Il muro delle apparenze. Annotazioni sulla narrativa italiana 2008-2010   9788820755775, 9788820755782

Prosegue la lunga, capillare indagine sulla narrativa italiana contemporanea condotta dall'autore fin dagli inizi d

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Il muro delle apparenze. Annotazioni sulla narrativa italiana 2008-2010  
 9788820755775, 9788820755782

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Frontespizio
Copyright
Indice
Introduzione
Narrativa italiana 2008
Narrativa italiana 2009
Narrativa italiana 2010
Indice delle opere2008
Indice delle opere2009
Indice delle opere2010
Indice degli autori 2008-2010
Quarta di copertina

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Giuseppe Amoroso

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Il Muro

delle Apparenze

Annotazioni sulla narrativa italiana 2008-2010

LIGUORI EDITORE

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Teorie & Oggetti della Letteratura 40

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Giuseppe Amoroso

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Il muro delle apparenze Annotazioni sulla narrativa italiana 2008-2010

ISSN 1973 - 115

Liguori Editore

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Pubblicazione realizzata con il contributo del Dipartimento di Civiltà antiche e moderne dell’Università di Messina

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati.. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet o http://www. liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2013 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Giugno 2013 Amoroso, Giuseppe : Il muro delle apparenze. Annotazioni sulla narrativa italiana 2008-2010/Giuseppe Amoroso Teorie & Oggetti della Letteratura Napoli : Liguori, 2013 ISBN-13 ISBN-13

978 - 88 - 207 - 5577 - 5 (a stampa) 978 - 88 - 207 - 5578 - 2 (eBook)

ISSN 1973 - 115 1. Editoria italiana 2. Narrativa italiana contemporanea

I. Titolo

II. Collana

III. Serie

Aggiornamenti: —————————————————————————————————————————— 22 21 20 19 18 17 16 15 14 13 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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Indice Introduzione

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Narrativa italiana 2008

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Narrativa italiana 2009

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Narrativa italiana 2010

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Indice Indice Indice Indice

229 232 234 236

delle opere 2008 delle opere 2009 delle opere 2010 degli autori 2008-2010

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Introduzione In una partita di calcio la palla s’infila nella rete, soddisfatta “come una fragola che si tuffa in una tazza di cioccolata”; un’idea rimane “sospesa” a un uomo “come il basilico a seccare”; la Porsche di James Dean, “maledetta come la testa di Tutankamon”, si circonda della sua “leggenda nera”: l’impatto vertiginoso delle similitudini induce non solo l’effetto di stravolgimento ma pure una sorta di riflessione sull’energia oscura e irridente da cui muove il carosello della realtà che ci circonda. Perdura, nella narrativa di questo triennio, il progetto canonico di “inscatolare la realtà nei barattoli delle parole” che riescono a far emergere personaggi e cose dagli ambienti più diversi, impensabili, là dove esiste lo “spazio necessario alla manovra del dubbio”. Si oscilla fra l’immediata “pacifica grammatica” di ciò che accade alla luce del sole e la “logica notturna” che rende tutto possibile, ambiguo: anche che una tetra alba “si vergogni di farsi guardare dal sole” e che “segrete corrispondenze” determinino la regressione di tutto nella “follia erratica dei simboli”. Corre il “buio senza note del silenzio” accanto allo splendore sinistro della cronaca. È possibile, per il personaggio, finire in una “dimensione parallela” in cui logica e tempo, lo sgranarsi della quotidianità e la sillabata coscienza della consuetudine perdono di potere, si dissolvono in una bigia sensazione di transito. Certe atmosfere sfibrate, malinconiche di fatti come ripercorsi alla moviola per inseguire chissà quali ragioni sfuggite, si diffondono in un universo a volte un po’ plastificato, uniforme, tra i cui anfratti occhieggia la rocciosità dell’esistere. I segnali più sicuri si fanno talora indizi, quasi un sospetto dell’inafferrabilità del destino, mentre lo scrittore si sforza di far virare il documento verso un cantuccio di libertà in cui le vicende trovano una più autonoma garanzia di propulsione, oppure si diramano trame storiche, sparse, sospese, ma con scatti di rilancio, “come puntate di una soap opera”, e ridotte a immagini staccate, “come un blob televisivo” del quale distrattamente si percepiscono con chiarezza solo alcune scene. Chi narra tenta sovente qualche azzardo finto, “dove chi punta non si gioca nulla”. E allora case si drizzano “con le schiene rotte”, vivacizzate e compromesse dall’acuta e sbandata percezione dei dettagli, da uno sguardo che, sorpassando ogni vincolo di realismo, le vede pure inginocchiate sotto un campanile. E osterie, intanto, invadono un orizzonte senza nome, onirico.

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GIUSEPPE AMOROSO

I ricordi si allineano sul bancone metallico di un bar e i panni stesi alle finestre di un palazzo si trasformano in “bandiere di vento”. Qua e là s’impongono più gli stati d’animo allarmati che i preordinati snodi dei fatti, la stabilità regolare dei contesti. Pertanto, la narrazione allontana quel che trabocca di statico e rende memorabile la residua fissità non solo di esterni ma di gesti, parole, atteggiamenti, pensieri. Si alza un mondo fisico e spirituale di uomini e di avventure, di sfondi e di fantasmi, su cui batte un accento quasi dimentico della pienezza dei collegamenti, della stessa dinamica insita nella routine, nelle esplosioni di dialoghi secchi e apparentemente privi di risorse fantastiche. Il materiale si raccoglie, in questi casi, di preferenza nella torsione delle immagini, in un complotto delle parole che esercitano molti dei poteri affabulanti ma poveri di un ortodosso intreccio. Quando, invece, le parole rimangono più a lungo celate, tenute in sordina, miscelate con gli anfratti dei colori e dei suoni, le cose si arrendono presto e la vita si arrovella sopra una nota irraggiungibile che la spieghi, la leghi a una naturale rivelazione. Meraviglie e stupori non mancano: ci sono “mille e una notte imprigionate nella calce”, nel paesaggio lunare e tangibile di tanti romanzi e, insieme, un grado medio di tono e di ritmo che asseconda sequenze, capitoli dal taglio innovativo per controllare l’esubero di un’oggettività ferrosa, opaca (“isolare i dettagli che contano, astrarli dal flusso del generico e dell’insignificante”). Compare un excursus su Biancaneve e Pinocchio: ulteriore via alla favola in pagine che hanno la funzione di testimonianza diretta di un destino vasto e avverso e che impiegano una sintassi lineare, elencativa e finalizzata alla denuncia civile, a scoprire che le cose si rivelano “più semplici di come appaiono”. Sempre in agguato, l’artiglio della trasparenza è sufficiente a far apparire il mosaico sfocato delle vite assenti, il tunnel che porta dove “forse finisce l’ombra” ma cresce subdola l’attesa di qualcosa che non arriva. “Voci scorporate che non amano la precisione topografica” chiamano una folla di comparse: incontriamo chi vuole sparire da una fotografia oppure rifugiarsi in un cosmo secondario che assomiglia a un “avamposto allegro di follia”. Per agganciare il quale intervengono, per esempio, schegge di una vita che sono in grado di colmare ogni perdita, ogni ferita con l’ausilio dell’immaginazione e lo spettacolo della “marea umana”. Trova riconferma una scrittura adeguata, elastica, distesa o risucchiata dai suoi nuclei, con più corde e qualche parola fatata, idonea a dar vita a questo “avamposto” di stravolgimenti, pervaso qua e là da un senso di fine. E intervengono quelle mistioni oltranzistiche di blocchi narrativi che, pur contribuendo a deformarli, in fondo attribuiscono a essi una compassata consistenza inquieta, una legittimità d’ombre, un’identità più risonante ed

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INTRODUZIONE

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evocativa, munita di sibillini riferimenti al reale, di strane storie connesse ai luoghi e di allusioni e miti, colori trasmigranti e dissolvenze. Legati alle potenzialità plurivoche della scrittura, gli ambienti e, insieme, i personaggi si esaltano in eventi elettrizzati da sorprese, ma anche in puri eventi linguistici, forme ricercate di una pagina percorsa da infinite tonalità e varianti, mediante le quali l’autore traccia una scena e i suoi protagonisti puntando molto sulle cornici, gli effetti secondari a loro volta edificati, in molti casi, da procedure stilistiche mirate ad allargare ogni limite. Così un episodio a forte connotazione autobiografica può trascendere, in taluni scrittori, il proprio circoscritto ambito e volare verso i margini di una meditazione sull’esistenza investendo un più ampio orizzonte e un che di effimero da cui discende un velo di abbandono e di malinconia. Vanno in secondo piano qualche sostanziosa presenza di fatti e lo splendore rassicurante o fosco della cronaca, in favore di un movimento di parole e del “buio senza note del silenzio” che può riempire tante pagine in cui si inietta una indiscutibile vena illusionistica, di prospettive tematiche accattivanti proprio per la loro tensione collaterale, di volute alterazioni, maschere che portano a scorgere nel mondo la beffarda “parodia di un altro mondo”. È possibile per il personaggio finire in una “dimensione parallela” in cui logica e tempo, lo sgranarsi della quotidianità e la sillabata coscienza delle consuetudini sembrano appartenere a un altro copione. Il rapporto concitato tra emozioni suscitate da un dettaglio e contesto diviene – su riconoscibili lasciti delle stagioni narrative più recenti – indissolubile, tanto da indurre il lettore a scoprire pure nei segnali di un esterno al limite dell’insignificanza alcuni comportamenti anomali, implicazioni umane e a imbattersi, per esempio, in rose che, lanciate da un davanzale, “cominciano a volare, tutte, col loro nome e la loro storia” o in una chiesa che ricorda “una villetta bifamiliare degli anni Cinquanta”. Si protrae una scrittura a forte concentrazione visiva, pure invischiata in un che di “intempestivo”, protesa a costellarsi di risvolti e intercapedini del quadro, e a tendere gli allacciamenti fra gli episodi fino a privilegiare i richiami sottesi e ricchi di implicazioni funamboliche e a isolare talune situazioni più percorribili per meglio farle emergere nella loro precaria inviolabilità: una rete di sottigliezze e ricami, miniature eleganti e anomali colpi di luce e increspature e colori edificati con lo scopo di attribuire alle figure un corredo di incantamenti e intonazioni musicali. Talora le storie, culminanti, di preferenza, in apici di meraviglie e risorse avventurose ustionanti, vengono fissate in strutture rigide, come dentro uno schema sul quale le passioni, gli impulsi contingenti, le fantasie e alcune filiformi vene di commento possono cristallizzarsi, senza disperdere tuttavia

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GIUSEPPE AMOROSO

gli originari fervori, ma acquisendo una più definita, millimetrata esattezza, una sorta di necessità obbligante che costeggia, in un obliquo oscillare, il metafisico, l’astrazione. La realtà si fa ancora più ambigua, si esilia in soluzioni stilizzate, in una fissità lontana. Folgorata in espressioni assolute o come abbandonate dai sogni (da un “ufficio dei sogni”), si sostanzia, a tratti, di una base letteraria dibattuta, non meccanicamente assorbita, ma posta quasi in uno stato di allerta (“e se ci fossero messaggi satanici anche nei Malavoglia?”). Certo, non è un fondale sul quale si collocano, prive di attriti, le trame: è un pulviscolare universo limato dal suo andamento estroso, episodicamente “perverso”, di pensieri vischiosi, da una “musica del diavolo” e da diffusi echi di mistero, sottomessi a un’architettura narrativa ben confezionata e modellati talora su citazioni che salgono dalle più impensabili fonti. Si instaura, in molte proposte espressive, un ritmo scabroso, un po’ostile e, insieme, “fertile rintocco della risonanza”, teso a tenere in traiettoria tutti i fattori dell’intreccio. In verità, le suggestioni di un discorso che, complesso, incombe sulle cose, non hanno tante volte la forza di sostenersi a lungo e si dissolvono quando gli accadimenti si rivelano sempre più aggrediti dall’urto rapinoso e oscuro dell’esistenza costretta a misurarsi con il drammatico gioco del destino. Sopravvengono numerosi procedimenti ellittici che suggeriscono la prefigurazione di elementi negati, sottratti alla richiesta romanzesca, e di altri che rivendicano correzioni di rotta. Il simbolo che talora sta dietro l’ellissi può semplicemente riassorbire il tumulto delle cose: e si ricompone una scrittura divisa fra i segnali che avvicinano tra loro i dati visibili dell’orizzontalità, dilatandoli o descrivendoli con passaggi ribollenti di memorie, e quelli che frazionano l’impatto di un vertiginoso, verticale rimbalzo di immagine e avviano residui ed echi in un tunnel che porta forse là “dove finisce l’ombra”. Marginali, sotto il profilo della felicità narrativa, sono – il più delle volte – le aree di imperiosa omologazione presenti in autori che rendono saturi i loro racconti di impegni ideologici, sociali e politici, molto conclamati, di figure appiattite dall’enfasi di dialoghi ripetitivi e prevedibili. Irrompono, però, quasi per compensazione, copiose vivacità di personaggi e vicende e aneddoti dal genuino sapore locale e pure gestualità rialzate che riescono a scardinare la resistenza meccanica delle tesi, la freddezza di una volontà fortemente programmatica, la staticità di svolgimenti obbligati, l’insidiosa preoccupazione di mantenere acceso, in serpentine di racconto, il contatto di un microcosmo di passioni soggettive gridate con l’attualità più infuocata e problematica, delle tensioni dell’oggi. E si può così trovare “un momento centrale in ogni storia”, tra visionarietà fosca e il grottesco d’ogni giorno, cogliendo le cose e gli urti non nella girandola sonora di un podio, ma “nel buio di tutti gli angoli morti”.

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Narrativa italiana 2008

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NARRATIVA

ITALIANA

2008

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Sardinia blues di Flavio Soriga Brucia di stelle il cielo di Sardegna nella «notte messicana» di un paesino «inesistente», perduto nella grande pianura di Oristano. Tre laureati «senza macchia e senza paura e senza amore e senza fede», desiderosi di liberarsi dai fantasmi della storia e dall’oppressione della marginalità, decidono di prendere dalla vita ciò che capita, con un «sorriso losco», progettando di applicare l’integrazione sociale e politica della loro gente con il resto del mondo. Hanno il gusto del proibito questi «cavalieri della notte» che attraversano le pagine di Sardinia blues di Flavio Soriga, giunto al suo terzo romanzo, dopo Diavoli di Nuraiò e Nero pioggia. Licheni, Corda e Pani, il talassemico io narrante, provano il magico piacere della trasgressione, lucidi e visionari, incantatori e incantati, errabondi nella sterminata luce dell’estate, trafitti dalla noia e dall’amore, infelici di un’infelicità allegra e balorda. Vogliono raccontare al mondo, in un film, la tristezza di certi sabati sera trascorsi in una discoteca ad ammirare la bellezza delle donne, come quella di Daniela «piena di sogni confusi» e fidanzata di un mercenario locale finito in Iraq. Dal desolato Montiferro all’inferno postmoderno di certe zone extraurbane si agita una folla di personaggi visibilmente inseriti nell’azione, anche i meno influenti, i volti di passaggio destinati all’ombra: la nobildonna matura, pronta a tradire il marito di umili natali; un anziano che fa testamento in favore della badante polacca; una ballerina dedita all’«esplorazione curiosissima di nuovi linguaggi esistenziali»; una donna triste che si è sempre sacrificata per gli altri; un padre solo, che passa le ore guardando qualunque «orrore» trasmesso dalla televisione; una infuriata rock-star nera, a Chelsea; la vecchia zia rugosa di Licheni; un «fantasma banditesco» che prorompe nel pianto. In mezzo a questi visi, che nessuna fotografia potrà mai fermare, si intravede una realtà più alterata e inafferrabile, in cui i dettagli si coprono di mistero, e v’è spazio anche per un estintore che, da anonimo e silenzioso, si trasforma di quando in quando – nello sguardo febbrile del narratore – in un «pagliaccio assassino». Non mancano neppure alcune note polemiche (si vedano quelle di Corda riguardanti una Grazia Deledda «spacciatrice di luoghi comuni»), mentre si delinea la mappa di una Sardegna fuori dai dépliant turistici: un più modesto «paradiso del non esistere», fatto di feste popolari e di pastori, vivo nei riti semplici della quotidianità, chino sulla propria millenaria epica di paesaggi che cambiano forma e anima a seconda delle stagioni.

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GIUSEPPE AMOROSO

Sardinia blues è un romanzo che intende narrare tutto – «anche dopo che finisce la trama» – dei tre piccoli eroi, «un ex tossico, un vampiro praticante e un ermetico scrittore fallito», stretti nella loro comune vita e consegnati pure alle storie che «sono rimaste fuori». Una prosa di ritmi dolenti, controcanti, sequenze di protesta e di nostalgia, si ripropone a scadenze per contrastare il sordo marasma del reale, la cronaca feroce del presente e quel picco di incantamento che viene da pensieri sovraffollati. Ed è prosa che scandendo suoni, riverberi fonici, formulazioni melodiche non si disperde in propagazioni e corrispondenze, bensì ritrova i segnali più rivelatori in una sorta di ripetizione, di ritornello. Usa il polisindeto e colloca in varie membrature, spesso brevi, le medesime quote di grido, di memoria, di riflessione, inscenando paesaggi dell’anima, forse per rivisitare un universo duro, drammatico, dove poter collocare tutti i movimenti elettrizzanti o inceneriti dei protagonisti.

La carovana Zanardelli di Giuseppe Lupo È la metà di settembre del 1902. Nella stazione ferroviaria di Sicignano degli Alburni, tappezzata di festoni tricolori, i cappelli a cilindro dei notabili sparsi fra la folla «svettano come fumaioli di piroscafi attraccati alla banchina»: un «presepe di statue» accoglie il Presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli che si appresta con il suo numeroso seguito a compiere un faticoso viaggio su un treno simile a un «enorme serpente d’acciaio che avrebbe lasciato di stucco persino Giulio Verne». Destinazione dell’anziano statista è la Basilicata che egli si appresta a visitare inseguendo «farfalle e chimere, con lo sguardo di un nottambulo». Unito alla carovana, Tino Robilante, asso della dagherrotipia lucana, spera di superare la concorrenza del fotografo ufficiale Carlo Egineta e di entrare nella storia. Passa il convoglio salutato tra ali di gente festante, con il suo variopinto carico umano di politici, militari e giornalisti, fra i quali un «filibustiere dallo sguardo invadente», chiamato Leontolstòi perché ammiratore dei romanzieri russi, e il celebre Gandolin, messosi da tempo in luce con un foglio satirico. La carovana Zanardelli di Giuseppe Lupo è un romanzo corale, fondato sulla perfetta distribuzione delle scene e dei contrasti, capace di far vibrare la scrittura senza deformarla. Una scrittura in apparenza cronachistica e lineare, ma vergata di insidiosi occhieggiamenti, che affronta la realtà e quella piega d’enigma che presto l’allarma, la pienezza delle descrizioni e le lacune, le immagini locali, coreografiche, e le penombre, i gesti clamorosi e i sentimenti segreti. Anche i personaggi, ora stabili e bene etichettati,

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NARRATIVA

ITALIANA

2008

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ora sfuggenti e come sospinti verso più fervidi e maligni risvolti, entrano a far parte di un contesto sferico, appagante, dando tuttavia l’impressione di occupare uno spazio destinato ad altri. Leggero ma resistente, un filo di sorriso vivifica qualche rapido ritratto (ecco una ragazza sognare una vita «fra romanze alla tastiera e versi dannunziani recitati sulla veranda» e un finanziere rassomigliare a un «furetto addestrato a correre nei labirinti dell’economia») miscelandosi con i minacciosi avvisi di un complotto: un piano segreto che lega una strana squadra di turisti a caccia di emozioni: Mefisto, giocoliere venuto dal nulla; un’organizzazione internazionale anarchica; un produttore di liquori che vagheggia l’autonomia della Basilicata; e anche «altre cose che si inabissano nei silenzi del viaggio». Frattanto, in mezzo a un mondo antico, immobile nei suoi ritmi e come farneticante nella novità della visita presidenziale, Zanardelli appare un po’ stranito, guarda con il «sorriso leggero di un fantasma», allarga le gambe come un «arlecchino senza fili», resta ipnotizzato dal paesaggio che attraversa in carrozza così come dagli occhi di una ragazza e ha le pupille «prigioniere della morte». Filigranato nel rutilante protocollo del viaggio si snoda un racconto che, spaziato dal reportage all’intrigo e all’avventura, dall’indagine storica al respiro di un cantare e a qualche movenza gotica, imbocca pure soluzioni favolose (un centro abitato è paragonato a una «città d’oriente, con le tegole al posto dei campanili»; una nobildonna ricorda una «divinità uscita da un sogno mattutino»), si esalta in una «baraonda di voci e di coriandoli» e fa del documento una scia di effetti strabilianti. Sospesa, un’ala di malinconia chiude su tutti un silenzioso epilogo.

Il sogno del maratoneta di Giuseppe Pederiali Fin da ragazzo a Dorando Petri piace correre «perché solo allora gli sembra di sentire la terra». Corre da sempre, per sbrigare le faccende domestiche, andare a scuola, fare le consegne come garzone della pasticceria, a Carpi, in cui lavora. A questo atleta leggendario, che nella Maratona delle Olimpiadi del 1908 crolla a un passo dal traguardo mancando la vittoria per squalifica, Giuseppe Pederiali dedica un romanzo corposo, analitico che non sfiora i fatti, non insegue modi allusivi, ma ricostruisce figure e ambienti mediante una serie di sequenze spaziate dal resoconto spicciolo, e talora assestato sul grigiore quotidiano, all’invenzione sollecitata da un brusio nascosto di forme animate o addirittura addestrate a deviare la linda ricostruzione biografica verso i margini di una contenuta seppur indocile riflessione sull’esistenza.

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GIUSEPPE AMOROSO

Con Il sogno del maratoneta l’autore si muove sul piano naturalistico segnato da Marinai, trattando la materia con mosse sicure ed esprimendo con chiarezza il proprio punto di vista, lontano dalle seduzioni dell’ignoto. Si adotta una registrazione senza scosse, una sorta di stilizzazione neutra che intende favorire la leggibilità operando una tecnica di frantumazione sulla tenuta lunga del discorso narrativo e raccogliendo la tensione in nuclei deputati a imprimere una immediata spinta comunicativa. Si mira subito a dare pienamente il volume di determinate realtà (gli anni giovanili, le prime gare, la frenetica avventura americana, il trionfale ritorno in Italia, la successione delle vittorie, la fine), mentre molti episodi restano volutamente irrisolti, aperti a possibili prosecuzioni. Una serie di schegge in ognuna delle quali il ritratto del personaggio cresce con un nugolo di vicende collaterali che spingono il paesaggio della provincia italiana verso inedite prospettive d’oltreoceano. Intanto, si presentano alcuni volti veri dell’epoca (il giornalista Luigi Barzini e il poliziotto Joe Petrosino, numerosi corridori, attori celebri come Osvaldo Valenti e Luisa Ferida) e occhieggiano clamorosi casi giudiziari (come il processo Murri) e le cronache di grandi eventi, dal funerale di Lenin alla guerra.

Il segreto tra di noi di Gianni Farinetti Raccontando, in Il segreto tra di noi, la saga di una famiglia contadina, Gianni Farinetti ora orienta una ripresa panoramica su un complesso intreccio di vicende dislocato lungo tutto il Novecento, dando l’impressione di voler privilegiare le storie; ora richiama in primo piano più spinosi dettagli, deviando le linee del romanzo per lasciare spazio a una scacchiera di tessere, indizi, cellule isolate, trucioli. È una macchia grigiorossa, in un caldo mezzogiorno delle Langhe, la cascina del Valèt dove si svolge l’esistenza delle sorelle Anna, Carla e Lena, di Giovanni, l’ultimo discendente, e di una folla di personaggi, alcuni dei quali immobili nelle foto in bell’ordine sulla credenza. Il paese vicino, con in alto il castello, i boschi e i prati a luglio colmi di farfalle, i casolari sparsi, il fiume Bormida, il cimitero in salita: la pagina rallenta, indugia sui nomi e sui colori, sembra ritmare un tempo sfaldato nell’irripetibile battito dell’ieri. Poi riprende, delicata e curiosa, il suo fraseggio, tra istanti di dolore e il sorriso che sbuca dai ricordi più affettuosi, tra piccoli e grandi eventi e desideri e sogni. Esiste un che di effimero, febbrile, da cui discende sulle azioni un velo di malinconia. Alcune scene serene sono come ritagliate da un fondo mi-

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NARRATIVA

ITALIANA

2008

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naccioso, oscuro, accerchiato da ombre indefinibili che lente si avvicinano. Le voci, i gesti, i primi amori vanno via nell’anonimo saluto di un’estate, nel buio di un improvviso temporale, nel gelido silenzio di un inverno. Il sortilegio lento di quei luoghi, il cielo vuoto, enorme, inaccessibile, la natura adirata, una convulsa vicenda antica che fa pensare a Fenoglio e violenze e orrori della guerra, cambi d’identità, stupefacenti rivelazioni e anche il segreto di una Topolino in regalo e una signora che ha in fondo agli occhi un punto di buio sospeso.

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Spiaggia libera Marcello di Igino Domanin Soffre di astenia, di vertigini; superstizioso, è ossessionato dalla paura della morte che condivide con la moglie, una «parodia» di donna ammalata. A squarciare l’inquieta e sofferente vita di Marcello, insegnante in un anonimo quartiere della periferia milanese, arriva, da parte del vecchio compagno di studi Panzeri, l’invito a tenere un corso di antropologia della comunicazione in una piccola università svizzera. Una struttura avveniristica, altamente tecnologizzata e immersa in un paesaggio che sembra spiare gli uomini, lo attende, mentre l’inflessibile direttore del dipartimento, dal tono pragmatico, gli prospetta il suo grande progetto di ricerca incentrato sul ruolo delle neuroscienze. Spiaggia libera Marcello, esordio narrativo di Igino Domanin, addensa atmosfere enigmatiche, momenti di allertato distacco dalla realtà, un senso di esistenza infinita e primordiale. Figure misteriose incalzano pure nei sogni di Marcello, in un vorticare di simboli, implacabili segnali trasgressivi, silenziosi messaggi. Mutato anche nell’aspetto fisico, Panzeri, un tempo filosofo, approdato senza un apparente motivo a una nuova dimensione culturale, forse nasconde qualcosa sotto la sua sicurezza e l’interessamento generoso. Intorno, la natura pare finta nell’assurdo dissesto delle luci che deformano, sovrapponendosi, ogni visione e stabiliscono un «accordo magnetico» con il vuoto dell’anima del protagonista. Gli oggetti sono presenze geometriche, le acque del lago vicino inviano continue vibrazioni: tutto il contesto ha spazi vitali, tentazioni romanzesche fin dentro quelle aree saggistiche e quei proclami ideologici da cui il racconto riemerge ogni volta con la sua scrittura notarile e immaginifica, sensoriale, pronta a far sprizzare una fantasmagoria dagli eventi e a indirizzare un malinconico sguardo su un mondo in cui «anche le foglie che cadono posson far rumore».

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GIUSEPPE AMOROSO

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Col cuore in moto di Roberto Nobile Un piccolo paese di Sicilia negli anni Sessanta. Un giovane che ama appassionatamente le moto, sa dove trovarle parcheggiate nelle strade. Le ammira come si può ammirare una donna e le rende belle con lo sguardo. Appena ne sente la «voce», subito le distingue a una a una. Nasce dal trauma mai superato di avere un padre fatuo, la passione-transfert dell’io narrante di Col cuore in moto di Roberto Nobile, un romanzo che chiude nel brevissimo respiro di capitoli secchi un microcosmo di provincia di figurine fragili, dolenti, incollate su un lembo di terra spinto a continuare nel largo mondo. Dallo «scandalo» di una donna motorizzata a un ragazzo che corre rombando all’interno della sua casa; da don Vito, che va a messa portando la moglie troneggiante sul sedile posteriore, al corridore dal casco d’argento o rosso si articola una scacchiera di irregolari che il sorriso dell’autore dissemina nel fulmineo fraseggio di immagini stravolte. Elettrizzata, la cronaca di un’incolore provincia diviene un incrocio protervo di destini, un luccicante mosaico dalle tessere devastate che si incurvano e sprofondano nel vuoto, cancellando il disegno. Compie temerarie traiettorie un vespista sprezzante, mentre il protagonista, che «coltiva rabbia» con la sua Lambretta truccata, ha voglia di fuggire dall’angusta sua terra solitaria di emigranti e anche dalla sua stessa età. Via dalle desolate campagne e dalle beghe di campanile, dalle morti cercate in chiassose esibizioni, dai trucchi degli sconfitti e dalla prima gara avventurosamente vinta per il ritiro di tutti i concorrenti. Ma riprende il richiamo dell’ebbrezza della velocità. E lo studente timido, occhialuto, corre, cade e intanto vede il suo tempo tramontare e salire sulle nuvole, come nel finale di Miracolo a Milano, tanti suoi compagni pronti a decretare la scomparsa di un’epoca felice. E rimane, così, in una piazza deserta a girare in tondo nella vertigine di un sogno. La dura realtà lo sorprende con uno schianto sull’autostrada per Messina: la pioggia e il mezzo che sbanda e che si avvita, divenendo un «vestito» che non si potrà più indossare. Tocca alla scrittura, «grande officina di riparazioni del passato», la facoltà di rimettere tutto al posto giusto, di riportare il quadro, dal quale l’io è schizzato in un perverso movimento d’urto, alla serenità di un paesaggio quieto, a una «meraviglia» di campi e di vento.

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Lo spazio bianco di Valeria Parrella Napoli: i capannoni delle conserviere soffocano l’aria; i giardini rifatti appaiono già vecchi; i tram sono bloccati dalle auto sui binari e le ambulanze ferme nel traffico; cartoni e materassi degli immigrati ingombrano i marciapiedi; una strada si arrampica dietro un altissimo palazzo di compensato spuntato in una notte; la sopraelevata passa sui casamenti facendo ombra ai balconi; case crescono prima che arrivino le strade. È una cornice confusa, desolata che ha radici antiche e che sotto vari aspetti ricompare negli sfondi di una città in grado, tuttavia, di stemperare un disagio nel milione di volti degli abitanti e di esultare in un pomeriggio glorioso e in un troppo azzurro. Maria è sola, ha quarant’anni e ha alle spalle l’amore distratto di un piccolo uomo, figura lontana «senza prospettiva in un mosaico bizantino». Insegna materie letterarie in una scuola serale ad allievi cinquantenni, va da anni da una psicologa per inutili sedute e dà alla luce una bambina prematura. Forse destinata a non sopravvivere, la neonata è una forma senza immagine, in terapia intensiva, mentre la madre è un «buco vuoto» che ogni mattina prende la metropolitana per andare a visitarla. Lo spazio bianco di Valeria Parrella è un romanzo forte, impetuoso, aspro e, insieme, quieto e ripiegato su una sorgiva vena di dolcezza che accarezza i sentimenti meno esposti: quelli che stanno sotto le parole gridate, risentite, la denuncia civile, la posizione critica sulla società. Sorprendentemente irregolare è il passo della frase, il ritmo della confessione, l’avvicendarsi degli interlocutori nei dialoghi. È uno scantonare pungente della linea narrativa che cerca zone oblique, slittamenti e ritorni quasi a voler rappresentare il disordine di un’esistenza uncinata d’improvviso dalla sorte e il seguente inserimento delle comparse fissate su un nastro che scorre a diverse velocità. Al corteo degli altri va l’attenzione della protagonista, mobile, pensosa, affannata, pronta a rintracciare le mosse, gli angoli giusti, pure i minuscoli percorsi di uomini consistenti o effimeri. La tecnica di scrittura che guida il rapporto di Maria con il mondo intorno mette in moto ora un impatto diretto, veloce e privo di palesi raccordi strutturali, ora un incrocio di visi che interferiscono, si disperdono, si riaffacciano. Presa dal ricordo della giovinezza trascorsa in famiglia in una provincia operaia, la donna è costantemente in primo piano: puntuale al suo posto vicino all’incubatrice, impara a decifrare il linguaggio delle macchine e a entrare in confidenza con la morte. Fa sogni chiari per ingannare l’angoscia, ha la sensazione che tutto debba ricominciare lì dove si è interrotto e crede di più nelle sconfitte perché sa affrontarle meglio. Intanto si inten-

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sificano gli scenari della città che prende una dimensione più ariosa e un po’ si identifica con le pallide speranze di Maria. E continua l’alternarsi di ieri e oggi in una sfera di pietà e ragione: la morte dei genitori, i concitati giorni dell’ospedale segnati dai soliti riti e una percezione nuova delle cose, lo spazio bianco che interrompe e apre un altro corso, un’altra dannazione.

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Minotauro di Luca Desiato Maligna si allunga una cometa nel cielo di Roma, segnale di influssi perversi che risveglia indefinibili inquietudini nel quarantenne Sebastiano, appassionato studioso di storia antica il quale ha appena acquistato, in una delle tante librerie frequentate, una cronaca settecentesca della Capitale, attribuita all’abate Valesio. L’assassinio del libraio, il biglietto con un messaggio tenebroso trovato fra le sue dita e il rogo che devasta il locale fanno sorgere il sospetto di una relazione con il manoscritto valesiano. E così Sebastiano, la sua bella fidanzata brasiliana Anapaula e l’amico José Vicente, ex prete, filosofo, antiquario e cuoco abilissimo, residente in una bizzarra villa colma di cimeli, nell’agro laziale, sono subito al centro di un sinistro piano. Un pericolo insensato, oscuro, nereggia negli avvertimenti che si susseguono inscenando fatti di sangue e nascondendo la presenza di una setta satanica, chiamata i Parvuli Rossi. Thriller di solida fattura, capace di mescolare l’insidia più velenosa con un’articolata dimensione culturale e l’avventura battente con una ragnatela sulfurea, Minotauro di Luca Desiato scandisce una storia aguzza con la rotonda scioltezza sonora di una narrazione che si vieta ogni perdita di contatto con il filo principale, potenzia risalite di episodi stupefacenti, recuperi verticali di un passato sepolto: un reticolo di gesti sospesi, orlati di abbagli e di emblemi anche nel più terreno attraversamento del reale e fermati spesso laddove attende un sortilegio e pure il brivido che si prova nel leggere i destini degli uomini giù nell’imbuto del tempo, nel loro ripresentarsi, sprofondando, con gli echi, le memorie, le testimonianze. Certi brani latini, strani e spesso incongruenti, della vetusta cronaca designano sulla limpida superficie del Settecento uno schizzo d’ignoto, annunciano in modo sibillino il ritorno, fra tre secoli, di un essere malvagio, il Minotauro, nascosto in uno sprofondo della città. Spauracchi, folclore cattolico di un’epoca, una beffa, o piuttosto un tremendo segreto, un’insidia da non svelare ai contemporanei? Sette segni, che privilegiano immagini sacre e luoghi di culto suggeriscono le tracce per scoprire la Bestia: seguendole i protagonisti finiscono in una trappola.

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NARRATIVA

ITALIANA

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Ma forse è il Minotauro che li insegue. Parlando di significati reconditi ed epigrafi sontuose, di analogie e congetture e astrazioni, di ricorrenze giornaliere e siderali, Desiato squaderna una Roma fantasmagorica che galleggia sulle sue rovine, maestosa e fatiscente, ricca di monumenti e di «alberi cavi che rispondono a una voragine». Il senso figurato del romanzo ha il suo stile adeguato. Una prosa che canta e che rimbalza con parole stremate nell’angoscia, flessibili, sferzate, pronte a un contrappunto lesto a raccogliere dei suoni la meraviglia di un silenzio atteso: lì si ferma il contatto con i sottintesi, le visioni, le voci che cercano altre voci e che insieme fanno il racconto e il suo risvolto d’ombra e di paura, di intraviste forme in cui il mistero innesca anche il suo fondo di sorriso. La pagina si allarga a una misura sconosciuta al fraseggio dei fatti, fa scivolare le cose nel commento e riporta il commento alla stregata aria del racconto. C’è qualcosa di cupo, di ostentato, macchie di buio intenso lavorate dalla sapienza più che dal prodigio per rappresentare quel male che non muore mai.

L’acquario dei cattivi di Antonella del Giudice Una villetta anonima, a schiera, su un mare altrettanto anonimo, verso la periferia. Qui si incontrano i quattro personaggi di L’acquario dei cattivi di Antonella del Giudice. Sono ex compagni di lotta che a lunga distanza di tempo mantengono i loro nomi di battaglia: Mosci, dal volto emaciato; Terri, «infossata nel lardo»; Fioreligio, dal volto rotondo, lunare, ora magistrato; il gigantesco Giancio, condannato in contumacia. Tra di loro ha inizio una diatriba infinita di cui non è possibile trovare il bandolo. Risalgono lontani episodi drammatici, ricostruiti da passioni non compiutamente azzerate. E si addensa una materia tumultuosa, sonora, che la scrittura amplifica con il suo ritmo regolare, franto, a intermittenze, ora pronto a far vibrare anche un solo dettaglio rovente, ora a risolvere tutto in un’appena accennata atmosfera, a una fase di sospensione. Il tempo sembra non avere misura, la luce «drogata» ricava dai volti il massimo della significazione, dell’espressività, lega l’ieri all’oggi in un flusso ininterrotto, uguale e ipnotico. I contorni delle cose si fanno confusi, a volte pure esplosivi. La realtà entra in un labirinto di immagini impazzite, indominabili, in arsi, prese da una tensione così forte da cancellare ogni identità, rilievo, senza tuttavia danneggiare i ritratti dei personaggi. Le ferite di un tempo riardono in questi reduci dal buio, che si illudono di ripercorrere la mappa dei propri desideri. A sprazzi, suscitati talora da una stasi della conversazione, da un incrocio di parole, da una perplessità emergono le diverse

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vicende personali come espressioni crude di esperienze dannate. E la pagina obliqua proietta l’attenzione dei fatti su uno specchio deformante. Spigolosa e venata di controcanti, conquista tutti gli spazi portando negli interventi dei protagonisti le più disparate sollecitazioni del racconto. «Pensionati del partito armato», i quattro giocano a rimpiattino con i ricordi parlando dell’uccisione misteriosa del loro capo riconosciuto. Terri vuole ancora combattere, presa dal rancore; Fioreligio è come perplesso, ormai traghettato nella società borghese; Giancio viene dal Sudamerica, ove fa l’attore di telenovele; Mosci, gravemente ammalato e in attesa della morte, ha la massima aspirazione ad essere «nessunonessuno». Il tempo, intanto, è un orologio rotto, truccato; i personaggi tentano di travestire di sé ogni assenza; la pioggia che assedia la casa diviene metafora della prigionia; l’autrice continua a richiamarsi ad una sorta di lettura maiuscola attraverso procedimenti stilistici fondati su un bruciante riverbero lessicale: scene atone e personaggi minori sono sollevati dal margine; qualcuno sembra spiare dall’ombra; le storie, quasi senza freni, dilagano; una voce fuori campo fa piovere sul testo un cascame stravolto di visioni e Terri rimane segnata da quel suo guardare il sole per rubarne la luce. Poi, il gran finale con il «tutto esaurito». Ricco di metafore, L’acquario dei cattivi esalta la tensione fra parole e fantasmi, in una struttura non orizzontale ma asimmetrica, tra dialoghi come rivelazioni improvvise e sequenze memoriali in cui i fatti ruotano intorno al loro centro più oscuro.

La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano Costretta dal padre a frequentare una scuola di sci, un giorno la piccola Alice si isola dai compagni, soldatini tutti uguali nella fitta nebbia, spinta da un bisogno corporale. La vergogna la induce a tentare la discesa da sola, ma finisce fuori pista, con una gamba rotta, macchia verde nel fondo del canalone, immobilizzata e avvolta dal buio che avanza. Mattia avverte come grave peso i disturbi di comportamento della gemella Michela, così, quando un compagno delle elementari invita entrambi a una festa, temendo di andare incontro a una miriade di cocenti delusioni, abbandona la sorella in un parco deserto. Poi, fra i suoi amici si ritrova come «un satellite che non vuole occupare troppo posto nel cielo». Preso dal rimorso torna precipitosamente nel parco ormai vuoto della presenza della bambina. Con questi due episodi Paolo Giordano dà il via a La solitudine dei numeri primi, un romanzo che affronta senza reticenze un’ardua, problematica materia di forte connotazione psicanalitica, sostenendola con un registro

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NARRATIVA

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stilistico apparentemente lineare ma molto rifinito ed elaborato e tale da restituirla ad un limpido scorrimento narrativo grazie alla sutura di certe parti disgregate, dalla costruzione a blocchi, a sezioni a sé stanti. L’autore non si preoccupa di contenere in una fluidità unitaria il racconto: vuole invece interrompere le azioni, suggerire, trasferire i fatti in zone tutte da immaginare, da ricomporre, a distanza di tempo, per decifrare un altro momento, un nuovo spazio vitale più carico, dove i personaggi sono immersi in situazioni diverse, corrose, però, da un male antico. È il marchio che viene da lontano, da quel trauma che i due protagonisti si portano dentro fin dalle drammatiche esperienze della fanciullezza. Crescono solitari, insicuri, incapaci di un naturale rapporto con gli altri, pieni di complessi e come avvolti dall’ostile disordine del mondo che sembra pedinarli, implacabile. I loro pensieri, densi, ombrosi si fondono con le immagini distorte di fuori nelle quali si rifugia un non so che di malsano, infido. Mattia e Alice si incontrano, a distanza di tempo, quasi venendo da un’aria trasognata, cementano un’amicizia «difettosa e asimmetrica» e un amore che li avvicina e li respinge. E sono simili a quei numeri primi – definiti dai matematici primi gemelli – che, divisi sempre da un numero pari, danno l’impressione di un accoppiamento causale, destinato a perdersi nel nulla. Inseguiti dalle proprie ossessioni, dall’inerzia, lei sta a guardare i mobili coprirsi di polvere, lui per anni e anni attende un segnale che lo riporti indietro. Uniti da un filo invisibile e separati da lunghi silenzi, non si incontreranno più: ma ognuno di loro avrà trovato l’uscita dal groviglio.

I sentieri del cielo di Luigi Guarnieri Villaggi distrutti, case trivellate dai proiettili che si decompongono al gelo come «dinosauri estinti», strade colme di macerie: questa è la Sila che il maggiore Albertis percorre inseguendo con il suo squadrone di cavalleria il bandito contadino Boccadoro intenzionato a mettere a ferro e a fuoco l’intera regione e a tener viva la rivolta contro l’appena nato Stato italiano. Siamo nella Calabria del 1863, tra villaggi fantasma, colonne di profughi alla deriva, accattoni e sbandati in groppa ad asini, editti e fucilazioni, massacri e torture, mandriani spesso alle dipendenze delle bande, una burocrazia corrotta, grandi famiglie terriere gravate dalle tasse e invise ai dipendenti. Pascoli erbosi e fitti boschi, cime innevate e dirupi, pianori allagati e sentieri impervi sono il paesaggio incantato e solenne sotto un cielo vuoto, sfregiato di notte da «asteroidi in fiamme».

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Cupe leggende si alternano con i profondi silenzi e l’inaccessibilità minacciosa dei luoghi in cui si nasconde l’astuto, invisibile nemico: la tensione cresce di pagina in pagina nel romanzo di Luigi Guarnieri, I sentieri del cielo, in cui una scrittura cosparsa di enigmatiche schegge illustrative palesa la volontà di suscitare un allarme nelle cose e soprattutto di scoprire il mistero che in esse germina o che talora è un residuo, un’eco di qualcosa di oscuro già svanito ma da cui sorge un richiamo nuovo di buio. E proprio in questa esplorazione delle tenebre la parola si arricchisce, conosce le superfici levigate e il frantume che innesca percussioni di immagini stravolte, grumi che non si sciolgono, mimetici di un realismo tagliente e aspro, e aperture discorsive, esuberanti. Ne vien fuori un romanzo dalle tinte forti, spietato e generoso nello scrutare le pieghe remote di una civiltà fiera e barbarica, tenacemente radicata nelle sue millenarie tradizioni, povera e superstiziosa, arretrata e fantasiosa, che nutre nel seno licantropi e stregoni, sognatori e sopravvissuti a ogni crollo. Fulmineo nel passare da un tema all’altro (compaiono per accenni anche rivoluzionari trattamenti scientifici e non mancano approfondimenti dei molti problemi sorti dopo la fine del Regno delle due Sicilie), da azioni di inaudita ferocia a descrizioni lente di quadri di esistenza rurale, il romanzo non tralascia istanti di abbandono ai metafisici segnali di un universo rigato da una scia di «polvere cosmica»: stelle si suicidano lontano; una luna piena e scintillante «annega stelle e pianeti nel riverbero metallico del suo splendore»; la natura è pronta a chinarsi sui giorni con i suoi segreti che sparge in inquieti bagliori di inganni, in luminescenze selvagge e dolorose. Indimenticabili figure (l’istitutrice Elena, la giovane nobildonna Angelica Pietramala, il tenente Ranieri) si ritagliano una sorta di controcanto innocente in quello spettacolo di orrore nel quale si specchia una terra che si è sempre trovata «dalla parte sbagliata della storia». Una terra dove la verità e i sogni si confondono: qualcuno dice che Boccadoro, il tanto temuto bandito, è morto da un anno.

Vicolo verde di Silvia Di Natale Una scrittura calma, ondosa, ricca di fraseggi lenti, di pause aperte ad inglobare piccoli fatti che vengono da lontano, come da una remota zona di dimenticanza ma che presto si affacciano creando una specie di assillo, una pressione di vicende collaterali o subordinate alle quali si deve dare ascolto. Il ritmo ha qualche sussulto, mantiene in prevalenza la sua andatura costante, attento a tenere in campo il corso privilegiato del racconto, però

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NARRATIVA

ITALIANA

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non esita a raccogliere gli stimoli che giungono dal periferico gioco delle voci, dai contrasti delle tante nozioni che giostrano intorno alla protagonista di Vicolo verde di Silvia Di Natale. Il bianco paesaggio andaluso affondato nella sua malinconia è l’ouverture di una storia che si innesta su modulati assalti di memorie da cui i vari tempi della vita della donna prendono un unico suono affabulante, filiforme, diffuso, evocatore di una folata inquieta di figure, visioni, trasparenze di volti, luoghi che sembrano specchiare una storia familiare in un ‘oltre’ tessuto di segreti, ombre, radiose giornate. Sociologa, reduce dalla Spagna dove si è recata per un’inchiesta scientifica, la donna vive a Ratisbona, ha un marito e, in attesa di un figlio, torna con i ricordi alla sua infanzia e soprattutto all’amore della madre piemontese e del padre, un ufficiale siciliano. Sospinta da un gusto anche prezioso dell’illustrazione, Silvia Di Natale si affida agli aspetti spettacolari dei dettagli, anche di quelli ininfluenti ed effimeri: cose minime, oggetti comuni, personaggi opachi, aneddoti sono spostati dalle loro sedi ordinarie e sospinti in un teatro a prima vista spento ma in fermento di umori e investito da una sotterranea pulsione che favorisce il crescere di un’atmosfera flessibile, inquieta. I personaggi non sono affrontati subito, bensì lasciati intravedere a poco a poco e fatti indugiare in gesti microscopici e contro lo sfondo stipato di presenze che ne evidenziano un profondo senso di solitudine. Un troppo pieno che esalta il vuoto. Ciò che circonda gli attori non protegge ma sfiora e distribuisce le esistenze in un tempo soffuso che d’improvviso s’impenna, si spezza, si contrae chiudendo gli episodi come dentro una cornice («Vivevo, vivevamo, in uno spazio circoscritto...»). Filtrate da una lucentezza di scrittura che richiama un po’ quella adamantina di Lalla Romano, le immagini di una volta si allungano fino al presente, incalzate da un destino che «scherza con i numeri e le date». Arrivano la morte del padre e, poi, dopo più di un decennio, quella della madre e infiniti istanti di tormento e, insieme, di serena adesione alla vita che dilaga in mille forme. E v’è una casa che, avvolta dalla musica di un piano, si affaccia su un vicoletto che appare silenzioso rifugio: fragile difesa, però, con un male che ha ghermito la madre della protagonista e ora si ripete piombando su di lei, implacabile. In alto, sopra il vicoletto, un volo di rondini impazzite. I colli intorno «grondano mestizia». Il pianoforte cessa di suonare. Ma resiste, nell’attonita quiete delle cose, ancora un «metro» di sole.

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Il buio di notte di Giampaolo Rugarli La società italiana di questi primi anni del secondo Millennio, degradata, confusa, priva di ideali e senza il brivido dell’incantamento che, se astrae dalla vita, regala almeno un sortilegio di illusione. Qui tutto si spegne, la «vita [...] smette di vivere e si conchiude nel pensiero», si fa arida, cattiva, tesse intrighi, ricatti, inganni e non ha alcuna speranza di cambiare. Ma forse questa vita costruita così male è a sua volta paradossalmente innocente, poiché tutto procede ma come in un disguido e a questo mondo i fatti accadono spesso solo per «stupidità». Il buio di notte di Giampaolo Rugarli assembla i volti di una realtà cinica e ostile alla quale lo scrittore si oppone con tecniche di scomposizione e parcellizzazione che lo inducono a osservarla e raccontarla attraverso un’ottica implacabile e pur deformante, in un mixer di denuncia e sorriso, pietà e condanna. Tale disposizione porta a una prosa martellata, densa, irta di spigoli e riflessa in controcanti d’onde malinconiche, insinuante e carica di colori violenti. Una prosa frantumata e arsa ma anche veloce e comunicativa, pronta alla sentenza lacerante e sapida e paradossale e poi chinata a risentire se stessa, come in un bisogno d’eco e di rincalzo. Fortemente espressiva, questa scrittura non si appoggia sull’uso anomalo delle immagini, sull’oltranza del costrutto che forza il senso, ma sulla profondità del ritmo teso a collegamenti di improvviso impatto, naturali e fervidi, e piegato verso profondità che si allargano come cerchi concentrici. È la curva superficie di una pagina sotto cui vortica l’oscura leggerezza dell’abisso, la voragine inquieta delle cose che sappiamo perdute e che il destino ridisegna per noi a ogni svolta. Sul piano obliquo dell’Italia di oggi Rugarli fa scorrere i tanti personaggi del suo romanzo intorno a Mario Rossi, segretario del commissario Benincasa. Siamo in una Milano plumbea, fatta di cemento e di asfalto, di pietre e d’acqua e specchiata nei suoi monumenti dall’architettura senza fantasia. Una città grigia nella quale scoppia il caso del vescovo Azimont, minacciato di morte dai messaggi di un ignoto «Arcangelo Castigo». Pubblicitari, banchieri, politici, professori, donne equivoche, musicisti passano in un’atmosfera torbida, venata di infausti presagi e come sfrangiata nelle vibrazioni di un infinito tempo, metafisico regno di impalpabili ombre. Deviazioni dal filo del racconto, sottolineature ammiccanti di determinati episodi, richiami letterari, abbandoni alla dolcezza dei ricordi e ritornanti insidie indecifrabili si alternano nel groviglio dei misteri in cui si dibatte Mario Rossi, costretto a vivere in un mondo non suo e a transitare dentro storie che non gli appartengono.

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Da ogni dove, dai più impensati luoghi di peccato e violenza sembra levarsi un bisogno di favola, un esorcismo contro la dannazione e la morte. Ma ricomincia sempre il buio della notte, la sospensione di tutto che nessuna convenzione romanzesca può risolvere. Salvezza è forse la parola che trasforma in racconto l’amaro dei delitti con la deriva che viene dal bisogno di affetti. V’è un procuratore che lascia la nebbia di Milano per una Napoli dal cielo pieno di stelle. E v’è il protagonista che sa domandare la felicità solo alle carte. Nei giardini alberi senza foglie «si porgono come forche dipinte di nero».

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La divina truffa di Sergio Campailla La Rocca di San Leo in una notte di luna malata e di misteri. Vi è rinchiuso Alessandro, conte di Cagliostro, l’Impostore, «esperto in ogni infamia», come lo definisce il governatore della fortezza, anche lui a suo modo un prigioniero. Aleggia un’aria di complotto: lettere anonime dalle parole alchemiche alludono forse a una probabile fuga del condannato. Ha inizio, in un’orrida cella in cui Cagliostro e l’Inquisitore inviato dal Pontefice si fronteggiano, il poderoso romanzo di Sergio Campailla, La divina truffa: una costruzione narrativa di vasto orizzonte giocata su un mobile assetto spaziotemporale che permette l’articolazione unificante di uno straordinario spettacolo di luoghi ed eventi, culture e personaggi. I dialoghi frequenti dalla modulata tonalità e incidenza, le azioni tagliate al momento più intenso delle loro spinte, la vocalità di fondo (del testo, organismo pulsante e riflesso nel suo cristallino specchio sapienziale) interagiscono in una tessitura stilistica spaziata dall’ascolto di impalpabili fruscii di sfondo ai pensieri sfumati nella direzione più consona alla loro funzionalità. Si susseguono episodi, sovente dotati di dispositivi autonomi, e poggiati su vari livelli da una sintassi di racconto infinito e, insieme, essenziale, che intende solo porre in evidenza un dettaglio, un atteggiamento, una situazione indicativi, accogliendo con naturalezza l’onda anomala del flusso dei fatti, quel tornare giù giù, verso le radici. Si sfruttano l’impasto dei contrasti (di qua il conte, nella sua torva e torbida solitudine, di là una civiltà settecentesca che tramontando rinasce con fervore di modernità), gli impulsi di certi primi piani magnetici, l’implacabile dominio dell’autore capace di tenere solidamente in asse la straripante materia. Abile nel dilatare la propria leggenda fino a darne una lettura allegorica («Io divento ciò che desidero...»), Cagliostro è visualizzato in una discesa nel passato: da Roma, «antro del papismo», a Parigi, dove è coinvolto nello

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scandalo di una preziosa collana scomparsa; da Strasburgo al ducato di Curlandia; da Malta, vetrina di atmosfere ambigue e seducenti, alla Palermo dei quartieri poveri dalla quale il giovanissimo Giuseppe Balsamo (il vero nome di Cagliostro) desidera evadere. Orfano, destinato a crescere in fretta, vive di espedienti, ma un giorno guarda per l’ultima volta il «budello orribile» della stradina di casa sua. È il punto di partenza di una storia rovesciata da una felice trouvaille narrativa e ricondotta circolarmente al suo principio, alla svettante Rocca di San Leo, in cui l’Impostore è segregato da anni, lontano dal mondo e cancellato dalle cronache, ma ritornante come un fantasma alla memoria popolare. E nel «budello terrificante» (si ripresenta la parolasegnale di una dannazione) dell’angusta cella del dolore l’uomo è trovato cadavere. Ma il corpo scompare e qualcuno dice di aver visto strisciare una serpe all’ingresso della fortezza.

Le radici del tempo di Giuseppe Bonura Scrive di sé per scoprire le ragioni di uno spaesamento, per disegnare le «figure» del proprio destino, ingannare la noia e anche aggrapparsi alla scrittura, «fragile ramo» delle sue illusioni. Giuseppe Bonura si confessa in un corposo romanzo autobiografico in cui il lettore assiste al passaggio frequente da un’intonazione lirico-riflessiva a una incardinata direttamente nella realtà storica e sociale dell’Italia dagli anni Trenta ai favolosi anni Sessanta. Nel frattempo, attraverso il costante trapunto espressivo di un sorvegliato sguardo, il flusso molecolare dell’esistenza quotidiana diviene sostrato di ogni episodio, dando a Le radici del tempo un millimetrico conteggio delle occasioni che trasformano il racconto in un flessibile registro di emozioni e la più esile nota in una scala musicale. L’autore sa descrivere e fulminare la stagione dell’infanzia a Fano e conosce pure il saliscendi delle cose chiamate ad aprire nuove piste. L’attenzione è insieme rettilinea e circolare, scova i colori di un ambiente povero e dimesso, ma ricollega il grigiore a uno sprazzo di misteriosa luce palpitante, un piccolo segnale al filo rosso che comincia a svolgersi da una sorta di «terra di nessuno» (quella delle aspre battaglie politiche che dividono il Paese del primo dopoguerra: si parte però da lontano, dall’Italia fascista) trapassando una rete che «non trattiene che malumori e inquietudini». In un mondo diviso tra umili e potenti, ville dalle grandi e invitanti soffitte e il quartiere popolare in cui abita, il protagonista si sente spesso un intruso: incantamenti e paure costellano i suoi anni verdi e un’attonita malinconia per le ingiustizie della storia. È un sentimento soffice e felpato

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che si fa umore della pagina smussandone gli urti, le impunture polemiche, i ripiegamenti sarcastici. La parola scivola rotonda, levigata, trova la direzione adatta a narrare gli eventi e a stabilizzare una misura fra il «lirismo» dei paesaggi e la «prosa» dell’osservazione sociale e di costume. Dalle pieghe del narrato emergono volti indimenticabili (la perfida maestra con la sua brutalità; la giovane Silvana che interroga la «sordità impenetrabile del cielo») i quali finiscono per creare una marea di voci montante e poi distesa in un diminuendo per lasciare spazio all’io. Suoni, dialoghi in controcanto o gridati, sfondi avviati a essere un paesaggio mentale danno a questo romanzo ruvido e dolcissimo risonanze lunghe e concretezze pietrose, le geometrie grumose del romanzo e le promesse ipnotiche dei sogni. Dal buio spettrale di un interno alla radiosa melodia di un canzone, dalla passione per il calcio ai ricordi schermati degli amori, il racconto trascorre zeppo di imprevisti, tagliato nei punti nevralgici, con improvvisi affioramenti al presente e adagiato su una pagina ben definita, chiara, lontana dalle mode e disposta a slanciare i fatti nella loro consistenza. Le parole, che sono «parole e null’altro», si piegano a rappresentarli nel loro accadere.

H di Andrea Ferrari Julie, l’«angelo» della Volange, la ditta che offre ai clienti svariate possibilità di fruire del servizio della sveglia telefonica, ha una speciale voce accattivante. E Marcel comprende subito che non può perdere l’occasione di parlare più a lungo dei pochi minuti fissati dal contratto di abbonamento. L’amico Xavier, fermato per strada, viene accompagnato in un ordinato, luminoso ufficio dove Elecrantz, addetto allo smistamento della posta pneumatica, gli porge un foglio dall’incomprensibile significato. E intanto Xavier si accorge che al di là dei vetri di una finestra il mare è in discesa. Qualcosa di anomalo, di inafferrabile, una sorta di buzzatiana sospensione, circola sin dall’avvio di H, un romanzo che punta sul continuo scorporarsi e ricongiungersi dei piccoli fatti ai quali il senso di imprevedibilità che li dissemina in spazi mobilissimi conferisce un’atmosfera favolosa, un senso d’enigma, di obnubilazione. Tutto, in una latitudine spaziotemporale che sorprende ogni punto di riferimento, ruota intorno all’isola di H, incredibile lembo di terra diviso in due dai ritmi del mare e abitato da una folla di strani personaggi. Abile inventore di storie inverosimili ma pungenti e sempre vicine a essere concrete metafore della provvisorietà del vivere, Andrea Ferrari usa con disinvolta sicurezza il potere della parola che riesce a far succedere ogni cosa, convocare su un’immaginaria scacchiera le figure incredibili di un mondo

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GIUSEPPE AMOROSO

al limite dell’evanescenza, coinvolto in mosse di depistaggi, inclinato verso il buio e risospinto alla luce dalla snella chiarezza dello stile. Il filo logico che tesse le avventure tende costantemente a spezzarsi per riavvolgersi presto in una nuova, aggrovigliata matassa. Si incontrano un soldato che ha combattuto a Waterloo e un falsario che si improvvisa pittore: un’albergatrice dagli occhi intonati al colore della tappezzeria del suo locale e qualcuno che non è da nessuna parte; una cameriera che «viene fuori dalla sua ombra», seguita e preceduta da un profumo di mughetto, e un aviatore dilettante che sfiora i tetti delle case senza spostare una tegola. E circola il mistero anche nei nomi, un che di «intempestivo» che sconvolge le esistenze e rompe la catena dei destini. Il meccanismo dei giorni si spezza per un disguido, salta l’incastro al momento giusto e il mondo lentamente ricomincia a girare sul perno dell’assurdo. Stanze si specchiano in tante altre identità per effetto di riflessi e una mente non trova la «coordinata utile». Romanzo di luoghi in obliquo transito, di personaggi «intrappolati tra il sogno e la sua fine» e soprattutto di uomini che credono di «vedere quello che si aspettano», H fonde reale e fantastico, la storia profondamente vera di chi vede le cose senza vederle e si proietta nel tempo in un’infinita replicazione di sé. E cerca di mettere insieme pezzi di sogni per confezionarsi un sogno intero in grado di regalare un po’ di felicità.

Silvana di Turi Vasile È il personaggio intorno al quale ruotano le azioni ma è anche un’impalpabile presenza, anzi, quasi un’ombra che si confonde con le svanenti ombre portate via dagli anni in corsa e allungate nel tempo senza fine dell’amore: compagna da sessant’anni, Silvana, la moglie del narratore, murata nella malattia da cui si è fatta «rapire», poiché, stanca di tanti impegni, ora è «vicinissima e irraggiungibile». Guarda senza parlare: forse nei suoi occhi vuoti vola fragile un guizzo di luce. Il prima e il dopo di una storia non sono «allineati». Li investe un crepitio di suoni e di parole che sovrappone le immagini, le scardina dalle loro naturali caselle, le ricompone nel volubile specchio dei fantasmi. Con Silvana Turi Vasile racconta la propria vita rimodulando, anche sulla scorta degli echi di un’intensa attività letteraria, il filo di una cronaca personale che sgrana itinerari della memoria in frantumi di realtà e in riflessi di sogni, fra volti e sfondi e oggetti velati da una sottile angoscia e da una pensosa felicità di eventi. Si alza il sipario su antiche recite, riti e voci di una volta e sapori e nostalgie che contendono alle atmosfere una frenesia

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NARRATIVA

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di risvegli. Il contagio discreto della favola, presente nei suggestivi racconti della Valigia di fibra e di Morgana emerge da ogni angolo: è in una figurina di donna che svanisce, nei gesti del padre e della madre, in una dolce preghiera che consola, nei notturni rintocchi di campane, nel fruscio di chi cammina accanto, nel paesaggio che coglie di sorpresa. Dalla nascita a Messina, ai piedi di un faro chiamato San Raineri, all’infanzia nei cui ricordi ogni cosa si dilata; dall’adolescenza in Calabria, trascorsa a Crotone, fra gli spalti del castello, al lungo girovagare per il mondo, i giorni se ne vanno, vivaci e moribondi come sempre. Un «profumo di rose ormai superstiti» si riversa dalla pagine di qualche romanzo sentimentale in queste di Vasile per spegnersi in una miscela di dolore e solitudine e, per contro, di spazi del mondo laccato e indifferente, popolato di personaggi famosi. Scandito da una musica interna, cui fa da controcanto il vento delle remote stagioni, l’enigma in cui la vita si è sigillata va lentamente sciogliendosi in un incessante mutare di abitudini. L’approdo a Roma, l’amore di Silvana, il cinema, la verità cercata fra le cose riconoscibili, il desiderio di comprendere almeno il piccolo orizzonte di ogni giorno. Una scrittura tenera e pastosa, con risalti di luce incandescente e grigie trasparenze di crepuscolo apre l’album su una foto antica e poi lo scorre fino a un’altra scena: e lì, dal tenero risvolto del suo male s’ode improvvisa la voce «rauca» di Silvana.

La mossa del matto affogato di Roberto Alajmo Occorre non farsi trovare impreparati quando giunge l’ultimo momento della vita. Buttare tutto nella spazzatura, non lasciare alcuna traccia alle ricognizioni degli eredi o anche a eventuali perquisizioni postume. Ed è bene pure tenere pronto qualche opportuno pensiero nell’ora del decesso, quando molte persone si aspettano una frase all’altezza del morituro. Così Giovanni Alagna, impresario teatrale, si appresta a ripercorre il suo passato cercando il punto nevralgico che ha impresso alla sua vita un altro corso. Mossa dopo mossa gioca l’estrema partita che Roberto Alajmo affida a un linguaggio serrato, circoscritto nel suo amalgamato spessore, quasi intransitivo e fissato sulla dura lastra dell’autoriflessione, materico e squadrato da immagini senza bordo, incollate a un filo consequenziale implacabile, e anche lesto a sciogliere i coagulati segnali di concretezza stringente in un discorso fluido, orlato di piccole frange di paesaggio e capace di promuovere i suoi contati elementi portanti, i dettagli rivelatori a un respiro più lungo e avventuroso.

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GIUSEPPE AMOROSO

La mossa del matto affogato è un concentrico discorso puntato verso le radici per ripescare a uno a uno quei ricordi sepolti sotto il grigiore di una coltre spessa, allineati nel viavai mediocre delle cose di cui è fatta in prevalenza la sostanza dei giorni. Ormai è in atto un’accanita sfida che il protagonista (chiamato in causa dalla voce fuori campo dell’autore) manda avanti con la logica ferrea del gioco degli scacchi e contemporaneamente con la necessaria quota di finzione da cui dipende l’esito del gioco. Tutto appare calcolato e aggredito da inattese sferzate di stravolgimento dalle quali discende una continua violazione di tempi. La storia «un po’ gonfiata» scatta da lontano, torna all’ieri, riguadagna stagioni scomparse, svicola, si ricompatta nel presente, si dissolve nelle spente abitudini che assediano tanti anni di incerta fortuna. L’ascesa fra mille contrasti dell’«uomo-fisarmonica» (pronto ad «allontanarsi di spalle mentre parte la musica») nel mondo dello spettacolo, il disinvolto uso dei finanziamenti pubblici, le avventure amorose, il «capolinea» che lo attende insieme con la separazione dalla moglie, il difficile rapporto con le due figlie, la solitudine, l’assurdo gesto finale. Sono le fasi di una vicenda parabolica che in una tesa sequela di fatti perviene a una chiusa drammatica, preannunciata nell’avvio del romanzo. E verrà il buio in cui «non manca niente». Procedendo per complessi livelli di articolazione, il libro fa fiorire il giudizio sulle azioni, assembra e dissipa le trame, inserisce nuovi procedimenti di analisi psicologica (sottolineature improvvise di un comportamento, riprese oblique, insistenze speculative), fa avanzare una tendenza all’astrazione ma senza disperdere il reticolo delle circostanze che oscillano tra concretezze anche burocratiche e un’attonita aria di sospetto.

Assoluzione di Antonio Monda Trasparente, leggera, tesa quanto basta a pedinare il senso della solitudine e dell’abbandono, un’attesa, una scommessa, un sogno, la scrittura riesce a rappresentare, in immagini ben custodite nella struttura del racconto, lo sviluppo delle storie interiori dei personaggi, a sfiorarle percependone i brividi e a circondare il sorgere di ogni dubbio. Bastano un tratto visibile di penna, il disegno che si smorza in un colore, la curva appena incisa di un dettaglio per colmare il vuoto di uno spazio psicologico e far assistere all’entrata di un volto che diviene presenza certa con il suo bisogno di comunicare attraverso misteriose forme. Con il romanzo d’esordio Assoluzione Antonio Monda chiama due vite, quella del giovane avvocato Andrea Marigliano e quella del luminare del

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NARRATIVA

ITALIANA

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diritto, il professor Federico Scalia, a camminare insieme per un breve quanto immenso tempo. Praticante nello studio del Maestro, Andrea sa che ogni giorno trascorso accanto a lui lo fa «crescere senza invecchiare». E si apre una scia di impercettibili emozioni, curiosità, capillari ascolti delle voci nascoste, rapporti con le cose che scivolano ai margini e che hanno dentro il fascinoso tarlo dell’ignoto. A governare la trama di una morale di fondo è la dinamica aperta di un racconto che non cerca rifrangenze e modulazioni estetizzanti, bensì vuole scoprire nei fatti un qualcosa di ambiguo, di sospeso appartenente alla loro sostanza. Discutono di cinema, letteratura, musica i due, in uno scenario che sembra cancellare ogni punto di riferimento chiudendosi nel suo bozzolo di fantasmi come in un fortilizio che protegge dagli assalti del mondo: un porto franco, fragile e fugace in cui la vita indossa per un poco la finzione mentre la suspense narrativa raccoglie le sue forze, sta in guardia, pronta allo scatto, riprende a tessere le trame della vita. Irrompono i casi giudiziari che il professore affronta con la sua cultura garantista e il senso di una giustizia vera, maturato nelle drammatiche vicende personali che gli hanno lasciato il segno. La scena del romanzo si allarga inquadrando prospettive abitate da personaggi intriganti e paesaggi campani disegnati in punta di penna (resta, nel lettore, un’incalcolata nostalgia di sfondi che si perdono, di colori che non si possono trattenere nella teca lucente del ricordo). Come un filo conduttore, l’«armonia eterna» del Parco Grifeo sottolinea i momenti più intensi della vicenda di Andrea riportando il quotidiano sapore dell’esistenza su un taccuino di pensieri e visioni che registra un vagabondo desiderio di tenerezza e la difesa dal disagio di paure antiche. Fa da cornice la città di Napoli spaziata da Piazza dei Martiri a Piazza Plebiscito, da Via Caracciolo al lungomare accarezzato da un vento sottile, da Castel dell’Ovo allo spettacolo che la luna allestisce su ogni quartiere. Forse il giovane e il suo illustre interlocutore sono dentro una «recita» effimera, destinata a confondersi nel vuoto del tempo; forse sono semplicemente dentro la sequela di immagini della vita «costretta ad essere in movimento per tentare di avere la parvenza di un senso». Imprevedibili passano i giorni con le loro figure in affitto (ecco, sfuggente, la bella e grossolana Penelope il cui padre, coinvolto in un’infamante storia, è difeso e fatto assolvere da Andrea) e si rovesciano in avvenimenti inesorabili sui quali si affaccia struggente, come tutte le cose troppo desiderate, un antico amore. Ma la vita riprende la sua corsa per Andrea, consapevole che «nulla rende più felici delle nostre abitudini».

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L’estate del disincanto di Simone Perotti Si abbatte sulla taverna del porto una «folle chioma» di mulinelli di vento. Il rombo del temporale impedisce l’ascolto delle voci degli avventori, marinai che lì si raccolgono quando il mare fa «roteare le lunghe braccia golose di spuma». Il vecchio Altomare, così chiamato poiché di notte, al largo, era capace di orientarsi senza bussola, è solito far muovere con le forze dello sguardo i bicchieri sul tavolo. Ma ora è pensieroso, come presagendo qualcosa. Lo sbarco degli Alleati (siamo nel ’43) è imminente su quello sperduto paese di Sicilia che Simone Perotti comincia a descrivere, in L’estate del disincanto, partendo da un’atmosfera vagamente favolosa, elettrica e «troppo giuliva per non portarsi appresso inquietudini». L’oste Gerardo, il prete che evoca le sue lontane montagne venete, il podestà timoroso di ogni rissa, la bella Maria, un «ghirigoro di bramosia» per Garbo che l’ammira ma riesce a dimenticarla nella città del Nord «ottusa di neve» e poi Nino e il Corsaro, circondato di leggenda, sono volti che subito si stagliano in scene sfumate, scandite in un tempo irreale, ellittico, che sposta i gesti verso l’indeterminatezza, trasforma i suoni in risonanze, gli oggetti nel freddo verdazzurro di un acquario. Eppure tutto è concreto, indispensabile, i dettagli si rinchiudono in una cronaca spicciola che sovverte il peso delle cose. Una tartana agli ormeggi è simile a una «tigre catturata»; case hanno una «gobba sulla testa, come una nuca glabra»; per contro, s’alza la catena della realtà che ha la ruvida sostanza della materia che serve a cimentare anche le memorie, ad ancorare gli slittamenti di immagini stringendole ai simboli, soprattutto a quel segnale dato dalla «cometa negra che sibila come un razzo di capo dell’anno». In un mixer di emozioni talora indefinibili e di riferimenti forti alle devastazioni della guerra, prendono spazio narrativo, ed emblematico, la barca, «isola semovente» governata dal Corsaro, e il mare infiammato di bagliori, indifferente nel suo coprire ogni segreto, mentre su un microcosmo di vecchi miti s’affaccia un mondo che cambia. Il ritmo diviene più incalzante, le storie entrano a far parte di un intrico, si alza il quoziente di avventura, tra rocambolesche fughe e deliri, tesori sepolti negli abissi e un’inquietante veglia funebre. Si creano momenti di sospensione cui lo scrittore non attribuisce il compito di coprire un segmento di pausa, bensì di preparare nuovi montaggi di contesti, altre soluzioni di racconto dalle quali riprendere il filo delle diverse storie disseminate nel composito organismo testuale. Il movimento, connotato principale del romanzo, non cancella i profili psicologici e neppure toglie il sonoro all’eco di qualche parola fatata. I nomi attribuiti ai protagonisti ne qualificano le identità e, con il passare degli anni, ne decretano la metamor-

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NARRATIVA

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fosi. Così Garbo va verso la maturità alla ricerca di un nome giusto. E per lui, per Maria, il futuro si fa avanti nella nebbia di quei giorni. La cometa nera è ora una stella nascente.

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Il treno dell’ultima notte di Dacia Maraini Nell’oscurità di una notte senza stelle un treno è fermo alla stazione di frontiera fra l’Italia e l’Austria. È un convoglio dall’aria antica quello su cui la giovane Amara Sironi è salita per fare alcuni servizi giornalistici sulle condizioni di vita oltre la Cortina di Ferro e anche per cercare le tracce di una persona sparita, forse, ad Auschwitz nel ’43: Emanuele, compagno di infanzia a Firenze, bambino nervoso, enigmatico, di ricca famiglia ebrea, amante del volo e delle ciliegie, dei romanzi di mare e di fantasiosi vagabondaggi, ma soprattutto bravo con le parole delle sue lettere profonde. Intanto, il treno «dondola», riparte, attraversa fitti boschi: nello scompartimento di Amara un uomo dai braccialetti di pelliccia parla dei sogni di un mondo migliore. Fuori, al di là dei vetri, il paesaggio in fuga; dentro, le voci degli altri, il pacchetto di lettere ben custodito che si srotola a poco a poco, il ricordo dell’ultimo sorriso del più piccolo amico prima della definitiva partenza per Vienna. Il treno dell’ultima notte di Dacia Maraini fa circolare una disperazione asciutta che cataloga i «resti degli orrori» di un’umanità violentata, sconfitta dal cieco furore delle persecuzioni. Da un lato, il campo di sterminio che sgrana le sue spettrali immagini di morte; dall’altro, i fogli di Emanuele che ridestano la vita ad ogni istante, luminosi di affetti e di sorriso, di tenere confidenze e di stupori. La struttura della pagina avvicina la sua binaria scansione, mostra i segni dello smarrimento accanto a certe aurorali memorie a volte non prive di riflessi stralunati, prepara lo spazio all’angoscia, accoglie gli inserti di altre storie, di nuovi visi (come quello dell’«uomo delle gazzelle» che aiuta Amara nei suoi viaggi da Vienna a Dachau dietro le labili ombre dei sopravvissuti agli eccidi), lo «sconquasso» dello sterminio nazista, l’eco crudele del sinistro sferragliare dei carri merci stipati di infelici in cammino verso un «finale catastrofico». Il paesaggio si incupisce, si fa tunnel assorbito da un buio «fitto di occhi che guardano curiosi», ogni aspetto del mondo è una metafora della situazione di paura generata dalla guerra fredda in cui Amara continua il suo andare tra fantasmi: i ricordi del suo passato, accanto ad Emanuele, e quel labirinto d’orme che la sua inchiesta suscita a ventaglio. Si susseguono episodi che modulano il ritmo narrativo, scendono alle radici delle vicende,

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GIUSEPPE AMOROSO

ripiegano su riverberi, ridestano pagine di archivi, trasformano la corsa fra le cose in una dimensione interiore, mentre le voci sembrano «un leggero brontolio di tuoni fra le nuvole piene d’acqua». Intanto, da una cronaca che non distingue più il passato dal presente, si muove un mondo rovesciato verso una rete di dettagli che pendono su un «precipizio»: sono veri, tangibili, eppure paiono chiamati dal vuoto, da un sipario oscuro. Anche i pensieri escono da una «liquidità luminosa» che tende a farsi «opaca e logora». L’«onda funesta» si abbatte su Budapest, dove Amara giunge inseguendo sempre i «progetti inverosimili» per trovare un bambino inghiottito dalla storia, un lontano ingenuo amore che non vuol morire. Di nuovo un treno, dopo che i carri armati russi hanno devastato i sogni di libertà degli ungheresi, porta Amara a Vienna attraverso il candore di un paesaggio che «unisce il cielo alla terra». Ancora una luce, accanto al buio, in questo romanzo che va a «disseppellire vecchi, insopportabili dolori», restituendo alla protagonista, dopo la sconvolgente rivelazione conclusiva, un mondo «estraneo e congelato». E il treno che la riporta in Italia somiglia a quello miniaturizzato del padre, al giocattolo che si muoveva intorno nella stanza, senza stazione di partenza, senza arrivo.

Intimo nero con merletti e frati di Samanta Giambarresi Non una «miscela di fatti» ma un «monolitico organismo socio-letterario» è per Mario Grasso, che firma il risvolto di copertina, il romanzo dell’esordiente Samanta Giambarresi, Intimo nero con merletti e frati. Tutto ha inizio a Mazzarino in una dolce domenica d’autunno: la gente cammina per il corso e sembra sorridere; da lontano giungono le note del violino di un misterioso musicista, arrivato da poco da un paese del Nord; l’ebete Turiddu grida al vento le sue funeste profezie mentre Marilù alla finestra ascolta la dolce musica. A poco a poco si aprono le scene con personaggi che escono da un piccolo universo di provincia siciliana arcaico e polveroso nei suoi riti. Nel convento l’economo frate Agostino chiede il rendiconto a Bonanno, gestore dell’orto. Nello stesso tempo, in un palazzotto nobiliare la giovane e impetuosa Lucia, annoiata dai monotoni giorni senza feste, inganna le ore ascoltando furtiva le conversazioni della zia con un lontano e potente parente vestito di nero che disegna con il bastone strani cerchi nell’aria. Un meccanismo automatico e invisibile fa muovere le esistenze che celano complotti, passioni, violenze e gli enigmi che intrigano il carnevale e che, minacciosi, cominciano a creare il senso di un’angosciosa attesa di eventi

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NARRATIVA

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inquietanti da cui il racconto trae le sue trame, a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Epicentro sono le cronache dei noti misfatti dei frati di Mazzarino: una pagina fra le più tenebrose della storia del banditismo isolano del dopoguerra che qui si mischia con molte vicende personali distese in scattanti livelli narrativi: dallo spietato riporto realistico al fantasioso rovesciamento dei referenti concreti. Dalla neutra schematicità informativa si passa a una prosa duttile e avvolgente, densa di impasti di colori, che muta il documento più inerte in un assiduo flusso di sorprese, colpi di teatro, intrecci ben oleati e animati da metamorfosi, dilatazioni, rifrangenze grazie alle risorse del registro espressivo in cui si collocano la libertà delle invenzioni e un’agguerrita puntata nelle pieghe dell’indagine di costume. Un oscuro attentato, orme lungo il corridoio del convento, l’ombra minacciosa di una banda di malviventi, l’incendio di una gioielleria, la richiesta minatoria di una somma ai frati, un religioso che non può scrivere lettere d’amore a una donna, un suicida che porta nella tomba tanti rebus e poi delitti, arresti, e il processo sono i nodi di una storia criminale spaziata dal fenomeno clamoroso a segreti custoditi fra «sontuose mura». Finisce con pesanti condanne questa «storia pazza» che ha appassionato l’opinione pubblica e che non punta solo sulla suspense ma cerca scelte espressive da depositare su un materiale linguistico di veloce impatto, agitato e talvolta allusivo, fornito di una volontà di approfondimento (lontano, però dal saggismo), di una disponibilità a catturare senza remore, e con qualche quota di iperbole, un’amara realtà locale: «La Sicilia! Tu vuoi proprio sapere cos’è la Sicilia? Bene! Se ti fai i fatti tuoi, sei un mafioso; se badi ai fatti degli altri, sei un provinciale pettegolo; se ti fai i fatti tuoi e ti preoccupi per quelli degli altri, sei un semplice pazzo!».

Nel cuore che ti cerca di Paolo Di Stefano Esce da un mondo normale senza accorgersene quando, un lunedì di marzo, Barbara, la moglie separata, gli comunica, singhiozzando al telefono, che la figlia di dieci anni, Rita, è scomparsa. Appesantito nel corpo, abitudinario, il padre Toni Scaglione, giornalista, non si dà pace. Dalla deposizione di una compagna di scuola della bambina trapela la notizia, peraltro confusa, che Rita è salita su un furgone azzurro, invitata da un uomo alto e magro. Ha inizio così Nel cuore che ti cerca di Paolo Di Stefano, un romanzo agile e corposo, piegato ad un’analisi in prevalenza orientata verso l’esplorazione orizzontale dei fatti mediante l’impiego di un catalogo articolato della realtà

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diretta e grazie anche ad una scrittura adatta a rendere stabile il rapporto fra i due piani narrativi della storia: quello del padre immerso subito in un’angosciosa ricerca, e quello della figlia che racconta di sé in un diario dalla sua prigione, con una serie di inserti-confessione di straordinaria nitidezza. Il perfetto equilibrio fra le due linee poste in continua alternanza realizza il respiro di una partitura di racconto salda, nella quale non si corre il pericolo di alcuna stasi o di sovrapposizioni. La tensione, allertata anche dai campi di registro linguistico e di scansione temporale, non si allenta mai, dislocata com’è nei singoli episodi e fusa con la temperatura psicologica dei personaggi, con il loro disporsi all’interno di un quadro ambientale secco, contato nei dettagli: una mappa che sembra far consistere a suo piacimento i necessari segnali e spiazzarli per lasciarli trasalire come immaginazioni, contaminandoli con altri luoghi che fanno parte di un «indistinto fondo del mondo». Così Rita, nella sua stanza di sei metri quadrati, si finge l’universo di fuori raccontandolo con un misto di paura e di malcelata, curiosa attrazione. La stessa che regola il suo rapporto con il carceriere Sergio, un rapporto rovesciato in cui lei è forte e lui, nonostante la grande differenza di anni, è debole. Due voci narranti, dunque: intorno al vuoto della reclusione l’una, e dell’assenza l’altra. Rita trasforma la sua cella in un risonante cosmo di immagini, identificandosi con alcuni personaggi dei programmi televisivi e sognando una vita finta anche per neutralizzare le infinite violenze e umiliazioni cui l’aguzzino la sottopone e, insieme, per simulare un’esistenza in compagnia di lui come isola di salvezza dalla follia degli altri. Non ha l’esatta misura della successione dei fatti, in quella «stanza del castigo» in cui la verità si confonde; tuttavia, la giovane acquista la consapevolezza di potersi salvare. Dal canto suo, il padre vive con disperazione tutto ciò che sta intorno al vuoto lasciato dalla figlia: la ricerca da Milano a Firenze, a Zurigo diviene una discesa nel «gorgo» del passato dal quale via via emergono tanti irrisolti nodi della vita. Bruciato dall’ansia, l’uomo ritorna a Siracusa, la terra degli avi, dove in un’aria di potente spiritualità diffusa dalla festa di Santa Lucia, vede per un attimo, nel sospeso incanto di un miracolo, la figlia vestita di nero. Intorno alle due voci un coro di anonimi disegna il mondo così com’è, sigillato nell’indifferenza, ingeneroso e cinereo. Sul clamoroso fatto di cronaca reale cui il romanzo si ispira, Di Stefano imprime i modi di una felice reinvenzione nella quale i fatti crescono su se stessi, disincagliandosi e ricostruendosi secondo ritmi psicologici: i personaggi rivivono storie in frantumi, si autoascoltano, avvertono le dilatazioni più imprendibili di un sentimento, percorrendo una dimensione interiore da cui ogni circostanza assume una forma sbigottita. Qualcosa che incombe

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NARRATIVA

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oscuramente blocca il fluire del tempo e instilla un senso di fine. Si curvano le superfici del visibile e scivolano verso un punto che di continuo si allontana. Un puzzle di orrore e di delitti come in Azzurro, troppo azzurro (1996) e, per converso, le «frecce lampeggianti» che indicano un’uscita, il ricomporsi docile di eventi che rimettono in asse la variabile striscia delle cose la cui sola ragione è forse di accadere in un preciso lembo della storia e al di là di ogni prevista fine. Intanto, il solido impianto narrativo assorbe quello stato di ipnosi che vela la pellicola dei fatti, lo spettacolo in cui fatalmente vanno a rinchiudersi.

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La più bella del mondo di Lucrezia Lerro Elsa ha l’impressione di un’assoluta inappartenenza alla realtà, sente le cose intorno ondeggiare in movimenti assurdi e sprofonda con la sua angoscia in un baratro nel quale anche il corpo sembra sparire. Accanto a lei, ventenne universitaria, c’è Federico, superficiale e incolto, incapace di darle protezione e fiducia. Ormai dentro la solitudine che le causa insicurezza e paura, la giovane è sopraffatta da un’abitudine appiccicosa e indelebile. E scocca il momento di decidere della sua vita: il test di gravidanza risulta positivo, mentre dalla finestra filtra una pallida luce. È notte, l’uomo dorme perduto nella sua lontananza. La parola sincopata, il tono medio, in cui la frequenza alterata della rivelazione si sottomette a una dolorosa presa di coscienza, si infrangono di fronte alla violenta reazione di Federico. E così Elsa fugge nella notte, «precaria di tutto, sempre alla ricerca di un abbraccio», senza l’aiuto della famiglia indifferente e ignara, e va verso un ospedale per abortire. Ma viene rifiutata. Con una prosa ferma e lucida, che fa dell’uniforme tono informativo la sua forza per rovistare nel fondo dei problemi, Lucrezia Lerro torna, ad un anno di distanza dal convincente Il rimedio perfetto (2007), al racconto di introspezione con La più bella del mondo, scoprendo quel senso di timore e di spaesamento che si sprigiona dall’esistenza normale se appena un imprevisto la fa deragliare dal solito binario. La scrittura coesa, allungata nel suo regolare battito incardinato sui dialoghi si coagula di colpo ed esplode in schegge sonore, nel grido, nell’esclamazione dura che non tollera sfumature, echi, sottofondi. Non si lacera però il punto di resistenza di un discorso che vuole far vedere la realtà, il mondo dei personaggi attraverso descrizioni semplici, intolleranti di ogni sopraffazione di colori, di rifrangenze anomale del contesto, di complicazioni visionarie. I caratteri sbalzano nettamente, agevolati dalle confessioni di Elsa che passa i sentimenti in rassegna in un’autoanalisi

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GIUSEPPE AMOROSO

immediata. Chiusa in una «trappola» dal rapporto con il compagno rozzo e cocainomane, la donna riesce, tra mille difficoltà, a farsi accompagnare a Napoli in uno studio medico. La città non le piace («Troppo rumore, troppa confusione»), l’operatore è un losco figuro, l’intervento viene eseguito malamente. Da qui ha inizio una lunga discesa nell’ieri, si affacciano le immagini dei genitori, preoccupati solo del loro mondo, e soprattutto si fa luce, nella protagonista, la sensazione di essere stata sin dall’adolescenza una «piccola donna inadatta a qualsiasi legame futuro». Eventi drammatici inducono nel romanzo nuovi volti sbandati, altro vuoto, altra incomunicabilità. L’epicentro resta l’universo sconvolto di Elsa con il suo «disgusto», e la fuga dall’«inferno» di Federico. Forse lei vive in quel «teatro» che l’uomo evoca in un drammatico scontro. Ma l’uscita dal tunnel è vicina: nel «sole» di Parigi dove la sua odissea finalmente si placa. Interrotto da alcune sezioni di stacco (concentrate intorno al tormento di Elsa, cui viene attribuito lo spazio assoluto di un contrasto che ne interpreta i vari aspetti psicologici), il racconto assume anche dallo sfalsarsi dei livelli narrativi uno spessore in più di intensità, sicché le pur rilevanti stazioni autonome rientrano nell’equilibrio stilistico della storia decretandone la saldezza e la continuità.

Durante di Andrea De Carlo La luce di un caldo pomeriggio di maggio assedia, nella loro casa sulle colline marchigiane, dove hanno un laboratorio tessile, Pietro e Astrid, quando uno sconosciuto arriva alla loro porta con una vecchia auto bianca: si chiama Durante e ha smarrito la strada che conduce ad un agriturismo vicino. Impercettibile, mossa da un turbamento velato di ignoto, l’area di quella quiete ferma e immemorabile, nella quale i due artigiani sono immersi, tende a strapparsi e a liberare una diversa forma delle cose e a ridisegnare in una filigrana increspata la «tranquillità operosa» delle abitudini, il «margine di sicurezza non valicabile» in cui vivono insieme con la piccola comunità di famiglie disseminate nel privilegiato isolamento della campagna. Svolgono, come al solito, ascoltando musica il loro «lavoro ipnotico» al telaio, Astrid e Pietro, ma ora sono «leggermente diversi», scivolano sulla superficie di un ambiente che si inclina, seguono pensieri che si sospendono, si arrestano un attimo e sono subito quelli di prima ma con un’incrinatura, un’invisibile scheggia d’ombra, un silenzio più teso. Durante di Andrea De Carlo adopera un linguaggio comunicativo con uno scatto superiore che legge le invisibili curve dei fatti, non la tenuta re-

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NARRATIVA

ITALIANA

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golare della realtà giornaliera: scova l’inatteso, l’imprevisto che appartiene ad uno sguardo soggettivo, allertato da un disguido, da un dissenso nella calma catena quotidiana. L’arrivo dello sconosciuto, «cavaliere solitario» libero da ogni vincolo, maestro di equitazione con il suo cavallo nero, instilla una «minaccia latente» in Pietro solidamente ancorato al suo lavoro, bloccato con la compagna nello stesso luogo, nelle stesse sensazioni. Astrid, invece, guarda l’uomo con un «misto di interesse e soggezione» e comincia a muoversi sulla sua «lunghezza d’onda». Tocca poi al «brivido» provato da Pietro per Ingrid, la sorella di Astrid, giunta da Vienna, il compito di introdurre un ulteriore elemento di perturbazione nella trama. Si spezzano i tempi lunghi e rassicuranti della coppia, insidiati ormai da segnali linguistici nei quali De Carlo circoscrive il «senso di perdita» di Pietro, assediato anche da una sorta di agitazione dell’esterno risucchiato dal vuoto. Vengono stanati i pensieri più reconditi e illuminata l’«irradiazione vitale» emanata dai corpi, mentre una rete di indicatori narrativi, vischiosa e concentrica, non limita ma rende più indipendente e rilevato il ruolo di Durante che, con il suo potere carismatico e taumaturgico, scatena l’interesse, le fantasie delle donne della valle e pure il loro amore. Pietro è confuso, si sente spiazzato, lasciato indietro in uno «scenario» deserto e, nella luce spietata d’agosto, vede il rivale come un vagabondo «malnutrito». Ma, nel profondo, oscilla fra inimicizia e simpatia. Un lungo viaggio verso il Nord metterà i due in un confronto più serrato: Pietro «senza basi solide»; Durante come arrivato «da un altro pianeta». Nominando le cose (spostando le immagini verso un «subbuglio»: un’auto nera ha i «fari cattivi»; panini esposti in vetrina, ognuno con un nome e un numero, sembrano il «reperto museale di una civiltà andata in malora»), reiterando le nomenclature, pattugliando il territorio dei fatti, De Carlo vuole «interpretare l’infinita complicazione delle cose». E così, scavando, registrando, illuminando con sottolineature pure di carattere tipografico, perviene al punto nel quale non vi sono più segnali concreti. E lì, oltre la soglia del conosciuto, il romanzo ci lascia con i suoi segreti, i fili da sciogliere, i tanti personaggi intorno che non scompaiono (istintivi, intelligenti, irregolari o semplicemente impastati della sostanza amorfa della vita), in un tempo che si allarga all’infinito. E dilaga con un senso di disorientamento che la logica del racconto riporta a una misura accettabile mediante una limpida scrittura che, per Elisabetta Sgarbi (nella nuova formula della lettera-presentazione), fa stare De Carlo «un po’ più avanti degli altri». Un romanzo che trivella le radici più dure e dolorose della vita trovando però una forza leggera, un’antica dolcezza di abbandono che non può appartenere alle radici. Alla fine Durante s’allontana per sempre, e il protagonista si sente

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GIUSEPPE AMOROSO

«come un ragazzetto buttato fuori di casa che deve imparare a trattare con la vita per conto suo».

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Il contagio di Walter Siti Una miriade di piccole storie, evanescenti o scagliose, eccentriche o banali, schegge disperse e divaganti del gran corpo di una società in cui il suburbio più popolare e magmatico si contagia con i più vulnerabili strati dei quartieri borghesi. Il risultato è un contaminato, azzerante grigiore di fondo, un universo dalle tinte uguali coperto da un mormorio continuo, un tono basso dai colori spenti, dalle voci roche e dai volti sfigurati che non abitano la terra di nessuno, deformi portatori dell’assenza, dell’insignificante massa del grigiore. Anche i gesti estremi, le passioni più tetre e sventagliate dai sensi, le corporeità terragne, le poltiglie delle voci perdono il sinistro bagliore di violenza nell’artefatto spettacolo di azioni incastrate in un geometrico disegno di caligine. Non v’è la più pallida luce di salvezza, non v’è sponda di approdo a naufraghi che hanno la sola speranza della «fuga». Un mondo insano, abietto disperde, in Il contagio di Walter Siti, le già esigue potenzialità di canto e di avventura nel rugginoso franare degli eventi. Una scrittura ardita, ma compromessa dall’assordante rimbalzo di un romanesco che conosce un solo tono, crea qualche pagina composita, quando si scrolla di dosso un lessico popolare di maniera e costruisce più saldi reticoli di forme espressive libere, adatte a individuare qualche livello meno appariscente e teatrale delle psicologie, a leggere nel «caos romano», nel diffuso degrado. In questo disordine (o «ordine degli interessi immediati») si incontrano folle di personaggi, alcuni dei quali con un più rilevato tratteggio: lo spacciatore Gianfranco che presenta la moglie come un «trionfo personale»; Marcello, pronto a patire ogni violenza, e la moglie Chiara, affezionata a un ulivo; Alessio, un gay chiuso nel suo asfittico mondo; Francesca, una paraplegica presa da risate contagiose e impegnata a sinistra; Fiorella, persa nel suo grande appartamento; Bruno, ultras della Roma; Eugenio, disposto a credere a tutto ciò che gli si dice; Simona, a cui ogni scelta giusta porta male, e il marito Mauro con il mito della ricchezza. In controcanto, un io narrante che si firma Walter e che, affondato nella sua nevrosi, si vede vivere solo al «dieci per cento, dovendo ingigantire quel dieci per non sentirsi un paria». Alla fine, nella borgata, «intrisa di rabbia» e sterminata «sala d’attesa», non esplode più niente. Romanzo dell’indifferenza, della «promiscuità sociologica», di uomini senza illusioni che sembrano

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NARRATIVA

ITALIANA

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«doversi giocare il tutto per tutto nei prossimi dieci minuti» e di esclusi che risultano egemoni, Il contagio supera la disorganicità della sua struttura, l’affollamento fitto della disuguale materia, grazie a un’articolazione moderna delle varie componenti: sicché anche la larga fascia saggistica riesce a non perdere le orme della narrazione.

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Ancilla di Paola Capriolo Paola Capriolo punta sullo stupore dei grandi spazi deserti e sui pensieri che impalpabili e profondi si confondono con quegli spazi, creando una sorta di mondo sospeso e senza limiti, popolato di visibili figure d’astrazione ma tenacemente legate alla terra per quel loro essere segnale di reconditi abissi della psiche degli uomini, dei fantasmi che abitano nei recessi della mente. Romiti vivono assediati da ombre tempestose in un «tumulto di soffi e sibili», mentre l’anima che tende alla perfezione si scontra con un carosello di potenze diaboliche. Quel che soprattutto conta nei due racconti riuniti in Ancilla è la vertiginosa furia delle immagini che tracimano in bianchissima luce metafisica, nelle parole e parabole cariche di sibillino senso e nella rivolta dei regolari snodi narrativi che vengono contesi dalla memorabilità, dalla funzione esemplare, dall’essenzialità quasi ieratica dei fatti e da un granitico dialogo sapienziale più che dal naturale andirivieni delle cose. Il primo paesaggio dilatato verso una suggestione leggendaria è la «nube soffice e vaporosa» nella quale un vecchio eremita si smarrisce quando gli appare un angelo che lo invita a incamminarsi verso oriente con pane e acqua per tre giorni. Lo attende un monastero dove vive una santa. L’abile regia dell’autrice disloca gli episodi (e la materia letteraria) intorno a centri nevralgici, distribuisce i tempi e i ruoli, addensa la tensione, commenta gli atteggiamenti del viaggiatore e delle monache del convento facendo coincidere i percorsi. Difficile individuare tra le religiose la santa indicata dall’angelo. È forse Ancilla, la serva dal volto «annerito dalla fuliggine», la «sciocca e ignorante» che ora parla con «faconda sapienza»? Sensibile alle minime ondulazioni psicologiche, Paola Capriolo coglie quella «fiamma insidiosa» che inaspettatamente può far nascere, anche in un animo candido, un principio di egocentrismo e solleva l’analisi al canto. Il cesello stilistico, portato a estrema raffinatezza, si impegna a esprimere le anomalie più inafferrabili del reale grazie allo sfaldarsi dei piani espressivi, al gioco dei contrasti: da un lato, una conduzione razionale e tecnica delle strutture romanzesche; dall’altro, la rappresentazione di fatti mirabili che denunciano una situazione ambigua, una verità perplessa, con

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GIUSEPPE AMOROSO

tanti brividi. La parola ha sempre, qui, una grande possibilità di dominio e, al contempo, una illimitata vocazione ad aprire varchi nuovi pure nel più compatto resoconto che, d’un tratto, sembra cedere, nella scherma delle intersezioni dei vari livelli verbali e tematici, a una vena di superiore sorriso, di comprensione delle debolezze umane. Un «preambolo cosmologico» dà il via, nel secondo racconto, alle esilaranti avventure di un angelo che, caduto sulla terra con l’«ottusa pesantezza di un macigno», viene soccorso da una donna dalle arti magiche (e si rimodulano con inquietante modernità motivi che possono collegare, per suggerire un tracciato, Rilke a Tabucchi). Circondato da ossessive premure, l’ospite intristisce «come un uccello prigioniero» trasformando le proprie lacrime in un avvolgente alone di luce, in un vortice di visioni. Ma la storia ha in serbo altre sorprese, riallacciandosi al primo testo in quell’armonico dittico che dispone la scrittura alla radiante serenità.

Averti trovato ora di Roberto Perrone Ogni motivo è dentro una tensione. Il tono memoriale scaturisce da passaggi di norma piani e realistici, ma si apre a inattesi ventagli romanzeschi grazie all’uso di dati in apparenza contenuti e rifiniti nei quali però, talvolta, è sufficiente l’innesto di un sussulto, l’aprirsi insospettabile di un’atmosfera, la sottolineatura volutamente anomala di un fatto privo di immediato impatto per dare il via a un avvincente registro di sorprese. Nel romanzo di Roberto Perrone, Averti trovato ora, la rappresentazione degli accadimenti solo a prima vista è un resoconto obiettivo, mentre nel livello più profondo è una visione ad ampio raggio dell’intrecciarsi delle storie minime in un flusso magnetico e irruento di immagini. Tutto risponde a una doppia ottica: da un lato, «i segni, le sfumature, le premonizioni»; dall’altro, una cronaca autobiografica che traccia da lontano la vicenda di Marco de Grandis, un calciatore che dai campi di provincia riesce a conquistarsi un posto in una grande squadra milanese e nella Nazionale. Una «buca temporale» fa scaturire un movimento narrativo copioso che porta in primo piano una cascata di dettagli disposti in uno sviluppo sempre più accentuato e volto a dare al libro un dinamico assetto nel quale si armonizzano i frequenti flashback. Un’«aria malata» di un’incipiente estate milanese, invece, è lo sfondo, preparato con studiata sospensione, in cui si staglia la figura di Anna Mariani, affascinante quarantenne studiosa di Storia dell’arte. Sposata, con due figli e un marito colto, che sa «spiegare la vita, il mondo», la donna si avvicina a poco a poco a Marco, così diverso

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NARRATIVA

ITALIANA

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da lei e pur così misteriosamente vicino. Il loro rapporto, dapprima «quasi del tutto virtuale», basato su un «terreno comune di simpatia», si avvampa di un «segnale di pericolo», passa in messaggi telefonici in cui la donna si sente «annodata nel filo tra realtà e fantasie». Marco, finora «impermeabile ai sentimenti», è proiettato fuori da tutto ciò che ha immaginato nella vita, entrando in uno stato di «stordimento». E impara a comprendere «in che cosa consista dividere una storia d’amore». Accanto alla totalitaria pienezza della passione c’è anche il «vuoto» insopportabile delle assenze di lei, la morsa della gelosia, l’inquietudine indefinita. E la pagina si linea pure di momenti di tregua, di una catena di piccoli anelli: strade silenziose, giardini appartati, piazzette deserte, qualche diffusa aria di «vaghezza», alberi gocciolanti dopo il temporale, istanti di «stordita beatitudine», il vecchio palazzotto della nonna. Con tranquillo passo stilistico, Perrone racconta la vicenda di un amore avanzando a piccoli blocchi. Prende espressività soprattutto quando registra situazioni comuni, lontano da ogni riflesso obliquo. Punta, invece, su una misura media, a volte neutra (ma non spenta), rettilinea, in grado di fotografare il giornaliero con inquadrature che nella loro giusta misura finiscono per compiere un balzo di eccezionalità. Personaggi entrano in scena come per caso, voci sorgono dentro e sembrano quelle di altri; immagini contenute si slacciano da ogni pressione vincolante e si affollano come bisognose di spinte, per concorrere al completamento del quadro, e di essere quasi commentate: da qui un assetto dimostrativo, quel costante rivolgersi del personaggio centrale verso l’analisi, anche spietata, dei propri comportamenti, quel cercare rifugio in sguardi retrospettivi.

Carne viva di Domenico Cacopardo Tanti personaggi e tante storie in Carne viva, romanzo imponente, corposo e parcellare, che Domenico Cacopardo costruisce sul telaio avviato con il complesso intreccio di Giacarandà, apparso nel 2002. Da lì, dalle tessere di un ampio quadro di azioni diffuse in uno «stillicidio» di fatti ostili, prende avvio la nuova avventura, in un paesaggio della Sicilia orientale disteso fra Messina e Catania, con epicentro nel sito che prenderà il toponimo di Letojanni. Siamo nella metà del Settecento, in anni contrassegnati da una guerra, «tutta spagnola», tra Gesuiti e Domenicani, mentre dai cento spiragli della trama sgusciano, in un calcolato gioco di pieni e di vuoti, cavalieri e nobildonne, mercanti e contadini, alchimisti e misteriosi testimoni di oscuri fatti, adepti di una società segreta e capitani di giustizia, filosofi e viaggiatori, osti e pescatori, uomini di potere e di chiesa e inquisitori.

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GIUSEPPE AMOROSO

Una gran folla sciama nella scrittura visiva, mimetica delle spettacolari visioni di paesaggi ambigui, concreti e come corrosi da subdole luci abbacinanti o consegnati alla scansione di stati d’animo in allarme. Sfondi di odi irriducibili, gelosie e vendette, avidità feroci e tradimenti e turpitudini: il paesaggio si fonde con le ondate di avventure descritte con gusto documentario più che folgorate in gesti esclusivi, in scene esenziali. Domina un flusso continuo di fatti che si sviluppano sotto una protezione spinta a divenire una vera scelta stilistica, prova anche di una sorta di bozzettismo virtuoso, calligrafico e dotato dell’impressionante capacità di tingersi di screziature gotiche, di cupi addobbi mortuari. Il geometrico compasso strutturale circoscrive episodi e li rilancia su sempre nuove mappe articolate da spazi che assumono spesso «forma e sostanza» di altri spazi. Spiagge e montagne, splendidi palazzi e tuguri, luoghi di culto e di riti satanici, castelli e rovine si susseguono in sequenze ora limpide, ora livide, dalle quali emerge un ritmo narrativo che dissolve presto risonanze ed echi, ma dopo aver assorbito suggestioni e risvolti emozionali. Il marchese Giulio Lìmiri, la moglie Costanza, l’amante Agatina e volti e volti, alcuni usciti da un «paradosso della vita» e il duca di Elinunte e la sua corte luciferina salgono in primo piano oppure vengono assorbiti dai movimenti corali raffigurati con minuziosa attenzione ai dettagli. Declinano qui gli inasprimenti simbolici di altre opere di Cacopardo, invariata resta, invece, la caratura dell’«ossessione» che può invadere gli animi.

Dio il diavolo e la mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni di Sebastiano Vassalli La ricerca dell’ordine nell’assurdo che scompone la vita. Molecolari vicende di grigiore e chiarità remote oltre il limite, lembo metafisico, beffardo teatrino degli inganni. Un «universo di certezze», che comincia a sfaldarsi, è il punto di partenza del nuovo romanzo di Sebastiano Vassalli, Dio il diavolo e la mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni, in cui l’episodio più astruso e impensabile diviene, nella forza della scrittura regolare e immaginifica, un esemplare tragitto narrativo proteso a rappresentare, attraverso la vivacità delle diverse situazioni, l’assunto di base teso a rintracciare il manifestarsi del «germe della stupidità» e della sua trasmissione. E si parte dal giudice di Corte d’appello Erich Stoiber il quale, dopo un’esistenza spesa nella meticolosa ripetizione di ogni comportamento, decide d’un tratto di cambiare radicalmente le sue abitudini e di corteggiare

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NARRATIVA

ITALIANA

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la grigia segretaria Verona, sua dipendente anonima da oltre vent’anni. Serpentine di aneddoti, intanto, si affollano nella pagina con schizzi di figure ritagliate dal quotidiano d’oggi, fatto di violenza e massificazione. Le più ingovernabili «traiettorie» delle azioni spingono la ricerca (un viaggio nella stupidità, «bolla di sapone» infrangibile, che vola da un punto all’altro della terra, intrapreso per «condurci fino a Dio») che Vassalli manda avanti con una dichiarata serietà di intenti e una esplosiva gamma di invenzioni. «Palline trasparenti», le storie sono dovunque, «saltellano anche sulle automobili», si depositano sui più reconditi angoli del paesaggio, avvampano in scene esilaranti, in personaggi automatici che non sfuggono alle convenzioni, a quel peso di riflessione di cui intendono verificare la consistenza. Portano in campo i loro problemi plastificati con quella verve di sorriso che l’autore dissemina nelle loro voci. Una punta di saggismo non si trasferisce, per fortuna, in un inquinamento del romanzesco: Vassalli conosce bene la tenuta del racconto, come trattare i «momenti di indecisione», come sciogliere una «scena pietrificata» in un «quadro vivente». Il Diavolo, innamoratosi di una donna, assume varie identità («gli «io» del Diavolo sono una folla») divenendo infine testimone del dirottamento del volo 93 dell’United Airlines nel giorno 11 settembre del 2001. Constatati i danni subiti dalla Terra, la slealtà degli uomini e la loro «agonia», il mondo appare all’autore irrimediabilmente condannato: la salvezza può arrivare da un insetto pulsante che invia scintille, una mosca creata da una forma superiore di intelligenza divina o prodotta da un gruppo di scienziati in un laboratorio segreto. In chi la scopre «cala il buio»: nella ricercatrice che assiste alla morte dell’uomo che ha dormito con lei, e in un «artista» entrato in un villaggio di pionieri dell’Ottocento americano fedelmente ricostruito; nell’«acconciatore», un tecnico incaricato di occuparsi della clientela femminile di un’azienda, e in un ladro che vive in una vecchia stazione abbandonata della metropolitana; nell’autotrasportatore di clandestini, che viaggia nella notte, e nel cantante maledetto che, all’inizio del suo concerto, resta immobile in una sfera luminosa.

Vico del fico al Purgatorio di Giuseppina De Rienzo Sempre in penombra, anche se fuori brilla il sole, il vicolo in leggera salita è un corridoio di panni stesi, percorso da un traffico caotico. Qui, in un vecchio palazzo malandato, ha il suo laboratorio di ricamatore Saverio Derosa detto Eva, un anziano omosessuale dalla voce cantilenante. È lo

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GIUSEPPE AMOROSO

zio di Maria la quale, oppressa dalle sopraffazioni del marito, pericoloso e instabile, si è infine ribellata uccidendolo. Difensore d’ufficio della donna è nominata l’avvocatessa Giulia Leone, l’io narrante, che è a sua volta un essere malinconico e tormentato dalla morte alla madre dura e implacabile e dalla fine della relazione con Nino, un egocentrico dalla «vita irrisolta». Puntando la macchina da presa su sfondi di una Napoli più ampia, Giuseppina De Rienzo tocca il solare quartiere di Chiaia e la zona dei Vergini, una delle più antiche della città; individua volti dal «piglio di chi ha fatta sua l’arroganza e la usa come normale mezzo di difesa»; coglie in gesti e voci come «un refrain di vendette, teatrale, esagerato»; fa sbalzare scorci di case antiche e fatiscenti, con qualcosa rimasto di sontuoso e altero; ritorna a osservare il ribollente andirivieni di strade maleodoranti, di luoghi devastati dalla violenza. Vico del fico al Purgatorio è un romanzo che coniuga la coralità più appariscente con l’attenta analisi psicologica dei singoli personaggi, mettendo in mostra una disperazione cupa, un oscuro sentimento di deriva, attaccato alle parole e agli ambienti ed espresso da una realtà rumorosa e degradata, un po’ stravolta e un po’ immobile in una fissità di perdizione che aggiunge quel di più di irrimediabile condanna. Il diverso taglio degli episodi con modulazione prolungata del parlato, il passaggio fulmineo di momenti illustrativi, il soprassalto di un pensiero, il ritratto tutto spigoli e scabrose rivelazioni di qualche figura riescono a disegnare i connotati dello smarrimento, della fine di ogni speranza che entra in «un buco nero senza uscita». L’autrice muove da un dialogo per edificare articolati sviluppi di azioni che, coagulandosi attorno ad alcuni nuclei, delineano le direttrici del romanzo. L’oralità, intensamente drammatizzata e in qualche occasione resa dolce da accordi musicali, genera pertanto l’intreccio secondo piani strutturali portati a isolare l’asprezza di alcuni spunti e a recuperare narrativamente motivi, informazioni, semplici accenni, sfumature della «lingua colorita e appassionata» del dialetto. Le fasi del processo penale a carico di Maria, così rigurgitanti di particolari crudi da cui viene fuori una storia «violenta, fragile, anche un po’ pacchiana», si alternano con i ricordi della narratrice che ritrova i suoi inutili sogni e compie altre esplorazioni in una funerea, sotterranea Napoli, venendo a contatto con luoghi dove «il valico tra la vita e la morte è un semplice spazio d’aria». Intanto, la logica stringente del dibattimento in aula, lungi dall’essere una gabbia per il romanzesco, si trasforma in un’esca per catturare i comportamenti più indifesi e naturali degli uomini. Indimenticabile resta il sorriso «malioso e insieme innocente» che sembra liberarsi dallo stravagante e malinconico «pagliaccetto» di Saverio Derosa, ormai allenato a opporre

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NARRATIVA

ITALIANA

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un «muro di gomma» al tentativo degli altri di comprenderlo. Razionale e commosso, questo è un duro racconto della fragilità e della resa in cui chi è vittima appare per un istante come l’«elemento stonato» di un paesaggio che offre «un approdo solo da immaginare». Ma è anche, nel suo positivo e sorprendente finale, la coraggiosa risoluzione di chi non vuole «voltarsi indietro», scegliendo una nuova strada.

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L’alchimista degli strati di Carlo Sgorlon Sgorlon è un grande narratore di storie, un inesauribile osservatore della realtà dalla quale trae gli intrecci più naturali e quelli reconditi trasformandoli nella magia affabile di favole che hanno sempre il sapore della terra, del suo «insieme prodigioso». La cronaca s’infiamma d’epopea senza perdere il senso delle cose vicine e i problemi dei giorni più drammatici e i segreti della storia: quella ufficiale, araldica, spesso fraintesa e tradita dagli interpreti e quella anonima, murata nel silenzioso mormorio degli umili, laminata nei colori del mito, acquattata nelle profondità abissali della psiche. Attraversa così un mondo ambiguo, contraddittorio, misterioso, trafitto da «questioni planetarie» anche L’alchimista degli strati che fonde concretezza con leggenda, la scienza con l’energia nascosta del creato. Il libro, schiuso dall’amicizia fra Martino Senales, geologo altoatesino e Abramo Fusswi, figlio di un potente emiro produttore di petrolio, sembra seguire percorsi decisi dalla fatalità, ma si trasforma nel viaggio del protagonista alla ricerca della propria identità. In Oriente, dove ha seguito l’amico, Martino è nominato direttore dei servizi tecnici per l’estrazione del greggio. Intuitivo, abile nel decifrare il significato dei suoi sondaggi, l’uomo s’immerge in un lavoro che riguarda gli strati profondi del pianeta, un luogo tenebroso dal quale, con irrefrenabile eccitazione, vede scaturire il possente getto dell’oro nero. Elemento condizionatore dell’intera economia mondiale, il prezioso liquido si fa, nel romanzo, uno spettacolare fomite di riflessioni e di avventure. Grandeggia una disposizione elettrica al sortilegio, un inquietante senso di scoperta e di illuminazione di molti problemi della vicenda umana, che si affaccia in una realtà, come quella mediorientale, lacerata, ora serrata nei suoi atavici riti, ora fantasiosa e pittoresca nelle sterminate variazioni di salmodianti linguaggi, della cultura sostenuta da un’«immaginazione fervente». La progressiva decadenza dell’Occidente, le forti emigrazioni dei clandestini, il sorgere in Arabia di gruppi intransigenti, il conflitto israelo-palestinese, i «piani grandiosi dei musulmani», si irradiano su un motivo di

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GIUSEPPE AMOROSO

interesse filologico e storico rappresentato da un libro «bizzarro», scampato al rogo della biblioteca di Alessandria, in cui compaiono racconti diversi, oracolari e visionari, fra le cui pieghe fa capolino l’eterna presenza dell’oro nero. I pensieri di Martino prendono una «dimensione cosmica», ma si scontrano con la ferocia dei tempi: crolla l’Emirato sotto l’occupazione di una potenza straniera; Martino fugge e ritorna in Italia dove si abbandona a progetti più o meno utopistici e soprattutto allo sfruttamento dell’immensa forza delle acque termiche. Ricco di personaggi, di «ombre un po’ più dense delle altre», L’alchimista degli strati ci offre indimenticabili ritratti femminili: l’aristocratica Leni che stabilisce un rapporto singolare tra l’amore, il dolore e il male; l’elegante e sfortunata Irene, studiosa d’arte e dotata di temperamento; Ruqayya, l’araba che con ingenuità fanciullesca inaugura un nuovo spirito di scelte e di libertà; Dhul’Himmadulim, consapevole che la vita è fatta di abbandoni e partenze; l’afgana Wallada, venditrice di tappeti. Parlando della millenaria fatica dell’uomo per trovarsi una meta nello smarrito oceano delle stelle, per inventare una ragione, un porto dove approdare, il romanzo narra la malinconia della fine di tutto, le visibili tracce delle civiltà e la sostanza arcana della terra.

Il superstizioso di Francesco Recami Cosa può riservare il destino a una persona che ha sempre gestito la sua vita in modo razionale? È quanto si chiede Camillo, titolare di un avviato negozio di calzature, che gli consente un’esistenza economicamente tranquilla accanto alla moglie Teresa, conosciuta nei lontani anni della scuola, una a «metà classifica» nei campi della bellezza e della simpatia. Metodico, critico nei confronti di ogni forma di avventura e di superstizione, proprietario di una villa in Sardegna, di un’auto di lusso, il commerciante gestisce i suoi giorni in modo ovattato, tra casa e lavoro, osservando con distacco gli affanni degli altri e adottando appianate misure di autoprotezione, «piccoli inganni» per esorcizzare il pericolo dell’ignoto. Ma una circostanza straordinaria, il passaggio simultaneo sotto il solito cavalcavia, percorso da tre treni, tutti nella stessa direzione, lascia un segno «decisivo». Il ritorno improvviso a casa, l’ascolto di gemiti e sospiri provenienti dalla stanza da letto, la caduta, causata dal gatto nero, che gli fa perdere i sensi, e il risveglio in ospedale con idee molto confuse sono le tappe salienti di un nuovo cammino inaugurato da un brulichio di pensieri. Dopo la positiva prova dell’Errore di Platini e del Correttore di bozze, due laceranti incursioni

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NARRATIVA

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nei labirinti della psiche, Francesco Recami ci dà con Il superstizioso, un racconto di ossessioni, di realtà dai contorni indefiniti e di fantasie cinte da risvolti concreti. Ha avvio la «cronistoria» di una paranoia alla quale si devono pagine fosforiche, esilaranti o malinconiche, fissate su una mappa di ricerche di indizi, sospetti, calcoli numerologici sulla ricorrenza di alcuni eventi. Irretito nell’asfissiante scherma con gli inganni, le piste da battere, Camillo elabora freddamente una strategia per scoprire la verità. Innesca trappole, cambia i propri orari, lavora su un quadernetto in cui registra i punti chiave dei comportamenti della moglie. Il romanzo si struttura come una scacchiera sulla quale si apre una grottesca partita con il dubbio, i fantasmi di un universo domestico ridotto a caselle, squadrato, esplorato millimetricamente. Circola un’aria soffocante che obnubila tutto. Il paesaggio sparisce in una coltre nebbiosa lasciando solo piccole tracce, particolari che non si definiscono in un contesto arioso. Guidata da «personali indicatori» che danno «responsi» ambigui, l’indagine scopre una realtà oscillante, imprecisa, di continuo rimessa in discussione. Un modesto teatro giornaliero pone in scena episodi che sembrano non chiudersi ma riservano un’inattesa, devastante conclusione. Implacabile, scientifico nel suo procedere, Recami supera le insidie delle schematizzazioni e delle ripetitività grazie ad abili meccanismi narrativi che gli permettono, anche aiutati da un dotato uso del flashback, un ricambio tra le fasi progettuali del personaggio e la realizzazione avventurosa, un combinarsi umoroso di riflessione e libertà inventiva. Bandita ogni vena lirica, si costruisce un racconto di nuclei, segmenti di azioni, aneddoti tenuti insieme da un rete sintattica regolare che sfrutta anche esercizi razionali rastremati fino a raffigurare i più nudi congegni logici. Un libro implacabile, che trova in qualche linea deformante pure un pietoso sguardo d’innocenza.

La via di Fabrizia Ramondino Ad Acraia, antico paese del Sud, tutto passa per la Via principale: i grandi e i piccoli eventi, le partenze e i ritorni, i morti e le anime («perché fino a quando ci sono vita e memoria, ci sono anime»). Qui arriva un uomo di mare dal passato avventuroso, ospite, in una casa del vicolo del «Rione-Terra», dell’amico Teodosio con il quale un giorno «ha condiviso un’esperienza estrema». Abituato a discorsi «straripanti o privi di saggezza», si trova a suo agio nel minuscolo universo di provincia, dimensione magica in cui «si sa sempre tutto quello che si vuol sapere». Certo, sembrano appartenere

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GIUSEPPE AMOROSO

ad altro tempo le immagini di persone e luoghi che cominciano a scorrere nell’ultimo romanzo di Fabrizia Ramondino, La via. La sveglia ferma al numero dodici; la cantina dei «tre generali»; una sdraio in terrazzo sospesa fra il pettegolezzo che sale dal quartiere e il silenzio del castello illuminato e le stelle svettanti con la nube fugace che le vela e per un attimo richiama l’ombra di una donna. Esita, rallenta, si nasconde, torna, incolore e tenace, il flusso monocorde dell’esistere che, tuttavia, s’impenna quando improvvisa si sporge qualche figura pronta a tracciare un segno duro sulla superficie stagnante delle cose. Ecco una donna anziana dalle gambe «gonfie e informi, calzate di ruvida lana grigia», simili ai «resti di una coperta militare avvolta attorno ai piedi di una poltroncina imbottita»: è il primo anello di una catena di ritratti costruiti mediante tessere di forte potenziale visivo e parole che esplodono nei loro effetti di meraviglia. Ne consegue un dettato corrosivo i cui smottamenti, deragliando, sfiorano il personaggio di donna Rosita, la bella moglie di Ortensio, la quale rimane avvolta nel mistero. Piccoli miracoli avvengono per rassicurare gli uomini di non essere in balia del destino, mentre tante storie si intersecano forgiate da forme narrative tradizionali, utilizzate per rendere agile il passaggio degli episodi. A intervalli si avvertono le incursioni del pensieroso ospite che conduce il discorso, forse più innervato nel tessuto della scrittura e quasi creato dall’onda stessa dei suoi spunti che condotto da un’abilità esclusivamente tecnica e dimostrativa della Ramondino. Il carosello di volti in bianco e nero anima il borgo ormai visibilmente mutato dal progresso e assestato sui nuovi costumi che contrastano con i relitti del passato. Sopravvengono spaccati scenografici, processioni di «visionari, santoni, ciarlatani, guaritori», e sipari, pause che allentano il brusio di fondo e preparano nuovi casi, il transito di nuovi volti, gesti condotti a stingere in altre storie disposte ad assorbirli senza attriti. Il racconto mantiene il suo alto tasso di oralità che gioca con i sovrasensi e con i riferimenti più concreti nell’apparente quieto globo di immagini salde che riescono a controllare e leggermente a istigare anche il più capillare scarto. Così ogni domestico fatto quotidiano può divenire con naturalezza l’epicentro di un segreto, superando il rapporto terreno con Acraia. Coinvolto nella miriade di vicende umane, di cui si nutre per «colmare un vuoto», il vagabondo narratore guarda infine alla falce della luna che gli appare «più che come quella che taglia il grano, come quell’altra che falcia le vite, e ogni speranza».

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NARRATIVA

ITALIANA

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Gente normale di Valentina Capecci I giornali riportano storie di un mondo «alieno» nel quale la gente normale, abituata a stare «dall’altra parte», non vuole vivere. Il traffico automobilistico di una città qualunque blocca, già prima delle ore di punta, ogni movimento. Il caso, indifferente, si diverte a non sincronizzare le vicende degli uomini. E i giorni se ne vanno uguali, fotocopie di piccoli disguidi e di eventi più grandi adagiati su una millimetrata cronaca che ingloba i destini, li fa asettici, incolori, e smussa gli angoli di fuga, le prospettive di un oltre indecifrabile, qualcosa di oscuro, un legame misterioso che tiene avvinti i fatti più lontani, li intreccia secondo disegni anomali e bizzarri ma sorprendentemente lesti a disporre le pedine secondo mosse giuste. È il gioco dell’esistenza giornaliera che detta i suoi piani in Gente normale di Valentina Capecci, con una serie di ritratti di personaggi che si raccontano in successione incalzante coprendo l’intero arco di una giornata. La pagina assume un timbro comunicativo volto all’introspezione anche nei punti in cui il fruscio delle memorie invade spazi più larghi e inattesi, concedendosi talora il passo di qualche descrizione marginale e divagante. Così, nuove figure si presentano di scorcio, di soprassalto, uscendo dalle pieghe della vita incapsulata nella forma di racconto. Emergono da un fondo che le tiene avvinte, superano il sospetto di essere un pretesto per la costruzione di un campionario più ricco e vario di mondo. Il problema strutturale del libro resta quello di trovare semplicemente per loro il ruolo adatto ad allacciare certe rapidissime apparizioni al contesto. C’è chi si materializza «come un fantasma» dalle tenebre e chi soffre di solitudine; chi è afflitto da gravi problemi economici e chi fa collezioni di farmaci; chi si rifugia nella «soddisfatta speranza dell’invidia altrui» e chi sa della propria goffaggine. S’incontrano medici che hanno un’«umanità da fiction televisiva» e persone tranquille che, in un attimo di follia, desiderano imbracciare un’arma; donne ricche che vanno per compere vestite con eleganza eccessiva e altre che, inghiottite dalla luce di una sala, camminando come un «nero pendolo», si trasformano in tutto ciò che un uomo umile può sognare. E donne deboli che alla prima «bordata» rientrano nei ranghi, sempre alla disperata ricerca di un «vincente». Si sciolgono i grumi dell’esistere e lasciano giorni corrosi dal dubbio, resoconti di soprusi e «sciagure», trasgressioni e sogni e spedizioni in una «zona del quotidiano appena più in ombra di quella parte che si vive di giorno». Rapido e insieme insinuante, circostanziato, il romanzo scopre la «manciata di secondi» in cui il tempo si attarda per permettere ai desideri di espandersi. E lì, dopo una discesa nei ricordi o prima della meta-

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GIUSEPPE AMOROSO

forica caduta del sudario, capita di accorgersi che il vento può cambiare. Ovunque mercatini e banche, ristoranti e panettieri, cellulari e cani al guinzaglio, strade intasate «come le arterie di un obeso». E le periferie indefinibili, piene di detriti e il palpito della città che, impenetrabile di notte, rimbalza estranea e «ottusa». Ma tutto è il frutto di una «regia cavillosa e inesistente»?

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Non vi amerò per sempre di Giancarlo Marinelli Il paesaggio lunare della Galilea, spazzato dal «parlottio» dei venti, immerso nella calura «funebre» della notte e privo di ogni ipotesi di bellezza, non sembra, al governatore Ponzio Pilato, il luogo adatto per accogliere la venuta del Redentore. Inviato da Tiberio in quella «voragine arida», imbolsito da anni di comando logoranti, Pilato, pensieroso e chiuso in una bolla di tristezza, è di fronte all’inaccessibile, inquietante silenzio del Nazareno. La tensione del personaggio, la sua immagine «triste, patetica», il rovello delle memorie di un mondo romano che lo ha dimenticato, il continuo, lacerante interrogarsi e il «groppo di fanciulla» che gli cresce dentro affiorano come tante piccole crepe sin dall’avvio di Non vi amerò per sempre di Giancarlo Marinelli. Sono ferite che rigano la superficie solida degli avvenimenti o si trasferiscono nel paesaggio ove trovano immediata corrispondenza con gli stati d’animo affannati: il labirinto d’ulivi del Getsemani, da cui proviene un prolungato lamento; l’ingresso del Tempio ridotto a un informe ammasso di uomini e bestie. Analogamente su Maria, che vuole indietro il figlio, si abbassa il cielo, «fazzoletto» sciupato dalla pioggia. E la pioggia sprizza l’armonia che sta rinascendo fra il governatore e la moglie, scomparsa per difendere nell’esilio il suo sposo e conquistata dalla parola del Salvatore. Insiste, Pilato, nella forma vana dell’interrogatorio del prigioniero e, incerto, febbricitante, non sa chi dei due abbia in pugno le redini del gioco. Ed è un gioco spietato, senza tregua, il duello del governatore che con la sua sfrontatezza lascia dietro di sé, nella cella, una scia «oscena», mentre Gesù resta sempre come in controluce, immobile, «accartocciato in una maceria di sassi», nel suo «inumano» potere senza sogni. E il cielo illividito, si adira e si ritira e non risponde più. Il romanzo, attraversato da scene corali trascoloranti in atmosfere ansiose e da momenti di intenso intimismo imbalsamato nell’involucro dei corpi, trasporta un grande carico di fisicità corredata da un disseminato richiamo sensuale e allarmata da una sorta di spaesamento che imprime un’inclinazione di pericolo al movimento scenico. Si impongono certe stazioni espressive

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NARRATIVA

ITALIANA

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di un realismo visionario nel quale la parola riesce a dare alla pagina una serie di punti di raccolta dove si indirizzano le frasi di un immoto stupore, la «protesta che striscia» sul lastricato, il carattere d’infallibilità che guizza nelle predicazioni, il suono di una voce che non si sente, l’amara seduzione del ricordo. La sfericità del contesto (tutto ruota intorno allo sguardo del Rabbì che, «si spalanca solo per pregare») tiene maggiormente avvinte le molte figure: Joaddan, la fanciulla un giorno invidiata anche dal vento e ora devastata dalla violenza dei soldati e inchiodata all’assurdo buio della follia, e la Maddalena, meretrice redenta che rinasce dalle ceneri del suo passato; il sacerdote Anna, dal vitreo colore del viso illuminato da pupille verdi, e Caifa, costretto a patire la sua dipendenza da Anna; Maria, che nella grotta non sa se il destinatario delle sue domande sia il figlio rinchiuso in prigione o Giuseppe da poco morto, e Salomè, forse l’«invenzione degli uomini» per trovare un «contraltare femminile» alla loro malvagità; Erode, che si confonde nell’«opaco splendore del mattino» dopo un drammatico dialogo con Pilato, e Flavio, il legionario poeta. Crudeltà e tenerezze, odi e amori, desideri e paure della morte, e sempre la «maledetta pioggia che si adegua al clima di guerra» si susseguono in un romanzo che armonizza su vari piani narrativi interruzioni e rilanci, episodi concitati e altri venati di pensosità e lirismo e altri ancora fatti balzare dall’improvvisa luce di un flashback che riesce a raccogliere appoggi sufficienti per sostenere il flusso omogeneo del racconto. Anche i diversi livelli del linguaggio trovano unità in una miscela in cui il realismo potente di base è trattato con quella sicura mano letteraria che può regolare pure le più ardite vampate metaforiche.

La scordanza di Beppe Lopez Scandito in due ben compiuti blocchi temporali (gli anni segnati dalle speranze del ’68 e quelli curvi sulla fine delle illusioni), La scordanza di Beppe Lopez è un romanzo corposo e fittamente tessuto di densi impasti linguistici nei quali il sostrato dialettale del «Tacco d’Italia» si verticalizza in una prosa dura, percussiva ma pure smarrita in controcanti pieni di dolcezza, in un arcaico sapore di passioni violente, di furori. Uno stile analitico, insinuante, in grado di trascorrere da un episodio all’altro senza accusare sbandamenti tonali, variazioni di intensità emotiva o di movimento scenico, allaccia i fili dell’impostazione cronachistica fondata sull’amalgama di resoconto minuzioso e indagine psicologica, armonizzando la ricostruzione storica con le parcellizzate fasi delle vicende del protagonista.

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La storia di Niudd’, che dalla natia Bari si trasferisce a Roma per svolgere la professione di giornalista politico, si sviluppa lontano da ogni sovrasenso: penetra nel cuore dei fatti con immagini chiuse e quasi autosufficienti che fanno sporgere anche le rare punte del fantastico e qualche flash anomalo di esterni (ecco una «fettuccia di luce che taglia l’ammattonato») da una compatta compagine di eventi. Partendo dagli spiccioli dati personali dei singoli personaggi, Lopez interroga spaccati di respiro sociale mediante l’esplorazione di complessi universi familiari e l’impiego di intrecci che rispondono sia a necessità romanzesche, sia a richieste razionali, concettuali, a motivi di riflessione e ricerca ideologica. Non si tratta di un’invasione del saggismo, poiché il punto di partenza è sempre quello della vivacità narrativa: solo che la materia è rapportata a un’ottica problematica, di denuncia, di comunicazione, che intende imporre, anche con un linguaggio talora ermetico, un impeto (o un suggerimento?) vitale alla coscienza di un’operazione critica risolta in rappresentazione. Crollati i sogni epocali (sullo sfondo, l’assassinio di Aldo Moro, pone il Paese fuori da ogni regola: «tutto assorbito, lottizzato, blindato, inferocito»), Niudd’, «disperato ma lucido», solo, dopo aver abbandonato la moglie Iagatedd’, «pulita e senza tormenti», fa ritorno a Bari, dove si «vuole accucciare» in ansiosa attesa della figlia Saverin’, fuggita a Bologna. Il tempo passa, in un luogo immobile che pare quello di cento anni fa. E talora di notte all’uomo sembra di non essersi mai mosso dalla sua terra. Risalgono dal buio i visi amati, la nonna, la bella Stefanell’, Rigonett’ e Amina e Miriam e Clara e le altre figure di una favola che lascia sempre fuori Saverin’. La pagina diretta e implacabile estrae intanto il senso dalle cose, la loro consistenza e i loro estri e ne devia gli echi e i rimbalzi verso una nuova, aspra concretezza.

L’amico delle donne di Diego Marani «Ernesto sapeva chiaramente a cosa andava incontro ogni volta che incontrava una donna»: per timore di «fallire la seduzione», si arrende offrendo subito un’amicizia tranquilla. Lo spinge una «voglia di sofferenza» che colpisce la donna e lo induce a volerne vedere un’altra. Quarantenne, professore di lettere, sposa Nadia, vicina di casa fin dalla fanciullezza, scegliendosi anche un’amante come via d’uscita dalla sicurezza che gli infonde la moglie. L’amico delle donne di Diego Marani racconta le inquietudini di un uomo che spera di essere rapito da un grande sogno, ma avanzando sembra il superstite di una «catastrofe» di cui nessuno si accorge.

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NARRATIVA

ITALIANA

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Il paesaggio cupo di una città che riprende il suo «sordo battito» e un sole maturo che piove sulla tappezzeria rosa «come un grido d’accusa» divengono la condizione ideale per lo stato d’animo di chi si getta «stordito» dietro a ogni giorno «come giù da una rupe». Stato d’animo che si riduce di volta in volta a puro evento: il racconto, così, inanella episodi su episodi, scarnificandoli, trasformandoli in frantumi esemplari di un universo di pulsioni ossificate e di mete inavvicinabili, di miraggi azzerati, passioni incenerite. La pagina, paradossalmente, prende vigore là dove si spezza in aneddoti, dove consuma la propria spinta e rilancia in atteggiamenti diversi le medesime derive del personaggio. Nascono altre accelerazioni, imprevisti impulsi, e si rinvigorisce una trama che sembra sul punto di arrestarsi. E allora una rinnovata invenzione rimette in moto una catena che sgrana molti personaggi femminili. Passano nella memoria, o nel «poderoso affresco dell’anticipazione» della fantasia del protagonista, Laura, avviluppata nel «bozzolo» del fascino di Ernesto; Marisa, con le sue schermaglie amorose; la giovanissima Lucia che pare inseguire un disegno e recitare nel buio; Jasma, la massaggiatrice slovena, semplice e calma nell’affrontare le cose. Figure studiate nelle più flessibili sfumature, disinvolte, appassionate, maliziose esistono solo nella scena che il protagonista ha creato per loro, nello «spettacolo» che le lusinga. In questo «circo» amaro e festoso si compie la vicenda di un giocoliere, di un illusionista che non riesce mai ad essere se stesso. Sempre assediato dalla solitudine, dall’ansia celata nell’allegria, dalle chimere della perdizione. Intorno, il passare delle stagioni modula spiragli di natura invasa dal perenne variare dei colori «nella vecchia storia del nascere e del morire». Dalle luccicanti insegne dei caffè e dalle stordenti immagini del Carnevale si spazia fino a riviere desolate dove consunte barche perdono la vernice. E si affaccia una Trieste «languida» negli ultimi fuochi dell’estate, «dolciastra e appiccicosa» come Ernesto e premurosa di trattenere a ogni tramonto una scheggia del suo paesaggio. E poi v’è il castello di Miramare, che nelle morte stagioni sembra «più bugiardo del solito». Nervosa, la scrittura si assottiglia fino a raffigurare anche l’insignificanza di un gesto, o si amplia fino a far brillare la spirale dell’instabile, corposa e trasparente, elastica nel dilagare in nuove zone e pronta a popolarsi d’altre storie dove la «mutilazione» della vita non cede mai la sua «euforia narcotica». Infine, il «tremolio ricolmo» del crepuscolo torna a svegliare tutte le dolci voci della sera.

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Via Castellana Bandiera di Emma Dante «Ogni cosa a Palermo è estrema. Grottesca». Nell’opaca luce di scirocco si arroventa l’asfalto. Lingue di fuoco «leccano» gli scheletri di ville abusive rimaste incompiute. Mostri di cemento incombono sul quartiere della Fiera, allontanati dalla città dall’illusione ottica delle radiazioni del sole. Nell’inferno della calura il castello d’Utveggio fuma sul Monte Pellegrino. In questo angolo cupo di Sicilia due donne stanno fortuitamente per incontrarsi. Lo sfondo è quello di una strettissima strada che fende la città. Le protagoniste sono l’anziana Samira, un’albanese che ogni domenica resta immobile e vuota «come una vecchia barca di legno tirata a secco», a guardare con odio il mare; e Rosa, dall’«anima inquieta», che nasconde dietro una vita comune la propria omosessualità per la quale è stata costretta dal padre a scappare di casa e a rifugiarsi a Milano, ritirandosi sempre di più nella sua «colpa». Ed ecco le due donne, alla guida delle rispettive automobili, una di fronte all’altra in quel vicolo angusto. Nessuna intende retrocedere. Nel frastuono generato dall’ingorgo nascono due fazioni contrapposte fra gli abitanti: alcuni parteggiano per Rosa; altri, e sono i più, per Samira, suocera di Saro Calafiore, capo di una potente e numerosa famiglia. Il plurilinguismo irto di scatti, timbri smorzati, rilanci acuti, sostiene, in Via Castellana Bandiera, primo romanzo di Emma Dante, il sorgere di note ora liriche, ora drammatiche, ora pensose e risentite, cercando di costruire un mosaico di voci, il rapsodico suono di un mondo concreto e stralunato. Gli avvicinamenti verbali stridenti, aspri nella dolcezza di cadenze antiche, si accordano con i lasciti di un parlato più neutro che però assume nuove intensità e costruisce la base di un realismo pastoso, anche crudo, idoneo a consentire un incessante ricambio di figure. La sobrietà di azioni e dialoghi spogli, sì da rendere personaggi e intrecci quasi automatici, viene integrata dal filo degli interventi della scrittrice che vieta il pericolo del saggismo e alimenta una incisiva carrellata di descrizioni topografiche, il «quotidiano squallore» di vite allo sbando e l’apocalittico «presagio» mandato, in conclusione, dal cielo.

La città perfetta di Angelo Petrella Una scrittura secca, aspra, segmentata, trasferita dal parlato in un’area densa di impeti di trepidazione che precipitano prima di compiersi in una comunicazione completa: slanciati, invece, a dare subito cose a mezz’aria,

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NARRATIVA

ITALIANA

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figure dell’immaginario collettivo, spruzzi di colore locale, di una Napoli rovente e fumosa, affondata nel buio di mali antichi contro i quali si frange una marea di sogni e di condanne. Un coro traboccante di movimenti fisici impressi in fotogrammi velocissimi libera a intermittenza qualche volto, un nome, immobilizza una scena, fa rimbalzare una voce, sospendendola minacciosa, dal rumore alto di fondo: dai tifosi rissosi di uno stadio ai manifestanti di un corteo si slaccia l’inflessibile variare del racconto che, attraverso l’angolatura di tre personaggi, sembra sempre spostare altrove lo spettacolo, mantenendo però un aggancio con gli eventi politici e sociali contemporanei. La città perfetta di Angelo Petrella chiude in un arco temporale breve (dal 1988 al 1993) la plumbea immobilità di un male diffuso un po’ ovunque, che si ramifica grazie alla rappresentazione articolata del visibile e alle riflessioni interposte, o sospinte nel silenzio, sui «valori naturali» della gente. La conoscenza diretta, da parte dell’autore, dell’«universo» partenopeo autorizza l’impiego copioso di un linguaggio mimetico, enfatico e criptico, costituito da raffiche di innesti di forme gergali, e, insieme, il rilevamento spietato di ambienti degradati e violenti. Non mancano neppure eredità di tecniche compositive delle avanguardie, come le cadenzate inserzioni di un folto materiale documentario: citazioni di giornali, trascrizioni di intercettazioni telefoniche, rapporti informativi della Polizia, relazioni di ufficio, proclami studenteschi, graduatorie di concorsi, lettere aperte. Sanguetta, sedicenne malavitoso, che diviene informatore dei Servizi segreti, si congeda con il desiderio di pigliarsi la città; Chimicone, studente che, con la compagna Betta, passa nelle file del terrorismo; l’Americano, agente della Digos che, cercando di vendicare l’uccisione di un amico, muore in circostanze misteriose, sono centrifugati in una successione febbrile di intrighi dai tratti estremi, sostenuti da una sorta di drammaticità prosciugata ma non inaridita nell’icastico ambito di scene che senza sosta si scambiano le prospettive. Ne scaturisce una fascia di microstorie che hanno inizio là dove non pare esistere alcun presupposto per il loro stare in perenne esposizione. E neppure si fa avanti il conforto di un soffio di memorie capaci di far emergere linee di un paesaggio complice. Un registro fosco incapsula in referti impersonali (e perciò più crudeli e agghiaccianti) momenti di vite spoglie: non cede allo spaesamento, ma, inossidabile, insiste nel far esplodere gli episodi di una realtà confusa, crudele, determinandone la ferocia pure con un lessico uniforme, fatto di termini ripetuti, di frasi isolate in una cronaca implosa di follia.

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Le cose accadono di Angelo Cannavacciuolo Giunto al «giro di boa» dei quarant’anni, Michele Campo, logopedista e io narrante di Le cose accadono di Angelo Cannavacciuolo, tende l’orecchio alla realtà che lo assedia. Da quel momento l’intero mondo gli crolla addosso, un tamburo incomincia a «rullargli nella testa» e dettagli, ritenuti insignificanti, assumono un particolare rilievo e lo incatenano con una sorta di presagio, un «potere divinatorio» celato sotto l’apparente casualità. Tutto ha inizio, nel marzo del 2005, in una Napoli insolitamente fredda, allagata da un nubifragio e sorvegliata dal Vesuvio che ha le «sembianze di uno di quei vulcani giapponesi perennemente imbiancati». L’incontro, avvenuto qualche tempo prima, con Martina, una bambina sgraziata, spaurita e con uno sguardo pieno d’odio, conosciuta in una casafamiglia, dove è ospitata per disposizione del Tribunale dei minori, apre a Michele un’inattesa e tormentata via. Frammenti descrittivi dalla segnaletica sinistra orientano il romanzo verso una impaginazione dai toni vibranti di angoscia: il buio assoluto delle strade fa pensare a un «gigantesco buco nero» che sta per accogliere, tra le «fauci spalancate», ogni traccia di vita; gli spettatori di un teatro richiamano l’immagine di «naufraghi alla deriva»; nell’atrio della stazione, deserta di notte «come un cimitero», sagome scure spariscono, per ripararsi dal freddo, sotto una «torre di stracci»; e anche il Signore, «schiantato» sotto il peso dei tanti peccati che sopporta in quei luoghi, decide di «levare gli ormeggi». Vibranti di angoscia si susseguono le tappe di un itinerario al tempo stesso illustrato e cifrato, fluido e asimmetrico. Una scrittura solida e coinvolgente, disponibile all’evocazione e a siglare con perentorietà un fatto, tende a lavorare, nella sua flessione memoriale, la materia più scottante delle cose e anche le atmosfere, i commenti, la «liquida agonia» e lo «scarto di un sogno» dell’esistere, e i punti di fuga delle scene corali e i contrasti delle tinte: angolazioni in cui la parola ora si rafforza nell’impegno civile, ora svaria per ancorarsi alle fantasie, ora riannoda il filo della cronaca che accompagna la discesa nel passato, lo scorrere di un «tempo mediocre». Da una parte, si accorpa la geografia concreta degli esterni: dalla Napoli sfavillante dei quartieri alti allo spigoloso groviglio dei palazzi fatiscenti; dalla «cattedrale di illusioni» del Centro commerciale alle «nuvolaglie» di carte che sembrano nel vento «esibirsi in una danza impazzita». Dall’altra parte, più impalpabile si leva il paesaggio ricostruito da quel «fievole ricordo in fondo al cuore» che fa pungente la pagina traslucida (capace però di incresparsi se l’uomo è assalito da una punta di visionarietà), abilmente celata sotto arcate lunghe, volte a sospendere gli accadimenti in un ritmo dolente

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NARRATIVA

ITALIANA

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che torna a ricomporsi dopo aver allacciato ampi lembi della giovinezza stentata di Michele, «con l’odore della miseria addosso», e dei suoi sforzi per approdare a un tranquillo stato borghese con la compagna Costanza, colta e determinata. La ricchezza umana fornita dalla presenza di numerosi volti (ugualmente indelebili: le fuggitive silhouettes incalzate da un «astruso disegno del destino», e le figure stabili, solide nel loro rassicurante ruolo sociale) prende sviluppo narrativo nel vitalismo acceso delle azioni e delle situazioni psicologiche emergenti da un mondo che più si teme quanto più si conosce. E si va, in questo onnisciente racconto, che sa spremere realtà dalle chimere, verso la fine con il protagonista cui la vita comincia a sembrare «ingannevolmente più accettabile».

La vita nuova di Giampaolo Spinato Schizzi di realismo ruvido e bollente, incisivo fino a toccare una fisicità quasi gridata, colpiscono la pagina di Giampaolo Spinato mischiandosi con i pigmenti di una rete espressiva affollata e pure un po’ cantante, volta a manovrare il piccolo universo di Gaia, una bambina che si avvia a compiere la sua iniziazione alla vita. Il mondo che progressivamente si apre sotto i suoi occhi è popolato da un’incredibile varietà di persone e di luoghi che paiono essere ritagliati da uno scenario uniforme, frantumato e con dentro la fantasia dell’io che li conserva, li soppesa, li squadra e li abbandona prima che arrivi l’urto di nuovi scenari. Tutta l’ambientazione e i visi di La vita nuova sono come arpeggiati da meditazioni sensoriali in modo ipnotico e, al tempo stesso, sono fissati dentro una robusta cornice che, contenendoli totalmente, ne brucia ogni movimento di fuga, ogni propagazione. Interni e visi si incapsulano nel resoconto di Gaia scosso solo da accadimenti minimi sui quali, cassolianamente, si deposita il transito neutro e caduco di una bigia esistenza domestica (grande importanza rivestono la nonna e la madre) da cui promana una malinconia di perdite incalcolabili e non arrestate appieno. Ma pur senza un gioco di riflessi v’è qualche musica in questo libro dove le immagini restano incollate sulla struttura ferma, scandita in tanti episodi, in caselle dalle dimensioni ridotte e chiare, con ambiti sezionati da un perentorio ordine epigrafico. Inossidabili legami indicano gli sviluppi promuovendo la registrazione anonima ad una svettante geometria fantastica. Spinato rallenta sui particolari, indugia in descrizioni infinitesimali abolendo i sussulti e disponendo in linea retta i campioni di segnali privi di sconvolgenti misteri, ma depositari del sospetto di un «buio senza fondo». Sono le cose,

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GIUSEPPE AMOROSO

gli oggetti, la messe delle vicende raccontate, la minuta sintassi quotidiana a far sibilare un allarme che il grottesco sparso ovunque si incarica di stravolgere e dissipare. Gaia, al centro, in uno «spazio senza tempo», con i suoi due custodi affettuosi, Svetlana, la badante ucraina dal «cinguettio che sgocciola come miele da un cucchiaio», e il Felicetto, gigante che sorride, con la bocca sgangherata e due guance «gonfie come salvagenti». Un romanzo lasciato alla bambina in eredità via e-mail da uno zio, scrittore abituato a «navigare con la fantasia», le suggerisce una strada che la porta ad attraversare gli anni distesi dal Sessanta alla fine del secolo. Una guida che illumina accidentati percorsi personali e dell’intero Paese, sistemati in un arco di racconto tra vero e magico. Talora si va dall’appagato cesello alla visualizzazione che «commercia con cautela» con molte tematiche dell’invisibile trattate al pari di qualcosa di nebuloso. Tra chi è «ancora uno stato minerale» e chi «vuole inventare cose nuove» corre un comune stato di solitudine cui si oppone solo l’«euforia» dell’amore: gli insegnamenti che scaturiscono dalle pagine dello zio filigranano gli anni dell’erede inconsapevole e confusa da segreti irraggiungibili. A gran ritmo affiorano passioni e voci, sofferte parole e silenzi irreali, i fantasmi di sempre e gli sguardi fermi dentro le ferite e nebbie e cieli tersi, mentre si cuciono esili fili di speranza.

Lola Motel di Marco Archetti Un paesaggio caldo, lutulento, di odori forti e di figure squallide, suoni d’ira e ritornelli osceni, fra un cielo distratto e un inferno laido, inverecondo. Felipe, l’io narrante di Lola Motel sprofonda nel delirio di una passione mercenaria per Dolores, in una luce verdastra che sbiadisce le voci, i silenzi, il disordine di una stanza di un albergo cubano. Marco Archetti riscrive il suo romanzo del 2003 raccontando stralci di esistenze senza equilibrio, «manciate di ore, di respiri, di passi», e una polverosa Avana dei piani bassi e quella altrettanto disastrata dei piani ultimi. Si aggira un’umanità sordida e disperata, di bambini che vanno incontro alla notte bella e ostile «senza guinzaglio»; di ubriachi e prostitute, di condomini rissosi e di poliziotti che setacciano le case. E case che si chinano con le «schiene rotte» e un’oscurità «lucida come un felino», lampioni che buttano «un latte breve» sulle strade e «folate» di oceano e ovunque visi torvi seduti agli usci. Un universo in agonia ondeggia con le sue follie ed è sempre immobile, intorno a Felipe zavorrato di pene: il padre chiuso in lunghi silenzi; la madre piccola e provata che rimbrotta tutti, la seducente e ostile sorella Ramona, lo zio Gerardino costantemente fermo alla soglia dei quarant’anni.

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Una musica assordante e insieme dolce, malinconica accompagna il viaggio di Felipe in mezzo a figure che d’improvviso si materializzano, ad altre che appassiscono sui divani e ad altre ancora sbandate e come rapite da un’aria che sembra esplodere. In via diretta attraverso il copione di Felipe e in un rovesciato cono di commento, il romanzo è una fucina di scintille linguistiche, metafore slanciate oltre l’azzardo, verità che sembrano menzogne dal momento che non ha mai un punto stabile e sciorina una miriade di cose che non paiono appartenere a nessuno.

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Il console Stendhal di Massimo Barone Civitavecchia si erge grigia e severa con i suoi possenti bastioni e i suoi edifici vetusti. I colli che la cingono fanno stagnare i venti di scirocco e per le campagne sembra palpitare un etrusco mondo sommerso. Immobile la vita s’addensa nella noia, meste sono le sere per Stendhal che qui arriva come console nella primavera del 1831 e che delle sue giornate dà notizia all’amica romana Clementina, in un fascicolo di lettere alle quali Massimo Barone, autore dei due bei racconti di Parco Nemorense (2005), affida la struttura del suo romanzo, Il console Stendhal. Ora rallentando la catena dei particolari fino a toccare momenti di cruda annotazione analitica, o di anodina referenzialità; ora puntando sul carattere eccentrico di situazioni o sulla bizzarria della propria indole, l’autore della Certosa si confessa in una narrazione avvincente, disinvolta nei bruschi passaggi e funzionale nei dispositivi più idonei a tener desta l’attenzione di chi legge. Si fa strada, prepotente, il personaggio della donna di casa, Assunta, silenziosa e allarmante, lontana anni luce dall’interlocutrice, ricca e irosa, di Stendhal, ma a lei vicina per un «vincolo sotterraneo». Non adeguato alla fatica e ai dolori, e pure alla gioia, il protagonista parla di sé, dei suoi malanni, delle persone che incontra (interessanti i curvi profili di una prostituta dal volto di cammeo e di un grottesco ufficiale), di caccia e archeologia e di fatti di sangue. L’interesse si sposta anche verso le vicende personali di Clementina creando in tal modo un ricambio di orizzonti che cuce sulle pagine un disegno di aspettative.

L’undicesimo dito di Maurizio Zottarelli Una partita di calcio è un «concerto senza partitura», ha il tempo preciso della musica, ora veloce, ora lento: è «un momento, e lì in mezzo c’è tutto,

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oppure niente». Sugli spalti si trova sempre uno spettatore che comprende il tempo della gara e comincia a suonarlo per un giocatore. E quest’ultimo gioca per il suo tifoso. Con L’undicesimo dito Maurizio Zottarelli segna il suo esordio narrativo edificando un romanzo breve ma dalla lunga gittata metaforica che trasferisce la storia di un grande campione irlandese, Kevin McKee, in pagine di forte creatività espressiva, mettendo accanto la riflessione e il corso dei fatti, l’intelaiatura biografica e i risvolti dolceamari di una favola. L’infanzia povera, in due piccole stanze, i primi calci al pallone nel vicolo dietro casa, la partita nella squadra giovanile locale, la palla che passa sopra la testa «come una quaglia in fuga seguita dai cani». Ma subito dopo quel qualcosa che scatta, un’energia nascosta, l’eco di un sogno di gloria. È un momento decisivo che però scompare nella tragedia della guerra. Poi tutto riprende d’incanto la sua corsa: con la maglia del Manchester MacKee disegna sui campi le sue irresistibili traiettorie, danzando intorno alla sfera come «un incantatore di serpenti» o facendola infilare nella rete, soddisfatta come «una fragola che si tuffa in una tazza di cioccolata calda». Idolatrato dalle folle, bravo nel difendere la sua vita privata, questo artista dello sport una notte improvvisamente entra nello stadio deserto e sotto i riflettori si mette a inseguire i fantasmi della sua mente. Un «musical forsennato» con tutto il repertorio di un funambolo. È l’ultima esibizione da quella notte d’aprile del ’57. Quindi la moto abbandonata al porto e la sparizione nel nulla. Una «resa alla palla che è rotonda». Alla musica vuota del silenzio. Ma è pure la vita che continua nella ricerca di una nota irraggiungibile.

L’estate del cane nero di Francesco Carofiglio I contorni di un ricordo mutano secondo una progressione di umori fino a diventare i profili di una storia diversa. Quel che resta intollerabile è il senso di paura che a lunga distanza di tempo sfuma nel fondo grigioazzurro della sera. L’estate del 1975 torna con le inverosimili luci di un abbaglio destinato a segnare la linea di confine: un dilatato mondo di fantasmi compatto nella sua finzione, irrimediabilmente chiuso nell’acquario dell’adolescenza che rispecchia solo i silenziosi guizzi del suo inganno. L’uscita da quell’immobile teatro di stupori, di vacanze e di feste, giochi e corse in bici, gite al mare e amori furtivi e incroci di sguardi, che sembrano promesse di chissà quali sorprese, sarà per l’io narrante di L’estate del cane nero di Francesco Carofiglio il banco di prova della vita.

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Matteo Leoni, tredicenne timido e amante della scrittura, racconta la storia e le figure, gli ambienti di quella remota stagione: la disinvolta e bella cugina Valentina, un gruppo di coetanei, una casa fra la campagna e il mare, un grande bosco e un cane nero minaccioso tra il fitto degli alberi. Tanti anni separano Matteo da quelle immagini ferme nello scatto di un’incancellabile memoria nella quale si disegna «una traccia imperfetta». Gli altri si muovono ambigui dentro la cornice, bruciano gli spazi ma hanno «una velocità differente». Le voci si infrangono contro un vetro decretando il senso di esclusione di Matteo che vede tutti i volti di quell’avventura sparire nel nulla. Il meccanismo feroce dell’esistere allunga la lontananza, non promette restauri, serra le porte, le apre agli altri. Il passato è un groviglio di buio in cui parole, rumori, il brulichio delle cose si confondono, mentre uno del gruppo se ne va verso una morte insensata, senza salutare. Ai ricordi toccherà di consegnare a Matteo questo niente, questo «gioco meccanico a corda, che prima o poi ricomincia».

Afa di Giulio Angioni In un’arroventata notte estiva di Sardegna, il giornalista Josto Melis, uscito da una cena di lavoro, sta per entrare nella sua Punto bianca, parcheggiata in un viale buio, quando una donna sbucata dal nulla gli si siede accanto, pronuncia parole incomprensibili e sparisce. Nel silenzio che segue sembra che stia per manifestarsi «qualche ignota e risaputa verità». L’immagine di lei, il suono di pendagli del suo bracciale, il modo di parlare marcatamente isolano da cui, metallico, erompe il nome della dea punica Tanìt, inseguono l’uomo nella sua bella casa affacciata su uno spettacolare paesaggio. È un rovello che chiama ambiguamente in causa il paese natale di Fraus, le sue antichissime origini, i Nuraghi, le pietre che incarnano paure, i demoni ancestrali. Con Afa Giulio Angioni torna a quella sua terra che gli ha dettato pagine intense di lirismo e vertiginosi incontri con l’invisibile. Si dilatano il tempo e lo spazio, anche i piccoli eventi hanno risorse di infinite domande, e silenzi e incantamenti sono tracce di un mistero che viene da lontano. Il presente ha risvolti nel passato: una donna di tremila anni fa, andata sposa nell’alto Lazio e sepolta con il suo corredo sacro, dà il via a un gioco d’ombre contagiose, coincidenze bizzarre e inquietanti, anodini fatti senza senso. Un «grande prima» rivive nella sonnolenta atmosfera della casa e capovolge i ritmi della vita di Josto. La solitudine – la moglie e la figlia sono al mare in vacanza – ha un cuore di tenebra, favorisce gli incubi, moltiplica i timori, mentre

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nel plenilunio riappare quella sagoma vaga della notte, per divenire, poi, la vittima di un fatto di cronaca balneare. Occorre dare un senso a quel mondo bruciato dalla luce di agosto. Forse, per trovare la chiave di tutto basta il sorriso che permette a un’idea molesta di restare appesa al protagonista «come il basilico a seccare». Ma al giornale arriva la notizia che la donna misteriosa annegata «è morta e non è morta». E si cancellano le distanze tra il reale tangibile e un’allucinazione. La verità somiglia alla «polvere di stelle» dell’astronomo che cerca spazi sul quotidiano locale.

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La rivincita di Capablanca di Fabio Stassi Ha una «cupa, fragile bellezza» il campione cubano di scacchi José Raul Capablanca, quando, nel 1941, a Rio Petro, piccolo paese sperduto tra i monti dell’Estremadura, dà inizio a una partita, con un giocatore venuto dagli Stati Uniti, che gli darà diritto, se vincitore, di sfidare Aleksandr Aljechin finalmente decisosi a mettere in palio il titolo. È salutato dalla festosa accoglienza di ammiratori appassionati ma incompetenti, Capablanca, giunto in compagnia della bella moglie Olga in questo «confine del mondo» anche spinto dalla speranza di guarire dal suo «sangue nero». È l’occasione attesa da tanto tempo quella che, dopo mille amarezze, può decretarlo finalmente vincitore e consentirgli di vedere il proprio volto stampato sui francobolli di Cuba, mantenendo così la remota promessa fatta alla nonna morente. Accostamenti di situazioni dissimili, contaminazioni di tempi e luoghi vengono impiegati da una pagina che suggerisce un senso di inappartenenza, l’articolarsi subdolo dell’ansia e del dubbio. L’attenzione di Fabio Stassi, in La rivincita di Capablanca, non si ferma troppo sui singoli episodi, scorre via rapida in cerca di nuovi fatti aprendo sotto la superficie un viaggio che insegue l’incognita delle cose, le mosse e contromosse di un’interminabile schermaglia con la vita. In un linguaggio piano, quasi rarefatto fino ad allontanarsi dal cuore della realtà per pedinare invisibili orme, il racconto incasella un gran numero di personaggi: il leggendario schiavo Felix, dall’insaziabile potenza amatoria; Aljechin, il genio che inietta teorie ariane nel suo gioco di attacco contrapposto a quello difensivo del rivale, espressione di una «razza bastarda e promiscua»; Madama Zlata, che accetta le lusinghe dei corteggiatori «come un balsamo per la sua bellezza che si corrompe»; il piccolo Xavier che vuole avere le mani lisce e profumate di Capablanca. Racconto di divisioni, odi, indomabili sogni, il libro di Stassi rovescia le vicende su scenari che si dilatano, disegnando di tessera in tessera un secondo orizzonte di

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segreti, di luoghi che svaniscono nel nulla, coincidenze che legano i destini, mete raggiunte e sempre più lontane. Nel vivo delle azioni, il protagonista è convinto di catturare, con una partita ben riuscita, la «luce dell’equatore», di redimere le cose dal loro «torpore» e pure di vedere i «contorni» della sua vita. Ma, insieme, di temere l’arrivo puntuale di un «errore».

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Ginnastica e rivoluzione di Vincenzo Latronico T, l’io narrante, la compagna Julie, SS (soprannome impegnativo del cinese Li), Charles e Cas (diminutivo di Cassandra, ma anche Clara, Nadja, Alexandra, Odile, Juliette...) sono a Parigi e nello stesso momento dentro la narrazione, una città finta, da «cartolina». Sono arrivati nella metropoli per illudersi che i loro destini «inutili» possano condurli da qualche parte. E intanto vivono con leggerezza la loro stagione di ventenni, contestano, cercano in una manifestazione di larga risonanza risposte ai loro problemi. Giocano a fare i fotoreporter organizzando un archivio dal quale ricavano qualche piccolo guadagno. Vite disordinate che si consegnano con tutte le loro illusioni al primo anno del secondo Millennio. Caratterizzati da ritratti segnati da un’intensa luce, che mette a nudo le più recondite pieghe dell’anima, i protagonisti di Ginnastica e rivoluzione, di Vincenzo Latronico, tracciano le loro storie tra una «felicità nervosa» e il sentirsi parte di un progetto grande. E si configura un racconto di avventurose vite imbarcate su quel «barcone ubriaco» che le porta alla deriva con «erratico brio». Ed è infatti timbro stilistico del libro l’alternarsi di atmosfere pesanti e dannate con altre contagiate di sorriso. Una miscela che si esprime in una scrittura ondosa, ad ampie volute, ora lenta nell’arco complesso degli incisi, ora vibrante nella prontezza ansiosa del dialogo, ora nervosa in certi passaggi ideologicamente marcati (la creatività dei personaggi, da un lato; dall’altro il «fosco potere» del capitale e dell’industria). Non manca l’intervento dell’autore che, intrufolandosi nel testo, parla dei meccanismi lenti delle cose che accadono e non rendono percepibile il «sugo» della storia. Corre in tutti l’attesa dell’imminente manifestazione di Genova, mentre si continua a discutere di visioni, del modo di «inceppare gli ingranaggi». Così questi giovani parlano, riempiono le piazze, vanno alle feste, si perdono, si ritrovano, ed entrano a far parte di un coro anonimo e turbolento, incerto nel suo stato limbale di protesta continua, greve, monotona. Piccole figure sfocate, vanamente protese verso un sogno che sogno non è, ma disordine: con troppe parole, con «rabbia» quotidiana. Nel frattempo Julie, bella e leggera, con lo «sguardo da poesia di

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Botticelli», si allontana dal gruppo immobile in un «copione già scritto». Ma altri personaggi entrano in scena, altre vicende crescono in tumulto. Sullo sfondo, visi «depressi e schiacciati»: qualcuno già sconfitto prima di iniziare, qualche altro nelle «intercapedini» ad esercitare la sua resistenza. E c’è pure chi spera nell’avverarsi delle proprie «profezie», e c’è l’io che se ne va guardando i «fuochi fatui» alle sue spalle.

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L’amore necessario di Nadia Fusini Sola, nel vuoto di un’assenza, seduta su una sedia «precaria» del bar di un aeroporto semideserto, una donna in procinto di partire per destinazioni diverse, scrive una lettera all’uomo amato da cui si allontana. Livida, una luce al neon diffonde una desolata atmosfera mentre la donna rievoca la sua storia partendo dal primo incontro in una piovosa giornata di fine estate. L’amore necessario di Nadia Fusini prende avvio da un grappolo di sensazioni che si sottraggono a poco a poco all’intensa fonte di visioni che sembra abbacinare il paesaggio «immenso», l’altopiano «gigantesco» sprofondato in un passato immemorabile. I sentimenti si impastano con la materia nella quale accadono le «cose remote», dentro un tempo anomalo che cambia ritmo e confonde le immagini di fuori con quelle della mente. L’alternarsi di reale e immaginario, di occasioni concrete e congiunzioni astrali imprime al racconto un passo ondoso, di pienezza assoluta di volumi e di ambiti contratti, istanti secchi, pensieri folgoranti. La vicenda brucia nel cuore di parole accese, si placa in riflessioni morbide, riprende un percorso coraggioso nell’aprire la direttrice narrativa a una serie di intersezioni di varia natura: dalla riflessione estemporanea a quella condizionata dal vivo dell’amore; dallo sguardo che si posa fuggevole sull’esterno all’assedio pressante di un interrogativo. A volte il corso dei fatti si ferma assorbito dal processo di un’analisi serrata di un gesto, un desiderio, del mutare di un colore dell’aria. I personaggi partecipano all’angoscia della protagonista come manovrati da un filo che può dirottarli altrove, farli uscire di scena con leggerezza, sulla scia di un incantamento dove un atto «resta mitico». L’insensatezza, la follia, la dedizione totale, gli errori, allineati gli uni accanto agli altri «come cadaveri», precipitano in una vertigine, in un miraggio, in un’allucinazione. La scrittura raccoglie la sfida, l’«alluvione» di emozioni non disdegna l’enfasi ma ne controlla i flussi, ne cesella gli spietati furori, segue con lucido affanno la «tensione che vibra nel tono».

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Maschio adulto solitario di Cosimo Argentina Un romanzo scuro, dall’incupita, soffocante aria di disfacimento e di allerta che si materializza nella realtà tumefatta, nei volti sfigurati dalla cieca vendetta di un destino avverso, di un perfido gioco senza senso, o anche di un colore come quello dell’insegna verdastra di un albergo che trasforma i passanti in «alieni». Pensieri planano in una «palude pestilenziale», e i palazzi della passeggiata di Taranto sono il «vomito» degli speculatori. La vita di Dànilo Colombia, l’io narrante di Maschio adulto solitario di Cosimo Argentina, è un inferno: diciottenne, in servizio militare a Bari, conosce solo l’«oasi pulita» dell’amore per la giovanissima Sara. Una tregua che però dura poco, poiché la ragazza si suicida. E Dànilo per consolarsi cerca di vedere quella morte «da un punto indefinito di una galassia lontana». Sulla pagina infuocata, irsuta e tenebrosa e ilare, si coagula una magmatica avventura esistenziale scandita per scene anomale, abitate da un’umanità oscena, piombata nella mediocrità e in sintonia con ambienti deturpati. Analogamente, l’io con «giri di squalo» si irretisce negli angoli più desolati della sua città natale, dalla quale si allontana per cercare lavoro al Nord, simile a «uno di quegli animali nei film di Walt Disney mentre camminano nella tormenta di neve», e lì tenta di vincere gli «spiccioli di solitudine che gli ballano nelle tasche». Intorno, gli «Invisibili», guardandolo con i loro morti sorrisi, lo aiutano a sopportare quell’inquietudine che lo riporta presto alla sua terra. Pagine su pagine di un realismo colmo di putredine fanno salire da un colloso buio volti e volti di vizio e dannazione: un inferno nella «palude urbana» tra fantasmi e veleni, vittime designate e idoli truccati. Nulla resiste alla devastazione: la gente si ingobbisce sotto la pioggia, l’io è uncinato da una specie di anima, la morte è un po’ dovunque. Gesti, parole, azioni hanno l’uguale forma di un incubo frenato dall’ironia innescata ora in una breve sortita dell’autore, ora in una guidata scelta lessicale volta ad abbassare il tono, ora nell’adozione di qualche similitudine inusuale. Anche il rialzo delle esclamazioni talora sortisce effetti così sonori da generare inediti rimbalzi di pacatezza e di equilibrio. Ma il protagonista, che cambia diversi mestieri e infine fa l’avvocato, resta sempre in possesso dei suoi «mitragliatori mentali». Anche l’ancora di salvezza, rappresentata dalla giovanissima Giovanna, si presenta sotto un cielo «siderurgico»: una pallida luce che si spegne.

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Silenzi vietati di Francesco Ceccamea Irregolare, flessibile, sghembo: il romanzo di Francesco Ceccamea, Silenzi vietati, è un turbinoso corpus di e-mail inviate da Francesco, un giovane tutto il giorno chiuso in casa «con una faccia da interista il lunedì mattina», a Massimo Onofri, il critico letterario suo ex insegnante all’Istituto tecnico commerciale e all’occorrenza scelto come privilegiato interlocutore, «brillante come un tavolo di mogano appena lucidato». Sono lettere inviate dal «margine della vita», da cui il nevrotico estensore non intende sganciarsi, che descrivono con feroce spietatezza, e con narcisistica enfatizzazione di ogni atto, lo stato di implacabile solitudine dell’io e insieme la vischiosa monotonia della provincia viterbese. Le deviazioni di argomento, gli incisi, i commenti, le prolungate illustrazioni pure di particolari irrisori e, per contro, certe fulminanti sintesi, i toni alti, strozzati e gli ironici autoascolti danno al testo un andamento anarchico e una furente musica di fondo, una vocalità a tratti sfumata, pronta a rinnovarsi e un’accorata voce insinuante. Francesco frequenta un corso di scrittura creativa: depresso, è in analisi, legge e fantastica sulle donne in un «vortice di incertezza», ha un problema con il sesso e si serra in sé come in una specie di «bunker antiatomico». Anche i rapporti con la famiglia sono disastrosi. Dalle concitate parole emergono ritratti a forti tinte: il padre infermiere, che trascura la casa e riserva ogni suo tempo alla caccia; la madre che «si rivolge a Dio»; la sorella tossica, senza un «cervello fisso». Il romanzo, che sciorina una «processione carnascialesca» di volti e miscela con frenesia vari registri linguistici, ha una struttura circolare, riferendosi a un interlocutore che non risponde: da qui il rimbalzo che la confessione del protagonista ha verso una pronuncia animata dalla volontà di non volere «un pubblico da deludere». Il discorso ardito, condotto a estreme sponde di stupore, metabolizza le molte variazioni di ritmo e di forme letterarie (si va dal dialogo al monologo, dall’intervista al saggio) in un flusso impetuoso di microepisodi che fanno del loro tempestoso disordine un potente veicolo narrativo.

Poco più di niente di Cosimo Calamini È fine agosto e fa caldo in un quartiere della periferia di Firenze immerso nella solitudine. Quattro amici non vogliono tornare a casa: Vanni, provocatore e spavaldo, Enrico, coraggioso e amante del rischio; Mosè, «brutto come il peccato»; Pedro, con la sua faccia di bronzo. Sono trentenni allegri

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e in continuo conflitto con le asprezze della vita, con il lavoro. Convinti che in giovinezza v’è sempre qualcosa da fare e in grado di gettarsi alle spalle anni e anni di frustrazioni, i quattro protagonisti di Poco più di niente di Cosimo Calamini popolano convulsamente un esiguo spazio narrativo zeppo all’inverosimile di oggetti, microazioni, dialoghi sorti dal nulla, gesti tracciati nel vuoto, clamori e silenzi surreali. Piccole peripezie enfatizzate occupano le scene creando un leggero effetto di sbandamento dal quale la cronaca realistica, pulviscolare e rallentata appare come raggiunta da un turbamento. La vicenda ruota intorno ad Enrico che accetta un contratto di infermiere con il compito di assistere Adelaida, un’anziana signora appena dimessa da un ospedale psichiatrico. La casa della donna riserva una sorpresa: tutte le pareti sono tappezzate di scritte, un vero mare di lettere e simboli che i quattro amici cercano di decriptare immaginandovi celato chissà quale tesoro. Sono parole che «cantano»: forse parole «universali, che possono aprire brecce nell’animo di più persone»? O forse alcune sono senza senso, ma circondano altre piene di significato? Di certo conducono nel passato della donna, in un paesaggio rimasto immobile, dove le figure si muovono come «dentro una palla di vetro». Alla morte di Adelaide si apriranno molti scenari, ma l’eredità più incancellabile verrà da una frase scritta sempre sul muro della sua casa: «...poco più di niente resta del mio silenzio lungo quanto un amore».

Uno sconosciuto alla porta di Alessandro Tamburini Cinque racconti dal ritmo sicuro, incentrati su un punto di rottura, su un equilibrio che si spezza mettendo a nudo la fragilità dell’esistenza. Uno sconosciuto alla porta prosegue quella ricerca di indizi che Alessandro Tamburini manda avanti fin dall’esordio, segnato da Ultima sera dell’anno (’88), per vedere e accettare (come nelle Luci del treno: ’92) l’unica fine di una storia. In un’anonima città straniera, un insegnante precario condivide un piccolo appartamento con un bizzarro personaggio, gran bevitore abituato ad ascoltare di notte, ad altissimo volume, i dischi della sua cantante preferita. Un professionista, sceso dal treno, nella stazione del Brennero, per fumare una sigaretta, rimane a terra per un disguido e nella notte, vagando per la cittadina deserta, bussa a una casa dove un’anziana signora, provata dal dolore, lo scambia per il figlio morto da qualche anno. Un impiegato al museo di scienze, che si diverte a trovare occasioni di vendita e di acquisto sulle pagine di un giornale specializzato, ha modo di incontrare uno sconosciuto «estratto a

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caso dall’umanità circostante», un omosessuale «vibrante di un’ansia minacciosa». Un tassista di notte, assalito dai ricordi della fidanzata Valeria, vuole «rotolare dentro il mattino come un bidone che il vento spinge in fondo a un vicolo» e intanto coltiva speranze di evasione. Per allontanarsi dalla dimora in cui è vissuto con una donna, il protagonista dell’ultimo racconto si trasferisce in un tranquillo paese affacciato su un lago, ma non riesce a respingere l’immagine di lei che scivola su ogni altra come una «moneta falsa» di cui è impossibile liberarsi. E a lui, «prigioniero di paradossi», toccherà un giorno un’incredibile sorpresa che farà più splendenti le luci delle sue finestre sul lago. Ovunque, in questi agili e intensi testi, si respira aria di pericolo che svanisce in un’atmosfera diffusa, leggera. Anche la natura indifferente sembra osservare le cose che passano, mentre aleggia un senso di vuoto e le parole si librano nell’aria «come battiti di ali» e invisibili abitanti vanno per strade senza tempo.

L’archivio segreto di Annarosa Mattei In un elegante appartamento di un quartiere residenziale di Roma, la protagonista di L’archivio segreto di Annarosa Mattei parla con alcune amiche di letteratura. Ma intanto la polvere leggera del tempo che se ne va, l’assedio della solitudine, l’inappartenenza alle cose stringono inesorabili tutto, diffondendo una stranita atmosfera nella casa che a un tratto diviene una «zattera di naufraghi». L’indomani, nella triste aria di un mattino piovoso, la donna gira per le vie della città a «gustare» il mondo, tra una folla anonima di «marionette volteggianti». La invadono confusi pensieri mentre comincia la sfilata degli incontri: personaggi arrivano dal nulla, parlano, si spargono nell’esile trama con le loro storie personali, si perdono, continuano a resistere nella mente dell’io narrante. Sono figure svettanti, ombre sommesse, tracce di colori e suoni nel vertiginoso caos di corpi, automobili, segnali molesti. Ecco Edvige, «ragazza centenaria» presa dai suoi studi filologici, e un uomo, sempre in viaggio. I loro discorsi si mischiano con i ricordi della donna che pur subendo queste estemporanee comparse sembra volerle evocare, chiamarle dall’assenza ad una nuova esistenza di racconto sapienziale, sotto un volo di «trionfanti» gabbiani. Il tempo immobile delle pietre, gli edifici carichi di gloria, i dettagli che sfuggono, il sortilegio delle ore che piega i luoghi a un riflesso di malinconia, a un «assemblaggio provvisorio costruito dai sensi» oscillano nell’onirica inerzia di visioni che forse sono solo un gioco razionale, il «ronzio del vuo-

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NARRATIVA

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to». I monumenti dell’antica Roma, le strade storiche paiono nuovi sfondi di illusione, vivi e perduti nel continuo mutare dei punti di vista. E passano altri personaggi che non sanno di essere «in un quadro diverso». Senza ancoraggi, il tempo crea e dissolve i percorsi di un viaggio che fa apparire vera ogni finzione. La scrittura abbandona il suo movimento cronachistico, dilata gli episodi, aggancia i nomi al pendolo oscuro di una storia non scritta, a «fulminee attrazioni». Le spicciole frazioni del presente hanno una scia ciarliera di leggenda.

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La guerra dei cafoni di Carlo D’Amicis Siamo nel pieno degli anni settanta, in un villaggio della costa salentina. Figlio di signori, Angelo è un «leader carismatico». Per la somiglianza con il terzino sinistro della nazionale di calcio brasiliana, è chiamato Francisco Marinho. Per i poveri, quelli che frequentano l’altro lato della spiaggia, è, invece, il Maligno. Ma al protagonista di La guerra dei cafoni vanno bene tutte e due le versioni: «divinità pelagica» o «apocalittica minaccia». Il romanzo di Carlo D’Amicis è la storia di una lunga estate di divisioni insanabili e feroci tra i giovani delle ville, i ricchi, e quelli del borgo e delle campagne, gli zotici, «macchie scure» palpitanti sulla sabbia. Teso e scorrevole, il libro narra le vicende grottesche di un dissidio costantemente aperto, ostinato, in cui piccoli personaggi divengono metafore di più vasti problemi sociali, della temperatura di un Paese che mostra i segni di profondi cambiamenti. La vita dorata dei borghesi e la «selvaggia plaga» dei cafoni si scontrano in una pagina sfrenata di voci, colpi di scena, variazioni di colori e prospettive. Un movimento irrefrenabile di immagini febbrili traccia uno spettacolo epico-comico, visibilio di corpi, gesti protesi, inquietudini, scoppi d’ira che infiammano progetti d’avventure, guizzi di frasi, proclami bellici, raffiche di parole fantasiose. Da un lato Marinho, con i suoi compagni sicuri di sé; dall’altro Scaleno, alla testa di un gruppo di «ruvide scorze», di incapaci di «invertire un destino che li vuole inetti e sottomessi a ogni forma di potere». E su tutti i contendenti un «fumo acre e denso» che fermenta e fa avvertire la presenza di qualcosa di nuovo. E anche gli «echi di effervescenti schermaglie» si spengono quando Marinho conosce Mela, una della parte avversa, che lo conquista con un «sorriso immacolato» e un «silenzio fiero». L’estate che finisce trascina «in un unico struggente tramonto il fulgore di un’epoca». E sta per nascere un’«alba rovesciata».

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GIUSEPPE AMOROSO

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Icaro di Francesco Guccini Sette racconti tenuti insieme dalla pasta resistente di una scrittura vivace, in superficie levigata e sciolta, ma nel suo spessore fitta di spigoli, immagini imprevedibili, scosse e brevi pause di assestamento e nuovi slarghi controllati, nei quali le cose, non molte e disciplinate, si muovono con la riflessione dell’autore mai disposto ad abbandonare il suo mondo. Presente sempre, in modo discreto, per dare al testo un’impronta di impegno rigoroso, uno sguardo capace di apprezzare un campo largo e anche un solo indizio che tende a sfuggire, un riflesso anomalo e pungente ed enigmatico. Da Cròniche epafàniche (1989) a Cittanòva blues (2003), Francesco Guccini è andato costruendo una pagina fitta di impressioni sonore prolungate, senza cedere a cadenze di enfasi, bensì profilando una prosa lirica, cosparsa di minuscole voci e scie, di conforto e di pena, talora sospese in un trasognato viaggio. Ora, con Icaro le sue scelte stilistiche si sono fatte più esigenti e raffinate, essenziali e quasi calligrafiche nel disegno fermo e cristallino dell’espressione lapidaria, nel taglio breve e secco della frase che tende a chiudersi in sé, come a voler vietare prolungamenti sfumati, nomi simili a costellazioni di vicende non rivelate. Una Palermo degli anni Trenta, nella quale un cocchiere mostra di adattarsi perfettamente alle regole dell’omertà, apre la serie di sfondi sobriamente delineati, squadrati da pochi segni incancellabili che nella loro immediata efficacia fissano un paesaggio in una dimensione spirituale e sociale. Così, una cittadina brasiliana della costa mischia la sua leggera aria di divertimento e spensieratezza con la violenza del brutale interrogatorio di un presunto rapinatore, in una scalcinata stazione di polizia. Le mura diroccate di una centrale idroelettrica, fatta saltare dai tedeschi in ritirata, sono il teatro del dramma che vede protagonista un ragazzo venuto in possesso di un ordigno bellico in un villaggio di vacanze di Mauritius. Alcuni turisti italiani sono truffati dall’astuzia di un vecchio con una scimmia. Due giovani partigiani, di guardia nei posti dell’Appennino tosco-emiliano, vengono interrotti nelle loro svagate conversazioni dall’arrivo di un’autocolonna degli Alleati. Il «panorama consueto» del quartiere di periferia di Buenos Aires e l’abituale Circolo Social sono il rifugio di un pensionato prima della fine. In una discarica sul greto di un fiume, fantasioso regno di un bambino che rovista fra i rifiuti spinto dal «piacere del possesso», capita uno strano personaggio in cerca di materiali per una macchina in grado di far volare. Sotto l’occasionalità degli eventi narrati si nasconde la «sottile inspiegabile angoscia» di una realtà minacciata da un senso di inappagato, da una diffusa malinconia pronta di colpo a rivelare l’intero volto delle cose che «devono essere viste come davvero sono, non come ci sembrano».

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NARRATIVA

ITALIANA

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Tu sei lei. Otto scrittrici italiane di Aa.Vv. «Si ragiona assai poco su quanto le scrittrici fanno. Sembra che siano indistinguibili ai colleghi maschi, a parte il fatto che dei colleghi maschi si parla e di loro no. Invece non è così: c’è più arditezza, c’è più tragedia, c’è più capacità di erompere dalla consuetudine pacificante e pacificatoria con l’esistente». Sono parole di Giuseppe Genna che, introducendo Tu sei lei. Otto scrittrici italiane, presenta il frutto di una proposta dall’ampio spettro di «poetiche e modalità formali» in cui una veemente linea innovativa coesiste con un duttile riutilizzo della tradizione pià stabile. La mistione di un linguaggio ora lievemente innalzato a una fulminea espressività figurativa, ora allentato in un descrittivismo parcellare che rastrella i dettagli quasi a volervi imprimere un coefficiente di narrazione, crea, in Surf di Carola Susani, un intreccio di ritmi che variando di velocità espongono e sottraggono le figure centrali (un’infermiera ucraina poliomielitica, una professoressa grassa e malata, un «delinquentuccio» di piccolo cabotaggio») in algide sequenze drammatiche spruzzate di sorriso. In Lemuri di Helena Janeczek piccoli fatti nascono dalla naturale comunicatività di un testo epistolare inviato dalla protagonista al proprio figlio dal Madagascar e si allineano in un’apparente successione diaristica. L’autrice usa le atmosfere ipnotiche del paesaggio esotico per captare le sensazioni più impalpabili, certe recondite ragioni della vita. Babsi Jones affida alla struttura della pièce teatrale l’apologo di una morte (In morte di Babsi Jones), quella di una scrittrice che porta il suo nome. Affollati di personaggi, i due atti risuonano di una sonorità incessante che passa dal realismo duro a un delirio nominale sotto il cui clamore irregolare serpeggia il significato simbolico del suicidio della donna. Lo sfondo metafisico, le «orribili parole», la concitazione dei gesti vogliono fare affiorare una verità «vuota e cava e cieca» con il suo responso agghiacciante («siamo tutti cadaveri anzitempo»). Veronica Raimo, in Come nessuna madre avrebbe mai fatto, esplora il mistero celato in un «abbaglio di passato» attraverso le vicende di un coreografo, «amministratore del disagio», della moglie, «piccolo soldatino in marcia», e di Irene, danzatrice dalla fantasia capace di sfigurare ogni oggetto. Piccoli dispetti di un destino tragico e comico si realizzano nella referenzialità della scrittura. Immaginosa, invece, metaforica a oltranza, pronta a saettare le immagini più fantasiose in un «nucleo di dolore» e a scovare il contenuto di coscienza dentro le parole, quella di Donata Feroldi in La ragazza-cane. Ha la sensazione di «galleggiare sempre», l’io narrante di Baby Blues di Alina Marazzi, una «Medea contemporanea», secondo Genna, che racconta

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i timori della gravidanza e, dopo la nascita del figlio, il sospetto di essere divenuta una sua «estensione meccanica». Federica Manzon, con Tirare alla cieca, punta sui segreti che possono affiorare dai minimi spiragli di una storia tessuta in frantumi, intarsi, spunti appena abbozzati e sciolti in un intrico alimentato più di sensazioni che di artigli concreti. Chiude l’antologia La morte per mezzo di me di Esther G. che, per contro, conduce al massimo dell’effetto spiazzante la pagina in cui una donna «impura da sempre» si confessa attraverso fulminee inquadrature. Dal primo piano al campo largo si specchia e si dissolve una scena di violenza generata dal ricordo. Le parole sono aculei di dolore fisico, «scorrono elettrici shock lungo la schiena», lungo il «corpo di demarcazione» di un’«Antigone disperata».

Maschere serene e disperate di Raffaele Nigro, Roberto Piumini e Luca Canali Tre preziose plaquette narrative escono da Manni: a firmarle sono Raffaele Nigro, Roberto Piumini e Luca Canali. Maschere serene e disperate di Nigro raccoglie cinque brevi prose autobiografiche nelle quali alcuni personaggi, come avvolti da un alone di leggenda, paiono quasi scivolare sulle vicende, sfiorare il piccolo universo meridionale senza impegnare il paesaggio di continuo ricreato dalla memoria. Da quando ha superato lo «steccato» di mezza età, un io narrante carpisce il valore del tempo («il tempo prima lo trattavo come l’acqua del rubinetto. Adesso lo tratto come fosse vino. Penso che più in là imparerò a centellinarlo come olio»). Si guarda allo specchio, quest’io pensieroso, e stenta a riconoscere la propria immagine, avverte nel corpo i segni del cambiamento, si consola con dolceamare riflessioni sull’allungamento della vita d’oggi. Ma riconosce che sta andando verso una specie di rassegnata accettazione della realtà. Certo, ciò che di importante doveva fare, lo ha fatto. E clamorosi esempi di artisti, che in età avanzata hanno prodotto opere importanti, lo confortano. Seguono, nel libro, altre prose dove si parla di «piccoli angeli», che hanno di soprannaturale solo un’involontaria capacità di portare aiuto agli uomini in certi momenti della vita. E si parla anche della «zuffa con la notte» vinta esclusivamente attraverso la presenza di qualcuno vicino; della ritualità della Passione nelle terre del Vulture («grande marchingegno popolaresco», quest’atmosfera di mistero, sotto cui pulsa la storia di un uomo che, «fustigato e inchiodato, perde comunque la vita a gocce e subisce un’ingiustizia umana»); e di eccitanti viaggi su pullman stracolmi di ragazze nordiche. Le minuscole storie sono come interpretate, talora anche con una dominata vena di sor-

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NARRATIVA

ITALIANA

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riso, nel momento in cui l’autore più le libera della loro felicità narrativa. Ne consegue una perfetta funzionalità delle strutture, un raccordo fra le effervescenze della superficie e i motivi più reconditi e immalinconiti delle rievocazioni. Piumini ambienta in un museo il suo visionario Il walzer muto: lì, una ladra, che sta per compiere un furto, è cercata da una donna in blu, «sobria e banale esperta di pittura» che pare trascorrere nelle ombre della sera una seconda vita. È una medium la quale, raccontando alcuni episodi della biografia di Tamara Dilempicka, di cui sono esposte alcune opere, mescola verità e finzione, la propria identità e quella della pittrice polacca. Un «vortice» di parole, le figure appese alle pareti, protese ad allungare verso la ladra le loro «grifagne dita affusolate», e l’antifurto con il suo «trasognato ritmo» escludono le scene dalla realtà facendola esistere solo nel campo delle emozioni e dello spaesamento. Così, il racconto si sfoglia non tanto come successione avventurosa di comportamenti e dialoghi quanto come riflesso, movimento di effetti causati da un «walzer muto». Piumini si avvale di una tecnica fitta di provocazioni stilistiche e strutturali per animare un testo sollecito a richiamare un’onda di fluttuazioni ipnotiche. Pur velocizzando, nei due racconti riuniti in Solo un po’ di follia, le trame fino a rastremare la materia in un’unica linea di memorie e nostalgie, Canali non cede all’essenziale esposizione ma scende nel cuore dei suoi personaggi, ne scandaglia le segrete pieghe: ecco il «torturante» amore per il teatro che spinge un uomo, al termine di molte deludenti esperienze, a non fare «gran differenza tra il vivere e il morire». Ed ecco l’«incapacità di agire senza motivo» che conduce un bibliotecario in pensione ad alzarsi spesso tardi la mattina e a inventarsi una ragione per «cominciare in piedi un’altra giornata». Canali rappresenta una sostanziale presa d’atto degli eventi di cui esplora i tenaci nodi, i retroscena, le diramazioni più inafferrabili. Cerca il paesaggio, lo confronta con le parabole di una narrazione che punta senza indugi anche al «piacere fisico della vita» e alle infinite forme sotto le quali essa si nasconde. La sua attenzione si indirizza di preferenza a primi piani e a ciò che vi si svolge con una naturalezza che sa anche di sapienza, con un gusto del particolare che sa di sublimazione.

Come si dice addio di Federica Manzon Radunatosi a Padova per frequentare alcune lezioni preparatorie a uno stage di quattro mesi in Grecia, un gruppo di giovani si confronta, incomincia a conoscersi e a manifestare lo stesso timore di iniziare qualcosa di nuovo.

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GIUSEPPE AMOROSO

Gaia che racconta la sua vita «in cinque battute»; Annamaria che sorride distante e ringrazia con un «automatismo disumano»; Valentina che sfoggia accostamenti di colori poco tranquilli; Leonardo che legge il giornale con «attenzione calcolata»; Giacomo intento a raccontare barzellette. Aleggia su tutti una «sindrome da villaggio turistico», mentre la giovane che narra si chiede se prendere quell’esperienza «come una missione» o se affrontarla per conquistare l’amore di qualcuno. La straripante incidenza di notizie e voci, informazioni estemporanee e riflessioni occupa ogni movimento romanzesco, ogni distacco tra i piccoli avvenimenti e le grande recita corale che sta per avere inizio in Come si dice addio di Federica Manzon. Le figure ora tendono a scomparire sommerse dalla recita collettiva, ora riemergono nella loro pienezza individuale, misurandosi tra loro ma anche divenendo una sorta di parte del paesaggio, un’emanazione fiammeggiante e sonora dei luoghi in cui le emozioni rischiano pure di disperdersi trascinandosi trame importanti, vicende bisognose di prosecuzioni. La ricchezza dei dettagli schiude il passo a una fastosa tendenza illustrativa che non soffoca la resistenza dei vari ruoli dei personaggi che continuano a intrecciare le loro storie su uno sfondo di capannone azzurrino al limite della terraferma. È lo Youth Center greco che sfuma i propri contorni in un «silenzio lontano e antico, marino». Qui giungono questi giovani scelti proprio perché disposti a partire perdendo molte delle loro conquiste e speranze. E mentre attendono ordini che non arrivano, vagano per spiagge a perdita d’occhio, piccole case bianche, cittadine, bar frequentati da gente che guarda con diffidenza. Nello stesso tempo chiacchierano, ridono, creano alleanze, si osservano, cercano anche di imparare una lingua che resta estranea, un insieme di suoni sospesi come le loro esistenze in un «equilibrio precario». Agiscono secondo naturali impulsi, trovano qualche partner occasionale, ma non c’è, come nel reality show, un telefoto che li selezioni, qualcuno che li tolga da quella loro deriva. Nei giorni uguali tutti sembrano abbandonati in un glaciale universo. Gesti rallentati, parole che ascoltano se stesse, azioni che franano nell’aria, sentimenti e legami che non riescono ad arrivare a una meta. E si tenta pure qualche «azzardo finto dove chi punta non si gioca nulla». Attenta alle leggi di una rappresentazione corale, Federica Manzon conduce i volti tra consapevolezza e inappartenenza attraverso sottrazioni e complicazioni, badando, sì, ai caratteri, ma soprattutto tenendo sotto la lente le persone come «una sostanza accidentale, elementi intercambiabili ed eliminabili, sovrabbondanti».

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NARRATIVA

ITALIANA

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La misura delle cose di Eduardo Rebulla Chiuso in un polmone d’acciaio, la testa spiccata dal corpo, il tetto come solo orizzonte fisso, e nessuna prospettiva d’approdo. Nick, invalido, dopo tanti anni di lontananza, scrive alla sorella Tea. Per tutta la vita «guerriero indomabile», ora ridotto a essere «solo una voce», chiede un aiuto estremo. E la donna risponde al disperato invito e parte. Julio, il compagno, è già una «memoria impressa nella retina». Una lettera dà alla narratrice di La misura delle cose di Eduardo Rebulla un nuovo destino e il ritorno immediato nel «furore del mondo». Tea va nella notte, come fuori dal tempo e dallo spazio, con la sensazione di stare in un non-luogo, mentre lo scrittore la osserva, sospende l’azione, trova le giuste pause. Gli interventi di commento, anche filtrati nelle reazioni psicologiche, agganciano al racconto una rete di distacco e controllo, una sorta di protezione e coinvolgimento che promuove un’ulteriore linea di regia, una tecnica sciolta nell’avventura, in un contesto in apparenza mirato allo studio delle emozioni. Tea inizia il viaggio verso il fratello annodando un «filo sottilissimo» di avvenimenti bilicati tra passato e presente, sempre giocando su un forte contrasto cromatico. Una cascata di immagini prende infatti forma nel ruolo fondamentale del colore («per capire se è al meraviglioso che pensiamo o all’incredibile, se alla categoria dell’ammirevole vada assegnato un colore anziché un altro, un’estensione verso la luce o verso le tenebre»). Ma anche la parola assume contrasti rivelatori («Vi sono espressioni che non riesco a descrivere senza dolore intenso»). Da qui la scrittura tutta cose «mirabili» e nello stesso tempo piena di risonanze, suoni nella cui pronuncia scattano volti, paesaggi o un «nulla» che cattura, una «predisposizione al silenzio». Tea «interpreta il linguaggio e lo frantuma»; l’autore «sfoglia la finzione e vive per procura» un mondo affollato di presenze che irrompono nelle giornate limacciose, nel vuoto che non si può colmare, nello sgomento delle ore di Tea. Romanzo che muta spesso le prospettive, La misura delle cose lancia sfide che possono essere raccontate solo dalla fisicità dei corpi o dagli echi che fanno riconoscibili le cose e che riescono a tenere stretto in pugno un uomo. Un libro sull’amara dolcezza del dolore che via via si fa leggero superando le prove più ardue che la «potenza del sangue» e la «tenacia degli affetti» pongono lungo il cammino.

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GIUSEPPE AMOROSO

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Uno per tutti di Gaetano Savatteri Tra ciminiere fumanti, strade deserte, campi spogli, appare in tutta la sua desolazione Satellite, centro della cintura milanese in cui arriva un insegnante elementare siciliano al suo primo incarico. Lì, a metà degli anni Sessanta, nasce Giò Cannistrare, l’io narrante di Uno per tutti di Gaetano Savatteri. È già uno sceneggiatore affermato quando, a distanza di tanto tempo, riceve una lettera da Gil, vecchio compagno di scuola che gli chiede di rivederlo. Riaffiora così una nebulosa di giorni lontani con dentro un cupo segreto lesto a riaffacciarsi con i protagonisti di allora: Vinz, Bertuccio, Pendolino e, naturalmente, Gil e Giò. Incentrata sulla leggera «confusione» di nomi, vicoli, palazzi, piazze, locali pubblici, la città lombarda fa come da controcanto a un piccolo mondo meridionale che si ridesta da un sogno. Paesaggi e volti si alternano dando al presente e al passato un diverso senso di abbandono, una lenta deriva di occasioni mancate, il vuoto senza fine delle perdite nel «pezzo di vita da attraversare». Vive un allarme, un domestico soqquadro di abitudini che hanno percorso, fragili, gli anni consegnandosi ora al «consiglio di guerra» di questi superstiti pronti, in una notte di eccezione, a fare i conti con la loro giovinezza, i giochi di una volta, gli scontri con le bande rivali dei «cavalieri mongoli», gli allettanti manifesti dei cinema, le ore della scuola, il brusio dei giorni. Un mondo «rotondo», privo di guasti ma anche ambiguamente acquattato nella memoria. Ed eccolo, infine, con gli ex compagni riuniti ad ascoltare Gil, la sua proposta difficile, il suo «ricatto», il silenzio che invade tutto e le cose che si «accendono presto, quando le parole rimangono troppo a lungo nascoste». Nella «notte dei miracoli» c’è per Giò un’ultima sorpresa e anche qualcuna di quelle illusioni che servono per far «quadrare il cerchio». Una prosa spezzata, con segmenti carichi di immagini e di suoni smorzati; pausata nel suo allineare paesaggi e volti con qualcosa da custodire; e ansiosa di toccare una meta che, avvitata sui ricordi, di nuovo vacilla e si allontana. Indicatori fuggitivi di un’atmosfera convulsa e trasognata sono i mutamenti di ritmo, le inversioni di prospettive, il sollevarsi di chimere fra gli urti del reale che pur ripetendosi appare sempre visto per la prima volta.

Intanto corro di Giulio Casale Davide che «sta dalla parte dei lunatici»; l’anonima sedicenne che, immobile come una statua, cerca di «visualizzare il vuoto» sono i primi due personaggi delle tessere narrative composte da Giulio Casale nel mosaico

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NARRATIVA

ITALIANA

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di Intanto corro. Sorgono dalle suggestioni dei ricordi, dall’affiorare repentino di un pensiero, dai dubbi e dai tic della vita i frantumi di un percorso di racconto che cresce sull’onda di un episodio, un aneddoto, un minimo circuito occasionale. Il filo rosso – la medietà delle circostanze nell’univoca forma dell’insoddisfazione – che cuce le microstorie tiene lontano il pericolo dell’esemplarità dei casi, riuscendo a dare un respiro alla funzione di sviluppo delle trame. Il potenziale inventivo delle singole schegge si realizza spesso con soluzioni spettacolari che annullano la punta dimostrativa accendendo di tensione i dettagli che possono anche sopportare la carica del simbolo. Privo di un’architettura che disponga in un solo intreccio i vari elementi, il libro assume una piega riflessiva, ma sempre privilegiando il calore vitale degli uomini, i loro slanci, il loro calarsi nella consapevolezza di appartenere a una società e al suo disagio, alla sua trasgressione. Il modello dell’operetta morale impone un’adeguata cura della parola nitida, capace di cogliere il riflesso anomalo, il suono che non si sente subito, la luce che resiste oltre l’abbagliamento, l’«ossessione martellante» che cancella ogni cosa ma non la propria indistruttibile possibilità di rigenerarsi. Dall’audizione alla radio per una voce alla visione apocalittica di onde che sembrano le anime dei soldati caduti nelle inutili guerre; da un amore che declina «impercettibilmente un millimetro al giorno» alla nostalgia per una donna incontrata per caso e subito perduta, a uno scrittore che cerca un «incipit favoloso» per il suo romanzo, scorre un fiume di volti, paesaggi, situazioni estreme. Attenta a ogni particolare, la scrittura non tollera zone neutre, nessi meccanici, ma va al centro dei fatti definendoli nella loro compattezza pur favorendo talora le dissolvenze, i climi alonati, le sfumature visitate dalle emozioni. E procede così, per piccole tappe di grande concentrazione.

Il gregario di Paolo Mascheri Ha ventotto anni, lavora nella farmacia del padre, a pochi chilometri da Arezzo, è fidanzato da molto tempo con la bella Ilaria. Dopo la rinuncia a dipingere per mancanza di talento, vive ormai una monotona vita, lasciandosi scorrere addosso giorni di una «casualità stupida», nella quale il sesso può, almeno per un po’, «far smettere di pensare». Immerso nella mediocrità, si sente svuotato senza un motivo apparente. È il protagonista di Il gregario, un romanzo di Paolo Mascheri dalla scrittura analitica, rallentata, in grado di far trascorrere i fatti da un punto all’altro del presente e della

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memoria senza variare di intensità, riuscendo così a sintonizzarsi con il senso di insoddisfazione diffuso nel cronico sfilare delle abitudini, dei gesti annegati nel grigiore. Pensieri, azioni, frustrazioni si susseguono nell’unico nastro di scene visitate da un nulla, che si ripetono in altre forme rimanendo uguali nell’algida astrazione della loro meccanica catena. A Mascheri non interessano le giravolte, i sussulti, le ombreggiature delle vicende, ma il fatto che si dispiegano, esistono, mentre egli percorre un paesaggio desolato, squallido: una «terra di nessuno», priva di identità, multietnica, contrassegnata da un egualitarismo becero e fazioso. Violata nella sua naturale bellezza, la campagna, come modellata per i turisti; l’«imponente spettacolo della vecchiaia», offerto da un uomo che, addormentato in una carrozzina, rinvia alle agghiaccianti immagini di un racconto di King; case orrende «come propaggini industriali» accrescono l’atmosfera di disagio e di sconfitta propria di un racconto che sembra assistere alla rappresentazione dell’insignificanza, al suo farsi impassibile, pronto a riprendere da quel poco di fervore fino allora raccolto e ad andare oltre, non si sa dove, per l’assenza di stimoli. Si sente «tagliato fuori dai giochi», «radiato» dalla vita, questo mediocre «gregario» che tenta di trovare una strada nuova nel lavoro e nell’amore, ma invariabilmente ricade nella routine sulla quale incombe anche il difficile rapporto con il padre. Storia di obiettivi mancati, di delusioni, di rese, il romanzo fa i conti pure con lo scivolare del tempo, con quel «sorteggio folle» che fa uscire il «numero sbagliato», con le risposte che non arrivano. La dialettica più vera, tuttavia, non avviene tra i personaggi, bensì tra le idee di fondo dello scrittore e quelle sagome fluttuanti che sono i personaggi.

Ovunque io sia di Romana Petri Insinuante, tentacolare, scandito con l’esatto compito di percepire le pulsioni più mascherate del reale, il romanzo fluviale di Romana Petri, Ovunque io sia, passa dall’indugio protratto su un particolare, una sensazione, un gesto, un pensiero, al registro impersonale, asettico delle informazioni che può in tal senso porsi in una posizione di lontananza, quasi in uno stallo, assumendo quell’aspetto di indistinto e di misterioso che fa da contrappunto al solido impianto di concretezza della narrazione. Una molla improvvisa fa scattare un meccanismo di vertigine: e allora un personaggio posa gli occhi sul davanzale della finestra ancora aperta affinché «spicchino il volo» per abbandonare la stanza. Ne deriva una rappresentazione di robusta tenuta

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NARRATIVA

ITALIANA

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cronachistica dove, però, avanza un piccolo spaesamento di tratti a cui forse si intende attribuire il compito di raffigurare un universo sostanzialmente spoglio, arido e angolato da leggi ferree ma contagiato da flessioni non si sa bene dove indirizzate, da oscure ferite inferte chissà dove. Ci sono personaggi che occupano la scena definiti da ritratti ampi, circostanziati, deputati a scavare nel fondo delle psicologie, a rastrellare ogni elemento utile per controllare la linea del comportamento, anche il tono di una semplice frase. E ci sono, accanto, miriadi di ombre appena disegnate in un’apparizione anonima e delebile, come «certe signore [...] rimaste chiuse in una bolla [...] andata via con la brezza atlantica»: fiati di comparse che tuttavia creano le caratteristiche indispensabili alla costruzione di un mondo. In questo caso quello di una Lisbona ruvida e fastosa, di clamorose luci, di autunnali velature e di angoli angusti, fenditure nella malinconia di povere esistenze escluse. Dagli anni Quaranta a oggi corrono molte storie coinvolgenti tra le quali quella di tre donne: Ofelia, immersa nella solitudine; Margarida, «scordata e dimenticata dalla vita»; Maria Do Ceu, dal «volto ingrigito» da tanti pensieri cupi, dai rancori e da tutti i perdoni mancati. Povere figure travolte in giorni che portano solo sofferenze e inganno. Accanto, in un complesso e inquietante intreccio di destini, ecco gli uomini levarsi con il loro egoismo, il disamore, una frenesia di vita che li conduce su percorsi che sembrano tendere verso altre mete. In questo libro di ampio slancio narrativo, la direttrice descrittiva, la ricerca storica (in cui si stende il cammino del Portogallo verso la conquista della libertà democratica), la potente carica dei personaggi si amalgamano in un racconto capace di tenere a freno l’eloquenza natale delle situazioni tese, traendo un brivido prolungato che si rivela in certi guizzi lessicali e nell’ondosità sintattica nella quale gli stati di solitudine e di dolore si sciolgono nel moto degli eventi, nell’esemplarità dei fatti.

Gli anni veloci di Carmine Abate Il fiato tiepido delle onde del mare alla luce del mattino e la nuvola gialla sgargiante sulle ciminiere della zona industriale: Crotone nobile a antica si distende pigra tra queste due sponde di libera festività naturale e di cupa manomissione dell’uomo. Qui, il quattordicenne Nicola si innamora della coetanea Anna che d’improvviso sboccia nella sua bellezza e dietro la «maschera del broncio» pare nascondere dolcezza e dolore. La timidezza di lui e la riservatezza di lei aprono una vicenda di amore e separazione vissuta nella fragilità di anni che «volano via in fretta», tra i sogni di Nicola di divenire un

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grande centometrista e le fantasticherie mitizzanti di Anna che invia lettere a Lucio Battisti, le cui canzoni sono le «colonne sonore» della sua vita. Paesaggi di sole e di vento e di piogge di primavera, e silenzi fatti di «mare all’alba», volti anonimi scolpiti nella cruda realtà quotidiana e altri alonati, come quello del «cantatore» Rino Gaetano, sfilano nel nuovo romanzo di Carmine Abate, Gli anni veloci, dove il ritmo degli episodi, scanditi tra passato e presente, si flette nell’onda lunga di uno sviluppo costruito dalle associazioni dei pensieri, scavi psicologici, irrefrenabili variazioni musicali (la prosa listata, anche di testi poetici, aggira gli ostacoli più terreni assorbendo un ventaglio di echi e diramando le didascalie in un arpeggio). Una prosa nutrita degli umori della terra calabra e capace di fotografare un balenio di paesaggio o un vasto panorama adagiato nelle magiche anse della Storia, apparecchia registri diversi con i quali penetra nel senso più recondito dei «rumori del mondo», oppure raccoglie attimi sospesi fra «l’ultimo chiarore della sera e il primo buio». Abate sembra talora ridurre l’arcata ampia delle scene al fine di far sbalzare in tutta la sua evidenza una figura, la gamma dei comportamenti, l’inflessione di un sentimento, mentre i dialoghi (e il rimbalzo rapido del «brusio misterioso di un evento» al centro dei ricordi) non si animano di tematiche concettuali, bensì accrescono i territori di quelle vicende nelle quali i due protagonisti consumano le loro storie fino alla rivelazione conclusiva di un segreto che lo scorrere degli anni «veloci» ha portato, dopo tanto tempo, al «momento della verità». Terminano le «corse all’indietro», il traguardo per Nicola e il futuro con Anna. Nel mettere a contatto le attese e le tensioni delle assenze, gli affetti familiari e le amicizie, i dubbi e le emozioni e gli urti della realtà «assurda», l’autore lavora intensamente sulla parola dalla quale spreme qualcosa di inedito, un significato sfuggente, un’esca in grado di far brillare nuovi riverberi. La scrittura così separa il minimo particolare dall’usuale forziere del contesto: un bagliore si sprigiona da un «timbro postale come da un minuscolo sole perfettamente tondo»; una lettera «svolazza come un uccello in una gabbia di legno troppo stretta»; il mare fiorisce di «piccole onde increspate come rose bianche».

La bambina pericolosa di Silvana La Spina Una pioggia di bouganville sembra incendiare la piazza di una contrada di Belpasso, sulle pendici dell’Etna. Qui, il commissario di Polizia, Maria Laura Gangemi, torna a visitare le tracce della sua infanzia, per luoghi

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NARRATIVA

ITALIANA

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aspri e magici dove si sussurra ancora la sinistra leggenda della «trovatura»: il sacrificio di una creatura innocente che permette di rinvenire un tesoro nascosto. La pagina del romanzo di Silvana La Spina, La bambina pericolosa, sostanziata di cose vere e nutrita degli umori di una cultura locale, ha un rovescio di brividi, accoglie riflessi di luci misteriose e deliri, il peso di enigmi che transitano nell’oralità popolare: un senso diffuso di congiura e violenza che il racconto mette su con i mezzi propri di un itinerario verso l’ignoto trovando subito, là dove sembrano d’improvviso emergere, anche in una frazione di dialogo, le voci anonime che giungono dal nulla facendole crescere e alimentandole dentro un cerchio di stupore e di solitudine, di sottesa malizia e di dolore. E si diffonde un clima di pericolo, in prima istanza controllato e domestico, dentro ambienti noti, per vie percorse in un’aria attonita e perplessa che oscilla tra la rivelazione piena della ragione e le radici profonde di un’angoscia remota, ancestrale, avvertita come recita, «teatro». Dall’episodio iniziale che vede Angelina, una bambina dispettosa e sboccata, sfuggire, dopo una zuffa con le compagne nel giardino Bellini, alla vigilanza di Maria Laura, ha inizio un’intricata, inquietante vicenda, apparentemente casuale, ma guidata da un sotteso ordito, poiché «certe cose non accadono a caso [...], c’è sempre un senso dietro le cose, e un nesso». Simmetrie narrative profilate con calligrafica eleganza e altre secche, aspre, come martellate e incaricate di erigere un argine contro il tumulto della città disordinata, dove sopravvive ancora un che di arcaico, convogliano una storia fosca, abitata dal fluttuare delle passioni, da quel «qualcosa di sottile e subdolo» insinuato nel paesaggio, nei pensieri, nella pasta delle azioni, nel caso di due ragazzi morti, «anelli» della stessa catena. E si spalanca una vicenda aggrovigliata, listata di morte, dai lineamenti gotici, che avvelena ogni scenario: il brusio dei venti fra i boschi e il «baccanale pagano» di una festa, il silenzio degli oggetti e il labirinto di intrighi di una villa; un malessere che sembra venire da «divinità ctonie» e strisce rosso sangue che infiammano l’orizzonte e una Catania sempre affamata di qualcosa avvolgono i personaggi come in un sudario. E anche spettacolari, violacee luci di una bellezza struggente ribadiscono «il senso dell’inutilità di tutto». Poi v’è un segreto che, seppellito nell’inconscio, non può far altro che «far cadere le muraglie», e sogni e frasi che risalgono dalla memoria e si mischiano con una vecchia storia di stupri e follie. In controluce, la recita dei pupi, con i duelli dei cavalieri antichi e Orlando e Rinaldo a contendersi la bella Angelica.

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Il tempo materiale di Giorgio Vasta La crudezza di una realtà fosca, degradata e sepolcrale intride con violente ramificazioni l’avvio del romanzo d’esordio di Giorgio Vasta, Il tempo materiale, dove un piccolo gruppo di giovanissimi amici si macera nell’ansia di uscire da un devastato microcosmo palermitano nelle cui case i televisori inviano, con gli ipnotici intervalli, i fotogrammi di un’Italia «rurale e pastorale» e, con i telegiornali, il «dorso di pietra» di Roma e le funeree notizie di un’Italia che non c’è. Tra questi ragazzi, il narratore Nimbo cammina nella «forma delle strade di febbraio», «misurando il tempo con lo spazio». Ma gli sembra di restare sempre fermo. Intorno a lui ruotano figure sfregiate e grottesche, ombre, evanescenti emanazioni di un paesaggio frantumato, di crolli e degradazioni, poroso, oscuro in una carnalità che ottunde tutto, risorgendo poi come in volatili bolle e in laceranti spifferi di gelo. È un paesaggio che anticipa anche quello che «si strappa filamentoso da se stesso», osservato da Nimbo in un viaggio in treno verso una Roma «famelica», nella «luce furente». Corre l’anno dell’assassinio di Moro e della lotta armata. Ma è anche la «seconda alba» della vita del protagonista che vuole prendere le distanze da un Paese tiepido, «incapace di assumersi la responsabilità del tragico» e pronto a reiterare l’«ignobile teatrino del costume», l’edulcorazione, la pietà posticcia. E nasce una sfida che fa precipitare i personaggi nella ricerca di un «nemico costante», un’«allucinazione», un «miraggio». Così «si muovono nel vuoto», fondano un nucleo eversivo, progettano attentati andando «oltre la percezione locale» del loro operato, per combattere il «tempo degli abusi». Si mette in moto un meccanismo sinistro che nella sua follia nasconde un che di grottesco, una dannazione che ha dentro di sé la sua perversa caricatura. Ogni cosa nominata ha la sua porzione di meraviglia e stravolgimento: gli oggetti si trasformano in un brulichio fosforescente in cui la fantasia può inventarsi un nuovo scenario (ecco la torta di compleanno di una bambina «che conterrà tutte le torte del mondo e le torte del tempo mancato e milioni di candeline per ogni suo respiro»). Una sintassi franta e al contempo rigogliosa enfatizza anche i modi più anonimi ed è pronta a far saettare un pensiero, una frase, calcando un termine, facendo scivolare il silenzio, per riempirlo poi di clamore.

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NARRATIVA

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Un romanzo d’avventura di Alberto Ongaro Ritorna Un romanzo d’avventura, comparso nel 1970. E firma, con imperiosa evidenza, il livello alto del percorso narrativo che ha condotto Alberto Ongaro, dopo Il complice, del ’65, a pubblicare opere di eccezionale fascino affabulatorio e di avanzata costruzione narrativa con La taverna del Doge Loredan, Il segreto di Caspar Jacobi, La partita, Holliwood Boulevard. Ora si assiste alla rappresentazione diversa della stessa meraviglia che detta i tempi e gli scenari, le tappe di incroci clamorosi tra personaggi veri e di finzione, dal momento che domina una sorta di delirio, reso però più accessibile e vicino alla realtà. I motivi si moltiplicano inducendo nella pagina continue variazioni attraverso le quali il protagonista Hugo Pratt, l’inventore di Corto Maltese, è nella sua casa veneziana e «simultaneamente altrove, presente in tutti i luoghi in cui è vissuto e con la stessa ubiqua affannosa sensazione di disfacimento» e con la paura che il suo corpo sia «una specie di mappamondo fracassato». Lo stravolgimento dei luoghi («il nord confuso con il sud, l’est con l’ovest, i paralleli e i meridiani dispersi») e una costellazione di piccoli fatti e volti irrompono nella sera con uno squillo di telefono. A Londra una telefonata comunica a Hugo la scomparsa dell’amico Paco, forse suicida nel Tamigi. Si apre un vuoto nell’opprimente silenzio del buio di un quotidiano che diventa progressivamente inquieto e che può essere sollevato solo se entra a far parte di un qualcosa di più grande di un «unico interminabile romanzo». Un racconto infinito nel quale si animano i personaggi dei libri più cari intorno ai quali Hugo costruisce la sua storia iniettandoli di ricordi. Così egli e l’amico perdono un po’ della propria realtà assumendo quella delle figure della fantasia. Emergono vite vissute altrove, esperienze simboliche, espressioni del linguaggio di chi, come il protagonista, ha una consuetudine alla fiaba. La stanza si trasforma in una carrellata di sfondi popolati da tanti frammenti del sogno della letteratura: gli eroi di Conrad, Melville, Mark Twain dilagano insieme con gli attori dei film più amati scompaginando la «disordinata memoria» di Pratt: e sono brividi che arrivano tra le innaturali lame di luce filtranti dalla finestra, bizzarre immagini danzanti nella mente, continue ricadute nell’ipnosi. Raccontando di uno scrittore e di un disegnatore di testi avventurosi, Ongaro costruisce un «mappamondo mentale» che sostituisce il mondo: da una parte «i fatti, le cose, la storia, gli altri, tutto ciò che veniva chiamato realtà e, dall’altra parte, il mito, la leggenda, l’avventura, i disegni, la fuga nel mondo immaginario che, esaltato dalle stesse cose, ormai divenute insopportabili anche a se stesse, finiva per sostituirle». E alla fine tutto confluisce nel «Grande Gioco Surreale» che

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permette ai personaggi di sprofondare in un «cartone animato», prendervi posto, e riagganciare la propria vita in un disegno.

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Furia di diavolo di Maria Clelia Cardona Capace di captare quelle indefinite forme di intelligenza che, «acquattata come un polipo nel fondo del nostro essere», afferra «con i suoi tentacoli» le situazioni più minacciose, Alfonsina soffoca nell’incolore sua vita, divisa tra il centrale negozio romano di antiquariato e l’anziana zia Lilia, colpita da Alzheimer, che abita con lei al piano superiore. Sconfortata da una deludente storia d’amore, ma in grado di uscirne grazie anche al rassicurante rapporto con il socio e restauratore Bernardo, sofisticata, un po’ eccentrica e ancora sensibile alle seduzioni dell’esistenza, la protagonista quarantenne di Furia di diavolo di Maria Clelia Cardona accetta l’offerta di un vecchio gentiluomo, il conte Marineschi, di catalogare gli oggetti d’arte conservati nel suo antico palazzo. Sembrano incantati nel tempo l’austera dimora e il suo padrone dal volto di rapace e dai modi inquisitori. E scatta una sorta di allucinata separazione dal mondo in un’atmosfera franante, vischiosa, accompagnata da una colonna sonora le cui note sono «gravi, scure come gocce d’inchiostro nell’acqua». A dare l’avvio a un movimento narrativo che inietterà i veleni di un noir è una replica non conosciuta di un quadro di Poussin in cui sembra annidarsi un enigma che rompe la «routine tranquilla, e ignara e anche piacevole», di Alfonsina. La «galanteria e il distacco» del conte, un gruppo di lettere e una «domenica opaca e paludosa» inducono nella donna il sospetto che qualcosa di irreparabile stia per accadere. Una lenta, avvolgente tecnica di descrizione, documentaria e preziosa, fra pausate volute barocche e decisi scarti di una moderna variazione di temi, si snoda come per preparare un pericolo. Tutte le cose con i loro sotterranei brividi e gli insoliti tagli di luce annunciano una drammatica storia, il «nero cammino della furia», le leggi di una sinistra concatenazione di fatti specchiati in paesaggi stravolti da anomale ondate cromatiche. È il «teatro della violenza» di cui resta vittima il conte. Le indagini si muovono tra due ipotesi: freddo disegno omicida o irrazionale scoppio della follia? Il romanzo scava nella «caligine tempestosa» degli accadimenti, fa riemergere dall’intrico la figura di Lilia, «guscio pieno di fantasmi che le gridano dentro», individua «un di più negli occhi» della personificazione del Tempo del quadro di Poussin. Sempre insinuante il «virus predatore» della musica, forse la morte dal passato.

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Non c’è più tempo di Sergio Givone Le luci di Firenze si perdono nel «riflesso giallastro e pullulante di fuochi fatui» del cielo notturno. Nell’Antica Manifattura Tabacchi, circondata da un bastione di lamiere ondulate, in cui secondo la voce del popolo ogni notte vanno in scena avvenimenti misteriosi, l’architetto Venturino Filisdei, intellettuale rivoluzionario costretto alla sedia a rotelle da un incidente, si fa condurre dai tentacoli di una trama segreta, in una sera d’ottobre del 1981, per incontrare il figlio abbandonato. Tra la «pacifica grammatica delle cose» che accadono alla luce del sole e la «logica notturna» che fa tutto possibile, si apre Non c’è più tempo di Sergio Givone, ambientato in quel punto cieco della città dove si possono udire i gemiti che salgono dagli abissi. Avvolto nella sua glaciale disperazione (lasciare che l’«urlo si impasti con il gusto del nulla»), l’uomo insegue una certa idea di perfezione, si nutre di memorie benché non abbia nulla da salvare del suo passato, conosce il senso effimero della bellezza, il niente «vittorioso», affonda in angosciosi sogni ricorrenti. Figure sospese, stralunate, gli vanno incontro, come il grottesco Max Penitenti, flaccido e grasso, «ripetizione infinita di se stesso», logorroico e delirante, convinto che il pozzo d’acque morte che sprofonda nel falansterio porti direttamente all’inferno. Come in un’allucinazione, dal buio si materializzano sagome inquietanti: ecco, con i loro nomi di battaglia, Quisqualis, una bella donna incinta, «molle e languida», e Feuer, poco più che un ragazzo, «allegramente protervo». Sono combattenti entrati nella clandestinità, un’«accolita male assortita e scombinata» di cui fanno parte anche l’enigmatica Dolores Entierro e il capobanda Confiteor, ermafrodito dai lineamenti duri. Un’occulta regia sembra guidare questi personaggi nel surreale processo in cui Filisdei è chiamato in giudizio «per una colpa che non è una colpa». Come in disparte, chiuso nel suo cupo ruolo di risentimento e aggressività, il figlio. Incontriamo una prosa insinuante e franta, pronta ad accendere persino l’insignificanza delle cose, a cogliere l’intonazione più densa di una parola, circoscrivendola nella storia che porta con sé, nelle vagabonde risonanze e in ciò che non può dire, e a ricompattarsi all’improvviso in un avvitamento che le consente di esplorare le spirali di nuovi eventi, le immagini ossessive di un «sogno dormivegliante». Una prosa attratta e respinta dal magnete del saggismo che pur consistente non pesa: ha talvolta guizzi romanzeschi, tiene accesi lunghi dialoghi con un tessuto di episodi mobili, centrati su vari scenari che svaporano e ritornano dentro uno specchio di continue sorprese, incubi devastanti e disegnati come per gioco. E in quel gioco i personaggi sono insieme veri e simulacri della fantasia. Fantasmi relegati in

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un tempo che non è quello fisico ma dell’anima, quello di un’«universale consumazione finale». Non c’è più tempo è un racconto del lutto e dell’incanto, dell’arcano stupore di un pensiero che muore nel non senso, in un perenne smarrimento cosmico. E lì rinasce, convulso e limpidissimo per ricreare storie senza fine, concrete e inconsistenti. Un libro tragico che cerca la risposta conclusiva nel dominio della mente, nello scambio delle parti, nell’ironia del vuoto addormentato nel silenzio. Infine sono tutti uniti, carnefici e vittime, in nome di una paura esistenziale. Fuori da quell’orrore è la città, «pietra serena e pietra di luna», un paradiso appena accanto alle tenebre, che solo sfiora il dramma nel quale l’uomo sulla sedia a rotelle precipita.

Il falco e la bambina di Pietro Venuto Entra nel vero, ma dalla parte del sogno. Il cammino realistico delle cose è deviato da una spinta opposta che scatena storie di luoghi lontani da quel lembo di terra siciliana e contadina epicentro del romanzo. Le pagine in corsivo legano episodi eccentrici, in apparenza autonomi, però sintonizzati su un unitario quadro cronologico, il tragico 1908, anno del terremoto di Messina. Personaggi sconosciuti e noti, vicende che hanno scosso la coscienza del mondo si alternano in una successione che è metafora del fortuito andare dell’esistenza. Tutto ha il carattere di un’allucinazione perché tutto si lega all’eterno mistero della semplice realtà: quella della catastrofe dello Stretto che Il falco e la bambina dello scrittore e medico Pietro Venuto trasferisce nella parola affabulante in grado di dominare le scene più distanti e inconciliabili. Non v’è alcun didascalico allaccio tra i due orizzonti del racconto: la giornata sincopata di un borgo messinese (Saponara tra il «caldo Tirreno» e i monti celebra i propri riti millenari) conduce l’umile faticosa storia del carbonaio Santi Salvo e della moglie Bella la quale, felice di poco, piange «due grosse lacrime d’oro che si mettono a navigare nell’acqua ricca di memorie» di una vasca «come stelle neonate» nello spazio dell’infinito. Il giro planetario di grandi eventi fa risuonare, in un controcanto di stupore, pittori famosi e premi Nobel, scrittori e atleti, i primi grandi fervori dell’industria e anche qualche oscuro allarme della terra. Venuto costeggia i disarmati eroi di un universo dimenticato ponendoli accanto agli emblemi di una vita che non esiste neppure nelle loro fantasie; accelera gli scarti della narrazione e li inietta di provocazioni balzate da un rivisitato neosperimentalismo. Tutto, così, ha qualcosa in più: gli umili, uno

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scatto che li pone di fronte ad un ignoto senso di abbagliamento; i volti della Storia, una quota di terrena responsabilità. Ne esce arricchito il ritmo romanzesco destinato a battere la cronaca spicciola e quella morale, l’impegno civile e la cultura come conoscenza e spettacolo, la luce di fuoco e i rumori della campagna isolana e le algide vastità della silenziosa Siberia. C’è un inganno alle radici di questa prosa (pensiamo al Fiore della luna) restituito in inediti alfabeti di immagini-simbolo, nel gusto della comunicazione bassa, nell’ermetismo scintillante della scienza, e nel tracciato di destini umani ignari di ulteriori percorsi se non quelli concessi dal potere delle parole. Il conteggio del cibo e del lavoro, degli oggetti di un interno e della desolazione di certe terre colma i giorni sotto un cielo indifferente nel quale un falco disegna le sue «strane» traiettorie e si annuncia una nera alba che «si vergogna di farsi guardare negli occhi».

Cortocircuito di Elena Gianini Belotti Ogni personaggio ha una fisionomia distinta e una precisa misura di tempo nella sua storia, uno spazio vitale articolato, in Cortocircuito di Elena Gianini Belotti. Cinque racconti armonici e compatti, autonomi e corali, attenti a sorprendere un singolo gesto, un pensiero, il senso di un’azione. Qui, attraverso una pietosa e acuta analisi di situazioni di disagio si continua ad avvertire il passo ampio della volontà di capire condizioni esistenziali raccolte da una pagina densa e sensibile all’ascolto, paziente nel mettere insieme piccole tessere per poi ritirarsi nel suo cerchio profondo di vibrazioni segrete, reazioni immediate, riflessioni talora venate di sorriso, senso della storia e impegno civile. Contemporaneamente, l’osservazione del fenomeno concreto (il mixer di etnie, culture, idee, lingue nella società di oggi) prende una sorta di respiro più alto, quasi un accordo con l’indecifrabile armonia delle leggi universali in cui si riversa, placandosi, la memoria di un popolo. L’autrice trova una soluzione linguistica amalgamante per una congerie di episodi spesso privi di rapporti tra loro ma tutti serrati in un clima di sofferenza e angoscia che non vuole tradursi in soluzioni enfatiche e teatrali. L’obiettivo è quello di incidere con affilata lama la materia e di mettere a nudo verità scottanti e scomode suscitando con ingredienti ritenuti opachi o semplicemente documentari un piccolo miracolo quotidiano. Una spiccata potenzialità figurativa permette di estrapolare dal limbo dell’anonimato i volti straniti dei protagonisti dei racconti e di farli funzionare narrativamente mediante un poderoso scatto di fantasia.

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Il timido e malmesso Dinech Sing, arrivato dal Punjab, supera le dure usanze della sua terra e le peripezie del lungo viaggio, riuscendo infine a integrarsi nella nuova realtà. Alcuni operai rumeni, mettendo in funzione un impianto elettrico abusivo per riscaldare il loro tugurio, provocano un blackout nell’intero quartiere. La filippina Emely, a causa della cattiva conoscenza dell’italiano, fa salire la piccola Arianna, affidata alla sua custodia, su uno scuolabus sbagliato. Due giovani badanti, una filippina e una turca, sono accusate, per una tragica fatalità, di delitto premeditato. L’esuberante ucraina Varvara, irretita in «ingarbugliate vicende» esistenziali, vede crollare la speranza di poter ottenere la cittadinanza italiana sposando un vecchio e generoso signore. Flessibile in certi passaggi, la pagina si assottiglia fino a rappresentare solo i fatti, ma d’improvviso pure rialza il tono trovando la spinta adatta a dare consistenza a una linea di commento sostenuta – come nel conclusivo Il gabbiano – da un’abile tessitura di citazioni letterarie.

La memoria dei vivi di Rossella Milone Tre racconti con storie di donne colte in un momento cruciale della loro esistenza. Rossella Milone, con La memoria dei vivi, non si concede acrobazie narrative, adotta invece una struttura tradizionale e la pone al servizio di trame che, senza l’ausilio di manipolazioni effervescenti, innescano un brulichio di sensazioni accese in un fervido flusso di memorie. Vicende esistenziali, e pur piegate alla rifrazione, prendono un andamento pensoso, con figure che realizzano tecniche psicologiche complesse, sfruttando la libera circolazione di casi impalpabili, un incessante gioco di silenzi, pause, reticenze e l’onda di un «pensiero che registra un fatto». A poco a poco, centellinando passaggi, la narrazione conquista il cuore delle vicende in un mobile variare di prospettive (ripresa ravvicinata, campo lungo, scansione battente di scorci, ripetizione intensa di gesti con lo scopo di trarne ulteriori effetti) che non distrae l’attenzione dalla scena, anzi consolida l’insieme, vi fa confluire la vita corrente. A un certo punto sembra che non si possa giungere ad una risoluzione piena e immediata degli eventi. Ma una tensione interna non permette incertezze. Così Lena, protagonista del primo testo, accettando, dopo aver abbandonato la carriera universitaria, di presenziare all’inaugurazione di una stazione faunistica alla cui direzione era stata destinata, si accorge di trovarsi ormai in un posto estraneo e di «non possedere più gli strumenti e le capacità per convivere con il mondo». Accanto al marito gravemente ammalato, ha fallito la «possibilità di adattamento». Ora «tutto ciò che accade è un ricordo».

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La percezione del dolore in ambito «familiare» tocca pure la timida Silvana che, nel racconto successivo, parla solo di quello che «vive tutti i giorni»: rivista a lunga distanza di tempo la sorella Carmen, della quale ha sempre subito le decisioni, drammaticamente si trova di fronte alla fine del loro rapporto. Ancora luoghi, comportamenti di secondo piano, minute situazioni ininfluenti rappresentati come obiettivi primari dello sguardo del personaggio, nella storia di Nice che conclude il volume. Non si tratta però di mere illustrazioni ma di profonde polarizzazioni della pagina che rifiuta ogni idea di superficie e intercetta tutto il subbuglio del fondo. Ha la sensazione di essere «al centro di niente», la donna ferita dalle nuove nozze dell’anziano padre e chiusa in una volontaria solitudine. Intorno, le disordinate forme della vita, gli altri con le loro gioie e gli affanni, gli oggetti e gli interni visitati dai ricordi sono un assedio che non concede tregua e dipinge d’ossessione ogni immagine. Forse, un po’ di cronaca in più: ma non soffoca poiché ogni puntello ha legami con l’affabulazione.

Rosmunda l’inglese di Giuseppe Ferrandino Siamo in un’isola dell’Italia del sud: la bellissima Carlotta Buccarelli, pittrice di qualche talento, ha una vasta rete di amicizie, tre amanti e, in Rosmunda, una compagna appassionata e fedele. Il loro è un ménage che dura da tre anni e che viene drammaticamente interrotto dalla morte di Carlotta, trovata cadavere nel suo studio chiuso dall’interno. E poi c’è un quadro con una scritta minacciosa. Suicidio o delitto? Le indagini, dirette da un giovane procuratore, non lasciano intentata alcuna traccia e, a mano a mano, fanno emergere da ognuno dei sospettati i più reconditi segreti. Romanzo aspro e tenebroso, Rosmunda l’inglese di Giuseppe Ferrandino si organizza in una struttura sciolta nella quale il connotato principale di un fatto o della storia di un personaggio non si esaurisce in se stesso, in un comportamento, in una frase in apparenza rivelatrice, ma travalica il contesto, si articola nelle connessioni invisibili, nella circolazione delle cose, degli indizi, da cui provengono un flusso di mistero e insieme l’invito a cercare con maggiore determinazione la verità. Pur penetrando con efficacia nel centro delle microstorie al fine di individuarne il più sottile filo, la scrittura sembra indicare nuovi punti di intrighi con periferie di eventi, sfumature, diramazioni, dando così nuovo alimento al flusso narrativo. Si ascolta, come smorzata, la piccola musica degli oggetti minimi che si distende, a volte si sottrae, si assottiglia e rinasce in un subalterno mondo di particolari che accompagnano, come in un contrappunto, l’azione centrale,

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il teatro acceso sulla figura di Carlotta, inquieta, costantemente desiderosa d’altre vite, presa dalla «frenesia di fare, di sognare», di «qualcosa di pericoloso e di eccitante per sentirsi vitale». Nel racconto, condotto in prima persona da Rosmunda, sfilano i personaggi del complesso intreccio: Michele, il chirurgo dalla faccia gelida, e Alfredo, organista spiantato; Osvaldo, lo stuntman divenuto zoppo per un incidente, e Luca, l’inespressivo figlio di un mobiliere; il fratello della vittima, oberato di debiti, Carulli, tenente di Marina, e il marchese Boino, un «garbato ma forse sventato signore di Napoli». Ogni voce ha il suo suono, il colore e lo spazio di una vita in questo libro che fa sparire tutto «in un baratro di desolazione» e galleggiare la verità come una «scheggia di turacciolo in una bottiglia». Quando alla fine il male scompare, il mondo torna in pace con una bellissima giornata di sole e Rosmunda può dalla terrazza guardare il panorama. Dissolto il buio, irrompe il paesaggio.

Gli amanti fiamminghi di Paolo Maurensig Giunti alla soglia di quella stagione in cui si incomincia a vivere di pentimenti e rimpianti, quattro amici nascondono, sotto un rapporto di apparente sintonia, le più assillanti inquietudini, inespressi risentimenti, ostilità avvelenate, e ancora silenzi, schermaglie e ombre: l’io protagonista, scrittore in crisi che avverte l’esaurirsi dell’ispirazione e l’ostilità di un mondo pronto a chiuderlo nella sua morsa; Manola, consorte di lui nonché pittrice dalla vena sognante; Jacopo, amico antiquario, e sua moglie Emma, ricca, colta e brillante conversatrice. Sui loro giorni si posa, come polvere, un senso di angoscia in cui tutto si ripete riverberandosi in una scrittura che aggancia le nevrosi, le insidie dell’inconscio alla superficie levigata e dominata della riflessione, usando una sintassi pieghevole, decisa nel rompere il ritmo lineare con subitanei inserimenti di note psicologiche e nel sospendere il livello dell’«odiosa quotidianità» fissata da referenti concreti con diramazioni in un tessuto metaforico, tramato di calcolati dubbi, enigmatici giochi di sguardi, immagini leste a nascondere la loro creatività per indicare ciò che sempre sfugge e va dove sembra avere principio l’autentico significato di Gli amanti fiamminghi di Paolo Maurensig. E così, il viaggio in auto dei quattro verso la meta, mai raggiunta, di vacanze in Catalogna rappresenta, certo, il desiderio di evadere dalla «luce fluorescente che ronza senza tregua» avvolgendo il protagonista, ma è soprattutto il meccanismo narrativo attraverso il quale si eclissa l’«euforia» iniziale e sopravviene il timore che «qualcosa possa spezzarsi».

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Una nuvola oscura il sole; Emma annuncia che Jacopo ha ultimato il suo romanzo tenuto segreto nel cassetto; l’amico è colpito da una «fitta d’invidia», scava nei ricordi, ritrova le tracce che lo avevano insospettito. L’invito che Jacopo gli rivolge a compiere un’escursione sulle Gorges du Loup, rocce sovrastanti il paesino della Costa Azzurra in cui il gruppo ha fatto sosta, è l’inizio di un incubo per i «due viandanti al cospetto di un orrido». Da quella scalata Jacopo non tornerà più, scomparendo in circostanze oscure. All’altro tocca l’ambiguo ruolo di superstite entrato in possesso del manoscritto di Jacopo e che ora si trova di fronte a un racconto lieve e trasognato, percorso da quell’intensa storia d’amore che non è riuscito a scrivere. Romanzo nel romanzo, Gli amanti fiamminghi va, con parole «come lapilli incandescenti», da laceranti lame interiori a considerazioni tecniche sui retroscena della scrittura, popolandosi di sfuggenti figure minori e accettando dagli ampi squarci descrittivi solo le consonanze con gli stati d’animo. Condizioni spirituali depositate dalla collocazione simbolica di oggetti e luoghi, e dallo sgocciolio leggero di cose consuete (lette nel contrappunto drammatico di un particolare del Trionfo della morte di Bruegel), colte nel primo scatto verso lo stravolgimento.

Il gioco delle tre carte di Marco Malvaldi Dopo il convincente esordio con La briscola in cinque, Marco Malvaldi ripresenta il suo picaresco manipolo di stagionati investigatori dilettanti, «alfieri della terza età», intenti come al solito a trascorrere i pomeriggi nel ritrovo «Il BarLume» di Pineta. Il gioco delle tre carte è un frizzante giallo, ambientato nella provincia toscana, in cui si sussegue un gran flusso di ragionamenti, battute, sentenze e volti. Spezzoni di figure e figure a tutto tondo e voci in tonalità diverse si staccano da un minimo fondo insieme con rivelazioni estrapolate da un nugolo di storie, luci taglienti di memorie e paesaggi veri, fissati in una sorta di stilizzazione. Un veloce spettro di episodi emerge non tanto dalla libertà delle normali abitudini quanto da un’opera di riflessione, dalle menti che stabiliscono la posta del gioco e che finiscono per agganciare tutto allo svelamento di un enigma. Da qui una scrittura in superficie comunicativa, naturale e scanzonata nella sua brillantezza di commedia, ma, nell’essenza, scandita dal ben fermo orientamento di un progetto ordinato e di geometrie espressive curate con calligrafica destrezza attraverso una miscela di precisione stilistica e di sorriso. Gesti, atteggiamenti, situazioni si stagliano come in un’aria vetrificata, per poi frangersi in un rivolo di microvicende applicate a un progetto

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GIUSEPPE AMOROSO

vasto riguardante l’uccisione di un autorevole vecchio professore giapponese di informatica giunto in quel lembo d’Italia per un congresso scientifico. Contemporaneamente, le chiacchiere da bar esaltano l’«asilo senile» che guarda personaggi e fatti con «aria famelica»: il Rimediotti dall’abbigliamento ambiguo, «a metà tra un lungodegente e un evaso»; Aldo, uno dei pochi viventi in grado di «esprimersi in un italiano grammaticalmente corretto»; Ampelio, ex capostazione e il Dal Tacca, grasso e antipatico. E mentre l’indagine ufficiale è condotta dal commissario Fusco, fa da controcanto, coscienza critica e mormorante, il coro dei vecchietti che interferisce, si raccoglie nel suo universo, si riaffaccia indiscreto. Anche la natura sembra partecipare «coordinando tutti gli eventi in modo da avere un po’ di tranquillità». L’unico che partecipa attivamente e che scioglierà il caso è Massimo, il barista laureato in matematica e lettore estemporaneo, «un uomo con la u minuscola, l’automobile media, il naso enorme, il quale si dà da fare, si ingolfa in discussioni su problemi universitari visualizzandoli da un suo parziale punto di vista, è sempre in primo piano, aiutato nella gestione del locale dalla bella banconista Tiziana. Certo, si accampa nel libro una fastidiosa quota di eccessivi ragionamenti tecnici sulla telematica (sarà un computer il nucleo del mistero) che disturba il movimento narrativo: tuttavia l’autore si sforza di affrontare direttamente la realtà al fine di leggerla nel suo essenziale e nudo spettro, evitando la tentazione di scatti visionari.

Con patir di cuore di Giovanni Torres La Torre Svetta sulla striscia di terra che va da Cefalù a Capo d’Orlando il castello di Caronia. Dalle sue terrazze lo sguardo si perde nell’«immensa pittura azzurra» del mare. I boschi, con le foglie «maculate di ruggine e oro», risuonano di voci antiche, mentre da una delle finestre sembra affacciarsi il geografo Edrisi. In questo luogo fermo in un tempo incantato e avvolto dalle musiche di Olivier Messiaen, Giovanni Torres La Torre ambienta Con patir di cuore, racconto tramato di echi culturali, citazioni dotte, inflessioni ironiche e pensose, dove i libri escono dagli scaffali per vivere una loro esistenza autonoma, prepotentemente libera e avventurosa. Il respiro cosmico e l’umore della terra si fondono nel sapiente gioco delle parole distillate e preziose alle quali l’autore affida non solo il compito di nominare le cose, ma anche un impulso generoso verso la costruzione delle scene e degli episodi. E sono fondali e, in filigrana, azioni che si intrecciano chiamando figure scomparse, storie svanite nei secoli, reminiscenze

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NARRATIVA

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sopite. Tutto in una struttura che vuole illustrare, descrivere tenendo tuttavia costante il filo della favola. Il lettore segue le peripezie delle citazioni, dei rimandi libreschi, delle discussioni accademiche così come si può seguire con attenzione una vicenda romanzesca. In questa fitta e mormorante rete di nomi e opere si muovono Cappellaccio, stralunato regista teatrale, e la vedova Donna Darton, «irradiata da nuova luce smeraldina», che, rispondendo al pressante invito di Laura delle Ninfe, attraversano i labirintici chiaroscuri dell’allibito maniero. Le trascoloranti figure del paesaggio di Lucio Piccolo, gli intarsi barocchi di Retablo di Vincenzo Consolo e le «grandi linee universali» del pastiche linguistico di Antonio Pizzuto fanno lievitare la pagina a più livelli di Torres La Torre. Sensibile nel cogliere i più sfumati colori della natura e le sue esplosioni clamorose, l’autore costruisce un mondo visitato dalle «infinite forme del bello» e oscillante fra un presente frantumato e ampi spazi del passato che si creano anche da un semplice particolare, concorrendo a suscitare il «misterioso pentagramma» di una realtà stravolta e sognante.

L’alba nera di Mario Falcone All’alba del ferragosto del 1908 Messina «risuona già del suo solito vivace cantilenare». È il giorno della processione della Vara: la città esplode nella sua gioia vitale, mentre uno «strano brivido di follia» corre nell’aria. È un impercettibile segnale che, squarciando il viavai della folla in festa, punta la direttrice del romanzo di Mario Falcone, L’alba nera, verso un oscuro fatto di sangue: l’uccisione di una giovane cameriera, primo anello di una lunga catena di delitti. Tutto sembra prendere un ritmo soffocato e minaccioso, come un inseguimento ad atmosfere e fatti che si sottraggono a una piena comprensione. Così, con il suo drammatico rebus, il libro va dove non esiste più una ragione, dove si spegne la vita di tutti e la natura irrompe con la furia del terremoto. L’alba del 28 dicembre vede in trentuno secondi trasformare una fiorente città in un «cimitero a cielo aperto, cancellandola dalle carte geografiche». Tra l’addormentata quiete dell’avvio e il «paesaggio lunare» della devastazione, il romanzo intesse una lunga rete di microeventi e di personaggi legati all’indagine sui fatti di sangue condotta dal tenente dei carabinieri Marco Valeri Sestili, tormentato tra solitudine e un’«ombra di morte». Si va dalla ricostruzione di vicende torbide e violente alla scoperta di incontaminati istanti di purezza e nativa fragilità. La pagina, sempre asciutta e realistica, documentaria e piena di tensione, scava nel fondo della vita

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GIUSEPPE AMOROSO

collettiva anche interrogando solo i minuscoli anfratti di un mondo che non vuole manifestarsi appieno. Ed è l’immaginazione dello scrittore che aiuta a portare a galla i segreti di un universo infido e vischioso. Mario Falcone compie un viaggio nel passato della sua città che, attraverso lo scatto di continue intuizioni, svaria, si allarga, accerchia i bersagli, li perde di vista, li riannoda in un unico grande mosaico utilizzando le ben attrezzate tecniche della narrativa tradizionale e, insieme, facendo qua e là impennare un fraseggio, un dialogo, l’inserimento di qualche riflessione. Da un convulso teatro di comparse si levano le figure centrali seguite in percorsi sempre specchiati negli scenari della città: il barone Orfeo Torielli e la sua amante Elsa, entrambi animati dalla stessa «vivacità segreta e a tratti dolorosa»; l’affascinante Donna Flores Arantes, moglie di Orfeo; i tre figli del barone e il misterioso Ignazio Currò, tornato, dopo lunga assenza, dall’America; il giovane fornaio Rosario e la sua fidanzata Ines; una disinibita fotografa nordica e Silvia, la moglie di Marco. Un’abile regia cinematografica avvicina e allontana gli sfondi, si ferma sui circoli esclusivi e sulle taverne, sul teatro Vittorio Emanuele e sulle baracche, sui grandi alberghi e sui palazzi nobiliari. Apre campi lunghi che investono piazze e strade e, dopo la catastrofe, scova la «straziante processione» dei superstiti che vagano «come anime in pena alla ricerca di un posto che non c’è». E mentre si sfoglia questo libro vigoroso e venato di una soffusa pietà, il pensiero corre a un altro bellissimo libro, Novecento di Matteo Collura, in cui la tragedia patita dalla città dello Stretto scorre in un racconto che fa lievitare la crudezza della cronaca in un frusciante incanto di leggenda.

Dopo lunga penosa malattia di Andrea Vitali Ha un «linguaggio misterioso e cattivo» il vento che spazza le strade di un paese del lago di Como sotto la luce malata dei lampioni. Il dottore Carlo Lonati viene chiamato in piena notte nella casa dell’amico notaio Luciano Galimberti, stroncato da un infarto. Ferma, quasi silenziosa e china sul proprio ascolto, la scrittura di Andrea Vitali conosce i tempi giusti per far coincidere le azioni con gli stati d’animo. Non esistono distanze fuorvianti tra l’intreccio dei casi, i loro romanzeschi corsi, e le imprevedibili traiettorie dei personaggi, così sobri ed essenziali eppure così duttili e ripiegati sulle loro più inquietanti ragioni di vita tese a trasformare in scene ogni impalpabile dettaglio. A volte un episodio sembra, nella sua epigrafica linearità, uno schizzo preparatorio a causa di una vaga impressione di abbozzo, quasi di appunto, di scarnificata didascalia. I personaggi parlano, agiscono come die-

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NARRATIVA

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tro un vetro, tenuti in una zona di controllata sospensione, lontana rispetto a quella delle vicende che attraversano. La contrada «lunga come un urlo», l’aria soffocante, senza ossigeno, gli smorzati e struggenti colori d’autunno, le foglie danzanti con suoni secchi, l’«offensiva» luce del sole, il vento «rivestito da una specie di vernice nera» paiono predisporre a un’atmosfera insidiosa. Ed ecco lo squillo del telefono, che al dottore provoca la «fantasia di un serpente» (e anche una strada richiama la «schiena di un serpente»), aprire il sospetto che la morte del notaio non sia dovuta a cause naturali. Dopo lunga penosa malattia fa allora dilagare dal suo pacato incipit di romanzo di costume gli intrighi di un appassionante thriller. Prende corpo così l’indagine dell’improvvisato medico detective che parte da uno strano odore di fritto, da impronte di scarpe su una moquette e dall’incredibile testo del manifesto funerario del notaio. Nella lentezza delle ore uguali si cerca un «pezzettino» di verità sommersa da un’aria effimera, di transito, di cose che vanno nel nulla come i riflessi del lago immobile, i rumori del paese popolato, le telefonate anonime, i pensieri di morte. Più la storia va avanti e più si fa oscura, coinvolgendo la moglie e la figlia del notaio e altre figure del gioco. Con tratti decisi, Vitali rintraccia le «suggestioni malvagie» che a poco a poco fanno rompere gli indugi e portano il protagonista a misurarsi con una luce violenta che sembra reclamare una soluzione. Realistico, con cronometrie ben selezionate, il romanzo sfiora anche la trincea del metafisico, la tela del ragno che si «arrampica lungo la parete del cuore» del protagonista, sempre in primo piano ma pure disperso in una molteplicità di voci cangianti, enigmatiche, perfidi aculei di una provincia addormentata.

Storia dell’intelligenza infame di Giampaolo Rugarli Romanziere abile nello sciogliere le forme più rivoluzionarie di linguaggio e di tecniche in intrecci narrativi di forte tensione. Poeta visionario e incantato, nella sua nitida e pietrosa malinconia di penombre; polemista acceso e impegnato a combattere ogni genere di sopraffazione, Giampaolo Rugarli attinge ora al suo estro creativo per dar forza alla finzione di uno «scartafaccio» manzoniano in cui dell’autore lombardo «ci sono il lessico, la sintassi, alcuni vezzi, ma i contenuti, proiettati verso un lontanissimo futuro, sembrano spettare a un burlone, a un dissacratore». Così nasce Storia dell’intelligenza infame, «autentico falso d’autore» nel quale Rugarli racconta, a partire dal 2030, il caso di un uomo accusato di aver propagato con i suoi scritti «intelligenza e dissenso».

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GIUSEPPE AMOROSO

Protagonista è «tale» Garruli Gian Paolo, uno speziale di Milano che decide di fondare un «giornaluccio», intitolato «L’estrema unzione», fustigatore dell’intero universo dei mezzi mediatici. Immediata la reazione dei detentori del potere tra cui il cardinale Oliosanto e i parlamentari Rimanendo, conservatore, e Riscossa, progressista, intenti, con tutti i mezzi, a zittire l’«iconoclasta» che continua a colpire i suoi bersagli: dopo la nefasta pubblicità ecco nel mirino anche la scuola, presa negli ingranaggi di «una gara di asineria tra corpo docente e corpo discente» e il sistema universitario, cresciuto in modo disordinato e carico di cattedre di «funeste scemenze». Intanto il dissenso, alimentato da un Garruli per nulla intimidito, corre tra il popolo diffondendosi a macchia d’olio per l’«infelice terra d’Italia». Sempre in primo piano, il gazzettiere si ritrova in una molteplicità di atteggiamenti piegati a incarnare l’esilarante e amara metafora di una confusa condizione politica e sociale infuocata dall’«imperversamento delle passioni», e visitata dall’oscura insidia del terrorismo. Scene corali si alternano a microeventi dominati da un «crocevia di idee, per lo più storte». Fra tanti stacchi, sospensioni, riprese, il filo rosso conduce la storia del «ribaldo» Garruli fino alla sua scomparsa dal mondo e alla sconfitta eredità del suo testamento. In questo libro di macerato spessore civile, l’inflessibile denuncia e, insieme, il divertito gioco letterario e la carica drammatica si fondono in un tessuto riflessivo colmo di azioni e di stupefacenti trovate pronto a tenere in pugno un movimento prolungato di racconto che, esplorando la «sciagurata voglia di sapere e di ragionare», si imbatte nella cruda realtà del ritorno all’«aria di sempre», al conformismo, all’annullamento dei valori e a quel «segreto della felicità» insito solo nel non pensare. Sulla spinta dell’iperbole Rugarli disegna un quadro dagli orizzonti più disparati: significative le tre note in appendice che vanno dal lodo Alfano a una lettera inviata da «Iddio in persona» al Papa Cannonante III e a un passo di diario in cui si esalta l’incantesimo del sogno.

La lunga attesa dell’angelo di Melania G. Mazzucco «Pungolato dal furore, incoraggiato dal capriccio», Tintoretto si abbandona al suo estro creativo. Arrogante e irrequieto, sempre in guerra con se stesso, sensuale e disperato, conosce la «sublime banalità della carne e l’ardua bellezza dello spirito». Venezia è il suo universo, la chiesa della Madonna dell’Orto, il suo asilo. Il Cinquecento è al tramonto, sulla città lagunare incombono la guerra con i Turchi e la peste. Una vibrazione scintillante di colori o sommersa nel buio dà agli oggetti e alla luce del paesaggio la cornice

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NARRATIVA

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emotiva dell’artista, lo sfondo delle sue visioni, il nido dei suoi fantasmi. È un oscillare di immagini fra presente e passato (ma l’uomo si porta dentro «brandelli di ricordi che non significano niente»), concrete, talora eccessive, lievi, fuggitive come pensieri che non riescono a fissarsi a lungo richiamati da un fruscio di polvere. Tra fisicità vicina ad assottigliarsi in un soffio e fantasie che scelgono la materia per trovare un contatto che esalti la pienezza della vita, il romanzo di Melania G. Mazzucco, La lunga attesa dell’angelo, contempla la storia di un grande artista e dell’«incantesimo sconosciuto» che lo lega per sempre all’illegittima figlia Marietta (avuta dalla relazione con la bella Cornelia la quale, con i suoi capelli rossi, «spicca tra la folla come una goccia di fuoco»). Dotata di spirito mordace, Marietta veste come un uomo, dipinge, passa le giornate nella bottega del padre con cui manda avanti un dialogo «cifrato» dove la musica dice il silenzio delle parole. Fin da bambina, «crudelmente innocente», mondana e disinibita, è capace di non rifiutare mai una sfida. Sotto un cielo vuoto, «arido meccanismo di corpi che ruotano», ci sono «le cose preziose che accadono tutti i giorni e quelle che accadono una volta sola o mai» e ci sono i paesaggi dentro un dormiveglia, le feste della contrada, le case rosse come la ruggine, gli inquieti canali, il Bucintoro che scintilla «come un drago coriaceo», la ragnatela di strette calli, il Palazzo Ducale e i ponti, i campanili con il fumo che sale dai comignoli, monasteri e biblioteche e le ombre che si sollevano «come un sipario». Ci sono gli uomini nei loro sogni di tenebra che «annienta» e di luce che «chiama». Portati da un realismo che cerca puntelli pure nel mondo della favola, ecco i volti più vicini al protagonista: la giovane moglie Faustina, vivace e attiva e i molti figli tra i quali Dominico, delicato e operoso, amante della poesia, e suor Pierina, felice e sincera, e poi un gioielliere tedesco che per «aver rispetto deve nascondere il suo anonimo e barbaro nome», la spigolosa «occhialaia» Zanetta e la «dipintora» che «maneggia il pennello con la grazia di una zampa». Passioni roventi, nostalgie, notizie di stragi lontane, rivalità e intrighi e un’alternanza continua di sublime e di quotidiano, esaltano un’eloquente sintassi di immagini che assorbono tutta l’intensità narrativa, riflessiva e lirica del racconto, amalgamando voci e concetti, lo scorcio di un interno e un gran progetto d’arte.

Voglio una vita come la mia di Marco Santagata Il presente si intreccia con il passato. Uno sguardo fugace sulle cose e il piccolo orizzonte già precipita in un abisso chiaro di memorie. Parla degli

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GIUSEPPE AMOROSO

altri per parlare di sé il protagonista di Voglio una vita come la mia di Marco Santagata, un professore nato nello spazio, tra il 1946 e il 1950, che ha creato la generazione felice dei «frontalieri della Storia»: quelli che «hanno vissuto due infanzie, due generazioni, restando fuori da ogni guerra». Educato a godersi una «sana miscela di realtà e fantasia», l’io ripercorre la propria vita: il «mondo magico», fatto a sua misura e lontano dalle costruzioni artificiali dell’Italia uscita dal disastro bellico, gli schiude una natura esplorata «ad altezza di bambino», con un mare di lucciole tremanti nel buio, le strade del paese addobbate per la festa del patrono, la banda musicale i cui suoni «hanno il privilegio di non cadere sotto la giurisdizione del tempo». A colpi di flash il testo sventaglia un groviglio di voci e sensazioni che genera, con effetto di marea, smarrimenti e fondali sonori e sazietà di suoni. Così si interrompe il flusso dei ricordi per ricominciare il tragitto conciliando forme di racconto e di analisi critica (si vedano i paragrafi dedicati ai mezzi di comunicazione, al rapporto città-campagna, agli «apocalittici dell’ecosistema»). Oscillanti e ambigui epicentri, tanto lontani e divisi che sottraggono alla realtà la consistenza materica per trasferirla su un piano inclinato e per farla rotolare verso oscuri archetipi. Si tolgono certezze, fedeltà fotografiche e si moltiplicano i toni indistinti, con larghi vuoti dove si sgrana la misura del tempo con qualcosa di dolente, un’ombra di immedicabili ferite, di ineludibile, progressivo distacco e anche di profonda interrogazione morale, indagine sui costumi e sull’imprevedibilità dell’esistenza, sulla «dolcezza» del vivere, sulla mai doma speranza di «guadare quel giordano della vita». Sessantenne, l’io si scopre «padre di figli senza fede». Ha fatto carriera, con i suoi coetanei, nel «mare postmoderno» e, «nobilitato dalle grandi trasformazioni sociali», non ha avuto però il diritto di «trasmettere il titolo», con il risultato di seguire il «destino delle comete». Nelle questioni di cuore non imbocca mai «la via retta», prende atto della frana della scuola e dell’istruzione e, mentre la vecchia Europa gli va stretta, si perde in una scia di «cosmiche turbolenze», in un mondo mutato nel quale civiltà separate da secoli di storia convivono «contro ogni legge razionale». A intervalli fanno capolino paesaggi riflessi in uno specchio di malinconia, volti esposti in gesti marcati, qualche drammatica ombra e un mulinello di piccoli episodi che riporta anche le teorizzazioni nel giusto alveo del racconto.

Venuto al mondo di Margaret Mazzantini La parola «speranza» ha la «faccia di una donna un po’ sgomenta, di quelle che trascinano le loro sconfitte eppure continuano ad arrabattarsi con digni-

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tà», di Gemma, la protagonista di Venuto al mondo di Margaret Mazzantini. Un romanzo opulento, dalla struttura a più livelli, impegnato a lavorare sulla levigatezza della prosa uniforme, piana, disciplinata. Ma anche insidiata da un che di inquieto che sospinge la regolarità delle immagini nelle rifrangenze dell’inconscio attraverso un processo di trascrizione destinato a imporre al taglio della cronaca uno scivolamento verso le radici di un dramma esistenziale. Da qui il tramutarsi della pagina distesa in una combattuta e torbida schermaglia con il buio: un sincopato delirio dentro un’eco che si trascina dietro fotogrammi di drammi privati e collettivi. La geometrica, pulviscolare annotazione di eventi, ha contrazioni e sussulti che deviano il registro informativo (da Sarajevo Gemma riceve a Roma, dove vive con Giuliano, una telefonata dal vecchio amico Gojoko, stravagante poeta bosniaco che la invita a ritornare nella sua città) verso intrecci di sofferte verità esistenziali e di memorie. È il ritorno di un lungo silenzio dentro la vicenda. «Arpionando il passato» Gemma parte con il riluttante figlio Pietro, un ragazzo di sedici anni, nato in Bosnia dall’amore per Diego, «fotografo di pozzanghere». Difficile è «scivolare in mezzo senza assorbire niente» della città martoriata e di tutti i ricordi suscitati da ogni posto. Risalgono i giorni delle Olimpiadi invernali dell’84, sponde remote nelle quali è sorto l’incontro di Gemma con Diego. Concentrato sui fatti tenuti all’interno del fosco quadro della guerra, il racconto non abbandona mai la concretezza, imbocca la via di un realismo uniforme, tanto costante da apparire, in certe protratte descrizioni di ambienti e costumi, quasi volutamente simbolico di un’atmosfera soffocante di caligine. Questa atmosfera pesante nel suo distendersi lungo una costruzione narrativa di impianto tradizionale va incontro allo scatto di sequenze brevi, al taglio cinematografico che fraziona scenari sintonici con il disperato desiderio di maternità della protagonista, coronato infine dalla nascita di Pietro. Gli sfondi oscillano tra sigilli di crudeltà e violenza e «figure di cenere» in transito; fra l’oggettività di un movimento di cose e la vertigine dell’allarme e della sorpresa. Certo, la puntualizzazione millimetrica di ogni caso rallenta il flusso del racconto, ne restringe il raggio, nonostante il variare degli orizzonti, si verticalizza in alcuni episodi impetuosi e rivestiti di grande tensione. Il catalogo degli accadimenti, la rassegna topografica dei luoghi, degli interni, bloccano un po’ lo slancio dell’avventura che finisce per incollarsi sul documento. Non sempre si esercita quello scarto della visione in grado di infondere sulla «vita che ha fretta» la talora salvifica fretta della vita, gli specchi delle allusioni, dei risvolti, dei contrasti che trasformano le superfici piatte in maree.

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GIUSEPPE AMOROSO

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E se covano i lupi di Paola Mastrocola E se covano i lupi di Paola Mastrocola si fonda su attrezzate modulazioni espressive che sostengono gli scenari di una favola emblematica e solare, nella rappresentazione di amare verità, trasferita di volta in volta dalla levigata superficie degli accadimenti nella coscienza degli stralunati personaggi. Un lupo filosofo, frequentatore di biblioteche, scorre i giornali, prende il caffè al bar, va a pesca. Ma ad un tratto decide di farla finita con il suo vivere astratto e si mette in perfetta solitudine al centro di una prateria a covare le uova depositate dalla moglie, un’anatra sedotta dall’idea di poter, così, svolazzare libera e di aspettare («una cosa che si può fare in mille modi, anche non covando») la nascita dei suoi figli. L’attesa si colma di un vagabondaggio spalancato su incontri stupefacenti con gabbiani spazzini, gatte giornaliste, leoni premier di fantomatiche repubbliche, la bellezza irraggiungibile, treni stracolmi di tacchini. Elastico, il racconto, inframmezzato da disegni dell’autrice, trascorre di episodio in episodio, si fa lieve nel fiato della favola, poi fissa intensamente un caso, ne ricerca i risvolti, rialza il tono, riprende il filo delle azioni e del commento gremendosi di motivi fantastici contrassegnati da una fuga dal mondo che vuol dire restare sempre in quel mondo. Nel frattempo il lupo scrive un libro, fa amicizia con un vecchio riccio solitario, si imbatte in un inquietante universo popolato di volpi invidiose, lucertoloni dandy, una sanguisuga che lo intervista, un esercito di gufi, un ornitorinco in cerca di fortuna. Alla fine, stampato dai topi tipografi, il libro del lupo, composto di una sola frase, diviene il caso letterario dell’anno. Dopo ventotto giorni nascono i figli covati con amore. E nel gran mondo intorno tutto sembra cambiare. O forse...

La vedova, il Santo e il segreto del pacchero estremo di Gaetano Cappelli Forse la nebbia lombarda non ha tutti gli incanti che Vera Gallo ha sognato nelle tante stagioni vissute in provincia di Matera accanto al ricco marito. Rimasta vedova, trova a Milano le condizioni ideali per farle apparire i trent’anni trascorsi al Sud «un cupo e lontano ricordo». Le cose però precipitano per la matura ma ancora bella e sensuale donna che si trova costretta a ricorrere alle cure dello psicanalista Aaron Kaminsky, figlio di un «bel tipo di ebreo errante», specialista nella lettura del futuro. A questo punto entra in scena Dario Villalta, appassionato d’arte antica che, suo malgrado, fa anche il gallerista d’arte contemporanea. L’amore per il classico lo indu-

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ce a scoprire in sé «corrispondenze» con la più importante delle passioni, quella per le vedove, per la «vendemmia tardiva» dei corpi e per la «pelle tatuata dalle rughe». Questo inizio di storia mette in movimento La vedova, il Santo e il segreto del pacchero estremo di Gaetano Cappelli, un romanzo che applica in larga misura il sorriso per arginare le fluttuazioni dei sentimenti più intensi, offrendo un impasto di riflessioni caustiche, ammicchi, vicende esilaranti, macchie dialettali, intrighi nello scenario teatralizzato di una società edonistica e fatua. Le scheletriche sequenze del racconto si gonfiano nel linguaggio effervescente ed elettrizzato che porta all’ipertrofia delle immagini anche le più invisibili trame di cose, pensieri, circostanze di margine, abbandonando i momenti drammatici, sostituiti da una continua musica di commedia, da un allegretto capriccioso e malizioso, qua e là estenuato, incaricato di fare da colonna sonora alla circolare e piena comprensione degli accadimenti. L’esuberanza degli episodi collaterali (un’autentica biblioteca che riesce a vivere un stato autonomo) e le rivelazioni avute durante le sedute dallo psicanalista aprono a Vera la possibilità di uscire dalle ambasce e stanare il traffico di una rarissima statua del Mantegna. Ma le speranze cadranno lasciando tuttavia Vera «serena» in «paesaggi fuori dal mondo». Il gusto della battuta leggera e dell’illustrazione di colpi di fulmine stordenti e situazioni erotiche è spesso tenuto a livello di guardia dalla presenza dell’autore, dai suoi avvisi al lettore, da quel suo «sapere molto di più» dei fatti, dal momento che tutto si svolge in un romanzo teso a regalare un «succedaneo» a chi vi si accosta. Si costruisce pertanto la piattaforma di un metaromanzo, privato però delle più sorprendenti risorse dei suoi meccanismi poiché sommerso dal tono disincantato in cui precipitano molti spunti narrativi e critici bisognosi di ulteriore approfondimento. E, al contempo, molte «formule banali» non si sciolgono in ritmi romanzeschi ma con altro materiale eterogeneo soffocano, attraverso i loro «giochetti» – come ha notato Giorgio De Rienzo (La vedova e il gallerista appesantiti dagli eccessi, «Corriere della Sera», 11 dicembre 2008) – l’iniziale leggerezza del libro.

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Narrativa italiana 2009

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Le due ragazze con gli occhi verdi di Giorgio Montefoschi Ogni particolare è colto con cauta evidenza nel gran mare delle cose, centellinato, posto in moto, assorbito, rimpiazzato da un nuovo particolare in un’onda gonfia e lenta che colma la pagina, le dà sostanza e ritmo e si fa gesto più lungo del previsto, voce che occupa il buio senza dominarlo, figura che inizia a prendere quasi una forma di mistero. E anche tempo, segnato dalla luce che si stampa sugli attoniti sfondi ed è riflesso sfuggente dello sgomento impalpabile del vuoto. La scrittura radiante e cronometrica di Giorgio Montefoschi si fonda sul visibile giornaliero che, assestandosi di volta in volta su un piccolo spazio, sembra esistere da sempre con una sua metafisica fissità, occupare l’intero quadro con una morsa, mentre i pensieri dei personaggi, che schiudono schegge di fatti, atomi legati in un occulto segno, si integrano in un racconto che trasforma anche il marginale nello spettacolo del continuo passare di tutto. E con qualche intermittenza, lo sguardo perplesso dell’autore, non più neutro cronista, avvolge la scena e scopre nei dettagli qualche simbolo. Dai silenzi domenicali, dai fragili colori della luce, dagli ovattati rumori di un tranquillo quartiere borghese di Roma e dal buio insondabile si snoda, in Le due ragazze con gli occhi verdi, la storia d’amore di Pietro e Laura. Intenso e assoluto, questo amore giovanile svanisce nel «vuoto luminoso» di un gennaio freddissimo. E svaniscono personaggi e paesaggi per riapparire vent’anni dopo nella stessa sfrangiata aria estenuata in cui restano, insidiose, le ragioni più vere delle loro vite. Si rinnova la stranita giostra di topografie incantate da una frase, uno sguardo, un oggetto che sembrano attendere un nuovo evento. E Pietro e Laura, ritrovatisi in questa ulteriore sponda delle loro esistenze, si perdono ancora, e per sempre, negli stessi «suoni smorti» di una città un po’ più triste, polverosa e numerata in un inquieto stillicidio di giorni camuffati talora di splendore. Ma a volte preme uno «sgomento oscuro». Intanto, gli anni volano per Pietro che, a distanza di un decennio speso nell’accanito ricordo di Laura, conosce, in modo casuale, la figlia di lei, la giovane Maria nella quale rivede l’immagine della madre, mentre intorno si addensa il presagio di un’impossibile felicità. Scandendo le stagioni, le ore, le impalpabili insorgenze del concreto, Montefoschi riflette il «sentimento buio» di Pietro nella chiusa amarezza di una musica dolente proprio quando sgorga dagli infiniti sfondi trasparenti di una Roma che ad ogni istante svanisce e

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ricompare. In quest’illusiva aria di perenne vita, i personaggi risultano definiti in ogni mossa, osservati nel profondo, inquadrati in gesti rivelatori. Quel che resta come miracolo indimenticabile è la traiettoria con cui le figure imboccano i percorsi dei luoghi e dell’anima, in una vicenda nella quale le connessioni del racconto agganciano, senza ricorso ai canonici legami strutturali, le varie fasi delle storie, le fissano su un piano visivo disteso in sequenze lunghe, non compromettendo la riserva di riflessione che tiene i fatti sotto tiro con un distacco variabile: sempre disposto ad accorciarli nell’attimo feroce della gioia che «non torna» o a ridestarli da un «quieto limbo».

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Ermes di Simonetta Poggiali Basso, un po’ obeso, il sedicenne Luigi è però un fenomeno alla guida della sua vespa con la quale percorre i quartieri di Napoli per sbrigare losche commesse affidategli da parenti di detenuti. La madre, vedova, è custode di un palazzo storico; il fratellino Pasqualino, malaticcio, studia e ripete nel sonno i nomi di divinità appresi a scuola: Ermes, Giove, Nettuno. Sono miti che rimbalzano nella mente di Luigi, soprattutto Ermes, messaggero alato degli dèi. Intorno, mentre egli compie i suoi innumerevoli giri, la città sgrana, da Marechiaro a Capodimonte, dai vicoli bui e poveri alle strade di negozi eleganti, i suoi più contraddittori aspetti, curiosi e anche inspiegabili, come la zona di Posillipo, abitata da gente misteriosa e silenziosa. Fervido di impulsi realistici, trasformati in visione dall’immaginario del giovane protagonista di Ermes, convincente opera prima di Simonetta Poggiali, si staglia un mondo squallido e dolente, confuso e grigio. Cresce nelle parole dei personaggi e pertanto si espande, si annebbia e si frantuma a misura della densità del lessico, della sua quota di invenzione, dei sismi e degli estri del dialogo. Pausato e lento, quando lo visita un cumulo di memorie, eccitato e aspro se lo punge il diroccato spettacolo della miseria e della perdizione o semplicemente della rassegnazione, il linguaggio non smarrisce la ripresa illustrativa, il colpo d’occhio circolare e puntualizzante, ma non si sottrae a subitanei richiami di immagini potenti che fanno da stacco, o da contrappunto, con il peso di realtà tracciate dal loro stesso accadere. Inesorabili nella dimessa, brulicante quotidianità, in una sorta di crescendo di scene e personaggi talora irreali, ma non tanto fissati nel quadro in cui agisce Luigi quanto posti in una sequenza di ostacoli quasi a rappresentare un incubo. Il ritmo, sovente piegato verso una colloquialità di colore locale, si identifica con la storia raccontata (nella quale entra Ninetta, fidanzata del

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NARRATIVA

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pregiudicato Gaetano, una ragazzina di cui Luigi si innamora) e, sincopato, dà spessore alle linee più divergenti del racconto, si fa stravolgente montaggio di sfondi che possono anche essere risaputi ma che sono veri perché, pure con abile sofisticazione, esaltano un avvertibile senso di pericolo: la luna con il suo minaccioso colore; la pantera chiusa in gabbia in una grotta di tufo; la piazza che «oscilla come scossa dalle onde»; la «grossa incudine che pare gravare su tutti». Corre un dimesso ma intenso lirismo (nel vagabondare di Luigi per la città piovosa v’è una discesa nel fondo dell’io: «se avesse potuto avrebbe voluto essere cieco e farsi tutta la strada senza mai aprire gli occhi») che non partecipa totalmente al corso dei fatti, ma, proprio nella sua discontinuità, fa avvertire una sofferenza profonda che finisce per dare linfa pure a certi momenti più neutri o di maniera e alla drammatica conclusione.

Il pianista muto di Paola Capriolo Su una deserta spiaggia d’Inghilterra, spazzata da un vento gelido, Nadine, infermiera di colore, si imbatte in uno sconosciuto che sembra dormire con il volto affondato nella sabbia. Ha grandi occhi «disorientati» e indossa un logoro abito da sera, questo giovane che non parla e che, ricoverato nella clinica psichiatrica in cui lavora la soccorritrice, pare non accorgersi di ciò che lo circonda. L’unico suo gesto, interpretato come un segnale inconscio, è quello di disegnare su un foglio un pianoforte. Così, nel giardino d’inverno dell’edificio in cui questo strumento troneggia, nero «come il corpo di un gigantesco coleottero», ecco l’inatteso e strabiliante concerto del misterioso nuovo arrivato che esegue magistralmente un pezzo di Mozart ipnotizzando tutti, pazienti e medici, fra i quali il direttore dell’istituto e il vecchio Rosenthal, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti e prostrato dal «tremendo fardello» dei ricordi. Ha inizio una «storia ghiotta» di cui si interessa la stampa mondiale. Con Il pianista muto Paola Capriolo rilancia la sua scrittura più alta e memorabile che, attraverso mitizzanti scansioni visionarie, orienta un vorticoso flusso di elementi strutturali, disseminati pure con funzione di sorpresa, e tematici, disposti dall’asimmetria lucida allo sconvolto ordine, dal resoconto regolare agli inserti epistolari (tipograficamente impressi dal carattere corsivo) che recuperano brandelli del passato dello smarrito ospite o ipotizzano la folgorante idea di una controstoria. I vari nuclei narrativi, autosufficienti, si armonizzano in un’altalena di sospettati intrighi, allacciamenti di motivi, metafore e similitudini volte a far schizzare l’enigma dal quotidiano e a

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GIUSEPPE AMOROSO

trasformare l’idillio in un «incubo represso» e anche le cifre di un bilancio amministrativo in «entità folli». È un sottile gioco tecnico (sotto il quale velenosa preme la malinconia dell’esistere) che si avventa sulle parabole delle azioni spezzandole e ricomponendole per un’altra posta, per un secondo percorso parallelo ancor più imprendibile e insidioso, quasi un ulteriore filo di racconto che appartiene all’incantato universo dell’autrice. Scartocciato dal buio si srotola l’ambiguo campionario di quell’umanità sofferente ricoverata nel «paradiso» della clinica che la musica eseguita ogni sera dal «diabolico ordigno» del pianista restituisce a una rinnovata coscienza: la contessa X, un giorno bellissima, e il signor Brown, intento a combattere contro il mondo che gli si sfalda intorno; Lisa, simile a un «angelo fiammingo», e la signora Doyl che si graffia le mani a sangue. E poi Nadine, spinta a dar sfogo al suo «rancore impotente». In questo romanzo il cui personaggio centrale, perso in un’«immemore vertigine», è il protagonista di una storia assente, i vari piani sono sistematicamente percorsi da simboli, annunci di «trappole angosciose»: un carillon «stregato»; gli occhietti «maligni» di un «falso figliuolo»; un refolo d’aria «in agguato»; lo sfondo «cupo» di accordi musicali; l’enigmatico «cenno» di una mano. Un’aria di sortilegio avvolge la «rete di congetture» della clinica e i «fastigi di marmo» dei palazzi veneziani; le «grosse zampe di ragno» di Notre Dame e l’«implacabilità di un incubo» delle stradette di Amsterdam. Il pianista muto è romanzo, insieme, delle serpentine grottesche dell’orrore e degli «spettri sonori» in attesa di una «fuggente resurrezione»; dello «sguardo immateriale», delle ombre e della «corrente» segreta che intercorre tra gli uomini. E tutto va tra la polvere e il vuoto.

Il tribunale dei bambini di Ferruccio Parazzoli Scenario è lo «spicchio» di Milano tra Piazzale Loreto e il doppio sottopasso delle Ferrovie dello Stato. Un ex cronista di nera, bibliofilo e amante della letteratura poliziesca, detto il Maestro, ne percorre tutti i giorni le strade «con lo stesso gusto con cui il goloso continua a girare il dito nella tazza della maionese». Al bar Mercato si incontra con il Giallista, anziano scrittore di libri di scarso successo e cultore di «enigmi metropolitani». Dalle loro conversazioni emerge il ricordo di una storia di morte (la strage dei bambini di una scuola bombardata, nel ’44, da un aereo americano) con la sinistra scia di inquietanti apparizioni di ragazzini che al tramonto arrivano e spariscono nell’affollata animazione del quartiere.

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NARRATIVA

ITALIANA

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Per il Maestro forse esiste una «grazia misteriosa» che fa sembrare eccezionale chi la possiede: come accade per la giovanissima indonesiana Mai-lù che va a servizio un po’ ovunque, silenziosa e danzante nei suoi piccoli gesti. Di questa ragazza sconosciuta il protagonista di Il tribunale dei bambini di Ferruccio Parazzoli parla con il suo assiduo interlocutore. Il problema affrontato è quello che lega la ragazza (o bambina?) a una figurina dal viso scuro e dai capelli biondi, vestita da Cappuccetto Rosso, trovata sotto la saracinesca della libreria gestita dalla signora Hass, una tirolese che «trae gioia dai peccati del mondo». A questo punto il libro fa funzionare a tutto regime la sua macchina narrativa inventando storie e riflettendo sugli strumenti che le costruiscono e suscitano personaggi al fine di farli «sfuggire al museo fossile delle cronache criminali alle quali ci si ostina di porre in copertina quella orribile dicitura di ‘romanzo’. Pressata dall’«incombenza», la vicenda prefigura incredibili intrecci: un’ingenua filastrocca, l’«incubo collettivo» percepibile in un luogo strategico della città e strane coincidenze sporte su invisibili spazi. Ad avvelenare l’atmosfera il bambino del metrò che suona un violino muto e gli abitatori della Casa degli Spiriti. Puntando sulle insidie nascoste sotto la neutra realtà, Parazzoli supera il «ciarpame da anagrafe comunale», mentre i pensieri «vanno srotolandosi da soli come un gomitolo» e su ogni aspetto dell’esistenza si posa il «fiato grosso del Male». Tra metafisica e fantasia, divertimento e indagine sempre più serrata e sempre più vana, il racconto va alla ricerca di una verità che sembra stare «in fondo a un pozzo». E, come tutti i racconti, «è solo favola, finzione», rappresentazione di un universo nel quale non è possibile distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. «Un gioco dentro un altro gioco», in cui lento e fulmineo, concentrato sul dettaglio, lo sguardo di Parazzoli ridesta dagli sfondi gli «impalpabili fantasmi del sogno sognato dall’intelletto», trasferendo abilmente la tecnica del metaromanzo nella rete del «glorioso feuilleton» per riaccendere il piacere della lettura.

Almeno il cappello di Andrea Vitali Un doloroso episodio quotidiano che appartiene alla povera e immutabile cronaca di un piccolo paese del lago di Como e, per contro, un evento della storia politica ed economica d’Italia (l’inaugurazione a Roma da parte di Mussolini della prima mostra del grano). Tra il pulviscolare mondo dei senzanome (resi ancor più anonimi dai loro bizzarri, terragni cognomi) e il lontano rimbombo dei grandi fatti, la pagina lineare, pausata e umorosa

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GIUSEPPE AMOROSO

di Andrea Vitali cerca come sempre il suo defilato corso di avventure che assumono qualcosa di più della registrazione di archivio, in cui si imprigionano, proprio per quel contrasto appena sospeso e quasi tenuto in una sfera media cui la vicenda deve il connotato dell’appartenenza a un momento definito e, in qualche senso, inesorabile. Tutto ciò che appare provvisorio e irrilevante nell’immenso sperpero delle cose prende un attestato di cittadinanza nel territorio romanzesco, una specie di salvacondotto che immette anche casi periferici in una rappresentazione volta a farli esemplari di un costume, di una condizione umana. La struttura, fissata su spazi variabili, sostiene un continuo montaggio di residui di vicende, di aneddoti estrapolati da contesti dei quali si intravedono gli sfocati contorni. Ed è lo sfocato, il frantumato a dare un’inquietante idea del giornaliero, di quel suo discontinuo e minaccioso ritmo talora vicino anche alla visionarietà. Almeno il cappello concede volume, nonostante le contrazioni di certe parti, ai tanti microaccadimenti che si legano in una festosa organizzazione di commedia iniettando nel resoconto un anomalo risalto. Anche il paesaggio, ridotto all’essenziale, come stilizzato nella sua costante referenzialità toponomastica, accordandosi a puntino con ogni fase del racconto, prende una sua corsia autonoma ove il rispecchiamento delle psicologie dei suoi abitatori si copre di una certa animazione alternativa, capace di trasformare quel piccolo angolo di provincia, affondato nella sua carnale vivacità, in un trasparente fondale favoloso. L’autore congiunge ambienti, abitudini, follie in un teatro vociante e malinconico, dove lo spettacolo dell’esistenza risponde al misterioso transito del tempo visibilmente orientato dal beffardo potere del destino. E allora può accadere che un mondo tanto bigio si trasfiguri in una magia di palpiti e turbinoso cresca in qualche violazione di forme vicine al simbolo e all’ascolto del «buio senza note del silenzio». In un frenetico zibaldone di volti e di «sguardi scettici, increduli, divertiti» (torna il «groviglio di sguardi» di Un amore di zitella) si delinea la storia della scombinata fanfara di Bellano che regolarmente accoglie con «allegre marcette» i turisti in arrivo in battello. La volontà di dare alla cittadina una banda musicale degna apre una serie di sorprendenti casi che portano il ragionier Onorato Germinazzi, «testa quadra», cinquant’anni, cinque figli, e una moglie di nome Estenuata, a trovare, attraverso un mare di colpi di scena, un’insperata opportunità di lavoro e successivamente ad «assumere il comando di quella nave» che è il traballante «Corpo musicale». Su questa linea portante e imprevedibile si rovescia il massiccio movimento narrativo esaltato da una potente euforia iconografica. Gioco libero e felice di una scrittura che trova novità in ogni spunto: nel «colore grigiotopo» dei pae-

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NARRATIVA

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saggi di tanti romanzi dell’autore, nell’improvviso profumo di primavera che entra «nelle dita delle mani» di Germinazzi; nella cappa di umidità del lago, «invisibile chioccia» che «tiene immobile ogni cosa».

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Il bambino che sognava la fine del mondo di Antonio Scurati Nel manzoniano solco dei racconti misti di cronaca e di invenzione, Il bambino che sognava la fine del mondo di Antonio Scurati si inoltra con un prepotente scintillio oscuro, una nera luce di schianto, tra la violenza del Male e un Bene invocato ma esitante, appagato della sua irraggiungibile lontananza. Non v’è lo spazio di un tranquillo avvio alle azioni in questo romanzo che subito si impadronisce dei fili delle sue tempestose trame e di un contrappunto di severa indagine psicologica. Da un lato, ecco il «grido» di un bambino che telefona alla polizia accusando il padre di voler strangolare la madre. È un bambino ossessionato dal sogno della fine del mondo nel fuoco: un incubo di «oggetti contundenti scagliati nella sua testa dalla sua testa»; uno stato di sonnambulismo nel quale cammina, gioca, s’innamora ma «sembra un fantasma». Si ammala, entra nella «grande recita» con cui tutti tentano di allontanarlo dalla morte, dal terrore del vuoto. Poi, dopo tanti anni, ecco il «contagio» della paura che si diffonde da una città lombarda, dove nell’autunno del 2007 scoppia una «pestilenza dell’anima e delle menti», legata a casi di pedofilia denunciati in una scuola materna. Le due linee del racconto riversano le loro forze d’urto su due distinti registri stilistici: affannato, sussultante, tagliato a volte sull’epigrafica condanna di un referto, il primo, che tuttavia suggerisce vibrazioni, l’«impulso» a un sistema infinito di ricognizioni; pausato, analitico, con dentro tutte le incongruenze e le tremende verità della testimonianza, il secondo. A legare i due moduli è la qualità volutamente ambigua, polimorfa della prosa di Scurati, vigile sulle cose, con un glaciale dominio di ogni situazione, ma anche sorpresa dal sortilegio del suo stesso ordine che reclama la scoperta dell’autorità perentoria di un’origine, il risveglio di qualcosa che viene da zone remote dell’esistere a turbare la quiete e a spalancare lo «splendore sinistro della cronaca». Il degrado che segna il paesaggio, «irritabile, volubile, nervoso» della Pianura padana pare condizionare lo sguardo del narratore, un professore universitario problematico, assiso sull’«olimpo del suo cinismo», il quale è incaricato da un giornale di occuparsi della scandalosa vicenda che sta sconvolgendo l’opinione pubblica. Attento a cogliere le «risonanze quasi sinistre»

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GIUSEPPE AMOROSO

di una foto, i «demoni degli abissi» e il mondo intero che svanisce in una magia, l’uomo è, contemporaneamente, angosciato dalle proprie fantasie e torna a ripetere, con ossessione, turbamenti custoditi nel fondo degli anni. Si ripresentano, costanti, le «segrete corrispondenze» che fanno regredire tutto nella «follia erratica dei simboli», mentre fuori si accampa la realtà «dolente» con il suo «urto». Ma quali legami allacciano i tanti guasti che avvelenano quella realtà e il suo «teatro» alla vita del narratore innamorato della compagna Martina, ma che respinge l’idea di un figlio? È crivellato da «schegge di memorie», questo romanzo in cui ciascuno coltiva il suo «piccolo incubo di cospirazione», si muove tra la routine di una città di provincia e la «fantasmagorica» ombra di malvagità suscitata dall’orrore degli accadimenti. La «sovrabbondanza d’anima», lo spettacolo della paura quotidiana, il degrado delle istituzioni agitano una pagina che solleva fantasmi dall’esistenza «ebete» e «stordita». La «sfumatura» luciferina che avvolge ogni cosa rende ancora più incerta la linea di confine tra accusatori e accusati, tutti confusi nello stesso «complotto».

Non avrai altro dio di Gianni Perrelli La volontà di «rimuovere» il dramma della morte della fidanzata ebrea Judith nel crollo delle Torri Gemelle spinge il medico John Murray a trasferirsi a Baghdad per curare i «derelitti iracheni». Figlio di un ricco americano e di un’italiana, si prodiga con ogni sforzo nell’opera di solidarietà. Ma la città, «livida straziata», non gli perdona le sue origini occidentali e le compromettenti amicizie. Viene sequestrato e gettato in un’orrida cella nella quale ha modo di vedere lucidamente la «sceneggiatura» dei suoi futuri giorni e di parlare della propria disperata condizione come uno «spettatore al teatro». Della presa d’atto di una situazione tanto consueta da aver resa assuefatta l’opinione pubblica, Gianni Perrelli apre un varco verso la conoscenza del mondo islamico calando sulla trama di Non avrai altro dio sempre qualche motivo di novità che la sposta dal suo alveo, la distrae dalla tentazione saggistica, senza alterarne la solida consistenza di approfondimento, imprimendole una complessa articolazione narrativa. Il sostegno cronachistico, politico e sociale si dirama con scioltezza nell’intrico romanzesco, dando spessore al circuito delle scene e dei personaggi che si trasforma in un composito modo di disegnare la figura del protagonista intento a calibrare ogni mossa in quella «partita a scacchi» in cui agisce «con gravi handicap». E la sua psicologia allarmata si posa su una gamma di eventi arsi da una febbrile tensione.

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L’idea della morte è un motore di riflessioni che solleva a ondate i vari episodi del presente e del passato generando una duplicità di piani, i quali transitano sempre congiunti attraverso il filtro della memoria e dell’osservazione diretta della realtà, mentre lo sguardo critico gioca il suo ruolo accanto a quelle «scintille emotive» sorgenti dalle circostanze. Si dà così il via, talora, a storie che interferiscono rapidamente e a pitture locali. Tra i ricordi della passione per la giornalista francese Isabell e l’incubo della prigionia e dei durissimi interrogatori, il racconto si piega sul risvolto misterioso dei fatti, sulla virtù oscura dell’imprevisto, affidandosi alle risoluzioni di una scrittura che enumera con precisione anche i momenti più allucinanti, frantumati in un riverbero di colori forti e spesso simultanei, pronti però a sistemarsi in una pur tormentata rassegna di particolari e di profili umani dilatati o contratti secondo un funzionale meccanismo di ricambi, corrispondenze, ritorni. La tensione fra le diverse etnie dell’Iraq dilaniato «in nome di Allah», i profondi «solchi» fra l’Islam e l’Occidente, i grandi problemi di carattere internazionale vanno in sintonia, inoltre, con la pressione del paesaggio che svaria dai «banali» riscontri del formicolio quotidiano al risveglio della città dopo l’«apocalisse» delle Torri; dai palazzi di Saddam al «buco nero» che si apre ovunque e in cui il dolore risucchia gli uomini e lascia poco scampo al futuro. Romanzo di azione e di denunzia, questo di Perrelli fonde con agilità la capillare analisi psicologica (quasi un pendant, in chiave attuale, del racconto sulla solitudine e sulle «riserve preziose» degli indizi di cui dispone il protagonista del Custode di Carmelo Samonà) e la ricchezza di testimonianze rinvenute sul terreno.

Santa Maria delle battaglie di Raffaele Nigro Si chiama Federica, ha diciotto anni ed è bellissima, ma la sua bellezza è inutile dal momento che, vittima di un incidente, la giovane giace in coma nella sua cameretta. È un «mondo a parte» il suo, circondato dalla premurosa vigilanza dei genitori e della domestica fondata sulla disperata speranza di un risveglio. Di notte, dal «punto di vedetta», la voce di una donna, mentre un filamento di stelle attraversa la finestra, racconta a Federica una storia che la riguarda perché possa esserle di stimolo. Santa Maria delle battaglie di Raffaele Nigro allaccia vigilati moduli narrativi misurandoli con il carattere naturale, lacerato e appassionato, di molti personaggi mediante mezzi espressivi fluidi, pieni di sfumature che riescono

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GIUSEPPE AMOROSO

a profilare certe condizioni psicologiche in risalto, esposte, tratte dal fondo compatto del semplice resoconto, sollevato, tuttavia, dalle tempestose luci di un paesaggio meridionale che ha nella Puglia il suo centro. La tecnica è quella dell’avvicinamento immediato, privo di impalcature e gemmazioni, alle varie figure raggiunte con la presa d’atto della loro visione della vita e presto descritte con i loro eventi, i contesti e talora i documenti, le dispute accademiche, le citazioni disposti come un quoziente fondamentale della narrazione. La tensione dei vari episodi germinati dalla memoria trova risposta nel linguaggio aderente e innervato di schegge irregolari che provocano stravolgimento e si accordano, variando, con i fatti da cui traggono un respiro più largo, storico e morale, nonché una modulazione di favola controllata nella sua dinamica e nel disegno letterario. Le parole allertate colgono i «suoni di una vita morta», il «colore del pensiero», la «bussola» della curiosità di un angelo. Ed è l’incontro d’impalpabili fremiti delle cose terrene con le presenze soprannaturali a dettare quel gioco di contrasti al quale il romanzo deve la sua sostanza poematica, il suo andamento di antico cantare. Angeli «si fermano a guardare impietriti»; l’arcangelo Gabriele «custodisce il brogliaccio dei devoti»; i santi «scappano nel Gargano» e «seguono [...] a distanza il filosofo Pomponazzi»; la Madonna dell’Olmatello si rivolge all’Eterno Padre chiedendo il suo intervento per cominciare a smuovere i cuori degli uomini. Tra le ottave di un cantastorie, che quando è privo di notizie riempie i vuoti presentandosi come un personaggio della vicenda, e i fondali che si aprono all’arcano, la voce narrante sfoglia un rotolo di fatti memorabili dai quali si sporgono Maria Trafitta, una donna che, nel Cinquecento, vuole fare il medico, e il bandito Braccio Cacciante, segnato da un «desiderio di disfacimento»; Vittoria Colonna, segregata nel suo torrione «alto sul mare e più vicino possibile all’anima del compagno perduto», e guerre tra Francia e Spagna; le scorrerie dei Turchi, tratturi e campagne, città e castelli e il vento che porta liriche d’amore; e ancora Gabriele che va in giro a visitare statue devote e una Madonna di legno che combatte per cancellare il male; il pirata Barbarossa in trance e un artificiere che con i suoi spettacoli pirotecnici «scuote la terra e il cuore».

Fuori gioco di Salvatore Scalia Il filo dei sogni di un giovane si perde attraverso gli anni nell’«aria di lutto» di una drammatica realtà che prosciuga «idee e parole», nello sfondo di un incantato paesaggio siciliano in cui l’Etna innevata chiude nel fuoco del suo

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NARRATIVA

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inferno una storia cosparsa di sconfitte. Fuori gioco di Salvatore Scalia è un romanzo di piani intermittenti, di sbalzi cronologici e di cupo, pungente lirismo. Basta lo strappo alterato e sghembo di una frase per indurre, nella zigzagante trama, una nervosa nota di contrasto, lunga e disuguale, una scia ondulata di variabili forme, incompiuti spezzoni di fatti che cercano più in là un rilancio. Parole aspre, dalla dura scorza, scavate nel raggiro giornaliero, hanno inattese flessioni psicologiche, modulazioni di un canto senza il sostegno di un tema protratto, che si allacciano al colore dell’aria, si ramificano in un esterno che ad ogni istante fa vedere la sua trivellata natura e un destino ostile, pronto sempre a mescolare le carte. E allora le immagini sono rappresentate in maniera diversa, come se i fatti subissero una scossa: deviate dal loro torpore spalancano episodi che vanno dalla cronaca locale alla vita della nazione e al «disordine» del mondo. Scalia è abile nel fare della voluta discontinuità il magnetico tessuto del racconto. Gli è sufficiente una tessera, uno spunto per disegnare una storia, una condizione sociale, un costume. E le malie segrete di silenzi che vanno dal cielo limpido all’argentato tremito del mare. Un’arida provincia siciliana dentro una luce livida è il teatro delle prime esperienze sessuali di Paolo Malerba, un adolescente incline alla malinconia, giocatore di calcio, dominato da un padre che riversa su di lui tutte le sue ambizioni mancate, mentre la madre sottomessa e triste sembra «un fagotto abbandonato sul divano», la sorella è una «santarellina», e il piccolo fratello Silvio, sperduto in un «vestito da vaccaro texano», esordisce come cantante. Dall’estremo margine d’Italia, dove anche l’«esibizione senza pudori di un’infelicità» può essere consolatoria, e dal paese di Mascalucia che va perdendo la sua identità a causa della speculazione edilizia (contraltare è la «continua scoperta di Catania»), Paolo parte per Milano per un provino con l’Inter che la scoperta di una malattia renderà vano. Poi, molti anni dopo, il momento del bilancio: le attese deluse, la vita che si è rivoltata contro, l’amore sbagliato per una donna ricca e capricciosa. Campi di calcio e «ambienti malati di nobiltà», umili volti e signore i cui nomi eccentrici sembrano collocarle in un’altra dimensione, preti corrotti e uomini di malaffare si susseguono nella vicenda del protagonista «defraudato persino del diritto alla fantasia» e, infine, costretto ad abbandonare pure il calcio minore al quale si è faticosamente adattato. Invischiato nella «quotidianità dei sopravvissuti», si convince che «per lui non esiste alcun riparo». Tocca ai fogli di diario di Silvio, divenuto critico musicale, il compito di ripercorrere le stazioni del calvario del fratello, «soffio rimasto senza ombra». Istantanee, accidentate le parole percuotono uno spartito che appena

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GIUSEPPE AMOROSO

accende, per subito affondarle, le speranze fino ad una «folgorazione» che lascia in chi legge un senso di ipnosi e di spaesamento.

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Un anno senza canzoni di Francesca Duranti È appena iniziato il Millennio. Avvolta dalla calura di ferragosto, Milano è «semiabbandonata» nel suo ovattato brusio. Giulietta, prossima ai sedici anni, comincia, nella sua casa vuota, mentre la madre è lontana, a scrivere un diario muovendo dall’infanzia vissuta «dentro la cerchia delle Mura» di Lucca e poi in varie città toscane fino all’approdo nel capoluogo lombardo. Si snodano i giorni spensierati della scuola, la «ruggente baldoria» delle vacanze viareggine, le ingenue amicizie, le letture. Allenata dalla madre a bruciare i tempi della formazione culturale, «come un cavallo che deve vincere il derby nella grande pista della competizione globale», impara a capire tante cose ma pure a provare la stretta della solitudine. Pur sgranati in una cronaca minuziosa, che sembra divorare tutto nella rapida scansione degli appunti, i ricordi fanno affiorare i primi turbamenti sentimentali e l’iniziazione alla vita nello sfondo di ben ricostruiti cerimoniali del benessere borghese. Non mancano i segnali dello sconforto, la «bomba» della separazione dei genitori. Serietà e sorriso si mescolano nelle pagine scarne e levigate, essenziali e un po’ sorprese da inattese pieghe, di Un anno senza canzoni: romanzo breve (ma propagato in un’atmosfera di segnali allusivi e controcanti musicali) che conferma la caratura preziosa, i toni eleganti e distillati, la vigilata distanza dallo sgomento delle passioni, con cui Francesca Duranti sa raccontare le inquietudini dell’oggi, i segreti che bruciano sotto lo smalto dello stile sommesso (con qualche rialzo di crudezza lessicale riassorbito agevolmente) che smussa l’urto più violento, il tramonto delle speranze, la cancellazione di un centro. Come in Sogni mancini (’96) e in altre opere di carattere intimistico, un soffio di malinconia fa sbocciare le emozioni dalle loro profonde origini, le segmenta in minuscole, circolari frazioni, le dispone sulla medesima linea d’ascolto e commento, trattando i motivi fondamentali e quelli di margine secondo lo stesso metro regolare, attento a disciplinare il gioco del presente e del passato, della realtà e delle filigrane della fantasia. Tema conduttore, il senso di frattura tra la protagonista e gli altri contribuisce a caratterizzare una lingua modulata, flessibile nel suo convocare sensazioni impercettibili, nel fare blocco intorno a un pensiero, alla cadenza di una visione, alla trasparenza di un paesaggio che non si propone in forma compiuta, in un’estensione illustrativa.

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NARRATIVA

ITALIANA

2009

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È uno schizzo intermittente che viene da un vuoto, si intrufola in modo velato nei riquadri nei quali Giulietta confessa i suoi deludenti rapporti sessuali, e percuote le pause della riflessione (sulla «sottoteoria» darwiniana della forza fisica dell’uomo e sulla «forza contrattuale» della donna). Racconto della crudeltà di coloro (i «marziani») che si impegnano sempre nella stessa partita e di una ragazza che vuole «entrare nel mondo» attraverso la «strada più breve e più diretta», Un anno senza canzoni assume talora un’aria ambigua, sospesa, quasi smarrita, con un qualcosa di irraggiunto, promesso e inevitabilmente negato. E gli spazi narrativi più intensi sono conquistati da una perdita, come nel drammatico finale.

Acasadidio di Giorgio Morale L’omogenea tenuta narrativa di Acasadidio di Giorgio Morale si realizza con la variazione delle prospettive, il passaggio repentino dalla terza alla prima persona nella conduzione della vicenda e la discontinuità cercata del ritmo, battente e rallentato, secco in alcuni dialoghi e protratto in certi didascalici fraseggi delle descrizioni. La discontinuità assurge allora a fattore di sorprendente coesione in virtù della convergenza dei vari nuclei verso un punto centrale che polarizza le componenti tematiche e stilistiche del romanzo grazie alla presenza pur schermata dell’autore. Discreto, Morale centellina i suoi interventi per aggiustare il tiro, precisa le situazioni, commenta con la voce dei personaggi, senza compromettere la pienezza, e talora la drammaticità, dei ritratti. Lo scrittore spinge una misurata linea espressionistica verso esiti che si avvalgono del balenio imprevedibile degli accostamenti, delle analogie, del ripresentarsi di appena variate circostanze. Si marmorizzano gesti e comportamenti in cifre indirizzate, sebbene cariche di significati, a non rinunciare a una dinamica strutturale e all’arrivo di qualcosa di nuovo, di qualcuno. Si sollecita una scansione molto cadenzata dei fatti, condotta da una mano che abolisce la distanza e accende luci forti e basse per accompagnare i percorsi degli uomini. Un nugolo di volti si presenta: i molti addetti a un Centro di volontariato che ricava i suoi bei guadagni nel compito di «accogliere stranieri, compilare schede, cercare lavoro»; il Presidente, titolare di parecchie cariche, «filo a piombo dalla testa ai piedi», che «contrabbanda la dimenticanza per memoria selettiva» e considera la legalità un «trucco dello stato per imbrogliare l’individuo». Nella «terra bruciata» dell’estrema periferia milanese, tra una piazza «abbandonata da Dio» e «case fuggiasche intorno», si intrecciano molte

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GIUSEPPE AMOROSO

vite. Alcune sono «gusci vuoti», altre, sfuggite a quell’inferno, sono «tarme che divorano denaro giorno e notte». Al di là del mare, l’Albania, dilaniata da spietati conflitti, è una terra dalla quale tutti vogliono fuggire: come Anila che, a Milano, cade nel giro della prostituzione. E poi v’è anche un paesaggio silenzioso, dove «figure in lontananza» sembrano «vetrini in un caleidoscopio». Nei ricordi e nella realtà cresce un coro sempre più irretito nel magma di un destino sordo, implacabile, segnato da solitudine, angoscia, passioni devastanti e «comunicazioni mute». Solo la nascita di un bambino fa scoprire a una madre il senso di una speranza che può trasformare i panni stesi alle finestre di un palazzo in «bandiere al vento». Come nel romanzo d’esordio Paulu Piulu (2005), vi è una tendenza ad esplorare gli «interstizi», gli avvisi impercettibili di verità crudeli, di minuti universi in cui non esplode il calore dell’esistenza ma il tormento, sillabato nelle più eccentriche peripezie, di averlo sognato troppo o invano.

La vergine napoletana di Giuseppe Pederiali Incatenati da trent’anni in un orrido sotterraneo di Castel del Monte, i tre figli di re Manfredi sembrano nel buio «una sola creatura, un povero mostro a tre teste». Questo agghiacciante spettacolo si presenta agli occhi di due cavalieri, Giovanni Vezzani e il saraceno Ysuf Ibn Gwasi, che stanno inseguendo il sogno di ridare vita ai grandi disegni di Federico II. Se i tre prigionieri, «ridotti ad animali terrorizzati», non possono mettersi alla testa dei fedeli alla Casa di Svevia, una leggenda apre tuttavia nuovi spiragli di speranza. Forse è solo «una di quelle fole che si contano nei vicoli e nelle stalle»; ma un testimone afferma che la notte prima di venire giustiziato in Castel dell’Ovo, l’infelice Corradino, nipote dell’Imperatore, abbia avuto un figlio da una giovane «sparita» subito dalla storia. Dunque a Napoli, ignaro delle proprie origini, vive un discendente degli Hohenstaufen. Da qui il romanzo storico e fantastico di Giuseppe Pederiali, La vergine napoletana, si avvolge in una lussureggiante matassa narrativa che annoda con duttilità l’avventura e la riflessione, la pittura d’ambiente e l’analisi psicologica e di costume. Il mutare repentino dei tempi, gli stacchi imperiosi tra un episodio e l’altro, la variabilità dei motivi (epico, picaresco, lirico, drammatico, fiabesco) trovano un luogo di incontro nella prosa distesa, rettilinea ma con tante pieghe e deviazioni verso zone più dense di segreti e di allusioni. La spettacolare descrizione dei paesaggi si incrina talora sotto la sferza di uno sfuggente senso di tristezza, di un segnale caduco di pericolo che, slittando e perdendosi nell’onda piena del racconto, lascia uno screzio,

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NARRATIVA

ITALIANA

2009

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un punto fuori posto, un’immagine spersa dentro un quadro. Lì si deposita la geometria irridente della vita, il conto che non torna, la certezza che scivola nel dubbio. Nel vorticoso andare degli eventi fra passato e presente, gli scenari cambiano di volume, rinnovano i volti, si chiudono su un gesto, su una voce, rompono l’argine di una cronaca minuta, terragna, circolare e si trasformano in un teatro delle meraviglie. L’arcano sta dietro il recinto quotidiano, come sempre nell’imponente produzione letteraria dell’autore: dalle Città del diluvio e dal Tesoro del Bigatto all’Osteria della fola e al Paese delle amanti giocose. Ora, nel cuore dell’intreccio, si leva la «Napoli delle meraviglie» che, sotto il sole di una tarda primavera, sembra «proseguire sott’acqua con invisibili altri palazzi, tanto si armonizza con il mare». Strade invase da musicanti e giocolieri, contadini e girovaghi, mendicanti e gente comune; osterie, chiese, catacombe e la piazza delle esecuzioni; la Giudecca data alle fiamme e monasteri e lussureggianti giardini; riti pagani e Piedigrotta. Il motivo del viaggio, che attraversa il romanzo, suscita una galleria di sfondi, città, castelli e una variegata folla di figure tracciate con perizia ritrattistica. Ed ecco Cicella, la donna dell’ultima notte di Corradino, ormai ridotta a un invecchiato essere che ha «scritto in faccia la sua origine contadina»; Zaza, la commediante che recita con Pulcinella; Olga, una badessa che ha alle spalle un amore infelice; Menechella, che cura la sua obesità con i versi di una canzone; Fonzo detto il Mozzo, forgiatore di spade; Allegra, giovane giudea dagli occhi ridenti. E poi teologi, draghi, mangiatori di lucciole. E personaggi della storia come Carlo d’Angiò e Celestino V.

Lotta di classe di Ascanio Celestini Un condominio di borgata con la sua «fauna indigena», fuori dal Grande Raccordo. Cinque piani anonimi di solitudine e lavoro precario, voci che si rincorrono per le scale e persone che possono d’un tratto divenire sagome scomposte, come lo zio anziano di Salvatore, il primo io narrante: portatore di lontane memorie, «forse [...] vuoto come un fantasma senza il lenzuolo, come i palazzi del cinematografo. La facciata finta senza la casa dietro». La storia che racconta Salvatore, dolorosa e grottesca (quel tanto che serve per scaricare l’intensità drammatica di alcune situazioni) si organizza nell’accidentato ritmo narrativo di Lotta di classe di Ascanio Celestini. In un «labirinto» di attese si muove Salvatore con le sue curiosità, la voglia di vivere intensamente i suoi giovani anni, lo sguardo che sembra sorprendere nelle cose le verità più stravolte e clamorose. Dalle sue scoperte

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GIUSEPPE AMOROSO

febbrili discende una rappresentazione arrembante e franta, attratta dall’esterno più ruvido e scabroso e, contemporaneamente, lesta a scrutare nel passato agganciando talora marginali ma aguzzi dettagli. Un piccolo mondo antico dei padri cammina parallelo a quello del presente che si inzeppa di sussulti, scricchiolii, urti con l’inospitale e caotico territorio degli altri, una «geografia di carne su tutto l’orizzonte». Una girandola di visioni aspre infila i giorni in una collana monotona, simile a una catena che imprigiona. Le cose non sbocciano ma declinano, le «resurrezioni» sono «temporanee», come accade allo zio inchiodato sulla poltrona, un «simulacro» dietro cui «fa capolino un essere umano». Segue Marinella, una sfortunata ragazza dal labbro leporino, che rovescia la propria esistenza in un discorso cui manca un adeguato tono espressivo a causa della prepotente percussione ideologica. La polemica politica si appropria di un podio troppo eloquente, sonoro, nel quale si invischiano anche le immagini meglio attrezzate a catturare certe attuali problematiche esistenziali e sociali: e la sferzata del sarcasmo, aggressiva, disperde un patrimonio di sorprese. Tocca poi a Nicola, fratello più grande di Salvatore, l’entrata in scena: attore pornografico radiofonico in un call center, in attesa di licenziamento, guarda il tempo mentre gira sul display del telefono, lo macina «per cavarne denaro». Infine, ecco Patrizia, «nata una volta sola, e quella volta basta per sempre». Anche lei intreccia la sua disavventura con quelle dei condomini. Dopo venti anni di fede ininterrotta, si accorge di aver creduto a un «vuoto immenso», avvertendo il bisogno di nuove regole, di una «religione della simmetria». Polemica nei riguardi di ogni sorta di consumismo, scopre di stare in un mondo che è la «parodia di un altro mondo». Per cambiare le cose basta cambiare le parole che le designano. Dal pianeta come «rottame accartocciato» ai «bovari di città» con il fuoristrada; dal «bestiario» della trasmissione pomeridiana della De Filippi al destino avverso di chi, affacciandosi alla finestra, «vede sempre che è notte anche a mezzogiorno» e a chi ha un «conto corrente pieno di tempo», il libro di Celestini rompe il vetro dietro cui sono in bella mostra il perbenismo, l’ipocrisia, le plumbee abitudini di poveri diavoli simili a «una scarpa spaiata che cammina in una vita stupida».

I nostri tempi di Michele Perriera Vicino ai settant’anni, ammalato, sente il «corpo spezzato in tre pezzi», cammina a stento, barcolla ma sorride e ha uno «strano rapporto con lo spazio». Cerca di «arrampicarsi nell’aria» e intanto incontra l’«uomo sba-

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NARRATIVA

ITALIANA

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gliato». Sono, queste, le prime amare confessioni dell’io che conduce la narrazione di I nostri tempi di Michele Perriera. Da un impalpabile motivo, da un pallido indizio si profila una storia che lascia il lettore in attesa di un racconto disteso, di uno sviluppo in grado di raccogliere i tanti spunti proposti dalla riflessione. La fitta rete dei pensieri sembra voler presto prendere una direzione romanzesca trasformando un’idea in personaggio operante, in una trama. E accade qualcosa nella tessitura inesplosa e soffocata del discorso: la schermaglia che l’andamento meditativo ingaggia con un mobile mondo di fatti porta, nella frantumazione della pagina, un senso di fervore, una scossa, una misura di spettacolarizzazione. Dai segni discontinui si leva una folla di visi ai quali basta un niente perché si inoltrino nel paesaggio di una Sicilia che non ha «altra risorsa che il suo silenzio». Nel suo vagabondaggio per la città natale il pensieroso protagonista incontra «vecchi ridenti», il centauro che sorpassa aggressivamente un camion, il gigolò Sigismondo, l’«uomo minuscolo», la bambina a cui hanno ucciso il padre, uno che parla del suo grande amore e molti che spariscono e riappaiono «come vecchie talpe». Entrando nella realtà rovente del suo oggi, l’io si abbandona a un ventaglio di considerazioni: dalla cultura alla politica, dalla malasanità alla giustizia, dalla violenza dilagante alla morte. Mischiata alla linea saggistica, sparsa dall’angoscia al sorriso, corre una rappresentazione visionaria che chiama all’appello un teatro di forme assurde, sfigurate, spesso dal sapore simbolico: i piccoli serpenti rossi che invadono le strade, i fantasmi che passano da una facciata all’altra dei palazzi, l’uccello capovolto sul tetto della stanza, la macchia scura di insetti che appaiono in fondo a una via, l’ombra di un monaco nero. Sono fantasie che si fanno largo quando il «parlare dal pulpito» retrocede e la cifra schematica e didascalica si neutralizza nella fluidità comunicativa dell’avventura. Così, lontano dalla «scrittura che fa il verso al mondo», Perriera mostra di prediligere le «figure fantastiche che lasciano un’impronta di chiarezza nel caos».

Articolo 1. Racconti sul lavoro di Aa.Vv. Articolo 1. Racconti sul lavoro è un’antologia di racconti monotematica che, pur affondando le radici in un problema di tagliente attualità, non si esaurisce nella semplice indagine realistica e di costume. Fa appello alle risorse creative dell’invenzione e propone, nella diversità delle ottiche dei sei au-

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GIUSEPPE AMOROSO

tori, ora narrazioni nervose e scattanti, anche a volte scarne e con cesure inattese, ora lunghe traiettorie informative, qua e là didascaliche, sollecitate da un’esigenza di immediata comunicazione. Tutte pagine, però, che nei loro contati nuclei e nella scansione sempre orientata a centrare il bersaglio, mostrano un che di preciso, quasi inappellabile, una chiara tendenza alla denuncia. Andrea Camilleri fa ricorso alle sue abituali alchimie linguistiche, alla elaborata mescidazione di forme dialettali siciliane e di criptati calchi letterari per seguire le vicissitudini di Tano Cumbo il quale, disorientato a causa della chiusura della «flabbica» in cui lavora, bussa invano a tante porte per trovare «travaglio» e infine, in una notte di luna piena, eccolo abbaiare alla luna, come un cane, in mezzo a uno spiazzo. Per comprarsi il motorino il sedicenne personaggio di Ugo Cornia fa l’apprendista, durante le vacanze estive, in un’officina che produce lamiere. Lento, avvolgente, interrotto solo da esigui segni interpuntivi e da qualche spazio bianco, il racconto riflette la volontà coriacea di perseguire un progetto in una millimetrica cronaca giornaliera. Laura Pariani riunisce intorno al tavolo di un locale, in un pomeriggio di inverno, alcuni contadini intenti a bere e a dare fondo ai ricordi. L’avvicendarsi dei paesaggi e delle voci compone la molteplicità dei toni e dei fatti nella cornice discreta di un paese di montagna scandita dai rintocchi serali di una campana. Un grecista in pensione, che coltiva in solitudine nella sua villa l’amore per i libri, si lega in amicizia a un emigrato polacco, dalla natura «tutta capriole e contraddizioni», assunto come giardiniere. La straordinaria bravura del giovane straniero si esprime principalmente nella costruzione di una maestosa libreria. Attento alle sfumature più nebulose dell’anima, Ermanno Rea impiega un’ottocentesca protezione analitica, ravvivandola con una sorta di vocazione all’apologo. L’offerta di vendita di una novità filatelica di originale fattura permette a Francesco Recami di esercitare la sua vena ironica disegnando il ritratto di un’impiegata alle prese con un paio di lenti progressive e nello svolgimento delle sue funzioni in un ufficio postale affollato da una variopinta platea di utenti. Comanda «solo cogli occhi» il leggendario pescatore di tonni, detto «il Figlio del Re», mentre, nella calma innaturale del mare di Sicilia, si impegna nell’ultima battuta prima della chiusura degli stabilimenti. Tra pieghe di malinconia, il racconto di Fabio Stassi si concede intense annotazioni su un personaggio a suo modo eroico che ha «tutta la verità dentro lo sguardo».

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NARRATIVA

ITALIANA

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Come ho perso la guerra di Filippo Bologna Un castello rifatto in stile neogotico, che affonda le sue origini nel Mille. La campagna toscana solcata di voci che sembrano cantare, stordenti profumi, spari di cacce, sorgenti termali, declivi, campi di grano, venti nei vicoli, e immersa in atmosfere ovattate, dove delle cerimonie e dei clamori romani del fascismo arrivano solo «echi lontani, come cannonate di navi in mare aperto». Qui si svolge la storia di due gemelli di nobile famiglia, Vanni e Fede, uno «prudente», un altro «combattente», che vedono le «stesse questioni da due lati diversi della scrivania». Accanto a loro il cane Belzebù, «creatura degli inferi [...], emerso dalle nebbie della brughiera». La scrittura morbida, con qualche aguzza cifra figurata, del romanzo di Filippo Bologna, Come ho perso la guerra, proietta, su una tessitura di particolari inventariati con una decisione pronta a slittare, una vicenda fasciata di reale ma che talora si appresta a cancellare il peso fisico delle cose quasi per distribuire gli episodi segmentati in un’aria vaga, senza rinunciare a descrizioni esatte e a definizioni esaurienti delle mosse dei personaggi. Ed è appunto la manovra sistematica dell’essenzialità dei fatti e del troncamento repentino di talune connotazioni a costruire la struttura di una narrazione che, mentre dispiega le seduzioni della vita, non cessa mai di far affiorare il soffocante circuito del vuoto, l’ombra di una mancanza, il cinereo colore della morte. Bologna cerca di catturare ogni sfumatura del paesaggio (dal silenzioso bianco della neve a luoghi che scorrono «come in un documentario senza storia»), le infinite varianti della vita stanca, i volti anonimi, piccole macchie nell’indifferenza della luce, la noia delle sterminate domeniche d’estate. Indaga su ogni singolo quadro, non ricorrendo all’aiuto di connessioni visibili tra le parti, anzi spezzando spesso l’appagante continuità in un’aguzza sequenza di cesure, spazi bianchi, omissioni. La tragica morte di Fede, la solitudine di Vanni, le sue incertezze, la paura di trovarsi ormai in prima linea passano nella narrazione del nipote attaccato ai ricordi «come un naufrago al bordo di una scialuppa». Fatto di «quella pasta cedevole che lavora senza aver bisogno di lavorare», osserva le profonde trasformazioni della società: l’avanzante edilizia che ridisegna l’ambiente, il sorgere di grandi alberghi, il surreale carosello di moto guidato da sceicchi arabi, raduni di artisti, le acrobatiche metamorfosi della politica, le polemiche su una «stolida statua» e altri accadimenti che la pagina tinge di grottesco, iniettandovi un’insidiosa vena di malinconia e tanta pensosità.

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La faccia nascosta della luna. Storie di delitti e misteri tra musica, cinema e dintorni di Carlo Lucarelli L’occasione di inoltrarsi lungo piste ampiamente praticate, itinerari di fatti noti induce Carlo Lucarelli, in La faccia nascosta della luna. Storie di delitti e misteri tra musica, cinema e dintorni, a potenziare le forze espressive, le risorse del linguaggio promuovendole a forme più coinvolgenti, pur nella disposizione lineare e tali da suscitare spesso un clima misterioso che va al di là delle singole tessere affidate solo all’opera di comunicazione della scrittura. Il ritmo serrato, a volte quasi epigrafico, riesce a provocare sottolineature e interrogativi mediante una sorta di geometria alterata, visitata dalla fantasia capace di trovare negli schemi cristallizzati delle storie, nella esatta referenzialità delle cronache vincolanti, dei verbali, delle relazioni un piccolo scarto metafisico, un allertato rapporto con le ragioni oscure del male. Quel non so che di bloccato che circonda gli eventi criminosi raccontati, sembra alla fine quasi un’artificiosa manomissione, una mistificazione su cui lo scrittore deve intervenire per scoprire lo spiraglio sconosciuto. Il pericolo sempre incombente di una trascrizione molto realistica, con la conseguenza di far transitare la ripresa delle scene del crimine in focalizzazioni di maniera, risulta superato con abilità. Qui non si tratta di procedimenti narrativi guidati in modo meccanico dall’orrido e dal tenebroso. Né si attende alcuna soluzione estetizzante. Lucarelli gioca le carte delle rifrangenze, degli effetti spettacolari della sua dizione delle cose, la quale è padrona dell’intera materia. Egli parla di drammi legati a personaggi del mondo dell’arte, dove il genio significa sregolatezza, inquietudine, solitudine. Tutto si muove dalla «trasgressione ribelle» delle regole. E così una teoria di tragici destini si sussegue scandita in capitoli brevi, ora spavaldi nel sostenere i dettagli più cupi, ora ripiegati su note intimistiche, ora sollecitati a insinuare dubbi, a suscitare torbide atmosfere. Incontriamo la Dalia nera e il «fragile» Nick Drake; Jimi Hendrix, virtuoso della chitarra e forse vittima di una maledizione, e Luigi Tenco. E poi cultori di riti satanici, musicisti su un palco come in trance, membri di club maledetti. Lucarelli entra nel delirio, ascolta la «musica del diavolo», ma domina con lucidità ogni situazione, anche i filmati più agghiaccianti, ritrovando talora persino il sorriso, la malizia («E se ci fossero messaggi satanici anche nei Malavoglia?») e immergendosi di nuovo nell’universo delle icone destinate a divenire simboli per intere generazioni: come James Dean, con la «leggenda nera» della sua Porsche «maledetta come la tomba di Tutankhamon».

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NARRATIVA

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Volare basso di Gaetano Cappelli La loro giovinezza è trascorsa in un marginale angolo della provincia del Sud definito su una rivista «un posto fuori da ogni giro e da ogni sogno»: compagni di scuola, Eugenio e Bruno, innamorati della stessa ragazza, la bella Angela dal «famoso sguardo sfocato», mutano negli anni le loro mete. Trentenni, approdati a una delusiva sponda incolore, non riescono a dimenticare la loro ormai perduta stagione degli incanti. I fatti, come ripercorsi alla moviola, le tante cose che cedono sostanza ma non le loro antiche lusinghe, i personaggi che sembrano, visti dal presente, recitare un copione scritto da altri, si appiattiscono su un fondale opaco, di polverosa vernice malinconica, che li sospinge verso stinte dissolvenze, ma non li cancella. La pagina di Volare basso di Gaetano Cappelli ha una serie di scarti, quando è sul punto di cedere alla nebbia delle atmosfere. Si rinnova con impennate brusche, frantuma le immagini infondendovi una vivezza autonoma, un’intensità scenografica nella quale si riscatta anche qualche concessione a incenerite derive. Cappelli intende, a scansioni fisse, riordinare le schegge delle molte azioni sul disegno di una «giustizia di fondo» che governa la vita: e così si disperde l’accumulo delle tensioni e di tutto ciò che è «troppo legato al caso», mentre la conduzione del racconto passa a un’altra voce, quella di Silvio, «un antico navigatore» approdato sull’isola fortunata. Salgono alla ribalta e poi scompaiono, per riapparire con nuovi eventi, i volti di un carosello inarrestabile, fragoroso e muto, materico e sfuggente: tra un’aria «satura di senso» e una «morbidezza innaturale, da ectoplasma». Intanto, mentre il passato è soltanto un ricordo, le «tappe dell’esistenza» si bruciano in pochi attimi, episodi di passione si ripetono meccanicamente ma talora un incontro più imprevedibile dà l’impressione a qualcuno di «vivere una di quelle avventure in case stregate che da bambini si sognano soltanto». Gli esterni si interiorizzano riducendo ogni distanza di spazio e di tempo ed entrano come segnali essenziali e simbolici nella narrazione che oscilla tra memorie tese a fossilizzarsi e il dinamico presente dei personaggi bisognosi di sostenersi proprio con l’ausilio dell’ieri. Da qui il dissidio che li rende instabili, sradicati, perplessi: Eugenio mette su con un amico un locale New Age in mezzo a un bosco di faggi; Bruno, musicista radiofonico in crisi, si sente come «il protagonista di uno di quei film americani in cui uomini un po’ imbranati si innamorano di donne belle e irraggiungibili». In trasparenza, alonata di lontananza, la figura di Angela trascorre con le seduzioni del suo destino di star dentro un mondo nel quale «succedono

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GIUSEPPE AMOROSO

cose strane». Sorridente e allarmato, Cappelli scopre forme d’angoscia e di solitudine che porta a poco a poco da un universo plastificato all’urto con la rocciosità dell’esistere.

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Racconti di qui di Davide Vargas Racconti di qui di Davide Vargas narra il cammino di un personaggio «risucchiato – come scrive Giuseppe Montesano nella prefazione – dal mondo e convinto che prestando più attenzione alle cose esse finiranno per rivelargli il loro segreto: perché qui è diventato un luogo innominabile, lo scenario di un disastro senza riparo?». Il territorio è il non-luogo che va da Napoli a Caserta, percorso da uno sguardo che squadra, millimetrico e allarmato, la realtà ferita, sconvolta e, fissandola in una sorta di lucido delirio, chiede alla coscienza offesa il risentimento e la fantasia per poter scoprire le vicende nascoste, onde ricostruire, pure da una scoria, da un detrito, un filo di racconto, un’invisibile trama stranamente venata anche di bellezza. Viaggia in automobile questo personaggio e annota su un foglio di diario il luogo e l’ora dalla fine di dicembre del 2006 al giungo del 2009. E il diario si popola di sfondi irregolari, voci sparse, oggetti della terra secca di campagna, abbandonata e avvolta da nubi di diossina, mentre la speranza di fronteggiare il nemico devastatore si «sbriciola come un biscotto». Ogni immagine, la più baluginante, provvisoria, parziale, riesce a raccogliere gli elementi sufficienti per definire un paesaggio grigio, il soffocato segno del suo colore antico, la sua storia sepolta e forse, insieme, un eccentrico tono romanzesco che ne qualifica l’intreccio più segreto. Un tracciato sommerso, assoluto, sordo, accomunato ad uno slittamento senza fine, ad una deriva e desolazione che vanno articolandosi sotto la registrazione implacabile dell’osservatore («la coda dell’occhio cattura l’immagine e qualcosa mi spinge a fermare la macchina»). Una nota severa e dolente e coinvolta da un’onda di commento. La distruzione dell’ambiente, «l’orlo di mare» che si mostra distante «come un lembo di frontiera» producono un impeto di indignazione ma non fanno sbilanciare il linguaggio che resta puro, inossidabile, calibrato, talora sfiorato da un’incantata leggerezza. Le parole non crepitano, non forzano il lineare sfoglio delle visioni, tra agile stampa, bozzetto rifinito, miniatura elegante. Nulla v’è di accademico, tutto si mantiene nella distanza giusta, come contemplata (anche se chi guarda mantiene costantemente accesa la sua ottica polemica). S’incontra una materia ardua che è un racconto, in apparenza

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NARRATIVA

ITALIANA

2009

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lontano dal racconto, e trasferisce in figure vive, e intrichi, movimenti vibranti di tensione, contrasti e avventure di ombre invisibili, sempre in agguato, case cadenti, canne bruciate, cumuli di lamiere, rifiuti. Uno sfondo deturpato in cui tuttavia brillano gli «occhi dell’albero magico» che sono gli «occhi del mondo». E se si rallenta ogni cosa, «i battiti del cuore, le costruzioni della mente», si può scoprire ogni giorno la «meraviglia». Ma la città è un deserto e la folla vociante «non guarda non ascolta non piange».

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Chi ha incastrato Lou Sciortino di Ottavio Cappellani A poca distanza da Noto, patria del Barocco, Rosolini è un «centro agricolo di case, basse a pianta ortogonale, in cui la cosa più divertente da farsi è annoiarsi». Qui, dove l’unica sala cinematografica proietta Greetings, «don» Lou Sciortino, siciliano emigrato negli States dove svolge attività illegali, invia in vacanza di studio il nipote Lou perché, conoscendo i «pregi» degli isolani, «impari il cinema». Il vecchio capofamiglia vuole fare del giovane discendente una «persona perbene», destinandolo a occuparsi di doppiaggi, acquerelli e disegni pubblicitari, titoli di pellicole. Nel frattempo, il mondo sta cambiando rapidamente: la guerra nel Vietnam, la contestazione montante, la ribellione degli hippy, la libertà dei costumi, la ricerca da parte dei giovani di un’identità collettiva. Siamo a cavallo degli anni Settanta, il metodo tradizionale di riciclaggio di denaro sporco ormai non funziona più. A Los Angeles, «culla della controcultura», Lou e il regista Leonard progettano di produrre film controcorrente che esprimano un’idea sottesa, non il racconto, e che siano soprattutto una metafora del sogno americano infranto, prevedendo la distribuzione, a macchia di leopardo, di una strabocchevole quantità di copie che però devono restare «invisibili» agli occhi della critica ufficiale. Ma accanto a film di cassetta escono opere da sfiorare la «pura astrazione». Chi ha incastrato Lou Sciortino di Ottavio Cappellani miscela forti dosi di varie componenti, dall’avventura alla commedia brillante, dai problemi dell’emigrazione alla rappresentazione di un universo dello spettacolo in cui gli attori hanno pistole a portata di mano, dalle spietate lotte di mafia alla considerazione che «in Sicilia, a trentacinque anni, devi iniziare a fare il vecchio». Tra paesaggi sconfinati e tumultuosi e «destini del mondo dove le parole conservano ancora una loro dignità», la trama ora imbocca un preciso andamento di tensione, ora sembra precipitare in balia del caso, trascinando come in un vortice i più eccentrici personaggi: l’aggressiva nonna Jenny, l’elegantone De Roberto, Pippino, strano «tizio» che fa la guardia del corpo

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GIUSEPPE AMOROSO

e legge libri intellettuali, con la sua aria di «banale dignità», l’autista Turi Messina e un gran numero di comparse zigzaganti in un magma di suoni e colori. Nell’aria circola «qualcosa di strano» ma anche la «consapevolezza storica per cui alcune cose fanno il loro tempo e poi, semplicemente, continuano a vivacchiare placide».

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Lo stupore del mondo di Cinzia Tani Viaggia senza attriti sui binari del canonico romanzo che vuole raccontare storie vive e non frantumi, sottrazioni, richiami sibillini, depistaggi strategici, schermaglie con l’autore, Lo stupore del mondo di Cinzia Tani. E percorre a pieno volume uno spaccato medievale ricostruito con cura e disteso da una Roma di inizio Duecento alla Sicilia arabo-normanna; dal grande palazzo, a Foggia, di Federico II, a Victoria, presso Parma, dove, l’imperatore fa sorgere «per incanto in pochi mesi» una città. Panorami di natura abbagliante e scorci urbani in effervescente transito di figure fluttuano tra descrizioni protratte e dettagliate e una diffusa atmosfera e si affidano a un lessico pastoso, ordinato, ritornante con duttilità da suoni antichi per farsi immediato e incisivo (e con una punta di registrazione notarile). Nell’assottigliarsi della distanza tra memorabilità generata dai fatti storici e visibile reale del quotidiano e dei personaggi, i numerosi scenari acquistano una netta fissità e, insieme, quasi una domestica magia leggera, volatile. I segnali più certi si fanno talora indizi, una sorta di sospetto dell’inafferrabilità del destino che tende a divenire legge implacabile, a nominare gli eventi indicandoli come su una mappa. È la schedatura dello scrittore che tutto sa e dispone, dando l’impressione di dominare anche i più acclarati fatti. La realtà premiante, estrapolata dalla storia (si pensi all’intero copione dell’imperatore svevo), è colta nell’attimo che la sospinge nella conduzione romanzesca: e nell’esemplarità, così, il racconto foggia l’invenzione sul documento, e lo utilizza al punto giusto ma virando pure verso l’ipotesi, verso un suo cantuccio di libertà. Lì si incontrano le vicende dei protagonisti: i due fratelli Pietro e Matteo. Il primo reso deforme, nel primo momento di vita, da una caduta; il secondo, limpido e onesto. Lì, in quello spazio aperto e arroventato, convergono anche la bella Flora, tenace nel seguire il «filo» delle sue curiosità e il bisogno di interrogare e interrogarsi, e l’arabo Rashid, capace di parlare con gli uccelli e di trasformare i pensieri in una «manciata di parole». E sempre alla libertà dell’invenzione devono la loro presenza Marianna, disposta a tutto per amore; Lucrezia, che richiama stagioni di spensieratezza

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e desideri; Aisha, donna forte che sopporta la caduta di tutti i suoi sogni; e poi i tanti volti, dalle ragazze saracene dell’harem a guerrieri e castellani e umili. Intanto, la misteriosa attrazione di un interno crea «scricchiolii, perfino un sospiro», mentre la formulazione del plot è un crescendo di voci che si sollevano da ogni angolo, dalle pieghe più intricate dell’avventura e si sistemano in un edificio composito che le accoglie attraverso lavorate scelte stilistiche e tematiche. Passioni travolgenti, nostalgie, tradimenti, equivoci, sensi di colpa, l’«amore che unisce gli esseri semplici e solitari» e violenze, persecuzioni, scontri politici e religiosi occupano una pagina sinuosa, ad effetto, in grado di esprimere, lontano da ogni reticenza, una chiara idea di avvicinamento dei personaggi all’interesse del lettore.

Balarm. Voci di una città in ostaggio di Germana Fabiano Dalla morte di Federico II una voce ripete senza tregua la sua «litania di interrogativi balordi» per le vie della città chiamata Balarm: è una voce che, interrogando sui «misteri dell’aldilà e sui segreti del mondo visibile», ha attraversato secoli, per incarnarsi nei tanti personaggi che affollano quel misto di folklore, decadenza e voglia di riscatto proprio del luogo in cui Germana Fabiano ambienta Balarm. Voci di una città in ostaggio. Ad ascoltare il nugolo di storie magnetizzate dalla struttura corale del racconto è Toni, ragazzino biondo che vive nei vicoli: è tutt’uno con gli umori della strada, guida carovane di turisti, si fa sonore risate di fronte allo spettacolo «ridicolo» che il suo quartiere dell’Albergata gli allestisce con il volto polveroso, il marchio della povertà e un brulichio travolgente. Sotto i suoi occhi, solitario e pure malinconico scorre un minuscolo grande mondo. E basta allungare la mano per prenderlo, dal Palazzo Normanno al Teatro, dalla Cattedrale alla «Vucciria», dai depositi di carcasse di auto, «ammaccate come i giocattoli fuori uso di un gigante annoiato», ai palazzoni che nella luce lunare appaiono «fragili come fogli di carta». L’autrice fa agire le figure in un contesto splendido e orrifico che ha gli elementi indispensabili per rispecchiare i caratteri con naturalezza, senza ricorrere a strumenti artificiosi. E il rapporto stretto tra uomini e paesaggio non si altera neppure quando una dimensione visionaria distrae la realtà distendendola da un’acuta osservazione di problemi contemporanei a frammenti di cronache medievali. Apparentemente designati dal gusto romanzesco, i personaggi nascono da profonde ragioni e portano a galla impensabili segreti, bizzarrie, impron-

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GIUSEPPE AMOROSO

te del destino: Claude, ambulante africano che dispone la sua mercanzia secondo gli arabeschi di una fiaba inventata per ingannare l’attesa; zia Nina, nella sua casa zeppa di mobili antiquati; il ragazzino dai capelli rossi, che sembra la «vittima di un incantesimo»; il vecchio Mariano, con i vestiti di fustagno fuori moda; Lia, la bella madre di Toni, rapita dal desiderio di passare i giorni in silenzio; Sebastiano, un alcolizzato che abita in un palazzo secentesco e, soprattutto, il Professore, preso dal suo Progetto di risanare il territorio. Sono i portatori di vicende sparse, lasciate in sospeso e riprese a distanza, «come puntate di una soap opera», o fatte di immagini staccate, «come un blob televisivo di cui si afferra distrattamente qualche scena». Pioggia e vento, azzurrità di cieli e ore vuote, nel «cerchio stregato» di Balarm. Tutto può accadere: che una donna tiri fuori da impensabili posti gli appunti per centinaia di favole mai raccontate, che turisti, ingannati dalla segnaletica circolare della casa di Cagliostro, spariscano nel nulla e che altri scattino fotografie senza immagini, entrando in una dimensione «parallela» nella quale il tempo e la logica non hanno più potere. Infine, il boato di una bomba che semina la morte non sveglia Federico nel suo sarcofago, ma «prende in ostaggio Balarm bella come l’arcobaleno».

L’istinto del Lupo di Massimo Lugli La ripetizione ossessiva di fraseggi realistici, le cadenze del parlato e gli impulsi di visioni concentrate su un ambito cronachistico costruiscono un percorso obbligato, aspro e accidentato, un po’ discosto da quello che si inoltra nella rappresentazione di un mondo assorto nell’ascolto delle assenze, delle indefinibili attese del vuoto. Massimo Lugli, in L’istinto del Lupo, non cerca i margini delle cose, le nascoste risonanze, il timbro di una musica diffusa e sfibrata nelle sue dissolvenze, il ventaglio dei simboli e delle evocazioni. Gli elementi linguistici, pur giostrati dalla voce primaria di un io che racconta le proprie esperienze, non concorrono a suscitare una dimensione sfumata, riflessa, ma mantengono compatta la loro struttura coesiva, scabra (con una dose di iperbolici tracciati di ironia). Facilmente individuabili per il taglio secco e per certo stilizzato, studiato disegno sintattico, puntellano, con una segnaletica inequivocabilmente dura, la storia di Lapo, un giovane dell’agiata borghesia pronta sempre a specchiarsi nei suoi riti di benessere. E mentre si sgranano le stazioni dell’iniziazione alla vita sbandata, irregolare del protagonista, che da buon ragazzo si trasforma in Lupo, «uno che fa paura», il racconto conquista pure altre latitudini, quelle di un universo

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NARRATIVA

ITALIANA

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degradato e disperato, tra squallidi fondali, baraccopoli, mense di carità, battaglie feroci, vicende di inenarrabile violenza. I tempi della narrazione seguono un andamento regolare anche quando si presenta la dimensione fantastica di quel «film» con cui l’io evade dal viluppo della routine e quando il baricentro dei fatti si sposta dallo spazio privato all’area collettiva dei «venti di cambiamento» che soffiano sulle agitazioni giovanili degli anni Settanta. Stralunati, nel frattempo, alcuni volti schizzano dalla fangosa materia e sembrano trovare nel loro inferno una vitalità di incubo: Tamoa, cinquantenne giramondo, con il codino grigio e la «faccia da sparviero», dispensatore di un’inquietante sapienza; l’osceno Sugo, il cui ghigno è un «manuale di patologia»; Luna, ragazza dal viso bruciato; Parvati, una hippy dalla travolgente sensualità; il glaciale Gegè. Accanto altri disincantati o pieni di illusioni come Giobbe, dall’«occhio lattiginoso». E ancora, vampate di idee, paure, abiezioni talora non riescono a calarsi in personaggi sensibili: sicché pare di udire un mormorio di fondo fastidioso e anche incantatore, svincolato dal peso materico e granguignolesco delle azioni. Una sorta di sottofondo scuro, colonna sonora che vuole accompagnare la sostanza angosciosa delle scene, il filamento nero della barbarie. Nel pendolare registro delle stagioni si introduce un richiamo di follia, torna una chimera, si affaccia l’ombra disfatta di Parvati con la sua intatta «risata cristallina».

La prima mano di Rosetta Loy Pubblicato nel 2007 in francese per l’editore Mercure de France, riappare La prima mano, racconto autobiografico, accompagnato da molte fotografie, di Rosetta Loy. Mentre i ricordi si sfogliano si alza un sospetto di tempo senza tempo, nonostante la registrazione puntualmente cronachistica. S’avverte un’atmosfera dolceamara, affabile, che permette il sorgere di un disorientato corso di fatti estrapolati dalle loro traiettorie più consuete, e di ambienti come immersi in un sogno. Ne scaturiscono piccoli scenari la cui concretezza sembra trascolorare nell’immaginazione, più che consegnarsi allo sviluppo consequenziale degli eventi. La pagina, attenta a segrete risonanze, si piega a ridestare proiezioni sfuggenti di remoti giorni, il «nero dell’angoscia», nomi che tornano «come sillabe ripetute nel vuoto di un canalone». Ritesse inganni nel gioco affascinante della parola, falsificazioni anche benefiche, create dalla distanza, trasparenze di visi e l’incerto oscillare di paesaggi velati e il cielo domeni-

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GIUSEPPE AMOROSO

cale che «ghiaccia i vetri della finestra». Abbagliata da una serie di flash, la pagina vuole sorprendere sentimenti e persone piuttosto che definirli nella pur minuziosa rete dei particolari. Nell’ambigua lentezza dei ricordi e anche nella distesa illustrazione di alcuni momenti cruciali, si staglia la figura del padre con la sua mano che «sembrava pronta a sollevarti da tutti i pericoli del mondo». E quella mano pare indicare il filo conduttore della narrazione che attraversa le stagioni dell’infanzia, dell’adolescenza e infine della maturità, sia puntando su immagini cariche di idee, sia su un commento slargato verso orizzonti un po’ astratti, minacciati dal senso di perdita di una felicità che «subito si scompone». I grandi avvenimenti della guerra, letti pure nei documentari dell’Istituto Luce, si avvicendano con le parcellari cose dell’esistenza: le vacanze al mare e in montagna, il palco all’Opera, gli alberghi di lusso, il verde di villa Borghese e il grigio dei tetti che accompagnano la Senna, la visita di un «fantasma», la casa di famiglia (un tempo abitata da una «Nonna mito»), il collegio e le canzoni di allora, un viaggio in treno fra le macerie dei bombardamenti e, dopo l’Armistizio, quello su un carro merci. Il resto, dallo sbarco degli Alleati ad Anzio fino alla liberazione di Roma, è una veloce carrellata di episodi. Intanto se ne vanno nel buio anche le «ore interminabili del nulla». La fantasia sorpassa la storia, si costruisce una dimensione visionaria nella quale si sfaldano il passato e il presente. E certi tratti iperreali si adagiano in una partitura pensosa, severa, tra denuncia allarmata del male della vita e una disperante salvezza che viene dalla coscienza dell’«impercettibile passaggio» sulla terra degli uomini, proiettati, «come astronauti, nell’eternità».

Uomini di onore di Beppe Puntello «Sembra che non cambi niente in Sicilia, ma c’è un aggiustamento e un rinnovamento continuo di proprietà e soprattutto di uomini». Storie isolane, trovate in un cassetto di un’antica credenza nella casa di famiglia dello scrittore, sono un «segreto» da trascrivere, con il suo mistero, il divertimento e una vistosa chiazza di «leggenda» creata dalle contrade. Uomini di onore di Beppe Puntello è un fluviale romanzo ambientato tra Marsala e Trapani, nella seconda metà dell’Ottocento. Due linee convergenti si confrontano senza sosta e si prestano i ruoli, gli spazi, si scambiano gli atteggiamenti dei personaggi innescando una miscela di resoconto documentario e di visionarietà suscitata da un’inesauribile riserva di immaginazione.

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NARRATIVA

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Il risultato è una tenuta espressiva dai ritmi rotti e volutamente difformi che attinge proprio dal dirompente andamento discorsivo un’impensabile vivacità, una rappresentazione capace di far ruotare al massimo la testimonianza vitrea, al fine di scoprire le più discrete emanazioni di immagini, le voci sommesse, smorzate, le esposizioni elettrizzate del paesaggio e degli uomini e dei costumi. E ciò avviene anche mediante la distribuzione copiosa del dialetto nei dialoghi e negli spazi perplessi delle psicologie. Incontriamo così un’energia linguistica elaborata con l’impasto di aree diverse nelle quali gli stampi, i tratti necessariamente più criptici divengono i centri propulsori di sfondi che stanno tra la ricostruzione storica, un gusto illustrativo degli ambienti vicini ai colori e al disegno del bozzetto e qualche screziatura del reale («Quel pomeriggio piangevano anche i muri del vagghiu»). Il profluvio delle vicende è trasportato da una segmentazione secca di frasi che ha la tendenza a chiudere subito un concetto e a sistemare certe parti decorative dentro una cornice di opportune considerazioni. In questo universo affollato emergono il Signorino, che da «suttapatrunu» amministra i feudi del Barone, del Marchese e del notaio; la Baronessa Isabella; «zi» Raffaele e «zi» Jaku, che «parla a quattro galline a spasso per la strada»; e campieri, contadini, sensali. Tramata nei discorsi, dalla questione meridionale alla modernizzazione del Paese, con il risalto della «guerra civile» in Sicilia, segnata anche da quel feroce assassinio di un garibaldino, fulcro del bel romanzo di Matteo Collura, Qualcuno ha ucciso il generale (2006), passa una pagina decisiva della Storia d’Italia. Ma la Storia è «lenta ad arrivare» in Sicilia, «molto lenta».

Lavoro da morire di Aa.Vv. «Finita la mistica della classe operaia, i lavoratori sono tutti e non sono nessuno. Difficile parlarne tenendo a distanza l’ovvietà, seppure tragica della cronaca». Così Viviana Rosi nella postfazione a Lavoro da morire, antologia di undici racconti di autori vari che nascono dal bisogno di offrire, attraverso un «reportage narrativo» in bilico tra «pietas e denuncia», storie vere, utili a «tracciare una mappa del disagio, delle diseguaglianze, delle ingiustizie che connotano parte dell’attuale mondo del lavoro». Esiste una voce nascosta all’interno della tematica del volume che, pur variando nei diversi episodi, mostra di conoscere profondamente ogni articolazione esistenziale, anche i silenzi e le cose caduche e di seguire gli sviluppi, talora minimi, secondo un disegno superiore, programmatico, che fa sorgere

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GIUSEPPE AMOROSO

qualche frizione saggistica, ma che non cancella le passioni genuine, l’impegno civile sottesi alle ordinate strutture dei testi. Dalle interviste rilasciate a Tullio Avoledo da due fratelli lavoratori autonomi, al «calvario», narrato da Grazia Verasani, di una precaria siciliana la quale spera di intravedere «un po’ di orizzonte», si snoda una gemma di situazioni prodotte da un grande potenziale di immagini condotte a incolonnarsi in una catena narrativa nella quale i singoli anelli sembrano ingranaggi utili allo stesso meccanismo. A volte, però, qualcosa di non definito, un paesaggio appena abbozzato, un episodio posto in modo marcatamente esemplare, qualche personaggio che entra da un punto improvvisato sembrano contrastare con lo scorrimento fluido delle vicende o non accordarsi del tutto con il taglio spedito, o con l’effetto di un chiaroscuro. Andrea Bejani fa prevalere le atmosfere sugli accadimenti; Matteo B. Bianchi e Giorgio Falco affrontano la disperata condizione degli emarginati: il primo puntando sulla dicotomia fra realtà e fantasia; il secondo proiettando il disagio su sequenze di paesaggi «intrappolati fino al prossimo evento». Carmen Covito affronta il problema delle difficoltà incontrate in un ufficio da un’impiegata costretta prima a chiedere il part-time e poi a licenziarsi per motivi di maternità, mentre Giuliana Olivero si addossa il compito di trattare una questione di mobbing. Una vita «contro il mondo degli ospedali», combattuta da una bambina nata con un cuore «vecchio», una diversa destinata a «rallentare il correre degli altri», è la storia che muove il capitolo di Barbara Garlaschelli. Una badante ucraina si confessa nel testo a due registri (resoconto e inchiesta) di Dacia Maraini, tra una visione neutra e un approfondimento affilato. Con amara ironia Michela Murgia si rivolge all’esistenza segnata di chi è «vittima» di una malattia inconfessabile. Alla ricerca di un «linguaggio quotidiano che sia caldo ma non sentimentale» per dare voce al dolore e far scorgere un «concetto di crescita post-traumatica», si pone Antonio Pascale, riuscendo a far vibrare di spunti narrativi una fitta piattaforma di citazioni.

Il ragazzo che leggeva Maigret di Francesco Recami La campagna si confonde nella nebbia di una piovosa mattina d’inverno. Il giovanissimo Giulio, chiamato Maigret perché appassionato lettore delle inchieste del famoso personaggio di Simenon, attende su un viale alberato l’arrivo del pullman che lo porterà a scuola. È tutto uguale come sempre in quell’angolo di provincia abbandonata nella sua atmosfera sospesa e senza svolte. Ma qualcosa di insolito accade. L’uomo dall’impermeabile inzac-

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NARRATIVA

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cherato che sale in fretta sulla corriera è lo stesso che il protagonista di Il ragazzo che leggeva Maigret, di Francesco Recami, ha visto poco prima gettare una sagoma inerte in un canale vicino alla strada. Ha occhi che mostrano «odio e preoccupazione» lo sconosciuto verso il quale si rivolge l’attenzione dell’investigatore in erba, sempre coinvolto nelle sue fantasie su «fatti strani», catene di indizi, interrogativi via via allineati in un’intricata storia. Disegnati con brevi ma resistenti tratti si susseguono i compagni di classe di Giulio, la madre cuoca e il padre fattore, l’orologiaio e la moglie dai gesti artefatti, il Signorino di San Vittore, il gestore dell’«Osteria da due soldi», il guardiano del canale e la furba figliuola, il «carrettiere», un commerciante di vini che improvvisamente scompare e le «tre vedove». Recami scandisce le figure in un mosaico i cui tasselli cominciano a disporsi in un disegno (in controluce si stagliano i continui riferimenti di Giulio alle scelte che avrebbe potuto operare il suo modello letterario) che non può essere risolto solo «a colpi di fortuna». Un puntuale accento di cronaca batte sugli eventi, sottolinea qualche particolare (come «lo strano pacchetto» di cui Giulio viene in possesso), ferma le immagini rilevanti, ne isola il minimo allarme, mette a fuoco il «delirio» generale, scopre i piani di due «amanti diabolici». Sfondi caliginosi fluttuano tra rapide descrizioni e avvolgente aria di un mistero screziato di sorriso, affidandosi a una scrittura che dissemina il reale nell’ambiguo territorio delle allusioni. E v’è spazio per «una voce nuova alle orecchie di Maigret, una voce che in quei giorni non si era sentita. Chi aveva parlato?». Alla fine, quando tutto si conclude, al protagonista sembra di vedere dei volti muoversi come «in un acquario».

L’ombra di Turi Vasile Sempre «straniero» nella natale terra di Sicilia profumata di zagara e gelsomino e incendiata dalle vampe dell’Etna, Turi Vasile viene dalle contraddizioni di chi «non si rassegna alla propria dimora e va cercandone un’altra». Questa inquietudine, mai drammatica, bensì pervasa di serena malinconia, disagio e coscienza delle impenetrabili leggi dell’esistere alimenta fin dalle prime opere la sua scrittura raffinata, limpida, comunicativa e pronta ad aprirsi ad una molteplicità di particolari fermati sul foglio come in un’operazione ieratica, rituale e tutti assemblati nel tempo interiore dell’io narrante. Da qui un senso di memorabilità e di sacralità che concede a ogni episodio, anche minimo e sfuggente, un’autentica posizione di risalto, una sottolineatura marcata, però non clamorosa e totalizzante.

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Anche i racconti di L’ombra rispondono alla tendenza della pagina docile a riflettere su se stessa (talora pigmentandosi di una tessitura fortemente autobiografica) «pensieri di filosofia leggera» e a pedinare i propri nuclei di maggiore intensità rievocativa e ad affrontare spazi temporali che appartengono non tanto ad una comune misura cronologica, quanto a una vastità di emozioni, vibrazioni di pensieri, flash immediati di scambi tra realtà e mistero. L’«accelerazione geometrica» che ha snodato gli anni più ardenti e creativi spinge ora l’autore, ormai anziano, a sottoporsi ad un esame di coscienza. «Stanchezza» e «inerzia» lo preparano ad affrontare una «dimensione senza luogo», senza riferimenti intorno. Ma si fa luce ancora una speranza e nel sogno rifioriscono le immagini di ieri: angoli di Messina e di tanti paesi visitati, personaggi leggendari, umili o eccentrici (il guardiano di capre, la badante ucraina, l’uomo che ha perduto la sua ombra, artisti e scrittori). Tante le voci che vengono dal nulla e insieme «foglie morte nel cassetto», uomini che parlano con le statue e le illusioni che fanno credere che «il mondo sia sempre fiorito». Tutto non in un «taccuino di viaggio» ma nell’«avventura di una vita». Affascinato e impaurito dalla «smagliante indifferenza della natura», Vasile non si priva tuttavia dei connotati di conforto e di protezione di un mondo di «cose donate» e del convincimento di una «risurrezione dei corpi» come «rivincita della vita». E allora ciò che gli appare, e riappare, non si estende in descrizioni protratte, nella conquista di nuovi territori, ma si coagula nella macerata psicologia dell’io, con colori che tendono a velarsi. Il linguaggio non si fa cupo, continua invece a scorrere lucente, come una rappresentazione spettacolare.

Lo sguardo periferico di Enzo Lauretta Gira intorno al suo vuoto, alla solitudine nella sonnolenta Agrigento. Lo inquieta il bisogno di fuggire da uno «stato comatoso», con il rischio di andare verso un altro caos. Michele, il protagonista del nuovo romanzo di Enzo Lauretta, Lo sguardo periferico, cinquantenne titolare di un’agenzia di automobili, decide di abbandonare la moglie Anna e i figli e di «andare verso la luce». È un gentiluomo corretto, ma a volte inaspettatamente «impelagato in manovre poco chiare anche negli affari», quest’uomo che, stanco di combattere con il proprio doppio, con il groviglio delle sue contraddizioni, vuole fare chiarezza. Il ricordo di Maia, una giovane estone conosciuta per lavoro in Sicilia, diviene il filo conduttore, l’«ago della bussola interiore», che lo porta a rivedere la donna a Pallin, una città in cui tutto appare «garbato, senza chiasso, naturalmente franato».

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Attento alle sfumature delle sensazioni più capillari, ai silenzi, alle dolcezze di istanti che fanno eterna una storia, Lauretta si appoggia alle risorse del paesaggio innervandone gli spazi nelle complessità delle tensioni psicologiche, fermandoli sul limite delle allusioni e attribuendo ai particolari dell’esterno la possibilità di definire il personaggio centrale, la dinamica dei suoi comportamenti. Si abbandonano i moti dell’immaginario e si affronta direttamente la realtà nel suo aspetto più duro e scoperto. In un’atmosfera fattasi più cupa, Michele, ritornato nella sua terra, è informato da alcune lettere anonime del tradimento della moglie. E mentre i pensieri lo inseguono con un «ritmo perverso», piomba «impietrito» nell’angoscia. L’ansia, l’insidia delle riflessioni si rivelano nelle frasi frante, nei dialoghi taglienti interrotti da cesure convulse che si assestano su brevi commenti. La pagina sembra temere l’arrivo del buio, avvitata in un’ondata spiraliforme di tumulti. E si spalanca il dramma con l’assassinio di Anna da parte di uno sconosciuto, mentre i sospetti cadono su Michele che si impiglia in una «ragnatela» di ricordi scivolando in un baratro. Lenta è l’uscita: «andare a capo» oppure «acclimatarsi alla sventura»? Nuovamente, in un gioco di specchi tra il passato e il presente, l’intero circuito narrativo è percorso da un intrecciarsi di nozioni su cui si affaccia una «luna sfacciata». Michele entra nel «suo futuro». Ormai lontana è l’immagine cara del lungomare di San Leone. Costruito in modo equilibrato, sì da poter agganciare la pur velata quota di enigma al passo sicuro della comunicabilità, il linguaggio spinge gli accadimenti in un’avvolgente intonazione musicale.

Per più amore di Paolo Di Stefano Dalla «nuvola di silenzio» di Baci da non ripetere (1994) al «silenzio» che «può riempire tante pagine» di Azzurro, troppo azzurro (1996) e a quello in «equilibrio» di Tutti contenti; da una memoria «terribile e urgente» di Aiutami tu al «gorgo» del passato, dal quale emergono gli insoluti nodi della vita, di Nel cuore che ti cerca (2008), la narrativa di Paolo Di Stefano aziona un insidioso viaggio nel vuoto delle anime e un fruscio angoscioso di pensieri, tonalità aspre e altre sorrette dalla reticenza e dalla malinconia. Sorge una scrittura franta in aree spesso autonome e avvampate di sagome errabonde. Ora, con i due racconti di Per più amore, uncina un mondo cupo attraverso millimetrici segnali espressivi tesi a rendere una realtà ferita e una perplessa atmosfera ipnotica. Un circuito di epifanie, azionato dal convulso moto interiore dei personaggi, si riversa sulla pagina

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convocando l’inventario secco e glaciale dei dettagli e volgendolo verso un rugginoso affanno visionario. Rapido, il ritmo si coagula in frasi brevi, elide la nota descrittiva e favorisce incroci immediati, tra granitici registri verbali e una stregata musica di affetti: colonna sonora che non va oltre l’immagine inchiodata allo scatto dell’epigrafe. Eppure, alcune microstorie, lievi trasgressioni della linearità dei fatti, pennellate di colore nelle psicologie e interlineature filiformi di commento concorrono a tramare una dinamica rete di ossessioni che svicola dolceamara nel lamento e riprende il suo passo allestendo figure ambigue e sfondi sfilacciati in cineree sequenze impenetrabili. Sfilano «terrazze, lastre di cemento, pilastri, cale metalliche, impalcature, pali che reggono soffitti scalcinati in vasi di macchie umide». Ogni forma che affonda nell’ovatta è la cifra di un abbaglio: così una chiesa sembra «una villetta bifamiliare degli anni Cinquanta». E un paesaggio di palazzoni di vetro, di vecchie fabbriche, spalmato nel clima drammatico e vischioso, stenta talora a ritrovare il sole. «Dolce, dolcissimo, tenero» e crudele e con «strane idee in testa», lo studente Roberto, protagonista del primo racconto, «fa il duro» ma «riesce a parlare poetico», legge Stephen King e Dante, «ha due personalità». Innamorato corrisposto della compagna Monica, allegra e solare, la uccide senza alcuna apparente ragione finendo in una comunità terapeutica, dove i glaciali referti medici lo etichettano «soggetto autodistruttivo». Intanto trascorrono i giorni del freddo e della neve, il dolore rimane «essiccato», come i ricordi stampati nelle foto di lei per sempre spenta con i suoi sogni. Ma se infine il dolore può cambiare, la morte no: «è morte e basta». «Più preciso di un tedesco di Frankfurt», l’io monologante del secondo testo (mimetico del parlato siciliano), emigrato in Germania, attende che la fidanzata Giorgia lo raggiunga per le nozze, dopo aver conseguito il diploma. Ma le cose vanno diversamente: lei non ha alcuna voglia di studiare e non è ammessa agli esami. Tornato al paese, l’uomo apprende dalla sua «principessina» di essere stato tradito. E così, mentre la ragazza parla «in quel modo un poco troppo duretto», Davide la massacra con un cric «per troppo amore».

Dopo ogni abbandono di Brunella Schisa Piove a Roma, nell’ultima notte di novembre del 1896. La Contessa Lara, pseudonimo di Evelina Cattermole, è ferita gravemente nella sua casa, «tetra come un sepolcro vuoto», dal giovane amante Giuseppe Pierantoni, «uomo

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NARRATIVA

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ordinario», dai «tratti di faina». A soccorrere la matura ma ancora affascinante donna è chiamato il dottor Fabrizio Barboni che giunge accompagnato dal padre farmacista. Con queste scene ha avvio il corposo romanzo di Brunella Schisa, Dopo ogni abbandono, che mescola abilmente storia e invenzione facendo muovere gli accadimenti in uno sviluppo lineare e colmo, però, di pieghe, approfondimenti, ricerche d’archivio, ritagli di giornali, atti giudiziari. Sostenuta da adeguati rilanci narrativi che sfruttano ogni pezza d’appoggio documentaria, l’accurata ricostruzione d’epoca si avvale di una rappresentazione stilistica totalizzante che mette in atto collaudate tecniche tradizionali capaci di inserire di volta in volta nuovi ambienti e orizzonti, di troncare la trama al suo momento giusto e di avvicendare senza alcuna finzione presenze vere e di fantasia. Scioltezza di scrittura e solidità strutturale, frequenti cambi di ottica e un buon dosaggio dei dialoghi si fondono in un racconto disteso, guidato da un realismo composto e non alieno dal porre attenzione a una misurata (partecipe e febbrile) sottolineatura delle emozioni. La pagina non si nega al pathos – che sorge spesso da un dato concreto – e per qualche verso ne tempera pure la durezza, la spigolosità, lo slancio. E allora tutto il discorso si anima di fervori nuovi, calibrati, e di altre fonti di sollecitazione creativa, in cui si infiltrano la tensione e un’ombra di sospetto e di intrigo. Nel tratteggiare il personaggio, Brunella Schisa fa emergere tutta la complessa personalità di una donna che coinvolta in giovinezza in uno scandalo di grande risonanza, attraversa una vita costellata di dolori ma anche di un discreto successo letterario: dotata di talento, Evelina tiene rubriche mondane per i più importanti fogli, è stimata da D’Annunzio, Capuana e da Croce, che le dedica uno studio; scrive liriche di decorosa maniera e, spirito indipendente, crede «nell’amore libero e nella parità dei sessi» sfidando il moralismo corrente. La storia di questa «povera infelice» e della sua «bizzarria di carattere complicato e misterioso» (secondo il giudizio di Matilde Serao) si incontra, tra beatificazione e condanna, con quella di una Roma Capitale che «respira una miscela di modernità e di antico». Ne deriva un racconto che esplora un territorio di visi sovente staccati dai loro fondali e immersi in cerchi concentrici nei quali sembrano perdere l’esatta nozione del tempo per assumere una dimensione smarrita, quasi simbolica. E sono come emblemi di un’eterna commedia umana torbida, cruda, immedicabile. E lì, in quel buio, svetta ancora di più la figura della contessa con il suo dramma e il suo destino di «meteora accesa».

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Ritorno nella valle degli angeli di Francesco Carofiglio «Strabica» per la cecità di alcune plafoniere, la luce al neon del sottopasso della stazione ferroviaria di Foggia muove le «sagome dei passanti nella penombra». Sul piazzale infuria il torrido caldo di giugno, la città «stritolata» da un’atmosfera pesante, mostra una fila di palazzi uguali che offrono «squarci di un’umanità incredula per la calura imprevista». Giornalista culturale a New York, il quarantenne Vincenzo sta tornando alla natia Aquilana, piccolo paese della Lucania, per la morte del padre e per le questioni relative alla successione. Il paese lo accoglie con la sua «sagoma nera», ritagliata sul cielo cupo. Uomini e cose sono ridotti a «sagome»; la vecchia auto del padre è trasformata dalle intemperie in uno «scarafaggio di ruggine»; anche la facciata della casa di famiglia disegna una «sagoma netta sul cielo blu», e sul soffitto della stanza della giovinezza il lume stampa «sagome acquerellate dall’umidità». Un che di metallico, di freddo avvelena la vista di un paesaggio allontanato dal tempo e che ora diviene spunto perché il protagonista di Ritorno nella valle degli angeli di Francesco Carofiglio ripensi il visibile e il proprio passato in modo più intenso e inquieto. Sembra che dal recinto privato, reso inattingibile dalla distanza, parta un raggio che fa d’ogni cosa vicina un orizzonte carico d’ombre e di misteri. E si staglia il paese, come un «presepe accartocciato su un pendio» e, sotto, una rocca, ancora come «sagoma», quella di un diruto castello. Il silenzio che regna sovrano, lo spazio senza argini, le ore azzerate nell’immobilità assomigliano più al pensiero del protagonista che li riscopre, che all’oggettività nella quale sono circoscritti. Isolato dal mondo (manca la corrente elettrica e il cellulare si è rotto), Vincenzo è dentro un gioco di cui non gli sono state spiegate le regole. A poco a poco si alzano con i lembi della memoria antiche storie familiari di incomprensione, sofferenza e morte, che si confrontano con il «pullulare di vite microscopiche» che l’uomo avverte intorno, in quel «mondo parallelo» popolato alternativamente di volti in transito per la casa nascosta dal «marmo» di una natura «maligna» e di eventi che scorrono fuori, dove s’aprono uno scenario da «romanzo catastrofico o la scenografia di un vecchio film dell’orrore». Ma si respira pure, nella pace di una badia, la serenità di una congiunzione con il resto del mondo. A prevalere è un’aria strana, piena di disagio, in cui il vero e il sognato si mescolano facendo emergere, tra chiaroscuri e annunci di pericolo, i miti, i costumi, i suoni e i profumi di una terra arcaica e dura nella sua secolare fissità, costellata di palazzi fatiscenti, mobili sfatti, vite imbalsamate. D’improvviso, un biglietto su cui è scritto il nome di un paese stregato apre in

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Vincenzo un «varco», un «suono cupo», un incontro con «il dolore» e con la parola che lo descrive. Il grumo del passato si scioglie «come un incantesimo». Il rigoglio di visioni, scandite come metafora del viaggio verso il cuore dell’esistenza del protagonista, si propone in un linguaggio duttile, arpeggiato fino alla sofisticata stilizzazione di alcune figure-simbolo.

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Trilogia di Palermo di Santo Piazzese Fin dall’esordio narrativo Santo Piazzese è andato maturando il «convincimento che se esiste una peculiarità palermitana, essa non è la irredimibilità ma la elusività». Da qui il grande disagio e, insieme, l’impegno a «leggere» un luogo che appare «a prova di sintesi», perennemente sospeso «tra agonia ed eccesso di vitalità». Per rappresentare un connubio di «furore e indolenza», l’autore elegge il genere del noir che più del «romanzo affresco» sembra in grado di penetrare nei segreti gangli di una città alla quale non può rivolgersi lo sguardo di un «unico romanziere». È quanto si legge nella nota introduttiva di Trilogia di Palermo in cui ritornano I delitti di via Medina-Sodonia, La doppia vita di M. Laurent, Il soffio della valanga, usciti tra il 1996 e il 2002. Forse protagonista del primo testo è il vento, lo Scirocco d’Africa che colpisce come un’apocalisse l’io narrante, Lorenzo La Marca, docente universitario, investigatore improvvisato, ex sessantottino, «colto, intelligente, raffinato, ironico». Tutto ha inizio da quando Lorenzo scorge, dalla finestra del suo istituto, il corpo di un uomo pendere da un ficus dell’Orto Botanico, distante un paio di centinaia di metri. Seguono altre due morti violente. In una luce da «day after» si calcifica un paesaggio infuocato che cela una misteriosa trama di eventi i cui contorni sfumano in una sorta di grande scenario evocato dallo sguardo-riflessione del narratore pronto a immergersi nelle cose, a riaffiorare con la lucidità delle sue indagini e a riversare visi di nuovo seguendo un cammino non solo razionale e poliziesco ma intellettuale e sentimentale. Si arriva così (anche attraverso una battente impaginazione ludica, sgranata in una finissima rete di citazioni colte) al conclusivo appuntamento con l’assassino e alla risoluzione di una storia cui non sono estranei molti «numeri magici» e il «sale» che il detective occasionale si appresta a gettare sulle «rovine». La Palermo del racconto successivo è, invece, autunnale e piovosa, «con il solito buio targato Enel». Al centro di un contesto che ha «qualcosa di fiammingo», giace il corpo di un antiquario raggiunto da un colpo solo di piccolo calibro. I legami «incrociati e insospettati» del caso alzano il sipario

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pure su una Vienna «tetra» e su interni vecchi e polverosi. Indiziato è il padre di Michelle, vecchia fiamma di Lorenzo, anche qui deputato a sciogliere la vicenda e a «mettere bene a fuoco qualcosa che sa di aspro». Con l’ultimo giallo si cambia protagonista: a condurre l’inchiesta su un duplice omicidio, avvenuto nei pressi della Zisa, è chiamato il commissario Spotorno, amico di Lorenzo. L’alternarsi di passato e presente, un’atmosfera tesa e un ampio studio di costume si depositano su una pagina attraversata da impalpabili risonanze ed echi e da tratti duri e scabrosi mescolati con pennellate di pittura locale che suscitano impressioni come lasciate dai sogni. Quasi immerso in una soap opera «onirica», Spotorno si muove in una città che Piazzese perlustra con cura millimetrica e favolosa. Ne scaturisce un misto di storici splendori e attuali miserie dal quale schizzano lunghissime ombre e un sottofondo di silenzi e di sfide. Ogni tessera va a posto ma la verità assoluta resta un po’ velata dal dubbio.

Quando la notte di Cristina Comencini Un paese di montagna dove, se nevica, «non si distingue la neve dal cielo» e dove i turisti vogliono ascoltare solo «storie di disgrazie». In un’estate giunge Marina, giovane madre stressata, con il piccolo figlio Marco. Abita in una casa presa in affitto, il cui padrone, il rude Manfred, una guida quarantenne dal «viso tagliato di rughe», vive solo al piano di sotto. La natura aspra e silenziosa, opprimente, ritagliata in esigui spazi marmorizzati nella malinconia, si sintonizza con l’aria attonita che avvolge i personaggi, estingue la gioia, opacizza i sentimenti. Si diffonde un’insinuante proiezione d’ombre che fanno parte delle singole storie degli uomini e delle cose stesse e dilagano in sordina in ogni luogo, incrinano i pensieri stendendo un insidioso velo di grigiore. Sin dall’avvio, Quando la notte di Cristina Comencini frantuma la continuità dei fatti inserendo una serie di microsequenze narrative, nomi nuovi, situazioni in movimento: con qualche sottolineatura marcata di dettagli e comportamenti e qualche puntiglio didascalico macerato, però, dalle psicologie. Può avvenire che Marina e Manfred non agiscano qua e là con scioltezza nei loro contesti ma che li suscitino come spinti dal bisogno di esemplarità, dalla ricerca spietata delle proprie ragioni di vita, di verifica delle proprie debolezze e perplessità. Qualcosa di netto, di meccanico sembra guidare le azioni, soprattutto quando il racconto cambia repentinamente i punti di vista o quando le memorie, convergendo implacabili a folate, seguono percorsi determinati e si spengono chiudendo, perentorie, su se stesse.

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NARRATIVA

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Torneranno a distanza, in un gioco di chiaroscuri che deve misurarsi con la monotonia del tempo usato spesso al presente, che contribuisce a livellare le risonanze più sottili delle evocazioni. Si crea una dimensione discorsiva un po’ sfarinata, ricca, sì, di sollecitazioni, ma che rallenta in pause e segmenti il ritmo. Così, quando nella casa di Marina una notte scoppia uno strano «colpo micidiale», con le bottiglie di vino a terra, l’olio e il bambino ferito, che piange seduto fra i vetri, la tensione devia sui vari livelli della scena: il grido della madre, incapace di agire e sommersa da «fiumi di rabbia incandescente»; gli interrogativi di sorpresa di Manfred, presto accorso, che si avvolgono in una spirale di congetture; lo sviluppo dell’azione (la corsa in ospedale) battuto da una scansione ellittica («Buio, curve, alberi, ponte, ruscello nero»). La confusa disperazione di Marina, il «buio davanti agli occhi, il pianto che non finisce mai» colpiscono Manfred, molto severo nei giudizi sulla sua ospite, e avviano una sorta di sfida tra i due che, cedendo a poco a poco le diffidenze reciproche, finiscono per sentirsi attratti. Si infittiscono i monologhi e i dialoghi, interrotti e ripresi senza tregua, gli incisi che preparano altre tensioni, le ossessioni che i due protagonisti si portano dietro, l’intreccio serrato e aperto a molte voci. E sempre agisce una frenesia di scosse strutturali (segno di una tecnica molto lavorata) che rendono volutamente asimmetrico l’assetto con i vertiginosi confronti fra le figure, la dichiarata difficoltà a separare la presenza dall’assenza, il desiderio dalla paura. E intanto passano gli anni che «trasformano il desiderio in parole» e riscoprono quella «fantasia inutile come le preghiere della sera» che Marina inventava da piccola. Un realismo lucido e increspato mostra una dura ricerca, sorpassa l’automatica mimesi del visibile costringendo a far salire alla ribalta anche alcune visioni stravolte.

Chi ha ucciso Sarah? di Andrej Longo Napoli, in una torrida giornata di mezzo agosto della fine degli anni Novanta. Le strade vuote e silenziose, l’asfalto che si liquefa, la gente affollata sulle spiagge. A un’auto della polizia giunge dalla Centrale un ordine di intervento in una traversa di via Posillipo. Da lì, da uno stabile antico tanto da sembrare un «mezzo castello», con una torre e finestre lunghe, è partita una telefonata. Nell’androne scuro del palazzo, il giovane agente, accorso con il suo collega, scopre il cadavere di una ragazza bionda, «attorcigliata su se stessa come a una gatta che dorme». Sulla fronte ha una ferita profonda. Poco lontano, un tubo di ferro, probabilmente l’arma del delitto. Non c’è

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nessuno, solo un gatto, appollaiato su un gradino, che fissa immobile, simile «a un essere umano o a una specie di diavolo». Fuori, nell’aria infuocata, i palazzi gettano ombre «precise», come «già viste da qualche parte», in «una foto, in mezzo a un libro, forse dentro a una pittura». Condotta caparbiamente dal poliziotto, io narrante di Chi ha ucciso Sarah? di Andrej Longo, si sviluppa (sotto la guida del commissario Santagata) un’indagine che a mano a mano fa emergere uno scuro universo di viltà, di ipocrisie, egoismi: una voragine in cui sprofonda la dorata routine del perbenismo. Vibra nella rarefatta, trasognata sospensione della Napoli dei quartieri alti una specie di pallido luccichio corroso, un putrescente punto d’attrazione dischiuso dalle svolte inattese della vicenda e dall’impennarsi della scrittura verso l’innesto (ora analitico, ora nervoso) di dettagli. Nella compassata lentezza del racconto (che il suono antico del dialetto locale carica di una spettacolare apertura visionaria e drammatica) il frangersi calibrato dell’andamento ritmico è un cercato disguido di stupore, un trompe-l’oeil che non recide ma riannoda i fili disponendoli con un qualcosa in più di insospettato, sfuggente. In questa linea di incertezza passano i volti che lo scrittore espone in svariate implicazioni psicologiche: in relazione non solo con i meccanismi strutturali del giallo ma con le singole traiettorie personali, spesso deviate e inafferrabili. Accanto alla vittima, la bionda Sarah, studentessa universitaria ammodo, forse un po’ chiusa, ecco il fidanzato Sandro che, nell’interrogatorio, parla «quasi ipnotizzato», e Genny, un precedente compagno, detto il Pianista, per il vizio di «menare le mani a ogni poco». E intanto, la pagina dal realismo calcato, cui non vengono meno il brio di un persuasivo sorriso e una malinconia velata, convoca un corteo di volti: il professore dal «sorriso finto» e l’avvocato distinto con lo «sguardo nel vuoto», che sembra «svuotato da qualche malattia»; l’architetto agli arresti domiciliari per una questione di appalti e l’ingegnere troppo sicuro di sé; i genitori di Sarah distrutti dal dolore e una barbona che ha visto qualcosa ma che presto è andata via. In primo piano l’agente, perseguitato dal pensiero della fanciulla morta e preso nei lacci della propria modesta vita di giovane che vive, a Torre del Greco, con la madre vedova, premurosa e ciarliera. Intorno a lui, una Napoli dai molti aspetti: dai rioni popolari, tra panni stesi, cappelle con i santi e canzoni che arrivano non si sa da dove, a Castel dell’Ovo e al mare di Mergellina rigato da una corsa di barche a vela; dalle periferie devastate al brulicante molo Beverello. Partecipe, lo scrittore coglie certi pensieri che sorprendono il suo protagonista («fantasie senza corpo né coda», ma che, se vengono pensate, «vuol dire che una ragione ci sta») e, insieme, rumori inquietanti, come quello del ventilatore della centrale che «caccia un lamento,

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NARRATIVA

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come un animale ferito». Un segnale di nulla che prelude alla risoluzione del caso. Ma all’io resta il convincimento che tutto «continua lo stesso a fare notte».

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Quadreria dei poeti passanti di Angelo Scandurra Le occasioni «scaturiscono dalla varietà dei colori»; la «stesura di vuoti» si alterna con l’«apparato delle modulazioni»; il «riverbero delle voci» forse ha inizio nell’«incipit del nulla»: il musicale ritmo, il solfeggio di una scrittura esatta, adamantina e pastosa, un caso raro nel nostro panorama letterario, segna le cadenze di Quadreria dei poeti passanti di Angelo Scandurra, noto poeta ed editore: collana di testi franti, miniaturizzati, tra lirica, narrativa e riflessione sui «disguidi» delle cose. La direzione di questi allettamenti parabolici, microepisodi di un’elaborata complessità visionaria, è orientata da un’organica intelaiatura nella quale non si smarriscono le leggi del reale che trattengono la «minuzia della circostanza», i visi che si intravedono (la nonna, i figli e, accanto, Bradamante e Ruggero: presi nell’«ineluttabilità di assenze»), le figure simboliche nella «festosa invadenza delle idee», miscelando attività speculativa e libertà d’invenzione, l’«indignazione che accompagna gli stratagemmi» e il «magnetismo dell’evento predestinato». La parola armonica, al vertice di una sentenza o di una didascalia, cattura una luce ammaliata e fredda, un lunare stato di sospensione, un’aria di dormiveglia stupita sulla quale si avventano le minime manifestazioni dei giorni, le impalpabili presenze dell’esistere. Significati sottesi («l’equivoco si condensa nel grappolo di glicine») e movimento scenico («con le meravigliose insegne trasformate dagli sguardi») si integrano sostenendo un discorso denso e veloce, con picchi di tensione là dove la «congiura di magie» si converte all’umana avventura, all’intrigo di «aureole di suoni», al paesaggio sciolto in un tangenziale sfolgorio di immagini. A suscitare un intrecciato effetto di racconto è la sintassi di una «smagliante disciplina» stilistica e strutturale, che si risolve in storie, con note di passioni e pure di stupori evocati da una coscienza vigile e stordita, allertata dagli inferni dei libri e presa da un «soffio» che diviene «carne». E contano gli allarmi e il «fertile rintocco della risonanza», la «mappatura» dei segni indominabili, le visioni stracolme di delirio, le allucinate ombre e gli «sfioriti appuntamenti», più che le massicce storie quotidiane, l’orizzonte chiuso nello sguardo, il percepibile contatto con gli oggetti (rubricati nel «volume di scartoffie»?). Un «alfabeto impolverato d’eco» apre orizzonti mobili, ricordi limati dai sogni e segreti destinati a patire l’inguaribile sfregio della

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luce. Una materia viva, misteriosa contende l’incantesimo al suo vuoto, si appropria di brusii, sembianze sfalsate, «volti maculati», di «sirene con ali di farfalla». E spegne anche il grido nel fittizio equilibrio del silenzio. La totale astrazione delle trame, l’«inclinazione delle tessiture», che tende a cancellare ogni spigolo, nasconde «panoramiche» di allusioni, impalcature letterarie, imperativi sfondi che nella loro illusionistica intercambiabilità (si mutano le «visioni in rintocchi») si mostrano pure aperti a soluzioni infinite (scorribande nel mondo delle ipotesi), identificandosi talora con le riflessioni dell’autore, con la «costellazione» della sua «sapienza». Così le scene multiple o fragili e nascoste transitano nelle meditazioni e negli sguardi, lasciano da parte la loro consistenza (vera? sognata?), la sostanza verbale di cui sono fatte e divengono sfuggenti, tendono ad assimilarsi allo spettacolo di «insegne» che vince su una realtà «sempre più marginale». E intanto, protetto dalla sua finzione, l’io osserva abissi ed interstizi fino alla «dispersione delle luminosità». A volte Scandurra costruisce in sequenze scattanti, allacciate dal nascosto traino di un disegno, la serie composita di un’idea dall’assetto aforistico-narrativo e ne decide le sfumature, le vibrazioni a più lunga gittata, la varietà dei rapporti con i tasselli di un paesaggio trafitto da improvvise illuminazioni o, per contro, l’intensificarsi e dissolversi di un flash senza eco. Dietro parabole ingigantite dalla parola plurivalente si intravedono profili di natura animata (la «disinvoltura del vento»; lo «strato di cielo» che «si fa più vicino alla voce»; la «servitù dei palpiti» che si spande «nel grembo delle onde»; gli «incorreggibili fiori» che «si consegnano agli stupori»; l’«ipotetico epicentro» che si trastulla «nella superficie ritmata nel canto delle pietre»). Natura scarna, tuttavia rilanciata da neobarocchi sortilegi di profondità, e attraversata dalla febbre di un senso drammatico, di un insopprimibile raccordo con l’edificio mobile non solo del singolo testo ma dell’intero corpus. Nelle cornici (ogni scheggia ha la sua circolarità) si raccolgono segnali non semplicemente decorativi («Frammenti di pietà le decorazioni accomunano i miracoli») bensì invasi da una partecipazione dell’autore sempre allertata, una tensione che si modella sui dettagli promuovendoli a una funzionalità secca e indispensabile, alla definizione di minuscoli referti psicologici (schede autonome, avulse da un immediato utilizzo) che sono fatti emergere attraverso una rappresentazione la quale, non neutralizzandone gli impulsi, li esterna in estri immaginativi, in un «abbaglio durevole». Da tale abbaglio è possibile per il lettore prendere le mosse e crearsi elastiche trame d’avventure: ecco i «copiosi segreti» che «trasudano dalle finestre»; l’«andirivieni delle anime» sopravanzato dal «biasimo»; il «silenzio antico» che è «attorno ai castelli».

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Attenti alle rose di Pino Roveredo La moglie Gianna se ne è andata, dopo venti anni di matrimonio che sempre più si è avviato verso quel «cimitero dell’indifferenza» nel quale la donna «sotto le croci ha seppellito anche lo specchio». Sergio, il marito, è solo nella casa, circondato da un silenzio che, «largo come il deserto», costruisce nella sua mente «castelli alti come il dubbio». Dilagano angoscia e paura, gli interrogativi sulle ragioni dell’abbandono («bastava parlare, chiarire, discutere, una via d’uscita la si trovava, no?»), la ricerca di un indizio, la volontà disperata di superare la depressione, di inventarsi continuamente «un’allegria sopra una tristezza». Attenti alle rose conferma lo spessore composito della scrittura di Pino Roveredo, quell’oscillare frenetico e regolare fra malinconia e ironia, registrazione paziente di microeventi e visionari sbalzi che scardinano la resistenza delle cose. Ne scaturisce una prosa che numera e canta i propri profondi grumi di sapienza, sobria e ilare, vivacizzata dall’acuta percezione dei dettagli, degli «angoli», e non priva dell’appassionata partecipazione dell’autore alle riserve di sorprese della vita. Sempre netta resta la distanza dalla materia che, tuttavia, consente l’intrusione avvampata della presenza dell’io narrante, mentre i personaggi, soprattutto i volti femminili, a poco a poco scoperti, si muovono con scioltezza, secondo una logica interna alle loro esistenze, assimilando nei comportamenti anche qualche residua eloquenza, qualche impennata di movimento e di tono. Roveredo sfoggia, nel raccontare il progressivo e faticoso disincagliarsi del protagonista dall’assedio del suo tormento, una disinvoltura espressiva che deve misurarsi con la fredda lama della neutralità analitica di ogni moto dell’animo, ma che nella potenza plastica ed eversiva delle immagini trova una non comune facoltà di slancio attraverso il linguaggio capace di far scorrere le scene lungo una obnubilante obliquità. Si tratta di una forma di impostazione strutturale fondata sulla distorsione che invade i fondali e i personaggi: così, per esempio, la bella signora Teresa può trasformarsi in un’«assenza» a causa di un immenso bene perduto. L’amore vissuto con la «tranquillità della carta carbone», il sogno che «non ha la licenza di accadere», l’occasione di rammentare, «con la forza della poesia», le fiabe della fanciullezza, un «cielo per accendere le stelle»: i «colori dell’umore» passano in folate che si spargono lasciando piccoli segnali, fotogrammi del «delirio» dell’io che tenta di buttare tutto nella «macina del dimenticatoio» ed entra in un tempo senza tempo, fatto di frantumi di emozioni, trattenuti sui minimi gesti giornalieri, con la «voglia di inventarsi il volo della magia». E la magia è proprio lì, nelle rose che,

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lanciate dal davanzale, «cominciano a volare, tutte col loro nome e la loro storia».

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Baarìa di Giuseppe Tornatore Con la sceneggiatura di Baarìa Giuseppe Tornatore offre un’idea di paesaggio egemone, panoramica dimensione metaforica e aria soffocante e chiusa nel pulviscolo rude degli interni le cui descrizioni, ora aguzze, ora illustrative e lente, tendono a verificare il disegno di questa idea tra favola e denuncia, che scandisce, assorbe, sovrasta le azioni, esalta le voci, le seleziona, le fa luminose e opache, le dissolve, le rincorre per riprenderne una traccia, una memoria, un suono. Ciò non toglie autenticità terrena alle varie sequenze, anzi le pone in una zona di solitaria, petrosa visibilità. Il lettore avverte un sotterraneo legame, il ripetersi (che fa di una realtà una visione) di immagini e anche di stampi, moduli su cui si va in tal modo costruendo una sorta di atmosfera non tanto tesa (i fotogrammi veloci spezzano il ritmo, pretendono altri temi e sfondi, altre sfide), ma avvolgente, una costellazione di luci autonome di forte intensità espressionistica. Così il filo conduttore (la storia di un paese siciliano dagli anni Venti alla fine del secolo, dentro la realtà e dentro il sogno) più che appartenere al vincolante traino dei fatti, è una spia pura della cifra stilistica del testo, della sua musica audace e circolare (una vertiginosa trottola lanciata da un ragazzo apre e chiude la vicenda), del suo colore acceso di scirocco e del suo tagliente guizzo di rapina. Si sviluppa, si avvolge su se stessa, si dirama e sventaglia gli episodi in una realtà concreta e immaginata e tenuta sotto controllo anche quando le grandi irruzioni del coro possono deformare, dilatare, e sovrapporre nuovi sfondi di anonime, imprendibili avventure. Una realtà che si piega all’asciuttezza della scrittura lineare, didascalica, ai suoi vari scatti di tasselli bene incastonati, alle icone impresse dallo stile epigrafico. Ed è autenticamente vera nella sua vitrea immobilità, nell’istante in cui la parola designa ruoli precisi e, insieme, inganni e ammicchi in cui si riflette il pluricorde assetto della folla e quello, estrapolato in impeti di straniante amore, e di furore, dei due personaggi centrali: Peppino, il comunista che infrange i costumi inveterati della sua terra, e la sua giovane sposa Mannina che lo segue «con devozione non subalterna» (come osserva Paolo Mieli nell’introduzione). Il sistema linguistico, pur raccogliendo nel parlato quasi tutto il lessicale umore, le stilettate e le piroette del dialetto locale, si sgancia un po’ dal condizionamento onnivoro presente nel film, e si afferma libera voce nar-

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NARRATIVA

ITALIANA

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rativa e funzione romanzesca e illusionistica, con i suoi brevi ma saldi colpi di teatro, la sapienza e la creatività sottese, le oscillazioni trasmigranti delle inquadrature, i lapidari segnatempo, i convincenti fraseggi del commento e gli aculei della satira, il refrain del Corso e della chiesa, l’«immensa quiete» delle tre rocce incantate nella leggenda di un tesoro sepolto. E sempre la vetrina della folla, compatto scorrere sonoro, ma con tratti di visi che sgusciano affannati da un brulichio di pene e di speranze. E ancora la ragnatela fitta del potere, gli intrighi dei politici, la ventosa folata dei racconti che girano nei vicoli a fianco dei «pezzi di pellicola» che raccontano altre storie. E forse quelle storie di celluloide insegnano a vedere le figure vicine trasformarsi in vessilli, segnali d’evasione, un teatro mai spento. E invitano a sollevarsi sulle pietre del borgo, sulle case, a volare nell’aria come il bambino delle prime scene.

L’incendio dei sogni di Luca Doninelli Una vampata di immagini, suoni, parole, visi, squarci di paesaggi senza definiti confini travolge ogni ordine di costruzione narrativa regolare, ogni compatto disegno delle cose. Ha la violenza dell’ineluttabile e la vaga seduzione dell’ipnosi. Luca Doninelli, con le trentatré «inquadrature» di L’incendio dei sogni, allinea i saettanti fotogrammi di un’ideale cineteca che custodisce il filo rosso della vita quotidiana, così impastata di realtà e finzione e così in bilico tra una varietà di rappresentazioni frantumate e la trappola dell’ignoto pronta a scattare dall’improvviso bordo di un raggiro. Lo stravolgimento della continuità dell’affabulazione (con la sua volubile ricchezza simbolica) è ottenuto soprattutto attribuendo a particolari, personaggi, destini caratteristiche che di solito non appartengono alla loro sfera naturale e che chiedono di stare in altre storie. Chi legge è indotto, allora, a cercare collegamenti fra le parti, a porsi domande, a inserire nel testo una propria versione. E quando il singolo episodio proposto si chiude bruscamente, senza offrire una manifesta soluzione, resta una sottilissima traccia sotterranea, un ammicco che sfuma nella bianca dissolvenza della pagina come l’eco di una voce che ci insegue e che forse vuole anticipare un evento, una storia che «partorisce la propria metafora». Succedono cose, ma «quasi quasi [...] è meglio se non succede niente». Vari sono i temi che si dispongono secondo impostazioni, tagli, strutture rispondenti a vari modelli letterari: dal noir al western, dall’avventuroso al fantascientifico, dalla movenza del grottesco all’esemplarità dell’operetta morale, dalla pochade alla vicenda sentimentale. Su una scacchiera in penombra

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GIUSEPPE AMOROSO

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si ingaggia una partita senza sbocchi, la cui posta è la stessa frenesia che la infiamma. Una setta satanica si alterna con la figura di un torturatore; un uomo misterioso appare, in una notte di pioggia, ai margini di un bosco. Un soldato-ragazzo pensa che tutte le frasi incomprensibili e gridate contengano maledizioni, e uno scrittore africano recita un poema popolare. C’è un silenzio che «qualunque sceneggiatura avrebbe definito ‘irreale’» e un corpo che, nella danza, sembra fatto della «stessa materia di cui è fatta la musica». Dentro un mondo, che non ha inizio né fine, affacciato sul caos primordiale, qualche paesaggio, al limite dell’evanescenza, e simile a un «disegno fatto a matita», coesiste con l’«esigenza di una delimitazione, di una ripartizione dello spazio» che «non può essere soppressa neppure dal più audace degli atti della fantasia».

Questo è un uomo di Davide Camarrone Neppure un «misero raggio di speranza» squarcia l’atmosfera plumbea di Via Solferino, «battito irregolare» del cuore di Milano, in un pomeriggio avanzato di novembre. Indossa una vistosa veste colorata la donna, dalla pelle di un nero intenso, che si avvicina alla portineria del «Corriere della Sera» chiedendo, in francese, di voler parlare con un giornalista. Quando, dopo due giorni, viene ascoltata, pronuncia un nome che risveglia ricordi e un’«immediata sensazione d’affanno» nell’anziano Paolo Ventimiglia, cronista prossimo alla pensione: quel nome, «de Boucouba Osea», appartiene a un inviato speciale, un italiano figlio di nigeriani, che, partito da due anni per un reportage sul traffico di clandestini dall’Africa, non ha dato più notizie di sé. Carico di temi aspri e angosciosi, programmaticamente adottati non solo come mezzo di diagnosi dei mali della nostra società, ma anche di antidoto, di schermaglia arroventata, Questo è un uomo di Davide Camarrone rappresenta una realtà drammatica non aggredendola direttamente, ma richiamando a frammenti alcuni fatti emblematici e riuscendo così a manifestarla in una qualità espressiva più duttile e, insieme, ambigua, un’apertura a giochi di riflessi, a misteriosi nodi di verità e di finzione («Le identità non contano in questo libro, e non vi è alcuna differenza fra vero e falso»). Resta però intatta la pietra dura delle cose. Ora, nella biblioteca del quotidiano, la donna, di nome Fatima, una nobile senegalese dotata di segreti poteri, una «donna memoria», vale a dire colei che racconta le storie degli altri e le tramanda in una «ripetizione fedele», fa riemergere come in uno stato di trance la vicenda di Osea, incontrato in un campo di concentramento libico.

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NARRATIVA

ITALIANA

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S’incarna, nella trasognata narrazione di Fatima, l’itinerario che ha portato Osea, sotto mentite spoglie, dal disumano lavoro in un’azienda agricola di Alcamo e in un cantiere agrigentino per la costruzione di una superstrada alla detenzione in un centro di accoglienza (dove non ha potuto rivelare la propria identità) e quindi al rimpatrio nell’inferno di Kenafra. Asciutto, implacabile nella denuncia della violazione di ogni elementare diritto umano, il libro di Camarrone è uno spartito di spunti sentenziosi che danno all’atmosfera visionaria ritmi di commento, filigrane di paesaggi che appartengono ai lampi del pensiero, microeventi che, sganciati dalle occasioni contingenti, assumono un valore sacrale e impareggiabile, sillabati in un rito di pietà, in un’icona fragile e resistente.

Emmaus di Alessandro Baricco Va, la vita, nel suo «liquido assestamento quotidiano» e si porta dentro il «corredo d’ordinanza della normalità» di esistenze limate fino alla perdita di ogni evidenza. In questo universo agiscono i giovani («Abbiamo tutti sedici, diciassette anni – ma senza saperlo veramente, è l’unica età che possiamo immaginare») che attraversano il nuovo romanzo di Alessandro Baricco, Emmaus. Da un mondo «senza cautela, in cui l’umana avventura non corre a ridosso della normalità», viene Andre (con quel nome che «esiste solo per lei»), bella, elegante di modi e di gesti, con una grazia antica nel vestirsi e nell’agire: è sola, non ha un ragazzo, e passa come una «leggenda», in un silenzio, distaccata, lontana e «scandalosa». Se sale su qualche automobile, la sera, sembra che «il buio la porti in un cono d’ombra» incomprensibile a tutti. Ancora il buio ingoia quel coro di ragazzi – l’io narrante, Bobby, Il Santo, Luca, componenti di una band – che la guarda, ne parla, affascinato anche dal suo tentato suicidio, a partire dal quale lei «ha iniziato a morire». Sono sommersi da parole di cui non conoscono il significato (una designa il dolore, un’altra la morte), questi giovani che si sentono così diversi dagli altri toccati da «destini tragici»: ricchi e persi in un «iperspazio», imprudenti e immorali da sempre, immersi indistintamente nel bene e nel male. Assorta nelle sue smorzature di tono, nei cambi improvvisi di soggetto, negli incisi, nelle precisazioni e nelle parabole e nella controluce dei testi evangelici, la scrittura si distende in un inesauribile ascolto di confessioni, di memorie, e nel lieve disincanto di una voce primaria che trova ragioni per ogni cosa, e scorie e relitti ancora in corsa verso altre storie (ecco, per esempio, il «privilegio tragico» dell’annegamento della sorellina di Andre). Uno

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GIUSEPPE AMOROSO

straziato orizzonte di derive si apre su uno scenario realistico che l’autore rende favoloso attraverso un linguaggio scarnificato, con rintocchi secchi, commenti epigrafici, ma pure con variazioni tonali e la colonna sonora di un contaminato inno sacro. Baricco punta sull’energia della scrittura per animare azioni prevalentemente fissate sui movimenti dei personaggi e su qualche interno e non sugli sfondi, sui paesaggi larghi. La precarietà dei comportamenti, la loro velocità prevalgono su tutto in una registrazione verbale che diviene forza trainante mettendo quasi in secondo piano anche l’orchestrazione romanzesca, le svolte dei fatti, il loro crescere come intreccio. Domina il piccolo riquadro definito nella sua essenzialità, in una scansione limpida e assoluta. Si crea così un racconto composto di segmenti nel quale il colore dei dettagli si mischia con la vitrea referenzialità dell’annotazione dello scrittore che si sostituisce al narratore. Gli episodi si susseguono come testimonianze e visione critica di quanto viene chiamato vita. La cura continua del visibile, di tutto ciò che corre in superficie moltiplica la ricerca di un approfondimento, di un «gioco segreto» che lega sotterraneamente le cose di cui, però, gli uomini, «come discepoli a Emmaus», conoscono l’avvio ma «mancano sempre il loro cuore». Spesso «solo le parole necessarie» riescono a regolare la tenuta del racconto, i progetti dei quattro giovani, la volontà di redimere Andre che «sta rovinando se stessa», il flusso spirituale in cui vivono il loro cercare «fatica e solitudine» nella natura, l’«incubo» di un’«eclissi totale» (quella di perdere la fede: «fenomeno evanescente ma pietra dura, diamante») e la «luce abbagliante» che può far riconoscere il miracolo che cammina accanto al quotidiano. E questi eroi che «strisciano sulle ruote dentate del mondo», con il timore del crollo, sanno che è possibile individuare uno «scintillio di vita» pure in «destini sbagliati»: ma il «vuoto del disastro» è lì a confermare che le loro avventure non hanno ritorno e che ogni colpa si collega ad un castigo. E intanto, pur popolandosi di personaggi anonimi in un viavai ossessivo e malinconico, Emmaus non perde di vista la drammatica sorte («piaga scagliata dall’alto») di Bobby, di Luce e del Santo, affidando all’io narrante, «sopravvissuto» su una «zattera strana», il compito di raccogliere l’«eredità» di ogni tristezza.

101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato di Agnese Palumbo Nell’immobile vampa della controra, Napoli, dimentica di ogni suo tormento, attende l’arrivo dei ricordi. In un reticolo di memorie accese dal buio,

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NARRATIVA

ITALIANA

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Agnese Palumbo disegna il tessuto narrativo di 101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato. Spiraliforme e musicale, sofisticata ma non arresa alla glaciale manipolazione letteraria, la pagina sostiene, con il filo conduttore del paesaggio, un rapporto a più livelli: leggendario, storico, cronachistico (e con un soffio di indulgente sorriso), adattandosi a modellarsi stilisticamente sui motivi del quadro dal quale assorbe – con qualche veicolazione lirica – umori, movenze, colori. Corre sommessa e mormorante un’oralità che compatta remote cadenze di intrigo e di spettacolo, profonde verità e variopinte ossessioni, secchezze lapidarie e cantilene e la suadente affabilità dell’apologo. Ne consegue una sinfonica orchestrazione di toni che investe la scrittura con inediti impasti lessicali e incroci di tensioni conoscitive in cui si riflettono vicende che vanno dalle mitiche origini della città («Che si trattasse di una sirena o di una principessa, Napoli nacque struggendosi d’amore») al Te Diegum in onore di Maradona, che è l’«incanto del profano», la scenografia di un sogno. In quest’archivio di favole e di estri, di esoterici riti e di fantasmi, di numi tutelari e cicatrici, di fasti imperiali e di furori, di poveri cristi e di ribelli, si affollano «in rassegna» i secoli iscrivendo i molti aspetti oscuri e gli inganni di questa città, «commediante» dalle due anime (il razionalismo illuminato e la devozione cieca), che si regge sul suo labirintico sottosuolo. È una «danza barocca» di immagini che consentono ad Agnese Palumbo di modellare il ritmo degli episodi di un’architettura semplice quanto scattante, che non intende ripetere stampi usurati, il facile conforto del folclore, bensì esplorare un tappeto di fatti esemplari, il loro rovescio, le zone in ombra, rendendo affascinanti, con la pressione di sempre nuove rivelazioni e un impeccabile taglio di sequenze, pure i silenzi più serrati, le reticenze, le serpentine del dubbio. Quando il primo piano si sfarina, subito un periferico drappello di notizie si fa avanti con la riserva delle sue comparse. E divengono eroi queste comparse, in un turbinio di gesti e di parole. Un ammaliante sfolgorio di ambienti e le crepe delle ingiurie della Storia (la cappella di S. Gennaro e le case in rovina colme di misteri; il grande teatro di Eduardo e il tempestoso nero dei castelli; il pino delle cartoline di Posillipo e i sarcofagi di teste coronate) sono gli indicatori di una rappresentazione che prende passi diversi da quella che racconta senza scosse le cose di un mondo: qui timbra drammaticamente la vita interiore di tanti personaggi, noti o anonimi, e le giravolte del passato, e segue uno spartito di voci e non deposita su una tavolozza solo grumi di sagome, strisce informi, tracce scomposte. Lo Stabat Mater di Pergolesi si congiunge con la nascita della canzone d’autore e con la metafora di Funiculì Funiculà; i graffiti di Pompei sottendono avventure

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GIUSEPPE AMOROSO

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da reinventare con la fantasia, così come via Toledo, con i gerani rossi dei balconi, sembra schiudere spazi di racconto. Non mancano le curiosità: il divieto cinquecentesco di baci in pubblico e l’«alchimia stonata» che si concentra sull’intesa di Masaniello con un anziano giurista; il divismo di una Greta Garbo del Seicento e la creazione di una «Giunta dei veleni» per combattere il dilagare di sostanze mortali per opera di donne; l’invenzione, dovuta a Virgilio, della pizza da asporto e l’incubo gotico di Frankenstein, nato a Chiaia; Leopardi «che mangia Napoli e ne è mangiato» e la regina Maria Sofia vittima del primo fotoritocco della Storia. E mentre il libro va chiudendosi, negli occhi del lettore restano i semafori che, per una settimana, nel dicembre del 2006, hanno lampeggiato solo nel giallo.

L’amore stregone di Alberto Bevilacqua Una famiglia «senza patria»: il padre Tommaso, un pianista che conosce la magia di trasmettere «un’idea-sangue della vita attraverso il suono»; la madre Marlene, «donna sconvolgente», che sembra avere a suo favore una «forza di gravità»; la figlia Sara, protagonista della storia, le cui «suggestioni» sono nella sua infanzia e adolescenza. E poi la musica che muove la sostanza dell’esistere, le cellule dell’universo. Con L’amore stregone Alberto Bevilacqua dà una gamma di versioni all’incantato mondo del suo racconto percuotendo una straordinaria ricchezza di atmosfere capaci di aprire spazio a più voci scandite dalla parola solida e straripante nelle sue forme effervescenti e tali da divenire strumento visivo di una rappresentazione. Ne consegue lo scenario ammaliante, franto in mille rimbalzi di stupori, espansione di onde magnetiche in cui l’elettricità e lo sgomento degli accostamenti di immagini, le sinestesie, le concatenazioni modulate invadono la tessitura espressiva per sequenze che, nell’avvolgente concerto di suoni e colori, acquistano conseguenziali declinazioni. Il paesaggio alterato di villa Kar, concepito come «contraddizione per un luogo di contraddizioni», è circondato da rocce che «combattono i sogni», si fa emblema misterioso della spiritualità di Sara, delle sue vicende e si rifrange in una varietà di quadri venati da quella bellezza che «giustifica pure un atto delittuoso pur di apparire quella, assoluta, che una bambina vede in sogno». E lì, dove anche una «lama maligna» può togliere il respiro, Sara imprigiona la sua esistenza, patisce le magie del luogo, il regno oscuro su cui domina il giardiniere Max, dalla maschera brutale, avverte presenze arcane attorno alla casa e si perde nell’animazione festosa e inquieta delle

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NARRATIVA

ITALIANA

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cose. Impara a distanziare i sentimenti e prova per la bellissima madre una «turbinosa passione», suscitando in tal modo l’invidia delle sgraziate zie e divenendo la «miniatura» della genitrice. Diverso è il rapporto con lo zio Samuel che «scioglie nella serenità anche le allusioni scomode». Nato «col silenzio nel sangue», ma euforico nei suoi racconti, protegge la nipote non solo dalle insidie di Max ma da tutto il male del mondo. «Ripescati dal passato», i quaderni di Sara offrono al narratore lo sviluppo della vicenda: la morte di Samuel, l’abbandono della villa, l’uscita della fanciulla dalle «nebbie della sua ingenuità», il soggiorno con il padre nella nuova casa romana, estranea, per una sorta di malessere aleggiante nell’aria. E poi ecco la madre che appare e dispare, «scheggia impazzita» della famiglia, e padre e figlia uniti da «piccoli miracoli», da un’intesa torbida e pura. In un clima struggente, fatto di vibrazioni, assenze, trasparenze, Bevilacqua ha l’occasione per indicare una campana che «si ribella per difendere la dignità di se stessa», persone che si muovono tra le ombre degli oggetti e un’astrazione che si fa persona. In questo romanzo in cui l’ambiguità è più forte di ogni gesto vero, una ragnatela di visioni, di fantasmi (e di una «fantasmagoria artificiale»), di genialità dei sensi rovescia la realtà e trasforma la narrazione nella lunga metafora di un viaggio allucinato di figure e di parole: coincidono i territori esterni e quelli di dentro; fatti e luoghi si allontanano e si avvicinano e precipitano nella mobilità luminosa che cede al destino dell’ombra. In una vita che non ha né ironia né allegria. Nell’«accecante bianco del nulla».

Metti il diavolo a ballare di Teresa De Sio L’ossessivo problema del male, del peccato e della morte, occupa le pagine del romanzo di esordio di Teresa De Sio, Metti il diavolo a ballare, con il flusso costante di occasioni e considerazioni drammatiche, talora così intense da apparire glaciali, quasi confinate in una lontananza metafisica. Più che il grido, è l’indifferenza graffiata sulle cose, stampata sull’impenetrabile luce di un paesaggio duro, monocorde, ancestrale, a insinuarsi nell’asprezza del racconto incidendo caratteri forti e sagome indecise, tra una sfuggente scia di azioni dirompenti e un’immobilità pietrosa, chiusa nel silenzio. Gli eventi che pur nella loro monolitica cupezza hanno mosse inattese ed enigmatiche, non si sradicano dalla piattaforma fitta di cose che, quando si muovono, «vanno via sempre peggio, sempre più scadendo»: in una natura che pulsa di un’animazione vischiosa, rigata di fermenti malefici. La narrazione procede sul binario di una vivida fantasia creativa la quale solleva il

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GIUSEPPE AMOROSO

pur denso realismo della registrazione mimetica indirizzandolo verso aspetti favolosi (spettacolarizzati pure da copiosi materiali folklorici), senza tuttavia sconvolgere le immagini ma puntando sulla folgorazione di tinte cupe, su risonanze di magie rurali e su una musica interna di visoni. Il paesaggio del Salento ha una fibrillazione antica che sale dagli archetipi di una cultura contadina tradotta in momenti figurativi, in una carrellata di presenze vistose. Dentro una cornice che non sembra avere fine, e che ingloba i contenuti del quadro, si dipana la storia di Archina, bambina morsa dalla tarantola, della sorella Filomena, esperta nel preparare l’«erba del diavolo», del padre Nunzio e di un coro che a ondate entra ed esce di scena in quel paese di Mangiamuso che diventa il centro del mondo, ma dentro un «tempo scollato». Siamo nel 1956, ma la cronologia disegna spazi ampi con la malinconica colonna sonora del passare degli anni destinati a spazzare via giovinezza e illusioni. In una «giostra lontana» passano visi sempre più trasfigurati e stanchi: Angelo Santo, ricco e violento, e le sue due sorelle, Canderola e Fatima, gemelle prive di ogni fascino, e chiuse al resto del mondo; Virginia, la parrucchiera convinta che «ognuno cerca nel suo piccolo e nel suo grande di rimanere a galla»; Don Filino, parroco troppo fiducioso «nell’immensa bontà di Dio, per potersi preoccupare seriamente del potere di Satana»; Narduccio, morto di veleno, e la moglie, la bella Marianna, dallo sguardo vago e seducente; il notaio Marra, che per amore falsifica un testamento; le donne tarantolate che «in preda a una specie di possessione» si abbandonano a un ballo furioso, e il gruppo dei suonatori («Il musicista è un ragno che tesse una tela di ferro. Dove c’è disordine, la musica porta disciplina») che si esibisce per liberare Archina dal maleficio. Violenti primi piani e sfumati orizzonti si uniscono in un alternarsi di composizione e scomposizione nel quale il «groviglio» dei pensieri degli uomini pare sciogliersi per riannodarsi inestricabile. Teresa De Sio racconta variando le prospettive, ma tenendo fermo un furore linguistico che sfiora il sontuoso, trovando le corde migliori nel fraseggio di una sorta di visionarietà plastica condotta a incontrarsi con il gusto saggistico del documento in cui si riversa un estro pittorico trasfigurante, fondato su parole come «frecce appuntite», scontate dal mistero.

L’isola dei miti di Giuseppe Quatriglio La Sicilia si sfoglia in tanti volti e luoghi e fatti che la pagina agile e corposa, plastica e sonante di Giuseppe Quatriglio raccoglie nell’arpeggiata luce di

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NARRATIVA

ITALIANA

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una ricognizione «in un patrimonio di verità popolari e di suggestioni che appartengono al nostro vivere, suscitano interrogativi, richiedono spesso la nostra attenzione». L’isola dei miti innesta, nel flusso principale di un processo illustrativo che si fa animato racconto, sempre nuovi fervori di immagini, evitando il pericolo della scansione saggistica e imprimendo al filo conduttore, scoccato dagli stupori della fantasia, una sorta di magnetico esercizio critico-visionario, in grado di sorvegliare lucidamente e di infiammare di prospettive la rotta verso la scoperta di un’isola-universo di figure reali e di fantasmi. Evocati dai leggendari estri di una terra antica che rinnova ogni volta la sua storia, sbocciano inattesi i personaggi: da Federico II, preso dai suoi interessi scientifici, a Cagliostro che, allontanandosi da un buio vicolo palermitano, attraversa da «trionfatore» mezza Europa; da Wagner, che nell’Hotel des Palmes termina la natura del Parsifal, a Carlo V che, nella città della Conca d’Oro, trascorre una «parentesi assai lieta e distensiva»; da Franca Florio, bellissima e ammirata da artisti e sovrani, a Crowley sacerdote dell’occulto spintosi fino a Cefalù per fondare una pittoresca colonia demoniaca. E mentre sembra di percepire l’eco delle melodie di Bellini, quasi un immacolato controcanto al correre della narrazione nei suoi miti di quadri ammiccanti, appaiono la casa di Verga, dall’impronta umbertina, e quelle di Pirandello, a Roma, ricche di cimeli, e di un piccolo teatro fra le mura domestiche. In questo libro, nel quale entrano anche alcuni riferimenti autobiografici (toccante il capitolo conclusivo dedicato all’amicizia con Sciascia, «eretico, anticonformista, scrittore di frontiera»), si avvicendano, fra luci radenti e nascondigli d’ombre, le liturgie della Belle Époque, le glorie automobilistiche della Targa Florio, i fasti del Teatro Massimo, i parchi, le ville liberty e i grandi alberghi, i «sonnacchiosi» borghi sparsi per le valli e i degradati quartieri popolari. E, ancora, il tenebroso scintillante fascino dell’Etna, i «diavoli» della Zisa, moltiplicati da un’illusione ottica e il leggendario nuotatore di Messina, Colpesce, che Croce fa morire nelle misteriose caverne di Castel dell’Ovo e Calvino inabissare con un pugno di lenticchie in mano. Con l’abilità mostrata nei suoi noti romanzi, Quatriglio sa trasferire indicatori topografici e culturali, costumi e voci di uomini stampati nei secoli, in apologhi e simboli e avventure che lasciano una scia. Sagome disperse e ritrovate, i visi passano in un’accecante onda di follia, uno schizzo di gridi e un cadere di gesti sullo sfondo.

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GIUSEPPE AMOROSO

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La ragazza di via Maqueda di Dacia Maraini Spesso il paesaggio, i luoghi della memoria, i referenti ancorati al tracciato dei giorni nascondono nelle loro pieghe l’andirivieni di figure dell’inconscio, rappresentando nodi psicologici di difficile decifrazione, che solo il soprassalto di una fulminea luce può rivelare. Il fondale sfocato o il visibile assedio del quotidiano si incontrano con le azioni degli uomini e come «quei fiori affamati di insetti che si aprono sulla terra tendendo i petali verso la luna», indicano qualcosa di ancora non definito, avanzano una domanda la cui risposta può dare una svolta alla vita. In La ragazza di via Maqueda Dacia Maraini seleziona i colori, le passioni, e i fantasmi di una «geografia» della narrazione che segue la «strada dei suoi passi», dalla Sicilia a Roma e all’Abruzzo. Attraverso tre gruppi di racconti compare un mondo che si riconosce nelle sue vaste forme colme di accenti marcati e nei numerosi volti riscoperti in una contagiosa atmosfera di dolcezze negate, di sogni che se ne vanno. Si sfogliano universi che non esitano a manifestare, pur nell’esattezza delle linee, un che di magico, portentoso, dal momento che l’autrice intende rappresentare il mondo muovendosi da un’ottica interiore allertata al fine di investirlo di un’intensa attività misteriosa, di una dinamica spirituale arroventata. E più gli scenari sono distanti nel tempo (pensiamo ai testi di ambientazione siciliana), più finiscono per produrre un diffuso senso di inquietudine. Non v’è nulla di posticcio, la natura è una sfera di segreti, tentata in ogni riquadro, in ogni segmento, dalla musica delle emozioni che dà alla scrittura i mezzi idonei a ridurre le superfici più scenografiche a un livello di sospensione simbolica, potenziando così, anche mediante variazioni tonali, convincenti modulazioni romanzesche. Tese a cantare le sensazioni più impercettibili, le abili tecniche del ritratto concorrono a spostare le fisionomie dei personaggi oltre i margini dei loro consueti spazi e a farle ondeggiare in angolature irreali, eccentriche: Sarina, nell’imminenza della cerimonia di nozze, si chiude nella sua stanza, cantando una canzone di bambina e resistendo all’invocazione disperata della madre che sembra arrivare da «spazi lontanissimi»; la ragazzina nera, addossata a un muro, ha un «piccolo corpo compatto e radioso», che pare nascondere una «lampada sotto la pelle»; una bambina, dopo la morte del padre in guerra, si estrania tanto da «rovesciare il tempo»; una cliente, mentre paga il conto di un libro, «sa che un falco dovrebbe annidarsi tra le ciglia e tenere sotto tiro le mani della cassiera»; l’autobiografica scrittrice, rispondendo in una scuola alle domande di uno studente, «vede con apprensione che dalle sue spalle spuntano due lunghe ali bianche»; un uomo

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NARRATIVA

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anziano ha l’impressione che la sua scarpa, mentre pesta la cicca del sigaro, «gli rivolga la parola ridacchiando»; una famosa cantante solca a grandi passi il palcoscenico «come fosse una giungla di cui è regina e padrona»; un vecchio pastore ha «qualcosa di vasto e profondo, come un pensiero di cui non vedi il fondo». Tutto corre in una straordinaria successione di ambienti: dal mare di Palermo e dalle ville di Bagheria a claustrofobici monasteri; da un terrazzo, sulle cui mattonelle scheggiate Pasolini «vaga pensoso», a una Timbuctù «completamente mangiata dalla sabbia» e ad una missione nel cuore dell’Africa, dove un Monsignore parla di calcio ed esibisce agli ospiti un esoso conto; da tombe sannite, che racchiudono «ossa scarnificate», alle tenebrose selve di un Abruzzo sconvolto dai terremoti e allo scomparso lago di Avezzano. È palese una manovra narrativa di grande intensità linguistica che intende avvalersi pure delle risorse segrete dei luoghi attraverso il loro moto pendolare, fra un impiego prospettico e improvvise conversioni verso epicentri soffusi di sortilegio. La scrittura partecipa di queste mobilità suggestive utilizzando strutture sintattiche allungate e secche contrazioni, un lessico scandito su voci aperte, sventagliate nelle loro risonanze, e quello incagliato in una sofferta scacchiera di note autobiografiche.

Il peso della farfalla di Erri De Luca Violento e breve il duello tra due camosci sotto un «magnifico cielo di novembre» e su un campo cosparso di zolle di neve fresca. Il vincitore è un giovane maschio solitario che subito diviene re del branco. Ma anche per lui inevitabilmente giunge l’«ultima stagione di supremazia» sui suoi simili, «artisti da circo per la platea delle montagne». Sono questi i primi spunti di Il peso della farfalla, lungo racconto intriso di un’aria di dolente favola, la cui esile trama è sfogliata da una raffinata ottica narrativa che ne sospende ogni minimo attrito e distribuisce tutto senza fiamme e senza scosse negli scatti brevi degli accadimenti. Pur indulgendo a qualche sottolineatura, a una fugace conversione del piccolo evento in una condizione più pensosa e duratura e a un giudizio memorabile, Erri De Luca sceglie di distanziare la materia, optando per una valutazione vagamente cronachistica, come di chi sta di fronte a un universo magico rimanendo consapevole però di doverlo riportare in termini di registrazione critica. È lecito pensare che questo racconto (i cui protagonisti sono una creatura del mondo animale e un irriducibile cacciatore di frodo) possa trascinarsi

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nell’astratto e nella calligrafia dell’aneddoto. Ma ciò non avviene: l’autore mantiene un perfetto equilibrio narrativo, adottando una funzionante visualizzazione di quel suo universo di boschi e di montagne, di voli di aquile rapaci e di «ali nere di corvi», di sentieri e precipizi, torrenti e pozze. E i fatti scorrono con regolarità, consegnati ai fotogrammi di una pellicola in bianco e nero. Assente l’eccezionalità di contrasti che bruciano di colori le visioni. Forse è da cogliere, in quest’aerea rappresentazione di due solitudini (quella del camoscio che, giunto il suo tempo, si fa uccidere, e quella del cacciatore, dalla vita vuota e senza affetti, che si accorge che la sua più aspettata vittoria è «gemella uguale di una sconfitta mai conosciuta prima»): una composta accettazione delle cose, la serena consapevolezza delle leggi del creato per le quali anche un’impalpabile farfalla può far rotolare nel buio il carico degli anni. Pure il secondo testo del volume (che parla della scalata del narratore verso la cima di un monte per far «visita» a un albero sospeso sul vuoto, «uno degli alberi eroi») conferma il felice mixer della linea descrittiva con l’approfondimento psicologico. De Luca, in questo dittico, punta sulle angolature, le rifrangenze, i contorni sfumati: in qualche modo è chiamata all’appello una controllata deviazione che rende strutturale un ritmo narrativo ridotto all’essenzialità. Ogni elemento però cerca di amplificarte la propria misura, interroga il simbolo, si apre a spazi impensati attraverso una molecolare aderenza agli ambienti. Il riparo di pietra del cacciatore, il villaggio e il «traffico di persone» all’osteria e perfino la presenza di una giornalista moderano l’atmosfera metafisica delle grandi vette e di quel cielo che è «un ghiaione di sassi illuminati». Limpida nel suo drappeggio d’ombre, plastica nel concavo flettersi degli spigoli, la scrittura pone sullo stesso piano il prosatore e l’inventore di storie, generando un passo stilistico che va dall’eleganza formale a incisivi puntelli sentenziosi, definitori e a rinvii di informazioni che si rincorrono sino a ridursi a echi, scendendo e salendo fra passato e presente. Membrature sintattiche ridotte si dispongono in un registro di appena accennati spunti melodici e di frasi dalla trasognata percussione dei ricordi.

Pianoforte vendesi di Andrea Vitali Siamo nel 1966, la sera dei Re Magi, in una Bellano dall’atmosfera «vibrante», di colori magici e riflessa in un cielo nuvoloso, punteggiato da una sola stella. In treno, giunge da Sondrio il Pianista, naso a becco e capelli lunghi, così chiamato per le sue mani affusolate. E mentre strade e vicoli

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gli si spalancano davanti, ecco, attaccato a un portone mezzo aperto, un cartello su cui è scritto «Pianoforte vendesi». Intanto si fa notte, comincia a nevicare e la gente si chiude in casa. Come spinto da un irrefrenabile invito, il ladro varca la soglia di quella casa che, sommersa nell’oscurità, subito riserva una sorpresa. Avvolta da un profumo dolciastro, una vecchia comare è nel riquadro di una porta che si apre improvvisa. La donna, «truccata di cipria», incomincia a parlare nell’assenza totale di rumori. Racconta di sé, un tempo bella e «leggera come un sogno», corteggiatissima ma innamorata solo della musica, onda che penetra in ogni angolo dell’esistenza e della natura. L’interlocutore ascolta sbigottito e si sente come «nella tela di un ragno». Ha il sapore di un incubo quello in cui resta coinvolto il personaggio principale di Pianoforte vendesi, romanzo breve, intrigante e chiaroscurale, che Andrea Vitali costruisce tra ironia e stupore, realismo e suggestione goticheggiante, con un’implacabile fermezza di linguaggio che squadra le persone in modo così netto da creare, proprio con la limpidità formale, un senso di smarrimento, di allarme, uno stato di allucinazione. Ritagliate da una sintassi lineare, le immagini rilasciano qualche tratto della loro solida consistenza nel clima che si fa di colpo irreale, nel batticuore di una «trappola» e nel gelo di un vuoto che cancella il paesaggio nella sua interezza, conservandone solo dettagli passeggeri e lancinanti. Metallicamente ostili, queste immagini entrano in una fissità metafisica che attribuisce loro un che di sfingeo e sulfureo. Sulle scene cala un mistero impalpabile; il Pianista, spinto da una forza sconosciuta, suona, lui, che non ha mai tenuto uno spartito in mano, mazurke, valzerini. E scende in una notte senza fine là dove il vero e il falso si confondono. Quelle schegge di paesaggio che galleggiano sulla diffusa, ovattata malinconia degli ambienti, si specchiano nella loro intangibilità fantastica, sono un’inquietante, vitrea forma di sospensione che non aziona i meccanismi degli episodi e perciò accresce la solitudine, un’idea di innaturale assenza di vita. Sembra che qualcosa di tenebroso debba succedere anche dove abitano sorriso e quotidianità, e che gli elementi del contesto, posti in posizione strategica e anche volutamente collegati per creare un rebus, suscitino, come investiti da un sortilegio, un intreccio parallelo a quello che concretamente si svolge lungo le strade di Bellano. In quel palcoscenico di provincia nel quale incontriamo due anziani coniugi che chiamano le forze dell’ordine perché disturbati dal suono del pianoforte; un calzolaio che si ubriaca solo durante la festa dei Re Magi e che ha le visioni, e la moglie con la «faccia da civetta»; un maresciallo e un brigadiere dei carabinieri, e le poche «ombre spaesate» in giro nell’oscurità.

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Controfigura di Luigi Fontanella Il progetto di un romanzo vergato su un taccuino dimenticato nel tempo e di cui restano solo poche pagine, scritte con una stilografica a inchiostro azzurro, a distanza di molti anni genera nell’autore una «mobilitazione psichica» facendo riemergere «cose buone e sbagliate» della giovinezza . Da un «diffuso stato di allarme», nasce il tentativo di ricostruire il percorso di quella remota storia. E sarà una «giusta distanza emotiva» a proteggere il racconto che sta per nascere dall’insidia della nostalgia. Controfigura di Luigi Fontanella stempera i dati, gli ambienti e le passioni in un paesaggio romano topograficamente ben individuato mai sul punto di farsi decorazione: capace, invece, di assumere un ritmo di notevole compattezza, di plastica essenzialità. Si organizza, secondo un confronto tra l’io narrante e gli abbozzi («uno sviluppo forse si potrebbe cominciare con il protagonista che dorme... questa, l’esitante indicazione iniziale del mio progettato romanzo che cominciava proprio seguendo questo suggerimento. Riporto di seguito quanto ebbi a scrivere»), uno sviluppo organico che chiama in causa le psicologie, l’incombere di un destino. L’ascolto differito di schemi e stimoli conduce alla costruzione di una sorta di sospeso segreto, di qualcosa che sembra volersi nuovamente sottrarre a un inafferrabile senso di perdita. Ma è tuttavia lì, nel contesto, nei volti, nelle cose. Un raccontare che è un «naturale proseguimento del (...) dormiveglia dell’autore»: uno stato ipnotico in una dimensione assoluta, priva di ancoraggi cronologici, in una luce bianca che fa filtrare le immagini attraverso una «rappresentazione pura», non lineare, ma fatta di tanti momenti «intrecciati tra loro». Un racconto per ellissi che non vuole però sottomettere le descrizioni a un panorama alluso, ma riprende anche gli allacciamenti meno esposti con tutte le presenze lasciate negli spazi collaterali. Guardato dalla «controfigura» del narratore, Lucio, il protagonista, è professore universitario negli Stati Uniti, e periodicamente di ritorno a Roma, dà inizio al suo vagabondaggio per la città che si colma di ricordi, sfumature, corrispondenze di colori e voci, stagioni in assetto di fuga, piccoli romanzi che nascono pure da una «stampigliatura scialba». Tra «divagazioni e associazioni di pensieri» i fatti sembrano frutti di «simultaneità e casualità», di leggi arcane: sbucano dal passato gli anni del liceo, i professori, gli amici, volti che tornano sfigurati dagli anni, altri che ormai sono solo nomi e poi i luoghi e gli amori. Ma sono cose che appartengono a un mondo scomparso e svaniscono del tutto lasciando in Lucio l’impressione di essere un «sosia ringiovanito al quale dare istruzioni». Fontanella richiama

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questa confusa atmosfera di vita riflessa in cui oggetti e figure si sperdono in aloni. Gli eventi più marcati si mutano in spazi spirituali e sfondi nebulosi, modificano le proporzioni in piazze evanescenti, mentre si creano misteriosamente infiniti silenzi di tempesta. La narrazione procede fra continui stacchi temporali che aiutano a tener desta la tensione recuperando pure quei frantumi di azioni che la corsa dei ricordi travolge e abbandona.

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La tempesta. Il mistero di Giorgione di Paolo Maurensig Vuol «portare alla luce immagini dal profondo» lo scrittore di un certo successo che giunge a Venezia nei primi di questo secolo per scrivere la sceneggiatura di un film tratto dal noto racconto di Henry James, Il carteggio Aspern. Dietro le quinte della città, il protagonista di La tempesta. Il mistero di Giorgione di Paolo Maurensig, mentre vede sfilare lo spettacolo di una smorzata, sconosciuta vita, ha l’impressione che «i muri, le pietre, le figure senza volto, immobili in controluce sui pontili» vogliano parlargli, indicargli la «giusta direzione». L’incontro con Olimpia, affascinante pittrice, abile nell’imitare e nel restaurare, apre impensabili scenari. La donna, in possesso di alcuni manoscritti del grande scrittore americano, che si riferiscono al Giorgione e soprattutto al suo dipinto più misterioso, prende alloggio nel vetusto palazzo in cui il maestro del Cinquecento aveva il suo laboratorio. Ha inizio una sibillina vicenda nella quale il presente ripercorre i luoghi di un passato che «sembra trapelare come uno spiraglio di luce da sotto un uscio chiuso». Incantati sfondi lagunari spandono mezze tinte ma anche sprigionano acquerelli ariosi, immagini rapide trascoloranti che si contaminano a vicenda risolvendosi in visioni dagli ambigui incastri imperfetti, rigati di brividi e inusitate traiettorie. Il paesaggio, instabile, oscilla, si avvicina concreto, si allontana da chi lo attraversa e lo rende al tempo stesso smarrito e attuale e rimodellato dalle tante provocazioni della letteratura e della vita. Forse, presta troppo di sé a ciò che lo circonda questo personaggio narratore che vive con l’immaginazione, la consonanza allarmata con le cose, l’«apprensione» per la difficoltà degli eventi e il problema del «rapporto tra l’opera d’arte e l’osservatore», tra i simboli e la nuda realtà. Una tinta d’occaso permette all’io che racconta di costruire storie sfumate anche là dove i due piani del romanzo tendono ad assestarsi su binari più quotidiani. Corre, questa tinta più dimidiata, sulle scene, inquina i colori, soffoca gli slanci, le voci, ma anche pare caricarli di una malinconia effervescente di sconosciuta vitalità. E gli uomini escono dalle loro solitudini

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(si pensi al vecchio professore di storia dell’arte, «imponente bianca crinita figura») per poi ricadere nelle proprie ombre e talora raggelarsi nelle pieghe saggistiche di una pagina in cui, peraltro, i contrasti psicologici e quelli tra i vari livelli stilistici superano le simmetrie e le ripetizioni strutturali più guidate dai canoni della tradizione, non placandosi, bensì lasciandosi coinvolgere da una rete di dettagli e impulsi narrativi che l’autore cuce su un tessuto comune. Portando al massimo regime le più serrate risorse metanarrative Maurensig collega una trama romanzesca con un’«ossessione legata a un dipinto antico», mentre la realtà lascia tutto ad un tratto trasparire una qual debolezza, «una tendenza a uniformarsi al [...] pensiero, come se di quest’ultimo fosse una mera proiezione». La natura sembra «trattenere il respiro», il mondo visibile e quello di dentro sono tracce di strade segnate. Il messaggio più vero arriva al narratore da una voce che ha varcato un silenzio di cinque secoli affidando alla scrittura il compito di perpetuare la sorte degli uomini.

I dialoghi degli amanti di Francesco Alberoni Quando il saggio si scioglie agile nel racconto delle proprie figure celate fra le reti del ragionamento, delle tesi; quando le tematiche più fertili di sollecitazioni riescono a leggere misure narrative articolate, oscillanti fra dialoghi e descrizioni di eventi, confessioni e contesti storici, ecco la pagina aprirsi come un album sfogliato dal desiderio di osservare le idee in forma di immagini, di trattenerle in un sospeso gioco di riflessi e di leggerle nel didascalico specchio di un contrappunto acceso di rimandi. Con I dialoghi degli amanti Francesco Alberoni inietta nella rappresentazione del suo discorso sull’amore (in un intrecciato parlare di corpi e di fantasie) una sotterranea e persistente eco di scuole letterarie del secondo Novecento e, in particolare, della Scuola dello sguardo, senza tuttavia premere il tasto dell’assoluta imparzialità, ma puntando sulle caratteristiche di quei personaggi sui quali aleggia la poetica calviniana del «mare dell’oggettività», indicata per altri scrittori da qualche critico: ma qui indirizzata a trasformare le figure, intese come «poco più di un muro di nebbia attorno a un nome», in persone concrete in carne e ossa, animate di sogni e di passioni. Così i due protagonisti, Sakùntela e Rogan, si interrogano a vicenda dialogando sulla propria educazione sessuale, sui luoghi di origine, sulle esperienze che chiamano in campo una folla di volti rapidi ma dai tratti decisi. Rogan «scopre in ciascuna donna qualcosa di affascinante»; Sakùntela racconta le sue storie anche per capire se stessa. Entrambi sono legati da un amore totaliz-

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zante. E allora il mondo claustrofobico delle ossessioni, delle paure, dei dubbi si anima come la scena di un film: passano spezzoni di avventure, «dettagli imbarazzanti», esaltazioni e follie, sfondi di corruzione politica e morale, il dorato e velenoso universo dei casinò e momenti di «scoperte di sole e di mare», il piacere del cielo stellato e angosce e tormenti e ombre del passato. Impareggiabile nell’intercettare l’«uragano di cose» che gli innamorati si scambiano, Alberoni racconta di «due esploratori che esplorano il proprio corpo, la propria anima», per riconsegnare questa conoscenza a tutti, per combattere l’aridità, la disumanizzazione del nostro tempo. La prosa fluida fa scivolare le sequenze dei dialoghi in un corso naturale che serve a custodirle senza alcun attrito, nonostante il denso dibattito dei pensieri, e che asseconda lo stabilizzarsi delle microazioni, delle schegge di paesaggio e delle infinite sfumature del piacere erotico. Si accendono spettacolari vibrazioni di visioni che l’autore fa transitare in modo elastico, discorsivo e colto, ottenendo, pur nel tumulto di un copione drammatizzato, spazi sintetici che raccolgono gli anni impiegati per capire un amore. Il romanzo assume ben presto una linea unitaria; i singoli episodi hanno tutti la stessa intonazione, anche se qualcuno si avvita intorno a un nodo scientifico di cui è però agevole scorgere l’esito, per qualche verso, anche visionario. La progettualità si esalta sempre in un inno alla bellezza della vita, alla gioia che imporpora il linguaggio, lo rende dolce e pungente, cristallino e ardente, nella concava voce degli amanti.

Pane e tempesta di Stefano Benni Al risveglio nella sua stanza il Nonno Stregone vuole la prova certa di essere ancor vivo nel solito mondo. Siamo a Montelfo, paese dal clima «avvelenato», dove i fantasmi «appena svegliati escono dalle crepe dei muri del castello diruto». Un’atmosfera stravolta, frastagliata nei piccoli rumori delle cose, avvolge figure perse in una favola, sagome vaganti in un fruscio di dettagli animati che chiudono nel medesimo sortilegio tutti gli elementi di uno stordito paesaggio arcano. L’illuminazione discreta e fioca, ma come prodotta da una fonte pericolosa e inquieta, degli sfondi di Pane e tempesta di Stefano Benni accarezza piccoli episodi sospesi, microavventure di sfigurati eroi dell’impossibile (si pensi agli «intrepidi periferici di Elianto), epicentri di un circolare ritmo che chiama e disperde le azioni intorno a un irreale Bar Sport. Un’indelebile vernice di sorriso permette all’autore di definire storie misteriose, fantastiche, anche dove esse tendono ad assecondare umori quo-

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tidiani. Questo colore antico di sapienza e di gioco letterario si posa sul presente e sui ricordi, dischiude un ampio arco di motivi, li dissemina su vari registri, dall’elegia sottile all’epica domestica, dalla commedia all’assemblaggio picaresco, all’analisi di costume, in un caustico linguaggio metaforico. Come uscendo da un sogno ma carichi del peso del reale compaiono gli adolescenti Alice, amante della natura, e Piombino, che parla con gli gnomi; Gianco, sempre vestito di nero e suor Priscilla con il suo album di seimila santini; Curnacia, il menagramo e il leggendario Ispido, detto Manidoro; Tramutone, grosso e gioviale, e l’oste Trincone; il pastore Tore, che scopre il web, e Ciccio Misero, fanciullo grasso e trasandato. E poi il Pulcino Killer e civette, gufi «amplificati dal microfono», e due cuochi memorabili, nani pelati ed elfi «gioielloni» e le «femmine del bar»: nel funambolico intrico dell’affanno e nel mattino di «un giorno futuro», mentre i rumori cessano e il bosco si pietrifica in un silenzio immobile. Immaginifico, il racconto rappresenta l’assoluto gelo della solitudine in un risonante universo apocalittico e il corposo colore del coro, il disorientamento di creature prive di ancoraggio e perse in una tempestosa follia, di scene portentose e anche stilizzate nella loro deformazione sulla quale soffia il respiro di un creato vigile e malizioso. Scene che sfidano la logica e le chiedono sotterranei consensi (come, per esempio, nel Bar sotto il mare e in Margherita Dolcevita) per dare forza ai meccanismi dell’equivoco sotto cui cadono i confini tra eventi centrali e periferici e si intravedono i segnali di profonde verità.

Aaa! di Aldo Busi «Punta di diamante» di un’alta gerarchia ecclesiastica, «porporina della Chiesa travestita in grisaglia borghese», capace di dare l’«identità al Tempo», il protagonista del primo dei tre racconti riuniti da Aldo Busi in Aaa!, detto il Casto, è uno che ama vivere in superficie, rivela gli immensi guasti della società italiana del dopoguerra e rimbalza da un anfratto all’altro delle problematiche più scottanti. «Grigio» uomo di potere, vuole trovare in una mostra di fotografie di Giacomelli qualche immagine del proprio passato. Messa in moto, la memoria scava in un ieri caotico e allarmato, rintraccia volti, luoghi in un piccolo e franto tracciato autobiografico che apre, nell’ordito spesso saggistico e polemico, efficaci spazi narrativi. La scrittura sinusoidale e barocca oscilla tra la sciolta distensione evocativa e certe rocciose impennate d’enfasi, con il concorso di un eloquente contrappunto stilistico che fa viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda motivi

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ora aspri, ora intimistici, ora smorzati, ora parodici e grotteschi. Un plurilinguismo ben armonizzato è in grado di accordare al superiore tono della narrazione la molteplicità dei temi, la confessione più ossessiva ed esposta e i tanti fatti che accadono sotto «un cielo sconosciuto». La rivisitazione del passato scivola tra nostalgia e sorriso, vocalizzi e sonorità dissonanti e cronaca alterata di microeventi e trasgressioni visionarie. Ma il racconto si anima soprattutto con le «segrete schermaglie» che il Casto ingaggia con un alter ego, l’Innominabile, scrittore dalla «lingua lunga da qui a Voltaire», pronto a dissacrare tutto e a «rubare l’anima alle persone». Nel secondo testo l’io narrante, di «allegra gentilezza» e «rispettoso distacco», parla di un tale D, immigrato che si prostituisce in ogni luogo. «Sprovveduto che si butta via di giorno in giorno», riesce a trarre dalla sua esistenza «brava e snervata» un gesto di grande sensibilità. Una domanda di assunzione, inoltrata a Carla Bruni Sarkozy, per metterle a disposizione l’«intelligenza più brillante e più civile» d’Italia, consente infine a Busi di parlare ampiamente di sé, «sofisticamente paesano» e privo di diplomazia. Una lettera arguta, brillante, che il «Richelieu da passeggio» non spedirà mai. Invasa da una selva di impulsi, la pagina sfrutta ogni fatto, anche infinitesimale, come se fosse un’esplosiva invenzione. Ne discende un’evidente valorizzazione di ogni elemento tesa a conseguire una cifra in più di espressività, senza impiegare le risorse della deformazione e del deragliamento del senso.

Il giudice meschino di Mimmo Gangemi Dopo tanti anni di reclusione, scontati per una serie di omicidi, don Mico Rota, temuto capo della ‘ndrangheta, desidera uscire dal carcere e finire i suoi giorni, «moribondo» a detta delle certificazioni mediche, nell’aria libera della sua terra, sotto un «cielo intero». Ma intanto dalla sua cella dà ordini e, insieme, non «fa conoscere a nessuno il suo pensiero prima cha non sia maturo il tempo». Per contro, irriducibile nel combattere la malavita, il magistrato Giorgio Maremmi sente in sé crescere l’odio verso quell’ambiente in cui lavora e nel quale vede germinare a dismisura la violenza. Verrà ucciso. La sua morte colpisce profondamente il collega Alberto Lenzi il quale, giocatore e immiserito in pratiche di niente, si impegna con ogni forza nell’indagine. Chiusi nella misura di un ritratto tagliente si delineano i molti personaggi dell’avvincente romanzo di Mimmo Gangemi, Il giudice meschino, in cui drammi, passioni, traffici illegali sono rappresentati nel rumore sordo delle

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azioni, nell’essenziale movimento scenico dei dialoghi e nel taglio asciutto e scattante di una regia cha dispone anche gli episodi più eccentrici o carichi di pathos nel nitido registro di un’ottica asettica. Ma non si dileguano certe indulgenze verso un’accerchiante analisi psicologica e un rallentato scrutinio di dettagli. Una prosa comunicativa, in cui l’apporto del parlato popolare passa attraverso calligrafici filtri, è guidata dall’abilità dell’autore di stabilizzare uno sguardo sereno e critico sulle cose, un distacco che consente il giusto rapporto con i personaggi e le loro storie, riducendo commenti e interventi dall’esterno e protratti tratteggi del costume e del colore locali. Non si apre spazio per le impressioni inquiete, sobillate da riflessi di ombrose malinconie. A volte si fa strada un assetto contenuto di segni, che, pur nella sua scheletricità, rende appieno figure complesse di una realtà contrastata, divisa tra l’aurorale bellezza di passaggi incontaminati e le devastazioni dell’uomo. In questa realtà le parabole di don Mico, il graffio del simbolo, i segreti celati dietro le apparenze, le ambiguità che coprono i gesti e le parole possono essere letti come un punto da cui si snodano gli eventi. E allora, alcune riprese un po’ meccaniche, ma strategiche nel groviglio delle trame, si riversano in sequenze agili, in flash avventati sui ricordi, in scene corali di fatica quotidiana, in un reticolo di similitudini spiazzanti. E pure nel silenzio che attende l’agguato della morte. E nel finale che vede don Mico ancora in grado di «dirigere la matassa».

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Narrativa italiana 2010

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Leggero il passo sui tatami di Antonietta Pastore Immersa nell’«arcana dimensione pittorica» del Giappone, l’autobiografica narratrice di Leggero il passo sui tatami di Antonietta Pastore avverte l’atmosfera magica diffusa dagli ideogrammi sul paesaggio. Una «sospensione nel tempo» avvolge i vagabondaggi della giovane occidentale per luoghi sconosciuti intorno a Osaka, dove ha preso dimora con il marito. Sono giri orientati da una cartina delle ferrovie alle cui indicazioni si aggrappa «come un naufrago al salvagente». Ma il furto della cartina darà alle cose un «volto malefico», un senso di sgomento. È il primo avviso di quell’aria di fascinazione e di spaesamento che aleggia su queste pagine nelle quali una scrittura leggera e una struttura lineare si armonizzano rendendo agevole la volontà di creare sempre nuovi motivi, sfondi, situazioni, costumi mantenuti uniti dall’osservazione curiosa e attenta di forme consolidate. Qualche volta il paesaggio, pur nella rotazione della luce, vira verso una scenografia un po’ convenzionale in cui le azioni, ritagliate in spazi brevi, scorrono abolendo l’obliquità delle riprese e rendendo stilizzato il corso narrativo. Qualcosa di eccessivamente cronachistico fa rifluire un sovraccarico di dettagli in un descrittivismo minuto che tuttavia adegua l’esterno allo spessore psicologico della narratrice e di continuo protrae l’attesa con l’introduzione di diversi elementi. Alcuni dei quali, non determinanti, creano una sorta di apparato didascalico. Ne consegue un andamento di racconto nel quale si susseguono episodi tracciati in un gioco di corrispondenze e di contrapposizioni: da un lato, gesti di cortesia, parole soffici e smorzate, maniere gentili e rarefatte, le ovattate abitudini secolari della civiltà del Giappone; dall’altro, il formalismo, la meccanicità delle abitudini, le impeccabili facciate che coprono sentimenti di persone «chiuse in un bozzolo di buone maniere». Talora emerge un mondo un po’ bloccato, rigido nelle sue componenti essenziali che, però, si sollevano in molte storie brillanti o macabre: dalla promiscua coesistenza in un albergo alle difficoltà incontrate per uscire da un parcheggio; dal ritratto di un professore timido all’uso di ciabatte imposto ai conferenzieri per non rigare il legno del palco; da una fila di vecchiette in kimono che praticano in un bosco sedute spiritiche al fantasma di una donna uccisa che compare in un tunnel. Così la giornaliera concretezza ha i suoi risvolti di incessante scoperta e si va al di là del contingente in una zona ambigua, vibrante, non automatica. Vi dominano rovelli e disagi e anche qualche verità cercata, discussa

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e sempre oltre il limite del tracciato principale, come pronta a indicare un altro percorso.

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Acciaio di Silvia Avallone Sotto il sole di giugno, il mare e i muri dei casermoni che si affacciano sulla spiaggia di Piombino sembrano la vita e la morte che si urlano contro. L’adolescente Francesca nuota spensierata, il padre Enrico, «gigantesco, con la canotta fradicia», la spia dal balcone di casa con il binocolo. Un altro uomo, Arturo, al piano di sopra, si sporge dalla ringhiera e guarda verso la spiaggia, dove v’è anche la figliola Anna, amica di Francesca. All’interno, la moglie Sandra si lamenta della precaria situazione economica. Di fronte riluce il «paradosso impossibile» dell’isola d’Elba. Per le due ragazze il mondo deve ancora venire. Intorno, la provincia operaia, le fabbriche che «assediano il cielo», i cortili desolati che d’estate assomigliano al deserto, le travi e i pilastri e un «silenzio di fantasmi» e le frenesie del vivere, la legge del più forte, la miseria. A imporre il ritmo di Acciaio, romanzo d’esordio di Silvia Avallone, non è il flusso inarrestabile delle molte vicende, ma sono i flash improvvisi, le digressioni sul paesaggio calcinato di luce, l’esultanza repentina di immagini desuete, confitte in una plastica immobilità e deviate da un senso di spaesamento, la libertà di una «luce bianca» che investe ogni angolo traendone schizzi di esistenze sepolte. Si ha l’impressione di avere di fronte un piccolo universo conosciuto in superficie, una scheggia di margine rilanciata dalla letteratura; ma di colpo il muoversi di un particolare inedito, il cambio di una scena, l’irruzione di una voce o di un volto nuovi e anche il «rumore basso e costante» della fonderia riescono a far mutare l’asse delle azioni e a dare all’intero contesto un aspetto diverso, un carico di attese che l’immediata percezione non lascia sospettare. E i fatti semplici, ora dolci ora violenti, si ripetono con le loro incognite «sull’orlo di qualcosa, che non ha nome». Francesca e Anna a poco a poco scoprono la vita e fra loro qualcosa comincia a «disfarsi», mentre vivono la stessa storia ogni giorno; nel perenne viavai «dal mare alle cabine, dalle cabine al mare. Sotto la doccia, dietro il bar. E poi di nuovo in acqua. Un su e giù costante, Anna e Francesca davanti e i maschi dietro». Nei giorni che passano sfilano le tante cose perdute che forse non sono perdute per sempre. In una catena «illimitata e indifferente» si infittiscono i personaggi, il sole irradia i suoi raggi attraverso la città che lavora, piove sui capannoni, le ciminiere, i metalli senza interruzione.

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NARRATIVA

ITALIANA

2010

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Piombino diventa «una città per morti» e l’amicizia tra le due ragazze si trasforma in una «cosa inesplosa», mentre scende l’inverno mostrando ovunque i «cadaveri delle cose» e s’apre una nuova primavera e altra luce «piove sopra e crea argento». In quella città di «duemila corpi pulsanti a ritmo di impianti» tutto rimane identico. Anche l’Elba sullo sfondo, dove «di sicuro [...] c’è una piazza con la chiesa, il campanile e tutto il resto». Su un realismo screziato di chiaroscuri si posa un velo di pensosità che lo distrae da ogni ordine schematico e lo spinge verso una forma di incisiva caratterizzazione e fioriture inedite di immagini. Esplorando la psicologia di due adolescenti che usano la loro straordinaria bellezza come un’arma contro gli altri, Silvia Avallone compie un’analisi serrata per emblematizzare la naturalezza ma anche il sottile veleno di una stagione irripetibile della vita. Forse il pericolo corso dalla pagina è una scollatura più del dovuto dalla cronaca diretta di storie povere e sognanti.

Come imparare a essere niente di Alessandro Banda Un anonimo contabile di provincia, che usa accogliere «come una benedizione l’irrompere di parole provenienti dall’aldilà», apre il nuovo romanzo di Alessandro Banda, Come imparare a essere niente. Medium abituato a confrontarsi con defunti «imperiosi e poco delicati», di cui mistifica le voci, negli ultimi tempi si imbatte, quasi in modo ossessivo, in tre illustri personaggi, tanto noti da aver perduto, presso gli altri, la connotazione dei propri nomi. Voci «scorporate che non amano la precisione topografica», parlano, anche dialogando fra loro, da un oltre indistinto. Icone di un secolo «maledetto» (il Presidente dallo sguardo mite e dal «ciuffo bianco che spunta tra i capelli grigi»; la Principessa dai rinomati occhi di un blu fondo e misterioso; il Poeta dalla faccia angolare e di «giovane invecchiato o vecchio giovanotto», che brucia la sua esistenza per arrivare al «nulla lucente») narrano le loro storie da una dimensione che ha un senso diverso rispetto a quella della realtà e sciolgono nelle confessioni una sorta di velata nostalgia per la terra: dal desiderio di libertà e di mare, nutrito dal Presidente durante i giorni della prigionia in una microscopica stanzetta che si identifica con gli «spazi infiniti del cosmo», al gusto della Principessa per le cose semplici, come le trame della soap opera, e alla memoria, da parte del Poeta, dei luoghi natali di rara bellezza, un «piccolo compendio dell’universo» destinato a lasciare il posto alla metropoli «formicante d’incubi». Affiorano autoritratti impietosi, in bilico tra verità e deformazione, in cui le illusioni creano e cancellano una catena arcana di conforti e patimenti,

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GIUSEPPE AMOROSO

mentre le vicende si susseguono e gli sfondi trasmigrano da un’immagine all’altra depositandosi in frammenti più lavorati e ripartendo poi verso una specie di contrappunto in cui il «perfetto sconosciuto» dell’avvio e i suoi personaggi sembrano avvicinarsi di più senza che lo scrittore eserciti una maggiore pressione. Tra precisione di profili e «pulviscolo umano» si affollano molti volti: i carcerieri del Presidente e le miriadi di casalinghe ipnotizzate dal matrimonio fiabesco della Principessa; il regale consorte di lei, imbustato in «manifestazioni maniacali», e il letterato narcisista che odia la luce del giorno; l’asceta scarnito, dedito al sacrificio, e l’arabo dalla faccia di bambino; gli abitanti indolenti delle bidonville «incrostate ai margini della città, come mitili agli scogli», e le figure araldiche uscite dall’Antologia Palatina. Il racconto è giocato sul filo sottile di prefigurazioni e millimetrate cronache, visionarietà fosca e il grottesco quotidiano. Mescolato al sorriso, il dramma si arrende alla ventura di scenari di colori violenti e di tinte sfumate e di suoni che lacerano l’aria e altri che trillano in minuetti di cadenze allegre. È un viavai corsivo e imperioso da dimore patrizie (svetta il «Castello glaciale») al disordine infetto e fumigante delle periferie; dal «più fragoroso applauso della storia dei funerali in diretta televisiva» al volteggiare di una lucciola inattesa. Iniettata di forte espressività, la pagina alimenta cortocircuiti di riflessioni e piani narrativi che si frangono, avvampano in grumi, si aprono a imprevedibili soluzioni esaltando il minimo dettaglio.

Io, Jean Gabin di Goliarda Sapienza Fissa gli «occhi bui» della «casbah di lava» dei vicoli di Catania dove abita e cammina adattando i piccoli passi di bambina alla «camminata piena di autosufficienza virile» dell’ammirato Jean Gabin, vagheggiato mentre attraversa l’«intricato nitore» della sua Algeri. La piccola Goliarda si identifica con l’attore francese, capace di dominare la «vita-azione», di sognare una donna che «fosse come un fiume, un grande fiume languido» e di concedersi raramente un sorriso. E lo imita in un viaggio irreale e lucido, visionario e pensoso per i gironi infernali di una città che mostra tutto il suo grottesco e rutilante campionario umano. Io, Jean Gabin, romanzo postumo di Goliarda Sapienza, è un elastico contenitore di fuggitivi episodi in chiaroscuro, chiazze registrate entro ambiti narrativi quasi estrapolati dal contesto per richiamare, forse, una maggiore attenzione e sollevare un’atmosfera in grado di vanificare gli stacchi più marcati fra le azioni. Si impone una decisa tinta fantastica che impedisce

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NARRATIVA

ITALIANA

2010

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l’appiattimento dei gesti, delle voci e delle molte figure evocate dal nulla ed esalta un movimento, uno scatto, un pensiero. Emerge un evidente gusto dell’esclamazione in una scena tutta incentrata intorno all’io narrante, mentre viene affidata a sequenze discorsive e meno esposte la funzione di raccordo tra le cose e anche quella di una riflessione pacata e subordinata. Si fanno avanti, frattanto, le incredibili storie di quel «pozzo stregato» che è una «grande città nella città», popolato da picareschi personaggi: prostitute e donne «artigliose come un corvo», anarchici e rapinatrici precoci e silhouettes investite da luci radenti, in una rappresentazione che estrae una condizione esistenziale esemplare pure da un atteggiamento minimo. Vasto spazio occupa l’ambito familiare: dal padre, avvocato temuto, odiato dai fascisti e amato dai poveri, alla madre dolcissima, con la «curva armoniosa» della voce; dallo zio Alessandro, uomo d’altra epoca, allo zio Giovanni, dalla criniera bianca simile a «una nuvola soffice abitata da tanti angeli musicanti»; dalla zia Grazia, dal «viso di Gardenia», ai numerosi fratelli. Altrettanta incidenza hanno gli esterni: dal monumento all’Elefantino, che pare «agitare la proboscide», al mare bianco d’inverno che «torce il suo corpo fra gli artigli di lava»; dalle forme mostruose del barocco a un antichissimo castello, al centro dell’isola, abitato da un vecchio signore senza età. Sullo sfondo, Gabin, solo per la strada, «altero e temerario senza riscatto», immortalato nei suoi celebri film dalla «musica in bianco e nero» che «si svolge fra la pioggia fitta fitta punteggiata di bianchi sorrisi, sguardi chiari, appena accennati, gesti lievi di colomba nel momento più furente del dramma». Goliarda Sapienza narra fantasie, segue le durezze della realtà, il «serpente delle emozioni che si srotola a spirali di parole su per i muri, le finestre, il cielo», sa che «quando la vita si torce non c’è verso di raddrizzarla» e costruisce quadri frementi di umori simili a nature morte esposte in una galleria intensamente illuminata: accarezzate o investite da riprese imprevedibili, sembrano, ognuna, un incipit di romanzo con la perplessità e l’ansietà di un perenne intreccio.

La lunga notte di Emilio Tadini Al centro della narrativa di Emilio Tadini è il romanzo La lunga notte, uscito nell’87 e ora riproposto con prefazione di Mauro Bersani che punta sull’ «anima teatrale» della scrittura. In questo libro, nel quale parlano i «corpi» e mai le «idee astratte», il monologo di Sibilla, un tempo attrice professionista, vedova di un ex gerarca fascista, appena morto, incrocia il racconto

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GIUSEPPE AMOROSO

di un giornalista giunto sul lago di Como seguendo la pista del leggendario tesoro abbandonato dai tedeschi in ritirata, alla fine della Seconda guerra mondiale. Tadini disegna un quadro della storia d’Italia dal fascismo ad anni più recenti e quello di un’umanità che brulica, sfaccettata, rumorosa e scomposta, rilanciata sempre ai bordi del cono di luce dentro il quale si collocano i due protagonisti e la figura, in contrappunto, del Comandante. Nell’accerchiante oscurità della cornice i volti si intravedono, oscillano, sfumano ma non sono flebili tratti; i paesaggi si appannano ma non si sgretolano. Anzi, in quelle latitudini nebulose, richiamate dalla memoria, la narrazione edifica un vibrante mondo d’ombre, perlustrato «fino ai confini più lontani» dall’immaginazione e posto sulla soglia di eventi nuovi. Sebbene pungolate dal flusso narrativo che impone essenzialità, le vicende si dilatano, inglobando riflessi, excursus, arcate lunghe di similitudini umorose, improvvisi slanci slittanti da topografie accurate di paesaggi a spazi cosmici. Tadini omogeneizza a un livello alto e spettacolare tutto ciò che cade sotto i suoi occhi, guarda con l’intenzione morale di individuare un’impronta esemplare di un costume, di una situazione storica, la recondita voce delle cose. Da qui il significato universale che contraddistingue la sua pagina anche mediante una filigrana dimostrativa (lievemente didascalica), aggredita però da una fantasia trasfiguratrice, capace di cogliere le cose che succedono «nel buio di tutti gli angoli morti». Il lago «fatato» e una villa sontuosa, dalla facciata a forma di montagna, sono i primi scenari della recita di Sibilla che, «senza saltare una virgola», intona il «poema» del Comandante, in una sorta di «veglia funebre». La realtà investita da pressioni ideologiche non perde la sostanziale caratura della raffigurazione chiaroscurale, impressionistica (ecco l’intero Appennino che «si accuccia [...] dentro un gran sussulto di nebbia»; ecco «qualche sipario immenso» che sembra lì lì per alzarsi su Milano «e fremere, ondeggiare. Un grande rumore di passi, di cose pesanti, spostate»), in una scrittura che non perde la sintonia con gli incastri e agevola l’inserzione del racconto del «clandestino» giornalista tendendo a dar vita a un «mito cosmico». Con «il solito eroe che va in pezzi» mentre «si formano le montagne, e scorrono fiumi e torrenti». A paesaggi inafferrabili, stravolti corrispondono personaggi sfigurati, obliqui: la madre del giornalista che si muove tra le tombe di mezza Milano defunta «come una di quella cameriere svelte in un ristorante affollato»; il grande attore un po’ sgraziato e il «maestrino» che vuole scomparire da una fotografia facendo uno sforzo tremendo per trascinarsi dietro il peso mostruoso delle sue passioni.

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NARRATIVA

ITALIANA

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Il valore dei giorni di Sebastiano Nata Alto funzionario in una multinazionale, Marco, costretto a stare fuori di casa per motivi di lavoro, da qualche tempo sente lontana la moglie Isabella. Sedentario, invece, il fratello Domenico, che risiede a Porto San Giorgio, gestisce un negozio di porte e finestre, vive d’impulso, «corre da una cosa all’altra», ha alle spalle un matrimonio infelice e molte avventure, e nutre il proposito di risposarsi con Teresa, dal corpo di ballerina e il viso di zingara. Nell’atmosfera quieta della provincia marchigiana l’esistenza di Domenico sembra appassire. È quanto pensa Marco che, tuttavia, incomincia a immergersi in questo microcosmo senza costrutto, volatile, dove l’ombra del fratello «scivola tremando sulla sabbia come una bandiera bruna che si agita al vento». Il valore dei giorni di Sebastiano Nata è un romanzo teso a percuotere le resistenze più recondite di due psicologie contrastanti indagandole proprio là dove l’analisi si fa più complessa e accerchiata da tante difficoltà: e, allora, crepe si aprono d’improvviso dando una sensazione di smarrimento. Il racconto, talora disadorno e scarno, puntiglioso e referenziale, trova uno slancio fantastico proprio nel saper rappresentare lo scorrere del tempo nella sua totale autonomia rispetto alla volontà degli uomini, disorientati e afflitti da ansie senza scampo. Le scene si susseguono un po’ stilizzate, riflesse in se stesse, con un ritmo su cui sembra diffondersi una sospensione di nature morte, un torpore, un’aria ipnotica, tra luci soffuse e voci che arrivano da lontano, allungate come echi, rimbalzi del passato, e minuscole storie e pensieri che «tanto non servono», scorporati dal reale, e solo furtive «chimere». Da un lato il mondo dell’azienda, dove le «azioni si dissolvono subito dopo essere state compiute»; dall’altro, quello della provincia marchigiana accesa di colori smaglianti e popolata di figure un po’ stralunate: il tedesco di Brema e la moglie; l’ambiguo Ugo e la contessa Rivalzi; uno chiamato Ariosto, perché conosce a memoria metà dei canti del Furioso, e un prete molto intuitivo. Nell’angolo «piccolo e meschino dove Domenico ha scelto di esiliarsi», Marco ritorna oppresso da un senso di «cosmica desolazione»: si sente un «detenuto in attesa di giudizio» nei confronti sempre più difficili con l’azienda e considera la propria vita come «sospesa sul vuoto». La funesta realtà che lo attende a Porto San Giorgio lo proietta in una nuova dimensione, in cui cede alla tentazione di «rompere il cordone ombelicale» con l’«incantesimo del suo passato». Intanto, ha l’impressione che tutto intorno, nella banale quotidianità, «riprenda a muoversi sugli stessi binari, senza sbandamenti, senza reali variazioni»: è il viatico per un nuovo corso che, muovendo da una situazione in

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GIUSEPPE AMOROSO

apparenza «surreale, falsa», impone un’esigenza di cambiamento, con il suo alto prezzo da pagare. Altri eventi avverranno, e la vita apparirà «più vasta, e più nobile». La proprietà linguistica di Nata è così naturale da scivolare quasi inosservata: non ha bisogno di elaborazioni virtuose, formalizzazioni ricercate. La pagina è intensa ed essenziale, in grado di interpretare i nodi più chiusi dei personaggi (e di un universo economico) e di saggiarne le reazioni senza fare rumore. A volte ricorrendo soltanto a una breve deformazione del paesaggio.

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L’uomo che non voleva essere padre di Giuseppe Quatriglio Il gioco del rispecchiamento di un’esistenza in un’altra lontana nel tempo e, per certi versi, similare, si definisce nello spessore profondo e creativo della scrittura di L’uomo che non voleva essere padre di Giuseppe Quatriglio. Ed è proprio nella pagina ben strutturata ed elegante, e dal deciso taglio tecnico, che la parabola dei riflessi e degli eventi drammatici si slancia in affabulate forme narrative, superando ogni percorso obbligato e mantenendo intatta la suggestione magica delle simmetrie più sfumate. La prosa mobile ed intensamente prosciugata in grumi sorpresi da plastici tracciati descrittivi non perde la sua funzione colloquiale, anzi la rinvigorisce alimentando aloni e ridondanze, come nei precedenti felici esiti letterari dello scrittore palermitano: L’uomo-orologio, Il muro di vetro, Bavaria Klinik. Portata per le contrade da un cantastorie siciliano degli anni Trenta, l’orribile vicenda dell’«orco» di Villa Bellini, che uccide una decina di giovani padri per avvicinarli a un «mondo felice», si infila nei giorni di Agostino Leoni, professore catanese che insegna in un liceo romano. Laureatosi a Padova, ha attraversato il sogno rivoluzionario del movimento studentesco del Sessantotto e gli sconvolgimenti sociali nella morsa della «strategia della tensione». Ora è di fronte al diario «stregato» di un suo sventurato omonimo e si vede come «un uomo che ha perduto tutte le occasioni». Quando sa che la moglie non può avere figli, si ritiene punito dal destino. Approda alla serenità con l’adozione del piccolo Alfredo che, però, deve essere presto restituito alla madre naturale. Quasi analoga esperienza ha patito lo sconosciuto omonimo diarista in una Catania otto-novecentesca, raccontata nella controluce di figure illustri come Verga e Rapisardi, mentre incombono i sinistri bagliori della Grande Guerra. Confrontandosi con la storia del suo alter ego, Agatino, stordito, si affaccia ad «occhi aperti» sul nulla e, assalito da un «fluido nefasto», viene

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NARRATIVA

ITALIANA

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investito da un bisogno di autopunizione. Frattanto, nel mondo si scatena un’estrema violenza culminante nella distruzione delle Torri Gemelle. Ma lo sgomento rigenera il professore ormai disponibile ad ascoltare le ragioni degli altri. Quatriglio si muove con agilità tra varie sponde (dalla cronaca alla serrata analisi introspettiva, dalla ricerca storica all’illustrazione paesaggistica, dallo studio di costume all’apologo) mantenendo solida la capacità di far scaturire una scena, un dialogo, una rappresentazione corale anche da un’osservazione penetrante ma minuta. E pone un freno alla dispersione senza compromettere l’equilibrio dei ritratti e non arrendendosi al semplice e nudo referto. Fermi negli spazi delle loro vite, i personaggi sono sempre sfiorati dal sospetto che al di là dei loro cammini si apra una zona d’ombra e di mistero.

La mamma del sole di Andrea Vitali La leggerezza frenata e senza cantabilità, né prolungata d’echi, di Andrea Vitali non è assenza di sguardo. Le idee, i pensieri dei personaggi sono chiari, rotondi, si susseguono privi dell’assillo dell’ambiguità, dell’inquietudine vaga. La conoscenza del mondo, anche all’interno dei segreti più tentacolari della provincia, contiene un inestinguibile desiderio di oltrepassare le allusioni e di entrare nel labirintico gioco degli inganni con naturalezza, abolendo l’ossessione di un oltre implacabilmente ostile. Gli eventi si mostrano così, pure quelli incontrollabili, in una pienezza screziata, parte naturale del meccanismo della vita. E allora le complicazioni possono iniettare le loro insidie, aprire strade infinite di incognite in un piccolo cosmo secondario che sembra un avamposto allegro di follia. Da qui il coro brulicante e sempre bizzarro dei visi minimi, infetti di una malinconia di fondo che non brucia e spruzzati dell’anomalo schiocco dei loro eccentrici nomi: pupazzi indocili al filo che li tiene, pronti a sfondare i loro copioni, a farsi carne viva, vibrante. Siamo nel 1933. Italo Balbo promuove la crociera aerea atlantica; il battello Nibbio compie il suo ultimo viaggio verso Bellano, dove sbarca un’anziana donna che va in cerca del parroco don Carlo Gheratti. Bigè, il sagrestano, ascolta di nascosto frammenti della confessione e subito si sente irretito in una «ragnatela». Dal Pio Ospizio di Gravedonia arriva, intanto, ai carabinieri la denuncia della scomparsa di una delle ospiti. Contemporaneamente si apre un secondo fronte di mistero: un’indagine su Velia Berilli, madre di quattordici figli.

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GIUSEPPE AMOROSO

In La mamma del sole le azioni non nascono subito dal tormento dei personaggi, dalle loro volontà, dai sogni, ma da spazi del paesaggio sovrastante, dalla calura dell’estate, da prospettive fantasiose, da epicentri spettacolari nei quali si addensano le attese, il fremito di un pericolo, il bussare di un invito al sorriso e, insieme, il fatto drammatico. Il visibile, illustrato nello smalto dell’inquietudine (il silenzio ha «il sapore dell’acqua ferma del lago»; il «sordo rumore del caldo» si può percepire nel silenzio assoluto di una chiesa), si trasmette in figure, voci, vicende intricate, facendo scattare i dispositivi dell’avventura. È un visibile che diviene parabola, epifania deputata a sciogliere la soffocante atmosfera dell’avvio. In primo piano un coro individuato nelle sue componenti: i carabinieri della stazione locale; i visi che fanno capolino nel guizzo sorprendente di un momento cruciale; lo stesso colore dei luoghi che palpita in sintonia con chi li abita, divenendo una specie di diffusa, metafisica presenza. E poi le cose effimere, gli oggetti quotidiani, un vetro rotto, la misura di un «lugubre tempo» in una villa e «l’inferno stesso che sta giocando» e l’«ora canaglia in cui strade, muri e lago sembrano soffiare fuori tutta l’aria calda». In questo libro svelto e coinvolgente ogni simbolo risulta leggibile, vuoi in direzione romanzesca, vale a dire come propulsore di accadimenti, vuoi come ricerca delle ragioni più vere e sotterranee dell’esistenza.

La luna contro di Germana Fabiano Forse il demonio si annida nel corpo di un giovane conte che nelle notti si trasforma in «qualcosa a metà tra un uomo e una creatura dell’inferno». Siamo in un villaggio della Sicilia dell’Ottocento, devastato dal terrore di un sortilegio legato alla pallida luce della luna. Personaggi sfilano come ombre, cupe scene corali dominano in questo primo dei tre racconti riuniti da Germana Fabiano in La luna contro, dove una sorta di sordo sottofondo musicale, pieno di brividi e suspense (una colonna sonora costruita con scelte lessicali rispondenti all’atmosfera magica), sostiene i vari quadri, annulla ogni dispersione, riporta al punto focale tutte le voci, impone il gioco dei contrasti, trasformando anche le dissolvenze in coinvolgenti trame d’avventura. E anche la lineare essenzialità della struttura diviene un’inesauribile risorsa fantastica: quella capace di mostrare il male non nel buio, ma «nella luce pura» del giorno. Si regge sull’opposizione realtà-sogno il secondo racconto che vede protagonisti un gigantesco puparo girovago la cui voce profonda risveglia nella grigia esistenza di Agata il senso indistinto di un’attesa d’amore covata da

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NARRATIVA

ITALIANA

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sempre. Intorno, un piccolo paese isolano degli anni Quaranta sul quale gravano i devastanti tempi della guerra. Emergono esseri indifesi, pronti a cadere in un incantesimo, «anime perse in cerca di un maestro», e altri che sanno trasformare la povertà nella forza dell’azione e che tirano fuori storie sempre nuove dall’ «inesauribile miniera delle loro ossessioni». Al centro del mondo, la città siciliana agonizzante ma pronta d’improvviso a guarire, teatro dell’ultimo testo, entra nelle parole di Anna, una giornalista il cui mestiere è cercare storie, «urtarle, sedurle, e vincerle». La donna, «come un parassita, posseduta dal suo demone», si nutre della gente che incontra e crede di rintracciare, nei colori violenti della città, un «messaggio». E intanto, un «piano» elaborato da un gruppo di persone prigioniere da «una forza oscura e spietata che ruba la gioia» si prefigge di liberare la città dalla violenza e dalla corruzione individuando in ogni momento e condannando a morte i responsabili. Germana Fabiano indaga la tormentata storia della Sicilia sulla scorta di testimonianze storiche, con il risultato di infondere nella propria vena fantastica e visionaria una diretta conoscenza delle cose. Sovente l’identificazione con la realtà la conduce a rappresentare situazioni e personaggi e scene con un’ottica inclinata, decisa a fare dell’obliquità e della stessa ben gestita vena polemica una linea distintiva personale e compatta, visitata dalla poesia, che muovendo da un intento civile, va oltre e spalanca le porte a un universo travolto da una segreta e luminosa luce.

Ti spiego di Romana Petri Sposati per venti anni e separati da quindici, Cristiana e Mario hanno imboccato strade diverse. Lei, scrittrice, è rimasta a Roma con i suoi due figli e si è risposata; lui, ingegnere idraulico, è andato a vivere a Rio de Janeiro con la nuova giovane moglie e con il figlioletto di un anno. Tutto sembra entrare tranquillamente nella norma, fino a quando Cristiana riceve dall’ex marito una sorprendente e inquietante lettera nella quale l’uomo confessa di sentirsi gli anni addosso e di voler ripercorrere attraverso uno scambio epistolare la stagione della loro giovinezza. Convinta che non esiste «una scatola con tanto di coperchio» in cui chiudere tutte le paure, la donna non se la sente di sopportare la «fatica» di un viaggio à rebours nel comune passato, ma intanto, tra razionalità, curiosità e «distanza», risponde alle missive con la speranza di far «ritrovare il senno» al suo interlocutore. È questo il tracciato di Ti spiego di Romana Petri, un romanzo di grande intensità emotiva che prende le mosse dalle parole, dai

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GIUSEPPE AMOROSO

ragionamenti per scoprire ciò che in un’esistenza è rimasto sottotraccia, incomprensioni, disamore, tradimenti, per riportarli a galla e per rileggerli, trafiggerli e ricomporli in una nuova luce e nel contesto di una generazione. Romana Petri centellina le parole, le leviga e, talora, le sottrae, poi le rilancia con spessori più profondi di senso, altri raggi di comunicazione e brividi, senza ricorrere a immagini anomale, alterate e soprattutto senza chiamare in campo la complicità ambigua del paesaggio. Una tensione razionale corre da un argomento all’altro, alimenta di volume gli episodi importanti «minuto per minuto», percuote le emozioni, ne rimette in moto gli strascichi, le spinge verso una rete (e una trappola) di interrogativi. Domina la memoria che cerca di fissare istanti rimasti «sempre indietro» e che diviene più intensa proprio nel suo procedere in tumulto. Sulla scacchiera dei percorsi di autoanalisi si disegnano avventure, evocazioni improvvise e indefinite che convocano frantumi di giorni difficili, sfuggiti e sfuggenti, indocili a essere riportati in superficie e costretti a fare i conti con «il più pericoloso seduttore del mondo: il pensiero». Storia di una donna che per tutta la vita ha voluto «pensare attraverso gli occhi», Ti spiego polarizza le forme delle illusioni, «quel modo che ha il tempo di gonfiare le cose quando sono un rimpianto, quando non sono state vissute». Variato in tante interpretazioni, il tema della giovinezza perduta e della «trasparenza» (quell’algida sensazione che «rende soli, ci si guarda intorno e si chiede aiuto») si fa il centro di irradiazione di un intreccio romanzesco che allinea sullo stesso piano la riflessione e quell’andare incerto della vita oltre la soglia, là dove «chi vince è la paura». È l’incontro con la verità: «La vita è una competizione dove chi soffre di meno ha vinto». Allora, forse, occorre attendere da qualcuno «quello straordinario sorriso che ti uccide».

Meccanica celeste di Maurizio Maggiani Il Narratore e la ’Nita, la sua donna; la Duse, la madre, «maestra» dello spirito, e l’Omo Nudo, un criminale destinato a essere una leggenda; l’Otello, suo padre, «aguzzo e gotico», lesto a dissolversi nel nulla, e poi vecchie streghe appollaiate sui rami, un campione automobilistico e tanti altri, da un partigiano a un professore di fisica a Cambridge. Meccanica celeste di Maurizio Maggiani sembra aprirsi subito con le atmosfere ambigue di una favola, ma ben presto urta contro la verità, si frange in molti riferimenti concreti, fronteggia con forza occasioni quotidiane, si allunga in cronache fitte di dettagli. L’immaginazione urticante investe tutte le

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NARRATIVA

ITALIANA

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risorse della scrittura, si attrezza dei mezzi più idonei (la sospensione, la versatilità dei temi, un insistente gioco di intrecci) per costruire un racconto imperioso, che spazia dal rigoroso rispetto dei ritmi narrativi e degli snodi agili alle più scattanti tecniche dell’analogia, all’uso dei simboli e ad altri mascheramenti dei fatti. Si mette in moto un operoso laboratorio di invenzioni. Maggiani inscena un universo comune ma in modo sibillino: un universo anonimo che entra in una regione di incantamento nella quale pungono gli aculei delle memorie che inducono spazi ariosi, con qualche effetto di musica. Il luogo in cui le varie storie si incrociano è chiamato «distretto». Lì, tra monti innevati e valichi e lembi di mare sullo sfondo lontano, il tempo pare arrestarsi su ogni evento, dipingersi delle sue forme e riprendere il passo seminando nuovi fatti e nuove figure. Meccanica celeste è un romanzo che si avvale di una stringente analisi dei caratteri come bersaglio principale e di gran lunga prevalente sulla pur distesa rete dell’avventura e che attribuisce alle occasioni (da parte della «blanda animula» dell’io narrante in grado di «contenere ogni cosa») sia una carica di silenzio, sia una potenzialità spirituale che le rende essenziali e memorabili proprio nella loro nudità, nel loro accadere naturalmente. E allora qualcosa di straordinario, quasi di metafisico, aleggia anche sui puri nomi, sulle verità scarne, su quel posto «lontano e segreto» visitato da uomini in continuo passaggio: un transito febbrile di storie, destini, minacce che crescono senza rumore «dentro il cicaleccio degli storni», in una dimensione perenne nella quale gli uomini sono tutti presenti, «per andare e per tornare [...]: consoli vittoriosi e in rotta, santi perseguitati e vaticinanti, duchi e proscritti, schiavi e dominatori; e un papa, si dice, in svogliato cammino verso un umiliante sospeso con la sua padrona, marchesa e duchessa di Canossa». In evidenza, particolari che si consegnano a una fotografia, racconti di terre remote filtrati da un’affabulazione lenta, sommessa, sogni che sono la «forza di uno slancio», personaggi mai nominati per quello che sono ma per ciò che di loro appare, vale a dire l’ignoto, e, insieme, personaggi famosi, come Pascoli, ora «bambinello tutto moine e versetti» e ora «simile a un demonio dell’inferno», o come Orson Welles, dalla voce tonante «come se fosse il dio Zeus». E non ha soste il viavai dei volti che il Narratore tiene vivi in «quei pochi giorni tra noi come se ci crepasse il cuore a lasciarli ripartire». E intanto attende la nascita di una figlia per caricarsela sulle spalle e «portarla a vedere il mondo».

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GIUSEPPE AMOROSO

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La nota segreta di Marta Morazzoni Un romanzo che si basa sulle risorse affabulanti delle tematiche del genere tradizionale, sensibili nel fare emergere con la naturalezza del loro accadere nuove situazioni esistenziali e anche modulazioni di stati d’animo contrastanti e condizioni assediate di gesti rivelati con stupore e isolati in modo esemplare, voci pronunciate con un tono solenne e raccordate a effetti scenografici e legati talora con un filo che congiunge pure le zone di margine con gli epicentri del racconto. La nota segreta di Marta Morazzoni narra le vicende di una contessina della prima metà del Settecento relegata per volere della famiglia nel convento di Santa Radegonda in Milano. Si chiama Paola Pietra e ha una voce bellissima, «strana e scura, di un temperamento drammatico», che le permette di esibirsi nel coro della chiesa e che le dà la «percezione di una porta socchiusa che accende un inconscio desiderio di uscire e varcare il limite della segretezza imposta dalla clausura» . Nel frattempo, allertato dall’autore (che entra nel testo discutendo di scelte lessicali e strutturali), il lettore viene informato di trovarsi di fronte a una storia «prossima al romanzo». Un diplomatico inglese, sir John Durant Breval, assistendo a una messa per un funerale, resta colpito dal «mistero» della voce della giovanissima monaca di cui verrà a conoscenza, attraverso un caso fortuito. Inseguendo un «lembo di immaginazione», «un indistinto altrove in cui si agita la fantasia», Paola scivola in un’«apnea dell’anima»: ma sarà una «lieve scomposizione della simmetria» delle cose a condurla, «sepolta dentro se stessa», a tornare nel mondo e ad architettare un piano di fuga. Ora Paola e Breval sono «Adamo e Eva sospesi tra il peccato e la coscienza dello sguardo di Dio». Forse sono in «un limbo sospeso tra cielo e terra», che può «sprofondare nel prosaico e nel comune dopo essere volato per chissà quali altezze». Il fitto commento dell’autore, guidato da un «occhio invisibile» più volte corretto, accompagna il viaggio dei protagonisti a Venezia, insinuandosi tra l’«incrocio» dei loro sguardi, tornando indietro per dare una spiegazione anche alle «ombre» e aprendo nuove prospettive all’avventura con la navigazione di Paola per il Mediterraneo alla volta di Marsiglia, dove sono spostate «tutte le pedine del gioco». E questa storia, «che è cominciata tra la musica, sta entrando in un grande silenzio». Poi, di nuovo, è un andare per un «lungo nastro di strade bianche». Il racconto ormai è «un bel viluppo, da qualsiasi parte lo si guardi». Malinconie di paesaggi avvolti in grigie atmosfere di silenzio, squarci di luce rotti in frantumi di realtà ferite si posano su una pagina oscillante tra il segno di un pericolo e tracce di rassicurazione. E intanto Marta Morazzoni non

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NARRATIVA

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cessa di occuparsi di quei rilievi che «disarcionano la letteratura dalla vita», in questo romanzo in cui si mescolano verità e finzione, e anche i detriti letterari più manifesti e caduchi sono sollevati verso una rappresentazione circolare e coinvolgente. Una rappresentazione che non investe esclusivamente il mondo dei protagonisti, ma la più larga cronaca di un universo guardato con un partecipe, malizioso sorriso, mentre una sfera sapienziale di concretezza e allusioni cresce come contrappunto proprio alla stessa compagine polimorfa del libro.

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Hanno tutti ragione di Paolo Sorrentino Si porta dietro «quarantaquattro anni di ferocia» Tony Pagoda, l’io narrante di Hanno tutti ragione di Paolo Sorrentino. Definito «un cantante di night», ha percorso una gloriosa carriera in tutto il mondo, ma ora si trova davanti, «massiccia e genuflessa», la sua anima, mentre sta per tenere un concerto, a New York, per un’oceanica folla di spettatori tra i quali Frank Sinatra. È l’ennesimo trionfo e, insieme, l’inizio di una marea di ricordi. Con la malinconia di un sorriso che non sorvola sui fatti, bensì ne spreme gli umori più segreti, Sorrentino conta con sfolgorante attenzione le memorie attraverso una simultaneità di emozioni che riaccendono pure un fervore di pensieri. E nel frattempo costeggia lo sviluppo di un motivo o l’interrelazione tra un motivo e l’altro, tra una scena più personale e quella che appartiene a un contesto anche se qua e là suona ricalcato su un cartone comune: la Napoli dei vicoli e delle case cadenti e del «buio bagnato rischiarato solo dai versi di gabbiani che [...] cantano malissimo»; del porto con la sua «maestosa decadenza», del «labirinto» di containers picchiati da una tramontana «cattiva» e di una città che «si sveglia al contrario». Un «presepe cambogiano» di violenza e, accanto, Capri, «magma mondano e incorporoso», illuminata dalla presenza di Beatrice, «alata e potente», fanno da battistrada alla rappresentazione della «stanza buia» della provincia italiana. E ancora una Napoli vuota, addormentata, una «gabbia di palazzi» e una «ferocia grigia dei palazzi alti che non danno tregua a nessuno», luoghi desolati dove gli uomini conducono un’esistenza costruita sulla paura e «pensionati moribondi parlottano con la passione e l’accanimento di un tempo». Immerso nella sua «recita infinita», l’io sa che occorre il calore umano quando i fallimenti si sono stratificati e la città appare un «acquario che il proprietario non pulisce da anni» e il vento interrompe la «pigrizia» degli alberi. Poi è la volta del Brasile nella cui atmosfera lenta e sospesa il protagonista prova, con un sorriso «carico del già visto», l’autocompiacimento di stare

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GIUSEPPE AMOROSO

come nascosto. Dalle lusinghe milionarie di un magnate sarà riportato in Italia, un «paesello [...] che perde colpi». E dovrà fare i conti con un mondo di fantasmi, di cose scolorite, di irrimediabili perdite. Mescolando azioni vertiginose, improvvise fenditure nel paesaggio, grumi di gesti e variazioni di tempi Sorrentino raffigura per emblemi una realtà concreta e stravolta e in incessante trasformazione. Pur sventagliato in tante tessere con caratteristiche di autonomia, il romanzo ha un’andatura agile, gravita intorno a frammenti di grande effetto, si rilancia con il guizzo dell’ironia e della satira, trova sbocchi in episodi eclatanti, visionari. Ne scaturisce un libro che sfoglia tematiche di forte impatto narrativo, supera le acrobatiche proposte tecniche dei laboratori di scrittura degli anni più recenti, scompagina e ricompone in nuovi assetti di impegno civile una cascata di descrizioni, meditazioni, intrighi e figure che passano leggere, quasi incorporee e senza traccia ma che spesso sono più vere della stessa condizione mentale che le ha generate.

Il futuro in punta di piedi di Bruno Arpaia Nella millimetrata scansione della fisicità delle azioni e dei riflessi psicologici e nell’aderenza referenziale e collosa delle singole scene a una struttura dimostrativa, il romanzo di Bruno Arpaia, Il futuro in punta di piedi accusa per la ingombrante pressione ideologica e polemica qualcosa di stridente, rallentato, statico, una sorta di disposizione all’enfasi appena frenata dall’inventività della scrittura vivace, spiazzante, metaforica. Si avverte un discorso che tarda a liberare le sue componenti più felici e coinvolgenti, dal momento che si fa baluardo attorno al singolo episodio, al singolo personaggio innalzando una resistente compagine retorica, puntellata dagli emblemi di una tesi. Un’atmosfera avvelenata, torbida assorbe o smussa il taglio deciso di un ritratto, le più autentiche punte creative che pur vibrano, spaziando dal gusto di certi dettagli alla malinconia con la quale viene fissato il gesto di un anziano vedovo, don Tito Principe, circondato dai segnali di sfondi pronti a interagire e a recidere i legami con i freddi schemi. Ma il persistente motivo della polemica politica raggela tutto proprio a causa delle sue troppo dichiarate pulsioni, toglie il respiro all’intreccio, sembra far nascere sempre i vari spunti dallo stesso meccanico stampo esemplare. Così, ora si riducono all’essenziale i capitoli che mostrano una grande potenzialità di movimento e accordo tra natura e personaggio; ora si dilatano fino al rimbalzo oratorio altri, come quelli che vedono un giovane rivoluzionario precipitare al suolo da una finestra di una stazione di carabinieri. E ancora, piccole venature di resistenti descrizioni corrono con il loro disegno

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NARRATIVA

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di esterni o con il richiamo al silenzio che si intrufola nel mormorio della folla, conferendo al narrato una latitudine più pura, limpida (si pensi alla brezza leggera che si leva «piena di scrupoli e riguardi», e alla luce «macilenta, già stanca nell’attesa del tramonto»). Riprende però il tema cupo, ostinatamente ribadito, dell’avversione al governo presieduto dall’ingegnere Caso: una tensione trasferita in una miriade di cellule cui fa da pendant il cupo volto della città fatta di «figure e sagome ammassate» che premono sul petto di Principe, intento a sgranare «il rosario delle sue insonnie eterne». Si susseguono avvenimenti drammatici che d’improvviso si confondono con i «tratti sontuosi della notte». Tutto si trascina in un incubo nella qualità barocca della prosa che si fa mezzo adatto a tradurre un universo tumultuoso, gridato: prende forma un teatro di toni rialzati, dove rimbomba una «fuga di odori e di presagi che sembra non finire mai», tra esplosioni di violenza, proclami di leggi eccezionali, lotta clandestina, attentati. Arpaia amplifica ogni azione, ogni pensiero, anche ciò che è infinitamente piccolo, ottenendo un apparente aspetto di racconto corposo, ma, in sostanza, accusa discontinuità, lascia in ombra certi fatti degni di maggiore e più serena valutazione critica e concede invece una sorta di vidimazione epica a scelte che rinviano alla «tradizione del tirannicidio». E anche la surreale conclusione è il suggello di un racconto di parte in cui finiscono per annegare alcuni passi di alto livello letterario.

I giorni nudi di Claudio Piersanti L’istinto annuncia ad Alberto l’incombere di un cambiamento tanto grande da «oscurare» in un attimo tutta la vita precedente. Non si tratta di una frustrazione, dal momento che il cinquantenne protagonista di I giorni nudi di Claudio Piersanti è uno sceneggiatore televisivo affermato che con l’amico Guido ha fondato una società molto attiva. Scontento, «smarrito, bisognoso di guida e consigli», sprofonda nella solitudine, patisce il potere nefasto della ex moglie Marta, e da qualche tempo si accorge di non inventare personaggi ma di «animare delle marionette». Un’improvvisa svolta avviene, nella sua esistenza, una notte al pronto soccorso di un ospedale dove è ricoverato per una frattura alla gamba causata dalla caduta dalla moto. Lì, in quel luogo di sofferenza, incontra la bella e giovanissima Lucia, anche lei ricoverata per un incidente. Nasce una reciproca attrazione («I suoni, le voci dei film che davano in tivù facevano da sottofondo senza disturbare il piacevole silenzio in cui

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GIUSEPPE AMOROSO

erano immersi») che per Alberto significa una nuova carica di energia, la felicità di seguire il proprio istinto e scrivere nuove storie. Preso da un «sentimento più complesso e inquietante», si inabissa nei pensieri, vive con entusiasmo il suo amore, ma, insieme, avverte in certe piccole sciatterie della compagna «niente meno che i segni precursori della generale decadenza del mondo». Dando un calcio alla fortuna, rompe la società con Guido, mentre il solito «fiume», questa volta della tenerezza e della passione, lo trascina: ma deve fare i conti anche con il «torrente» e il «rigagnolo» di un incipiente disamore. Subdola si fa luce l’insidia della perdita, dell’insicurezza. Pure Lucia non è esente dai dubbi e «galleggia nel nulla»: svanita la curiosità iniziale, il lavoro di Alberto le sembra «lento e ripetitivo». L’uomo avverte un senso di vuoto nel quale «suona sempre più forte il pianto degli alberi» e «nessuna buona notizia riesce a varcare il confine della sera». E poiché tutto quello che ha inizio ha una fine, la separazione giunge inevitabile. Alberto cade in uno stato depressivo e in un ansioso «silenzio», con la malinconica consapevolezza che le «bellezze della vita si apprezzano a posteriori». Ma arriva anche la «brezza leggera di un immotivato buonumore». E sarà un sogno a conservare serenamente l’immagine di Lucia ormai lontana. Del disagio dei personaggi è come intriso il paesaggio con le sue vedute coordinate e trasparenti nelle quali oggetti, sfondi, ambienti non sostano in una loro dimensione autonoma ma scorrono polarizzati da una fonte fibrillante e partecipe, lasciando malinconiche e inflessibili tracce di abbandono. Sono precisi e sfumati, minuziosamente scanditi e proposti da un’indefinita colonna sonora. La ricerca dei particolari non conduce a un quadro fermo, a un contesto rintracciabile, bensì a uno sfuggente andare di immagini che appena si intona con la storia vera degli uomini. Gli squarci naturalistici estremizzano forse i loro dissidi, avanzando una specie di consonanza simbolica, la cifra di un’angoscia più bisognosa di rappresentazione che di spiegazione.

Foravìa di Dario Voltolini Foravìa, cioè fuori dalla via, è il titolo con il quale Dario Voltolini raccoglie tre racconti incentrati sul tema della deviazione, dell’eccezione, dello scarto dall’usualità quotidiana. È una sorta di «carta giocata all’improvviso», che mette l’essere umano di fronte all’inatteso, al misterioso, al «varco» verso l’imprevedibile. Trovando il «bandolo della scrittura», l’autore ne fa un’«azione». Il protagonista del primo testo, invitato da un amico in un cascinale sulle colline torinesi, perde l’orientamento e come un «intruso», un

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NARRATIVA

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«elemento virale» sconvolge il paesaggio notturno in cui viene a trovarsi. Si chiude nell’auto rimasta in panne, coincidendo con il «centro della storia, in un punto vuoto di assenza e di conoscenza, un sonno senza sogni», nel mezzo di un bosco. Poi, al risveglio, il cammino per quelle lande solitarie, per un piccolo borgo cui le minuscole case bianche danno un «tocco fiabesco». E compaiono la «sagoma ritagliata» di una donna, due «lerci» fratelli e uno strano personaggio solitario che vive in compagnia delle sue bestie. Nel racconto che segue l’io narrante trova in casa, «ospite inatteso», un grosso ragno, «cupo nel suo colore». Lo chiude in un bicchiere e lo porta all’Ufficio dell’Igiene. Da questo momento si snoda un’avventura dai risvolti kafkiani che spinge il narratore alla ricerca di esperti. La difficile impresa sancisce un ambiguo legame con l’animale, battezzato affettuosamente Fabio. Mettendo in atto «sottili strategie narrative», Voltolini passa alla terza sezione del libro dove traccia un incontro serale con una ragazza in evidente stato di malessere. Come in un film «rallentato e poi rallentato», che alla fine diviene «una semplice foto», scorrono sequenze che di volta in volta rivelano angoli tristissimi di una città avvolta nel silenzio e in un’ovatta di tensione senza un preciso riferimento. Il carattere più rilevante, vero denominatore comune di tutte le pagine, è il flettersi dei vari motivi che emergono dagli spunti più impensati ed eccentrici, ma non danno mai l’idea di un materiale esondante, pleonastico, ripetitivo nelle sue conduzioni. Si impone un discorso inquietante, disposto a far contare più le occasioni parentetiche che il filo rosso della narrazione. Sulla fisicità di certe azioni aleggia un che di inafferrabile, di non definito, che dà all’insieme pur concreto una linea atemporale. E allora i vari personaggi, per conto loro già sibillini, si immergono in climi ambigui, oscillanti tra presente e passato, talora inclinati verso prospettive generalizzanti. Non ne scaturisce però un narrato discontinuo, franto: tutto si accorda con l’aria di trasognamento, con l’uscita di scena delle figure, con l’ascolto di riverberi e controcanti che si spalancano al di là delle esistenze degli stessi protagonisti.

Le due chiese di Sebastiano Vassalli Lo spazio in cui Sebastiano Vassalli colloca le molte storie che animano Le due chiese è quello di Rocca di Sasso, un villaggio delle Alpi dominato da una grande montagna chiamata il «Macigno Bianco»; il tempo è quell’«insieme di musica e di parole» che costituisce l’inno dell’Internazionale, il «simbolo dell’epoca che ci siamo lasciati alle spalle». Sempre in evidenza, gli intrecci

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GIUSEPPE AMOROSO

sviluppano, con una teoria sfumata di dettagli, una massa imponente di situazioni narrative sia secondo strutture molto funzionali, sia anche nelle forme del commento e della digressione e del riflesso meditativo. La forza trainante dei fatti suscita un apparato (non tanto didascalico quanto di opportuno completamento) che si incarica di suggerire prospettive, accendere conflitti tra occasioni parallele. Vassalli modella una compagine romanzesca articolata, composita, nella quale le figure non si isteriliscono, bensì acquistano grande forza comunicativa nonostante la velatura spesso emblematica, passando al vaglio di una serrata indagine psicologica. Resta salva la continuità del discorso nel fitto repertorio di nozioni, descrizioni di paesaggi, interventi dell’autore intento a far risaltare la rappresentazione minuta della vita di un minuscolo borgo, a mano a mano rilanciata da nuove osservazioni storiche, di costume e pure da leggende. Ma soprattutto da una folla di personaggi oscuri dai quali il racconto deriva un che di misterioso e, nella capillare trascrizione di dati, anche di non totalmente espresso: una sorta di diffusa attesa di eventi. Si tratta di un margine di brusii, voci non definite in cui ogni mossa, gesto, comportamento possono di colpo fiorire e porsi accanto alle azioni più manifeste assumendo ruoli di contrappunto. Ed ecco il maestro socialista Prandini, legionario a Fiume e poi fascista; Ansimino, fabbro e autista della corriera che porta le novelle del mondo; Pirin e Antonio, i due gaudenti; il sindaco, il parroco, il direttore dell’ufficio postale; Angela con la sua vicenda complicata. E altri in un filiforme andare di volti. Un posto a parte occupano i due personaggi che hanno lasciato in questo luogo una «traccia» destinata a durare. Sono uno l’opposto dell’altro: l’Eretico, assennato e ingenuo, preso dall’utopia di trasformare la montagna nel «Regno dei Cieli» e convinto che si possa «stare bene, anche senza lavorare»; e il Beato, frate «trafficone e impiccione» in cerca della «nuova Gerusalemme» e sicuro della relatività del tutto. Scoppia la guerra, arriva la chiamata alle armi che lascia nel borgo solo vecchi, donne e bambini. Passano monotoni i giorni, entrano in campo nuovi personaggi, e Vassalli si dispone a raccontare «un momento centrale in ogni storia» attraverso episodi di potente intensità drammatica e anche attraverso misteriose vicende più grandi della «somma» delle vite stesse dei personaggi. E sempre mantenendo il «necessario distacco» che consente di dare al racconto un’aria trasognata («Forse le Ninfe stanno ululando, lassù sulle cime dei monti; ma la loro voce si perde nel vento») in quel «crocevia dove le domande si infittiscono e quasi si accavallano». La vita continua e va negli anni verso una nuova guerra: gli uomini muoiono, altri subentrano; c’è chi in cielo «ha la possibilità di informarsi» sugli eventi e chi è contento

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NARRATIVA

ITALIANA

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perché i fatti gli stanno dando ragione e infine c’è chi scompare con un grido che non appartiene a queste storie ma solo a lui, al suo indifeso, solitario cammino.

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Sei così mia quando dormi di Anna Kanakis Un tramonto arancione avvolge la campagna e la villa-castello di Nohant, il dolce rifugio in cui George Sand si isola per lavorare. E intanto, ripercorrendo il suo passato, rivede i suoi lontani amori, il suo spingersi «al di là delle emozioni sopportabili per poi scrivere forsennatamente un libro in cinque giorni». Invitato da Maurice, figlio della scrittrice, per trascorrere le feste di fine d’anno nel «rumoroso silenzio» di questo luogo, l’incisore Alexandre Manceau si fermerà per quindici anni, preso dalla travolgente passione per la padrona di casa. Attenta a captare le atmosfere più rarefatte (da un silenzio «foriero di tempesta» al «rumore dei pensieri» – dalle «vertiginose visioni» prodotte dagli affreschi michelangioleschi al «vortice d’aria» che soffia sull’artista in stravolgenti istanti) – Anna Kanakis, nel suo romanzo d’esordio, Sei così mia quando dormi, costruisce il ritratto mobile di un’eroina intollerante delle regole e votata solo a seguire gli impulsi del cuore e a non rinnegare mai ciò in cui crede. Ha trascorso la giovinezza «a fare sogni sublimi d’amore alla Rousseau» ma, avendo sposato un uomo «senza troppe finezze», è costretta a rincorrere in sogno le ombre e a vivere nella fantasia, in un’ininterrotta e febbrile ricerca d’affetto. George possiede un’«anima impura», sensibile al linguaggio dei suoni, ama Chopin la cui esistenza è stata un’«infinita dissonanza», abbraccia le più avanzate idee sociali, dà scandalo con i suoi disinibiti comportamenti, crede nella bontà degli uomini e si circonda di un universo di artisti e di scrittori (da Alexandre Dumas a Delacroix, da Balzac a Flaubert, da Heine ad Alfred de Musset). Nella campagna di Nohant, ma anche negli sfondi veneziani, lucchesi, pisani, il visibile comincia a incrinarsi per assumere forme instabili, allucinate: voci e azioni si contorcono, scattano le ragnatele di un mistero che aleggia minaccioso. La pagina si fa vibrante, fitta di umori culturali e ondulazioni del lessico e pure di qualche punta di rocciosità che presto si frange in sciami di dissolvenze. I paesaggi divengono come inafferrabili, i confini fra realtà e delirio sembrano perdere incisività. Dilatandosi gli scenari viaggiano sulle variazioni della luce, sui contrasti timbrici. E i due amanti appaiono «stretti come un gomitolo di lana dove non vedi l’inizio del filo». E sarà la prematura morte di Manceau a recidere quel nodo.

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GIUSEPPE AMOROSO

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Rosso Floyd di Michele Mari Una fitta sequenza di voci che portano in superficie (attraverso confessioni, testimonianze, interrogazioni, referenti e «una rivelazione e una contemplazione») frammenti di fatti inquieti, a volte largamente noti ma spesso sommersi nella frenetica fortuna della leggendaria band dei Pink Floyd, costituisce l’originale struttura del composito e fiammeggiante romanzo di Michele Mari, Rosso Floyd. Lo sguardo attento e visionario dell’autore centrifuga una sterminata materia storica alterandone con abilità i termini di una millimetrica precisione documentaria («quando tutto è fluido le forme evolvono l’una nell’altra e quello che fino a un attimo prima era vero diventa falso, e il falso diventa vero»), facendo deragliare i tragitti più conosciuti, creando costellazioni di immagini imprevedibili per farle interagire in contesti carichi di tensione e mistero. L’obiettivo si rivolge agli aspetti segreti del quotidiano seguendo le piste oblique dell’esterno che portano all’interiorità, al nucleo vitale delle azioni. Si narra di un universo scompaginato, rovesciato, espresso da una pagina esclamativa, lussuosa e pungente, ad alta temperatura metaforica, tagliata da radenti lame lessicali e, insieme, smussata da penombre, diminuendi, volute sottrazioni di didascalie, piegata dalla sferza di febbrili contorsioni e poi variata, rilanciata in potenti sonorità, in riflessioni sapienziali. La descrizione più calibrata e obiettiva è sconvolta da soprassalti tonali che lasciano scoperte le vene più nascoste delle cose, delle vicende nelle quali sono invischiate molte figure in atmosfere pervase di profonda angoscia, tra ombre lunghe, immobili e ossessioni. Mari fora il muro delle apparenze e penetra nel «sistema» dello spettacolo che «riduce tutti a fantocci con la stessa maschera». Ma soprattutto entra nella fucina della musica dei Pink Floyd, perlustra la complessa architettura dei loro brani che «si sviluppano su se stessi come organismi viventi». È la «macchina sinfonica» di una difficile gestione che lancia messaggi talora pessimistici, conosce il buio del caos, mostra un che di «astioso, eversivo», un senso di incompiuto, una raffinatezza epico-lirica e una continua variazione. Autore di gran parte delle composizioni della band è Syd Barrett, «naufrago» da sempre perché non in sintonia con gli altri. Forse incapace di gestire l’enorme successo e avvelenato dalla droga, impazzisce sprofondando nella follia e compiendo così una serie di stravaganze che costringono i compagni a sostituirlo. Vivrà fino al 2006 in solitudine, collezionando chitarre. Incentrato sulla storia di questo «irregolare», Rosso Floyd è un racconto a tutto campo, in cui si incontrano la cronaca e il mito, la musica «dura,

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NARRATIVA

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geometrica» e la voce spesso «incrinata, fragile». Una narrazione come un «film altamente drammatico [...], dove tutto è fatale, un incontro, una parola detta per caso». In un dinamico gioco di riflessi, contrappunti la pagina assume una grande profondità e un vertiginoso movimento lungo linee asimmetriche, proiettate lontano, al di là del limite.

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Leonilde. Storia eccezionale di una donna normale di Sergio Perroni I personaggi dell’agile racconto biografico di Sergio Perroni, da Nilde Iotti, la protagonista, a Togliatti, dalle figure primarie della storia d’Italia del primo dopoguerra a quelle delle scene corali, sono dettati da una vita autonoma di immediata percezione. Non sono mai silhouettes che scivolano sugli sfondi, bensì creature pulsanti che godono di una incisiva autonomia e viaggiano nell’andamento spesso tumultuoso e intimistico e politico del testo, manifestandosi in proporzionate esposizioni, in scatti definitivi, in pose espressive di singolare efficacia. Disegnati in modo intenso, i volti rivelano una soluzione stilistica contenuta ed essenziale, lavorata su ogni dettaglio, gesto, voce e inoltre dislocata opportunamente nella tensione dei fatti, in una dinamica che, pur distinguendo i vari quadri, alimenta un continuum lineare lungo piani veloci, nitidi che aboliscono la nebulosità imponendo la corposità essenziale dell’intreccio (la vicenda personale della Iotti, il suo legame d’amore con Togliatti e poi la lotta per i suoi ideali mandata avanti «da sola») e lo spessore delle prospettive storico-sociali. Leonilde. Storia eccezionale di una donna normale adotta una scrittura diretta, senza fronzoli e deviazioni, capace di fare emergere dagli eventi di vasta portata (si leggano le pagine dedicate alla Resistenza, alle prime elezioni nazionali dell’Italia liberata, all’attentato a Togliatti, allo stalinismo) il carattere dei singoli personaggi e una piccola, lucente epica di «storie di tutte le donne italiane che hanno combattuto per la libertà di questo Paese». In un realismo piano, soffuso di un cauto lirismo tutto agganciato alle cose, il libro percepisce certe velate atmosfere spirituali le cui inafferrabili vibrazioni si propagano sul caso asciutto del ricambio tra eventi e dialoghi. In primo piano rimane sempre la perizia formale che non si chiude sui propri schemi bensì si trasforma in un veicolo pronto a isolare i vari nodi della narrazione. Abile inventore di nuove soluzioni stilistiche e strutturali con Non muore nessuno, Sergio Perroni ci dà prova di un singolare modo di affrontare alcuni problemi del mondo di oggi, ora visualizzandoli in una

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GIUSEPPE AMOROSO

sorta di lucido distacco, ora affidando all’eloquenza della storia la carica di partecipazione e giudizio.

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Fuoco su Napoli di Ruggero Cappuccio Denuncia dei mali di una città che sta per finire e, insieme, una grande, pungente nostalgia per una terra che da ogni devastazione può recuperare una «quiete festosa»: «Al massimo tra cinque mesi Napoli finirà di esistere. Al massimo tra cinque mesi Napoli non ci sarà più. I Campi Flegrei ci stanno preparando il benservito. La città sarà distrutta. Ci sarà una violenta esplosione iniziale». Le parole del professor Corso accendono in Diego Ventre, protagonista di Fuoco su Napoli di Ruggero Cappuccio, il sorriso glaciale di chi raccoglie una confessione della natura prima che il peccato stesso sia commesso. Intanto, nella notte, «gli stiracchiamenti acquosi del mare sembrano i movimenti svogliati di un gigante pagato per fare il suo mestiere». Una prosa incline alla ricchezza metaforica, alle allusioni, agli slittamenti di significati si veste non solo della propria flessuosa eleganza e delle reticenze più ambigue che scattano nei momenti imprevisti, ma esalta sempre il ruolo di ogni personaggio e la struttura a sezioni del racconto, il tono drammatico fatto di sequenze secche e la stessa regia dell’autore che intende gettare sul tappeto luci rissose, interlineature sapienziali, accordi tra le varie dislocazioni dell’imponente materia. Un linguaggio lussuoso, barocco, sorvolato da prepotenti ombreggiature e vibrazioni traduce le oscillazioni dei sentimenti, rallentandoli per raccogliere anche qualche memoria letteraria, o indulgendo verso la rappresentazione immediata di un mondo chiassoso e pieno di contraddizioni e in grado di esprimere, come in tempi remoti osservato dal poeta Stazio, «la lievità medicamentosa, capace di liberare lo spirito e il corpo». Al centro della storia due personaggi destinati ad amarsi di un amore intenso e drammatico: Diego Ventre, dotato di gran fascino, avvocato di successo e amico di uomini di malaffare, il quale legge pagine dell’Ottocento dimenticato ma intanto «possiede la città e le sue facce con l’occhio affilato del delfino sul popolo della savana»; e la bellissima Luce, «graffiata da raffiche di sguardi» e incline a «stringere con la malinconia un patto di amorosa accoglienza». Intorno, Napoli, una «Tokyo senza Tokyo», raffigurata dalla «corrente umana» di via Toledo a un «concerto di passi e tinte delicate» di un’antica cioccolateria; dagli «artigli dei rumori» che «storpiano l’aria» di una piazza alla via Croce «spaccata nel pomeriggio tra sole e ombra»; dall’«immenso fiato», soffiato «in faville fuocose fino al

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mare», alle cere dei passeggeri di un autobus «rannicchiate in un ronzio di pensieri dolenti». Attento a «scrivere una storia di Napoli ricostruendo la storia dei suoi rumori» e, insieme, a rivelare le devastazioni di un’Apocalisse («il molo Beverello non c’era più. Lungo tutta via Marina i palazzi erano coperti dall’acqua per quasi metà della loro altezza. Il Castello Angioino pareva un edificio favoloso sorto da un lago»), Cappuccio passa dai tratti più realistici alle più impalpabili sensazioni, a quell’«oscurità cremosa» che dolorosamente Luce vede davanti a sé.

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La circonferenza delle arance di Gabriella Genisi Si avverte naturalmente, in La circonferenza delle arance di Gabriella Genisi, un brusio di fondo, concreto, incancellabile, di voci vere in cerca di avventure e di fatti che transitano nella parola pronta a registrare tutto senza sussulti e alterazioni: costruita con la materia della parlata comune, con il tono basso e colloquiale in cui si avverte una recondita musica di concetti essenziali, di repentini agganci al peso della realtà. Il riporto puntiglioso degli accadimenti e degli oggetti (si va fino alle ricette di cucina) sancisce una dimensione della vita usuale ma al tempo stesso anche vibrante di tensione per quel senso di attesa, quella presenza del non compiutamente detto che si libera proprio dalla nudità delle cose, dalla loro essenzialità risolta nelle stesse definizioni contenute, nella scrittura semplice che, mentre fissa tutto in caselle sicure, pure sembra come richiamare un’ombra di mistero. Ed è questo il polo del romanzo nel quale prevalgono dialoghi brevi, spezzati, con inserti dialettali, lesti ad avvolgersi intorno ai nodi della vicenda aprendo così nuove prospettive all’azione, territori da scoprire spesso con l’aiuto di un pizzico di ironia. L’autrice dilata i dettagli, li espone al massimo rilievo, li sintonizza con il contesto, li accerchia e ne spreme questioni pratiche, tenendosi lontana da posizioni assolute, da ritratti psicologici sfumati e puntando sulla scioltezza della trama, sviluppata senza convenzioni, e sulla somma di episodi, su una combinazione radente e minimizzante di immagini, su una logica di indagine che prende l’aspetto di una didascalica illustrazione di indizi e di luoghi e di similitudini spalancati come inaudita fonte di meraviglia. Protagonista è Lolita Lobosco, detta Loli, trentaseienne con un «corpo da dea», commissario di polizia alle prese con un caso di violenza sessuale. Accusato è un affascinante professionista affermato, giovanile amore di Loli. Inquieta, separata, incapace di «far pace con il passato», la donna passa dalla

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malinconia al sorriso, dai ricordi di sé, «ragazzina profumata di vaniglia», all’intricato caso che deve risolvere. Intorno, la città di Bari, «pentola che bolle in attesa della vigilia di Capodanno», si colma di personaggi minori e minimi, spesso caratterizzati da confidenze e memorie (di scorcio compare pure, in libera uscita dalle pagine di Camilleri, il celebre commissario Salvo Montalbano) e spiati come da fessure, da riprese rapide ed eccentriche. L’inchiesta nel frattempo mette a nudo, anche attraverso il passaggio di qualche «sceneggiatura napoletana in piena regola», vicende di menzogne e tradimenti, violenze e ricatti, fino alla scoperta della verità. E si apre lo spazio perché la fantasia di Loli immagini «storie venute da lontano».

Scendo. Buon proseguimento di Cesarina Vighy Assente la volontà di creare un’opera di fantasia, Scendo. Buon proseguimento di Cesarina Vighy – notissima per il celebrato L’ultima estate del 2009 –, recentemente scomparsa, si può definire un romanzo epistolare nella stagione dell’elettronica. Segregata in casa, fino alla fine, da una tremenda malattia, la scrittrice si affida per comunicare alla libertà di parole spedite in un numero impressionante di e-mail nelle quali i sentimenti trovano l’occasione di effondersi senza freno, ma sempre nel rispetto di un assoluto rigore formale. Nasce una raccolta di frammenti, stesi dal 2007 al 2010 e rivolti a vari interlocutori tra i quali la figlia, che si reggono su una scrittura schietta e vivace, ardimentosa e talora illustrativa, molto attiva nel voler affermare una forza spirituale mai doma e anche pronta a chinarsi sui lembi più intriganti dei ricordi per fare emergere i «fantasmi» dei sogni. La prosa (agglomerata talora nella sospensione delle parentesi) si compatta intorno a se stessa, fa muro contro ogni tentazione di abbandono al sentimentalismo, è risentita e agonistica, allontana il compiacimento del dolore, anzi fa leva sulla malattia per compiere con le immagini un balzo più in là della barriera del soggettivismo dolorante e musicale. Definito dalla stessa autrice il «ripasso» di una vita che mette a nudo la «venezianitudine» attraverso il filtro dell’ironia, questo diario batte un cammino psicologico profondo che punta dritto al cuore delle cose. Appare, certo, una ventata di ribellione al crudele destino ma ammantata da un superiore e talora anche superbamente disincantato gusto del sapere quanto forte sia la forza della scrittura. Colta, incline alle citazioni letterarie, disposta a rinvenire negli eventi i caratteri dell’universalità, una filosofia esistenziale che fa vedere il mondo restringersi con il passare degli anni, e avanzare l’isolamento più soffocante,

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Cesarina Vighy ascolta il «silenzio del corpo», l’«alternativa del diavolo», vuole dare, con le interviste, un «prodotto fresco a ogni interlocutore», non intende mostrare di sé uno spettacolo triste per non trasformare la festa degli altri in uno «psicodramma». Va dalle battute amare, pronunciate da una «larva disperata», alla curiosa e critica visione di personaggi contemporanei. Vengono così privilegiati connotati cronachistici che non infrangono le tematiche più rilevanti e la tessitura lirica del testo in cui si susseguono il «gioco del silenzio», il «didattico umorismo», il triste risveglio dagli inganni, l’humour nero, le «regole della diplomazia cinese del ping pong». Arde un’animazione totale del contesto che non rinuncia alla sorpresa, a una diffusa sensazione dell’io narrante di «procedere in altalena». Attraversata da tanti lineamenti intertestuali e dalla sommessa ricerca di una «giusta serenità», la pagina mette vicini l’inventività discreta della «decu-fiction», il gusto del sovvertimento del luogo comune («ogni giorno per divertimento interpreto una fiaba diversa») e la convinzione che pure le grandi passioni, per quanto distanti e tali da ridurre l’interesse anche per il lavoro, poi, «per fortuna o per disgrazia, si riducono e finiscono: non regge il fisico, non regge l’anima, non so».

Lezioni di arabo di Rossana Campo Divorziata da alcuni mesi, Betti si mantiene a Parigi lavorando come cameriera nel grill di Hassan. Qui conosce Suleiman, trentenne intellettuale silenzioso, alto e magro, che è solito sedere a un tavolo vicino alla porta, con le spalle alla vetrina, come per non vedere il mondo. Ha uno sguardo «da animale affamato», il giovane che attira l’attenzione della protagonista di Lezioni di arabo di Rossana Campo. Finisce spesso dentro pensieri «sconclusionati, leggermente paranoici», questa donna irretita dallo sconosciuto capace di risvegliare in lei i suoi lati più segreti, «quelli che non si tirano fuori nella vita di tutti i giorni, quelli che non frequentiamo di solito quando andiamo a comprare il pane o salutiamo la vicina di casa». Pur imprimendo forte tensione alla realtà dell’esistere, «l’unica cosa reale che abbiamo», e organizzando in modo essenziale la trama con il sacrificio di molti stati sospesi in favore di una comunicatività oltranzistica, Rossana Campo si avvale di una elaborata abilità tecnica al fine di costruire personaggi articolati, e impiega una scrittura in grado di esprimere in breve una quota di particolari in apparenza ininfluenti. Il racconto si dota di spaccati memoriali che operano una vistosa verticalità pronta a frenare

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GIUSEPPE AMOROSO

un eccessivo appiattimento cronachistico. Al resto pensa l’immaginazione che crea dal nulla storie, personaggi effimeri, proiezioni di gesti: un piccolo, pulviscolare universo sfocato, stampato sui fondali. Nel rapporto d’amore Betti e Suleiman sono «due naufraghi impauriti che hanno trovato una zattera, una barca, qualcosa che si illudono potrà salvarli». Sull’ala di un’«innocente allucinazione, una fantasia», Betti ripassa la traumatica storia di passione vissuta in adolescenza con il maturo Ennio, meccanico trentenne sposato. Un grande potenziale di immagini erotiche non riesce sempre a incanalarsi docilmente nella catena narrativa un po’ esile. Qualcosa di non finito, un ambiente abbozzato sia pure in alcune nitide illustrazioni, un’azione di continuo interrotta, qualche dialogo troppo schematico sono immersi in una luce che preme da una fonte eccentrica, spostata, non esatta: e sembrano così creare qualche scompenso con il ritmo franto della vicenda, un doppio piano di scorrimento. Si imprime uno screzio sulla superficie: forse da questa distonia la circolazione dei fatti può prendere paradossalmente un «qualcosa di magico», sempre all’interno di un contesto cupo, greve, scabroso, segnato da improvvise estasi e molti sensi di colpa. Con Suleiman Betti comprende di essere finalmente libera, di toccare un sentimento «grandioso sul serio», di voler «sperimentare un modo nuovo di amare». La frase di un vecchio libro la consola: «la gioia attira la speranza». Abile nell’affrontare i problemi più infuocati della scoperta del sesso, Rossana Campo vi si accosta ora con spietata immediatezza, ora mettendo in atto una sorta di flessione ironica, ora mistificando un po’ l’impatto con una pressione onirica.

L’ultima riga delle favole di Massimo Gramellini Introdotti da rubriche dall’antico sapore di sorriso e da una canonica disposizione illustrativa, con un velo di reticenza, i capitoli bene articolati del romanzo di Massimo Gramellini, L’ultima riga delle favole, rivisitano una concreta situazione esistenziale (la ricerca di una risposta alle domande più assillanti, sull’amore e sul dolore, che continuamente ci assalgono), muovendosi tra contrappunto avvolgente e sincopato e una lama di asprezza acuta e dissonante. Ne scaturisce la mappa dei comportamenti di un «disertore sentimentale» attraverso la registrazione di piccoli eventi e delle «rate di dolore del mondo» contrassegnata da una carica poderosa di visionarietà. E si determina un andamento oscillante tra ampi primi piani e risvolti rugosi (un molo, per esempio, può da sempre essere un privato «ufficio dei sogni») in cui si affaccia-

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no di scorcio silhouettes, figure allontanate quasi in una misteriosa dissolvenza, volti indecisi, sul punto di fermarsi o aprire d’incanto una loro storia oppure vivere di quel tanto di esilio concesso dal distacco del racconto. L’incrocio di parabole e di cronaca è alla base di un misurato passo narrativo, con sentimenti esposti e autoanalisi in primo piano. Ed ecco Tomàs, un uomo qualunque che si presenta subito come chi pensa di «non avere scampo», immerso anche nei minimi gesti, in un «tempo dilatato», e disponibile a immaginare, in uno stato di spossatezza, la morte «come una complice». Ha ferite che non può guarire, pochi ideali e amici e amori da rimpiangere e, davanti, una «deriva» negli abissi di un mare di noia. Ma, improvvisa, la svolta con lo sconfinamento in un mondo ignoto, un «universo parallelo», nel quale già comincia per l’uomo a nascere una «pallida voglia di vivere». Compaiono figure e oggetti simbolici (Stella Maris, Uma, gli spiritelli crudeli delle favole, gli ospiti delle Terme e il tappeto dei desideri, la vasca dell’Io, l’Ombra dell’Amore) in un viaggio ultraterreno in cui la tradizione letteraria è agile veicolo di invenzioni fantastiche, di colpi di scena che contemplano la presenza dell’Anima Gemella. Lo stile colloquiale e quello metaforico, la registrazione diaristica e il sale di una sapienza antica e rinnovata si miscelano in un racconto nel quale il tempo del protagonista (puntellato da confidenze, memorie, rimpianti, nevrosi e sogni) e quello dell’irreale contesto (frenato da una volontà di verosimiglianza che rende praticabile senza sforzo il fiabesco) stimolano il tessuto di una prosa vibrante, fatta di icone inedite, schermaglie veloci fra personaggi di grande effetto visivo e un intarsio di massime che si lasciano alle spalle una pungente scia di ricchezza psicologica. Talora, nel tono volutamente cantabile del rac-canto (e qui tanti testi poetici si possono ascoltare sulle note di celeberrime ballate di De André) si diffondono quelle arcane storie che «toccano il cuore degli uomini» e, intanto, svolgono il «nastro» della vita di Tomàs fino al «senso di tutto» sgusciato dalla «gabbia» delle parole. E, ora, «complice» non è più la morte ma la vita che aiuta a «risanare tutte le ferite». Complice è il «linguaggio» della sincerità che può rintracciare una «voce di flauto» in un sogno. E il personaggio, alterato nel suo disordine sentimentale, ritrova una sana armonia nell’ordine di sconvolgenti visioni finalizzate con felicità dalla composita struttura del romanzo.

Canale Mussolini di Antonio Pennacchi Una grande saga familiare, quella dei Peruzzi che scendono dal Veneto per insediarsi sulle terre bonificate dell’Agro Pontino, sgrana, in Canale Musso-

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lini di Antonio Pennacchi, una fitta successione di vicende che a volte si spezzano, si deformano, riprendono vigore in punti impensati. La sorpresa narrativa maschera la pressione di una riflessione diffusa, non invadente ma parte attiva e ossatura del disegno del poderoso romanzo. L’avventura, sostenuta dall’estrema vivacità dei personaggi e della loro ibrida parlata, si gonfia, rimbalza, sembra perdere forza quando si confronta con il commento dell’autore. Ma è un’abile manovra perché il discorso possa essere segnato di una più pungente consapevolezza, pure stilistica, che è patrimonio del romanzo e si evidenzia spesso mediante soprassalti portati ad accrescere le potenzialità rappresentative, suscitando anche il prevalere di atmosfere sulle situazioni concrete messe a fuoco e totalmente realizzate. Da un largo movimento corale, dove ogni volto trova la sua opportuna collocazione, emerge zio Pericle che giunge nella sua nuova «stazione di campagna in Terra Promessa» in «compagnia di tutti quelli che vollero venire». E sono tanti, legati da una sotterranea parentela dettata dalla povertà («I poveri in fin dei conti sono tutti parenti tra loro, perché fanno tanti figli»). Vigilata quasi da un metafisico sguardo («Il cosmo in un modo o nell’altro troverà modo di avere pietà di te, anche se uccidi»), si snoda una cronaca millimetrica, corposa e, al tempo stesso, condotta al di là di un riscontrabile confine, di un punto di riferimento esatto, in cui lo schema dei contrasti, il continuum narrativo e le interruzioni frequenti conseguono momenti di fusione e pure di sovrapposizione. E la nota psicologica scopre nel rapporto tra personaggio e ambiente una serie di sfumature, l’indicazione di gesti minimi che riescono a conquistarsi spazi propri, apparentemente neutri, illustrativi, scelti dall’autore per portare avanti la sua onnisciente visione delle cose. E così gli elementi più coinvolti nell’intreccio assumono rilievi più marcati. Tuttavia, la circolazione di fatti che non coinvolgono direttamente il protagonista entra ugualmente in un’aria percorsa da una catena di evocazioni che riguardano «una barca di persone» e dettagli infinitesimali e aneddoti e vicende secondarie impresse però in modo omogeneo sulla medesima lastra romanesca. Pericle, circondato da un’aria di leggenda, cammina talora come distaccato, tutto preso da un viaggio che pare avviarsi verso altri orizzonti e non solo verso il perimetro circoscritto dei poderi delle terre prosciugate. E passano Armida, la bella moglie di Pericle, «quella delle api», e zio Adelchi orgoglioso delle sue imprese in Africa, alla «conquista dell’impero d’Abissinia»; zio Benassi che forse ingrandisce i suoi racconti, e il nonno e la nonna che non si perde mai d’animo, e i figli e tutti gli altri, «stretti a coorte» nell’«enclave» rurale: dove la cosa più bella è «andare la domenica mattina a messa al borgo» («Greggi venete con un pastore marocchino»).

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NARRATIVA

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E mentre il grande affresco storico si arricchisce di nuovi tasselli fino a coprire mezzo secolo di vita nazionale, la sfortuna si accanisce sui Peruzzi: i campi in rovina, i nomi ormai solo un fiato disperso nella crudeltà della guerra.

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Il Santo Marrano di Giuseppe Sicari 1492: l’inizio di una nuova era. L’eco di grandi eventi arriva nel Regno di Sicilia, «dominio periferico di Aragonesi e Castigliani». Centro topografico del romanzo di Giuseppe Sicari, Il Santo Marrano, è la popolosa e ricca città di Licata, dove un ufficiale di polizia si appresta a raccontare gli straordinari fatti accaduti a partire dalla primavera. Una sequela di intrichi, avventure, delitti, passioni emerge da un racconto in cui tutti i connotati umani e del paesaggio appaiono subito spostati da un movimento sotterraneo che li sospinge verso un confine d’ombra e di mistero, una frattura, una crepa, nelle psicologie e negli ambienti, destinata a far perdere compattezza alle superfici del certo. Tutto si copre di una luminescenza malata, precaria, quasi uno stato allarmato, sospeso, ferito da un’inquieta attesa, da un battito anomalo del tempo e dal sopraggiungere di un sovvertimento visionario. La realtà più che concreta pare allusiva, come chiamata da un interrogativo a una indecifrabile resa. Sicari si preoccupa dei dettagli, li enumera analiticamente, ma il loro peso si sfalda nello sfondo della difficile convivenza nella città tra Cristiani e la consistente comunità ebraica. Il punto da cui prendono avvio le vicende è il ritrovamento del corpo di un venditore ambulante giudeo, ucciso e atrocemente mutilato. La scoperta della vera identità dell’assassinato (un agente dei Servizi segreti inviato da Granada per investigare su un atroce delitto avvenuto qualche tempo prima) e l’arrivo di un inquisitore snodano una trama i cui incisi, le incursioni saggistiche, le illustrazioni di usi e costumi rendono più intensa, riconducendo l’indice di attenzione alle direttrici drammatiche che la percorrono. In arsi l’approfondimento, non la divagazione: a esprimerlo è una scrittura in apparenza lineare, ma nel profondo irta di scosse e alle prese con «l’inghippo» degli avvenimenti e con l’estensore della cronaca, sempre pronto a «fare un po’ di scena». Il clima si fa teso, elettrizzato da immagini che non si protraggono a lungo, bensì rispondono a un ritmo concitato, pure sonoro, disposto a ripetere alcuni motivi aspri, frammenti di episodi, effetti anomali dovuti al «vento che arriva dal deserto africano».

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Dialoghi frizzanti e pensosi, schermaglie verbali che «passano dal fioretto alla sciabola» danno vita a una multiforme folla di personaggi, invischiati in un coro continuo e vociante (di venditori ambulanti, macellai, fabbri, cerusici, soldati, donne di malaffare, ma pure feudatari e banchieri), o isolati in alcuni profili di notevole spessore: il sergente d’Andria dal «flautato eloquio castigliano»; la vedovella che ricama a testa bassa, «come se attorno il mondo non esistesse»; Ciccio Liperni che gestisce un negozio di copiatura di manoscritti; don Ciscu Crispu, la persona più ricca di Licata, un «nuovo cristiano con interessi dappertutto»; e poi il dottor Mussumeci, proprietario di una cospicua biblioteca e altri visi coinvolti nel decreto di espulsione degli Ebrei dalla Sicilia. In contrappunto, presenza costante e fascinosa, la figura del «Santo Marrano», un carmelitano martire del Duecento, patrono di Licata. E, infine, accanto a personaggi contagiati da una sinistra fama, o divertenti e bizzarri, sempre il narratore, che si concede il destro di giocare con il suo diario, fra un’avvenente saracena e un’antica statua di Afrodite.

Era di maggio di Cesare De Seta Uscito nel ’91, torna il primo romanzo di Cesare De Seta, Era di maggio, mantenendo inalterato quell’aggressivo e struggente sapore di verità e inganno, di indagine e abbandono che la scrittura lineare e circolare, al medesimo tempo, esprime in un’immediata impressione di compattezza e di sbandamento, marmorea fissità (connotato ben evidenziato da A. Colasanti nella postfazione) e deriva lenta e inesorabile. Si imprime un ritmo discontinuo che suscita, mai disperdendola, una trama tenera e sofisticata, illusiva e razionale: autentica atmosfera del momento, clima ambiguo e allusivo da cui sono generate le due figure centrali. Fabrizio, da un lato, studente perso negli occhi «grigi, verdi, azzurri» di Sara, e intenzionato o «carpire» il senso delle giornate «convulse», innamorato, ma sradicato dai suoi stessi sogni; dall’altro, Sara, coinvolta totalmente nel movimento giovanile del Sessantotto, rigida nel suo «rancore», nella ventosa utopia di una «palingenesi sociale che avrebbe rifatto il mondo». Anche quando la realtà un po’ si piega alla lettura politica, la pagina non perde il timbro della raffigurazione mossa e avventurosa e si esalta nello spartito senza musica di un racconto secco, inesorabile, sostenuto dall’esigenza di spiegare, giustificare i comportamenti, metterli in discussione, senza mai rallentare, bensì cercando sempre connessioni tra gli episodi. Si stabiliscono legami saldi fra i personaggi: non fortuiti, ma suscitati dal rimbalzo, dagli stimoli, dalle provocazioni che arrivano da fuori (cortei, assemblee,

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occupazioni di sedi universitarie). Il flusso narrativo si fa più poderoso e anche più esile e intimistico nel ritagliare situazioni private, mentre la presa diretta non disdegna di agganciare una folata di memorie e di immagini legata alla letteratura. Descrizioni minute di ambienti oltrepassano l’ambito dell’illustrazione per divenire simboli di particolari condizioni sociali e psicologiche e pure veicoli di una messinscena di volti: il padre di Fabrizio, giornalista immerso nei libri e in interminabili colloqui con colleghi e amici; Carlo, isolato nel suo burbero mutismo, spirito vero «fra tante fasulle controfigure»; Erminia, «inesorabilmente perbene», Marrone «campione dell’oratoria studentesca»; il professor Buonvino, con l’«innata vocazione a soccorrere i vincitori»; Sergio dal «volto da furetto»; Sylvie che muove le mani bianchissime» con l’«eleganza di certe danzatrici orientali»; Yvonne che fa aprire gli occhi di Fabrizio su una Parigi sconosciuta. Incapace di comprendere ciò che succede intorno, Fabrizio cade nel «baratro» che lo divide da Sara, non riesce a districarsi dalla sua storia «ingarbugliata» e dà inizio a un viaggio che lo porta da Capri ai cieli «graffiati solo da spruzzi di nuvole» di Helsingor; da Parigi, dove rifiuta l’idea di restare «intruppato in un laboratorio di ricerca aziendale», di nuovo a Capri, dove ritrova sintonia con i ritmi della natura, e poi ancora nella città natale. Lì i suoi vecchi compagni hanno messo su una «parodia della Rivoluzione Culturale cinese». Non resta più niente, anche l’amore di Sara è irrimediabilmente svanito. Ma le «ferite più crudeli col tempo si rimarginano, le perdite più forti vengono sostituite con surrogati».

La marea umana di Franco Cordelli Nella sua voce c’è un’«imponderabile sottrazione». Canta Puccini da «distanze siderali»: Fumiko, silenziosa, è partita, ma il suo vuoto è rimpiazzato dall’entrata in scena di due nuovi personaggi. L’io narrante, invece, forse «un bersaglio, uno che sta in piedi, eretto da qualcun altro, in attesa di chissà», è ironico, «capzioso», e sfoglia nella sua casa un inutile quaderno del passato. E risalgono, in La marea umana di Franco Cordelli, i ricordi di un incalcolabile numero di anni che sono territorio sconosciuto, senza «vibrazioni». Una scrittura nervosa, mimetica dell’accerchiante arrivo delle memorie, è in grado, con mezzi stilistici secchi e proclivi a mutare la risalita delle immagini, in un orizzontale scorrimento della cronaca, e di far rotolare in primo piano in plastica evidenza una sequenza di piccoli episodi, convulsi e pulviscolari, piegati e feriti dai sogni dell’io.

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Certi colori accesi e temi intriganti, vivacizzati da rincalzi parentetici e dalla volontà di rendere «entità palpabili» pure i misteri, insieme con i suoni concitati e definitori, fanno di angusti mondi frantumati un continuo intreccio di passato e presente fusi, tangibili e leggendari, una concatenazione di fatti, «dai minimi agli infimi», dentro una durata flessibile, carica di «coincidenze che poi si rivelano niente altro che ritorni»: un vero segnale romanzesco. Tocca al tempo, abile nel «dirimere le dispute di ogni tipo», il compito di far emergere la figura di Aki, di nome Azio nella remota stagione della giovinezza, ex compagno di scuola del narratore. Paesaggi romani e uno struggente scenario del lago di Como fanno da sfondo a un racconto a più piani, che coniuga un «punto altissimo, stratosferico, invisibile da ogni telescopio» con un millimetrato resoconto di accadimenti, l’Indonesia con l’Europa. Una «vertigine» mescola i «graffiti elettronici» e le lunghe riflessioni esistenziali, la crudeltà della vita concreta e l’immobilità vitrea, e beffarda, di una foto, le voci dei poeti e quelle delle persone vere. Bombardati da un lessico scaglioso e interrogativo, i dettagli si bloccano in un’immobilità serrata, in «fotogrammi di un film che sia stato accuratamente ritagliato e sovraesposto». Sono schegge di una vita tesa a distruggere tutto, a dilaniare, disperdere (per insofferenza, odio, inerzia?) e contemporaneamente a riempire le assenze con le risorse dell’immaginario, inglobando nelle pure discussioni, nei monologhi, ogni spettacolo possibile. È un procedere che convoca una «marea umana» (indimenticabili alcune figure femminili: Valeria, Silvia, Elvira, Donata) destinata tuttavia a scomparire, e assestata su una pagina capace di far scintillare l’inespresso, di scovare i più impensabili risvolti, di dare libero transito a scrittori noti (pensiamo a Piovene) e di privilegiare gli «incontri brevi». Scende nel vivo della psiche, Cordelli, e mette in moto un’esplorazione senza soste di comportamenti tali da rendere emblematico un carattere evitando spesso il protrarsi analitico della descrizione. Illuminando con potenza un dato si circoscrivono le ragioni emotive di un personaggio anche attraverso soluzioni paraboliche («le parabole vogliono dire una cosa precisa, sono una forma estrema e raffinata del racconto») e con l’attitudine a un gusto sapienziale intorno al quale si organizza con scioltezza l’arco del supporto speculativo.

La melodia del corvo di Pino Roveredo Tutto ciò che cade sotto lo sguardo di Pino Roveredo si trasforma, assume aspetti indefinibili; è una furiosa proiezione della mente, un abbagliato

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sfondo di fantasmi. Il circoscritto mondo quotidiano del protagonista di La melodia del corvo e quello di fuori, delle figure circostanti sembrano fondersi in un misterioso segno di pericolo, un’inquietudine che altera le cose. Evocazioni di ambienti e volti deformi si nutrono di urti: ed emergono schegge di personaggi, frammenti scomposti di azioni che scaturiscono da un’atmosfera arroventata, come pungenti poli di irradiazione narrativa, spazi turbinosi in promessa di sviluppo e insieme momenti di riflessione in cui il romanzo si esprime nella forma di una confessione febbrile. Tenta di sbrigare la «pratica del congedo» dalla vita con la «dignità della forza fisica», Gino Bonassa, che, con la «stanchezza da cadavere costretto a vivere», ripercorre, in ospedale, un evento centrale della sua storia, quello che ha fatto girare la sua vita «dentro l’ipotesi di una danza»: l’incontro con Giuliana, «urgente come un uragano», dagli occhi «spalancati come una sorpresa», un’accanita attivista politica. E si abbandona al piacere di un «replay girato in testa», quest’uomo intristito da una spenta vita familiare e rilanciato dall’ebbrezza del ritrovato rapporto con la mai dimenticata Giuliana, «madonna senza cielo». Paesaggi convulsi, miseri appartamenti, taverne, bettole, osterie invadono, con «rimbalzi ubriachi di avventori», un orizzonte scuro, decomposto, pieno di miasmi, onirico, dove «mosche affamate e ingorde [...] continuano a posarsi sul passato». Inabissate in una «spirale d’angoscia», le azioni pulsano in un rialzo di immagini; le parole «crollano sul pavimento»; un ospedale è un «cimitero bianco dove ti obbligano a vivere»; folate di figure strane vengono stravolte in un turbinio di gesti che le similitudini ardite dilatano in un realismo disfatto dalla fantasia. Finito in carcere, a causa dei traffici illeciti di Giuliana, il protagonista non cessa di amare la donna che, «falsa come gli accendini dei marocchini», conclude tragicamente la sua vita. Racconto di esistenze dannate, in un parlare concitato di voci dilaniate dai propri ingorghi psicologici, La melodia del corvo rappresenta situazioni spesso parossistiche spiando da fessure, angoli di ripresa anomali, sicché le scene appaiono come intraviste, i volti sono scorci sfregiati, le parole suonano alte, pur conservando in sé una remota variazione di echi.

Leielui di Andrea De Carlo Lei, svegliandosi nel suo piccolo appartamento nella grigia periferia di Milano, vuole cancellare al più presto la «nostalgia del sogno», ma non dissolve un senso di perdita. Lui, entrando nella casa che ha appena affittato nel sud della Francia, è oppresso dall’angoscia: al di là dei vetri la pioggia continua

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a cadere senza tregua. La prosa slanciata, estrosa, denotativa di Andrea De Carlo trova sempre sbocchi naturali anche in una breve ricognizione d’ambiente, nella sottolineatura di un gesto semplice, nel lieve soprassalto di un pensiero. Questa possibilità di disegnare archi ampi crea un ordine, un tono ininterrotto che lega i vari capitoli alterni (uno dedicato alla donna, Clare Moletto, impiegata nel call center di una compagnia di assicurazioni; l’altro a Daniel Deserti, autore di un libro di successo) del suo nuovo romanzo, Leielui. Con tenacia colloidale l’autore muove lo spostarsi dei fatti da un punto all’altro della pagina lineare e molteplice, conclusa nei punti nevralgici anche quando sembra liberarsi dai suoi confini e spostarsi più in là, verso zone da esplorare, intrighi, passioni che non sono un vero mistero ma una specie di riaffermazione dei singoli motivi, una più ambigua versione degli eventi. Indubbiamente v’è una limpidezza totale in questa narrazione che attinge qualche cifra espressiva anche a un cauto iperrealismo (vigilato dal sorriso e da ammicchi maliziosi), tra impianti molecolari («isolare i dettagli che contano, astrarli dal flusso del generico e dell’insignificante») e risvolti riflessivi. Personaggi passano anonimi, disfatti come «sopravvissuti», lasciando tracce di malinconia in un paesaggio che pare raccogliere tutti i sentimenti e le sfumature, fatto di tasselli concreti e della sovrapposizione mentale di chi lo abita e lo elegge a controcanto di tristezza (un «atrio verde-morte»; la «jungla palustre dei Navigli»; un’«onda di caldo umido che arriva addosso come un mostro alieno», una «luna preoccupata»): un mondo alterato, partecipe, aggressivo, inafferrabile e rigido, fisso e ondulante, serpentiniforme, i cui simboli si protraggono a volte simili a ossessioni. Talora, invece, la contemplazione dell’esterno si esilia dalle irrequietezze e dalle perplessità dando spazio a qualche sfondo più arioso e solcato di memorie. A causa di un incidente stradale Daniel e Clare si conoscono e, «attorniati da impulsi di fuga e di avvicinamento altrettanto intensi», finiscono per innamorarsi. Dapprima un confronto in cui l’uomo rialza il «livello di rischio senza copertura» e Clara accusa un’«onda di instabilità universale» che «continua a salirle dentro sempre più forte». Intorno, il solito paesaggio animato, fra cambi di luci, profumi, transiti di trasparenze e fruscii e un «sole accanito» e l’aria che «fa una resistenza cedevole» a ogni movimento dei due che, insieme, sono stretti da una «forza inspiegabile e irresistibile». Da fuori, dagli altri i messaggi arrivano come da «un pianeta infinitamente lontano». Ma a un certo momento Clare si accorge che un’idea coltivata da bambina» l’ha sempre trascinata più verso il disastro che verso la serenità. Elettrica, avvincente, irta di suspense, la conclusione.

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Il segreto di Nadia B. di Sergio Campailla Con ordine, limpidità critica ed emozionante rivisitazione Sergio Campailla raccoglie documenti storici sull’esistenza di Nadia, giovane anarchica russa, morta suicida, disponendoli in una struttura narrativa non «statica, e chiusa, ma aperta, nella progressione dei dati acquisiti, alla ricerca della verità insidiata dalla menzogna». Tutto, in Il segreto di Nadia B., sta nelle cose, si fonda su personaggi esistiti ma si sviluppa «come un romanzo russo», in uno scenario europeo tra Odessa, Berlino, Londra e Firenze. Il nastro di partenza è la vivacità di un racconto in cui i particolari si riflettono subito in una varietà di fonti d’archivio manovrate con scioltezza dall’autore che entra nel testo in prima persona e fa incrociare la vicenda della protagonista con la «fosca leggenda» di Carlo Michelstaedter. Interruzioni e rilanci, formulazioni di «varie teorie», esperta conduzione del testo finalizzata a «colpire l’immaginario» e dosaggio del «silenzio» disciplinano le illimitate misure di una pagina portata a schiudere inattese prospettive che riaffermano la tendenza di Campailla a suscitare luci e colori diversi e a indirizzare maggior peso verso azioni più incontaminate e libere e suscettibili a trasformarsi in un’emittenza di osservazioni e riflessioni tra qualche chiamata all’ordine («Tiriamo le fila»; «Prima di proseguire, un’osservazione non si può tacere») e qualche rinvio letterario («A chi, leggendo, non è venuto in mente Il fu Mattia Pascal?»). Si spalanca un’azione attratta da uno stringente commento sapienziale per mezzo del quale la rigida cronaca del suicidio di Nadia tende a ispessirsi di note esemplari, di un’elaborazione tesa ad assumere ritmi mentali, «integrazioni sostanziali», tessiture critiche. Le due linee, narrativa e saggistica, spesso invertono i piani, mentre ciò che talvolta resta fuori (un rapido passaggio, un’ipotesi, un interrogativo) prende la funzione di un contrappunto, quasi una forza in più della scrittura, con la facoltà di inventare dimensioni composite. Lei, Nadia, ha «un passato da raccontare», è nevrastenica e allucinata, ma non sta dentro le «coordinate di una cultura che ha come garanti un Carducci, un D’Annunzio, un Pascoli». La sua iniziale B. fa da schermo a un cognome e a una storia: una verità e una dimensione sfuggente che «mentre si rivela, si nasconde». E occorre un «supplemento di indagini» volto a indurre nella vita di Nadia «un’intrusione dolorosa». E così si possono rilevare i frammenti espressivi, gli scarti, le oscillazioni tra un racconto pronto a concatenare le immagini più avventurose e a stabilire agganci con i loro contesti, e un secondo attento alla propria gestione fatta di tracciati che si esauriscono una volta esauritasi la compagine documentaria e aneddorica. Appaiono nuovi personaggi (come un «imprendibile pittore») nell’atlante di

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un mondo che «sta tremando», si allargano i confini a terre sconosciute e temute e a un «altro e decisivo capitolo, a sorpresa». E allo scrittore sorge il sospetto di aver «sbagliato servizio, annata, fonte». Riprende il filo con una Nadia che, solitaria, si scontra con un muro di pregiudizi e, intanto, «sogna a occhi aperti». Discretamente, Campailla continua a «chiarire» identità e paesaggi, a intrecciare sotterranee corrispondenze, a cercare di leggere l’«orologio della Storia», all’interno di un groviglio di fatti in cui «le cose importanti sono quelle che si nascondono».

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Mia suocera beve di Diego De Silva Un romanzo che promuove la sentenza a potente conduttore dei fatti, anche dei più ininfluenti: da qui una circolazione evidenziata, a volte spettacolare, dei personaggi che allargano il loro spazio dando l’impressione di una consistenza maggiore, di una durata e incisività che prendono immediatamente chi legge. Spiegare le ragioni di un comportamento giocando su toni bassi, la cui pasta linguistica è composta di ingredienti ben dosati e di efficace effetto comico, vuole dire unificare i vari piani narrativi in un’ottica omogenea, maliziosa, disinvolta, ricca di umori. La profondità del pensiero si cela in anfratti, fermenta in pause e divagazioni improvvise, fa i conti con il «comune senso dell’estetica», senza eclatanti stacchi verbali rispetto al linguaggio delle vicende in presa diretta. Il racconto ha un andamento lento, si snoda secondo un canone tradizionale, ampio, quasi ottocentesco, che si occupa di indirizzare verso naturali esiti tutti gli spunti, le sollecitazioni da cui è generato. E allora ciò che a un primo contatto pare divergere o confinarsi in una meditazione autonoma, viene riagganciato dalla promessa di nuovi intrecci, sviluppi. In tale clima di comunicazione appagante ed effervescente si inserisce la figura del narratore, l’avvocato Vincenzo Malinconico, già presente nella produzione di Diego De Silva. Ora, in Mia suocera beve, l’uso assiduo della riflessione tende a spostare la qualità delle immagini dal loro sito colloquiale di appartenenza verso quote più coinvolgenti e memorabili; da un minuscolo quadrato di cronaca a una galassia di fantasie, aprendo l’accadimento anodino a un arco di nuovi sensi. Modesto, riservato, costretto a «parlare del più e del meno» a causa dei «paletti del senso comune» che gli «finiscono sempre fra i piedi», Malinconico ha il sospetto di essere caduto «per puro equivoco al posto di qualcun altro». Capitato nella scena irreale di un supermercato deserto in cui un ingegnere, che ne ha progettato il sistema di videosorveglianza, sta sequestrando un boss ritenendolo responsabile della morte

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dell’unico figlio, l’avvocato non tralascia di ripercorrere i momenti essenziali della propria esistenza evocando personaggi (la ex moglie, la suocera, la nuova compagna, la bellissima Alessandra Persiano) e affrontando problemi di largo interesse (fra i quali quello relativo a «un corso accelerato di scrittura non troppo creativa»), come «un entomologo esamina un insetto». Una materia densa, talora pure ingombrante (per la molteplicità degli eventi, l’esposizione vistosa dei personaggi, la «concitazione», sebbene controllata, delle notizie), riesce a trovare un naturale passaggio narrativo nella consapevole complessità di una scrittura che prende in esame ogni dettaglio, si interroga, cerca di spiegare gli «automatismi affettivi», avvicina i territori più distanti, scandaglia il «disagio» psicologico, affronta le contraddizioni di un mondo che «va controsenso» e i segreti dell’amore che in gioventù si presenta «come un’imposta abusiva, un’irpef della felicità». Citazioni di giornali, canzoni, un miniquestionario e sempre un ironico processo di enfatizzazione (ancorato tuttavia a ricognizioni radenti della realtà) scorrono in una pagina copiosa, attenta a riprodurre fedelmente i riti della società contemporanea.

Il cimitero di Praga di Umberto Eco Sontuoso, monumentale ma pure chino sul dettaglio minuto, sul trascolorare di un’ombra, su un fruscio; labirintico e, insieme, fluente in un corso narrativo che indirizza l’immensa materia (e anche il commento del Narratore) verso le esigenze della comunicazione; dimostrativo e, tuttavia, pronto a sciogliere la tesi in una disputa di sorprese: Il cimitero di Praga di Umberto Eco racconta, in un quadro storico che abbraccia l’Europa dell’Ottocento, le vicende di un uomo volto a interrogarsi sulle proprie «passioni» più che sui «fatti» della sua vita. Presa la nazionalità francese, perché non poteva «sopportare di essere italiano», il protagonista, falsario di documenti, ama travestirsi e ha la sensazione di «essere un altro che si sta osservando, dal di fuori». Misterioso scrivente, tiene un diario in cui si accinge a riesaminare il suo passato, partendo dall’infanzia e dalle parole dell’amato nonno: vive in un vicolo cieco di place Maubert, a Parigi, e ha nome Simonino Simonini. Odia il mondo e soprattutto gli ebrei. Unico personaggio di invenzione in un universo concreto, si muove fra tante figure i cui comportamenti derivano dalla forte pressione dell’autore e non tanto dalle strutture degli eventi dalle quali arrivano «accenni avari che agiscono [...] come grucce per appendervi fiotti di immagini e parole che di colpo [...] tornano in mente». Passano car-

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bonari e massoni, Servizi segreti e complotti di ogni genere, i moti socialisti che «infiammano gli animi» e la Restaurazione, il governo piemontese e la spedizione garibaldina (con il Generale che sembra «il Cristo dell’Ultima cena» di Leonardo oppure, in altra versione, «affetto da reumatismi») e via via un «cascame romanzesco come informazione riservata» in una trama nella quale si aggira un ambiguo personaggio conosciuto come abate Dalla Piccola. Incessanti, febbrili, presi in ritmi spasmodici si incontrano il «sanguinista Dumas» e Bixio il cui profilo «taglia come una sciabola»; Nievo che «gioca a fare il poeta distratto» e Leo Taxil, «bugiardo compulsivo» trasformatosi nell’«araldo cattolico dell’antimassoneria»; Meucci con il suo «telettrofono» e gli esponenti del satanismo moderno. A scatti (si sorvola sovente sulla «routine notarile») o attraverso la sostanza di testimonianze fitte, guardando da lontano le cose o percorrendole con ansia enciclopedica, Simonini confeziona un documento come i Protocolli dei savi anziani di Sion, «pieno di sorprese» secondo il Narratore che di quando in quando lo sbircia. Il saggio, ritenuto il testo dell’antisemitismo per antonomasia, sparge una serie di nefaste conseguenze aggrovigliandosi in una gamma di eventi trascinati verso rappresentazioni parossistiche. Spettatore, Simonini, infine, sembra rinvenire da un «deliquio» che si va imprigionando in una «scrittura isterica». Ormai piombato nell’amnesia, il protagonista assume l’identità di due persone distinte, e sarà l’autoipnosi a guarirlo. Nel frattempo irrompe ancora il rumore della cronaca con il caso Dreyfus e la presa di posizione di Zola. Spuntano ricette di cucina e «scrittoruncoli», quattro cadaveri in cantina e la Francia che per sicurezza vuole che il falso di Simonini sulle riunioni nel ghetto di Praga sia considerato autentico. Anche il paesaggio, come i frenetici accadimenti, continua a variare: squarci di luoghi vigilati da malinconiche luci; osterie fuori porta, sordide locande e ristoranti di lusso, gallerie di cristallo, carceri e librerie, il sottosuolo di Parigi e il «chiarore siderale» creato dalla luce elettrica, le prime invenzioni tecnologiche e le vetrine dei profumieri, le lanterne magiche e il sospetto che la vita sia «una brutta cosa». Viaggiando sui binari di una manipolazione profetica della storia, una diffusa ironia conduce «speranze allucinate»: al protagonista resta la «malinconia del dovere compiuto» ma anche un’ultima occasione di tornare «giovane di colpo».

XY di Sandro Veronesi È un posto che sembra non esistere il villaggio di San Giuda: settantaquattro case, di cui più della metà abbandonate, e quarantadue abitanti. Qui, in

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questo borgo del Trentino non succede nulla, se non d’inverno l’arrivo della slitta di Beppe Formento, che rifornisce di generi alimentari lo spaccio. Ma, un mattino, la slitta arriva puntuale ma priva del conducente. Si mettono in moto le ricerche: agli occhi del figlio Zeno, del fratello Sauro e del parroco don Ermete si presenta una visione irreale: un albero ghiacciato, acceso di rosso e intorno undici corpi straziati in modi diversi. Il tempo pare essersi fermato e di lì a poco tutto comincia «ad accadere simultaneamente». Raccontato da due voci alterne, quella del parroco e quella di Giovanna, una psichiatra, il romanzo di Sandro Veronesi, XY , si muove su due piani distinti (il passato, indagato dal prete; la presa diretta della cronaca, scandita dalla donna) tenuti avvinti da un’accerchiante atmosfera di mistero. Un microcosmo, isolato tra i monti («Niente giornalaio, niente barbiere, niente pronto soccorso, niente scuola elementare»), transita lungo una sequenza allarmata di «angoscia, spostamenti, attese, paura, domande, freddo, silenzio, stanchezza, stupore, impotenza». Tutto questo si rovescia alla rinfusa nell’esistenza di don Ermete che si sente inadeguato, di continuo interrogato dal Procuratore «ossessionante, inappagabile», che gli fa perdere l’«appartenenza alla comunità», impedendogli di esercitare serenamente il suo ruolo. La scrittura, intessuta di simboli, travestimenti, dubbi, analogie a forte concentrazione razionale trasmette, anche mediante orditure virtuose di immagini, il sussulto di strappi di incredulità e di sgomento, di certezze che si dissolvono, di follie collettive. La narrazione carica di spinte tensive, continua a girare intorno a una serie di nuclei di riflessione che scendono nel profondo degli eventi, cercano di comprendere le ragioni di quelle morti oscure e inconcepibili, restano inevasi, riprendono il corso da nuove partenze, da altre allucinazioni. Il granitico volto di fondo, l’orrida evidenza della realtà sono prove per saggiare la capacità di reazione dei personaggi, il loro rapporto con l’ignoto. Scattano le più strane associazioni tra alcuni fatti, mentre il «precipitato di malvagità» della vicenda si incrosta negli animi, è un delirio su cui viene deciso il segreto di Stato. E allora le pagine assumono una loro vertiginosa ambiguità, tra logica e smarrimento, indagine scientifica e «soprannaturale». La psichiatra, che esce da «un buco nero» senza via di fuga, si sente in perfetta sintonia con don Ermete che, parlando di «dolore e di gioia contemporaneamente», pare gettare una «rete immensa» verso gli altri. Intorno, persone malate che il trauma della strage riporta a stati acuti, e la spiegazione ufficiale dell’eccidio che parla di un attacco terroristico di matrice islamica. Ma nel giro di una settimana una moria colpisce gli abitanti del borgo. Per le strade, insieme al vento, si abbatte un’«energia selvaggia»: la complicata messa in scena in un paesaggio funesto e «preistorico». Alla

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fine, eroe dell’intero intrigo sarà una «specie di don Abbondio, pettegolo e pruriginoso».

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Fernanda e gli elefanti bianchi di Hemingway di Raffaele Nigro A Raffaele Nigro, in questo suo nuovo romanzo, Fernanda e gli elefanti bianchi di Hemingway, non sembra bastare il semplice racconto di un viaggio. Aggancia allora una carrellata di episodi pure collaterali («Escono storie dalla terra come nuvole di mosche») che danno al primo piano una sorta di sottolineatura continua e un bagaglio di problematiche attuali e colori e suoni ai quali il dettato agile e fluido deve una linea ricurva e increspata, con risvolti inquietanti, esplorazioni oltre il limite. E sempre quella precisione del segno che sa contenere la quota favolosa, definendo la riscoperta di una cultura antica e viva, stratificata e impetuosa: il mitico mondo lucano costantemente presente nell’opera dell’autore. Si parte da un viaggio notturno in auto da Milano a Roma, compiuto da Fernanda Pivano, Tano Citeroni, Michele Prisco e lo stesso Nigro narratore. Li spinge alla partenza l’indignazione per l’esclusione di alcuni di loro dalla giuria di un importante premio letterario dovuta a una decisione della Lega. Il viaggio diviene subito il motore di una narrazione frutto di «cose incredibili» snocciolate dalla Pivano e che hanno per oggetto una straordinaria battuta di caccia in Basilicata, con protagonista Hemingway. Quest’angolo appartato del Sud, «una specie di pozzo nero nel quale sono rimaste nascoste tutte le forze negative note nell’età della pietra», è il luogo magico, fitto di boschi e paesaggi lunari, ove voci parlano della presenza di animali «orribili e meravigliosi», «grandi come elefanti». Un mondo remoto e perduto che attira l’attenzione di Hemingway ormai stanco e oberato di malanni, per il quale la vita è ridotta a un «incubo». Stanco di tutto, anche del successo, il grande scrittore «vuole starsene immobile come una pietra», «ha le ossa rotte, il fegato spappolato». Anche la Pivano si trova su una «strada persa». Improvviso, però, ecco Hemingway arrivare a Roma. L’invito ha «smosso il dinosauro dalla grotta». Ha inizio l’avventura, in compagnia pure di Assunta, una giovane antropologa appassionata degli studi di De Martino, e di Paolo, un intellettuale che vive il passato «come un rifugio». Si spalanca un oscuro universo, povero e contadino e, insieme, un paradiso incontaminato, tagliato dal Basento, in cui si respira un’aria mista di lutto e di desiderio di vita, di una religiosità che «appartiene al Mediterraneo». Sfilano i paesaggi: case inginocchiate sotto un

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campanile, un paese come «una colata di calce e di gesso», statue ovunque di madonne lignee, conventi e castelli e nuovamente miti che colmano di ricchezza la povertà dei luoghi e crepe dentro cui si annidano altre storie. Ernest si perde nelle fantasie, pensa agli «opposti richiami» dell’esistenza, sa di dannarsi nel riempire «spazi vuoti», come quando scrive. Intorno si intravedono le «mille e una notte imprigionate nella calce». È un’atmosfera magica nella quale un «rapimento» promana dalla misteriosa Assunta, un incantesimo che in quel «paese arcaico» invade il vecchio scrittore che si sente «leggero come un angelo». Sono i «momenti nei quali speri di bloccare per sempre la vita». A legare i due è il «gusto del sogno». Delicata, impalpabile e severa e colma di notizie, la pagina degli inganni è «in grado di costruire una gioia anch’essa effimera».

Ladro di racconti di Armando Balduino Di fronte al genio di famiglia, Ugo Foscolo, il fratello minore, Giulio, si sente una «nullità assoluta»: lo venera, lo ammira, tenta di avvicinarsi alla sua fama, ma in fondo si accorge di essere suo «prigioniero»: malinconico, solo, privo di affetti, scrive a un’amica del celebre congiunto, la «Donna Gentile», mentre è invaso da un «senso di vuoto» e teme che su tutta la famiglia gravi una maledizione. È, questo, il primo documento-narrazione della raccolta Ladro di racconti che Armando Balduino dedica a personaggi della memoria, pubblici e privati, con un misto di nostalgia e curiosità indocile e leggera. Ne derivano pagine trasparenti, capaci di far rivivere, come dietro un lucido vetro, passioni e sogni e inganni della vita. Un realismo amaro e pensoso che sa però trasformare l’asprezza in serena accettazione. Volti celebri e persone passate senza lasciare traccia hanno la medesima forma di figure ben definite, colte in movimento dentro le loro storie. Appare una nudità espressiva essenziale che a volte può sacrificare un fatto più catturante, un soffio di esistenza più esposta, qualche risvolto più colmo e torbido. La realtà riesce tuttavia a filtrare attraverso reti molto strette; forse abbandona qua e là qualche colore, un impeto di esuberanza, ma perviene ugualmente a creare immagini degne di restare depositandosi in una lapidaria nettezza. Balduino tratta la materia come una radiante fantasia, con quel timbro di esercizio che sempre si riserva alle rappresentazioni di maggiore invenzione: limpida, aliena da ogni corposità e come distesa verso un vuoto pullulante di interrogativi. Il leggendario nonno Omero, il mingherlino Radames dalla «strabiliante parlantina», la matrona nerovestita con un cane al guinzaglio, due

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sorelle che «convivono come avversarie», un marito che uccide la moglie insopportabile, l’uomo che dopo una vita attiva ha il problema di far passare il tempo, il filologo che vede ovunque complotti ai suoi danni, una bella commessa che ha patito una violenza: sono alcuni personaggi legati da una tensione breve e intensa che li fissa in azioni sul punto di sparire, trascinate da giorni bruciati da un tempo rapido, inarrestabile. Restano cicatrici, smagliature dell’anima dalle quali si deducono vite dilaniate, racconti di un malessere consegnato a una scrittura sensibile a raccogliere le emozioni più recondite. Ma nonostante il segno misurato, qua e là, impetuose, si accendono vampe di memorie, sussulti incalcolabili.

La terra vista dalla luna di Claudio Morici Forse quello che Simon desidera è spiegare a qualcuno un «quadratino di mistero dell’universo». Ma è stato l’invito di Antonella, una tossicodipendente conosciuta nell’ospedale psichiatrico in cui anche lui è stato ricoverato in preda alle sue sterminate fobie, a lasciare la sua protettiva cameretta nella quale vi sono «punti» non ancora esplorati, e a volare in Messico ove la ragazza è scomparsa. Notizie di lei solo attraverso una cascata di e-mail dalle quali emerge il suo impegno umanitario a favore di «tutti quei poveri diseredati dell’America Latina». Centrifugato in una serie di microepisodi e imploso in un incandescente rovello esistenziale, La terra vista dalla luna di Claudio Morici mette a nudo un narratore che di continuo si interroga e cerca di capire il mondo immergendosi in una realtà cruda e visionaria, frantumata, che procede verso sempre nuove direzioni, rispondendo a subitanei impulsi provenienti dalle più disparate fonti. Ne scaturiscono avventure incontrollabili, eccentriche, popolate di volti deformi, dannati, straripanti con le loro trasgressioni violente e le maschere. Per comprendere questi volti non basta intervenire nella quotidianità, bensì munirsi di una dose di astrazione come fa il personaggio centrale, affacciandosi su universi sconosciuti, fermati nei loro istanti più convulsi, sonori e spettacolari. Si va da un’immagine all’altra con collegamenti fulminei, spesso appena attivati, ma capaci di generare impetuose tensioni romanzesche con «bella gente» che «apre la mente»: iperboliche apparizioni, sagome opache e spezzate, che sembrano appartenere a un «film di fantascienza», mentre il testo si copre di riflessioni sui costumi di un mondo buio, attraversato da una «carovana di pazzi» disseminata per «strade secondarie» («il modo migliore per farsi capitare storie interessanti»), sordidi locali pubblici, ostelli fatiscenti, sfondi desolati, capannoni labirintici e il «tempio dello zapaturi-

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smo». Il racconto entra in un «climax» (termine ricorrente) che conduce i particolari a farsi centro dell’azione. Una sorta di ribellione delle componenti strutturali in cui prendono posto informazioni turistiche, proclami politici, notizie dal mondo. Un materiale documentario che passa accanto ai giochi mentali, ai voli sulla navicella spaziale da parte dell’io intento a porre gli uomini sotto un «mirino simbolico» e colpire l’«ondata discendente di degrado» che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Un «filo conduttore» allaccia attraverso l’Oceano l’Italia e il Centro America assemblando i personaggi più variopinti, le culture più differenti e affidando a un «cristone» il compito di parlare delle ultime vicende di Antonella. Gli avvenimenti giungono a frotte rivissuti in una scrittura fibrillante, fra colori intensi, impastati di fisicità e una velata nostalgia pensosa.

Il giorno prima della felicità di Erri De Luca Napoli: «una città vecchissima, scavata, imbottita di grotte e nascondigli», dove i ragazzi giocano «in mezzo al passato remoto dei secoli» e gli antichi edifici, «nitidi fantasmi», contengono «botole murate, passaggi segreti, delitti e amori». Dal finestrino al pianoterra di un cortile in cui abita, un bambino, «smilzo e contorsionista», scorge dietro i vetri di una finestra del terzo piano il volto di una bambina intenta spesso a guardare il cielo. Nei giorni di sole un rimbalzo nei vetri porta l’immagine di lei fino all’«angolo d’ombra» dello stanzino dove il piccolo io narrante di Il giorno prima della felicità è accudito da Don Gaetano, il portiere dello stabile, uomo solitario che «sente i pensieri in testa alle persone» e che lo guida alla conoscenza del mondo, gli insegna a giocare a carte, gli racconta tante storie. Veloce, invisibile, ma dipinto sulle forme mobili dei fatti, il tempo disegna, dalla stagione della guerra e dall’insurrezione della città contro i tedeschi, il resistente filo di un racconto a blocchi, attento soprattutto a fare agire i personaggi in un contesto carico di tensione, e a contare il corteggio dei riflessi di ogni episodio puntando anche su ritratti brevi e taglienti. E sulla pura trama cui viene affidata la capacità di esprimere l’arco delle emozioni e la musica delle memorie, il colore di una visione e le parole che vengono da lontano, da zone vere che appaiono forse un po’ sognate e che lasciano un urgente bisogno di sapere. Si fanno scaturire gli strumenti più impegnati a perforare la realtà per frazionarla nei vari piani narrativi. Gli spazi minimi dell’aneddoto, della cronaca curiosa, del resoconto bellico, si spalancano alle sorprese più stupefacenti grazie alla tendenza dell’autore a leggere in un grande evento la sbiadita pellicola di anonimi volti.

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Partendo dalla ricchezza degli scenari e dal ricambio continuo della folla, Erri De Luca fa esplodere una raffica di cose concrete sulle quali la parola affabulante di Don Gaetano (percorsa da un’energia gnomica che scuote le azioni) stende una nebulosa di fantasie. Il racconto dell’avventuroso passato dell’uomo, salvatore di ebrei perseguitati e poi fuggiasco in Argentina, «ospite della natura e della sua carità abbondante», si alterna con quello della Napoli del ’43, con i suoi eroismi e le sofferenze, specchiata in una ricostruzione che si trasforma nella presa di coscienza di identità da parte del giovane che ascolta e cresce, fa esperienze, studia e impara un mestiere, entra nel suo futuro «domestico lento, ma fedele», conquista l’amore di Anna (la bambina di un tempo dietro i vetri) e incontra un drammatico destino. A Pietro le cose «non capitano per sbaglio», egli è «roba buona», con una «vita speciale» che deve difendere «anche se passerà per il sangue». Ben distribuito nelle parti, sfiorato da un aculeo di cupezza, il romanzo possiede pure un’arcata di sorriso in alcune figurine vaganti, e la stabilizzazione cristallina di una nostalgia soffice che evita lo scivolamento nel fosco e nella nota marcata di costume locale. E riversa il malinconico sortilegio dello sguardo onnisciente sull’ampio raggio dell’ieri e dell’oggi.

Piccoli animali di Maurizio Torchio Storie di personaggi straniti, prigionieri della routine, irrigiditi in ruoli che li fanno pedine di un gioco più grande e indecifrabile, padrone di quelle loro piccole vite ritagliate da contesti glaciali cui è estranea la gradazione dei colori. Maurizio Torchio descrive vari spaccati di esistenze inquiete con un di più di esattezza asettica e dominio critico, consapevole che le molte e intricate vicende del racconto devono essere tenute in un grado medio di tono e di ritmo al fine di liberare sequenze ben elaborate al fine di mediare l’esubero di un’oggettività opaca e incerta. Piccoli animali è un romanzo privo di una sciolta struttura amalgamante ma è spesso pronto a puntare maggiormente sullo spazio interiore dei tanti personaggi che vivono grazie all’alchimia di un linguaggio scarno e burocratico che sa, tuttavia, trovare all’occorrenza alcune mosse irregolari al servizio di impulsi immediati ed estemporanei. Da scene spiazzanti, che sembrano esprimere un’assoluta autonomia narrativa, enfatizzata nella sua autosufficienza, si presentano i protagonisti di vicende che si frangono, si riallacciano a distanza, richiamandosi talora in modo faticoso. Per seguirle occorre costantemente raccogliere i fili del loro transito a volte difendendoli da interferenze, esitazioni di pagine troppo gravate da riflessioni, scambi inattesi e stridenti con altre avventure. Avviene

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così che il protendersi di interruzioni e riprese conduca a un crescendo che rende un po’ alto il grado di incidenza dei singoli episodi costretti dal codice della reiterazione quasi a un autospecchiamento. Presi nella circolarità dei loro percorsi ecco i personaggi: in America, David e Natalei cercano, attraverso foto pubblicate su internet, di ottenere l’adozione di un bambino. Per Annalisa e Fausto, in Italia, l’adozione impone, invece, un «numero assurdo di colloqui». Andrea frequenta una palestra, mentre fuori «prende il mondo», abita un piccolo appartamento e controlla spesso il cellulare in attesa di un messaggio di Laura. Carlo, compagno di Laura, trascorre il suo tempo con i wargames (i cui eroi entrano nel libro con la responsabilità delle figure vere, creando un effetto ritardante nel flusso narrativo). Ma non è solo il presente il tempo che accoglie le peripezie di questi «piccoli animali». Troviamo la figlia di Stalin, Svetlana, che fugge nel Wisconsin e «ricomincia a guardare i musical»; e il cadavere di Lenin lavato periodicamente dagli imbalsamatori nel grandioso mausoleo. E c’è spazio pure per excursus su Biancaneve e Pinocchio in un testo in cui gli uomini vagano nel vuoto, con il futuro chiuso su di loro e stretti in un «vestito di dolore». E anche, talvolta, capaci di ridere, ma di una «risata pasticciata e contagiosa».

L’amore a Londra e in altri luoghi di Flavio Soriga Una piccola isola, davanti all’Africa, con «l’ultimo traghetto a tarda sera», non può contenere i sogni cullati dagli occhi stupiti di un adolescente destinato un giorno ad andare lontano, «dove la vita non fa più rime come un tempo». Un coreografo e una fotografa, che si sono amati e odiati «furiosamente», si ritrovano dopo cinque anni e parlano del passato con parole che somigliano a una «filastrocca imparata a memoria» e che possono solo rivelare l’invariabile inganno dell’esistere, dal momento che «qualcosa va sempre storto tra due persone». Un ballerino, scappato da una terra del Sud portandosi dentro un «grumo», brucia le sere in giri senza meta per una Londra dai quartieri sempre uguali. Un attore, dopo aver dissipato talento e denaro, si rifugia su una spiaggia devastata da abusi edilizi e ridotta a un fantasma della sua incontaminata, primitiva bellezza. E poi, due uomini innamorati della stessa donna. Ed ecco un Presidente di un piccolo stato sudamericano, drogato di potere e una bellissima attrice italiana, «ansiolitico vivente». E anche un gatto che usa «espressioni da telefilm». L’amore a Londra e in altri luoghi di Flavio Soriga intreccia storie che si rincorrono rilanciandosi echi sul tema della solitudine e dell’inquieta ricer-

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ca della felicità mentre suscitano atmosfere sospese, la sonnolenta noia di provincia, «lunghe ore da uccidere in piazza», giorni stanchi che la memoria – «che ti fa disonesto» – rende favolosi. E passano, nel fruscio della parola memorabile, personaggi vagabondi e vaghi, che sono un «riassunto dell’adolescenza», e paesaggi esotici visitati come nelle scene di un film o ammirati nei quadri, e pensieri ponti a sbiadire uno dietro l’altro. E un suono di jazz e Bach e Gardel; il rumore del traffico delle vie, una villa toscana del Cinquecento dove si celebra un matrimonio di rito indiano e, un po’ ovunque, lucida, misteriosa, la luce del Sud, «quando l’estate ancora non uccide di afa». Soriga si aggira tra una folla di immagini perplesse, talora sfiorandole con delicatezza, talaltra affrontandole con forza e furore realistico per catturarne i segnali più celati tra le rughe di eventi crudeli. E così cammina tra modelli di vite espropriate che cedono alle seduzioni di mascherate gioie, agli indistinti giochi della sorte da cui, irridente, sgocciola la promessa di storie non vissute. Una sagace perizia narrativa scandisce con musicali intonazioni, e contrappunti che ribadiscono le struggenti note, gli spazi dell’io, e li distribuisce nei velati ambiti dei fatti, chiamando la magia del quotidiano, un ferito resoconto d’ombre. E allora le comuni occasioni della vita conquistano una sorta di valore epifanico, si fanno più preziose, senza sigillare nel simbolo il «coraggio che serve a stare bene con niente».

Esco presto la mattina di Massimo Cacciapuoti Nato a Giugliano, «un anticipo dell’inferno», dove «il cemento della camorra ha invaso ogni spazio libero», Andrea Dell’Arti è un «povero Cristo qualunque». Stagista presso l’assessorato regionale campano alle risorse economiche, sposa la bella Anna, compagna d’università e poi donna in carriera, ha una figlia, scrive messaggi promozionali per i titoli più importanti di una libreria e pubblica un romanzo da cui è tratto un film. Avanzando per accumulo di fatti, Massimo Cacciapuoti costruisce con Esco presto la mattina un racconto regolare, dotato delle leggi ordinate della vita sulle quali innesta, senza premere troppo il pedale, quelle più evanescenti dell’immaginario. Le azioni, i personaggi, la cifra del tempo scorrono dentro le trame rugose della più recente realtà di Napoli («città vivibilissima... Basta non farsi nemici»), mentre qualcosa di meno visibile si nasconde nei segreti dei discorsi, nelle anse dei pensieri, quasi in un fraseggio sommerso, nel fiato di una voce fuori campo, che parla tra uno stacco e l’altro, in attesa che qualcosa venga a ridonare un senso a tutto

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ciò che sta ai margini. Eppure questa attesa, lungi dal trasmettere ansia e stordimento, dà una certa serenità, avvolge il personaggio principale in uno stato di distacco, di razionalità. Racconto e riflessione sul racconto si mischiano; i punti di vista agiscono da varie angolature spezzando o moltiplicando i piani, inclinandoli per ricondurli ad un’esposizione articolata, guizzante, costellata di molte cesure e cambi di velocità. Alcuni ambiti brevi, serrati in una struttura nucleare, si infoltiscono di dettagli incasellati come in un archivio, ondeggiando fra le immagini fulminee e la documentazione, il sorriso e la minuziosa ricerca di processi mentali, la «calma piatta» di alcune situazioni e la consapevolezza della vita che «corre davanti, sotto le mani». Ma è anche una vita che sa elargire i suoi inattesi doni, le «prime scelte» e non gli «scarti degli altri». A benedirla è un «sole spettacolare» che «inonda il mondo intero». Concentrato, rinsaldato talora in monadi lessicali di intenso spessore comunicativo, martellate e tenute insieme da una tensione che le riconduce al loro contesto, il libro ha un ritmo partecipe di un’idea di narrazione volta, con il suo progetto di denuncia civile, ad affermare una solida conoscenza dei più assillanti problemi del territorio. Il parlato diffuso e anche qualche passo descrittivo sono calati nel tessuto della ricognizione sociale che focalizza la realtà di ogni episodio e ha una funzione di testimonianza diretta, veicolata da una sintassi elencativa. Inoltre, l’impiego di membrature nominali attua una disposizione sincronica delle immagini. Il risultato è la scoperta che «le cose si rivelano più semplici di come appaiono», dal momento che il loro passaggio smussa gli attriti: sulla pagina si instaura una sorta di accettazione, cauto contrappunto all’infuriare di un terremoto politico-giudiziario che scuote la città. In questo tumulto Andrea trova il suo equilibrio grazie ai «più elementari meccanismi di autodifesa».

Orizzonte mobile di Daniele Del Giudice «...cominciare significa decidere un prima e un dopo, dare un ordine, isolare dal flusso, rompere la simultaneità, uscire dalla compresenza, fare come se esistesse una frase alla volta, un’immagine alla volta, uno e poi uno e poi uno, e non tutto insieme». Daniele Del Giudice invece dispone subito la sua narrazione in un «disordine»-crocevia di direzioni che si sovrappongono, affondano nel tempo, ritrovano altre piste, si rilanciano trasformando il «punto più basso del pianeta», l’Antartide, globo di luce e di buio, in una difficile congiunzione con le galassie, con il «cinema celeste». Orizzonte mobile «guarda le stelle nel pozzo», fonde l’orizzontalità di due ottocenteschi

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taccuini di viaggio con la verticalità dell’immaginario che, attraversandoli, ne assorbe in uno sfaccettato coagulo le pulsioni, le vicende, le loro più profonde ragioni, rispettando la misura lineare, concatenando i vari episodi in una struttura illustrativa e documentaria in incessante espansione. E intanto, l’inserimento dell’esperienza personale dell’autore, che racconta un suo viaggio verso le estreme terre del Sud del mondo, cuce il progetto del libro come su una tavola sinottica, una gigantesca didascalia che legge in parallelo tre storie orientate verso la stessa meta. Spaziando dalla spedizione di Giacomo Bove del 1882 a quella di Adrien de Gerlache de Gomery del 1897-99, Del Giudice edifica un romanzo a più piani, rallentando o accelerando i tempi per dare vita ad azioni sempre secche (piuttosto latente è la concentrazione propria dell’avventura) e senza aloni, consegnate quasi in modo automatico alla scrittura cronachistica, disposta a cedere al disegno il compito di rintracciare accadimenti che devono solo accadere, trascritti solo perché accadono. Gli eventi – alcuni dei quali stralciati da un’atmosfera di tensione – si susseguono con naturalezza, si contraggono nell’asettico telaio di un diario di bordo su cui l’elemento visivo (la meraviglia della scoperta di luoghi incontaminati) si impone sulla riflessione e sull’analisi psicologica di chi guarda. Si ingenera, a volte, un che di algido, veicolato dalle frequenti puntualizzazioni cronologiche e da una scelta stilistica che cancella il risvolto metaforico, la zona d’ombra del mistero, in favore della registrazione esatta, burocratica, scientifica. Assenti l’indeterminato richiamo dell’opaco contrasto delle cose e il magnetico gioco del riflesso e dell’euforia espressiva compresa dei propri mezzi di gemmazione, il discorso asciutto si poggia sulle simmetriche rispondenze, i parallelismi che le varie ottiche disseminano, creando solo in qualche caso un senso di allerta, di aspettazione, con il cambio dei fotogrammi. Fedele al suo dettato rigido e uniforme (forse un po’ più acceso in Mania, del ’97), l’autore allestisce un «atlante» nuovo – non più quello «occidentale», uscito nell’85 –, di vasti orizzonti naturali e dei costumi della gente del «Sud assoluto».

Dolorose considerazioni del cuore di Sandra Petrignani Vuole mettere i fatti della sua esistenza «uno dopo l’altro e in disordine, anche», certa che alla fine si possano comporre in un quadro. Il racconto di Tina all’amica Vittoria, perduta per futili motivi e ritrovata a distanza di anni, intende portare alla superficie quel qualcosa di oscuro che fermenta dentro e contemplarlo e descriverlo. Dolorose considerazioni del cuore di Sandra

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Petrignani è un romanzo di spietata analisi psicologica che trova lo scatto rivelatore nell’incontro di una linea orizzontale, polarizzata da una parola colloquiale e limpida, rastremata e snella, e da una linea verticale movimentata da una parola ribelle, che si arroventa e si centrifuga nel rivisitato fondo dell’infanzia «combustibile» degli scrittori. Il ritmo elastico trasmette senza urti le tematiche più gravi, i colori forti, il saettio di qualche motivo indocile, saldandoli ad una struttura narrativa compatta, pur se declinata in spazi volutamente difformi, e dettata da una felicità inventiva che segue gli impulsi della confessione, non impiegando meccaniche protezioni letterarie, ma restando aperta ad un dosata regola di elegante fraseggio, di pensieri e massime, di sguardi oltre le apparenze. Si parla di una creatura di confine cui piace «provocare la sofferenza» e liberarsi della «precisione dei ricordi» al fine di lasciare libera l’immaginazione. «Mosaico» di tessere leggere ma incise di pena, la donna, bisognosa fin dalla tenera età di affetti e «risucchiata dalle sabbie mobili», prende il bello dei giorni senza preoccuparsi, compie disordinate esperienze sentimentali, si lascia trascinare dagli eventi, «straniera sempre nella vita» e in viaggio con il «paesaggio che scorre dietro un vetro». Sandra Petrignani ascolta il lesto sgocciolare dei minuti, il vuoto che si forma intorno a una svagata libertà, il silenzio degli oggetti che non sanno trattenere la storia di chi li ha posseduti, cambia prospettive, osserva con pietà gli uomini «murati in infinite solitudini». Dal suo «rifugio antiatomico sotto le coperte», l’io narrante (in cui l’autrice riflette i suoi tormenti) vede la casa franare con gli abitanti: il vecchio padre, «balena ferita a morte», e la madre che si perde nel nulla con gli occhi pieni di pianto. Cronaca di ogni mossa, il libro è insieme romanzo che non trova una «guarigione finale» e diario di un’angoscia che tutto assorbe. La fisionomia delle cose, la luce dell’aria, i gesti si incarnano in una prosa agglutinante che si addensa attorno a nuclei di significato, a quel senso di sacralità della sofferenza che nasce dal suo accadere implacabile, fermo e slittante nell’ambiguità. In rapida successione le unità narrative inglobano gli spazi del parlato, mentre domina la rappresentazione articolata anche di quegli indizi limitati che divengono piccolissimi universi di salvezza: «siamo uscite all’aria aperta. I vicoli di Trastevere si stavano animando».

Lo spagnolo senza sforzo di Gabriele Pedullà A connotare i cinque racconti riuniti da Gabriele Pedullà in Lo spagnolo senza sforzo è principalmente la scelta stilistica di una lingua traslucida, tracciata

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in punta di penna e in grado di definire senza esitazione le più nascoste ragioni di un comportamento, quell’inespressa voce segreta che tace proprio perché tutto ha detto negli interstizi della scrittura, negli spazi bianchi che chiudono un subbuglio. Dall’essenzialità, dalla marmorea fermezza con cui si disciplinano pure gli elementi fluttuanti, l’autore colloca sul telaio resistente dei testi personaggi che si mostrano nell’atto di affiorare da un «vuoto», una ferita, una difettività, da un’«impressione cromatica», dall’amore per un film o semplicemente da un luogo, come la nebbiosa Pianura Padana. Una leggera vena fantastica, districandosi dal compatto organismo degli accadimenti, non cerca solo di mettere insieme i vari pezzi di un’architettura narrativa a più piani, quanto di assecondare pure la discontinuità tra azione e riflessione. E ciò comporta la partecipazione costante dello scrittore che si pone al di sopra di ogni strategia di racconto, assorbita, peraltro, dal composito parlare dei protagonisti. E la parola sofisticata, eco di tanti problemi convocati come in un apparente disordine, talora rifugge dalle cose opache e grevi, trasforma le nozioni nella luce sospesa di un mondo tanto oscuro, fermo alla radice. Il moto di ciò che fa la storia dell’avventura, il démone dei suoi misteri svelati eppur incombenti come «per un incanto ricoperto da una patina di splendore», lo stesso cauto passo del tempo, frazionato nei tanti oggetti su cui si deposita lo sguardo degli uomini, riempiono le scene di interni vivi, sollecitati da una forza magnetica. Se l’universo di Miranda, una non vedente, ha colori che le sue mani sembrano avvertire, quello di Lele erompe con il «gigantesco formicaio» dell’isola di Stromboli, scandito dall’«interminabile successione di sole e ombra» ed esaltato dalla «numinosa e leggermente appartata» presenza di Ulla alla quale non interessa il «significato delle parole». Nel frattempo, a Lele i ricordi dell’amata e perduta Silvia giungono come l’«eco di una sofferenza già vissuta», mentre si intersecano i piani del presente e del passato in un sottile «gioco» di sensazioni, e il tempo diffonde uno struggente senso di silenzio. Ed è ancora un «gioco» a dettare le trame avventurose che regolano i vagabondaggi di un gruppo di ragazzi verso la periferia di Roma, verso la mitizzata «valle della morte». Intanto, il collaudato e divertito scambio di bagagli in aeroporto innesca un surreale e pensoso ritratto di una «coppia ben assortita», legata dal comune amore dei viaggi e del cinema. E infine, c’è la storia di chi come Mario ha il «talento» di cogliere al volo le opportunità. A guidarlo in un tragico evento sarà la «voce maschile» di un corso di lingua spagnola in cd.

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Nel bianco di Simona Vinci Spinta da un bisogno di solitudine, Simona Vinci approda a Tasiilaq, un paese di poco più di mille abitanti sperduto nella Groenlandia. È un viaggio, il suo, che viene da lontano, da solitari pomeriggi di inverno passati a leggere dentro una stanza affacciata su campi di pianure che nel corso degli anni si sono riempiti di cantieri e poi di villette. E viene dai tramonti, da paesaggi sfumati, dalle lettere d’infanzia l’atlante reale e fantasticato di Nel bianco che, con pochi segnali di «coste frastagliate, soprattutto a Est, qualche nome, il blu del mare», costruisce immediatamente l’immenso panorama «ostile», tra il grigio, il bianco e il nero dei vulcani dell’Islanda, prima tappa del cammino. E da qui, da quest’avamposto si sono mossi i Vichinghi per inseguire i loro sogni di conquista e fondare le loro colonie in Groenlandia. È l’oceano blu acquamarina che d’improvviso immobilizza l’immagine con la quale ha inizio l’avventura dell’io narrante in questa terra dove Tasiilaq attende con le casette colorate, una scuola, due ospedali e la Red House. Su una distesa traslucida, guardata da un cielo troppo azzurro e racchiusa tra montagne si allunga una luce viva dentro la quale scorrono come sagome silenziose gli abitanti del borgo: un deserto di ghiaccio che sembra cancellare ogni storia, abolire il racconto che può così crescere solo con la ricerca di impalpabili tracce, spezzoni di ambienti, oggetti, gesti, costumi. Le vicende paiono risucchiate via da questo posto senza alberi, caduco, sull’orlo della sua dissoluzione. Le distanze impercettibili, il doloroso mutare dei suoni, le cose ferme come in una fotografia, i fruscii della neve che si scioglie sui tetti, violando appena un silenzio «minerale», danno alla pagina un senso assoluto di astrazione, una vitrea trasparenza. All’aneddoto brevissimo, ai minuscoli ritratti delle fuggitive figure si accorda l’intera tenuta narrativa, giocata sui colori del bianco e del grigio che fanno emergere, tassello dopo tassello, il mosaico sfocato dell’assenza. E intanto le parole si estenuano, si mescolano con quelle degli scrittori (da Jack London a Rigoni Sterne), si infilano in un tunnel che porta forse là «dove finisce l’ombra», dove è possibile la fuga dal vuoto. Dove tutto cambia: la neve, il vento, le nuvole, e «un’infelicità diffusa» che riempie il cuore di tristezza. Subdola cresce l’attesa di qualcosa che non arriva. La siderale e beffarda bellezza degli sfondi, le luminescenze di un mondo di ghiaccio, le voci che rincorrono se stesse nell’infinita distesa «non possono compensare in alcun modo [...] la sofferenza degli esseri umani».

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Quando internet non c’era di Angelo Morino Esce postumo Quando internet non c’era, romanzo-diario nel quale il noto ispanista Angelo Morino si racconta a partire dagli anni immediatamente successivi alla laurea fino al «distacco» della maturità che forse «intiepidisce e, certe volte, riesce persino a spegnere le passioni». Una velatura estetizzante aleggia sul racconto, sfalda la resistenza di qualche situazione più cruda. La materia autobiografica bruciante e la visione «dall’esterno» si inseguono concorrendo alla rappresentazione di un uomo diviso, angosciato ma che sa anche di «star recitando» e si vede invischiato in un «gioco» mentre cerca di ritrovare un «pezzo di memoria» rimasto depositato dentro. Sfumano le linee nette, anche la fotografia descritta all’inizio non rivela dell’io, al di là dell’immagine, uno sfondo significativo (toccherà a una delle note che corredano il testo il compito di chiarire lo scenario). Tuttavia, il significato dell’eleganza formale delle confessioni, il continuum musicale abilmente celato e pure qualche slittamento nella calligrafia della pittura dei luoghi o nel fantastico e nell’universo dei libri imprimono la lucentezza e l’obliquità insidiosa di una visione magica e un’aria pensosa appesa come a un sogno. La diversità, vissuta lontano dal «poco ossigeno» di casa, gli insegnamenti universitari a Torino, priva di «vocazione notturna», e all’Aquila, con i suoi palazzi di pietra grigia, i «traffici» con la letteratura, i viaggi, la vita che si va oscurando, il cambio delle regole del mondo sono i passaggi di un’esistenza che, nelle sue stazioni essenziali, sembra quasi astratta e rievocata sul filo di una raffinata stilizzazione. Osservata però nella sua vera essenza appare segnata da un realismo concentrato al massimo, con particolari messi spietatamente a nudo.

Dieci prove di fantasia di Cesare Segre Gano di Maganza, in attesa di essere squartato per tradimento, grida la propria innocenza, rivendica un posto «decisivo» nella storia del Sacro Romano Impero e traccia un impietoso ritratto di Rolando, «gradasso», «bravaccio», «eroe di professione». È poi la volta di Isotta che chiede, accusata di infedeltà, di essere sottoposta alla prova del ferro incandescente per rendere solenne il ritorno alla dignità di regina, mentre Tristano sarà presente travestito da barbone, in obbedienza al suo «gusto istrionesco». Tono tragico e divertimento si mescolano già nei primi racconti di Dieci prove di fantasia di Cesare Segre, notissimo filologo e critico e qui anche narratore capace di mettere insieme trasparenza di fatti e mistero, scioltezza comunicativa e

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sottesa materia culturale. Il risultato è una curva di rappresentazione allucinata e affabile, sorprendente, eccentrica. Un resoconto diretto, puntinato di fessure, momenti di slittamento del senso, disposizioni anomale di dati. Si susseguono efficaci variazioni tematiche in cui anche la testimonianza più certa talora si increspa di inafferrabili incursioni di sorriso (si vedano le riflessioni della «furba» Isotta): un gioco «in piena tragedia» che contribuisce alla tessitura delle molte soluzioni stilistiche del libro. Storie di amori infelici di trovatori, assumendo le nebulosità della leggenda, acquisiscono un linguaggio adeguato, musicale, pieno di risonanze e al tempo stesso contagiato da reminiscenze e opportuni movimenti scenici, ambiguità storiche, risvolti di un favoloso quotidiano. È un impasto espressivo che non si risparmia neppure il richiamo a quel «mattacchione di Dante Alighieri», alla «scostumata» Cunizza da Romano (trasformata nella Commedia «quasi in una iettatrice»), al «povero» Ezzelino, all’arrivista Sordello. Continuando, incontriamo Alfieri travolto dalla bellezza di Penelope Pitt, «dissoluta, ma gran signora»; Emma Bovary, che rifiuta la sua «posizione di piccola borghese d’origine contadina»; Charles Bovary che confuta Flaubert («Lei, signor Flaubert, mi ha trattato molto male nel suo romanzo»); Pilar Valderrama, amata da Machado che la trasferisce in una «sfera incontaminabile»; lo scrittore non nominato che decide di suicidarsi per non «ricominciare la fatale altalena amore-fallimento». Concludono la silloge due «interviste impossibili» fatte da Segre a Cesare (sulla scrittura dei Commentarii de bello gallico, sulle campagne militari, ma anche sulla sua crudeltà nei riguardi degli avversari) e a Marie Le Jars de Gournay, figlia adottiva di Montaigne e curatrice, dopo la morte dello scrittore, degli Essais (il dialogo molto salace si fonda sull’accusa di manomissione del celeberrimo saggio definito «vero breviario dei Semidei»). Nati, come l’autore chiarisce nella postfazione, da impulsi inventivi, i racconti disegnano, al di là delle coinvolgenti avventure e degli sfondi, manovrati in perfetta armonia con gli stati psicologici, un autentico, godibile manuale sui personaggi romanzeschi che «si muovono come se fossero già incastonati nella storia che li riguarda; esenti dal caso». Figure che abitano spesso un «altro mondo possibile», in rapporto con l’atteggiamento verso il lettore da parte del narratore che «muta da un testo all’altro».

Tutto torna di Giulia Carcasi Fin da bambino aveva un quaderno dentro il quale «finiva tutto quello che non riusciva a chiamare con il nome a cui rispondeva, con una coincidenza

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GIUSEPPE AMOROSO

di carne e pelle, contenuto e contenitore». Il sogno è sempre stato quello di «inscatolare la realtà nei barattoli delle parole». Così Diego, da grande, lavorerà a un vocabolario. Insegna a Pisa, fa la spola in treno fra la città toscana e Roma; un giorno il treno si ferma per un guasto in galleria. L’uomo sviene, e riprende coscienza invaso da immagini del presente e del passato. Tutto torna di Giulia Carcasi è la frantumata e guizzante ricerca di una realtà chiusa, appunto, «nei barattoli delle parole». Un mondo concreto e visionario pulsa e respira in sequenze che passano nella mente facendo balenare brani di vicende, concomitanti arrivi di scene, sovrapposte o lontane nel tempo, la figura di Antonia, una donna che si pietrifica e si disgrega in una ridda di voci assenti e presenti, sonore e in dissolvenza. È una sorta di «truffa» di cose, oggetti, persone, sfondi organizzata dall’io in una continua deriva, priva di centro, eppure vitale, che fa della sua «polvere», della sua «ferita» un nucleo di interesse riverberato in molti ambienti che non si rivelano, dove c’è lo «spazio necessario alle manovre del dubbio». Da lì nasce un’infinità di rapporti a cui è demandato l’ambiguo intreccio di questo romanzo aperto, segmentato, un vero propulsore del possibile, di storie distanti cronologicamente e parallele nello spirito di chi le compie. Storie indispensabili quando la vita torna a fare promesse. La madre ammalata, in un andirivieni di fotogrammi; Antonia, incontrata da poco, amata, concreta, segnata dentro gli eventi e alonata di nebbie («Alla fine del giorno, cancellati nomi e gesti, cosa resta di ognuno? Centinaia di foto, sorrisi e strette»). In un romanzo in cui si teme di finire in un «pensiero più grande e senza scopo», tutto è lasciato accadere senza che il personaggio faccia una mossa. Le lancette di due orologi non si sincronizzano, il futuro riscrive il passato, i ricordi si confondono con quelli degli altri, i luoghi perdono la loro consistenza, interagiscono e si può trovare un altro finale a un film che non piace. «Settimana enigmistica» è la trama d’amore «stupidamente [...] riempita a penna». La donna è un’«invenzione», l’autentico si mischia con l’inganno e i due personaggi sono loro, nonostante loro. Il desiderio è quello che la realtà «si riversi sulle strade, randagia», senza lasciarsi prendere. Sotto lo sguardo di Giulia Carcasi non v’è più niente, ma solo un’indecifrabile quota di mistero, un rimbalzo di allusioni in cerchi che si allargano fino a svanire là dove l’immaginazione del lettore può sostituire un suo racconto.

La bambina che disegnava cuori di Lucrezia Lerro La maestra Mara invita i suoi alunni delle elementari di un piccolo paese campano a coltivare, a «disegnare il talento del cuore». Da quel giorno la

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NARRATIVA

ITALIANA

2010

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piccola Rosanna non fa che disegnare il suo cuore, anche per i genitori, ma soprattutto per Mario, il suo nuovo compagno di banco arrivato dalla Germania dove la famiglia è emigrata in cerca di lavoro. A Mara sembra «bellissimo» e sente che non potrà più fare a meno di lui. Nel romanzo di Lucrezia Lerro, La bambina che disegnava cuori, si ha l’impressione di una ben dosata misura di gesti e pensieri, di un’aria sospesa nell’architettura di minuscole azioni, quotidiani comportamenti, messa su con tasselli, dettagli miniaturizzati. La nascosta, clandestina tensione del racconto, però, mostra segmenti che sorpassano i loro limiti, ventagli di fatti che si protendono come timorosi di un arresto, penombre che si affacciano ai bordi di una vicenda di formazione trattata con mano leggera e, al tempo stesso, incisiva e inquieta, che ricorda un po’ certe indimenticabili pagine di Bilenchi. Di sbieco, di scorcio figure sorgono fondandosi di più sullo sguardo aurorale dell’io che le osserva e sul linguaggio temperato, che sull’intreccio romanzesco molto lineare. Pensiamo alla «strana» Ernestina, una vecchia «strega», povera «disillusa e sola», che se ne sta davanti alla sua casa, seduta per ore, con un velo sulle ginocchia e con la mente invasa dal suo perduto amore. Pensiamo alla «noiosa» professoressa di scienze, alla gente «brutta fuori e dentro», alla zitella Gina che si occupa del mondo degli altri e ai villeggianti «presuntuosi». Intanto, Rosanna e Mario giocano sempre insieme, passeggiano nel bosco sotto la «mappa stellata» del cielo, si inventano «cose segrete» tutte per loro, si amano, e cercano di restare fuori dal cerchio degli altri, dalle madri troppo protettive, dai compagni rumorosi e aggressivi. Il loro rifugio è tra gli alberi, il loro universo è senza tempo, interamente fatto di sogni. E scorre l’esistenza con le sue stazioni, l’amore, i tormenti, le gelosie e gli inganni, gli abbandoni e gli smarrimenti, in scenari che spesso sono solo uno «sfondo» ostile. Per Mara, dopo le magistrali, rimane la fuga da casa, l’approdo a Milano, il passare degli anni che mitiga il dolore, il «gusto indimenticabile del poco», e che insegna che «si può amare anche senza meraviglie intorno». In ambienti opachi niente è però opaco in questo racconto dalla scrittura prosciugata (non arida), priva di straniamenti stilistici e tuttavia vibrata nei colori e rilanciata per circoscrivere nuove rivelazioni, particolari, reinventandoli secondo una vena fantastica costantemente aderente alla realtà, capace di trasformare il reale in un’esca di incantamento, in un commento fulminante.

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GIUSEPPE AMOROSO

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La monaca di Simonetta Agnello Hornby Descrizioni circostanziate di usi e costumi sono un poderoso sostegno storico e sociale per la ricostruzione di un mondo meridionale ottocentesco, ma non si sciolgono facilmente nello sviluppo delle azioni rimanendo talora come materiale curioso, anche prezioso per la documentazione attenta, un po’ sovrapposto e immobile, più pronto a trasmettersi sul versante linguistico e culturale (anche a causa di certe ricercatezze dialettali), che a farsi parte integrante delle sorprese romanzesche. Simonetta Agnello Hornby, con La monaca, forse avvertendo l’accumulo decorativo della gran messe dei dati raccolti, tenta in alcune occasioni, con opportune movenze sceniche e dialoghi, di rendere più leggera la struttura della pagina e di limare i dettagli privilegiando qualche ritratto psicologico più snello e funzionale. Siamo a Messina nell’agosto del 1839, durante le celebrazioni della festa dell’Assunta. Agata, adolescente figlia del nobile Padellani di Opiri, è innamorata del ricco Giacomo Lepre. Ma la modesta situazione economica della famiglia le impedisce di coronare il suo sogno d’amore. Dopo la morte del padre, la madre donna Gesuela la conduce a Napoli dove la spinge ad entrare in convento. Lì, avvolta da immensa tristezza, la giovane lavora, studia, legge in continuazione, mentre la vita claustrale scorre monotona nei suoi riti. Tuttavia, sempre più lontano e offuscato il ricordo di Giacomo, la monaca desidera fermare il tempo e «rimanere così com’è ». Riceve libri dal capitano James Garson, conosciuto sul piroscafo che l’ha portata a Napoli, e non cessa di ascoltare i rumori di fuori, interessata anche ai primi moti dell’unità nazionale («Piena d’amore per il mondo, Agata credeva fermamente che, sotto il nuovo papa, l’Italia fosse alle soglie di un mondo migliore e libero, in cui lei si sarebbe liberata dal giogo della monacanza, avrebbe trovato un lavoro soddisfacente e avrebbe vissuto bene da sola»). Si allarga un coro di volti tra amori, vendette, insinuazioni, sortilegi. Piccoli e grandi eventi si scatenano quasi con furia, ma senza una vera profondità. Esigui scenari e personaggi scivolano sulle superfici, come aloni. Gesti e parole si appiattiscono, si riduce anche il senso delle proporzioni in un realismo piuttosto algido e cronachistico. Qualche brandello dell’esterno induce un più agitato colore: lo slargo di un vicolo; bambini e altre figure che sbucano dal nulla; l’esistenza povera della città acquattata nell’ombra; un popolo di anonimi che cammina senza meta, con la lentezza di chi non sa «dove andare»; un quartiere sonnolento nel buio; carrozze nere che vanno al passo, «in fila e lente come formiche pigre». Sola, innamorata e prigioniera, Agata comunica segretamente con Garson, è a Palermo dalla madre e poi nel monastero benedettino di Chiana

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NARRATIVA

ITALIANA

2010

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dove si dedica alla panificazione, prega e nella sua cella resta in attesa di una chiamata dell’uomo amato. La rivoluzione intanto colpisce l’intero regno borbonico e l’Europa. Senza sensi di colpa né astio verso chi l’ha generata, ora Agata si sente di «appartenere al mondo» e finalmente ritrova James.

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INDICE

DELLE OPERE

2008

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Indice delle opere 2008 Acquario dei cattivi (L’) di Antonella del Giudice, Alet Afa di Giulio Angioni, Sellerio Alba nera (L’) di Mario Falcone, Fazi Alchimista degli strati (L’) di Carlo Sgorlon, Mondadori Amanti fiamminghi (Gli) di Paolo Maurensig, Mondadori Amico delle donne (L’) di Diego Marani, Bompiani Amore necessario (L’) di Nadia Fusini, Mondadori Ancilla di Paola Capriolo, Perrone Anni veloci (Gli) di Carmine Abate, Mondadori Archivio segreto (L’) di Annarosa Mattei, Mondadori Assoluzione di Antonio Monda, Mondadori Averti trovato ora di Roberto Perrone, Mondadori Bambina pericolosa (La) di Silvana La Spina, Mondadori Buio di notte (Il) di Giampaolo Rugarli, Marsilio Carne viva di Domenico Cacopardo, Baldini Castoldi Dalai Carovana Zanardelli (La) di Giuseppe Lupo, Marsilio Città perfetta (La) di Angelo Petrella, Grazanti Col cuore in moto di Roberto Nobile, Coniglio Come si dice addio di Federica Manzon, Mondadori Con patir di cuore di Giovanni Torres La Torre, Pungitopo Console Stendhal (Il) di Massimo Barone, Avagliano Contagio (Il) di Walter Siti, Mondadori Cortocircuito di Elena Gianini Belotti, Rizzoli Cose accadono (Le) di Angelo Cannavacciuolo, Cairo Dio il diavolo e la mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni di Sebastiano Vassalli, Einaudi Divina truffa (La) di Sergio Campailla, Bompiani Dopo lunga penosa malattia di Andrea Vitali, Garzanti Durante di Andrea De Carlo, Bompiani E se covano i lupi di Paola Mastrocola, Guanda Estate del cane nero (L’) di Francesco Carofiglio, Marsilio Estate del disincanto (L’) di Simone Perotti, Bompiani Falco e la bambina (Il) di Pietro Venuto, Pungitopo Furia di diavolo di Maria Clelia Cardona, Avagliano Gente normale di Valentina Capecci, Marsilio

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INDICE

DELLE OPERE

2008

Ginnastica e rivoluzione di Vincenzo Latronico, Bompiani Gioco delle tre carte (Il) di Marco Malvaldi, Sellerio Gregario (Il) di Paolo Mascheri, minimum fax Guerra dei cafoni (La) di Carlo D’Amicis, minimum fax H di Andrea Ferrari, Fazi Icaro di Francesco Guccini, Mondadori Intanto corro di Giulio Casale, Garzanti Intimo nero con merletti e frati di Samanta Giambarresi, Prova d’Autore Lola Motel di Marco Archetti, Feltrinelli Lunga attesa dell’angelo (La) di Melania G. Mazzucco, Rizzoli Maschere serene e disperate di Raffaele Nigro, Roberto Piumini e Luca Canali, Manni Maschio adulto solitario di Cosimo Argentina, Manni Memoria dei vivi (La) di Rossella Milone, Einaudi Minotauro di Luca Desiato, Mondadori Misura delle cose (La) di Eduardo Rebulla, Sellerio Mossa del matto affogato (La) di Roberto Alajmo, Mondadori Nel cuore che ti cerca di Paolo Di Stefano, Rizzoli Non c’è più tempo di Sergio Givone, Einaudi Non vi amerò per sempre di Giancarlo Marinelli, Bompiani Ovunque io sia di Romana Petri, Cavallo di Ferro Più bella del mondo (La) di Lucrezia Lerro, Bompiani Poco più di niente di Cosimo Calamini, Garzanti Radici del tempo (Le) di Giuseppe Bonura, Avagliano Rivincita di Capablanca (La) di Fabio Stassi, minimum fax Romanzo d’avventura (Un) di Alberto Ongaro, Piemme Rosmunda l’inglese di Giuseppe Ferrandino, Mondadori Sardinia blues di Flavio Soriga, Bompiani Sconosciuto alla porta (Uno) di Alessandro Tamburini, Pequod Scordanza (La) di Beppe Lopez, Marsilio Segreto tra di noi (Il) di Gianni Farinetti, Mondadori Sentieri del cielo (I) di Luigi Guarnieri, Rizzoli Silenzi vietati di Francesco Ceccamea, Avagliano Silvana di Turi Vasile, Avagliano Sogno del maratoneta (Il) di Giuseppe Pederiali, Garzanti Solitudine dei numeri primi (La) di Paolo Giordano, Mondadori Spazio bianco (Lo) di Valeria Parrella, Einaudi Spiaggia libera Marcello di Iginio Domanin, Rizzoli Storia dell’intelligenza infame di Giampaolo Rugarli, Guida Superstizioso (Il) di Francesco Recami, Sellerio Tempo materiale (Il) di Giorgio Vasta, minimum fax Treno dell’ultima notte (Il) di Dacia Maraini, Rizzoli Tu sei lei. Otto scrittrici italiane di Aa.Vv., minimum fax Undicesimo dito (L’) di Maurizio Zottarelli, Bompiani

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DELLE OPERE

2008

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Uno per tutti di Gaetano Savatteri, Palermo Vedova, il Santo e il segreto del pacchero estremo (La) di Gaetano Cappelli, Marsilio Vento dell’odio (Il) di Roberto Cotroneo, Mondadori Venuto al mondo di Margaret Mazzantini, Mondadori Via (La) di Fabrizia Ramondino, Einaudi Via Castellana Bandiera di Emma Dante, Rizzoli Vico del fico al Purgatorio di Giuseppina De Rienzo, Manni Vicolo verde di Silvia Di Natale, Feltrinelli Vita nuova (La) di Giampaolo Spinato, Baldini Castoldi Dalai Voglio una vita come la mia di Marco Santagata, Guanda

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DELLE OPERE

2009

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Indice delle opere 2009 101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato di Angelo Palumbo, Newton Compton Aaa! di Aldo Busi, Bompiani Acasadidio di Giorgio Morale, Manni Almeno il cappello di Andrea Vitali, Garzanti Amore stregone (L’) di Alberto Bevilacqua, Mondadori Anno senza canzoni (Un) di Francesca Duranti, Marsilio Articolo 1. Racconti sul lavoro di AA.VV., Sellerio Attenti alle rose di Pino Roveredo, Bompiani Baarìa di Giuseppe Tornatore, Sellerio Balarm. Voci di una città in ostaggio di Germana Fabiano, Robin Edizioni Bambino che sognava la fine del mondo (Il) di Antonio Scurati, Bompiani Chi ha incastrato Lou Sciortino di Ottavio Cappellani, Mondadori Chi ha ucciso Sarah? di Andrej Longo, Adelphi Come ho perso la guerra di Filippo Bologna, Fandango Controfigura di Luigi Fontanella, Marsilio Dialoghi degli amanti (I), di Francesco Alberoni, Rizzoli Dopo ogni abbandono di Brunella Schisa, Garzanti Due ragazze con gli occhi verdi (Le) di Giorgio Montefoschi, Rizzoli Emmaus di Alessandro Baricco, Feltrinelli Ermes di Simonetta Poggiali, Neri Pozza Faccia nascosta della luna. Storie di delitti e misteri tra musica, cinema e dintorni (La) di Carlo Lucarelli, Einaudi Fuori gioco di Salvatore Scalia, Marsilio Giudice meschino (Il) di Mimmo Gangemi, Einaudi Incendio (L’) dei sogni di Luca Doninelli, Garzanti Isola (L’) dei miti di Giuseppe Quatriglio, Flaccovio Istinto (L’) del Lupo di Massimo Lugli, Newton Compton Lavoro da morire, di Aa.Vv., Einaudi Lotta di classe di Ascanio Celestini, Einaudi Metti il diavolo a ballare di Teresa De Sio, Einaudi Non avrai altro dio di Gianni Perrelli, Baldini Castoldi Dalai Nostri tempi (I) di Michele Perriera, Sellerio Ombra (L’) di Turi Vasile, Hacca Pane e tempesta di Stefano Benni, Feltrinelli

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DELLE OPERE

2009

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Per più amore di Paolo Di Stefano, Manni Peso (Il) della farfalla, di Erri De Luca, Feltrinelli Pianista muto (Il) di Paola Capriolo, Bompiani Pianoforte vendesi di Andrea Vitali, Garzanti Prima mano (La) di Rosetta Loy, Rizzoli Quadreria dei poeti passanti di Angelo Scandurra, Bompiani Quando la notte di Cristina Comencini, Feltrinelli Questo è un uomo di Davide Camarrone, Sellerio Racconti di qui di Davide Vargas, Tullio Pironti Editore Ragazza (La) di via Maqueda di Dacia Maraini, Rizzoli Ragazzo che leggeva Maigret (Il) di Francesco Recami, Sellerio Ritorno nella valle degli angeli di Francesco Carofiglio, Marsilio Santa Maria delle battaglie di Raffaele Nigro, Rizzoli Sguardo periferico (Lo) di Enzo Lauretta, Metauro Stupore del mondo (Lo) di Cinzia Tani Tempesta (La). Il mistero di Giorgione di Paolo Maurensig Tribunale dei bambini (Il) di Ferruccio Parazzoli, Mondadori Trilogia di Palermo di Santo Piazzese, Sellerio Uomini di onore di Beppe Puntello, Manni Vergine napoletana (La) di Giuseppe Pederiali, Garzanti Volare basso di Gaetano Cappelli, Marsilio

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INDICE

DELLE OPERE

2010

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Indice delle opere 2010 Acciaio di Silvia Avallone, Rizzoli Amore a Londra e in altri luoghi (L’) di Flavio Soriga, Bompiani Bambina che disegnava cuori (La) di Lucrezia Lerro, Bompiani Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, Mondadori Cimitero di Praga (Il) di Umberto Eco, Bompiani Circonferenza delle arance (La) di Gabriella Genisi, Sonzogno Come imparare a essere niente di Alessandro Banda, Guanda Dieci prove di fantasia di Cesare Segre, Einaudi Dolorose considerazioni del cuore di Sandra Petrignani, Nottetempo Due chiese (Le) di Sebastiano Vassalli, Einaudi Era di maggio di Cesare De Seta, Hacca Esco presto la mattina di Massimo Cacciapuoti, Garzanti Fernanda e gli elefanti bianchi di Hemingway di Raffaele Nigro, Rizzoli Foravìa di Dario Voltolini, Feltrinelli Fuoco su Napoli di Ruggero Cappuccio, Feltrinelli Futuro in punta di piedi (Il) di Bruno Arpaia, l’ancora del mediterraneo Giorni nudi (I) di Claudio Piersanti, Feltrinelli Giorno prima della felicità (Il) di Erri De Luca, Feltrinelli Hanno tutti ragione di Paolo Sorrentino, Feltrinelli Io, Jean Gabin di Goliarda Sapienza, Einaudi Ladro di racconti di Armando Balduino, Manni Leggero il passo sui tatami di Antonella Pastore, Einaudi Leielui di Andrea De Carlo, Bompiani Leonilde. Storia eccezionale di una donna normale di Sergio Perroni, Bompiani Lezioni di arabo di Rossana Campo, Feltrinelli Luna contro (La) di Germana Fabiano, Robin Edizioni Lunga notte (La) di Emilio Tadini, Einaudi Mamma del sole (La), di Andrea Vitali, Garzanti Marea umana La), di Franco Cordelli, Rizzoli Meccanica celeste di Maurizio Maggiani, Feltrinelli Melodia del corvo (La) di Pino Roveredo, Bompiani Mia suocera beve di Diego De Silva, Einaudi Monaca (La) di Simonetta Agnello Hornby, Feltrinelli Nel bianco di Simona Vinci, Rizzoli Nota segreta (La) di Marta Morazzoni, Longanesi

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INDICE

DELLE OPERE

2010

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Orizzonte mobile di Daniele Del Giudice, Einaudi Piccoli animali di Maurizio Torchio, Einaudi Quando internet non c’era di Angelo Morino, Sellerio Rosso Floyd di Michele Mari, Einaudi Santo Marrano (Il) di Giuseppe Sicari, Pungitopo Scendo. Buon proseguimento di Cesarina Vighy, Fazi Segreto di Nadia B. (Il) di Sergio Campailla, Marsilio Sei così mia quando dormi di Anna Kanakis, Marsilio Spagnolo senza sforzo (Lo) di Gabriele Pedullà Terra vista dalla luna (La) di Claudio Morici, Bompiani Ti spiego di Romana Petri, Cavallo di ferro Tutto torna di Giulia Carcasi, Feltrinelli Ultima riga delle favole (L’)di Massimo Gramellini, Longanesi Uomo che non voleva essere padre (L’) di Giuseppe Quatriglio, Rubbettino Valore dei giorni (Il) di Sebastiano Nata, Feltrinelli XY di Sandro Veronesi, Bompiani

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Indice degli autori 2008-2010

Abate C. 77 Agnello Hornby S. 226 Alajmo R. 25 Alberoni F. 162 Angioni G. 59 Archetti M. 56 Argentina C. 63 Arpaia B. 184 Avallone S. 170 Avoledo T. 132 Balduino A. 211 Banda A. 171 Baricco A. 149 Barone M. 57 Bejani A. 132 Benni S. 163 Bevilacqua A. 152 Bianchi M. B. 132 Bologna F. 121 Bonura G. 22 Busi A. 164 Cacciapuoti M. 216 Cacopardo D. 39 Calamini C. 64 Camarrone D. 148 Camilleri A. 120 Campailla S. 21, 205 Campo R. 195 Canali L. 70 Cannavacciuolo A. 54 Capecci V. 47 Cappellani O. 125 Cappelli G. 98, 123 Cappuccio R. 192

Capriolo P. 37, 105 Carcasi G. 223 Cardona M. C. 82 Carofiglio F. 58, 138 Casale G. 74 Ceccamea F. 64 Celestini A. 117 Comencini C. 140 Cordelli F. 201 Cornia U. 120 Covito C. 132 D’Amicis C. 67 Dante E. 52 De Carlo A. 34, 203 De Luca E. 157, 213 De Rienzo G. 41 De Seta C. 200 De Silva D. 206 De Sio T. 153 del Giudice A. 15 Del Giudice D. 217 Desiato L. 14 Di Natale S. 18 Di Stefano P. 31, 135 Domanin I. 11 Doninelli L. 147 Duranti F. 114 Eco U. 207 Fabiano G. 127, 178 Falco G. 132 Falcone M. 91 Farinetti G. 10 Feroldi D. 69

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DEGLI AUTORI

2008-2010

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Ferrandino G. 87 Ferrari A. 23 Fontanella L. 160 Fusini N. 62 Gangemi M. 165 Garlaschelli B. 132 Genisi G. 193 Giambarresi S. 30 Gianini Belotti E. 85 Giordano P. 16 Givone S. 83 Gramellini M. 196 Guarnieri L. 17 Guccini F. 68

237 Maurensig P. 88, 161 Mazzantini M. 96 Mazzucco M. G. 94 Milone R. 86 Monda A. 26 Montefoschi G. 103 Morale G. 115 Morazzoni M. 182 Morici C. 212 Morino A. 222 Murgia M. 132 Nata S. 175 Nigro R. 70, 111, 210 Nobile R. 12

Janeczek H. 69 Jones B. 69

Olivero G. 132 Ongaro A. 81

Kanakis A. 189

Palumbo A. 150 Parazzoli F. 106 Pariani L. 120 Parrella V. 13 Pascale A. 132 Pastore A. 169 Pederiali G. 9, 116 Pedullà G. 219 Pennacchi A. 197 Perotti S. 28 Perrelli G. 110 Perriera M. 118 Perrone R. 38 Perroni S. 191 Petrella A. 52 Petri R. 76, 179 Petrignani S. 218 Piazzese S. 139 Piersanti C. 185 Piumini R. 70 Poggiali S. 104 Puntello B. 130

La Spina S. 78 Latronico V. 61 Lauretta E. 134 Lerro L. 33, 224 Longo A. 141 Lopez B. 49 Loy R. 129 Lucarelli C. 122 Lugli M. 128 Lupo G. 8 Maggiani M. 180 Malvaldi M. 89 Manzon F. 70, 71 Maraini D. 29, 132, 156 Marani D. 50 Marazzi A. 69 Mari M. 190 Marinelli G. 48 Mascheri P. 75 Mastrocola P. 98 Mattei A. 66

Quatriglio G. 154, 174

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Raimo V. 69 Ramondino F. 45 Rea E. 120 Rebulla E. 73 Recami F. 44, 120, 132 Roveredo P. 145, 202 Rugarli G. 20, 93 Santagata M. 95 Sapienza G. 172 Savatteri G. 74 Scalia S. 112 Scandurra A. 143 Schisa B. 136 Scurati A. 109 Segre C. 222 Sgorlon C. 43 Sicari G. 199 Siti W. 36 Soriga F. 7, 215 Sorrentino P. 183 Spinato G. 55 Stassi F. 60, 120

INDICE

DEGLI AUTORI

2008-2010

Susani C. 69 Tadini E. 173 Tamburini A. 65 Tani C. 126 Torchio M. 214 Tornatore G. 144 Torres La Torre G. 90 Vargas D. 124 Vasile T. 24, 133 Vassalli S. 40, 187 Vasta G. 80 Venuto P. 84 Verasani G. 132 Veronesi S. 208 Vighy C. 194 Vinci S. 221 Vitali A. 92, 107, 158, 177 Voltolini D. 186 Zottarelli M. 57

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Teorie & Oggetti della Letteratura

A. Helbo (a cura di), Semiologia della rappresentazione J.-C. Gardin, Le analisi dei discorsi U. Carpi, Bolscevico immaginista. Comunismo e avanguardie artistiche nell’Italia degli anni venti F.P. Botti, G. Mazzacurati, M. Palumbo, Il secondo Svevo P. Getrevi, Nel prisma di Tozzi R. Genovese, Teoria di Lulu M. Jeanneret, La scrittura romantica della follia. Il caso Nerval R. Luperini, Montale o l’identità negata P. Fasano, L’utile e il bello C. Benedetti, La soggettività nel racconto. Proust e Svevo U.M. Olivieri (a cura di), «Change»: un laboratorio del ’900 N. Ordine, La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno F. Curi, Parodia e Utopia J. Risset (a cura di), Georges Bataille: il politico e il sacro G. Frasca, Cascando. Tre studi su Samuel Beckett M. Sechi, La figura del corvo. Percorsi letterari degli anni cinquanta P. Voza, Tra continuità e diversità: Pasolini e la critica. Storia e antologia M.A. Grignani, Retoriche pirandelliane M.C. Cabani, Gli amici amanti. Coppie eroiche e sortite notturne nell’epica italiana E. Mattioda, L’ordine del mondo. Saggio su Primo Levi E. de Pasquale, Il segreto del giullare. La dimensione testuale nel teatro di Dario Fo M. D’Ambrosio, Le “Commemorazioni in avanti” di F. T. Marinetti. Futurismo e critica letteraria F. Moliterni, R. Ciccarelli, A. Lattanzio, Primo Levi. L’a-topia letteraria. Il pensiero narrativo. La scrittura e l’assurdo F. Pozzo, Emilio Salgari e dintorni F. Montesperelli, Flussi e scintille. L’immaginario elettromagnetico nella letteratura dell’Ottocento C. Bordoni, Stephen King. La paura e l’onore nella narrativa di genere N. Ordine (a cura di), La letteratura comparata: questioni di metodo M.I. Macioti, Giallo e dintorni F. Montesperelli (a cura di), Tra Frankenstein e Prometeo. Miti della scienza nell’immaginario del ’900 G. Amoroso, Raccontare l’assenza. Annotazioni sulla narrativa italiana del 2005 D. Trotta, La via della penna e dell’ago. Matilde Serao tra giornalismo e letteratura. Con antologia di scritti rari e immagini N. Novello (a cura di), Apocalisse. Modernità e fine del mondo F. Rastier, Ulisse ad Auschwitz. Primo Levi, il superstite

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82. 83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92.

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G. Sergi, Antidoti all’abuso della storia. Medioevo, medievisti, smentite G. Fornasari, Viaggio al centro del Medioevo. Questioni, luoghi e personaggi A. Bisanti, La poesia d’amore nei Carmina Burana R. Bonfil, Rabbini e comunità ebraiche nell’Italia del Rinascimento M. Oldoni, L’ingannevole Medioevo. Nella storia d’Europa letterature ‘teatri’ simboli culture (2 voll.) F.G. Nuvolone, Il numero e la croce. L’homo novus da Aurillac Liber monstrorum. Introduzione, edizione critica, traduzione, note e commento a c. di F. Porsia T. Saffioti, Il Medioevo dei giullari. Lo spettacolo, il pubblico, i testi C. Spila, Animalia tantum. Animali nella letteratura dall’Antichità al Medioevo R. Bragantini, Ingressi laterali al Trecento maggiore. Dante, Petrarca, Boccaccio S. Morelli, Per conservare la pace. I giustizieri del regno di Sicilia da Carlo I a Carlo II d’Angiò. S. Silvestro, Santi, reliquie e sacri furti. San Nicola di Bari fra Montecassino e Normanni Erchemperto, Ystoriola Longobardorum Beneventum degentium. Piccola Storia dei Longobardi di Benevento, a c. di Andrea Berto

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rosegue la lunga, capillare indagine sulla narrativa italiana contemporanea condotta dall’autore fin dagli inizi degli anni Settanta. Le recensioni qui raccolte passano in rassegna i tanti sviluppi narrativi, ove trovano posto una marcata legittimità dell’ombra e del controcanto e un sempre attivo processo di evocazione e studio psicologico, sibillini riferimenti concreti, storie di vita in sintonia con luoghi animati. Trasportati dalla potenzialità plurivoca dello stile e delle strutture, personaggi e ambienti possono trasformarsi in eventi elettrizzati dalla fantasia creatrice e, specie in alcune clamorose operazioni di officina, in eventi linguistici: sofisticati esiti di una tendenza molto colta con la quale alcuni scrittori, puntando su disegni talora arditi (e liberandosi dai vincoli delle ideologie), riescono a far sortire una millimetrata esattezza espressiva. Una felicità di racconto e un volo dell’avventura pure in territori rigati da sottigliezze, ricami e innaturali colpi di luce.

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iuseppe Amoroso è stato ordinario di Letteratura italiana nell’Università di Messina. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Il notaio della Via Lattea (2000); Le sviste dell’ombra (2002); Solo se inganno (2004); Forse un assedio (2004); Nelle storie degli altri (2006); Raccontare l’assenza (2007); L’invisibile quotidiano (2009). Ha curato inoltre le edizioni di Lettere di patrioti italiani del Risorgimento (1960) e di Scritti inediti e rari di Giovanni Prati (1977). Autore di profili per I contemporanei e per ’900 di Marzorati, e per La realtà e il sogno di Lucarini, collabora con «Avvenire», «Corriere della Sera», «Gazzetta del Sud», «Il Tempo», «Roma».

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ISSN 1973-115

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