Il gioco del romanzo. Ventisei anni (1971-1995) di narrativa italiana 8877672226

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Il gioco del romanzo. Ventisei anni (1971-1995) di narrativa italiana
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Cancogni è sempre amabilmente ironico, di quella particolare ironia che suscita appunto il guardare il mondo e rappresentarlò da un certa distanza. In questo microcosmo di Cancogni non potevano mancare i cani, gli eterni amici dell’uomo, che con le loro imprevedibili facezie (sì,

proprio facezie) né allietano l'avventura terrena. «Tra i racconti che mi sono più piaciuti, vorrei citare

“Vedove” e “L'ultimo ad andarsene”, che dà il titolo a tutta la raccolta. Anche quest’ultimo è un racconto di vec-

chi. Un gruppo di amici passa il pomeriggio davanti al mare, e quando è l’ora di rincasare ciascuno fa in modo di essere l’ultimo. É una greve metafora della morte, ma la mano leggera di Cancogni ci fa sentire solo il profumo della nostalgia e della tenerezza, nonché dell’amicizia». Fedora si alzò con grande energia ed esclamò con una voce tutta falsa: «Che ne sarà di noi?» La voce era falsa, si è detto, ma aveva pure qualcosa di

drammatico, un pathos strano. Tanto che gli amici rimasero un attimo sconcertati. Finché Matteo le domandò: «Ti riferisci alla neve?» «No» rispose Fedora. «Mi riferisco alle nostre parole. Che senso ha elogiare o stroncare? Tra qualche anno sugli autori e sui libri calerà un equanime sentimento di giustizia e non susciteranno più alcuna passione. E noi se-

guiremo la loro sorte». «Questo non si può negare» ammise Sebastiano. «Ma il nostro dovere, fintanto che siamo vivi, è di giudicare con onestà. Se ci mettessimo a fare i posteri ora, cadrem-

mo nel caos morale della indulgenza plenaria. La vita è politica, è etica, è giudizio sui fatti e sugli uomini. Bisogna rischiare». «E io rischio» disse Fedora. «E pazienza se gli autori non capiranno il nostro impegno. Del resto, sarebbe fan291

tastico se le nostre parole riuscissero a varcare queste pareti». Dopo una pausa, riprese: «La lunga vita di Marianna Ucrìa, di Dacia Maraini, mi

ha commossa, ma la mia testa è rimasta fredda. Sarà perché, alla fin fine, io bado alla qualità letteraria. Se questa

non c’è, la mente mi rimane inerte, scusate la rima im-

perfetta. Il romanzo della Maraini ha tutti i caratteri di un

romanzone ottocentesco, anzi di un feuilleton, però la-

vorato con la consapevolezza che il feuilleton è morto e non è resuscitabile, se non con una fortissima dose di ironia, che in questo romanzo però manca. Ad esempio, amo

Il Gattopardo esclusivamente per l’ironia che Tomasi di Lampedusa vi ha infuso. Ho citato quel libro non a caso. Beninteso, la Maraini segue un’altra strada, ma l’atmosfera ottocentesca, qui settecentesca, è quella. Ovvero quella di chi ha risolto i problemi del punto di vista e del linguaggio e si affida solo al fascino della storia. A mio parere, è una operazione regressiva, ma può darsi che mi

sbagli. Siamo in Sicilia, verso la metà del Settecento. C’è una famiglia palermitana di molta ricchezza e di altrettanta arroganza. Marianna nasce in questa famiglia, dovrebbe diventare un buon partito, oppure farsi monaca, secondo una barbara usanza. Ma Marianna ha tutte le prospettive chiuse: è sordomuta. Per comunicare col prossimo, è costretta a Imparare a scrivere. Piano piano, con

una indomita forza di volontà, riesce a esprimere i suoi sentimenti, le sue impressioni, le sue idee, le sue sensazio-

ni usando la penna, e non metaforicamente. La moralità di questa donna notevole sta appunto nel riscatto della scrittura, ed è qui la modernità del soggetto della Maraini. La quale però non approfondisce affatto i drammatici rapporti che possono intercorrere tra la vita interiore e la scrittura, o la letteratura, e dà per scontato quello che avrebbe dovuto esprimere. Sicché la storia risulta paradossalmente edificante». 292

1991

Matteo tamburellò con le dita sulle costole dei libri, ne sfilò uno, lo sfogliò. Poi si voltò e disse: «Se la vita non è vita. Struggente e crudele questo romanzo di Antonio Debenedetti, che ha quasi sempre privilegiato il racconto per esprimere il suo immedicabile disagio esistenziale. La prima singolarità sta nell’extratesto, cioè risiede nell’argomento, sul quale voglio soffermarmi un attimo. Dico subito che è un argomento quanto mai

sgradevole, fuori moda rispetto alle linee occupate dalle truppe del romanzo attuale. Linee che sono, nella maggioranza dei casi, piacevoli, lisciate, patinate, attraenti in senso consumistico, edonistiche in senso culturale, spet-

tacolari in senso socio-politico. In breve, linee false e menzognere, sulle quali si attestano volentieri quegli scrittori giovani che fanno il verso all’infantilismo, e quegli scrittori maturi che fanno il verso al giovanilismo. Debenedetti si attesta invece su quella linea che nessun uomo vorrebbe occupare ma che, se vuole vivere a lungo, sarà costretto a occupare. Intendo quella linea inquietante e piena di incognite che separa l'anzianità dalla vecchiaia quando questa e quella non sono edulcorate. Il protagonista del romanzo, l’architetto Guido Coen, ha sessant’anni e li dimostra tutti. Sua moglie Wilma ne ha uno o due di più, e li dimostra ancora peggio, mentre la loro figlia Margot ha tutta l’aria di essere invecchiata prima di avere assaggiato il favoloso frutto della giovinezza. Ce n’è abba293

| stanza per spaesare, anzi per mettere in allarme il lettore abituato alle storie verdi e rosa, in cui il sesso trionfa, il

denaro si spreca e il successo sigilla il tutto, appagando sia coloro che nella letteratura cercano un (giusto) svago, sia gli editori che la calcolano solo nel fatturato. Ma Debenedetti, non contento di avere affumicato le aspettative del lettore, butta un’altra bombetta pestifera, e più dirompente. Guido Coen è figlio di madre cristiana e di padre ebreo». Matteo cessò di parlare, aprì una pagina del libro: «Leggo un brano riferito a Coen: “Non è facile mostrarsi disinvolti, generosi di sé, comportarsi in modo sportivo con i propri sentimenti e anche con i propri risen-

timenti quando è capitato cento, mille volte di identificarsi con quei ‘cosi’, quegli esseri ormai strappati alla loro forma umana. Parenti o quasi parenti nudi, rapati, brutti come scheletri che affondano in un mare di ossa, di fan| go tedesco...” I “cosi” sono ovviamente i parenti di Gui-

do Coen morti in un lager. Dato questo suo passato di incubi e frustrazioni, (la vanità della vita, le tragedie della storia), l'architetto sessantenne Guido Coen si comporta come un irresponsabile che però pretende dagli altri la massima considerazione, o almeno l’indulgenza, la com-

plicità. E mi ha fatto venire in mente il personaggio di Saul Bellow che mugugna e si offende nel romanzo La resa dei conti. Ma Debenedetti non si commuove, non offre al suo Coen nessun appiglio psicologico, nessuna giustificazione morale per il suo sostanziale comportamento immorale, e ridicolo. Come a dire che un passato “razziale”, sia pure dolorosissimo e tragicissiro, non è un alibi per nessun individuo, poiché la vita ciascuno deve costruirsela da sé, nel presente, e ne è totalmente responsabile. Il romanzo, che comincia con la crisi esistenziale e fisica di

Coen, diviso tra famiglia e amante, è formato di istantanee, di fulminee “fotonarrative”, che Debenedetti com294

menta con il discorso indiretto libero. La prosa è tutta scatti e salti. Forse qualche “foto” poteva essere scorciata, ma il romanzo colpisce il bersaglio mirato dal narratore». Fedora disse: «Mentre nevica, è bello parlare della Sicilia, non vi pa-

re? Tra le cose vicine e l’immagine solare dell’isola si forma come una frattura temporale e si prova una doppia emozione, un brivido doppio, se vogliamo: uno provocato dalla neve, l’altro dalla parola Sicilia, un parola che risucchia tutta una cultura, un mondo. Esiste una seconda

Sicilia oltre a quella truculenta che ci propinano le cronache? Per fortuna sì, ed è la Sicilia degli scrittori che scavalcano l’attualità e affondano lo sguardo nelle radici di una situazione sociopolitica che va sempre più deteriorandosi. E le radici non possono trovarsi che all’interno della famiglia, voglio dire nella mafia inconsapevole che la famiglia coltiva, e questo vale sia per il Sud che per il Nord, senza contare l’Est e l’Ovest. Ogni regione, ogni parte del globo terracqueo ha la sua famiglia mafiosa a suo modo, scusate il pessimismo. Io volevo parlare della scrittrice siciliana Laura Di Falco, del suo romanzo La spiaggia di sabbia nera. Della Di Falco mi piace lo stile magro ed allusivo, in contrasto per esempio con lo stile grasso e ridondante di Gesualdo Bufalino e di altri scrittori siciliani di oggi, che non sapendo che pesci pigliare si affidano alle risorse della retorica e della decorazione, le quali vengono spesso scambiate per fantasia, quando invece altro non sono che le esibizioni vacue e virtuosistiche del solito letterato italiano, un po’ pretesco, un po’ puttanesco. Di razza verghiana, la Di Falco fonde nella sua scrittura il naturalismo e l’espressionismo. Il suo romanzo è appunto un modello di scrittura evocativa e sintetica. Campeggia nella mente dei protagonisti un padre-padrone, violento e libidinoso, che possiede ricchi agrumeti al295

le falde dell'Etna. L'uomo è sposato con una donna lom-

barda che odia la Sicilia (manco a dirlo). Quando i due

coniugi muoiono, i figli si trasferiscono a Roma, ma por-

tandosi dietro le tare ereditarie, oltre alle rendite della ricchezza terriera. La più ossessionata è Daniela, rimasta nu-

bile, che teme vedere rispuntare nei suoi fratelli la violenza, la rapacità e anche la pazzia del padre. Invece, dei due fratelli, uno parte missionario in Africa e l’altro si dedica all’insegnamento in una comunità di disadattati. «E anche Lorenza, una nipote di Daniela che sembrava la più predisposta a ereditare la pazzia, si rivelerà di una assennatezza esemplare. Insomma, contrariamente

alle apparenze, questa famiglia siciliana ha tutta l’aria di essere sana e solidissima. Ma forse il veleno della favola sta paradossalmente in questo lato edificante. Gli agrumeti siciliani finiranno in mano alla mafia, come a dire

che la salute morale non salva dalla mala pianta delle cosche. A proposito di piante, è da notare l’insistenza della Di Falco sull’amore per i fiori, e il gusto delle atmosfere, in sintonia con la naturalità della famiglia al di là delle travagliate vicende storiche». Sedutasi Fedora, si alzò Giolindo che disse:

«Ho letto con piacere il primo romanzo di Susanna Tamaro, La testa fra le nuvole. Un storia leggera e surreale,

condotta con mano ferma fino all’epilogo. Il suo secondo libro, questo Per voce sola, mi ha un po’ sconcertato. Devo spiegarmi. Supponiamo che un giovane pittore si

presenti per la prima volta al pubblico con una serie di quadri astratti, buoni quadri astratti, intendo. Io vado a vedere la mostra, prendo nota dei suoi lavori, vedo ché

c'è del talento e aspetto la sua prossima uscita. Questa avviene qualche anno dopo, ma con una serie di quadri fi-

gurativi. Beh, io comincio a sospettare di lui, del suo talento. Se fosse un abile pittore e nient’altro?, mi chiedo. 296

Ce ne sono tanti, e fanno parte della storia del pittoresco, non della pittura. Ebbene, Susanna Tamaro ha fatto esattamente come il mio ipotetico-pittore. Per voce sola è

la negazione del mondo stilistico e tematico di La testa fra le nuvole. Contiene cinque racconti che più melodrammatici di così non si può. Vecchi e bambini vengono feriti e umiliati dal mondo, ma si direbbe che la crudeltà non stia nelle forze storiche e sociali che avvolgono e colpiscono gli individui, bensì nella natura, nei cromosomi. Con questa idea si va letterariamente poco lontano, specie se lo stile è piano e piatto, non espressionista, non deformato e deformante. Insomma, la Tamaro è una scrittrice “creaturale”, che dà ragione al senso comune,

confermandolo nel suo senso comune. La sua crudeltà è allora, per un paradosso abbastanza frequente, edificante. Niente da dire contro la letteratura edificante. Il problema è stabilire per quale principio morale si edifica. Mi butto: la Tamaro edifica per lo statu quo, con tutto quel che di ingiustizia comporta». Disse allora Isabella: «Un giorno di primavera del 1941 una ragazza italiana di origine ebrea scende all’aeroporto di Lisbona per sfuggire alle leggi razziali e raggiungere gli Stati Uniti. La ragazza ha vent'anni. Questo lo scenario iniziale del breve romanzo di Angela Bianchini, Capo d'Europa. C'era voluta tutta la forza di persuasione di sua madre per convincere la ragazza a lasciare l’Italia. La madre era passata da una cieca fiducia nei destini della patria mussoliniana a una cupa disperazione circa il destino degli ebrei. Preso alloggio in un albergo di Lisbona, la ragazza aspetta con pazienza di partire per la salvezza. Anche nella metropoli lusitana si sente il rombo metaforico delle armate del Terzo Reich. Un senso di sospensione e di mistero grava sull’albergo. Ma la ragazza, giusto il suo carattere 291

candido e ottimista, è tutta presa dalle piccole cose che accadono nell’albergo. Non si accorge che trame ben più vaste della sua psicologia vengono tessute intorno a lei. La cosiddetta cultura del sospetto, di cui tanto si parla, deve essere uno zuccherino in confronto all’inferno in cui erano gettati a quel tempo gli ebrei. E non a caso la scrittrice avvolge i fatti (di per sé quasi irrilevanti) in una atmosfera di tensioni angosciose. Sembra di essere (e lo dico con convinzione) in un romanzo di Simenon o di

Graham Greene. La ragazza trascorre a Lisbona tre giorni. E questi giorni costituiscono una iniziazione, che segnerà per sempre il suo carattere. Conosce Ruben, un

giornalista ebreo di origine russa, ricercato da tutti i regimi dittatoriali (per la sua religione). Conosce la moglie di costui, Elizabeth, la cui simpatia per la ragazza non è convincente. Conosce un certo signor Bell, ambiguo e strisciante. Il colloquio di Bell con la ragazza è uno dei momenti migliori del romanzo, per la sua minacciosa allusività. Ma nell’albergo c’è soprattutto la piccola Garielle, la figlia di Ruben, una bambina adorabile e intel-

ligentissima che suggella in modo clamoroso e inaspettato l’intera struggente e intelligente narrazione».

298

1992

«Ci avviciniamo a questo giorno» disse Fedora. «In che senso?» la interruppe Matteo. «Non si è detto che con i nostri racconti di racconti si sarebbe arrivati al 1995?» replicò Fedora. «Dunque, quasi ci siamo». «Lo dici con un certo sollievo, mi pare» osservò sorridendo Isabella. «Ma no, l’ho detto per constatare un dato di fatto. E per ricordare una nostra regola iniziale». «D'accordo» interloquì Sebastiano. «Ma torniamo ai nostri discorsi. Ora siamo, in teoria, al 1992. Quali ro-

manzi ci sono nel menù?» Si fece avanti ancora Giolindo e disse: «Le prime pagine di un romanzo producono lo stesso effetto delle battute iniziali di una sinfonia o di un qualsiasi altro tipo di musica: o l’ascoltatore ne resta subito incantato, oppure non sente alcuna emozione e torna ai suoi

pensieri o alle sue occupazioni. Nel primo caso, acuisce la sua attenzione, dimentica tutto e tutti e si lascia inva-

dere dolcemente dall’armonia. È quello che ho provato io leggendo le prime pagine del romanzo di Inìsero Cremaschi, Le rose assassine. E non a caso mi sono servito di una metafora musicale. Questo romanzo è mozartiano,

però attraversato dalla consapevolezza che la fluidità dei suoni è ormai presa d’assalto dagli innominabili rumori della vita quotidiana. E tuttavia l’armonia che Cremaschi 299

riesce a infondere alla sua narrazione resiste a ogni minacciosa bruttura. Il punto di forza del romanzo è dato dall’invenzione di un personaggio che si vorrebbe cono-

scere di persona, a cui stare vicino, andare a passeggio e

ascoltare le sue fantasticherie, i suoi sogni, condividere le

sue emozioni. Questo personaggio si chiama Ivan Desi-

deri, lavora come fotoreporter in una agenzia, è milanese di nascita e vive con il padre professore di storia e filosofia, che lo guida con la sua affettuosa saggezza. Quando apriamo il romanzo, Ivan si trova in una villa sul lago di Como e sta fotografando una magnolia centenaria, perché alla “testa fina del direttore dell’agenzia era balzata l’idea di una serie che riunisse gli alberi più vecchi d’Italia”. Il fotografo è costretto a interrompere il suo lavoro a causa di un rude custode che non vuole grane con certi congressisti che si trovano nella villa. Ivan prende il traghetto e sbarca a Dongo, dove lo informano che nei paraggi c'è un’altra villa, questa addirittura leggendaria, nel cui giardino svetta un tiglio che è vecchio di sette secoli. Il fotografo ci si precipita. Da questo momento in avanti l’azione si svolge quasi tutta all’interno della Villa del Tiglio, dove abitano quattro persone: la padrona aristocratica e il marito tedesco; Maria Novella e sua nonna Er-

melinda. Vi abita anche un’ombra, che compare e scompare dietro i vetri di una finestra di una torretta. Verremo a sapere che si tratta di un boss mafioso, cercato da altri mafiosi che vogliono fargli la pelle per via dei soliti traffici. Ma il personaggio principale della villa è il tiglio maestoso che è al termine della sua lunghissima vita. Maria Novella e la sua incantevole nonna si prodigano per salvarlo, ma pare che non ci sia nulla da fare. Tra l’altro, la villa è stata pignorata e rischia di finire tra le fauci de-

gli speculatori pubblici e privati. Questa idea del tiglio da salvare a tutti i costi, mi sembra bellissima. Cremaschi spande a piene mani le sue conoscenze botaniche sulla flo300

ra del parco della villa e nomi esotici e strani risuonano nelle pagine come echi di antichissime civiltà. La villa, il giardino e il parco sono in effetti.il riflesso dell'Eden prima della caduta dell’uomo. La padrona, Maria Novella e la nonna cercano di preservarli dal male della storia, li difendono contro il marito tedesco della signora che è ancora nazista e sogna di trovare uno scrigno di Mussolini pieno di monete d’oro, scavando e rompendo ogni cosa. Farà una brutta fine. La vicenda si tinge di aspetti gialli e anche truculenti, ma il tono resta fiabesco e sorridente come appunto una musica di Mozart. Con tocchi leggeri e scavi, l’autore rappresenta il degrado della società attuale, coinvolgendo anche il problema degli extracomunitari, sempre alla ricerca in un tetto e continuamente in lotta coi razzisti che abitano in quel di Milano. Su tutto e su tutti si erge il tiglio, questo dio della natura che ha visto passare sotto le sue fronde secoli di storia e che vorrebbe morire almeno con un barlume di speranza sul destino dell’umanità. La personificazione del tiglio non è una nostra fantasia, ma nasce dai rapporti di amore che i buoni abitatori della villa intrattengono con lui. E nasce dal turbamento profondo che il tiglio trasmette al fotografo». Giolindo finì e parlò Matteo: «La narrativa di Vincenzo Consolo è stata sempre per-

corsa da una doppia tensione. Da una parte, l'esigenza di comunicare le strutture del racconto nel significato antico del termine, ossia gli episodi e i nessi che formano la base dell’affabulazione. Dall’altra, un lirismo che si alza sulla razionalità dei fatti per cantare un canto di disperazione e di resistenza alla brutale evidenza della realtà. All’interno di queste due tensioni, altre ce ne sono, non meno significative. Ad esempio, la prosa barocca e sontuosa, e la precisione maniacale dei termini che indicano le cose di tutti i giorni. Oppure l’opposizione lacerante tra 301

lingua e dialetto. Tutte queste spinte centripete e nello stesso tempo centrifughe vengono tenute a bada, e si amalgamano, mediante una severa moralità, o meglio visione del mondo, in cui si sente il trattenuto dolore ver-

ghiano per la sorte degli oppressi. Anche in Nottetempo, casa per casa, Consolo non smentisce la sua natura di scrittore mistilingue, anzi ne esalta consapevolmente i tratti divaricanti. La prosa è un crogiuolo di registri espressivi che vorticano intorno a un nucleo tematico saldo: la notte della ragione nei primi tempi del fascismo siciliano. Ma l'operazione di Consolo non mira certo a restituirci un reperto archeologico di storia patria, bensì a farci riflettere sulla possibilità, abbastanza fondata, di vedere risor-

gere la follia totalitaria, sia pure sotto altre forme, più soffici e forse più insidiose. La vicenda si svolge tra Cefalù e Palermo. Il romanzo si apre con una allucinante scena notturna. Pedro Marano, un giovane maestro, soccorre

il padre che ha una crisi di delirio durante la luna piena. Oppresso da altre disgrazie familiari, Pedro cerca sollievo nei suoi amati libri e nell’impegno politico a favore dei contadini che si ribellano ai soprusi dei feudatari. Tra i sopraffattori c'è ilbarone Nenè, che non a caso è un grottesco ammiratore delle gesta di D’Annunzio, il portabandiera parolaio del fascismo nascente. La lotta impari tra Pedro e il barone è preceduta dall’arrivo in paese di una strana combriccola. La gente li chiama Mormoni. In realtà si tratta di una setta satanica, dedita a riti oscuri. Anche un amico di Pedro finirà per aggregarsi alla setta, che è contraria a ogni ordine stabilito, quindi anche al regime di Mussolini. Le pagine dedicate alla setta sono molte rispetto all'economia del romanzo, segno che Con-

solo ha voluto caricarle di molteplici significati. Tuttavia il virtuosismo linguistico profuso in queste pagine mi sem-

bra prevaricare sui singoli episodi del romanzo. Tanto è vero che mi è venuta voglia di analizzare meglio la storia 302

della setta, un’analisi che, ovviamente, non posso permettermi ora. Intanto ritorna in primo piano la figura di Pedro, che non vuole arrendersi all’evidenza tragica della vittoria dei prepotenti a spese dell’umile e onesta gente dei paesi e delle campagne. Anche Pedro dovrà dichiararsi sconfitto ed emigrerà portandosi nel cuore le parole della libertà assoluta, con cui cantare il canto della bellezza e della ragione. Mi precludo di dare un giudizio definitivo su un romanzo così complesso per tematica e lingua. Però mi sembra che le alte intenzioni di Consolo si siano scontrate con le leggi oggettive della narrazione. Ma forse anche questo era previsto, come sfida e scommessa». Fedora si alzò, si stirò come se fosse scesa dal letto e

disse: «Vivere come se si avesse la coscienza a posto. Questa è la condotta normale dell’uomo medio, forse di tutti gli uomini. I cosiddetti esami di coscienza sono spesso una abitudine narcisistica, un tic della vanità e di un malce-

lato senso di superiorità. Peggio ancora, sono un alibi preventivo per commettere con più baldanza gli innumerevoli crimini morali, piccoli e grandi, con cui tessiamo la tela delle nostre farraginose e intontite giornate. Del resto, la coscienza è un peso che impedirebbe di muovere gambe e parole se l’istinto di conservazione non avesse l'accortezza di occultarlo nelle profondità dell’essere, anzi di espellerlo. La tragedia di Amleto ha forse pronunciato la sentenza più terribile sul peso della coscienza. Se ne ascoltassimo la voce, ne resteremmo annientati, ogni nostro gesto si bloccherebbe davanti alle scelte essenziali e definitive. La coscienza dubita, sta immobile nella esitazione, specie se si tratta della coscienza di un intellettuale autentico. «Quanto ho detto finora non è una pomposa disquisi303

zione in pillole sul problema della coscienza. Ho semplicemente cercato diindicare il perno rovente e travagliato intorno al quale si avvolge il romanzo di Luca Doninelli, La revoca. L'inizio è folgorante e sono certa che resterà memorabile: “Un giorno, improvvisamente, mi venne fatto di chiedermi se avevo la coscienza a posto. Sì, dissi: io ho la coscienza a posto. A questa risposta, fui preso dall’orrore di me stesso e dal dolore per la mia eterna infelicità”. Da tempo chi legge i romanzi per passione o professione non si imbatteva in una simile batteria di termini imbarazzanti e solenni: coscienza, orrore, eterna infelicità. «Forse ci è familiare l’orrore, anche se notevolmente attutito dalla indifferenza. Ma la coscienza e l’infelicità,

soprattutto se eterna, erano state bandite dalla vita quotidiana e dal vocabolario della narrativa. Per intima necessità, per risolvere un groviglio non soltanto letterario, ecco che Doninelli estrae quelle parole e quei concetti dall’oblio in cui li ha relegati l’uomo contemporaneo, e li tritura nelle sue pagine con una ossessione quasi maniacale. La singolarità del suo romanzo sta in questo, che la vicenda non contiene fatti clamorosi, episodi esemplari,

intrecci alla Dostoevskij (e non l’ho citato per caso). La storia è di una normalità cronachistica. Ma quello che conta è lo sguardo che la giudica. E questo sguardo è terremotato dalla consapevolezza che il più grande delitto di una persona è credere di avere la coscienza a posto. Il protagonista che narra il suo calvario metropolitano si chiama Mario ed è un intellettuale di successo. Quale sia la sua effettiva professione e quale successo gli abbia atriso, non sappiamo e non ci interessa saperlo. È un intellettuale, e tanto basta. Dopo aver scoperto con orrore di avere la coscienza a posto, il nostro intellettuale viene preso dalla nausea, esce di casa piantando in asso la moglie, va a litigare con un librario responsabile di vendere “balorda letteratura” e si mette a peregrinare per la città, in304

seguito dai fantasmi dei suoi morti, dei suoi peccati di omissione e di quelli altrui. Lo accascia il ricordo dei genitori che hanno lasciato morire in solitudine il nonno. E li stramaledice, senza tuttavia fingersi innocente. Ma il ricordo che scandisce i suoi passi come una marcia funebre è quello della sorella, una ragazza pura e intelligentissima, che un giorno si è data alla prostituzione ed è morta strangolata da un informatore della polizia. Anche in questo caso Doninelli si rifiuta pervicacemente di spiegare le motivazioni che hanno indotto la ragazza a prostituirsi. Al narratore interessano gli effetti e non le cause, confermando così il ruolo primario della coscienza rispetto alla realtà fenomenica. È una costante stilistica di grande interesse, che tuttavia può provocare un infeltrimento tra le maglie della narrazione. Altri episodi casuali e drammatici ingorgano il disperato vagabondaggio del protagonista. Incontra una donna matura e avida d’amore, viene pugnalato da un giapponese, conosce la disumanità degli ospedali, rivede gli amici di un tempo, riassapora il profumo della perduta innocenza. E infine ritorna da sua moglie, forse anche per accettare con spirito religioso il destino dei suoi consanguinei defunti. Su tutta la storia incombe la beffarda presenza della morte e l’inconcepibile silenzio di Dio, sia per le vittime sia per i carnefici. Doninelli è lombardo, eppure per vie misteriose ha assorbito, secondo me, la corrusca e toccante at-

mosfera della narrativa di Federigo Tozzi». Sebastiano prese di corsa un libro e disse, un po’ ansimante: «Voglio parlarvi di un grande stilista. Sono sicuro che quando sentirete il suo nome, storcerete la bocca, non tut-

ti, ma qualcuno sì. Questo grande stilista è Domenico Rea, chele storie letterarie hanno relegato tra i neorealisti, cioè tra quegli scrittori stimati per il contenuto ma poco ap305

prezzati per lo stile. Un errore marchiano, secondo me, a cui vorrei porre rimedio, con le mie deboli forze, in questa riunione familiare. Spero di fare proseliti. Dite a tutti che Domenico Rea è un grande stilista e che un giorno la sua opera risalterà nel panorama narrativo di questi

ultimi cinquant'anni. Nel 1993 Rea è tornato prepotentemente alla ribalta, come si dice, con un romanzo bel-

lissimo, Ninfa plebea, con cui ha vinto giustamente il Premio Strega. La sua stagione sembrava conclusa sul finire degli anni Cinquanta. Mai conti sono sempre aperti e certi scrittori hanno l’estro sulla punta della penna. In realtà, il napoletano Rea non si era inaridito, e tanto meno si era

ritirato a vita privata. Affacciato alla finestra della sua casa, a guardare metaforicamente e fisicamente il variopinto passeggio del mondo, aspettava l’ispirazione per rimettersi al lavoro. Poteva scrivere quello che voleva (e lo ha anche scritto) ma lui, da buon napoletano, aspettava che passasse la nottata della routine. La sua pazienza è stata premiata. Ninfa plebea è un romanzo pensoso, ilare, pirotecnico, intriso di carnalità e di passione, fatto di amori

esclusivi e di tragedie della miseria, ambientato nella Napoli degli anni Trenta. Eppure le vicende della giovanissima protagonista (una quattordicenne, o su di lì) non si può dire che non ci riguardino, tutt'altro. «Miluzza ha come dote e patrimonio culturale, per dir così, soltanto il suo corpo e la sua spavalderia per sopravvivere allo sfacelo della società napoletana. Ci pareun personaggio attualissimo. E si aggiungano i colori e i sapori di Napoli, la gran voglia di cibo e di sesso, la religiosità popolare e i sogni debordanti delle “macchiette” di strada, e si avrà un piccolo affresco della napoletanità di sempre. Memorabili sono le scene della morte del nonno di Miluzza e i primi turbamenti erotici della ragazza, descritti con mano forte e sapiente. Per chi ama Lo Cunto delli Cunti deve sapere che Rea ne è un degno continuatore». 306

1993

«Non abbiamo mai parlato dei giornalisti scrittori» disse Isabella con furbo candore. «Per carità» insorse Matteo. «Non apriamo questa po-

lemica, che poi è una falsa polemica. Per me tra il giornalismo e la letteratura c’è una differenza radicale». «Quale?» lo interruppero tutti, sinceramente incuriositi.

«Il giornalismo usa il linguaggio in senso comunicativo» rispose Matteo. «La letteratura lo usa in senso espressivo. Tiratene le conseguenze». «E qual è la differenza tra pittura e letteratura?» chiese allora Fedora prendendo un libro. E senza aspettare la risposta, continuò:

«Emilio Tadini, con La tempesta, ha pubblicato il suo quarto romanzo. Se la sua attività di pittore professionista gli avesse concesso più tempo, le sue opere sarebbero di più. Questo suo romanzo è il resoconto di una tragedia circoscritta che ambisce a concretizzarsi in una più vasta metafora. Tutto inizia un giorno di agosto, a Milano,

in una villetta nei pressi di Linate. Nella villetta abitano Prospero e un extracomunitario. Dopo avere ricevuto una

drastica ingiunzione di sfratto, Prospero perde la testa e spara sulla polizia ferendo un agente. Poi, aiutato dal suo amico extracomunitario, si barrica in casa e minaccia di

fare una strage. Il buon commissario esita a intervenire. Un giornalista di cronaca nera, molto miope, con un pas307

sato giornalistico brillante, ha l’ardita idea di farsi ricevere da Prospero per ascoltare la sua storia. Prospero lo accontenta. Il romanzo si svolge tutto nella villetta, ma i racconti di Prospero ne allargano smisuratamente il tempo e lo spazio. La villetta è una sorta di museo che Prospero ha allestito per suo uso e consumo, cioè per ricordare a se stesso il significato della sua e delle altrui esistenze. Fra vestiti in disuso, animali impagliati e piante, ci si muove in un ambiente concreto e simultaneamente

simbolico. Gli oggetti alludono sempre a un mondo e a un’armonia perduti. Commerciante di stracci, Prospero ha avuto una vita tribolata in più sensi. Sua moglie e sua figlia lo hanno piantato, la prima per seguire una sorta di santone indiano, la seconda per perdersi nel vortice della droga. Tutto ciò che gli resta sono i ricordi, che lui trasforma in metafore del vivere. Ma alla fine Prospero decide di uccidersi. Il giornalista commenta: “Una tragedia del nostro tempo... La figlia drogata e la moglie sedotta anima e corpo dal santone indiano, e tutte e due le sue donne che scomparivano da un giorno all’altro, lasciandolo solo e in angoscia, completamente solo, in quella casa, a tormentarsi, finché non gli aveva dato di volta il cer-

vello, tanto che si era messo in testa di costruire un universo completo e autosufficiente, accontentandosi, alla fi-

ne, di un'isola con flora, fauna e paesaggio rigogliosamente simbolici...”. Commento assai pleonastico, anche

se sono completamente dalla parte di Tadini per quanto riguarda il tema davvero intenso. Ma gli mancherei di rispetto se non dicessi quello che non va in questo romanzo. Tutta la storia è raccontata dal giornalista, che la riferisce al commissario, riportando anche le parole di Prospero, sicché si ha una interessante stratificazione di linguaggi. Ma ciò che non convince è proprio il linguaggio.

Nel risvolto di copertina si fa riferimento a Volponi (lasciamo stare Gadda, per carità), ovviamente al primissi-

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mo Volponi, quello dei personaggi folli e utopisti. Ma la prosa dello scrittore marchigiano è tutta cose e fatti, tutta corporalità conclamata, mentre quella di Tadini soffre di un eccesso di cerebralismo. È astratta, esclamativa, manieratamente sincopata, con strani birignao, e spesso gira a vuoto. E lo stesso Tadini deve essersene accorto, da-

to che più volte nel corso della narrazione il giornalista allude al suo stile digressivo e retorico. L’errore sta proprio nell’avere scelto‘ un giornalista come testimone narrante. E non è la prima volta che Tadini commette questo errore. Il giornalista è un personaggio che risulta quasi sempre improbabile e fittizio nella narrativa italiana. E le ragioni sono ovvie: basta leggerli per capire che la letteratura è un’altra cosa. Lo scrittore vero non si accon-

tenta di tempeste in un bicchier d’acqua». «Ricominciamo con le stroncature, eh?» esclamò Gio-

lindo. «No e poi no» protestò Fedora. «Il romanzo mi ha interessato». «Figuriamoci se non ti avesse interessato» insistette Giolindo, con una certa acrimonia.

Poi prese un libro e disse: «La realtà attuale è sempre più imprevedibile e imprendibile in forma diretta. La scrittura si condanna spesso a una resa documentaria dei dati della quotidianità. Tuttavia, esistono narratori che in virtù di una intrinseca

forza visionaria riescono a trasformare la cronaca in metafora o allegoria, che è il compito primario della letteratura. Altri narratori, invece, seguono la strada opposta, quella del surrealismo o della favola o dell’apologo, trovandosi subito a loro agio, e non a caso. Superfluo dire che entrambi i procedimenti sono legittimi, quello che conta è, lapalissianamente, il risultato. Poi c'è un terzo procedimento, che consiste nel fondere il pathos realisti309

co con la vena surreale, e questa è la strada che ha intrapreso il comico Gene Gnocchi. Stazi di famiglia è il suo secondo libro di narrativa. Si tratta di un romanzo breve, anzi brevissimo, e ci pare che testimoni esauriente-

mente l’inclinazione dello scrittore-comico per il narrare corto. Il suo libro di esordio era infatti costituito da una serie di raccontini basati su una trovatina quasi filosofica. Mi era sembrato macchinoso. Questo romanzo, al con-

trario, è gradevole, col suo andamento sgrammaticato e stralunato. Si legge in poco tempo, e in alcune parti lascia trapelare la fisionomia di un buon narratore. E la storia di una famiglia dissestata, con vicini di casa ancora più dissestati. C'è un geometra che medita di uccidere la suocera, e ci riesce. Ma su di lui si scatena la vendetta della moglie. Poi sopraggiunge un terremoto autentico che spazza via l’intera famiglia, lasciando il narratore a meditare sulle disgrazie del mondo. Piacevoli alcune figurine di contorno, come il poliziotto imbranato e la nonna trattata a pesci in faccia. Gnocchi si sforza di essere spiritoso, e il suo sforzo si sente troppo. Spesso il linguaggio è approssimativo, vanificando anche i brani che risultano convincenti. In conclusione, mi sembra di

poter dire che in Gnocchi il desiderio di scrivere è superiore alle sue possibilità espressive. O meglio, tra le intenzioni e l'esecuzione c’è una evidente frattura».

Sebastiano si alzò, si avvicinò a Giolindo e lo guardò con occhi spalancati: «E tu saresti quello che detesta le stroncature?» Giolindo rispose: «Non sempre sono conseguente con le mie opinioni».

Sebastiano si strinse nelle spalle e gli sorrise. Poi, sfilando un libro dallo scaffale, prese a dire: «Lo confesso subito: questo romanzo-Niagara di Alberto Arbasino, Fratelli d’Italia, mi spaventa. Del resto, 310

non c’è due senza tre. Rimasi di stucco e muto quando uscì la prima volta, nel 1963. Mi ha intrigato quando è uscito per la seconda volta, arricchito di un duecento pagine, nel 1976. E rieccolo per la terza volta, e questa vol-

ta la voglia di scherzare mi è passata. Un volumone che incute rispetto (ben 1372 pagine) e induce a meditare con affetto e rimpianto su quelle operine che in un paio di ore leggi e dimentichi. Intanto il libro, passando per Einaudi e Feltrinelli, è approdato all’ Adelphi, e allora non puoi fare a meno di riferire che l’autore in passato ha indirizzato agli adelphiani frecciatine divertite, per la loro mania di pubblicare certi mitteleuropei, molto seri ma anche molto lagnosi. Sarà cambiata l’Adelphi, o è cambiato Arbasino? Naturalmente, quello che davvero è cam| biato è il mondo. La pirotecnica ed esaltante cultura degli anni Sessanta, in cui è ambientato il romanzo, si è tra-

sformata in una discoteca di periferia, e chi ha una certa età non può non ricordare con nostalgia un’epoca in cui sembrava che l’Italia stesse facendo un grande salto di qualità, lasciandosi alle spalle le sue secolari miserie e piccinerie. Non è andata così, ma forse non è colpa nostra,

bensì della Fine della Storia, teorizzata pure da qualche cervello balzano e finissimo. Arbasino non sarà d’accordo affatto, ma il suo romanzo si infila immediatamente

nella temperie della nostalgia. Beninteso, non è che sia nostalgica la sua scrittura, tutt'altro, ma è nostalgica l’o-

perazione di tornare ancora sul suo romanzo, aggiungendone la bellezza di settecento pagine e passa. Per dire che cosa di nuovo? Quasi niente. I personaggi sono sempre lì a discutere di letteratura, musica, teatro, cinema, poesia, danza classica e moderna, pittura antica e contemporanea, ma non si evolvono, non si spostano di un

centimetro dalla loro psicologia estetica. L'esperienza vale soltanto in quanto moda dell’esperienza, e il piacere di lasciarsi vivere e lasciarsi andare a conversazioni torren311

NES",

ziali sarà magari divertentissimo nella vita, ma nella narrativa genera sazietà. Arbasino non ama il romanzo ben fatto (HenryJames). E ha ragione. Il guaio è che non ama neanche il romanzo “mal fatto” (Joyce, Musil, Broch). Lui ama discettare sulle teorie e pratiche del romanzo di trent'anni fa, per sbertucciarle. Però è un esercizio che, visto oggi, non eccita le meningi. E non le eccita perché nessuno ha voglia di difendere una opinione qualsiasi su un romanzo realista o di denuncia, o di conversazione o

simbolista. In tempi di immobilità ideologica quasi totale, il diritto e il rovescio si equivalgono. E facile sparare a zero sulle ideologie cretine degli anni Sessanta, come fanno i personaggi del romanzo di Arbasino, ma se per caso potessero parlare e testimoniare in “carne e ossa” non potrebbero non ammettere che la loro intelligente esistenza è dovuta proprio alla presenza di ideologie forti, tetragone, e di passioni forse sbagliate ma autentiche. Da qualche parte c'erano nemici, steccati trasteverini, chiusure ermetiche nelle case editrici e Muti di Berlino. Oggi ci sono spazi aperti e infiniti e le trasgressioni e provocazioni culturali cadono in uno stagno di indifferenza e di noia. Lo ripeto: questo romanzo di Arbasino mi spaventa, anche se per igiene mentale non l’ho letto tutto, e

non ho letto soprattutto lo sparpagliamento stendhaliano dell’epilogo. Questa terza stesura ha il pregio (se è un pregio) di aggiungere conversazioni alluvionali alle già alluvionali conversazioni delle prime stesure, ma il senso resta immutato, e non bastano le aggiunte di scenette e citazioni di e da alcuni scrittori molto amati per arricchire il testo. Semmai, mi pare, c'è una diminuzione di senso. E, per dirla tutta, questo romanzo di conversazione cul-

turale che fa la parodia della cultura arretrata è un romanzo omologo al consumismo verbale e motorio di massa. E dovrebbero vergognarsi quei critici che fanno paralleli tra Arbasino e Gadda, quando Arbasino è l’esatto 312

contrario del Gran Lombardo. Gadda è tutto attorcigliata profondità. Arbasinoè tutto scintillante superficie, è quasila parodia di Gadda. I personaggi, cioè i giovani intellettuali snob che lo abitano hanho letto tutti i libri e visto tutti gli spettacoli e le mostre d’arte e sentito tutte le musiche, proprio come le massaie che hanno intasato la casa di elettrodomestici inutili e costosi, con la mente e il

cuore proiettati alla. prossima novità delle scope robotizzate. Qui la parola d’ordine è “tenersi aggiornati”, alla lettera, per accorgersi poi che la moda di ieri è più moderna della moda di oggi e di domani, e allora si ricomincia daccapo, con trilli e gorgheggi di meraviglia e qualche volta di sdegno per la maledetta ripetitività della Storia. Il limite di Arbasino è di essere un “enciclopedista dell’effimero”, giusto il giudizio di un critico francese, ma lui la considera una virtù somma. E a questo punto allargo le braccia e taccio. De gustibus, eccetera. Ma anche i gusti miei, spero, avranno diritto di cittadinanza. Mi resta da dire che di Arbasino ammiro da sempre lo stile, ma non sempre l’uso che ne fa. Con questo, è il più civile e intelligente scrittore del secondo Novecento». Disse Isabella: «Già che siamo negli anni Sessanta, restiamoci. L’opera narrativa di Gianluigi Melega è stata scritta appunto negli anni Sessanta, e solo adesso vede la luce. Un’opera imponente, proustiana, mi sembra in sei volumi. Questo secondo libro che ho in mano si intitola Terzi lunghi. Delitti d'amore. Del primo non ho parlato. Ricordo che avevo in mente di dire che Melega somiglia a certi giocatori di calcio che hanno classe da vendere ma poca tecnica. Questo gergo sportivo non vuole essere affatto irriverente. Fra tanti narratori italiani e stranieri che hanno molta tecnica e pochissima classe (cioè tanto artificio e nessuna poesia), ecco un romanziere dal fiato ampio e sciolto, 313

privo di ogni titubanza di fronte alla pagina bianca. La prosa di Melega è stata paragonata a un fiume, a una cascata, a un flusso magmatico inarrestabile. La metafora funziona infallibilmente con simili scritture. Ma se io usassi una metafora del mangiare funzionerebbe lo stesso. Il segno distintivo della narrativa di Melega mi sembra la voracità, una voracità insaziabile, una fame di realtà e di protagonismo (alla Stendhal) che non si arresta davanti a nessun piatto, né principale né di contorno. Nel primo volume Melega ha teso l’arco della sua narrazione dall'infanzia agli anni del liceo, il famoso liceo Parini, descritto con una sorta di epica liricità, piena di sogni e di felicità, di entusiasmi per la cultura, i professori, i compagni, le ragazze, le feste, gli innamoramenti platonici, gli scherzi barbini che diventano nella fantasia omerici. Il liceo Parini è il fulero del romanzo, in cui confluiscono le

avventure del giovane eroe piccoloborghese, desideroso di affrancarsi dalla modestia sociale della sua famiglia attraverso gli studi. Sono pagine che suscitano adesione e simpatia, e alcuni personaggi, come la nonna del protagonista, restano memorabili. La voracità spinge l’autore a dilatare i dettagli, a farne degli ingrandimenti talora sproporzionati rispetto all'economia del romanzo. Ma se penso che tutta l’opera che Melega va pubblicando è stata scritta più di trent'anni fa e non più ritoccata, le mie riserve si tramutano in ammirazione. Un po’ meno ammirato, lo confesso, sono di questo suo secondo romanzo, o seconda parte. Il disegno dell’opera si precisa. Si tratta di un lungo romanzo di formazione che procede per blocchi tematici. Nel precedente romanzo risaltavano le virtù familiari e scolastiche. In questo secondo sono di scena gli amori del protagonista. Il tono è sempre liricizzante ed epico, anche quando si descrive una zuppa: “Era la più fantastica delle più fantastiche zuppe immaginabili: era una zuppa iperbolica, sconfinata, immensa, con 314

grandi pezzi di porco che davano sapore alle verdure e il pane che gli sibuttava dentro diventava anche esso zuppa e ne usciva un profumo da sconvolgere lo stomaco”. E via con la zuppa per un’altra decine di righe. Gli amori del protagonista sono descritti con la stessa meticolosa golosità. Quattro sono le donne con le quali è coinvolto il nostro eroe, che nel frattempo è diventato giornalista professionista e medita di scrivere un romanzo che perpetuerà il suo nome. C’è la sensuale Barbara, conosciuta in giorni di baldoria in Germania. C’è l’appassionata Giulia, una inglese da cui il protagonista avrà un figlio. C'è l’intellettuale e ricca Franca, che lui vorrebbe sposare per salire nella scala sociale. C’è infine l’ingenua e misticheggiante Didì, che ricollega il protagonista ai periodi dell’adolescenza. Ma sunteggiare il romanzo di Melega è un'impresa impossibile, non tanto per la complessità della trama quanto per la volubilità dell’autore, che passa da una donna all’altra senza un’interna necessità narrativa. Il desiderio di raccontare tutto è pericoloso se non si possiede una struttura tetragona in cui inserire gli avve-

nimenti. E così nella mirabile energia del narratore si insinua talora una vena da grafomane entusiasta di se stesso. Il tema dell'educazione sentimentale si sparpaglia in mille rivoli, che invece di rafforzare il disegno del fiume finiscono per cancellarlo. E c’è anche da sottolineare una strana carenza di senso politico. Nel primo romanzo, la Resistenza non veniva neanche nominata. In questo se-

condo, è completamente assente la Germania post-nazista, dove pure il protagonista vive a lungo. L'espansione della liricità produce spesso simili cecità».

A Lucilla luccicavano gli occhi mentre sfogliava lentamente un libro. Poi fermò l’indice su una pagina e disse: «Anna Maria Ortese si trova a suo agio sia nel fantastico sia nel realismo minuzioso. La critica più avveduta 54%)

ha sempre detto che la scrittrice deve molto al profeta del realismo magico, Massimo Bontempelli. Altri critici hanno sottolineato certe parentele con Vittorini, ovvero con la liricità di personaggi che non sopportano di essere appiattiti nelle ragioni sociali del vivere. Tutto vero, ma nello stesso tempo sento che queste categorie critiche sono inadeguate per la Ortese. In lei c'è una tensione favolistica di derivazione romantica, di un romanticismo particolarissimo, quello che nasce all’incrocio tra le visioni filosofiche del Nord Europa e le fantasticherie di una mente mediterranea, gremita di sogni, di magie acquati-

che, di incantesimi che hanno a che fare con la superstizione religiosa. E non sottovaluterei una sottile influenza di Dostoevskij. Si tenga presente che la Ortese ha pubblicato racconti e romanzi che sono stati assegnati alla stagione del neorealismo (non so con quanto acume) e cito per tutti I/ zzare non bagna Napoli e Poveri e semplici. Ma anche in queste opere gli elementi realistici venivano investiti da una luce che li trascendeva, fino a proiettarli in uno spazio decisamente metastorico. Insomma, alla Ortese ha sempre interessato la creatura nuda e cruda, sorpresa nel momento in cui le sue passioni si scontrano con

gli aridi e dolorosi limiti del vivere associato. E se proprio devo fare un nome solo che possa guidarci nella interpretazione della narrativa della scrittrice, allora mi sento di indicare Tommaso Landolfi. I/ cardillo innamorato è un romanzo romantico, di amori appassionati e di se-

greti, ambientato a Napoli. Leggo il fascinoso inizio: “Verso la fine del Settecento, o Secolo dei Lumi, tre giovani Signori, il principe Neville, lo sculture Duprè e il facoltoso commerciante Nodier, tutti di Liegi, dov'erano co-

nosciutissimi e apprezzati, chi per ingegno, chi per eleganza e tutti per lo stile di vita mondano e altamente dispendioso che conducevano, decisero di fare un viaggio a Napoli, per una ragione che dopo tutto non era ripro316

vevole. Alphonse Nodier intendeva rifornire di guanti acquistati all’estero i suoi splendidi negozi di abbigliamento,enessuna città ne produceva allora, e ne andava famosa, come Napoli, e a Napoli nessun produttore di questo genere di accessori si trovava all'altezza di don Mariano Civile, Monsieur Civile, come affettuosamente lo

designava Nodier; egli era considerato da mezzo mondo il re dei guanti”. La citazione è lunga, ne convengo, ma in questo inizio c’è iltono e lo stile di tutto il romanzo della Ortese. Si sente che stiamo entrando in una narrazione di ampio respiro, che vuole imitare i modi del grande romanzo dell'Ottocento o del Settecento. I tre viaggiatori arrivano dunque nel palazzo del venditore di guanti. Costui vive con due figlie, una di dieci e una di sedici anni. La moglie, di origine tedesca, si trova in campagna perché gravemente malata. Il guantaio ha avuto da lei dodici figli, dieci dei quali si trovano in varie parti del mondo, occupati in commerci lucrosi. L'ospitalità del guantaio è cordiale e sfarzosa. Ma poco dopo succede un incidente che sembra da nulla e invece impregnerà tutta la storia. La figlia più piccola scoppia a ridere perché uno dei viaggiatori somiglia a un cardillo, cioè a un cardellino. Si viene a sapere che il cardellino del palazzo, diciamo così, è morto ed è stato gettato in pasto a un gatto,

che lo ha rifiutato. Questo episodio turba incredibilmente il giovane scultore Duprè, che intanto è rimasto sedotto dalla figlia più grande del guantaio, una ragazza dal carattere scontroso, taciturna e osservatrice. Il matrimonio

tra questa ragazza e lo scultore costituisce il perno del romanzo, che via via si arricchisce di episodi sempre più enigmatici e avventurosi. E su tutti questi episodi incombe la presenza di un cardellino d’oro, messo in una gabbia. Un cardellino che canta e che sta a significare il dolore della natura e la sua vittoria sulle farraginose trame della Dea Ragione. Ma questo incantevole romanzo non si può 317

riassumere, bisogna leggerlo. La sua seduzione è data principalmente dalla poetica della Ortese, che per l’innocenza degli animali prova un amore decisamente morboso. Anzi, non conosco nessuna scrittrice che sia più morbosa della Ortese, e credo che sui suoi romanzi possa esercitarsi con profitto la critica psicanalitica. Per questo, forse, la Ortese è una grande». «Giovanotte» si fece avanti scherzosamente Matteo,

«lasciatemi lavorare. Da qualche anno si parla di “ombrellone intelligente” a proposito di certi romanzi di un qualche valore. Questo “ombrellone intelligente” sembra che sia una nuova categoria estetica, come il realismo socialista o il surrealismo capitalista. E forse lo è, poiché l’espressione viene usata per consigliare un libro da portare in vacanza, però con l'ingiunzione di leggerlo seriamente, il che è una contraddizione in termini. Lasciamo

perdere. Io metterei, sotto questo inopinato ombrellone, Oceano mare, di Alessandro Baricco. È il secondo ro-

manzo di Baricco e dico subito che non sono d’accordo con coloro che lo considerano migliore del primo, Castelli di rabbia». «Ma se non sei d’accordo» lo interruppe Fedora, «potevi parlare del primo». «Hai ragione» rispose graziosamente Matteo. «Ma è il

secondo romanzo che ci rivela la vera stoffa di un autore. E il motivo è che, nel secondo romanzo, l’autore è più controllato, più astuto, e così i pregi e i difetti prorompono con più incisività. E adesso, lasciami lavorare, per favore. «Oceano mare ha l'andamento di una sinfonia, in cui si

alternano la vivacità e l’indugio, la comicità e la tristezza, la concretezza e l’astrazione, il naturalismo e il cerebralismo. Il fulcro del romanzo è costituito da una locanda situata in un luogo imprecisato, e la vicenda si svolge in 318

un'epoca dai contorni vaghi. Ma a Baricco non interessa

il realismo bensì il sentimento della realtà, che è cosa ben diversa. Nella locanda entrano ed escono personaggi bizzarri, anzi assurdi. C'è un pittore che non riesce a dipingere il mare dato che non sa dove comincia. C’è un bambino che si preoccupa di fare sognare i sogni che gli altri desiderano. Tutti i personaggi della locanda si sono salvati da un naufragio spaventoso. Ma niente appassiona il lettore avveduto. La verità è che in questo romanzo c’è molto di gratuito, una volontà di stupire a tutti i costi, come i manieristi d’antan». «Un momento, non muovetevi» proseguì Matteo, «de-

vo distribuire un altro ombrellone intelligente. Si tratta di Questo è il giardino, di Giulio Mozzi. Il libro contiene otto racconti di varia lunghezza e valore. Il primo narra la storia di uno scippatore che dopo essersi impossessato della borsetta di una donna, scopre che dentro ci sono due lettere d’amore. Lo scippatore si tiene i soldi ma restituisce le lettere alla signora, accompagnando il suo gesto galante con un’altra sua lettera, che è poi l’ossatura del racconto. In un altro racconto assistiamo alle ossessive vicende di un apprendista che vorrebbe diventare operaio specializzato, ma tutti i suoi gesti e i suoi pen-

sieri sono rivolti al suo essere apprendista, quasi fosse una condizione metafisica. E in effetti questo è il racconto più significativo della raccolta. Io credo che il crepuscolarismo di Giulio Mozzi si sposi con l’antico tema della alienazione lavorativa nella società neocapitalistica. Non so se l'ombrellone sia molto intelligente, ma chi ci sta sotto dimostra una ammirevole perspicacia ideologica». Sebastiano si accese una sigaretta ma la spense subito. «Tu guarda com'è la vita» mormorò irritato. «Appena gli uomini inventano un piacere, ecco che la morte vi si I

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intrufola dentro. Mah, meglio non pensarci». Tacque un attimo e proseguì: «Dopo ventiquattro anni dalla prima pubblicazione riappare Nuovo commento, il capolavoro di Giorgio Manganelli. Questa edizione adelphiana include una lettera di Calvino, che è anche una entusiastica analisi critica del

romanzo. Avrà ragione Calvino? Per Manganelli il mondo è un necrocosmo popolato di voci assurdamente postulanti: più sprofondano verso il nulla e più esigono nuovi epitaffi, nuovi commenti alla loro vita effimera e tenace. Questo necrocosmo è, per Manganelli, la letteratura, considerata come totalità, come un universo di parole isolato e autosufficiente, regolato da leggi immutabili, in cui gli abitatori si tramandano di generazione in generazione gli usi, i costumi, i cerimoniali, i riti, imiti e, infine, la

tetra irrisione del tutto. Manganelli esclude rigorosamente da questo universo di puri segni verbali, che poi sono gli unici personaggi della sua prosa romanzesca, tanto i grandi avvenimenti che danno il nome a un’epoca, quanto i piccoli fatti che alimentano la cronaca quotidiana, per tacere di quelle figure che potrebbero con la loro ingombrante presenza reclamare il grottesco statuto di eroi. In questo senso, ma solo in questo senso, Manganelli fa parte di quella schiera di narratori che si propongono di raccontare, con paradossale pervicacia, l'impossibilità di raccontare alcunché. Le loro opere, per incrollabile abitudine, seguitano a chiamarsi romanzi, ma romanzi non sono, né novelle, né favole, né parabole e tantomeno sto-

rie. Sono macchine linguistiche adibite a fabbricare significati fantasmatici, immagini e simboli continuamente annichiliti, polverizzati, sicché al lettore, chiuso il libro, non resta che la visione di una ecatombe di frasi. In

Manganelli, tuttavia, c'è qualche volta l’intenzione di lavorare su una traccia di aneddoto, anche se per lui il romanzo del romanzo che s'ha da fare è un risibile com320

promesso. Lo scrittore, insomma, si inibisce ogni impulso al romanzesco, che sostituisce con un commento a un

testo già virtualmente saturo di commenti. Perciò il suo è, giusto il titolo, un nuovo commento a un testo già av-

volto in mille e più commenti, come le falde geologiche che nascondono il centro geometrico della Terra. In via ipotetica, scava e scava, questo centro finirebbe per diventare un luogo tangibile, mentre il testo sul quale Manganelli si accanisce non esiste, semplicemente. Di qui nasce la sua Hilarotragoedia (titolo del suo primo libro). Infiniti libri si arrogano il diritto di detenere il senso ultimo di tutte le cose. Ma ogni libro contraddice il vicino o lo cancella addirittura. Tra l’altro, colmo dei colmi, le civiltà scompaiono, intere biblioteche universali vengono rimpiazzate da altre biblioteche universali, solo la fabbrica del senso non muore mai, almeno finché ci sarà un

solo uomo. A questo punto, la tragica inutilità del commentatore appare chiara: ha a che fare con interminabili testi e sterminate chiose, finché non emerge l’unica figura di una qualche consistenza: il caos, il nulla, l’impensabile per definizione. Come può il nulla formare una figura? Come può l’impensabile pensare un qualunque pensiero? Questi interrogativi fecondano il lucido delirio verbale di Manganelli. Ed è significativo che in lui l’invenzione fantastica scatta proprio quando una immagine si protende in una specie di vuoto metafisico, sentito come irrimediabile lacerazione dell’unità originaria dell’uomo con la natura. O quando, al contrario, la figurazione è costruita mediante una prosa francamente mortuaria, con virtuosismi e leziosità da romanziere gotico. In questo romanzo, la sezione significativamente intitolata I/ caso del commentatore fortunato è secondo me un pezzo da antologia, con quelle tre figure di donna che amministrano imperturbabilmente la morte. A volte la prosa di Manganelli, grondante retorica da tutti i pezzi, insippi:

nuante e centripeta come una interminabile scala a chiocciola, rischia di mordere l’aria, di essere un cicaleccio saputo, anziché la sua immagine verbale. L'invenzione si spegne e al suo posto subentra la barzelletta linguistica, la freddura goliardica. Del resto, Manganelli èconsapevole di questa specie di poetica della freddura implicita nella sua idea di letteratura. Facendo la satira del trattato didascalico o filosofico, burlandosi di ogni forma di discorso sapienziale che pretende di organizzare l’infinita creatività della vita entro uno schema rigido e assoluto, la verve parodistica ha la tendenza a fare corpo con l’oggetto preso di mira. E si assiste allora alla poco canonica rappresentazione del demiurgo satirico che lotta goffamente per non venire sopraffatto proprio da quella caterva di sbertucciate che lui stesso ha suscitato». Prese a dire Fedora: «Il gioco dei regni, di Clara Sereni, è un romanzo di matrice autobiografica. E non lo dico io, ma perché la Sereni, nella sesta e ultima parte, ci racconta in che modo le nacque l’idea del libro, e le sue peripezie per venire in possesso dei documenti necessari alla sua stesura. L’ultima parte si svolge a Israele, dove la scrittrice si recò per riordinare le carte che riguardavano i fatti salienti della sua famiglia, avi compresi. Una famiglia ebrea. E infatti, all’epilogo segue un glossario di termini ebraici. Dicevo: un romanzo autobiografico. In letteratura l’autobiografia è, in realtà, una chimera. La scrittura, il susseguirsi delle parole, manipola la realtà, che nella sua essenza resta inattingibile. Ciò che possiamo esprimere, se siamo bravi, è il sentimento della realtà. Sicché il romanzo della

Sereni è tutto vero, ma nello stesso tempo è tutto inventato. Tanto più che ha una clamorosa, personalissima, struttura letteraria. Diviso in sei parti, come ho detto, il libro ha un suggestivo andamento pendolare. Ci vengo322

no narrati gli avvenimenti che videro coinvolti i nonni della Sereni, all’inizio del secolo. Personaggi rivoluzionari nella Russia zarista. Poi ci vengono narrate le vicissitudini dei figli dei nonni della scrittrice. Quindi si ritorna all’inizio del secolo. E così via. Mi ha particolarmente appassionato la vita di Emilio Sereni, affettuosamente detto Mimmo, eminente dirigente del Pci nel secondo dopoguerra, un ebreo comunista di rara probità intellettuale».

325

d

1994

Lucilla cominciò a passare in rassegna i libri dello scaffale. Si arrestò di colpo ed esclamò: «Ma il 1994 è stato un’annata mediocrissima». «Cosa dici?» protestò Sebastiano allargando platealmente le braccia. «C’è stato il romanzo di Susanna Tamaro, Va? dove ti porta il cuore». Calò un profondo silenzio. Poi Matteo disse: «Un romanzo edificante, perciò diseducativo». «Come spieghi il suo successo?» gli chiese Fedora. «Con la volgarità capillare» rispose Matteo. «Volgarità in senso etimologico, beninteso». «Sei troppo tranchant» osservò Isabella. «Scommetto che le future storie letterarie ne parleranno». Matteo storse le labbra: «Non ne dubito. Bisognerà vedere quali storie. Ne conosco alcune che parlano anche di Liala, e dal loro punto di vista fanno bene». Isabella preferì non rispondere. Estrasse invece un libro e disse: «Silvia Ballestra, Gi orsi. Avevo lasciato la scrittrice

marchigiana alle prese con la strafalcionica sagra degli Antò, ragazzotti di provincia che cento ne fanno e una ne pensano. Gti orsi contiene sette racconti, in cui viene ri-

badito il notevole pathos satirico della scrittrice. Non a caso ho detto “pathos”. La Ballestra ha una vera passione per le situazioni in cui i personaggi agiscono al di so324

pra di se stessi, nel senso che sono alienati senza saperlo ai miti del consumismo più becero, sempre pronti a buttarsi nei vortici della degradazione, senza averne la minima coscienza, anzi credendo di essere autentici. E così si stupiscono molto quando i loro desideri si scontrano con la loro più intima personalità. Personaggi-marionette, con il cervello imbottito di fumetti e di televisione, il cui lin-

guaggio la Ballestra mima brillantemente. La narratrice si avvale di uno sguardo finto ingenuo, uno sguardo dal basso per ritrarre in piedi o seduti personaggi che si credono moralmente alti. La satira della Ballestra è di buona lega e colpisce il bersaglio, tranne le volte che mira agli intellettuali, che già sono una satira vivente. Le conviene non scantonare dal paese degli Antò, e infatti i migliori racconti le riescono quando si dispiega la sua forza terragna». Disse Fedora: «Una famigliola della media borghesia si siede avanti al televisore. Con loro ci sono anche i vicini di casa. È una serata importante, importantissima. Tra poco sul vi-

deo comparirà il capofamiglia, il caro papà. I figli hanno rispettivamente dodici, sette e due anni. Sono un po’ emozionati. La signora Lea, moglie dell’uomo che apparirà sul video, si è messa in ghingheri. Stacco. Nello studio televisivo anche il papà è emozionato. Spera di fare bella figura. Intanto i tecnici gli dicono di tenersi pronto, tra poco toccherà a lui. Nello studio ci sono uomini politici, sociologi, intellettuali, eccetera. C’è anche un esperto di sedie elettriche, viene dagli Stati Uniti ma è di origine italiana. Si apre un dibattito sulla pena di morte. Pro e contro, risse, insulti. Alla fine il papà della brava famigliola viene giustiziato. La moglie versa una lacrimuccia, mentre la figlia più grande sta parlando con una giornalista e si raccomanda di non sbagliare il suo nome. Fine 325

del racconto. Più o meno di questo genere sono i racconti di Stefano Benni, contenuti ne L'ultima lacrima.

Ventisette barzellette, ventisette battutacce tirate per le lunghe. A me la satira piace molto, ma quella di Benni è orientata verso il qualunquismo di sinistra, che è molto parrocchiale. I suoi vezzi di prosatore, tra infantili e fumettistici, rivelano una preoccupante e inconscia adesio-

ne alla mentalità del piccolo borghese. I satirici da “bar sport” non hanno mai smosso le ideologie reazionarie, anzi le hanno sempre consolidate. E pensare che c’è un critico come Angelo Guglielmi che sostiene a spada tratta Benni. De gustibus?» «Forse lo sostiene tra parentesi» disse misteriosamente Sebastiano. Si alzò allora Lucilla e prese a dire: «Deluso, forse disgustato dalla degradata attualità che ci circonda, Raffaele Nigro è tornato al suo humus più genuino, guardando al passato con amorosa nostalgia e facendolo rivivere in una strepitosa sinfonia di leggende e di miti: Dio di Levante. Strepitosa, sì. Il suo romanzo è

tutto un suonare e gridare per le strade dell’avventura, dove succede di visitare città sotterranee governate da improbabili imperatori, e dove innamorarsi di una ragazza, Cerasada, spuntata dal tronco di un albero, è cosa co-

mune. Un barocco lieto e sfrenato illumina le pagine migliori del romanzo, e debbo dar retta a quei critici che vedono in Nigro un equivalente italiano di Màrquez, sebbene il colombiano abbia un più vivo senso della morte e della dissoluzione, nonché della misura classica. Anzi,

per dirla tutta, la spavalderia di Nigro ha una impronta ottimistica, e ciò rende singolare e unica la sua opera nel panorama della narrativa meridionale, il cui segno distintivo è la luttuosità. In Dio di Levante, suo quarto romanzo, Nigro si è completamente rivelato. Certo, anche

326

nei precedenti romanzi c’era il fiabesco popolare della sua terra, la Basilicata, ma era o diluito entro una storia realistica (I fuochi del Basento), o condensato in un mondo spasmodicamente surreale (La baronessa dell’Olivento). In Dio diLevante, lo scrittore manifesta la sua accesa passione per i “càntari” e i “cunti”, e la sua completa adesione all’universo chiuso e fantastico dei cantastorie. Il suo terreno di raccolta è sempre la cultura orale, con tutto quello che c’è sotto. E sotto ci sono la fame, la miseria, la malattia, l’arretratezza secolare del Sud, ma anche la sua inesauribile vitalità che gli consente di sopravvivere a tutti i rovesci della storia. Una vitalità, bisogna aggiungere, che ultimamente si è trasferita nelle imprese agghiaccianti della criminalità organizzata, di cui Nigro ha dato puntuale testimonianza: Orzbre sull’Ofanto. Ma venendo a questo romanzo, pidocchi e fame non impediscono al protagonista Pomponio Cantatore di diventare un cantastorie strabiliante (anzi, lo aiutano a diventarlo).

Più la fame lo umilia, più lui inventa universi favolosi. Con gli strumenti musicali che gli ha regalato una zingara, percorre paesi e villaggi, mescolandosi alla gente, facendo amicizia con persone gentili, schivando e combattendo le malvagie, portando in ogni incontro od occasione di vita i fantasmi che pullulano dentro il suo corpo e la sua mente. Mentre suo fratello frequenta anarchici e tribuni (siamo all’inizio del secolo, con il verbo di Marx e di Baku-

nin a portata di bocca), Pomponio Cantatore dà voce alla sua insopprimibile voglia di donare e di donarsi storie che non stanno né in cielo né in terra, fino a confondere

la realtà con le visioni che gli gremiscono il cervello. Si imbarca per la Norvegia, e dopo un viaggio spericolato si impossessa anche lassù di leggende e di miti, che mescolerà con quelli della sua terra d’origine. L'ottimismo e la fortuna non l’abbandonano, anche nelle situazioni più disperate. Enuncia con orgoglio la sua filosofia: “Perciò DZI

dico che la parola orale ha un fascino diverso da quella scritta, perché ha troppe più armi e frecce da scagliare e molti trabocchetti da evitare, e sono la musicalità, il ca-

lore del gesto, la profondità degli sguardi, la mimica del corpo e la comunione infinita tra narrante e ascoltante, come in più punti scrive il teologo Kierkegaard che padre Vassikopulo teneva per suo maestro spirituale e del quale io ho goduto in gioventù la dolcissima lettura de I gigli del campo e gli uccelli del cielo” .Dalla Norvegia il nostro imprevedibile poeta Pomponio Cantatore non porta soltanto fole, ma anche l’arte di vendere il pesce. Tornato a Bari, infatti, si mette nell’industria dello stoccafis-

so, sposa l’amatissima Cerasada e ha una bella nidiata di figli. Diventato un florido commerciante, la sua voglia di “càntari” svanisce. Ma suo figlio Eolo, fantasioso come lui, diventa regista cinematografico e proseguirà la vocazione del padre, però trasferendo le storie sullo schermo magico del cinema». Si fece avanti Matteo: «Il primo punto a favore di questo bel romanzo di Piero Meldini, L'avvocata delle vertigini, è la creazione di un'atmosfera gotica in una ambientazione totalmente moderna, qual è una cittadina di provincia dei nostri giorni.

Qui non c’è nessun medievalismo di cartapesta, semmai agisce sotterraneamente la miglior lezione sciasciana, quella che mescola filologia, erudizione e delitto per sfociare in una rappresentazione tragica della società. Si noti la secchezza dello stile, che però Meldini volge a una calda (romagnola) partecipazione alle cose della natura. Con molta cura vengono raffigurati i paesaggi e gli animali che imprimono un ritmo e un colore ai bruschi cambiamenti del tempo atmosferico quasi a contrastare dialetticamente lemonomanie dei personaggi principali, concentrati nella decifrazione di carte antiche e polverose. È 328

proprio la polvere delle carte e dei documenti a creare l’atmosfera gotica. Si aggiungano i luoghi deputati di tali carte, la biblioteca, lo studio, le stanze del vescovado, con i libri della sapienza e le parole dei classici, il pervicace silenzio di Dio e il brusìo delle generazioni. Ed è ancora la polvere delle carte che suscita quasi in ogni pagina il brivido metafisico. Tutta la vicenda ruota intorno a un vuoto, in più sensi. Della beata Isabetta, compatriota della cittadina in cui è ambientata la storia, si sanno diverse cose, tranne la più importante. Non si sa come sia

avvenuta la sua conversione, dopo una vita di solidi piaceri. Pare che, salita su una torre, volesse uccidersi, ma le

vertigini la trattennero e lei si convertì. Divenne la patrona del mal caduco e appunto delle vertigini (di qui il titolo). Pare, pare. L'agiografo Dominici vuole vederci chiaro. Lui con i santi ha un lunga e faticata dimestichezza. Li ha studiati, li studia, ne ha narrato le gesta tenebrose o luminose, è diventato famoso nel mondo per le sue ricostruzioni storiche. Finalmente Dominici entra in possesso di un documento che può gettare luce sulla vita della beata Isabetta. Si può immaginare la sua gioia di studioso. Senonché il documento, dopo una laboriosa

decifrazione, contiene alcune profezie raccapriccianti. E queste profezie riguardano proprio colui che ha scovato e decifrato la pergamena. L’ateo Dominici comincia a tremare. La prima profezia dice che sentirà per tre notti una cagna abbaiare alla luna. La profezia si avvera. La seconda profezia dice che la cattedrale verrà marchiata dal segno della Bestia. Dominici vede il segno. La terza profezia annuncia un incendio in un locale pubblico. L’incendio si verifica. La quarta profezia dice che sarà straziata una tomba cara a Dominici. La tomba viene sconvolta. La quinta profezia dice che Dominici commetterà un delitto. E qui mi fermo. Per quelli che vogliono leggere il romanzo, le mie rivelazioni sarebbero inopportune. Mette 329

conto piuttosto parlare degli altri personaggi del roman-

zo, tutti azzeccati. C'è lo stordito commissario Bosio, al-

le prese con fatti che trascendono la sua mentalità. C'è l’erudito monsignor Berlinghieri, che ascolta perplesso le confessioni di Dominici. C'è il satanico professor Manara, direttore della biblioteca maledetta. Ma c’è soprattutto il vescovo, una figura di straordinaria icasticità e verità artistica, diviso tra i dolci ricordi della sua infanzia roma-

gnola e i grandi interrogativi sul bene e sul male, su Dio e sul Nulla, che finiranno per accasciarlo. Per concludere, Meldini ha scritto un romanzo di ottima fattura stili-

stica, sobrio e ponderoso». Disse allora Sebastiano: «Il romanzo di Paolo Di Stefano, Baci da non ripetere, è strettamente imparentato con il coté solenne e luttuoso di molta narrativa meridionale. E anche il motivo dominante, quello del ritorno alla propria terra d’origine per dare un senso alla sconfitta e alla lacerazione, è propriamente meridionale. Invece molto aggiornata, e direi blandamente avanguardistica, è la compagine strutturale del romanzo, che si può facilmente sunteggiare. Il protagonista è il solito immigrato che va a cercare fortuna nella felix e asettica Svizzera. Vi trova, se non proprio la fortuna, una certa sicurezza economica. Sposa una ragazza contro il consenso della madre di lei, una cupa donna di religione cattolica, una di quelle donne che rovinerebbero la vita di chiunque con le loro fosche fantasie e con la loro calvinistica concezione del peccato. La coppia ha un figlio, che cresce come tutti i bambini vivaci e amati (de-

liziosi e toccanti sono i dialoghi tra il bimbo e i genitori). Ma un giorno si manifesta in lui una malattia mortale, e malgrado le cure e le premure che lo avvolgono, il piccolo muore, e viene sepolto in un cimitero situato su una col-

lina. Dopo la scomparsa del bimbo, nella coppia suben330

tra il gelo e un senso di estraneità, finché lei pianta il marito e si avventura nel mondo, alla ricerca di una impossibile pace. Intanto lui matura il progetto di portare la salma del bimbo nella sua cittadina di origine, nella cappella degli avi. Il romanzo si apre con il protagonista in viaggio verso il Meridione. L’uomo guida un’auto che a bordo ha la bara del figlio. Ma la fine del romanzo coincide con l’inizio. Nel mezzo c’è la storia che ho brevemente sunteggiato. Ed è questa tecnica che permette al roman-

Lr.

zo di essere compattamente chiuso e infinitamente aperto. La forma è circolare, ma nell’area del cerchio si adden-

sano e pullulano gli elementi del contenuto, che conferiscono una prospettiva profonda alla storia di superficie. La voce del protagonista si alterna a quella della moglie, ambedue le voci hanno punti di vista differenti sulla vita e la morte del bimbo. Inoltre, sono inserite le lettere che

il protagonista e i suoi genitori meridionali si sono scambiati durante la lontananza. Una figura notevole risulta il padre del protagonista, uomo violento e donnaiolo, che il figlio detesta. (Ma quando è in Svizzera, gli invia lettere e raccomandazioni con una deferenza sincera, come a dire che il tempo e la distanza, nonché il sangue, non al-

lentano le antiche sudditanze). I brani della narrazione si susseguono senza apparente ordine logico, suscitando un senso di leggera vertigine narrativa che è perfettamente omologo allo spaesamento dei protagonisti». In quel momento squillò il telefono. Andò a rispondere Giolindo: «Sì?» disse. Annuì vivacemente: «Bene». Strinse gli occhi: «Ci vorrà molto?» Annuì ancora: «Noi saremo pronti. Grazie» e posò la

cornetta sulla forcella. Disse: «Domattina verrà il soccorso stradale e potremo andarcene». 351

Tutti tirarono un sospiro di sollievo. Giolindo proseguì: «Ricordate Schiena di vetro di Raul Rossetti? Al suo apparire, nel 1989, fu un caso letterario. E siccome io diffido dei casi letterari, minimi o grandi, non ne ho parlato a suo tempo. Ne faccio ammenda e parlerò di questo suo secondo romanzo, Piccola, bella, bionda e grassottella. L'ex minatore Rossetti si dimostra narratore di rimarchevole talento. Anzi, nelle sue pagine si respira l’aria fresca della poesia. Basterebbe leggere il brano riguardante il dialogo del protagonista con i cavalli vecchi e ciechi della miniera per capire che ci troviamo di fronte a uno scrittore che fonde genuinamente il realismo della autobiografia con la visionarietà della più pura invenzione. Nel suo romanzo non c’è una sola riga che non sia dotata di energia narrativa. Nato a Chivasso nel 1928, Rossetti ha lavorato

per tre anni come minatore di fondo a Sèraing, vicino a Liegi. Ha travasato le sue esperienze, davvero straordinarie e toccanti, in una scrittura rapida, leggera, fitta di eventi, baldanzosa e riflessiva. E chi si azzardasse a dire

che scrive “male”, dimostrerebbe di non capire la differenza sostanziale tra stile letterario e stile della verità, cioè

ancora della poesia, di cui Rossetti è nativamente ricco. Insomma, un autodidatta geniale. Il dato che più colpisce nella sua narrazione è l’ottimismo. Dove il lettore si aspetterebbe pianti e mugugni e denunce per la vita del minatore, trova invece un’allegra esplosione di amori, di

bevute e di mangiate. Il protagonista Rizieri, chiaro alter ego dell’autore, sembra uscito pari pari dalle pagine migliori di Henry Miller. Minatore sì, ma anche grande collezionista di donne, che ama e lascia con brevi rimpianti, sempre alla ricerca della sua donna del cuore, Giulia,

vedova di un collega morto in uno scoppio. Le tragedie della miniera ci sono tutte e descritte con forza plastica, ma sublimate dalla visione vitalistica di Rizieri, dal suo 332

spirito di nomade orgoglioso e indipendente, convinto della superiorità morale delle donne, dalle quali, quando haavuto bisogno, ha sempre ricevuto aiuto, non dagli uomini. Eppure, questo simpatico amoralista esprime pen-

sieri e sentimenti di intensa pietà e solidarietà, anche fisica. Non vorrei esagerare, ma questo romanzo basato sulla ricerca reciproca e picaresca di una donna e di un uomo che si erano perduti di vista, secondo me è un inequivocabile, piccolo capolavoro».

333

1995

«Guarda chi si rivede» esclamò Isabella alzando la testa. Tutti si voltarono verso la porta-finestra credendo che arrivasse qualcuno. Aveva cessato di nevicare e il cielo all’orizzonte appariva di un colore panna acida. Isabella sorrise: «Sto parlando di Mario Rigoni Stern e del suo romanzo Le stagioni di Giacomo». Prese fiato e proseguì: «C'è Giacomo nel titolo di questo romanzo, ma forse è una presenza eccessiva. Nel senso che altri personaggi di rilievo calcano la scena, o addirittura la occupano per intero, togliendo spazio al protagonista. Ma anche in un altro senso il nome è eccessivo. Per dirla tutta, Rigoni Stern sembra preso dalla voglia di raccontare la storia grande calandola nella natura, come nel suo romanzo d’esordio, I/ sergente nella neve. Sicché storia e natura, mas-

se e paesaggio fanno un unico inscindibile, quasi a discapito delle individualità. La vicenda si svolge nell’altipiano di Asiago lungo un arco di tempo che va dalla fine della prima guerra mondiale all’inizio della seconda. Più precisamente, mentre l’autore svolge il filo della narrazione in senso progressivo, ogni tanto retrocede a rievo-

care il sacrificio e il coraggio degli alpini nella prima guerra mondiale. La gente di Asiago ne ha ancora memoria, 334

che è diventata mito collettivo, archetipo. Il terreno è ancora pieno di bossoli e di altro materiale bellico, nascosto nelle grotte o disseminato tra gli alberi e le rocce. Giacomo, che al principio del romanzo è un bambino e nulla può sapere della ferocia della guerra, va spesso a raccogliere quei bossoli per poi rivenderli. Andando per bossoli, anche la memoria di Rigoni Stern si riaccende e rievoca scontri a fuoco e assalti alla baionetta. La famiglia di Giacomo è povera ma dignitosa. Il padre è emigrato in Francia e lavora nelle miniere, mandando a casa i ri-

sparmi che riesce ad accantonare lesinando sul pane. Quando ritornerà per un breve periodo di risposo, dedicherà il suo tempo a Giacomo e alla figlia Olga, che finalmente si può sposare, ma con un giovane che è co-

stretto ad emigrare in Australia. “Il padre di Giacomo non perse tempo e qualche giorno dopo questi discorsi andò alla segheria del Carisc a comperare le tavole per fare bauli dove riporre la dote; le scelse belle, di peccio, senza nodi”. Crediamo che basti questa citazione per far capire tutta la distanza che separa la civiltà della montagna dalla civiltà di oggi. I bauli venivano fatti in casa, con tavole che si compravano dal vicino falegname. Rigoni Stern ha, di quella civiltà, non una nostalgia acritica ma un re-

ligioso rispetto. Giacomo cresce, a scuola apprende che cos'è il fascismo, i libri ne tessono le lodi. Tuttavia la sua

sana diffidenza di montanaro gli rendono inviso il fascismo. La gente ha troppa sofferenza per credere alle parate e alla retorica dell’eroismo, ai discorsi guerrafondai. E poco tempo dopo, infatti, quelle stesse persone andarono a morire su tutti i fronti, dove li aveva mandati la vi-

gliaccheria del fascismo. E Giacomo vivrà di persona i miti della prima guerra mondiale, ma rovesciati di segno». Lucilla disse alzandosi graziosamente: «Pochi scrittori della sua generazione (è nato nel 1959) 335

possiedono come Sandro Veronesi il gusto della scenetta corposa, dell’aneddoto incisivo, del dettaglio preciso,

dell’episodio icastico. E questa veramente è una virtù toscana, giusto quanto viene detto nella quarta di coperti-

na del suo romanzo Venite, venite, B-52: “Un narratore

di antica sapienza toscana”. Per gli antichi narratori toscani, appunto, era il colore locale che contava, il motto di spirito radicato nella loro terra, i fatterelli che accadevano sottocasa e nelle vicine contrade. In questo romanzo di scenette ce ne sono tante e tutte azzeccate. C’è per esempio un lupo che tutti prendono per un cane bastardo, ma le galline dell’aia sanno per istinto che si tratta di un lupo vero, allevato da un certo Giordano, e appena ne fiutano la presenza vanno in fibrillazione (le galline). C’èl’apparecchio per i denti della giovanissima Viola, che è costretta a misurare le sillabe e le vocali prima di dire una parolaccia come si deve. E c’è la stessa Viola che ogni tanto, levando gli occhi al cielo, esclama: “Venite, venite,

B-52”, alludendo a quei bombardieri americani (eh, gli americani) che avevano l’abitudine di caricarsi di bombe atomiche, non si sa mai nella vita, meglio prepararsi a combinare una carneficina. E c'è ancora Giordano che ha una bolla d’aria nel cervello che gli impedisce di pensare ma non di profferire sapidi proverbi. Insomma, questo romanzo di Veronesi è straricco di aneddoti arguti. Il bozzetto è la misura naturale dello scrittore, a somiglianza del suo antenato Renato Fucini. Ciò, appunto, ci rende perplessi circa la mania di Veronesi di scrivere romanzi lunghi, che avrebbero bisogno del passo rude e impertertrito del romanziere. Questo passo Veronesi non ce l’ha, ma riesce a mascherare l’affanno con la cultura e la scaltrezza affabulatoria. E alla fine si fa leggere con piacere, anche se un sospetto di prolissità e di pesantezza cala talvolta sulle sue pagine scanzonate. In questo romanzo, tra l’altro, le pecche risaltano in modo clamoroso proprio 336

perché l'ambizione è più alta e profonda, l'ambizione cioè di affrescare una certa Italia farraginosa e imbrogliona, tutta dedita alla speculazione edilizia e televisiva. Il man-

cato sassofonista Ennio Miraglia, onanista tutto d’un pezzo, diviso dalla moglie e dalla figlia, si mette in combutta con uno speculatore della Versilia che ha la geniale abilità di distruggere tutto quello che di bello gli capita a tiro. Ennio finirà male, tra debiti e poliziotti, ma non gli verrà mai meno la sua fondamentale innocenza (è una simpatica canaglia, e Veronesi dovrà stare attento con la simpatia se vuole davvero inserirsi in quel realismo critico di sinistra al quale aspira). Il tema dominante però è un altro, è quello solito di Veronesi: il conflitto tra padri e figli, questi desiderosi di una appagante pulizia morale, quelli dediti con pervicacia alle nefandezze e alle carognate. L'autore non me ne voglia, ma ho l'impressione che abbia cominciato questo romanzo divertendosi un mondo e l’abbia finito annoiandosi a morte. Le sue acrobazie tecniche, per quanto ironicamente esibite, finiscono per

smascherare un disagio narrativo evidente. Ripeto, credo che la sua misura sia il romanzo breve, o di media lun-

ghezza. Quando si cimenta con il romanzo lungo, le sue cataste narrative danno un fuoco vivo e scoppiettante, ma troppi ciocchi restano umidi e fumiganti».

Giolindo si alzò e disse: «Pare che tocchi a me finire. Vorrei finire in bellezza». «Dipende da te» gli rispose Sebastiano. «Non è del tutto vero» ribatté Giolindo. «Avrete notato, come ho notato io, che di un libro si ha intenzione

di parlare bene e quando si passa dall’intenzione alla pratica capita di parlare male. Suppongo che anche ai recensori di professione accada questo fenomeno stranissimo». «Mi cascano le braccia» sospirò con aria teatrale Sebastiano. «Significa che la critica è soggetta all’umore, 337

buono o cattivo che sia. Dov'è la verità oggettiva?» «Nei secoli prossimi venturi» sorrise Matteo. «E nemmeno in quelli». Giolindo riprese: «E con questa esaltante scoperta, io mi faccio avanti.

Vorrei parlare di I/ coraggio del pettirosso, di Maurizio Maggiani. In una stanza d'ospedale, ad Alessandria d’Egitto, un giovane si mette a scrivere a macchina. Intende scrivere le sue memorie. È debilitato, soffre di sogni, se così si può dire. Ha avuto una bruttissima avventura. Mentre cercava il leggendario porto d'Alessandria, andando sott'acqua in apnea, è stato colpito da un embolo, che lo ha fiaccato nel fisico e nel morale. Modrian, un dot-

tore armeno che lo ha in cura, è contento che il giovane scriva, pensa che gli servirà per guarire. Il giovane si chiama Saverio. I genitori erano italiani, fuggiti dalla loro patria per le idee anarchiche del padre. In Egitto costui ha avviato un buon forno, mèta di amici anarchici e libertari come lui. Ora entrambi i genitori sono morti e Saverio,

pur continuando gli studi universitari e a dedicarsi a certi suoi traffici non proprio puliti, comincia a ripensare alla sua terra d’origine, anche grazie a un libro di poesie di Ungaretti, Porto sepolto, trovato tra le cose lasciate dal

padre. La lettura delle poesie folgora Saverio. Vi sente la potenza enigmatica della parola che crea mondi di libertà. In seguito il giovane si reca nel deserto con un’asina. Non ci saranno grandi avventure nel deserto, se non la conoscenza dei profughi che fuggono dalle terre occupate dagli israeliani. D'altronde, lo scopo di Saverio non è l’avventura ma la purificazione, secondo antichi riti. Queste del deserto sono pagine molto belle, pervase dal senso di solitudine e di spaesamento. Toccante è la scena dell’asina morta per la puntura di uno scorpione. All’asina Saverio si era affezionato, quasi sentisse nel destino di caparbia fatica dell’animale il suo stesso procedere nella vi338

ta. Tornato ad Alessandria, Saverio decide di partire per l’Italia. Vuole conoscere il paese di suo padre. Il paese si chiama Carlomagno: può darsi che esista, può darsi che no. Ma non è questo il punto. Carlomagnoè una persuasiva metafora letteraria. È il centro dell’anarchia e della presenza concreta di Cristo, al di là della ufficialità della Chiesa. E non a caso ipaesani sono orgogliosi del loro isolamento e della loro scontrosa diversità. Saverio non riuscirà a penetrare a Carlomagno. Giunto a Roma, fa in tempo a vedere il poeta Ungaretti che recita in un teatro le sue poesie. Saverio vorrebbe chiedere a Ungaretti perché è stato fascista, perché ha tradito il suo ideale anarchico. Come se gli leggesse nella mente, Ungaretti gli consegna un misterioso foglietto, in cui ci sono i dati storici di una antica condanna a morte pronunziata dall’Inquisizione contro un certo Pascal, un antenato di Saverio.

Sempre battendo a macchina la sua storia, il giovane racconta che a Roma è stato cacciato via per presunti con-

tatti con i terroristi. Allora ricostruisce la vita di Carlomagno e di Pascal, la sua condizione di eretico, i suoi struggenti amori con una donna che si era infatuata della Bibbia e di Lutero. Passo dopo passo vengono narrate le vicende di Carlomagno, il perché della sua invalicabile distanza dalle grandi vie di comunicazione, il perché della sua inviolabilità morale e dei suoi ideali anarchici. È tutto un gruppo etnico che sale alla fantasia di Saverio e recita per lui la commedia e la tragedia di vivere in un paese circondato dalla violenza e dalla sopraffazione del potere temporale. La storia di Carlomagno è stampata nel romanzo con caratteri particolari, come per sottolinearne la radicale diversità. L'ultima parte del romanzo è dedicata all'amore di Saverio per una ragazza palestinese, di rara bellezza e intelligenza, laureata in medicina e desiderosa di praticare l’ostetricia. Anche lei è senza patria, anche lei combatte per ritornare nella sua terra. Maggia339

ni ha scritto un romanzo complesso e convincente, coerente nei temi e nello stile. Leggenda e realismo si amalgamano per conferire alla narrazione un ritmo da ballata libertaria. Mi pare di poter dire che si tratta di un romanzo di iniziazione e di formazione, con tutte le sue canoniche

tappe. La maturità è rappresentata dal libro che Saverio vuole scrivere per poter guarire». Poco più tardi arrivò lo spazzaneve e liberò velocemente il giardino. I sei amici fecero i bagagli, chiusero la villa dopo averla rassettata alla meglio e partirono con le loro automobili. Aveva ripreso a nevicare. Lucilla, guardando fuori, disse con un sospiro: «Troppi libri e troppi autori abbiamo dimenticato». Sebastiano schivò una pozzanghera, rallentò. «Forse è meglio così» rispose. «Ora che abbiamo imparato il gioco, la prossima volta sapremo come passare iltempo».

340

IN CITTÀ

Era passato quasi un anno da quella strana ed emozionante esperienza nella villa, quando, una sera di novembre, i sei amici si ritrovarono riuniti nella sala da pranzo dell’appartamento di Sebastiano e della moglie. Cenarono. Poi andarono in salotto e la padrona di casa offrì iliquori. Sedettero sul divano e nelle poltrone. A un tratto Sebastiano si alzò con un grosso libro in mano. Aveva il viso un po’ arrossato, disse: «A caval donato non si guarda in bocca. Ma chi l’ha detto? Io voglio proprio vedere i denti di questo cavallo, scriveva a un dipresso tanti anni fa Emilio Cecchi a proposito di Quasimodo, che aveva appena ricevuto il Premio Nobel. E Cecchi guardò nella poesia di Quasimodo, senza farsi intimorire dall’ombra radiosa del Nobel. E anche io, assai più modestamente, voglio ripetere quel gesto indiscreto. Voglio cioè osservare più da vicino La cultura italiana del Novecento, un bel volume pubblicato da Laterza e che mi è stato inviato dal suo ufficio stampa. Il libro è curato da Corrado Stajano, che ne ha scritto anche la introduzione. Tutti i campi del sapere sono presenti e arati da mani esperte, dalla antropologia alle arti figurative, dalla chimica al cinema, dalla economia alla filosofia, dal giornalismo alla televisione, ecc. E c’è anche, si

capisce, la letteratura. Insomma, tutto lo scibile del Novecento. Non dubito che il libro sia utile e ricco di intelligenza e competenza. Le monografie mi sembrano scor341

revoli ed esaurienti, e del resto non ho la competenza per discuterle singolarmente. «La mia curiosità di guardare in bocca al cavallo riguarda soltanto la letteratura. La “voce” monografica è stata affidata alla sensibilità e alla esperienza accademica di Cesare Segre. Ma ecco che mi è sfuggito un aggettivo un po’ sospetto (“accademica”), che nessuno vorrebbe sentire accostare alla propria persona. Ma tant'è: Cesare

Segre è professore di Filologia romanza alla Università di Pavia. È autore, tra l’altro, di Avviamento all'analisi del

testo letterario e di Intrecci di voci, che a suo tempo ho letto con piacere e riposto in uno scaffalino insieme ad altre opere di Segre. Questo per dire che lo stimo e che continuerò a leggerlo. «Ma la sua “Letteratura del Novecento” mi ha francamente deluso. Sconcertato, irritato. Disorientato. Per for-

tuna, ho pensato per darmi un po’ di coraggio, per fortuna le sorti degli scrittori italiani non dipendono dai docenti universitari. Come le sarti dei pittori non dipendono dagli storici dell’arte, ma dai galleristi, dai critici mi-

litanti e dai pittori stessi, che alla fin fine stilano una persuasiva graduatoria dei valori. «Segre scrive, proprio all’esordio: “Voglio alleggerire la grossa responsabilità di tracciare in poche decine di pagine un'immagine del Novecento letterario. Dirò subito che non ambisco a fornire una storia (con l’obbligo di misurare bene le proporzioni ed evitare le dimenticanze) né un bilancio, al quale non sono abituato”. Giusto. Ma

poi Segre aggiunge: “Cercherò solo di fissare, anche per me, alcuni punti chiave del secolo che sta per finire secondo la mia, contestabilissima, prospettiva di studioso che, addetto ad altre letterature e di diverse epoche, si è necessariamente interessato, qualche volta pure con interventi critici, di quella del suo paese, e in particolare del

secolo in cui ha vissuto abbastanza per partecipare alla 342

sua vicenda storica. Ho usato come filtro la mia memoria... Promozioni ed omissioni sono dunque da addebitare all’opera, certo non infallibile, di questo filtro”. 7 «Già, il filtro della memoria, che scherzi fa, a volte. Mai

fidarsene. Certo è che in questa “Letteratura”, ne mancano di scrittori e poeti bravi. E un numero assai rilevante di quelli inseriti mi sembra superfluo o fuorviante (Giuseppe Conte, Maurensig, ecc.). Segre è sagace nel ripartire la materia secondo tematiche e fasi storiche, ma poi all’interno di ciascuna suddivisione si dimostra assai lacunoso. Anzi, di una smemoratezza

sconcertante. Per

esempio, che fine ha fatto Rubè, di Giuseppe Antonio Borgese? Sparito, cassato. E allora mi chiedo, credo legittimamente, che valore può avere un profilo letterario del Novecento italiano senza neanche accennare al romanzo di Borgese. Il fatto è che un’idea portante, anche una piccolissima idea, dello sviluppo del romanzo italiano del Novecento, bisogna avercela. Altrimenti si finisce per imitare i tendenziosi “quadri” di un Asor Rosa, o, per andare molto più in alto, le antologie di un Gianfranco Contini (grandissimo filologo, e chi lo nega?, ma pessimo critico letterario: e basta la sua pomposa Letteratura dell’Italia unita, 1861-1968 a demolirne il presunto fiuto militante). Non si pretende l’acume ideologico di Francesco De Sanctis, ma almeno un esile filo rosso, questo sì. Sennò si

naviga a vista (e si avvista solo quello che è più vicino). «Modestamente (o immodestamente) io una idea della struttura di base su cui fondare un profilo letterario del Novecento italiano, ce l’ho, e senza tante tirchierie la metto in commercio gratis. Avete in mente il libro di Ortega y Gasset, La ribellione delle masse? C'è un brano che recita: “Questo è il problema: l'Europa è rimasta senza morale. Non è che l’uomo-massa disprezzi la morale antiquata a vantaggio di un’altra che s’annunzia, ma è che il centro del suo regime vitale consiste precisamente nell’a343

spirazione a vivere senza sottoporsi a nessuna morale”.

«Parole scritte nel 1930, gravide di significato, di pas-

sato e di futuro. Massa, società di massa, uomo-massa,

cultura di massa. Ed è precisamente con questi concetti e con questi fatti che lo scrittore italiano si confronta quando si affaccia sulla scena del Novecento. Dalla prevalenza dell’individuo nell'Ottocento alla prevalenza dell’uomo-massa nel Novecento. E si badi, non sono soltanto i fatti e lo cose a intrigare lo scrittore italiano, ma anche,

e soprattutto, la lingua, cioè la lingua-massa, o meglio il linguaggio di massa. Risolvendo il problema che pone , scrittore fa la sua gloria o il suo falquesto linguaggiolo limento. O lo contrasta o vi aderisce: nel primo caso si hanno iveri scrittori, nel secondo caso gli scrittori di consumo. Solo così si può comprendere la straordinaria importanza de I/ fu Mattia Pascal (1904) di Pirandello, che alle soglie del Novecento scopre la radicale crisi di identità dell’individuo, sostituito dalla massificazione della

personalità, e quindi del linguaggio autentico. Tema ripreso, con notevoli varianti, da Giuseppe Antonio Borgese, che in Rubè fa apparire per la prima volta un intellettuale con il senso di colpa di essere un intellettuale, anzi un intellettuale con il senso di colpa di essere nato. Quale tema più profondo di questo nel Novecento? «Strada facendo (profilo scrivendo), Segre si dimentica di Domenico Rea e di Raffaele La Capria. Mi permetto un atto di giustizia, dicendo che Rea è il protagonista assoluto del neorealismo propriamente detto (quello degli anni Cinquanta) e che inoltre è un grande stilista. (Sissignori, un grande stilista, e si leggano i suoi primissimi racconti). E a La Capria è riuscita la difficile impresa di immettere l'avanguardia nel romanzo intimista. Note dolenti anche nella sezione intitolata “Dal romanzo borghese al romanzo politico”, dove manca Occidente di Camon. «A questo proposito, si poteva forse dedicare una se-

344

zione al “romanzo partitico”, un fenomeno squisitamente italiano: Sciascia, Pomilio, ecc. Per quel che riguarda Sciascia, Segre dice che è “scrittore lucido ed efficace, ma senza preoccupazioni stilistiche...” Ne è proprio sicuro? Non sarà invece che la prosa di Sciascia è così singolare perché celebra l’inaudito connubio tra rondismo e illuminismo politico? «Per Segre, lo scrittore centrale della seconda metà del Novecento è Italo Calvino. Io che qui scrivo sono un calvinofilo e un calvinologo, e nessuno più di me sarebbe felice di condividere il parere di Segre. E invece non posso farlo, proprio per un giudizio dello stesso Segre sul Calvino di Se una notte d'inverno un viaggiatore: “Lo stile così perfetto da abbellire qualsiasi argomento, l’intelligenza così attenta e sottile da rendere astratta la greve realtà (come in Borges, principale archetipo dell’affabulazione calviniana) hanno distolto Calvino dalla rappresentazione della passione e della tragedia”. Ecco il punto: non può essere “centrale” uno scrittore che elimina la passione e la tragedia di questo scorcio di secolo (senza contare che in Calvino manca anche la guerra tra i sessi, il che spiega, tra l’altro, il suo successo nelle scuole di qualsiasi ordine e grado). «Dulcis in fundo: con una decisione coraggiosa e perspicace, Segre inserisce Umberto Eco nella “letteratura di consumo”. E infatti I/ norze della rosa è il romanzo del Novecento che più sottilmente aderisce alle aspettative dell’uomo-massa, al suo linguaggio e alla sua moralità». Sebastiano tacque. Sollevò il bicchiere in cui la moglie aveva versato un dito di whisky, e lo sorseggiò con calma.

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Indice dei libri raccontati

Altomonte Antonio, Sua Eccellenza, Rusconi, 1980 Anselmi Luciano, Piazza degli Armeni, Bompiani, 1982 Antonielli Sergio, L'elefante solitario, Mondadori, 1979 Arbasino Alberto, Fratelli d’Italia, Adelphi, 1993

Arpino Giovanni, La trappola amorosa, Rusconi, 1988 Balestrini Nanni, Vogliamo tutto, Feltrinelli, 1971 Ballestra Silvia, G/ orsi, Feltrinelli, 1994 Barbaro Paolo, Diario a due, Marsilio, 1987 Baricco Alessandro, Oceano mare, Rizzoli, 1993 Bassani Giorgio, L'odore del fieno, Mondadori, 1972 Benni Stefano, L'ultima lacrima, Feltrinelli, 1994

Bevilacqua Alberto, La festa parmigiana, Rizzoli, 1980 Bianchini Angela, Capo d'Europa, Camunia, 1991 Bigiaretti Libero, L’uorzo che mangia il leone, Bompiani, 1974

Bilenchi Romano, I/ bottone di Stalingrado, Vallecchi, 1972

Bonaviri Giuseppe, Notti sull’altura, Rizzoli, 1971 Bordon Furio, Giochi di mano, Mondadori, 1975 Brunamontini Giuseppe, La Divina di Asmara, Cappelli, 1980

Bufalino Gesualdo, Le menzogne della notte, Bompiani, 1988

Burdin Francesco, I/ viaggio a Varsavia, Marsilio, 1973 Busi Aldo, Sodorzie in corpo 11, Mondadori, 1988

Calcagno Giorgio, I/ settimo giorno, Rusconi, 1981

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Calvino Italo, Palomar, Einaudi, 1983 Camon Ferdinando, Ur altare per la madre, Garzanti, 1978

Campobasso Antonio, Nero di Puglia, Feltrinelli, 1980 Cancogni Manlio, L'ultimo ad andarsene, Marietti, 1990 Capriolo Paola, Il nocchiero, Feltrinelli, 1989

Cassieri Giuseppe, Offerta speciale, Feltrinelli, 1970 Castellaneta Carlo, La dolce compagna, Rizzoli, 1970 Cavazzoni Ermanno, I/ poema dei lunatici, Bollati

Boringhieri, 1988 Celati Gianni, Parlamenti buffi, Feltrinelli, 1989 Cerami Vincenzo, Ur borghese piccolo piccolo, Garzanti, 1976

Cerati Carla, La cattiva figlia, Frassinelli, 1990 Chiara Piero, La stanza del vescovo, Mondadori, 1976 Chilanti Felice, La paura entusiasmante, Mondadori, 1971

Cialente Fausta, Le quattro ragazze Wieselberger, Mondadori, 1976

Compagnone Luigi, La vita di Pinocchio, Vallecchi, 1971 Consolo Vincenzo, Nottetempo, casa per casa, Mondadori, 1992 Cordelli Franco, Le forze in campo, Garzanti, 1979 Cremaschi Inìsero, Le rose assassine, Camunia, 1992

D’Agata Giuseppe, Prizzo il corpo, Bompiani, 1971

D'Arrigo Stefano, Orcynus Orca, Mondadori, 1975 De Carlo Andrea, Due di due, Mondadori, 1989 Debenedetti Antonio, Se la vita non è vita, Rizzoli, 1991

Del Buono Oreste, I peggiori anni della nostra vita, Einaudi, 1971 Delfini Antonio, Diari, Einaudi, 1982 Del Giudice Daniele, Atlante Occidentale, Einaudi, 1985 D’Eramo Luce, Nucleo Zero, Mondadori, 1982 De Riva Sylvana, Profili, Bompiani, 1987 Desiato Luca, Berito e il mostro, Mondadori, 1976 Di Ciaula Tommaso, Tuta blu, Feltrinelli, 1978 Di Falco Laura, La spiaggia di sabbia nera, Camunia, 1991

348

Di Stefano Paolo, Baci da non ripetere, Feltrinelli, 1994

Doni Rodolfo, Legazze profondo, Rusconi, 1984 Doninelli Luca, La revoca, Garzanti, 1992

Eco Umberto, I/ nome della rosa, Bompiani, 1980 Ferrucci Franco, I/ mondo creato, Mondadori, 1986 Fortunato Mario, I luoghi naturali, Einaudi, 1988 Gadda Carlo Emilio, La cognizione del dolore, Einaudi, 1970

Gallinari Giammarco, La festa della servità, Feltrinelli, 1976 Garzanti Livio, La fiera navigante, Garzanti, 1990 Giarda Franco, I/ viaggio di Chopin, Camunia, 1988 Ginzburg Natalia, La farziglia Manzoni, Einaudi, 1983 Gnocchi Gene, Stati di famiglia, Einaudi, 1993 Gramigna Giuliano, L’erzpio Enea, Rizzoli, 1972

Guerrieri Anna Maria, Terrore piccolo borghese, Franco Maria Ricci, 1973

Isgrò Emilio, Poliferzo, Mondadori, 1989

Jarre Marina, Ascanio e Margherita, Bollati Boringhieri, 1990 Kezich Lalla, La nave di Jean, Camunia, 1987

La Capria Raffaele, Arzore e Psiche, Bompiani, 1973

Lagorio Gina, Approssimato per difetto, Cappelli 1972 Landolfi Tommaso, Le labrene, Rizzoli, 1974 Leonetti Francesco, Irati e sereni, Feltrinelli, 1974 Levi Primo, Se non ora, quando?, Einaudi, 1982 Livi Grazia, L’approdo invisibile, Garzanti, 1980 Lodoli Marco, Grande Raccordo, Bompiani, 1989 Lombardi Germano, I/ confine, Feltrinelli, 1971

Loy Rosetta, Strade di polvere, Einaudi, 1988 Lunetta Mario, I ratti d'Europa, Editori Riuniti, 1977

349

Maggiani Maurizio, I/ coraggio del pettirosso, Feltrinelli, 1995

Malerba Luigi, I/ pataffio, Bompiani, 1978

Manganelli Giorgio, Nuovo commento, Adelphi, 1994 Mannuzzu Salvatore, Ur r0rso di formica, Einaudi, 1989

Maraini Dacia, La lunga vita di Marianna Ucrìa, Rizzoli, 1990

Mariotti Giovanni, Butroto, Feltrinelli, 1984 Mastronardi Lucio, A casa tua ridono, Rizzoli, 1971 Matacotta Franco, La lepre bianca, Feltrinelli, 1982 Mattioni Stelio, Vita col mare, Adelphi, 1973 Meldini Piero, L’avvocata delle vertigini, Adelphi, 1994

Melega Luigi, Tempi lunghi. Delitti d'amore, Baldini & Castoldi, 1993 Meneghello Luigi, Bau-sète!, Rizzoli, 1988 Monteleone Luigi, La bestia controvento, Bompiani, 1974

Morante Elsa, Aracoel, Einaudi, 1982 Moravia Alberto, 1934, Bompiani, 1982 Morazzoni Marta, L'invenzione della verità, Longanesi, 1988

Morselli Guido, Dissipatio H.G., Adelphi, 1977 Mozzi Giulio, Questo è :/ giardino, Theoria, 1993 Nigro Raffaele, Dio di Levante, Mondadori, 1994 Nuvoli Giancarlo, L'Angelo rosso, Marsilio, 1980 Olmi Ermanno, Ragazzo della Bovisa, Camunia, 1988 Ombres Rossana, Principessa Giacinta, Rizzoli, 1970

Ongaro Alberto, La taverna del Doge Loredan, Mondadori, 1980 Orengo Nico, Le rose di Evita, Einaudi, 1990 Ortese Anna Maria, I/ cardillo innamorato, Adelphi, 1993 Ottieri Ottiero, Campo di concentrazione, Bompiani, {972

Palazzeschi Aldo, Storia di una amicizia, Mondadori, 1971

350

28

Pampaloni Geno, Fedele alle amicizie, Camunia, 1984

Paolini Alcide, La gatta, Mondadori, 1974 Parazzoli Ferrùccio, I/ giro del mondo, Bompiani, 1977 Pardini Vincenzo, Jodo Cartamigli, Mondadori, 1988 Paris Renzo, Cani sciolti, Guaraldi, 1973 Parise Goiicda; Il crematorio di Vienna, Feltrinelli,

1969 Pascutto Giovanni, Nessuna pietà per Giuseppe, Mondadori, 1978

Pazzi Roberto, La principessa e il drago, Garzanti, 1986 Pederiali Giuseppe, I/ tesoro del Bigatto, Rusconi, 1980 Piccioli Gian Luigi, Sveva, Rusconi, 1979 Piovene Guido, Le stelle fredde, Mondadori, 1970 Pomilio Mario, I/ Natale 1833, Rusconi, 1983

Pontiggia Giuseppe, I/ giocatore invisibile, Mondadori, 1978 Prato Dolores, Già la piazza non c'è nessuno, Einaudi, 1980

Raffi Enrico, Sposa mia, Bompiani, 1971 Rea Domenico, Ninfa plebea, Leonardo, 1992 Rella Franco, Attraverso l'ombra, Camunia, 1986 Rigoni Stern Mario, Le stagioni di Giacomo, Einaudi, 1995

Romano Lalla, Nei mari estremi, Mondadori, 1987 Rossi Nerino, I/ ballo di Mara, Camunia, 1985 Rosselli Aldo, Professione: mitomane, Vallecchi, 1971 Rosso Renzo, Gli uomini chiari, Einaudi, 1974 Rossetti Raul, Piccola, bella, bionda e grassottella; Baldini & Castoldi, 1994 Roversi Roberto, I diecizzila cavalli, Editori Riuniti, 1976

Rugarli Giampaolo, La troga, Adelphi, 1988 Samonà Carmelo, I/ custode, Einaudi, 1983 Sanavio Piero, Caterina Cornaro in abito di cortigiana, Bompiani, 1981 Sanguineti Edoardo, Storie naturali, Feltrinelli, 1971 Santucci Luigi, I/ Mandragolo, Mondadori, 1979 Satta Salvatore, I/ giorno del giudizio, Adelphi, 1979

351

su

Sciascia Leonardo, Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, Einaudi, 1978

Sereni Clara, I/ gioco dei regni, Giunti, 1993 Sgorlon Carlo, L'armzata dei fiumi perduti, Mondadori, 1985 Siciliano Enzo, Rosa (pazza e disperata), Garzanti, 1973 Silone Ignazio, Severina, Mondadori, 1981

Simonetta Umberto, I viaggiatori della sera, Mondadori, 1976

Spinella Mario, Lettera da Kupjansk, Mondadori, 1987 Strati Saverio, Noi /azzaroni, Mondadori, 1972

Tabucchi Antonio, I/ filo dell'orizzonte, Feltrinelli, 1987 Tadini Emilio, La tempesta, Einaudi, 1993 Tamaro Susanna, Per voce sola, Marsilio, 1991

Terzi Antonio, La fuga delle api, Bompiani, 1981 Testori Giovanni, Ir exitu, Garzanti, 1988

Tobino Mario, Gli ultimi giorni di Magliano, 1982 Tomizza Fulvio, La miglior vita, Mondadori, 1977 Tondelli Pier Vittorio, Altri libertini, Feltrinelli 1980 Tutino Saverio, La ragazza scalza, Einaudi, 1975 . Vassalli Sebastiano, La chirzera, Einaudi, 1990 Venturi Marcello, Più lontane stazioni, Rizzoli, 1970 Veronesi Sandro, Verzte, venite B-52, Feltrinelli, 1994 Vigevani Alberto, I/ grembiule rosso, Mondadori, 1975 Villa Carlo, I sensi lunghi, Einaudi, 1970 Vincenti Fiora, Una Rolls-Royce nera, Mursia, 1970 Virgili Dante, La distruzione, Mondadori, 1970. Volponi Paolo, Le mosche del capitale, Einaudi, 1989 Zanotto Sandro, Delta di Venere, Rusconi, 1975

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Nella stessa collana:

Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie

Massimo Fini, La Ragione aveva Torto? Ernesto Balducci, L'uomo planetario Carla Bo, Solitudine e carità Ruggero Bonghi, Le Stresiane

Adriana Zarri, Il pozzo di Giacobbe Sandra Petrignani, Fantasia & Fantastico Folco Portinari, // piacere della gola Italo Mancini, Tre follie Franco Cardini, Testimone a Coblenza Piero Rossano, La fede pensata

Giancarlo Vigorelli, Carte d'identità Piero Meldini, Le pentole del diavolo Piero Buscaroli, Paesaggio con rovine Carlo Laurenzi, Celeste come l‘’inferno Walter Pedullà, Lo schiaffo di Svevo

Giuseppe Lisi, Oggetti di pensiero Danilo Dolci, Gente semplice Carlo Laurenzi, Piccola memoria Ulderico Bernardi, Creaturam vini

Claudio Marabini, Letteratura bastarda

Li Lio 8°, Li B°i E° dio BO di E Lio E° E° Li E° Li Be dio Li di di 1 BS ES di Lui

IL GIOCO DEL ROMANZO

Tre coppie, bloccate da-una tormenta in una casa di vacanza, inganhano, il tempo d'attesa dei soccorsi raccontandosi storie di scrittori -

e di romanzi, rivisitando ventisei anni di narrativa italiana (dal 1970 al 1995).

I romanzi analizzati sono 158 e gli autori vanno da Arbasino ad Arpino, da Baricco a Bilenchi, da Bufalino a Busi, da Calvino a Camon, da Celati a Consolo, da Del Buono a Eco, da Gadda a Natalia Ginzburg, da La Capria a Primo Levi, da Malerba

a Maraini, da Moravia a Morselli, — da Ortese a Ottieri, da Pomilio a Lalla Romano, da Sciascia a Tabucchi, da Vassalli a Volponi.

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Il «gioco della letteratura» delle tre coppie, orchestrato da Giuseppe Bonura con intelligenza critica ed etica ironia, si trasforma via via in un estroso bilancio della cultura italiana degli anni Settanta/Novanta, con al centro . la scoperta che «un romanzo è un sogno, ma un SICA della FEE

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