites”. L’altra Iberia è

sull’unità di gevno" che si spingeva fino alla punta estrema sud-occidentale (foce del Baetis)? E nel presentare tale visione, ne rivendicava l’originalità! Infatti Erodoto I, 163, nel narrare dei Focesi come primi navigatori d’alto mare nell’ambito dei Greci, elenca così le loro mete: l’Adriatico, il Tirreno, th;n ΔIbhrivhn kai; to;n Tarthssovn. Dunque per Erodoto la zona di Tartesso (la grande città fenicia sulla foce del Baetis) è altra cosa rispetto alla ΔIbhrivh: l’esatto contrario di quanto affermato da Erodoro come sua personale veduta: «questo ΔIbhriko;n gevno", che io affermo abitare le zone costiere dello stretto [= Gibilterra], è distinto per differenti denominazioni ma è un unico gevno" distribuito in diverse tribù». Già dalla presentazione di questa tormentata voce si comprende che i tre brani di Marciano-Artemidoro sono stati immessi in un contesto coerente col risultato di spezzarne il filo (che invece consiste nell’ordinato studio degli etnici derivati da ΔIbhriva, perfettamente rispecchiato, e nella stessa successione, dall’Epitome: vedi infra la traduzione). Il fenomeno si è verificato con tutta probabilità quando lo scedavrion sulla Iberia, contenente la voce ΔIbhrivai duvo di Stefano corredata da passi tratti da Marciano-Artemidoro e trascritti sul margine dai redattori costantiniani, fu ricopiato, oltre un secolo più tardi, creandosi così il nostro Paris. Gr. 2009, per ordine del “Cesare” Giovanni Dukas. La traccia del maldestro innesto è nelle cruces che si è costretti a segnare proprio nel punto dove l’innesto è avvenuto, creando qualche danno, nonché nella frase relativa alla forma Iberites (e relativo esempio tratto da Partenio) che è per così dire ‘attaccata’ al primo dei tre brani innestati ma è del tutto fuori posto: viene infatti prima della frase che dovrebbe aprire la informazione sull’etnico (to; e[qno" “Ibhre") ed è addirittura separata da essa dall’informazione sull’altra Iberia (quella orientale, la Georgia). 43 Per questo restauro, cfr. supra cap. IX, p. 229. 44 LIGHTFOOT 1999.

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quella che si trova presso i Persiani45. L’etnico è Iberes, forma analoga a Pieres, Buzeres. Dionigi [Periegeta] scrive ad es.: “Vicino alle colonne (c’è) il popolo dei coraggiosi Iberes” [GGM, I, p. 117, 282]. E Aristofane nel Triphales: “Sapendo che gli Iberi, quelli che da tempo erano con Aristarco”, e ancora: “Gli Iberi, che tu esibisci in pubblici giochi, mi venivano in aiuto di gran carriera” [fr. 564 K.-A.]. E Artemidoro nel secondo libro: “Si servono dell’alfabeto latino gli abitanti dell’Iberia costiera” [fr. 22 Stiehle].

E dalla forma del genitivo Iberos viene il femminile Iberís. “Hellenís, non Iberís” dice Menandro nello Scudo [fr. 2 Arnott]. Si dice anche Iberikós “Primo † prov~ tino~ † è quello Iberikos per chi intraprende...” [GGM, II, p. 108, 69]. La Spagna era stata divisa in due, ora lo è in tre, dice Marciano nel Periplo della Spagna: “Un tempo dunque la Spagna era stata divisa in due province dai Romani, ora in tre: Spagna Betica, Spagna < > e Tarraconese” [GGM, I, p. 544, 9-12].

Dalla forma del genitivo Iberos Apollonio [GG, II, 3, p. 47, 1521 Schneider] il nominativo, come per es. dal genitivo fuvlako~ il nominativo oJ fuvlako~. Nell’opera intitolata Parwvnuma dice: “Dai genitivi derivano i nominativi †† l’acqua (?) due sillabe analogamente al nominativo secondo l’accento parossitono †† sia in forma semplice che in forma composta. Semplice mavrturo~ per oJ mavrtu~, Charops, Charopos, oJ Cavropo~ (‘Carovpoiov tΔa[nakto~’), Troizen, Troizenos, oJ Troivzhno~ (‘uiJo;~ Troizhvnoio’), Iber, Iberos, oJ “Ibhro~”. Donde presso Quadrato, nella quinta Chiliade romana [FGrHist 97 F 2] c’è la forma ΔIbhvroisi come segue: “Quantunque combattendo coi Liguri e con gli Iberi (ΔIbhvroisi)46”. Lo stesso dice Abrone nei Parónyma [p. 1454 Berndt, “BPhW”, 1915]. E nei Rammolliti di Cratino [fr. 108 K.-A.] c’è scritto “lo stesso Iberos barba-dicapro”. Si dice che gli Iberi bevono acqua, come afferma Ateneo nel libro secondo dei Deipnosofisti: “Filarco nel libro VII dice che anche gli Iberi tutti bevono acqua, quantunque siano i più ricchi in as45 46

La Georgia. Qui Iberi, proprio perché citati accanto ai Liguri, è nell’accezione più antica.

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soluto (posseggono infatti tantissimo oro e argento), e dice che per avarizia si cibano una sola volta al giorno, e tuttavia portano vestiti lussuosissimi”». Ecco la voce ΔIbhrivai duvo nell’Epitome [p. 323 Meineke]: «Le Iberie sono due, l’una presso le colonne d’Ercole, la quale prende nome dal fiume Iber, l’altra che si trova presso i Persiani. L’etnico è Iber. E dal genitivo Iberos si formano Iberís, e Iberikós e (il nominativo) Iberos. Dicono che essi bevono acqua, come dice Ateneo nel libro secondo dei Deipnosofisti. E si cibano una sola volta al giorno per avarizia, e usano vestiti lussuosissimi in quanto ricchissimi». Come si ricava dallo scolio-titolo peri; ΔIbhriva~ kai; ÔIspaniva~ nonché dalla frase di collegamento creata dai redattori costantiniani (povqen ei[rhtai ÔIspaniva;) i due capitoli sulla Spagna erano accorpati in un unico scedavrion, la cui seconda parte era la seguente: «Donde il nome Hispania? Da Hispano, un gigante che era così chiamato47. Le Spagne (Hispaniai) sono due province della Spagna (Spaniva~)48: l’una grande, l’altra piccola. Di quest’ultima fa cenno Charax nel libro decimo dei Chroniká [FGrHist 103 F 26]: “Nella Spagna minore, cioè esterna49 si erano daccapo ribellati i Lusitani, e

47 Un tale gigante non è altrimenti attestato: l’invenzione paretimologica dev’essere anch’essa conio di chi ha creato questa frase. «Ispano» è variante in alcuni manoscritti di Giustino (XLIV, 1) rispetto a «Ispalo», mitico re figlio di Eracle. 48 Nel Paris. Gr. 2009 c’è ΔIttaliva" (come di norma quando sono menzionati ΔItaliva", ΔItaloiv). Ovviamente è insensato che le due Spagne siano «province dell’Italia». Lì ÇPANIAÇ s’è deteriorato in ITTALIAÇ perché è parsa strana l’espressione «le due Spagne sono province della Spagna», che invece è quello che il lessicografo intende dire. L’erronea lettura è anche nell’epitome (p. 339 Meineke, apparato): ÔIspanivai duvo th'" ΔItaliva" ejparcivai hJ me;n megavlh hJ de; mikrav. ΔEklhvqh de; kai; ΔIbhriva kai; Pannwniva. 49 È da notare che, in questo frammento, Charax aggiunga a mikra'/ l’altra specificazione th'/ e[xw. Questo reiterato e vario sforzo di definizione delle province spagnole ha dato impulso alla segnalazione dei passi ricavabili dal corpus marcianeo relativi alla conformazione esatta e alla storia di quelle province. Perciò anche per questa via si approda a concludere che quei due passi (fr. 21 + Marciano) furono dapprima annotati accanto a questi due passi di Charax, cioè nella parte finale dello scedavrion. Si può anche osservare che la definizione della ulterior come mikrav comporta di per sé che non ne fa parte la Lusitania. Ciò che il confezionatore del papiro di Artemidoro purtroppo ignorava, onde scrisse che la ulterior comprendeva ta; kata; th;n Lusitanivan pavnta!

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fu inviato perciò dai Romani come comandante (=governatore, strathgov~) Quinto”. Lo stesso (Charax) menziona insieme entrambe le province [F 27]: “Quinto, comandante romano in entrambe le Spagne50. Sconfitto però da Viriato stipulò con lui una pace”. Nel terzo libro degli Helleniká Charax dice che questa [a rigore la ulterior, in realtà l’intera regione] era chiamata anche Iberia. “La Hispania, i Greci inizialmente la chiamavano Iberia, non avendo ancora appreso la denominazione di quel popolo considerato nel suo insieme e indotti perciò a denominare l’intera regione in quel modo [i.e. ΔIbhriva] sulla base di una parte soltanto del territorio, quella appunto che è vicina al fiume Ebro e da esso prende nome”. Dicono che in seguito il suo nome fu mutato in Panonia51». Costantino Porfirogenito, De administrando imperio, capp. 232452 (Cap. 23) Peri; ΔIbhriva~ kai; ÔIspaniva~. ΔIbhrivai duvo: hJ me;n pro;~ tai'~ ÔHrakleivai~ sthvlai~, ajpo; “Ibhro~ potamou', ou| mevmnhtai ΔApollovdwro~ ejn th/' Peri; gh'~ bV [FGrHist 244 F 324]: «ΔEnto;~ de; Purhvnh~ “Ibhr tΔ ejsti; mevga~ potamo;~ ferovmeno~ ejndotevrw». Tauvth~ de; pollav fasin e[qnh diairei'sqai, kaqavper ÔHrovdwro~53 ejn th/' iV Th/' [sic] kaqΔ ÔHrakleva gevgrafen iJstoriva/ [FGrHist 31 F 2a] ou{tw~: «To; de; ΔIbhriko;n gevno~ tou'to, o{per fhmi; oijkei'n ta; paravlia tou' diavplou, diwvristai ojnovmasin e}n gevno~ ejo;n kata; fu'la: prw'ton me;n oiJ ejpi; toi'~ ejscavtoi~ oijkou'nte~ ta; pro;~ dusmevwn Kuvnhte~ ojnomavzontai (ajpΔ ejkeivnwn de; h[dh pro;~ borevan ijovnti Glh'te~): meta; de; Tarthvs ioi: meta; de; ΔEleusivnioi: meta; de; Mastinoiv: meta; de; Kelkianoiv: e[peita de; †hJdiorovdano~†». ΔArtemivdwro~ de; ejn th/' bV tw'n Gewgrafoumevnwn ou{tw~ diairei'sqaiv fhsin: «ΔApo; de; tw'n Purhnaivwn 50 Dunque Charax è l’autore a partire dal quale Stefano affermava che le due province si chiamavano “Spagne”. 51 Lapsus per Paniva, come già vide I. Vossius (in GRONOVIUS 1697, p. 3). Paniva è variante di Spaniva attestata in Plutarco, De fluv., 16. Le altre modifiche apportate da Vossius a questo frammento di Charax sono piuttosto fantasiose e sono state dimenticate. – In forma più schematica anche Tolomeo (II, 4, 1) attribuisce, senza specificazione, l’uso di Iberia ai «Greci». 52 Riproduciamo qui, quasi senza modifiche, l’edizione curata da MORAVCSIK 1949. 53 Palmare rettifica del consueto errore: ÔHrovdoto~ in luogo di ÔHrovdwro~.

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ojrw'n e{w~ tw'n kata; Gavdeira tovpwn ejndotevrw kai; sunwnuvmw~ ΔIbhriva te kai; ÔIspaniva kalei'tai. Dih/vrhtai de; uJpo; ÔRwmaivwn eij~ duvo ejparciva~54 diateivnousa ajpo; tw'n Purhnaivwn ojrw'n a{pasa kai;55 mevcri th'~ Kainh'~ Karchdovno~ kai; tw'n tou' Baivtio~ phgw'n, th'~ de; deutevra~ ejparciva~ ta; mevcri Gadeivrwn kai; Lusitaniva~» [fr. 21 Stiehle]. Levgetai de; kai; ΔIbhrivth~. Parqevnio~ ejn Leukadivai~ [fr. 14 Lightfoot]: «ΔIbhrivth/ pleuvsei ejn aijgialw/»' . ÔH dΔ eJtevra ΔIbhriva pro;~ Pevrsa~ ejstivn. To; e[qno~ “Ibhre~, wJ~ Pivere~, Buvzhre~. Dionuvs io~: «ΔAgcou' sthlavwn megaquvmwn e[qno~ ΔIbhvrwn» [GGM, I, p. 117, 282]. Kai; ΔAristofavnh~ Trifavlhti: «Manqavnonte~ tou;~ “Ibhra~ tou;~ ΔAristavrcou pavlai» kai; «Tou;~ “Ibhra~, ou}~ corhgei'~ moi, bohqh'sai drovmw/» [fr. 564 K.-A.]. Kai; ΔArtemivdwro~ ejn deutevrw/ Gewgrafoumevnwn: «Grammatikh/' de; crw'ntai th/' tw'n ΔItalw'n oiJ para; qavlattan oijkou'nte~ tw'n ΔIbhvrwn» [fr. 22 Stiehle]. Kai; ajpo; th'~ “Ibhro~ genikh'~ ΔIbhri;~ to; qhlukovn. «ÔEllhniv~, oujk ΔIbhriv~» Mevnandro~ ΔAspivdi. Levgetai kai; ΔIbhrikov~: «†Prw'to~ me;n prov~ tino~† ΔIbhriko;~ ajrcomevnoisi» [GGM, II, p. 108, 69]. Dih/rei'to de; hJ ΔIbhriva eij~ duvo, nu'n de; eij~ trei'~, wJ~ Markiano;~ ejn Perivplw/ aujth'~: «Provteron me;n ou\n hJ ΔIbhriva eij~ duvo dih/rei'to uJpo; ÔRwmaivwn, nuni; de; eij~ trei'~: Baitikh;n Spanivan kai; Spanivan kai; Tarrakwnhsivan» [GGM, I, p. 544, 9-12]. ΔApo; th'~ genikh'~ “Ibhro~ eujqei'an ΔApollwvnio~ [GG, II, 3, p. 47, 15-21 Schneider], wJ~ th'~ fuvlako~ oJ fuvlako~. ΔEn toi'~ Parwnuvmoi~ fhsivn: «ΔApo; genikw'n eujqei'ai paravgontai, †to; me;n u{dwr† duvo sullaba;~ oJmoivw~ th/' eujqeiva/ kata; to;n tovnon paroxunovmenon, kai; h] ejn aJplw/' schvmati h] ejn sunqevtw/. ÔAplo;n me;n ou\n ‹mavrtur›, mavrturo~, oJ mavrtu~, Cavroy, Cavropo~, oJ Cavropo~, ÔCarovpoiov tΔ a[nakto~’, Troivzhn, Troivzhno~, oJ Troivzhno~, ‘uiJo;~ Troizhvnoio’, “Ibhr, “Ibhro~, oJ “Ibhro~», ajfΔ ou| para; Kouadravtw/ ejn ÔRwmai>kh'~ ciliavdo~ ‹eV› [FGrHist 97 F 2] e[stin ΔIbhvroisin ou{tw~: «Kaiv toi Livgusiv qΔ a{ma kai; ΔIbhvroisi polemevonte~». To; aujto; kai; ”Abrwn ejn Parwnuvmoi~ [p. 1454 Berndt, «BPhW», 1915] fhsiv. Kai; «aujto;~ “Ibhro~ tragopwvgwn» ejn Malqakoi'~ ei[rhtai Krativnou [fr. 108 K.-A.]. Levgontai oiJ “Ibhre~ uJdropotei'n, wJ~ ΔAqhvnaio~ ejn Deipnosofistw'n bV ou{tw~: «Fuvlarco~ me;n ejn th/' zV kai; tou;~ “Ibhrav~ fhsi uJdro54 In questo punto, seguendo gli editori precedenti, anche Moravcsik suggerisce di riconoscere una lacuna. 55 Questo è il kaiv scomparso da tutte le edizioni a partire dalla riscrittura di questo capitolo dovuta a Isaac Vos (1658).

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potei'n pavnta~, kaivtoi plousiwtavtou~ pavntwn ajnqrwvpwn tugcavnonta~ (kevkthntai ga;r kai; a[rguron kai; cruso;n plei'ston), monositei'n te aujtou;~ ajei; levgei dia; mikrologivan, ejsqh'tav~ te forei'n polutelestavta~». (Cap. 24) Peri; ÔIspaniva~. Povqen ei[rhtai ÔIspaniva; ΔApo; ÔIspavnou givganto~ ou{tw kaloumevnou. ÔIspanivai duvo th'~ ΔItaliva~ ejparcivai: hJ me;n megavlh, hJ de; mikrav. Tauvth~ ejmnhvsqh Cavrax ejn iV Cronikw'n [FGrHist 103 F 26]: «ΔEn ÔIspaniva/ th/' mikra/' th/' e[xw Lousitanw'n pavlin ajpostavntwn, ejpevmfqh uJpo; ÔRwmaivwn strathgo;~ ejpΔ aujtou;~ Kuvinto~». ÔO aujto;~ oJmou' peri; tw'n duvo [FGrHist 103 F 27]: «Kuvinto~ oJ tw'n ÔRwmaivwn polevmarco~ ejn ajmfotevrai~ tai'~ ÔIspanivai~. ÔHsswvmeno~ de; uJpo; Oujiriavqou sponda;~ pro;~ aujto;n ejpoihvsato». Tauvthn keklh'sqaiv fhsin ΔIbhrivan ejn ÔEllhnikw'n gV [FGrHist 103 F 3]: «Th;n de; ÔIspanivan ”Ellhne~ ta; prw'ta ΔIbhrivan ejkavloun, ou[pw xuvmpanto~ tou' e[qnou~ th;n proshgorivan memaqhkovte~, ajllΔ ajpo; mevrou~ th'~ gh'~, o{ ejstin pro;~ potamo;n “Ibhra, kai; ajpΔejkeivnou ojnomavzetai, th;n pa'san ou{tw kalou'nte~». ”Usteron dev fasin aujth;n metakeklh'sqai Panwnivan. È agevole osservare che: a) l’Epitome segue rigorosamente l’ordine del testo di partenza [in particolare la successione Iber/Iberís/Iberikos/Iberos]; b) i riferimenti a Marciano-Artemidoro sono assenti dall’Epitome: con ogni probabilità mancavano anche nella voce integra; c) Iberites resta fuori. Ciò è molto interessante, perché la frase, corredata di una citazione da Partenio in cui figura Iberites, sembra seguire le sorti del primo inserto, unitamente al quale è finita addirittura prima che si cominci a parlare degli etnici. Una ‘incrinatura’ si può riconoscere nel passaggio dal frammento di Erodoro che elencava i popoli della Spagna al frammento di Artemidoro che descrive la suddivisione in province. E un indizio è nel duplice significato di diairei'sqai nonché nella lacuna che si nota al termine del frammento di Erodoro [e[peita de; †hjdiorovdano~ contiene la parola rJodanov~ ma cela un guasto di maggiori proporzioni]. L’accostamento tra i due passi (Erodoro e Artemidoro) è dovuto a diairei'sqai: dopo il preannunzio tauvth~ de; pollav fasin e[qnh diairei'sqai (che significa certamente con Jenkins «in this country are said to

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be many distinct nations») segue un rinvio ad altro genere di diaivresi~ (la divisione in province: «the country is divided thus»!). Notare inoltre che il soggetto del primo diairei'sqai è polla; e[qnh, mentre il soggetto (sottinteso) del secondo diairei'sqai è th;n ΔIbhrivan, da ricavarsi dall’hJ me;n che al rigo 1 segue immediatamente ΔIbhrivai duvo. [1] «Si distinguono molti popoli in questa regione» e [2] «questa regione è stata divisa dai Romani in due province» sono due accezioni ben diverse di diairei'sqai. Se si vuole tentare una ipotesi che dia conto del fenomeno della penetrazione in punti diversi delle informazioni sulla divisione in province, il punto di partenza dovrebbe essere la curiosa circostanza per cui uno dei due brani (il primo, il “fr. 21”) si è portato dietro – entrando nel testo – una frase relativa al raro etnico Iberites (per il quale non viene fornita una spiegazione riguardo all’origine). Il risultato è che quell’etnico con relativa attestazione è venuto, così, a trovarsi addirittura prima che abbia inizio la disamina degli etnici (se ne parla a partire dal rigo 19 e l’avvio è appunto to; e[qno~ “Ibhre~ etc.). Come può essere accaduto ciò al passaggio dallo scedavrion postillato sui margini alla ricopiatura nel Paris. Gr. 2009? Ipotesi: i brani ricavati dal corpus marcianeo furono, è da presumere, trascritti sul margine della parte finale dello scedavrion (corrispondente all’attuale cap. 24), dedicata alle due ÔIspanivai, cioè alle due province, lì curiosamente denominate «la grande e la piccola». D’altra parte Levgetai de; kai; ΔIbhrivth~ col relativo passo di Partenio doveva trovarsi alla fine della lista degli etnici. Seguiva la notizia antiquaria sugli usi alimentari degli Iberi (anche l’Epitome conferma che quelle notizie, tratte da Ateneo, si trovavano alla fine). E accanto (prima o subito dopo) ci doveva essere l’altra notizia antiquaria, quella proveniente da Artemidoro-Marciano relativa all’adozione, da parte degli Iberi, dell’alfabeto latino. Insomma nella parte finale dello scedavrion sulla Spagna (D.A.I. 23+24) si addensavano: Levgetai de; kai; ΔIbhrivth~ con il relativo frammento di Partenio + ΔArtemivdwro~ ejn deutevrw/ Gewgrafoumevnwn «grammatikh/' de; crw'ntai ktl.» – nonché i due passi (tratti l’uno dall’Artemidoro-Marciano [= fr. 21] e l’altro da Marciano, Mare esterno [= p. 544, 9-12 Müller]) sulla storia della suddivisione in province che erano stati annotati lì, accanto a ÔIspanivai duvo ktl. Perché l’immissione del fr. 21 e relativa frase introduttiva avvenne di seguito al frammento di Erodoro, quasi al principio della notizia? Probabilmente perché le due notizie – quella di Erodoro e quella di Artemidoro – parvero collegate da diairei'sqai con cui vengono introdotte entrambe (anche se il verbo, come s’è detto, è usato in due accezioni diverse). Il resto della vicenda non è agevole da ricostruire. Che il fr. 21 si sia «tirato dietro» Levgetai de; kai; ΔIbhrivth~ con quel che segue sarà dipeso dal modo in cui materialmente la nota marginale era scritta intorno al

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testo principale. Il reiterato ejn deutevrw/ tw'n Gewgrafoumevnwn merita attenzione: né può essere esclusa una dittografia. Istruttivo anche il caso della voce Dyrrachion:

«DYRRACHION, città illirica detta anche Epidamno dal nome di Epidamno. La figlia di lui (era) Melissa, dalla quale e da Posidone nacque Dyrrachios. Dal nome di lei c’è in Epidamno un luogo chiamato Melissonios, dove Posidone si unì a lei, come dice Filone [FGrHist 790 F 35]56: “Dopo il Rizonico c’è la città di Lissos, e poi Akrolissos, ed Epidamno, fondazione dei Corciresi, cioè l’attuale Dyrrachion denominata allo stesso modo che (oJmwnuvmw~ legomevnh) la penisoletta in cui si trova”. Dexippo nel decimo libro dei suoi Cronikav [FGrHist 100 F 3] dice quanto segue: “E conquistano con la forza, sottraendola ai Macedoni, la città chiamata Epidamno in seguito Dyrrachion, grande e felice [ricca] città macedone”. E Alessandro nell’Europa [fr. 25 Lloyd-Jones, Parsons] ne dà il nome con s, cioè Dusravcion: “Presso il mare c’è Epidamno, sulla penisola di Dysrachion”. Ce n’è anche un’altra in Laconia, una delle cento. Anche il territorio dell’Illiria viene denominato Durraciva. Euforione [fr. 85 Powell]: “città della Durraciva e popoli dei Taulantini”. Ed è chiaro che Durravcio~ ne è la forma maschile, allo stesso modo che Anaktorios rispetto ad Anaktorion, Byzantios rispetto a Byzantion, Thurios rispetto a Thurion, Kurios rispetto a Kurion. Eratostene nel terzo libro dei Gewgrafouvmena [fr. III B 109 Berger]: “Vicino (subito dopo) abitano i Taulantioi. Città greca è Epidamno sulla penisoletta chiamata Durravcion. Ci sono (lì) i fiumi Drivlon e ΔAw'o~, dove si segnala la sepoltura di Cadmo e Armonia”. Nondimeno ora sono chiamati Durrachnoiv. Così infatti si esprime Balagros nei Makedonikav [FGrHist 773 F 2]: “E le loro città sono divise [ejpidih/vrhntai] tra Dyrrachenoí ed Apolloniati”. Ed Erennio Filone negli ΔIatrikav presenta Filonide come Dyrrachenós nel modo seguente: “Asclepiade ebbe come ascoltatori Tito Aufidio Siculo [?] e Filonide Dyrrachenós e Nicone di Agrigento”. E ancora: “Filonide Dyrrachenós fu allievo di Asclepiade, e avendo esercitato come medico nella sua patria con grande successo, compose 45 libri” [FGrHist 790 F 53]. Pausania nel VI libro [VI, 10, 8], distinguendo 56 Qui Meineke integra un rinvio a Strabone, VII, 5, 8, sebbene Them. 9 confermi che i redattori costantiniani, nel loro esemplare di Stefano, leggevano wJ" fivlwn.

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una città “antica” da una “attuale”, si esprime così: “Gli Epidamnî hanno il territorio che possedevano sin dal principio, quanto alla città – invece – non posseggono, al tempo nostro, quella antica, alquanto lontana da quella . Il nome della città è Dyrrachion, derivato dal fondatore”». Ecco la voce Durravcion nell’Epitome [p. 243 Meineke, apparato al r. 3]: «Durazzo (Dyrrachion), città illirica, chiamata Epidamno, dal nome Epidamno. La figlia di lui era Melissa, da lei e da Posidone nacque Dyrrachios. Da lei prende nome una località Melissonios, dove Posidone si congiunse con lei. Alessandro nell’Europa scrive: “Presso il mare, Epidamno, sulla penisola di Dysrachion”. Ce n’è anche un’altra in Laconia, una delle cento. Anche il territorio dell’Illiria si chiama Dyrachia, la cui forma maschile è Dysrachios. Ora vengono chiamati Dyrrachenoí, come si esprime Erennio Filone negli ΔIatrikav: “Filonide Dyrrachenos fu allievo di Asclepiade, avendo fatto il medico nella sua patria con grande successo, compose 45 libri”». E in Const. Porphyr., Them. 9 (“Enaton qevma Durravcion): «Dyrrachion, quella che un tempo si chiamava Epidamno. Sotto un consiliario nove città: Skampta, Apollonia, Bullide, Amantia, Pulcheriopolis, Aulone, Listrone, Skeuptone, Metropoli di Aulinide. Eparchia di Lakia nell’interno: sotto un consiliario, cinque città: Pantalia, Germane, Naisos, la patria del grande Costantino, Remesiana. Eparchia Eparchia di Lardania Eparchia di Panonia...57 Così dunque sono le eparchie del nuovo Epiro, cioè di Dyrrachion un tempo detta Epidamno. Bisogna spiegare a proposito della sua denominazione perché (povqen) si chiama Dyrrachion58: “Dyrrachion è una città greca chiamata anche Epidamno da Epidamno l’antico eroe59. La sua figlia fu 57 Notare che in questo caso i redattori costantiniani hanno ritagliato un pezzo della voce Durravcion di Stefano e vi hanno premesso le notizie sulle eparchie (analogo fenomeno è avvenuto per ΔIbhriva). 58 Stessa frase che viene aggiunta all’inizio di ÔIspaniva (D.A.I. 24). 59 Parole aggiunte dai costantiniani.

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Melissa, di cui si invaghì60 Posidone e da lei nacque Dyrrachios. Vi è un luogo in Epidamno detto Melissonios, dove Posidone si unì a lei”, 61. “Dopo il Rizonico c’è la città Lissos, e inoltre Akrólissos ed Epidamno, fondazione dei corciresi, la quale ora è detta, con termine omonimo alla penisoletta su cui si trova, Dyrrachion”, come scrive Filone [anche Pertusi corregge in Strabone]. Dexippo nel decimo libro dei Cronikav la chiama città macedonica esprimendosi nel modo seguente: “E dei Macedoni prendono con la forza Epidamno, successivamente detta Durravcion, città della Macedonia, grande e ricca”».

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Parole aggiunte dai costantiniani. Ma queste parole sono state tratte da Stefano.

Appendice II UNA NUOVA TRADUZIONE DELLA SPAGNA DI STRABONE* L’iniziativa di dare una moderna traduzione del libro di Strabone sulla Spagna, con un commento essenziale e una nutrita introduzione storico-etnografica (pp. 1-140) nonché un indice glossario di circa 200 pagine (303-500) è quanto mai appropriata nel momento in cui circola un falso papiro che pretende di «regalarci» la Spagna dei Geographoumena di Artemidoro, addirittura munita di una fantasiosa mappa piena di impressionistiche vignette adattabili a qualunque parte del mondo fornita di fiumi. (Sulle perplessità suscitate dalla “mappa” cfr. Glossario, p. 318.) La ricchezza della materia impone delle scelte. Partirei dalla voce Lusitania del glossario, particolarmente ben fatta (pp. 412-414). Cruz Andreotti e Garcia Quintela, che ne sono gli autori, mettono subito in luce la necessità di liberarsi di un equivoco: quello di identificare la Lusitania con l’attuale Portogallo, un equivoco che discende dal ridimensionamento della Lusitania conseguente al riordino augusteo delle province spagnole (p. 412: «[...] que deriva, a su vez, de los limites de la provincia romana de Lusitania fijados en epoca de Augusto»). Strabone – osservano – presenta, nel suo primo cenno ai Lusitani, questa popolazione concentrata tra il Tago e il Guadiana, come conseguenza della loro forzata deportazione da parte dei Romani dal loro habitat anteriore, a nord del Tago. Il riferimento bibliografico obbligato, a questo proposito, è al saggio di F. Pina Polo, Deportaciones como castigo e instrumento de colonización durante la República Romana, nel volume collettivo (Barcelona 2004) Vivir en tierra extraña: emigración e integración cultural en el * Estrabón, Geografía de Iberia, traducción de Javier Gómez Espelosín, Presentaciones notas y comentarios de Gonzalo Cruz Andreotti, Marco V. Garcia Quintela y Javier Gómez Espelosín, Alianza Editorial, Madrid 2007, pp. 558.

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mundo antiguo. «Nel testo di Strabone – proseguono gli autori – Lusitania era l’angolo nord-est dell’Iberia, giacché gli Artabri si collocano nell’estremo nord-est della Lusitania [...]. Inoltre Strabone dice chiaramente che il Tago è il limite sud della Lusitania, e che il fiume Minio attraversa la Lusitania». Insomma il testo di Strabone ci permette di ricostruire (p. 413) «una evoluzione politico-amministrativa della nozione di Lusitania: (1) la grande Lusitania, dal promontorio Sacro al Capo Nerio [cioè il capo Touriñan, La Coruña], corrispondente alla regio geografica e inizialmente storica del conflitto del II a.C., comprendente varie popolazioni (Galeci, Vaccei, Vetoni, Carpetani, Oretani, Lusitani); (2) la Lusitania a sud del Tago; (3) la Lusitania tra il Tago e gli Artabri (cfr. Strabone, III, 3, 3: «[...] al contrario dei nostri contemporanei, alcuni denominano Lusitani anche questi popoli [cioè i Gallaeci]»), corrispondente ai cambiamenti amministrativi dell’anno 27 a.C.; (4) ultima, la Lusitania comprendente i territori a sud del Tago e ovest del Guadiana con definitiva esclusione di quelli a nord del Duero: riordino che si realizzò tra il 7 e il 2 a.C. (Strabone, III, 4, 20; cfr. III, 3, 2 e 3)». Né va dimenticata la attestazione epigrafica (15 a.C.) di una provincia Transduriana (p. 414). Alla luce di questa limpida ricostruzione, che trova il suo adeguato presupposto nell’Introduzione, in particolare nel capitolo di Garcia Quintela intitolato Estrabón y los Celtas de Iberia (pp. 113139, ma in particolare pp. 130-131), conviene considerare i due opposti riferimenti alla Lusitania che figurano, là dove si intende definire la Hispania Ulterior, nel fr. 21 di Artemidoro e nella colonna IV del cosiddetto nuovo papiro di Artemidoro. fr. 21 ta; mevcri Lusitaniva~

Pap. col. IV, 13-14 kai; ta; kata; th;n Lusitanivan pavnta

Com’è immediatamente evidente, le due informazioni sono inconciliabili. L’una (fr. 21) dice che la Hispania Ulterior giunge fino alla Lusitania. E s’intende – com’è ovvio – la Lusitania nel senso preaugusteo: dal Tago a La Coruña. La Ulterior, infatti, all’epoca giungeva fino al territorio lusitano, ma non lo comprendeva tutto perché il controllo romano, anche nel momento delle vittorie di Bruto “Callaico”, non andò mai oltre il fiume Minio (si vedano, in que-

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sto volume, pp. 131 e 138), e invece appartenenti alla «Lusitania» erano considerati (e lo furono fino al trapianto forzato a sud del Tago) i popoli abitanti fino a La Coruña. Solo col riordino augusteo e lo spostamento dei Lusitani a sud del Tago ci sarà una Ulterior comprendente «tutta la Lusitania». È dunque un marchiano anacronismo quello della col. IV, 13-14, che attribuisce ad Artemidoro la conoscenza della realtà amministrativa della Spagna augustea successiva al 27-25 a.C. o addirittura al 7-2 a.C. Non si può credere, contemporaneamente, che il fr. 21 ci dia i verba ipsissuma di Artemidoro – come Bärbel Kramer afferma in tutte le sue cinque edizioni –, e che però il medesimo Artemidoro abbia scritto quanto leggiamo in col. IV, 13-14. Basterebbe già questo a mettere fuori gioco il presunto nuovo Artemidoro. Il pregio di questa Geografía de Iberia è, come s’è detto, anche nel commento. È molto aggiornato e tien conto sistematicamente dell’ultima, pregevole, edizione critica (con traduzione e commento) di tutto Strabone realizzata in questi ultimi anni da Stefan Radt (Goettingen, Vandenhoeck&Ruprecht). Consideriamo un passo particolarmente importante: III, 4, 19. Seguendo Radt, gli autori accolgono la modifica di ejntov~ in ejktov~ e intendono perciò: «[...] sólo denominaban a la región más allá (al di là) del Iber». È invece evidente che ejntov~ non va modificato; la sola correzione, in realtà un minimo ritocco, indispensabile per sanare il passo è movnhn ejkavloun proposta da Jones e segnalata da Radt in apparato. Radt ha il merito di aver inteso il valore parentetico della frase che va da oiJ de; nu'n a ÔIspanivan. La frase principale è dunque che oiJ provteroi chiamavano ΔIbhriva tutto il territorio a partire dal Rodano ed ejnto;~ tou' “Ibhro~. Oltre tutto, ejntov~ è confermato dalla parafrasi che, di questo passo, dà Eustazio (GGM, II, p. 266, 7). La correzione ejktov~, caldeggiata da Atenstädt (che si sbarazza di Eustazio con un «flocci facio»!) guasta un testo sano. La premessa per tale correzione è che Erodoro (FGrHist 31 F 2a) poneva i Gletes, Kynetes etc. cioè le popolazioni dell’estremo sud-ovest della Spagna tra gli “Iberi”. Ma ciò che Atenstädt non comprese è che Erodoro (fl. circa 400 a.C.) si contrapponeva a una visione diversa dalla sua, presentava una sua veduta originale: perciò l’iniziale fhmiv e la polemica insistenza sul fatto che «si chiamano con nomi diversi ma sono tutti Iberi». Una opposta opinione autorevole al tempo suo, e rimasta tale anche in seguito, era quella di Erodoto, il quale così descrive la marcia dei Focesi verso Occidente: «kai; th;n Turshnivhn

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kai; th;n ΔIbhrivhn kai; to;n Tarthssovn» (I, 163). Anche Teopompo – in linea con Erodoro –, nel libro XLIII delle Filippiche, parlando dei Gleti, li definiva «popolazione iberica (e[qno~ ijbhrikovn) che abita intorno ai Tartéssioi» (FGrHist 115 F 201)62. Per Polibio (III, 37, 10-11) è tutta l’Europa meridionale costiera, dalla Gallia alle colonne d’Ercole, che si definisce Iberia, mentre l’area dalla costa verso l’interno, in direzione dell’Oceano, «non ha nome perché scoperta solo di recente». Naturalmente la oscillazione nell’uso del termine era dovuta a fattori molteplici, come ad esempio il fatto che il toponimo Ibería dev’essere stato trapiantato dalla Georgia (dove c’era ugualmente un fiume Iber) nell’estremo Occidente ad opera dei Focesi (ne risultava una configurazione degli Iberi come collocati ai due estremi del mondo conosciuto). Né quell’iniziale “collocazione” dell’etnico Iberes all’estremo sud-ovest della Spagna rimase senza un seguito erudito, se si considera che ancora nel I a.C. Asclepiade di Mirlea (FGrHist 697) definiva Iberi gli Igleti (cioè probabilmente i Gleti)63. Conviene insistere su questo passo straboniano (III, 4, 19) perché esso contiene la più completa e sintetica storia dell’uso del termine Iberia fino al tempo di Augusto e Tiberio. La comprensione di ejntov~ – che non merita di essere corretto – è cruciale. Del resto che Strabone stia parlando di un significato prima ristretto poi più ampio di Iberia è chiaro proprio dalla conclusione dell’excursus: ÔRwmai'oi de; th;n suvmpasan kalevsante~ oJmwnuvmw~ ΔIbhrivan te kai; ÔIspanivan ktl. Gonzalo Cruz Andreotti ha dedicato, nel glossario (pp. 402-405), una trattazione molto ricca e documentata alla voce Iberia, incentrata, com’è giusto proprio su questo passo straboniano (III, 4, 19). Quanto egli scrive delineando la storia di questo toponimo itinerante è del tutto condivisibile, ma non basta ad avallare la arbitraria correzione di Atenstädt. Lì Strabone sta parlando, prima di riferire l’opposta opinione di Asclepiade di Mirlea suo quasi conterraneo, dell’opinione di coloro che delimitavano l’Iberia e[xw tou' ÔRodanou' e, appunto, ejnto;~

62 Dobbiamo questo frammento all’Epitome di Stefano (s.v. Tlh'te": per una evidente cattiva lettura di un modello in maiuscola). È molto interessante, per quel che riguarda il passaggio dallo Stefano integro all’Epitome, che questa dia anche una voce Glh'te". 63 Jacoby, nel commento a Erodoro 31 F 2a e a Ecateo 1 F 38-45 (p. 331, 2627), preferisce distinguere i due etnici. Cfr. anche questo Glossario, p. 407.

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Parte terza. Perché quel papiro non può essere Artemidoro

tou' “Ibhro~. Dal punto di vista linguistico è cogente osservare che a un limite e[xw tinov~ deve seguire uno ejnto;~ tinov~. Non è superfluo in conclusione soggiungere che proprio questa documentata oscillazione del valore di Iberia, di cui le fonti antiche si mostrano ben consapevoli, conferma, se pur ve ne fosse bisogno, che nel fr. 21 kai; sunwnuvmw~ non va assalito con vane congetture: è, al contrario, la traccia certa che nel contesto precedente si parlava – come del resto in Strabone, III, 4, 19 – degli altri valori del toponimo Iberia.

Parte quarta LA CHIAVE DELLA FALSIFICAZIONE

XI LA FORTUNA DI POTER CONTARE SULLA «GEOGRAFIA» DI STRABONE

L’uso di Strabone da parte dell’autore del papiro affiora costantemente. Così ad esempio concetti e frasi dell’ampio proemio generale straboniano (libri I e II) si ritrovano nel breve e modesto spazio delle prime due colonne del papiro. Prima fra tutti, come è ormai ben noto, l’elucubrazione iniziale sull’intrinsechezza tra geografia e filosofia (= Strabone, I, 1, 1) donde la definizione più volte adottata di ejpisthvmh (col. I, righi 2 e 12) che trova riscontro ad esempio in Strabone, II, 5, 13. Né mancano riscontri puntuali come: Col. II, 3-5 oJ gewgravfo~ ejpelqw;n th;n h[peiron cwvra~ tinov~

Strab. II, 5, 11 ejrou`men th;n me;n ejpelqovnte~ aujtoi; th`~ gh`~ kai; qalavtth~

Ed è proprio la lettura di Strabone che deve aver indotto l’autore del papiro al colossale anacronismo di intercalare mappe nel testo. Egli è stato tratto in inganno dalle parole che in questo stesso contesto (II, 5, 11) Strabone adopera a proposito delle carte. Lì Strabone dice che la sua narrazione si svilupperà «come se fosse su di una mappa distesa»: wJ~ ejn ejpipevdw/ pivnaki th`~ grafh`~ gignomevnh~. Il fraintendimento del valore di wJ~ può portare facilmente fuori strada, come infatti ingannò il rinomato Petrus Bertius (15651629), geografo e cosmografo ufficiale di Luigi XIII, quando nella praefatio al suo Theatrum geographiae veteris (I, 1618) affermò: «Sub eodem Augusto, Strabo geographiam suam edidit, nec dubito quin ille tabulas quoque vel veterum vel suas operi suo coniunxerit». E altrettanto insidioso poteva risultare quel che Strabone dice poco dopo (II, 5, 13) a proposito del «dovere del geografo»:

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Parte quarta. La chiave della falsificazione

«esprimere nel modo più semplice forma e grandezza [di una determinata regione] in rapporto alla carta geografica (to; pi`pton eij~ to;n gewgrafiko;n pivnaka), chiarendo contestualmente quanta parte [quella regione] sia dell’intera ecumène». Quelle parole, che Xylander, nella sua traduzione latina divenuta la base di tutte le successive, rese con: «figuram et magnitudinem quam simplicissime exprimere in tabulam geographicam aptando» erano forse addirittura più insidiose. Nessuno oggi crede che Strabone davvero contemplasse un corredo cartografico per la sua opera (è soluzione di molto a lui successiva). Con tutta probabilità – come s’è già osservato – la carta alla quale il suo lettore è invitato a riferirsi è quella di Agrippa1. Ma è lo stesso Strabone che, in altra parte dell’opera (IV, 1, 1), dichiara «spettare ad altri [cioè al cartografo] di delineare con esattezza (to; ajkribev~) le divisioni politiche, la distinzione in province, variabili nel tempo, mentre al geografo spetta parlare unicamente delle partizioni dovute alla natura stessa (o{sa fusikw`~ diwvristai)». Segnalando – come è suo solito – via via sul margine della sua fondamentale traduzione straboniana gli argomenti trattati dal geografo, al principio del libro terzo (Spagna) Xylander annota: «In tertio incipit singulas orbis partes describere; et primum hoc libro totius Hispaniae continetur descriptio a Columnis ad Pyrenaeum usque montem». E subito di seguito: «Hispaniae solum quale», e subito dopo: «forma eius et quantitas». Ed è infatti quello il “programma” dichiarato subito in apertura da Strabone, scandito in due tempi: prima sch`ma kai; mevgeqo~ («forma et quantitas»), quindi ta; kaq’e{kasta: e[stai [...] provteron tov te sch`ma kai; to; mevgeqo~ (III, 1, 2), quindi ajnalabovnte~ de; levgwmen ta; kaq’e{kasta (III, 1, 4). Nel papiro troviamo (col. V, 13-14): kai; to; me;n o{lon sch`ma th`~ ΔIbhriva~ ejsti; toiou`ton. Lhyovmeqa de; nu`n to;n paravploun aujth`~ ejn ejpitomh/` ktl. Mentre, dunque, Strabone passa, com’è ovvio, dallo «schema» a ta; kaq’e{kasta, e così anche Marciano (Praefatio all’Epitome di Menippo, par. 6: Kai; hJ me;n o{lh tavxi~ tou` perivplou tou`ton e[cei to;n trovpon, ta; de; kata; mevro~ eJxh'~ ejkbhvsetai), il papiro non “decolla” mai verso la descrizione analitica (ta; kaq’e{kasta) ma reitera in forma molto ripetitiva profili “sintetici”2. Continua a muoversi su 1 2

Cfr. MÜLLER 1853b, p. III. È molto faticoso creare ta; kaq’e{kasta...

XI. La fortuna di poter contare sulla «Geografia» di Strabone

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questo piano, e passa non già dallo schema all’intero, ma dallo schema a una epitome. Si susseguono per l’esattezza ben tre preannunzi-riepilogo che aiutano l’autore a “segnare il passo” rimanendo, di fatto, fermo: a) th;n d’o{lhn perigrafh;n th`~ cwvra~ hJ fuvs i~ e[cei toiauvthn 3 (toiauvth dovrebbe riepilogare il già detto, ma il lettore scopre presto di trovarsi davanti a un preannunzio di quel che sta per leggere: ovviamente sarebbe stato più appropriato h{de, ma non andiamo per il sottile); b) segue la descrizione dei Pirenei con le parole di Marciano; c) dopo di che (col. IV, 29-32) segue il preannunzio della descrizione degli altri tre lati. Ciò è di per sé ridondante, ma ancor più colpisce la forma in cui il nuovo preannunzio è espresso: touvtwn d’uJpokeimevnwn («poste queste premesse») trei`~ dei` pleura;~ th`~ cwvra~ noei`sqai th;n ΔIbhrivan periecouvsa~ («bisogna pensare [scil. immaginarsi?] che tre lati avvolgono la Spagna»). Dinanzi alla goffaggine e alla involontaria comicità di questa espressione, l’editore ha proposto una traduzione surreale, che sfida la sintassi greca con sprezzo del pericolo: «Stabilito questo, bisogna pensare agli altri tre lati che delimitano l’Iberia» (Tre vite, p. 157, colonna II, al mezzo). Una trovata che, voltata in latino, darebbe: «de tribus lateribus Hispaniae providendum est»! Qualcosa come «videant consules etc.»; d) a questo punto ha inizio la macchinosa descrizione delle tre pleuraiv secondo un andamento alquanto insensato: (a) la costa meridionale parallela rispetto a quella africana, (b) la costa settentrionale bagnata dall’Oceano, che si congiunge [ma ciò varrebbe anche per la costa meridionale] con (g) il terzo lato, quello «in cui si trovano tutta la zona di Gades e la Lusitania»4. A questo punto però la descrizione torna indietro, all’altro capo (pirenaico) della costa settentrionale per affermare che «proprio nel punto in cui la costa nord tocca i Pirenei (aujtoi`~ de; toi`~ oJmorou`s i th/` Purhvnh/ mevresi) una parte dalla Spagna (tina; th`~ ΔIbhriva~)5, si piega [si inclina] verso Oriente (parepevstraptai pro;~ th;n hjw/`) e forma il profilo di un enorme golfo (kovlpou perigrafh;n eujmegevqou~) che giunge fino ai Cfr. infra, cap. XII. Di qui è chiaro che chi scrive intende oiJ kata; Gavdeira tovpoi come la parte di costa antistante l’isola di Gades. Ciò va tenuto presente nell’interpretazione del fr. 21 (e{w~ tw`n kata; Gavdeira tovpwn ejndotevrw). 5 Espressione inconcepibile. 3 4

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Parte quarta. La chiave della falsificazione

Pirenei; e questo golfo si congiunge col golfo gallico (sunavptei tw/` Galatikw/` kovlpw/)» (V, 8-13). La inaudita affermazione – due golfi in successione nel Golfo di Biscaglia – è la conseguenza catastrofica dell’erroneo presupposto di cui si dirà nel capitolo seguente: che cioè un notevole sperone assai sporgente, quello della fallace terza carta dell’atlante di Tolomeo, determini, nel Golfo di Biscaglia, ben due golfi uno più grande dell’altro! Ancora una volta chi scrive sta basandosi sulle mappe e, purtroppo, su quella dotata di un inesistente prolungamento peninsulare dei Pirenei. Finalmente giungiamo a un nuovo riepilogo: kai; to; me;n o{lon sch`ma th`~ ΔIbhriva~ ejsti; toiou`to6 (V, 13-14). Strabone dice «tratteremo ta; kaq’e{kasta dopo aver delineato to; sch`ma». Qui invece, dopo aver riepilogato «tale è dunque lo schema della Spagna», invece di procedere si scivola in un altro “riassunto”: lhyovmeqa de; nu`n ejn ejpitomh/` to;n paravploun aujth`~. Non seguirà dunque nemmeno il periplo, ma l’epitome del periplo! E di ciò viene data una spiegazione del tutto tautologica che potremmo rendere con la frase «facciamo un’epitome per avere una visione d’insieme»: cavrin tou` kaqolikw`~ nohqh`nai ta; diasthvmata tw`n tovpwn («onde pensare in modo complessivo [in modo sommario, d’insieme] le distanze tra i vari luoghi») [V, 15-16]. Dopo di che seguono 29 righi (17-45) di «periplo» (paraplous). Esso è ultracompendiario per quel che riguarda la costa mediterranea7, appena un po’ più “abbondante” per la costa atlantica della Betica e per la Lusitania, nullo per la costa nord8, in quanto – come as-

6

Qui correttamente usato in riferimento a ciò che precede (e non a ciò che se-

gue). 7 Il vero Artemidoro forniva vari altri toponimi a proposito della costa mediterranea: per esempio Malake, cioè Malaga (Stefano, s.v.). L’Artemidoro del papiro la ignora. 8 Nella Betica il papiro dà conto anche di località distanti appena 24 stadi l’una dall’altra (V, 31-32), ma ignora Abdera, ben nota al vero Artemidoro (Stefano, s.v. = fr. 15 Stiehle). Non ha senso perciò replicare che le informazioni del papiro sarebbero date ejn ejpitomh/` (sull’insensatezza di dare «in epitome» i diastémata vedi supra, cap. V) giacché, a parte Abdera, sarebbe davvero incredibile l’assenza dal periplo del papiro addirittura di Hemeroskopeion e del relativo tempio di Artemide Efesia (su ciò vedi supra, cap. II, § 3.2). Hemeroskopeion non poteva certo mancare nemmeno in una elencazione selettiva. Brutto incidente.

XI. La fortuna di poter contare sulla «Geografia» di Strabone

287

serisce l’ultimo e conclusivo rigo del papiro – «quella costa non l’ha vista nessuno» (V, 45). Ragion per cui – sia detto per incidens – ci si deve chiedere come possa colui che non l’ha vista descrivere così minuziosamente la forma «inclinata verso i Pirenei» con il contorno di ben due golfi, se non per la solita ragione: egli sta lavorando sulle carte tolemaiche; e descrive una mappa di quell’atlante, non cose viste. Nel fare ciò è stato “tradito” anche da un sussidio moderno che gli era certamente noto: la carta del «Marciani Heracleensis Periplus», ultima dell’atlante posto al termine – come III volume – dei Geographi Graeci Minores di Müller. È l’ultima carta di quell’atlante e Müller, nel disegnare (le ha fatte lui) il profilo della Spagna con un robusto sperone alla cima settentrionale dei Pirenei, avverte che Marciano segue in tutto («exprimit») Tolomeo. Il disegno corrisponde perfettamente a quel che si legge nella colonna V: la costa settentrionale della Spagna declina via via che ci si sposta verso Est e forma prima «il profilo di un grande golfo» e questo, al di là dello sperone, grazie a esso si unisce (sunavptei) al successivo golfo. Tutto questo non esiste per così dire in natura, ma c’è in questa carta e nel papiro9. Ma nel ricavare, come al solito, da Strabone i toponimi da infilare nel paraplous gli è capitato un altro spiacevolissimo incidente10. Trovava in Strabone (III, 2, 5) un gruppo di toponimi relativi a città che hanno in comune, è questo che Strabone dice chiaramente, di essere state fondate «su dei fiumi»: «tra queste [accomunate da tale caratteristica] – scrive Strabone – ci sono Asta, Nabrissa, Onoba, Sonoba [probabile la congettura di Vos: Ossonoba], Mainoba e molte altre». Strabone non le sta elencando secondo un ordine di posizione sul terreno o lungo la costa. Invece l’autore del papiro ha creduto ciò e ha elencato – credendo di descrivere il progressivo svolgersi del paraplous – nell’ordine: il fiume Asta, il Baetis, Onoba, Mainoba (col. V, 28-31): 28 29

... ajpo; de; touvtou eij~ to; tou` ΔAst [ ] stovma to; deuvteron r k B B [= 120 stadî] : meta; de; tou`ton ejpi; to;n Bai`tin

9 Simonidis era un attento lettore dei volumi GGM del Müller, come si ricava dai frequenti rinvii nella prefazione al suo falso Periplo di Annone. 10 Sull’assunzione delle congetture di Xylander cfr. infra, cap. XII.

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Parte quarta. La chiave della falsificazione

30 31

B Bd B [=684 stadî] : meta; de; tou`t eij~ ΔOnovpotamo;n cp ban s p B B [=280 stadî] ejnteu`qen eij~ Mainovban [...] : meta; de; tauvthn ktl.

L’incidente è doppiamente spiacevole: non solo per l’arbitraria direzione di marcia dovuta al fraintendimento del passo di Strabone, ma anche perché, con tutta probabilità l’unica città di nome Maenuba (Maivnoba) era dall’altra parte della Betica, sulla costa mediterranea, un po’ a est di Malaga; e con perdonabile improprietà Strabone la inserisce lì in quella lista di città in riva a fiumi. L’equivoco è sorto perché due fiumi hanno il nome Maenuba: uno è affluente del Baetis, l’altro è a est di Malaga, ed è su questo secondo fiume che sorgeva la città, che concordemente Plinio (III, 8), Pomponio Mela (II, 94) e Tolomeo (II, 4, 7) collocano appunto accanto a Malaga, sulla costa mediterranea della Betica11. Quanto all’affluente del Baetis, oltre che nel passo ora ricordato di Strabone, se ne può trovare notizia in Plinio III, 11, mentre lo stesso Plinio nomina «Malaca cum fluvio [...] dein Maenuba cum fluvio» poco prima (III, 8). Insomma un vero disastro quel rigo 31. Anche l’origine della troppo anomala e troppo “cristiana” espressione «torre e porto di Menesteo» (rigo 27: Menesqevw~ puvrgon kai; limevna) viene da Strabone (III, 1, 9). Qui si legge dapprima ejfexh`~ d’ejsti;n oJ Menesqevw~ kalouvmeno~ limhvn, e, dopo alcuni righi, ejntau`qa dev pou kai; to; mantei`on tou` Menesqevw~ ejstiv, kai; oJ tou` Kaipivwno~ i{drutai puvrgo~ ejjpi; pevtra~ ajmfikluvstou. Alla base c’è, al solito, un fraintendimento, o una voluta e grossolana semplificazione: la “torre di Cepione” è solo nelle vicinanze del mantei`on di Menesteo! Ma il nostro fervido autore ha creato – mettendo a frutto tutto il contesto – un unico, inedito, toponimo. 11 Cfr. anche SCHULTEN 1928. Soprattutto illuminante TOVAR 1974, pp. 78-79 e 167. Ma cfr. Barrington Atlas, tavv. 26-27.

XII LA CHIAVE DELLA FALSIFICAZIONE È NELLA COLONNA IV, NELLA V IL DISASTRO

Nella colonna IV abbiamo, in sequenza: a) [righi 1-14] la riscrittura capillare del già noto fr. 21, ma, sventuratamente, a partire da un testo già modificato da tre emendazioni moderne: tutte errate e tali da guastare un testo sano, la seconda per giunta operata in una fase remota e ormai dimenticata della storia editoriale di quel frammento (vedi supra, cap. IX, § 1); b) [righi 14-16] qui cominciano i prestiti soprattutto da Marciano ma anche da Tolomeo. Il proposito di instaurare modifiche rispetto ai modelli in questo caso ha creato un vero e proprio nonsense. Marciano (Mare esterno II, 8), terminata la sommaria descrizione della Betica, conclude kai; hJ me;n o{lh perigrafh; toiauvth (GGM, I, p. 544, 31-32); o, poco dopo, kai; hJ me;n o{lh perigrafh; tou'ton e[cei to;n trovpon (546, 41; 549, 12). In Tolomeo, d’altra parte, la formula, frequentissima, è: (hJ me;n paravlio~)1 perigrafh;n e[cei toiauvthn (III, 2, 2; III, 3, 2; III, 10, 7; III, 15, 1 etc.). Nel papiro [col. IV, 1416] la sintassi della frase viene capovolta e ne scaturisce l’assurdo th;n o{lhn perigrafh;n hJ fuvs i~ e[cei toiauvthn («la natura possiede2 un tale perimetro» [sic]; ovviamente dovrebb’essere il contrario «il perimetro [della regione] ha una siffatta natura»!); c) [righi 16-17 e 18-24] daccapo la fonte è Marciano, con la solita mania dell’inversione. Il tema è la descrizione dei Pirenei con il corollario che i Pirenei separano la Gallia dall’Iberia. Marciano (I, 544, 1-7) aveva dapprima descritto i due estremi della catena (kai; to; me;n e}n pevra~ ktl.) e poi soggiunto Diazeuvgnusi de; kai; diairei' 1 2

Ovvero altri soggetti. Ovvero «ha».

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Parte quarta. La chiave della falsificazione

th;n ΔIbhrivan pro;~ th;n Keltogallivan. Il nostro inverte: 16-17 Dievzeuce3 ga;r hJ Purhvnh th;n Keltikh;n kai; th;n ΔIbhrivan, [18-24]: kai; to; me;n e}n pevra~ ktl. Sulla identità verbale tra le due descrizioni dei pevrata dei Pirenei si può vedere supra, cap. IX, § 1. Va da sé che l’unica spiegazione possibile è che l’autore del papiro ritocchi i suoi modelli: non è sensato pensare il contrario, che cioè Marciano, Tolomeo, Costantino VII, ognuno per parte propria, ritocchino Artemidoro! I righi 18-24 sono presi quasi alla lettera da Marciano Mare esterno II, 6 (= GGM, I, p. 544, 2-4). Poiché il Periplo del mare esterno Marciano lo rivendica come opera sua, non ricavata da altri (cfr. p. 567, 10), se ne deve dedurre che le frasi che stiamo considerando (Mare esterno II, 6) debbono ritenersi sue, non tratte da altri. Dunque ritrovarle pari pari nella colonna IV, 18-24 del papiro4 è rovinoso per chi ritenga autentico, di Artemidoro, il papiro. La ‘scappatoia’ sarebbe dire che comunque, arrivato a quel punto (Iberia etc.) Marciano nel Mare esterno avrà riutilizzato la sua propria epitome di Artemidoro: ma, appunto, l’Epitome, non Artemidoro intero! Qui conviene considerare in cosa consiste la principale innovazione che il papiro introduce rispetto a Marciano nella descrizione dei pevrata dei Pirenei. Marciano (p. 544, 3-4)

Pap. col. IV, 21-24

To; de; e{teron pevra~ pro;~ tou;~ a[rktou~ kai; to;n ajrktw/'on wjkeano;n probevblhtai

To; d’e{teron pevra~ ajpestrammevnon pro;~ a[rktou~ eij~ to;n wjkeano;n KATA POLU probevblhtai

Si tratta dunque di quel kata; poluv, che in Marciano non c’è. E che non ci può essere perché è uno sbaglio. Vediamo perché e da quale fonte è scaturito. L’idea che l’estremo settentrionale dei Pirenei si proietti (o si spinga) in mare «di molto» (kata; poluv)5 è basata sulle carte della Geo3 Voce creata dal falsario. Non è altrimenti attestato il perfetto attivo di diazeuvgnnumi. 4 Col solo incredibile errore cwvran in luogo di qavlattan. 5 Di quali “sporgenze” si parli quando si adopera kata; polu; eij" qavlattan e[kkeitai lo si può capire dalla Parafrasi a Dionigi (GGM, II, p. 410, 84-91).

XII. La chiave della falsificazione è nella colonna IV, nella V il disastro

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grafia di Tolomeo. Tali carte esibiscono un robusto sperone, grande quanto una penisola, come prolungamento dei Pirenei in quanto fondate sull’erroneo calcolo in gradi – fatto da Tolomeo – della posizione della località Oiasso6 e del relativo promontorio (Tolomeo, Geografia, II, 6, 10 = p. 84, 22-23 Nobbe). Tale errore è stato da tempo rilevato7: e ci si è chiesti anche se la creazione di questo «übertriebenes Kap» (infra, cap. XIII) non sia frutto di corruzione della tradizione manoscritta di Tolomeo. Sta di fatto che sia le carte che figurano nei principali manoscritti di Tolomeo (Vatopedi 655; Vaticano Urbinate greco 82; Marciano 388 etc.) risalenti al lavoro ricostruttivo di Massimo Planude, sia le mappe dovute al Mercatore che figurano in varie edizioni a stampa tanto di Tolomeo quanto di Strabone presentano quella spropositata (e come tale prima di Tolomeo mai evocata) escrescenza settentrionale della Spagna. Teniamo a mente queste carte perché torneranno tra breve in taglio. Notiamo, per maggior chiarezza, che Marciano – il quale nella sua opera originale Mare esterno segue in genere Tolomeo8 – in questo caso ha detto probevblhtai (non ignaro di quanto trovava in Tolomeo), ma si è guardato bene dal troppo sbilanciato kata; poluv. (Oltre tutto un’altra tradizione geografica, quella nota a Pomponio Mela [II, 85], dava dei Pirenei una configurazione un po’ diversa: anche per lui i Pirenei giungono fino in mare, ma poi i monti cantabrici sono la prosecuzione dei Pirenei.) Non è superfluo intanto ricordare, qui, di passata, che kata; poluv (ovvero katapoluv) è presente solo nel greco tardo e bizantino9. Riepiloghiamo quanto sin qui osservato. Il creatore del papiro ha adottato l’ordine inverso degli ingredienti che trovava in Marciano: Pap. col. IV

Marciano

1) perigrafhv 2) Dievzeucen 3) pevrata

1) pevrata 2) Diazeuvgnusi 3) perigrafhv

Un’ultima notazione merita di essere fatta, ancora sui righi riguardanti i pevrata. L’ultima parola è, come sappiamo, probevblhtai. Curiosamente però nel papiro (rigo 24) è scritto: Non ancora esistente al tempo di Artemidoro. Vedi su ciò infra, cap. XIII. 8 Müller, GGM, III, tav. XXIX: «Ptolemaeum solet exprimere». 9 Cfr. tra l’altro TRAPP 2001, s.v. katapoluv, p. 791, nonché KRIARAS 1982, p. 41. 6 7

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Parte quarta. La chiave della falsificazione

probevblht[..]ai

Un bell’esempio, sommamente inquietante oltre che istruttivo, di scrittura intorno alla lacuna10. Ma seguitiamo nell’analisi delle fonti. d) [righi 24-29] La descrizione della vista che si gode dai fianchi dei Pirenei, mentre ha sul piano fattuale dell’inverosimile, ha la sua fonte nella terza mappa dell’“atlante” di Tolomeo, una carta che riguarda per l’appunto i Pirenei. (La prima è l’ecumene, la seconda la Britannia, la terza la Spagna inclusa l’intera regione dei Pirenei, la quarta la Gallia11.) Vediamo l’incredibile testo: 24 25 26 27 28 29

ta; d’ejk plagivwn aujth'~12 ta; me;n13 pro;~ th;n hjw'i nevneuken, ajf’w|n tovpwn iJkano;n th'~ Keltikh'~ qewrei'tai, ta; de; pro;~ th;n eJspevran, ajf’w|n tovpwn o{moion th'~ ΔIbhriva~ qewrei'tai.

Forse inconsapevolmente, la traduzione di questo passo fornita dal Tre vite (p. 157, colonna II) fa rifulgere in modo spiccato il nonsense: «Quanto ai loro versanti [ta; ejk plagivwn], uno è rivolto a oriente, e da quei posti si vede un settore abbastanza ampio della Gallia; l’altro invece è rivolto a occidente e da quei posti si vede una corrispondente porzione dell’Iberia». «Un settore abbastanza ampio» vuol rendere iJkanovn, che significherebbe «un bel po’, un bel pezzo, un gran pezzo»14. Mentre è stupefacente che – indipendentemente dalla configurazione del terreno e dall’esatto punto di osservazione – si vedano, guardando verso oriente o guardando verso occidente, due pezzi uguali o equivalenti (iJkanovn-o{moion), è di per sé insensato affermare che dai Pirenei (e neanche dall’alto, ma «dai fianchi»: ejk tw'n plagivwn!) si veda una grande (o adeguata [?]) parte della Gallia, o della Spagna. (Il vero Artemidoro, come sappiamo dal quinto libro di Strabone15, parlava della possibilità di vedere, talvolAnalogo fenomeno al rigo precedente (23): wjk[..]eanovn. In queste ultime tre, ripetiamolo per chiarezza, riappare l’arbitrario sperone reso dal «papiro» con il già ricordato kata; poluv. 12 Scil. th'" Purhvnh". 13 Anche qui c’è scrittura intorno alla lacuna: me[...]n. 14 iJkanov" = sufficiente, adeguato, conveniente, idoneo, abbastanza grande. 15 Strabone, V, 2, 6: da Populonia alla Corsica. 10 11

XII. La chiave della falsificazione è nella colonna IV, nella V il disastro

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ta, l’isola d’Elba e anche la Corsica per chi si trovi sul promontorio di Piombino: ma, appunto, di mezzo c’è la superficie perfettamente orizzontale del mare, che consente la visibilità all’orizzonte.) Qui è semplicemente in contrasto con l’esperienza concreta parlare di «un gran pezzo di Gallia» (o di Spagna) che si vedrebbero posizionandosi sui fianchi dei Pirenei. Oltre tutto avrebbe maggiori chances di vedere almeno qualcosa in lontananza chi si desse la pena di salire su qualche cima, anziché tenersi sui «fianchi della montagna». È insostenibile tutta l’espressione: infatti, da un punto (ad es. Populonia)16 si vede un determinato oggetto (la Corsica), ma parlare genericamente dei “fianchi” dei Pirenei, dai quali si vedrebbe un «gran pezzo di Gallia» (o della Spagna) ha poco senso: quale sarebbe il punto di osservazione? uno qualunque? A pensarci bene, un po’ per celia, ma non del tutto, si potrebbe muovere all’incauto autore del papiro un rilievo. Pur esaltando le sporgenze dei Pirenei verso il mare (una delle due addirittura proiettata «di molto» in pieno mare), egli ha trascurato di mettere in luce altrettanto oziosamente ma più veridicamente quanto mare (altro che iJkanovn!) si potrebbe vedere dagli estremi nord e sud dei Pirenei: «un bel po’ di mare britannico e/o un bel po’ di Mediterraneo». Per lo meno, in questo caso, la frase corrisponderebbe alla realtà17. Un’ultima considerazione, a proposito di questi pseudodettagli riguardanti i Pirenei: Artemidoro non si è mai avventurato fino al Golfo di Biscaglia; perciò difficilmente poteva esprimersi intorno alla forma, prorompente verso il mare, del pevra~ settentrionale dei Pirenei18. Quella costa settentrionale e l’immediato retroterra fino alle campagne cantabriche di Augusto rimasero preclusi ai Romani. Il fatto è che la fonte di queste stravaganti formule è, ancora una volta, la mappa dei Pirenei che figura, come terza, nell’«atlante» di Tolomeo: quella mappa che, oltre a presentare il famigerato ‘spePer tornare al passo di Artemidoro ricordato alla nota 15. Sul piano linguistico colpisce qewrei'tai («si ammira»? «si contempla»? con gli occhi della mente?). Nella pagina in cui, citando e discutendo Artemidoro, Strabone parla di ciò che si vede da Populonia (Piombino), i verbi adoperati sono katopteuvetai, kaqora'sqai, eJwrw'nto. Disturba anche ta; ejk plagivwn, che ricorre in questa forma unicamente nei Geoponica (II, 5, 9; X, 56, 3) dedicati a Costantino VII, in pieno X secolo. Strabone, quando parla del Nilo (XVII, 1, 7) adopera ejk plagivwn come avverbio, in opposizione a a[nwqen. 18 Del resto, l’ultimo rigo della colonna V non dice che la costa nord della Spagna «non l’ha vista nessuno»? 16 17

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Parte quarta. La chiave della falsificazione

rone’ che gagliardamente19 si inoltra nell’Atlantico, include da un lato un bel pezzo di Keltogalliva e dall’altro un bel pezzo di Iberia. Solo ragionando sulla base di una carta può avere senso assumere come (immaginario) punto di osservazione «i fianchi» dei Pirenei. Altrimenti, nella realtà, è ovvio guardare dalla vetta o comunque dalle cime. E in effetti si può osservare che una tale visione ‘libresca’ si nota anche altrove: per esempio verso l’inizio della colonna V (rigo 8), dove si afferma che «una parte della Spagna (tina; th'~ ΔIbhriva~) si piega (parepevstraptai) verso oriente»; o anche in quel buffo giro di frase della colonna II in cui il geografo sembra mettere a paragone «il paese che gli sta intorno» con «quelli che stanno altrove» e «accorda la propria anima con la uJpokeimevnh cwvra» (rigo 11). La carta dei Pirenei, che è la fonte del papiro, si trova, come s’è detto, nei manoscritti di Tolomeo corredati di mappe (non tutti lo sono), e, di conseguenza, nelle stampe. Segnaliamo, in modo particolare, la «carta dei Pirenei» che c’è nel Vatopedi 655. Questo manoscritto ha avuto singolari vicissitudini. Fu privato di una parte dei suoi fogli (cfr. infra, cap. XXII) dal noto falsario greco Costantino Simonidis, vero maniaco di geografia, il quale a lungo aveva vissuto e operato all’Athos (su di lui cfr. infra, Parte sesta)20. Simonidis vendette poi al British Museum quei fogli che aveva rubato: essi costituiscono oggi l’Additional 19391. L’ultima mappa compresa tra i fogli da lui rubati e rivenduti è proprio la Spagna (il disegno non è completato [fig. 4]: le «casette», che dovrebbero fantasiosamente indicare i centri abitati, sono state tracciate solo in minima parte). Invece la successiva mappa, cioè la prima della parte del codice rimasta all’Athos è appunto quella dei Pirenei con «un bel pezzo di Gallia» di là e «un bel pezzo di Spagna» di qua21 [fig. 5]. Tale raffigurazione dei Pirenei attorniati da un lato da scritte quali Keltogalativa~ mevro~ ovvero «Galliae pars» e dall’altro dalla «Tarraconensis» la ritroviamo anche, molto simile, nella carta della Spagna che è posta al principio del terzo libro di Strabone nell’ediKata; poluv, «di molto». Anche un altro falsario, pure lui appassionato di geografia greca antica, Minoide Mynas, rubò dei fogli da questo manoscritto (ora costituiscono il Paris. Suppl. Gr. 443A). 21 In un facsimile edito dalla Miletos (Alimos, 1999?) è ricomposto l’intero manoscritto soltanto per la parte relativa a Tolomeo. 19 20

XII. La chiave della falsificazione è nella colonna IV, nella V il disastro

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zione a cura di Xylander (Basel 1571): edizione che ha svolto un ruolo importante e confluì in quella due volte rielaborata e poi divenuta ‘canonica’ di Casaubon22. L’autore del papiro usava – oltre al manoscritto Vatopedi 655 – anche l’edizione Xylander di Strabone?23 Sembra assai probabile, visto che ne ha recepito, e immesso nel testo, varie congetture erronee o arbitrarie. Per accertarlo conviene partire dagli ultimi dieci righi della colonna V che sintetizzano alla buona la descrizione straboniana della costa lusitana. Qui si susseguono i toponimi essenziali: dopo la problematica «torre e porto dei Salakeinoí» (rigo 37) vengono elencati in rapida successione «la foce del Tago» (rigo 38), il fiume Dorios (il Duero: rigo 39), e ancora oJ potamo;~ ΔObleuviwn: ou|to~ de; kai; Lhvqh~ kai; Limiva~ prosagoreuvetai (righi 40-42).

Seguono: «il Benis (detto anche Minios)», «il promontorio degli Artabri» (42-44) e l’altrimenti ignoto Mevga~ Limhvn («Grande porto»: 44). Che il testo di Strabone – nel quale si ritrovano in fila tutti questi toponimi – sia il punto di partenza è evidente già da quest’ultimo apparente toponimo (Mevga~ Limhvn). Strabone infatti dice (III, 3, 5) che gli Artabri «hanno le loro numerose città raggruppate dentro un golfo» e che perciò i naviganti che vi giungono «soprannominarono quel golfo Porto degli Artabri» (ΔArtavbrwn limevna prosagoreuvousi). Il problema è che – com’è chiaro dalle parole di Strabone – si tratta di un golfo «soprannominato porto» per il ruolo di approdo protettivo e confortevole24. Ma tutto diventa chiaro e al tempo stesso deprimente se si risale di qualche rigo nella stessa pagina (III, 3, 4). Lì Strabone elenca anche lui i fiumi: prima il Tago, poi il Douvrio~ (Duero), quindi oJ th'~ lhvqh~ o{n tine~ Limaivan oiJ de; Beliw'na ka22 Negli esemplari dell’ed. Xylander in cui non c’è il greco ma la traduzione latina con tutti gli apparati, la mappa è a p. 80. Nella coeva bilingue, p. 143. 23 Nelle sue ‘reincarnazioni’, nelle celebri stampe di CASAUBON (1587; 1620 a cura di Morel) mancano le mappe. 24 Ovviamente uno spunto ulteriore all’invenzione può essere venuto dal Povrto" mevga" h] mevga" limhvn che figura nella lista fornita da Tolomeo delle località della Betica che affacciano sul Mediterraneo (e che certo non ha nulla a che fare con la punta estrema della Galizia protesa verso l’Atlantico).

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Parte quarta. La chiave della falsificazione

lou's i. Qui Xylander, ignaro della perfetta legittimità della forma Belivwn, propose (p. 103 = 183 ed. bilingue) di correggere in ΔObliouiw'na e nella traduzione scrisse senz’altro «Lethes id est Oblivionis amnis quem alii Limaeam vocant» (p. 91 = 162). La nota, come spesso anapodittica, recita: «Beliw'na vox est corrupta cum Strabo ΔObliouiw'na, puto, scripserit»25. In Strabone la nozione di «oblivio» è già espressa con oJ th'~ lhvqh~. Essendo greco, come del resto era Artemidoro, è ovvio che dica lhvqh. Dunque per lui Belivwn è un altro toponimo (alternativo di Limias). Se Belivwn fosse la degenerazione di ΔObliouivwn (un mostruoso equivalente di oblivio in caratteri greci!) sarebbe comunque una riproposizione di lhvqh~ in altra forma, e bisognerebbe tra l’altro cambiarlo di posto, come ha fatto infatti Xylander nella sua traduzione26. L’autore del papiro ha peggiorato la situazione creando un inspiegabile ΔObleuivwn. È stato tratto in inganno da «Lethes id est Oblivionis amnis» e ha preso quel genitivo per nominativo, onde ha scritto: oJ potamo;~ ΔObleivwn (come se oblivio fosse il toponimo mentre è una definizione: oblivionis amnis27) ou|to~ de; kai; Lhvqh~ kai; Limiva~ prosagoreuvetai. E infatti Strabone, a saperlo leggere, scrive, correttamente, oJ potamo;~ th'~ lhvqh~. Ma ammettiamo che si fosse smarrita, com’è accaduto una volta ad Appiano nel Libro Iberico, la percezione di lhvqh come epiteto («il fiume della dimenticanza») suscitando l’equivoco di un (inesistente) «fiume Dimenticanza»: ma in tal caso avremmo oJ potamo;~ Lhvqh. Una fonte greca direbbe appunto Lhvqh, come fa Appiano (Iberiké 72: ejpi; Lhvqhn meth/vei)28: non creerebbe l’i25 In tale traduzione, oltre tutto, OBLIVIO, che sostituisce Belivwn balza in seconda posizione, e curiosamente non più in alternativa a Limias. 26 Brillante e pertinente la critica di Casaubon alla trovata di Xylander: «oiJ de; Beliw'na] Non displiceret eruditissimi viri coniectura supra his verbis, putantis esse allusum ad vocem Latinam Oblivionis, tum legerem ΔObliouiw'no" non w'na. Sed ostant veteres libri in quibus omnibus constanter ita legitur. Nihil igitur mutandum» (CASAUBON 1587, p. 57 = CASAUBON 1620, p. 69). Casaubon aveva ampiamente studiato la questione e segnalato: «Non dicit [Strabone] hJ Lhvqh, sed oJ th'" Lhvqh". Recte. Nam is fluvius non Oblivio, sed Oblivionis fluvius appellabatur. Pomponius Mela, Et cui Oblivionis cognomen est Limia. Plinius, Aeminius quem alibi quidam intelligunt et Limaeam vocant, Oblivionis antiquitus dictus. Sic igitur Graece non Lhvqh, sed th'" Lhvqh" dici debet». 27 Cfr. tutte le fonti in proposito raccolte da SCHULTEN 1926. 28 La cosa non era sfuggita a Casaubon: «Fallitur etiam Appianus qui cum reperisset hunc fluvium lhvqh" appellari secundo casu, rectum inde finxit oJ Lhvqh", quod non debuit» (CASAUBON 1587, p. 57).

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nesistente termine latino in caratteri greci (OBLEIWN) per presentarlo in alternativa a lhvqh~! Il che, per l’appunto, assurdamente avviene nel papiro29. Subito dopo, sempre lavorando su Strabone (probabilmente nell’edizione Didot)30, l’autore del papiro è incorso in un’altra trappola, a dir vero insidiosa. Sempre che quanto gli editori sostengono di leggere al rigo 42 della colonna V sia esatto. Strabone seguita, infatti, dicendo: «Anche questo [= il Belion] scorre dal paese dei Celtiberi e dei Vaccei, e così anche quello che viene dopo, il Bainis [probabile errore per Naibis]». E aggiunge: oiJ de; Mivniovn fasi: polu; mevgisto~ etc. Il passo aveva affaticato dotti del calibro di Xylander, Casaubon, Schweighäuser. E quest’ultimo aveva fatto l’osservazione pertinente: che cioè fasivn non significa “nominant”, ma “dicunt”. (Subito prima infatti Strabone, per dire “nominant”, adopera kalou`s i.) Perciò – concludeva – l’autore ha inteso riferirsi alla divergenza d’opinione di diversi testimoni «quorum alii post Lethaeum fluvium NAEBIN ponant, alii continuo MINIUM»31. Ovviamente il nominativo polu; mevgisto~ dovrebbe riferirsi al Minio, mentre nel testo di Strabone sembra riferirsi al Bainis/Naebis (il che dipenderà dalla confusione in cui incorrevano i testimoni cui si stava riferendo la fonte di Strabone, che qui è Posidonio). Chi a torto poneva il Naebis dopo il Limias lo scambiava con il Minios e lo definiva perciò “grandissimo”. Analogo disordine della successione dei fiumi della Lusitania in Appiano, Iberiké 73: Tago, Lethe, Durios, Baites [sic]. 29 Chiarificatore sotto ogni rispetto Pomponio Mela (III, 10): «est cui oblivionis cognomen est Limia» e soprattutto Sallustio (Hist. III, 44 Maur.): «cui nomen oblivionis condiderant». L’elegante e inutile anzi dannosa congettura di Xylander ha avuto fortuna fino a Schweighäuser, che addirittura la stampa nel testo, e a Müller che stampò «Oblivio(?)» nel suo Strabone. È un peccato che KRAMER 2001-2003 abbia dedicato un intero articolo per caldeggiare la lezione ΔObleivwn presente nel papiro, senza mai notare che quella era la congettura di Xylander. RADT 2006, commento a III, 3, 4 (p. 349), osserva giustamente che alla base del fraintendimento ci dev’essere una «volksetymologische Interpretation» del toponimo indigeno Belio e rinvia per l’origine di esso al convincente saggio di NORTHUP 1924, p. 281. È curioso come KRAMER 2005 (p. 29, nota) deduca dall’apparato di Radt che esiste la congettura di Xylander: nel 2005 Kramer non poteva conoscere il commento di Radt, apparso l’anno dopo (2006), dove è argomentata l’inutilità della troppo fortunata congettura. 30 Nella cui mappa della Spagna, delineata da Müller, trovava un bel Lethes al nominativo. 31 SCHWEIGHÄUSER 1785, p. 298. L’importante osservazione di Schweighäuser non è sfuggita a RADT 2006, p. 349.

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Parte quarta. La chiave della falsificazione

Fidandosi dell’interpretazione consolidatasi (da Xylander a DübnerMüller) – «post hunc Baenis, quem alii Minium vocant» – l’autore del papiro avrebbe, a quanto pare, tranquillamente scritto ejpi; to;n Baivnin h] Mivnion. Ma l’infaticabile Xylander era intervenuto anche nella pagina precedente (III, 3, 1) e lì aveva introdotto per congettura (p. 103) il toponimo Salavkeia32. E nel papiro (col. V, 37), poco prima di ΔObleivwn e Lhvqh~, sbucano fuori i Salakeinoiv. Ma l’autore del papiro non s’è accorto di una difficoltà: sebbene il suo proposito sia di descrivere «in epitome» «le coste della Spagna»33, Salacia (ammesso che l’inedito Salakeinoí ne sia l’antroponimo) non è proprio sulla costa34. E siccome nella stessa frase di Strabone dove figura l’oscuro EIPONLAKEIA c’è ajpo; tou' lecqevnto~ puvrgou, con l’aiuto di Xylander – che mutò alquanto alla leggera uJdruvontai in i{druntai –, l’autore del papiro ha dedotto, dal testo di Strabone rifatto da Xylander, l’esistenza di un puvrgon tw'n Salakeinw'n35. E siccome gli piaceva la formula puvrgon kai; limhvn (ricorre anche al rigo 27)36, ha creato uno stravagante to;n Salakeinw'n puvrgon kai; limevna. Insomma l’effetto Xylander è stato micidiale. Riepiloghiamo. Se la colonna IV appare un collage di Costantino VII (= fr. 21) + Marciano + le mappe del Vatopedi 655 di Tolomeo37, la colonna V, nella sua parte terminale, dedicata alla costa lusitana, appare subalterna della fortunata ma per lo più immotivata riscrittura, ad opera di Xylander, della corrispondente pagina di Strabone (III, 3, 1-4). Non è dunque superfluo elencare tutte le congetture immotivate o errate e gli errori di stampa moderni che il papiro recepisce nelle colonne IV e V: 1) IV, 4: kai; sunwnuvmw~ che diventa sunwnuvmw~ kaiv (grazie a Meineke): vedi supra, cap. IX. È tramandato EIPONLAKEIA (che è guasto). Col. V, 13-14: to;n paravploun. 34 Anche qui alla base ci potrebbe essere Tolomeo (II, 5, 2). «Salacia – annota Müller –. Hodie Alcacer do Sol. Oppidum mediterraneum Ptolemaeus in oram maritimam transtulit!» (MÜLLER 1883, p. 131). 35 Che Bärbel Kramer presentava come una perla di questo papiro. Vedi supra, Fantasma, § 4. 36 È espressione cristiana: Giovanni Crisostomo, Ep. ad Olympiadem 12, 1; Ippolito, Chron. 607, 2; Analecta hymnica Graeca Canon. Septembr. 37 Dunque, per questa via, Bärbel Kramer potrebbe rafforzarsi nell’idea che siamo di fronte a «extractos»; ma da vari autori e certo messi insieme in epoca molto tarda: dunque, in tal caso, addio rotolo e scrittura di I sec. a.C.! E addio Tre vite. 32 33

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2) IV, 9: la scomparsa, per errore topografico non più rettificato a partire da Vossius, di un altro kaiv, quello che si trovava ante 1658, prima di mevcri. 3) V, 41: ΔObleivwn. 4) V, 41: Lhvqh~ nominativo e toponimo. 5) V, 37: to;n Salakeinw'n puvrgon [3, 4 e 5 derivano da congetture di Xylander sul testo di Strabone]. Quattro di queste cinque congetture sono certamente errate. La quinta rischia fortemente di esserlo anch’essa. Un papiro così volenterosamente subalterno, in così breve spazio, di congetture moderne sbagliate non può essere né antico né autentico.

XIII QUANDO I PIRENEI SI INOLTRAVANO NELL’OCEANO di Giuseppe Carlucci La colonna IV del papiro di Artemidoro presenta una descrizione piuttosto convenzionale della catena montuosa dei Pirenei, che esordisce con l’altrettanto convenzionale cenno alla funzione divisoria tra i territori di Gallia e Iberia1 e prosegue ostentando notevoli coincidenze verbali con il Periplo del mare esterno, opera di Marciano di Eraclea: Col. IV, 18-24

Marciano, Periplus mari exteri II, 6

kai;^ [to; me;n e}n pevr]a~ e[ij~ th;n hJ]metevran e[kkeitai cwvran2 neneu^ko;~ pro;~ th;n novtion pleura;n th;n meshmbrivan to; d j e{teron^ pevra~ ajpestrammevnon p^[ro;~] a[rktou~ eij~ to;n wjkeano;n kat[a;] polu; probevblht^[..]ai.

Kai; to; me;n e}n pevra~ tou' o[rou~ eij~ th;n hJmetevran e[kkeitai qavlassan, to; de; e{teron pevra~ aujtou' pro;~ ta;~ a[rktou~ kai; to;n ajrktw/'on wjkeano;n probevblhtai.

In Marciano la parte comune al papiro è preceduta da una concisa trattazione circa il punto di inizio e termine della catena montuosa

1 Col. IV, rr. 16-17: D[ ] ucen ga;r hJ P[ur]hvnh th;[n Ke]lt ^ ik[h;]n^ kai; th^ [^; n ΔIbhrivan]. Cfr. Strabone, III, 1, 3: oJrivzei th;n Keltikh;n ajpo;; th'" ΔIbhriva"; Plinio, III, 30: «Pyrenaei montes Hispanias Galliasque disterminant»; Cassio Dione, XIII, vol. I, p. 189 Boissevain: pa'san th;n ΔIbhrivan ajpo; th'" prosoivkou Galativa" ajforivzon; Marciano, GGM, I, p. 544, 4-6: diazeuvgnusi de; kai; diairei' th;n ΔIbhrivan pro;" th;n ejcomevnhn Keltogalativan. Per un elenco delle testimonianze antiche sui Pirenei vedi GROSSE 1963; ROLDÁN HERVÁS 2006, p. 785, s.v. Pyrenaei iuga. 2 Lege qavlassan.

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e, di conseguenza, del suo ‘orientamento’ spaziale: ÔH de; Purhvnh to; o[ro~ ajpo; th'~ kaq’hJma'~ ajrxamevnh qalavssh~ diateivnei mevcri tou' ajrktw/'ou wjkeanou'. Una indicazione così netta, e così frequente nelle testimonianze antiche sui Pirenei3, manca nel papiro, o meglio, è presentata rifusa ai dati concernenti i due pevrata della catena iberica. L’esito è perlomeno singolare: per «una estremità (pevra~)» la catena pirenaica è orientata verso sud (neneuko;~ pro;~ th;n novtion pleura;n th;n meshmbrivan)4, per «l’altra» punta verso nord (ajpestrammevnon pro;~ a[rktou~) protendendosi nel mare – aggiunge il papiro – «di molto», «per un lungo tratto» (kata; poluv). In quest’ulteriore dettaglio fornito dal non irreprensibile kata; poluv consiste la più rilevante innovazione rispetto alla testimonianza di Marciano5. Secondo una consolidata (ma non dominante) tradizione, riflessa anche in Marciano, le estremità dei Pirenei sono formate da due promontori che si incuneano rispettivamente nel Mediteranneo (il promontorio di Afrodite Pirenaica) e nell’Oceano Atlantico6: a tale 3 Non tutte però propendono per l’usuale orientamento Sud-Nord, cfr. in proposito GROSSE 1963, coll. 15-16; ROLDÁN HERVÁS 2006, p. 785. 4 Fort. recte meshmbrinavn. 5 Per espressioni analoghe Marciano si avvale di ejpi; poluv (cfr. Mare esterno I, 3 e 12; II, 13 e infra nel testo; II 33 e 39), peraltro piuttosto frequente nel lessico geografico (LSJ, s.v. poluv", 4a). Cfr. e.g. Strabone, I, 2, 10; IV, 5, 3; VI, 2, 3; VIII, 3, 12 etc., il quale, in contesti simili al nostro, sembra però preferire l’uso di poluv" senza preposizione (VI, 3, 5: oJ skovpelo", o}n kalou'sin a[kran ΔIapugivan, polu;" ejkkeimevno" eij" to; pevlago"; VII, 4, 3: provkeitai d’aujth'" a[kra polu; pro;" to; pevlago" kai; th;n meshmbrivan ejkkeimevnh; XIII, 1, 18). Kata; poluv (o l’avverbio katapoluv) è normalmente adoperato in contesti di comparazione, come nello stesso Marciano (II, 41: hJ me;n ΔAlbivwn meivzwn kata; polu; tugcavnei; su quest’uso, tardivo, cfr. quanto scrive Schäfer, in ThGL, s.v. poluv", col. 1426A), mentre per un uso simile a quello del papiro si può citare la Parafrasi a Dionigi periegeta, GGM, II, p. 410, 84-91: th'" Krhtikh'" a[kra", h{ti" katapolu; eij" th;n qavlattan e[kkeitai (cfr. inoltre pp. 416, 533-540; 421, 861-873; la forma convive con ejpi; poluv, cfr. ad es. p. 414, 330-341). 6 Cfr. Floro, II, 33: «Pyrenaei desinentis scopulis inhaerentem citerior adluebat Oceanus»; Plinio, III, 30: «Pyrenaei montes Hispanias Galliasque disterminant promunturiis in duo diversa maria proiectis»; Tolomeo, Geogr., II, 6, 11: hJ de; pro;" qerina;" ajnatola;" pleura; oJrivzetai th/' Purhvnh/ ajpo; tou' eijrhmevnou ajkrwthrivou mevcri th'" ejpi; th;n kaq’hJma'" qavlassan ajkrwreiva", kaq’h}n i{drutai ΔIero;n ΔAfrodivth" (altre fonti in ROLDÁN HERVÁS 2006, p. 785, s.v. Pyranaei promunturium, ove correttamente Strabone non viene annoverato tra le fonti). Per Pomponio Mela (II, 85), diversamente, i Pirenei in prossimità dell’Oceano si uniscono ai monti cantabrici: «Pyrenaeus primo hinc in Britannicum procurrit oceanum; tum in terras fronte conversus Hispaniam inrumpit, et minore parte eius ad dexteram exclusa trahit perpetua latera continuus, donec per omnem provinciam longo limite inmis-

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Parte quarta. La chiave della falsificazione

conformazione alludono infatti i sinonimici e[kkeitai e probevblhtai, largamente adoperati nel lessico geografico a proposito di promontori e rocce più o meno prominenti in mare7. Più oltre, nel descrivere il periplo della Tarraconese, Marciano fornisce anche il nome del culmine pirenaico nell’Atlantico: si tratta del «promontorio di Oiasso»8, che – sostiene il geografo di Eraclea – pertiene a quella porzione dei Pirenei che inclina verso l’Oceano (mevrei te th'~ Purhvnh~ kata; to; Oijavssw ajkrwthvrion tw/' pro;~ to;n wjkeano;n neneukovti: II, 20), costituendone il limite settentrionale (...mevcri th'~ Purhvnh~ kai; tou' pevrato~ aujtou' tou' ajrktw/vou, tou' kaloumevnou Oijavssw: II, 18). Come mostra la fig. 7, l’odierno Cabo Higuer, con cui generalmente (e correttamente) si identifica il «promontorio di Oiasso», è in realtà un promontorio di assai ridotte dimensioni (e perciò pressoché impercettibile in una normale mappa della penisola iberica in scala 1 : 2.750.000) posto nel territorio basco di Guipúzcoa, sul confine franco-spagnolo, che deve la sua fortuna presso i geografi antichi quasi esclusivamente alla propria ubicazione in prossimità del limite settentrionale dei Pirenei. Il promontorio ricava il nome dalla limitrofa città dei Vascones che fu importante porto dall’età augustea in poi (attualmente Irún)9, dove terminava la via romana che da Tarragona e dalla costa mediterranea portava sull’Atlantico (cfr. Strabone, III, 4, 10: hJ ejk Tarravkwno~ ejpi; tou;~ ejscavtou~ ejpi; tw/' ΔWkeanw'/ Oujavskwna~ tou;~ kata; Pompaivlwna kai; th;n ejp’aujtw/' tw/' ΔWkeanw'/ †Oijdavsouna†10 povlin oJdov~ ejsti ktl.; Plinio, III, 29: «[...] citerioris Hispaniae [...] latitudo a Tarracone ad litus Oiarsonis CCCVII, e radicibus Pyrenaei, ubi cuneatur angustiis inter duo maria»11). sus in ea litora quae occidenti sunt adversa perveniat» (cfr. SILBERMAN 1988, p. 218, nota 5). 7 Il primo verbo e[kkeitai (e relativo participio) è molto attestato in Strabone, in contesti simili al nostro (cfr. e.g. IV, 1, 6; V, 1, 2; VI, 2, 1, XV, 2, 1; XVI, 4, 14); di contro, Strabone, che predilige il sinonimo propivptw, non ha alcun esempio di probavllomai nel significato di “essere proiettati, gettati in avanti” (al perfetto), che però ricorre in Pausania, II, 34, 8, in Procopio, De aedificiis, IV, 3, 17 e 10, 2, negli Scolii ad Elio Aristide, p. 110, 19 Dindorf e altrove. 8 Marciano, Periplo del mare esterno II, 16, 18, 20, 21, 23. 9 Per questa identificazione, non più contestabile, cfr. ROLDÁN HERVÁS 2006, p. 684, s.v. Oeasso. 10 Casaubon congetturò Oijavswna, forma più vicina a quella tramandata da Marciano, cfr. RADT 2006, p. 374. 11 Il testo è quello dell’ed. Mayhoff. Sul significato di litus, non sovrapponibi-

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Fu il geografo alessandrino Claudio Tolomeo (I-II sec. d.C.) il primo a distinguere la povli~ Oijasswv dall’ajkrwthvrion Oijasswv, facendo del promontorio il termine della iberica Tarraconese e l’inizio della gallica Aquitania: tale distinzione, per la prima volta chiara, si tradusse tuttavia in erronee coordinate cartografiche, in cui soprattutto la latitudine del promontorio (calcolata, come da prassi, all’estremità nord) è esageratamente elevata: Ptol., Geogr., II, 6, 10 Oujaskwvnwn Oijassw; povli~ Oijassw; a[kron Purhvnh~

Longit.

Latit. (Nord)

ie° ~' = 15° 10' ie° = 15°

me° ib' = 45° 05' me° Lg' = 45° 50'

L’errore, ribadito in Geogr., II, 7, 2 (me° Lg' = 45° 50')12, sta nell’aver spostato di ben 70 km ca.13 il limite settentrionale della catena dei Pirenei. È dunque lecito affermare che, nella rappresentazione cartografica di Tolomeo – oltrepassata la latitudine della «città di Oiasso», situata a dire di Strabone ejp’aujtw/' tw/' ΔWkeanw'/ suppergiù alla medesima altezza dell’estremità orientale del versante nord della Tarraconese (il promontorio Nerium, 45° 10')14 –, i Pirenei si inoltrano nell’Atlantico «di molto» (il kata; poluv del papiro). Questa in-

le a “promontorio”, cfr. lo stesso Plinio, V, 97: «Taurus mons, ab Eois veniens litoribus, Chelidonio promunturio disterminat». Una località Olarso, da identificare con la medesima Oiarso di III, 29, è menzionata in IV, 110, subito dopo i Vasconum saltus, nell’elenco delle località costiere del nord dell’Iberia (a Pyrenaeo per oceanum). 12 Il testo è quello costituito nella recente edizione di STÜCKELBERGERGRAßHOFF 2006. Si tratta della prima edizione che si avvale della tradizione manoscritta completa della Geografia tolemaica (e finalmente del Seragliensis GI 57, che né Nobbe né Müller poterono adoperare). Per i valori della latitudine del promontorio di Oiasso la tradizione non mostra discordanze; va però rilevato che in Geogr., II, 7, 2, l’autorevole Vat. Gr. 171, sospettato da Polaschek (1965, col. 717) di trasmettere una edizione riveduta dallo stesso Tolomeo, omette le coordinate del promontorio, già dichiarate in II, 6, 10. Per la lettura ‘moderna’ delle coordinate tolemaiche, fornite in gradi e frazioni di grado (anziché in minuti), e i segni grafici adoperati nei mss., cfr. STÜCKELBERGER-GRAßHOFF 2006, pp. 23 e 34, nota 108. 13 O persino 75 km ca., se si considera lo stadio tolemaico equivalente a 197,5 m anziché 185 m (cfr. su ciò STÜCKELBERGER-GRAßHOFF 2006, p. 25). 14 STÜCKELBERGER-GRAßHOFF 2006, p. 172.

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debita prosecuzione in mare aperto della catena pirenaica dà origine a un paio di corollari: a) a nord la latitudine dei Pirenei è per così dire ‘pareggiata’ a quella del fronte settentrionale della Tarraconese, attestato per vasta misura tra i 45° 30' (foci del Nalón) e i 45° 50' (Cabo Ortegal); b) vengono così notevolmente accentuate la ampiezza e profondità delle insenature o golfi oceanici sul versante atlantico della penisola iberica e della Gallia. E tuttavia già da sola la posizione della «città di Oiasso» (45° 05') è sufficiente a determinare quelle fantasiose insenature nell’attuale Golfo di Biscaglia di cui dà conto pure Strabone nella pagina esordiale del libro III15, a ragione delle latitudini sensibilmente inferiori delle località costiere segnalate subito prima o dopo (ad es. Flaviobriga 44° 15', nella Tarraconese, e la foce del fiume Aturus, 44° 45', in Aquitania)16. Non senza ragione Hugo Berger parlava, per Tolomeo, di «wohl übertriebene Ausprägung» delle informazioni disponibili, tra l’altro, anche attraverso Strabone17. Se si intende che il papiro restituisce il vero Artemidoro, quel kata; poluv appare un insostenibile anacronismo. Ma lo stesso Marciano, la cui prosa riecheggia – come s’è già detto – nel papiro, non pare aver seguito da presso su questo punto la pur venerata fonte18. Eppure sa ben dosare le parole: qui dice semplicemente probevblhtai, 15 Strabone III, 1, 3, attribuisce la formazione di due golfi iberico e gallico a nord (e simmetricamente a sud) alla irregolare ampiezza della penisola iberica e della Gallia, il cui punto più stretto (to; stenovtaton, o ijsqmov") è a ridosso dei versanti dei Pirenei (to; th/' Purhvnh/ plhsiavzon). Esemplifica la complessa descrizione straboniana il disegno approntato da RADT 2006, ad loc. Anche in questo contesto (III, 1, 3), dove pure la descrizione delle pleuraiv iberiche è condotta a partire dai promontori (Nerium, Sacro, Artabro), Strabone non identifica un promontorio a nord dei Pirenei e parla genericamente di bovreia a[kra, «septentrionales extremitates» (cfr. inoltre II, 5, 27; IV, 1, 1; IV, 5, 1). L’equivoco perdura dall’edizione di Karl Müller e dalla mappa disegnata «ad mentem Strabonis» (più prudente l’ultimo editore Radt: mevcri tw'n th'" Purhvnh" a[krwn tw'n teleutwvntwn eij" to;n ΔWkeanovn [II, 5, 15], «bis zu den Spitzen der Pyrenäen, die am Ozean enden»). 16 STÜCKELBERGER-GRAßHOFF 2006, pp. 174-175. 17 BERGER 1903, pp. 629-630. 18 Tolomeo, definito nel preambolo del Mare esterno «divinissimo e sapientissimo» (GGM, I, p. 516, 16-17): da lui (Geogr., II, 6, 12), ad es., Marciano mutua l’idea che la catena pirenaica abbia andamento concavo (kurtou'tai) sul versante iberico (II, 6). Per la dipendenza da Tolomeo a proposito della Tarraconese, cfr. POLASCHEK 1965, col. 782.

XIII. Quando i Pirenei si inoltravano nell’Oceano

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ma per il Promontorio sacro (davvero sporgente) dice invece che ejpi; polu; eij~ to;n wjkeano;n e[kkeitai19. Nondimeno, in epoche successive le coordinate tolemaiche del «promontorio di Oiasso» godettero di ben altro favore. Com’è noto, sotto la guida di Massimo Planude (fine XIII sec.), che celebrò in un epigramma l’avvenuta riscoperta della Geografia, e per il prosieguo dell’età bizantina e poi nel Rinascimento latino furono allestiti splendidi esemplari dell’opera di Tolomeo, corredati di un atlante di mappe illustrative del testo, la prima, generale, dell’ecumene in coda al VII libro, e inoltre 26 regionali in proiezione ortogonale, ciascuna abbinata al rispettivo pivnax dell’VIII libro (capp. 3-28). Le mappe regionali, che adottano un inusuale sistema di coordinate “temporali” (sui paralleli tracciati a intervalli di 1/4 di h si collocano le povlei~ ejpivshmoi, la cui latitudine, oltre che in gradi, è espressa dalla durata, in ore e frazioni di ora, del solstizio d’estate), per il resto si uniformano alle coordinate fornite da Tolomeo nei dettagliati periorismoiv dei libri II-VII. Una acritica aderenza al testo ha perciò reso possibile agli errori addebitabili a Tolomeo20 (o alla tradizione superstite o persino al copista del singolo testimonio della Geografia) di riprodursi via via nelle rappresentazioni cartografiche più antiche, risalenti al XIII-XIV secolo21. I Pirenei sono raffigurati nella carta II dell’Europa (Iberia), sul recto della mappa: dove essa è superstite (Seragliensis GI 57, Marciano Gr. 516, Urbinate Gr. 82, Marciano Gr. 388, Parigino Lat. 10764, Neapol. Lat. V F. 32 etc.) lo spropositato prolungamento settentrionale nell’Oceano identificabile nel tolemaico «promontorio di Oiasso» è assai visibile e marcato. Un analogo criterio di raffigurazione sottende alle moderne carte costruite «ad mentem Ptolemaei»22: ma già Mercatore metteva in guardia il lettore dal malfido testo tolemaico sostenendo, condivisibilmente, che «Easo promunturium [...] sic supra modum in Septentrionem excurrit»23. 19 La mappa del Periplo dell’Oceano occidentale e settentrionale di Marciano, disegnata da Müller nel III tomo dei Geographi Graeci minores (tav. XXIX), si rifà dichiaratamente alle notazioni cartografiche di Tolomeo («in iis Ptolemaei codicibus, quos exprimere solet Marcianus») e perciò presenta anche il robusto prolungamento dei Pirenei noto come «promontorio di Oiasso». 20 Tolomeo, autentico pioniere in questo campo, era peraltro ben cosciente della provvisorietà dei suoi dati, cfr. Geogr., II, 1, 23, e PRONTERA 2001, col. 209. 21 Sulla prima fase della tradizione manoscritta delle mappe vedi DILLER 1940. 22 L’ultimo esempio noto è in STÜCKELBERGER-GRAßHOFF 2006, II, tav. Europa II. 23 MERCATORE 1578, p. 2.

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Parte quarta. La chiave della falsificazione

* C’è poi un altro esemplare, che è stato riconosciuto da Diller come un mero apografo, per i fogli iniziali che recano Tolomeo, dell’importante Vaticano Urbinate greco 82, ma la cui vicenda merita ugualmente di essere qui ricordata: si tratta del Vatopedi 655 (XIV sec., siglato L). L’aspetto attuale del manoscritto, rispecchiato dal facsimile edito a Parigi nel 1867 da P. Sebastianoff e V. Langlois, per cui la mappa dei Pirenei – con il suo caratteristico ”sperone” del promontorio di Oiasso24 –, figura all’inizio dell’atlante, rischia di essere fuorviante. Le prime due mappe, cioè la mappa dell’ecumene e quella delle isole britanniche, e il verso della mappa della penisola iberica, furono infatti asportati assieme ad altre porzioni di testo verso la metà del XIX secolo e costituiscono oggi i ff. 14-21 dell’Addit. 19391, che appunto terminava con la mappa della Iberia occidentale, al f. 21v. Il composito manoscritto di contenuto geografico, che nei fogli precendenti reca altri testi trafugati dal Vatopedi 655 (geografi minori), fu acquistato nel 1853 dal British Museum. Il venditore, nonché autore della indebita asportazione dall’Athos, era il noto falsario greco Costantino Simonidis25.

24 Ma il disegnatore commette un errore ponendo la polis Oiasso ben al di sotto del parallelo XLV, in contrasto con la latitudine indicata da Tolomeo (45° 05'). 25 Tutta la vicenda del Vatopedi 655 è raccontata da DILLER 1935. Cfr. inoltre DILLER 1952, pp. 10-14. Vedi infra, cap. XXII.

XIV RILEVAMENTI E MISURAZIONI

Strabone attesta che, secondo Artemidoro, la distanza tra Gades e il «promontorio sacro» (iJero;n ajkrwthvrion) era di «non più di 1700 stadi» (III, 2, 11). E attesta anche che Artemidoro affermava l’esattezza di tale misura in polemica contro Eratostene, il quale invece sosteneva esserci una distanza di «cinque giorni di navigazione» tra Gades e il promontorio. Un giorno di navigazione era considerato equivalente a mille stadi: dunque Eratostene dava una distanza di gran lunga superiore, ma errata. Peraltro Artemidoro diceva anche che il promontorio sacro «aveva la forma di una nave» (Strabone, III, 1, 4: ΔArtemivdwro~ eijkavzei ploivw/) e rivendicava di esserci stato di persona (ibid.: genovmeno~, fhsivn, ejn tw/' tovpw/). Invece, nel papiro la distanza tra Gades e il promontorio sacro risulterebbe di per lo meno 2200 stadi (= 120 + 684 + 280 + x + 24 + 70 + 992). È difficile che Artemidoro proprio su questo punto si contraddicesse in modo così clamoroso. Ben si sa quanto sia delicata la tradizione dei numerali. E tuttavia le difficoltà non finiscono qui. Un altro dato certo, delle misurazioni di Artemidoro, lo abbiamo da Plinio (II, 242), e riguarda la distanza tra Gades e il promontorio Artabro: «Artemidorus adicit amplius, a Gadibus circuitu Sacri promunturii ad promunturium Artaóóóóóóó brum, quo longissime frons procurrat Hispaniae, DCCCCXCI ·D»: «Artemidoro aggiunge ancora 991,5 miglia come distanza da Cadice fino al promontorio Artabro, sporgenza estrema della costa spagnola, facendo il giro del promontorio Sacro» (trad. Alessandro Barchiesi). Questo dato è confermato da una fonte greca, la cui coincidenza verbale con le parole di Plinio ci assicura che anch’essa deriva da Artemidoro. Si tratta di Agatemero, autore del quale sappiamo ben poco al di là di ciò che si ricava dalla sua opera superstite,

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Parte quarta. La chiave della falsificazione

nella sua Geographiae informatio (IV, 16): ajpo; Gadeivrwn de; dia; tou' iJerou' ΔAkrwthrivou kai; ΔArtavbrwn limevno~ stavdioi ZtlB BbB [= V 7332], secondo la cifra tramandata nell’unico testimonio (Vatopedi 655, XIV sec.)1. Invece nel papiro la distanza da Gades al promontorio Artabro (o degli Artabri) è di al massimo 5500 stadi (tenuto conto anche, e con un calcolo per eccesso, della lacuna relativa alla distanza tra il fiume Minius e il promontorio Artabro). Insomma la divergenza è pesante e riguarda sia Plinio che Agatemero. Forse però all’origine c’è un equivoco. Infatti in una parte della tradizione manoscritta di Plinio la cifra relativa alla distanzaóóó tra óóó Gades e il promontorio Artabro reca un cenó tum (= C) in meno: DCCCXCI B, cioè cento miglia, dunque 150 km, cioè 750 stadi di meno. L’erronea cifra implicante 100 miglia in meno è smentita da Marziano Capella (che, citando Plinio, dà óóóóóóó DCCCCXCI miglia) ed è smentita anche dalla coincidenza tra Agatemero e Plinio. Però questo chiarimento, che fu merito di Detlefsen (1883), e fu recepito da Mayhoff nella sua fondamentale edizione pliniana2, era ancora ignoto a Stiehle, quando mise insieme i frammenti di Artemidoro, in «Philologus» del 1856. In realtà non mancano contraddizioni nell’ambito stesso delle “distanze” indicate nel papiro. Un caso quasi incomprensibile è la distanza tra il promontorio di Afrodite Pirenaica ed Emporium: 332 stadi (eppure la distanza è minuscola), a fronte della distanza tra la foce del Durius e quella del Lethe: appena 180 stadi (addirittura la metà dell’altra misura, sebbene la distanza tra le foci dei due fiumi sia di gran lunga superiore a quella, minuscola, tra promontorio di Afrodite ed Emporium). Le maggiori soddisfazioni sembrava dovesse darle la colonna V e ultima, nei cui ultimi 28 righi finalmente viene snocciolato un periplo (paravplou~), e sia pure in «epitome», della Spagna. Ma lo studio più ravvicinato dei dati contenuti in quelle tormentate e malridotte linee si è rivelato fonte di delusione e di dubbi. Un 1 Cfr. edizione di DILLER 1975b, p. 64. Se si adotta lo stadio alessandrino (circa 190 m) ovvero quello filereto (circa 210 m) si ottengono circa 1470 km, cioè una cifra molto vicina alle 991 miglia di Plinio. Se si corregge 7732 in 7932, come suggeriscono i moderni editori di Agatemero, la coincidenza con Plinio diventa puntuale. 2 MAYHOFF 1906, p. 224.

XIV. Rilevamenti e misurazioni

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caso clamoroso è costituito dalle indicazioni delle distanze in stadi (diasthvmata). Avevamo segnalato la cosa in «QS», 64 (p. 52), e ora vediamo con animo lieto che la stessa osservazione viene fatta nella redazione a stampa dell’intervento Kramer (marzo 2005) diffuso nel novembre-dicembre 20063: «Il totale di 2256 per la costa da Gades alla punta del promontorio sacro, sorpassa di 556 stadi la misura di 1700 stadi, che, secondo Strabone [III, 2, 11], proprio Artemidoro dava per questa distanza» (p. 103). Dinanzi alla pesante aporia, Bärbel Kramer si lascia andare a calcoli che dovrebbero – ma non ci riescono – accorciare la distanza tra le due cifre: purtroppo è costretta a mettere a frutto anche la «distancia desconocida entre Onoba y Mainoba», senza rendersi conto che l’aggiunta di una ulteriore distanza amplierebbe il divario anziché ridurlo. Sia qui consentita una notazione personale dovuta alla passione per i diastémata, che condividiamo con il vero Artemidoro. Avevamo segnalato, nello stesso articolo, un’altra “distanza” certa che Plinio (II, 242) leggeva in Artemidoro: «991,5 miglia [= 7732 stadi secondo Agatemero, IV, 16] tra Gades e il promontorio degli Artabri». Mostrammo che le distanze fornite dall’“Artemidoro del papiro” per lo stesso tratto danno 5500 stadi. (Notammo anche che, per errore, le edizioni di Plinio anteriori a Detlefsen davano qui un numerale con 100 miglia di meno, il che portava a una cifra vicinissima ai 5500 stadi comunque smentiti da Agatemero fedele epitomatore di Artemidoro). Aspettavamo anche su questo punto un cenno. Pazienza se non c’è stato. Ma, come spesso accade, è passata inosservata la cosa più macroscopica: che cioè – testibus Plinio et Agathemero – Artemidoro dava quel diavsthma complessivo da Gades al promontorio degli Artabri. Orbene come mai questo dato, che è per eccellenza un dato degno di rientrare tra i «diasthvmata da considerare kaqwlikw'~» come recita il preannunzio del paraplous (col. V, 15-16) tanto più che viene fornito l’omologo (7084 stadi dai Pirenei a Gades), manca nell’Artemidoro del papiro? E manca nell’unico luogo dove ci sarebbe da aspettarselo, cioè qui, dove viene fornita l’analoga indicazione, relativa ai 7084 stadi dai Pirenei a Gades (col. V, 25-26), rafforzata, con sublime pleonasmo, dalla distanza dai Pirenei al porto di Menesteo (7170 stadi: V, 27-28). Eppure 3 KRAMER 2006. La data esatta di pubblicazione si ricava da una gentile comunicazione del principale curatore del volume Gonzalo Cruz Andreotti del 23 ottobre 2006 (“acabamos de editar”).

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Parte quarta. La chiave della falsificazione

da Plinio apprendiamo che Artemidoro la dava quella distanza complessiva, e non poteva che darla qui. Ma le ragioni di amarezza si moltiplicano a guardare da vicino quelle distanze. Sempre nel saggio, per più versi autocritico, del 2006 (è il saggio degli «extractos»), Bärbel Kramer cerca una qualche conferma dei numeri non poco fantasiosi del finale della quinta colonna istituendo un raffronto con il Mare esterno di Marciano. Sceglie un dato: «A partire dalle foci del fiume Ana fino alla punta del promontorio sacro e fino al punto estremo 992 stadi» (V, 34-36). ° B. Nel papiro il numero è abbastanza nitido [V, 36]: Il primo segno viene dagli editori interpretato come un sampi (cioè 900). Partiamo, dunque, dal presupposto che qui ci sia il numero 992. Quale termine di raffronto viene assunto l’inizio del capitolo II, 10 del Mare esterno. Qui Marciano – come usa fare avendo teorizzato che i suoi predecessori avevano fornito solo cifre riduttive «come se le avessero prese con la corda (scoivnw/)» – dà sempre due misure, quella di chi davvero misura costeggiando e la misura “lineare”, ovviamente ridotta rispetto all’altra. In II, 10 dà appunto, suddividendola in tre segmenti, la distanza dall’Ana al Promontorio: Ana  Balsa 380 stadi (...)4 Balsa  Ossonoba 340 stadi (300) Ossonoba  Promontorio 360 (260)5. Il risultato sarebbe dunque o 1080 o (eventualmente) 800. In ogni caso nettamente difforme da quei 992 stadi. Dei quali autoconsolatoriamente Bärbel Kramer afferma che coincidono «más o menos» con le misure di Marciano (p. 104). Tra l’altro, se dobbiamo prestar fede a Marciano, la distanza che Artemidoro avrà indicato sarà stata quella minore: dunque il divario è davvero consistente. Un’attenzione speciale meriterebbe il presunto sampi. Esso ricorre varie volte nella seconda parte della colonna quinta, ora da solo ora sovrastato da un moltiplicatore (A, B...). All’incirca nella forma in cui ricorre nel papiro, lo troviamo in verità soltanto in uno dei cosiddetti papiri di Elefantina (documento 1: tre volte e unicamente sovrastato da A = 1000). È dunque chiaro che l’Artemidoro del papiro ha voluto adope4 5

Lacuna, Müller integra 240. GGM, I, p. 547, 1-6.

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rare il simbolo per indicare 1000 e col suo 1092 è andato molto vicino al 1080 del calcolo “largo” di Marciano (senza rendersi conto che per Marciano il calcolo “largo” era quello suo, non quello dei suoi predecessori). Un’unica volta, però, questo Artemidoro del papiro ha voluto avventurarsi anche lui sul terreno dei calcoli di distanza «in linea retta». Ciò sembra essere accaduto (se la ricostruzione è corretta) ai righi V, 32-33: th'~ ajcqeivsh~ eujqeiva~ e{w~ tovpou ou| hJ povli~ Kilivbh. Ma questo, purtroppo quasi non sembra greco. Basti considerare quel curioso e{w~ tovpou ou| 6. Forse intendeva dire ajcqeivsh~ th'~ eujqeiva~ e{w~ Kilivbh~? Invece Marciano dice ad esempio: kata; grammh;n uJpoteivnousan (GGM, I, p. 545, 2-3). Il presupposto – come s’è accennato – dovrebbe essere quello, caro a Marciano, secondo cui le distanze variano se si calcolano seguendo la costa o invece in “linea retta”. Reiteratamente Marciano rimprovera i suoi predecessori – e in primis lo stesso Artemidoro – perché non hanno saputo distinguere tra le due diverse (a volte molto diverse!) misurazioni. Marciano ne parla sia nel prologo del Mare esterno (I, 2), sia nel prologo del Menippo (§ 5). È molto circostanziato su questo punto e la sua testimonianza riguarda pavnte~ o{soi perivplou~ e[grayan (GGM, I, p. 567, 37) ovvero oiJ peri; touvtwn spoudavsante~ (I, p. 517, 19), e in particolare Artemidoro, la cui opera è stata appena descritta sia nell’una che nell’altra praefatio. «Hanno fornito le distanze – protesta – come se avessero misurato il mare con una fune!» (I, p. 517, 20-21). «Quando si tratta di golfi e promontori – incalza nella prefazione al Menippo – alcuni hanno seguito la costa da vicino, altri tenendosene più discosti» (I, p. 567, 44-46). Di qui le contraddizioni e le divergenze tra gli autori precedenti Marciano. Perciò Marciano, di tanto in tanto, fornisce due misurazioni. Nel rifacimento del Menippo (§ 8 Bitinia)7, la distanza tra il tempio di Zeus Urios ed Eraclea (patria di Marciano) è fornita due volte (I, p. 569, 27-29): 1) OiJ pavnte~ ajpo; ÔIerou'' Dio;~ Oujrivou eij~ povlin ÔHravkleian eijsi; stavdioi ÀaflV [= 1530]. 2) ejp’eujqeiva~ de; plevonti [per chi navighi invece seguendo una linea retta] ajpo; tou' iJerou' eij~ ÔHravkleian povlin stavdioi ÀasV [= 1200].

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Espressione ricalcata sull’ebraico e perciò presente nella tradizione dei LXX. Che è un lungo frammento.

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Alquanto dopo (§ 9 Paflagonia) la distanza tra capo Carambis e Sinope è fornita unicamente col secondo tipo di indicazione: ’Apo; de; Karavmbido~ a[kra~ plevonti ejp’eujqeiva~ eij~ Sinwvphn stavdioi Y [= 700]. È alquanto sconcertante che l’autore del papiro abbia voluto trasferire proprio ad Artemidoro (che invece «peccava», a giudizio di Marciano, in questo campo) tale distinzione e tale genere di misurazione. Per giunta creando la goffa rielaborazione della formula adoperata da Marciano. Infatti, creando th'~ ajcqeivsh~ eujqeiva~ (che comunque dovrebbe essere ajcqeivsh~ th'~ eujqeiva~ ovvero th'~ eujqeiva~ ajcqeivsh~), adotta eujqeiva (scil. gravmmh)8 ma ha presente contemporaneamente anche l’immagine dell’altro proemio: «Hanno misurato come se adoperassero una corda»: a[gein th;n eujqeivan, «tirare (tracciare) una linea retta». E siccome Marciano adopera in due soli casi, su decine e decine di misurazioni di distanze (diasthvmata), la misurazione ejp’eujqeiva~, così anche l’autore del papiro – che del modello Marciano ha fatto tesoro – inserisce una sola volta tale misurazione nel suo pastiche. Ma si è ulteriormente tradito creando un’espressione impossibile o meglio ricalcata su uno stilema proprio dei LXX: e{w~ tovpou ou| hJ povli~ Kilivbh9. L’espressione è almeno incongrua in un contesto nel quale e{w~ regge ogni volta direttamente il toponimo persino quando si tratta di indicazioni decisamente approssimative come «fino al fiume Baetis» o simili (fino a quale delle due rive del fiume?). Ovvia e scontata l’imprecisione, che però fa risaltare ancora di più l’apparente precisione del «luogo in cui si trova la città di Cilibe». Nel fr. 21 il nostro autore aveva trovato e{w~ tw'n kata; Gavdeira tovpwn, ma forse non aveva ben chiaro che lì il senso è «la costa che sta di fronte a Gades». Il fatto è che il nostro autore del papiro, pur nominando varie volte Gades non la definisce mai come «isola» (mentre si spreca potamov~ vicino ai nomi di fiumi e povli~ vicino ai nomi di città). Non vorremmo che la moderna trasformazione geologica di Gades da isola in penisola avesse giocato un ruolo insidioso in questa prudente, sistematica elusione della definizione di Gades. E temiamo fortemente che il nostro autore abbia inteso oiJ kata; Gavdeira tovpoi come «i luoghi dov’è Gades»: donde l’ineffabile «luogo dove si trova la città di Cilibe». «Linea retta». Sempre che la ricostruzione di questo malridotto rigo sia fondata. Certa sarebbe la successione [e{]w~ t[. L’articolo dinanzi a tovpou è indispensabile. 8 9

XIV. Rilevamenti e misurazioni

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La domanda è in effetti legittima: dove si trova la città di Cilibe? Inizialmente questo toponimo suscitò eccitazione. Nel Tre vite viene presentato come un pregio speciale del papiro il fatto che esso offra «nomi di città, Ipsa e Kilibe, che prima conoscevamo solo da leggende monetali» (p. 91)10. Affermazione sconcertante, visto che nessuna moneta reca quelle due leggende11. Ma la cautela cominciava intanto a farsi strada. Bärbel Kramer nel 2005 scriveva: «Non abbiamo potuto proporre alcuna identificazione convincente»12. E aggiungeva: «Nella letteratura antica non è attestata una città chiamata Kilibe. Il nome non lascia dubbi sul fatto che essa derivi dai Cilibitani, la cui ubicazione nel territorio della penisola iberica non si conosce esattamente» (p. 28). Avrebbe potuto aggiungere che l’attestazione letteraria di Cilibitani è nota e autorevole. Si tratta di Plinio, IV, 118, dove Cilibitani è variante del miglior manoscritto (A) ma relegata in apparato in favore di Cibilitani. Il luogo di Plinio è particolarmente significativo ai nostri fini poiché ivi si trovano nella stessa pagina (IV, 115-118) tutti insieme i toponimi riguardanti la Betica e la Lusitania presenti nel papiro: Minius (fiume), Limaea, Oblivionis (flumen), Durius, Tagus, Anas, Gades, Sacrum promunturium, Salakia, Ossonoba, Cilibitani/Cibilitani 13. Sia ben chiaro, non esiste alcuna attestazione numismatica di Kilibe (o Cilibe). Chi vuole può collegare Cilibitani/Cibilitani a CILPES, leggenda di monete14 connesse da Hübner e da altri ai Cilbiceni (Avieno, Or. m. 255) situabili, con la consueta approssimazione che affligge questo genere di deduzioni, «zwischen Carteia und Gades»15, cioè addirittura al di qua di Gades e dunque molto al di qua del fiume Anas, laddove la coppia Ipsa-Kilibe del papiro si troverebbe molto al di là dell’Anas. Ragion per cui recentissimamente Antonio Marques de Faria (2006) ha scritto: «sempre in attesa dell’editio princeps del pa10 Quanto è scritto in questa pagina va considerato con la massima attenzione perché l’autrice di quella frase è uno dei pochissimi privilegiati che dispongono dell’edizione critica del papiro (la cita 18 righi prima), tuttora introvabile. 11 Per IPSES si è indotti addirittura a ipotizzare un genitivo mentre CILPES sarebbe nominativo. 12 KRAMER 2005, p. 27. L’osservazione vale sia per IYA che per KILIBH. 13 Per Cilibitani (e Cilpes) vedi anche MARQUES DE FARIA 2006, p. 219. Per la buona conoscenza di Plinio e altre fonti latine da parte di Simonidis, cfr. SIMONIDIS 1864a, p. 19. 14 GARCÍA-BELLIDO 2004, vol. II, p. 106. 15 HÜBNER 1899b, col. 2544.

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piro di Artemidoro non possiamo comunque seguire la interpretazione ancora preliminare di Bärbel Kramer, la quale attribuisce al geografo di Efeso, nel libro II dei suoi Geographoumena, la localizzazione di Kilivbh sulla riva sinistra [cioè a est] della foce del fiume Anas, nella futura Hispania Baetica» (p. 219). Sulla base degli studi di Amilcar Guerra16, Antonio Marques de Faria considera ormai assodato ciò che già la tradizione manoscritta di Plinio rendeva evidente, che cioè la variante da preferire in Plinio, IV, 118 è Cilibitani. Se ne deduce che Cilibe non può che essere toponimo derivato da Cilibitani, e che dunque non può che trattarsi di una delle 27 Civitates stipendiarie presenti in Lusitania di cui appunto Plinio lì sta parlando17. Pertanto la collocazione in Betica sarebbe comunque insostenibile. Perciò nel 2006 Bärbel Kramer scrive ormai: «L’identificazione è problematica, perché i luoghi di ritrovamento delle monete sono sulla costa dell’Algarve mentre le città del papiro (IYA, KILIBH) si situano a Est del fiume Guadiana [= Anas]»18. Visto tutto quello che ormai sappiamo sulla maniera di procedere dell’autore di questo papiro, come non vedere che la spiegazione più ovvia di questa contraddizione – nella quale la nota stonata è appunto la localizzazione – sarà che l’autore ha fatto capo al passo di Plinio dal quale però non è per nulla agevole dedurre una esatta localizzazione dei Cilibitani? Oltre tutto non è affatto detto che ai Cilibitani corrispondesse senz’altro una «città» (povli~ curiosamente nel papiro è detto solo per “Iya e Kilivbh): Plinio nomina svariate città della zona ma per i Cilibitani si limita a indicare il nome di una popolazione! Tale presunta città non figura né in Marciano né in Mela né altrove. Dunque è l’autoschediasmo la spiegazione più ovvia19. Il caso di Marciano merita una segnalazione. Come si è più volte detto, dopo l’Epitome di Artemidoro – da lui “ridotta” a periplo del mare interno e per noi perduta – egli diede vita a un’opera sua originale: il Mare esterno, che è conservata. Qui egli dedicò un ampio Apparsi nel decennio tra il 1995 e il 2005. Questa nozione era largamente diffusa in opere di consultazione di agevole accesso e di uso comune, quale ad esempio l’Encyclopédie méthodique (tratta da quella di Diderot e D’Alembert): Géographie ancienne, t. I, Paris-Liège 1788, p. 49: «Cibilitani: peuple que Pline place dans la Lusitanie». 18 KRAMER 2006, p. 104. 19 Per la creazione di toponimi da parte di Simonidis nel Periplo di Annone vedi infra, cap. XVIII, § 1. 16 17

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saggio alla Betica “atlantica” e alla Lusitania. Va da sé che per entrambe avrà usato Artemidoro, suo autore prediletto e largamente utilizzato. La lista di toponimi e di diasthvmata è amplissima (GGM, I, pp. 544-548). Ma di Ipsa e di Kilibe neanche l’ombra. Non vorremmo addentrarci troppo in profondità nell’esame della teoria secondo cui POLIN IYAN del r. 32 della col. V del papiro avrebbe a che fare con le monete nella cui leggenda figurano IPSES ovvero IPSIS. Ma il buon senso esige qualche precisazione. L’Artemidoro del papiro dice che: 1) dal Baetis a Onoba ci sono 280 stadi; 2) da Onoba a Mainoba [assurdo ma non importa qui] stadi; 3) da Mainoba a IPSA 24 stadi; 4) da Ipsa all’estuario del fiume Anas, dove sorge KILIBE, 70 stadi calcolando – chissà perché solo questa volta – in linea retta; 5) e, finalmente, dalla foce dell’Anas al promontorio sacro i già ricordati 992 stadi. Invece, delle poche monete di piombo recanti sul recto una testa maschile (ovvero una testa di Hercules-Melkart e la scritta MARIUS) e sul verso un delfino (ovvero un Cupido sul delfino) e la scritta IPSES, una è stata trovata nel corso di uno scavo a Vila Velha (Alvor). «É natural – commenta Marques de Faria – que IPSES se identifique con este sítio arqueologico» in quanto la moneta di piombo è «absolutamente local» e la sua circolazione è estremamente limitata20. Orbene Alvor è di molto a ovest della foce del Anas (odierno Guadiana): è quasi alla punta del capo São Vicente (cioè del Promontorio sacro)21. Perciò IPSES non può aver nulla a che fare con POLIS IYA. Oltretutto è arbitrario pensare che la leggenda IPSES sia un genitivo22. L’assonanza IPSA/IPSES che è alla base del castello di carta è davvero flebile; tanto da sollecitare – chi voglia cimentarsi in siffatti esercizi – verso altri più o meno fantasiosi accostamenti. Per esempio con IPSCA (odierna Castro el Rio, in Beti-

MARQUES DE FARIA 1988, pp. 101-104 (specie 103-104). VILLARONGA 1994, p. 422 colloca IPSES «en Vila Velha, Alvor Potimao (Portugal)», e così anche MARQUES DE FARIA 1997, pp. 361-371. 22 Genitivo di un toponimo latinizzato? 20 21

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Parte quarta. La chiave della falsificazione

ca)23 immortalata in una magnifica epigrafe (CIL, II [1869], 1572) che era già nota, commentata e trascritta da Henrique Florez (1747, p. 13, n. 25)24.

23 Non è sulla costa, ma neanche la erronea Mainoba di Strabone “ereditata” dal papiro lo sarebbe. 24 Florez, grandissimo antiquario settecentesco, aveva anche trattato della moneta con leggenda GILI, che qualche audace metterebbe in relazione con Kilibe (FLOREZ 1758, p. 447).

Parte quinta ARTEMIDORO «BIZANTINO» di Luciano Bossina

XV ARTEMIDORO BIZANTINO. IL PROEMIO DEL NUOVO PAPIRO

«Il giudizio, come l’interpretazione, deve riferirsi anzitutto agli elementi linguistici» A. Boeckh

Antefatto. La geografia del vescovo

Eustazio si fece attendere. Giovanni Dukas, figlio di un importante funzionario imperiale, gli aveva espressamente richiesto un commento alla Periegesi di Dionigi, un’opera geografica in uso nelle scuole, composta in esametri, e adatta per questo a coniugare scienza e letteratura, secondo un principio assai caro all’educazione scolastica bizantina. Ma Eustazio aveva indugiato, e col passare del tempo gli parve che ormai il suo commento sarebbe stato superfluo: Giovanni era cresciuto, la sua cultura letteraria e scientifica si era approfondita, e dunque non avrebbe più avuto bisogno delle sue spiegazioni. Per di più in quel torno di tempo egli era impegnato nella stesura dei suoi enormi commentari a Omero, monumento perenne alla sua dottrina, e strumento di esegesi omerica di secolare fortuna. Alla fine, nonostante tutto, Eustazio mantenne l’impegno e pubblicò il suo dettagliato, non poco prolisso Commento alla Periegesi di Dionigi. Siamo attorno all’anno 1165. Come ogni testo scolastico, l’opera di Dionigi si prestava bene al commento, e così pure all’aggiornamento. Ma Eustazio, per sua stessa ammissione, si dedicò al primo, non al secondo: nella lettera pre-

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Parte quinta. Artemidoro «bizantino»

fatoria, anzi, egli afferma esplicitamente di non aver voluto correggere tutti gli errori o le manchevolezze di Dionigi. È tuttavia interessante osservare che quello che nel XII secolo non volle fare Eustazio, farà poi invece, all’inizio del XVIII, un suo lontano epigono oxoniense, Edward Wells, come lui classicista e insegnante, e come lui uomo di chiesa. Perché Wells, precoce editore di Senofonte, e autore di fortunati volumi sulla geografia del Nuovo e dell’Antico Testamento, non resistette alla tentazione di «correggere e completare» Dionigi, e lo interpolò, in pregevole greco, di decine e decine di versi non suoi, facendogli così descrivere terre che difficilmente l’antico periegeta avrebbe potuto anche solo immaginare: l’America, la Cina, il Giappone1. Nessuna sorpresa, ad ogni modo, che il Dukas si fosse rivolto a Eustazio: egli era in quel momento, insieme con Tzetzes, il più autorevole mediatore tra l’antica poesia greca e il nuovo pubblico cristiano, certo affamato di cultura classica, ma assai suscettibile in fatto di religione. Di Dionigi, di Pindaro e soprattutto di Omero, Eustazio è dunque l’interprete a cui si chiede un’esegesi minuta, didattica, ma pienamente avvertita della difficoltà di rivolgersi a un pubblico abituato da secoli a considerare i miti greci perniciosi, o alla men peggio ridicoli. Eustazio sperimenterà per questo un vero e proprio lessico della «sanatela»2: il mito greco va sanato, curato. L’allegoria lo cauterizza. L’esegesi diventa nelle sue mani il potente farmaco antirigetto che permette al mito di integrarsi nel complesso organismo dell’ortodossia cristiana. Certo alle spalle il vescovo aveva una ricca tradizione di scolii, di cui si servì abbondantemente: segno della lunga fortuna scolastica di Dionigi. Ma accanto ad essi egli pose, come interlocutore stabile delle sue interpretazioni, una fonte cui attribuiva la massima attendibilità: Strabone. Strabone è un’autorità assoluta agli occhi di Eustazio: per lui è semplicemente «il Geografo», come di Gregorio Nazianzeno si diceva a Bisanzio «il Teologo». E non solo nel Commento a Dionigi, che è opera specificamente geografica, ma anche nei commenti a Omero. Nel comporli in contemporanea, si vede bene che egli aveva sotto gli occhi gli stessi passi, che procedeva, dall’una all’altra opera, con gli stessi collegamenti mnemonici. Le sue citazioni della Geografia sono innumerevoli, e rappresentano per questo un testimone prezioso anche per la critica del testo. Eustazio 1 2

JACOB 1990, pp. 239-265. CESARETTI 1991, pp. 222 ss.

XV. Artemidoro bizantino. Il proemio del nuovo papiro

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citava Strabone ovunque possibile: persino nella sua corrispondenza, persino in un elogio dell’imperatore Manuele Comneno3. A seconda dei contesti mutava naturalmente la misura e soprattutto l’obiettivo del recupero. Nel Commento a Dionigi si apprezza già nelle pagine iniziali, dove il vescovo riflette, per il suo giovane committente, sui rapporti tra geografia e filosofia. È questo un tema perfettamente straboniano: un tema chiave nei suoi ampi e straordinari Prolegomena per fondare la dimensione filosofica della propria disciplina. Quando Eustazio si trova dunque a introdurre il lettore nell’opera geografica di Dionigi, non può fare a meno di sottolineare, con Strabone, la convergenza delle due scienze, benché egli debba subito provvedere a disinnescare un possibile cortocircuito ideologico. Come ogni dotto bizantino, e a maggior ragione come teologo, Eustazio è infatti abituato a riflettere sui rapporti, non sempre pacifici, tra le scienze profane e il magistero cristiano, in un’epoca in cui, come dimostrano le disavventure di Michele Psello o di Giovanni Italo, non sempre tra filosofia e teologia si era disposti a riconoscere una fratellanza. Tutte giocate sullo scivoloso crinale della retorica, egli comincia per questo a introdurre delle precise attenuazioni, che forse Strabone non avrebbe approvato, ma che dovevano rassicurare gli scrupoli del lettore bizantino, per il quale la parola filosofia non suscitava necessariamente un consenso incondizionato. Egli non deroga quindi sull’intima connessione di geografia e filosofia, ma ne calibra diversamente il giudizio. Alleate nei metodi e nei presupposti, esse sono però complici anche nell’«audacia». Audace è la filosofia che pretende di spiegare il cielo, audace è la geografia che pretende di spiegare la terra. Audace è l’idea stessa di tracciare una mappa, di disegnare una carta: «tanto spazio di terra in così poco spazio». Eustazio accoglie dunque l’idea chiave che aveva ispirato la Geografia, e parimenti ripeterà del suo «Geografo» la nobile genealogia filosofica: dovrà però adattare questi principi, e questo lessico, alle categorie della sua epoca. Ma Strabone godeva agli occhi di Eustazio di un’altra particolare virtù: era un convinto estimatore di Omero. E questo spiega perché egli ricopra un ruolo tanto importante non solo nel commento squisitamente geografico a Dionigi, ma anche nel commenti all’Iliade e all’Odissea. Strabone, che crede a Omero, che crede cioè nell’Omero geografo, e lo difende dalle critiche di Eratostene, consente infatti a Eustazio di trasportare il vasto immaginario omerico, e in particolare odissiaco, oltre il muro di sospetto che limitava l’attendibilità del mito e la sua ricezione. 3

AUJAC-LASSERRE 1969, p. LXVIII.

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Strabone diventa in questo modo un filtro che favorisce l’assimilazione di Omero nella cultura cristiana. Ma il favore è vicendevole, e l’uno beneficerà della fortuna dell’altro. Così, nel garantire a Omero un nuovo viatico tra i lettori bizantini e poi neogreci, Eustazio favoriva parimenti la fortuna di Strabone, perpetuandone il magistero, e garantendone, anche nella tradizione manoscritta, una rinnovata posterità4. L’asse Strabone-Eustazio rimarrà dunque esemplare, e traccerà le linee di un’intesa che avrà propaggini lunghissime, e fors’anche inaspettate, nella storia della geografia in lingua greca. Ancora molti secoli dopo, in un mondo che avrà conosciuto Copernico dopo Tolomeo, e che avrà davvero scoperto l’America, la Cina e il Giappone, la lezione dell’antica geografia classica e poi bizantina continuerà a parlare ai Greci attraverso i volti, mai invecchiati, del «Geografo» e del vescovo. 1. Il silenzio di Strabone A leggere le prime due colonne del nuovo papiro vien subito di porsi una domanda: se questo, com’è stato definito, «magniloquente proemio»5 è davvero del geografo Artemidoro di Efeso, perché Strabone ne tace completamente nei suoi Prolegomena? La domanda non piacerà ai nemici degli argomenti ex silentio. Ma i silenzi di una fonte sono spesso parlanti, soprattutto se infrangono una norma che non ci aspetteremmo di veder violata. A questa domanda se ne aggiunge un’altra, frequentemente dibattuta dai filologi: che cosa contenevano i perduti Geographoumena di Artemidoro e com’era distribuito il materiale da lui raccolto? Questo problema, che è ovviamente uno dei più rilevanti nell’opera del nostro geografo e che ha ricevuto nel tempo risposte assai differenti, interessa qui soltanto per determinare la nostra consapevolezza dinanzi alle prime colonne del nuovo papiro, e dunque non ci inoltreremo troppo nel discuterlo. Ricorderemo soltanto che l’esistenza di una «introduzione» (einleitung) era già stata ipotizzata da Stiehle a seguito del riordino sistematico dei frammenti. Stiehle ipotizzava che Artemidoro avesse iniziato la descrizione regionale vera e propria soltanto nel secondo libro, raccogliendo nel primo alcune generali determinazioni della grandezza della terra (allgemeine mass4 5

DILLER 1975a. GALLAZZI 2006, p. 17.

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bestimmungen der erde) e una complessiva presentazione del piano dell’opera6. È dunque significativo che Stiehle, pur mantenendosi assai prudente per «mancanza di frammenti», non abbia preso neanche in considerazione l’ipotesi che in questa einleitung potesse figurare una qualche riflessione di tipo filosofico sui compiti e i presupposti della scienza geografica, che è invece il carattere predominante e volutamente esibito del proemio del papiro, «in cui l’autore» – come scrive Gallazzi – «si sofferma sulle caratteristiche della geografia e sul lavoro del geografo», proclamando «con convinzione che la geografia è accostabile alla filosofia, dal momento che sia l’una sia l’altra scienza richiedono estremo rigore intellettuale etc.»7. Quello che Stiehle sottintendeva in forma implicita è stato reso esplicito da Gerd Hagenow in una dissertazione discussa a Göttingen nel 1932 sotto la guida di Max Pohlenz. Con argomenti di chiarissima evidenza, che meritano di essere riferiti alla lettera e coi quali torniamo appunto a Strabone, Hagenow ha recisamente escluso l’ipotesi che Artemidoro abbia potuto dar forma nel suo proemio a una riflessione di carattere filosofico sulla geografia quale troviamo invece nel papiro. È importante il fatto che Strabone non abbia mai condotto contro Artemidoro una discussione scientifica nel suo complesso (eine allgemein wissenschaftliche Diskussion gegen Artemidor) e che non lo abbia mai menzionato là dove egli espone la sua concezione matematica della geografia e i suoi problemi; che egli non dica nulla su come Artemidoro concepisse la geografia, nulla sulle innovazioni cartografiche che lo avrebbero reso famoso. Per la propensione di Strabone alla polemica, di cui altrimenti dà prova, per il suo interesse per i problemi della geografia nel suo complesso e per l’ampiezza con cui egli si confronta su queste questioni con le sue fonti, e in particolare con Ipparco ed Eratostene [...], si può trarre ex silentio la conclusione che l’opera di Artemidoro non fornisse sotto questo aspetto alcun motivo né di conferma né di smentita o correzione: vale a dire che Artemidoro di questi problemi non si interessò8.

L’osservazione di Hagenow coglie il punto cruciale della questione, e svela la fondamentale difficoltà che si prova a leggere il proemio del papiro. In queste colonne – al di là dell’attendibilità linSTIEHLE 1856, p. 197. GALLAZZI 2006, p. 17. 8 HAGENOW 1932, p. 132. Il corsivo è mio. 6 7

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guistica e concettuale di alcune formulazioni – noi abbiamo infatti a che fare con una riflessione teorica di notevoli ambizioni, e oltretutto significativamente affine ai temi e agli intenti dei Prolegomena di Strabone. Tanto per “Artemidoro” quanto per Strabone riflettere sui fondamenti stessi della geografia significa infatti riflettere sui nessi profondi ch’essa presenta con la filosofia. Principio, questo, di grande innovazione teorica, la cui validità sarà ripresa a ribadita, proprio per filtro di Strabone, anche dal lontanissimo Eustazio. Le primissime parole con cui il geografo augusteo apre la sua opera sono non a caso finalizzate a dimostrare che la geografia «rientra nei compiti del filosofo». Il che avviene in forma pressoché identica anche nel nostro “Artemidoro”, pronto a porre la geografia, com’egli dice, «sullo stesso piano» della filosofia. E se da una parte Strabone osserva che i primi «ad avere il coraggio di dedicarsi a questa scienza» (I, 1, 1) furono appunto tutti filosofi – definendo dunque una vera e propria genealogia intellettuale del geografo –, dall’altra “Artemidoro” svolge per intero il suo prologo nel confronto tra i compiti del filovsofo~ e quelli del gewgravfo~, con una ripartizione netta tra le sezioni dedicate all’uno e all’altro, ma con un evidente e più volte esplicito intento di identificazione. Come ha riassunto Gallazzi, “Artemidoro” afferma infatti a chiare lettere «che chi si dedica alla geografia, al pari del filosofo, deve saper affrontare un compito immane, essendo chiamato a soddisfare puntualmente le esigenze di una disciplina assai impegnativa e a compiere prolungate e meticolosissime osservazioni sui territori di cui si occupa»9. È dunque questo l’Artemidoro che leggeva Strabone? Ha certamente ragione Hagenow a notare la propensione per la polemica (Neigung zur Polemik) del geografo augusteo. Parte sostanziale della sua riflessione epistemologica si articola appunto nel confronto con i predecessori, a tal punto e con tale rigore condotto, che Germaine Aujac ha opportunamente parlato di una vera e propria «storia della geografia»10. Questa storia è essenziale ai suoi proponimenti non solo perché la geografia è costitutivamente una forma di diorthosis, di «correzione» del sapere pregresso11, ma anche perché è proprio attraverso il confronto coi predecessori ch’egli definisce il modello teorico della sua disciplina. GALLAZZI 2006, p. 17. AUJAC-LASSERRE 1969, p. 23. Cfr. HORST ROSEMAN 2005. 11 JACOB 1986. 9

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Tutto questo rende assai problematica, per non dir oltre, l’ipotesi che Strabone, di fronte a un precursore a tal punto e parimenti impegnato nell’affermare il fondamento filosofico della geografia, potesse permettersi di tacerne completamente il nome e l’esempio, disconoscendo nella pratica un modello ideale di cui egli in teoria cercava invece di affermare la validità. Al contrario, pur avendo tutti i motivi per fare di Artemidoro un interlocutore costante della propria riflessione, e diremmo anzi un’autorità a cui ispirarsi costantemente, Strabone lo ha relegato, com’è stato scritto, «al rango degli autori dei peripli o dei portolani, il cui insegnamento è troppo unicamente descrittivo per essere veramente utile al progresso della scienza geografica»12. Usato e abbondantemente citato per misure, distanze e descrizioni regionali – e quindi come tecnico, mai come teorico –, Artemidoro non è dunque mai annoverato da Strabone «tra i geografi di fama con i quali considerasse lusinghiero misurarsi»13. Questo è dunque il primo elemento di una certa chiarezza che dovremo tener presente nell’accostarci al papiro: Strabone conobbe l’opera del geografo Artemidoro di Efeso, non conobbe il nostro «magniloquente proemio».

2. Il peso di Atlante Per rappresentare l’immagine della filosofia, e cioè l’attività propria [pragmateiva] del filosofo-geografo, “Artemidoro” ricorre volentieri alla metafora del peso, che ritorna in maniera insistente, e un po’ ripetitiva, ai righi 25-29, ma che in generale domina tutta la parte inferiore della colonna I. L’apprendimento approfondito e duraturo dei «dogmi della filosofia [ta; filosofiva~ dovgmata]», sarebbe infatti necessario, stando alla traduzione del Tre vite, «affinché chi coltiva convenientemente la filosofia, avendo sulle spalle un fardello degno di Atlante, sostenga il carico senza sforzo». Il testo non brilla per particolare eleganza14: non a caso la traduzione ha tentato anche qui di ovviare alle ripetizioni più moleste, diAUJAC-LASSERRE 1969, p. 29. AUJAC 2000, p. 109. Si veda anche ENGELS 2005, e supra, cap. II, § 2. 14 Tradotto alla lettera, come si può vedere supra nella Proekdosis, rivela ben altra asperità: «affinché uno di coloro che filosofeggiano degnamente, portando quel peso degno di Atlante, abbia un peso che non affatica». 12 13

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stinguendo, a brevissima distanza l’uno dall’altro, tra «fardello» e «carico». In realtà nel greco troviamo sempre fovrto~. Rimarchevole quindi, poco più in giù, il curioso verbo prosenfortivzein, che rimanda in tutta evidenza allo stesso termine, ma che costituisce un hapax assoluto. Osserviamo nel dettaglio le due espressioni. Nel primo caso il «fardello» è definito «atlantico», cioè «degno di Atlante», con ovvio riferimento alla nota figura mitologica: to;n ajtlavnteion ejkei'non fovrton bastavzwn (rr. 25-27). Nel secondo caso ricorre invece unito all’aggettivo ajkopivato~ (rr. 28-29: ajkopivaton fovrton e[ch/): 25 26 27 28 29

filosofiva~ dovgmata, o{pw~ to;n ajtlavnteion ejkei'non fovrton bastavzwn ti~ tw'n ajxivw~ f[i-] losofouvntwn ajkopivaton f[ovr-] ton e[ch/

Il testo è due volte curioso, tanto nell’immagine, quanto nel lessico. La iunctura ajtlavnteio~ fovrto~ non risulta attestata altrove. Né risulta che il celebre peso di Atlante fosse comunemente definito fovrto~. L’unico, a quanto mi consta, che abbia usato questo termine in relazione al celebre gigante è proprio Eustazio di Tessalonica, nelle primissime pagine dei suoi Commentarii all’Odissea. Il contesto è chiaro: Eustazio si trova a presentare l’esordio dell’Odissea, con Atena che riferisce a Zeus del triste caso di Odisseo, prigioniero di Calipso e col cuore oppresso. Di qui il vescovo, fedele al suo scrupolosissimo programma esegetico, spiega al lettore che Calipso è appunto figlia di Atlante, giungendo per questa via a riferire il contenuto del mito: Eracle, le sue fatiche e il soccorso ch’egli presta al gigante nel sorreggere il fardello del mondo15: Il mito vuole che Atlante sia uno dei Titani, il quale, ribellatosi, per sua sventura, a Zeus, e definito perciò anche ojloovfrwn, fu condannato alla pena di reggere il peso delle colonne. Dicono però che Eracle, giunto in Libia per le mele d’oro, si sia caricato il peso [to;n fovrton] per amicizia, e che abbia preso per un po’ il posto di Atlante.

Non minore è la singolarità dell’espressione successiva, nella qua15

Eust. Thess., Comm. ad Hom. Odyss., I, 18, 15-18.

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le “Artemidoro” ricorre per qualificare il peso a un aggettivo, ajkopivato~, particolarmente raro, diremo anzi rarissimo, soprattutto nei classici, che gli preferiscono senza alcun dubbio a[kopo~ o ajkavmato~, quest’ultimo particolarmente gradito dai lessici tardi per glossare il suo non diffuso equivalente16. Tra le pochissime occorrenze potremmo ricordare il De mundo attribuito ad Aristotele, dove l’aggettivo ricorre, significativamente, nel contesto di un generale confronto tra filosofia e geografia. Ma qui la partita ha un altro esito, e la filosofia, capace di «trovare una via che non affatica» [391a 12 ajkopivatovn tina oJdo;n euJrou`sa], riporta un’indiscussa vittoria17. L’aggettivo, a voler guardare altrove, si affaccia anche nella letteratura giudaica di ispirazione stoica (Libro della Sapienza 16, 20), una sola volta e in forma avverbiale. Poca cosa, come si vede: piccole, saltuarie apparizioni per una parola che non è certo stata protagonista sul ricchissimo, forse troppo concorrenziale palcoscenico della lingua greca. Eppure, anche in un così basso indice di gradimento, c’è un passo che potrà fornirci gli estremi essenziali per comprendere il senso e soprattutto l’origine delle parole di “Artemidoro”. Si tratta di un frammento di Cleante. Lì è la Provvidenza, la provnoia, «causa di tutte le cose», a essere qualificata come ajkavmato~ kai; ajkopivato~, «instancabile e infaticabile»18. Perché questo passo è così rivelatorio? Perché in realtà Cleante, e con lui la fonte che ci tramanda il frammento, sta proprio parlando di Atlante! Atlante, lo stesso Titano parimenti evocato da “Artemidoro” a proposito del suo leggendario «peso», rappresenterebbe infatti l’immagine allegorica di 16 I due aggettivi molto spesso si trovano per questo appaiati: il medico Erotiano nelle glosse a Ippocrate scrive ad esempio: ajkavmato~: ajkopivato~ (Vocum Hippocraticarum collectio a 88: 22, 11 Nachmanson). Apollonio Sofista nel Lessico Omerico, a proposito di rJei'a dev k’ ajkmh'te~ a[ndre~ aju>th'/ w[saimen dà parimenti: ajkmh'te~ ajkopivatoi (Lexicon Homericum 19, 32). Similmente, a proposito di hjevlion d’ ajkavmanta, registra: ajkavmanta kat’ ajpovfasin tou' kamavtou, w{ste ei\nai ajkopivaton (20, 7). Stessa lettura omerica in Porfirio (Quaestionum Homericarum ad Iliadem pertinentium reliquiae 15, 13 ss., 11): tou' d’ ajevro~ ejkkrevmatai u{dwr te kai; gh', ou}~ dh; nu'n a[kmona~ levgei para; to; ajkopivata ei\nai ta; stoicei'a. 17 Per un confronto sistematico tra i due proemi rimando a PINTO 2007. 18 A questo frammento fa ricorso anche SCARPAT 1989-1999 (pp. 188-189, 206207) per spiegare il versetto della Sapienza: «l’aggettivo ajkopivato~ è così raro che non si può prescindere dalle pochissime testimonianze, come quella di Cleante che qualifica la provnoia ajkavmato~ kai; ajkopivato~».

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una Provvidenza che «non si stanca» di manifestare la propria azione sulle vicende umane. Il parallelo con “Artemidoro” è evidente: nel ridottissimo specchio delle occorrenze di questo aggettivo, ecco due testi che lo applicano parimenti allo stesso soggetto: «l’infaticabile Atlante». Ma non è tutto: chi è la fonte, l’unica fonte, di quel frammento di Cleante? È di nuovo, potenza del caso, Eustazio di Tessalonica! Non solo: è di nuovo la stessa pagina dei Commentarii all’Odissea in cui già trovammo «il peso di Atlante»... Il ragionamento è semplice: Eustazio, come dicevamo, presenta al lettore la figura del Titano, padre di Calipso, evocato da Atena, e da lei definito ojloovfrwn. Per spiegare questo epiteto, l’esegeta riferisce quindi che Cleante avrebbe letto aspirato il primo o per connettere il termine a o{lo~ e intendere quindi nel senso di «ciò che pensa a tutto»: il che appunto, per uno stoico, è la provvidenza ajkavmato~ kai; ajkopivato~, in quanto causa di tutte le cose19 (= SVF I, 549): Atlante, padre naturale di Calipso, che conosce gli abissi del mare intero, e che regge le colonne che sostengono la terra e sorreggono il cielo, alcuni lo interpretano allegoricamente nel senso della provvidenza infaticabile e instancabile [ajkopivaton] che è causa di tutte le cose. E ritengono che Atlante sia ojloovfrwn nel senso che pensa a tutto, cioè che si prende cura di tutto. Per questo dicono anche che Cleante leggesse aspirato il primo o.

Nel giro di poche righe, dunque, Eustazio ci fornisce sia la iunctura tra Atlante e fovrto~, sia il rarissimo aggettivo ajkopivato~20, sempre a proposito di Atlante. Chi non è disposto a confidare troppo nell’eccessiva casualità delle coincidenze avrà forse di che riflettere su questi paralleli: “Artemidoro” parla con le parole di un vescovo del XII secolo. Ma è solo una questione di parole? No: è l’idea stessa a suscitare sospetto. Perché anche nelle immagini che evoca, il nostro papiro, ancorché infarcito di iuncturae assai ardite e tutt’altro che ellenistiche, si dimostra a un attento esame meno originale di quanto po-

Eust. Thess., Comm. ad Hom. Odyss., I, 17, 23-27. Cfr. quanto lo stesso Eustazio osserva a proposito del digiuno di quaresima: ΔEpei; de; kai; hJ toiauvth ejpitagh; povnon e[cei [...] meqodeuvw uJmi'n ejntau'qa kai; to; ajkopivaton (TAFEL 1832), p. 128, 42-44. Si veda anche KRIARAS 1969, t. I, p. 167. 19 20

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trebbe apparire. È Strabone stesso a mostrarlo. Che egli sia stato tanto sgarbato da tacere il nome di un predecessore che lo avrebbe anticipato in molte importanti riflessioni ci è già sembrato alquanto sorprendente: a maggior ragione se egli si rivelasse debitore di “Artemidoro” anche nelle sue espressioni più singolari. Bisognerà infatti osservare che entrambi i geografi, ed entrambi nel prologo, ricorrono a un efficace paragone per dare un’immagine della propria opera: “Artemidoro”, come si è visto, evoca il gigante Atlante; Strabone, curioso a notarsi, il colosso. Entrambi ricorrono per giunta alla forma aggettivale: «peso atlantico» per “Artemidoro”, «statua colossale» per Strabone. La coincidenza merita attenzione. In I, 1, 23 Strabone raccomanda al lettore di accostarsi alla Geografia come si fa appunto con le «statue colossali»: «Come infatti nelle statue colossali [ejn toi'~ kolossikoi'~ e[rgoi~] non cerchiamo l’esattezza del dettaglio ma badiamo piuttosto all’insieme [...] allo stesso modo si dovrà giudicare in opere come questa». Per questa via, subito appresso, egli arriva a definire la propria opera una kolossourgiva21. Il parallelo con “Artemidoro” è dunque strettissimo, tanto per la formulazione quanto per il significato generale: il kolossikov~ dell’uno ha un perfetto pendant nell’ajtlavnteio~ dell’altro. Ma non basta. A garantire la relazione tra le due immagini in maniera inequivocabile e potenzialmente assai allusiva soccorre una notizia antiquaria di particolare interesse. Stando ad Ateneo (Deipn. V, 208B), pare infatti che le statue colossali fossero proprio indicate col nome di a[tlante~! La notizia viene confermata anche dal de architectura di Vitruvio (VI, 7, 6). Può esser utile osservare che tutte le informazioni su questo specifico valore del termine “Atla~ (e cioè lemma, significato e fonti) sono esaustivamente fornite nel Thesaurus dello Stephanus alla voce corrispondente, la quale spiega molto bene che col nome di Atlantes si potevano appunto indicare «le statue di Atlante, e in generale tutte le statue che, alla maniera di Atlante, sostengono il cielo»22. POTHECARY 2005, BENVENISTE 1932, ROUX 1960. TLG, s.v. “Atla~, t. I, 2, col. 2383 C: «“Atlanta~ vocant etiam Statuas Atlantis, s. Statuas quae Atlantis modo coelum sustinent, aut aliud quippiam apud Architectos». Segue la citazione dei passi di Ateneo e di Vitruvio: «Item si qua virili figura signa mutulos aut coronas sustinent, nostri Telamonas appellant; cujus rationes, quid ita, aut quare, ex historiis non inveniuntur. Graeci vero eos a[tlanta~ vocitant». 21 22

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“Artemidoro” parrebbe riscrivere Strabone, ricorrendo, nella più classica manovra di depistaggio, a un raffinato e allusivo sinonimo. Strabone paragona l’opera del geografo a una statua «colossale», “Artemidoro” a un peso «atlantico», sapendo appunto che «atlantiche» si chiamavano le statue colossali che reggevano il peso degli architravi. Che poi questo peso si potesse definire fovrto~, e che fosse sperabilmente ajkopivato~, è questione che abbiamo già affrontato. Davvero il nostro “Artemidoro” è uno strano incrocio di Strabone ed Eustazio: dell’uno ha le idee, dell’altro le parole. 3. L’insonnia (parte prima) Facciamo un passo indietro. Ai righi 23-25 “Artemidoro” invita a «darsi ai dogmi della filosofia, con continue sofferenze, sempre»: 23 24 25

sucnai'~ merivmnai~ di’ aijw'no~ a[gesqai eij~ t[a;] filosofiva~ dovgmata

Che cosa voglia dire «sempre [di’ aijw'no~]» è chiaramente spiegato nel seguito. Per acquisire i «dogmi» della sua disciplina, il filosofo o, che è lo stesso, il geografo dovrebbe a tal punto consacrarsi al proprio mestiere da non dormir la notte. Egli dovrà essere per questo a[grupno~, «insonne»; dovrà caricarsi del «peso», come abbiamo visto, «giorno e notte» [r. 36 s.: nukto;~ de; kai; hJmevra~], la sua yuchv non dovrà essere né kopiw'sa né baroumevnh (rr. 30-31). Avremo modo di tornare in seguito su questa curiosa propensione alla veglia23. Ma intanto chiediamoci: chi è questo geografo insonne che rimane desto la notte con l’«anima oppressa»? Viene alla mente Odisseo in una delle sue pose più caratteristiche: insonne la notte, col cuore turbato, mentre medita di dar morte ai Proci e si gira e rigira nel letto come un arrosto sullo spiedo: e[nqa kai; e[nqa eJlivvsseto mermhrivzwn ktl. (u 23 ss.). L’immagine sarà corsa anche alla mente di “Artemidoro”? Dopo i riscontri che abbiamo evidenziato nel paragrafo precedente non vi sarebbe certo di che stupirsi se anche in questo caso l’autore fosse ricorso a una particolare me23

Si veda infra, cap. XX, § 2.

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moria omerica, ancor meglio se mediata dal suo interprete per eccellenza Eustazio di Tessalonica. E in effetti così parrebbe. Se infatti andiamo a vedere come Eustazio abbia commentato questo episodio dell’Odissea troveremo alcune espressioni di cui è difficile non notare la somiglianza col papiro24: ”Oti to; a[u>pnon o[nta to;n ΔOdusseva w|de kai; ejkei' eJlivttesqai kai; oujc aJplw'~ ajlla; sucna; merimnw'nta nukto;~ parabavllwn eij~ oJmoiovthta pravgmato~ oJ poihth;~ fhsivn: wJ~ d’ o{te gastevr’ ajnhvr, polevo~ puro;~ aijqomevnoio, ejmpleivhn knivssh~ te kai; ai{mato~ e[nqa kai; e[nqa aijovllei, mavla d’ w\ka lilaivetai ojpthqh'nai: tovte ga;r dhladh; pukna; strevfetai hJ gasthvr: (Vers. 28) w}~ a]r o{ g’ e[nqa kai; e[nqa eJlivsseto mermhrivzwn. Adducendo un paragone, il poeta dice che Odisseo, poiché era insonne, si girava da una parte e dall’altra, e non per nulla, ma perché afflitto di notte, da continue sofferenze: «come quando un uomo, acceso un gran fuoco, gira un budello ripieno di grasso e di sangue, e desidera che in fretta si cuocia» – vale a dire che il budello è girato e rigirato spesso – «così anche lui si girava da una parte dall’altra».

Difficile negare l’evidenza del parallelo testuale: “Artemidoro”:

Eustazio:

sucnai'~ merivmnai~ di’ ajiw'no~ [...] pavnta pevrix skopou'nta a[grupnon ei\nai, nukto;~ de; kai; hJmevra~

a[u>pnon o[nta to;n ΔOdusseva w|de kai; ejkei' eJlivttesqai kai; oujc aJplw'~ ajlla; sucna; merimnw'nta nuktov~

Dopo il «fardello» ajkopivato~ e «degno di Atlante», abbiamo dunque un filosofo che sopporta «continue sofferenze», e che rimane «insonne di notte». Tutte espressioni che rimandano alle perifrasi omeriche del vescovo bizantino. Si conferma una tendenza già osservata: alcune delle più singolari caratterizzazioni del filosofo-geografo passano nel papiro attraverso il filtro lessicale con cui Eustazio spiegava Omero ai lettori bizantini. Egli è in tal senso uno svincolo strategico: media la figura allegorica di Odisseo, e così pure, attraverso Dionigi, la riflessione teorica di Strabone. Si avverte oltretutto una costante circolarità di riciclaggi inter24

Eust. Thess., Comm. ad Hom. Odyss., II, 224, 12-19.

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testuali. Le stesse pagine di Eustazio che abbiamo evocato, ad esempio, sono tra loro intimamente collegate lungo il filo che intesse la strutturale formularità dei versi omerici. Il «cuore spezzato» di Odisseo nella notte d’insonnia è lo stesso «cuore spezzato» che spinge Atena, all’inizio del poema, a intercedere presso Zeus [v. 47: ajllav moi ajmf’ ΔOdussh'i> dai?froni daivetai h\tor]. Ed Eustazio, fine estimatore dei paralleli interni al testo, non si è certo fatto sfuggire l’occasione per metterlo in risalto: kai; ga;r kai; oJ ΔOdusseu;~ oJ suneto;~ daivetai to; fronou'n th'~ yuch'~ mermhrivzwn kai; merimnw'n. Del qual commento noterei soprattutto due cose: il verbo merimnw`n e il termine yuchv. L’uno serve a quanto abbiamo detto finora, l’altro servirà a quel che diremo appresso. 4. L’anima e la volontà A leggere il «magniloquente proemio» si ha la netta, immediata impressione che in questo papiro ci sia troppa «anima»: ci sia troppa yuchv. Il filosofo-geografo deve «soppesare» la propria yuchv in rapporto all’opera che deve compiere (rr. 3-5)25; la sua yuchv non deve essere kopiw'sa né baroumevnh (rr. 30-31). La sua yuchv non deve mai «stare inerte» (rr. 33-34). Egli deve «riconciliare» th;n yuchvn eJautou` con il paese che indaga (col. II, rr. 10-11). Ora, è ben noto che il termine yuchv assume già in età classica il significato di «centro spirituale» dell’uomo («spirito» traduce non a caso il catalogo Tre vite) in opposizione al sw'ma (il che non era ad esempio in Omero, dove tutti i moti che noi diremmo dell’animo non vengono mai attribuiti alla yuchv, ma semmai ad altri termini come sth'qo~, kardiva, h\tor, frevne~ etc.). Nondimeno, fin dalla prima lettura del testo, chiunque abbia un po’ di confidenza col greco tardo-antico e poi bizantino avrà l’impressione che l’uso di yuchv in questo papiro ricordi molto da presso l’uso cristiano del termine: e sarà sufficiente seguire un poco le tracce di questa impressione per verificarne una certa attendibilità. Innanzitutto l’idea di un’«anima oppressa» è tipicamente patristica, specie nella formula baroumevnh yuchv, di cui mi constano attestazioni confrontabili soltanto da Origene in poi (con kopiw'sa la 25

Per questa espressione vedi infra, cap. XVI.

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situazione si aggrava: nessuna attestazione in assoluto). L’espressione, soprattutto in connessione col «peso» più volte evocato, ricorda del resto Ps. 37, 5: «le mie ingiustizie si elevavano oltre la mia testa, come peso grave gravavano su di me»: wJsei; fortivon baru; ejbaruvnqhsan ejp’ ejmev. Parole di cui si ricordò appunto Origene nel riflettere sulla sorte di chi «danneggia o rovina la propria anima [th;n eJautou` yuchvn] e va intorno portando la coscienza gravata d’un forte peso [perifevronta suneido;~ barouvmenon uJpe;r fortivon baruv]»26. Ma assolutamente cristiana, e ai miei occhi non greca (cioè né classica né ellenistica) è l’idea di una «volontà dell’anima», espressa nella formula qevlhma th'~ yuch'~. “Artemidoro” parlerebbe invece di qelhvmata th'~ yuch'~ (rr. 9-10: toi'~ qelhvmasin kai; dianoivai~ th'~ yuch'~). Ho detto cristiana, ma avrei detto meglio patristica: perché questa iunctura non è nemmeno biblica. In altri termini, della iunctura qevlhma (qelhvmata) th'~ yuch'~, o qevlhsi~ (qelhvsei~) th'~ yuch'~ non risulta alcuna attestazione non solo nel greco classico, o in quello ellenistico, ma nemmeno in quello biblico. L’unico caso che si potrebbe addurre è Ier 2, 24. Lì i LXX hanno reso w#pn tw)b con ejn ejpiqumivai~ yuch'~ aujth'~27. Ma la tradizione patristica ci conserva una variante: il cosiddetto traduttore «Ebraico» (detto anche l’«Ebreo», oJ eJbrai'o~, sull’identità del quale non si ha però ancora alcuna certezza) preferì rendere il termine hw) con qevlhma piuttosto che con ejpiqumiva. In questa traduzione la iunctura suona quindi: ejn tw'/ qelhvmati th'~ yuch'~ aujth'~28. Non si tratta però della traduzione dei LXX, ma di una variante cosiddetta esaplare, testimoniataci soltanto dalla tradizione patristica (e solo dal Crisostomo, cioè da un frammento del Crisostomo attestato nelle catene, sulla cui identità è dunque prudente dubitare29). Tutto qui. L’argomento merita dunque qualche considerazione. Ai righi 33-34 “Artemidoro” si raccomanda affinché «l’anima e la volontà» del suo eroe non siano mai «inerti»: mhde;n hjrem[ouvs]h~ aujtou' th'~ yuch'~ kai; qelhvsew~. Il geografo cioè non si deve mai fermare, il suo slancio (al rigo precedente c’è appunto ma'llon e[cein Orig., Exhort. ad martyr., 39, 25-28 Koetschau (trad. di N. Antoniono). La traduzione aujth`~ denota che il traduttore assumeva non già w#pn ma h#pn, attestato infatti nella tradizione del testo ebraico. 28 Cfr. l’apparato ad loc. di ZIEGLER 2006. 29 Cfr. CPG n. 4447. 26 27

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o[reuxin30) non si deve mai arrestare. Ancora una volta la yuchv sia messa in strettissima relazione con la qevlhsi~. Ora io credo che un autore greco classico o ellenistico avrebbe semmai espresso questa idea, lo slancio del geografo verso la sua missione, ricorrendo al termine ejpiqumiva (che è appunto la pulsione verso qualcosa). Direi in effetti che la fortuna, via via sempre crescente, dei termini qevlhma e qevlhsi~ sia stata largamente favorita dalla traduzione dei LXX e poi dal NT. Nei LXX qevlhma è assai ricorrente31, perché rappresenta la traduzione di Cpx in tutte le sue forme, anche quando in realtà il testo ebraico prevede la forma verbale e non quella nominale (forma verbale abbiamo ad esempio in Ier 9, 23: ytcpx hl)b-yk ma i LXX rendono col sostantivo: o{ti ejn touvtoi~ to; qevlhmav mou). Il qevlhma è insomma il volere di Dio (o dell’uomo, ma senz’altra specificazione), e così anche avviene nel NT. Basterà compulsare una qualsiasi concordanza dei LXX o appunto del NT per appurare quanto sia diffuso questo concetto. Ma come detto neanche nei LXX ricorre una iunctura diretta con yuchv. Sta di fatto però che gli autori cristiani si ritrovarono in seguito un termine ampiamente attestato nelle Scritture per indicare la volontà di Dio e quella dell’uomo (mentre ejpiqumiva andava ormai troppo compromettendosi nel senso negativo di «voglia» = «concupiscenza»), e quando si misero a indagare, a fini spirituali e dogmatici, la natura dell’anima, e vi individuarono (riprendendo linee filosofiche già antiche) una proprietà volitiva, cioè una vera e propria duvnami~ preposta all’esercizio della volontà e del libero arbitrio, il qevlhma (o meglio ancora la qevlhsi~) finì per diventare a tutti gli effetti una «parte» dell’anima. Esemplare mi pare a questo proposito il ruolo che la «volontà dell’anima» ricopre nella psicologia dello pseudo-Macario, in cui la iunctura ritorna assai di frequente. Per non dire poi che nel linguaggio della teologia cristiana il termine ha quindi avuto un picco nell’ambito della riflessione sull’anima di Cristo e della sua volontà: penso ovviamente al conflitto monoteletico e monoenergetico, dell’esistenza di una doppia volontà (umana e divina) in Cristo etc. La prima attestazione compiuta di questa iunctura parrebbe trovarsi in Ireneo, cioè in un autore cristiano, molto più tardo di Artemidoro, ma 30 31

Per questa grafia vedi infra, § 6. Meno invece qevlhsi~, anche nel NT, dove compare solo in Hebr 2, 4.

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di relativa antichità. Tra i Fragmenta deperditorum operum raccolti da W.W. Harvey32 troviamo infatti questa ampia definizione: Qevlhsi~ kai; ejnevrgeia Qeou' ejsti;n hJ panto;~ crovnou kai; tovpou kai; aijw'no~, kai; pavsh~ fuvsew~ poihtikhv te kai; pronohtikh; aijtiva. Qevlhsiv~ ejsti th'~ noera'~ yuch'~ oJ ejf’ hJmi'n lovgo~, wJ~ aujtexouvsio~ aujth'~ uJpavrcousa duvnami~. Qevlhsiv~ ejsti nou'~ ojrektikov~, kai; dianohtikh; o[rexi~, pro;~ to; qelhqe;n ejpineuvousa. In realtà questo passo è la dimostrazione di quanto possa essere ingannevole il recupero dei frammenti di un autore citati da fonti più tarde. Harvey lo trasse da Massimo Confessore, o per meglio dire dal trattatello, che è piuttosto un florilegio, ΔEk tw`n ejrwthqevntwn aujtw`/ [scil. Massimo] para; Qeodwvrou monacou`, pubblicato da Combefis nel secondo tomo delle opere del Confessore (= PG 91, 276 B). Il linguaggio è però tutt’altro che affine a quello di Ireneo, e risente in tutta evidenza dei dibattiti, di molto successivi, sulla doppia volontà. In effetti non si tratta nemmeno di un’opera del Confessore! Poiché il florilegio inizia con alcune citazioni di Massimo, i copisti lo attribuirono direttamente a lui, e per questa via finì quindi nell’edizione di Combefis. Il Trattato di s. Ireneo al diacono Demetrio che contiene la nostra definizione della volontà come proprietà dell’anima preposta all’esercizio del libero arbitrio, è in realtà, come ha dimostrato con la solita esattezza Marcel Richard, un falso ditelita33. Ad ogni modo queste idee, e questo lessico, non appartenevano soltanto al mondo cristiano (molti esempi si troverebbero nel Nisseno), bensì anche al mondo della tarda filosofia greca (neoplatonismo e seconda Stoa). Ma si tratta sempre di fonti decisamente posteriori ad Artemidoro. Un passo interessante troviamo ad es. in Porfirio (ma il testo ci è tramandato soltanto nella Praep. euang. di Eusebio, XV, 11, 1): Porfirio parla di aiJ th'~ wJ~ zwv/ou yuch'~ boulaiv te kai; skevyei~ kai; qelhvsei~, rJopai; ou\sai th'~ yuch'~ kai; ouj tou' swvmato~. Oppure in Simplicio, Commento al Manuale di Epitteto (44, 7): Eij ou\n hJ qevlhsi~ aujth'~ ejsti th'~ yuch'~ e[ndoqen ou\sa kivnhsi~, aujth; a]n ei[h aijtiva eJauth'/ th'~ paratroph'~. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Ma ripeto: sempre troppo tardi per suffragare la collocazione in epoca ellenistica del nostro papiro. Poiché ho citato lo Ps.Macario è bene che ne dia almeno un esempio. I suoi testi sono uno dei testimoni più chiari dell’uso del termine qevlhma nell’ambito della sfera filosofica e teologica del concetto di libero arbitrio. Valga per tutti Sermo 26, 2 Klostermann-Berthold: provfasi~ ou\n givnetai e{kasto~ th'~ eJautou' zwh'~ kai; tou' eJautou' qanavtou dia; to; auj32 33

HARVEY 1857. RICHARD 1966, pp. 431-440.

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texouvsion qevlhma th'~ yuch'~. Per i dibattiti successivi sulla doppia volontà, oltre al falso di Ireneo già citato, basti il caso di Giovanni Damasceno, de duabus in Christo voluntatibus 21, 7-8 Kotter: Ou{tw kai; qevlhsiv~ ejstin aujth; hJ qelhtikh; th'~ yuch'~ duvnami~, kaq’ h}n qevlomen, qelhto;n de; aujto; to; pra'gma, o{per ti~ qevlei.

Come si vede in tutti questi casi, e nei moltissimi altri che si potrebbero aggiungere, siamo distanti mille miglia da Artemidoro. Per questo trovare la qevlhsi~ e i qelhvmata th'~ yuch'~ nel testo di un geografo del II sec. a.C. non può che destare serie perplessità. Ma sospetta è soltanto la iunctura? No: è la yuchv stessa a impensierire, e l’insistenza con cui ricorre: che si traduca «spirito» o «anima» (io tradurrei «anima», e ho spiegato perché), questo termine conferisce comunque al prologo di “Artemidoro” una dimensione troppo spiritualizzante. Si badi che il problema non riguarda soltanto la distinzione tra una concezione ancora mitica o sacralizzata della geografia, e una concezione invece già scientifica e quindi, per altro verso, secolarizzata. Questo problema, che non è affatto trascurabile e sul quale anzi tornerò in seguito, è tuttavia subordinato in questo caso a una questione di puro interesse lessicale e storico-linguistico. Perché il termine stesso yuchv, al di là della problematica iunctura con qevlhsi~, ricorre in questo papiro sotto vestigia semantiche posteriori all’età ellenistica: e posteriori in quanto specchio della koinè religiosa tardo-antica (o persino successiva), sia essa cristianizzante, platonizzante o tardo-stoica. Anche qui potrà tornare utile il confronto con Eustazio e Strabone. Nei Prolegomena (I, 1, 14-15) Strabone prescrive al geografo la necessità di studiare insieme cielo e terra. Nell’affermare questo principio, egli ricorre al termine diavnoia: il «pensiero» del geografo non dovrà innalzarsi soltanto al cielo, ma dovrà prendere in considerazione anche la terra. Il concetto è chiaro, ma a noi interessa soprattutto la formulazione lessicale: il «pensiero» del geografo su cielo e terra. Nel papiro troviamo un’idea affine: “Artemidoro” raccomanda al geografo di «riconciliare la propria anima con il paese che gli sta sotto gli occhi»: th;n yuch;n eJautou' sunallavttein th'/ uJpokeimevnh/ cwvra/ (col. II, rr. 9-11). La contiguità tra i due passi è significativa, ma quel che più conta è lo scarto lessicale: Strabone parla di diavnoia, “Artemidoro” di yuchv. Non è un caso: il geografo augusteo non usa mai la parola yuchv, se non quando si addentra a riferire opinioni altrui sull’origine o la

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composizione dell’anima. Ma sono appunto parole altrui. In ogni caso egli non fa mai riferimento all’«anima» del geografo, tanto meno nei Prolegomena, dove si sforza di definire i fondamenti scientifici della propria disciplina. Perché dello scienziato a lui non interessa la dimensione psichico-spirituale: interessa, appunto, il «pensiero», cioè il centro intellettivo dell’uomo. Non escluderei anzi che egli avvertisse sul termine yuchv un’insinuante (e sgradita) ipoteca irrazionalistica. Significativa è in tal senso la sua appassionata difesa di Omero dalle critiche di Eratostene. Omero è un autore chiave per Strabone, perché rappresenta ai suoi occhi una concreta, autorevole fonte geografica, e non può dunque tollerare che la sua testimonianza venga pregiudicata dall’inattendibilità di cui era tout court tacciata la poesia. Non è vero infatti che tutti i poeti pratichino la yucagwgiva e non la didaskaliva, cioè la «seduzione dell’anima» e non l’«insegnamento» (I, 1, 10). Omero è anzi l’esempio, contro Eratostene, di un poeta che non mira alla yucagwgiva, e parla invece al «pensiero [diavnoia]» (I, 2, 17). Ciascuno vede che tra le due sfere semantiche Strabone individua una vera e propria dicotomia: nell’attività del geografo è coinvolta la diavnoia, non la yuchv. Chiarito questo per Strabone, sarà facile tuttavia osservare che nella plurimillenaria storia della lingua greca si danno innumerevoli casi nei quali tra diavnoia e yuchv non si profila affatto un rapporto di opposizione, bensì di convergenza, per non dire di vera e propria interscambiabilità. Appena il discorso si affranca dai presupposti che abbiamo visto attivi in Strabone, e si allarga ad altri temi, i nostri due termini smettono infatti di arruolarsi in schieramenti avversi, e si ritrovano volentieri alleati. E non mi riferisco soltanto a un uso «debole» del lessico dell’incorporeità. La classica definizione di Platone – «il pensiero è il colloquio dell’anima con se stessa senza intervento della voce» (Soph. 263D) – e così pure la sua tripartizione dell’anima in nou`~, diavnoia e dovxa, avranno vita lunghissima, anche nella teologia cristiana, dove passerà pure l’idea stoica per la quale il centro direttivo dell’anima coincide appunto con la diavnoia. Ancora il lessico Suidas, alla voce nou`~, ripeterà in forma ormai convenzionale il classico schema, precisando che delle tre parti dell’anima la decisiva è la seconda, appunto perché sta nel mezzo: «la nostra yuchv è guidata dalla diavnoia»34. 34

Suidas, n 524, 25-32 Adler.

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I due termini si avvicinano. E nulla forse ce lo mostra con tanta eloquenza quanto la ricezione postuma della celebre immagine platonica dell’«occhio dell’anima». Platone aveva scritto to; th'~ yuch'~ o[mma (Rep. 533D): ma nei secoli successivi, e soprattutto tra i cristiani, si scriverà piuttosto to; th'~ dianoiva~ o[mma. L’«occhio dell’anima» diventerà l’«occhio della mente»: e non sempre, nel favorire questa transizione, vi saranno state particolari premeditazioni teologiche. Semplicemente l’area di contiguità semantica tra i due termini si allargherà a tal punto da confinare la loro pur specifica distinzione ai settori più tecnici della riflessione filosofica. Del resto la progressiva identificazione tra yuchv e diavnoia si consuma anche in ambito stoico (in una Stoa che noi chiamiamo seconda). Nelle Diatribe di Epitteto si equivalgono volentieri: tra ejx o{lh~ th`~ dianoiva~ di II, 2, 13 ed ejx o{lh~ yuch`~ di II, 23, 42 è inutile cercare differenze. Questo è il tipico fenomeno di logoramento e omologazione delle rispettive aree semantiche in cui cadono termini di larga praticabilità. L’uso sbiadisce le parole; la retorica, nemica della ripetizione e amante dei sinonimi, le uniforma. Tutto questo può dunque aiutare a leggere con qualche avvertenza le parole di “Artemidoro”. Strabone avrebbe certo avuto di che eccepire, ma uno scrittore successivo (e lasciamo stare di quanto successivo), fiducioso di non tradirne il senso generale, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a riformulare il suo pensiero preferendo alla diavnoia la yuchv. Ai suoi occhi sarebbe potuta sembrare una semplice transizione sinonimica, o una riscrittura non troppo infedele. Con buona pace degli scrupoli della fonte, che certo per l’«anima» del geografo non provava particolare devozione. Da un certo punto di vista assistiamo in qualche modo allo stesso procedimento che adotta Eustazio nei confronti di Omero. Se in Omero c’è h\tor egli parafrasa con yuchv. Perché per un lettore bizantino, abituato da secoli per giunta a discettare sui sette (inizialmente otto) peccati capitali, la sede delle passioni non è il petto, ma l’anima. Così è per il «cuore oppresso» di Odisseo, e così è pure per il «cuore irato» di Achille: il vescovo bizantino adatta la lingua a sé e al suo pubblico. L’esempio, per le sue dinamiche, può calzare assai bene: se Strabone scrive diavnoia, “Artemidoro” scrive yuchv. È lo stesso modello – un modello che non abbiamo esitato a definire di depistaggio – che abbiamo osservato nel passaggio da kolossikov~ ad ajtlavnteio~. Si prende l’idea ma si cambia il lessico. In questo egli compie

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un’operazione perfettamente eustaziana. Con la differenza che Eustazio lo faceva per spiegare, “Artemidoro”, forse, per confondere.

5. La scienza di lui Come scrive “Artemidoro”? Un maestro di scuola di età ellenistica difficilmente lo avrebbe promosso. Sia chiaro: dei giudizi estetici importa poco. In realtà la domanda va intesa in senso storico-filologico: poiché anche lo stile, come la lingua, è storia. Lessemi e iuncturae, su cui ci siamo soffermati finora, rappresentano elementi testuali di una certa visibilità. Meno visibili sono invece altri aspetti, legati alle strutture sintattiche o alla disposizione dei termini nei singoli kola. Certo nessuno si nasconde la precarietà di lavorare su un testo ecdoticamente non ancora definito. Detto questo vorrei tuttavia indicare almeno un fenomeno di un certo interesse: la dislocazione piuttosto incerta del pronome eJautou'. Gioverà quanto meno a mettere in luce, se non ancora a spiegare, alcune singolarità linguistiche del papiro. Ai rr. 9-11 della colonna II il testo reca: mevllei th;n yuch;n eJautou' sunallavttein. Abbiamo già detto qualcosa su queste parole: qui interessa però la dislocazione del pronome. È presumibile che un greco classico avrebbe storto il naso: eJautou' sta di regola in posizione attributiva35, cioè tra l’articolo e il sostantivo a cui si riferisce. Altrimenti – ma la costruzione assume un particolare valore enfatico – prevede la ripetizione dell’articolo. Un lettore di buona prosa greca si aspetterebbe qui o th;n eJautou' yuchvn oppure th;n yuch;n th;n eJautou'. Dettagli? Minuzie? Certamente sì: ma tali da suggerire comunque di approfondire l’indagine. Com’è noto almeno a partire dal II sec. a.C. il pronome eJautou' conosce una concorrenza sempre più agguerrita di aujtou'36 (o auJtou': le due grafie, com’è facile immaginare, sono piuttosto oscillanti: ma auJtou' cederà presto). Col passare del tempo aujtou' (di lui = suo) avrà nettamente la meglio. L’aggettivo possessivo di terza persona singolare o{~ (e ancor di più il plurale sfevtero~) morirà presto, e rimarrà a Bisanzio come residuo classicheggiante in autori di sofi35 SCHWYZER 19592, vol. II, p. 206. Rimane predominante anche nella koinè: MOULTON 1963, vol. III, p. 190; MAYSER 1934, p. 65. 36 MAYSER 1934, pp. 71 s.; BLASS-DEBRUNNER 1997, § 283, 6.

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sticate pretese linguistiche. Gli aggettivi delle altre persone moriranno parimenti, ma di agonia più lenta, lasciando sempre di più il passo a mou, sou, hJmw'n, uJmw'n. È un fenomeno larghissimo, che non si lascia ricondurre a una sola spiegazione o a una sola origine. Sia lecito però richiamare anche qui l’impatto linguistico delle traduzioni greche dell’AT, dove il massiccio, dominante impiego del possessivo in forma di genitivo del pronome è stato determinato anche da quella che oggi gli studiosi dei LXX chiamano convenzionalmente Übersetzungstechnik. In ebraico, com’è noto, il possessivo si esprime morfologicamente come suffisso del sostantivo. La traduzione greca lo rende di preferenza in forma di genitivo possessivo dislocato dopo il sostantivo, creando non di rado delle sequenze tutt’altro che fluide, e che all’orecchio di un buon greco sarebbero suonate (come in effetti suonavano) barbare. In un saggio del 1959 Ilmari Soisalon-Soininnen37 osservò che la traduzione originaria dei LXX per il Pentateuco si era spesso astenuta dal rendere anche in greco l’onnipresente suffisso possessivo dell’ebraico. Un costume che parve giustamente conciliarsi con le regole del buon greco, il quale può certo fare a meno di esplicitare ogni volta il pronome là dove l’intelligenza della frase non ne venga pregiudicata. I calcoli di Soisalon-Soininnen sono eloquenti: nel solo Pentateuco la traduzione originaria dei LXX rinunciò a rendere i suffissi possessivi in più di 650 casi (191 solo nel Levitico!). Un numero ragguardevole di quei pronomi possessivi fu però integrato, con la consueta forma asteriscata, da Origene nella colonna degli Hexapla riservata ai LXX. Si trattò, come osserva lo studioso finlandese38, di un fenomeno «rein übersetzungstechnisch», indotto dalla volontà di correggere la traduzione originaria per adattarla con la massima letteralità al testo ebraico. L’influenza della colonna origeniana si diffuse quindi per la successiva tradizione dei LXX, riempiendo il testo biblico di pronomi possessivi, a un orecchio greco senz’altro superflui, se non molesti39. Emblematico, anche per la sua celebrità, il passo dell’Arca di Noè, 37 SOISALON-SOININNEN 1965, pp. 80-83. L’osservazione fu poi sistematizzata in SOISALON-SOININNEN 1987, pp. 86-103. 38 SOISALON-SOININNEN 1987, p. 86. 39 Osservazioni confermate dalle edizioni del Pentateuco di Wevers per l’editio maior di Göttingen. Fondamentali per ricostruire l’impatto origeniano sul testo sono le antiche versioni siriaca e armena, che spesso conservano ancora l’asterisco.

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nella quale entrarono animali, pesci, serpenti e uccelli ciascuno, come dice il testo, «secondo il proprio genere». Per quattro volte su quattro i LXX tradussero kata; gevno~ – che in greco è sufficiente – rinunciando a specificare il possessivo, e per quattro volte su quattro Origene lo reintegrò, scrivendo sempre kata; gevno~ aujtou' (o aujtw'n)40. Non pochi degli aujtou' che si ritrovano nei codici della Scrittura provengono di qui, e vanno senz’altro a gravare la scorrevolezza di una lingua già di per sé tutt’altro che avara di pedanterie pronominali. Quando Sansone viene catturato e portato in catene, i Filistei cantano: Parevdwken oJ qeo;~ hJmw'n to;n ejcqro;n hJmw'n ejn ceiri; hJmw'n kai; to;n ejxerhmou'nta th;n gh'n hJmw'n (Iud 16, 24). Quei quattro hJmw'n tutti in fila (diventano cinque nel kolon immediatamente successivo) sono il tributo che il traduttore greco ha pagato all’ebraico, e in questo caso non si tratta nemmeno di un’aggiunta origeniana. Tutto questo non poté restare senza esiti nella lingua di un popolo che sarebbe diventato sempre più cristiano, e che avrebbe riconosciuto nei LXX una traduzione ispirata da Dio. Il Salterio, testo capitale di questa cultura, e d’uso pressoché quotidiano per molti cittadini dell’impero, è un esempio formidabile di questo tipo di lingua. Cito a caso dal Salmo 1: ejn tw'/ novmw/ kurivou to; qevlhma aujtou' / kai; ejn tw'/ novmw/ aujtou' melethvsei hJmevra~ kai; nuktov~, / o} to;n karpo;n aujtou' dwvsei ejn kairw'/ aujtou' etc. Nel Salmo 102, ancor oggi uno dei più cantati nelle chiese ortodosse, ve n’è una sequenza a dir poco martellante: negli ultimi 3 versetti (20-22) ogni stico, e dunque per ben sette volte, termina con il possessivo aujtou' (oiJ a[ggeloi aujtou' | to;n lovgon aujtou' | tw'n lovgwn aujtou' | to; qevlhma aujtou' | ta; e[rga aujtou' | th'~ despoteiva~ aujtou'). Lo stesso avviene del resto negli scritti del NT, nei quali, com’è stato osservato, «è particolarmente forte la tendenza a porre un pron. accanto a ogni verbo del periodo, anche dove class. sarebbe stato sottinteso e desunto da un altro verbo; sicché i genitivi possessivi mou, sou, aujtou` etc. ricorrono molto spesso»41. La forza di questo possessivo pronominale è tale da riflettersi an40 Gen 7, 14: pavnta ta; qhriva kata; gevno~ [aujtw'n] kai; pavnta ta; kthvnh kata; gevno~ [aujtou'] kai;; pa'n eJrpeto;n kinouvmenon ejpi; th'~ gh'~ kata; gevno~ [aujtou'] kai; pa'n peteino;n kata; gevno~ [aujtou']. Dettagli nell’app. ad loc. di WEVERS 1974a e in WEVERS 1974b, pp. 50 ss. 41 BLASS-DEBRUNNER 1997, § 278.

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che nel neogreco, nel quale com’è noto ha assunto la forma atona tou. «La sua anima» diventa semplicemente: hJ yuchv tou. Nel trovare pertanto, com’è nel papiro, la iunctura th;n yuch;n eJautou' vien fatto di notare una sorta di curiosa contraddizione: da una parte l’uso classico e più raffinato di eJautou' (rispetto ad aujtou'), ma dall’altra la dislocazione, tutt’altro che raffinata e tutt’altro che classica, dopo il sostantivo. Sembra insomma che l’autore abbia scelto di scrivere, per amor di eleganza42, il pronome riflessivo, collocandolo però dove sarebbe per natura caduto il suo più comune equivalente, a cui egli era certo più abituato. Dettagli, dunque: ma significativi. E a tal punto significativi da condizionare forse la comprensione di un intero passo. Ho l’impressione infatti che nelle primissime parole del papiro la traduzione del Tre vite sia errata proprio perché tratta in inganno dall’anomala dislocazione di eJautou'. Il testo comincia così: 1 2 3

To;n ejpiballovmenon gewgraf[iva/]43 th'~ o{lh~ ejpisthvmh~ ejpivde[ixin] poiei'sqai eJautou' dei'

Il Tre vite traduce: «Chi intende dedicarsi alla geografia, per fare una presentazione di tale scienza nella sua completezza, deve fare affidamento su di sé». Io non vedo dove sia «fare affidamento», e intendo il passo in modo assai diverso: «Chi si dedica alla geografia deve dar dimostrazione di tutta la propria scienza». Credo cioè che poiei'sqai non abbia valore finale e sia retto da dei', e credo soprattutto che eJautou' vada riferito al precedente ejpisthvmh~. Il traduttore ha dato invece a eJautou' il senso che il pronome avrebbe se dislocato, ma correttamente, fuori dalla posizione attributiva, e cioè col valore riflessivo che eJautou' assume se correlato direttamente a verbo. Ma, come detto, io non vedo a quale verbo potrebbe qui correlarsi. In questo greco, che non è buon greco, non dubito al contrario che eJautou' stia appunto con ejpisthvmh, ma che 42 Noto altresì che la iunctura «la sua anima» ricorre anche in altre forme: r. 30 th;n ijdivan yuchvn; r. 34 aujtou' th'~ yuch'~ (qui all’interno di un genitivo assoluto). L’autore ha in tutta evidenza esigenze di variatio. 43 Sulla grafia di questo termine vedi infra, § 6.

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l’autore, ancora una volta, l’abbia mal disposto. Il filosofo deve «dare dimostrazione [ejpivdeixin poiei'sqai] di tutta la propria scienza [th'~ o{lh~ ejpisthvmh~... eJautou']». Va da sé che un antico greco avrebbe scritto th'~ eJautou' ejpisthvmh~. Se ridisponiamo eJautou' dove norma vorrebbe, e cioè appunto tra th'~ ed ejpisthvmh~, il significato del passo torna chiaro, e si accomoda nel più classico dei pensieri che ci aspetteremmo di trovare in un prologo: l’affermazione dell’unità del sapere. Chi si dedica alla filosofia (e la geografia «sta accanto alla filosofia»44) deve possedere la «scienza tutta intera [o{lh]». Qualcuno obietterà che per dimostrare la sciattezza di questo greco io gli impongo appunto il significato ch’esso avrebbe in quanto sciatto, e che dunque presuppongo prima quel che dovrei dimostrare dopo. Ma che questo sia greco del tutto renitente alle regole della buona retorica classica traspare da molti altri elementi, anche e proprio in queste poche parole. È stato già notato, ad esempio, che il termine gewgrafiva è scritto sempre senza articolo45. Ma che dire anche qui dell’ordo verborum? Il maestro di scuola preferirebbe to;n th'/ gewgrafiva/ ejpiballovmenon piuttosto che to;n ejpiballovmenon gewgrafiva/, e accanto a quell’ejpivdeixin, in assenza dell’articolo determinativo, amerebbe trovare per lo meno un tina: ejpivdeixivn tina poiei'sqai avrebbe scritto, io credo, un buon autore greco. Demostene almeno scriveva così: lovgwn ejpivdeixivn tina kai; fwnaskiva~ boulovmeno~ poihvsasqai (De corona, 280, 2-3). Si obietterà che Demostene è un classico. Sì, ma così scriverà pure Filostrato, che certo classico non è, e nemmeno ellenistico: ei[ tina th'~ eJautou' sofiva~ ejpivdeixin oJ Kritiva~ par’ aujtoi'~ ejpoiei'to (Vit. soph., 1, 502, 2-3). Il qual passo, per nostra buona ventura, ha la virtù di esporre in bella mostra tutto quel che manca in “Artemidoro”: e cioè un buon uso dei pronomi, tanto di quello possessivo quanto di quello indefinito. Questa mi par dunque una prima conclusione da consegnare nelle mani di chi in futuro studierà meglio di noi la lingua del papiro: l’autore di questo testo si trova assai in imbarazzo nel collocare il pronome eJautou'. Certo il termine non gli spiaceva, e gli pareva pur nobile: ma governarlo egli non sapeva. E questo deve aver tratto in inganno anche il suo primo interprete. Ai righi 41-45 “Artemidoro” scriverà ancora che il filosofo «si 44 45

Col. I, rr. 13-15. Cfr. supra, cap. VIII, § 2.

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consacra completamente [eJauto;n o{lon] alle virtuose indicazioni che vengono dalle così maestose Muse». Di questo bel proponimento tornerò a occuparmi, e per tutt’altri motivi. Ma qui non posso tacere che ai miei occhi l’autore avrebbe fatto meglio a invertire i termini, e a scrivere o{lon eJautovn piuttosto che eJauto;n o{lon. E non mi stupirei se un’indagine mirata dovesse mostrare che questa seconda è la versione consueta della iunctura, e che quell’altra ricorre, se e quando ricorre, soltanto in autori più tardi. 6. Ortografia Dicevamo che un maestro di scuola di epoca ellenistica difficilmente avrebbe promosso chi ha composto il proemio: certamente avrebbe bocciato chi lo ha copiato sul papiro. Fin dalla prima presentazione nell’«Archiv für Papyrusforschung»46 abbiamo potuto constatarne i frequentissimi errori. Nei soli righi della colonna IV che coincidono col fr. 21 Stiehle sulla Spagna se ne contano ben sette. Le due colonne del proemio confermano questa tendenza. Noterei innanzitutto l’incertezza nell’uso della nasale dinanzi a palatale o labiale. Nella colonna I troviamo due casi: r. 29 prosankalivzht[ai], con scambio g > n dinanzi a k; r. 38 prosenfortivzonta, che è per di più hapax assoluto, come già ricordato, con scambio m > n dinanzi a f. Altri errori verranno senz’altro alla luce quando avremo un’edizione definitiva del testo. Si tratta di fenomeni ampiamente attestati in codici e papiri. Nei prolegomena della sua edizione di Marciano uscita a Parigi nel 1839, il Miller rilevava ad esempio la facilità con cui i copisti, e già quelli che scrivevano «su papiro» e «in onciale», cadevano in errori ortografici, analizzando tra gli altri il caso del toponimo Hispania: «Non mi sorprenderebbe affatto che la parola ISPANIA sia stata inizialmente scritta HSPANIA e che in seguito, prendendo la prima lettera per articolo, sia diventata hJ Spaniva»47. Artemidoro dà ragione a Miller. Com’è noto, il toponimo ricorre nel fr. 21 Stiehle, e così pure nel nostro papiro (il che è stato anzi considerato uno dei contributi di maggiore interesse del ritrovamento48), e l’oscillazione indiGALLAZZI-KRAMER 1998, p. 196. MILLER 1839, pp. IV-V. 48 Cfr. GULLETTA 2006a, p. 91, che ha sottolineato tra le acquisizioni più signi46 47

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cata da Miller trova perfetto riscontro. Nel papiro il termine è scritto con I iniziale, com’è nell’edizione artemidorea di Stiehle, e in quella di Stefano di Bisanzio di Meineke. Ma altrove non è così: tra 1807 e 1808 uscì a Vienna una raccolta in due volumi di testi geografici, o per meglio dire una Sullogh; tw`n ejn ejpitomh`/... gewgrafhqevntwn etc., patrocinata dai fratelli Zosimadai, dove figurano, tra gli altri, i frammenti artemidorei (vedi supra, cap. II, § 1). Lì il toponimo è scritto senza i: Spaniva (vol. I, p. 475). Errori dunque ampiamente attestati, che non parrebbero destare particolare interesse (se non forse per la quantità). Ben più singolare è invece al r. 32 la grafia o[reuxin per o[rexin. Si tratta di un fenomeno decisamente più raro dei precedenti. Nei papiri di epoca romana e bizantina è attestato il passaggio eu > e. Il fenomeno inverso e > eu, com’è in “Artemidoro”, è invece «rare and usually the result of anticipation for repetition of another u in the word or some other orthographic factor»49: spiegazione persuasiva, visti gli esempi segnalati, ma che per “Artemidoro” in tutta evidenza non funziona. Gignac infatti registra solo eujleuqevran per ejleuqevran nel P.Oxy. 722 (datato tra 91 e il 107 d.C.); ÔHrakleuvou per ÔHraklevou in P.Mich. 225.1638 (173-174 d.C.) e ojxeuvo~ per ojxevw~ in P.Oxy. 2032.55, col quale scendiamo però fino al VI sec. d.C. Ma l’errore più significativo, anche perché il più plateale, è nel termine stesso gewgrafiva, la cui centralità non ha bisogno d’essere evidenziata, e che è sempre scritto, fin dal primissimo rigo del papiro, con o al posto di w: GEOGRAFIA. Lo scambio fonetico w > o non scandalizza: in codici e papiri, di diversa antichità, se ne potrebbero trovare svariati paralleli. E anche in edizioni cosiddette di lusso, perché non è detto che il calligrafo fosse per ciò stesso un dotto, né che a un dotto non potesse scivolar di mano qualche svista ortografica. Ora, nelle edizioni moderne questi errori vengono di norma tacitamente corretti. Soltanto alcuni editori, per maggiore sensibilità sugli aspetti grafici, hanno lo scrupolo di registrare in apparato varianti di questo tipo. Il Miller, che questa sensibilità aveva, lo fece in abbondanza. Nel suo manoscritto, ad esempio, le parole gewgravfo~ e gewgrafiva sono ricorrentemente scritte con doppio errore fonetico,

ficative della scoperta, «il coronimo Hispania per la prima volta presente come sinonimo di Iberia in un testo originale antico». 49 GIGNAC 1976, p. 229.

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e cioè con scambio e > ai, e con scambio, appunto, w > o. Il risultato è che invece di gewgravfo~ e gewgrafiva, si trova per lo più gaiogravfo~ e gaiografiva. Questa curiosa menda ortografica ricorre all’inizio del Periplo proprio in relazione ad Artemidoro: «Artemidoro, il geografo di Efeso, che fece il periplo negli 11 libri della Geografia» (I, 1, 4-5). Miller stampa gewgravfo~, ma dall’apparato si apprende che il codice recava gaiogravfo~. In I, 3, 16-18 Marciano spiega: «Il periplo di questo mare lo abbiamo attentamente compiuto attraverso l’Epitome degli 11 libri del geografo Artemidoro». Ma anche qui il codice non reca gewgravfou, bensì gaiogravfou50. Miller, col suo scrupolo, ci permette dunque di assistere a un particolare errore fonetico dei copisti. Ma in generale, come detto, queste mende non vengono registrate in apparato, e tacitamente corrette dagli editori. C’è tuttavia un caso unico e singolarissimo. Il caso cioè di un editore che ha per sbaglio introdotto questa stessa menda ortografica laddove il codice era invece perfettamente sano. E non solo era sano, ma si trattava addirittura dell’autografo dell’autore. È il caso, mirabile coincidenza, dell’edizione dei Commentarii all’Odissea di Eustazio di Tessalonica. Il quale, come abbiamo più volte ripetuto, amava commentare Omero facendo riferimento a Strabone, e indicando Strabone col nome di «Geografo». Ma qui l’edizione lipsiense di Stallbaum (1825-1826) ha compiuto un errore, e ha scritto appunto il termine con o al posto di w (I, 227, 10-11), esattamente come nel nostro papiro: to; gou'n dw' kai; to; kri' kai; oJ para; tw'/ geogravfw/ h|l daimovnio~ ajpokekommevna ejk tou' dw'ma kai; krivmnon kai; h|lo~, oujkevti kinou'ntai51.

L’errore è particolarmente curioso, anche perché dei Commentarii all’Odissea noi possediamo l’autografo, o meglio gli autografi. Eu50 Altri esempi: in I, 1, 12-13: toi'~ peri; tou'to to; mevro~ th'~ gewgrafiva~ [cod. gaiografiva~] spoudavzousi. In I, 1, 16-17 Marciano introduce la figura del «divino» Tolomeo (torneremo più sotto su questa espressione): ejk th`~ gewgrafiva~ tou` qeiotavtou kai; sofwtavtou Ptolemaivou, e[k te th`~ Prwtagovrou tw`n stadivwn ajnametrhvsew~, h}n tai`~ oijkeivai~ th`~ gewgrafiva~ bivbloi~ prostevqeiken. In entrambi i casi il codice reca gaiografiva~. 51 Anche nei Commentarii all’Iliade Eustazio ritorna su questo passo di Strabone, che però non trova riscontro nell’opera conservata. Si veda l’apparato di M. van der Valk al vol. II, p. 114, 34 ss.

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stazio scrisse l’opera inizialmente nel Paris. Gr. 2702: poi in un secondo momento la riordinò e la ricopiò sul Marc. Gr. 460. I due codici furono usati già da Nicolò Maiorano per l’editio princeps uscita a Roma nel 1549, terzo dei quattro volumi complessivi dedicati ai commenti omerici del vescovo. Dapprima Maiorano si servì del Parigino, e solo in un secondo momento del Marciano52. Tra 1825 e 1826 l’opera fu quindi riedita, come detto, dallo Stallbaum, che ha però alterato «con grande frequenza le lezioni autografe» di Eustazio «senza apparente motivo»53. È ben vero che il dottissimo vescovo cadde non di rado in svariati errori ortografici, tra cui pure la confusione o / w54. Ma in questo caso no: da un controllo sul codice Parigino (f. 66v) si vede bene che Eustazio scrisse correttamente gewgravfw/ con w. Dunque l’errore sta nell’edizione, non nell’autografo. Dopo tutti i passi paralleli evidenziati in precedenza, non staremo a sottolineare la coincidenza del caso. “Artemidoro” non solo parla con le parole di Eustazio, ma condivide persino le sviste ortografiche che imbrattano le sue edizioni moderne. Certo, qualcuno potrebbe obiettare, a proposito di ortografia, che non è lecito confondere nel papiro autore e copista, poiché questi coincidono, com’è ovvio, soltanto in autografi. Potrebbe non essere una buona obiezione.

7. Superficie È interessante osservare la continuità regionale di certe espressioni. Artemidoro, il geografo, era di Efeso. E di Efeso fu anche il poeta bizantino Manuele Philes, personaggio poliedrico, dal verso facile, per quanto non sempre ispiratissimo. Molti dei suoi versi – come ci hanno mostrato le edizioni ottocentesche dei carmina, un vero boom, tutto parigino, tra 1851 e 185755 – sono dedicati alla descrizione, di LIVERANI 2002. LIVERANI 2000, p. 133 n. 6. Cfr. anche LIVERANI 2001. Sulla grafia di Eustazio si veda FORMENTIN 1983. 54 Lo si può dedurre dall’app. dell’ed. van der Valk dei Commentarii all’Iliade, che registra tutte le mende dell’autografo Laur. Plut. LIX 2-3. Per lo scambio tra w e o si veda e.g. nel vol. I, p. 83, 22 ouJtosiv per ouJtwsiv; 183, 15: ejxonovmazen per ejxwnovmazen; 402, 28: Phnevleo~ per Phnevlew~ etc. 55 LEHRS-DÜBNER 1851 (nello stesso volume compaiono anche alcune opere astronomiche), e MILLER 1855-1857. 52 53

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gusto naturalistico, degli animali, molti altri a soggetti religiosi, molti infine si inseriscono nell’inesauribile filone dell’epitafio funebre56. Poiché il primo fiorì alla fine del II sec. a.C., e poiché il secondo visse tra il 1275 e il 1345 (fu allievo di Giorgio Pachimere e amico di Massimo Planude), se ne deduce che a dividere i due lontani concittadini trascorsero poco meno di quindici secoli. Dunque non pare che i due abbiano avuto null’altro in comune se non appunto l’origine efesina. Eppure, a proposito di continuità regionali, “Artemidoro” e Philes sono forse stati gli unici a «conoscere il kuvto~ della terra». Questo almeno è ciò che “Artemidoro” prescrive al suo geografo nella colonna II del papiro: «giunto sulla terra ferma di un paese», egli dovrà innanzitutto conoscere «la superficie del paese che gli sta intorno»: gnwrivsa~ to; kuvto~ th'~ perikeimevnh~ cwvra~ (II col., rr. 5-6). Questa espressione è davvero singolare: inattestata in tutta la letteratura greca classica ed ellenistica, trova un parallelo assai prossimo, a 1500 anni di distanza, soltanto in alcuni versi di Philes. Il quale provava un’altissima considerazione di sé, e anche per questo una persistente frustrazione per le sue precarie condizioni economiche: frustrazione assai esibita, e letterariamente tutt’altro che originale, che lo spingeva a richiedere volentieri il soccorso dei potenti, proclamando a gran voce la propria sapienza e la tristezza dei tempi in cui gli era toccato di vivere. Egli si presenta in tal senso come un intellettuale «che conosce con esattezza l’intero ordinamento del cielo, la superficie della terra, le correnti del mare, le orbite del sole e della luna»57. Appena mascherata da qualche innocuo scarto sinonimico, non sfuggirà il parallelo testuale: “Artemidoro”:

Philes:

gnwrivsa~ to; kuvto~ th'~ perikeimevnh~ cwvra~

Kai; gnou;~ ajkribw'~ oujranou' pa'san qevsin, Th'~ gh'~ to; kuvto~, th'~ qalavssh~ th;n cuvsin

Se l’uno dice gignwvskein, l’altro dice gnwrivzein; se uno gh', l’altro cwvra. A rimanere invariato, e non a caso, è invece il termine chiave. Ma che cos’è il kuvto~? 56 57

PAPADOGIANNAKIS 1984. Man. Phil., Carm. V, 52, vv. 20-21 Miller.

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I lessici indicano per lo più il significato di «cavità», e dunque per estensione un qualsiasi oggetto cavo. In greco classico ricorre per indicare la corazza del guerriero (Aristoph. Pax 1224), o una piccola urna (Soph. Electra 1142), ma può anche avere usi di carattere anatomico: la testa è un kuvto~, perché contiene il cervello (Plat., Tim., 45A), il corpo è un kuvto~ perché contiene l’anima (ivi, 44A). E così pure nel mondo animale e vegetale (Arist. de gen. anim. 741B, 742B). C’è in tal senso chi ha suggerito, contro la «cavità» per lo più affermata dalla moderna tradizione lessicografica, di connettere il termine all’idea di «rotondità» o «rigonfiamento»: kuvto~ indicherebbe insomma un qualsiasi «oggetto che ha contorni curvi o arrotondati»58. Come si vede la iunctura di “Artemidoro” e Philes parrebbe presupporre un significato ben diverso, lungo un processo che parte dalla «rotondità», o se si vuole dalla «cavità» di un contenitore, si estende all’idea del suo involucro, finendone quindi per indicare la «superficie» (il Tre vite anche per questo intendeva che il termine indicasse di una regione «l’aspetto più esterno»). Un processo, quasi un trapasso polare, che in ogni caso non sarà avvenuto in tempi rapidi. Si ha anzi l’impressione che la lunga storia del kuvto~, dall’«urna» di Sofocle alla «superficie» di Philes, non possa fare a meno dell’intermediazione dei Salmi di Davide. Perché se Philes – e con lui l’altro efesino “Artemidoro” – parla del kuvto~ della terra, il Salmo 64 parla a sua volta del kuvto~ del mare. A chi obiettasse che non è necessario ogni volta cercare lumi nelle pieghe del testo biblico, ricorderò che Philes, oltre a essere cristiano (in un’epoca in cui questo significava ancora aver una buona conoscenza delle Scritture), era pure un professionista della parafrasi dei Salmi. Un’edizione relativamente recente ci ha messo a disposizione il testo delle sue parafrasi in dodecasillabi ai Salmi 3, 5, 32, 37, 46, 47, 50, 62, 102, 103. Egli aveva dunque col Salterio un contatto non soltanto liturgico, ma addirittura professionale59. Vediamo dunque il Salmo 64. Al v. 8 il testo recita: oJ suntaravsswn to; kuvto~ th'~ qalavssh~. Dio è colui «che sconvolge il kuvto~ del mare». Il testo è subito problematico: l’ebraico reca in realtà Mymy Nw)# xyb#m, che significa «mettesti a tacere il fragore [Nw)#] 58 Così ALLEN 1909, per cui kuvto~ si direbbe di oggetti «having a curved or rounded contour» (p. 353). Poco oltre suggerisce la traduzione «roundness, fulness, bulge» (p. 354). 59 STICKLER 1992.

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del mare». I LXX traducendo con kuvto~ hanno profondamente mutato il senso del passo. Difficile dire se l’errore – se di errore si tratta – riposi nel greco o nell’ebraico. In effetti parrebbe più saggio ipotizzare che il traduttore leggesse un originale diverso dal nostro, magari non Nw)# ma lw)#60. Oppure, se l’errore è nel greco, che il testo originario recasse ktuvpo~, e non kuvto~, che significa appunto «fragore». Ma la questione qui non importa. Per i lettori dei LXX il testo è kuvto~. L’unica variante di peso abbiamo nel codice Vaticano, che reca u{dwr: evidente tentativo di dare un senso più chiaro al passo. Per il resto la tradizione è compatta. Presso il Septuaginta-Unternehmen, in vista della futura editio maior dei Salmi, stiamo provvedendo alla collazione sistematica dei codici greci, e posso in tal senso preannunciare che di oltre 200 codici in minuscola del Salterio al momento già collazionati nessuno presenta varianti significative su questo punto, se non una curiosa menda ortografica: kh'to~ per kuvto~. Banale errore di itacismo, ma rivelatorio dell’imbarazzo di certi copisti, che non intendevano che mai fosse il kuvto~ del mare, e pensarono quindi che Dio se la prendesse piuttosto con il «cetaceo del mare» (possibile ricordo, sospetto io, della storia di Giona). Nei LXX il termine ricorre anche in Daniele a proposito dell’albero che vide in sogno Nabucodonosor. Com’è noto del libro di Daniele noi possediamo la traduzione dei LXX e la revisione attribuita a Teodozione. La tradizione ecclesiastica diede la preferenza a quest’ultima, che finì per scalzare la prima: basti pensare che nel cod. Vaticano (IV sec.) la transizione dall’una all’altra si è già compiuta. Nei versetti di cui ci occupiamo la traduzione diverge non poco, ma non nel sostantivo che ci interessa, il quale sarà stato verosimilmente usato dai LXX e poi conservato da Teodozione61: «l’albero crebbe e rinforzò, la sua altezza giunse fino al cielo, il suo kuvto~ fino agli estremi di tutta la terra» (4, 8 Theod.). Poco oltre Daniele interpreta il sogno spiegando: «l’albero che hai visto, cresciuto e rinforzato, la cui altezza giungeva fino al cielo e il suo kuvto~ su tutta la terra... sei tu, o re» (4, 17 Theod.). È dunque evidente che abbiamo a che fare con la dimensione dell’albero. Ma l’originale ebraico non è Nw)#, come nel Salmo, bensì twzx. Il che aggrava la situazione, perché questo termine non parrebbe aver nulla a che fare con l’idea di un kuvto~, in quanto connesso con il verbo hzx che significa «vedere». Il testo ebraico dice dunque che Così ALLEN 1909, pp. 357-358, su suggerimento di W.F. Badé. Cfr. MONTGOMERY 1927, p. 248; SCHMITT 1966, p. 38: «Sicher ist kuvto~ von “qV” (= Teodozione) aus dem oV-Text (= LXX) übernommen». 60 61

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l’albero crebbe a tal punto da essere visibile fino all’estremità della terra. La conclusione è notevole: tutte le volte che kuvto~ compare nei LXX la traduzione non coincide con il testo ebraico. All’ebraico, e non al greco, dà ragione Girolamo62, che tradusse il termine con aspectus («aspectus illius erat usque ad terminos uniuersae terrae»), prendendo atto nel commento della differenza con Teodozione: «Quod autem ait iuxta Theodotionem to; kuvto~, id est ‘altitudo eius’ [...] pro quo nos uertimus ‘aspectus eius’ etc.». Girolamo attesta dunque – distanziandosene – il kuvto~ di Teodozione, e suggerisce di intenderlo come «altezza». Dobbiamo allarmarci per questa contraddizione? In realtà c’è forse un modo per appianare il conflitto, e cioè ipotizzare, cambiando una sola consonante, che il greco, a differenza del latino, dipenda non già da un ebraico htwzx «la sua visione», bensì da hrwzx «la sua dimensione»63: kuvto~, come ci dice Girolamo, indicherebbe dunque la grandezza dell’albero. Certo egli glossa il termine con altitudo, e questo ha spinto taluno a scrivere, nel suo testo, latitudo, la cui prossimità grafica è evidente64. Ma non è necessario: è appena ovvio che la grandezza di un albero coincida con la sua altezza.

Ricapitolando. Il termine kuvto~ ricorre nei LXX in due contesti diversi. Nel Salmo si riferisce al mare, in Daniele a un albero. L’ebraico diverge in entrambi i casi, e indica nel primo il «fragore», nel secondo, come rende il latino, l’«aspectus» (cioè la visibilità). Tutto questo interesserà di più i biblisti e meno i lettori del papiro di “Artemidoro”. Ma ai lettori di “Artemidoro” interesserà la storia successiva del termine, che in tal senso è però una storia essenzialmente cristiana, a partire ovviamente dall’interpretazione spicciola che di questi passi scritturistici diedero gli esegeti. Ebbene, da un’indagine sulla ricezione di questi versetti nella letteratura patristica si vede chiaramente che gli interpreti intesero il termine nel senso, assai generico, di «superficie». Preciso tuttavia che «superficie» non andrebbe inteso tanto come «parte esterna» di un oggetto, quanto come «dimensione», «grandezza», «massa»65. Adottando una terminologia geometrica potremmo dire che kuvto~ è la «superficie» nel senso quantitativo, non qualitativo, di «area». Hier., Comm. in Dan., 812, 849-813, 862 Glorie. Cfr. PLÖGER 1965, p. 71. 64 Ottima discussione nel sempre utile SCHLEUSNER 1822, vol. II, p. 344. 65 Stessa osservazione in ALLEN 1909, p. 357, che parla per il v. del Salmo di una «additional connotation» nel senso di «size, capacity». Vedi anche il passo addotto di Alcifrone (III, 4 Schepers), sulla «capacità dello stomaco»: to; kuvto~ th`~ gastrov~. 62 63

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Va da sé che, non avendo per lo più scrupoli di esattezza scientifica, talora gli autori non distinguono, come farebbe il geometra, tra «area» e «volume». Il termine sta a indicare un oggetto assunto nell’interezza della sua superficie, della sua dimensione, del suo spazio. Se dunque si parla, a proposito del Salmo, del kuvto~ del mare, si intende l’insieme complessivo della sua acqua. Se si parla del kuvto~ dell’albero si parla della sua dimensione, cioè della sua altezza. Le parole di Teodoreto sono come al solito essenziali: oJra'/ tou' devndrou to; kuvto~ toutevsti, to;n o[gkon tou' eu[rou~: «vede il kuvto~ dell’albero, cioè a dire la mole della sua grandezza»66. Per Teodoreto kuvto~ significa o[gko~67. Eusebio, spiegando il Salmo, non si pone invece alcun problema lessicale. Per lui il testo è chiaro e non necessita di glosse. E poiché interpreta il mare sconvolto e poi placato da Dio come immagine allegorica delle genti richiamate al messaggio di Cristo, è evidente che per «kuvto~ del mare» egli intende tutto il mare: cioè il mare assunto nella sua intera massa d’acqua68. Kuvto~ indica insomma una generica «dimensione», la quale a sua volta potrà prendere una particolare direzione, in altezza, larghezza, profondità. Emblematica in tal senso la glossa nel lessico Suidas: Kuvto~∑ o[gko~, cwvrhma, bavqo~. plavto~ (k 2791 Adler). Di questo passo il termine era pronto per le estensioni più estreme. Esprimendo infatti, con tutta la genericità del caso, una superficie nella sua interezza, fece presto a trasferirsi all’area che per eccellenza è la più ampia (e lasciamo stare se abbia o non abbia forma cava): il cielo. Il kuvto~ è del cielo la superficie, la sua completa estensione. Eusebio può dunque parlare dell’«infinito kuvto~» del cielo69. Theod. Cyr., Comm. in Dan., PG 81, 1360 B (con grafia ku`to~). Per la prossimità dei due termini cfr. anche Epiph., Ancor., 53, 6: oujk oi\de ga;r pou' to; bavqo~ pou' to; mh'ko~, oujk oi\de to;n o[gkon oujk oi\de to; kuvto~. La sinonimia è attestata anche nei lessici: cfr. alla voce kuvto~ il Lessico di Esichio (k 4748 Latte) e quello di Fozio (k 192 Porson). 68 Eus. Caes., Comm. in Ps., PG 23, 636-640. Il «kuvto~ del mare» ricorre anche in Philes, in un lungo carme dedicato a esaltare la creazione del mondo e infarcito di varie citazioni dell’Esamerone di Giorgio di Pisidia. Nei codici il carme compare in due forme diverse: nel Vaticano usato da Miller, e quindi pure nella sua edizione, si trova in realtà distinto in cinque carmi più brevi (IV, 32-36, vol. II, pp. 289-294), ciascuno introdotto da un’inscriptio relativa all’argomento trattato (cielo, sole, luna, terra, mare); nel Taurinense C VII 7, che sta alla base della successiva edizione di MARTINI 1900, le cinque parti sono invece accorpate, con prologo iniziale e dedica ad Andronico Paleologo (carme 2). La sezione dedicata al mare, Eij~ th;n qavlassan, si apre proprio con l’esclamazione: «W ku'to~ [sic] eujruvcwron, w\ xevnh cuvsi~! 69 Eus. Caes., Comm. in Is., 2, 18, 8. Cfr. anche De laudibus Constantini, 6, 9, 6-7. 66 67

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Sinesio, nei suoi Inni, di un kuvto~ oujravnion o di un kuvto~ oujranw'n70. L’immagine si afferma a tal punto da trovare persino un plurale. Perché per i cristiani, com’è noto, i cieli sono più di uno («Padre nostro, che sei nei cieli»): se c’è dunque il kuvto~ del cielo, ci devono pur essere «i kuvth dei cieli». Cirillo di Gerusalemme sembra conoscere l’immagine soltanto in questa forma: «contemplare i kuvth dei cieli»71. Significativo, ancora una volta, Teodoreto. Dinanzi a Salmo 107, 5, «Grande al di sopra dei cieli la tua misericordia, fino alle nuvole la tua verità», egli riformula il pensiero così: «la grandezza della tua misericordia è superiore ai kuvth dei cieli». Altrove riconosce a Dio: «Il tuo ordine mantiene immobili i kuvth dei cieli». E quando vuole testimoniare la superiorità del creatore sulle creature si mette a osservare «i kuvth dei cieli, l’estensione della terra, la grandezza dei mari, lo splendore del sole e il bagliore della luna»72. Parole assai simili – sia detto per inciso – a quelle con cui Philes darà poi forma alla sua vanità. Kuvto~ (o kuvth) è dunque termine generico di un’estensione larghissima e per questo assai vaga. È il termine delle dimensioni assolute: kuvto~ del mare, kuvto~ del cielo e quindi anche «kuvto~ della terra». Iunctura, quest’ultima, che procede per analogia con le sue sorelle maggiori, e che ricorre di preferenza unita al cielo, di cui costituisce in tutta evidenza il complemento. Epifanio parla ad esempio dell’«intera superficie del cielo e della terra, tutti gli esseri che contengono e tutto quello che c’è nell’universo»73. Come si vede ci stiamo avvicinando a grandi passi all’espressione di “Artemidoro”: ma ci stiamo anche molto allontanando nei secoli. Arrivati a questo punto gli studiosi di filosofia antica e in particolare di stoicismo avranno forse l’impressione di potermi smentire, e diranno che l’espressione ricorre identica già in Crisippo, per il quale Dio sarebbe appunto il nou'~, inteso «come anima dell’intero kuvto~ del cielo e della terra»: wJ~ kai; yuch;n panto;~ tou' o[nto~ kuvtou~ oujranou' kai; gh'~74. Sarebbe una smentita? L’espressione era dunque già ellenistica? No: sarebbe una conferma. Perché queste parole non sono di Crisippo, ma di Rispettivamente in Hymn., 2, 166 e 9, 87. Cyr. Hier., Cat. ad illum., 9, 5. 72 Theod. Cyr., Comm. in Ps., PG 80, 1752 A; 1849 B; Graec. aff. cur., 3, 17, 2. 73 III, 49, 10-12: to; pa'n kuvto~ oujranou' te kai; gh'~ kai; pavntwn tw'n ejn aujtoi'~ kai; ta; ejn tw'/ kovsmw/. 74 SVF II, fr. 1026 di Crisippo. 70 71

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un cristiano che ha sintetizzato, con parole sue, il pensiero di Crisippo (o meglio degli Stoici in generale). Arnim, nella sua celebre raccolta, riprese il passo dal de haeresibus di Giovanni Damasceno (cap. 7). Ma è probabile che il Damasceno l’abbia preso a sua volta da un suo precedente correligionario, poiché esso si trova ad esempio, e perfettamente identico, anche nella Anacephalaeosis del Panarion di Epifanio: Stwi>koi;... to;n me;n qeo;n nou'n oJrivzousin kai; wJ~ kai; yuch;n panto;~ tou' o[nto~ kuvtou~ oujranou' kai; gh'~75. Lasciamo stare se la Anacephalaeosis sia davvero di Epifanio o d’altri dopo di lui: certo l’espressione egli conosceva benissimo, e usava volentieri. A proposito seguaci di Caino Epifanio dice ad esempio che consideravano Hystera to;n poihth;n tou' panto;~ touvtou kuvtou~ oujranou' te kai; gh'~76. Dunque il pensiero sarà pure di Crisippo, ma la formulazione è di un cristiano. Confrontando le altre testimonianze parallele raccolte nel capitolo «Qualis sit deus» degli SVF possiamo anzi escludere che Crisippo sia ricorso a un’espressione simile. Tutti gli altri testimonia ripetono infatti lo stesso concetto, ma nessuno adopera l’espressione «kuvto~ del cielo e della terra». Il che la dice lunga sull’impronta, linguistica e concettuale, di questa iunctura. Nel trovarsi a sintetizzare la teologia stoica, un autore cristiano – sia egli Epifanio o il Damasceno – formulò il pensiero con parole sue, introducendo il kuvto~ nell’universo stoico.

Fin qui cielo e terra stanno ancora appaiati. La iunctura «kuvto~ della terra» comincerà ad aver vita propria soltanto più tardi, si direbbe molto più tardi. A me è riuscito di scovarla soltanto in tre autori: nel dialogo Hermippus de astrologia dialogus, in Giorgio Acropolita e appunto, nella forma che abbiamo visto, in Manuele Philes. In tutti e tre i casi si tratta di autori bizantini (e dell’ultimissima Bisanzio): Giorgio Acropolita, noto storico, commentatore di Gregorio Nazianzeno e rappresentante di Michele VIII Paleologo al concilio di Lione, visse tra 1217 e 1282. Di qualche generazione più giovane fu, come abbiamo detto, Philes, che giunse fino alla metà del XIV secolo. Quanto al de astrologia dialogus77, che è un trattato (notevole a dirsi) di astrologia cristiana, la paternità è ancora sub iudice: messa in se-

Epiph., Anaceph., I, 166, 1-2. Epiph., Panar., II, 63,15-64, 1. 77 KROLL-VIERECK 1895. A proposito della caduta dal paradiso si dice (53, 129): meta; th;n e[kptwsin eij~ to; pa'n kuvto~ diasparh'nai th'~ gh'~. Ma prima (25, 4-5) l’espressione compare nella forma completa di acqua, terra e aria: to; pa'n u{dato~ kai; gh'~ kai; ajevro~ kuvto~. 75 76

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condo piano l’ipotesi Giovanni Catrario, si sono fatte strada le candidature di Giovanni Zaccaria Attuario e di Niceforo Gregora. In tutti e tre i casi arriviamo alla prima metà del XIV secolo78. Ciascuno vede che siamo ormai lontanissimi dalla corazza di Aristofane o dall’urna di Sofocle. Ma il problema vero è che siamo vicini, troppo vicini, a Philes, e cioè all’immagine che il poeta medievale, parafrasta dei Salmi, evocherà a lode della propria sapienza. Dai LXX agli esegeti patristici fino ai bizantini, ci siamo infatti spostati per vari secoli di storia, e ci siamo visti nascere tra le mani un’espressione che un autore classico non solo non avrebbe usato, ma non avrebbe probabilmente nemmeno inteso. E non sarà forse sfuggito che in tutti questi casi l’immagine sprigionava un percepibile sentore teologico. Fin dal suo primo apparire nei Salmi, l’immagine di un kuvto~ del mare, poi del cielo e poi della terra, è l’immagine di una estensione enorme e soprattutto completa, intera, totale, evocabile soltanto in forma vaga, e come tale pertinente a Dio. È Dio che sconvolge la superficie del mare; è per trovare Dio che si contempla l’estensione del cielo, è Dio il creatore dell’«intera superficie del cielo e della terra». Anche nel testimonium di Crisippo, stoico o cristiano che sia, è pur sempre Dio il soggetto operante. Questa osservazione non è oziosa, perché consente di comprendere fino in fondo la premeditata e allusiva provocazione dei versi di Philes. Il quale si esprime per paradosso. Egli è così sapiente, così divinamente sapiente, a fronte dell’ignavia dei tempi suoi, da poter esibire una conoscenza addirittura universale: «Ora imperversano gli ignoranti. D’improvviso gli artigiani si arricchiscono, e se la godono a sazietà». Io invece, «che mi sono affaticato in alti studi, che ho studiato svariate discipline, che so scrivere e verseggiare in metro, cavillare discorsi da oratore, che conosco con esattezza l’intero ordinamento del cielo, la superficie della terra e le correnti del mare, le orbite del sole e della luna (e tralascio il resto, perché mi dan noia i lunghi discorsi)» mi sono sempre nutrito di speranze79. Tutto quello che Dio ha creato, nella sua interezza, Philes lo conosce. Possediamo un carme di Giorgio Acropolita che conferma, e se è possibile amplifica, questa idea. Si conserva al f. 39 del Laur. Plut. 78 Per l’attribuzione a Catrario: JÜRß 1964, in partic. pp. 25 ss. Per Attuario: KOUROUSES 1984-1988, pp. 101-140; per Niceforo Gregora: HOHLWEG 1995, pp. 13-45. Si veda BIANCONI 2006, pp. 70-71, n. 6. 79 Man. Phil., Carm., V, 52, vv. 10-24 Miller.

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LIX 35, e apre una raccolta di lettere di Teodoro Lascaris. In questo carme l’autore loda la sapienza del Lascaris e raccomanda la lettura delle epistole alla comune cerchia di amici. L’apertura è per questo della massima iperbole: Giorgio evoca una figura «che riesca a descrivere la superficie della terra [gh'~ to; kuvto~]», una devrri~ che riesca a «contenere l’intera volta del cielo» o un libro che riesca a «racchiudere lo smisurato abisso della conoscenza» (vv. 16)80. Parrebbe quasi che per questi bizantini l’espressione avesse un valore proverbiale: conoscere il kuvto~ della terra significa pervenire a una sapienza indefettibile. Soltanto in un contesto volutamente iperbolico esso può divenire oggetto di conoscenza umana. Non così per “Artemidoro”, il quale parrebbe anzi non aver di meglio da suggerire, al suo geografo ideale, che di conoscere subito il kuvto~ th'~ cwvra~. Ai lettori del vero Artemidoro, e in generale agli studiosi di geografia antica, farà specie di trovarsi spesso a discorrere, in questo papiro, di ebraico, Bibbia e scrittori cristiani: ma avranno forse la bontà di non imputarne la colpa soltanto alle particolari propensioni di chi scrive, riconoscendo che il ricorso a queste letterature, se non rassicura sull’origine antica del testo, certo aiuta a comprenderne assai meglio il significato. Nel caso specifico non dovrà d’altronde sfuggire che nel papiro il termine ambisce ad assumere un valore assolutamente tecnico. Un geografo impegnato a dimostrare la scientificità della propria disciplina, e a fornire al lettore numeri e misure del mondo, non è scrittore da cui attendersi acrobazie metaforiche nella compiaciuta esibizione dei propri ferri del mestiere. Quando egli dice kuvto~ è convinto di adoperare un termine che al lettore, e in particolare al lettore filosofo che pretende di guadagnarsi, risulterà non solo chiaro e familiare, ma addirittura tecnico, garantito cioè da una scienza che ha metodo e lessico

80 Il carme è importante anche perché se ne deduce che le successive lettere di Teodoro furono composte prima della sua salita al trono. Cfr. HEISENBERG 1900, in part. p. 213, a proposito di FESTA 1898 che non aveva invece considerato questo carme. Ora i versi si leggono in HEISENBERG 1903, pp. 7-9 (ripr. anast. con addenda a c. di P. Wirth, ivi, 1978). Altra occorrenza di kuvto~ nella Laudatio Petri et Pauli, cap. 13, dove Giorgio parla della creazione del mondo e di tutti gli animali e le piante «di cui è adorna l’intera superficie della terra [to; kuvto~ a{pan th'~ gh'~]» (13 = 93, 33 Heisenberg).

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peculiari. Eppure è proprio questa ambizione a tradire l’assoluto anacronismo dell’espressione, e dopo il lunghissimo tragitto che abbiamo compiuto per rendere ragione del significato dell’immagine, nulla lo mostra in maniera tanto impietosa quanto il confronto con il relativo linguaggio tecnico dei geografi antichi, suoi presunti colleghi. I geografi matematici alla maniera di Eratostene e Ipparco, o i geografi politici alla maniera di Strabone, si occupano infatti di definire, tecnicamente, plavto~ e mh`ko~ della terra, il diavsthma dell’ecumene, e soprattutto gli schvmata, cioè le «forme geometriche», delle varie regioni81. Al più, come dice esplicitamente Strabone, e come vedremo meglio tra breve, al geografo era richiesto di conoscere di una regione l’intera fuvs i~, cioè la somma complessiva dei suoi caratteri distintivi, ivi comprese la fauna e la flora. Nessun geografo antico avrebbe usato in tal senso un termine come kuvto~, il quale non a caso si è mostrato a noi tutto percorso di venature bibliche e cristiano-bizantine. Che dire insomma di questa immagine? Che conferma in pieno un processo che abbiamo già illustrato, e cioè che per capire il nostro “Artemidoro” occorre unire al lessico di questi tardi o tardissimi bizantini un pensiero originario del geografo Strabone. Il quale, ancora una volta, ci fornisce nei Prolegomena il modello base – concettuale, non lessicale – delle parole di “Artemidoro”. Partendo, come di consueto, da Omero, Strabone aveva infatti affermato la necessità che il geografo conosca subito, come anticipavamo poc’anzi, «le caratteristiche peculiari della regione» [to; ijdivwma th`~ cwvra~], vale a dire la flora, la fauna e altri caratteri distintivi, poiché queste nozioni costituiscono nel loro complesso «una grande preparazione per conoscere la natura della regione»82. È lo stesso pensiero che troviamo nel papiro – conoscere preliminarmente i caratteri generali di una regione – ma espresso con parole diverse: Strabone dice maqei`n th`~ cwvra~ th;n fuvs in, “Artemidoro” gnwrivzein to; kuvto~ th`~ cwvra~. È rivelatorio incrociare il pensiero del geografo augusteo con la formulazione lessicale del lontanissimo poeta bizantino. Un incrocio che potrà a buon diritto sembrare un abominevole esperimento di ingegneria genetica, ma il cui parto, ancorché mostruoso, ha connotati sorprendentemente simili a quelli del nostro “Artemidoro”: 81 82

Per tutti questi termini è emblematico Strab., I, 4, 1-6. Strab., I, 1, 16.

358 Strabone: Philes: “Artemidoro”:

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maqei`n th`~ cwvra~ th;n fuvsin gignwvskein th'~ gh'~ to; kuvto~ gnwrivzein to; kuvto~ th`~ cwvra~

Ci troviamo di fronte allo stesso modello creativo che abbiamo osservato in precedenza tanto per il «peso di Atlante», quanto per l’anima: “Artemidoro” riscrive Strabone con altre parole. Ma sono parole – questo è il punto – di mille anni più tardi, uguali a quelle di un vescovo del XII secolo, o a quelle di un poeta del XIV. I quali non avevano altro in comune con il vero Artemidoro se non qualche erudito interesse geografico, o una remota origine efesina. Troppo poco per confidare che su queste parentele si possano sviluppare genealogie carsiche a tal punto fertili, e a tal punto durevoli. 8. Guardarsi attorno È quello che deve fare il filosofo durante le sue notti d’insonnia, ed è quello che parimenti deve fare il geografo appena giunto in una regione: I col. r. 35: pavnta pevrix skopou'nta II col. r. 12: polla; pevrix blevpwn

È chiaro che “Artemidoro” prosegue nel parallelismo tra filosofo e geografo: quello che fa l’uno deve fare anche l’altro. L’espressione va intesa nel senso di: «osservare tutte le cose circostanti», appunto per conoscere il kuvto~ della regione (la traduzione del Tre vite «effettuando analisi a tutto campo» o «facendo molte osservazioni» eccede un po’ troppo in licenza). Ora, la iunctura di pevrix attributivo unito a verbo che indichi «vedere», «osservare» etc. è a dir poco inusuale. Ricadiamo dunque nella consueta difficoltà di collocare le parole di questo papiro nel contesto della lingua e della letteratura ellenistica. Oltretutto, se si compie un’indagine sulle possibili ricorrenze di queste espressioni, si finisce ancora una volta a fare i conti con due nomi che all’inizio avrebbero certo destato meraviglia, ma che ormai non meravigliano più: di nuovo Manuele Philes, e di nuovo, immancabile, Eustazio di Tessalonica. Nel carme I, 154 Philes descrive un’icona della Theotokos che tiene in braccio Gesù. Dopo aver descritto la madre ricorrendo ai tipici

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richiami al Cantico dei cantici («sposa, bella e vergine, bruciante d’amore per lo sposo che da lei è nato»), Philes si rivolge direttamente allo spettatore del quadro, e gli dice: «se poi vuoi scorgere l’ape, o la tortora profetica che viene dal deserto (= Giovanni Battista), o le mistiche cicale, o i cigni, osserva, tu che guardi, le figure che le stanno intorno [Skovpei, qeatav, tou;~ parestw'ta~ pevrix] e che suonando le lire intellegibili inneggiano alla puerpera e al neonato»83. I versi non sono bellissimi. Ma le parole che cerchiamo ci sono: skopevw + pevrix. Se facciamo un passo indietro e torniamo a Eustazio, troviamo anche di meglio. Nei Commentari all’Odissea leggiamo a un tratto: «occorreva che fosse necessariamente uno spazio aperto, per osservare tutte le cose circostanti»: i{na periskoph'tai ta; pevrix84. Assai utili anche i Commentari all’Iliade, dove la iunctura ritorna almeno altre due volte, sempre a proposito della parola skopivh («vedetta»). Eustazio interpreta: «Si tratta di un poggio, da dove gli occhi possono osservare le cose circostanti»: Periwph; dev ejstin, ajf’ h|~ tw'n pevrix oiJ w\pe~ aijsqavnontai85. Ancor più essenziale il commento a Iliade D 275: «‘vedetta’ è la cima di un monte, dalla quale è possibile osservare in lontananza [diaskopei'n ta; povrrw]: ma potrebbe anche essere un poggio o un luogo aperto su ogni lato [cw'ro~ perivskepto~], dal quale si possano vedere ed esaminare le cose circostanti»86: ta; pevrix blevpoi ti~ a]n kai; skevptoito. “Artemidoro”: pavnta pevrix skopou'nta polla; pevrix blevpwn

Eustazio: periskoph'tai ta; pevrix ta; pevrix blevpoi

La maestosa, ingombrante figura di Eustazio continua a distendere la sua lunga ombra sul nostro papiro.

9. Il geografo Odisseo Ma perché Eustazio? La domanda, al di là delle iuncturae, dei lessemi, delle immagini di cui ho segnalato nelle pagine precedenti l’eMan. Phil., Carm., I, 154, vv. 14-19 Miller. Eust. Thess., Comm. in Hom. Odyss., II, 57, 38. 85 Id., Comm. in Hom. Iliad., III, 566, 22. 86 Ibid., I, 748, 25-27. 83 84

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vidente posteriorità cronologica rispetto all’età ellenistica e che ci hanno ricorrentemente condotto tra le braccia del grande vescovo bizantino, ci riporta, in forma quasi circolare, al nostro primo Antefatto, e potrebbe anche per questo tradursi in una diversa formulazione: chi è il geografo di questo papiro? Intendo: che modello di geografo, più o meno nascostamente, ci viene proposto? Eustazio è uno straordinario erudito e filologo. Ma è anche, come abbiamo più volte sottolineato, teologo e vescovo, addestrato da secoli di esegesi cristiana a impugnare la potente, versatile arma dell’allegoria. E Odisseo è nelle sue mani, come per altri «allegoristi di Omero a Bisanzio», una inesauribile fonte di ispirazione allegorica. Tutto questo ci induce a riconoscere, sotto il velame del proemio e del continuo intreccio eustaziano che lo percorre, un’immagine complessiva più rilevante, e a chiederci se il geografo di “Artemidoro”, in forme più o meno esplicite, non intenda allusivamente assumere i tratti di un novello Odisseo. Perché anche Odisseo è un geografo! Il prototipo del geografo. È l’Odisseo che ha vagato per l’intero Mediterraneo, l’Odisseo che ha esplorato terre sconosciute, sperimentato gli usi e i costumi più diversi, incontrato forme di vita ignote (i mostri fantastici dell’Odissea non sono più fantastici di quelli rappresentati sul verso del papiro87). Odisseo è il geografo che ha interrogato i geografi di tutte le epoche al fine di ricostruire il «vero» possibile percorso da lui compiuto. L’irrequietudine che “Artemidoro” pretende dal suo geografo-filosofo è la stessa irrequietudine di Odisseo (ecco in che senso l’anima non si deve mai placare, e persino di notte vegliare). Qualità, parrebbe, comune a molti eroi88. Naturalmente è questo un Odisseo postomerico, interpretato alla luce dell’immagine (di una delle tante immagini) ch’egli ha incarnato nell’infinita storia della sua posterità. Che la geografia antica, d’altronde, si costituisse non di rado come una perdurante emanazione della tradizione odissiaca è ampiamente risaputo. Le peregrinazioni dell’eroe omerico, insieme con quelle degli Argonauti89, sono la prima fonte di conoscenza spaziale che i Greci hanno sperimentato. E sulla attendibilità di un Omero geografo, e sulla buona disposizione a riconoscerne o a negarne l’autorità, si misuravano gli orientamenti scientifici delle varie scuoVedi supra, cap. VI. Si veda infra, cap. XX, § 2. 89 Basti il rinvio al classico MEULI 1921. 87 88

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le. Ma come detto non fu un fenomeno soltanto classico. Ancora una volta dovremo anzi rilevare la forza e la secolare tenuta della linea Strabone-Eustazio. Il primo è stato uno dei più convinti difensori della geografia omerica; il secondo è stato allo stesso tempo uno dei più produttivi esegeti di Omero e uno dei più costanti lettori di Strabone. Le due cose si tengono insieme: Eustazio commenta «il Poeta» con «il Geografo», predisponendo o confermando a entrambi un viatico duraturo per tutta la cultura bizantina e poi neogreca. Per questo io non ritengo casuale che molte delle immagini o anche solo delle parole di questo papiro finiscano per ricondurci su uno scenario che ha per attori principali Strabone e Odisseo. Né mi pare casuale che la maggior parte dei passi di Eustazio che abbiamo evocato provengano dai Commentarii all’Odissea. C’è oltretutto sullo sfondo – al di là dei diversi paralleli che abbiamo esaminato – una dimensione allusiva che pervade probabilmente l’intero progetto di “Artemidoro”. Non dimentichiamo che protagonista principale del papiro, dopo il «magniloquente proemio», è la Spagna, e che proprio alla Spagna è dedicato il più ampio frammento pervenutoci del geografo efesino, puntualmente riproposto nella colonna IV. Ora uno dei più importanti punti strategici della trattazione di Strabone, e poi della successiva rilettura di Eustazio, è la dimostrazione del reale passaggio di Odisseo nelle regioni citate da Omero (o nelle regioni che i lettori postumi riconoscevano nelle parole di Omero). Strabone, e con lui Eustazio, è particolarmente lieto nel poter indicare un «segno» della plavnh di Odisseo, sia esso una leggenda locale, un toponimo o un tempio dedicato, dall’altra parte del Mediterraneo, a una dea omerica. Questi segni sono la prova che Odisseo giunse per davvero agli estremi del «mare interno», e che dunque Omero non aveva mentito. Il che avviene in particolare per la Spagna, in prossimità di quelle colonne d’Ercole che rappresenteranno per secoli, fino a Dante, il limite invalicabile del viaggio omerico. Strabone può qui giocarsi una carta vincente, che susciterà il consenso anche del vescovo, suo postumo ammiratore: la presenza in Iberia di una città di nome Odysseia e di un tempio di Atena90. 90 Strab., III, 2, 13: ouj ga;r movnon oiJ kata; th;n ΔItalivan kai; Sikelivan tovpoi kai; a[lloi tine;~ tw'n toiouvtwn shmei'a uJpogravfousin, ajlla; kai; ejn th'/ ΔIbhriva/ ΔOduvsseia povli~ deivknutai kai; ΔAqhna'~ iJero;n kai; a[lla muriva i[cnh th'~ te ejkeivnou plavnh~ ktl.

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Città omonima e tempio consacrato alla dea sua protettrice costituiscono i shmei`a del suo lontano, ma reale, approdo in Spagna. Questa tradizione resiste nel tempo ed è raccolta anche da Eustazio. E anzi proprio nella parte introduttiva dei suoi Commentarii all’Odissea, cioè nelle stesse pagine che abbiamo già avuto modo di evocare a proposito di Atena, Atlante etc. I segni che già per Strabone garantivano la credibilità di Omero, diventano per Eustazio un insostituibile puntello all’immagine di Odisseo esploratore del mondo, e di qui somma allegoria di conoscenza. Storici e geografi – garantisce Eustazio ai lettori che s’introducono nella sua opera – attestano infatti che in Iberia si trova una città di nome Odysseia91, e questo dimostra la fama universale dell’eroe, conosciuto «fino agli estremi dell’Iberia occidentale» [mevcri kai; tw'n ejscavtwn th'~ ÔEsperiva~ ΔIbhriva~]. Ancor di più questo dimostra che Odisseo conobbe nelle sue peregrinazioni ogni forma di cultura e di organizzazione sociale, e che egli è insomma il prototipo del polui?stwr. La definizione di Odisseo polueidh;~ th;n ejmpeirivan viene appunto spiegata così: egli conosce gli usi e i costumi del mondo fino all’estremo Occidente92. Com’ebbe in seguito a scrivere: «della fama di Odisseo vi son tracce fino in Iberia»: ΔOdussevw~ gavr, e{w~ kai; eij~ ΔIbhrivan, i[cnh tou' klevou~93. L’Iberia è terra odissiaca. Il lettore del papiro di “Artemidoro” non può rimanere insensibile a questo particolare intreccio di affluenti sotterranei al testo. Il «peso di Atlante», il rarissimo aggettivo ajkopivato~ nella stessa pagina e sempre in riferimento ad Atlante, la veglia e gli affanni durevoli del geografo, lo sguardo sulla regione circostante e persino certe curiose sviste ortografiche: in tutto questo il vescovo bizantino rappresenta il fido compagno di strada che guida il lettore del proemio a una costante memoria di Odisseo. Il quale, attraverso il filtro di Eustazio, finisce per fornire ad “Artemidoro” un vero e proprio modello ideale di riferimento: il geografo come filosofo, il geografo come novello Odisseo, il geografo come irrequieto, mai domo, semEust. Thess., Comm. ad Hom. Odyss., I, 1, 13-19. Ivi, I, 5, 8-11: ”Oti ejpainei' to;n ΔOdusseva wJ~ mavla polla; planhqevnta kai; pollw'n ijdovnta ajnqrwvpwn a[stea kai; novon gnovnta. o{ ejstin, h\qo~. e[qo~. diagwghvn. ou| th'~ plavnh~ i[cnh, mevcri kai; tw'n ejscavtwn th'~ ÔEsperiva~ ΔIbhriva~, wJ~ iJstorou'sin oiJ palaioiv. ei[h a]n ou\n oJ ΔOdusseu;~ dia; tau'ta, polui?stwr, polueidh;~ th;n ejmpeirivan. 93 Ivi, I, 65, 17. 91 92

XV. Artemidoro bizantino. Il proemio del nuovo papiro

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pre curioso indagatore del mondo naturale e del mondo umano, ed esploratore suo malgrado proprio di quella terra che nelle colonne successive del papiro verrà appunto descritta con le parole (almeno in parte) del vero Artemidoro. È come se il nuovo “Artemidoro” avesse ricreato nel papiro un frammento di posterità omerica: odissiaco, cioè eustaziano, è il modello del geografo tracciato nelle prime due colonne, odissiaca è la terra descritta nelle altre due. Il proemio e il II libro di questo epitomato e interpolato “Artemidoro” riflettono in controluce l’immagine dell’eroe ellenico per eccellenza. 10. Il geografo divino C’è troppo lessico sacro in questo proemio. Lo abbiamo notato più volte. E non solo perché “Artemidoro” parla spesso con le parole di un vescovo, o perché inserisce a ogni passo un riferimento all’anima. Questo proemio ci offre anche un lessico di «filosofi divini» e «divina filosofia», di «Muse supreme» e «consacrazioni». Ciascuna di queste espressioni fa alle pugna non solo con una concezione desacralizzata della scienza, quale sarebbe lecito attendersi in un’opera di Geographoumena, ma anche con il lessico in uso, a maggior ragione in contesto geografico, in un autore di epoca ellenistica. Muse e divina filosofia procedono appaiate: il filosofo-geografo, stando alla traduzione del Tre vite, «si consacra completamente alle virtuose indicazioni che vengono dalle così maestose Muse affinché le mirabili proprietà della filosofia lo rendano santissimo nella virtù» (col. I, rr. 41-45, col. II, rr. 1-2)94. Quasi ogni parola di questo passo desta perplessità. a) A brevissima distanza l’aggettivo qeoprephv~ ricorre due volte per connotare dapprima le «Muse», quindi «le proprietà della filosofia». In entrambi i casi non si conoscono precedenti. La traduzione del Tre vite è specchio, quand’anche inconsapevole, dell’imbarazzo di definire sullo stesso piano di «divinità» le Muse e la filosofia. Tant’è vero che, a fronte dello stesso termine greco, le prime sono diventate «maestose», la seconda «mirabile». Singolare è dunque 94 Più letteralmente: «si consacra tutto intero alle virtuose ingiunzioni (ovvero preannunci) delle divinissime Muse, affinché il divino schema della filosofia renda l’uomo santissimo nella virtù». Vedi supra, Proekdosis.

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Parte quinta. Artemidoro «bizantino»

che lo sch'ma th'~ filosofiva~ venga definito qeoprephv~, ma singolare è lo stesso sch'ma th'~ filosofiva~. Anche in questo caso non abbiamo nessun riscontro classico. Un buon esempio si trova invece nell’apologeta Giustino: «ci sono alcuni che, pur non facendo nulla che sia degno di questo appellativo, si fregiano del filosofiva~ o[noma kai; sch'ma»95. L’unione con l’aggettivo qeoprephv~ accresce l’impressione di una coloritura fortemente teologica, sia essa neoplatonica o cristiana. L’aggettivo ricorre assai di frequente in Giamblico e Proclo. Per i cristiani gli uomini che si presentano qeoprepw`~ nel volto o nello sch`ma, sono uomini divini inviati da Dio, come il Battista96. Il Padre e il Figlio non hanno sch`ma swmatikovn, bensì una morfhv concepita in modo degno della divinità [qeoprepw`~], in quanto espressione dell’ijdivwma th`~ qeovthto~97 etc. Rimane dunque difficile da comprendere perché un geografo del II sec. a.C. dovrebbe parlare del «divino sch`ma della filosofia». b) A qeoprephv~ fa da pendant qeiovtato~, che ha già destato l’attenzione di Canfora a proposito della qeiotavth filosofiva di r. 14 (vedi supra, cap. VIII, § 2). Il richiamo a Giamblico e a Massimo Confessore procede nella stessa direzione che abbiamo tracciato. Ma particolarmente efficace mi pare il richiamo a Marciano, soprattutto se applicato al qeiovtato~ a[nqrwpo~ che troviamo all’inizio della colonna II. Se il filosofo rispetta lo sch`ma th`~ filosofiva~ egli diverrà un uomo «santissimo nella virtù». Marciano fu grande ammiratore di Tolomeo, ed espresse la sua venerazione definendolo, a più riprese, qeiovtato~ kai; sofwvtato~. Lo stesso Marciano fu l’autore, come abbiamo già ricordato, di un’Epitome di Artemidoro. Nel proemio del suo Trattato sul mare esterno egli menziona l’uno dopo l’altro i due geografi, ricordando di Artemidoro l’opera in 11 libri, e qualificando Tolomeo col particolare aggettivo qeiovtato~. Tra i due c’è una sorta di gerarchia: Marciano conosce benissimo l’opera di Artemidoro, ma soltanto Tolomeo è per lui qeiovtato~. Nel papiro 95 Iustin., Apol., 4, 8. Sch`ma è bensì termine tecnico del geografo, ma nel senso, affatto diverso, di forma geometrica di una regione: cfr. CORDANO 1992, pp. 191-199. Strabone potrebbe forse aiutarci. Nella sua opera egli parla a un tratto di uno sch`ma gewgrafikovn (II, 5, 34), e dal contesto si capisce che si sta riferendo al compito della geografia, vale a dire a ciò che il geografo si prefigge di fare. Ma poiché per “Artemidoro” geografo e filosofo coincidono, qui avremmo dunque uno sch'ma th'~ filosofiva~. 96 Eus. Caes., Dem. eu., 9, 5, 12. 97 Bas. Caes., Hom. in Hex., 9, 6.

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abbiamo un curioso trapasso: per “Artemidoro” il geografo deve appunto aspirare a diventare qeiovtato~. È come se egli avesse appreso retroattivamente la lezione e i giudizi di Marciano. c) Al lessico sacralizzante appartiene anche il verbo sunanativqhmi, peraltro rarissimo. Di per sé significa «mettere sopra», o «aiutare a mettere sopra». Le attestazioni sono di due tipi: o in riferimento a un peso («aiutare qualcuno a sollevare un peso»), o in riferimento a un’offerta sull’altare. Di qui si passa per traslato al valore di «consacrare». Il testo di “Artemidoro” prevederebbe questo significato in senso del tutto metaforico: il filosofo «consacra tutto se stesso» [eJauto;n o{lon sunanativqetai]. Sta di fatto però che sunanativqhmi con valore di consacrare un’offerta è una vera rarità: i lessici (v. LSJ ad loc.) indicano soltanto Luciano (Phal. 2, 7) e un testo epigrafico. Ma tanto nell’uno quanto nell’altro il verbo non ha il valore traslato che gli darebbe “Artemidoro”, bensì indica in termini molto stretti e tecnici il posare sull’altare l’offerta sacra. Il valore di fare una offerta –> consacrare –> consacrare se stessi dunque «dedicarsi a» parrebbe semmai di ajnativqhmi. Interessante in tal senso un caso del Crisostomo: un frammento catenario sul Vangelo di Giovanni darebbe questo testo: kai; aujtou;~ sunanativqhmi, fhsiv, kai; poiw' prosforavn. In realtà nel testo di tradizione diretta stampato nel Migne (PG 59, 443, 35-36) il passo suona piuttosto: kai; aujtouv~ soi ajnativqhmi kai; poiw' prosforavn, e a ogni modo col Crisostomo non siamo propriamente in età ellenistica. d) Veniamo alle Muse. Perché “Artemidoro” le evoca? Non risulta che alcun geografo, tanto meno nel presentare programmaticamente la propria scienza, abbia invocato la loro protezione. L’unico ad aver inserito una menzione deferente alle Muse è stato Dionigi il Periegeta, ed Eustazio nel suo Commento non ha mancato di sottolinearlo. Ma si tratta in tutta evidenza di un pegno pagato al genere letterario: Dionigi scrive in esametri, e non può dunque che adeguarsi alle convenzioni che si debbono alla poesia. Concessioni, beninteso, che ricorrono anche altrove, e che infatti hanno indotto a riconoscere nella sua opera «le grain de phantasie qui s’impose en poésie»98. Ma il caso di Dionigi è utile soprattutto per prendere in considerazione il relativo commento, ancora una volta, di Eustazio. Egli nota infatti che Dionigi, all’inizio dell’opera, «per apparire più filosofo [filosofwvtero~] ed evitare il tipico costume dei poeti, tralasciò in modo al98

AUJAC 1993, p. 349.

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quanto inusitato [kainoprepevsteron] di invocare, come si conviene a un poeta, le Muse». In seguito però, avanzato nell’opera, e «rendendosi conto di essere un poeta, e poiché stava considerando l’esplorazione della terra senza Muse, cioè senza conoscenza mitica, le qualifica esplicitamente come guide della periegesi»99. L’osservazione di Eustazio è assai pertinente, anche perché ha il merito di esplicitare l’intima contraddizione tra una concezione scientifica e filosofica della geografia e l’invocazione alle Muse, che Dionigi avrebbe infatti evitato all’inizio dell’opera (dove di norma cadeva) proprio «per sembrare più filosofo». Quanto alla successiva menzione – in omaggio, come dice Eustazio, all’e[qo~ dei poeti – potrebbe non essere causale che essa cada proprio quando Dionigi sta per accingersi a descrivere l’Iberia! Né è forse un caso che Eustazio nel suo commento proceda parlando delle colonne d’Ercole e del mito di Atlante che sorregge il mondo... Dobbiamo dunque ribadire l’impressione più volte rilevata: il proemio è tutto pervaso da un lessico fortemente sacralizzato, che diffonde sul nostro papiro un intenso sentore teologico. Muse, filosofi divini, e così pure i «dogmi» della «divina filosofia» ne sono senza alcun dubbio gli elementi più visibili, e certo più preoccupanti. Ma non è escluso che l’ispirazione profonda di questo lessico sia giunta al nostro “Artemidoro” da fonti imprevedibili, certamente non ellenistiche, remotissime all’apparenza, forse vicine100.

Eust. Thess., Comm. ad Dion., 227, 27 ss. Proseguiremo il discorso nel cap. XVII. A ulteriore conferma del carattere tardo e bizantino di questo greco potrà essere utile un confronto con un’orazione del patriarca di Costantinopoli Michele III (1170-1178). Ma di questo si farà cenno altrove. 99

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XVI PESAR L’ANIMA

«Die eigenen Bedeutungen der Worte wiegen schwer» Th.W. Adorno

Queste pagine sono dedicate a un verbo. Dimostrerò – sanata una lacuna – che Artemidoro di Efeso non lo avrebbe mai usato in quel senso e in quel modo: questione di cronologia. Mostrerò quindi, dopo il verbo, che anche l’immagine proviene, seppure inconsapevolmente, da una tradizione culturale estranea a un geografo di età ellenistica; infine ne indicherò la fonte. Ho l’audacia di credere che al termine di queste pagine i righi del prologo risulteranno più chiari, e che il papiro perderà un altro pezzo della sua maschera. A condannarlo, potremmo dire con Adorno, sarà proprio il ‘peso delle parole’. Nella prima stesura l’epigrafe era in realtà occupata da una raccomandazione di don Abbondio: «La creanza è di non dir le cose che posson dispiacere» – spiegava a un’Agnese fin troppo loquace – «sicché giudizio, se potete: pesar le parole, e soprattutto dirne poche». L’ho infine rimossa, perché ho avuto il sospetto che poche non fossero, e che a qualcuno forse dispiaceranno. Ma di questo mi curo meno: più importante è che abbiano di Agnese, se pure i difetti, anche le virtù.

1. Soppesando Uno dei fenomeni più curiosi del papiro di “Artemidoro” è la cosiddetta Spiegelschrift: significative tracce d’inchiostro scomparse

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nel recto si trovano in realtà impresse specularmente sul verso, e permettono in certi punti di integrare con grande efficacia tanto i disegni quanto le colonne di testo1. Col lievitare della teoria delle «tre vite», le spiegazioni via via addotte per questo singolare fenomeno sono cadute in contraddizione2: ma se le cause restano inspiegate, il fatto rimane certo, e possiamo profittarne serenamente. Lascerò da parte il caso della col. II, maggiormente interessata dai recuperi della Spiegelschrift, e verrò a un passo di un certo interesse nella col. I. A beneficiare delle tracce d’inchiostro del verso sono in questo caso i righi 3-4, danneggiati da una lacuna sulla parte finale (fig. 2a): 3 4 5

PRW[. . . . . TEUÇANTATHNYUCH[. . . . . . . THNTHNPRAGMATEIAN[ . .

Come si può vedere nella fig. 2b, in prossimità del disegno che raffigura nel verso un uccello (V39), si riescono per buona ventura a riconoscere le seguenti lettere di fine rigo: AN EIÇTAU

Ridisponendo virtualmente queste lettere sul recto all’altezza dei righi 3-4 della colonna I potremo quindi integrare il testo con notevole profitto (fig. 2c): 3 4 5

PRW[. . . AN ÇTAU TEUÇANTATHNYUCH[. EIÇ THNTHNPRAGMATEIAN[

Per quanto riguarda il rigo 4, le tracce di inchiostro recuperate permettono dunque di ristabilire l’intera sequenza testuale nelle parole: th;n yuch;[n] eij~ tauv|thn th;n pragmateivan. Meno immediato è invece il ristabilimento del participio che regge l’intera espressione, e di cui si legge nel recto la sola parte terminale. Il Tre vite tentò Si veda l’efficace ricostruzione della mano sul recto (disegno R16) in CONSO2006, pp. 74-77. 2 Per questo vedi supra, cap. IV, § 9. 1

LANDI

XVI. Pesar l’anima

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di ovviare alla lacuna con una traduzione a senso («predisponendo il suo spirito per quest’opera»), da cui non si riesce tuttavia a intravvedere una ricostruzione plausibile del testo. Dirimente è invece il recupero delle lettere AN impresse sul verso, che guidano con sicurezza al risarcimento del passo: «dopo avere in precedenza soppesato l’anima». Questa traduzione presuppone infatti l’unica possibile integrazione della lacuna: PRW AN|TEUÇANTA THN YUCHN. Il testo andrà pertanto ricostruito: 3 4 5

pro; [tal]anteuvsanta3 th;n yuch;[n] eij~ tauvthn th;n pragmateivan

Al geografo è dunque richiesto di intraprendere la propria ardua missione «soppesando in precedenza la propria anima in rapporto a quest’opera». Potremmo anche intendere: «bilanciando», «calibrando» la propria anima «sull’opera» che lo attende. Prima di affrontare le terribili sfide che la sua disciplina gli impone, egli dovrà quindi misurare preventivamente le proprie forze, le proprie capacità, le proprie virtù. Dovrà valutare, rispetto a quell’impegno, la propria idoneità. Poco oltre, sulla stessa linea di pensiero, l’autore richiama la necessità di prepararsi «in conformità alla forza della propria virtù»: kata; th;n th`~ ajreth`~ duvnamin. 2. Oscillando Nemmeno il tempo di gioire per lo squarcio di luce che ha illuminato il testo, e già tornano a addensarsi su queste parole le oscure nubi del dubbio. Da queste nubi – troppo simili a quelle che già avvolgo3 È evidente che prw sarà grafia erronea per pro: mende fonetiche di questo tipo ricorrono in tutto il testo. Nonostante la consueta ineleganza dell’espressione, intendiamo qui prov come avverbio, ma in linea di principio non si può del tutto escludere che l’autore abbia concepito la forma verbale unica protalanteuvw, nell’ipotetico significato di «pesare prima» (sul modello magari di ajntitalanteuvw o ajmfitalanteuvw, che sono peraltro formazioni molto tarde). Hapax legomena di questa abnormità non mancano nel papiro (al r. 38 della I col. si trova ad esempio l’ignoto prosenfortivzw), ma questo aggraverebbe ancor di più l’inattendibilità del testo.

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no l’intera superficie del papiro – precipita di colpo una domanda: ma al tempo di Artemidoro di Efeso il verbo talanteuvw aveva davvero il significato presupposto in questo passo? Il sondaggio non è difficile, e la risposta conferma il dubbio. No: al tempo del vero Artemidoro talanteuvw non veniva adoperato nel senso e nel modo che troviamo nel papiro. Negli scrittori precedenti, coevi o anche di qualche secolo successivi, l’idea sarebbe stata espressa in termini ben differenti. Che il verbo sia collegato all’immagine della bilancia (tavlanton) è ovvio. Ma della bilancia, originariamente, non indicava l’atto del pesare, cioè la determinazione del peso di un oggetto, bensì l’oscillazione. Tutte le occorrenze riscontrabili – e sono legione – nei testi di età classica ed ellenistica mostrano infatti che il verbo significava semmai «oscillare, inclinare, pendere». In nessun caso troviamo la costruzione con l’accusativo nel senso di «pesare» o «bilanciare» qualcosa. Questo scarto semantico è del resto garantito da un motivo essenzialmente grammaticale: talanteuvw conosce tra i classici costruzione unicamente intransitiva. La costruzione transitiva, che imporrà al verbo un significato percepibilmente diverso, si affermerà soltanto dall’epoca tardo-antica in poi. “Artemidoro” è dunque scivolato di nuovo su un anacronismo linguistico? I primi riscontri si trovano nel corpus aristotelico, dove il verbo viene impiegato per descrivere o l’incedere degli animali polipodi (che spostano il peso da un piede all’altro per non «oscillare») o il moto ondoso del mare, che appunto «fluisce spesso da una parte all’altra»4. A quest’epoca, e per moltissimo ancora, il verbo indica dunque un’inclinazione, un movimento oscillatorio e fluttuante, e lo si può in tal senso confrontare con talantovomai («essere sbilanciato»). Soltanto svariati secoli dopo indicherà la misurazione di un peso. Non a caso, nel commentare il passo aristotelico quasi un millennio più tardi, Olimpiodoro si sentirà in dovere di chiarire che il filosofo «a buon diritto chiamò talanteuvesqai il moto ondoso, per il fatto che l’acqua si muove da una parte all’altra come i piatti di una bilancia». Al tempo di Olimpiodoro (VI sec. d.C.) il verbo si era ormai caricato di un altro significato – lo stesso presupposto nel papiro – e dunque il commentatore avrà avvertito l’opportunità di precisare ai suoi lettori il valore primo e ormai tendenzialmente minoritario del termine, quale attestato nel lontanissimo Aristotele. Si4

Arist., De incessu anim., 708B; Meteor., 354A.

XVI. Pesar l’anima

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gnificativo, nella spiegazione del passo, che egli ricorra anche a rJevpw ed ejktrevpomai5. Da filosofo a filosofo potremo quindi scendere a Posidonio. A scorrere l’edizione del Theiler6 ci si imbatte in tre occorrenze di talanteuvw, tutte col valore intransitivo di «oscillare, inclinare». Le prime due provengono da Diodoro, la terza da Filone. Nel muoversi tra queste testimonianze dovremo comunque evitare di addentrarci in riflessioni lessicali che il filtro della tradizione indiretta renderebbe inevitabilmente sterili. Per di più la questione parrebbe in questo caso complicata dai frequenti traslochi dei frammenti nelle edizioni moderne. Il caso del fr. 310 è illuminante. Si tratta di un lunghissimo estratto dal De aeternitate mundi di Filone7: il Theiler lo rubricò tra i testimoni di Posidonio, ma il Diels lo aveva a suo tempo compreso tra i frammenti delle Fusikw`n dovxai di Teofrasto8. La questione è particolarmente complessa, e in fondo non ha per noi gran peso, se non per ricordare agli amanti delle raccolte frammentarie quanto sia rischioso riunire in variopinte ghirlande i fiori sparsi della tradizione indiretta. Del resto anche sugli altri due frr. (141 e 216) assistiamo a una complicata catena di trasmissione. Forse conterranno pure notizie originarie di Posidonio, ma in realtà provengono da Diodoro. E si badi: non dal Diodoro di tradizione diretta, bensì da estratti di Diodoro recuperati ora dagli Excerpta Constantiniana ora dalla Bibliotheca di Fozio!9 Abbiamo dunque a che fare, da Posidonio agli escertori imperiali, con una tradizione indiretta elevata al quadrato, ed è dunque difficile distinguere il grano dei testi autentici dal loglio degli intermediari. Ma una volta tanto possiamo non sentircene troppo turbati: perché in tutto il resto della loro produzione sia Diodoro sia Filone adoperano il verbo talanteuvw soltanto in costruzione intransitiva, e sempre nel senso di «pendere, oscillare, inclinare», mai nel senso di «pesare». Il che vuol dire che 5 Olymp., In Arist. meteora comm., 131 dia; to; talanteuvesqai deu'ro kajkei'se pollavki~. Kalw'~ th;n palivrroian talanteuvesqai ejkavlese, tw'/ divkhn talavntwn eij~ ta; ejnantiva periavgesqai to; u{dwr. kai; ga;r to; tavlanton o{pou da]n katabarhvsh/, ejktrevpetai, wJ~ sumbaivnein kai; eij~ to; ejnantivon rJevpein. 6 THEILER 1982. 7 Il nostro verbo ricorre a 136, 6: hJ de; gh' katwtavtw talanteuvousa. 8 DIELS 1879, fr. 12, p. 489, 9. Per questa vexatissima quaestio sia sufficiente rimandare al commento dello stesso THEILER 1982, vol. II, pp. 192-200. 9 Posid., fr. 141 = Diod., XXXIV-XXXV, 6, 2 (th`~ biva~ ejn ajmfotevroi~ toi`~ mevresi talanteuomevnh~, vol. XII, p. 94 Walton) = Const. Exc., 4, 386-387. Posid., fr. 216 Theiler = Diod., XXXVII, 2, 3 = Phot., Bibl. 391.

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da Aristotele a Diodoro non è cambiato nulla: siano o non siano genuinamente posidoniani i frammenti sparsi per mille rivoli. Senza frapporre altri scalini nel mezzo, saltiamo dunque a Diodoro come testimonio autonomo. Scenderemo così persino più in basso di Artemidoro e potremo quindi osservare la storia del nostro verbo senza le vertigini dei piani alti. Ora, Diodoro è storico, e la storia (non solo quella antica) è molto spesso cronaca di battaglie: non dovrà dunque sorprendere che nella Bibliotheca historica talanteuvw ricorra sempre in contesto militare. È così anche in Dionigi di Alicarnasso. Perché della guerra il nostro verbo sapeva esprimere la qualità immancabile: l’incertezza. Nella zuffa delle armi, nell’instabile, imprevedibile alternarsi di avanzamenti e ripieghi, è come se lo sguardo sovrano dello storico riconoscesse il movimento oscillatorio, ondeggiante, diremo meglio ondivago di una bilancia che ancora non ha emesso il suo verdetto. «Si consumò un’enorme carneficina, e la battaglia oscillava da una parte all’altra». E ancora: «In questa guerra si consumarono sofferenze di ogni sorta e tipo, capitolazioni di città da entrambe le parti, mentre la vittoria oscillava di volta in volta senza mai assestarsi»10. Stessa immagine in Dionigi: «aspra battaglia, ed enorme carneficina su entrambi i fronti, mentre l’esito della guerra rimaneva in bilico e oscillava lungamente da una parte all’altra»11. Sia lecito rimarcare la prossimità cronologica (meglio ancora la lieve posterità) di questi autori rispetto al geografo Artemidoro. Che nelle loro opere il verbo non assuma mai il significato supposto dal papiro è dunque particolarmente indicativo. Stesso discorso vale per Filone di Alessandria, che fornisce un campionario amplissimo di occorrenze. Tutte prevedono il solito significato intransitivo di «oscillare, pendere, inclinare», nessuna quello di «pesare». Sintomatici i passi in cui talanteuvw funge da perfetto equivalente di ajntirrevpw12. E 10 Diod., Bibl. Hist., XI, 22, 3 pollou' de; genomevnou fovnou, kai; th'~ mavch~ deu'ro kajkei'se talanteuomevnh~ ktl. XXXVII, 2, 3 talanteuomevnh~ w{sper ejpivthde~ para; mevro~ th'~ nivkh~ kai; mhdetevroi~ ejn bebaivw/ diamenouvsh~. 11 Dion. Hal., Ant. Rom., IX, 35, 2 ojxei'a mavch kai; fovno~ ajmfotevrwn poluv~, ijsovrropov~ te kai; mevcri pollou' talanteuomevnh th'/de kai; th'/de hJ krivsi~ tou' polevmou. Cfr. in precedenza, IX, 13, 2 ta; de; th'~ tuvch~ mevcri pollou' th'/de kai; th'/de nivkai~ te kai; h{ttai~ talanteuovmena dievmeinen. 12 Phil. Alex., Leg. alleg., II 83 talanteuvei kai; pro;;~ tajnantiva ajntirrevpei, De post. Caini, 22 ajpoklivnei kai; talanteuvousa ajntirrevpei, De gigantibus, 28 ajntirrepovntwn kai; pro;~ eJkavtera talanteuovntwn tw'n ajnqrwpivnwn pragmavtwn e via dicendo.

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sintomatici ancor più quelli in cui il verbo è esplicitamente connesso con l’immagine di una «bilancia dell’anima». Nel De congressu eruditionis gratia (164), ad esempio, Filone osserva che «la prova e l’esame cui è sottoposta l’anima consistono nel travaglio e nell’amarezza senza esito certo, perché è difficile discernere da che parte inclinerà [o{ph/ ga;r talanteuvsei, calepo;n diagnw'nai]». Di questa «prova dell’anima» torna a parlare anche nel De fuga et inventione (151): «In che consiste la prova? Nel gettare un’esca che abbia potere di attrazione – la gloria, la ricchezza, la salute fisica o qualche cosa di simile – e nel verificare, come sui piatti di una bilancia, da che parte inclinerà [gnw'nai pro;~ povtera kaqavper ejpi; plavstiggo~ talanteuvsei]»13. Questi passi sono rivelatori. Come nel papiro si evoca l’immagine della bilancia, come nel papiro si tratta di valutare l’anima (si parla esplicitamente di una dokimasiva th'~ yuch'~), ma la costruzione e il significato del verbo talanteuvw sono nettamente diversi. In Filone troviamo il valore attestato nell’intera tradizione classica e poi ellenistica, da Aristotele a Diodoro a Dionigi di Alicarnasso14. Nel papiro, che pure dovrebbe conservare un testo precedente a Filone di più di cent’anni, troviamo invece il significato che si affermerà soltanto vari secoli dopo. Curiosa inversione di tempo. Ancora in Plutarco il verbo rimane ben ancorato all’antico valore: quand’egli scrive, in Quaest. conv. V, 7 (682E), ajlla; rJevpei kai; talanteuvetai pro;~ toujnantivon, è evidente che egli intende talanteuvw nel senso di «pendere». E non a caso anche qui fa coppia con rJevpw. Le testimonianze che abbiamo esaminato fin qui – da Aristotele a Plutarco – sono dunque coerenti: talanteuvw ha costruzione intransitiva, mai transitiva; significa per questo «oscillare, pendere, inclinare», mai «pesare qualcosa».

3. Misurando A che pensava dunque “Artemidoro” quando formulò il suo bel proponimento? Alla domanda, come vedremo, si potrà rispondere 13

Le traduzioni, lievemente ritoccate, seguono quelle pubblicate in RADICE

1994. 14

etc.

Molteplici le occorrenze: cfr. ancora De conf. ling., 141, De mut. nom., 185

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con buona approssimazione, ma è necessario in questa fase procedere per piccolo cabotaggio, rimanendo per ora saldamente ancorati all’aspetto linguistico. In effetti, appena spostiamo lo sguardo dalla tradizione classica alla letteratura tardo-antica (e poi bizantina), troviamo per talanteuvw tutt’altro uso. Qui il nostro verbo si è ormai assestato nel valore predominante di «pesare», garantito anche per questo dai lessicografi nell’equivalenza con staqmivzein e zugostatei`n15. Questo valore è ormai a tal punto consolidato da ammettere frequentemente un uso traslato. Quando Gregorio Nazianzeno invita a «non pesare la virtù col bilancino» (mh; mikroi'~ staqmoi'~ talanteuvein th;n ajrethvn), è evidente che egli intende il termine in senso astratto. «Noi non pesiamo la divinità» (ouj ga;r qeovthta talanteuvomen) – dirà nel discorso commemorativo di Basilio. Semmai è Dio a «pesare» dell’uomo, come lo stesso Gregorio garantisce altrove, novhma, lovgo~ e pra`xi~16. Ciascuno vede che talanteuvw indica ormai l’accertamento di una misura tanto sotto l’aspetto quantitativo quanto sotto l’aspetto qualitativo: si «pesano» per questo le virtù e i peccati, le capacità e le inadempienze. Non a caso il verbo verrà volentieri scandito nell’aula della somma bilancia, là dove Dio si rivelerà, come promette Cirillo Alessandrino, «giudice che pesa rettamente»17. Che cosa è dunque accaduto dal mare ondeggiante di Aristotele al giudizio dell’anima nella letteratura cristiana? È accaduto che il verbo abbia assunto una costruzione transitiva: e appena ricevuto un oggetto ha cambiato valore. A che serve il tavlanton? A «pesare i pesi», risponderebbe semplicemente Eusebio: talanteuvein ta; bavrh18. Di qui tutta una lista di possibili oggetti, naturalmente anche traslati: si pesano «gli errori»19, «gli onori»20 e «le ricompense»21; si pesa, con buona fiducia, «il bene e il male»22; si pesa addirittura «la vita»23. 15 Cfr. e.g. Hesych., Lex., «t» 56, 1 talanteuvei: staqmivzei, zugostatei'. Etym. Magnum 161, 57 Tavlanton ga;r to;n zugo;n fasiv: kai; talanteuvomen, ejpi; to; zugostatei'n. 16 I tre passi di Greg. Naz. rispettivamente in Or. 2, PG 35, 424 B; Or. 43, 30, 3; Or. 32, PG 36, 189 B. 17 Cyr. Alex., Comm. in xii proph. min., I, 625, 9-10 Pusey. 18 Eus. Caes., Comm. in Is., 2, 18, 28, Ziegler. 19 Cyr. Alex., Comm. in xii proph. min., I, 555, 7 Pusey. 20 Id., Comm. in Is., PG 70, 1349, 22. 21 Theod. Cyr., Interpr. in Ps., PG 80, 940, 34. 22 Const. Porphyr., De leg., 173, 25. 23 Cyr. Alex., Comm. in xii proph. min., I, 704, 9.

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È come se fossero cambiati i tempi di osservazione: da una bilancia che pende a una bilancia che pesa, non interessa più il movimento, ma l’esito. I classici guardavano il tavlanton mentre ancora oscillava, i tardo-antichi e poi i bizantini quando aveva ormai emesso il suo verdetto. Si passò così dalla mobilità alla fermezza. E la prova più chiara di questo trapasso si ha in tutti quei casi in cui il verbo risulta di fatto sinonimo di «decidere». Il che, a pensare a Diodoro, par quasi paradossale. Perché il verdetto della bilancia può indicare non soltanto una misura, cioè un valore, ma anche l’opzione di un’alternativa. L’oscillazione del tavlanton smette di essere l’espressione di un movimento ancora instabile, e dunque incerto (si pensi appunto alla battaglia talanteuomevnh), e diventa il presupposto indispensabile di un atto di «valutazione» e quindi di «scelta». Attestazioni di questo valore si trovano dal II sec. d.C. in poi, a partire dalle lettere del retore Alcifrone. Nella VIII epistola del primo gruppo l’autore tratteggia la figura di un marito alquanto insicuro, che alla fine si rimette al giudizio della moglie: touvtwn su; th;n ai{resin talavnteue: «soppesa tu la scelta tra queste due [opzioni]». E prosegue: «Dove infatti dovesse pendere alla fine, lì ti seguirò». Il passo è interessante – al di là delle rare virtù coniugali dell’uomo – perché è probabilmente la prima attestazione di un uso transitivo del verbo: i piatti della bilancia sono diventati l’immagine di un’alternativa. In un’epistola successiva lo stesso Alcifrone evocherà parimenti le decisioni immodificabili della Sorte: «la vita non è decisa da queste cose, ma è determinata dalla Tyche»: to; zh'n oujc uJpo; touvtoi~ talanteuvetai, ajll’ uJpo; th'/ tuvch/ brabeuvetai24. Si noterà che qui talanteuvw non fa più coppia con rJevpw, ma addirittura con brabeuvw: da «oscillare» si è passati a «decidere». Potenza di un complemento oggetto. Lo stesso troviamo nelle Etiopiche di Eliodoro. Quando si risolve a rivelare la sua vera identità per scampare all’orrendo sacrificio, Cariclea dichiara: «È giunto il momento decisivo: ora il destino decide delle nostre vite»: nu'n talanteuvei ta; kaq’ hJma'~ hJ moi'ra (X 9, 3). Il piatto inclinato della bilancia esprime dunque un verdetto. Questo verdetto indicherà a chi l’osserva una decisione da prendere o la misura di un valore. Ed è evidentemente questo – la misura di un valore – il significato supposto dal papiro di “Artemidoro”. Per appurare la propria idoneità, il geografo deve «soppesare la propria anima»: talanteuvw 24

Alciphr., Ep., II 4, 2 Schepers.

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vale qui zugostatevw nel senso metaforico di metrevw. Ha insomma lo stesso significato che si afferma tra gli autori tardo-antichi, e che i classici invece ignoravano. Un confronto col Nazianzeno potrà di nuovo soccorrerci. Siamo intorno al 365. Sua nipote Alipiana ha da poco sposato Nicobulo. Ma Nicobulo – a proposito di virtù coniugali – si permette qualche ironia di troppo sulla piccola statura della consorte. Lo zio interviene dunque per difendere l’onore della nipote e rimprovera a Nicobulo di «misurare» materialmente qualità che andranno invece valutate spiritualmente, e che certo sfuggono alla prova della bilancia o del righello. «Apprendo ora» – dice Gregorio in forma volutamente paradossale – «che l’anima si misura, e la virtù si pesa [yuch; metrei'tai kai; ajreth; talanteuvetai]: che le pietre sono più preziose delle perle, i corvi più melodiosi delle allodole»25. Allodola è dunque la piccola Alipiana, il grande Nicobulo un corvo. Con la pungente retorica che lo ha reso famoso, Gregorio mette in fila tutte le parole che troviamo nel nostro papiro: l’anima, la virtù, il verbo talanteuvw. E mostra soprattutto che talanteuvw è ormai volentieri adoperato come equivalente metaforico di metrevw. Un’equivalenza che ritroviamo attestata anche in altri suoi più tardi colleghi, come Teodoreto e Cirillo26. L’evoluzione linguistica è dunque evidente, e ancora una volta gioverà misurarla su Filone. Nel cercare un’endiadi o una variante sinonimica di metrevw, Filone poteva infatti ricorrere a staqmavw, e scrivere ad esempio staqmwvmeno~ kai; diametrw'n27: non risulta sia mai ricorso a talanteuvw. Né vi ricorse alcuno dei suoi contemporanei, ai quali sarebbe parso altrimenti di compiere una delle più moleste infrazioni linguistiche che si possano immaginare: attribuire un complemento oggetto a un verbo intransitivo. Eppure quattro secoli dopo le cose erano ormai cambiate. Cirillo, a differenza di Filone, potrà affiancare in tutta scioltezza talanteuvei e ajnametrei`, dando a ciascuno un complemento oggetto. Dall’uno all’altro Alessandrino, dunque, il nostro verbo acquisì una costruzione transitiva, e poté quindi offrirsi agli insaziabili appetiti dei letterati, sempre a caccia di Greg. Naz., Ep., 12 Gallay. Theod. Cyr., De sancta trinitate, PG 75, 1188, 36 nw'/ kai; glwvtth/ metrouvmenav te kai; talanteuovmena. Cyr. Alex., De adoratione, PG 68, 521, 39-41 nou'~ ga;r eujquv~ te kai; filodivkaio~ talanteuvei trovpon tina; kai; ajnametrei' tw'n pragmavtwn ta;~ fuvsei~. 27 Phil Alex., De mut. nom., 232. 25 26

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varianti sinonimiche, quale risorsa lessicale di ben più ampia praticabilità, capace di indicare della bilancia non più solo il lavoro, ma anche il risultato. L’Etymologicum Magnum lo spiega con l’invidiabile essenzialità dei buoni vocabolari (744, 11): «Il tavlanton è dunque la stavqmh: e talanteuvein è come staqmivzein». Anche le coppie più affiatate possono separarsi: talanteuvw, compagno per secoli di rJevpw, si trova ormai al fianco di staqmivzw. Dovremo scandalizzarci di questo tradimento? Agostino, come tutti i cristiani, usa benedicere transitivo: mai lo avrebbe usato Cicerone. Tra i classici si costruiva col dativo e significava «dire bene di qualcuno». In epoca tardo-antica cominciò invece a significare «benedire» nel senso cristiano del termine, e prese il caso diretto. Fu la Bibbia a imporre questa conversione: anche in latino si dové infatti trovare una traduzione operativa per l’ebraico Krb, che i Greci avevano a loro volta reso con il transitivo eujlogevw. Da allora, e fino a noi, benedico ha cambiato senso e costruzione. Con talanteuvw assistiamo a un fenomeno del tutto analogo. Ma di qui la domanda: un testo in cui ricorra il benedico cristiano, lo attribuiremmo noi a Cicerone? Non si trattò comunque di una separazione definitiva: talanteuvw non ruppe del tutto il suo antico sodalizio con rJep v w e verbi affini, e non rinunciò per sempre alla costruzione intransitiva. Stava ai diversi autori scegliere se costruirlo in un modo o nell’altro (e nei più dotti ricorrono entrambi). Anche Agostino, d’altronde, usava benedico ora col caso diretto ora con quello indiretto, e persino nella Vulgata geronimiana le due costruzioni, se è lecito il bisticcio di parole, oscillano. Ciò che importa è che dall’epoca tardo-antica in poi e via via per tutto il millennio bizantino la nuova costruzione di talanteuvw si afferma progressivamente. Giovanni Damasceno potrà così servirsene per ammonire a «non giudicare il compagno, per non essere giudicati con la giusta bilancia del solo giudice che pesa la nostra giustizia»28, mentre il grande patriarca Nicola Mistico arriverà ad attribuirgli un valore accostabile a diakrivnw: «pesare e saggiare nel fuoco»29. Il verbo tornerà del resto utile anche a Eustazio di Tessalonica per spiegare ai suoi lettori i vari episodi di kerostasia omerica30. Anche questo è un buon esempio di evoluzione lessicale. Omero conosceva bensì il Io. Dam., Encomium in s. Io. Chrys., PG 96, 773, 16-18. Nic. Myst., Opuscula, 201, 29-30 Westerink. 30 Molteplici le occorrenze: Cfr. e.g. Comm. ad Hom. Il., I, 728, 10; II, 401, 16; IV, 320, 9 etc. 28 29

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tavlanton, la bilancia, ma non ancora il verbo talanteuvw: Eustazio potrà invece contare su una tradizione non classica ma certo ormai plurisecolare, e volentieri adopererà il verbo tutte le volte che esso potrà offrirgli, anche in senso figurato, una valida alternativa a zugostatei`n o a staqmivzein. Lo scrupolosissimo esegeta arriverà anzi a domandarsi persino donde provenisse il nome del tavlanton, e vi darà una risposta che il moderno glottologo difficilmente approverà, ma che per noi sarà di vitale importanza per capire a che cosa davvero guardasse il nostro enigmatico geografo quando si fece scappare di mano questo curioso anacronismo. Sed de hoc infra. Per ora occorrerà piuttosto trarre l’inevitabile conclusione: una iunctura come quella del papiro di “Artemidoro” – talanteuvein th;n yuchvn, «soppesare l’anima» – si accomoderebbe con tutta naturalezza in Gregorio Nazianzeno, nel Damasceno o appunto in Eustazio di Tessalonica: non in un geografo del II sec. a.C. Il caso va in tal senso a rimpolpare la lista degli anacronismi linguistici di questo prologo. Solo una mano bizantina avrebbe potuto comporre un testo di questo tipo: certamente non una mano ellenistica. E mi limito a dire ‘bizantina’, perché appunto non voglio sfidare oltre le regole che don Abbondio fissava alla buona creanza. Preciso tuttavia – a scanso di qualsiasi tentazione – che non potrà nemmeno essere considerata una mano tardo-antica. A escluderlo, come altri ha dimostrato, è innanzitutto la storia del testo del vero Artemidoro: sicché all’edificio, per non crollare, non basterebbe nemmeno questa toppa. Che dire del resto dei compromettenti, appassionati lacci d’amore che legano questo autore a Eustazio di Tessalonica? La verità è che il nostro “Artemidoro” appare fin troppo tardo per poter essere anche antico.

4. La bilancia dell’anima «L’anima esiste, e pesa 17 centesimi di milligrammo». Presentata sotto le vesti desacralizzate del racconto pseudoscientifico, e ispirata alla presunta Psychic Force di William Crookes, André Maurois offrirà nel suo Le peseur d’âmes l’ennesima ma non ultima variazione letteraria su un’immagine di plurisecolare fortuna: la bilancia dell’anima31. Tema appunto antichissimo, e ampiamente at31

MAUROIS 1931, p. 66. La citazione è attribuita nel racconto a un medico di

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testato nelle più remote tradizioni religiose: dall’egiziano Libro dei morti, alla celebre kerostasia omerica fino alla larghissima diffusione dell’immagine giudaico-cristiana: il giudizio divino post mortem, l’angelo che reca in mano la bilancia, l’anima che viene pesata per valutarne colpe e virtù32. Com’era inevitabile gli studiosi si sono spesso domandati se tra la kerostasia pagana e la Seelenwaage cristiana, in seguito impersonificata dall’Arcangelo Michele o dalla Vergine Maria, ci sia stata continuità o discontinuità. Nelle pagine del suo famoso Homo ludens, ad esempio, Huizinga osservava che la maggiore differenza risiedeva nel significato stesso dell’immagine, diremmo nei suoi criteri fondanti. In Omero il verdetto della bilancia non è regolato da un criterio di merito, ma da un capriccioso arbitrio del Destino: «di una vittoria della verità morale» – notava Huizinga – «dell’idea che la giustizia pesi più dell’ingiustizia, non c’è ancora alcuna traccia»33. Torneremo tra breve su questa osservazione. Prima converrà invece notare che anche gli esegeti antichi hanno ricorrentemente sottolineato un’evoluzione dell’immagine omerica. Per l’inaugurazione dell’anno accademico 1838 Gottfried Hermann tenne a Lipsia una dotta e assai vivace Disputatio de Aeschyli Psychostasia, in cui tentava di ricostruire la perduta tragedia eschilea a partire dalle notizie di tradizione indiretta, tutte pressoché provenienti dall’esegesi omerica antica. Eschilo prendeva le mosse da una celebre kerostasia, il duello tra Achille e Memnone: Zeus aggancia la bilancia d’oro, le keres dei duellanti vengono sospese, Memnone precipita nell’Ade. Questa scena, che costituiva ovviamente il fulcro della tragedia, doveva presentare un’efficace variante rispetto al racconto omerico: accanto a Zeus, che reggeva la bilancia, Eschilo avrebbe infatti inserito Teti ed Eos, le madri dei due eroi, ciascuna

nome Crooks: ma sotto la minima differenza grafica non si fa fatica a riconoscere la figura di William Crookes, scienziato peraltro benemerito, a cui gli esperimenti sulla cosiddetta Psychic Force valsero però una serie interminabile di controversie e la fama di padre dello Spiritualismo. Ho per le mani una raccolta di suoi estratti (usciti tra 1870 e 1874), da lui stesso rilegati e donati «To Emile, Prince of SaynWittgenstein. With the Author’s Compliments. William Crookes, Septr 20th 1874», sotto il titolo Researches in the Phenomena called Spiritual [Niedersächsiche Staatsund Universitätsbibliothek Göttingen: 8 Philos. IV 9752c]. 32 Per un primo sguardo sulla fortuna di questa immagine si può vedere KRETZENBACHER 1958. Cfr. anche SKUTSCH 1936, BRANDON 1969. 33 HUIZINGA 1939, p. 130.

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supplicante per il figlio34. Ma agli esegeti antichi – che per la prima volta Hermann richiamava in modo sistematico e con tutto lo «stile individuale» che molto piaceva al Wilamowitz35 – interessava di più un’altra presunta innovazione. Omero pesava le keres, Eschilo le anime. Questa variante, per lo più con tono di dissenso, è costantemente segnalata negli scolii omerici. Nel De signis Iliadis, ad esempio, Aristonico sottolineava che Omero aveva parlato delle qanathfovroi moi`rai: «invece Eschilo, pensando che si trattasse delle anime, compose la Psychostasia, nella quale è Zeus a collocare nella bilancia l’anima di Memnone e di Achille»36. Con parole identiche lo ripeterà anche Eustazio37. Porfirio ne fece addirittura una questione grammaticale38. A suo parere Eschilo avrebbe confuso hJ khvr con to; kh`r, trasferendo al primo il valore di «anima» che invece spetterebbe soltanto al secondo. Nell’immaginare una bilancia delle «anime», Eschilo avrebbe dunque confuso i due termini. Un po’ pedantemente Porfirio rimprovera al tragediografo che se Omero avesse davvero inteso il termine nel senso di yuchv non avrebbe scritto ‘duvo kh're’ dia; tou' ‘-e’, ajlla; ‘duvo kh'ra’ dia; tou' ‘-a’. C’è ragione di dubitare della fondatezza di queste critiche. Un indubbio esperto dell’argomento come il Rohde le rigettava senza appello. Keres sarebbe semmai equivalente antichissimo di yucaiv, precocemente decaduto tanto da risultare secondario già in Omero, e noto ancora a Eschilo «wohl aus attischem Sprachgebrauch»39: dopo di lui, a ogni modo, del tutto scomparso. Ovviamente a noi non interessa valutare se i critici postumi del tragediografo avessero ra34 La tragedia, come preciserà chiaramente WILAMOWITZ 1914, pp. 56 ss. (in part. 59, n. 1) faceva parte di una trilogia in cui rientrava anche il Memnone (il Katavlogo~ delle tragedie eschilee menziona appunto il Mevmnwn al n. 38 e la Yucostasiva al n. 72). Per i frr. rimando alle raccolte di METTE 1939, pp. 24-27, frr. 6070, e METTE 1959, con dedica appunto alla memoria del Wilamowitz, pp. 65-70, frr. 191-210. 35 Cfr. WILAMOWITZ 1967, p. 99. Stesso apprezzamento nelle Erinnerungen, WILAMOWITZ 1986, p. 112. 36 Ariston., De signis Iliadis, Q 70 (p. 139 Friedländer): kai; o{ti ta;~ qanathfovrou~ moivra~ levgei. oJ de; Aijscuvlo~ nomivsa~ levgesqai ta;~ yuca;~ ejpoivhse th;n Yucostasivan, ejn h|/ ejsti;n oJ Zeu;~ iJsta;~ ejn tw'/ zugw'/ th;n tou' Mevmnono~ kai; ΔAcillevw~ yuchvn (= Aesch. fr. 205b1 Mette). 37 Eust. Thess., Comm. ad Hom. Il., II, 531, 15; IV, 606, 5 (= Aesch. fr. 205b2 Mette). 38 Porph. Tyr., Quaest. Homer., I 117, 29 (= Aesch. fr. 205c Mette). 39 ROHDE 19259, pp. 239-240, n. 2.

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gione o torto. Interessa semmai osservare che il probabile valore originario del termine omerico (e forse pure eschileo) non era più riconosciuto nella successiva tradizione grammaticale. L’idea che Eschilo potesse «pesare le anime» era considerato semplicemente un errore. Il caso è indicativo perché mostra che l’immagine – dilagante nei secoli a venire – della bilancia dell’«anima» non era collegata alla kerostasia omerica. Né del resto i cristiani, che più di tutti ne faranno uso, vorranno riconoscervi altra origine che non fosse biblica. Qualcuno obietterà che per affermare la posterità cronologica della iunctura del papiro non c’è bisogno di peregrinare fino ai versetti della Bibbia o ai frustuli di una perduta tragedia eschilea. In realtà queste peregrinazioni servono a porre una domanda con un maggiore grado di consapevolezza: al di là della componente linguistica del problema, è plausibile che un geografo del II sec. a.C. potesse evocare un «peso dell’anima» per invitare metaforicamente lo scienziato a misurare la propria idoneità alla scienza? Quand’anche non volessimo sentirci offesi dall’anacronistico verbo talanteuvw e così pure dall’onnipresente lessico spiritualizzante che trabocca da questi righi, potremmo davvero credere che a un ipotetico lettore di epoca ellenistica sarebbe suonata familiare l’immagine di una «bilancia dell’anima» come metafora della determinazione di un valore individuale, come misura di una disposizione interiore, come criterio immediato di autovalutazione? O non è forse questo lo specchio, per quanto inconsapevole, di un retroterra diverso, culturalmente e letterariamente diverso, nel quale confluiscono elementi in ultima analisi connessi con l’immagine cristiana e prima ancora giudaica di un’anima che proprio dal «peso» delle sue virtù verrà misurata e giudicata? Qui torna utile l’osservazione di Huizinga. Quando Zeus pesa le keres di Achille e Memnone (o di Ettore e Achille), non mira a definirne la qualità, perché la bilancia non agisce secondo un criterio di peso calibrato su un concetto di valore. L’idea che la «bilancia dell’anima» determini il «peso» della virtù, e che la virtù pesi più della colpa, si proietta su questa immagine a partire da un’altra tradizione religiosa: in seguito certo vincente, ma ad Artemidoro ignota. Anzi: per gli esegeti omerici, come abbiamo visto, era già problematico accettare l’idea che sulla «bilancia» si ponesse un’«anima». Potremmo d’altronde osservare un dettaglio significativo. Nell’immagine che per comodità chiameremo cristiana il peso è criterio di valore. Il positivo sta in basso, perché pesa di più. Nell’immagine

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greca avviene il contrario: chi sta in basso precipita nell’Ade. I poli negativo-positivo sono dunque articolati in modo perfettamente opposto: nella kerostasia il premio è in alto, nella Seelenwaage invece è in basso. Tanto è vero che nell’iconografia cristiana si vedono molto spesso diavoletti e mostri maligni che si appoggiano, si aggrappano, si adoperano in tutti i modi per trascinare verso il basso il piatto alto della bilancia, senza peraltro riuscire a smuovere dall’altra parte il peso serafico dell’anima virtuosa40. Si ha insomma l’impressione che il nostro “Artemidoro”, nel raccomandare al geografo di «soppesare la propria anima» per valutare, come dice appresso, «la forza della virtù», si sia lasciato guidare da un’idea, da una metafora, certamente ben radicata nei precordi dell’immaginario tardo-antico, bizantino e poi via via moderno e contemporaneo, ma piuttosto estranea all’immaginario classico. Che l’«anima» abbia un «peso», e che questo peso sia espressione di una «virtù» o di un «vizio» è convinzione che certo aveva l’autore del Testamento di Abramo, e che certo avevano tutti i Padri della Chiesa quando paventavano lo spettro del giudizio: mi riesce difficile credere che l’avesse anche un geografo di epoca ellenistica. Un accenno al Testamento di Abramo potrà essere utile: si tratta forse, tra i testi dell’antico giudaismo, del manifesto più completo e articolato di questa idea. La scena sembra tolta da un affresco. Un «uomo meraviglioso» seduto in trono, un tavolo e due angeli: uno provvisto di fuoco, l’altro di bilancia: «quello dinanzi al tavolo, che teneva la bilancia, pesava le anime: quello dall’aspetto di fuoco, che teneva il fuoco, saggiava le anime». Ai lati del tavolo altri due angeli, provvisti di carta e calamo. «L’uomo meraviglioso seduto sul trono giudicava e chiamava in rassegna le anime: l’angelo sulla destra annotava le opere di giustizia, quello sulla sinistra i peccati»41. Nessuna sorpresa che una scena di questo genere sia stata concepita da uno scrittore ebreo, e nessuna sorpresa che un suo ben più celebre contemporaneo cristiano vedesse un cavaliere e[cwn zugo;n ejn th`/ ceiri; aujtou`42. Cresciuti entrambi sulle Scritture giudaiche, l’immagine della bilancia li avrà accompagnati fin dalla nascita: Giobbe sa che Dio Vari esempi in KRETZENBACHER 1958 (e.g. le tavole 28-29). Test. Abrahae (rec. A) 12, 14-39 James. Si veda il ricco comm. ad loc. di ALLISON 2003, pp. 253 ss. 42 Apoc 6, 5. 40 41

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lo peserà ejn zugw`/ dikaivw43 / ; Daniele sa che si può essere «pesati sulla stadera» e «trovati al di sotto»44. Del resto si trattava di un’immagine non soltanto escatologica, ma anche cosmogonica. Inizio e fine sono sempre legati. Dio misurerà con la bilancia, perché ha creato con la bilancia. «Chi pesò i monti con la stadera e le valli con la bilancia?», si chiedeva Isaia45. «Tu hai disposto l’universo in misura, numero e peso», soggiungeva l’autore della Sapienza46. L’eco che versetti come questi ebbero sulla letteratura successiva potrà essere difficilmente sopravvalutata. Quando Leone Magistro Chirosphaktes (IX-X sec.) compose quella sorta di catechismo in versi che noi conosciamo col nome di Chiliostichos Theologia non dimenticò di precisare che Dio «pesa l’ecumene con la bilancia». E nel precisarlo – poiché il termine aveva ormai acquisito il significato che sappiamo – ricorse appunto al verbo talanteuvw47. Naturalmente questa immagine conosceva anche Filone. In somn. 2, 192-193 egli contrappone la follia dei Sodomiti, che ritenevano di poter «misurare, pesare e contare ogni cosa sul metro di loro stessi [metrei`n kai; staqma`sqai kai; ajriqmei`n pavnta kaq’ auJtouv~]» e la saggezza di Mosè, che assumeva invece Dio come «peso, misura e numero di tutto [stavqmhn kai; mevtron kai; ajriqmo;n tw`n o{lwn]»48. L’idea è la stessa, ma il lessico è diverso: Filone non poteva ancora usare talanteuvw transitivo. Di qui ai cristiani il passo è breve. Sorretti dall’onnipresente immaginario biblico, i cristiani vedevano pesi e bilance ovunque. Basilio se ne servì persino per rendere accessibile ai suoi fedeli il concetto più inflazionato e allo stesso tempo più complesso che si possa concepire: il rapporto tra anima e corpo. «Come infatti nei pesi della bilancia se gravi maggiormente su un piatto alleggerirai l’altro, così avviene anche per l’anima e il corpo: un aumento da una parte crea di necessità una diminuzione dall’altra»49. Che l’anima sia dunque espressione di valori (o disvalori) «pesabili» diventa nozione ovvia e di comune dominio. Cirillo: «la divina natura pesa gli errori di ciaIob 31, 6. Dan 5, 27 qV. 45 Is 40, 12. Cfr. anche Iob 28, 23-27. 46 Sap 11, 20. Cfr. il comm. ad loc. di SCARPAT 1989-1999, vol. II, pp. 381 ss. 47 Leon Magistros Chirosphaktes, Chiliostichos Theologia, v. 1080: staqmw`/ talanteuvei de; th;n oijkoumevnhn (= VASSIS 2002). 48 Phil. Alex. somn. 2, 192-193. 49 Bas. Caes., Homilia in illud: Attende tibi ipsi, 28, 6-9. 43 44

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scuno». Teodoreto: «Tu conosci esattamente le azioni dei giusti e degli ingiusti, e pesi le ricompense sulle opere». Eusebio: «[il Signore] chiede agli uomini pensiero puro e anima immacolata, pesando in loro le opere di virtù e di pietà»50. Del resto, quale fu l’ultimo pensiero del protomartire Stefano prima di morire? La bilancia dei suoi carnefici. «Messosi in ginocchio gridò a gran voce: ‘Signore non imputare loro questo peccato’. Detto questo si addormentò» (Acta 7, 60). Così traducono di norma le versioni correnti. Ma in realtà Stefano chiese a Dio: mh; sthvsh/~, e il verbo i{sthmi / iJstavnw indicava tecnicamente il «caricare la bilancia», cioè il «pesare»51. Stefano non vuole che sulla bilancia dei suoi assassini gravi il peccato di averlo ucciso. Quattro secoli dopo un omileta dalla penna ispirata vorrà precisare con particolare devozione il senso di questa preghiera: «Signore non pesare a lor danno questo peccato. Questo è il significato. Non disse infatti: Non contare a lor danno, ma: Non pesare, senza dubbio perché tu apprenda che il nostro giudice è un pesatore esatto, che soppesa a ciascuno le proprie azioni al momento del giudizio. Se infatti egli ‘pesò i monti con la stadera e le valli con la bilancia’ [Is 40, 12], non misurerà a maggior ragione il peso dei nostri errori e delle nostre benemerenze? Non pesare a lor danno questo peccato: non caricarlo sulla bilancia del giudizio: non appesantire per causa mia chi si è già appesantito per causa propria»52. Psicologi, sociologi e pediatri ripetono a una voce che nel nostro tempo si è diffusa una vera e propria ossessione da bilancia. Ma se gli uomini (e le donne) di oggi vi ricorrono ossessivamente per misurare ogni minima variazione nel peso del proprio corpo, i cristiani di ieri vi ricorrevano ossessivamente per misurare ogni minima variazione nel peso della propria anima. E questo passo di Esichio di Gerusalemme è una dimostrazione formidabile della sofisticata articolazione lessicale che ne conseguiva. A ragione Michel Aubineau lo ha definito «un casse-tête pour le malheureux traducteur»53. L’esibizione dei termini tecnici è pressoché completa: staqmivzein e staqmov~; zugostavth~ e zugov~; krivs i~, krithv~ e krithvrion, e poi ancora iJstavnai, barevw e naturalmente, ormai immancabile, il nostro talanteuvw. 50 Theod. Cyr. Interpr. in Ps., PG 80, 940, 33-34; Cyr. Alex., Comm. in xii proph. min., I, 555, 7-8; Eus. Caes., Vita Const., 4, 10, 2. 51 Cfr. e.g. Herodot. II, 65, 4, Plat., Euthyphr., 7c. 52 AUBINEAU 1978, Omelia IX: In Sanctum Stephanum, 27, p. 348. 53 Ivi, p. 303.

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Non sorprende dunque che una delle componenti più radicate e durature del pensiero e del lessico cristiano sia l’immagine del cosiddetto «foro interiore». Prima ancora che a giudicarlo sia Dio, l’uomo può infatti attivare per suo conto una forma di diagnostica spirituale. Egli ha bensì gli strumenti per questa autovalutazione interiore, perché dispone di un vero e proprio «tribunale dell’anima», necessariamente fornito di «bilancia», che lo potrà tenere aggiornato sul «peso», come diceva Esichio, dei propri «errori» e delle proprie «benemerenze». Il Crisostomo, uno dei più inesorabili moralisti che la storia ricordi, ha dato fondo a ogni sua risorsa per ripetere questa idea: «Considera il tribunale della nostra anima. La bilancia, se ha un piatto sconnesso, non può giudicare correttamente i pesi. Così anche l’anima, se non ha il piatto dei propri pensieri ben saldo e fermamente fissato alla legge di Dio, non potrà giudicare rettamente»54. Potremmo proseguire a lungo. Gli «esercizi spirituali», come Hadot ci ha spiegato, non erano specialità soltanto cristiana. Diciamo tuttavia che da questa ginnastica spirituale i cristiani si attendevano risultati direttamente osservabili sulla «bilancia dell’anima». Quella bilancia che Dio aveva predisposto per loro nel giudizio universale, ma che essi sapevano di poter attivare già in questa vita negli inviolabili penetrali della propria coscienza. Da allora in poi ogni uomo può «pesare la propria anima». È dunque in questa tradizione – e non certo nelle «oscillanti» battaglie degli storici ellenistici o nelle correnti marine di aristotelica memoria – che io ritrovo il retroterra linguistico e concettuale del proponimento che il nostro papiro consegna al suo ideale geografo. Senza considerare la sproporzionata onnipresenza dell’anima, cui il nostro autore, non si sa per quale curioso concetto della scienza geografica, consacra la sua massima devozione55. «Rendersi pronto alle volontà e alle intenzioni dell’anima in conformità alla forza della propria virtù»; «soppesare in precedenza la propria anima in rapporto a questo impegno». Paiono ammonimenti da predicatore, e sono invece parole di “Artemidoro”.

54 55

Io. Chrys., In epist. ii ad Timotheum, PG 62, 628, 5-11. Vedi supra, cap. XV, § 4.

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5. La bilancia di Atlante Chi dice che distruggere è più facile che costruire? Abbiamo impiegato varie pagine per spiegare perché il vero Artemidoro non avrebbe usato in questo modo l’immagine della bilancia e il verbo talanteuvw: ne basteranno molte meno a spiegare invece perché quest’altro “Artemidoro” lo abbia fatto. La brevità, peraltro, è esclusivo merito della fonte: chiara come solo Eustazio di Tessalonica sa essere. Dicevo che l’immagine si integra assai bene nel repertorio invero piuttosto monotono di questo proemio. Se c’è infatti un tema addirittura ossessivo nella colonna I è proprio quello del peso, del carico, del fardello. Mi limito dunque a citare il passaggio chiave: «portando quel peso degno di Atlante, abbia un peso che non affatica e abbracci la propria anima in nulla affaticata e appesantita». Si può immaginare ridondanza maggiore? Ho già spiegato che dietro a queste parole c’è in realtà una pagina di Eustazio, soprattutto per ciò che riguarda il «peso di Atlante» che «non affatica»56. Ora scopriremo che proprio «Atlante», e di nuovo per filtro di Eustazio, è direttamente implicato con la «bilancia». Sarà intanto da notare come egli introduca la kerostasia, già ricordata, tra Achille e Memnone57. L’esegeta riflette infatti sul perché il termine tavlanton indichi la ‘bilancia’: si chiede cioè quale ragione linguistica ed etimologica garantisca la connessione tra il nome e l’oggetto. La risposta è che il termine si riferisce alla bilancia perché indica in particolare «la sofferenza, vale a dire la resistenza dello strumento»: dia; to; tavlan, h[goun karterikovn, tou` ojrgavnou. La bilancia si chiama tavlanton – dice Eustazio – perché è tavla~: perché è «afflitta» dal peso, perché «resiste» al carico. Questa interpretazione era stata trattata in modo ancor più esauriente a proposito di uno dei vari epiteti con cui viene qualificato Odisseo: ajtavlanto~ (= di pari peso, B 169: Dii; mh`tin ajtavlanton). Eustazio spiega nel dettaglio questo aggettivo, prende le distanze

56 57

Vedi supra, cap. XV, § 2. Ma sul passo tornerò infra, cap. XX, § 1. Eust. Thess., Comm. ad Hom. Il., II, 530, 8 ss.

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dall’ipotesi di Porfirio e discute per un lungo tratto di pesi, misure, bilance58. Poi, al culmine del ragionamento, precisa59: Tavlanton, cioè la ‘bilancia’, viene da tavla~, che significa ‘colui che resiste’ [to;n karterikovn]. Così è infatti la bilancia, nel senso che ‘porta un fardello’ [fortizovmeno~] ed è concepita per ‘i pesi’ [ta; bavrh]. Ancor meglio, il termine tavlanton viene da talavssein [‘sopportare’], da cui derivano anche “Atla~ [«Atlante»!] e tavla~. Infatti ‘porta sempre un carico’ [ajcqoforei` ajeiv]: per cui in seguito [la bilancia] venne chiamata anche trutavnh, nel senso che ‘è sfinita’ [truvetai] e oppressa dai pesi».

Dunque anche Atlante deriva da tavla~: perché anche Atlante è «afflitto» dal peso!60 Eustazio arriva ad argomentare la relazione tra i due termini osservando persino che l’uno è l’anagramma dell’altro. Come ha giustamente osservato Van der Valk, l’«anagrammatismus», lungi dall’essere un mero passatempo enigmistico, rappresenta ai suoi occhi una «species veriloquii»61. In queste corrispondenze Eustazio scrutava il lievito sempre vitale della lingua, che non combina a caso i suoi elementi. L’equivalenza in anagramma di due termini indica anzi un segno della loro diretta specularità, della loro preveduta equivalenza semantica. L’anagramma è in tal senso una forma suprema di ermeneutica positiva, e indica, come dice Eustazio, la oJmoiovthta tw`n taujtografoumevnwn62. Tavla~, termine dell’afflizione e della sopportazione, è dunque l’anello di congiunzione che garantisce l’equivalenza tra “Atla~ e tavlanton. «Atlante» e la «bilancia» sono dunque per Eustazio le due facce di una stessa derivazione etimologica. Entrambi sono l’immagine di 58 Ivi, I, 300, 21-301, 2: «ΔAtavlanto~ significa ‘di pari peso’ [ijsovstaqmo~]: l’a-, come avviene tra gli antichi, indica in questo caso parità o simiglianza, così come nella parola ajdelfov~. Noi chiamiamo la bilancia tavlanton. [Seguono alcune osservazioni sui termini mevdimno~, coi`nix e ph`cu~]. Si definisce dunque ajtavlanto~ colui che, qualora potesse essere misurato su una bilancia, ‘ha lo stesso peso’. Tuttavia Porfirio, che pure afferma parimenti che ajtavlanto~ significa ‘di pari peso’, intende diversamente il termine, e spiega che tavlanto~ significa per gli antichi, come risulta da vari esempi, ‘dispari’, e che quindi ajtavlanto~ andrebbe qui inteso come ‘colui che sulla bilancia non è dispari’ [= pari], perché è ‘privato della sua disparità’ [Porfirio dava insomma all’a iniziale il valore privativo]». 59 Ivi, I, 301, 2-7. 60 Sul rapporto tra tavla~ / “Atla~ vedi anche II, 168, 21 ss. 61 Ivi, I, 74, 4 ss. 62 Ibid.

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chi «sopporta», di chi «resiste sotto il peso». Nella corrispondenza tavla~ : “Atla~ : tavlanton si afferma una parentela di origine e di destino. La bilancia regge il peso come Atlante il fardello del mondo. È utile precisare che questa spiegazione va fatta risalire a «Eustathius ipse»: Van der Valk l’ha anzi addotta nei suoi prolegomena come esempio dell’occasionale ma non disprezzabile autonomia esegetica del grande bizantino sulla precedente tradizione scoliastica63. Un lettore dei suoi commenti – e solo dei suoi – avrebbe dunque appreso che c’è un filo diretto, etimologico e sostanziale, tra l’azione della bilancia (= talanteuvein) e la sorte di Atlante. E questo spiega perché – con buona pace dell’anacronismo linguistico di cui evidentemente non aveva contezza – “Artemidoro” sia ricorso al verbo talanteuvw. Egli ha in mente, ancora una volta, la figura del Titano nella presentazione di Eustazio di Tessalonica. E sarà bene rimarcare con forza che dell’equivalenza tra “Atla~ e tavla~ il vescovo parlava ovviamente anche nelle pagine introduttive del Commento all’Odissea, e più precisamente in quella stessa pagina nella quale “Artemidoro”, come abbiamo dimostrato, aveva già pescato l’aggettivo ajkopivato~ e il fovrto~ atlantico. Tutto in poche righe. Il che dimostra almeno due cose: la prima, che l’esegeta aveva forse una certa tendenza alla ripetizione; la seconda, più importante, che un lettore di quell’esegesi avrebbe trovato ordinatamente schierati tutti gli elementi utili a scrivere una bella pagina di papiro. A questo punto siamo in grado di aprire una breccia tra le maglie del fitto gioco allusivo che il nostro “Artemidoro” si è divertito a confezionare. Tutto ruota intorno al fardello della scienza: il geografo dovrà «bilanciare» la propria anima su questo fardello se vorrà evitare che essa sia «oppressa» (rr. 30-31: yuch; mhde;n baroumevnh) e se vorrà portarlo, come lo portava Atlante, «senza stancarsi». Ma questo gioco si regge appunto sulla convergenza, tutta eustaziana, di due immagini. Il Titano «Atlante» e la «bilancia» che pesa l’anima del geografo fanno metaforicamente ed etimologicamente la stessa cosa: resistono al peso. Ecco perché il nostro “Artemidoro” è ricorso al verbo talanteuvw. Un verbo che nessun autore di età ellenistica, come abbiamo dimostrato, avrebbe usato a quel modo e per questa immagine, ma che a lui serviva appunto per chiudere in forma allusiva il cerchio delle corrispondenze: il geografo è come Atlante. 63

VAN DER VALK 1971, p. LXIX.

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Naturalmente, riconosciuto il modello, ogni tessera del mosaico torna a posto. L’errore di chi lo ha ideato, come dicevamo in apertura, è stato quello di non considerare che anche le parole, come le anime, hanno un peso – un peso che varia nel tempo ed è sottoposto a giudizio. Così è stato per il tavlanton, e così pure per Atlante: che era un gigante che reggeva il mondo, divenne in seguito una statua colossale, e indica infine per noi, figli della nuova scienza, una semplice cartina geografica. Ma in fondo nemmeno questo Atlante è assente nel papiro di “Artemidoro”. A chi dunque rischiasse di smarrirsi in questo complesso ginepraio di corrispondenze, farà forse comodo un rapido riepilogo che aiuti a districarsi tra gli abbracci morbosi di “Artemidoro” alla sua fonte. E dico fonte, perché per quanto io riconosca e veneri la dea capricciosa che regola i corsi delle coincidenze umane, non sono disposto a sacrificarle fino a tal segno la mia credulità. E pazienza se i sommi sacerdoti della dea, rinchiusi nel tempio, e ben ancorati all’altare delle offerte, proseguono senza turbamenti il loro rito di silenzio. Eustazio:

“Artemidoro”:

«Atlante» [“Atla~] porta sempre un «fardello» [fovrto~] per questo è immagine di una Provvidenza «che non si affatica» [ajkopivato~]. Lo stesso «Atlante» [“Atla~] condivide il proprio nome con la «bilancia» [tavlanton], perché entrambi sono come «uno che resiste» [tavla~], sottoposto ai «pesi» [ta; bavrh], «caricato di un fardello» [fortizovmeno~] e per questo «sofferente» [kataponei`tai].

Il filosofo-geografo deve preventivamente «pesare» [talanteuvein] la propria anima, perché sarà sottoposto a un «fardello» [fovrto~] «come quello di Atlante» [ajtlavnteio~], che tuttavia sarà un «fardello» [fovrto~] «che non affatica» [ajkopivato~], la sua anima infatti non deve essere «oppressa da un peso» [baroumevnh], nonostante la scienza sia una «sofferenza» [povno~].

XVII GEOGRAFIA E PATRIOTTISMO NEOGRECO TRA SETTE E OTTOCENTO 1. Il costume di Arlecchino Vienna, 22 dicembre 1803. Il monaco Giovanni del monastero di S. Clemente indirizza una lettera «Ai figli della Grecia, amanti dello studio»: Siamo senza dubbio fiduciosi, figli della Grecia amanti delle Muse [filovmousoi], per lo studio e lo sviluppo futuro della lingua e della nostra Signora Filosofia [despoivnh~ hJmw`n Filosofiva~]. È unanimemente riconosciuto che la Grecia non è più nella situazione in cui si trovava in passato. Ora è ben desto il fervido slancio verso le Muse [ta;~ Mouvsa~], ora in molti riluce, entusiasticamente, l’amor di patria, e tutti combattono per quanto è possibile per richiamare e per restituire con gli interessi le Muse [ta;~ Mouvsa~] al trono che fu loro una volta: e non si fermano un giorno, chi scrivendo, chi traducendo in molte parti vari libri, chi infine contribuendo alla loro pubblicazione, tutti insieme mirando allo sviluppo della patria. Ma prima di ogni altra cosa la sventurata Grecia conosce l’amor di patria e il vero amor di virtù dei quattro fratelli i SIGNORI ZOSIMADAI, i quali sono a buon diritto chiamati pubblici e primi benefattori della Patria, e non v’è nessuno che non riconosca e non divulghi splendidamente gli atti di beneficienza e i doni che recano alla Grecia gli Zosimadai. Quanta beneficienza mostrarono a questa nostra amatissima Grecia, quanta ricchezza di dottrina, quanta sollecitudine mostrano ogni giorno per le scuole delle Muse [ta; Mousotrofei`a] e per gli studenti poveri, quante opere di autori antichi e moderni rimaste inedite hanno virtuosamente portato alla luce, e ora rimangono in dono a chiunque ed ovunque ne abbia desiderio. A tal punto essi persistono a occuparsi con entusiasmo e patriottismo delle Muse [ta;~ Mouvsa~], ridestando tutti noi al loro esempio. Così anche adesso in omaggio a noi figli della Grecia, si so-

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no premurati di dare alla luce con somma magnanimità anche la presente Geografia che avete tra le mani, la quale è stata compilata dall’illustre Arcivescovo di Astrachàn sua ECCELLENZA NICEFORO THEOTOKIS per uso dei suoi allievi quando ancora si trovava a Iassi in Moldavia nell’anno 1774. È stata quindi arricchita da numerose note e tavole secondo le più aggiornate teorie dall’Archimandrita ANTIMO GAZIS di Meliote. Accoglietela dunque benevolmente, figli della Grecia amanti delle Muse [filovmousoi], come dono sommamente utile dei Signori Zosimadai, e rendete loro, com’è giusto, infinite grazie, levando preghiere a Dio perché preservi il più a lungo possibile questi nostri benefattori. State bene.

Questa lettera apre un agile manualetto scolastico, intitolato Elementi di Geografia: Stoicei`a gewgrafiva~1. Ai toni trionfanti del monaco Giovanni conviene in effetti la statura storica e intellettuale dei personaggi coinvolti. Niceforo Theotokis, Antimo Gazis2 e i veneratissimi fratelli Zosimadai non sono uomini qualunque: sono alcuni tra i più illustri rappresentanti della rinascita culturale e politica della «sventurata Grecia» oppressa dal Turco. Si potrebbe discorrere a lungo delle loro imprese, e qualcosa succintamente diremo. Ma al lettore, per quanto possa essersi ormai abituato a scendere con “Artemidoro” gli scalini del tempo, farà forse comodo sapere innanzitutto perché all’indagine su codesto papiro dovrebbe servire un manuale di geografia ottocentesco. Il proemio delle due prime colonne – lo abbiamo dimostrato a profusione – non è un testo antico. Lingua, contenuto, immagini ci portano lontanissimi non solo dal vero Artemidoro, ma anche dall’epoca tardo-antica. Ci portano, come minimo, dopo Eustazio di Tessalonica. Ma il dopo-Eustazio – termine post quem che già di per sé dovrebbe far sorgere qualche dubbio in chi ha intonato il peana sull’«eccezionalità» del papiro – rimane un termine di enorme vaghezza. Perché di qui in poi l’argine è rotto: da un punto di vista metodico non c’è a prima vista alcuna differenza tra un autore, poniamo, immediatamente successivo a Eustazio e un falsario dell’Ottocento. Senonché tutti gli indizi ci portano piuttosto a questo che a quello, a partire ovviamente dal fatto che nel XII secolo non si producevano «edizioni de luxe» su papiro. N. Theotokis, Stoicei`a gewgrafiva~, Vienna 1804. Per una prima informazione, oltre a SATHAS 1868 (pp. 583-585: Nikhfovro~ Qeotovkh~, pp. 693-694: “Anqimo~ Gazh`~), si vedano KOUKKOU 1973, CHATZIFOTIS 1968, VASSILEIOU-SARIBALIDOU 2006. 1 2

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È evidente tuttavia che il problema non potrà essere affrontato secondo i consueti procedimenti della datazione di un’opera antica. Siamo infatti alle prese con un conglomerato testuale che sfugge alla normale logica di chi scrive per un pubblico di contemporanei. Perché il pubblico di questo testo è finto. Da un autore che si finge antico per rivolgersi a un lettore moderno non può che generarsi una scomposta frattura di tempo. E infatti il sovrano indiscusso di queste colonne è l’anacronismo. Cioè l’involontaria proiezione di un nucleo linguistico e culturale su un contesto artificiosamente ricostruito a tavolino. Un tavolino, se è lecito osservarlo, non poco traballante. Libri come gli Elementi di Geografia del Theotokis, scritti e pubblicati tra la seconda metà del XVIII secolo e la prima metà del XIX, hanno dunque il merito di costituire, dirò così, il ponte di collegamento tra i due contesti, quello d’origine e quello d’arrivo, cioè quello nascosto e quello simulato. Ci forniscono in tal senso un confortevole quadro di riferimento, all’interno del quale molte delle incongruenze di questo papiro cessano di esser tali. O diventano almeno più comprensibili. È dunque altamente probabile che questo anacronistico “Artemidoro” risulterà infine ai nostri occhi, calendario alla mano, più «neogreco» che «bizantino». Un neogreco, vale a dire, che per costruire un testo ellenistico si trovò a rovistare per errore nel ripostiglio degli attrezzi bizantini. Naturalmente di questo errore egli non aveva contezza: molto più di quanto sarebbe stato lecito, egli confidava evidentemente che la lingua e la cultura dei suoi padri fossero immanenti come le loro dee. E non è difficile immaginarlo all’opera, in questo suo inconsapevole taglio e cucito, con l’amorevole cura del sarto che confeziona un centone di pezzi altrui, né troppo si domanda donde essi provengano o quanto sian logori. Immagine, anche per questo, che volentieri adatterei al variegatissimo papiro, se non fosse per una singolare ma determinante differenza: e cioè che il sarto ricicla ritagli vecchi per confezionare abiti nuovi, mentre “Artemidoro” ha riciclato pezzi nuovi per confezionare un abito antico. A rigore, ciascuno è libero di acquistare un costume di Arlecchino: l’importante è che non lo spacci per toga romana. 2. Madonna Philosophia È bene intanto tornare a considerare, da questo diverso punto di osservazione, il nesso tra geografia, filosofia e Muse: triplice allean-

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za che “Artemidoro” schiera in campo con assoluta disinvoltura – il geografo è come il filosofo, ma si consacra ai precetti delle Muse – e che pure è tutt’altro che ovvia. Che la geografia fosse scienza «filosofica» – lo abbiamo visto – fu affermato per la prima volta da Strabone (ma delle Muse ovviamente egli non fa motto). E fu da lui affermato con la consapevolezza di imporre alla propria scienza una rivoluzionaria svolta epistemologica. La storia dimostra che questa consapevolezza era ben fondata. La linea di continuità da Strabone a Eustazio avrà vita lunghissima, anche e soprattutto tra i neogreci, garantendo la sopravvivenza e la rinnovata vitalità a questo strategico nucleo concettuale. Riproporre l’alleanza o addirittura la fratellanza con la filosofia, forniva del resto alla geografia un formidabile strumento promozionale: uno strumento valido ai tempi di Strabone, valido ancora ai tempi di Eustazio (benché le due sorelle dovessero allora chinare il capo alla madre di tutte le scienze, la teologia), e valido parimenti nella Grecia rinascente di Gazis e Korais, quando sulla parola filosofiva risuoneranno gli antichi echi delle glorie patrie e il nuovo richiamo delle scienze europee. Sintomatico che il monaco Giovanni, nel presentare ai «Figli della Grecia» un manuale di geografia, faccia subito appello alla «nostra Signora Filosofia» e alla sua folgorante rinascita. Come sintomatico è il ruolo che Strabone ed Eustazio, proprio sotto questo aspetto, riescono ancora a svolgere nelle pagine introduttive del Theotokis. A partire dall’efficace capitolo introduttivo Peri; gewgrafiva~ (pp. 4-7): presentazione generale, in perfetto stile straboniano-eustaziano, della geografia come disciplina di studio, che si apre con la distinzione tra geografia matematica, fisica e politica. In tutto questo armamentario concettuale, il debito verso Strabone è dunque esplicito: il geografo augusteo è citato come fonte perfettamente attuale. A proposito della geografia fisica, ad esempio, Niceforo cita con larghezza il paragrafo I, 1, 15, nel quale Strabone affermava l’esigenza di una polumavqeia, e proclamava la necessità di studiare anche il mare, la fauna e la flora «per conoscere la natura della regione» [maqei`n th`~ cwvra~ th;n fuvs in]. Abbiamo già ricordato, a proposito del fantomatico kuvto~ del papiro, questo importante passo. Quindi si passa a Eustazio, che serve al Theotokis per affermare la distinzione (invero molto più antica, ma qui filtrata appunto dal vescovo bizantino) tra geografia e corografia3. Infine si 3

La lunga citazione (p. 5) è oltretutto connotata da un curioso equivoco: Ni-

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torna a Strabone, modello per eccellenza per la definizione di una geografia politica. Rimarchevole che il Theotokis citi per questo il paragrafo I, 1, 18, dove Strabone, ancora una volta, paragonava la geografia alla filosofia, spiegando che l’una e l’altra si rivolgono parimenti a chi ha responsabilità di governo, con la differenza che la filosofia avrebbe un valore più teorico, la geografia un valore più pratico. Ma poi altre citazioni di Strabone ricorrono a proposito della necessità che il geografo non studi soltanto la terra, ma anche il cielo, e a proposito dei filosofi (a[ndre~ filovsofoi) che avrebbero per primi praticato la geografia. In parole povere Niceforo recupera per intero l’impostazione, i fondamenti teorici e svariate formulazioni tecniche dei Prolegomena di Strabone. Non si tratta, come si vede, di un recupero archeologico e soltanto erudito: si tratta di un recupero attualizzante, perfettamente operativo nella strategia argomentativa dell’opera. Strabone, come Eustazio, è autorità sempre valida, ancora nel XVIII secolo, per dare una definizione della geografia. Perché questo è il punto: prima di addentrarsi nella descrizione della terra, bisogna definire che cosa sia la geografia. Niceforo è in tal senso un lontano continuatore di Eustazio: come lui vescovo, come lui geografo, come lui autore di un libro scolastico. Di Eustazio egli non cita soltanto le parole: di lui recupera parimenti la scelta di assumere Strabone quale teorico principe della scienza geografica. I suoi Elementi di Geografia, dati in mano ai «figli della Grecia amanti delle Muse», rappresentano l’ultima propaggine di una linea plurisecolare, che dal geografo augusteo, attraverso il vescovo bizantino, giunge intatta sino ai lettori neogreci. Una linea che si è ormai caricata, proprio attraverso Eustazio, di una rilettura cristiana di Strabone. Ma il caso del Theotokis non è isolato. Un precedente di notevole rilevanza è ad esempio costituito da un grandioso volume pubblicato a Venezia nel 1728: la Gewgrafiva palaia; kai; neva di Melezio4. Formatosi inizialmente a Ioannina5, Melezio fu quindi mandato a ceforo raccomanda di far diretto riferimento a «Eustazio, arcivescovo di Tessalonica nella lettera a Luca» (Eujstavq. oJ qessal. ajrciep. ejn th`/ pro;~ to; Lou`kan [sic] ejpistolh`/). «Dukas» è dunque diventato «Lukas» per la prossimità in maiuscolo tra D e L! 4 MELEZIO 1728. 5 SATHAS 1868, pp. 390-393: Melevtio~ oJ ejx ΔIwannivwn.

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studiare a Venezia medicina e «filosofie matematiche». Diventato ijatrofilovsofo~, salì col tempo vari gradi della carriera ecclesiastica, negli anni tempestosi del conflitto tra Venezia e l’impero ottomano. Sacerdote e poi vescovo di notevole visibilità, anche lui riproduce a suo modo il modello del vescovo Eustazio. Nel suo caso, oltretutto, il debito contratto con i geografi antichi è ancora più esplicito di quanto non sia nel Theotokis, e si configura programmatico all’origine stessa del suo cospicuo volume. È da notare che fin dal titolo egli rivendica la necessità di una Geografia antica e nuova. Cioè di una geografia, come dice il chiarissimo sottotitolo, «composta a partire da scrittori antichi e nuovi, da diverse epigrafi su pietra, e messa in lingua comune [eij~ koinh;n Diavlekton] per giovamento di molti del nostro popolo». Torneremo tra breve su questo aspetto. Naturalmente anche questo ragguardevole tomo di geografia non poteva fare a meno di rivendicare, fin dall’esordio, la centralità della propria scienza. Nella lettera Toi`~ ejnteuxomevnoi~ Melezio si profonde anzi in uno dei più efficaci e accalorati elogi della geografia, tutto vibrante di immagini, espressioni e metafore che al momento opportuno bisognerà pur richiamare con qualche larghezza. Né del resto manca il solito essenziale capitolo Peri; gewgrafiva~ kai; tw`n merw`n aujth`~, secondo uno schema che sappiamo appunto straboniano, e che abbiamo già ritrovato nel Theotokis. Il che ci permette di ribadire ancora una volta un principio che davvero ai lettori di “Artemidoro” non dovrà passare inosservato: un testo di geografia deve iniziare con una definizione della geografia. Così almeno hanno fatto sia Melezio sia Theotokis, in manuali che qualsiasi greco colto dell’Ottocento avrà avuto per le mani, in un clima culturale nel quale domina pressoché naturaliter l’idea che la geografia sia costola non asportabile della filosofia. È sintomatico in tal senso l’indirizzo di saluto che l’editore Nikolaos Glikis, ultimo rampollo di una famiglia di stampatori di Ioannina a lungo operante a Venezia, rivolge al «filosofo» Melezio. Filosofo perché aveva appunto studiato materie filosofiche in Italia, ma filosofo anche perché si occupava di geografia, e serviva per questo le «Muse». Non solo: anche il Glikis si sentiva a suo modo membro della stessa categoria: «non sono forse degni di gloria, encomi e corone, insieme ai filosofi, anche i fautori e i protettori dei filosofi?». La consapevolezza della propria missione educatrice è proclamata a gran voce: con questo libro autore e stampatore daranno finalmente «sufficienti provviste per la

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scalata» a chiunque non fosse ancora riuscito «a salire sul supremo Monte delle Scienze». Interessante metafora, il bagaglio dello scalatore, per un volume di questa mole. Va da sé che questo persistente corteggiamento di Madonna Philosophia nei manuali di geografia per Greci moderni risponde a un sentimento più profondo, irresistibilmente suscitato del caloroso abbraccio che si scambiano, nella coscienza di questi coraggiosi e pionieristici intellettuali, il recupero dell’antica tradizione filosofica greca e l’influsso della moderna scienza illuministica. È chiaro cioè che tra gli studiosi di questa generazione, il termine «filosofia» non viene soltanto recepito come riproduzione più o meno attualizzante degli antichi splendori della filosofia classica, cui del resto – e non foss’altro per patriottismo – essi si sentivano inestricabilmente legati. Nei loro libri, ampiamente debitori dei modelli europei frequentati in Italia, in Francia o in Germania, essi importano un concetto di filosofia inevitabilmente influenzato dall’enciclopedismo settecentesco, proiettando in particolare sul termine greco filosofiva il concetto occidentale di philosophia naturalis (il pensiero corre naturalmente al titolo newtoniano per eccellenza: Philosophiae Naturalis principia mathematica). Il che spiega perché la «descrizione della terra», al pari della fisica, dell’astronomia o della mineralogia, fosse concepita come parte di una «filosofia» complessiva. Il riferimento a Newton non è casuale. Sarà infatti da ricordare che lo stesso Niceforo Theotokis fu autore di due cospicui volumi di Elementi di Fisica, gli Stoicei`a Fusikh`~, che rappresentano l’evidente pendant dei nostri Elementi di Geografia, rimasti invece inediti fino agli inizi del secolo successivo. Pubblicati a Lipsia negli anni 1766-1767, questi due grossi tomi costituiscono, come è stato scritto, «la prima coerente presentazione in greco della fisica newtoniana»6. Il che è rivendicato nella epistola ai lettori con la dovuta fierezza, «avendo osato per la prima volta di esporre in lingua greca le nuove teorie della filosofia della natura». Significativo che Niceforo non rinunci a ribadire che quella «antica» sarebbe comunque rimasta la «madre di ogni filosofia». E significativo anche lo scopo del libro: «null’altro, se non la crescita dei nostri compatrioti»7. Ancora un’osservazione: GAVROGLU 1998. Prw`to~ de; tolmhvsa~ tw`n Fusikw`n Filosofhmavtwn ta; Neva th`/ palaia`/, kai; mhtriv, i{nΔ ou{tw~ ei[pw, aJpavsh~ Filosofiva~ eJllhnivdi Dialevktw/ oJpwsou`n ejkfravsai, kai; tou`to oujk a[llou tou e{neka, eijmh; th`~ tw`n ÔOmofuvlwn ejpidovsew~. 6 7

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a Mosca, negli anni 1798-1799, uscirono del Theotokis anche gli Elementi di Matematica. Né il vescovo Niceforo si dimostrò sterile nelle materie che più spontaneamente gli avremmo affidate: la sua produzione teologica ed esegetica è di tutto rispetto, e il suo nome è corso tra gli studiosi del testo biblico molto di più di quanto sarebbe legittimo attendersi dall’autore di un manuale di geografia8. Questo ampio, onnivoro concetto di filosofia è del resto chiarissimo anche nella produzione dell’altro artefice degli Stoicei`a gewgrafiva~ da cui siamo partiti: Antimo Gazis. L’opera di questo straordinario rappresentante della cultura greca all’inizio del XIX, stimato in tutta Europa e riconosciuto dai suoi compatrioti come uno dei più lodevoli protagonisti del movimento indipendentista, meriterebbe ovviamente ben altro spazio. Ma ai nostri occhi, sul lontano sfondo del fantomatico “Artemidoro”, egli potrà innanzitutto rappresentare il termometro su cui misurare il ruolo che la geografia riuscì a ritagliarsi nella rinascita culturale della civiltà neoellenica. Perché Gazis non era un geografo di professione. Era, direbbe Korais, un filovmouso~ a tutto tondo, capace, ad esempio, di colmare il desideratum più lungamente atteso dai suoi compatrioti: il nuovo Lessico greco. Grande impresa a cui Gazis legò eternamente il suo nome9. Né meno importanti sono i due preziosi volumi della sua Biblioteca ellenica10, raccolta di tutti gli autori greci distinti in ordine cronologico, tematico e geografico, che va dall’Antico Testamento (significativamente considerato come raccolta di libri riconducibili a personalità letterarie collocabili nel tempo), passa attraverso gli autori classici, e giunge fino alle ultime propaggini di Bisanzio. È dunque in queste vesti, credibili proprio perché non dettate da un particolare specialismo, che egli riconobbe alla geografia un posto di notevole visibilità nella formazione della nuova coscienza intellettuale greca. Responsabile editoriale del celebre «ÔErmh`~ oJ Lovgio~», prima grande rivista di cultura neogreca stampata a Vienna, non mancò di accogliervi articoli di geografia; promosse e curò la pubblicazione dell’inedito del Theotokis e la ristampa del Melezio (1807); promosse pure, sempre a Vienna nel 1800, una Carta geografica della Grecia con nomi antichi e nuovi: Pivnax gewgrafiko;~

OUSPENSKY 1904 e LOWDEN 1982. GAZIS 1809-1816. 10 GAZIS 1807. 8 9

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th`~ ÔEllavdo~ meta; palaia; kai; neva ojnovmata. L’anno appresso, sempre a Vienna, lo estese a tutta l’Europa e poi ancora all’Asia. In tutte queste opere, a proposito di echi illuministici sul concetto di filosofiva, Gazis fu sempre guidato dall’idea di una generale «Grammatica delle scienze filosofiche»: titolo di una fortunata opera di Benjamin Martin che appunto egli stesso tradusse in greco: Grammatikh; tw`n Filosofikw`n ΔEpisthmw`n. Un’opera in cui si tratta – seguo l’elenco dei capitoli – di cosmologia, uranologia, selenografia, planetografia, cometografia, astrologia, anemografia etc., fino all’immancabile capitolo peri; gewgrafiva~. Si tratta, se vogliamo, di una ripresa aggiornata al XIX secolo del fondamentale presupposto epistemologico di Strabone: più concreta l’una, più teorica l’altra, geografia e filosofia devono comunque procedere a braccetto, come due vecchie sorelle, non sempre concordi, ma troppo dipendenti l’una dall’altra per vivere scompagnate. Come dice “Artemidoro”, «stanno sullo stesso piano».

3. Il trono delle Muse Nel rilevare l’inattendibile, debordante sacralità del lessico di “Artemidoro” ci chiedevamo perché mai un geografo di età ellenistica avrebbe dovuto qualificare la filosofia coi titoli della divinità: perché mai avrebbe dovuto far ricorso a iuncturae che noi conosciamo bensì nella filosofia neoplatonica o appunto tra i cosiddetti Padri della Chiesa, ma non certo tra i colleghi di Strabone. E perché mai avrebbe dovuto evocare le Muse tra i venerabili orizzonti intellettuali del geografo – «consacrarsi ai virtuosi precetti delle divinissime Muse...». Tutti interrogativi che incrinavano non poco l’apollinea immagine vulgata di questo papiro, e a cui Theotokis, Gazis e tutti gli altri grandi intellettuali dell’Illuminismo greco e della conseguente epoca rivoluzionaria ci stanno aiutando a dare risposta. Si sarà ben notato, a questo proposito, l’ossessivo, quasi liturgico refrain, nella lettera del monaco Giovanni, sul ritorno delle Muse, l’amore per le Muse, la scuola delle Muse. È evidente che «Muse» significa, per questi neoellenici, semplicemente cultura. La «sventurata Grecia» che cerca di risollevare le sorti, non solo letterarie, della propria civiltà, deve «riprendersi» le Muse. Il termine va apprezzato in tutto il suo valore programmatico. Noi che a stento ricordia-

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mo l’originale significato della parola Museo, seguiremo con qualche sorpresa la strenua ricorrenza di questo lessema, che doveva evidentemente sprigionare alle orecchie di un greco un’inesauribile potenza evocatrice, e a cui non a caso si riannodano volentieri tutti i termini essenziali della cultura. Perché la scuola non è «scuola» soltanto, ma «scuola delle Muse», e lo studioso non è studioso, ma «amante delle Muse». Non c’è anzi epiteto più ricorrente tra questi intellettuali di filovmouso~. Le lettere del grande Korais, filologo e patriota per antonomasia, vera icona di tutti i Greci della riconquistata libertà, semplicemente ne traboccano. Perché è «amante delle Muse» chiunque studi e aiuti altri a studiare: scrivendo, insegnando, pubblicando o edificando scuole. I mecenati Zosimadai, anche e soprattutto per questo, sono sempre filovmousoi. La lettura delle opere «filosofiche» di questi Greci svela anzi un formulario costante e insistentemente replicato. Parrebbe quasi di riconoscere tra le righe una sorta di imperativo categorico per questa coraggiosa generazione di intellettuali militanti: ajnakalei`n ta;~ Mouvsa~, «richiamare le Muse». La puntuale, sempre enfatica ricorrenza di questo grido di battaglia è addirittura sorprendente, come una vera e propria parola d’ordine lanciata da schiera a schiera, da soldato a soldato fino al definitivo conseguimento della vittoria. E sia chiaro che le metafore militari sono in questo caso tutt’altro che gratuite. Perché questi intellettuali non scrivono per dame da salotto in cerca di qualche sollazzevole passatempo culturale. Qui si tratta di formare una generazione di giovani che poi le armi le impugnò davvero: «Sì, figliolo Nicoletto, / devi colpire la tirannia / amare la libertà / e detestare i Turchi». Così cantavano le «Muse» di Antonios Martelaos nel congratularsi con Nicola Ugo Foscolo per il suo nuovo Inno a Bonaparte11. Le Muse vanno dunque riportate in Grecia. Cacciate, umiliate e offese durante la buia oppressione turca, ora le somme dee devono essere «richiamate... al trono che fu loro una volta»: na; ajnakalevsoun... ta;~ Mouvsa~ eij~ to;n pavlaiv pote qrovnon aujtw`n. Così il monaco Giovanni si esprimeva negli Elementi di Geografia. Ma la stessa espressione ricorre anche negli Elementi di Fisica: Mou`sai... filofrovnw~ ajnakalou`ntai, dice il Theotokis presentando la fisica newtoniana ai suoi compatrioti. 11

VITTI 2001, pp. 123-124.

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Per sua parte, se possibile, il Gazis è ancora più insistente. Prendiamo la lettera prefatoria della Biblioteca ellenica. In un contesto tutto ricolmo di riferimenti al «trono Patriarcale» e alla «nostra Sacra Fede» che ben si confanno all’illustre destinatario, il Patriarca ecumenico Gregorio V, ecco che Gazis proclama a gran voce: «le Muse sono di nuovo richiamate ai loro antichi sacelli»: ajnakalou`ntai pavlin aiJ Mou`sai eij~ ta;~ ajrcaiva~ aujtw`n Kaliav~ (p. hV). Prendiamo quindi la lettera alla venerabile «Tetrade» degli Zosimadai, firmata a Vienna il 22 agosto 1799, che apre la Grammatica delle scienze filosofiche: «Accogliete dunque, nobili Fratelli amanti delle Muse Signori Zosimadai, questo libro, che insegna la Filosofia e le Scienze, e richiama Atena e le Muse»: th;n ΔAqhna`n kai; ta;~ Mouvsa~ ajnakalou`san. Come si vede è sempre la stessa formula. E non solo una volta. Poco prima Gazis aveva scritto: «queste opere richiamano di nuovo le Muse nella Pieria [ajnakalou`s i ta;~ Mou`sa~ pavlin eij~ th;n Pierivan], danno al nostro Popolo virtù, dottrina e i dovuti e innati splendori della patria e progenitrice Sapienza». E proseguiva: «Ora le Muse si bagnano nell’acqua dell’Acheronte, ora si abbeverano alle pure onde del fiume Acheloo». L’epistola è tutta composta su questi toni. E infatti tre righe dopo Gazis riprende. Ora loda la terra «che ha germogliato questi uomini sapienti, istruiti, nobili, amanti delle Muse [filovmousoi], come i Melezi, i Bessarioni, gli Zosimadai...». Il loro merito? «...i quali hanno creato e allestito a Ioannina il ricovero delle Muse, la sede di Atena e di Apollo». Gazis è in estasi: vede le Muse ovunque. Le opere degli Zosimadai sono filovmousa e[rga; grazie a queste opere «i giovani della Grecia amanti delle Muse [oiJ filovmousoi nevoi th`~ ÔEllavdo~] godono facilmente del progresso del sapere universale e acquistano agevolmente la conoscenza delle Scienze». E via così fino al termine, con un’impennata finale per l’ultimo elogio degli Zosimadai, naturalmente «amanti delle Muse», e tautologicamente lodati... per il loro «amore delle Muse». A chi dunque Gazis dedicherà la propria opera? Ovviamente «alla Tetrade degli Zosimadai amante delle Muse». Un vero tour de force, come si vede: in poche righe almeno 11 riferimenti alle Muse! Il lettore di oggi avrà forse la tentazione di lasciarsi scappare un sorriso di fronte a questi toni così altisonanti, così lontani dalla sobrietà che per noi è piuttosto il requisito della scienza. Ma dovrà essere un sorriso benevolo. Non è facile riconoscersi nel linguaggio sfavillante, roboante di questi intellettuali che davvero sentivano di

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portare un nuovo fascio di luce tra le tenebre in cui vedevano precipitata la propria civiltà. Uguale altisonanza avevano i nostri umanisti. L’importante è capire che questo linguaggio, proprio perché specchio di un sentimento nitidissimo, doveva senz’altro imprimersi nella coscienza di tutti quei «giovani», quei novelli «figli di Grecia», così ardentemente chiamati alla nuova militanza culturale. Perché essere amante delle Muse, in Grecia, nella prima metà dell’Ottocento, non significava caricarsi con indolenza di un convenzionale epiteto esornativo, conformandosi a un titolo di buona, arcaizzante memoria. Significava aderire a un progetto di identità collettiva, rispondere a un richiamo per una nuova coscienza nazionale. Un richiamo tanto più persuasivo perché formulato per lo più dall’estero, dalla Parigi di Korais o dalla Vienna di Gazis, e cioè da terre libere (o ritenute tali). E non è certo per caso che l’aggettivo filovmouso~ si accompagna tanto spesso, in questi scritti, all’aggettivo filogenhv~. «Amare le Muse» significava «amare la Patria». Il nuovo Patriota deve essere colto, proprio perché l’amore per la patria coincide col recupero della sua antica cultura. Stentiamo noi stessi a adoperare un linguaggio di cui il nostro tempo ha fatto pessimo smercio. Ma faremo bene a non sottovalutare il valore che esso poteva assumere sulle labbra di questi Greci. A titolo strettamente personale confesserò anzi che la lettura di queste pagine – pagine proemiali, non dimentichiamolo – mi ha reso decisamente più comprensibile il riferimento alle Muse nel papiro. Vi ho riconosciuto, dirò così, un profumo di casa. Perché quei «virtuosi precetti delle divinissime Muse», che non stanno proprio a far nulla nel proemio di un presunto geografo di età ellenistica, e che infatti non trovano alcun parallelo attendibile, tornerebbero invece del tutto comprensibili appena li si volesse collocare sulla penna di un Greco tornato a identificare nelle Muse non già la fonte di un’improbabile ispirazione poetica (il geografo non è un poeta!), bensì il simbolo di una rinascita culturale e civile di ben diversa attualità. Questo «geografo» che comincia la propria opera appellandosi alle Muse assomiglia molto di più a un Theotokis o a un Melezio di quanto non assomigli a uno Strabone o a un Tolomeo. Assomiglia, cioè, molto di più a un moderno scienziato greco che a uno scienziato greco antico. Il quale – e lo dimostrano in modo esemplare Ippocrate e Galeno – dové anzi combattere una dura battaglia per desacralizzare la scienza, e liberarla dagli intrecci che ancora la legavano al variopinto, inafferrabile mondo della religiosità e della superstizione.

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Anche per questo le Muse stonano tanto nel proemio del presunto “Artemidoro”, mentre non stonano nelle pagine di Gazis. E v’è il caso che ancora una volta possa essere proprio Eustazio a legittimare le nostre perplessità. Si ricorderà che fu proprio lui a chiedersi perché mai Dionigi il Periegeta avesse evocato le Muse: non era un atteggiamento «filosofico». Se lo aveva fatto, era solo perché aveva scelto di comporre la propria opera in versi. E allora le Muse tornavano legittime. Non solo: proprio «per apparire più filosofo», Dionigi aveva almeno evitato di evocarle nel proemio. Perché il vero filosofo, se parla di scienza, non parla di Muse. È questo, di fatto, il ragionamento di Eustazio. E noi gli daremo mille volte ragione. Senonché il filosofo Gazis, e come lui tutta una generazione di filosofi neogreci, aveva un altro concetto di «Muse». Un concetto per cui servire la scienza non solo non era in contrasto con l’idea di servire le auguste dee dell’Elicona, ma quasi vi coincideva. Perché il filovsofo~ è filovmouso~. Una doppia ma unitaria identità, che volentieri finiva per condensarsi nella sua terza e più alta dimensione: il filogenhv~. Così si sentiva Theotokis, così Gazis, così Korais. E così anche l’autore dell’“Artemidoro”. 4. «Geografia antica e nuova» Tra il titolo dell’opera di Melezio e i Pinakes di Gazis v’è una significativa convergenza. La geografia «nuova» non si fa senza l’«antica». Nel caso di Melezio questo principio è stato declinato con notevole consequenzialità. Se andiamo a verificare com’egli abbia concretamente impostato il suo poderoso volume, vedremo infatti che la sua descrizione si diffonde per lo più sulle sole terre conosciute già agli antichi (le Americhe, tutte insieme, occupano appena una decina di pagine su un complesso di oltre 600). Domina quindi uno spiccato eurocentrismo, che tracima ogni limite nel caso dell’Ellade. L’ambizione di costituirsi come ultimo testimone di una staffetta ormai millenaria è dunque palese: novello Strabone, e novello Eustazio, non a caso Melezio dà avvio alla sua opera con un dettagliato elenco, cronologicamente ordinato, di tutti i suoi predecessori (pp. 11-13). Un elenco che parte ovviamente da Omero e Anassimandro, passa da Artemidoro, Strabone e Tolomeo e scende passo a passo fino ai tempi suoi. È di fatto la stessa esigenza di ricostruire la propria

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genealogia intellettuale che aveva avvertito Strabone all’inizio dei Prolegomena, a tal punto che non sarebbe improprio definire Melezio, mutuando un’espressione da una disciplina affine, una sorta di «Strabone continuato». La descrizione delle singole regioni, sobria ad esempio per la Spagna o per la «Gallia», si fa quindi debordante, dettagliatissima per le singole regioni della Grecia, descritte quasi palmo a palmo, e come promesso costellate di tutti i toponimi antichi che Melezio andava a recuperare fin nelle «epigrafi». Alcuni decenni dopo, all’inizio dell’Ottocento, Gazis parrebbe mosso dalle stesse esigenze. Prima di dare alle stampe l’inedito del Theotokis (1804) e di ristampare il volume di Melezio, egli pubblica come abbiamo visto un Pinax della Grecia «con nomi antichi e nuovi» (1800). Questo aspetto dimostra che per quanto riguarda la geografia (in verità non solo la geografia) il «ritorno delle Muse» coincideva molto concretamente con un diretto recupero degli scrittori antichi. E anche in questo caso il lettore del papiro di “Artemidoro” farebbe bene a non lasciarsi sfuggire le possibili implicazioni di questo principio. Perché il recupero è parente stretto della riscoperta, e riscoperta è parola che perde in fretta la sua innocenza se lo scopritore finisce per essere troppo disinvolto, o troppo zelante al suo scopo. Sta di fatto che gli «scrittori antichi» conoscono davvero, e forse per la prima volta in Grecia in maniera così intensa, una nuova fortuna editoriale. Negli stessi anni in cui andava pubblicando i suoi lavori geografici, Gazis assemblava il materiale per le sue imprese più memorabili: la Biblioteca ellenica (1807), «che raccoglie gli autori antichi e più recenti», e il Lessico greco (1809-1816) «ad uso di chi si occupa degli autori antichi». Naturalmente i geografi vi sono ampiamente testimoniati. Nel frattempo (1807-1808), patrocinata dai soliti e molto «amanti delle Muse» fratelli Zosimadai, si era quindi perfezionata la pubblicazione di una significativa raccolta di geografi antichi, meglio definita come Raccolta in forma di epitome di antichi scritti geografici. Due copiosi volumi nei quali, per non fare che un esempio, il lettore potrà trovare, oltre ad alcune pagine di Eustazio, anche i frammenti allora conosciuti del vero Artemidoro (vedi supra, cap. II, § 1). Dunque il «ritorno delle Muse» muove i torchi delle stamperie, e muove quindi l’acume dei filologi. Sarà appena il caso di ricordare che in questi stessi anni cade anche il grandioso lavoro filologico di Korais su Strabone (1805-1819), di cui curò testo e traduzione

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francese per esplicito desiderio di Napoleone (nelle sue lettere, vera miniera di informazioni su questi lavori, Korais parla spessissimo del suo «Strabone gallico»). Del grande Adamantios Korais abbiamo detto ancora troppo poco, né potremmo mai riuscire esaustivi di fronte a una personalità tanto fertile e poliedrica. Converrà tuttavia ricordare almeno qualche passaggio della sua sterminata produzione. A partire da uno dei suoi più memorabili discorsi, il Mémoire sur l’ètat actuel de la civilisation dans la Grèce12. In queste pagine straordinarie, piene di passione, e lette in un contesto altamente simbolico come la «Société des Observateurs de l’homme le 16 nivôse an XI (6 janvier 1803)», Korais non mancava di sottolineare i progressi, in Grecia, della geografia: «Des cartes géographiques en grec moderne sont déjà connues depuis quelques années». Si noti che il Pinax di Gazis era appunto apparso tre anni prima. Quindi proseguiva: «et il a paru des livres de géographie, dans lesquels on trouve quelques cantons de la Grèce décrits avec exactitude». È molto significativo che Korais riferisca sull’aggiornamento degli studi geografici – aveva del resto fonti di primissima mano – in un memoriale finalizzato a descrivere della Grecia lo «stato attuale della civilizzazione». È l’ulteriore conferma che la geografia, materia in cui sommamente «antico» e «nuovo» erano chiamati a convergere, concorre alla creazione della rinascente identità culturale greca. Molti anni dopo, in un dialogo della tarda maturità, egli riaffermerà la necessità e la centralità della geografia tra le discipline di studio. Il Filarco e Fixarco, primo dei dialoghi Peri; tw`n eJllhnikw`n sumferovntwn, è anzi una delle più esplicite e significative testimonianze dell’impegno del vecchio Korais per la creazione di una nuova scuola greca. Siamo nel 1825, cioè nel momento di maggior crisi del fronte indipendentista dopo lo scoppio della rivoluzione del ’21. A confrontarsi sono il tipico rappresentante di un occhiuto immobilismo conservatore, Filarco, che vorrebbe di fatto precludere l’istruzione al popolo, e il suo antagonista Fixarco, che dà voce ovviamente al pensiero schietto di Korais, e che propugna al contrario la necessità di garantire a tutti, anche alle classi operaia e contadina, un’istruzione di base. Gli orizzonti politici dei due personaggi sono espliciti (già nei nomi parlanti: l’uno ama il potere, l’altro lo rifugge): 12

Leggo in KORAIS 1877. Si veda anche KOUMARIANOS 1984.

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Filarco, potremmo dire con un occhio all’Atene classica, incarna una sorta di «nuovo oligarca»; Fixarco, il democratico cresciuto sotto gli stimoli della rivoluzione francese. A un tratto il discorso piega proprio sull’opportunità di considerare la geografia possibile materia di studio13: FILARCO: Ci manca ancora che i contadini imparino queste cose! FIXARCO: Sì, anche i contadini. FIL. I contadini la geografia! FIX. Non vedo per quale motivo si debba precludere a loro o a qualsiasi altro artigiano o commerciante la conoscenza della geografia, della storia e di tutte le altre discipline necessarie al cittadino. FIL. E dove vai poi a procurarti cibo, vestiti, scarpe, se tutti costoro abbandonano i campi o le officine e se ne vanno nelle scuole per diventare intellettuali? FIX. Questo è il grande sofisma degli oligarchi: sarti, calzolai e contadini intellettuali! Di’ semmai ‘istruiti’, caro mio, non ‘intellettuali’. È l’istruzione che l’oligarchia o la tirannia non vogliono vedere nel popolo [...] FIL. Insomma, tu vuoi che tutto il popolo diventi filosofo? FIX. Ecco un altro sofisma degli oligarchi. Non riesco a capire che concetto tu abbia di filosofia. Se per filosofia tu intendi le teorie e le indagini della Metafisica o una di quelle che sono propriamente chiamate Scienze, o le arti liberali, di certo io non voglio che un operaio, un commerciante o un contadino smetta di occuparsi del proprio mestiere per dedicarsi ad esse, per quanto capiti (ancorché di rado) che sia bene altrimenti. FIL. Come altrimenti? FIX. Se ad esempio se ne trovasse uno portato per natura a questi studi, e poco incline al mestiere suo, converebbe di più, a lui singolarmente e all’intera comunità, che egli si dedicasse a quegli studi, piuttosto che rimanere per tutta la vita un cattivo contadino o un artigiano incapace. Ma la filosofia non è solo questo: una parte di essa, la parte più importante e utile all’intera comunità, è «la filosofia che si occupa delle cose umane», come diceva Aristotele, o «l’arte di vivere», come la chiamavano altri14. La quale è facile da apprendere e necessaria a tutti i cittadini, se vogliono vivere felici. FIL. Ma tu hai parlato pure di geografia: e la geografia serve all’insegnante o alla lezione a scuola, ma all’artigiano non serve. 13 14

KORAIS 1964, t. A1, pp. 615-616. Arist., Eth. Nic., I, 8.

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FIX. No di certo se intendi per geografo uno come Strabone o il più recente d’Anville15. Ma poiché in futuro i cittadini dovranno pure imparare a leggere e scrivere, motivo per cui introduciamo nelle scuole l’insegnamento collettivo16, che cosa impedisce che l’umile artigiano legga nella propria lingua libri di geografia e di storia? Che cosa impedisce che egli impari, se non quella universale, almeno la storia della sua patria, la Grecia, e la geografia? Che cosa impedisce che conosca anche gli scritti morali e politici, perché impari da essi ciò che giova ai suoi concittadini e quindi a sé stesso? FIL. E dove li trovi questi libri? FIX. Ancora non ne abbiamo molti. Ma ci vorrebbe poco a scriverli o a tradurli se il governo lo ritenesse un necessario strumento di cultura. FIL. Temo che rimarrò nudo e senza scarpe. FIX. Niente paura, amico: anche noi vogliamo avere scarpe e vestiti.

Cent’anni dopo un filologo di casa nostra si troverà a scrivere parole non troppo dissimili sulla necessità che la geografia insegnata a scuola – e sembra quasi la stessa espressione aristotelica ricordata da Korais – non «astraesse troppo dall’uomo»17. E assai significativamente aveva poco prima contrapposto alla opportuna concretezza della geografia «l’astrattezza» (ma «veramente legittima ed essenziale») della filosofia. Gli schemi si ripetono: e chissà che anche in Pasquali non agisse una sotterranea reminescenza delle riflessioni di Strabone. Quel che è certo, è che anche lui aveva preso l’abbrivio, per queste giuste riflessioni sulla geografia, dal suo primo mestiere di classicista, ammonendo a leggere sempre i testi antichi «con l’atlante dinanzi agli occhi», e garantendo di aver bocciato agli esami di latino chi riuscisse bensì a tradurre Livio, ma non sapesse dove fosse Canne. Pagine queste che avrebbero alimentato ancora di più l’aneddotica, da lui stesso promossa, dei suoi illustri allievi, e che io non credo sarebbero dispiaciute a Melezio o a Gazis. Se non altro per un’idea: e cioè che nella formazione di una cultura, e di una vera coscienza storica, la geografia nuova ha bisogno dell’antica. Jean Baptiste Bourguignon d’Anville, cartografo francese del Settecento. Korais scrive th;n oJmovcronon didaskalivan, che equivale al francese enseignement simultané, inteso come alternativa a quello individuale. 17 PASQUALI 1930, pp. 168-169: «Tornando alla geografia, a me saprebbe male che essa fosse nella scuola media, specie nei ginnasi, esclusivamente o prevalentemente cosmografia, o anche geografia fisica, che essa astraesse troppo dall’uomo». 15 16

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Naturalmente i patrioti Gazis e Korais avrebbero a questo punto aggiunto un caloroso riferimento alle Muse – che il più sobrio Pasquali ovviamente evitò, ma che non evitò “Artemidoro”.

5. «Sicuro in su le carte» L’immagine di sé che vuol dare il geografo del papiro è molto seducente. È l’immagine del viaggiatore, dell’esploratore, del pioniere che batte strade mai tentate, che si abbarbica agli alberi di una nave e va alla scoperta di nuovi mondi. Questa finzione è evidente nell’idea di un geografo che «approda sulla terra ferma», che si inoltra «nel paese che gli sta intorno»: il tutto condito dal ritornello sul «lavoro pluriennale», le «fatiche», l’«insonnia», il «peso di Atlante» e via dicendo. Eppure, a ben guardare, è possibile che al presunto “Artemidoro” sia sfuggito di penna un dettaglio: una di quelle «spie» – per ricordare il titolo di un saggio davvero memorabile – da cui possiamo forse dedurre anche noi un piccolo paradigma indiziario. Smaltite le prime fatiche dello sbarco, il nostro avventuriero dovrebbe a poco a poco «riconciliare la propria anima con il paese che gli sta sotto»: th;n yuch;n eJautou` sunallavttein th`/ uJpokeimevnh/ cwvra/. Dell’anima e della strana iunctura in cui è coinvolta abbiamo già detto. Ma qual è la «terra che sta sotto»? Qui si aprono due possibili interpretazioni. Noi conosciamo negli scrittori antichi – ad esempio in Diodoro (II, 37, 6), per non allontanarsi troppo dal nostro presunto geografo – la dizione uJpokeimevnh cwvra nel senso di «pianura», cioè «paese basso». Ma questa traduzione nel nostro caso darebbe poco senso. Perché mai il geografo, approdato su una terra ferma (si suppone dunque che viaggiasse per mare), esaminata la regione che gli sta intorno, dovrebbe poi «riconciliarsi» con la «pianura»? Era forse salito su una montagna? Più persuasiva la seconda possibile interpretazione. E cioè che il participio uJpokeivmeno~ indichi «ciò che si sta considerando», l’«oggetto in questione», «ciò che è presente alla mente», «ciò che sta sotto gli occhi». Il geografo deve insomma «riconciliare la propria anima» con quella terra lì, quella che prima del suo arrivo gli era estranea e che ora finalmente egli comincia a conoscere «molto guardandosi attorno». Ma questo «guardarsi attorno» [pevrix blevpein]

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per orientarsi sulla terra «che sta sotto» [uJpokeimevnh] è il tipico gesto di chi ha in mano una mappa (cfr. supra, cap. XII). L’artista che volesse cavare un disegno dalla scena descrittaci nel papiro dovrebbe rappresentare il nostro eroe con una cartina geografica tra le mani. Sembra anzi la scena di un sogno a occhi aperti, il meraviglioso viaggio immaginario di un geografo da salotto, che non esce dal suo studiolo, la grande e sfruttatissima metafora della geografia come viaggio intorno al mondo senza muoversi di casa. Questa sensazione è aumentata dalla parte che immediatamente precede, con quella magnifica (ma potenzialmente vuotissima) frase dell’«uomo che si dilata nel cosmo». Com’è già stato chiarito18, e senza avventurarsi troppo in spericolati funambolismi filosofici, questa frase andrà molto probabilmente intesa nel senso che l’uomo «si diffonde per il mondo». Impara cioè a viaggiare e a conoscere il mondo, anche e soprattutto grazie alla geografia. E le cartine servono proprio a questo. Le può studiare il condottiero nelle sue campagne militari, ma le può anche usare il lettore curioso per conoscere il mondo senza spostarsi. Come l’Ariosto, ad esempio: che non voleva allontanarsi da quella piccola porzione d’Italia che aveva visto: «Questo mi basta; il resto de la terra / senza mai pagar l’oste, andrò cercando / con Ptolomeo». È in tal senso altamente significativo che una delle più articolate e vibranti espressioni di questo pensiero si trovi proprio nella pagina proemiale di Melezio. Promettemmo di queste parole una citazione più generosa. Ecco dunque che cosa egli pensava della sua scienza, e che cosa prometteva al lettore del suo cospicuo volume: Che cosa può tanto rallegrare l’uomo cosmopolita quanto la Geografia? Grazie ad essa, senza viaggi e pericoli, il filologo percorre per terra e per mare tutta la superficie della Terra. Contempla l’estensione dell’Oceano, distinguendo che quello è l’Atlantico, questo l’Iperboreo e altrove le altre sue parti. Attraversa le province degli stati, immagina i loro limiti e i loro confini. Conosce i promontori e le coste del mare. Distingue le sorgenti e le foci dei fiumi. Attraversa le città, quelle antiche e quelle moderne. Vede i villaggi, i borghi, i castelli. Dispone i porti, i canali, i golfi e tutto ciò che sta attorno al mare, ogni cosa al proprio posto. Sale sulle montagne e mira dall’alto le valli, le foreste e le altre cose di questo tipo. E di lì, imbattendosi nelle Muse, si unisce a loro e innalza con loro un 18

Vedi supra, Fantasma, § 7.

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inno al Padre, dal quale giunge all’uomo ogni dono perfetto. Sono questi i frutti della Geografia.

Se “Artemidoro” fa del suo geografo un filosofo, Melezio ne fa dunque un filologo. L’immagine di una geografia da scrittoio non potrebbe essere più chiara. Quello di Melezio è un mondo da leggersi, un viaggio di carta. Quando parla dell’Oceano e dice «quello è l’Atlantico, questo l’Iperboreo» [ejkei`no~ me;n ei\nai ΔAtlantikov~, ou|to~ de; ÔUperbovreio~], ci sembra di vedere il suo dito indicarli sulla mappa. Poteva quindi mancare un estatico riferimento alle Muse? Appena salito sui monti – e sarà forse lo stesso monte che contemplava Gazis – il geografo-filologo non può che incontrare le sue dive immortali, ormai pronte a ritornare in patria. E fa una certa impressione immaginare il vescovo Melezio unirsi alle Muse (!) in un inno al Padre. Ma è appunto un viaggio sognante, una grande metafora, il viaggio di un «cosmopolita» che il «cosmo» andava a cercare nelle «epigrafi» e negli antichi scrittori: «Sicuro in su le carte / verrò, più che sui legni, volteggiando». Del resto anche “Artemidoro” aveva una cartina per le mani. Difficile capire in realtà quale regione raffiguri, ma intanto egli ce l’ha disegnata lì, nel papiro, con qualche fiume senza nome e qualche casupola malsicura. Non troppo distante da quel suo geografo da tavolino, che scruta la terra «che gli sta sotto gli occhi».

6. Artemidoro neogreco Com’era lecito attendersi, il beneficio che il lettore del nostro papiro può trarre dalla pur occasionale frequentazione di opere neogreche si lascia apprezzare non soltanto sullo sfondo dei grandi snodi culturali di cui evidentemente l’“Artemidoro” non avvertiva l’anacronismo, ma anche da una gragnola di più specifici indizi linguistici. Dovremo intanto richiamare un aspetto che avevamo lasciato in sospeso nella parte «bizantina» della nostra indagine. Della sacralità del lessico di “Artemidoro” abbiamo discusso in abbondanza, e sarà ormai chiaro che le sue frequenti scivolate sul selciato sempre sdrucciolevole del linguaggio teologizzante denotano l’inconsapevole sovrapposizione di due contesti in verità alquanto distanti. In via del tutto preliminare va intanto ribadito che non pochi dei protagonisti della rinascita culturale della Grecia moderna, anche in

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ambito squisitamente scientifico-naturalistico, venivano dal mondo ecclesiastico. Tanto Melezio, quanto il Theotokis, quanto Gazis, per limitarsi ai soli nomi sui quali ci siamo soffermati in queste pagine, avevano pratica con il lessico della sacralità innanzitutto nelle loro vesti sacerdotali ed episcopali. Basti appunto ricordare, come si diceva in precedenza, la cospicua produzione esegetica del Theotokis. Una certa osmosi tra il linguaggio religioso del loro ufficio e il linguaggio tecnico della loro produzione scientifica era dunque inevitabile. Ma questa osservazione sarebbe del tutto banale, per non dire addirittura erronea, se non vi aggiungessimo una considerazione ben più importante. E cioè che il lessico del patriota, tanto più del patriota che combatte per la libertà della patria, è volentieri un lessico sacralizzante. Non necessariamente un lessico vario. Nel liquidare una serie di spericolate ricerche intertestuali su presunti paralleli ugaritici e accadici del molto erotico Cantico dei cantici, uno studioso parimenti dotato di spirito e di dottrina ha efficacemente osservato che «sotto qualsiasi cielo, quando s’incontrano un uomo e una donna la conversazione diventa inevitabilmente monotematica»19. Lo stesso potremmo dire della religione (cui del resto l’eros volentieri si associa). La quale costituisce un serbatoio linguistico a forte rischio di monotonia, ma di indubitabile versatilità, e a cui non a caso può attingere chiunque abbia certezza di propugnare valori degni dell’ebbrezza del sacro. Anche il nostro “Artemidoro” parrebbe bloccato nella ripetitività dell’estasi: divino, divinissimo, degno di un Dio. I suoi aggettivi non si allontanano molto da questa traccia. Ma questi aggettivi – quante volte Korais ha definito iJerav la filosofiva – si comprendono molto meglio sullo specchio del linguaggio sacralizzante che i nazionalisti neogreci sentivano di dovere alla propria cultura e alla propria storia. Gazis, oltre a essere sacerdote ortodosso, si sentiva sacerdote delle Muse. Non dice che gli Zosimadai hanno costruito una scuola a Ioannina: dice che a Ioannina hanno edificato il tempio di Atena. Non parla di semplici biblioteche: parla di «sacelli delle Muse». E non dice Grecia solamente, ma evoca l’Acheronte e la Pieria. Né il suo slancio si attenua quando scrive al Patriarca, a tal punto che la triplice serie dei suoi «amori» – filovsofo~, filovmouso~ e filogenhv~ – assomiglia molto alla veneratissima Trinità di una religione civile. 19

GARBINI 1992, p. 13.

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Si dirà che le pagine proemiali sono sempre per natura «magniloquenti». Vero: ma nel suo proemio Strabone riuscì a mantenere la magniloquenza anche senza inneggiare alle «Muse», all’«anima» o alla «divina filosofia» come fa invece “Artemidoro”. Mentre a ben guardare Theotokis adopera un linguaggio tendenzialmente sacralizzante anche nel pieno della sua trattazione geografica. Nella sua rilettura, evidentemente cristiana, dell’antico insegnamento di Strabone ed Eustazio non manca ad esempio una «geografia Teologica», interessata appunto, come egli dice, «ai culti e ai dogmi». Naturalmente questo termine va inteso in senso ampio: non si tratta delle formulazioni dogmatiche del cristianesimo ortodosso. Per dogma si intende piuttosto una teoria che cerchi di definire una particolare concezione dell’universo, tanto del mondo terrestre quanto di quello celeste. Si tratta di una forma cristianizzata – da molti secoli cristianizzata – del principio, genuinamente ed espressamente straboniano, del geografo come uranografo, cioè studioso insieme del cielo e della terra: “Enqen ajnagkaivw~ oJ gewgravfo~ – scrive Niceforo – kai; Oujranogravfo~ ajnadeivknutai. Non a caso egli presenterà in questo libro di «descrizione della terra» «le tre principali teorie astronomiche sul sistema dell’universo: quella di Tolomeo, quella di Tycho, quella di Copernico». Ed è significativo che qui il sistema di Tycho venga definito, a proposito di linguaggio teologizzante, una ai{resi~ (p. 39). Ancora più significativo che proprio in questo capitolo, a proposito di Tolomeo, Niceforo precisi trattarsi di quel «Claudio, il matematico, proveniente da Pelusio, chiamato qeiovtato~ kai; sofwvtato~». Qeiovtato~ proprio come il filosofo-geografo del «magniloquente proemio», e lasciamo stare che Tolomeo – cui questa definizione propriamente spettava – sia posteriore di secoli al vero Artemidoro. Il punto è che tutto questo strumentario lessicale, saltando a piè pari secoli di storia, ci avvicina di molto al papiro. A partire proprio da quei «dogmi» con i quali, stando al nostro autore, «la geografia parla». Il lettore moderno ha infatti un fremito nel trovare nel manuale di geografia di Theotokis un intero capitolo Peri; ΔAstronomikw`n Dogmavtwn. Soprattutto a osservare il verso del papiro, dove le allusioni agli astri e alle costellazioni proprio non mancano. Anzi: proprio su questo aspetto il vescovo Theotokis parrebbe ampiamente in sintonia con “Artemidoro”. Cielo e terra sono speculari. (E del resto ne era perfettamente persuaso, dall’altra parte d’Europa, anche Petrus Bertius, il cartografo ufficiale del «Re Cristianissimo»,

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per il quale «lo studio della Geografia ha un enorme potere nell’unire le nostre anime a Dio, poiché le opere della sua Provvidenza sono altrettanto visibili in terra e in mare quanto nel sole e nella luna»20.) E proprio in nome di questa specularità, Niceforo non rinuncia a trattare dei 12 segni dello Zodiaco e delle varie costellazioni (nomi che ovviamente egli fornisce in greco, ma anche in latino). Costellazioni dai nomi di animali come «Camaileopavrdali~, Cameleopardalus», o «ΔAlwpevkion su;n cuniv, Vulpacula cum ansere». E qui l’osservatore del papiro ha un altro fremito. Perché, com’è stato dimostrato in altre pagine di questo libro, si tratta di due costellazioni introdotte per la prima volta in Atlanti del Seicento, eppure già emergenti tra i disegni del verso. Dell’oca egiziana chnalwvphx, per colmo di coincidenza, si occupa anche Korais nelle sue lettere21. C’è infine un’altra dimensione della retorica di questo papiro che rievoca molto da presso il linguaggio degli scrittori neoellenici: l’agonismo. «Non è una fatica da poco quella in grado di combattere al fianco [sunagwnivsasqai] di questa scienza», dice “Artemidoro”. Non badiamo alla sciattezza della formulazione, ancora una volta tutt’altro che classica. Qui interessa soltanto il verbo «combattere al fianco». Di questa idea, e di questo verbo, potremmo in effetti ripetere quello che dicevamo per la formula «richiamare le Muse»: negli scritti neogreci che abbiamo preso in considerazione non manca mai. Prendiamo l’epistola Ai lettori che apre la Grammatica delle scienze filosofiche. Gazis chiede clemenza per chi come lui ha dovuto tradurre «idee nuove» in una lingua non ancora equipaggiata allo scopo. (Non si può restare indifferenti a questo richiamo. Da queste piccole spie si misura efficacemente che la storia a volte si rovescia. Tornano alla mente Lucrezio o Cicerone, e si pensa che un tempo erano i Greci a esportare le «idee», e che erano gli altri ad avere il problema di tradurle.) Ma anche per questo egli non nasconde la propria fierezza: «poiché ho sentito dire da Temistocle che chi non combatte non riceve la corona, ho gettato io per primo il dado». «Quelli che non combattono»: tou;~ mh; ajgwnizomevnou~. 20 «Habet certe Geographiae studium ingentem vim ad animos nostros Deo coniungendos, quippe quum Prouidentiae ipsius opera tam conspicua sint in terra ac mari, quam in Sole et Luna». 21 KORAIS 1877, p. 181, ep. 79 del 1794.

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Lasciamo Gazis e veniamo agli Elementi di geografia del Theotokis. Scrive il monaco Giovanni nella lettera prefatoria: «tutti combattono per quanto possibile per richiamare le Muse». «Tutti combattono»: ajgwnivzontai pa`nte~. Prendiamo anche Korais. E prendiamo di lui un passo degli Stocasmoi; aujtoscevdioi che aprono la sua edizione delle Vite parallele di Plutarco (tomo II, 1810). È un’intera pagina dedicata a definire chi sia il vero filosofo, e dunque sarà per noi rilevante, ripensando al papiro, non solo per l’immagine agonistica che stiamo osservando22: Il vero filosofo non parla e non scrive se non di ciò che conosce, né affronta ciò che va al di là delle sue forze. Il vero filosofo scrive soltanto se ha speranza di giovare alla comunità degli uomini, e in particolare alla sua patria. Il vero filosofo onora chi combatte al suo fianco [tou;~ sunagwnizomevnou~] la buona battaglia per l’istruzione del popolo, chi corre insieme con lui la corsa ai valori alti e onorevoli. Il vero filosofo parla e scrive non per compiacere il popolino ignorante, la cui lode egli tiene per lode di pessimo giudice, ma per giovare alla sua patria.

Questa serie di contrapposizioni di un filosofo che «parla / non parla» [lalei` / mhvte lalei`], «scrive / non scrive» [gravfei / mhvte gravfei] è del tutto parallela a una geografia che «parla» [lalei`] o «tace» [siwpa`/]. Come l’idea stessa di definire «colui che filosofeggia degnamente» e «colui che filosofeggia veramente» – ti~ tw`n ajxivw~ filosofouvntwn (“Artemidoro”), oJ ajlhqw`~ filosofw`n (Korais). E poi appunto l’immagine agonistica, sempre espressa con lo stesso verbo: altro simbolico, caratteristico grido di battaglia per militanti che hanno sempre bisogno, per «richiamare le Muse», di chi combatta al loro fianco. Ancora una volta faremmo bene a non prendere dell’espressione soltanto l’idea metaforica. Così come faremmo bene a ricordare, a proposito delle Muse che Gazis offriva a Gregorio V, che il giorno di Pasqua del 1821, nonostante il tentativo almeno ufficiale di prendere le distanze dai rivoluzionari, il patriarca fu dai Turchi molto poco metaforicamente impiccato al portone della sua residenza. Le 22

KORAIS 1964, t. A2, p. 950 = KORAIS 1986, pp. 393-394.

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Muse dei nuovi Elleni sono anche questo: combattenti davvero, e non soltanto olimpiche. Sicché tutte le opere di questi filovmousoi, che nutrirono di sé le successive generazioni di nuovi e liberi Greci, andranno sempre lette senza attribuire soltanto ai colori della retorica le vivissime tinte che sfoggiano. Perché il rosso, talora, è davvero rosso sangue. Tutto questo, anche di fronte agli studi apparentemente specialistici di geografia, deve dunque irrobustire la nostra consapevolezza. Perché di questo vasto fermento patriottico, e del nuovo culto delle Muse a cui si accompagna, la geografia è parte strategica. Non a caso il Theotokis, adottando le parole di Strabone, affermava nei suoi Stoicei`a gewgrafiva~ l’importanza di una «geografia Politica», che si occupi «delle divisioni della Terra [= confini] stabilite dagli uomini». Né è un caso che il vescovo e geografo Niceforo si ispiri al modello del vescovo e geografo Eustazio, lettore di Omero e di Strabone. Perché il nazionalismo neoellenico della prima metà dell’800 ha tutto l’interesse di studiare e ‘riscoprire’ i geografi classici e poi bizantini. E non solo per il valore intrinseco della loro antichità – credenziale inalienabile di un ritorno delle Muse –, ma anche perché essi rappresentano i testimoni autorevoli di un’età perduta, rimpianta e ora rinascente, nella quale al geografo, e tanto più al geografo vescovo, era dato descrivere confini di sovranità greca e non ancora ottomana, di lingua ellenica e non ancora turca, di religione cristiana e non ancora islamica. 7. Tria corda. Patrioti, geografi e falsari Il secolo per eccellenza del positivismo è stato anche un secolo di imperversanti falsari. Il filologo italiano penserà ad esempio alle Carte d’Arborea, che tennero a battesimo l’acume del giovane, ma già grande Vitelli. O alla significativa propensione per il falso di un Giacomo Leopardi, che certo non soffriva di sterilità propria, e che pure non si risparmiò nell’inventare opere altrui. E non alludo soltanto all’Inno a Nettuno, alle anacreontiche dalla metrica zoppicante, o a quel delizioso e troppo negletto Martirio dei Santi Padri del Sinai, di cui egli finge di aver trovato non già il testo greco, ma una traduzione in lingua trecentesca. Penso anche a una famosissima «operetta morale», il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, in cui per somma audacia egli arriva a concepire un falso esponenziale: finge di tradurre un testo greco che non esiste, proclama il sospetto che

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esso sia falso (ma non esiste!), e infine ne attribuisce ad altri la falsificazione. Da alcune sue gustosissime lettere si vede ch’egli si consultava, a proposito del Martirio, per individuare un monastero poco conosciuto e possibilmente fuori mano, nel quale inscenare il finto ritrovamento: si decise per Farfa. Per il Frammento andò più sul sicuro: «codice a penna che trovavasi alcuni anni sono, e forse ancora si trova, nella libreria dei monaci del monte Athos». E il falsario a cui dare la colpa? «Qualche dotto Greco non prima del secolo passato». Segno evidentemente che falsari greci, alloggiati sull’Athos, dovevano risultare un bersaglio credibile. Ma la breve storia che racconteremo qui appresso non riguarda i falsari di casa nostra. Riguarda appunto «un dotto Greco». E non sarà nemmeno una storia, ma il riassunto, al massimo succinto, di una vita in tre dimensioni che altri ha già raccontata in maniera esemplare23. Dopo tanti falsi e falsari, sarà rigenerante poter adagiarsi su una fonte sicura. Il protagonista si chiama Niccolò Kefalàs. Kefalàs era un patriota, un geografo, un falsario. Non è detto, singolarmente, che eccellesse in alcuna di queste tre identità. Ma a noi interessa appunto che le avesse tutte: che fosse uno e trino proprio in queste virtù. Il patriota Nacque a Zacinto (anche per questo conobbe il Foscolo: e come il Foscolo amò Zacinto struggentemente) nel 1763. Fu prima marinaio, poi capitano, poi costruttore e padrone di navi. Proprio le navi gli servirono più volte per atti di pirateria e di milizia contro il nemico Turco. Fu un convinto bonapartista, il che gli valse sempre l’inimicizia degli Inglesi. Raggiunse Napoleone nella campagna di Russia, e tornò con lui a Dresda. «Allo scoppio della rivoluzione del ’21 si trovava a Mosul, l’antica Ninive, donde si recò presso lo scià di Persia Alì Mirzà, che cercò di convincere a dichiarare guerra ai Turchi; e infatti i Persiani tennero in scacco le truppe del Sultano per circa sei mesi. [...] Quindi si recò in Russia, ove cercò, invano, di agire presso quella corte in favore della rivoluzione greca. Evidente23 FISCHETTI 1971 e FISCHETTI 1975. Tra virgolette riporterò con larghezza passi del primo saggio del 1971, con qualche tacita rimozione degli apparati eruditi, spesso tra parentesi e non solo in nota. I corsivi ovviamente sono miei.

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mente il Kefalàs faceva capo al Capodistria». Proprio perché noto per i suoi servizi alla causa greca «fu ufficialmente incaricato dal governo provvisorio di recarsi in India, presso la comunità greca, per raccogliervi fondi». Tentò quindi un’impresa clamorosa e spericolata. Giunto in Italia pensò di chiedere un’udienza a papa Leone XII: sperava di convincerlo a intervenire in favore della Grecia, con in cambio la promessa della riunificazione delle Chiese. Ne scrisse al metropolita Ignazio di Ungrovlachia, il quale lo sconsigliò recisamente di tentare questa via. Kefalàs fece di testa sua. Ebbe l’udienza, e il 25 maggio 1825 sottopose al papa un memoriale sullo stato della Grecia, finse di parlare in nome del governo greco, chiese al papa di impegnarsi a dare alla Grecia un re cristiano, insistette sulla necessità di riunire la cristianità sotto un unico pastore, specie dopo la tragica morte del patriarca Gregorio V, e promise appunto che la nuova Grecia si sarebbe uniformata ai dettami del concilio di Basilea-Firenze (14311445). «Pare che la buona fede di Leone XII ne fosse conquistata, finché il comitato filellenico di Londra, appresa la notizia dai giornali, sconfessò apertamente il Kefalàs, col risultato che questi in ottobre fu espulso dallo stato pontificio. Anche il Korais, da Parigi, scriveva in quella circostanza, qualificando il Kefalàs di agente della Santa Sede, nemico dei Greci e sciocco papolatra». Dopo questo fallimento si recò a Londra quindi in Egitto. Qui riuscì a farsi finanziare da Mehmet-Ali Pasha promettendogli lo sfruttamento di miniere aurifere: «la promessa era ingannevole, ché con quel denaro invece allestì una piccola flottiglia con cui tenne in scacco dal Mar Rosso al golfo Persico le navi turche inviategli contro, e poi molte truppe dello stesso pascià d’Egitto e del califfo di Bagdad». Alla fine lo catturarono gli Inglesi: e dinanzi a chi lo processava per pirateria «egli si difese, sostenendo di non essere un pirata, ma un combattente». Il geografo Esperto di marina e di drenaggio dei fiumi, Kefalàs fu anche geografo. Negli anni ’30, dopo le avventure politiche e militari, «fece lavori di ripulitura dei bassifondi pietrosi del Danubio, aprendo così, per la prima volta, la navigazione a vapore da Vienna a Galati di Romania». Ma prima ancora della fase rivoluzionaria, con la sua nave Hypomoni (la Pazienza) aveva navigato «nel Mar Nero, nel Mediter-

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raneo, nell’Atlantico, fino all’America». Da queste esperienze trasse una serie di apprezzate pubblicazioni, tra cui: una Carta idrografica del Mar Nero, Vienna 1817; una Guida marittima, Vienna 1817; una Carta idrografica del Mediterraneo da Gibilterra a Malta, Parigi 1818; una Carta idrografica del Mediterraneo da Malta ad Alessandretta e Costantinopoli, Parigi 1818; una Carta dell’Arcipelago, Parigi 1818; una Carta topografica del Bosforo tracio coi contorni d’Asia e d’Europa, Londra 1818. Inedito rimase invece un Dizionario marino geografico. Ma potremmo continuare, ricordando ad esempio anche una Descrizione della città di Benares nell’India... corredata d’una carta geografica dell’Indie... pubblicata, in italiano, a Livorno nel 1826. Come si vede, non fu un geografo da salotto. Il falsario Anche questo cuore pulsò possente. E dello stesso sangue, forse, che alimentava le sue dure vene di corsaro. Due imprese meritano un ricordo, e lo meritano attraverso le parole esatte del Fischetti. Prima impresa: la falsa (e plagiata) traduzione dal sanscrito. «Il Kefalàs incontrò in India il dotto indologo greco, ivi da tempo emigrato, Demetrio Galanòs (1760-1833), che, malgrado la sua abituale ritrosia, gli divenne amico e lo stimò tanto da affidargli il testo sanscrito di Sanakèa e una copia della traduzione da lui stesso fattane in greco, pregandolo di consegnar l’opera, in omaggio, al governo greco. Il Kefalàs, invece, con disinvoltura piratesca, donò il testo sanscrito alla Biblioteca Vaticana (Vat. Ind. 20) e pubblicò la traduzione greca a suo nome, con testo italiano a fronte, dicendo nella prefazione di aver ricevuto l’opera da un bracmano e di esser stato soltanto aiutato dal Galanòs. Quando da Giorgio Kozàkis Tipaldos furono pubblicati alcuni manoscritti – ma non tutti – di Galanòs (Atene 1845-51, voll. 7), si trovò copia della traduzione di Sanakèa ed emerse, da un appunto dello stesso Galanòs, la verità. Senonché, la traduzione del Kefalàs è molto più ampia di quella edita nel vol. I delle opere di Galanòs: le aggiunte sono tutte opera della fantasia di Kefalàs, oppure egli aveva già in India consultato un’altra delle tante redazioni – se ne conoscono diciassette – di queste massime attribuite a Ca¯n.akya? E, inoltre, il Kefalàs conosceva il sanscrito? Gli studiosi che si sono rifatti al testo vaticano hanno dato una traduzione senza le aggiunte di Kefalàs, sicché è molto probabile che il Kefalàs abbia avuto per base del testo tradotto dal Ga-

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lanòs – il non averlo dichiarato apertamente è una prova a suo sfavore – e abbia aggiunto altro materiale gnomico indiano di sua conoscenza». Insomma: pubblicò a proprio nome una traduzione altrui, e la infarcì di testi estranei. Seconda impresa: il falso papiro di Omero. Kefalàs è prigioniero degli Inglesi, che gli riservano tuttavia un trattamento carcerario non troppo duro. «Lo si stimava per i suoi interessanti racconti e per la sua cultura; sostenne, infatti, in una discussione (e poi in un articolo sul giornale pubblicato a S. Maurizio, il 31 ottobre 1828 n. 356), che Omero era di Zacinto, e avvalorò la notizia, fra lo stupore generale, asserendo che nel 1810 mentre visitava il Monte Athos, aveva trovato nel monastero di Vatopedi un codice papiraceo contenente l’Iliade di Omero, nato a Zacinto, figlio di Filomene e Chrysais, contemporaneo dell’arconte ateniese Diogene e del legislatore Licurgo re di Sparta, codice copiato da Teofrasto in Atene, sua patria, sotto l’arconte Simonide, nella 117 Olimpiade. Aveva anche appreso da un igùmeno che il codice era venuto da Costantinopoli nel 1428, portatovi da Andronico, fratello dell’ultimo imperatore Costantino Paleologo. Aveva già parlato della cosa nel 1810 col suo maestro di Zacinto Martelào e successivamente con dotti inglesi e francesi, durante i suoi viaggi; tutti avevano trovato la notizia interessante e degna di approfondimento, anzi Lord Guilford aveva promesso che il codice sarebbe stato pubblicato dai dotti dell’Accademia di Corfù, appena possibile. Al suo ritorno a Costantinopoli Kefalàs pubblicò, in data 15 novembre 1830, un opuscolo in cui riferiva tutte queste notizie e dava in traduzione greca l’articolo edito in francese a S. Maurizio. La notizia è anche per noi interessante e varrebbe la pena di far qualche ricerca: sarebbe davvero sorprendente se il titolo di questo codice fosse uscito tutto dalla testa del Kefalàs. Ma né nel catalogo dei codici di Vatopedi di Arkadios Vatopedinòs (Parigi 1924) né nel supplemento, cioè l’inventario manoscritto di quella biblioteca figura alcun codice omerico che possa essere quello del Kefalàs. Tuttavia molti codici dell’Athos non sono ancora catalogati, che ci sia ancora qualche speranza?» L’Athos, come il Sinai, è un monte sacro: e sui monti sacri si nascondono le Muse. Fa bene, dunque, il prudente Fischetti a non rinunciare alla speranza. Sventurato il giorno in cui i filologi perderanno anche la speranza di trovare tra le mura di un vecchio e vene-

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rato monastero manoscritti antichissimi e sconosciuti. Il problema, però, è che purtroppo anche i falsari conoscono l’ebbrezza di questa speranza. E non a caso proprio su questi monti collocano volentieri le loro ‘scoperte’. Come fece appunto il Leopardi, che non dubitò dell’efficacia di evocare, per il suo Stratone, «la libreria dei monaci del Monte Athos». Ma prima di congedare Kefalàs bisognerà aggiungere un dettaglio. Nella sua singolare produzione letteraria, Fischetti individuò con il solito acume «un problema non ben chiarito» e «misterioso»: «stando alle sue opere stampate, il suo greco è catharevusiano, non proprio impeccabile, e le traduzioni italiane, che di solito accompagnano i testi greci, si possono dire passabili, si tratta dell’italiano incerto dei Levantini; egli, di Zacinto, certo parlava anche l’italiano. Tuttavia una lettera scritta di suo pugno al governo provvisorio, da Roma il 28 agosto 1825 e recentemente edita, è di un uomo di mediocre cultura, che mi ricorda tanto altre lettere sgrammaticate, come quelle della madre del Foscolo. Sorge spontanea la domanda: che non si sia fatto aiutare, prima di pubblicare, da qualcuno più addottrinato». Questa domanda verrà utile in altro tempo. Un’ultima osservazione: Kefalàs morì povero. Dai suoi falsi, come dalle sue piraterie, non trasse guadagno. A Korais, che certo non lo amava, almeno questo tratto non sarebbe dispiaciuto. Nella descrizione del «vero filosofo» che evocavamo più su, lo dice anzi molto chiaramente: al filosofo è lecito aspirare alla gloria, non al profitto. «Nell’ambito della sua epoca», scrive ancora il Fischetti, «fu certo un patriota disinteressato, animato da spirito romantico di avventura e di gloria – il suo amore per Zacinto è commovente – prodigò la sua opera e il suo consiglio per il bene della patria e, contrariamente a molti che negli affari di stato accumularono enormi ricchezze, morì povero. Questo particolare biografico non è da trascurare». Anche Kefalàs, a suo modo, fu un filovmouso~. Nel titolo di quest’ultimo paragrafo abbiamo dunque sintetizzato le tre identità (forse non le uniche) di questo «uomo geniale», «astuto e abile, come l’Ulisse omerico». Egli dimostra che si può ben essere, allo stesso tempo, patrioti, geografi e falsari. Forse non saranno stati in molti a riunire in sé questi tria corda. Ma se si è scelta la forma al plurale, è perché sappiamo che Kefalàs non fu il solo. Certo egli può davvero rappresentare un modello, un precedente, un alter ego: uno specchio su cui confrontare il profilo del nostro falsario.

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Parte quinta. Artemidoro «bizantino»

Naturalmente, in questa parte «bizantina» e poi «neogreca» della nostra indagine, non interessava di dare un nome preciso all’autore del papiro di Artemidoro. A farlo in maniera esplicita provvederanno le prossime pagine di questo libro, e con argomenti – se è permesso anticiparlo – di immediata evidenza. Qui interessava semmai di tratteggiare, almeno per certi aspetti, quale potrebbe essere stato il contesto culturale nel quale quell’autore è cresciuto, si è formato, ha operato. Quali libri può aver letto, quali modelli poteva avere dinanzi agli occhi, quali autorità, non solo letterarie, potevano popolare il suo immaginario e il suo scrittoio. Quale fosse insomma il contesto, come dicevamo in apertura, in cui molti anacronismi, molte incongruenze ed «eccezionalità» di questo papiro smettono di esser tali. Ed è appunto un contesto pieno di geografia: di geografia antica e nuova, di filosofia e di Muse. Un contesto di travolgenti sentimenti patriottici, in cui la ‘riscoperta’ di un autore antico, di un geografo perduto e fatto riemergere dalle sabbie del deserto, può non essere solamente il virtuosismo civettuolo di un burlone erudito, né una mera operazione di brigantaggio a scopo di lucro. Davvero non si dovrebbe trascurare, come ammoniva un grande storico, l’«irresistibile impulso interiore»24 che anima l’autore di un falso. Perché il falsario ha sempre un movente: ma non è detto che sia sempre nitido, e non è detto che sia sempre ignobile. 24

BURCKHARDT 1882, p. 299.

Parte sesta PROFILO DELL’AUTORE

XVIII COME LAVORAVA SIMONIDIS 1. Ritoccando testi già noti Se l’autore del papiro è da identificare col poligrafo Simonidis1 è da segnalare che egli ha proceduto a minuziose riscritture nel creare pergamene e papiri di testi già noti. Oltre al celebre, e molto studiato, caso del Pastore di Erma2, ricorderemo ed esemplificheremo qui il comportamento seguito dal nostro autore nella creazione dei papiri da lui definiti «codices Mayeriani»3: quello contenente frammenti del Vangelo di Matteo (della Lettera di Giuda etc.) e quello contenente il Periplo di Annone, messi in circolazione rispettivamente, e con grande scalpore, nel 1861 e 1864. Periplo di Annone Testo Müller (GGM, I, pp. 1-14) [è quello del Palatino di Heidelberg 398]

«Codex Mayerianus» [edito con facsimili, Trübner, London 1864, pp. 24-32]

p. 1, 8: h{ntina wjnomavsamen Qumiathvrion

p. 24, 13-14: h{n tina wjnomavsamen qumiathvrion, ejn h|/ kai; iJero;n Boulaivou Dio;~ iJdruvsamen p. 24, 18-19: e[nqa mikro;n cronivsante~ kai; Poseidw`no~ iJero;n ejpi; tou` ejggu;~ lovfou iJdrusavmenoi

p. 3, 3: e[nqa Poseidw`no~ iJero;n iJdrusavmenoi

Cfr. «QS», 64, 2006, pp. 391-392 e 419-420. Basti qui ricordare le vibranti e documentate pagine di C. Tischendorf (De Herma Graeco Lipsiensi) nella seconda edizione dei Patrum Apostolicorum Opera a cura di Dressel (I, Lipsiae 1863), pp. XLIV-LV. E gli studi di Antonio Carlini sul Pastore. 3 Perché rifilati al collezionista Joseph Mayer di Liverpool con la complicità del missionario archeologo Stobart. 1 2

424 p. 5,1-2: kai; Mevlittan kai; “Arambun p. 6,1: Lixi`tai p. 6,3: w[/koun a[xenoi p. 6,5: to;n Livxon (fiume)

p. 7,3-4: Kevrnhn ojnomavsante~ p. 8,3: [w|/ o[noma] Crevth~ [così Müller indica l’integrazione da lui adottata; in apparato precisa: «recte monuerunt viri docti supplendum esse w|/ o[noma h\n vel kalouvmeno~»]

p. 9,8-9: gevmonta krokodeivlwn kai; i{ppwn potamivwn

p. 10,6: a[cri h[lqomen p. 14,1: ajlla; pavnte~ ejxevfugon

Parte sesta. Profilo dell’autore

p. 24,31-34: kai; Mevlittan kai; “Arambun kai; iJera; ejn aujtai`~ tevssara p. 26,3: Lixiavtai p. 26,8: w[/koun pavntw~ a[xenoi [la fisima di aggiungere a{pasa, pavnta etc. qui riappare] p. 26,1-2: ejpi; mevgan potamo;n Lixivan [Qui si nota un’altra caratteristica del nostro quando si tratti di testi geografici: di tanto in tanto creare toponimi che sono deformazione di toponimi noti] p. 26,23-24: Kevrnhn ojnomavsante~ ajpo; Kevrnh~ th`~ ejmh`~ qugatrov~ p. 26,32: Crevtou kaloumevnou [Qui Simonidis lavora sulla congettura segnalata da Müller e la modifica ulteriormente, allo stesso modo che, per il fr. 21, ha fatto un ulteriore passo rispetto al congetturale kai; ejndotevrw modificandolo in kai; tw`n ejndotevrw klimavtwn] Dopo di che aggiunge di suo: ΔEntau`qa teleuta`/ novsw/ Cremevth~ oJ hJmevtero~ pro;~ mhtro;~ qei`o~ kai; pro;~ tw`/ potamw`/ qavptetai. Segnala in apparato di conoscere l’edizione Müller (p. 26, n. 1 sub fine). p. 28,12-15: gevmonta krokodeivlwn kai; i{ppwn potamivwn. “Enqa ΔAstrai`o~ uJpo; krokodeivlou diafqeivretai oJ kubernhvth~: ajfΔ ou| mavlista kai; oJ potamo;~ th`~ proshgoriva~ e[tucen p. 28,34: a[cri~ ou| h[lqomen p. 30,33: ajlla; pavnte~ ejxevfugon [rifiuta l’integrazione me;n] ta;~ cei`ra~ hJmw`n Infine aggiunge una mastodontica subscriptio.

XVIII. Come lavorava Simonidis

425

Poiché i grandi acquisti papirologici della prima metà dell’Ottocento (dal papiro di “Eudosso” al Louvre, ai mirabili rotoli di Iperide) venivano detti provenire da sarcofagi trovati a Tebe, anche per Annone Simonidis proclamò analoga provenienza. Nel caso del Vangelo di Matteo fu lui stesso a pubblicare, nella sontuosa edizione uscita anch’essa a Londra presso Trübner due anni prima, la lista delle varianti (pp. 27-28), dove metteva a raffronto quella che definiva «Received Version» con il mirabolante «Codex Mayerianus». L’edizione era corredata anche di un accurato e ieratico ritratto dell’evangelista Matteo, opera dello stesso Simonidis. Impreziosire il papiro ritoccando la versione tràdita era per lui una specie di mania. Così ad esempio al cap. 19, versetto 8, ejxelqou`sai tacu; ajpo; tou` mnhmeivou meta; fovbou diventa nel «Codex Mayerianus» ejxelqou`sai tou` khvpou ejn w|/ to; mnhmei`on ejsti; meta; fovbou, e nel versetto seguente kai; ijdou; oJ ΔIhsou`~ ajphvnthsen aujtai`~ diventa kai; ijdou` ejn tw`/ poreuvesqai aujta;~ ajphvnthsen aujtai`~ oJ ΔIhsou`~ (col risultato di una sintassi non proprio splendida). È in certo senso impressionante che il pio Simonidis non abbia esitato a manipolare persino la “Sacra Scrittura” pur di dare maggior credito ai papiri che veniva creando. E perciò a fortiori ha ritoccato in almeno tre punti i venti righi della Lettera di Aristea da lui “ricreati” su papiro. 2. La testimonianza di un amico «Grazie ad una fantasia straordinariamente vivace e al suo senso del bello, nonché grazie ad una rigorosa memoria, Simonidis tentava di surrogare qualcosa che a lui mancava. Leggeva freneticamente gli scrittori greci nei limiti in cui gli erano accessibili; e cercava in tutti i modi di ampliare le sue conoscenze archeologiche e storiche. Cercava anche di dare un certo brio e una grande vivacità al suo stile attraverso reminiscenze e imitazioni dagli scrittori antichi. Proprio perché si cimentava continuamente in “creazioni” [Produktionen = falsificazioni], egli era ben consapevole della sua debolezza nella STILISTICA: errori e solecismi gli scappavano in gran numero dalla penna. E perciò si faceva correggere gli articoli e i saggi da lui destinati ai giornali dai dotti che erano nell’ambito delle sue conoscenze. Trovandosi in tale difficoltà, determinata appunto dalla sua formazione carente, e non volendo subire l’onta di dover “tornare a scuola” in una scuola pubblica, egli mi prospettò, nell’anno 1850, la

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Parte sesta. Profilo dell’autore

pressante richiesta di dargli lezione di SINTASSI GRECA; e contemporaneamente mi chiedeva di tener nascosto questo rapporto in cui io, il più giovane, ero addirittura il suo maestro. Unicamente per la volontà di favorire lui, io mi risolsi ad assecondare la sua preghiera. In tale circostanza ebbi la possibilità di conoscere bene la sua svelta intelligenza: i discorsi di Demostene, che leggevamo insieme, lui li comprendeva piuttosto bene, e faceva anche progressi nella SINTASSI. Il mio interesse per lui cresceva e speravo che, grazie ad una formazione via via più affinata, la sua sventatezza diminuisse e che, in ragione delle sue doti, divenisse, maturandosi, un uomo capace e dedito ad utili obiettivi. Per parte mia consideravo un vero e proprio dovere cristiano contribuire nei limiti delle mie forze al suo miglioramento. E invece, dopo due mesi, lui abbandonò questo insegnamento. Probabilmente egli vi vedeva uno sgradevole freno al suo spirito intollerante di vincoli e incline a lasciarsi andare sempre di più a fantasie smisurate. Non meno sgradito gli era il mio frequente intervento correttivo nei confronti della sua boria e della sua avventatezza. Ma torniamo alle pubblicazioni di Simonidis. Nell’anno 1850, egli pubblicò i suoi Kefallhniakav, una completa descrizione dell’isola di Cefalonia4. Simonidis presentava questo testo come il frammento di una grande opera geografico-storica che abbracciava tutta la Grecia, composta nel IV sec. d.C. da uno scrittore locale, di Cefalonia, di nome Eu[luro~, peraltro totalmente sconosciuto. L’intento era forse di giovare ad alcuni cittadini di Cefalonia in difficoltà in quel momento, e che erano in contatto con lui. Quanto, però, al contenuto del libro, esso non presentava, nella sostanza, nulla più di quanto Strabone, Stefano di Bisanzio e altri geografi e storici, in modo particolare Eustazio, già ci davano. L’unica variante erano le fantastiche esagerazioni dell’editore, o per meglio dire del compilatore. Per esempio esclusivamente a lui risale il fatto che anche le più insignificanti alture venissero determinate nella maniera più puntigliosa attraverso l’indicazione delle distanze. Ma l’entusiasmo per questa scoperta cefalonica venne presto dissolto: il dotto prof. Kumanudis, con due articoli su Neva ‘Ellav~, nei 4 Il titolo esatto è: Gewgrafikav te kai; Nomika; th;n Kefallhnivan ajforw'nta, ΔAqhvnhsi, F. Karampinh"-C. Bafa, 1850.

XVIII. Come lavorava Simonidis

427

quali approfonditamente analizzava lo STILE e il contenuto, dimostrò l’inautenticità dell’Eu[luro~»*. * Da LYKURGOS 18562, pp. 52-53. Anche Uranios era stato costruito da Simonidis sulla base delle citazioni presenti in Stefano di Bisanzio.

XIX 18 MARZO 1864

«th/' ajkadhmai>kh'/ biblioqhvkh/ K. Simwnivdh~ ejn Parivs ioi~ th'/ 18 Martivou AWXDV [1864]». Questa dedica datata figura sui fogli liminari di alcune opere di Simonidis possedute dalla Biblioteca della parigina Académie des inscriptions et belles lettres (Institut de France). 4o R 14E1: 4o R 14E2: 8o R 17D9: 4o S 239* [8]: in fol. A 71A:

Autographa (la data di pubblicazione indicata è «Odessa 1854») Suvmmiga, cioè «Mélanges édités par Callinicus, moine de Théssalonique», Odessa 1854 jEpistolimaiva Diatribh; peri; iJerogluvfwn, London 1860 Concerning Horus of Nilopolis, London 1863 Fac-Similes of certain Portions of the Gospel of St. Matthew written on papyrus in the first century etc., London 1861

La data della dedica «alla biblioteca dell’Académie» è significativa. Nel mese precedente, sempre a Parigi, Simonidis aveva già fatto dono degli Autographa e dei Suvmmiga alla Bibliothèque impériale, e i due volumi (J-6227; Z-10068) erano stati accolti come “doni”: rispettivamente DON No 9512 e DON No 9634. La data della dedica è in entrambi i casi il 27 febbraio 18641. Non era il suo primo soggiorno parigino. Già in gioventù aveva studiato pittura alla scuola di 1 Anche in questo caso, come nel caso delle dediche alla Biblioteca dell’Académie, Simonidis indica la data anche secondo il calendario gregoriano.

XIX. 18 marzo 1864

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Jules Joseph Génie Vidal2, litografo (e di ciò mena vanto nelle pagine iniziali dei Suvmmiga). Nel 1855, prima di lanciarsi in Germania nell’avventura del falso Uranios, Simonidis era stato lungamente a Parigi, come rievoca un suo non aggressivo interlocutore, il conte di Marcellus in una lettera pubblicata sul periodico «Athénaeum français» il 23 febbraio 1856 (all’indomani dello ‘scandalo’ di Uranios, dell’arresto e fuga di Simonidis prima a Vienna poi a Monaco). Per ora sono questi tre i soggiorni parigini documentati, ma è molto probabile che ve ne siano stati altri. Quello del febbraio-marzo 1864 qui particolarmente ci interessa per alcune significative circostanze. Per meglio intenderle conviene rievocare la prassi vigente all’Académie. Quando uno studioso offre sue opere all’Académie si rivolge – di norma in occasione di una seduta – a un determinato «membre de l’Académie»; questi le passa alla presidenza e, per essa, al secrétaire perpétuel, il quale, nella seduta successiva, le presenta, agli académiciens; ed esse (se non indegne) vengono prese in carico. Nel nostro caso si può osservare e documentare la sequenza cronologica. Il 18 marzo 1864 Wladimir Brunet de Presle, il grande e appassionato filelleno, allievo di K.B. Hase e di Fr. Lenormant, editore delle lettere di Korais, punto di riferimento dei greci in transito per Parigi e profondamente impegnato nella campagna per l’indipendenza della Grecia3, presenta – in seduta – all’Académie, insieme col noto e solerte ellenista Émile Egger, alcuni papiri «qui font partie de la collection des papyrus grecs du Louvre»4. È evidente che in quel giorno Simonidis ha presentato i suoi scritti probabilmente proprio a Brunet de Presle (che gli era noto, tra l’altro, anche come studioso dei geroglifici, cui Simonidis aveva consacrato la stravagante ΔEpistolimaiva diatribhv, che figura tra i volumi donati). La successiva seduta – che avrebbe dovuto aver luogo il 23 marzo5 – di fatto non ha luogo, perché il presidente annuncia la morte, avvenuta in quei giorni, di un illustre socio quale Karl Benedict Hase e la seduta viene immediatamente sciolta. È nella seguente seduta, il primo di aprile, che il secrétaire perpétuel Allievo di allievi di David. Cfr. THOMAS 1876. 4 Académie des inscriptions et belles lettres, Comptes rendus des Séances de l’année 1864, t. VIII, Paris 1864, p. 107. Tutta l’«analyse» occupa le pp. 107-113. (Collocazione alla Bibliothèque de l’Académie USUEL 8o AA 56 A*.) 5 Non il 25 perché capitava nel «venerdì santo». 2 3

430

Parte sesta. Profilo dell’autore

(Guigniaut, il noto biografo di Hase) presenta le cinque opere di Simonidis6. L’effetto di tale presentazione è la loro presa in carico e sistemazione nelle cotes di cui s’è detto in principio. Si potrebbe qui soggiungere che la “fortuna” di Simonidis all’Académie non si è fermata lì. Nei mesi seguenti Simonidis deve aver fatto giungere, forse attraverso lo stesso canale, la sua opera forse più celebre, l’edizione del papiro di Annone (che entra nella biblioteca con la collocazione 4o S 9A*)7. È anche rilevante che la biblioteca dell’Académie accolga pure un saggio dell’abate P.J. Jallabert, Hermas et Simonides, Étude sur la controverse récemment soulevée en Allemagne, Paris-Lyon 1858: un saggio tutt’altro che ostile a Simonidis, sul cui foglio di guardia una mano non identificata ha annotato «Bonne analyse du Pasteur d’Hermas». Qui però importa rilevare il contatto di Simonidis con il curatore della lungamente protrattasi edizione dei papiri del Louvre, Wladimir Brunet de Presle. Brunet aveva ereditato quella cura dal grande Letronne, che però era morto nel 1848 senza portare a termine quella fatica. Nel 1850 Brunet de Presle aveva già svolto un ampio rapporto all’Académie8: «Notices et Textes des papyrus grecs du Musée du Louvre, publication préparée par feu M. Letronne»9. All’epoca i papiri del Louvre erano accessibili agli studiosi con relativa facilità. Il pezzo più imponente, e più rilevante, della collezione era senza dubbio (e lo è tuttora) il papiro cosiddetto “di Eudosso” (Inv. No 2325), vulgo e alquanto impropriamente definito «papiro 1 del Louvre» perché Letronne gli diede il primo posto, nella sua pubblicazione incompiuta edita appunto da Brunet de Presle e Egger. Imponente per le dimensioni (cm 273 x 31); rilevante per il contenuto (un testo astronomico corredato di disegni che quasi sempre non hanno a che fare col testo)10; eccentrico per la struttura. Infatti al centro del verso è collocato un acrostico di 12 versi che suggerisce, senza di6

Académie des inscriptions et belles lettres, Comptes rendus des Séances cit., p.

116. 7 The Periplus of Hannon esce certo qualche tempo dopo il 18 marzo 1864 perché contiene, nelle note finali, rinvii a giornali del marzo 1864. 8 Cfr. Mémoires de l’Académie, XVIII, 1850, p. 354. 9 È in larga parte riprodotta nel tomo XVIII.2 (1865) delle «Notices et extraits des Manuscrits de la Bibliothèque impériale», 1865, pp. 1-24. 10 Cfr. BLASS 1887, p. 79.

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XIX. 18 marzo 1864

chiararlo, un rapporto del testo astronomico sul recto con il grande astronomo Eudosso, quantunque la subscriptio presente nell’ultima colonna dia un altro nome: LEPTINOU GE[

e un titolo: BAÇILEUÇIN OURANIOÇ DIDAÇKALEA (sic).

Con l’aiuto di Teodulo Devéria, Brunet fu in grado di allestire un mastodontico facsimile di questi papiri, nel quale ancora una volta il cosiddetto Eudosso occupa la prima posizione. Questo facsimile, egregiamente disegnato ma non sempre perfettamente collimante con l’originale, rende comunque abbastanza bene la scrittura figurante nelle 24 colonne del recto e nell’acrostico del verso11. Il papiro “di Eudosso” fu restaurato in tempi assai protratti e a lungo rimase diviso in segmenti12, e così fu esibito e consultato. È questo “Eudosso” con tutta probabilità il modello preso a base per creare l’Artemidoro. Lo dimostra la affinità della scrittura: basti, ad esempio, considerare il x scritto Z nel rigo 1 dell’acrostico e in pevrix due volte presente nell’Artemidoro (vedi fig. 3). Si noti che Simonidis adotta tale forma anche nel (falso) papiro della Genesi conservato anch’esso a Liverpool (collezione Mayer, M11169v), colonne II, 19 e III, 6. Analogie si riscontrano anche per altre peculiarità e anomalie, compreso l’uso disinvolto del verso in rapporto al recto, nonché le dimensioni. Blass elencò una serie di errori in cui incorre l’“Eudosso”: non stupirà ritrovarli nell’Artemidoro. La seduta dell’Académie des inscriptions et belles lettres del 18 marzo 1864 fu, si direbbe, ricca di sviluppi.

11 Non ci sono molte copie di questo monumentale oggetto. L’esemplare della BNF ha la collocazione: Folio-Facsimilé 115. L’esemplare dell’École des Langues orientales vivantes (Paris rue de Lille 4) è perduto. Un esemplare è posseduto dall’Università Cattolica di Lovanio (Dipartimento di Studi classici). La ristampa del Cisalpino (Milano 1975) non comprende il facsimile. 12 Del restauro parla con grande competenza MENEI 1994, pp. 214-221.

XX SARÀ SIMONIDIS ARTEMIDORO? di Luciano Bossina

1. Provvidenza di Eustazio Provai uno stupore sincero quando scoprii che la iunctura ajtlavnteio~ fovrto~, inattestata in tutta letteratura greca classica ed ellenistica, trovava un esatto parallelo in una pagina di Eustazio di Tessalonica. Provai uno stupore sincero, ma tirai innanzi. La situazione si aggravò col rarissimo ajkopivato~, vera delizia del cacciator di glosse. I lessici, per spiegarlo, ricorrevano di norma al suo più comune sinonimo ajkavmato~, mentre tra le pochissime occorrenze dell’aggettivo spiccava un curioso frammento di Cleante, nel quale la «Provvidenza» veniva appunto definita «instancabile e infaticabile»: provnoia ajkavmato~ kai; ajkopivato~. Il che, beninteso, non sarebbe stata gran cosa, se non avessi quindi appurato che il frammento di Cleante, con la provnoia ajkavmato~ kai; ajkopivato~, si trovava attestato soltanto in Eustazio di Tessalonica. Si trovava anzi attestato, per un caso che davvero non esitavo a ritenere provvidenziale, nella stessa pagina del precedente, e proprio in riferimento al celebre Titano. È così infatti – riferiva Eustazio – che alcuni interpretavano l’immagine di Atlante: come figura allegorica della «Provvidenza instancabile e infaticabile»... Possibile, mi chiedevo, che “Artemidoro” ed Eustazio procedessero a tal punto all’unisono? E possibile che entrambe le espressioni si trovassero, in quell’unica fonte, a così poche righe di distanza, e a proposito dello stesso oggetto? Ora non mi stupisco più. Ho per le mani la fittizia corrispondenza tra Costantino Simonidis e Joseph Mayer1 nella singolare ΔEpistoli1

Sui rapporti tra Mayer e Simonidis, oltre alle molteplici notizie desumibili da

XX. Sarà Simonidis Artemidoro?

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maiva peri; iJeroglufikw`n grammavtwn diatribhv (Liverpool 1860). La collezione privata di Mayer fu centro di raccolta e diffusione di svariati falsi prodotti da Simonidis, e lasciamo stare se l’acquirente sia stato per suo conto vittima o complice. Rimaniamo alle lettere. Il lettore del papiro si sente subito a casa. La geografia? «Sono pronto [e{toimo~ eijmiv] a porla sullo stesso piano della filosofia», diceva “Artemidoro”. Simonidis a Mayer: «Sono pronto [e{toimo~ eijmiv] a fare tutto ciò che posso per il bene della scienza». Il geografo? Deve compiere un «instancabile lavoro pluriennale» – diceva “Artemidoro” –, come fa il filosofo, che «si consacra tutto intero alle virtuose ingiunzioni delle Muse». Simonidis a Mayer: «Hai dedicato molto tempo alle Muse [...]; non smetti di servirle con tutte le forze per il bene della scienza». “Artemidoro”: «Non è una fatica da poco [ouj oJ tucwvn]». Mayer a Simonidis: «sei dotato di una perspicacia non da poco [ouj th`/ tucouvsh/]». E poi sempre il peso. Mayer non sopporta il clima tedesco (anzi «prussiano»): è un peso che proprio non riesce a portare: to; th`~ Prwssiakh`~ ajtmosfai`ra~ bavro~ ouj duvnamai bastavzein. Ma il meglio arriva nella risposta di Simonidis, il quale, come tutti i beneficiati, non perde occasione di elogiare il benefattore. Elogia in particolare la sua ricca collezione di «cimeli egiziani», «tratti in salvo come nell’Arca della salvezza», e «raccolti da ogni parte della terra... dalla tua lodevolissima, davvero tolemaica e instancabile provvidenza»: ajkamavtw/ pronoiva/. La stessa espressione di Eustazio! Ora, che anche Simonidis – e non solo “Artemidoro” – fosse assiduo lettore del vescovo bizantino era noto. Commentatore di Omero e di Dionigi il Periegeta, Eustazio è fonte acclarata della sua vasta cultura geografica: basterà compulsare, per rendersene conto, il variegato materiale raccolto nei favolosi Kefallhniakav. Ma a testimoniare la sua notevole familiarità con Eustazio occorre anche il Commento al Periplo di Annone, opera in cui mirabilmente si mescolano – e a stento si distinguono – fantasia e dottrina. E non mi riferisco soltanto alle varie ed esplicite citazioni di EustaSIMONIDIS 1864, si possono vedere le «voci» corrispondenti in Who was who in Egyptology, London 1995 (con altra bibliografia) e il breve ma denso MASSON 1993. Nel Katavlogo~ tw`n ejkdedomevnwn suggrammavtwn K. Simwnivdou didavktoro~ th`~ Filosofiva~ accluso al volume su Annone, è registrata al n. 36 una precedente edizione delle lettere al Mayer sui geroglifici dal titolo: ΔEpistolimaiva peri; ÔIerogluvfwn diatribhv, ΔEn Londivnw/ tw`/ 1860.

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Parte sesta. Profilo dell’autore

zio, ma anche a una notizia nascosta negli interstizi delle molteplici e talora un po’ petulanti lettere apologetiche che costellano la parte finale del saggio (The Periplus of Hannon, p. 60). Tra le numerose e disinvolte imprese che gli erano addebitate, infatti, non mancava chi lo accusasse di aver addirittura prodotto di suo pugno un esemplare di Omero con i commenti di Eustazio: del grande arcivescovo egli sarebbe stato dunque non solo un fedele lettore, ma persino un copista! A smascherarlo, come altre volte accadde, l’eccessiva prossimità di quel manufatto con l’edizione omerica del Wolff, di cui il troppo moderno copista avrebbe inopinatamente riprodotto sviste e lezioni singolari. Il nostro falsario scivolava dunque sempre sullo stesso errore: costruiva i suoi falsi sulle edizioni moderne, senza avvedersi di importarne le mende e le congetture. Con lo stesso criterio, com’è noto, qualche anno dopo il Ritschl dimostrerà la falsità del nuovo Simonideion di Eschilo. Dovremo forse ricordare che il fenomeno si ripete identico anche nel papiro di “Artemidoro”? Il lettore Simonidis aveva dunque uno stretto rapporto con Eustazio: e forse non solo passivo. Sicché non dovremo sorprenderci s’egli vi tornava col pensiero anche nella corrispondenza sui geroglifici. Eppure la lettera al Mayer svela davvero qualcosa di sorprendente. E cioè che il nostro falsario, mentre parlava di «cimeli egiziani» ed evocava la biblica Arca dell’Alleanza, teneva a memoria la stessa pagina di Eustazio che conosceva pure “Artemidoro”: teneva a memoria, per dir meglio, le stesse parole. “Artemidoro” e Simonidis avevano dunque affinità di idee e di stile; avevano del resto le stesse letture, le stesse fonti di ispirazione: si direbbe che lavorassero quasi sullo stesso scrittoio. Uno scrittoio intensamente e proficuamente frequentato, ma anche per questo ripetitivo: Strabone, Stefano di Bisanzio, qualche altro geografo di prima o di seconda mano, e appunto Eustazio di Tessalonica. E non sarà un caso che proprio questi nomi, protagonisti diretti o indiretti del papiro di “Artemidoro”, fossero poi le fonti privilegiate dei suoi falsi: i fantomatici Kefallhniakav di Eulyros – ricordò ad esempio un testimone che di Simonidis fu pure maestro di greco – non contenevano «nulla più di quanto Strabone, Stefano di Bisanzio e altri geografi e storici, in modo particolare Eustazio, già ci davano»2. Come si vede il meccanismo era ben oliato: ma gli ingranaggi erano pochi. 2 LYKURGOS 18562: per questa importante testimonianza si veda supra, cap. XVIII, § 2.

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XX. Sarà Simonidis Artemidoro?

Per questo ai filologi di buona volontà non verrà troppo difficile di trovare consonanze reciproche tra i non molti libri di quello scrittoio: innanzitutto perché le fonti sono limitate, e le memorie di un uomo mai infinite, e poi perché proprio «la provnoia» – com’ebbe a scrivere al suo allievo di maggior destino un maestro assai devoto alla Provvidenza – «non abbandona buoni e valenti»3. Eustazio:

“Artemidoro”:

Simonidis:

To;n de; “Atlanta... oiJ mevn, ajllhgorou'si eij~ th;n ajkavmaton kai; ajkopivaton provnoian th;n pavntwn aijtivan [...] uJpelqei'n to;n fovrton dia; filivan, kai; diadevxasqai to;n “Atlanta pro;~ bracuv.

o{pw~ to;n ajtlavnteion ejkei'non fovrton bastavzwn ti~ tw'n ajxivw~ filosofouvntwn ajkopivaton fovrton e[ch/

a{per pollacovqen th`~ gh`~ th`/ sh`/ ajkamavtw/ kai; livan ajxiepaivnw/ Ptolemai>kh/`/, o[ntw~, pronoiva/ kai; aJdrai`~ ijdivai~ dapavnai~ ejn aujtw`/ sunhqroivsqhsan

2. L’insonnia (parte seconda) L’eroe del nostro papiro – si diceva – dev’essere insonne: a[grupno~. Deve vegliare. Il terribile «peso di Atlante» lo deve portare «giorno e notte». La sua anima e la sua volontà non devono «mai essere inerti». Ce la farà? Per saperlo, dovrà prima «pesare la propria anima». Verificare di sé – come farà in un altro cielo l’angelo della bilancia – «la forza della virtù». Questo edificante messaggio, che abbiamo già lungamente osservato, non è un unicum. Le stesse raccomandazioni si possono infatti apprendere, tradotte in simboli, anche nell’immagine di un curioso gioiello. Si tratta di una gemma, di un daktuliovliqo~, ispirata a un «simbolismo egizio». Ecco il testo che descrive e disvela il significato della misteriosa immagine: L’immagine del tuo gioiello è in tutto e per tutto egizia. C’è un uomo con la testa di gallo, che porta una verga nella mano sinistra e uno scudo 3 Gaetano De Sanctis ad Arnaldo Momigliano, il 14 settembre 1938. La lettera, in attesa dell’edizione integrale del carteggio, si legge nell’anticipo dato da POLVERINI 2006, p. 21.

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Parte sesta. Profilo dell’autore

nella destra. Al posto dei piedi ha dei serpenti a fauci aperte, e indossa un abbigliamento militare. Il gallo indica l’insonnia [to; a[grupnon], la verga il comando e la resistenza [to; karterikovn]; lo scudo l’essere guardingo, i serpenti l’astuzia, la vitalità, l’energia, l’abbigliamento militare la virilità, il corpo di uomo l’elemento terreno. Le lettere che stanno intorno [pevrix] all’immagine, come le precedenti4, sono certo greche, ma le parole che formano sono tutte egizie. L’immagine nel suo complesso significa questo: In ogni sua opera l’uomo deve essere insonne [a[grupnon], resistente [karterikovn], guardingo, astuto, virile nell’anima, sobrio. Ma la sua speranza (dicono le lettere) deve sempre essere rivolta agli dèi: perché sono loro gli elargitori di ogni bene. Il simbolismo di questo gioiello indica anche altre cose, e cioè che è rivolto a mortali e non a immortali. Perché in quel caso questo emblema darebbe un altro significato: ma l’intepretazione è garantita dalle lettere. Fu inciso nel primo secolo avanti Cristo, come è dimostrato dalle lettere della commessura, e dalla foggia della cornice, e soprattutto dalla composizione delle parole.

Dopo questa brillante esegesi, il nostro interprete garantisce di averne «di recente veduto e decifrato uno simile a questo nelle mani di un altro amico». In quel caso il significato sarebbe stato: Nukto;~ kai; fwto;~ a[grupno~ fuvlax eijmi; ejgwv. Di notte e di giorno io sono una sentinella insonne

L’autore di queste parole è, ancora una volta, Costantino Simonidis, in una lettera firmata «Liverpool, 1 gennaio 1864», e raccolta nei suoi Leivyana iJstorikav, sorta di saggio, nella stessa forma epistolare della ΔEpistolimaiva peri; iJeroglufikw`n grammavtwn diatribhv, su vari cimeli, codici e papiri scaturiti dalla sua inesauribile fantasia, pubblicato nello stesso anno 1864. In apertura di volume una meravigliosa testa barbuta. Sarebbe quasi superfluo rilevare le curiose similitudini col papiro: l’insistenza sulla virtù della ajgrupniva, «di giorno e di notte»; la necessità di impegnarsi in un’opera («avere slancio per la cosa» dice “Artemidoro”); il riferimento all’«anima»; le lettere che stanno «in4

Fa riferimento all’interpretazione di un precedente cimelio.

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XX. Sarà Simonidis Artemidoro?

torno» [pevrix], financo la costruzione con dei` seguito da infinito proprio all’inizio del testo, come raccomandazione preliminare e necessaria. Né ovviamente staremo a chiederci se il daktuliovliqo~ sia mai davvero esistito, o a commentare la banalità vagamente cialtronesca dell’esegesi. Ma certo è sempre curioso osservare come Simonidis si divertisse a confondere le carte della storia. Prendiamo ad esempio l’ammonimento a essere «astuto»: frovnimo~. Fondamento di questa interpretazione dovrebbero essere «i serpenti al posto dei piedi». Perché? Perché com’è noto in Gen 3, 1 il serpente è definito «la più astuta delle fiere»: fronimwvtato~ pavntwn tw`n qhrivwn. Ma attenzione. Nella Genesi il serpente è tutt’altro che immagine di virtù, e difficilmente sarebbe stata additata a modello. Senonché nel Vangelo di Matteo (10, 16) Gesù raccomanda ai suoi discepoli: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque astuti [frovnimoi] come serpenti e semplici come colombe». È uno dei lovgia più celebri di Gesù: la contrapposizione tra l’astuzia del serpente (ma qualcuno preferisce tradurre «prudenza») e la semplicità delle colombe ha fatto scuola, e verrà ripresa da qualsivoglia scrittore ed esegeta cristiano per tutti i secoli successivi fino a oggi. Tuttavia Simonidis garantisce che il presunto gioiello risalirebbe al I sec. avanti Cristo... “Artemidoro” (col. I, 32-38):

Simonidis:

e[cein o[rexin peri; to; pra`gma mhde;n hjremouvsh~ aujtou` th`~ yuch`~ kai; qelhvsew~, pavnta pevrix skopou`nta a[grupnon ei\nai nukto;~ kai; hJmevra~

Ta; de; pevrix sumbovlou gravmmata Dei` to;n a[nqrwpon ei\nai ejn panti; e[rgw/ auJtou` a[grupnon... ajndrei`on th;n yuchvn. Nukto;~ kai; fwto;~ a[grupno~ eijmi; ejgwv

Davvero curiosa l’identità di vedute tra questo presunto testo «egizio» e il papiro (egizio?) di Artemidoro. Difficile resistere alla tentazione di pensare che a produrli possa essere stato un medesimo autore, senza dubbio nella fertile attività della propria insonnia. Né del resto il geografo del papiro o l’«uomo» del gioiello (e perché no, anche l’Odisseo di Eustazio) sono stati gli unici insonni della storia. Anche Korais, per sua stessa ammissione, doveva soffrirne parecchio. In una di queste notti di ajgrupniva assistette anzi a una visione straordinaria e «consolante», dettagliatamente descritta a

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Parte sesta. Profilo dell’autore

Demetrio Loto in una lettera scritta da Montpellier il 29 ottobre 17875. Crediamo che sia degna, e non solo a compimento di quanto si diceva in precedenza6, di essere almeno parzialmente riportata: Spesso, fratello mio, nelle mie penose insonnie [ajgrupniva~] – perché spesso, per mia sventura, l’insonnia [ajgrupnivai] mi prende e mi affligge la salute – spesso, dico, durante queste insonnie [ajgrupniva~], soprattutto d’inverno, quando le notti sono lunghe, consumo il tempo passando in rassegna le mie sofferenze. Le conto una ad una, cominciando da quelle dell’infanzia, le punizioni paterne per la mia indisciplina in casa, le percosse al collegio per lo studio, giungendo quindi a quelle più penose, la partenza per l’Olanda, i viaggi in Germania e Italia, la perdita degli averi, il secondo viaggio in Francia etc. etc. [...] e quando mi pare di averle contate tutte o almeno quante me ne sovvengono, ecco che sento una voce invisibile: «Ingrato! Anche se la Provvidenza [Provnoia] ti ha punito in molti e vari modi, ti ha anche reso grandi beneficenze». E allora comincio a passare in rassegna, al contrario, i doni della Provvidenza [Pronoiva~], e ti assicuro, amico mio, che nel calcolo ho trovato ben superiore dei mali il numero dei beni. Consolato da questi pensieri, mi addormentai una notte sul far dell’alba e vidi in sogno una scena straordinaria, che dovrebbe consolare non me soltanto, ma tutti coloro che soffrono. Un Angelo discese dall’alto e si accostò al mio letto: di grandezza colossale, portava in mano una bilancia, come quelle con cui si pesa la legna al mercato. Ti lagni, mi dici, come se la Provvidenza [Provnoia] fosse stata ingiusta con te: ma ecco la bilancia della giustizia! Metti su un piatto i mali che ritieni di aver subito nella vita, e bada di non dimenticarne neanche uno. Io, temendo da una parte di risultare un bestemmiatore, ma convinto dall’altra di essere nel giusto, cominciai con grande slancio a caricare il primo piatto della bilancia con tutti i mali che riuscivo a raccogliere. E per paura di essere battuto dall’angelo aggiunsi anche molti altri mali insignificanti e indegni di considerazione [...] In poche parole caricai il piatto più che potei, di mali veri e presunti. Ma l’incredibile fu che l’angelo non disse nulla su questi, facendo finta di non accorgersi dell’inganno. [...] Tu – mi dice – hai caricato il piatto quanto hai voluto, e io non ho fatto alcuna obiezione: adesso sarò io a mettere sull’altro piatto i doni di Dio, ma solo col tuo consenso. Ti do quindi il permesso di opporti su qualsiasi cosa tu considerassi o troppo pesante o indegna di es-

KORAIS 1965, B1, pp. 103-104 (cfr. anche VRANOUSIS 1983). Trad. fr. in KO1880, pp. 25 ss. 6 Si veda supra, cap. XVI. 5

RAIS

XX. Sarà Simonidis Artemidoro?

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sere annoverata tra i beni. E così cominciò, fratello mio, a stipare anche lui i doni di Dio. Quali doni? Quelli che noi non consideriamo mai quando siamo accecati dall’amor proprio. [...] Quindi il piatto cominciò a muoversi, e io tremavo tutto, perché pensavo al versetto che dice: dinanzi a te nessun vivente sarà giustificato.

Non spiaccia al lettore se per concludere queste ricerche, tutte alla caccia di plagi, falsari e maschere perdute, abbiamo scelto la «consolante» immagine della «bilancia di giustizia».

XXI PROFILO DELL’AUTORE

Paradossalmente, il punto debole di questo “Artemidoro” è proprio nel fatto che ci venga presentato come qualcosa di epocale e di assolutamente nuovo sotto ogni rispetto. Grazie infatti a questo manoscritto veniamo a sapere che si poteva scrivere greco in modo diverso da quello universalmente e univocamente testimoniato da migliaia di pagine superstiti. Grazie a questo manoscritto veniamo a scoprire (così ci viene spiegato) l’usanza, non altrimenti testimoniata, di allestire “campionari” di figure animali ovvero «prontuari» per clienti. Anche se, a dire il vero, colpisce il fatto che – se non si fosse data la circostanza di un rotolo “sbagliato” e perciò “dismesso” – non avremmo mai avuto quest’unico esemplare di siffatto genere di «prontuari». Ma non basta. Grazie a questo manoscritto veniamo a scoprire un’anticipazione in pieno I secolo di una pratica rinascimentale: quella di far fare esercizi ad apprendisti (pittori?) mettendoli a copiare arti di statue. In questo caso la nostra fortuna, oltre che la “fatalità” di questo rotolo, sfida ogni benevolenza degli dei: se infatti il «prontuario degli animali» – una volta dismesso – fosse stato buttato (come era da aspettarsi...), non avremmo mai avuto traccia di tale precocissima anticipazione e il mare dell’oblio si sarebbe richiuso per sempre sull’unico frammento di testimonianza di una pratica, appunto, altrimenti ignota. Tutto ci appare come appeso a un filo. L’ostinata volontà di risparmio, spinta fino al riutilizzo di primo e poi di secondo grado di un rotolo “venuto male”, protrattasi nel corso di oltre un secolo, ci ha rivelato non solo un altro modo di scrivere in greco ma anche pratiche artistico-commerciali di cui s’era persa ogni traccia. Più che di “tre vite” bisognerebbe parlare di papiro-cornucopia. Non può passare inosservato, poi, che l’Artemidoro del papiro sarebbe il solo autore greco – ex hypothesi dell’età di Mitridate e di Sil-

XXI. Profilo dell’autore

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la, cioè di Cecilio di Calatte, di Metrodoro di Scepsi, di Alessandro Poliistore, di Ipparco di Nicea, di Licinio Archia –, il quale adopererebbe con larghezza (per non dire soprattutto) espressioni di epoca tardo-antica e medievale: in primis teologiche e tardo-neoplatoniche. E il bello è che l’unicità sul piano linguistico si estende anche alle didascalie degli animali raffigurati sul verso. Ragion per cui anche lì ci imbattiamo in un lessico anacronistico: una specie di cane è classificato come ajstrokuvwn, termine che ricorre soltanto in Orapollo (V sec. d.C.), per indicare la stella Sirio; un altro quadrupede è definito lukoqova~, termine ricorrente unicamente, allo stato delle nostre conoscenze, nel IX secolo, in Cherobosco e Sofronio. Una caratteristica, questa, che accomuna l’autore delle sgangherate frasi che si affastellano nelle colonne I e II con l’autore delle didascalie: un’unica “ispirazione”, un’unica predilezione per la grecità postrema mantenutasi attraverso i decenni mentre il papiro cambiava funzione e, quel che è più, contenuto. Un’unica mente, si potrebbe dire, visto che il creatore del repertorio, o «prontuario», di animali non ha mancato di includervi anche animali che, dalle superstiti raccolte di frammenti, sappiamo menzionati e descritti proprio da Artemidoro! Autore, copista e disegnatore finiscono dunque col sovrapporsi. Quale profilo viene fuori dell’autore di questo testo? La risposta si deve articolare su due piani. Dal punto di vista della qualità del testo prodotto, si può dire, alla luce delle osservazioni sin qui fatte, che l’autore ha esperienza del greco tardo e bizantino, ma non ha tenuto conto dell’anacronismo di far parlare un autore efesino del tempo di Mitridate nella lingua di Eusebio di Cesarea o degli Acta conciliorum o addirittura di Gennadio Scolario. E invece del greco adoperato in quel tempo a Efeso abbiamo testimonianze cospicue (Syll.3 742, ad es.) che vanno in tutt’altro senso. Dal punto di vista sintattico, non ha più la percezione del carattere cogente, in prosa greca, di un puntello irrinunciabile quale il dev in seconda posizione (venuto meno nel periodare neogreco), e anzi fa affidamento – come farebbe un ‘moderno’ – sulla punteggiatura, trascurando che questa risorsa è estranea alla sintassi di epoca classica così come a quella della koiné in tutta la sua lunghissima vita. Anche questa è una ‘crepa’ non da poco. Per quanto attiene al contenuto, ha commesso alcune imprudenze gravi. Per esempio collocare al principio del libro II una praefatio generale sul significato, l’importanza, l’ethos della Geografia: tematica ovviamente destinata, come infatti accade in Strabone, alla intro-

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Parte sesta. Profilo dell’autore

duzione generale, non a quella di un altro libro qualunque. Peraltro la vacua e oscura tirata sul rapporto filosofia-geografia trae ispirazione proprio dal fatto che la prima pagina della praefatio generale di Strabone incomincia appunto con tale motivo, trattato però con ben altra sobrietà e correttezza. Anche l’addensarsi entro queste colonne di argomenti, definizioni etc. che dovevano essere già state espresse sin dal principio (per es. la definizione del mare Mediterraneo1), conferma che ci troviamo di fronte ad un esempio caratteristico dell’auto-referenzialità e della intenzionale ‘completezza’ del frammento che nasce come frammento: dotato perciò non soltanto di praefatio generale ma foriero di quelle informazioni e definizioni che si danno la prima volta che si nomina una località, un toponimo etc. Insostenibile è che tale ‘prima volta’ capiti, anche per termini frequentissimi, proprio all’interno del frammento conservato. Superata con disagio la nullità della praefatio si approda a un inizio di libro (nonché di colonna) che è il presunto Stefano di Bisanzio. Qui, e altrove, il ricorso a strumenti inadeguati (l’edizione Meineke di Stefano anziché l’autentico testo costantiniano, una inadeguata edizione pliniana, forse addirittura mediata attraverso Stiehle) ha determinato inconvenienti seri: tra i più gravi la dimenticanza delle cifre del ‘vero Artemidoro’. Nella sostanza, in questa seconda parte, siamo di fronte a un bricolage di brani già noti: il presunto Stefano di Bisanzio, le righe di Marciano sulla struttura dei Pirenei, qualcosa di Tolomeo e parecchio Strabone, magari con uno sguardo ai manoscritti di Cosma Indicopleuste, nei quali (specie nell’XI libro) testo e disegni di animali allegramente si alternano. Il falsario voleva illustrare Artemidoro. Ciò avrebbe accresciuto il pregio: egli non aveva un’idea adeguatamente fondata del ruolo del recto e del verso. Che recto e verso potessero essere in relazione glielo faceva pensare uno dei suoi modelli, l’«Eudosso» del Louvre, dove non solo i disegni capricciosamente intercalati nel testo abbondano, ma un testo che vorrebbe essere decisivo per la comprensione di quanto si legge sul recto figura al centro del verso. Né mancavano altri “precedenti”, uno dei quali potrebbe essere stato notato dal Nostro durante il suo non breve soggiorno monacense: e cioè il manoscritto Monacense greco 287, che non solo è, da un capo all’altro, variamente illustrato di zodiaci e altri disegni (ff. 23r, 57r, 104v, 122r, 1

Col. IV, 36-37.

XXI. Profilo dell’autore

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123r-v, 125r-v, 127r-v, 128r, 128v-132v, 147r-148v)2 ma contiene anche un ampio estratto «da Artemidoro» Sul Nilo, ben segnalato nel pinax. A tacere dell’abituale intreccio iconografico tra mappe (mappamondi) e raffigurazioni zodiacali se del caso zoomorfe. Un caso tra tanti piace ricordare, e si tratta ancora una volta dell’Additional 19391: proprio i fogli trafugati da Simonidis comprendono la mappa dell’ecumene ai cui margini appaiono l’indicazione dei segni zodiacali e alcune figure zoomorfe (f. 18r). L’intenzionale intreccio, nella creazione del papiro di Artemidoro, tra recto e verso, tra testo letterario e programma iconografico, traspare da vari segni. S’è già detto degli animali “artemidorei” che ritroviamo sul verso; ma ci sono vari altri elementi. C’è la pagina esordiale di Strabone – già messa a frutto dal Nostro per il nesso filosofia/geografia –, dove Strabone indica, tra i «vantaggi della geografia», l’impulso che essa può dare alla «scienza dei volatili, degli animali terrestri e dei pesci». C’è il reiterato riferimento di Ateneo libri VII e VIII che sulla scorta di Polibio segnala la stazza d’eccezione dei pesci che allignano nel mare antistante la Lusitania («grassi come maiali»)3. Neanche le due teste filosofiche sono lì a caso. La loro posizione perfettamente in asse, l’una frontale l’altra di profilo, è rigorosamente rapportata alla colonna I di scrittura: l’altezza coincide perfettamente con quella della colonna I. E la pupilla di entrambe è allineata con th;n yuchvn (rigo 4) e th;n ijdivan yuchvn (rigo 30). ÔH suvnesi" o[yi" th`" yuch`" è un dictum di Clemente (Paedagog. I, 9). Sappiamo che non sono due teste qualunque: l’una sorride «labris apertis», l’altra ha il volto rigato dal pianto. Democrito ed Eraclito: un topos rifiorito in epoca rinascimentale e divenuto oggetto di celebri raffigurazioni pittoriche. I due filosofi, che rappresentano le due opposte ma in fondo convergenti reazioni di fronte all’agire umano, bene illustrano una colonna tutta dedicata a esaltare la potenza della filosofia. Anche le due teste che figurano all’estremo opposto, e si affrontano, non paiono collocate a caso: già per il fatto di trovarsi all’altro capo del rotolo4 e anche per il fatto di essere poste l’una in relazione all’altra, e con 2 Debbo queste puntuali informazioni a Brigitte Mondrain. Non mancano schemi di paralleli da a[rkto~ a meshmbriva. 3 Ateneo, VII 302 E; VIII 330 C [= Polibio, XXXIV, 8]. 4 Sempre che non se ne ipotizzi un indefinito prolungamento a Est.

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Parte sesta. Profilo dell’autore

una terza della quale sopravvive una barba. L’allievo del Vidal (diligente imitatore dei «maestri italiani»), pittore egli stesso che non aveva fatto mancare al grande facsimile di Matteo un imponente ritratto dell’evangelista assiso in trono e attorniato da angeli, non ha voluto lasciare disadorna nemmeno questa sua nuova creazione. L’aggiunta, sulla parte di recto non coperta di scrittura di «copie di statue» parrebbe una trovata volta a interrompere – non sapendo cos’altro dire o aggiungere! – il testo geografico. Aver messo tutto insieme – ritratti, praefatio, mappa, profilo della Spagna, animali etc. – è forse il segno più chiaro che siamo di fronte a un falsario. Simonidis, visto che è di lui che stiamo parlando, è venuto affinando le sue tecniche. Quanto alle pergamene, dalla Symai?s a Uranios c’è un abisso. E quanto ai suoi papiri, egli ha saputo giocare illusionisticamente su vari piani: dai frammenti virtuali (dei quali forniva soltanto la litografia nei misteriosi Autographa, stampati e ristampati tra Mosca e Odessa) ai frammenti su papiro, ovviamente antico, che ben sapeva dove e come procurarsi. Ha tratto ispirazione da esperienze molteplici (Athos, Sinai, soggiorni parigini) e da molteplici modelli: la clamorosa scoperta di Iperide influenza il suo stile scrittorio nel Matteo e nell’Annone; il forte interesse per la geografia antica sarà stato alla base del furto dei fogli dal manoscritto atonita Vatopedi 655 (comprendente tre mappe, l’ecumene, Albione e la Spagna incompleta); i soggiorni di studio alla Bibliothèque Nationale e al Louvre producono anch’essi degli effetti. Il frammentario palinsesto del Fetonte euripideo è un chiaro antecedente del palinsesto di Erma (e le date combaciano: 1854-1855). L’Eudosso visto al Louvre e all’Institut traluce nell’Artemidoro, incentrato proprio sulla Spagna e per di più fornito di mappa. La gamma delle soluzioni adottate è stata la più varia, dai brevi frammenti quali ad esempio i Leivyana iJstorikav ai testi «interi» (le cinque colonne del Periplo di Annone), ai frammenti consistenti ma derivanti da opere molto più vaste (i frammenti del Vangelo di Matteo o delle Epistole di Giacomo e di Giuda). I prodotti più maturi sono adeguatamente danneggiati (buchi, strappi etc.) e presentano scritture regolari e quanto possibile uniformi. Ciò che non può sempre dirsi per i prodotti più giovanili. L’Artemidoro rimase incompiuto? Difficile dirlo. Certo chi, a un certo punto, ne entrò in possesso ha saputo valorizzarlo come «oggetto d’arte». E tale, in certo senso, resta.

XXII LA TRACCIA

1. Il ritorno dei «geografi minori» Tra il 1808, quando appare il primo volume dello Strabone voluto dall’“imperatore dei francesi” e realizzato da Korais e La Porte du Theil, e il 1855, quando appare presso Firmin Didot il primo volume dei Geographi Graeci minores a cura dell’ormai parigino Karl Müller, vi è una fioritura di studi di geografia greca, e a partire dal 1837 segnatamente sui cosiddetti geografi greci minori. Il 27 febbraio 1837 la Bibliothèque ridiventata royale di Parigi acquistò per 650 franchi l’attuale manoscritto Supplément grec 443. Karl Benedikt Hase, responsabile dei manoscritti greci della biblioteca, segnala l’acquisto nel suo bizzarro e talvolta sconcertante diario intimo1 alla data del 27 febbraio: «Martianus Heracl. aus der Bibliothek der Duchesse du Berry gekauft für 650 fr.» (f. 78)2. Hase, ormai francesizzato (Charles-Benoît), amico e collaboratore di Didot, grecista abile e abilissimo falsario (il suo Toparcha Gothicus è stato smascherato da Ihor Sˇevcˇenko soltanto dopo un secolo e mezzo, nel 1978), di rado fornisce, in quel diario, notizie del genere. Molto più spesso parla di pettegolezzi e di avventure galanti. È dunque particolarmente significativo il cenno che fa a quell’acquisto, che pure non fu il solo. Il manoscritto, di cui si erano perse le tracce da circa due secoli, e che comprendeva Marciano di Eraclea e altri geografi minori, «suscitò – come ha scritto Didier Marcotte – un’enorme fiammata di inOggi Suppl. Gr. 1363. «Marciano di Eraclea comprato dalla Biblioteca della Duchessa di Berry per 650 franchi». 1 2

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Parte sesta. Profilo dell’autore

teresse nel mondo scientifico francese e una rinascita degli studi di geografia storica»3. Su impulso di Letronne ci furono tentativi, purtroppo disastrosi, di ricorrere a sostanze chimiche per leggere frasi e parole in cui l’inchiostro era quasi del tutto sbiadito. Friedrich Haase protestò contro tali pericolosi interventi. Nel frattempo, come si sa, Letronne prendeva in “cura” i papiri Drovetti depositati al Louvre in vista di un’edizione che lasciò incompiuta: il pezzo forte era il grande papiro di argomento più o meno astronomico cosiddetto «papiro di Eudosso». Intanto l’apparizione del nuovo manoscritto dei geografi minori cominciava a produrre effetti. Nel 1838 Samuel Hoffmann pubblicava la dissertazione sugli Iberi (orientali e occidentali) in cui fra l’altro chiariva che il frammento di epitome che chiude la raccolta di Marciano non può che essere Menippo. Nel 1839 un protetto e allievo di Hase, il giovanissimo Emmanuel Miller, pubblicava, dal nuovo manoscritto, le opere di Marciano. Si era messo al lavoro immediatamente all’indomani della ricomparsa del Suppl. Gr. 443, se Hase già alla data del 3 maggio ’37 annotava nel diario: «im Conservatoire über die kleineren Geographen Millers». L’edizione è molto difettosa ma si è comunque giovata dell’aiuto di Hase, ed è, sul piano testuale, un passo avanti rispetto a tutte le sillogi precedenti. Anche se ignora i risultati raggiunti da Hoffmann l’anno precedente. Nel 1841 Hoffmann torna sulla presunta epitome artemidorea (da lui restituita a Menippo) e pubblica una monografia su Menippo di Pergamo. L’idea che testi importanti della scienza antica potessero ancora venire alla luce si consolidava e alimentava speranze. È in questo clima che, a distanza di pochi anni l’uno dall’altro, due avventurosi personaggi greci, pur tra loro molto diversi, come Minoide Mynas e Costantino Simonidis, “saccheggiarono” il grande manoscritto geografico conservato4 nel monastero di Vatopedi, sul monte Athos: il manoscritto n. 655, comprendente – quando era integro – Tolomeo, un’ampia silloge di geografi minori, e Strabone. Una parola va detta sulla importanza di questo corpus. La sua caratteristica più rilevante è di costituire la più grande raccolta geografica greca superstite: chi la mise in essere attinse a diverse fonti.

3 4

MARCOTTE 2000, p. LXXIV. Dopo lunga permanenza a Costantinopoli.

XXII. La traccia

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Per la prima parte (Tolomeo) discende dall’Urbinate greco 82, per i geografi minori dal Palatino greco 398 di Heidelberg (la cui mutilazione iniziale può essere risarcita proprio grazie al Vatopedi 655), per Strabone la dipendenza non è accertata. È da notare che la parte contenente Strabone (ff. 70-296) è di gran lunga la più vasta e inoltre presenta una duplice numerazione dei fascicoli: forse da principio Strabone doveva sussistere autonomamente. Ben presto, però, fu concepito il progetto di un unico grande collettore della geografia antica5. E tale fu appunto il Vatopedi 655. 2. Minoide Mynas all’Athos Minoide Mynas partì nel 1841, l’anno della nuova edizione del Menippo. Già illustratosi per gli attacchi ingiusti da lui rivolti al grande Korais, Mynas si recava in Oriente per incarico del suo amico e coetaneo, il ministro francese dell’istruzione pubblica Villemain – meta erano la Turchia e l’Athos – col compito di acquistare o trascrivere «manoscritti greci che gli apparissero come di particolare interesse». Mynas assolse a tale compito ufficiale6, ma provvide anche a sé privatamente. La sua abilità rifulse non solo nel lavoro di ricerca ma anche in quello di falsificazione. Mescolando falso e vero creò il ‘Supplemento’ alle favole di Babrio che ingannò anche esperti ellenisti. Tra l’altro, egli notò, come s’è detto, l’importante Vatopedi 655: e ne sottrasse alcuni fogli. Ma non li mise subito in circolazione. Quei fogli furono trovati, alla sua morte, tra le sue carte (febbraio 1860) e costituirono un cosiddetto “Supplément grec” della Bibliothèque (ormai) impériale: il 443A. Esso comprende alcune opere “prelevate” per intero e, ovviamente, anche lembi di altre opere giacché l’inizio e fine dei fogli non sempre coincide con l’inizio e fine di un’opera. Le opere intere sono il De ventis attribuito ad Aristotele, cui segue un bel pezzo dell’Anaplous Bospori di Dionigi di Bisanzio (ff. 2r-3v del 443A); il De 5 La presenza qui anche dello pseudo-Arriano (Periplo del Ponto Eusino) crea un raccordo con l’altra collezione superstite, quella di Marciano (Suppl. Gr. 443), giacché lo pseudo-Arriano (Ponto Eusino) presenta estese e significative identità verbali con l’Epitome di Menippo. 6 Il risultato è raccolto in una pubblicazione intitolata Rapport adressé à M. le Ministre de l’instruction publique par Minoide Mynas, Paris 1846.

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Parte sesta. Profilo dell’autore

fluviis di Plutarco, che si è tirato dietro l’ultimo lembo della Crestomazia di Strabone (ff. 6r-9v); e inoltre uno scritto fino a quel momento male edito e ritenuto opera di Agatemero: si tratta in sostanza di un’appendice cartografica a Tolomeo sul modo di leggere la carta geografica (gewgrafiva) disposta su di una sfera (f. 10r-v). Dunque Mynas cercò e sottrasse innanzitutto opere di ‘grandi’ autori (Aristotele, Plutarco), nonché rarità (la Diavgnwsi~ della “carta sferica”). Ma spinto anche dall’interesse per i geografi minori ricopiò testi che non sottrasse: per esempio allestì una sua copia del Periplo di Annone, figurante anch’esso nel Vatopedi 655, e la unì agli altri fogli che portava via. Ecco perché i complessivi fogli del 443A comprendono anche una copia per così dire ‘moderna’ del Periplo di Annone. Quale uso Mynas intendesse fare di questi fogli non è chiaro, tanto più che li ha trattenuti presso di sé per quasi vent’anni, mentre in altri casi ha provveduto tempestivamente7.

3. Simonidis all’Athos Alcuni anni dopo il passaggio per Vatopedi di Minoide Mynas, fu nel medesimo convento Costantino Simonidis. Era il suo terzo viaggio all’Athos. Simonidis aveva un legame durevole e saldo con la montagna sacra. Suo zio Benedetto dirigeva il monastero “russo” (di Panteleemon). Il suo primo soggiorno all’Athos risale al novembre 1839; il secondo risale al 1847/48; il terzo all’ottobre 1851: questa volta Simonidis rimase all’Athos per oltre un anno. Nel frattempo aveva diviso il suo tempo tra Atene, Odessa e Costantinopoli8. I lunghi soggiorni all’Athos erano stati da lui consacrati allo studio della teologia (rigorosamente in linea con l’antipapismo della chiesa greca) e della paleografia greca. È lì che Simonidis formò la sua immensa esperienza nel campo delle scritture greche ed è lì che acquisì la sua straordinaria capacità di imitarle9. 7 Un margine di incertezza rimane per alcuni: si vedano per esempio i dubbi espressi da WACHSMUTH 1868 a proposito del Suppl. Gr. 607. 8 Cfr. STEWART 1859, pp. 4-13. 9 Tempo addietro è stata attribuita («la Repubblica», 22 settembre 2006, p. 63) al bibliotecario californiano Bruce Whiteman una valutazione negativa di Simonidis come paleografo greco. Ma lo stesso Whiteman ha prontamente smentito di aver mai espresso tale opinione (cfr. «QS», 65, 2007, p. 441).

XXII. La traccia

449

Dopo il lungo terzo soggiorno all’Athos, Simonidis percorre il Mediterraneo da Oriente a Occidente. Dapprima fu in Egitto, poi nel 1852 raggiunse, nell’Atlantico – al di là delle “colonne” – le isole Canarie, dopo una sosta in Algeria: ripercorreva in tal modo all’incirca il tragitto descritto nel “periplo di Annone”. Dal Nordafrica si spostò a Liverpool, quindi a Londra, dove giunse, per un lungo soggiorno, nel febbraio del 185310. Nel novembre 1854 passò a Parigi per visitare le biblioteche e col proposito di studiare innanzitutto i manoscritti greci. A Parigi fu introdotto ben presto presso quel medesimo Villemain, ormai presidente dell’Institut, che già si era illustrato come protettore di Mynas. Ebbe come autorevole mentore anche Sainte-Beuve11, che lo presentò al conservatore dei manoscritti greci della Bibliothèque impériale, e fu accolto con molta benevolenza anche dal conte di Marcellus, l’editore dei canti popolari greci, che gli rimase benevolo e amico anche quando Simonidis cercò di rifilargli manoscritti di Demetrio di Magnesia, purtroppo falsi. Sempre a caccia di biblioteche passò in Ispagna e in Portogallo, quindi tornò a Londra finché nel luglio del 1855 passò a Lipsia. Un tratto comune a questi suoi primi soggiorni in Inghilterra, Francia, Germania fu il reiterato tentativo di rifilare ai suoi interlocutori manoscritti da lui creati o costituiti manipolando fogli autentici (come ad esempio nel caso dei fogli del Pastore di Erma che offrì, con successo, a Lipsia). Tutto questo materiale proveniva in un modo o nell’altro dall’Athos.

4. La traccia A Londra, nella primavera del ’53, Simonidis aveva invano tentato di vendere al British Museum discutibili manoscritti. Alla fine si decise a vendere un pezzo di grande valore: i 21 fogli da lui prelevati dal grande manoscritto geografico di Vatopedi, il 655, che furono acquisiti dalla massima biblioteca britannica come Additional 19391. I dettagli relativi a tale operazione sono stati narrati da James Yates (1864): Simonidis vendette i fogli uno per volta e mai rivelò la provenienza dall’Athos. 10 11

STEWART 1859, p. 14. Di cui è giusto qui ricordare le acute riflessioni sui “falsi”.

450

Parte sesta. Profilo dell’autore

Quantunque i fogli siano stati risistemati secondo una successione che non corrisponde a quella originaria, il piccolo manoscritto messo insieme dai bibliotecari londinesi ci permette di vedere Simonidis all’opera: di osservare, cioè, quali autori, o parti di opere, ha voluto sottrarre al prezioso manoscritto geografico che già Minoide Mynas aveva intaccato col suo prelievo12, e di intuirne il senso. Nel darne conto seguiremo l’ordine in cui i fogli si trovavano quando erano ancora nel Vatopedi 655 e daremo in parentesi la attuale numerazione dei medesimi fogli all’interno dell’Additional. a) ‘Colpì’ innanzitutto il quinto fascicolo del manoscritto (numerato e), ma non sottrasse il fascicolo per intero bensì soltanto quattro dei cinque bifoli che lo costituivano. Di conseguenza, di questo fascicolo, è rimasto all’Athos, nel Vatopedi 655, solo il bifolio esterno (che attualmente corrisponde ai ff. 33r-v e 34r-v)13, mentre i quattro interni sono gli attuali ff. 14r-21v dell’Additional. Essi contengono Tolomeo: per intero il libro VII e l’inizio dell’VIII comprese tre delle ventisette mappe a colori che il Vatopedi 655 comprendeva quando era integro. Le tre mappe sono: a) l’ecumene (ff. 17v-18r), curiosamente capovolta e non recante tutti i consueti segni zodiacali, di solito posti lungo il margine destro, bensì solo un leone rampante (particolarmente vivace) e una serie confusa di denominazioni greche ed egizie dei mesi nonché abbozzi di altri disegni; b) Albione, l’Ibernia e Thule (ff. 19v-20r); g) la Spagna. Quest’ultima occupa ben tre pagine (20v, dove figurano, in poche righe, le consuete notizie che introducono il pinax, mentre tutto il resto della pagina è bianco; 21r bianco; 21v dove è la gran parte della Spagna giacché il resto della mappa comprendente i Pirenei è rimasto nel Vatopedi 655, f. 34r). Assai singolarmente questa mappa è incompleta: solo poche “casette” e una minima parte dei toponimi che invece occupano completamente la mappa della Spagna nell’Urbinate, modello del Vatopedi; è anche errata perché nel delineare il profilo occidentale della Spagna ha quasi reduplicato il Promontorio sacro e al tempo stesso omette il fiume Tago. [Cfr. fig. 4]. b) Il secondo e il terzo prelievo intaccarono in due punti il nono fascicolo (q) del Vatopedi 655: a) ff. 1r-3v dell’Additional compren12 La tabella che pubblichiamo qui di seguito rende più evidente l’intera operazione. 13 La numerazione è continua perché il manoscritto è stato rinumerato dopo il prelievo e perciò a prima vista non si nota la scomparsa dei quattro bifoli interni.

XXII. La traccia

451

denti il pinax dei «geografi minori», l’introduzione generale alla geografia intitolata ÔUpotuvpwsi~ gewgrafiva~ ejn ejpitovmw/ [= GGM, II, pp. 494-509] e la quasi totalità dell’opera di Agatemero (derivata in gran parte da Artemidoro); mancavano gli ultimi righi perché si trovano sui fogli che aveva già portato via Mynas nel 1841; b) f. 4r-v: il Periplo del Ponto Eusino dello pseudo-Arriano (prima parte). c) La seconda parte era nei fogli successivi, e Simonidis portò via anche quelli (= Addit. ff. 5r-12v); qui c’è anche il Periplo di Annone, che Mynas aveva copiato ma non asportato. d) Simonidis prese anche l’inizio del fascicolo seguente (i): in tal modo si portava via le “sette meraviglie” (De septem orbis spectaculis) di Filone di Bisanzio e l’inizio della Crestomazia di Strabone (Addit. f. 13r-v). Il modo stesso del prelievo, che risulta chiaramente dal seguente prospetto, e dalle figg. 4 e 5, dimostra che Simonidis non strappò dei fascicoli a caso ma trascelse, spesso resecando singoli fogli di un fascicolo. Con quale criterio scelse? Da un lato alcuni geografi “minori”, tornati alla ribalta con il 1837 e oggetto di rinnovati studi, tra gli altri Annone, il cui viaggio aveva voluto ricalcare quando, oltre le colonne, s’era spinto sino alle Canarie; dall’altro le tre mappe di Tolomeo dette prima. E inoltre l’anonimo trattatello generale sulla geografia. Vi è una corrispondenza tra la collezione geografica greca che Simonidis si è costituito saccheggiando il Vatopedi 655 e le opere geografiche che è venuto coniando nel decennio seguente. Per un verso si potrebbe osservare che le sue creazioni geografiche le ha fatte a partire da quel singolare corpusculum di testi da lui scelti. Per l’altro si potrebbe essere indotti a pensare che in tanto li ha scelti in quanto aveva già un qualche orientamento. Il suo ‘capolavoro’ geografico fu Il periplo di Annone (1864): e il Periplo è lì, nell’Additional, al f. 13r-v. Lo stile “diastematico” che si coglie già nella immaginaria Cefalonia di Eulyros è palesemente ricalcato sul modo di esporre di Agatemero. Quella vicenda del prelievo dei 21 fogli del Vatopedi 655 e del loro passaggio al British Museum, lungi dall’essere lasciata in ombra come episodio non propriamente esaltante, ha invece ottenuto un rilievo particolare proprio nella cerchia dei sostenitori e degli apologeti di Simonidis. I vari John Eliot Hodgkin, James Yates, Charles Stewart hanno dato grande rilievo a quel manipolo di fogli nel quadro di opere che avevano come fine quello di esaltare il lavoro di Si-

ff. 42r-49v

ff. 50r-54v

z

h

q

ff. 35r-41v

~

f. 34r-v

f. 33r-v

ff. 25r-32v

d

e*

ff. 9r-16v

ff. 17r-24v

b

ff. 1-8v

Vatop. 655 [tuttora in loco]

g

a

Fascicoli

f. 4r-v

ff. 1r-3v

ff. 14r-21v

Additional 19391

ff. 2r-3v

f. 10r-v

Paris. Suppl. Gr. 443A

}

}

Dionigi di Bisanzio, Anaplus Bospori, 31, 2-35, 6 / Arriano (pseudo), Periplus Ponti Euxini, §§ 1-26

foglio perduto [= trad. lat. pp. 24-30 Güngerich]

Agatemero, §§ 25-26 / Aristotele, De ventis [fr. 250 Rose = 363 Gigon] / Dionigi di Bisanzio, Anaplus Bospori, 1, 1-23, 19

Pinax / uJpotuvpwsi~ gewgrafiva~ ejn ejpitovmw/ [GGM, II, pp. 494509] / Agatemero, §§ 1-25

Diavgnwsi~ ejn ejpitomh`/ th`~ ejn th`/ sfaivra/ gewgrafiva [GGM, II, pp. 488-493]

Tolomeo, tavole

Tolomeo, tavole 3b-4a (Pirenei, Gallia)

Tolomeo, VII + tavole 1-3a (ecumene, Albione, Spagna)

Tolomeo, Geogr., I-VI

Contenuto

Descrizione dell’originaria composizione del Vatopedi 655 (comprendente anche Addit. 19391 e Paris. Suppl. Gr. 443A)

ff. 187r-296v

kq-m (olim adwvdeka)

e è un quinione (quaternione + 1 bifolio inserito) ~ è un quaternione privo dell’ultimo foglio ig è un ternione privo dell’ultimo foglio

ff. 70r-186v

f. 69r-v

ff. 62r-66v; 66bisr-68v

id-kh (olim aie)

ig

ib

ff. 6r-9v

Crestomazia di Strabone, XVII, 21-67, GGM, II, pp. 632-636 / Plutarco, De fluviis (gli ultimi 9 righi sono integrati da mano recente)

Crestomazia di Strabone

Strabone, X-XVII

Strabone, I-IX

}

Filone di Bisanzio, De septem orbis spectaculis, pp. 24, r. 25-36, r. 17 Brodersen / Crestomazia di Strabone, I, 1-18, GGM, II, pp. 529-530

f. 13r-v

ia

ff. 55r-61v

Arriano (pseudo), Periplus Ponti Euxini, §§ 26-92 / Arriano, Periplus Ponti Euxini / Annone, Periplus / Filone di Bisanzio, De septem orbis spectaculis, pp. 20-24, r. 25 Brodersen

ff. 5r-12v

i

Seconda parte del quaternione

r-v (p:c)

34r (pinax della Spagna, metà orientale); 34v (VIII, 5 = introd. al pinax delle Gallie / pinax delle Gallie)

34r-v (p:c)

VIII, 6 = introd. al pinax della Magna Germania / pinax della Magna Germania**

19r (VIII, 2, 3 tovpwn ajei; givnesqai-2, 4 + VIII, 3 [= introd. al pinax di Albione]); 19v-20r (pinax di Albione); 20v (VIII, 4 = introd. al pinax della Spagna); 21r (vuoto); 21v (pinax della Spagna, metà occidentale)

Addit. 19r-v (c:p) Addit. 20r-v (p:c) Addit. 21r-v (c:p)

f. 35r (c)

17r (VII, 6, 2 kaqΔ hJma'~ oijkoumevnh~-7, 4 [fine libro]); 17v-18r (mappa dell’ecumene); 18v (VIII,1,1 meta; poiva~ proqevsew~ ktl.-2, 3 ajstevra~ tw'n aujtw'n)

Tolomeo VII, 1, 1-6, 2 to; mh'ko~ th'~

33v (Tolomeo VI, 17, 3 Parqivan kai; th;n “Erhmon-21, 6 [fine libro])

Contenuto

Addit. 17r-v (p:c) Addit. 18r-v (c:p)

Addit. 14 Addit. 15r-v (c:p) Addit. 16r-v (p:c)

33 r-v (c:p)

Vatopedi 655

** I pinakes III (Gallie) e IV (Magna Germania) occupano nel Vatopedi 655 una sola facciata (rispettivamente 34v e 35r), diversamente dalla tradizione manoscritta di Tolomeo: cfr. Marciano Gr. 516, ff. 118v-119 (Gallie); 119v-120 (Magna Germania).

e

Bifolio inserito

Prima parte del quaternione

* Tavola analitica del fascicolo 5

XXII. La traccia

455

monidis come esperto scopritore di testi greci e, insieme, come esperto di geografia greca. Di conseguenza quella che era stata un’operazione disinvolta diventa la meritoria “scoperta” di un testo che va ad aggiungersi, per esempio nel Biographical Memoir of Simonides (1859) di Stewart, alla lunga serie dei «manuscripts of Simonidis» (pp. 33-37) dove falsi e carte autentiche vengono ad arte mescolate e presentate tutte come “scoperte”. Anzi, in quella lista l’Additional 19391 figura come primo. Addirittura James Yates presenta alla Royal Society of Literature nell’aprile del 1863, mentre sta per nascere in pompa magna il falso “papiro di Annone”, un amplissimo Account of a volume containing Portions of Ptolemy’s Geography and of the Geographi Graeci minores (ben 22 pagine). E questo mentre nella corrispondenza privata, tuttora largamente conservata, Simonidis scrive liberamente a Hodgkin «ti mando to;n Simwnivdhn!!!» e aggiunge «provvedi a presentarlo e a tradurlo»14, e si riferisce con tutta probabilità al primo abbozzo dell’Annone. Insomma Simonidis e la sua cerchia pensarono di trarre il maggior vantaggio da questa vicenda dell’Additional 19391. Quale migliore preparazione al lancio (primavera 1864) del (falso) papiro del Periplo di Annone della gran cassa sui geografi minori racchiusi nel prezioso Additional, che includeva, tra gli altri, proprio l’Annone? Quella fonte fu dunque messa a frutto in molti modi. Ecco perché nella scelta stessa di prelevare i fogli 20r (sintetica descrizione della Spagna [perievcei th;n ÔIspanivan pa'san] la sua divisione in province e i suoi confini, i Pirenei, la Lusitania, Nova Carthago, Tarracona e Gades) e 21v (mappa della Spagna illustrata con poche casette e alcuni fiumi non perfettamente in ordine), si può ravvisare una traccia. Se poi si considera che, in quei medesimi fogli, c’è una «introduzione» alla geografia ejn ejpitovmw/ (f. 1) la quale si apre con un iniziale th'~ o{lh~ gh'~ e poco dopo presenta, quando si passa a trattare della Spagna, un nesso quale touvtwn ejkkeimevnwn uJpografovmeqa oJloscerw'~ (§ 5) cui segue immediatamente un ÔIspanivai trei'~ a}~ ΔIbhriva~ provteron ejkavloun (§ 6), il raffronto con col. IV, 29-30 (touvtwn uJpokeimevnwn) e V, 14-16 (kaqolikw'~ + lhyovmeqa ejn ejpitomh')/ appare significativo. Sarà un caso, ma in quelle pagine già del Vatopedi c’è anche l’inizio della Crestomazia di Strabone, cioè gli estratti dal libro primo della Geografia: dunque un altro nesso significativo con l’Artemidoro, la cui sconclusionata praefatio riprende e “pasticcia” per l’appunto il con14

Addit. 42502A, f. 5.

456

Parte sesta. Profilo dell’autore

cetto-cardine della prima pagina di Strabone. E comunque c’è in quei fogli tutto Agatemero, cioè l’autore superstite più di ogni altro derivato da Artemidoro. Sembra dunque sensato mettere a frutto questa straordinaria traccia che l’«amico delle Muse» Simonidis ci ha lasciato. È da quei fogli che egli ha tratto la spinta non solo a ricreare il Periplo di Annone sotto forma di papiro, ma anche a lanciare un papiro comprendente un altro (più striminzito) periplo, questa volta della Spagna, corredato di mappa e preceduto da una hariolatio su geografia e filosofia, e strutturato – vedi caso – alla stessa maniera di Annone: cinque colonne di altezza e larghezza disuguali, in un caso come nell’altro, le quali pretendono di tramandare due peripli, rispettivamente l’uno a nord l’altro a sud delle “colonne” (Spagna e Marocco-Mauritania). E non è neanche escluso che alcuni dettagli presenti nei fogli dell’Additional siano dovuti al nostro «amico delle Muse» – per esempio quel confuso conato di zodiaco sul margine destro della mappa dell’ecumene –, dal momento che non gli era estraneo il costume di ritoccare di suo pugno i fogli autentici di cui si impossessava e che metteva in circolazione. Non sarà dunque un caso che nell’Artemidoro spunti anche uno zodiaco: vi si ritrovano infatti, sul verso – come sappiamo –, una serie di figure di animali le quali, messe insieme, ci restituiscono un fantastico zodiaco15. Ma Simonidis non fu semplicemente un abile falsario. Ebbe essenzialmente – e questa fu la sua forza – una straordinaria familiarità col libro manoscritto (greco) e con gli aspetti materiali della sua durata nel tempo: percepiva la peculiarità del fenomeno imponente rappresentato da libri così durevoli, che avevano retto – per la loro fattura materiale – alla sfida del tempo. Ebbe una straordinaria familiarità mimetica con le scritture (greche) antiche e medievali. Donde il tono di rispetto con cui ne parlano, a distanza di quarant’anni l’uno dall’altro, Burckhardt e Wilamowitz. Intuì la portata dell’irrompere sulla scena, in forme non più estemporanee, della documentazione su papiro e assistette, alquanto riluttante, alla ineluttabile divaricazione tra egittologia e papirologia cercando dilettantescamente di praticare entrambi i campi. Il suo “rintanarsi”, alla fine, in Egitto ha, in certo senso, un significato emblematico. Ma le sue gesta, caro lettore, saranno argomento di un altro libro. 15 Erano quelli gli anni della grande curiosità per gli zodiaci egizi, a cominciare da quello celebre e molto studiato di Dendera, col quale si cimentò anche Brunet de Presle.

XXIII VISITA AI PAPIRI DI SIMONIDIS di Livia Capponi

Venerdì 9 novembre 2007 ho ispezionato i testi della collezione “Joseph Mayer”. Si tratta di una trentina di frammenti di rotolo di papiro, scritti ad arte da Constantino Simonidis nel 1860, e poi debitamente ritrovati, identificati e trascritti dallo stesso Simonidis per conto del suo patrono e amico collezionista. I papiri non si trovano nel Museo di Liverpool, ma sono conservati, insieme ad altre antichità di provenienza africana, in un deposito fuori città, a cui si accede solo previo appuntamento con il curatore, l’egittologo Ashley Cooke1. La attuale collocazione è M 11169 (a, b ...) e 1978.291.245 (a, b, c, d). È stato possibile fotografare i papiri, per fortuna, dal momento che non esiste un catalogo dettagliato dei testi di Simonidis, come è normale, quando si ha a che fare con dei falsi. Fra il 1861 e il 1864 Simonidis produsse anche dei facsimili su carta velina, da cui sono poi state ricavate delle litografie a colori. I papiri sono conservati in scatole di cartoncino bianco, chiuse da nastri di tela. Simonidis aveva provveduto ad incollare il verso dei papiri su tela o cartone, e ad aggiungere didascalie autografe, in lingua neogreca e in una scrittura ornata da riccioli e svolazzi, con poche informazioni e qualche riferimento bibliografico riguardanti il testo. Simonidis inizia a lavorare nel 1860, per conto di Mayer, su dei rotoli ancora chiusi acquistati dal dealer Sams e dal reverendo Stobart. Srotola i papiri, li restaura e li decifra nel Museo di Liverpool, assistito e incoraggiato da Mayer stesso, dal curatore del museo, e da John Eliot Hodgkin, finché, nell’agosto 1860 (ma forse già da pri1

Desidero ringraziare il Dr. Ashley Cooke per la gentile disponibilità.

458

Parte sesta. Profilo dell’autore

ma), comincia a portare i rotoli a casa sua, con il pretesto di studiarli meglio2. Nulla osta, a questo punto, al trattamento dei rotoli antichi con solventi e colle, e probabilmente anche con forbici e bisturi, nell’alchimia della sua officina, com’era già avvenuto negli anni precedenti, a Parigi e a Lipsia. Nel giro di pochi mesi Simonidis «scopre» opere sensazionali: frammenti delle lettere di S. Giacomo e di Giuda, sei epistole di Ermippo, i primi nove capitoli della Genesi, il vangelo di Matteo, la prima pagina della Lettera di Aristea, i Dieci Comandamenti, il Periplo di Annone, Zoroastro e un frammento di Androstene, il generale di Alessandro. Tutti questi testi furono presentati da Simonidis a Mayer, e successivamente esaminati da una commissione di studiosi presso la Royal Literary Society le sere del 9 e del 10 gennaio 1863, alla presenza di Sir H. Rawlinson, Sir F. Madden e altri, compreso Simonidis stesso. Il report ufficiale, uscito l’11 febbraio dello stesso anno, giudica i “papiri Mayer” dei falsi. Alcuni pezzi, pur essendo definiti addirittura rank forgeries, «falsi di valore», sono traditi da alcune piccole tracce, viste da C.W. Goodwin, di carta assorbente rossa, probabilmente usata da Simonidis per cancellare la preesistente scrittura. L’ispezione autoptica dei papiri mi ha portato a riconsiderare alcune delle ragioni che spinsero la commissione a rifiutare in blocco i papiri di Simonidis. Innanzitutto, i papiri, pur presentandosi come testi di autori ed epoche diverse, presentano grafie simili. In altre parole, papiri di epoca, genere e provenienza totalmente disparati sono spesso accomunati dalla medesima scrittura. Simonidis usa non più di quattro tipi paleografici, somiglianti tra loro, e talvolta addirittura accostati nello stesso testo: Tipo 1: scrittura in inchiostro nero, e calamo di media grossezza, piccola e quadrata, più o meno bilineare, goffa e impacciata, scritta lentamente e senza legature. Alfa in due tratti, con un occhiello tondeggiante. Rho in due tratti, con l’occhiello nettamente separato dalla verticale. Epsilon con il tratto centrale leggermente spostato verso l’alto. Xy in tre linee curve, di cui quella in alto talvolta staccata dalle altre. La scrittura si trova in M11169b e c, M11169s (frammenti storici), M11169t (Giovanni), M11169v (Genesi) e, in una variante poco più grande, per M11169a (Zoroastro). In tutti questi testi si no2

Cfr. FARRER 1907, pp. 53-55.

XXIII. Visita ai papiri di Simonidis

459

ta la presenza di lettere isolate scritte in un nero più intenso e con un tratto più spesso, forse correzioni. Tipo 2: una scrittura larga e appiattita, disordinata e irregolare, con poche legature, in cui talvolta le parti alte delle verticali (per esempio l’asta di rho, spesso staccata dall’occhiello) sono inclinate verso destra. La scrittura è usata per produrre il “frammento di uno storico ignoto” (M11169a), che però presenta contemporaneamente il primo tipo, nella colonna di destra, e una lettera di Ermippo (M11169q), in cui si nota ancora più chiaramente l’incoerenza della scrittura, ora verticale, ora inclinata verso destra. Nella linea grafica del cosiddetto Ermippo si pone il frammento di “ignoto” M11169d (vedi fig. 15). Questa scrittura, nel suo insieme, sembra ricordare quella del “papiro di Artemidoro”, in particolare per il modulo e la forma delle lettere, più larghe che alte, e per la lunghezza del rigo (si possono accostare l’Ermippo e la col. V dell’Artemidoro). Naturalmente si tratta di un’ipotesi. Tipo 3: una scrittura arcaizzante, usata per produrre il frammento di Tucidide (M11169a) e, in versione più minuta, per M11169k, il grande rotolo del Periplo di Annone. La caratteristica distintiva è alfa in versione epigrafica, con tratto centrale triangolare. In entrambi i papiri alcune lettere isolate sono scritte in inchiostro più scuro. Nel frammento tucidideo alcune lettere sembrano essere state scritte addirittura dopo che il papiro fu incollato su cartoncino (cfr. la parte centrale del rigo 5). Tipo 4: una scrittura più larga e leggermente più fluida, vergata con un calamo più spesso in un inchiostro più chiaro, inclinata verso destra, con i tratti verticali leggermente incurvati e panciuti. Questo tipo è utilizzato per M11169u (Matteo?), in cui rho presenta, ancora una volta, l’occhiello staccato dalla verticale, xy assomiglia ad una moderna z, con i tratti tondeggianti, il tratto destro di alfa è tondeggiante, iota assomiglia ad una moderna j. La medesima scrittura si trova in varie lettere di Ermippo e, in una variante, in M11169m (Codex Thebanus). Fra le altre anomalie dei “papyri Mayer” vi è l’eccessiva lunghezza del rigo, che in quasi tutti i testi è compresa fra i 12 e i 18 cm. Inol-

460

Parte sesta. Profilo dell’autore

tre, nello spazio fra una colonna e l’altra a volte si nota una strana linea divisoria verticale, realizzata con un calamo più spesso. Inoltre, quasi tutti i testi presentano molte cancellature o correzioni effettuate con un inchiostro più scuro e un tratto più spesso. In generale, la colorazione dei papiri non è omogenea, ma è caratterizzata da macchie scure e cambiamenti cromatici per i quali non sembrano esserci molti paralleli. Alcuni frammenti sono di colore marrone molto scuro (p. es. i succitati M11169b e c), altri sono forse stati schiariti artificialmente. Due frammenti (M11169t e M11169u) presentano lunghe frange di fibre di papiro, simili ad un pettine, delle quali si trovano esempi molto somiglianti nel “papiro di Artemidoro”. Sono notevoli i due rotoli M11169b e c, entrambi di un metro per 15 cm circa, per la loro scrittura simile, le correzioni presenti in entrambi, per la somiglianza delle “rotture” e delle “sfrangiature” del papiro, e per l’identica colorazione scura: in questo caso ci si deve chiedere se Simonidis ricavò le due strisce da uno stesso grande rotolo. Infine, il frammento menzionato sopra (M11169u), alto circa 30 cm e largo circa 10, è uno dei pochi pezzi che Simonidis non incollò su tela. Ispezionandone il verso ho potuto notare tracce di inchiostro simili a punti, filtrate dal recto. Sia le tracce di inchiostro, sia i cambiamenti cromatici possono essere stati causati dal trattamento chimico messo in atto dal falsario per cancellare le scritture preesistenti. In conclusione, la visita al Museo di Liverpool ha confermato l’idea che Simonidis disponesse di ingenti quantità di papiro, di cui poteva cancellare la scrittura originale, per riscrivere testi greci di sua invenzione. Agiva in piena libertà, ed anzi con il benestare di Mayer, che probabilmente era ben lieto di arricchire la sua collezione con pezzi sensazionali da poter rivendere all’asta. Nel 1867 Mayer donò parte della sua collezione (compresi i papiri Simonidis), allora valutata per 75 mila sterline, al Museo di Liverpool, e la città gli dedicò una statua a grandezza naturale, eseguita da Giovanni Fontana, nella St. George’s Hall. Il resto, valutato per 10 mila sterline, è disperso all’asta fra il 15 e il 16 dicembre 18873. *

3

Cfr. Oxford Dictionary of National Biography, vol. 37, pp. 573-575.

XXIII. Visita ai papiri di Simonidis

461

Una fonte di poco posteriore agli eventi afferma che nella collezione Mayer erano rimasti tre grandi rotoli di papiro, «mai srotolati, fragili e consumati dal tempo, come grossi sigari, contenenti chissà quale prezioso segreto dell’antichità»4. Di quei rotoli ancora chiusi oggi sembra non esserci più alcuna traccia. 4 Cfr. FARRER 1907, p. 56: «And there are in the collection three papyri, still unrolled, time-worn and brittle, looking like huge cigars, and containing no one knows what precious secrets of antiquity».

I PAPIRI DI SIMONIDIS NELLA COLLEZIONE MAYER* di Vanna Maraglino

Segnatura

Contenuto

Bibliografia

M11169a

Tucidide, VIII, 109 con sottoscrizione

SIMONIDIS 1861, pp. 24, 79

Due frammenti storici anepigrafi

SIMONIDIS 1861, pp. 75, 77; SIMONIDIS 1864b, p. 6

Due frammenti di Zoroastro

Cfr. SIMONIDIS 1861, p. 8

M11169b

Brani neotestamentari (Ep. Joannis I, 4,20-5,21; Ep. Joannis II, 8,2-13,2; Ep. Joannis III, 1,1-14,2; Ap. Joannis)

Cfr. SIMONIDIS 1861, p. 72

M11169c

Brani neotestamentari (Ep. Petri I, 4,17-5,14; Ep. Petri II, 1,1-3,18; Ep. Joannis I, 1,1-3)

Cfr. SIMONIDIS 1861, p. 72

M11169d

Frammento storico anepigrafo

SIMONIDIS 1864b, p. 6

M11169e

Frammento storico anepigrafo

SIMONIDIS 1864b, p. 6

M11169f

Epistola di Ermippo di Berytos ad Horos SIMONIDIS 1864a, p. 23 nota

M11169g

Prosa non identificata

M11169h

Epistola di Ermippo

Cfr. SIMONIDIS 1861, p. 8

M11169i

Epistola di Ermippo

Cfr. SIMONIDIS 1861, p. 8

M11169j

Frammento storico anepigrafo

SIMONIDIS 1864b, p. 5

M11169k

Periplo di Annone

SIMONIDIS 1864a, pp. 24-32

* Si precisa che nel manoscritto della British Library, Additional 42502B, f. 185, è conservato il papiro contenente l’incipit della Lettera di Aristea, segnalato da SIMONIDIS 1861, p. 8. Un album dell’intera collezione è in preparazione per la collana «Paradosis».

M11169m

Codex Thebanus

SIMONIDIS 1864b, pp. 3-4

M11169n

Vangelo di Matteo, capp. 19,22-20,13

SIMONIDIS 1861, p. 44

Epistola di Giuda, 16-23

SIMONIDIS 1861, p. 67

Frr. dal Vangelo di Matteo, cap. 1,1-17

SIMONIDIS 1861, p. 40

Vangelo di Matteo, cap. 1,20

SIMONIDIS 1861, p. 40

Vangelo di Matteo, cap. 2,6-20

SIMONIDIS 1861, p. 42

Vangelo di Matteo, cap. 27,12-20

SIMONIDIS 1861, p. 46

Vangelo di Matteo, cap. 28,5-20 e sottoscrizione

SIMONIDIS 1861, p. 48

M11169p

Epistola di Ermippo

Cfr. SIMONIDIS 1861, p. 8

M11169q

Epistola di Ermippo

Cfr. SIMONIDIS 1861, p. 8

M11169r

Epistola di Ermippo

Cfr. SIMONIDIS 1861, p. 24 nota

M11169s

Frammenti storici di Androstene di Taso e di Diotimo di Adramittio

SIMONIDIS 1864b, p. 5

M11169t

Vangelo di Giovanni, cap. 21,7-25 e sottoscrizione in forma di lettera

Cfr. SIMONIDIS 1861, p. 72; SIMONIDIS 1864a, p. 7 nota

M11169u

Padre nostro (cfr. Vangelo di Matteo, 6)

M11169v

Genesi, 7-9

Cfr. SIMONIDIS 1861, p. 7

1978.291.245a

Epistola di Giacomo

SIMONIDIS 1861, pp. 51-59

M11169o

1978.291.245b Storia ecclesiastica di Egesippo

SIMONIDIS 1861, p. 78

1978.291.245c

Epistola di Giacomo

SIMONIDIS 1861, pp. 51-59

1978.291.245d Epistola di Giacomo

SIMONIDIS 1861, pp. 51-59

M11169a: cm 1912,5; cm 13,525; cm 185 | M11169c: cm 10615 | M11169h: cm 1510 | M11169k: cm 4323 | M11169n: cm 1819; cm 12,522 | M11169o: cm 145; cm 13,52,5; cm 116; cm 11,53; cm 123; cm 2015,5; cm 1520; cm 2812 | M11169p: cm 96 | M11169q: cm 1812 | M11169t: cm 4022 | M11169u: cm 1028 | M11169v: cm 2327

DIVINATIO Nella più volte preannunziata edizione sarà dedicata attenzione, oltre che alla chimica, al solo nome di Simonidis e si tenterà di cavarsela dicendo che la prova esplicita della sua responsabilità in questo falso non c’è. Si tenterà cioè di dimenticare che da una dimostrazione rigorosa né mai sin qui confutata è risultato che il testo che leggiamo nella colonna IV potrebbe al più essere – se non fosse macchiato di errori – una grama rielaborazione di Marciano. Dunque non può comunque trattarsi di un papiro del I sec. a.C. Crollato questo presupposto crolla tutta la teoria-fantasia delle “tre vite”. E siccome un testo così tardo non può avere la forma né la scrittura di un papiro tolemaico (quale ci viene ripetuto ostinatamente essere il cosiddetto papiro di Artemidoro), ne consegue che siamo con ogni probabilità dinanzi a un’opera che vuol passare per antica, cioè all’opera di un falsario. Basterà un po’ di chiasso mediatico ad oscurare i risultati della ricerca? Questo forse i volenterosi difensori dell’autenticità illusionisticamente sperano.

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INDICI

A cura di Vanna Maraglino.

INDICE DEI NOMI*

Abrone, grammatico, 251, 267, 270 Abulfeda (Ismπ‘∞l ibn ‘Al∞ Ab∂ l-Fidπ’), 225 Achille, 338, 379, 380 e n, 381, 386 Acquafredda, Maria Rosaria, X Acropolita, Giorgio, 354-355, 356 e n Adornato, Gianfranco, 21 Adorno, Theodor Ludwig Wiesengrund, 367 Adriano, Publio Elio Traiano, 247 Aezio, dossografo, 262n Agatarchide di Cnido, 45, 75, 104, 129, 135 e n, 136, 183n, 184-185, 186 e n, 196n Agatemero, 76 e n, 77 e n, 78, 87, 92, 106n, 307, 308 e n, 309, 448, 451-452, 456 Agathodaimon di Alessandria, 37, 38 e n Ager, Sheila L., 130n Agostino di Ippona, santo, 377 Agrippa, Marco Vipsanio, 36n, 94, 237, 284 Alcifrone, retore, 351n, 375 e n Alessandro, retore, 45-46, 273-274 Alessandro di Afrodisia, 120n, 131 Alessandro Magno, 45, 138-139, 458 Alessandro Poliistore, di Mileto, 79n, 441 Alexandrides, Demetrios, 9, 11, 88n, 225 Alì Mirzà, scià di Persia, 415 Alighieri, Dante, 361 Allacci, Leone, 7 Allen, James Turney, 349n, 350n, 351n

Allison Jr., Dale C., 382n Alonso-Nuñez, José Miguel, 75n Altomare, Bianca Maria, X Ammiano Marcellino, 134 Anassimandro di Mileto, 34, 53, 127n, 137, 402 Anassimene di Lampsaco, 262n Androclo, 45 Andromeda, 202 Androne di Efeso, 45 Androne di Teo, 127n Andronico Paleologo, 352n, 418 Androstene di Taso, 50-51, 61, 81, 458, 463 Anfitalio, 80 Annibale, 98n, 128 Annone di Cartagine, 29n, 33n, 35, 4950, 81, 112, 127n, 224, 287n, 314n, 423-425, 430, 433 e n, 448-449, 451, 453, 459, 462 Antonino Pio, Tito Elio Adriano, 249 Antoniono, Normando, 333n Apella (Ofelas) di Cirene, 81 Apione di Alessandria, 194n Apollo, 200n, 400 Apollodoro di Atene, 248 Apollodoro di Atene (pseudo), 127n, 265, 269 Apollonio, sofista, 262n, 327n Apollonio di Efeso, scrittore ecclesiatico, 45 Apollonio di Mindio, 206

* Per la frequenza con cui ricorre nel testo, il nome di Artemidoro di Efeso non è inserito in questo indice.

498 Apollonio Discolo, grammatico, 251, 267, 270 Apollonio Rodio, 14n, 83, 86-87, 90, 140141, 263 Appiano di Alessandria, 72, 154, 296 e n, 297 Arato di Soli, 141, 203 e n, 209 Arcadio di Antiochia, 212n Arden, Joseph, 55n Aretin, Johann Christian von, 9n Ariosto, Ludovico, 408 Aristagora di Mileto, 137 Aristarco di Atene, monarca di Efeso, 45 Aristarco di Atene, stratega nel 411 a.C., 267, 270 Aristea, 61n, 425, 458, 462n Aristide, Publio Elio, 86n, 302n Aristocle di Rodi, 53 Aristofane, 25, 251, 267, 270, 349, 355 Aristonico di Alessandria, grammatico, 380 e n Aristonico di Pergamo (detto Eumene III), 70, 72 Aristotele di Stagira, 34, 101, 138, 192, 194 e n, 198, 209, 327, 349, 370 e n, 372-374, 405 e n Aristotele (pseudo), 10 e n, 49, 130n, 148, 447-448, 452 Arkadios Vatopedinòs, 418 Arnim, Joannes, 354 Arpocrazione, Valerio, 76, 87 Arriano, Flavio, 51 e n, 106n, 127n, 453 Arriano (pseudo), 447n, 451-453 Arrighetti, Graziano, 96n Artemide, 71-72, 111, 118, 286n Artemidoro di Daldi, 13, 197 e n, 198 e n Artemidoro di Pario, 12-13, 204, 206n Asclepiade di Mirlea, 111n, 260, 279 Asclepiade di Prusa, 273-274 Asdrubale Barca, 154 Asinio Quadrato, Gaio, 248, 267, 270 Atena, 111n, 326, 328, 332, 361 e n, 362, 400, 405, 410 Ateneo di Naucrati, 49, 51 e n, 70n, 76, 87, 91, 101n, 140-141, 154, 194 e n, 251, 267-268, 270, 272, 329 e n, 443 e n Atenstädt, Paul Felix, 107n, 249n, 260n, 278-279

Indice dei nomi Atlante, 47, 148, 325 e n, 326-328, 329 e n, 331, 358, 362, 366, 386, 387 e n, 388389, 407, 432, 435 Attico, Tito Pomponio, 100 e n, 133 Attuario, Giovanni Zaccaria, 355 e n Aubineau, Michel, 384 e n Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, 22n, 24, 76, 165n, 180n, 257, 260, 264265, 276, 278-279, 283, 293 Aujac, Germaine, 93 e n, 97n, 99n, 104n, 130n, 131 e n, 186n, 321n, 324 e n, 325n, 365n Avieno, Postumio Rufio Festo, 121n, 122 e n, 313 Babcock, Robert Gary, 31 e n, 32n, 171n Babington, Churchill, 55, 60 Babrio, Valerio, 251, 447 Badé, William Frederic, 350n Baladié, Raoul, 93n Balagros, storico, 248, 273 Bandini, Angelo Maria, IX, Xn Banduri, Anselmo, 123n, 228 e n, 229, 231, 250 Barbaro, Ermolao, 194n Barberini, Francesco, 190n Barchiesi, Alessandro, 307 Bartsch, Jakob, 204 Basilio di Cesarea, 148, 192, 364n, 374, 383 e n Bastianini, Guido, X, 168n Battaglini, Francesco, 209 Bayer, Johann, 200, 202 Bekker, August Immanuel, 123n, 227n, 229, 231 Belke, Klaus, 212n, 232n, 255n Beloch, Karl Julius, 92 e n, 94 Benveniste, Émile, 329n Berger, Franz-Xavier, 9-10, 11 e n, 91n Berger, Hugo, 71 e n, 78, 84, 85n, 100n, 102n, 104n, 105n, 304 e n Berkel, Abraham, 51, 87n, 107n, 108, 123n, 211 e n, 212, 224, 226-229, 231232, 235, 250 e n Bernhardy, Gottfried, 88 Berosso (Beroso) di Babilonia, 206 Bertius, Petrus, 283, 411 Bianconi, Daniele, 355n Biedl, Arthur, 7 e n

Indice dei nomi Biffi, Nicola, 94n Billerbeck, Margarethe, X, 107n, 116n, 155n, 224, 245, 249n Bione di Smirne, VIII Blanchard, Alain, 163 e n, 167n Blass, Friedrich, 60n, 131, 339n, 341n, 430n, 431 Boeckh, August, 57, 58n, 131, 319 Boissonade de Fontarabie, Jean François, 9n Boll, Franz, 203 e n, 204n, 206n Bonaparte, Napoleone I, 13, 404, 415, 445 Bossina, Luciano, 170n Boulogne, Jacques, 235 Bourguignon d’Anville, Jean Baptiste, 406 e n Bouturas, Stauros I., 13, 62n Bowen, Alan C., 96n Brahe, Tyge (Tycho) Ottesen, 411 Bramante, Donato di Pascuccio d’Antonio detto, 209-210 Brandon, Samuel G.F., 379n Brandt, Reinhard, 207 e n Braunhard, Heinrich Wilhelm, 89 Bredow, Gabriel Gottfried, 9n Brugsch, Heinrich Karl, 57, 63 Brunel, Jean, 115n, 118n Brunet de Presle, Charles Marie Wladimir, 242, 429-431, 456n Bruno, Giordano, 209 e n Bruto Callaico, Decimo Giunio, 277 Buffiére, Felix, 34n Bunbury, Edward Herbert, 79n, 126n Bunsen, Christian, 57-58 Burckhardt, Jacob, 66 e n, 253n, 420, 456 Burstein, Stanley M., 183n Bury, John B., 253 Butti de Lima, Paulo, X Büttner-Wobst, Theodor, 154n, 155n Calcani, Giuliana, IXn Calcidio, filosofo neoplatonico, 189n Calipso, 326, 328 Callinico Ieromonaco, 52, 148, 428 Callino di Efeso, 45 Campana, Pierpaolo, 208n Canakya, 417 Canfora, Luciano, 165n, 170n, 364

499 Capodistria, Giovanni Antonio, 416 Carbone, Ludovico, 209 Carcopino, Jérôme, 115n Cardim Ribeiro, José, X, 74n Carlini, Antonio, x, 423n Caroli, Menico, 168n Carone di Lampsaco, 127n Casaubon, Isaac, 7, 122n, 295 e n, 296n, 297, 302n Cassio, Albio Cesare, X Cassio Dione Cocceiano, 154, 300n Castore, 204 Catrario, Giovanni, 355 e n Cecilio di Calatte, 441 Cedreno, Giorgio, 49n, 251n Censorino, grammatico, 189n Cesare, Gaio Giulio, 27, 100n, 119n, 240n Cesaretti, Paolo, 320 Cesario di Nazianzo (pseudo), 192 Charax di Pergamo, Aulo Claudio, 248249, 252, 256, 262, 268 e n, 269 e n, 271 Chardon de la Rochette, Simon, IX Chatzifotis, Ioannis M., 391n Cherobosco, Giorgio, 189-190, 441 Christ, Wilhelm von, 69n Cicerone, Marco Tullio, 34, 44, 46, 98n, 100 e n, 101, 133-135, 139, 202n, 377, 412 Cirillo di Alessandria, 374 e n, 376 e n, 383 Cirillo di Gerusalemme, 353 e n Ciro il Grande, 45 Clarke, Katherine, 127n, 139n Cleante di Asso, 209, 327 e n, 328, 432 Clément, Nicolas, 228n Clemente di Alessandria, 443 Cleomede astronomo, 10, 34, 46n, 96 e n, 232 Cleone di Sicilia, 50, 81 Cleopatra VII, 33, 240n Coarelli, Filippo, 93, 94n Codro di Atene, 45 Coles, Revel Arlington, IX Combefis, François, 335 Comparetti, Domenico, 55n Condello, Federico, X Consolandi, Luca, 172n, 368n Cooke, Ashley, x, 457 e n

500 Copernico, Niccolò, 322, 411 Cordano, Federica, 364n Core, 98 Cosma, santo, 47 Cosma Indicopleuste, 53, 442 Costantino VII Porfirogenito, 4, 39, 40n, 83n, 87 e n, 107-110, 123, 141, 155, 211 e n, 213, 221-227, 229 e n, 230, 238240, 243-245, 250-253, 255-258, 261262, 266n, 269, 273-275, 290, 293n, 298, 374n, 442 Costantino XI Dragases Paleologo, 418 Cratete di Mallo, 101n Cratino di Atene, 251, 267, 270 Creofilo di Efeso, 45 Creso, re di Lidia, 45 Crinagora di Mitilene, 81n, 83n Crinito, Pietro, 209 Crisippo di Soli, 209, 353 e n, 354-355 Crizia di Atene, 343 Croce, Benedetto, VII Crookes, William, 378, 379n Cruz Andreotti, Gonzalo, X, 276 e n, 279, 309n Ctesia di Cnido, 10, 12 Cuomo, Valentina, X Dabbicco, Gaetano, X Däbritz, Hermann Rudolph, 92 e n, 93n, 104n, 106n da Canale, Paolo, 6 D’Alembert, Jean-Baptiste Le Rond, 13, 314n Dal Pozzo, Cassiano, 190n Damasceno, artista atonita, 52 Damaste di Sigeo, 127n Damiano, santo, 47 Daniele, profeta, 350-351, 383 e n Daub, Adam, 101n D’Avezac, Marie Armand Pascal, 9n, 226 en David, Jacques-Louis, 52, 429n David, Leo, 47n Davide, re di Israele, 349 Debrunner, Albert, 339n, 341n Decleva Caizzi, Fernanda, 34n Del Corno, Dario, 199n Delattre, Daniel, X Demetra, 98

Indice dei nomi Demetrio di Magnesia, 50n, 449 Democrito di Abdera, 207, 208 e n, 209210, 443 Demostene, 343, 426 Denniston, John Dewar, 216, 262n De Pinedo, Thomas, 12, 211n, 223n De Ricci, Seymour, 63n, 66n De Sanctis, Gaetano, 435n De Thou, Jacques-Auguste, 8 Detlefsen, Detlef, 308-309 Devéria, Charles Théodule, 431 Dexippo Erennio di Atene, 273, 275 Di Bella, Marcello, X Dicearco di Messina, 5-6, 127n Dicks, David Reginald, 100n Diderot, Denis, 13, 314n Didot, Ambroise Firmin, 297, 445 Diels, Hermann, 371 e n Diller, Aubrey, 6n, 7n, 8n, 11 e n, 12 e n, 76n, 78, 305n, 306 e n, 308 e n, 322n Dindorf, Karl Wilhelm, 56-58, 224 e n, 228-229 Dinse, Paul, 36n Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio, 247 e n Diodoro Siculo, 12, 73, 75, 76 e n, 77, 87, 92, 127, 135-137, 154, 183n, 371 e n, 372 e n, 373, 375, 407 Diogene di Sinope, 209 Diogene Laerzio, 139n Dionigi di Alicarnasso, 44, 131, 372 e n, 373 Dionigi di Bisanzio, 447, 452 Dionigi di Mitilene, 136 Dionigi Periegeta, 10, 90, 121 e n, 127n, 195, 217, 251, 267, 270, 319-321, 331, 365-366, 402, 433 Dionigi Trace, 101 e n Dioscoride, 154n Diotimo di Adramittio, 463 Dittenberger, Wilhelm, 229 Doberenz, Albert, 229 Dodwell, Henry, 9, 11, 87n, 90, 114 e n, 225 Domínguez Monedero, Adolfo Jerónimo, 122n Domiziano, Tito Flavio, 17, 33, 164, 246 Dowson, 60n Dragoni, Giorgio, 100n

Indice dei nomi Dressel, Albert, 423n Drovetti, Bernardino Michele Maria, 36n, 446 Droysen, Johann Gustav, 56 Du Berry, Marie Caroline Ferdinande Louise de Bourbon, duchesse de, 445 en Dübner, Friedrich, 298, 347n Dubois, Marcel, 78n, 104n Dueck, Daniela, 104n Dukas, Giovanni, committente di Eustazio, 319-320, 394n Dukas, Giovanni, fratello di Costantino X, 250 e n, 258, 266n Dupuis, Charles François, 200 e n, 201, 204n Dupuy, Claude, 6 Dyck, Andrew R., 212n Ecateo di Mileto, 23n, 34, 53, 81, 123, 126, 248, 279n Efestione di Tebe, 193 Eforo di Cuma, 10, 73, 92, 95, 110, 127 Egeo, 252 Egesippo di Palestina, 463 Egger, Émile, 36n, 55, 56n, 207n, 429430 Eliano, Claudio, 186, 192, 197 e n Eliodoro di Emesa, romanziere, 186, 375 Elliott, James Keith, 51n Emmel, Stephen, 31 e n, 32n, 171n Engelmann, Wilhelm, 58 Engels, Johannes, 325n Eparco, Antonio, 222, 226-227, 234, 260n Ephes, astronomo, 206 Epicuro di Samo, 96 e n, 209 Epifanio di Palestina, 197n, 352n, 354 e n Epitteto, filosofo, 338 Eracle, 74, 80, 95, 97-98, 110, 134, 201, 268n, 326, 345 Eraclide Critico Periegeta, 127n Eraclito di Efeso, 10, 35, 45-46, 208-210, 443 Eratostene di Cirene, 11, 12n, 34, 53, 8182, 92, 99-102, 104-106, 110, 130n, 131-134, 136-138, 140-141, 206n, 273, 307, 321, 323, 337, 357

501 Erennio Filone di Biblo, 107 e n, 247, 273-275 Erma, IX, 54, 423, 430, 449 Ermippo di Berytos, 50, 61, 458-459, 462-463 Ermolao di Costantinopoli, 4, 51 Erodiano, Elio, 3, 39, 40 e n, 107, 189190, 211, 212 e n, 243n Erodoro di Eraclea, 123, 230, 251, 255, 265 e n, 266n, 269 e n, 271-272, 278, 279 e n Erodoto, 10, 45, 122, 127, 137n, 171, 185 e n, 186, 191n, 251, 255, 266n, 269n, 278, 384n Erone di Alessandria, 10 Erotiano, grammatico e medico, 327n Ersch, Johann Samuel, 13, 206n Eschilo, 54, 57, 63, 122, 379, 380 e n, 381, 434 Eschine di Atene, 44 Esichio di Alessandria, 87, 191n, 234n, 352n, 374n Esichio di Gerusalemme, 384-385 Esopo, 251 Estienne, Henri, 7, 329 Ettore, 381 Euclide di Alessandria, 209 Eudosso di Cnido, 36, 127n, 131, 138, 242, 248, 425, 430-431 Eudosso di Rodi, 50, 81 Euforione di Calcide, 273 Eulyros, geografo, 52-53, 426-427, 434, 451 Eumenio di Autun, 36n, 207 Euripide, IX, 63, 141 Eusebio di Cesarea, 214, 335, 352 e n, 364n, 374 e n, 384 e n, 441 Eustazio di Tessalonica, 14n, 122n, 141, 146, 148-149, 197n, 217, 223n, 260n, 278, 319-322, 324, 326 e n, 328 e n, 330-332, 336, 338-339, 346 e n, 347 e n, 358-363, 365, 366 e n, 377-378, 380 e n, 386-389, 391, 393-395, 402-403, 414, 426, 432-435, 437 Eutimene di Marsiglia, 81 Fabio Massimo Serviliano, Quinto, 269, 271 Fabricius, Johann Albert, 38n, 91n, 246n

502 Farinelli, Franco, 23n Farrer, James Anson, 58n, 59, 60 e n, 61 e n, 64, 458n, 461n Fausto, vescovo di Riez, 207-208 Federico Guglielmo IV, re di Prussia, 56 Ferrari, Giacomo, 209 Ferrero, Ernesto, 18n, 145, 162n Festa, Nicola, 356n Ficino, Marsilio, 209 Filarco di Atene, 251, 267, 270 Filea di Atene, 81 Filippo II di Macedonia, 91n Filippo, redattore di Orapollo, 189n Filone di Alessandria, 371, 372 e n, 373, 376 e n, 383 e n Filone di Bisanzio, 451, 453 Filonide, medico, 273-274 Filostrato, Flavio, 186, 343 Fischetti, Giuseppe, 415n, 417-419 Flaubert, Gustav, 55n Florez, Henrique, 316 e n Floro, Lucio Anneo, 301n Foerstel, Christian, X Fontana, Giovanni, 460 Formentin, Maria Rosa, 347n Fortia d’Urban, Agricol Joseph François marquis de, 9n Foscolo, Ugo, 399, 415, 419 Fozio, patriarca di Costantinopoli, VIII, 12, 45n, 79n, 129, 183n, 184n, 185, 352n, 371 e n Fraschetti, Augusto, 185n Freytag, Gustav, 57, 58 e n Fugger, Ulrich, 6-8 Gabalas, Manuele, 214 Gaio, giurista, 55 Galanòs, Demetrio, 417 Galeno di Pergamo, 401 Gallazzi, Claudio, VIII, IX e n, 15n, 16 e n, 18n, 19-23, 27 e n, 28, 31 e n, 37, 40n, 41-42, 109n, 114n, 121n, 124 e n, 145, 159n, 160n, 162-168, 170-172, 174, 176, 180n, 211n, 221n, 243n, 262n, 322-324, 344n Gallo, Elio, 76 Garbini, Giovanni, 410n García-Bellido, Maria Paz, 313n

Indice dei nomi Garcia Quintela, Marco Virgilio, 276 e n, 277 Gastgeber, Christian, 66 Gavroglu, Kostas, 396 Gazis, Antimo, archimandrita di Meliote, 391 e n, 393, 397 e n, 398, 400-404, 406-407, 409-410, 412-413 Gehrke, Hans-Joachim, 91n Gemino, astronomo, 36, 131 e n, 203 Gemino, Gneo Pompeo, 131 Gemisto Pletone, Giorgio, 86n Gennadio, artista atonita, 52 Gennadio Scolario, 441 Gernet, Louis, 234 Gerth, Bernhard, 262n Gesù, 61, 358, 425, 437 Giacomo, autore della lettera cattolica, 61, 64, 458, 463 Giamblico di Calcide, 147, 214, 364 Giambulo, 77 Gianotti, Gian Franco, X Gibson, Alexander Craig, 62 e n Gignac, Francis Thomas, 152n, 345 e n Giobbe, profeta, 382, 383n Giordani, Pietro, 209 Giorello, Giulio, 215n, 216 Giorgio di Pisidia, 352n Giorgio Monaco, 254 Giovanni, evangelista, 458, 463 Giovanni, monaco del monastero di S. Clemente, 390-391, 393, 398-399, 413 Giovanni Battista, 359, 364 Giovanni Crisostomo, 74n, 298n, 333, 365, 385 e n Giovanni Damasceno, 336, 354, 377-378 Giovanni Filopono, 227 Giovanni Italo, 321 Giovenale, Decimo Giunio, 208 Girolamo, 351 e n Gisinger, Friedrich, 79n, 249n Giuba II, re di Mauritania, 76, 130n Giuda, autore della lettera cattolica, 61, 64, 423, 458, 463 Giuliano, Flavio Claudio (detto l’Apostata), 86n Giuliano di Laodicea, 10 Giuseppe Innografo, 47 Giustiniano I, imperatore, 7, 249, 258 Giustino, Marco Giuniano, 268n

Indice dei nomi Giustino, martire, 364 e n Giustino, martire (pseudo), 120n Glaucia, Gaio Servilio, 72 Glikis, Nikolaos, 395 Glycas, Michele, 192 Gomez Espelosín, Javier, 276n Goodwin, Charles Wycliffe, 61n, 458 Gras, Michel, 71 e n, 118n Graßhoff, Gerd, 303n, 304n, 305n Greaves, John, 225 Gregora, Niceforo, 355 e n Gregorio di Nazianzo, 147, 320, 354, 374 e n, 376 e n, 378 Gregorio di Nissa, 192, 335 Gregorio V, patriarca di Costantinopoli, 400, 413, 416 Gronovius, Abraham, 223 e n Gronovius, Jacobus, 223 e n, 269n Grosse, Robert, 300n, 301n Gruber, Johann Gottfried, 13, 206n Guerra, Amilcar, 314 Guigniaut, Joseph-Daniel, 430 Guilford, Frederick North, 5th Earl of, 418 Gulletta, Maria Ida P., 117n, 154n, 344n Gundel, Wilhelm, 203n Haase, Heinrich Gottlob Friedrich Christian, 446 Hadot, Pierre, 385 Hagenow, Gerd, 91 e n, 93-96, 104n, 113-118, 121n, 323 e n, 324 Hanslik, Rudolf, 193n Hardt, Ignatius, 10 Harles, Gottlieb Christoph, 38n, 91n, 246n Harlfinger, Dieter, 10n Harris, Anthony Charles, 55n Harvey, William Wigan, 335 e n Hase, Karl Benedikt, 429-430, 445-446 Haupt, Moritz, 196n Heisenberg, August, 356n Hendreich, Christophorus, 12 Henryson, Edward, 7 Hering, Wolfgang, 94n Hermann, Gottfried, 379-380 Heuzey, Léon, 55n Hevelius (Heweliusz), Johannes, 200202, 204

503 Hill, John, 202 Hodgkin, John Eliot, 60 e n, 451, 455, 457 Hoeschel, David, 3, 5, 6 e n, 8, 11, 13, 86n, 87n, 89, 225n Hoffmann, Samuel Friedrich Wilhelm, 8, 13 e n, 14, 25n, 49n, 88-91, 113 e n, 114n, 116n, 120, 226, 446 Hohlweg, Armin, 355n Holstenius (Holste), Lukas, 9 e n, 132, 223n Horst Roseman, Christina, 324n Hübner, Ernst Willibald Emil, 237, 313 en Hudson, John, 9, 11-12, 25n, 87, 88 e n, 89-91, 113n, 114 e n, 119, 225, 240, 242 Hugo, Victor, 54 e n Huizinga, Johan, 379 e n, 381 Hunrath, Georg, 92 e n Hunt, Arthur S., 62n Ignazio, metropolita di Ungrovlachia, 416 Iolaos, Claudio, 248 Iperide, 53, 55 e n, 56, 60 e n, 63, 425 Ipparco di Nicea, 34, 99, 100 e n, 105, 134n, 203, 323, 357, 441 Ippocrate di Cos, 327n, 401 Ippolito di Roma, 74n, 298n Ipponatte di Efeso, 45 Ireneo di Lione, 336 Isaia, profeta, 383 e n, 384 Iside, 131 Isidoro di Carace, 5-6, 81 Isidoro di Pelusio, 214 Isidoro di Siviglia, 193n Isnardi Parente, Margherita, 96 e n Jacob, Christian, 126n, 320, 324n Jacobson, David M., 182n Jacoby, Felix, 51, 70n, 91, 123n, 279n Jallabert, P.J., 430 Jenkins, Romilly James Heald, 212n, 232, 253-254, 271 Jensen, Christian, 60n Johnson, William Allen, 167n, 170n Jones, Alexander, 38n Jones, Horace Leonard, 278 Jullian, Camille, 115n Jürß, Fritz, 355n

504 Kamal, Ahmed, 18n Kapuscinski, Ryszard, 35n Kasser, Rodolphe, 171n Kauffmann, Georg, 204n Kefalàs, Niccolò, 53-54, 415-419 Kepler, Johannes, 204 Khashaba Pasha, Ahmed Mohamed, 18 e n, 163 Kidd, Ian Gray, 96n, 98n, 101n Klibansky, Raymund, 189n Klotz, Alfred, 133n Knapp, Robert C., 20 e n, 40 e n, 122n Korais, Adamantios, IX, 13, 393, 399, 401-407, 410, 412 e n, 413 e n, 416, 419, 429, 437, 438n, 445, 447 Koukkou, Helene E., 391n Koumarianos, Aikaterini, 404 Kourouses, Stavros, 355n Kozàkis Tipaldos, Giorgio, 417 Kramer, Bärbel, 15n, 16 e n, 18-23, 26, 27 e n, 28, 31 e n, 37, 40 e n, 41-42, 48 e n, 109n, 114n, 121n, 124 e n, 125 e n, 145, 154 e n, 155, 159n, 160n, 163-168, 170172, 180n, 211n, 221 e n, 232 e n, 235, 243 e n, 262n, 278, 297n, 298n, 309 e n, 310, 313 e n, 314 e n, 344n Kretzenbacher, Leopold, 379n, 382n Kriaras, Emmanuel, 291n, 328n Krol, Katie, 63 Kroll, Wilhelm, 133n, 354n Kugeas, Sokrates, 37n Kühner, Raphael, 262n Kumanudis, Stephanos, 426 La Palice, Jacques II de Chabannes de, 27 La Porte du Theil, François-Jean-Gabriel de, 445 Labbe, Philippe, 7 Lambros, Spyridon, 63 Langlois, Victor, 306 Lascaris, Teodoro, 356 e n Lasserre, François, 71n, 93 e n, 122n, 188 e n, 321n, 324n, 325n Latte, Kurt, 234n Lehnus, Luigi, X Lehrs, Franz Siegfried, 347n Lennart Berggren, John, 38n Lenormant, François, 429

Indice dei nomi Lentz, August, 3, 39, 40n, 189-190, 211, 212 e n, 243n Leone Magistro Chirosphaktes, 383 e n Leone XII, papa, 416 Leopardi, Giacomo, 57n, 209, 414, 419 Lepsius, Karl Richard, 57-58 Letronne, Jean Antoine, 55, 430, 446 Leutsch, Ernst von, 91 Licinio Archia, Aulo, 441 Licofrone di Calcide, 87 Licurgo, re di Sparta, 418 Lindenbrog, Heinrich, 189n Livadaras, Nicholas, 188 e n Liverani, Irene Anna, 347n Livio, Tito, 154n, 406 Lloyd Jones, Hugh, 56n Lorenzi, Gabriella, X Losacco, Margherita, X Loto, Demetrio, 438 Lounghis, Telemachos K., 255n Lowden, John, 397n Luciano di Samosata, 192, 197n, 208, 365 Lucrezio Caro, Tito, 412 Lucullo, Lucio Licinio, 101 Luigi XIII, re di Francia, 283 Luzzatto, Maria Jagoda, X Lykurgos, Alexandros, 53n, 54, 64n, 261n, 427n, 434n Maas, Paul, 29n Macario (pseudo), 232, 334-335 Madden, Frederic, 61, 458 Magnaldi, Giuseppina, X Magnetti, Daniela, 145 Mai, Angelo, 55 Maiorano, Nicolò, 347 Makris, Georgios, 63n Malitz, Jürgen, 69n Maltezou, Chryssa, X Manasses, Costantino, 197n Manitius, Karl, 131 e n Manuele I Comneno, imperatore di Costantinopoli, 321 Maraglino, Vanna, X Marcellus, Marie Louis Jean André Charles Demartin du Tyrac comte de, 50n, 54, 59, 429, 449 Marciano di Eraclea, 3-4, 5 e n, 6-9, 11, 13 e n, 14-15, 30n, 49-51, 69-70, 73n, 77-

505

Indice dei nomi 87, 89, 90 e n, 102-104, 106, 107 e n, 112-120, 125n, 127 e n, 141 e n, 150151, 155, 178-179, 215, 231-235, 236n, 238-243, 245-249, 251-252, 255-256, 258-259, 261-268, 270-272, 284-285, 287, 289-291, 298, 300 e n, 301 e n, 302 e n, 304 e n, 305, 310-312, 314, 344, 346 e n, 364-365, 442, 445 e n, 446, 447n, 465 Marcotte, Didier, X, 5n, 90n, 104n, 114n, 122n, 123, 132 e n, 138n, 445, 446n Markopoulos, Athanasios, X Marques de Faria, António José, 313 e n, 314, 315 e n Marsia di Pella, 136 Martelaos, Antonios, 399, 418 Martelli, Mario, 207 e n, 209 e n Martin, Benjamin, 398 Martini, Emidio, 352n Marx, Karl, 19 Marziano Capella, 77n, 87, 88 e n, 134, 308 Maspero, Gaston Camille Charles, 18 e n Massimo Confessore, 214, 335, 364 Massimo di Tiro, 198n Masson, Olivier, 51n, 61 e n, 433n Matteo, evangelista, 55, 423, 425, 458459, 463 Matteo di Efeso, vedi Gabalas, Manuele Matthaei, Christian Friedrich, 196n Mauias (Mu‘πwiya ibn Ab∞ Sufyπn), 255 Maurois, André, 378 e n Mayer, Joseph, 50 e n, 60-62, 65, 432 e n, 433 e n, 434, 457-458, 460 Mayhoff, Karl, 302n, 308 e n Mayser, Edwin, 152n, 339n Megastene, storico, 185 Mehmet Ali Pascha, 416 Meineke, August, 39, 40n, 51, 107n, 108, 117n, 123n, 132, 211-213, 224 e n, 227n, 228-229, 231-236, 238n, 239, 243n, 245, 250 e n, 261, 264-265, 273n, 298, 345, 442 Mela, Pomponio, 118n, 121n, 223n, 288, 291, 296n, 297n, 301n, 314 Melezio di Ioannina, 394 e n, 395, 397, 401-403, 406, 408-410 Memnone, 379, 380 e n, 381, 386 Menandro, 29, 267, 270

Menecrate di Efeso, 45 Menei, Eve, 431n Menippo di Pergamo, 3, 5 e n, 6, 8-9, 1214, 49-51, 80-90, 103, 106n, 127n, 240, 245-249, 284, 311, 447 e n Mercatore, Gerard de Kremer detto, 291, 305 e n Metrodoro di Scepsi, 441 Mette, Hans Joachim, 380n Meuli, Karl, 360n Meursius (de Meurs), Jan, 223, 226-228, 234, 250n, 258, 260n Meusel, Heinrich, 229 Meyboom, Paul G.P., 182n, 190 e n Michele III, patriarca di Costantinopoli, 366n Michele VIII Paleologo, 354 Migne, Jacques-Paul, 365 Miller, Emmanuel, 54, 89, 114 e n, 119, 344 e n, 345-346, 347n, 352n, 446 Mitridate VI Eupatore Dioniso, il Grande, 70, 72 e n, 440-441 Mnasea di Patre, 127n Momigliano, Arnaldo, 26, 66, 435n Mommsen, Theodor, 119n Mondrain, Brigitte, X, 250n, 254 e n, 443n Montanari, Ornella, X Montecalvo, Stefania, X Montgomery, James Alan, 350n Moravcsik, Gyula, 123n, 212 e n, 222, 232, 251, 253-254, 258, 269n, 270n Morel, Frédéric, 295n Moréri, Louis, 7n Moretti, Massimo, X Moscati Castelnuovo, Luisa, 94 e n Moschonas, Theodoros D., 63n Mosè, 383 Moulton, James Hope, 339n Müller, Karl, 14 e n, 25n, 27n, 49, 76n, 80n, 86 e n, 89-91, 113-115, 119, 120n, 186n, 231, 247n, 284n, 287e n, 291n, 297n, 298 e n, 303n, 304n, 305n, 310n, 424, 445 Museo di Efeso, 45 Mustoxidis, Andreas, 53-55 Mynas, Minoide, 54, 294n, 446-451 Nabucodonosor II, 350

506 Nachstädt, Wilhelm, 235 Nearco di Creta, 238n Nenci, Giuseppe, 81n Nerone, Claudio Cesare, 16, 164, 246 Newton, Isaac, 396 Nicola Damasceno, 154 Nicola di Metone, 64 Nicola I Mistico, patriarca di Costantinopoli, 377 e n Nicolet, Claude, 71n, 105 e n Nicomede II Epifane, re di Bitinia, 132 Nicomede III Evergete, re di Bitinia, 132 Nicone di Agrigento, 273 Niebuhr, Barthold Georg, 55, 57n Niese, Benedikt, 107n Niutta, Francesca, X Nobbe, Karl Friedrich August, 303n Nonno di Panopoli, 50n Norden, Eduard, 75n, 98 e n North, Frederich, vedi Guilford Northup, Clark Sutherland, 297n Nutt, David, 60 Odisseo, 108-109, 326, 330-332, 338, 360-361, 362 e n, 363, 386, 437 Oikonomos, famiglia, 54 Olimpiodoro Diacono di Alessandria, 147-148, 214 Olimpiodoro neoplatonico, 370, 371n Omero, 34-35, 101n, 109, 127 e n, 217, 252, 319-322, 331-332, 337-338, 346, 357, 360-363, 377, 379-381, 402, 414, 418, 433-434 Onesicrito di Astipalea, 77n Oppiano di Anazarbo, 192, 197 e n Orapollo, 189 e n, 197n, 199 e n, 441 Orazio, Quinto Flacco, 208 Oreste, 193 Oribasio di Pergamo, 154n Origene di Alessandria, 47, 147, 241, 332, 333 e n, 340-341 Orione, 199 Oros di Alessandria, grammatico, 107 Orosio, Paolo, 261n Ouspensky, Théodore, 397n Owen, Donald, 63 Pachimere, Giorgio, 348 Pais, Ettore, 92 e n

Indice dei nomi Palchos, astrologo, 206 Palladio di Alessandria, 214 Panezio di Rodi, 34 Papadogiannakis, Nikolaos, 348n Papadopoulos Kerameus, Athanasios, 63 Parrasio di Efeso, 45 Partenio di Nicea, 266 e n, 270-272 Pasquali, Giorgio, 65, 406 e n, 407 Pauly, August Friedrich von, 12n, 15 Pausania di Magnesia, Periegeta, 45n, 127n, 191n, 273, 302n Pédech, Paul, 12n, 126n, 138 e n, 141n Pennacini, Adriano, 44n Penzel, Abraham Jacob, 88 Perry, Ben Edwin, 192 e n, 199n Pertusi, Agostino, 275 Pétau, Denis, 131 Petronio, 36n Philes, Manuele, 45, 149, 197 e n, 347349, 352-355, 358, 359 e n Pilade, 193 Pina Polo, Francisco, 276 Pindaro, 45, 320 Pintaudi, Rosario, X, 36n Pinto, Pasquale Massimo, X, 10n, 130n, 327n Pitagora, 10, 45 Pitea di Marsiglia, 53, 81, 136, 140n Pitermo di Efeso, 45 Pithou, Pierre, 6, 89, 114n Planude, Massimo, 37, 291, 305, 348 Platone, 120n, 141, 189n, 234, 337-338, 349 Plinio Secondo, Gaio (il Vecchio), 27, 36n, 74n, 76, 77 e n, 87, 88 e n, 91n, 92, 102, 105 e n, 112, 121 e n, 122, 133n, 135, 192-194, 231, 237, 288, 296n, 300-303, 307-310, 313 e n, 314 e n Plöger, Otto, 351n Plutarco di Cheronea, 34n, 91n, 98, 129, 147, 154, 216, 235, 251, 373, 413 Plutarco (pseudo), 154n, 269n, 448, 453 Pohlenz, Max, 323 Polaschek, Erich, 303n, 304n Polibio di Megalopoli, 73 e n, 94 e n, 97100, 102n, 105 e n, 110, 127n, 128 e n, 130n, 136, 154, 155n, 232, 237, 279, 443 e n

Indice dei nomi Policrate di Efeso, 45 Polverini, Leandro, 435n Pompeo, Gneo (Magno), 73 Porfirio di Tiro, 11, 78, 87, 91, 107-108, 240, 327n, 335, 380 e n, 387 e n Poseidone, 202, 252, 273-275, 423 Posidonio di Apamea, 34-35, 46 e n, 47, 74-78, 92-93, 95-104, 106, 107, 111 e n, 112, 127n, 131, 139 e n, 140n, 217, 297, 371 e n Pothecary, Sarah, 329n Preisendanz, Karl, 60n Preuss, Emil, 58 Prisciano di Eraclea, 121n Proclo, filosofo neoplatonico, 364 Procopio di Cesarea, 302n Prontera, Francesco, VIIn, X, 23n, 36n, 85n, 94n, 104n, 105 e n, 117n, 126n, 138n, 305n Properzio, Sesto, 36n, 207 Protagora, geografo, 79 e n, 80, 85, 103 Psello, Michele, 10, 250n, 321 Quintiliano, Marco Fabio, 44 Radice, Roberto, 373n Radt, Stefan, 122n, 260n, 278, 297n, 302n, 304n Rangabé Rizos, Alessandro, 54 Rauchhaupt, Ulf von, 37n Rawlinson, Henry Creswicke, 61, 458 Reid, Donald Malcolm, 18n Reitzenstein, Richard, 107n Ribeiro Ferreira, José, 122n Richard, Marcel, 335 e n Ritschl, Friedrich, 55n, 58, 63, 434 Robert, Louis, 115n, 249n Rohde, Erwin, 380 e n Roldán Hervás, José Manuel, 300n, 301n, 302n Rosanbo, marchesi, 6 Rostovcev, Michail Ivanovicˇ, 71 e n Roux, Georges, 329n Ruge, Walther, 12 e n Ruhnken, David, 91n Rütten, Thomas, 207 Ryckius (de Rycke), Theodor, 223n

507 Sainte-Beuve, Charles Augustin, 51 e n, 449 Sainte-Croix, Guillaume-Emmanuel-Joseph de, 88 e n, 91n Sallmann, Klaus, 100n Sallustio, Crispo Gaio, 127, 297n Salomone Gaggero, Eleonora, 115n Sams, Joseph, 60-61, 457 Sanakèa, filosofo, 417 Sanchi, Luigi Alberto, X Sansone, 341 Santiago Alvarez, Rosa Araceli, 111n Santra, poeta romano, 44, 45n Saribalidou, Barbara, 391n Sathas, Constantinos, 391n, 394n Saturnino, Lucio Apuleio, 72 Sbordone, Francesco, 189n Scaligero, Giuseppe Giusto, 6n Scarpat, Giuseppe, 327n, 383n Schäfer, Gottfried Heinrich, 301n Schiano, Claudio, X, 69n Schirlitz, Samuel-Christian, 89 Schleusner, Johann Friedrich, 351n Schmid, Wilhelm, 69n Schmidt, Max C.P., 131 Schmitt, Armin, 350n Schoff, Wilfred H., 120n Schubart, Heinrich, 212 e n, 231-232, 261 Schulten, Adolf, 123n, 237n, 288n, 296n Schultz, Hermann, 3, 212n Schweighäuser, Johann, 297 e n Schwyzer, Eduard, 339n Scilace di Carianda (pseudo), 5-6, 81, 85n, 112, 121 e n, 123 e n, 127n Scimno di Chio (pseudo), 5, 121 e n, 123, 127n, 129, 132 Scrimger, Henry, 6, 7 e n, 8 e n Sebastianoff, Peter, 306 Seneca, Lucio Anneo (filosofo), 13 e n, 204, 206, 208 Senocrate di Calcedonia, 209 Senofonte, storico, 167n, 320 Senofonte Efesio, 45 Serapione di Antiochia, 100-101, 133 e n, 134n Sertorio, Quinto, 73, 111n, 237 Settis, Salvatore, 21, 160n, 163-165, 170, 180-182

508 Sˇevcˇenko, Ihor, 255 e n, 445 Sickler, Friedrich Karl Ludwig, 89 Sidonio Apollinare, Gaio Sollio Modesto, 207-209 Sieveking, William, 235 Silberman, Alain, 302n Sileno di Calatte, 98 e n, 136 Silla, Lucio Cornelio, 72, 440-441 Simmeas, periplografo, 81 Simonian, Serop, 18-20 Simonide, arconte ateniese, 418 Simonide di Ceo, 216 Simonidis, Costantino, VIII-IX, 29n, 33n, 35n, 49-66, 146-149, 225, 226n, 241242, 287n, 294, 306, 313n, 314n, 423437, 443-444, 446, 448-451, 455-458, 460, 462-463, 465 Simplicio di Atene, 131, 141, 335 Sinesio di Cirene, 353 Skutsch, Karl Ludwig, 379n Small, Jocelyn Penny, 171n Socrate, 209 Sofocle, tragediografo, 349, 355 Sofronio di Alessandria, 189, 441 Soisalon-Soininnen, Ilmari, 340 e n Solaro, Giuseppe, X Sorano di Efeso, 45 Sosandro, geografo, 81 Sossio (Sosio) Senecione, Quinto, 129n Soustal, Peter, 212n, 232n, 255n Sozione di Alessandria, il Giovane, 208n Sozomeno, Salaminio Hermias, 235 Speck, Paul, 253 e n Speusippo di Atene, 209 Stallbaum, Gottfried, 346-347 Stefano, protomartire, 384 Stefano di Bisanzio, 3-4, 9, 12-15, 39, 40 e n, 51, 53-54, 77, 83, 86, 87 e n, 90 e n, 92, 106n, 107 e n, 108-109, 111, 113, 115-119, 141, 155, 211 e n, 212 e n, 223 e n, 224 e n, 228-230, 232-233, 235, 237n, 238-240, 242-252, 254-257, 258 e n, 262-263, 265, 266n, 269n, 274n, 275n, 279n, 286n, 345, 426, 427n, 434, 442 Steinbrück, Otto, 92 e n Stemplinger, Eduard, 107n Stephanus, Henricus, vedi Estienne, Henri

Indice dei nomi Stewart, Charles, 448n, 449n, 451, 455 Stickler, Günter, 349n Stiehle, Robert, 3, 11 e n, 12, 14, 25n, 49 e n, 50, 77n, 90 e n, 91, 95n, 104n, 105 e n, 112-117, 121n, 213, 226, 229, 232, 236, 263, 308, 322, 323 e n, 345, 442 Stobart, Henry, 55, 60-61, 423n, 457 Stobeo, Giovanni, 208n Stornaiolo, Cosimo, 38n Strabone di Amasea, 3, 9, 11 e n, 12-13, 15, 23, 27, 34-36, 45n, 46, 48, 51, 55n, 6974, 76n, 77n, 81 e n, 83n, 85, 87-88, 9195, 97-107, 110-111, 116, 118, 121-124, 127-130, 133, 136, 138-141, 147, 152n, 154-155, 177-179, 183-186, 193n, 206n, 212n, 214, 216-217, 230 e n, 231n, 233, 236, 238n, 251-252, 259-263, 273n, 275-280, 283-284, 286-288, 291-293, 295-299, 301-304, 307, 316n, 320-325, 329-331, 336-338, 346 e n, 357 e n, 358, 361 e n, 362, 364n, 393-394, 398, 401403, 406, 411, 414, 419, 426, 434, 441443, 445-447, 453, 456 Stückelberger, Alfred, 36n, 37 e n, 38, 303n, 304n, 305n Suidas, lessicografo, 4, 45, 50, 101n, 116n, 191n, 194, 337 e n, 352 Suliardos, Michele, 10n Susemihl, Franz, 90n, 113 e n Tafel, Gottlieb Lukas Friedrich, 328n Talete di Mileto, 77-78 Tannery, Paul, 131 Taziano il Siro, 215 Temistio di Costantinopoli, 249n Temistocle, 412 Ten Nuy (Tennulius), Samuel, 223 Teodoreto di Ciro o Cirro, 352 e n, 353 e n, 374n, 376 e n, 384 e n Teodozione di Efeso, 350 e n, 351 Teofane Confessore, 214, 253-255 Teofilatto Simocatta, 12n Teofrasto di Amiso, vedi Tirannione Teofrasto di Ereso o Eresio, 51, 101, 188, 371 Teone di Alessandria, 141 Teopompo di Chio, 64, 91n, 127, 279 Tetti, Scipione, 7-8 Teucro di Babilonia, 203

509

Indice dei nomi Theiler, Willy, 371 e n Theotokis, Niceforo, arcivescovo di Astrachàn, 391 e n, 392-393, 399, 401403, 410-414 Thomas, Eleutherios, 429n Thompson, D’Arcy Wentworth, 193n, 194n, 200n Thomson, J. Oliver, 126n Tiberio, Giulio Cesare Augusto, 279 Timeo di Tauromenio, 92, 94n, 105n, 136 Timostene di Rodi, 81, 82 e n Timoteo di Gaza, 196, 197 e n, 199n Tirannione, 100-101, 134 e n Tischendorf, Constantin von, 423n Titchener, John Bradford, 235 Tito Aufidio, Siculo, 273 Todd, Robert B., 96n Tolomeo, Claudio, 10, 23 e n, 35-38, 48, 74n, 79-81, 85, 91n, 102-104, 112, 118n, 126 e n, 129 e n, 134 e n, 137 e n, 138 e n, 140-141, 150, 154, 199, 215, 235-236, 251, 269n, 286-295, 298 e n, 301n, 303-306, 322, 346n, 364, 401402, 408, 411, 442, 446-448, 450-452, 454 e n Tolomeo, tragediografo, 45 Tovar, Antonio, 288n Toynbee, Arnold, 254 e n Trapp, Erich, 291n Tregelles, Samuel Prideaux, 63 Tucidide, 31, 61, 64, 167n, 171n, 251, 459, 462 Tucker, Marie-Claude, 7n Tzetzes, Giovanni, 10, 235, 320 Ukert, Friedrich August, 13, 206n Uranios, 54, 55n, 56-59, 61n, 65, 248, 427n, 429, 444 Valenti, Rossana, 44n Van der Valk, Marchinus, 346n, 347n, 387, 388 e n Van Goens, Rijklof Michaël, 11, 90, 91n Varrone, Marco Terenzio, 100n

Vassileiou, Fotis, 391n Vassis, Ioannis, 383n Vidal, Jules Joseph Génie, 52 e n, 429, 444 Viereck, Paul, 354n Villaronga, Leandre, 315n Villemain, Abel-François, 447, 449 Viriato, comandante lusitano, 269, 271 Vitelli, Girolamo, 414 Vitruvio Pollione, 329 e n Vitti, Mario, 399n Vos, Gerhard Iohann, 12 Vossius (Vos), Isaac, 87n, 88, 223-229, 231 e n, 234, 236, 250 e n, 252 e n, 264, 269n, 270n, 287, 299 Vranousis, Leandros, 438n Wachsmuth, Kurt, 448n Wells, Edward, 320 Westermann, Anton, 211 e n, 223n, 224 e n, 228-229, 250n Wevers, John William, 340n, 341n Whiteman, Bruce, 448n Wilamowitz-Moellendorff, Ulrich von, 56 e n, 380 e n, 456 Wirth, Peter, 356n Wolff, Christian, 434 Xylander (Holtzmann), Wilhelm, 284, 287n, 295 e n, 296, 297 e n, 298-299 Yates, James, 449, 451, 455 Young, Peter, 7 Zedler, Johann Heinrich, 7n Zenone di Cizio, 34, 209 Zeus, 311, 326, 332, 379, 380 e n, 381 Ziegler, Joseph, 333n Zonara, Giovanni, 154n Zoroastro, 61, 458, 462 Zorzi, Niccolò, X Zosimadai (Zosimades), fratelli, 9, 88 e n, 225-226, 240, 242, 345, 390-391, 399400, 403, 410 Zubler, Christian, 107n

INDICE DEI LUOGHI

Abarnos, 246 Abdera, 111 e n, 286n Acarnania, 116, 117n, 120 Acheloo, fiume, 400 Acheronte, fiume, 400, 410 Adramittio, 71 Adriatico, mare, 177, 266n Aeria, 106n Africa, 46, 120, 121 e n, 285, 449 Afrodite Pirenaica, promontorio di, 111, 301 e n, 308 Agathe (Agde), 123 Agirio, 76 Akritas, promontorio, 109 Akrolissos, 273, 275 Albione, 301n, 444, 450, 452, 454 Alessandria d’Egitto, 25, 30-31, 38, 6263, 66n, 76, 138, 164 e n, 165n Algarve, 314 Algeria, 449 Alonis, 118n Alpi, 122, 128 Althaia, 155 Amantia, 174 America, 5, 320, 322, 402, 417 Amisa, 248 Anas (Guadiana), fiume, 276-277, 310, 313-315 Antaeupolis (odierna Qaw el-Kebir), 164, 165n Antipolis, 123 Anzio, 133n Aoos, fiume, 273 Apollonia, 274 Aquitania, 118, 119 e n, 121, 245, 255n, 303-304 Arabia, 59, 106n, 183n, 184

Arc, fiume, 115n Ariana, 106n Artabro, promontorio (Capo Nerio), 277-278, 295, 303, 304n, 307-309 Asia, 3, 44, 46, 53, 70 e n, 72, 83, 120-121, 132, 135n, 398 Asia Minore, 93, 174, 177 Asta, 287 Atene, 45, 53n, 448 Athos, monte, 52-54, 294, 306, 415, 418419, 444, 446-450 Atlantico, oceano, 70, 118, 285, 294, 295n, 300-302, 303 e n, 304 e n, 305, 408-409, 417, 449 Aturus, fiume, 304 Augsburg, 5, 8 Aulinide, 274 Aulone, 274 Autun, 36n, 207 Babilonia, 186n Baetis (Guadalquivir), fiume, 24, 150, 222, 229, 234-235, 237-238, 266 e n, 270, 287-288, 297, 312, 315 Baghdad, 416 Bainis (Naibis), fiume, 295, 297-298 Balsa, 310 Baviera, 57-58 Belgica, 118-119, 121 Belion, vedi Limias Beozia, 93n Berlin, 54, 56, 58 e n, 226n Betica, 15, 22-24, 80, 117, 122, 170, 236, 241 e n, 264n, 267, 270, 286 e n, 288289, 295n, 313-315 Bisanzio, vedi Costantinopoli

511

Indice dei luoghi Biscaglia, golfo di, 154, 259, 286, 293, 304 Bitinia, 13, 132, 311 Bombay, 226n Bosforo, 107n, 120 Bounnos, 116 Bremen, 40 Brindisi, 94 Britannia, 98, 118-119, 248, 292 Bullide, 274 Cabellio, 115, 117 Cabo Ortegal, 304 Cadice, vedi Gades/Gadeira Caistro, fiume, 70 Calpe, monte, 111n, 123, 155, 231 e n Campania, 92 Canarie, isole, 449, 451 Cantabrici, monti, 291, 301n Cappadocia, 72n Carambis, capo, 312 Caria, 52 Carmelo, monte, 109 Cartagine, 82, 97, 154 e n Carteia, 111 e n, 313 Castulo, 111, 117, 150, 235, 237-238 Cefalonia, isola, 52, 53 e n, 108, 426, 451 Celtiberia, 128n Chalkitis, isola, 109 Chelidonio, promontorio, 303n Chersoneso Taurico, 117n, 120 Chersonesos, 95 Chretes, fiume, 424 Cilibe, 27, 311-312, 313 e n, 314-315, 316n Cilicia, 120 e n Cina, 320, 322 Cirenaica, 121 Colonne d’Ercole, 62, 78, 80, 82, 103, 113, 114n, 115, 117, 121, 123, 133, 231 e n, 232, 257, 265, 267-269, 279, 284, 361, 366 Contestania, 118n Cordova, 255 Corsica, 110n, 292n, 293 Costantinopoli, 54, 249 e n, 257, 320, 339, 354, 360, 366n, 397, 418, 446n, 448 Creta, 114n, 117n, 120

Daldi, 198, 199n Dalmazia, 253 Danubio, fiume, 416 Deire, 184 Dekieton, 115 e n Dodona, 223n Doros/Dora, 109, 239-240, 246-247 Dresden, 415 Drilon, fiume, 273 Durios (Duero), fiume, 277, 295, 297, 308, 313 Dyrrachion (Epidamno, Durazzo), 244, 258, 273, 274 e n, 275 Ebro, fiume, 122, 230, 256, 259-260, 262, 265, 267-269, 271, 278, 280 Efeso, 44 e n, 45-46, 70-72, 118 e n, 136, 198, 199n, 441 Egeo, mare, 252 Egitto, 25, 53, 55 e n, 57-60, 62, 63n, 66, 70, 75-77, 120-121, 135, 163 e n, 164, 174, 177, 183n, 416, 449 Elba, isola, 293 Elicona, monte, 402 Emporium, 308 Epiro, 274 Eraclea, 311 Eracleotide, 71 Eridano, fiume, 122, 195 Eritrea, 183n Etiopia, 63 e n, 75, 77, 85, 97, 104, 106n, 120, 135, 183n, 186, 190n, 232 Europa, VIII, 19, 46, 57, 82-83, 113n, 114n, 120-121, 132, 163, 305, 397-398, 411 Farfa, 415 Fenicia, 120 e n Flaviobriga, 304 Francia, 396, 438, 449 Frankfurt, 226n Gades/Gadeira, 24, 73, 75, 82, 97, 102, 110, 118, 121, 150, 212-213, 222, 229230, 231 e n, 232 e n, 233-238, 263, 266, 270, 285 e n, 307-309, 312-313, 455 Galizia, 237, 295n Gallia, 80, 98, 110, 113 e n, 114 e n, 115-

512 117, 119, 120n, 124 e n, 150-151, 153, 174, 177, 229, 231, 245, 248, 279, 286, 289-290, 292-294, 300 e n, 301n, 303, 304 e n, 403, 452, 454 e n Gange, fiume, 102 Gargano, 94 Genève (Genf), 7, 119n Genova, 116n Georgia, 245, 254, 256, 266n, 267n, 268, 270, 279 Germane, 274 Germania, 20, 59, 119, 396, 429, 438, 449, 454 e n Giappone, 320, 322 Gibilterra, 266 e n Gibuti, 183n Göttingen, 323, 340n Grecia, 54-55, 72, 99, 114n, 120, 174, 177, 185n, 390, 393, 398-399, 401-404, 409-410, 416, 426, 429 Guardafui, Capo, 184 Guipúzcoa, 302 Heidelberg, 7, 9, 223, 226 Hemeroskopeion, 111, 117, 286n Hérault, fiume, 122-123 Huelva, 20 Hyris, promontorio, 109 Iapigio, promontorio, 301n Iassi (Ias¸i), 391 Ibernia, 450 Illiria, 114n, 116, 117n, 120, 273-274 India, 81, 248, 416-417 Indiano, oceano, 79, 120 Inghilterra, 7, 20, 59, 449 Ioannina, 394-395, 400, 410 Ionia, 70 e n Ionio, mare, 120 Ipsa, 27, 313 e n, 314-315 Ipsca (Castro el Rio), 315 Istanbul, vedi Costantinopoli Itaca, isola, 108 Italia, 48, 92, 114n, 115 e n, 116, 120, 174, 177, 268n, 271, 361n, 395-396, 416, 438 Karne, 246 Karnos, isola, 116

Indice dei luoghi Kassel, 212 Krya, 246 Laconia, 116, 117n, 120, 273-274 Lakia, eparchia, 274 Lardania, eparchia, 274 Leipzig, 54, 63-64, 379, 396, 449, 458 Leon, golfo, 154n, 230, 259 Lethe, vedi Limias Leukatas, promontorio, 53 Leuven, 431n Lez, fiume, 122 Libia, 82-83, 97, 114n, 120-121, 174, 177, 326 Licia, 120 Lidia, 199n Liguria, 115, 116n, 120-123 Limias (Lethe, Belion, Oblivio), 27, 145, 295, 296 e n, 297 e n, 298-299, 308, 313 Lissos, 273, 275 Listrone, 274 Liverpool, 50n, 58n, 61, 63-64, 423n, 436, 449 Lixos, fiume, 424 Locride, 93n London, 48, 54, 61 e n, 62-63, 226n, 416, 425, 449 Lugdunese, 115n, 118-119, 121, 255n Lusitania, 15, 75n, 80, 110, 113, 114 e n, 117 e n, 118, 120-121, 124, 150-151, 222, 229, 234-235, 236 e n, 237-238, 241n, 243, 246, 264 e n, 266, 268 e n, 270-271, 276-278, 285-286, 297, 313, 314 e n, 315, 443, 455 Lynx (Lixos), 97 Macedonia, 114n, 275 Madrid, 54 Mainoba (Maenuba), fiume e città, 287288, 309, 315, 316n Malaga, 15, 90n, 111, 248-249, 286n, 288 Marocco, 456 Marsiglia, 111, 113 e n, 115n, 117, 118 e n, 119 e n, 120, 122-123, 231, 263 Mauritania, 121, 456 Mediterraneo, mare, 30, 73, 78, 82, 85, 103, 110, 113, 231n, 257, 293, 295n, 300-301, 360-361, 416, 442, 449

513

Indice dei luoghi Menesteo, torre e porto, 27, 236n, 288, 309 Meotide, 91n Minio, fiume, 277, 295, 297-298, 308, 313 Moldavia, 391 Montpellier, 438 Mosca, 51, 397, 444 Mosul (Ninive), 415 München, 9, 58, 429 Nabrissa, 287 Naisos, 274 Nalón, 304 Narbona, 119n Narbonese, 80, 115, 117n, 118, 119 e n, 120 e n, 121, 124, 263 Nerio, Capo (Cabo Touriñán), vedi Artabro, promontorio Nero, mare, 416 Nestos, 116 Nilo, 9-11, 12 e n, 59, 76, 293n Nizza, 115n Northampton, 63 Nova Carthago, 27, 150, 154, 155 e n, 222, 229, 234-235, 237-238, 263, 266, 270, 455 Numanzia, 237n Oblivio, vedi Limias Obulco, 231 Oceano, 95-96, 98, 103, 113, 114n, 115, 118n, 119, 151, 279 Odessa, 51-52, 444, 448 Odysseia, 111n, 361-362 Oiasso (Irún), 291, 302 e n, 303 e n, 304, 306n Oiasso, promontorio (Cabo Higuer), 291, 302-303, 305 e n, 306 Olanda, 438 Onoba, 287-288, 309, 315 Orano, fiume, 122 e n Oretania, 117 Orisia, 111, 230n, 237n Ossonoba (Sonoba), 287-288, 310, 313 Oxford, 62 e n Paflagonia, 248, 312 Palestina, 174, 177

Pamplona (Pompaelo), 300, 302 Panonia, eparchia, 269, 274 Panormo, porto, 108 Pantalia, 274 Paris, 36n, 54, 62, 200, 226n, 242, 306, 344, 401, 416, 428-429, 444, 449, 458 Partia, 104, 106n, 120, 454 Pelusio, 411 Pergamo, 70-71 Persico, golfo, 416 Phorkys, porto, 108-109 Pieria, 400, 410 Piombino (Populonia), 110n, 292n, 293 en Pirenei, 22, 28, 30, 110, 121-124, 150153, 212-213, 222, 227, 229-235, 237238, 256, 259-266, 269-270, 284-287, 289-294, 300-306, 309, 442, 450, 452, 455 Pityodes, isola, 109 Poneropolis (poi Filippopoli), 91n Ponto, 13, 247n, 248 Portogallo, 276, 315n, 449 Priene, 71 Promontorio Sacro (Capo São Vicente), 24, 73, 95, 106n, 110, 121, 151, 277, 305, 307-310, 313, 315, 450 Prota, 109 Prussia, 433 Psamathous, 109, 116 Pseudokorasion, 109 Puglia, 94 Pulcheriopolis, 274 Remesiana, 274 Rhodanusia, 123 Rizonico, golfo, 273, 275 Rodano, fiume, 122, 123 e n, 124, 230231, 233, 256, 259-260, 266, 269, 271, 278-279 Rodi, isola, 44, 101, 120, 139 Roma, 9, 25, 57n, 69-73, 101, 109, 119n, 136, 190n, 248, 255, 257-258, 259n, 347, 419 Rosso, mare, 104, 136, 184, 188, 416 Russia, 63, 415 Saba, 106n Sagunto, 98n, 128n

514 Salakia (Alcácer do Sal), 27 e n, 74n, 295, 298 e n, 299, 313 Samo, isola, 262n Samotracia, 98 São Vicente, Capo, vedi Promontorio Sacro Sardegna, 92, 110n Sarmazia, 104, 248 Scizia, 91n, 104, 120-121 Sekoanos, 115n Selinusia, 70 Senna (Sequana), 115n Sevilla, 20 Sicilia, 92, 257, 361n Simi, isola, 52 Sinai, monte, 418, 444 Sinope, 312 Siracusa, 257 Skampta, 274 Skeuptone, 274 Smirne, 52, 71 Somalia, 183n Spagna (Hispania, Iberia), 15-16, 20, 2225, 27, 29n, 39-43, 48, 70, 73, 75 e n, 78n, 80, 95, 98n, 108 e n, 110 e n, 111, 113 e n, 114 e n, 116, 117 e n, 119-125, 128n, 150-153, 154 e n, 155, 162, 170, 174, 177-178, 187, 211-213, 221-223, 224n, 227n, 228 e n, 230-231, 233-235, 236 e n, 237-238, 240, 242-246, 247n, 250n, 251-272, 276-280, 284-287, 289294, 297n, 298, 300 e n, 301n, 303 e n, 304-308, 313, 344, 345 e n, 361 e n, 362 e n, 366, 403, 444, 449-450, 452, 454456 Spagna Citeriore, 118n, 230, 237, 263, 302 Spagna Ulteriore, 230, 263, 268n, 269, 277-278

Indice dei luoghi Stratone, torre di, 109 Stuttgart, 29n Sucro, fiume (Júcar), 111 Susia, 106n Tago, fiume, 276-278, 295, 297, 313, 450 Tanai, 91n, 114n Taormina, 76 Taprobane (Ceylon), isola, 77, 79, 104 Tarraconese, 117, 236, 267, 270, 294, 302-303, 304 e n Tarragona, 152n, 302, 455 Tartesso, 122, 266n, 279 Tauro, monte, 133, 303n Tauroeis, 115, 117 e n Teano, 116 Tebe, 55, 425 Tenaro, promontorio, 109 Tenerife, 54 Tessaglia, 93n Thule, 450 Tiatira, 71 Tirreno, mare, 82, 266n, 278 Tivoli, 109, 116 Torino, 16n, 18, 20, 145 Toulouse, 119n Trogloditica, 70, 106n, 177, 183 e n, 186n Turchia, 55, 447 Tyras, 95 Var, fiume, 123 Venezia, 395 Vienne, 119n Vila Velha (Alvor), 315 e n Wien, 54, 66, 88, 345, 390, 397-398, 400401, 416, 429 Zante, 415, 418-419

INDICE DEI MANOSCRITTI

Alessandria d’Egitto BIBLIOTECA PATRIARCALE 366: 63 537: 63 Athos Monh; tou` Batopedivou 655: 36, 150, 291, 294-295, 298, 306 e n, 308, 444, 446-455 Città del Vaticano BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA Pal. Gr. 126: 222-223, 226, 260n Pal. Gr. 142: 3, 6-9, 114n Urb. Gr. 82: 36, 38, 291, 305-306, 447, 450 Vat. Gr. 130: 12 Vat. Gr. 1126: 352n Vat. Gr. 1209: 350 Vat. Gr. 171: 303n Vat. Ind. 20: 417 Firenze BIBLIOTECA MEDICEA LAURENZIANA XXVIII 34: 203 XXXIX 1: IX-X LIX 2-3: 347n LIX 35: 355-356 Heidelberg UNIVERSITÄTSBIBLIOTHEK Pal. Gr. 398: 83, 423, 447 Pal. Lat. 1950: 7 Istanbul TOPKAPI SARAYI GI 57: 303n, 305

Kopenhagen KÖNIGLICHE BIBLIOTHEK GkS 414: 188n Leiden BIBLIOTHECA UNIVERSITATIS LEIDENSIS Voss. Gr. Q 20: 188n London BRITISH LIBRARY Addit. 19391: 294, 306, 443, 449-456 Addit. 34098: 60n Addit. 42502A: 60n, 455n Addit. 42502B: 462n Addit. 81080H: 58n Milano BIBLIOTECA AMBROSIANA F 205 inf.: 63 München BAYERISCHE STAATSBIBLIOTHEK Gr. 287: 9, 10 e n, 11, 91n, 183n, 442-443 Gr. 514: 196n Gr. 566: 114n Napoli BIBLIOTECA NAZIONALE “VITTORIO EMANUELE III” Lat. V F 32: 305 Oxford BODLEIAN LIBRARY Barocci 50: 196n d’Orville 2 [= Auct. X.1.1.2]: 188n

516

Indice dei manoscritti

Paris BIBLIOTHÈQUE NATIONALE DE FRANCE Coislin 228 (codex Seguerianus): 4, 51, 223 e n, 224, 239, 244, 246-247, 251, 258, 265 Par. Gr. 107B: IX, 63, 444 Par. Gr. 2009: 30, 40n, 123n, 150, 212, 222, 226-227, 228n, 229, 232, 234, 242, 250n, 251, 253-254, 258, 266n, 268n, 272 Par. Gr. 2654: 188n Par. Gr. 2702: 347 Par. Gr. 2967: 222, 226, 260n Par. Lat. 10764: 305 Suppl. grec 443: 6, 83, 84 e n, 85-86, 8990, 114 e n, 119, 248-249, 445-446, 447n Suppl. grec 443A: 294n, 447-448, 452454 Suppl. grec 607: 448n Suppl. grec 1363: 445n

San Lorenzo de El Escorial BIBLIOTECA DE EL ESCORIAL Gr. Y III,11: 188n

Roma BIBLIOTECA ANGELICA 29: 206

Wien ÖSTERREICHISCHE NATIONALBIBLIOTHEK Suppl. Gr. 119: IX, 54, 64, 423, 444, 449

Torino BIBLIOTECA NAZIONALE UNIVERSITARIA C VII 7: 352n Venezia BIBLIOTECA NAZIONALE MARCIANA Gr. 388: 291, 305 Gr. 460: 347 Gr. 516: 36, 38, 305, 454n Gr. 917: 235 Verona BIBLIOTECA CAPITOLARE XV (13): 55

INDICE DEI PAPIRI P.Berol. inv. 13558 [LDAB 10107]: 161 P.Bodmer XXI [LDAB 108537]: 171n P.Bodmer XXIII [LDAB 108542]: 171n P.Eleph. I: 310 P.Heid.Siegmann 206 [MP3 1557; LDAB 4207]: 167n P.Köln II, 58 [MP3 132.1; LDAB 316]: 29 P.Lit.Lond. 25 [MP3 953; LDAB 1461]: 168n P.Lit.Lond. 132 [MP3 1233; LDAB 2423]: IX, 53, 55, 63, 168n, 425, 444 P.Lit.Lond. 133 [MP3 1236; LDAB 2424], 56, 60 P.Louvre inv. 2325 [MP3 369; LDAB 874]: 36 e n, 242, 425, 430-431, 442, 444, 446 P.Mich. IV, 225: 345 P.Mil.Vogl. VIII, 309 [MP3 1435.01; LDAB 3852]: 29 P.Mil.Vogl. inv. 1102: VIII-IX P.Oxy. IV, 722: 345 P.Oxy. XI, 1376 (= Brit.Libr. inv. 2445 = P.Lit.Lond. 107) [MP3 1531; LDAB 4078]: 167n P.Oxy. XVI, 2032: 345 P.Sorb. inv. 72+2272+2273 [MP3 1308.1; LDAB 2738]: 29 P.Yale I, 19 (= P.CtYBR inv. 360) [MP3 1528.1; LDAB 4068]: 31-32, 171n Liverpool, Collezione Mayer, M11169a (Tucidide, VIII, 109): 61, 64, 459, 462 Liverpool, Collezione Mayer, M11169a (Frammenti di Zoroastro): 61, 458459, 462 Liverpool, Collezione Mayer, M11169a, d, e, j (Frammenti storici anepigrafi): 62, 64, 444, 459, 462 Liverpool, Collezione Mayer, M11169b, M11169c (Brani neotestamentari): 458, 460, 462

Liverpool, Collezione Mayer, M11169f, M11169h, M11169i, M11169p, M11169q, M11169r (Epistole di Ermippo): 50, 60n, 61, 458-459, 462-463 Liverpool, Collezione Mayer, M11169g (Prosa non identificata): 462 Liverpool, Collezione Mayer, M11169k (Periplo di Annone): 48, 50, 60n, 6162, 64, 66, 423, 430, 444, 451, 455-456, 459, 462 Liverpool, Collezione Mayer, M11169m (Codex Thebanus): 61, 459, 463 Liverpool, Collezione Mayer, M11169n (Epistola di Giuda): 61, 64, 423, 444, 458, 463 Liverpool, Collezione Mayer, M11169n, M11169o (Vangelo di Matteo): 55, 6062, 64, 423, 425, 444, 458, 463 Liverpool, Collezione Mayer, M11169s (Frammenti storici di Androstene di Taso e di Diotimo di Adramittio): 61, 458, 463 Liverpool, Collezione Mayer, M11169t (Vangelo di Giovanni): 458, 463 Liverpool, Collezione Mayer, M11169u (Padre nostro, cfr. Vangelo di Matteo, 6): 459, 463 Liverpool, Collezione Mayer, M11169v (Genesi): 61, 431, 458, 463 Liverpool, Collezione Mayer, 1978.291. 245a, 1978.291.245c, 1978.291.245d (Epistola di Giacomo): 61, 64, 444, 458, 463 Liverpool, Collezione Mayer, 1978.291. 245b (Storia ecclesiastica di Egesippo): 463 London, British Library, Additional 42502B, f. 185 (Lettera di Aristea): 61 e n, 425, 458, 462n

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI*

Fig. 1a. Raffaello, La Fornarina (1520), Palazzo Barberini, Roma Fig. 1b. P.Artemid. r: disegno di mano sinistra [R10] Fig. 1c. Raffaello, Ritratto di Agnolo Doni (1506-1507), Galleria Palatina Palazzo Pitti, Firenze Fig. 2a. P.Artemid. r: col. I, rr. 1-6 (r. 4: ]teusanta) Fig. 2b. P.Artemid. v: col. I (fine r. 3: an), immagine riflessa Fig. 2c. P.Artemid.: ricostruzione col. I, rr. 3-4 Fig. 3a. P.Artemid. r: col. I, r. 35: forma dello x Fig. 3b. P.Louvre, inv. N 2325, v: forma dello x [“Eudosso”] Fig. 4. British Library, Add. 19391, f. 21v: mappa della Spagna Fig. 5. Athos, Vatopedi 655, f. 34r: mappa dei Pirenei Fig. 6a. P.Artemid. r: mappa della Spagna? Fig. 6b. Österreichische Nat. Bibl., Tabula Peutingeriana, VI-VII Fig. 7a. Mappa dei Pirenei secondo Tolomeo (da Stückelberger-Graßhoff 2006, II, p. 781) Fig. 7b. Promontorio di Oiasso (Barrington Atlas 2000, tav. 25) Fig. 8. P.Artemid. r: disegni di mani e piedi [R3-R15] Fig. 9a. Encyclopédie (1763), Planches, vol. II, n. XIII Fig. 9b. Encyclopédie (1763), Planches, vol. II, n. XII

Fig. 10a. P.Artemid. v: cevrsudroi panqhrokorkovdeiloi [V3] Fig. 10b. Palestrina, Museo Archeologico, mosaico nilotico: krokodilopavrdali" e krokodiloscevrsaio" Fig. 11a. P.Artemid. v: muvrmhx [V22] Fig. 11b. Hevelius, Uranographia, fig. L: Anser et Vulpecula Fig. 12a. P.Artemid. v: lotta tra luvgx e ai[gagro" [V40] Fig. 12b. Hevelius, Uranographia, fig. Xx: Centaurus, sulla destra Lupus Fig. 13a. P.Artemid. v: lotta tra xifiva" e qunnoprivsti" [V9] Fig. 13b. Hevelius, Uranographia, fig. Oo: Cetus Fig. 14. Vangelo di Giovanni (Museo di Liverpool, Collezione Mayer, M11169t) Fig. 15. Frammento storico anepigrafo (Museo di Liverpool, Collezione Mayer, M11169d) Fig. 16. Simonidis crea falsi papiri: a. Matteo (Museo di Liverpool, Collezione Mayer, M11169n) b. Ermippo (Collezione Mayer, M11169q) c. Tucidide (Collezione Mayer, M11169a) d. testo sacro (Matteo?) (Collezione Mayer, M11169u) e. Codex Thebanus (Collezione Mayer, M11169m) Bramante, Democrito ed Erap. 210 clito (1477), Pinacoteca di Brera, Milano

* Le elaborazioni grafiche sono a cura di Maria Martinelli.

INDICE DEL VOLUME

Candido lectori

VII

Dramatis personae

3

Il fantasma di Artemidoro

5

1. Il fantasma di Artemidoro, p. 5 - 1.1. «Ab Jove principium», p. 5 - 1.2. I fecondi tesori dei Fugger, p. 6 - 1.3. Chi era «Henr.»?, p. 7 - 1.4. Effetti durevoli di una incauta postilla, p. 8 - 2. Dal fantasma al papiro, p. 14 - 3. Tutto poggia sulla «mappa», p. 21 - 4. Il papiro dei miracoli: «golpe de suerte»!, p. 26 - 5. Dalla carta geografica alla scienza geografica: l’anacronismo delle mappe regionali, p. 34 - 6. Estratti o libro II? Diagnosi in contrasto, p. 39 - 7. La linea del Piave, p. 43 - 8. Il ritorno del fantasma, p. 48

Parte prima Artemidoro di Efeso I.

Per la storia del testo di Artemidoro

69

1. Vita di Artemidoro, p. 69 - 2. Le critiche di Posidonio..., p. 73 3. ... e l’apprezzamento di Diodoro, p. 75 - 4. Da Strabone ad Agatemero, p. 76 - 5. Marciano abbrevia Artemidoro, p. 78 - 6. Come si presentava l’opera di Marciano?, p. 84 - 7. Gli effetti dell’epitome, p. 86

II.

I Geographoumena: struttura e stile di Claudio Schiano 1. Un passo avanti e uno indietro: le raccolte dei frammenti, p. 87 - 2.1. Artemidoro in Strabone, p. 92 - 2.2. Da Artemidoro a Strabone, passando per Posidonio, p. 95 - 2.3. Fu vero periplo?, p. 102 - 3.1. Come descriveva Artemidoro, p. 106 - 3.2. Artemidoro nel papiro di Torino, p. 109 - 4.1. Riordinare i Geographoumena, p.

87

520

Indice del volume 113 - 4.2. Il primo libro, p. 116 - 4.3. Un giro intorno al mondo, p. 120 - 4.4. L’ΔIbhriva e i suoi confini, p. 122 - 4.5. Deduzioni possibili, p. 124

III.

Note sugli usi di gewgrafiva di Stefano Micunco

126

1. Un genere letterario?, p. 126 - 2. Prime attestazioni note del termine gewgrafiva, p. 130 - 3. Nascita ed evoluzione del termine gewgrafiva, p. 137 - 4. Titoli di opere geografiche, p. 140

PROEKDOSIS

143

Avvertenza, p. 145 - Col. I, p. 147 - Col. II, p. 149 - Col. IV, p. 150 - Col. V, p. 151 - Note, p. 152

Parte seconda Il nuovo papiro IV.

Osservazioni bibliologiche sul nuovo Artemidoro di Rosa Otranto

159

1. Unicum, p. 159 - 2. Le tre vite, p. 160 - 3. Tre vite?, p. 161 - 4. La maschera, p. 163 - 5. I documenti, p. 164 - 6. Il papiro di Artemidoro, p. 165 - 7. Osservazioni bibliologiche, p. 166 - 8. Raffigurare il mondo?, p. 170 - 9. La macchia d’umido e la scrittura allo specchio, p. 171 - 10. Dei possibili modi di riparare un guasto, p. 173 - 11. Quando il rotolo era ‘intero’..., p. 174 - 12. Un papiro e molte domande, p. 175

V.

Cosa conteneva il papiro quando era ‘intero’?

176

VI.

Le figure di animali sul verso del papiro di Artemidoro di Stefano Micunco

180

1. Il repertorio di immagini sul verso del papiro: caratteri generali, p. 180 - 2. Alcuni raffronti tipologici, p. 182 - 3. Artemidoro di Efeso e le descrizioni di animali, p. 183 - 4. Le didascalie: problemi testuali e incongruenze, p. 188 - 5. Raffronto con le fonti letterarie, disposizione delle figure, possibili nuclei compositivi, p. 195 - 6. Una proposta di lettura: l’ipotesi cosmografica, p. 199

VII.

Le teste filosofiche: Eraclito e Democrito

207

VIII.

«Se la geografia tace»

211

1. Artemidoro «ritrovato», p. 211 - 2. Rilevamenti testuali sulla colonna I, p. 213

Indice del volume

521

Parte terza Perché quel papiro non può essere Artemidoro IX.

Le molte vite del fr. 21 di Artemidoro

221

1. Dal codice al rotolo!, p. 221 - 2. «Glücklicher Zufall» , p. 241

X.

Perché quel papiro non può essere Artemidoro

243

1. Schema, p. 244 - 2. Stefano, p. 246 - 3. D.A.I. 23, p. 249 - 4. Ancora sul fr. 21, p. 259 - 5. In cerca di un’uscita di sicurezza, p. 263 - Appendice I. Iberia/Hispania, p. 265 - Appendice II. Una nuova traduzione della Spagna di Strabone, p. 276

Parte quarta La chiave della falsificazione XI.

XII.

XIII.

XIV.

La fortuna di poter contare sulla «Geografia» di Strabone

283

La chiave della falsificazione è nella colonna IV, nella V il disastro

289

Quando i Pirenei si inoltravano nell’Oceano di Giuseppe Carlucci

300

Rilevamenti e misurazioni

307

Parte quinta Artemidoro «bizantino» di Luciano Bossina XV.

Artemidoro bizantino. Il proemio del nuovo papiro

319

1. Il silenzio di Strabone, p. 322 - 2. Il peso di Atlante, p. 325 - 3. L’insonnia (parte prima), p. 330 - 4. L’anima e la volontà, p. 332 5. La scienza di lui, p. 339 - 6. Ortografia, p. 344 - 7. Superficie, p. 347 - 8. Guardarsi attorno, p. 358 - 9. Il geografo Odisseo, p. 359 - 10. Il geografo divino, p. 363

XVI.

Pesar l’anima 1. Soppesando, p. 367 - 2. Oscillando, p. 369 - 3. Misurando, p. 373 - 4. La bilancia dell’anima, p. 378 - 5. La bilancia di Atlante, p. 386

367

522

Indice del volume

XVII. Geografia e patriottismo neogreco tra Sette e Ottocento

390

1. Il costume di Arlecchino, p. 390 - 2. Madonna Philosophia, p. 392 - 3. Il trono delle Muse, p. 398 - 4. «Geografia antica e nuova», p. 402 - 5. «Sicuro in su le carte», p. 407 - 6. Artemidoro neogreco, p. 409 - 7. Tria corda. Patrioti, geografi e falsari, p. 414 - Il patriota, p. 415 - Il geografo, p. 416 - Il falsario, p. 417

Parte sesta Profilo dell’autore XVIII. Come lavorava Simonidis

423

1. Ritoccando testi già noti, p. 423 - 2. La testimonianza di un amico, p. 425

XIX.

18 marzo 1864

428

XX.

Sarà Simonidis Artemidoro? di Luciano Bossina

432

1. Provvidenza di Eustazio, p. 432 - 2. L’insonnia (parte seconda), p. 435

XXI.

Profilo dell’autore

XXII. La traccia

440 445

1. Il ritorno dei «geografi minori», p. 445 - 2. Minoide Mynas all’Athos, p. 447 - 3. Simonidis all’Athos, p. 448 - 4. La traccia, p. 449

XXIII. Visita ai papiri di Simonidis di Livia Capponi

457

I papiri di Simonidis nella collezione Mayer di Vanna Maraglino

462

Divinatio

465

Bibliografia

467

Indice dei nomi

497

Indice del volume

523

Indice dei luoghi

510

Indice dei manoscritti

515

Indice dei papiri

517

Indice delle illustrazioni

518